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Il diritto di Privatizzazione della guerra nel diritto internazionale e comunitario
di Mauro Romani
La grande crescita del settore militare privato si è verificata nel momento in cui, al
vuoto di sicurezza creatosi negli anni Novanta, si è combinata l’estensione del
mercato e dei suoi meccanismi a tutti i campi della vita sociale. Funzioni
storicamente gestite dal settore pubblico sono state privatizzate in blocco, mentre le
logiche dell’organizzazione aziendale gerarchica e della “multinazionalizzazione”
hanno stravolto e soppiantato le vecchie strutture impresariali. Attualmente, qualsiasi
grande azienda che aspiri a essere competitiva in qualunque settore, deve
necessariamente avere una certa consistenza finanziaria (ovvero deve essere quotata
in borsa), una struttura gerarchica complessa ma allo stesso tempo dinamica, agire in
un’ottica globale piuttosto che nazionale per sfruttare i vantaggi offerti dall’apertura
dei mercati internazionali. Ai fini del nostro discorso, è molto interessante notare
come tutti questi elementi contraddistinguano opinioni e valori della vita.
Di fatto, la new economy globale è stata decisiva nel forgiare l’aspetto dell’industria
militare privata. Innanzitutto, va sottolineato come, negli ultimi anni, il tasso di
crescita delle Private Mimitary Companies (PMC) quotate in borsa abbia raggiunto
livelli impressionanti. Si stima che le compagnie quotate sul mercato pubblico
abbiano sperimentato, negli anni Novanta, un ritmo di crescita doppio rispetto al
tasso medio del Down Jones. La Cubic Corporation, ad esempio, ha visto
incrementare di tre volte il suo valore in Borsa tra il 2002 e il 2003. Si tratta di un
dato che non stupisce più di tanto, per il semplice fatto che gli operatori finanziari
non potevano ignorare il grande sviluppo che ha accompagnato il settore della
sicurezza privata in questi anni. D’altro canto, il boom finanziario, quindi virtuale, è
stato accompagnato dalla crescita esponenziale dei profitti reali delle PMC; tanto per
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fare un esempio, la DynCorp ha visto aumentare le proprie entrate del 18% nel solo
2002, prima, cioè, che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq, e l’industria militare privata
nel suo complesso potrebbe quadruplicare gli introiti nei prossimi vent’anni.
Parallelamente, si è andata sempre più materializzando la tendenza alla fusione
finanziaria, la quale fa si che nascano agglomerati centrali attorno ai quali ruotano
vere e proprie galassie di aziende specializzate. Le acquisizioni non riguardano solo
le grandi multinazionali che decidono di acquisire PMC. Come conseguenza di ciò,
possiamo dire che, attualmente, il settore si configura come un oligopolio, con un
numero relativamente piccolo di grandi imprese-rete che, anche grazie ai legami
politici che intrattengono, soddisfano gran parte della domanda di servizi militari,
controllando, in pratica, la totalità del mercato azionario.
Un altro aspetto che oggi caratterizza l’industria militare privata, è costituito dal fatto
che molte aziende, per lo meno le più importanti, operano come compagnie virtuali.
Al pari di ciò che avviene in altri settori, in cui esistono imprese che procurano lavoro
temporaneo, le aziende mirano ad avere la struttura più leggera e dinamica possibile,
limitando al minimo necessario il numero di dipendenti permanenti. Di solito, le
compagnie creano un database di personale qualificato e sub-fornitori da reperire a
seconda del tipo di intervento da svolgere e del contesto geografico in cui si
interviene. Il vantaggio di contratti del genere è chiaro, in quanto permettono alle
compagnie di abbassare considerevolmente i costi fissi, di rispondere in modo
estremamente rapido alle richieste e di ampliare il proprio raggio d’azione. Lo stesso
discorso vale per le armi di cui vengono dotati i dipendenti: solitamente queste non
vengono acquistate dall’impresa, bensì reperite e affittate nel mercato internazionale.
Anche da questo punto di vista, dunque, l’industria militare privata si avvicina molto
alle tendenze generali dell’economia mondiale, basata sempre più su un capitale
“volatile” e caratterizzata da un processo produttivo dinamico e flessibile, ispirato al
modello giapponese del just in time.
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Infine, un’ultima considerazione va fatta riguardo alla configurazione dell’industria
nel suo complesso. Rispetto ad altri, quello militare privato non è un settore ad alta
intensità di capitale. La dotazione necessaria per avviare e far funzionare una
compagnia medio-piccola è tutt’altro che inarrivabile: c’è bisogno di un investimento
economico modico e di un capitale intellettuale di buon livello, cosa non difficile da
ottenere, visto che, come si è detto, non ci vuole molto a convincere militari o ex
militari a lavorare per una PMC. Di conseguenza, le barriere all’entrata sono
relativamente basse, il che favorisce la crescita di questo comparto. In conclusione, è
difficile dire con precisione quante siano le PMC attive in questo momento.
Come può succedere questo?
Proprio perché le barriere all’entrata sono basse e specialmente nell'ambito
comunitario senza barriere, in questo settore più che in altri, è fondamentale la
reputazione che la singola impresa riesce a guadagnarsi. Ci sono vari modi attraverso
i quali le compagnie cercano di raggiungere quest’obiettivo. Prima di tutto, il fatto di
poter contare su personale proveniente in larga misura da eserciti contribuisce
implicitamente allo scopo, visto che fa aumentare la credibilità delle PMC, e di
conseguenza la fiducia nelle loro azioni. In secondo luogo, bisogna ricordare che
diverse PMC, soprattutto quelle che offrono servizi di supporto, sono nate come
compagnie civili, per cui, nel momento in cui si sono inserite nell’ambito militare,
potevano già contare sul sostegno dei governi e delle istituzioni pubbliche dei quali
erano stati fornitori.
Tuttavia, in un mercato dominato dalla logica dei grandi marchi, l’unica strada
percorribile per le PMC, al fine di essere percepite come legittime dall’opinione
pubblica, consiste nel mettere in atto strategie di comunicazione e pubblicità, al pari
di qualsiasi altra impresa. Nel farlo, la grande maggioranza delle PMC cerca,
comprensibilmente, di prendere il più possibile le distanze dal campo militare per
avvicinarsi a quello civile. Questo spiega perché, molto spesso, le aziende si
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autodefiniscano private security companies e tendano a pubblicizzare soltanto le loro
attività più trasparenti. Lo fanno attraverso gli strumenti tipici del marketing:
stampando volantini informativi e brochure e comprando spazi pubblicitari sui mezzi
di comunicazione. Al loro interno, difficilmente vedremo pubblicizzati interventi che
non siano svolti per conto di clienti “legittimi”, come OIG e ONG, istituzioni
pubbliche e governi occidentali. Lo stesso discorso vale per gli annunci di lavoro, che
non somigliano per nulla a un arruolamento di soldati, quanto piuttosto alla richiesta
di impiegati qualsiasi. Comunque sia, lo strumento comunicativo cui le PMC affidano
gran parte dei loro sforzi per darsi un’immagine normale e legittimarsi è Internet.
Questo mezzo appare spesso una sorta di biglietto da visita delle aziende. Può essere
utile e interessante, dunque, analizzare in breve le pagine on-line di alcune PMC.
La prima è Booz Allen Hamilton (BAH), una compagnia americana fondata nel 1914.
Si tratta di una delle maggiori PMC nell’ambito delle consulenze militari. Ci sono
due elementi che colpiscono in modo particolare quando si accede alla sua pagina
web (www.boozallen.com). Innanzitutto, la vastità delle informazioni e dei
collegamenti che vengono messi a disposizione: fanno invidia alle più grandi
multinazionali! In secondo luogo, l’immagine che viene fornita si avvicina molto a
quella di una qualsiasi azienda del comparto civile. Né è un esempio lampante
l’iconografia scelta per la home-page, che cerca di lanciare un’immagine legata al
business, ma allo stesso tempo rassicurante. In primo piano, si vedono degli uomini
in riunione, presumibilmente dirigenti, sovrastati dal viso di una donna che parla al
telefono. In sovrimpressione, uno slogan che suona più o meno così: “Strategie e
tecnologie di consulenza che forniscono risultati durevoli”. Tutti i vari link servono a
mettere in mostra i grandi risultati conseguiti dalla compagnia nei suoi quasi 100 anni
di storia e a far risaltare i vantaggi nel ricorrere a consulenze esterne, il cosiddetto
“outsourcing”. Alla voce “clients”, ad esempio, c’è scritto testualmente: “i clienti di
BAH sono le più grandi corporations del mondo, le compagnie emergenti, le agenzie
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governative e le istituzioni che aspirano a migliorare le loro organizzazioni e a
rendere il mondo migliore”. Quanto al raggio d’azione, poi, la compagnia cerca di
trasmettere tutta la sua globalità, dimostrando di non avere limiti: attualmente conta
circa 9.700 dipendenti che lavorano in circa 100 sedi in Europa, Asia, Africa,
Australia e America del Nord e del Sud. Anche in questo caso lo slogan è molto
rassicurante: “l’uomo giusto al posto giusto”.
Per quanto riguarda le attività che l’azienda svolge, c’è un’ampia sezione in cui
queste vengono descritte dettagliatamente: strategia, organizzazione e leadership,
operazioni, tecnologia informativa e gestione di tecnologie avanzate. Ciò che non
viene detto da nessuna parte è il contesto in cui queste attività vengono svolte. È
paradigmatico, poi, il fatto che ci siano molti riferimenti all’integrità morale, senso di
responsabilità sociale, disponibilità e fiducia verso il cliente: l’intero sito, d’altronde,
è infarcito di enfasi a proposito di un presunto senso etico dell’azienda e di tutti suoi
dipendenti. Come prova, alla voce “Community relations”, viene stilato un fitto
elenco delle collaborazioni che l’azienda intrattiene con organizzazioni a fini
benefici, dalla Società contro la leucemia e il linfoma all’America’s Charities, un ente
che riunisce diverse associazioni caritatevoli.
Il secondo caso riguarda la PMC CACI, già citata nel secondo capitolo in merito agli
scandali di Abu Ghraib. Il suo sito internet (www.caci.com) è più modesto quanto a
portata e contenuti, ma non per questo la sua analisi è meno interessante. A partire
dalla home-page, l’intento dell’azienda è quello di legare la propria immagine a due
concetti chiave: sicurezza e difesa. Questo compito è affidato a slogan come “CACI,
sempre vigili”, o frasi ad effetto del tipo: “Per CACI il sostegno alla sicurezza
nazionale americana, è molto più che semplici parole, è il nostro business”. Una
frase, quest’ultima, apparentemente banale ma che può aiutare ad approfondire la
caratteristica principale dell’azienda: questa PMC si connota in chiave fortemente
americana, il che vuol dire che i suoi clienti di riferimento sono le agenzie
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governative USA. Effettivamente, tra i principali clienti citati ci sono: U.S. Navy
Office of Naval Research, U.S. Naval Sea Systems Command, U.S. Navy Space and
Naval Warfare Systems Command, U.S. Air Force, U.S. Army Communications-
Electronics Command. Del resto, anche la scelta delle immagini va in questo senso,
visto che vi spiccano sempre una bandiera a stelle e strisce e un’aquila.
Il campo delle competenze svolte dall’impresa è vastissimo: guerra elettronica,
intelligence, sistemi di ingegneria, test e valutazioni, allenamento alla gestione delle
tecnologie, supporto logistico. Anche in questo caso, le attività svolte vengono
descritte nei minimi particolari, slegandole però dai campi d’azione. Di fatto, solo in
un punto si parla di servizi che vengono offerti in contesti militari. Esiste, inoltre, la
possibilità di accedere a un motore di ricerca interno al sito; se nel campo apposito
inseriamo le parole “Abu Ghraib”, la ricerca si rivela del tutto inutile. È una riprova
ulteriore del fatto che le pagine web delle PMC sono funzionali a creare una facciata
ordinaria e rassicurante agli occhi dei cittadini, per cui viene dato conto solo ed
esclusivamente delle attività accettabili secondo il senso comune.
È particolarmente importante segnalare il sito dell’ International Peace Operation
Association (www.ipoaonline.org), un’ associazione di categoria, una sorta di
confederazione industriale creata da alcune PMC. Il fatto che il nome scelto ruoti
attorno alla parola pace, colpisce e turba particolarmente, perché significa che queste
aziende non si preoccupano di nascondere le proprie attività, come nei casi
precedenti, ma al contrario le pubblicizzano. In pratica, è come se dicessero: le nostre
azioni sono perfettamente legittime perché siamo gli unici in grado di portare pace e
stabilità nel mondo. Il sito dedica molto spazio all’idea di elaborare un codice etico
per auto-regolamentare la propria condotta, dimostrando in questo modo la buona
volontà delle PMC. In realtà, si tratta di un elenco di parole che, pronunciate in
questo contesto, suonano vuote e superficiali: diritti umani, responsabilità, controllo,
sono principi impossibili da attuare senza volontà e strumenti politici adeguati.
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Vediamo, dunque, come l’unità di intenti delle PMC non si manifesti solo attraverso
forme di collaborazione sul campo, ma anche tramite la condivisione delle medesime
strategie comunicative. L’intenzione delle PMC, seppur velata, è abbastanza chiara:
una volta ottenuto, nella pratica, il consenso dell’emisfero politico che conta, quello
occidentale, si tratta ora di abbattere l’ultima barriera che impedisce loro di agire
indisturbate, quella dell’opinione pubblica.
Diverso, infine, è il caso del sito www.dangerzonejobs.com. Contrariamente a quelle
commentate in precedenza, questa pagina web non fa riferimento a nessuna PMC in
particolare; piuttosto, funziona come una sorta di “bacheca virtuale” che raccoglie
offerte e domande di lavoro per tutto il settore militare privato. È realmente
impressionante il numero altissimo di proposte di lavoro presenti, e soprattutto la
velocità con cui queste vengono aggiornate, di solito settimanalmente, a
testimonianza della continua necessità di ricambio che c’è in questo settore. Gli
impieghi riguardano tutte le attività militari descritte finora, potenzialmente in ogni
angolo del pianeta. Logicamente, sono i paesi più caldi, quelli ad alta conflittualità
interna, ad andare per la maggiore. Inutile dire che il contesto con maggiore bisogno
di “manodopera” attualmente è l’Iraq; seguono Afghanistan, Kuwait, Arabia Saudita,
Qatar ecc.
Le implicazioni
Per tracciare un bilancio conclusivo di questo fenomeno, dobbiamo necessariamente
tornare alle sue radici, ovvero alla distinzione tra settore pubblico e privato. Bisogna
chiedersi, cioè, per quale motivo, dalla nascita dello stato moderno in poi, l’area
militare sia sempre stata a dominio esclusivo degli stati. Riprendere e schematizzare i
principali problemi legati all’utilizzo di servizi privati, ci può certamente aiutare a
capire. Alla luce di quanto detto finora, possiamo individuare tre ordini di problemi:
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contrattuali, relativi, cioè, alle condizioni economiche degli accordi che vengono
stipulati, politici ed etico-morali.
Problemi contrattuali
La prima questione riguarda una situazione che si verifica ogni qualvolta si affida ad
estranei la gestione di qualcosa di importante per il committente. In qualsiasi tipo di
contratto, un cliente commissiona ad un agente un servizio in cambio di una
remunerazione, sperando, in questo modo, di ottenere il miglior servizio e il minor
costo possibili. Che queste aspettative vengano soddisfatte dipende da un serie di
variabili: professionalità dell’agente, contesto d’azione, fattori causali e
congiunturali. Esistono, però, due tipi di problemi che si manifestano sempre, a
prescindere dai casi, in quanto legati alla natura stessa dell’accordo.
Innanzitutto, così facendo, il cliente perde il controllo della situazione. In secondo
luogo, gli interessi delle due parti non possono mai coincidere esattamente, in quanto
queste sono guidate da fini e obiettivi diversi. Nel settore militare, questi rischi sono
molto elevati e le conseguenze possono essere particolarmente gravi, considerato che
le funzioni che vengono esternalizzate non sono solo importanti, bensì cruciali.
Vediamo, dunque di approfondire questi temi.
Come sappiamo, qualsiasi transazione all’interno del mercato di beni e servizi,
avviene in un contesto di informazione incompleta o inesistente, il che molte volte
può mettere a rischio le operazioni stesse. Questo è vero a maggior ragione in
presenza di privatizzazioni, quando il rischio che il cliente non disponga di tutte le
informazioni utili per valutare e sorvegliare le attività dell’agente è tutt’altro che
remoto. Per ovviare a questo problema, in quest’ambito più che in altri, è
indispensabile che esistano dei meccanismi di monitoraggio delle operazioni
dell’agente, che funzionino come garanzia e protezione nei confronti del cliente. In
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realtà i contratti con l’industria militare privata non soddisfano mai questa
condizione. I motivi sono diversi.
Innanzitutto, il modo in cui l’industria è strutturata. Come abbiamo detto prima, è un
settore in cui la competizione tra le imprese è molto limitata, per cui manca il
controllo tipico del libero mercato. Può succedere, quindi, che alcuni contratti
vengano assegnati in maniera assolutamente predeterminata, senza nessuna gara
d’appalto, logicamente a favore delle PMC connesse politicamente. Tutto questo a
scapito dell’efficienza, che tende a ridursi drasticamente: non è un mistero, infatti,
che il ricorso ai privati incrementa l’efficacia solo in un contesto di alta concorrenza.
In secondo luogo, i termini stessi dei contratti sono quasi sempre generici, in quanto
non prevedono misure che garantiscano l’efficacia del lavoro che le PMC sono tenute
a svolgere: di solito, sono le stesse compagnie a tenere informato il cliente riguardo
gli sviluppi della situazione.
In terzo luogo, esiste il problema ulteriore che coloro che si affidano alle PMC,
quindi i governi, le OIG, le OING, le multinazionali e le istituzioni pubbliche, non
dispongono di personale con le competenze necessarie per occuparsi della
supervisione, il che spiega, almeno in parte, com’è possibile che in molti casi le PMC
si siano allontanate dalle attività stabilite nei contratti senza ricevere alcuna sanzione.
Bisogna aggiungere, inoltre, il fatto che questi contratti hanno luogo in contesti
estremamente instabili e confusi, il che non aiuta certo la circolazione delle
informazioni e quindi la trasparenza circa le attività svolte.
Come conseguenza di tutti questi fattori, esiste sempre il rischio che il rapporto tra le
parti che stipulano l’accordo si sbilanci in favore delle PMC, che possono così
acquisire una posizione di vantaggio nei confronti del cliente, imponendogli delle
condizioni che questi non può rifiutare. Il vero pericolo della perdita di controllo,
dunque, consiste nel fatto che le aziende incrementano il loro potere a spese del
cliente. Si tratta di un rischio che, come si è detto, è presente in ogni tipo di contratto,
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ma che è molto più elevato nel caso in cui sono coinvolti clienti più poveri e dunque
“fragili”, come i governi dei paesi in via di sviluppo, che, non disponendo di nessun
contrappeso allo strapotere economico delle aziende, vengono asserviti, vedendo
talvolta addirittura minacciati i propri piani di sviluppo. A questo va aggiunto il fatto
che le PMC, quando operano per conto di governi del Terzo mondo, tendono a essere
molto meno affidabili rispetto a quando sono ingaggiate dai governi occidentali.
Questo ci ricollega al secondo problema principale, ovvero l’impossibilità di far
coincidere gli obiettivi delle due parti. In molti casi, i fini delle PMC non sono solo
diversi da quelli del cliente, ma in netto contrasto. Quest’ultimo, che si tratti di un
governo o di una ONG, ha come obiettivo il raggiungimento di un bene pubblico; le
PMC al contrario, in quanto aziende, agiscono per massimizzare i propri profitti,
senza nessun riguardo verso la collettività. Questa condizione, unita alla totale
mancanza di supervisione, porta spesso a situazioni particolarmente dannose.
Innanzitutto, le PMC possono incrementare i loro profitti a spese del cliente; se, ad
esempio, l’ammontare del contratto è stabilito in base al numero di dipendenti da
impiegare, le aziende possono ingaggiare un alto numero di soldati, facendone
lavorare solo una parte. Una situazione del genere si è verificata in Bosnia, dove il
40% del personale assunto dalla compagnia BRS non svolgeva nessuna delle attività
stabilite nel contratto.
In altri casi, un’azienda può sacrificare la migliore soluzione per limitare le spese;
come sappiamo, questa situazione non potrebbe mai verificarsi con gli eserciti statali,
che sono obbligati a scegliere la miglior soluzione in qualsiasi caso, a prescindere dai
costi. Tra i problemi principali c’è, inoltre, il fatto che l’industria militare privata è
legata in vario modo a multinazionali e altre entità commerciali, i cui interessi
possono influenzare negativamente le decisioni militari. Può dunque succedere che le
PMC, piuttosto che contribuire alla soluzione dei conflitti in cui sono impegnati,
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operino per farli continuare, quando questo significa riempire le tasche delle aziende
associate e dunque le proprie.
L’argomentazione che i dirigenti del settore portano per rispondere a queste accuse è
che i principali danneggiati in caso di mancato adempimento degli obblighi stabiliti
nei contratti, sarebbero le compagnie stesse, che vedrebbero rovinata la propria
reputazione, e di conseguenza i profitti a lungo termine. Per quanto verosimile, questa
affermazione viene completamente smentita dalla realtà dei fatti. La compagnia Sky
Air, ad esempio, non ha avuto nessun problema nel lavorare per entrambe le parti del
conflitto in Sierra Leone. Da un lato, vendeva armi ai ribelli, dall’altro forniva
supporto aereo al governo per aiutarlo a scacciare gli stessi ribelli dal paese.
Per non parlare, poi, dell’enorme danno economico che suppone, per i governi, il
fatto di spendere tempo e denaro per addestrare ufficiali e membri delle forze
speciali, per poi vederli improvvisamente passare al settore privato. È stato calcolato
che per formare un berretto verde sono necessari 18 mesi di addestramento, per un
costo totale di 257.000 dollari. In pratica, è come se lo Stato pagasse le PMC due
volte: da un lato con i soldi che vengono stanziati per i contratti, dall’altro con quello
speso per addestrare le truppe.
Infine, esiste un ultimo problema, non legato alla struttura dell’industria, quanto
piuttosto alla natura dei suoi dipendenti. Succede, cioè, che anche se l’azienda
rispetta i termini del contratto, i suoi dipendenti non sono obbligati ad essere leali
verso la fazione che servono e possono quindi abbandonare i propri compiti. Questo
perché, come sappiamo, non esistono legami patriottici, né leggi che regolano la
condotta dei soldati a contratto sui campi di battaglia. Se uno di loro decide di non
fare quello per cui è stato pagato, magari perché giudica la situazione troppo
pericolosa, rischia al massimo di essere licenziato dalla propria azienda, mentre i
militari degli eserciti regolari, in una situazione analoga, potrebbero essere
condannati per diserzione.
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Da quanto detto finora, emerge una condizione tutt’altro che rassicurante per coloro
che si affidano alle PMC. Nella maggior parte dei casi, queste possono decidere, per
ragioni di convenienza, di non svolgere il loro compito al meglio, e il cliente,
subordinato e senza alcuno strumento di controllo, è costretto a fare affidamento sulla
buona fede e su una improbabile volontà di disciplina dell’agente. In conclusione, si
può dire che un contratto con l’industria militare privata spesso non garantisce il
massimo dell’efficienza, e non è affatto automatico che faccia risparmiare denaro.
Problemi politici
Il secondo ordine di problemi riguarda la dimensione politico-istituzionale. L’avvento
del privato nella gestione dei servizi militari in molti stati ha avuto come risultato
quello di destabilizzare il settore pubblico. Questo perché, nel momento in cui i
confini tra pubblico e privato si sono fatti via via più sfumati e indefiniti, è venuto
meno l’equilibrio tra autorità pubblica e apparato militare, che in qualsiasi Stato
moderno costituisce un presupposto fondamentale per la stabilità politica. Le
conseguenze di questa perturbazione istituzionale, sono state diverse a seconda del
grado di sviluppo dei sistemi politici interessati; bisogna, quindi, distinguere tra paesi
occidentali e paesi in via di Sviluppo.
Nei sistemi politici caratterizzati dalla presenza di democrazie instabili o in via di
formazione, l’ingresso dell’industria militare privata, ha portato a esiti
particolarmente gravi. In più di un caso, il logoramento delle relazioni tra potere
civile e potere militare, è sfociato in rivolte e scontri armati. Questo perché, molte
volte, l’introduzione di una forza armata parallela e staccata dalle linee di comando
degli eserciti statali, causa risentimento nelle forze locali. Succede soprattutto quando
le PMC ingaggiate appartengono ai settori della consulenza e della fornitura di servizi
da combattimento. Le ragioni sono diverse. Per prima cosa, i soldati a contratto
percepiscono salari molto più alti rispetto ai militari locali, nonostante svolgano gli
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stessi compiti. Per esempio, i salari dei dipendenti di Executive Outcomes erano di
cinque volte maggiori rispetto a quelli dei dipendenti dell’esercito sudafricano e dieci
volte più alti di quelli che venivano percepiti mediamente dai militari dei paesi in cui
l’azienda veniva ingaggiata. In secondo luogo, agli ufficiali delle PMC sono riservate
le posizioni di comando, di modo che viene scavalcata completamente l’usuale catena
gerarchica, e sia impossibile, per gli ufficiali locali, ottenere promozioni e gratifiche.
In terzo luogo, viene minacciato il prestigio delle forze locali, in quanto l’assunzione
di servizi privati esterni, viene vista come una mancanza di fiducia da parte dei
governi nei confronti dei propri eserciti. Questi elementi fanno si che gli eserciti
vedano minacciata non solo la propria autonomia in campo militare, ma il loro stesso
ruolo all’interno dell’ordine sociale, per cui possono mettere in atto forme di rivolta
armata contro i governi e contro le stesse PMC. Una situazione del genere si è
verificata sempre in Sierra Leone nel 1997: nel momento in cui Executive Outcomes
era uscita dal paese, in quanto aveva ultimato i propri compiti, il governo si è
ritrovato senza la sua protezione ed è stato rovesciato dall’esercito, che nel frattempo
si era alleato coi ribelli. Per motivi identici, la stessa Executive Outcomes si è
ritrovata, in Angola, a combattere, oltre che contro le formazioni nemiche dei ribelli,
contro l’esercito locale, in teoria suo alleato.
Viceversa, il settore privato può anche contribuire a stabilizzare la situazione politica.
Visto il pericolo esposto in precedenza, i governi di questi paesi possono decidere di
affidarsi alle PMC, in particolar modo a quelle di consulenza e addestramento, per
creare una forza armata competente e soprattutto leale. In questo caso le aziende, che
possono contare su conoscenze strategiche e organizzative di alto livello, si
dimostrano capaci di scongiurare il pericolo di conflitti interni. Il problema è che
tutto questo può avvenire anche a vantaggio di regimi non democratici, perché, come
sappiamo, l’unico scoglio da superare per ottenere questi servizi militari, è il
reperimento di soldi per pagarli.
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D’altro canto, quando si parla di instabilità in contesti politicamente fragili, bisogna
tenere ben in mente due fattori, peraltro strettamente connessi tra di loro. Da un lato,
il fatto che l’instabilità politica non è solo la conseguenza degli interventi delle PMC,
ma il motivo stesso per cui le PMC intervengono; dall’altro, il fatto che la questione
politica va a braccetto con quella economica, legata, cioè, allo sfruttamento delle
risorse. Non può essere una coincidenza, infatti, che le regioni che sono più spesso
associate alle operazioni delle PMC, comprendano paesi come Angola, Zaire, Sierra
Leone e Iraq. Si tratta di paesi che vivono gravi crisi politiche interne, ma che, allo
stesso tempo, sono ricchi di risorse minerarie e petrolifere. Queste risorse vengono
ipotecate dai governi per ottenere sicurezza; così facendo, questi Stati si vedono
privati non solo dei mezzi indispensabili per la crescita socioeconomica, ma della
loro stessa autonomia politica, visto che le loro scelte sono influenzate dalla volontà
delle PMC. Il pericolo di fondo, tutt’altro che remoto, è che le PMC possano
costituire una minaccia per gli stessi governi che le hanno ingaggiate, minando le basi
della loro sovranità.
Per quanto riguarda gli Stati occidentali, la maggiore solidità istituzionale e il forte
radicamento democratico, rendono praticamente impossibile l’eventualità che
l’equilibrio tra potere politico civile e potere militare si deteriori fino ad arrivare allo
scontro violento. Tuttavia, anche in questi contesti, l’affermazione dell’industria
militare privata può influenzare le relazioni istituzionali. Non si tratta di una
destabilizzazione d’arrivo, causata dall’impatto economico negativo che le PMC
portano con il loro ingresso, come avviene nei paesi in via di sviluppo, quanto di
partenza o meglio di permanenza, nel senso che è dovuta al fatto che le PMC
condizionano il contesto dall’interno.
In questo caso, il timore maggiore è che l’ascesa incontrastata delle PMC possa
minacciare l’autonomia di cui storicamente hanno goduto la sfera politica e militare.
In qualsiasi società moderna, uno dei presupposti più importanti è proprio la
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separazione fra tre istituzioni: militare, politica ed economia. Negli ultimi anni,
questa distinzione è stata erosa, come abbiamo visto, dalla commercializzazione e
privatizzazione della società. La sfera economica sembra aver preso il sopravvento
sulle altre due, con delle conseguenze potenzialmente molto gravi. Innanzitutto, le
politiche dei governi saranno sempre meno autonome, perché sempre più indirizzate
dagli interessi commerciali delle multinazionali, tra cui le stesse PMC; anche in
questi contesti, dunque, il pericolo è che gli Stati vadano perdendo progressivamente
la propria sovranità e legittimità agli occhi dell’opinione pubblica. In secondo luogo,
l’istituzione militare, privata del proprio status “superiore” nella società, in quanto
portata sullo stesso livello di qualsiasi azienda del comparto civile, vedrà minacciata
la propria credibilità. Non è un caso, quindi, che le principali voci di dissenso contro
l’operato delle PMC, nei paesi occidentali, giungano da settori delle forze armate, che
in molti casi denunciano l’incapacità operativa delle aziende, manifestando
irritazione per il peso sempre maggiore del settore privato negli affari militari. E non
stupisce nemmeno il fatto che il dibattito su questi problemi sia particolarmente
acceso negli Stati Uniti, dove il settore militare è sempre stato quello più rispettato
dall’opinione pubblica e dove, d’altro canto, si concentrano i maggiori profitti delle
PMC.
Infine, esiste la possibilità che il ricorso alle PMC influenzi negativamente i rapporti
tra gli stati. Questo rischio è la diretta conseguenza della difficoltà di distinguere le
truppe ufficiali dai soldati a contratto sui campi di battaglia; nel caso di operazioni
poco chiare o reati di vario tipo, è difficile dire con certezza di chi sia la
responsabilità. I rapporti che alcuni governi intrattengono stabilmente con le PMC, in
particolar modo con quelle che forniscono servizi da combattimento e consulenza,
possono creare una sorta di “concorso di colpa”, portando la comunità internazionale
ad assumere che quei governi stiano utilizzando l’industria militare privata come
strumento politico, a scapito delle organizzazioni internazionali e regionali, che
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vengono by passate . Il problema di fondo, dunque, non è la semplice delega di una
singola attività, ma la privatizzazione dell’intera politica estera.
Problemi etico-morali
Il fatto che le PMC si trovino a operare negli scenari più violenti e controversi del
mondo, porta necessariamente a porsi degli interrogativi a proposito della moralità
delle loro azioni. Questo a maggior ragione se si considera che, come abbiamo
appena detto, la circolazione delle informazioni in un contesto di guerra è
particolarmente complicata, per cui diventa difficile attribuire la responsabilità di una
certa azione. D’altro canto, la loro natura aziendale, unita agli stretti legami che le
PMC intrattengono con compagnie commerciali dagli svariati interessi economici,
hanno fatto aumentare i dubbi dell’opinione pubblica, portando alcuni studiosi a
definire queste compagnie come forze “ricolonizzatrici”. Certamente, le PMC non
godono, attualmente, di una buona reputazione. Vediamo, quindi, di capirne i motivi
principali.
Un primo punto di domanda riguarda la clientela delle PMC, ossia il fatto che le
aziende, nel rispondere alle offerte di ingaggio dei potenziali clienti, non sono tenute
a valutare aspetti etici e legali, ma solo ed esclusivamente quelli economici.
Quest’assenza di limitazioni permette, ad esempio, che le PMC possano lavorare sia
per progetti umanitari che per governi autocratici. La gravità di questa questione è già
stata messa in evidenza, ma vale la pena riportare altri casi. Nel 1997, il Dipartimento
di Stato USA ha negato a MPRI una licenza che l’azienda aveva richiesto per
assistere il regime corrotto di Mobutu in Zaire. La stessa MPRI, ha sostenuto per due
anni una dittatura militare in Guinea Equatoriale, mentre altre PMC hanno fornito
addestramento militare per gruppi jihadisti.
Coloro che fanno parte di questo settore, cercano di allontanare i dubbi affermando
che le imprese legittime, cioè quelle riconosciute in ambito internazionale, lavorano
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solo per governi legittimi. Quest’argomento non convince del tutto. Innanzitutto
perché, se per legittimità si intende il fatto di essere al potere, le PMC
contribuirebbero sempre e comunque a mantenere lo status quo, cioè a difendere il
governo in carica, senza tenere in conto in che modo questo sia arrivato al potere o se
si comporti in maniera democratica o dittatoriale. Tra l’altro, a volte è molto difficile
stabilire con certezza quale delle parti in conflitto sia legittima. Il riconoscimento può
cambiare notevolmente a seconda dei punti di vista. Ad esempio, le forze ribelli sono
comunemente considerate illegittime, in quanto mirano a destabilizzare l’ordine
esistente, ma in più di una caso la loro azione ha portato a rovesciare governi
autoritari, quindi “illegittimi”. Per non parlare dei cambiamenti nel tempo: l’African
National Congress di Nelson Mandela, ad esempio, è stato per anni classificato come
gruppo terrorista, prima di venir eletto democraticamente.
Un secondo quesito riguarda l’affidabilità dei dipendenti. In più di un caso, si è
scoperto che le aziende avevano ingaggiato personale dal passato tutt’altro che
raccomandabile. Questo perché le PMC, nel momento in cui reclutano, si
preoccupano soprattutto delle doti professionali dei futuri dipendenti, spesso
prescindendo da valutazioni circa la disciplina e il codice etico. Anche in questo caso,
vale la pena citare esempi concreti.
Oltre al caso degli ex-militari del Sudafrica dell’apartheid, che lavorano in giro per il
mondo, c’è quello dei soldati cileni impegnati attualmente in Iraq, gran parte dei quali
provenienti dai reparti speciali costituiti dal dittatore Augusto Pinochet. Queste
situazioni permettono di ricollegarci a un terzo tipo di problema, quello che riguarda
il rispetto dei diritti umani. Non è raro che il nome di alcune PMC venga associato a
gravi violazioni in questo campo. Alle volte, sono state le stesse PMC, tramite i loro
dipendenti, a portare avanti questi crimini. È utile, in proposito, ricordare il caso dei
dipendenti Dyncorp in Bosnia, implicati in traffici di prostituzione e armi. Di fronte
ad avvenimenti del genere, il vero problema è che nemmeno l’azienda è in grado di
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conoscere con certezza le attività dei propri dipendenti sul campo di battaglia. Alcune
PMC affermano di essere intransigenti in tema di rispetto dei diritti umani, ma anche
qualora riuscissero ad accertare le eventuali responsabilità dei propri impiegati e li
licenziassero, questi verrebbero comunque assunti da un’altra compagnia. In altri
casi, le PMC possono contribuire indirettamente alla violazione dei diritti umani.
Quando una PMC di consulenza inizia a lavorare per un governo, infatti, cerca di
rispondere a un unico standard, quello dell’efficienza; si preoccupa, cioè, di garantire
al meglio il servizio per cui viene pagata. Nel momento in cui l’azienda ultima i suoi
compiti e lascia il paese, però, non esiste nessun tipo di controllo su come il governo
utilizzerà le capacità militari acquisite.
Un quarto problema è legato alla cosiddetta “azione per procura”, cioè il pericolo che
le PMC possano operare segretamente per conto dei governi, svolgendo compiti e
attività che questi non vogliono o non possono eseguire direttamente. In questo caso,
il vantaggio nel ricorrere a servizi militari privati sta nel sottrarsi alle critiche
dell’opposizione, dell’opinione pubblica e delle Nazioni Unite. Se qualcosa va storto
in una di queste operazioni, ad esempio, è facile per i governi negare qualsiasi tipo di
coinvolgimento.
Da questo punto di vista, il governo americano è quello che desta più sospetti,
considerato che ha più volte fatto ricorso alle PMC per mascherare alcune sue attività
all’ estero. Angola e Guinea Equatoriale, ad esempio, sarebbero, per legge, non
sostenibili dal governo USA, in quanto regimi non democratici; eppure, gli Stati Uniti
hanno aiutato militarmente i loro governi. Il rischio, dunque, è che le PMC possano
diventare delle vere e proprie armi in dotazione ai governi, con conseguenze
potenzialmente gravissime.
L’ultimo problema, forse il più importante e di sicuro il più controverso, è quello che
riguarda la “militarizzazione dell’azione umanitaria”, ovvero l’utilizzo delle PMC
negli interventi umanitari e di peacekeeping. La questione viene trattata in
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quest’ultima parte per ragioni di comodità, ma la sua portata non si limita all’ambito
etico-morale, ma si estende anche agli altri due trattati in precedenza. Ultimamente, ai
vertici delle Nazioni Unite si sta facendo sempre più strada l’idea di un impiego più
esteso di società private di sicurezza, con la convinzione, così facendo, di aumentare i
propri standard operativi in termini di efficienza.
Effettivamente, in più di un caso, operazioni di questo tipo sono fallite a causa di
evidenti limiti a livello militare, sia dei contingenti dell’ONU, che si sono trovati a
fronteggiare situazioni per le quali non erano preparati, sia, logicamente, da parte dei
forze locali, il più delle volte mal equipaggiate e scarsamente competenti. Nel caso
delle ONG, invece, il ricorso al settore militare privato appare in un certo senso
obbligato, visto che rimane l’unica strada per ottenere protezione in zone
estremamente pericolose. Di conseguenza, ci sono tutti gli elementi per pensare che
le PMC si andranno inserendo in modo sempre più stabile nell’ambito dei progetti
umanitari, con la possibilità, così, di ripulire la propria immagine e normalizzarsi
definitivamente di fronte all’opinione pubblica.
Tuttavia, le perplessità a riguardo sono diverse e suscitano alcune considerazioni.
Prima di tutto, bisogna osservare che le operazioni di peacekeeping sono molto
diverse dalle operazioni militari regolari, in quanto ad attività svolte e a
responsabilità. Richiedono, infatti, un addestramento particolare e una approccio
diverso dei soldati, incentrato su aspetti umanitari (come la protezione dei civili dai
conflitti), tutte condizioni che dei semplici dipendenti non possono soddisfare.
Inoltre, vale la pena ricordare che il fulcro di qualsiasi missione umanitaria, non è
costituito dalle operazioni prettamente militari; queste sono importanti
esclusivamente in funzione di stabilizzazione della situazione, al fine di ricostruire il
contesto socio-economico e politico del paese in cui si interviene. Affidare questi
compiti alle PMC appare molto pericoloso, visto che queste, in quanto orientate da
calcoli di breve periodo, lascerebbero i territori non appena ultimati i propri compiti,
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senza svolgere quella serie di operazioni che sono richieste a un intervento delle
Nazioni Unite.
Un altro problema è legato al modo in cui le popolazioni locali vedono gli operatori
umanitari. Nel momento in cui le istituzioni internazionali e le ONG si trovano ad
operare a stretto contatto con i dipendenti delle PMC, rischiano di non venire più
percepite come soggetti imparziali, impegnati in opere di ricostruzione, ed è più
facile che diventino bersagli di attacchi. Tra il 1992 e il 2001, si stima che siano stati
uccisi ben 85 operatori umanitari. I legami con l’industria militare privata hanno
contribuito, almeno in parte, a questa cifra. C’è da sottolineare, infine, che tutti i
rischi relativi al mancato monitoraggio dei contratti. A fianco della privatizzazione
della guerra, che ha già assunto dimensioni importanti, sta dunque prendendo
progressivamente piede la privatizzazione della pace, che se portata avanti nei
prossimi anni, potrà generare conseguenze ancor più gravi della prima.
I limiti legislativi
Dopo aver individuato i maggiori reati in cui possono incorrere le PMC, si tratta ora
di capire qual è il sistema regolativo preposto a prevenirli e sanzionarli. In più di una
occasione abbiamo accennato al vuoto legislativo intorno all’industria militare
privata, vedendo come questo stesso fattore abbia contribuito in modo decisivo alla
crescita del fenomeno. In realtà, una legislazione in materia non è del tutto assente.
Negli anni Sessanta, il riapparire del mercenariato, parallelamente ai processi di
decolonizzazione e ridefinizione dei confini statali, ha portato gli organismi
internazionali, su pressione dei neonati stati dell’Africa e dell’Est europeo che si
impegnavano a creare dei sistemi politici finalmente indipendenti, ad adottare delle
norme che limitassero le attività mercenarie, cercando di coinvolgere il maggior
numero di stati possibile. Questi sforzi hanno portato alla formazione di tre diversi
strumenti giuridici:
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• l’articolo 47 del I Protocollo Addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra;
• la Convenzione del 1977 dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) per
l’eliminazione del mercenariato in Africa;
• la Convenzione Internazionale contro il Reclutamento, l’Uso, il Finanziamento e
l’Addestramento di Mercenari nel 1989.
Col passare del tempo, però, queste norme sono diventate, di fatto, inapplicabili, in
quanto caratterizzate da lacune di vario tipo.
Il primo, dei tre, è quello che definisce meglio, da un punto di vista giuridico, le
attività mercenarie. L’articolo stabilisce che un soldato viene considerato mercenario,
per cui fuori dai parametri della legalità, quando: a) è specificatamente reclutato per
un conflitto armato; b) prende parte diretta alle ostilità; c) ha come unica motivazione
il profitto personale; d) non fa parte delle comunità impegnate nel conflitto; e) non è
membro di forze armate regolari; f) non ha l’avallo di nessuno stato per combattere.
Ciò che rende questo articolo poco utile, è il fatto di essere stato costruito interamente
intorno a una concezione del mercenariato antica, risalente alle guerre coloniali, in
cui esistevano i soldati di ventura che, individualmente, si mettevano a disposizione
dell’esercito, da cui rimanevano comunque separati. Di conseguenza risulta obsoleto,
inadatto a inquadrare gli sviluppi occorsi negli ultimi anni, che hanno reso il
fenomeno più complesso e globale. Le PMC non incontrano dunque problemi
nell’eludere questa normativa.
Innanzitutto perché, come sappiamo, buona parte di esse non prende direttamente
parte alle ostilità, ma occupa posizioni di regia o di retrovia. In secondo luogo, vale la
pena ricordare che il fine è sì il profitto, ma non personale, quanto piuttosto
aziendale. Terzo, i dipendenti delle PMC sono spesso inseriti nelle file degli eserciti
statali, il che fa decadere il quarto punto. Inoltre, l’articolo 47 ha il limite di essere
pensato per conflitti interstatali, non per quelli civili, che rappresentano la maggiore
fonte d’impiego per le PMC. Infine, appare debole anche da un punto di vista
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politico, visto che non è stato accettato dagli stati più influenti, come Francia e Stati
Uniti.
La Convenzione del 1977 dell’OUA, entrata in vigore nel 1985, è stato il primo
provvedimento che cercasse di imporre sanzioni concrete contro le pratiche
mercenarie. In effetti, rispetto al precedente, questo strumento dimostra un più ampio
margine di applicabilità; tuttavia, anch’esso contiene limiti evidenti. Viene
considerato mercenario chiunque collabori con organizzazioni che mirano a
rovesciare con la forza i governi legittimi dell’OUA o a bloccare le attività dei
movimenti anticoloniali riconosciuti dall’OUA, non vietando, invece, agli stessi
governi, di assoldare mercenari per reprimere gruppi di dissidenti all’interno dei
confini.
Nemmeno la Convenzione del 1989, nata sotto gli auspici dell’ONU, quindi dotata,
almeno sulla carta, di un vasto consenso politico internazionale, è riuscita a risolvere
il problema, in quanto manca di strumenti applicativi efficaci. Ad esempio, gli stati
possono farvi ricorso solo nel caso in cui le violazioni vengano commesse sul loro
territorio o dai propri cittadini, e anche qualora il reato venisse accertato, non è
previsto un sistema codificato di sanzioni. A questo si aggiunge il fatto, non
secondario, che la Convenzione è entrata in vigore soltanto nel 2001, orfana, tra
l’altro, della ratifica dei maggiori Paesi occidentali.
D’altro canto, l’inadeguatezza della normativa internazionale, ha fatto sì che nei
singoli paesi venissero adottate delle legislazioni a riguardo ancora più permissive; il
che ci ricollega a un altro punto imprescindibile se si vuole capire come si è arrivati
alla situazione attuale: la mancanza di volontà politica dei governi occidentali. Nel
2002, il governo britannico ha commissionato ad un gruppo di esperti l’elaborazione
di uno studio approfondito del settore militare privato (il Green Paper), per valutarne
i pro e i contro e vagliare la possibilità di un suo utilizzo legale nei conflitti.
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Quest’iniziativa ha avuto il merito di essere il primo tentativo volto a sensibilizzare il
mondo politico occidentale in tema di privatizzazione militare; tuttavia, è viziata da
un orientamento troppo permissivo verso le PMC, che sottovaluta i pericoli esposti
finora. Anche gli Stati Uniti, d’altronde, hanno più volte dimostrato di non voler
stringere più di tanto il cerchio legislativo intorno alle PMC. Non c’è dubbio che il
motivo di questa tolleranza sia da rintracciare, in buona parte, nei rapporti sempre più
fitti che i governi di questi due paesi intrattengono con i potentati economici di cui le
PMC fanno parte.
Gli strumenti legislativi appena analizzati, per quanto diversi tra loro, falliscono per
un motivo comune: cercano di limitare le attività mercenarie, ancorandole a un
contesto e a un momento storico determinati; si tratta, cioè, di norme nate in
condizioni di emergenza, pensate per salvaguardare l’integrità politica di alcune aree
nell’immediato. Come abbiamo ripetuto diverse volte nel corso di questo lavoro,
però, l’industria militare privata sfugge completamente a qualsiasi logica spazio-
temporale. La sua natura insieme finanziaria, politica e militare, le permette di essere
del tutto invulnerabile rispetto a quelle definizioni.
La chiave, dunque, sta nel ridefinire lo status giuridico del mercenariato su basi
completamente nuove, non limitandosi a considerare gli aspetti politici e militari
della questione, ma sviluppando un punto di vista il più possibile “globale”, che tenga
conto dei cambiamenti che hanno interessato l’intero corpo sociale negli ultimi anni.
Nella pratica, questo significa tenere ben presente gli “effetti collaterali” generati
dalla diffusione dell’economia liberista su scala mondiale negli ultimi vent’anni;
l’ascesa delle PMC, infatti, è legata, prima di tutto, alle condizioni socio-economiche
dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, vittime della globalizzazione: fino a quando la
povertà, e di conseguenza la conflittualità, continueranno ad aumentare al loro
interno, qualsiasi proposito, seppur sincero e legittimo, di arginare l’avanzata delle
multinazionali della sicurezza, si dimostrerà del tutto inutile. In conclusione, è
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difficile dire che ci sia (sempre che ci sia) il rimedio che permetta di scongiurare una
volta per tutte i problemi esposti finora; ciò che è certo, però, è che qualsiasi misura
si decida di adottare, deve necessariamente essere sostenuta da un ampio consenso
politico, per cui avere come punto di partenza i fori politici ed economici
internazionali.