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Il discorso sulla speranza, come viene espresso … · Web viewVa comunque sottolineato il clima...

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“Testimoni di Gesù risorto, speranza per il mondo” DUE GIORNI SULL’ECUMENISMO E SUL DIALOGO TRA LE RELIGIONI 8 – 9 luglio 2006 GARBAOLI DI ROCCAVERANO Iniziativa promossa 1
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“Testimoni di Gesù risorto,speranza per il mondo”

DUE GIORNISULL’ECUMENISMOE SUL DIALOGOTRA LE RELIGIONI 8 – 9 luglio 2006GARBAOLI DI ROCCAVERANO

Iniziativa promossadalla Commissioneper il dialogo tra le religionidella Diocesi di Acquie dal Movimento Ecclesialedi Impegno Culturaledell’Azione Cattolica

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PRESENTAZIONE

Non sono tempi facili per l’ecumenismo e il dialogo tra le religioni: i recenti fatti successivi al discorso di Benedetto XVI a Regensburg lo confermano.Rispetto a qualche tempo fa, la situazione sembra essere diventata più complessa e difficile, tale da scoraggiare anche gli animi più generosi e ostinati.Credo che sia in situazioni come questa che il credente deve far ricorso alla virtù della speranza ed all’essenza del messaggio cristiano che ha nell’insuccesso paradossale della croce del suo Signore il suo punto di riferimento e la sua forza.Lasciarsi cogliere da un pessimismo paralizzante che con la scusa di attendere tempi migliori interrompe ogni iniziativa o sospende ogni volontà progettuale è una scelta possibile e perseguita in molti casi ma è una scelta che non ci possiamo permettere proprio in questi tempi e proprio in quanto cristiani.E’ per obbedire a questa doverosa speranza che, anche quest’anno, il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale e la Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo tra le Religioni della Diocesi di Acqui hanno voluto proseguire una consuetudine che s’avvia a diventare tradizione, organizzando la Due Giorni per l’Ecumenismo e il Dialogo tra le Religioni che si è svolta sabato 8 e domenica 9 luglio 2006, nella casa estiva dell’Azione cattolica a Garbaoli di Roccaverano, con l’ispirazione suggerita dall’icona (suggerita dalla 1 Pietro) “Testimoni di Gesù risorto,speranza per il mondo”.Gli atti di quella iniziativa vengono ora pubblicati nel testo integrale (tratto dalla registrazione e non rivisto dagli autori) delle relazioni.La qualità dei relatori (tutti esperti dell’argomento affrontato e, da anni, impegnati nel dialogo e nell’ecumenismo) e l’impegno da loro profuso per evitare qualunque cedimento ai luoghi comuni che la stanchezza dovuta ai tempi o il conformismo tranquillizzante spesso suggeriscono, consentono al lettore di riflettere utilmente su temi essenziali dell’ecumenismo e del dialogo tra le religioni.Ci corre l’obbligo di ringraziare i relatori per la cura con cui hanno svolto il loro lavoro e la pazienza con cui hanno ascoltato tutti gli interventi. Essi sono

- ALBERTO TACCIA, pastore emerito della Chiesa valdese a Torino;- PAOLO DE BENEDETTI, docente di Giudaismo nell’Università di Urbino;- PIERMARIO FERRARI, docente nel Centro di studi ecumenici “San Bernardino”

di Venezia;- BRUNETTO SALVARANI, direttore di CEM-Mondialità e fondatore della rivista

di studi ebraico-cristiani QOL.

Acqui Terme, 14 settembre 2006, Festa dell’esaltazione della Santa Croce.

Domenico Borgatta

Presidente diocesano M.E.I.C.

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IL SALUTO DEL VESCOVO

Acqui Terme, 7 luglio 2006

A don Giovanni PAVIN,Presidente della Commissione diocesanaPer l’ecumenismo e il dialogo tra le religioni

Al Prof. Domenico BORGATTAPresidente del Movimento EcclesialeDi Impegno Culturale

Nei prossimi 8 e 9 luglio si terrà, come già in passato, la “Due giorni sull’ecumenismo e il dialogo tra le religioni”, organizzata dalla “Commissione” e dal “Movimento” da voi presieduti. Vi ospiterà l’accogliente “Casa estiva dell’Azione Cattolica” con sede a Garbaoli di Roccaverano.

L’incontro di questo anno si iscrive nel percorso che La Chiesa italiana sta compiendo in preparazione al Convegno di Verona del prossimo ottobre, dal significativo programma “Testimoni di Gesù risorto, speranza per il mondo”.

Non mi è possibile essere presente a Garbaoli, anche solo per un saluto, a motivo di impegni a carattere diocesano. Attraverso questo scritto invio agli organizzatori, ai relatori, ai partecipanti il mio cordiale saluto, unito all’augurio che il vostro convenire possa costituire un tassello di quel mosaico che cerchiamo di realizzare, in questi anni in Diocesi, e che ho riassunto così: “La comunità cristiana riscopre in Cristo la fonte della propria speranza e della gioia e la comunica agli uomini” (Lettera “Sulla strada con Gesù”).

Un cordiale saluto a tutti

+ Pier Giorgio Micchiardi, vescovo

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IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE NAZIONALE DEL MEIC

Carissimi,

dopo Garbaoli 2005, così riuscita, ecco arrivare l’appuntamento estivo del MEIC acquese e un po’ di tutto il MEIC piemontese. L’anno scorso vi scrissi che il MEIC non va mai in vacanza (e anch’io in questi giorni ho un impegno nell’Italia centrale…).

Ecumenismo e dialogo interreligioso, da molti anni al centro dell’attenzione del MEIC, come già del Movimento Laureati, stanno diventando un tratto caratteristico della proposta acquose.

Non c’è il rischio di ripetersi, se è vero che soltanto una spiritualità autentica può salvare il mondo. C’è semmai l’opportunità di sviluppare un percorso che, anno dopo anno, aiuti la discussione ecumenica a precisarsi e a incidere sempre di più nelle coscienze credenti, alle quali si chiede in particolare di vivere in modo spirituale una laicità aperta e profetica.

Sta qui il nucleo del contributo del MEIC a questa discussione e credo che Garbaoli 2006 possa aiutare tutto il Movimento e, più in generale, la Chiesa a trovare lo stile giusto per proseguire su questa strada.

Colgo l’occasione per rinnovare il grazie di tutto il MEIC al Vescovo mons. Micchiardi per la presenza, l’incoraggiamento e la vicinanza.

A tutti voi un saluto e un abbraccio dalla Presidenza nazionale.

Renato Balduzzi

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Pastore ALBERTO TACCIA

LA SPERANZA NELLA RIFLESSIONE

DELLE CHIESE EVANGELICHE

Il discorso sulla speranza, come viene espresso nelle Chiese evangeliche, si innesta fortemente nel tema generale del convegno: “Cristo risorto, speranza per il mondo”. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, già affermava che “Cristo Gesù è la nostra speranza”. La speranza cristiana, che trova in questa affermazione il suo fondamento, non può essere “confessionalizzata”. Ogni comunità cristiana che trova il suo riferimento principale nella realtà del Cristo vive la speranza che deriva dal messaggio della resurrezione in comunione con tutti i credenti. Differenze di prospettive e di comprensione possono rappresentare un contributo che, confrontato e integrato con altri, può arricchire, approfondire e allargare la comune comprensione di questa affermazione.

Rimane in ogni caso assodato che la speranza secondo l’Evangelo non è soltanto una dottrina, l’oggetto di una elaborazione metafisica e neppure un vago sentimento religioso, ma è una persona: Cristo risorto è la nostra speranza, ma è anche la speranza per il mondo. Dobbiamo innanzitutto chiarire a noi stessi quale può essere il senso concreto di questa espressione così problematica e impegnativa.

Cercherò di dare un contributo alla ricerca seguendo tre linee di riflessione:

I – La prima riguarda la radicale differenza tra la speranza cristiana e la speranza umana con il grave rischio di considerare la prima semplicemente come l’aspetto religioso della seconda.

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II – La seconda è riferita alle conseguenze che l’affermazione del Cristo risorto assume come elemento di speranza nella vita del credente e nella prospettiva della sua morte.III – La terza riguarda il senso che la speranza nel Cristo assume nella prospettiva escatologica, cioè riferita alla fine del tempo e dello spazio.

SPERANZE UMANE NEL MONDO DI OGGI

I . Il termine “speranza” è largamente usato nel linguaggio comune nel nostro mondo secolarizzato e tecnologizzato che pretende ormai di dare a tutti le risposte che ognuno si attende per garantire le sicurezze necessarie per l’avvenire. La speranza riassume così semplicemente l’auspicio che in un futuro prossimo o lontano si realizzino le nostre aspirazioni, i nostri desideri, i nostri progetti e vengano mantenute inalterate le condizioni che ci consentono di vivere nei migliori dei modi in un relativo benessere, sostenuto dai due pilastri centrali della vita moderna: la salute e i soldi.Tuttavia le nostre attese non sono prive di incertezze, dubbi, perplessità, titubanze, “del doman non c’è certezza!”. Si spera dunque ciò di cui non siamo sicuri e che in larga misura lasciamo al caso, all’eventualità, al destino sperando che ci vada bene! È vero che la nostra società escogita e propone una serie di provvedimenti per aumentare le garanzie e ridurre al minimo le imprevedibilità. Oggi siamo tutti dotati di titoli assicurativi che ci mettono, per quanto possibile, l’anima in pace nei confronti di sempre possibili rischi derivanti da malattie, incidenti, disgrazie, rovesci di fortuna o disagi di ogni genere. Oltre ai titoli assicurativi (largamente onerosi!), a un livello culturalmente molto basso (ma non troppo), entrano in gioco i portafortuna: aggeggi, medagliette, pendagli, cornetti a cui si aggiungono gesti da compiere o da evitare, giorni e numeri che portano fortuna o sfortuna. Come ultima ratio interviene il destino, il caso, la fortuna (che però è cieca), la sfortuna (che invece ci vede bene), la probabilità, senza contare l’attenzione rivolta all’oroscopo e la frequentazione di indovini, astrologi, maghi, negromanti tutti disponibili, con modica spesa, a distribuire speranze certe e tranquillizzare gli animi. Tutto questo può fare sorridere, ma la gente usa dire: “io non ci credo…ma non si sa mai!”.

LA SPERANZA CRISTIANA

II – Che ne è ora del modo in cui viene vissuta, compresa ed espressa la speranza tra credenti più o meno convinti ?C’è innanzitutto un grave fraintendimento che dobbiamo saper denunciare e contrastare, cioè il rischio che nell’operazione di scaramanzia fatta di gesti, parole,

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atteggiamenti, oggetti a cui si attribuisce il potere di scongiurare malefici e disgrazie e di propiziare un destino benevolo, faccia parte anche, e non in modo secondario, la religione. Dio entra così come elemento portafortuna specifico del credente, diventando sinonimo di destino. Dio può tutto: chi allora meglio di Lui può risolvere i miei problemi ? Ed ecco allora diffondersi una religiosità che poco ha a che fare con il Vangelo e molto con la superstizione. Preghiere, offerte, assidue pratiche religiose, gesti, simboli, medagliette e immaginette sostituiscono i portafortuna “laici”. Vi è tutta una cosiddetta “religiosità popolare”, che, pur essendo degna di ogni rispetto, rischia la deviazione da quella che è la speranza cristiana nel Cristo risorto e la caduta nel “miracolismo”, cioè una concezione di Dio il cui mestiere sia quello di risolvere “con un miracolo” problemi non diversamente solubili. È vero che in determinati luoghi propiziati da apparizioni o da altri fatti considerati misteriosi sono state obiettivamente documentate guarigioni ritenute miracolose, anche se in quantità infinitamente ridotta rispetto all’alto numero dei richiedenti. Questa probabilità, per quanto eccezionale, non scoraggia una massiccia partecipazione: “è toccato a lui, potrebbe quindi toccare a me”. Senza offesa per nessuno, il paragone immediato è quello del gioco del lotto.Il rischio presente in tali situazioni, constatato in tutti gli ambienti religiosi, è che la mancata, auspicata e implorata risposta possa condurre ad un affievolirsi, se non addirittura all’estinzione, di una fede (presunta!). Un Dio che può tutto, non ha fatto nulla per risolvere il mio problema. Da qui il grido drammatico: dov’è Dio ? Perché permette ? Perché non interviene ? La speranza cristiana sembra trovare un limite non valicabile davanti a queste angosciose domande destinate a rimanere senza risposta.

Tenteremo ora di affrontare il problema partendo da una affermazione attribuita a Dietrich Bonhoeffer: “Dio non esaudisce tutte le nostre preghiere, ma mantiene tutte le sue promesse”. Gesù non ha mai illuso, né privilegiato nessuno. Uomo in mezzo agli uomini, ha condiviso fino in fondo la natura umana fatta di debolezza, fragilità, limiti, sofferenza, lotte, contraddizioni e morte. Ai suoi discepoli non ha garantito successo, prosperità, benessere, potere. Ha detto loro “nel mondo avrete tribolazione, ma fatevi animo, io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). “Io vi lascio pace, vi do la mia pace, che non è quella del mondo. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti” (Gv 14,27). La vera grande promessa su cui si fonda la speranza del credente è quella pronunciata da Gesù al momento della sua separazione dai discepoli: “Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dell’età presente” (Mt 28,20). Non soltanto quindi nei giorni sereni, ma anche in quelli della sofferenza, della lotta, della malattia e della morte che pure fanno parte della vita terrena. Gesù sulla croce ha sperimentato l’angoscia dell’abbandono di Dio, solidale con noi fino in fondo nella nostra ansia e nei momenti più gravi della vita. “Io ho vinto il mondo”. In questa promessa, nella tribolazione non siamo sconfitti, ma nella speranza del Cristo risorto siamo partecipi della sua vittoria, anche nelle umane sconfitte.È vero che Gesù ha compiuto dei segni (miracoli) di guarigione. Tali atti hanno ricevuto il loro senso e la loro rilevanza soprattutto come restituzione di umanità e di dignità che la malattia aveva cancellato. I miracoli di Gesù appaiono dunque come

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delle predicazioni in atto che indicano la vittoria del Risorto su ogni potenza di distruzione e sono segno di salvezza ("la tua fede ti ha salvato") che rappresenta la ricomposizione dell'essere umano nella sua interezza e non soltanto nel recupero dell'integrità fisica. Cristo rimane la nostra speranza non soltanto nel superamento del disagio in cui ci troviamo, ma all'interno stesso di una sofferenza non fisicamente risolta. La certezza della sua presenza di amore e di grazia conferisce forza per affrontare con serenità anche i momenti più difficili della vita.La promessa della grazia proclamata nella Parola del Signore come annuncio di speranza si proietta nel nostro presente e si integra, senza possibilità di essere separata, alla fede e all’amore come realtà che non tramontano (1Cor 13,13) per dare senso pieno alla nostra vita, in ogni circostanza, nella certezza della vittoria del Cristo risorto. Non è la fede del presente che sostiene la speranza del futuro, ma è quest’ultima che dà contenuto e sostegno alla nostra certezza di oggi, dandole la capacità di aprirsi all’amore.

LA VITA OLTRE LA MORTE

Affrontiamo ora brevemente il problema della speranza cristiana nella prospettiva di quello che definiamo “la vita oltre la morte”. Notiamo che dalle pagine bibliche non emerge una indicazione univoca e completa su questo argomento tale da consentirci una sintesi logica definitiva. Non dimentichiamo che la visione del mondo descritta nella Bibbia è legata ad una cultura che non è più la nostra. L’immagine di un mondo a tre piani (cielo, terra, inferi) in cui collocare il paradiso e l’inferno (ed eventualmente il purgatorio, ad esclusione del limbo di cui saggiamente è stata dichiarata la non esistenza) non è più proponibile.Ci pare che la risposta più coerente si trovi ancora nella promessa della comunione con Dio. Già il Salmo 23 dice: “Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra e della morte io non temerei male alcuno perché tu sei con me” e l’apostolo Paolo conclude il bellissimo canto del capitolo VIII della lettera ai Romani dicendo: “Io sono persuaso che né morte, né vita, né cose presenti, né cose future, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore”. Noi non crediamo in una filosofia, in una costruzione immaginaria di tipo dantesco, né in una ipotesi o in una possibilità oggettiva. La nostra speranza non risiede in qualche cosa, ma in qualcuno: Cristo che ci accoglie nella comunione con Lui. La morte, l’ultimo nemico, come il peccato separa, divide, allontana da tutto e da tutti. La resurrezione ricompone, ristabilisce la comunione nell’amore di Dio. Il Cristo risorto appare ai suoi discepoli per ripristinare la comunione con loro che la morte aveva interrotto, ma non distrutto. Dice ancora Paolo: “Fratelli, non siate nell’ignoranza circa quelli che dormono (i morti) affinchè non siate contristati come quelli che non hanno speranza. Se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure quelli che si sono addormentati Dio, per mezzo di Gesù, li ricondurrà con lui: i morti

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in Cristo risusciteranno e così saremo sempre con il Signore. Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole” (1Tess 4,13-18 passim).

Il martire D. Bonhoeffer, pastore luterano, la domenica dopo Pasqua del 1945 celebrava con i carcerati il suo ultimo culto predicando sul testo della 1Pietro 1,3-5: “Benedetto sia l’Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale nella sua gran misericordia ci ha fatto rinascere mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti ad una speranza viva in vista di una eredità incorruttibile conservata nei cieli per voi”. Il giorno dopo morirà appeso ad un gancio nel campo di sterminio di Flossenburg. Le sue ultime parole sono state: “È la fine, ma per me comincia la vita”. Dopo mesi di crudele prigionia, anelando alla libertà, sentendo vicina la sua fine, aveva scritto: “Vieni ora, festa suprema della libertà, morte, rompi le gravose catene e le mura del nostro effimero corpo e della nostra anima accecata, perché finalmente vediamo ciò che qui non ci è concesso. Libertà, a lungo ti cercammo nella disciplina, nell’azione e nella sofferenza. Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio” (D. Bonhoeffer: Vorrei imparare a credere, Claudiana, Torino, 1996).

LA SPERANZA ESCATOLOGICA

III – L’ultima prospettiva della speranza cristiana si colloca alla fine dei tempi (escatologia). “Secondo la sua promessa noi attendiamo nuovi cieli e nuova terra nei quali abiti la giustizia” (2Pietro 3,13). È l’avvento conclusivo del Regno di Dio. Così all’universo, non destinato alla distruzione, sembra essere riservata una nuova nascita, un totale rinnovamento, una palingenesi. Non soltanto l’essere umano è chiamato alla salvezza, ma con lui tutta la natura. Se il peccato dell’uomo ha coinvolto tutto il suo ambiente naturale, così la sua redenzione sarà la redenzione del mondo. Anche “la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21).Il Regno di Dio non è identificabile con un luogo o una istituzione, ma definisce la sovranità di Cristo su tutte le cose: “Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è Signore alla gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).Il mondo, come l’avvento finale della piena sovranità di Cristo su tutte le cose viene presentato nei testi del Nuovo Testamento, riserva qualche sorpresa relativamente al modo con cui tale avvenimento è descritto. Il verbo “venire” si ritrova in quasi tutte le sue declinazioni: vieni!, viene, è venuto, verrà. Gesù annunzia il futuro Regno di Dio e ci invita a pregare: “Venga il tuo Regno” e intanto dice: “il Regno di Dio è dentro di voi o in mezzo a voi” (Lc 17,21; Mt 12,28). Dove Cristo è presente è presente pure il suo Regno. I teologi hanno felicemente escogitato una formula per esprimere questa tensione dialettica tra il “già” e il “non ancora”. Il Regno è già presente e operante attraverso segni non equivoci (Mt 11,2-6), ma la sua manifestazione finale è riservata agli ultimi tempi: è già compiuto, ma non ancora adempiuto.

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La vocazione dei credenti non è quella di attendere passivamente che “il Regno venga”, ma di annunciare la presenza della sovranità di Cristo nei confronti di tutti gli uomini e di tutto l’uomo come promessa di amore e di salvezza. Gesù predicava, insegnava, guariva, si rivolgeva cioè alla globalità della persona umana come spirito, mente e corpo. Il ravvedimento o la conversione determinata dalla vicinanza del Regno (Mt 3,2) non è un fatto puramente religioso né una adesione ad una istituzione ecclesiastica, ma il radicale cambiamento della vita (Rm 12,1-2).La sovranità del Cristo risorto, speranza per il mondo, deve essere annunciata con forza di convinzione, testimoniata con coerenza e resa credibile con azioni significative.

La Conferenza Ecumenica Europea di Basilea del 1989 ha dato chiare indicazioni riguardanti la vocazione della chiesa nel mondo su tre direttive: la pace, la giustizia e l’integrità del creato. Nel 1997 la stessa conferenza riunita a Graz affrontava il tema della riconciliazione come dono di Dio e sorgente di vita nuova. Riconciliazione non solo delle chiese, ma anche dei popoli tra di loro per garantire collaborazione e pace. L’Assemblea Generale della Alleanza Riformata Mondiale tenutasi ad Accra (Ghana) nel 2004 affrontava il tema: “Confessare la fede in Cristo di fronte all’ingiustizia economica e alla distruzione ecologica”. Sulla stessa linea si muovono numerosi pronunciamenti da parte delle chiese, singolarmente o in congressi ecumenici, compresi i numerosi interventi della sede papale, che hanno tutti sottolineato l’urgenza di interventi comuni tra le chiese per affrontare i problemi vitali dell’umanità e proclamare la sovranità di Cristo, promuovendo i segni concreti della pace, della giustizia, della condivisione equa e solidale di tutte le risorse che Dio ha dato all’umanità intera per la vita di ogni essere umano. Eliminando ogni pretesto per scatenare violenze, guerre o azioni terroristiche.L’amore di Dio, manifestato concretamente in Cristo e sparso nei nostri cuori per l’azione dello Spirito, diventa il segno di una speranza non ingannevole per il nostro mondo chiamato anch’esso alla libertà dei figli di Dio (Rm 5,1-11).

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Prof. PAOLO DE BENEDETTI

LA SPERANZA DI ISRAELE

Si potrebbe partire da un’idea di Martin Buber, autore di un libro che è stato pubblicato anche in italiano una ventina di anni fa (“Due tipi di fede”), in cui afferma che la fede ebraica (emuna) e la fede cristiana (pistis) sono diverse, con tutte le varianti, gli scambi ecc. ed esemplificava così: la fede ebraica è credere a, e la fede cristiana è credere in. Quindi la emuna è prestare ascolto a uno che parla (credo a Dio Padre onnipotente) e la pistis è la fede in una dottrina (credo in Dio Padre onnipotente). In altri termini la fede ebraica è un rapporto con la seconda persona (io credo a te), e la fede cristiana con una terza persona (credo in te). Questa concezione di Buber è stata discussa e non completamente condivisa da altri maestri, come Flusser.

PER GLI EBREI FEDE E SPERANZA SI IDENTIFICANO

Comunque è interessante per il nostro tema perché la fede come emuna (che ha la stessa radice di amen) in un certo senso ci mostra una quasi identità tra la fede e la speranza. Cioè se io credo a (alla Parola di Dio, a Dio che parla), io mi fido, mi affido e la speranza non è la stessa cosa ?

Si racconta che durante la shoah, nei campi di sterminio, molti ebrei, specialmente gli ebrei pii e mistici, entrando nella camera a gas, recitavano il dodicesimo dei 13 articoli di fede formulati da Mosè Maimonide nel XII secolo, che non sono articoli di fede nel senso cristiano, cioè verità assolute, ma sono il riassunto che questo grandissimo pensatore aveva fatto del pensiero ebraico. E loro dicevano: “Io credo con piena fede nella venuta del Messia e, anche se tarda, io credo”. Qui veramente sarebbe arduo distinguere tra fede e speranza (naturalmente, in coloro che entravano nelle camere a gas, era una speranza insieme escatologica e immediata). Al contrario,

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se dico io credo in Dio Padre onnipotente ecc. qui dentro non c’è nulla che ci possa far dire che è la stessa cosa che la speranza. La speranza ebraica coincide con l’attesa messianica. Allora la domanda che sorge spontaneamente è: quale Messia ? Quando il Messia ? È un tema che è stato trattato da molti pensatori perché questa attesa del Messia, che, come dicevo, coincide con la speranza, nel corso dei secoli ha avuto varie incarnazioni. Nell’ebraismo non ci sono dogmi nel senso cristiano, anche se, o forse proprio per questo, non ci sono praticamente eresie. Ma c’è una pluralità di interpretazioni che rappresenta la forza dell’ebraismo, mentre in certe epoche del Cristianesimo la pluralità delle interpretazioni è stata vista come un danno.

L’ATTESA DEL MESSIA

Qualche tempo fa avevo scritto qualcosa che doveva servire per un convegno e che adesso vi leggo. È intitolato: “Il Messia è ancora un nome per le nostre speranze ?” Avevo scritto: Della nostra epoca si può dire contemporaneamente che è molto religiosa o che non lo è più. In realtà i grandi temi religiosi si sono disciolti o insabbiati nelle più varie forme socio-culturali, psicologiche, pubblicitarie, politiche, ecc. che lasciano fuori le grandi istituzioni religiose tradizionali. E questo in un mondo che non attende più il Messia. La sua venuta per l’ebraismo o la seconda venuta per il cristianesimo produce l’effetto singolare di un moltiplicarsi di messianismi grandi e piccoli, individuali e collettivi, che forse più che l’attesa di una salvezza, di “nuovi cieli e nuova terra” esprimono la profonda insoddisfazione del presente.

Mi fermo un momento. È stato osservato che in genere nelle religioni antiche si parte da un’età dell’oro e si viene calando verso la storia e i guai della storia. Nell’ebraismo, e quindi anche nel cristianesimo, a prescindere dal poco tempo passato nel giardino dell’eden, l’età dell’oro è il punto di arrivo, non è il punto di partenza. Io spero che la storia (poiché l'ebraismo e il cristianesimo hanno scoperto Dio nella storia) culminerà nella venuta del Messia, nell’età messianica e nella vita del mondo che verrà. Bisogna dire che almeno nella storia recente ebrei e cristiani hanno aspettato pochissimo il Messia. Voi direte: ma il Messia cristiano è già venuto. Ma dobbiamo pensare alla cosiddetta seconda venuta. Tranne quei movimenti mistici, che io chiamerei addirittura fanatici, come quei mistici ebrei che vengono da un paese dell’Ucraina o della Bielorussia che si chiama Lubavitch ed hanno il loro centro a Brooklyn e che dilagano un po’ come i testimoni di Geova dappertutto. Vi dirò (apro una parentesi) che quando, circa dieci anni fa, morì il loro capo, pensavano che fosse il Messia e aspettavano che risorgesse.

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LA VENUTA DEL MESSIA

La venuta del Messia, ossia l’adempimento delle speranze, è intesa in due modi diversi: - verrà quando nessuno l’aspetterà più e quindi adesso si può essere ottimisti

perché, come dicevo prima, nessuno l’aspetta più. Oppure al contrario: - verrà quando ci sarà una forte attesa del Messia.

Ci sono dei maestri ebrei che hanno detto anche questo: potrebbe darsi che quando il Messia dei cristiani verrà per la seconda volta, quella sia anche la volta in cui questo stesso Messia viene per gli ebrei, quindi sia lo stesso che per i cristiani viene a compiere e per gli ebrei viene a colmare la speranza. Nel convegno ecumenico di Venezia del 1975 le grandi chiese cristiane avevano dichiarato che non bisogna convertire gli ebrei, perché i doni di Dio sono senza pentimento e la via di salvezza di Israele è tuttora e per sempre valida. Questo mistero, per cui coesistono due vie di salvezza, decise da Dio naturalmente, è stato accolto con favore dalle grandi chiese, ma ha anche scandalizzato le sette. Perciò, potremmo dire che l’attesa del Messia nell’ebraismo e nel cristianesimo ha per lo meno due maniere di rispondere alla speranza degli uomini: rispondere alla speranza degli ebrei e rispondere alla speranza dei cristiani.

TUTTO IL CREATO, NON SOLO L’UOMO, SPERA

Continuo a leggere. Che l’uomo occidentale abbia, come dice Michael Walter in un bellissimo libro che si intitola “Esodo e rivoluzione” (è un commento all’Esodo attualizzato), pubblicato da Feltrinelli una decina d’anni fa, che l’uomo occidentale abbia un DNA esodico, spiega questa insoddisfazione e questo molteplice e ansioso sguardo al futuro. È difficile udire nella foresta dei messianismi odierni qualche passo del Messia, accorgersi se sta venendo. Un grande pensatore ebreo livornese del sec. XIX aveva dichiarato: il Messia non è venuto e non verrà, sta venendo. Ma il nostro dovere, prima che di credenti, di uomini creati dalla storia, è tendere l’orecchio e, se possibile, preparare nel deserto la via di un vero Messia che, come insegnavano alcuni maestri chassidici, arriverà se io comincerò ad essere il Messia di me stesso, senza per questo privatizzare l’attesa di tutta la creazione che (Rm 8,22) “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto”. E qui vorrei insistere molto su questo versetto della lettera ai Romani che ha avuto uno stupendo commento da parte di Karl Barth, su questa attesa del Messia che significa sperare. E questa speranza, lo dice

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Paolo, e non solo Paolo, non è solo una faccenda di uomini, ma è tutto il creato che spera e geme. Lo dice Paolo, ma lo dice anche Barth nel suo commento. Dobbiamo cambiare la nostra idea di prossimo. Chi è il mio prossimo ? Il prossimo è colui con cui vengo in contatto o che viene in contatto con me. Io sono molto scettico verso quell’amore del prossimo che significa amare gli africani, amare gli australiani, ecc. È molto più vero l’amore del prossimo inteso come amore (in senso biblico) dei condòmini, amore dei colleghi. È più difficile. Però sarebbe molto deludente se la nostra speranza si limitasse a una questione di persone. Perché il mio prossimo, secondo il pensiero ebraico e secondo una lettura biblica, non è solo l’uomo ma è tutto il creato. E mi rifaccio a Genesi 9: l’alleanza che Dio ha fatto dopo il diluvio, chiamata in ebraico l’alleanza di Noè. “Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca” (Gen 9,8-10). Quest’alleanza risponde a quello che dice Karl Barth e che dice anche Calvino, che cioè l’uomo, se presta attenzione, vedrà infiniti occhi che guardano a lui, gli occhi delle creature non solo delle persone, gli occhi che guardano a lui come tramite della speranza che culmina nel Messia.

DIO HA BISOGNO DELLA NOSTRA SPERANZA

Sulla figura messianica si può dire qualche cosa. Potremmo dire che nella speranza messianica ci sono varie componenti: conservare la promessa, realizzarla. Ogni generazione deve ricominciare. E attendere anche quello che potremmo chiamare utopia, ma che non è un’utopia, l’adempimento finale. Non è un caso che il tempo esodico è un tempo senza ritorni per il fatto che il Messia, se non è venuto ancora o se è venuto e torna di nuovo, rappresenta in ogni caso un passo avanti, un adempimento non solo (ripeto ancora una volta) delle mie speranze consapevoli, ma anche delle speranze inconsapevoli. Per esempio, nella Bibbia, a un certo punto, in un salmo, si dice che gli alberi pregano Dio. Gli animali, gli alberi, la terra tutta prega Dio. E questa tensione verso il Messia significa la risposta di Dio, ma significa nello stesso tempo un’altra cosa: noi speriamo, ma Dio ha bisogno della nostra speranza, tant’è vero che, se noi cessiamo la speranza (e ripeto dobbiamo sperare anche per conto di coloro che non hanno voce: gli animali, le piante, la terra), Dio (uso delle espressioni un po’ ardite) non è in grado di venire. C’era un rabbino del II secolo che si chiamava Joshua Ben Levi, che un giorno incontra il profeta Elia (il profeta Elia è come S. Pietro nelle leggende medievali: va sempre in giro. Incontrare il profeta Elia non è un fatto miracoloso, può capitare a tutti) e gli dice: quando verrà il Messia ? Ed Elia gli dice: Vaglielo a chiedere. Ma come lo trovo ? E allora Elia gli dice: Guarda, è un lebbroso che, come tutti i lebbrosi, non può stare in città, deve stare fuori le mura a Roma con altri lebbrosi. E come lo distinguo ? Così: tutte le mattine i lebbrosi si sbendano, si medicano e si

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ribendano. Invece il Messia sbenda una piaga, la medica, e la ribenda, poi un’altra e così via, perché dice: se scocca la mia ora, non devo tardare. Lui va, lo trova, lo riconosce e gli dice: pace su di te, figlio di Davide quando verrai ? E il Messia dice: oggi. Lui torna a casa tutto beato e contento. Ma passano i giorni e non accade nulla. Quando incontra di nuovo Elia, gli dice: il Messia mi ha ingannato, perché mi ha detto oggi. Allora Elia risponde: sei un asino. Stava citando il salmo: Oggi se ascolterete la mia voce…Quindi c’è questa speranza che viene in modo messianico da Dio, ma ha bisogno di non essere dimenticata. Nel secolo XIX (positivismo, illluminismo, razionalismo) si era diffusa abbastanza l’idea che il Messia fosse un modo poetico, arcaico per indicare il progresso (vi ricordate l’inno a Satana di Carducci che faceva coincidere il progresso con la macchina a vapore ?) e quindi che il Messia fosse la personificazione di un’era di progresso, di benessere, di democrazia, e così via. Certamente questa convinzione era credere in un falso messia perché dobbiamo riconoscere che semmai il progresso è servito ad ammazzare più facilmente e in maggiore quantità gli ebrei. Perciò la spersonalizzazione del Messia equivale a una usurpazione della speranza da parte dell'homo faber. Oggi i mistici ebrei, soprattutto i chassidim, hanno di nuovo una profonda fede nella venuta del Messia ed hanno anche un appoggio potente nel fatto che la liturgia ebraica non ha mai cambiato la sua fede in un Messia personale: ogni giorno si prega per la venuta del Messia e non si è mai abbandonata questa preghiera. Nei midrash, nelle interpretazioni narrative non obbliganti ma molto utili, il Messia si è duplicato. Come se noi dicessimo: la speranza e il dolore (non dico la disperazione) sono legati per i capi. Lo diceva già Socrate. Tant’è vero che, in epoca post-biblica, l’attesa del Messia si è duplicata nell’attesa di due messia: il Messia figlio di Giuseppe che sarebbe venuto per essere ucciso da Armaduc (dai Romani) e il Messia figlio di Davide, che sarebbe venuto dopo la morte del Messia figlio di Giuseppe, e avrebbe trionfato. Qualcuno aggiungeva anche un Messia sacerdotale figlio di Aronne, ma sostanzialmente i due messia sono questi.

QUALI PROVE PRIMA DELLA VENUTA DEL MESSIA

L’attesa del Messia è una prova terribile per la speranza nel senso che prima della venuta del Messia succederanno le cose più terribili. Pensate all’Apocalisse. Tant’è vero che c’era un mistico di duecento anni fa che diceva: quando verrà il Messia, io spero di essere già morto, per non vedere quelli che si chiamano i dolori del parto. Ci sono stati anche dei mistici che hanno cercato di accelerare la venuta del Messia mediante quella che in ebraico si chiama kavannah, cioè l’intenzione, che è un pensiero molto bello anche dal punto di vista cristiano. Sia che mangiate sia che beviate… qualunque azione anche la più prosaica tu faccia, falla con un’intenzione, altra variante della speranza. C’era un maestro mistico polacco che si racconta che

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mangiava la sua minestra con grande intenzione per liberare la speranza che è in tutte le cose, anche nella minestra.E adesso, per concludere, salto molte cose che avrei voluto leggere e vi leggo invece una pagina della mishnà (la codificazione fatta intorno al 200 della nostra era della tradizione orale relativa ai precetti). Nel trattato Sotah al cap. 9 e ultimo si dice che cosa succede prima che venga il Messia, non semplicemente che cosa succederà, ma che cosa è già incominciato a succedere: “Da quando morirono Giosuè e… (sono due maestri dell’epoca della prima guerra giudaica del ‘70) cessarono i grappoli, conforme al testo che dice: non c’è più grappolo da mangiarsi; l’anima mia desidera ardentemente un frutto maturo. Da quando fu abolito il Sinedrio (nel 135) fu abolito il canto nei simposi, conforme al testo che dice: col canto non berranno più vino ecc. Da quando morirono i primi profeti cessarono gli oracoli. Da quando fu distrutto il tempio, cessarono gli esseri miracolosi che servivano alla manutenzione del tempio. Cessarono anche gli uomini di fede. Dal giorno in cui fu distrutto il tempio, non c’è giorno senza maledizione. La rugiada non scese più per benedizione e le frutta hanno perduto il loro gusto… Con la morte di… finirono i narratori. Con la morte di… (siamo nel II secolo della nostra era) finirono i devoti costanti. Con la morte di… finirono gli illustratori. Con la morte di rabbi… cessarono gli uomini devoti. Con la morte di… cessò lo splendore della scienza. Con la morte di... cessò l’onore della legge e svanirono la purità e l’astinenza…. Dal giorno in cui fu distrutto il tempio i dottori si avvilirono, mancando di maestri elementari. Il maestro ha il grado di sacrestani, i sacrestani quello di plebei e i plebei si vanno sempre più immiserendo e non c’è nessuno che si prenda a cuore e vada in cerca e dica a chi dobbiamo appoggiarci. Alla vigilia della venuta del Messia la spudoratezza crescerà, la carestia crescerà al massimo, la vite darà il suo frutto ma tuttavia il vino sarà scarso. I governi si volgeranno all’eresia, la Galilea sarà devastata, il Golan sarà desolato, i timorosi del peccato saranno disprezzati ecc. I vecchi dovranno sottostare all’autorità degli adolescenti, il figlio svillaneggerà il padre, la figlia si ribellerà alla madre, la nuora alla suocera. Saranno nemici dell’uomo le persone stesse di casa sua. La faccia delle persone di quell’epoca sarà come quella del cane. Il figlio non avrà pudore verso il padre. In chi dobbiamo noi cercare appoggio ? Nel padre nostro che è nei cieli”.Un rabbino diceva: “la diligenza porta all’innocenza, l’innocenza alla castità, la castità all’astinenza, l’astinenza alla purità, la purità all’umiltà, l’umiltà al timore del peccato, il timore del peccato alla pietà, la pietà conduce allo Spirito Santo e lo Spirito Santo ci rende degni della resurrezione dei morti, la quale resurrezione si compirà a mezzo di Elia. Sia egli ricordato per bene. Amen”.

Quindi vedete che l’attesa messianica è preceduta da quelle che abbiamo chiamato le doglie del parto, ossia questa concezione corrisponde a quello che avevo detto all’inizio: il Messia verrà quando nessuno lo aspetterà più. Ma, come vi avevo accennato prima, ci sono nel mondo alcuni giusti che impediscono che la speranza sparisca una volta per tutte. Però la speranza dei giusti è in un certo senso temuta dal

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Padre nostro che sta nei cieli perché ha il potere dell’adempimento, ha il potere di far giungere il Messia. Ecco perché alcuni giusti sono stati messi alla prova e addirittura fatti morire perché non realizzassero subito e oggi la venuta del Messia. Oggi diciamo con un animo ben diverso quello che dicevano gli ebrei nell’anticamera delle camere a gas: la speranza deve rimanere viva oltre la mia morte, anzi oltre la morte di tutti, e perciò aggiungiamo alla speranza e all’attesa messianica un terzo elemento che è assolutamente fondamentale: la resurrezione dei morti, quando veramente cesserà l’attesa e cesserà anche la speranza, ma solo per questo motivo: perché Dio sarà tutto in tutti.

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Prof. Don PIER MARIO FERRARI

EXTRA ECCLESIAM NULLA SALUS ?IL POSSIBILE EQUIVOCO DI UNA FORMULA

E IL RIPENSAMENTO MAGISTERIALE

1. Una storia controversa: l’assioma «esagerato».

Da tesi ecclesiologica a teorema escatologico. Gli antecedenti di questo storia controversa circa l’assioma risalgono ovviamente prima, ma è soprattutto appena dopo Clemente Alessandrino che si può doire che sia emersa una corrente di pensiero destinata a protrarsi nel tempo e caratterizzando l’assioma dell’estra ecclesiam nulla salus. Una tale formulazione non è priva di basi scritturistiche neotestamentarie, soprattutto là dove viene indicata la salvezza soltanto in Gesù Cristo (At 4,12), con la necessità della fede e del battesimo come prerogative: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16). Il ruolo della Chiesa, in tale contesto è esplicitato ma non in una formulazione costringente: fede e battesimo danno accesso alla salvezza, ma è indubbio che affermare la presenza dell’assioma nella sua formulazione esplicita è affettivamente ingiustificato.

1.1. L’assioma prima di Agostino

È possibile configurare una serie di interventi dei Padri della Chiesa che si impegnano nella determinazione dell’assioma medesimo, la cui configurazione, si evince, è di chiara marca ecclesiologica, cioè riguarda la natura stessa del rapporto del credente con la Chiesa, nella sua realtà visibile e sacramentale.Così Ignazio di Antiochia: la sottolineatura è sull’esigenza di unità all’interno della chiesa, attorno al vescovo, e questo è considerato requisito necessario per l’unione con Dio e con Cristo. Questo viene detto contro gli scismatici che rompono volontariamente tale loro appartenenza, e quindi, in tal modo, si separano colpevolmente dalla Chiesa.

Nella medesima linea anche S. Ireneo, la cui polemica è soprattutto contro gli gnostici, i quali si “separano” nella convinzione di possedere una conoscenza superiore e più “illuminata” rispetto agli altri, che li mette in grado di guadagnare più a fondo la vera sapienza. Ireneo ribadisce che, «dove è la chiesa, lì è anche lo Spirito

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di Dio, e dove è lo Spirito di Dio, lì è la Chiesa ed ogni grazia». E dove si può cogliere la vera sapienza “salutare”. Lo stesso Origene si muove nella medesima direzione, anche se la sua posizione risulta più complessa: la salvezza è data comunque soltanto nella Chiesa. Nelle Omelie su Giosuè, Origene scrive: «Nessuno perciò si illuda, nessuno inganni se stesso: fuori di questa casa, cioè fuori dalla Chiesa, nessuno si salva (extra hanc domum, id est extra ecclesiam nemo salvatur)». La salvezza è dunque certa e sicura soltanto per coloro che sono nella Chiesa, paragonata appunto all’arca della salvezza, la cui nozione viene estesa da Origene, commentando 1Cor 15,28, a tutto il genere umano, anzi addirittura alla totalità della creazione, considerata come “corpo” di Cristo. Ma è stato soprattutto S. Cipriano il primo vero architetto dell’assioma, il quale ricorre più volte nei suoi scritti, rivolto soprattutto nei confronti di coloro che si stavano separando dalla Chiesa. Lo stesso battesimo conferito fuori dalla Chiesa è senza valore e tutti coloro che non vorranno “obbedire ai vescovi e ai sacerdoti” non possono pensare di vivere cristianamente e di salvarsi, perché la “casa di Dio” è una sola e nessuno può salvarsi fuori da questa casa, che è la Chiesa. Comunque, in Cipriano, l’assioma non pare direttamente applicato ai pagani, anche se poi di fatto una tale estensione sussiste. Gli stessi S. Ambrogio , S. Gregorio di Nissa e S. Giovanni Crisostomo comunque ritengono che tutti ormai avevano potuto udire la chiamata alla fede, e quindi consapevolmente e colpevolmente si privavono del bene che potevano ricevere.

1.2. Da Agostino in poi.

S. Agostino non concorda con Cipriano sul fatto che il battesimo conferito da eretici e scismatici non sia valido. Concorda tuttavia con lui sul fatto che è inoperante ai fini della salvezza, in quanto coloro che si sono separati dalla chiesa, sono esclusi dalla salvezza, anche se sono battezzati. « Fuori dalla Chiesa può avere tutto, fuorché la salvezza. Può avere onore, può avere i sacramenti, può intonare l’alleluja, può cantare amen, può avere il vangelo, può possedere e predicare la fede nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, ma in nessun altro luogo può trovare la salvezza, se non nella Chiesa cattolica» (Sermo ad Caesarensis ecclesiae plebem). Anche se il dentro e il fuori dalla Chiesa in ultima istanza sta solo nella prescienza di Dio: « Vi sono alcuni di quelli (che saranno salvati) che attualmente vivono vite peccaminose o addirittura sguazzano nelle eresie o nelle superstizioni pagane, eppure, anche lì, “il Signore conosce chi sono i suoi”, perché nella sua ineffabile prescienza molti che sembrano essere fuori in realtà sono dentro, e molti che sembrano essere dentro in realtà sono fuori» (Esposizione sui Salmi).

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Anche se per Agostino quelle stesse tribù africane alle quali il vangelo non era ancora giunto, erano di fatto fuori dalla salvezza. Insomma: la volontà salvifica di Dio non pare dunque essere così universale, anzi sembra riguardare solo coloro che Dio ha liberamente destinato alla salvezza. L’assioma acquista così una incipiente interpretazione esclusivista, non più ecclesiologicamente determinata, ma escatologicamente estensiva. Contro il suo maestro, l’agostiniano Prospero di Aquitania sostiene che Dio desidera la salvezza di tutti gli esseri umani. Nell’opera La chiamata di tutte le nazioni egli sostiene che Cristo non è morto solo per i credenti, ma per tutti, peccatori compresi. Fulgenzio di Ruspe, anche lui vescovo nordafricano, ritorna invece ad Agostino: a coloro che ha negato la conoscenza, nega anche la salvezza, e questo viene esteso anche agli ebrei e ai pagani: costoro «andranno nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli»

1.3. Il magistero della Chiesa.

I punti di riferimento per i pronunciamenti magisteriali furono comunque sia Cipriano che Fulgenzio di Ruspe, nella loro determinazione £esclusivista” dell’assioma. Al riguardo si possono considerare quattro documenti:

a. la lettera di Papa Innocenzo III all’arcivescovo di Tarragona, 18 dicembre 1208. Questa comprende una professione di fede richiesta a Durando de Osca in ordine al suo ritorno dai valdesi alla chiesa romana, in cui l’esigenza di appartenere alla Chiesa, «santa romana cattolica e apostolica» è necessaria per ottenere la salvezza (si noti l’aggiunta della qualifica “romana” in ordine alla specificazione della stessa realtà ecclesiale).

b. Nel Concilio Lateranense IV (1215), concilio diretto contro i movimenti spiritualisti e antiecclesiali che riducevano la Chiesa a pura “congregatio fidelium”. Contro gli albigesi e i catari, il Concilio si appella invece alla comunità visibile , sacramentale ed eucaristica della stessa Chiesa, «fuori dalla quale nessuno assolutamente si salva» (derivazione addirittura letterale dalla Lettera a Giubaiano di Cipriano).

c. La bolla Unam sanctam di papa Bonifacio VIII del 18 novembre 1302, all’interno della controversia epocale circa le “due spade”, temporale e spirituale, dove la prioma deve essere sotto il controllo della seconda. In tale

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contesto, la bolla così si esprime: «…una sola Chiesa, santa, cattolica e questa stessa apostolica…al di fuori della quale non c’è salvezza né remissione dei peccati; (…) la sola e unica chiesa ha un solo capo, un solo corpo, non due teste come un mostro, e cioè Cristo e il vicario di Cristo, Pietro, e il successore di Pietro…E dichiariamo, affermiamo e stabiliamo che l’essere sottomessi al romano pontefice è per ogni creatura umana, necessario per la salvezza».

d. Decreto per i copti del Concilio generale di Firenze (4 febbraio 1442), concilio che tentò di realizzare, sotto la guida del papa Eugenio IV, la riunione fra Roma e le Chiese orientali. Concilio di “unione” che approvò appunto decreti di unione con le Chiese armena, greca e copta. Il Decreto per i copti ri prende comunque quasi alla lettera la rigidezza del Trattato sulla fede di Fulgenzio di Ruspe, insistendo sulla equazione separazione dalla Chiesa=separazione da Cristo, quindi non salvezza assoluta.

Va detto che una tale posizione “esclusivista” rimase praticamente in auge fino al 1854 con la allocuzione Singolari quidam dell’8 dicembre da parte del papa Pio IX.

1.4. Altre voci: avvisaglie costruttivo-dialogiche In tale panorama, come si è detto, praticamente “esclusivista” ecclesiologicamente, e , in estensione, “esclusivista” escatologicamente, altre voci, in verità, avevano colto e sottolineato sensibilità più problematiche e pure interrogativi più decisamente costruttivi, tali da proporsi come vere e proprie avvisaglie dialogiche in ordine alla questione sollevata. Si tratta di considerarne alcuni tra i più significativi

a. Una lettera di papa Gregorio VII al re musulmano Anzir di Mauritania. Dopo i ringraziamenti per i doni ricevuti, il papa così si esprime: «Dio, il creatore di tutto, senza cui non possiamo fare e nemmeno pensare qualcosa di buono, ha ispirato questo atto di gentilezza al tuo cuore…Iddio onnipotente il quale desidera che tutti siano salvati e che nessuno perisca (1 Tim 2,4), si compiace di approvare in noi soprattutto che, oltre ad amare lui, amiamo gli altri, e non facciamo loro nulla che essi non vogliano sia fatto loro.Noi e voi dobbiamo mostrare in modo del tutto speciale alle altre nazioni un esempio di questa carità, poiché crediamo e confessiamo un solo Dio sebbene in modi differenti, e lo lodiamo e adoriamo quotidianamente quale creatore di tutte le epoche e sovrano di questo mondo; …Dio sa che noi ti amiamo puramente per il suo onore e che desideriamo la tua salvezza e gloria, sia nella vita presente che in quella futura.

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E preghiamo nei nostri cuori e con le nostre labbra che Dio possa condurti alla dimora della felicità, in seno ad Abramo, dopo lunghi anni di vita su questa terra».

b. Interessante pure la prospettiva di Pietro Abelardo, una delle menti più speculative del Medioevo, di cui occorre considerare un breve scritto intitolato Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, in cui Abelardo racconta di un sogno da lui fatto ove avviene un confronto dialogico tra un filosofo, un ebreo e un cristiano, anche se poi il testo non propone alcun confronto tra l’ebreo e il cristiano. Vi si parla di Dio che ascolta le preghiere degli “stranieri”, si parla pure dei “santi pagani”, e dove di fatto il filosofo contesta la rigidità dell’assioma nella sua versione esclusivista.

c. Sulla stessa linea il testo di Ramon Lullo (terziario francescano, sbarcò a Tunisi per evangelizzare i musulmani, finì in prigione, e venne alla fine lapidato) Libro del gentile e dei tre savi, teso alla ricerca, con cortesia e gentilezza, dell’unica religione, come ideale della pace e dell’unità umana, la quale, se autentica, riflette l’unità divina, eliminando ogni “differenza e opposizione” e distribuendo solo concordia.. Infatti, uno dei savi si domanda: «Non potremmo forse discutere ogni giorno…-rispettando sempre le norme che ci ha dato Madonna Intelligenza? Sino a che noi tutti giungessimo a non avere che una stessa legge e una stessa fede? E non potremmo forse ingegnarci a renderci ogni onore e servizio, al fine di giungere a un accordo?»

d. Tuttavia il testo più importante, ma anche il più controverso, è La pace della fede di Nicolò Cusano, pubblicato nel 1454, dodici anni dopo il Decreto fiorentino per i copti. Pubblicato un anno dopo la caduta di Costantinopoli da parte dei Turchi, evento che sconvolse l’allora cristianità occidentale, Cusano, vescovo di Bressanone e cardinale (era stato inviato dal papa Nicola V per invitare gli orientali al Concilio di Firenze), immagina anche lui un sogno, in cui le differenze religiose (causa dei vari odi) possano essere eliminate soltanto convocando una conferenza in cui alcuni esperti cercano un accordo tra le religioni al fine di assicurare la pace. I rappresentanti devono discutere le loro differenze alla presenza di Cristo, di Pietro e di Paolo. Al termine San Paolo comunica le decisione che ai vari popoli è permesso conservare «le loro proprie devozioni e cerimonie, purchè sia salva la fede e la pace». (Una religio in rituum varietate).Il dialogo si conclude con Dio che esorta i rappresentanti delle varie nazioni a ritornare sulla terra e a condurre i loro popoli al vero culto divino, dopo di che si incontreranno di nuovo a Gerusalemme per professare l’unica fede, che è allo stesso tempo monoteistica, trinitaria e cristologica. La “ratio” ultima di tutto questo è che Dio, in se stesso, rimane ignoto, inafferrabile: tutte le religioni ne riflettono imperfettamente la trascendenza, perché nessuna di esse possiede la verità assoluta, anche se il cristianesimo è quella che più si avvicina.

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(Il testo ha suscitato reazioni diverse e contrastanti: per De Lubac si tratta semplicemente di un sogno e di un’utopia irreale; Von Balthasar, addirittura, parlò di un tentativo avventuroso, quasi da mettere all’indice).

2. L’assioma «moderato»: teologia dei «surrogati» salvifici.

La scoperta del “nuovo mondo” rimette in gioco non solo i confini stabiliti della conoscenza umana rispetto alle nuove dimensioni geografiche, ma produce anche una riconversione sul sapere antropologico, e di conseguenza getta nuovi interrogativi sulla stessa determinazione teologica in ordine al problema della salvezza. Il problema suscitato da questi “altri”, genera un senso nuovo ed inaspettato circa l’esplicitazione esclusivista dell’assioma, ed inaugura di fatto una rilettura dello stesso in termini di “moderazione” teologica ed escatologica. Su questo soprattutto va considerata la produzione teologica della Scuola domenicana di Salamanca e quella operata dai gesuiti del Collegio Romano. Questa nuova disposizione, interrogativa e deliberativa, avviene nel segno della cosiddetta “teologia dei surrogati” della fede in Gesù Cristo e dell’appartenenza alla Chiesa. I termini del problema sono comunque pur sempre impostati attorno a questo nodo: da un lato l’universalità della volontà salvifica di Dio (consapevolezza, comunque, non sempre linearmente maturata), dall’altro l’esigenza di una “particolarità” (la Chiesa) necessaria per la stessa salvezza.. In questa direzione si tratta, data la novità della situazione epocale, di rendere ragione di possibilità diverse in ordine alla stretta necessità ecclesiale circa la salvezza, e rutto questo produce, appunto, una notevole moderazione dell’assioma, e una sua pratica surrogazione. La “teologia dei surrogati” è così descrivibile nei suoi elementi portanti e nelle sue diverse configurazioni:

a. la teoria del “limbo”: venne riproposta e formalizzata agli inizi del XX secolo dal Card. Billot, e applicata a quel gran numero di infedeli vissuti dopo Cristo, giudicati privi di quei requisiti necessari in grado di restituire loro una autentica decisione morale, e quindi, di fatto, assimilabili ai bambini (“limbo puerorum”), in quanto adulti per età, ma non certo per coscienza morale e capacità decisionale.

b. Il “battesimo di desiderio”, sia esplicito che implicito, quale causa di giustificazione in ordine alla salvezza (già le tesi della Scuola Romana del Bellarmino e del de Lugo). Tesi comunque già indicata da S. Tommaso: a chi fa ciò che è in suo potere Dio non nega la grazia (“facenti quod in se est Deus non denegat gratiam”).

c. La teologia della morte come compimento e decisione ultima: la tesi troverà poi in K. Rahner una formulazione più compiuta (all’interno, però, già di una “teologia del compimento”), in quanto il decidersi estremo di una vita è in grado di “compiere” ciò che la stessa ha atteso e sperato, magari anonimamente.

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d. Per quanto, invece, le posizioni magisteriali al riguardo: si va dalle condanne delle posizioni rigoriste di stampo giansenista (cfr. la Unigenitus Dei Filius del 1713 da parte del papa Clemente XI, dove viene giudicata erronea la proposizione del Quesnel “al di fuori della Chiesa non è concessa nessuna grazia”), alle condanne dell’indifferentismo (la Ubi primum di Leone XII del 1824 e la Mirari nos arbitramur di Gregorio XVI, contro le dottrine “liberali” del francese de Lamennais), soprattutto con la Qui pluribus di Pio IX del 1846. L’indifferentismo fra le varie religioni viene descritto come «quel sistema orribile e contrario alla ragione» che si inventa che la “salute eterna” possa essere conseguita “con qualsiasi religione”. L’allocuzione Singolari quadam (1854) è il primo documento che parla dell’invincibile ignoranza dalla quale le persone che non abbracciano il Cristianesimo possono essere soggettivamente scusate.L’atto finale della “moderazione”, che mette praticamente fine a ogni interpretazione esclusivista è il documento del S. Uffizio come lettera all’Arcivescovo di Boston in cui viene condannata la posizione del gesuita Leonard Feeney (1949), il quale era tornato alla rigida interpretazione “esclusivista” dell’assioma. La lettera spiega che la necessità di appartenere alla Chiesa per la salvezza è una necessità di mezzo e non soltanto di precetto. Purchè sia in relazione con la Chiesa nel desiderio/anelito, anche implicito, e purchè tale desiderio sia informato dalla fede e dall’amore soprannaturale, è possibile essere salvati. Viene detto nella lettera:«…questo dogma (cioè l’assioma) deve essere compreso nel senso in cui lo comprende la stessa chiesa…gli effetti necessari alla salvezza, possono essere ottenuti anche dove siano applicati soltanto con il voto o il desiderio.(…) Perché non si richiede sempre, affinché uno ottenga l’eterna salvezza, che sia realmente incorporato come membro nella chiesa, ma questo almeno è richiesto, che egli aderisca alla stessa con il voto e il desiderio. Questo voto, poi, non è necessario che sia sempre esplicito…». Anche se, ovviamente, non si può trattare di un “voto” qualsiasi, ma deve essere modellato mediante “la perfetta carità”.

3. Lo spartiacque del Vaticano II: fu vera svolta?

3.1. Le religioni come “addentellati” del cristianesimo. Teologia del “compimento”.

La genesi di questa teoria teologica, che divenne ben presto una sorta di tendenza generale, è soprattutto indiana: nel Cristianesimo trovano compimento, in modo imprevisto e insperato, le più profonde aspirazioni umane incorporate nelle altre religioni.

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Questa tesi venne ripresa dalla stessa teologia occidentale, soprattutto da teologi come Jean Danielou, Henry de Lubac, Hans Urs von Balthasar e altri ancora. Per Jean Danielou tutto ciò che precede la manifestazione personale di Dio nella storia può essere solo definito come pre-istoria della salvezza, termine applicabile a qualsiasi esperienza religiosa che si trovi al di fuori della tradizione ebraica-cristiana. Le religioni non cristiane appartengono tutte all’ordine della ragione naturale, mentre la rivelazione ebraico-cristiana a quello della fede soprannaturale. Le religioni del mondo, così come le conosciamo storicamente, sono intreccio strutturale di verità e falsità, di luce e tenebre, e appartengono all’ordine della religione cosmica. In se stesse prive di valore salvifico, sono per lo più diventate doppiamente anacronistiche, in quanto dapprima superate dall’ebraismo, e poi, definitivamente dall’evento Cristo. Esse sono, quindi, religioni invecchiate, e il loro è una sorta di “peccato di persistenza” (tesi, queste, che ebbero molta risonanza, tale addirittura da far parlare di una “tendenza Danielou”). Da parte sua Henry de Lubac, fin dal suo classico studio sul Cattolicesimo, aveva scritto, sulla scorta di Ireneo, dell’assoluta novità rappresentata dal cristianesimo nella storia religiosa dell’umanità. Anche qui il discrimine è fra natura e soprannatura: nelle religioni naturali contengono contemporaneamente sia “semi del Verbo”, tracce di Dio ma anche tracce di peccato. Lo stesso von Balthasar pone come fondamentale la distinzione/opposizione tra religioni orientali e religioni di rivelazione. Certamente in tutte le religioni è presente un elemento comune, identificabile come il dinamismo dell’autotrascendenza, che cerca quell’oltre spesso difficile da trovare e da identificare. Ma lo sforzo orientale, in tale direzione, secondo von Balthasar è vano ed è a scacco, perché rischiosamente ancora legato a forme non del tutto idonee a istruire una vera trascendenza. Questa, invece, si ottiene, solamente come dono di Dio che è amore, nella giustizia e nella verità del suo non ingannevole donarsi.

3.2. La presenza del mistero di Cristo nelle tradizioni religiose “altre”: salvezza non “nonostante”, ma “attraverso”. Si tratta di una proposta teologica obiettivamente diversa dalla teologia degli”addentellati”. Ci si rifiuta di separare la natura dalla grazia, di opporle, per cui anche gli “altri” sono salvati da Cristo non a dispetto della loro adesione religiosa e della loro pratica sincera, bensì proprio attraverso quell’adesione e quella pratica. Vi è dunque salvezza senza il Vangelo, anche se mai una salvezza senza Cristo?(questo modello, detto del “compimento”, verrà trattato più avanti, in quanto la medesima formulazione originaria dello stesso, quella operata da Rahner, ha dato immediatamente luogo a discussioni e interpretazioni diverse).

3.3. Il contributo conciliare o dell’ottimismo dialogico.

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Il documento Nostra aetate fu una acquisizione tardiva dei lavori conciliari, in quanto inizialmente il Concilio aveva inteso, al riguardo, unicamente aggiungere al decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio” una dichiarazione che contribuisse a instaurare un nuovo clima, più favorevole, alle relazioni assai tese tra cristiani ed ebrei. Fu la richiesta di alcuni vescovi a far allargare il campo fino ad includere altre religioni. Va poi tenuto conto del clima complessivamente “ecumenico” che informava il momento conciliare, anche se questo non verrà formalizzato. Ma diversi documenti conciliari, non solo “Unitatis redintegratio”, vanno proprio letti e compresi in questo clima (si ricordi solo l’importanza del “subsistit in “ di LG, della sua novità teologica e delle discussioni interpretative che poi continuò a suscitare ), che sollecitò tutta una sorta di “enfasi” ecumenica e di ottimismo dialogico. Non mancano ovviamente difformità di impostazione, ad esempio in LG 16 e NA 2-4 le relazioni della Chiesa con le altre religioni sono esposte in ordine inverso: LG pone prima gli ebrei, poi i musulmani, poi coloro che «cercano un Dio ignoto nelle ombre e nelle immagini, poiché Egli dà a tutti vita e respiro e ogni cosa» (LG 16). In NA l’ordine è rovesciato: prima la religiosità umana in generale, poi le religioni “connesse col progresso della cultura”, come induismo, buddismo e altre, quindi l’islam e infine la religione ebraica (NA 4). Va comunque notato che l’intento di NA non è quello di stilare una graduatoria di merito, quanto invece di esortare ciascuna a superare le secolari divisioni e a promuovere relazioni amichevoli.

Va comunque sottolineato il clima generale in cui queste tesi vengono collocate e auspicate, clima che si può a buon diritto definire di “ottimismo culturale” con cui il Vaticano II guarda al “mondo” (cfr. Gaudium et spes). All’interno di questo si può allora comprendere quell’Heilsoptimismus con cui si guarda alla salvezza degli “altri”: ciò che prima costituiva una possibilità, adesso diventa quasi certezza, come si dice al n° 22 della Gaudium et spes: «E ciò non vale solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti…perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale».

Occorrerebbe, al riguardo, tenere presente i seguenti testi: LG 16-17; NA e Ad Gentes 3, 9, 11. Si potrà vedere l’emergere di tre temi fondamentali:- la salvezza di coloro che sono fuori dalla Chiesa;- i valori autentici rinvenibili nei non cristiani e nelle loro tradizioni religiose;- l’apprezzamento di questi valori da parte della Chiesa. «La Chiesa cattolica nulla

rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero

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rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (NA 2).

Va comunque rilevato, in conclusione, che diverse sono state le sensibilità interpretative attorno al contributo del Vaticano II in ordine a tale tematica. Se i motivi di pregio e di svolta si possono immaginare e sottoscrivere, alcuni hanno tuttavia messo in luce alcuni possibili limiti della conduzione teologica complessiva, i quali, senza nulla diminuire i risultati raggiunti, possono costituire degli incentivi per una maturazione ancora più profonda. Di fatto si è fatto notare, nel dibattito post-conciliare, quanto segue:- continuità con la teologia del “compimento”;- rimane ancora indeterminata la qualità propriamente teologica delle religioni non

cristiane: sono in sé salvifiche o no?- si parla di una prospettiva ancora troppo ecclesiocentrica: i rapporti sono ancora

tra “religioni” e “Chiesa” e con la pienezza dei beni da essa posseduta (anche se, per la verità, Unitatis redintegratio, a livello ecumenico, sviluppa al riguardo un tema più cristocentrico per quanto attiene i “bona” posseduti dalle varie chiese)

3.4. Il magistero post-conciliare Al riguardo va innanzitutto menzionata l’Enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (6 agosto 1964), ove si può cogliere la messa a tema del dialogo come struttura non transeunte dal punto di vista ecclesiale: la struttura del dialogo si allarga partendo dall’interno della stessa Chiesa (dialogo tra cattolici), per estendersi agli “altri” con gradualità di ampiezza (con i “non cattolici”, con i non cristiani, con i non credenti). Anche se l’enciclica ribadisce l’esclusività del cristianesimo in ordine alla possibile salvezza. Un altro documento da prendere in considerazione è l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi dell’8 dicembre 1975, la quale fece seguito al Sinodo dei Vescovi sull’evangelizzazione del mondo contemporaneo del 1974. Al Sinodo ci fu il lungimirante intervento dei Vescovi dell’Asia al riguardo, soprattutto la presa di posizione dell’arcivescovo di Nuova Delhi, Angelo Fernandes: il Signore risorto è presente e operante, mediante i suo Spirito anche nelle altre espressioni religiose, anche se questo non mette affatto a repentaglio l’unicità del Cristo e del suo messaggio salvifico. Per quanto attiene il pontificato di Giovanni Paolo II, sinteticamente va sottolineato quanto segue:- intanto l’enfasi pneumatologica circa la questione in gioco, che non va comunque

a detrimento del lato cristologico;

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- la Redemptor hominis del 4 marzo 1979: la presenza dello Spirito di verità nei non cristiani;

- Messaggio agli abitanti dell’Asia (Discorso di Manila del 21 febbraio 1991): «Ciò che sembra accomunare e unire insieme, in modo particolare, cristiani e credenti di altre religioni, è il riconoscimento della necessità della preghiera come espressione della spiritualità dell’uomo orientata verso l’Assoluto. Anche quando, per qualcuno, è il Grande Sconosciuto, egli rimane sempre tuttavia in realtà lo stesso Dio vivente. Nutriamo fiducia che dovunque lo spirito umano si apre in preghiera a questo Dio Sconosciuto, sarà percepita un’eco di quello stesso Spirito… L’intercessione dello Spirito di Dio che prega in noi è per noi frutto del mistero della redenzione operata da Cristo…».

- Discorso ai membri della Curia Romana del 22 dicembre 1996 dedicato all’evento della Giornata mondiale di preghiera per la pace che si era tenuta ad Assisi il 27 ottobre precedente. Vengono soprattutto sottolineati questi aspetti:a. l’evento di Assisi va compreso come prolungamento e applicazione degli

insegnamenti del Vaticano II, e ne vengono indicati i fondamenti teologici;b. il “mistero di unità” che unisce tutti i popoli, più forte delle differenze

sussistenti;c. ad Assisi c’è stata una «manifestazione mirabile di quella unità che ci collega

al di là delle differenze e divisioni a tutti ben note».

- il testo più esplicito è però la Dominum et vivificantem del 18 maggio 1986: «…non è possibile limitarsi ai duemila anni trascorsi dalla nascita di Cristo. Bisogna risalire indietro, abbracciare tutta l’azione dello Spirito Santo anche prima di Cristo sin dal principio, in tutto il mondo…La grazia porta in sé una caratteristica cristologica e pneumatologica. (…)Ma dobbiamo anche guardare più ampiamente e andare al largo, sapendo che il “vento soffia dove vuole” (Gv 3,8). Il Concilio Vaticano II…ci ricorda l’azione dello Spirito anche al di fuori del corpo visibile della Chiesa».

- Redemptoris missio del 7 dicembre 1990: il testo ricorda la mediazione unica e universale di Cristo e la possibilità, nell’ordine della salvezza, di “mediazioni partecipate di vario tipo”.

- Si ricordi pure la Lettera apostolica Terbio millennio adveniente del 10 novembre 1994.

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Da ultimo va menzionato il documento Dialogo e annuncio: riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo (19 maggio 1991) a cura del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Soprattutto vanno ricordati i nn° 14-32 dedicato a Un approccio cristiano alle tradizioni religiose, dove si nota un capoverso importante:«…gli altri sono ignari che Gesù Cristo è la fonte della loro salvezza. Il mistero di salvezza li raggiunge per vie conosciute da Dio, grazie all’azione invisibile dello Spirito di Cristo. È attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all’invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come il loro Salvatore».

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PIER MARIO FERRARI

LA PROVOCAZIONE DEL PLURALISMO RELIGIOSO

IL DIBATTITO TELOGICO IN CORSO

1. Premessa

Si tratta di un dibattito oggi cruciale per la teologia e le teologie, tipicamente trasversale per quanto attiene le varie appartenenze confessionali. Va pure aggiunto che, a questo livello, si rimettono in gioco i punti decisivi del pensare teologico, come le stesse verità cristologiche e trinitarie. Va detto che lo status quaestionis attuale, sinteticamente, si aggira ancora attorno a un duplice mutamento di paradigma che si è verificato:- da una visione ecclesiocentrica a una visione cristocentrica;- da una visione cristocentrica a una visione teocentrica, la quale poi si arricchisce

di ulteriori determinazioni, ancora più radicali, come quella soteriocentrica e realtocentrica.

Da questo mutamento di paradigma, emergevano ulteriormente tutta una serie di conseguenze e di determinazioni teologiche:- un universo ecclesiocentrico con una cristologia esclusiva;- un universo cristocentrico e una cristologia inclusiva;- un universo geocentrico, il quale dà luogo da un lato a una cristologia normativa

(non superabile e costitutiva) oppure a una cristologia non normativa (di fatto regolativi e parzialmente superabile).

Questa era di fatto la classificazione già operata da J. P. Schineller nel 1976 e poi accettata e mantenuta anche sotto diverse formulazioni. Al riguardo, personalmente, proporrei una più recente suddivisione tipologica, quella suggerita da P. Knitter nel suo testo Introduzione alle teologie delle religioni (Queriniana Brescia 2005) che riprende tesi già peraltro esposte dall’autore stesso, ma che in tale contesto vengono distribuite in modo didatticamente più efficace. Ovviamente la classificazione proposta non è esente da possibili restrizioni e

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parzialità ma, ripeto, forse è la più efficace dal punto di vista di una esposizione riassuntiva per quanto concerne il tema in discussione. Vengono proposti quattro modelli fondamentali in ordine al dibattito sulle religioni oggi:

1. il modello della sostituzione (“una sola religione vera”).2. il modello del compimento (“l’Uno dà compimento ai molti”).3. il modello della reciprocità (“molte religioni vere chiamate al dialogo”).4. il modello dell’accettazione (“molte religioni vere e così sia”).

2. Il modello della “sostituzione”: «una sola religione vera». 2.1. Sostituzione “totale”: la “santa competizione”:Si tratta del modello tipicamente fondamentalista, di marca soprattutto evangelicale, ma trasversale come convinzioni e stati d’animo, con diramazioni pentecostali e anche del cosiddetto “risveglio” cristiano (soprattutto i cosiddetti “cristiani rinati” in Usa, un “mix” confessionale trasversalmente distribuito). Le basi teologiche vengono riprese, con una qualità di pensiero ovviamente più riabbassata, dalle tesi esposte da Karl Barth, che non era certo un fondamentalista, ma che decretò un implacabile verdetto negativo sulla religione e quindi sulle religioni, almeno nella sua prima fase di riflessione teologica. Sinteticamente, è possibile riproporle con quattro “soltanto”, con cui Barth identifica la “buona notizia” del Nuovo Testamento:- siamo salvati soltanto dalla grazia: gli esseri umani da soli non riescono a mettere

in scena il loro dramma; con Dio sì, ma bisogna che Dio sia Dio, e non un terminale dei desideri umani o delle loro auspicate sicurezze. A Dio va riconosciuto il potere più alto, nella più pura gratuità del suo agire.

- siamo salvati soltanto dalla fede: cioè non dalle nostre opere, seppur sacre e nobili (o peggio dai nostri “affaires” religiosi); si tratta di riconoscere la nostra incapacità e “lasciar fare” a Dio.

- siamo salvati soltanto da Cristo: solo in Cristo Dio ha rivelato la vera natura delle cose; i nostri tentativi , per lo più, rischiano di “sgraziare” la grazia, accorpandola alle nostre presunzioni salvifiche.

- Siamo salvati soltanto dalla Scrittura: è nella Bibbia che ci è offerta la rivelazione di tutto quello che è essenziale e necessario alla salvezza, e nessuna nostra esperienza, neanche la più alta, è in grado di pareggiare l’offerta del dato scritturistico.

Sulla base di questo impianto, Barth formulò il celebre verdetto sulla religione: «la religione è incredulità…Dal punto di vista della rivelazione, la religione è vista chiaramente come un tentativo umano di anticipare ciò che Dio nella sua rivelazione vuole fare e fa. È la tentata sostituzione dell’opera divina con un manufatto umano».

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La religione, insomma, è l’opposto di quel che sembra: è proprio una creazione umana più che divina. Per cui tutte le religioni si equivalgono, sono di fatto la stessa cosa, ma non perché tutte rivelino il divino, ma proprio perché lo nascondono. Barth, pertanto, ammoniva a non fare confronti fra il cristianesimo e le altre religioni, non perché il primo fosse superiore, ma perché non ci sono differenze da confrontare. Questo, paradossalmente, perché il Cristianesimo sa di essere religione vera proprio perché sa di essere religione falsa, perché sa che ogni religione è falsa: la verità che il cristianesimo possiede è quella di essere salvata per mezzo di Gesù Cristo. Certamente Barth richiamava i cristiani al rispetto della buona volontà, sincerità ecc. degli altri credenti, ma nessuna possibilità di dialogo è realizzabile ed è inutile cercare punti di contatto che non possono esistere (questo, come detto, è soprattutto il “primo” Barth, perché, in seguito, egli giunse a parlare di “altre parole e altre luci” al di fuori delle mura della Chiesa). A partire da queste tesi è possibile comprendere l’ applicazione evangelicale-fondamentalista, la quale ha approfondito la derivazione barthiana impegnandosi addirittura nella ricerca anche delle motivazioni filosofiche e razionali al fine di dimostrare l’esclusività della verità e della grazia di Gesù. Su questo soprattutto l’opera e la ricerca di Harold Netland. Ciò che ne consegue è una sorta di “santa competizione” fra le religioni, sullo stile però del “mondo degli affari” come avviene spesso nel lancio di prodotti commerciali. Con tutta la convinzione, spesso più psicologica che teologica, della superiorità del proprio prodotto rispetto a quello degli altri, della convenienza di acquisirlo per ottenere il beneficio salutare.

2.2. Sostituzione «parziale»Si tratta della moderazione della tesi fondamentalista di base, con l’ammissione che una rivelazione genuina di Dio sia possibile anche all’interno delle altri religioni, attenuando così la competizione “santa” tra le religioni. Dio parla anche attraverso altre fedi, ma questo non significa certo ammettere possibilità autentiche di salvezza. La salvezza è solo da Cristo, la cui necessità è addirittura proclamata a livello ontologico, come afferma Carl Braaten, teologo luterano: Cristo non è solamente espressivo di una salvezza ugualmente disponibile nella pluralità delle religioni. Ammettere altri Salvatori è contraddire fondamentalmente lo stesso Gesù Cristo. Bisogna entrare, comunque, in qualche modo, in contatto con Cristo per salvarsi. Le altre fedi, alla fine, cercano solo di salvare se stesse, in un modo o nell’altro, cercando da sole la propria sicurezza esistenziale. Gli evangelicali sarebbero dunque d’accordo con l’immagine dell’India e degli indù offerta da Stanley Jones: l’India è la “terra del quasi” e solo Gesù Cristo è in grado di portare a compimento quel “quasi”.

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3. Il modello del «compimento»: «l’Uno dà compimento ai molti». Rappresenta gli insegnamenti delle Chiese “tradizionali”, cattolica, luterana, riformata, metodista, anglicana ecc. La matrice teologica di fondo la si può far risalire a Karl Rahner, la cui tesi si può sintetizzare nei seguenti punti:

- la tesi dell’esistenziale soprannaturale: noi sentiamo di più della nostra natura umana, sentiamo la nostra natura come graziata, molto di più di quel che pensiamo di essere; questo Rahner lo svolge con il concetto di “Vorgriff”, cioè di “anticipazione”, indicando così qualcosa di profondamente intrinseco alla nostra natura umana. Ciò significa “tendere a qualcosa di più” rispetto a ciò che immediatamente sentiamo e sperimentiamo, come nell’amore sentiamo lo “strattone” di un Amore più grande.

- La grazia è incorporata: la presenza di Dio deve assumere qualche tipo di forma materiale. È proprio nelle religioni che gli esseri umani portano avanti la loro ricerca di un significato profondo, gli sforzi per raggiungere quel “di più”. Se i cristiani hanno bisogno di sacramenti, così anche i buddisti o gli induisti ne sentono la necessità, nel senso di una incorporazione della “grazia” divina secondo le loro determinazioni religiose. Quindi le religioni possono essere vie di salvezza, «un mezzo positivo per guadagnare la giusta relazione con Dio » e dunque conseguire la salvezza. Sono salvati, non a dispetto, ma a causa del loro buddismo, induismo ecc.

- A essere precisi, bisognerebbe dire, che possono essere salvati. Da qui la controversa tesi del cristianesimo anonimo, vissuto dai membri delle altre tradizioni religiose nella pratica sincera delle loro proprie tradizioni: la salvezza cristiana li raggiunge, anonimamente, attraverso tali tradizioni. Il cristiano anonimo è un cristiano inconsapevole, perché rimane comunque frammentaria, incompleta, mutilata la propria appartenenza, con dinamiche tuttavia che lo spronano ad aderire al Cristianesimo.

Queste tesi rahneriane, opportunamente approfondite dallo stesso autore, sono state riprese a diversi livelli, non senza sviluppi problematici in ordine alle questioni trattate. Un primo esempio lo si ha in Gavin D’Costa, il quale mette comunque in luce i pericolosi eccessi delle tesi cosiddette “pluraliste”, nella convinzione che sia importante attingere soprattutto al ricco potenziale dialogico della tradizione teologica. In particolare, a suo parere, occorre riproporre la questione a partire dal “fuoco trinitario”, in special modo recuperando la realtà pneumatologica dello Spirito Santo. Se si guarda agli altri dalla prospettiva dello Spirito Santo, i cristiani guadagnano la consapevolezza che la realtà del Divino non può essere contenuta esclusivamente nella attività del Creatore-Genitore o del Salvatore-Redentore (il Verbo), ma che il Divino è anche Spirito presente anche nelle altre esperienze religiose. Questo però va precisato nei suoi termini autentici: se lo Spirito va al di là

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di Gesù, lo fa solo in estensione, non certamente in contenuto, che rimane confermato nella sua realtà cristocentrica. Più articolata e complessa la posizione di Jacques Dupuis, secondo il quale le tesi teologiche degli “addentellati” e pure del “compimento” hanno prodotto tre risultati infelici:

- assegnano dei limiti a ciò che Dio può compiere nelle altre religioni;- il rischio di rendere la Chiesa più importante di Dio e dello stesso Cristo;- diventano di fatto ostacolo a un dialogo vero e reale, perché non rendono

possibile quel campo di gioco neutrale che è richiesto dallo stesso dialogo (le carte migliori, in questo caso, le avrebbe sempre in mano il cristianesimo).

Si tratterebbe, allora, di superare il modello del “compimento” che vede le altre religioni di fatto solo come “iniziate” al cristianesimo, o “germi” o “preparazione”, o “frammenti”. Dupuis vuole lavorare per una teologia che renda davvero possibile una complementarietà reciproca. E questo, anche per Dupuis, è possibile a partire da una rinnovata teologia pneumatologica: ma ciò che lo Spirito è impegnato a fare nelle altre religioni può essere genuinamente diverso, mai però in contraddizione con ciò che si trova nel Verbo di Dio in Gesù. Affermare la presenza dello Spirito all’interno di altre culture o religioni implica allora che Dio ha da dire all’umanità più di quanto abbia detto in Gesù? Gli altri allora avrebbero qualcosa da suggerire di essenziale allo stesso cristianesimo, cose che questi non hanno ancora mai udito? Certamente, il passo di Dupuis appare decisamente nuovo e non solo retoricamente esplicitativi di realtà precedenti: i cristiani dovrebbero riconoscere che questi percorsi altri hanno un “ruolo permanente e un significato specifico” in quel che Dio stesso spera di conseguire con l’umanità. Tutto ciò, comunque, e Dupuis lo ribadisce a più riprese, non toglierebbe il cristocentrismo, nel senso che Gesù rimane una unicità costitutiva e non solo regolativi o morale. Ma poi Dupuis traccia alcune distinzioni non sempre facili da gestire nel loro equilibrio semantico e concettuale (da qui una serie di equivoci e di interpretazioni interrogative sulla sua opera). Un solo esempio: si pensi alla distinzione fra pienezza della verità di Dio in Gesù di tipo qualitativo o quantitativo. La pienezza veritativa di Dio in Gesù è “pienezza d’intensità”, la quale non esaurirebbe, né potrebbe farlo, il mistero stesso del Divino: si tratta di una pienezza “di fuoco”, di intensità, ma non di totalità. La pienezza di Gesù, più che relativa, sarebbe in verità, e più giustamente, relazionale, che consente cioè di mettere in relazione quel che si ha in Gesù con quello che lo Spirito va facendo nelle altre religioni.N.B. Va ricordata, al proposito, la Notificazione a padre J. Dupuis da parte della Congregazione per la Dottrina della fede per quanto atteneva il suo libro Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, in data 26 febbraio 2001. La Notificazione ricorda che «conscio della problematicità della sua prospettiva, l’autore stesso non si nasconde la possibilità che la sua ipotesi potrebbe sollevare un

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numero di interrogativi pari a quelli per cui proporrà delle soluzioni». Pur riconoscendo presenti nel libro “notevoli ambiguità” e “difficoltà”, la Notificazione dà atto che il tentativo dell’autore è quello di voler rimanere nei limiti dell’ortodossia.

Va ancora aggiunto che, sempre all’interno dell’entourage teologico rahneriano, si sono sollevate diverse voci critiche sugli sviluppi delle stesse tesi del maestro: ad esempio Monika Hellwig e Karl-Josef Kuschel hanno ribadito la definitività di Gesù Cristo come salvatore, la sua pratica insuperabilità dal punto di vista redentivo.

Sempre in tale contesto, vanno ricordate le voci dell’Asia e dall’Asia, in quanto al di là di alcune tesi teologiche, ci sono stati pronunciamenti magisteriali delle Chiese asiatiche, attraverso la Federazione delle Conferenze dei Vescovi Asiatici (FABC) e i documenti preparatori al Sinodo dei vescovi asiatici tenutosi a Roma nell’aprile 1999.. Già nel 1970 si disse nelle prime riunioni FABC che le Chiese dell’Asia devono essere chiese “dialogiche”, nel senso di imparare gli uni dagli altri, di come arricchirsi spiritualmente e di come lavorare assieme più efficacemente. Nei Documenti preparatori del 1999 si afferma poi che il dialogo non deve essere solo una delle attività ecclesiali fra le tante, ma rappresenta una dimensione costitutiva di ogni autentica chiesa locale. Dal punto di vista teologico la prospettiva pare essere piuttosto regnocentrica, il cui punto focale è il “ben-essere” di tutti, piuttosto che la conversione delle altre religioni al cristianesimo. Il problema diventa tuttavia: come bilanciare questo con l’unicità di Gesù? I vescovi giapponesi e dello Sri Lanka sono consapevoli che insistere unilateralmente sull’unicità di Gesù come unico Salvatore diventa una forte difficoltà per il dialogo. La verità di Cristo deve entrare in relazione con altre verità e includerle, piuttosto che escluderle o assorbirle. Gesù è al centro proprio perché si de-centra, e in particolare si è decentrato per i poveri e gli oppressi della terra. Questo ha portato, ad esempio, il card. Indonesiano Julius Darmaatmadja a dire al papa dopo il Sinodo dei Vescovi dell’Asia, che gli asiatici preferiscono dunque indicare Gesù non tanto come “solo unico Figlio di Dio e Salvatore”, quanto piuttosto come “Maestro di sapienza, Guaritore, Liberatore, l’Amico Compassionevole dei poveri, il Buon Samaritano di tutti.

4. Il modello della «reciprocità»: «molte religioni vere chiamate al dialogo».

La preoccupazione fondamentale pare essere questa: si tratta di promuovere un vero e autentico dialogo fra le religioni, fra interlocutori veri e, soprattutto, di pari grado, quindi non già rischiosamente depotenziate in partenza. Knitter lo chiama “modello della reciprocità” e non già modello “del pluralismo”, perché la conversazione e la relazione sono categorie più importanti della stessa “pluralità”. E deve essere una relazione di reciprocità: sarebbe questo il famoso

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“campo da gioco neutrale”, senza privilegi di posizione di partenza per i partecipanti. Si tratta, però, sempre di una parità approssimativa, in quanto ciò non significa che tutte le religioni siano uguali su tutto, ma che tutte abbiano “pari diritto” di parlare e di essere ascoltate per quello che sono. E perché la partita sia valida, occorrono due requisiti:- preservare la reale diversità;- ciò non toglie tuttavia che debba pur sussistere qualcosa in comune fra di esse,

qualcosa che renda possibile un dialogo “reale”, oltre le differenze dichiarate (il problema sta proprio, però, nell’individuare quel “qualcosa” di comune esistente).

Questo, oltretutto, a giudizio di Knitter, è un modello che si sta “surriscaldando” sempre di più, e se ne possono intuire le ragioni. Al proposito si è parlato di vero e proprio “passaggio del Rubicone” e il modello si autodescrive come attraversamento di tre “ponti”:- il ponte filosofico-storico- il ponte religioso-mistico- il ponte etico-pratico

1. Il ponte filosofico-storico Viene esemplarizzato dalla posizione di John Hick, teologo britannico, il quale, sopraffatto dalla “noia infinita” di buona parte del cristianesimo istituzionale inglese, si mise in cerca di forme diverse e più stimolanti di sequela e di testimonianza. Decise di diventare ministro della chiesa presbiteriana e iniziò a proporre una sorta di “rivoluzione copernicana” del cristianesimo. La mutazione del modello è una sorta di mutazione di paradigma (nel senso descritto da Th. Kuhn), che chiede di passare dal modello dell’universo delle fedi incentrato sul cristianesimo o su Cristo a un modello incentrato su Dio, nel senso che le grandi religioni mondiali appaiono allora come risposte umane differenti all’unica Realtà divina (dimensione addirittura “Realtocentrica”). Il centro dell’universo non è più la Chiesa, non è più Gesù, ma Dio, anzi il “Reale” o il “realmente Reale”. Una tale “Realtà divina”, che è il cuore di tutto l’Universo, costituisce pure il cuore di tutte le varie religioni del mondo. Tutte le religioni non sono altro che portatrici di un modo di vivere non più incentrato su se stessi, ma sull’Altro della Realtà (infatti, dice Hick, i santi delle diverse religioni si assomigliano moltissimo proprio perché tutti orientati all’Altro). Tutte le religioni riconoscono che la Divinità o il Reale di cui fanno autenticamente esperienza, è sempre qualcosa di più di ciò di cui fanno esperienza. Dal punto di vista strettamente filosofico, viene di fatto riproposta la nota distinzione di matrice kantiana fra “noumeno” (in conoscibile “cosa in sé) e “fenomeno” (quel “quoad nos” di cui possiamo fare esperienza). Il Divino è tanto reale quanto misterioso, e la verità è infinitamente superiore di quel che si può storicamente conoscere. Le molte religioni costituiscono pertanto modi differenti di sperimentare, di pensare e di vivere in relazione con la Realtà

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divina, attraverso tutto il loro complesso esperienziale di riti, miti, simboli e metafore (Padre, Madre, Spirito, Fuoco, Vita, Forza: tutto ciò ci può dire qualcosa sul Divino in conoscibile). Un unico “noumeno” divino, molti fenomeni religiosi, ma le differenze, spesso, sono non trattabili. Tutto questo, comunque, non dovrebbe portare al relativismo, perché non aiuterebbe a cogliere il vero senso del differenziarsi. Infatti non tutti i percorsi religiosi portano alla vetta e bisogna sapere discernere al riguardo in ordine alle differenze, perché tutte non hanno eguale valore. In che cosa poi consiste il possibile criterio di discernimento, è presto detto: promuovono o no una autentica preoccupazione per il bene degli altri? Incoraggiano o no una volontaria rinuncia all’egocentrismo e una donazione di sé? Una donazione che sia foriera di accettazione, compassione, amore per tutta l’umanità? Come si può notare il criterio di discernimento è etico e non dottrinale: dai loro frutti, li riconosceremo. Lo stesso J. Hick, al proposito, ne riconosce tutta la difficoltà: troppo diverse, complesse, serpeggianti, molto difficili da gerarchizzare e da valutare. Dal canto suo, sempre Hick invita i cristiani a non abbandonare il loro modo tradizionale di parlare di Gesù, ma nella consapevolezza che si tratta di un linguaggio poetico e non strettamente scientifico, come era già nel NT e nella storia: Messia, Salvatore, Verbo di Dio, Figlio dell’Uomo, Buon Pastore ecc. Il titolo “Figlio di Dio”, da immagine significante, si irrigidì successivamente nella nozione di incarnazione, metafora che acquistò il centro della scena (la poesia originaria si indurì nella prosa conciliare). Hick non giudica tutto ciò come un errore, in quanto è del tutto naturale che ci si esprima nel linguaggio degli assoluti; ma si tratta di prendere tali linguaggi non letteralmente, ma seriamente. Bisogna usufruire maggiormente della cristologia dello Spirito (dallo Spirito a Gesù, e non solo da Gesù allo Spirito): si tratta di continuare ad annunciare che Gesù è “totus Deus”, ma senza affermare che è “totum Dei”, cioè la totalità di Dio.

2. Il ponte religioso-mistico. Quanto più ci si addentra nell’esperienza religiosa, tanto più si ha la consapevolezza che tale esperienza non può essere limitata alla propria religione di appartenenza. Quanto più ci si sprofonda nel proprio pozzo religioso, tanto più ci si rende conto dell’unico fiume sotterraneo che li alimenta tutti. I teorizzatori di questo “ponte” sono soprattutto teologi asiatici come Samartha, Amaladoss, Wilfred, Yagi, addirittura alcuni ne hanno intravisto l’anticipo nelle posizioni spirituali di Thomas Merton. L’esempio più significativo è comunque quello di Raion Panikkar, figlio di una madre cattolica spagnola e di padre induista indiano, una vita accademica fra università americane e indiane, che si è così autodescritto: «Sono “partito” cristiano, mi sono “scoperto” induista e sono “ritornato” buddista, senza mai smettere di essere cristiano». Sacerdote cattolico, pratica lo yoga e la meditazione.

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Secondo lui il fatto religioso fondamentale non si trova nel regno della dottrina, ma può essere appreso solo attraverso l’esperienza, e l’esperienza mistica è fondamentalmente cosmoteandrica, nel senso che ingloba il divino, l’umano e il mondo. Il mistico percepisce il Divino nella sua varietà e profondità: la diversità delle religioni va mantenuta, in quanto i “molti” non possono mai essere piegati all’Uno. Per Panikkar non è sufficiente una sorta di coesistenza pacifica fra le religioni, in quanto è necessaria una “fecondazione reciproca”, una specie di “perichoresis”, vale a dire quello che i Greci chiamavano il “danzare insieme”, applicandolo proprio al dinamismo relazionale trinitario. Per quanto attiene la questione cristologica, è necessario, secondo Panikkar, superare una certa “tribalità” della stessa cristologia nel terzo millennio, per arrivare a una cristofania che permetta ai cristiani di “vedere dappertutto l’opera di Cristo”. Una cristologia che consente a Cristo di rifulgere in tutte le religioni, senza privilegiarne alcuna e questo, come sostiene anche il gesuita indiano Michael Amaladoss, ridarà lucentezza e vita alle credenze tradizionali su Gesù. Una sorta di cristologia “rimessa a lucido”, insomma. Ma Gesù rappresenta una particolare modalità che i cristiani hanno per parlare della Realtà universale conosciuta da tutti i mistici. Nella prima edizione della sua opera Il Cristo sconosciuto dell’induismo (1964), Panikkar afferma che per accettare l’identità fra Cristo e Gesù, figlio di Maria, è necessaria la fede cristiana in tutta la sua purezza. Ciò fa del cristianesimo il luogo in cui Cristo è rivelato pienamente, come fine e pienezza di ogni religione. Ma nell’edizione del 1981 e in ulteriori scritti successivi, egli cambia tono, anzi addirittura si può dire che cambia prospettiva: quando chiama il legame tra il finito e l’infinito col nome di Cristo, non vuole però presupporre l’identificazione con Gesù di Nazaret. Sebbene un cristiano creda che “Gesù è il Cristo”, questa frase non può essere considerato identica a quella “Il Cristo è Gesù”. Sulle stesse posizioni Michael Amaladoss: Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più di Gesù, per cui nessuno può rivendicare monopoli particolari ed esclusivi su Cristo. Nessuno lo “possiede” totalmente. Insomma: la totalità di Gesù è il Cristo, ma non che la totalità del Cristo è solo Gesù. Anche se nessuno è disposto a minimizzare Gesù o ad annacquarne la natura decisiva. Panikkar chiama “Cristo” il “Supernome”, la cui concrezione storica può essere però anche Rama, Krishna, Isvara ecc. Gesù sarebbe uno dei nomi del principio cosmoteandrico, che ha ricevuto tanti nomi quante sono le forme autentiche di religiosità diffuse. Ma perché, allora, il NT dice che è l’Unico e non c’è altro nome su tutta la terra in grado di essere pronunciato a salvezza dell’uomo? La risposta tende ancora una volta a sottolineare come quel linguaggio “assoluto” è più un linguaggio di amore, soggettivo, più che oggettivo-scientifico, come è tipico del pronunciamento soggettivo-amoroso che dichiara l’insuperabilità e l’unicità di ciò che è amato, ma questo non è disponibile in termini di dichiarazioni scientifiche universali, senza peraltro comunque perdere la propria importanza (ma pur sempre soggettiva).

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3. Il ponte etico-pratico Il principio guida può essere riconosciuto nel detto :”dai loro frutti li riconoscerete”, e ha dato luogo a tutta una serie di rielaborazioni anche teoriche che vanno tuttavia a convergere su condizioni di tipo etico. Il tema della “sofferenza” e del male diventano caratteristiche discriminanti in ordine a una sorta di “carità interpretativa”, per dirla con l’americano Rorty, la quale si concretizza in effettiva solidarietà verso ogni voce, soprattutto verso coloro che non hanno finora avuto voce, e che adesso devono prendere voce. Su questo versante va ricordata la Dichiarazione di Chicago del 1993 ad opera del Parlamento mondiale delle religioni, dove chiaramente emerge l’invito alla religioni a sottoscrivere alcuni comandamenti “etici” (non rubare, non uccidere, ecc.) in cui il grande patrimonio religioso dell’umanità possa riconoscersi al di là delle differenze, al fine di affrontare la “crisi” globale in cui ci troviamo. Sempre in tale direzione si muove anche la cristologia del “Liberatore”, soprattutto in una prospettiva “regnocentrica”, ad opera di J. Sobrino e altri, che in contesto asiatico Aloysius Pieris ha ritradotto nel segno di una alleanza irrevocabile fra Dio e i poveri della terra. In conclusione, alla luce di quanto detto su questo modello, vanno pure segnalate alcune contestazioni di fondo a questo tipo di elaborazione teologica, che concretamente si sostanziano nelle seguenti accuse:- il rischio di una sorta di “imperialismo” strisciante: e se le religioni fossero così

diverse da non aver nulla in comune? (tesi di W. Placher). E questi elementi comuni, qualora veramente ci fossero, da quale punto di vista non comune potrebbero essere colti? E questo punto di vista non comune non sarebbe comunque già di parte, non apparterrebbe comunque a qualche cultura, di solito quella occidentale?

- Lesslie Newbigin e Mark Heim insistono, d’altro canto, sul fatto che le religioni non possono non avere dei linguaggi assoluti, con verità connesse intrattabili, non negoziabili, perché strutturali.

- I famosi “tre ponti” non sono forse “made in Europa”, o “made in Usa”, accidentalmente, insomma, determinati nelle loro categorie fondamentali?

- Per cui si rischierebbe, anche a livello di dibattito interreligioso, una sorta di “MacDonaldizzazione” del dialogo, come sostiene Kenneth Surin, il quale paragona tutto ciò al “Big Mac”, una sorta di cibo “global” che si può trovare dappertutto e tutti indistintamente possono mangiare e godere dappertutto.

- Il rischio più potente sarebbe però quello di un relativismo camuffato, soprattutto nelle tesi così suadenti di Panikkar (in effetti come distinguere la “fenomenologia” del mistico da quella dell’impostore, che magari ha le stesse movenze ?)

- Il problema cristologico è poi quello, obiettivamente, più caldo: la “dottrina” teologica antica su Gesù era solo linguaggio d’amore, o invece costitutivo per dire

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e restituire la sua singolarità ontologica? Proprio per questo non si usò un linguaggio moderato, ma inevitabilmente di sapore costitutivo, perché andava di mezzo il problema soteriologico stesso. E poi, come dice Michael Green, nell’antichità le fedi non erano già plurali anche allora, in competizione dura con le altre (gnosi, neoplatonismo, giudaismo, cristianesimo, eresie ecc.)? E non erano forse competizioni già assai “assolute” nelle loro formulazioni? Come sostiene Monika Hellwig: la sequela di Gesù si giustifica solo sul fatto che Lui fa la differenza, e una Differenza che definisce e costituisce e non semplicemente una differenza che emoziona, come ebbe già a sostenere lo stesso Schillebeeckx, sottolineando che Gesù riveste un significato permanente e costitutivo.

5. Il modello dell’«accettazione»: «molte religioni vere e così sia». Si tratta del modello più recente, e quindi più giovane, ma diventato adulto negli ultimi due decenni. Oltretutto è quello che traduce meglio la stessa tipologia “postmoderna”, ma va preso con attenzione perché può dare risultati paradossali, proprio in ordine alla determinazione postmoderna. Il tema dominante è chiaramente il dominio della diversità. Uno dei primi teologi da prendere in considerazione al riguardo è George Lindbeck (il suo testo La natura della dottrina: religione e teologia in un’epoca post-liberale, Philadelphia 1984), che propugna una teologia post-liberale, nel segno della convinzione che nulla può essere dichiarato veramente comune a tutte le religioni: « La compassione buddista, l’amore cristiano e la fraternità della Rivoluzione francese non sono modificazioni differenti di un’unica consapevolezza, emozione o sentimento umano fondamentale, ma sono modi radicalmente distinti di sperimentare, ma sono modi radicalmente distinti di sperimentare ed essere orientati verso se stessi, il prossimo e il cosmo». Dalla diversità, poi, Lindbeck conclude alla tesi della incommensurabilità, nel senso che i linguaggi di ogni cultura sono intraducibili nei linguaggi di altre. Come osserva Paul Griffith, il bilinguismo è possibile, il bireligionismo no. È la tesi intratestuale suggerita da Lindbeck: ogni “testo” dice e va compreso al proprio interno, e affermare che tutte le religioni parlano di Dio, amore, altri ecc. è di fatto una banalità neanche poi molto interessante. In tale contesto, è necessaria più che altro una politica di “buon vicinato” (quasi una sorta di buona etica “condominiale”), ma per fare un “buon vicinato” sono necessari “buoni steccati”, per sottrarre all’ingenuità dei coabitatori un presunto spazio “verde” comune da abitare serenamente. In questa direzione, W. Placher descrive il dialogo come un “arrabattarsi” “benevolo e liberale”, dove non sono tanto le regole o le norme a dettare la convivenza, ma più che altro ingegno e fiducia. I latini avrebbero detto: più “colloquium” (dimensione feriale-quotidiana) che “dialogo”. Ed è oltretutto comprensibile come, per tali ragioni, Paul Griffith rivaluti l’apologetica religiosa, nella convinzione che sia proprio la pretesa di assolutezza a rendere le verità religiose così interessanti e a conferire loro quella forza

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testimoniale. Per cui ogni vero dialogo religioso non può non essere anche apologetica, cioè difesa e giustificazione formale delle verità che vengono affermate. Se no si rischia di ristagnare nella propria gentilezza e cortesia, che saranno magari socialmente gradevoli, ma religiosamente improduttive. La fondazione di questa irriducibile diversità è addirittura posta a livello della fondazione trinitaria: come c’è diversità di relazioni in Dio, così è possibile una varietà di relazioni diverse con Dio. Heim suggerisce che un cristiano non può credere realmente nella Trinità se non crede in differenze reali, volute da Dio stesso, fra le religioni Il problema, questo punto, diventa: come è possibile che differenze incorreggibili possano anche diventare differenze dialogiche senza perdersi come differenze? Il criterio di questi teologi “post-liberali” sembra essere del tutto consono al criterio dei postmoderni americani proclamato da Richard Rorty, cioè quello della “carità interpretativa”. Si tratta di accettare seriamente altre pretese analoghe alle nostre (le “salvezze” altrui) senza tuttavia smettere la convinzione circa la propria. Al limite, sostiene Heim, si può legittimamente “bordeggiare” all’interno della propria convinzione, nel tentativo di volerla migliorare. Da questo orizzonte “post-liberale”, è pure derivato il modello della cosiddetta “teologia comparata delle religioni”, proposta da Francis Clooney, gesuita in India e Nepal, e da James Fredericks, che è stato per molti anni in Giappone: la nuova teologia deve nascere dal dialogo, che deve essere il vero punto di partenza e non semplicemente il frutto della ricerca teologica. E lo stile dovrà essere soprattutto questo: modestia e piccoli passi, più che grandi e generiche comparazioni. E questo stile va condotto all’interno di una duplice tensione:- da un lato essere vulnerabili alla potenza trasformatrice dell’Altro (lezione di

Lévinas);- dall’altro lealtà alla tradizione cristiana; Tensione, questa, vivificante e feconda, ma anche felice e scomoda, perché, in fondo, siamo un po’ tutti inclusivisti: come insegnava S. Tommaso, è impossibile uscire dalla natura del conoscente, dal nostro punto di vista.. Ma questo non è un male.

6. La recente risposta della Chiesa. Una prima risposta sul tema della teologia cristiana delle religioni e sul dialogo interreligioso è offerta dal documento Il cristianesimo e le religioni, approvato dalla Commissione teologica Internazionale a conclusione del proprio incarico quinquennale (1991-1996) (cfr. Regno 3, febbraio 1997) dove si cerca l’elaborazione di alcuni principi teologici che aiutino a valutare e a discernere la complessità del problema. Tra l’altro è possibile rinvenire in tale documento una lucida presentazione delle varie posizioni che il dibattito ha assunto. In sintesi è possibile tematicamente riassumere i problemi affrontati: I. Oggetto, metodo, finalità; La discussione sul valore salvifico delle religioni; La questione della verità; La questione di Dio; Il

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dibattito cristologico; Missione e dialogo interreligioso; II. I presupposti teologici fondamentali (la questione trinitaria “non dissociabile” tra Padre, Figlio e Spirito); Ecclesia, universale salutis sacramentum; III. Alcune conseguenze per una teologia cristiana delle religioni: il valore salvifico delle religioni; la questione della rivelazione: La verità come problema tra la teologia delle religioni e la posizione pluralista; Dialogo interreligioso e mistero di salvezza; IV: Conclusione: dialogo e missione della Chiesa.

Come si può notare un Documento ampio e documentato, articolato nella presentazione dei problemi e dei nodi teologici in questione. Merita un’attenta lettura in quanto è una buona fonte di documentazione e di valutazione teologica al riguardo. L’altro Documento è la Dichiarazione Dominus Jesus della Congregazione per la Dottrina della Fede (5 settembre 2000) (cfr. Regno 17, ottobre 2000). La motivazione dell’intervento, lungamente esposta dal Card Ratzinger nella conferenza stampa di presentazione, è così riassunta nella Introduzione: «Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso non solo de facto ma anche da iure (o di principio). Il Documento, come è noto, ha suscitato tutto un dibattito, con punte anche assai polemiche e reattive, che in verità investivano più che altro la seconda parte, quella riguardante soprattutto la questione ecumenica più che il dibattito interreligioso vero e proprio. Certamente il linguaggio usato è quello tipico delle Dichiarazioni, vale a dire quello che riespone la dottrina della fede cattolica, indicando nello stesso tempo alcuni problemi fondamentali che rimangono aperti a ulteriori approfondimenti, e di confutare determinate posizioni erronee e ambigue Comunque, nella conclusione, viene ribadito un punto forza che riguarda non solo la teologia, ma anche tutto l’aspetto di una fede autenticamente “pensata” nel e per il nostro tempo: incoraggiare l’approfondimento del lavoro teologico per metterlo sempre di più al servizio della ricerca della verità

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BRUNETTO SALVARANI

LA CRISTIANITÀ DEL FUTURO

PRIMA PARTE

Mi è stato assegnato un tema da far tremare i polsi: La cristianità del futuro. Prendo spunto, per iniziare, dal messaggino che la TIM spot dello sport mi ha mandato qualche ora fa, mentre arrivavo, e che mi è sembrato un segno dei tempi. Ve lo leggo: “Anche i monaci tibetani conquistati dall’Italia: tiferemo per gli azzurri”. Noi ringraziamo i monaci tibetani perché il tifo non lo si butta mai via, però io sono rimasto profondamente colpito da questa cosa sia per la simpatia per i monaci tibetani, che è ulteriormente aumentata, sia perché un messaggio come questo evidentemente qualche anno fa sarebbe stato poco più che un gesto folcloristico, curioso e oggi è uno dei cinque messaggi che arrivano quotidianamente sullo sport nel mondo ed è un segno dei tempi. Parto proprio da questo perché la cristianità del futuro (e vedremo di mettere in crisi profondamente questa terminologia) non può che riferirsi ad una situazione in cui le religioni sono tornate a prendere la prima pagina nei giornali ed anche a occupare i messaggini dello sport Questa è la novità rispetto al discorso di prima (così mi aggancio all’analisi molto bella, secondo me, che ha fatto don Pier Mario): io credo che tra la fase della Nostra aetate e quindi del Concilio Vaticano II e la situazione attuale ci sia stato un cambiamento di paradigma profondo, che è essenziale cogliere per capire anche la discussione teologica che è stata fatta prima. Il problema del Vaticano II è come dire Dio in un mondo che è sostanzialmente ateo e secolarizzato, in un mondo in cui domina, per lo meno in campo occidentale, la filosofia marxista e il quadro di riferimento è comunque una lettura positiva nei confronti delle scienze, della tecnica e delle trasformazioni in atto. Questo è il contesto in cui si inserisce la novità, in effetti straordinaria, proposta dalla Nostra eatate, che, sin dal par. 1, dice proprio questa chiave ermeneutica per essere letta: il mondo sta diventando uno; a partire da questo mondo, che sta diventando uno, c’è una lettura positiva di questa progressiva unificazione e quindi parte quella che

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abbiamo già definito in qualche modo la stagione del dialogo anche per la Chiesa cattolica. La situazione attuale, il paradigma attuale è un paradigma profondamente diverso. Oggi più che dire Dio nel mondo ateo e secolarizzato degli anni ’60, delle grandi istanze, delle grandi speranze, del ’68 ecc. oggi ci interroghiamo su come dire il Dio di Gesù Cristo in un mondo segnato da un sempre maggiore pluralismo nei riferimenti religiosi. Questa è la novità e questa è la difficoltà. Da questo punto di vista credo sia stato detto bene qual è il quadro in cui ci inseriamo. Io mi riprometto semplicemente di allargarlo e di fornirvi altri elementi di scenario, perchè mi sembra siano utili, anche in chiave sociologica e antropologica.

LA BULIMIA DEL SACROE L’OSSESSIONE IDENTITARIA

Da una parte le religioni tornano in prima pagina e in maniera tale da offrire all’immagine dello spettatore una sorta non più di rivincita di Dio (termine famoso di un libro del ’91 di Gilles Kepel), ma ormai di una bulimia del sacro. Questo è l’elemento di complessità ulteriore che caratterizza il nostro tempo. La rivincita di Dio fotografata da Gilles Kepel, sociologo della Sorbona, nel ’91 è la constatazione che c’è il meccanismo dei fondamentalismi al plurale (dal neo-induismo a C.L. per l’Italia) e questo paradigma dominerà per una quindicina d’anni. Oggi io credo che si possa dire qualcosa di più nel senso che, oltre i fondamentalismi, che pure permangono, oltre il supermarket delle religioni new age di cui ho parlato negli anni scorsi qui, c’è veramente ormai una pervasività della dimensione del sacro che mi domando (farò più domande che risposte e quindi aiutiamoci a vicenda a scegliere le piste di riflessione su cui inoltrarci), mi domando se questa bulimia sia da leggersi dal nostro punto di vista di credenti in cammino come un fatto positivo o problematico, come un fatto necessariamente positivo oppure come un fatto che ci fa toccare con mano tutta una serie di limiti e di questioni aperte. Accanto alla bulimia del sacro c’è una vera e propria ossessione identitaria che è bene rappresentata dal brillante libro di Gad Lerner “Tu sei un bastardo” (ed. Feltrinelli). C’è stato il passaggio dall’interrogativo su quale identità (che poteva essere anche questo un grande interrogativo degli anni del Concilio e del dopo Concilio) all’identità utilizzata come idolo e come ideologia. Quindi l’identità che diventa un’ossessione, la ricerca di un passato comune, di un passato mitico da esaltare, di una situazione originaria rispetto alla quale fare i conti, in maniera tale però che ormai l’identità è quella che si diceva prima arlecchinesca e che a me piace chiamare meticciato perché il meticciato è una categoria positiva, e oggi invece l’identità è un’ossessione. Non si coglie il fatto importante che l’identità, anche quella del credente nella Scrittura, è perennemente un tragitto, un cammino più che un punto fermo. L’identità

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del popolo di Israele è un’identità rappresentata anche metaforicamente, simbolicamente dal tragitto nel deserto ed è proprio il cammino del popolo nel deserto che permette al popolo di Israele di acquisire un’identità, che è sempre precaria e provvisoria, per cui immediatamente, in occasione dello stanziamento, questa identità cambia ulteriormente e diventa qualcosa d’altro. Nel futuro ci saranno, quindi, altre identità. C’è il librone di Kung sull’ebraismo che è giocato proprio sui cambiamenti dei paradigmi all’interno della storia ebraica, dal quale risulta chiaramente che la frase l’identità ebraica è…, essere ebreo è… è una pura convenzione. In realtà, nel corso dei secoli, c’è stata una trasformazione fortissima dell’identità ebraica. Ma questo evidentemente capita anche nelle tradizioni cristiane, capiterebbe nel buddismo se lo analizzassimo e così via. Bulimia del sacro e ossessione identitaria: tutto questo è un tentativo di rispondere allo spaesamento, all’incertezza che domina nel nostro tempo. Qua mi rifaccio alle analisi di Zygmunt Bauman che sono le più felici da questo punto di vista: viviamo l’età dell’incertezza e ci stiamo male, ma è importante che ci rendiamo conto che questa incertezza va presa sul serio. Spesso si cerca di rispondere a questo con una serie di corti circuiti. È un tema a cui ho già accennato, ma ci torno sopra volentieri perché mi sembra che sia importante sottolineare quanto questa deriva sia pericolosa. L’ipotesi di risolvere le difficoltà del cristianesimo attuale riproponendolo come religione civile di fronte a una mancanza di valori, di trovare identità condivise in un Paese come il nostro è molto pericolosa. Contro questa tesi, come sapete, il monaco Enzo Bianchi ha preso decisamente posizione, ne parla continuamente; io mi rifaccio al suo magistero e sottolineo come occorra tenere le orecchie ben attente a questo pericolo, perché può essere una deriva molto pericolosa. È una tentazione, come le tentazioni del deserto e le tentazioni del popolo di Israele, molto facile e molto cattivante. Viene comodo pensare che, tutto sommato, i primi posti nelle sinagoghe, per dirla col Vangelo, gli applausi e tutto il resto in fondo fanno comodo e fanno piacere.

NON CI SARÀ UNA CRISTIANITÀ DEL FUTURO

La domanda è se questa sia veramente la soluzione rispetto (e torno al discorso del titolo: la cristianità del futuro) al fatto che, a dispetto del titolo, la cristianità del futuro non ci sarà più. Non è che io sia un indovino o figlio di indovini, come dice la Scrittura, ma è facile immaginare che la cristianità del futuro non sarà quello che noi abbiamo chiamato cristianità storicamente. Potrà essere qualcosa di quello che qualcuno citava prima come modelli ecumenici, che in effetti ci offrono qualche pista di riflessione (il lavoro di Cullman per esempio che insiste sull’unità nella diversità, nelle differenze); ma certamente non il modello della cristianità, che è il modello di una societas che vede il cristianesimo non solo come un appello individuale e di popolo, ma come la risposta a tutta una serie di problematiche di tipo non solo etico,

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spirituale, ma anche civile, politico, economico, ecc. Quella che cade è l’idea che ci possa essere una unità attorno a questo modello. La cristianità nel futuro non ci sarà più per il semplice fatto che non c’è più già oggi, è finita. Qui io mi rifaccio alle analisi storiche della cosiddetta scuola di Bologna del prof. Alberigo e di Alberto Melloni e quindi avete già tutto il materiale su cui riflettere. In più aggiungo la domanda che si faceva un grande teologo canadese del Concilio, Tillard, scomparso qualche anno fa, il cui ultimo libro si intitola: “Siamo gli ultimi cristiani?” E questa io credo sia la domanda, semmai, con la quale cambierei il titolo che mi è stato assegnato: al posto della cristianità del futuro direi siamo gli ultimi cristiani ? E Tillard con molta lucidità fotografava quella situazione che oggi noi vediamo in un Paese come l’Italia ed ancora di più come la Francia. C’è tutta una serie di indicatori in decrescita vistosa: dal numero dei sacerdoti alla presenza nell’Eucarestia, all’incidenza sulla società del messaggio cristiano, all’assenza dei giovani nelle comunità cristiane. Tutti questi sono indicatori che indubbiamente giustificano la domanda: siamo gli ultimi cristiani ? Poi Tillard usa come metafora una piantina della sua terra natale, che è l’isola, vicina al Canada, di S. Pierre e Miquelon. Questa pianta, che si chiama polygonia, ha la caratteristica di poter rimanere tre o quattro stagioni sotto la neve senza morire del tutto. Per cui anche dopo tre o quattro anni in cui non si è visto niente, se è rimasto anche solo un piccolo seme della polygonia, ai primi bagliori di sole, questa piantina torna in vita. E questa è l’immagine di Chiesa che lui propone: la fine della cristianità, l’esaurimento oggettivo di tutta una serie di indicatori non necessariamente costituisce la fine del messaggio cristiano sulla terra né di una presenza ecclesiale. E quindi Tillard sposta la domanda da: siamo gli ultimi cristiani ? (avendo risposto di no: siamo gli ultimi di un certo modello di cristianesimo) a: quali sono gli elementi fondamentali che possiamo immaginare possano costituire il minimo comune denominatore di una Chiesa capace di speranza e di futuro ?La sua risposta è molto netta e molto semplice. Sono due: la condivisione della lettura della Scrittura; la condivisione della mensa, della cena, del pasto eucaristico. Questo è ciò che costituirà il minimo comune denominatore di una Chiesa del futuro e tutto il resto, evangelicamente potremmo dire, ci sarà dato in sovrappiù. Questo non vuol dire che tutto il resto sia di secondaria importanza, ma semplicemente che tutto il resto verrà dato alla luce di questa vita vissuta di Scrittura (non solo letta, ma fatta propria e divenuta storia) e di Eucarestia (non solo celebrata ritualmente, ma diventata ciò che costruisce la Chiesa, la comunità).

DA CRISTIANI NELL’EPOCA DELLA TRANSIZIONE

Di fronte alla fine della cristianità e di fronte alla nascita di qualcosa di diverso, io credo che noi oggi siamo chiamati con molta umiltà a incominciare a interrogarci su che cos’è questo qualcosa di diverso che sta nascendo. E allora la seconda parte di questa introduzione vorrebbe riflettere ulteriormente sulla stagione di cambiamenti

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che stiamo attraversando e su quello che prima chiamavo lo spaesamento. Perché sono profondamente convinto che lo spaesamento e l’incertezza siano da una parte sentimenti faticosi da attraversare, da accettare, ma dall’altra siano un passaggio inevitabile, esattamente come il passaggio del Mar Rosso e del deserto per il popolo di Israele. Noi dobbiamo accettare di vivere una stagione in cui non siamo più quelli che hanno tutte le risposte in tasca, non siamo quelli che hanno tutte le certezze da offrire a chicchessia, non siamo quelli che hanno qualcosa in più. E qua mi spiace polemizzare con Giuliano Amato, perché parlo di un ministro che sicuramente farà bene, ma quel di più che dovrebbero avere i credenti, come lui dice, non mi convince. Vorrei dire: perché ? a che titolo ? Capisco la sua tesi e non la nego del tutto, ma vorrei problematizzarla. Vorrei dire che questa è la stagione in cui il card. Martini ha avuto un’intuizione straordinaria nel momento in cui ci ha chiesto di non dividere più la gente tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. Questo è il grande tema che abbiamo davanti: di riprendere a pensare, di ricominciare a riflettere, perché stiamo vivendo una stagione in cui il rischio di essere abbandonati a noi stessi, all’illusione di capire tutto e di essere quelli che hanno già risolto i problemi è molto pericoloso. In questo la lezione di un Bonhoeffer per ricordare a cent’anni dalla nascita un grande profeta del nostro tempo, è fondamentale per l’idea che il cristiano non sia uno che ha di più, così come Cristo non è uno che ha di più, ma è uno che ha preso su di sé la sofferenza e cristiani e pagani vanno a Cristo non perché lo vedono straordinariamente bello ed efficace, ma perché vedono la croce, qualcuno che si è preso su di sé la croce.Credo che l’interrogativo attuale sia come prendere su di noi la croce dello spaesamento, la croce della fatica di non capire, la croce della difficoltà di fornire parole importanti per una stagione in cui, ancora una volta al modo di Bonhoeffer, probabilmente siamo chiamati non a immaginare grandi cose per noi, ma a stare in mezzo alla transizione, alla trasformazione. Perché il modo in cui stiamo in mezzo alla trasformazione sarà molto influente rispetto all’esito della transizione. Qui ci sono anche delle analisi di tipo sociologico, sulle quali non mi soffermo sia per incompetenza sia perché ci sono materiali che potete andare a pescare. Però io penso, ad esempio, al lavoro che sta facendo Aldo Bonomi sul paese di mezzo, sulle terre di mezzo, intitolato Il trionfo della moltitudine. Mi sembra che sia un lavoro serio che si sposa con questa analisi esattamente nella capacità di stare all’interno dello spaesamento e all’interno di questo spaesamento interrogarsi su che cosa sta succedendo. Sta succedendo quello che si diceva prima e quello che vi ho detto all’inizio. C’è un paradigma nuovo che potremmo tradurre anche in questo modo: oggi io non posso più permettermi di essere cristiano se non alla luce di una relazione con l'altro che ho di fronte; oggi non posso più essere un cristiano se non mi rendo conto che a fianco a fianco, nella classe di mio figlio o nelle classi dove insegno o nel supermercato, incontro musulmani di ogni tipo, sikh come capita spesso dalle nostre parti, ecc. A dieci chilometri da dove abito io, a Novellara, c’è il più grande tempio sikh italiano, che raccoglie ogni domenica un migliaio di sikh che vengono da Cremona,

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Parma, Reggio Emilia. Come posso essere cristiano facendo finta che questo non sia qualcosa che mi interroga profondamente e mi cambia nel mio essere cristiano ? In che modo, poi, non lo so. Anche su questo non ho elementi per dire in che modo ci stia cambiando; ma sono certo che ci stia cambiando. Vediamo quali possono essere gli esiti di questo cambiamento. Di fronte a questa situazione una risposta possibile è quella della paura. È importante che ce lo diciamo. La paura: l’immigrazione vista come minaccia e tutto il resto, non c’è bisogno di perdere tempo, perché questa reazione è sotto gli occhi di tutti quotidianamente. Da una parte è necessario sottolineare come la paura vada gestita, vada rielaborata, vada attraversata e di come la paura non vada demonizzata. È sempre molto pericoloso giocare sulle paure dei semplici Lo dico sia sul piano politico che umano, civile. E, naturalmente, però, non deve essere neanche strumentalizzata, perché è fin troppo facile strumentalizzarla. Il problema reale è che la paura è quasi un passaggio obbligato. Se siamo onesti con noi stessi, è la diversità che antropologicamente fa paura. Guardate che la diversità non è solo quella religiosa: c’è la diversità di genere, per cui noi maschi ormai siamo spaventati dalle donne perché stanno prendendo il potere; c’è la diversità di età, di stato sociale... La questione è la rielaborazione di diversità da fare tutti i giorni. Questo naturalmente è faticoso, è un compito gravoso. Ecco perché nel mio ultimo libro, intitolato “Educare al pluralismo religioso”, è la dimensione dell’educazione che è fondamentale, l’educazione come cammino e come tragitto, non come assoluto.Una seconda possibile risposta a questa novità, a questo cambiamento è l’indifferenza, il disinteresse. L’indifferenza è qualcosa di straordinario. Si potrebbe scrivere la storia del Novecento attorno all’indifferenza: dalla ‘divina’ indifferenza degli Ossi di seppia montaliani passando per i bravi polacchi che di fronte ad Auschwitz non si rendevano conto di nulla… L’indifferenza, il quieto vivere, il disinteresse, cioè il fatto che di fronte al cambiamento una risposta convincente è il fatto che, tutto sommato, non mi interessa, non mi riguarda, sono molto diffusi. E invece oggi ci interessa, ci deve interessare.La terza risposta è quella di cogliere questo cambiamento come un’occasione, e come si dice normalmente in questi casi, recuperando una bellissima parola del Nuovo Testamento, come un kairòs, come un tempo opportuno da afferrare al volo. Come ha scritto il Card. Martini: “Il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza. Se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso”.

IL DIALOGO INTERRELIGIOSO

Vorrei concludere con una riflessione sul dialogo, lasciando a domani tutto quello che avrei voluto dire sulla laicità e sul resto. Mi pare che, soprattutto su scala nazionale, oggi stiamo vivendo un tempo fortemente negativo sul tema del dialogo e questo è

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importante che ce lo diciamo. Questo termine ormai è stato usato a sproposito con una faciloneria degna di miglior causa. Qualche segnale anche nella discussione che c’è stata prima è emerso. Io sono d’accordissimo, e l’ho anche scritto più volte, che oggi sia molto più importante il colloquium e non il dialogo, cioè la quotidianità, la colloquialità. Oggi stiamo vivendo una fase in cui il rischio è che dialogo sia una parola talmente buona per tutte le stagioni che nessuno o pochi siano contro il dialogo. Ma con questo il problema non è risolto, ma è diventato molto più sottile: quello di qualificare il dialogo, di interrogarsi su che cos’è il dialogo, di interrogarsi se il dialogo è un mezzo, un metodo, un obiettivo, un fine, uno scopo, una questione tattica, una questione strategica ecc. Io, dal mio punto di vista, credo che leggendo l’itinerario dei documenti del Magistero (dalla Nostra aetate in poi), nonostante tendenze diverse, per cui innegabilmente c’è una linea che parte dalla Nostra aetate, attraversa i documenti del Pontificio Consiglio del dialogo interreligioso Dialogo e annuncio e Dialogo e missione, e dall’altra una linea che forse viene sottolineata maggiormente dalle encicliche missionarie come Evangelii nuntiandi (Paolo VI) e la Redemptoris missio (Giovanni Paolo II), complessivamente mi pare si possa dire che il dialogo è una scelta strategica della Chiesa cattolica. L’Ut unun sint del 1995 lo dichiara in maniera diretta. Guardate che questo non è un punto di arrivo di poco conto, perché sono pochi gli anni che ci separano dai tempi in cui un matrimonio interconfessionale è stato letto da parte cattolica come qualcosa che forniva scandalo alla comunità. Parliamo di 40 anni fa, non di mille anni fa. Che il dialogo sia una scelta strategica questo è importante che venga sottolineato e mantenuto come barra diritta e diretta verso il futuro. La questione è quale dialogo e che cosa significa dialogo. Da una parte io non rifaccio il discorso che ho fatto due anni fa qui e che è contenuto nel mio Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, che è la dimensione antropologica del dialogo (ho trovato sette parole chiave che, secondo me, aiutano a costruire un quadro di riferimento antropologico di tipo dialogico). Faccio, però, qualche puntualizzazione, che credo importante. Oggi è fondamentale valorizzare le buone pratiche del dialogo perché si parla di tutto e si parla fortemente. Pensate al danno che Bruno Vespa ha fatto all’Islam italiano dando credibilità a una figura come Adel Smith, dopo che era stato messo in guardia ufficialmente (quindi è stata una scelta deliberata, non un’ingenuità), che era portatore di un messaggio ben preciso: la guerra di civiltà è la cornice all’interno della quale oggi ci dobbiamo situare. Contro tutto questo dobbiamo puntare sulla valorizzazione delle buone pratiche del dialogo, sul racconto delle piccole esperienze. Per questo ne dico due o tre tra le tante che potrei raccontare. Anzitutto una a cui tengo tanto, perché ne sono uno dei promotori: la giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, che è una delle poche esperienze, che, partita dal basso, sta andando avanti, senza benedizioni eccessive, per usare un eufemismo, da parte dell’attuale leadership della CEI. Tutti gli ultimi venerdì di Ramadan dell’anno (quest’anno per la quinta volta) nelle città, nelle comunità, nei monasteri, nei consigli comunali chi vorrà farà un ricordo, o un’iniziativa o una preghiera, pensando appunto alla scelta strategica del dialogo cristiano-islamico, che

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va fatta ecumenicamente, perché non ha senso immaginarsi un dialogo cattolico-islamico, un dialogo protestante-isalimico e così via. Questo è importante : c’è un’esperienza ecumenica, che è partita dal basso, ci sono molte chiese locali evangeliche e ortodosse che la portano avanti, ci sono consigli comunali che prendono posizione. Se volete avere informazioni, vi rimando, come sempre, al benemerito sito dell’amico Giovanni Sarubbi www.ildialogo.org, che è la piazza ecumenica più strepitosa in Italia. Lì trovate moltissimi materiali, tra i quali tutti i documenti ecumenici interreligiosi e tutti i materiali relativi a quasi tutte le iniziative che sono nate in questi anni intorno a questa giornata che, vi ricordo, è nata con un giro di e-mail lanciate tra amici. Prima ho parlato di Novellara, che è la città dei Nomadi, una città molto variopinta, per cui su 14.000 abitanti ci sono 500 cinesi, 500 sihk, altrettanti musulmani, per metà magrebini e per l’altra metà pachistani, qualche cattolico qua e là (c’è anche una bella storia ebraica, ma passata). Con l’amministrazione comunale che mi ha coinvolto abbiamo deciso di lanciare un progetto, che si chiama Nessuno escluso, all’interno del quale c’è un filone denominato Le feste condivise. Ve lo racconto perché può essere copiato utilmente. L’amministrazione comunale e il Sindaco decidono di invitare, in occasione di una festa religiosa o civile di qualcuna di queste comunità, la comunità stessa a gestire un momento in cui vengono invitate le altre comunità. Questo momento si svolge ufficialmente nella sala del consiglio comunale (e quindi non è lasciato alla fantasia degli organizzatori); la comunità ha in mano le redini dell’iniziativa e vive quasi in una dimensione di informazione educativa nei confronti delle altre, parlando delle simbologie legate a questa festa, parlando dei testi, dei canti, delle musiche e così via. Abbiamo fatto la quarta giornata del dialogo cristiano-islamico per la fine di Ramadan; abbiamo fatto il Natale, festa dei popoli e delle luci con i buddisti cinesi stupefatti perchè non avevano mai sentito parlare del Natale. E poi il 29 gennaio abbiamo inaugurato l’anno cinese, l’anno del cane, in teatro perché hanno voluto dedicarci anche una specie di karaoke. E poi la festa del baisachi, che è la festa di primavera dei sikh, che tra l’altro cadeva sabato santo e con il parroco che alla fine della Messa della domenica pomeriggio inforca la bicicletta, sul modello di don Camillo, e va a fare gli auguri direttamente alla comunità sikh. La cosa si risa nel paese e diventa un motivo commovente di apertura. Tutto questo naturalmente prevede, poiché tutti i salmi finiscono in gloria, che la comunità ospitante prepari i cibi legati alla festa che, alla fine, si mangiano insieme. Sono cose piuttosto semplici che però ci hanno dato il senso di qualcosa che sta cambiando perché lo scambio di informazioni, di numeri di telefono, di inviti a cena ci dicono che quel colloquio di cui si parlava prima non è solo un’utopia. È qualcosa che può succedere, che ha bisogno di tempo, di pazienza, ma investire in quella direzione non è inutile. Ho scritto anche alcuni libretti, che voi non conoscete, non solo perché non mi chiama Bruno Vespa, ma anche perché sono abbastanza recenti. Si chiamano Parole delle fedi e sono un tentativo di costruire qualcosa che in Italia non esiste e mi auguro costituiscano un primo passo, i primi mattoncini di un alfabeto multireligioso. Ho chiesto a personalità interessanti di diversi mondi confessionali e religiosi italiani di

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stilare una parola chiave del nuovo alfabeto religioso, giocandola in chiave interreligiosa, cioè dicendo che cos’è per te lavorare in chiave interreligiosa sul misticismo ? e ci ha risposto Gabriele Mandelkan che è il capo dei Sufi italiani. Che cos’è il pluralismo ? e ci ha risposto Stefano Allievi. Che cos’è la creazione ? Ci ha risposto Simone Morandini. Che cos’è la città ? Che cos’è la morte ? Finisco, come da contratto, col raccontino di turno. Ed è un raccontino che vuole mettervi ulteriormente in crisi. È anche l’occasione per citare un bel libro di un grande scrittore israeliano, ormai molto noto anche in Italia: Amos Oz. Ha scritto Contro il fanatismo, che è un elogio del compromesso, che è una parolaccia in italiano, ma lui dice: Guardate che la pace qui si fa soltanto se riusciamo a fare un compromesso. Tra le altre cose, in questo bel libretto, racconta una storiella che si riallaccia a quella deprecata bulimia del sacro da cui siamo partiti e con cui vi auguro buona cena. Scrive Amos Oz: ora mi torna in mente una vecchia storiella dove uno dei personaggi (ovviamente siamo a Gerusalemme e dove se no?) è seduto a un piccolo caffè. E c’è una persona anziana seduta vicino a lui. E così i due cominciano a chiacchierare. E poi salta fuori che il vecchio è Dio in persona. D’accordo, il personaggio non ci crede subito, lì per lì. Però, grazie ad alcuni indizi, si convince finalmente che è seduto al tavolino con Dio. Ha una domanda da fargli, ovviamente, molto pressante. E gli dice: Caro Dio, per favore, dimmi una volta per tutte chi possiede la vera fede: i cattolici, i protestanti, o forse gli ebrei o magari i musulmani? Allora Dio in questa storia risponde: A dirti la verità, figlio mio, io non sono religioso, non lo sono mai stato e, a dirla tutta, la religione nemmeno mi interessa.

SECONDA PARTE

Solo per riprendere il filo del discorso, sintetizzo le riflessioni della giornata di ieri, che è stata molto ricca, e si è dipanata intorno al tema della diversità in opera: stiamo vivendo in pieno una fase in cui il tema della diversità è diventato il tema centrale. Per cui ieri pomeriggio, ad esempio, c’è stata una lunga carrellata da parte di don Pier Mario Ferrari sul senso dell’assioma “extra ecclesiam nulla salus”, che per tanto tempo ha costituito il metro di paragone del cattolicesimo (o del cristianesimo romano, come ci diceva ieri il pastore Taccia) nei confronti degli altri, e poi ci siamo soffermati sulla questione attuale, che è la questione del pluralismo religioso. Si è sottolineato come il Concilio Vaticano II, anche nei documenti da questo punto di vista più avanzati (la Nostra Aetate, alcuni punti della Lumen gentium, l’Unitatis redintegratio, alcune cose della Gaudium et spes), resta in un contesto in cui si sente fortemente un ottimismo teologico nei confronti del mondo (il tema del dialogo Chiesa – mondo è il tema di fondo) in un quadro di riferimento che è l’ateismo, il rapporto col marxismo e col mondo secolarizzato (pensate a tutto il lavoro di Giulio Girardi su Marxismo e Cristianesimo. Nei decenni successivi si è andato spegnendo questo orizzonte di riferimento e si è andata affermando sempre maggiormente la

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dimensione del plurale, per cui il problema fondamentale è diventato come annunciare il Dio di Gesù Cristo in un mondo che è plurale dal punto di vista religioso. E quindi, per chiudere questa introduzione che si riallacciava a ieri, come tenere assieme l’unicità, la mediazione assoluta per cui non c’è salvezza se non nel nome di Gesù Cristo, e il fatto che questo pluralismo religioso non sia solo un dato di fatto, ma cominci ad esigere di essere riconosciuto anche come pluralismo di diritto. Oggi ci troviamo di fronte non solo a un dato di natura sociologica (ci sono tante religioni, c’erano anche prima, ma ora ci sono anche qui dalle nostre parti), ma anche a una questione di diritto: c’è una sola via di salvezza o ce ne sono molte (l’ebraismo, il cristianesimo, il buddismo ecc.) ? In questo quadro si comprende che vi sia il rischio del relativismo e che alcune delle posizioni estreme della teologia del pluralismo religioso ricordata ieri siano state accusate proprio di questo.Questo è il quadro generale, all’interno del quale collocare le nostre riflessioni. Ieri ero partito dicendo che la cristianità del futuro (per fortuna o per sfortuna, decidete voi) non ci sarà. Non parleremo di questo, ma di quello che succederà presumibilmente alla fine della cristianità, quindi di quello che in realtà sta succedendo oggi. Abbiamo chiacchierato un po’ intorno alle risposte di fronte al cambiamento. Io, sinteticamente, ne vedo tre: la paura, l’indifferenza e l’accettazione di questa occasione nuova di vivere la dimensione del cambiamento e poi ho chiuso sottolineando come oggi dobbiamo acquisire l’umiltà di vivere questa fase di transizione che stiamo attraversando, come è già capitato tante volte nella storia, per quanto difficile e dura essa sia, standoci in mezzo senza eccessivi sbalzi utopistici e senza nostalgie particolari, sapendo che essa prepara, probabilmente, un pluralismo ancora più consolidato e vissuto di quello attuale. Il nostro compito, secondo me, è proprio di preparare il futuro, di far sì che questa situazione sia vissuta meno traumaticamente e sia accompagnata da un percorso che ha molti addentellati con una forte istanza educativa.

DUE PAROLE CHIAVE:LAICITÀ E PERDONO

Pensavo in questo quadro di novità di riflettere con voi a voce alta su alcune parole chiave. Ve ne propongo due legate da una certa logica: laicità e perdono. Evidentemente se ne potrebbero scegliere altre. Se qua fosse presente Benedetto XVI, direbbe probabilmente amore, vista l’enciclica che ci ha regalato. Scelgo laicità e perdono perché credo che siano due snodi strategici e stiano in una posizione veramente decisiva. Parto dalla laicità sulla quale cito, non a caso, Carlo Maria Martini: “Una chiesa che è conscia della sua minorità ha più vivo il senso della testimonianza, coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso”.

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È conscia della sua minorità: è quello che abbiamo detto ieri, quello di cui abbiamo discusso anche ieri sera. La consapevolezza di vivere una dimensione di minorità, come dice esplicitamente il card. Martini, usando un termine forte anche teologicamente, rimanda al lavoro di Bonhoeffer su Resistenza e resa. Ha più vivo il senso della testimonianza: come diceva Paolo VI, oggi, ancor più che nel passato, abbiamo bisogno di testimoni più che di chiacchieroni. Laicità ha il torto di essere una straordinaria parola che in italiano tutti stiracchiano da una parte o dall’altra, per cui le facciamo dire quello che ci interessa dire. Io proseguirò il gioco cercando di inserirla in un quadro di riferimento teologico e scritturistico perché mia tesi è che la dimensione di laicità è una dimensione fortemente teologica. Non è una novità della modernità e questo mi sembra l’aspetto che forse non si sottolinea abbastanza. È un’interrogazione sulla Scrittura che ci apre ad una lettura laica del cristianesimo e del messaggio cristiano.

LA LAICITÀ NELLA BIBBIA

Laicità, come sapete, deriva da laòs, popolo, e davvero credo che per il cristiano costituisca un dato fondante della rivelazione biblica, già chiaramente presente nel Primo Testamento. Nasce con la creazione narrata nel libro della Genesi, che presenta la netta distinzione tra il Dio creatore e il mondo creatura, e questa è già una novità rispetto ai culti babilonesi ecc. in cui la commistione tra il ruolo di Dio e il ruolo della creatura è molto forte. Il libro della Genesi conduce già una contestazione della sacralizzazione della terra: una cosa è Dio, una cosa è la sua creazione. Questo tema della laicità viene confermato sulla linea strategica che io definisco (con un termine rubato a Bonhoeffer, che, a sua volta, l’aveva rubato a Nietzsche) di fedeltà alla terra, che però non deve diventare un idolo e che trova, a mio parere, il culmine nella cosiddetta lettera agli esiliati di Geremia 29. Io direi che c’è un bel centro nella Scrittura, che è Geremia, sia per il fatto che si trova in un momento decisivo nella vicenda di Israele, che non è il momento dell’esilio a Babilonia in quanto tale, ma il momento della rilettura dell’esilio, che è ancora più delicata. Perché ? Che cosa sta succedendo ? Siamo nella seconda metà del VI secolo prima di Cristo e ci si rende conto che la permanenza in Babilonia non è la permanenza degli esiliati del 587-86, non è una permanenza di breve tempo, sta diventando qualcosa che durerà nel tempo. Allora Geremia (che si trova a Gerusalemme in quel momento e che è il profeta, come sapete, più angariato e più vilipeso) si interroga profondamente sul senso di questa situazione in un momento in cui la ‘teologia’ ebraica aveva fortemente centrato il senso della sua storia sulla città (Gerusalemme) e sul luogo in particolare (il tempio) e sulla funzione sacerdotale (attorno al tempio di Gerusalemme). Quindi a Babilonia vengono meno queste tre caratterizzazioni fondanti la teologia ebraica: non siamo più a Gerusalemme, il tempio è stato distrutto, non ci sono più i sacerdoti o per lo meno non hanno più i paramenti sacri, i punti di

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riferimento e così via (ecco perché, non a caso, proprio in tempo di esilio, nasce l’esigenza di mettere per iscritto le tradizioni per cui i primi testi scritti del Primo Testamento vanno collocati lì, nell’esigenza che c’era a Babilonia di avere dei punti di riferimento). Geremia si interroga e legge questo esilio come un fatto provvidenziale, dandogli una lettura scandalosa perché naturalmente c’è l’ansia di ritornare (ricordate il salmo Come possiamo cantare i salmi in terra straniera). E lui invece va del tutto contro corrente. In questa lettera, che manda a nome di Dio, dice: Guardate che oggi siamo chiamati a leggere in filigrana il senso di quanto sta accadendo. E il senso di quanto sta accadendo è che dobbiamo accettare l’esilio e cercare di decifrare all’interno dell’esilio un messaggio positivo. Non perché alla fine tutto va bene e c’è sempre da tirar fuori la speranza, ma perché in questo momento l’esilio ha un messaggio preciso per noi. E io credo che sia un messaggio fortemente teologico: ecco perché mi ci fermo tanto. Il messaggio (lui parla a quelli che sono a Babilonia, e che ormai stanno male, vorrebbero tornare) è questo: così dice il Signore, Dio degli eserciti, voi dovete stare lì, moltiplicatevi lì, piantate alberi da frutta e fate frutti. Prendete mogli e fate figli. Fare figli è il senso della benedizione, è il senso del futuro, come diceva ieri molto bene Paolo De Benedetti, è il senso di avere una posterità, di intravedere un senso per il futuro. Geremia chiede agli esiliati in Babilonia di fare figli in terra straniera, di farli nella terra del nemico, di farli nella terra di quel popolo di cui il Salmo 136 arriva a dire: Beato chi prende i tuoi figli e li sfracella buttandoli giù dalla rupe. In altre parole Geremia invita gli ebrei non a venire a patti col nemico, ma addirittura a fare la sua fortuna, perché fare figli equivale a produrre benedizione al nemico. Credo che questo sia un vertice della laicità nel Primo Testamento: questo senso di avere un riferimento alla terra, di fedeltà alla terra.Prendo ora in considerazione due passi del Nuovo Testamento che io credo producano altri due scrolloni forti rispetto a questo filone, uno dei quali è l’incontro di Gesù con la donna di Samaria, che ricordate tutti e di cui si è già parlato l’anno scorso. È un incontro di genere, di un uomo e di una donna, ma non soltanto: ci sono anche differenze di storia personale e di tradizione religiosa. Un ebreo con una samaritana, quindi con una eretica. Di fronte a questa straniera eretica e donna di facili costumi, Gesù apre ad un messaggio che probabilmente è il messaggio più avanzato del Nuovo Testamento in chiave di laicità, almeno come voglio intenderla io. Nel momento in cui lei gli pone la domanda cruciale sul luogo in cui sacrificare (sul monte Garizim o sul monte Sinai ? Chi ha ragione ? è un problema che c’è ancora oggi: si deve andare in chiesa, in sinagoga o nella moschea ?), Gesù non accetta la domanda e la stravolge, dicendole in maniera molto chiara che la questione non è più di interrogarsi su quale sia il luogo più santo. Questa è una domanda vecchia, una domanda che andava bene quando c’era la differenza tra sacro e non sacro, tra puro ed impuro, in una fase della religione d’Israele che è superata. A questo punto il tema è di adorare Dio in spirito e verità. Credimi, donna, è venuto il tempo in cui la questione non è più se il mio luogo sacro è più sacro del tuo. E quindi qui c’è questa fortissima istanza escatologica, di apertura al nuovo, per cui questo testo si apre direttamente all’Apocalisse, a “un cielo nuovo e una terra nuova” per

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cui le cose di prima sono scomparse, non c’è più lutto, pena di morte e così via. Perché si è aperta un’altra stagione e questa stagione si è aperta con Gesù. Come dice bene Marco 1,15: è il tempo che è cambiato, la richiesta di metanoia, di conversione è legata al fatto che è la qualità del tempo che è cambiata.E l’ultimo brano che cito è proprio un brano che riguarda la diversa connotazione del tempo che si è avuta con Gesù. 1Cor 7,29-31: è un testo celeberrimo che va incorniciato all’interno di quel capitolo che parla di matrimonio e verginità. Io semplicemente vi ricordo che è il testo in cui viene celebrato il ritornello del “come se non”: d’ora in poi fate come se non. Quel d’ora in poi è fortissimo: è cambiata la qualità del tempo, che si è accorciato, che si è abbreviato. D’ora in poi quelli che vanno al mercato facciano come se non ci andassero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che ridono come se non ridessero, quelli che usano di questo mondo come se non ne usassero. Badate che questo è un passo che si porta dietro molte ambiguità. È stato utilizzato per valorizzare la dimensione aerea del Cristianesimo, e quindi il disprezzo nei confronti delle realtà terrene. Ma in realtà è tutt’altro; in realtà qui c’è la sottolineatura della relativizzazione (questo, se volete, è il manifesto della relatività cristiana, non del relativismo) delle realtà penultime che però vanno collocate e valorizzate positivamente in un contesto. Non è il manifesto del disprezzo delle realtà penultime, ma è il manifesto della giusta collocazione all’interno di un tempo che si è fatto breve, che si è imbrigliato, e della constatazione che di questo mondo, che è un gran teatro secondo una metafora antichissima, di questo mondo passa la scenacome dice esplicitamente il versetto 31. Ciò che resta è la sostanza, e la sostanza è il fatto che siano cambiate le modalità del tempo. È ovvio che questo rapidissimo excursus biblico sulla laicità ha prodotto in realtà nella storia delle chiese cristiane (qui posso usare purtroppo il plurale) una situazione molto diversa. Le cose sono andate diversamente e quindi la dinamica del già e non ancora è stata soppiantata costantemente dalla pesante occupazione del potere, con le dovute eccezioni.Ma il senso autentico della laicità cristiana presuppone la distinzione dei piani, il rispetto dell’opinione altrui e un paziente complesso lavoro di discernimento della realtà. Come ha scritto anni fa Enzo Bianchi: “Riconoscere e rispettare le alterità, le diversità è operazione difficile; ma è altrettanto difficile comunicare con l’altro accettando di essere particolari (pars in latino) e universali insieme, sincronicamente. Questo risulta evidente oggi per i cristiani che, avendo preso coscienza di essere una minoranza all’interno di un’umanità che segue o non segue altre religioni, si trovano assaliti dalla paura di non poter sentirsi e farsi leggere come la religione per eccellenza, l’unica che possiede la verità”.

LAICISMO E CLERICALISMONELL’ITALIA DI OGGI

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Ora si potrebbe domandare: che cosa ha impedito che la laicità venisse riconosciuta come uno sfondo necessario anche in una chiesa come la nostra e in una situazione come quella italiana ?. Oggi corriamo il rischio in Italia di essere stritolati nell'alternativa tra laicisti da una parte e clericali dall'altra. Oggi, in altri termini, si sta ripercorrendo una situazione che l’Italia ha già conosciuto nell’800, di una borghesia liberale che, per evitare derive neotemporaliste, rigurgiti di Stato della Chiesa, pensa che la dimensione religiosa sia una dimensione esclusivamente individuale, personale, legata alle dinamiche della coscienza. E quindi, nel momento in cui si chiudono come esito storico le facoltà teologiche statali, la cosa non produce particolari problemi e non si coglie invece che da lì purtroppo deriverà tutto quello che vediamo: il provincialismo italico sulle cose della teologia e così via. Questo da una parte. Dall’altra parte il clericalismo, il fatto che la risposta a questa chiusura borghese è il ripristinare il messaggio che la teologia, che la Bibbia, che la lettura della Scrittura, come storicamente è stato, sono robe da preti. E guardate che io ci torno sopra oggi perché credo che ci siano molti segnali in questo senso: costantemente accadono molti episodi, anche nella cronaca, in cui ci si rende conto come sempre di più stiamo tornando a questa dicotomia. Per cui c’è tutto un filone di laicismo, di disinteresse, di chiusura nei confronti delle cose religiose che, tra l’altro, ha fatto sì che la nostra classe politica, destra e sinistra (purtroppo in questo c’è una interessante par condicio), non abbia preso sul serio questa dimensione plurale delle religioni e non abbia, salvo pochissime eccezioni, preso sul serio il fatto che il meccanismo delle intese andava portato avanti, la legge sulla libertà religiosa andava discussa, il discorso di quale modello per l’immigrazione in un Paese come l’Italia andava seguito, tutti ambiti in cui c’è stato un supremo disinteresse da destra e da sinistra. Segnale molto preoccupante oggi. Unico segnale in controtendenza è stata la Consulta sull’Islam italiano voluta dal ministro Pisanu, che io giudico per lo meno un tentativo interessante.Io credo che il cristianesimo del futuro sarà un cristianesimo laico o non sarà. Non credo alla possibilità che siano le religioni civili ad avere futuro. Posso anche sbagliarmi perché è chiaro che c’è una spinta molto forte che porta nella direzione della religione civile. Anzi l’eccezione su questo versante è l’Europa; l’unica realtà dove la secolarizzazione ha prevalso (nel senso della distinzione dei piani e nel senso dell’accettazione piena, salvo qualche eccezione, della laicità) è l’Europa. La tendenza opposta è una realtà montante che risponde a esigenze fortissime; però la caratterizzazione di tutto questo (dell’islam, come del neo-induismo, del pentecostalismo ecc.) è proprio la non distinzione dei piani, è proprio l’assenza di questo modello di laicità nell’orizzonte di partenza. È questo un tema delicatissimo che intreccia col ragionamento che facemmo l’anno scorso qui sulla chiesa, sul fatto che ormai il cristianesimo che aumenta è il cristianesimo del sud del mondo, cioè un cristianesimo, se non tutto in buona parte, non laico, anche perché, evidentemente, si intreccia con la tradizione culturale africana, col pensiero asiatico, ecc. Però io distinguerei da questo punto di vista l’islam in Europa. Su questo ho le idee molto chiare: qui c’è un punto di riferimento, non una tavola dei valori, ma un orizzonte culturale di riferimento, una serie di diritti civili minimi che sono il punto di

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partenza, non trattabili. Si tratta su tutto il resto, ma questo non è trattabile: dalla laicità alla distinzione dei piani, alla condizione della donna, ai modelli familiari. Personalmente mi sento di essere abbastanza ottimista. Ieri c’era un’intervista sulla Stampa di un filosofo musulmano della Svizzera francese che andava in questa direzione. Penso soprattutto ai giovani musulmani, a quelli che hanno quattordici anni oggi: in realtà sono italiani di famiglia marocchina o tunisina. Non è un esito scontato. Conterà molto l’aspetto politico a cui accennavamo prima. Sarà fondamentale la gestione della concessione della cittadinanza, per esempio, che non a caso è un tema cruciale oggi. L’idea che ci siano dei ragazzini che, nati in Marocco, portati qui a sei anni, a due anni, anche a due mesi, che seguono il curriculum scolastico italiano e che non hanno a 17 anni ancora la cittadinanza italiana... La condizione del cristiano oggi in un’epoca di spaesamento e di incertezza è la condizione del credente, cioè di uno che non ha una pietra su cui posare il capo, come capitò al credente per eccellenza Gesù; è la condizione di chi non dovrebbe potersi fondare su certezze di tipo religioso o superstizioso, ma semplicemente sulla parola di Gesù: sulla tua parola getterò le reti. Quindi è la metafora della situazione del credente ed è anche il paradosso della situazione che, invece, nel corso della storia, ha visto ben altro, ha visto spesso esattamente il contrario, ha visto lo Stato della Chiesa, le certezze politiche, proprio all’opposto di questo abbandono alla dimensione della laicità, della ferialità, della quotidianità, che è, però, ciò che nella Scrittura emerge.

IL PERDONO NELL’IDENTITÀ DEL CRISTIANO

Il perdono sembra uno dei tanti temi che si possono incontrare. La tesi che intendo sostenere è che invece il perdono è uno degli elementi di base di un cristianesimo nuovo, dopo il tempo della cristianità. Perché io credo che il perdono sia uno dei non tanti elementi costitutivi dell’identità del cristiano. Il perdono è tipico del cristiano e lo si vede anche in un’analisi rapida della Scrittura. Ci sono tre tappe decisive nel formarsi della Chiesa nei Vangeli e sono tre tappe tutte contrassegnate dalla remissione dei peccati: 1) Mt 16,19 l’autorità conferita a Pietro, roccia basilare della Chiesa, è il potere del

perdono;2) Mt 26,8: l'eucarestia, che dà forma all'intera comunità ecclesiale, è memoria

dell’evento in cui Cristo ha versato il proprio sangue in remissione dei peccati. Anche l’Eucarestia vede un collegamento stretto con la remissione dei peccati;

3) Gv 20,23: il mandato missionario consegnato ai discepoli li abilita alla remissione dei peccati.

Se c’è una caratterizzazione identitaria costitutiva forte dell’essere chiesa è la possibilità di perdonare i peccati. Una definizione interessante dell’allora card. Ratzinger è: “La Chiesa è una comunità di peccatori convertiti che vivono nella grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri”.

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Da questo punto di vista io credo che uno degli indicatori poco frequentati, ma trasparenti di quella crisi di cui parlavamo ieri, è la crisi profondissima del sacramento della confessione, che dovrebbe essere il cuore della vita cristiana, il cui centro è la conversione, la metanoia, il cambiamento di stile di vita. Come mai non ci si confessa più ? In un editoriale di qualche mese fa su Tempi di fraternità, in occasione della Quaresima, abbiamo messo come titolo: Saremo gli ultimi a confessarci ? Il problema è serio tanto più che nella Bibbia il perdono è incondizionato, non è preceduto dal pentimento, ma anzi è esso stesso che fonda e rende possibile il pentimento. Basta vedere la parabola cosiddetta del figliolo prodigo (Lc 15) in cui il pentimento del figlio può iniziare solo nel momento in cui si rende conto, percepisce l’amore del Padre, che non aveva cessato di amarlo quando egli si era allontanato da lui. Perdono, anche etimologicamente, è la proiezione massima del dono. Per è un accrescitivo, un moltiplicativo. Quindi il perdono lo si può cogliere solo nello spazio della libertà, dell’amore, solo nello spazio del dono. Sarebbe molto interessante (ma non posso farlo) inserire questa riflessione nella nuova etica del dono, che è uno dei filoni più ricchi della filosofia francese di oggi. Anche etimologicamente quindi perdono rinvia a quel dare in più, che si traduce nella rinuncia ad un rapporto di tipo giuridico, in nome di un rapporto di grazia, di gratuità. Quindi da questo punto di vista il perdono è importante soprattutto perché rompe il vincolo meccanicistico del dare e dell’avere, che contraddistingue ogni nostra relazione oggi. È il segno di contraddizione. E io credo che, da questo punto di vista, Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata mondiale per la pace del 2003 abbia centrato il tema. Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Il perdono che la Chiesa ha sempre predicato come connaturato alla vita cristiana deve diventare, diceva Giovanni Paolo II, non solo prassi personale nel cammino verso la santità, ma anche etica e cultura. Qui davvero la difficoltà si fa enorme, perché quando si parla di una cosa del genere, o dell’amnistia, c’è il rischio della banalizzazione. Quindi occorre un’etica del perdono, una cultura del perdono, fino a profilarsi (e diceva esattamente così Giovanni Paolo II) come politica del perdono, espresso in atteggiamenti sociali e istituti giuridici, in cui la giustizia è esercitata e riproposta. Quindi il perdono dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano nella vita della polis, ma non lo è. Io sento la limitatezza del nostro essere cristiani anche nella misura in cui non c’è la dimensione del perdono, salvo eccezioni meritorie. Pensate solo come sul tema del terrorismo non si possa neanche parlare. Immediatamente, se tu usassi la parola perdono, accanto alla parola terrorismo, saresti tacciato di complicità. Eppure il perdono è la prassi del cristiano nella vita della polis. Il perdono (che non è perdonismo, non è il caso di insistere su questo) si rende necessario a livello sociale, politico, nei rapporti tra le nazioni, i gruppi. Mi sembra importante evidenziare come non ci possa essere un progetto di società futura, contrassegnata dalla pace, dalla qualità della convivenza sociale e della solidarietà, in vista di una vera communitas, senza immettere il perdono nel concetto e nella prassi della giustizia. Qui ci sono dei percorsi ancora poco studiati. Cito solo un esempio: il processo di riconciliazione nazionale nel Sud Africa, che è stato un

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esperimento meraviglioso, che andrebbe portato ad esempio anche per quello che potrà succedere in Israele e Palestina. Quindi non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Giovanni Paolo II diceva che questo va annunciato a tutti, credenti e non credenti, o, secondo le parole citate ieri del card. Martini, a pensanti e non pensanti, a quanti hanno a cuore il bene della famiglia umana e della società. Certo una prassi del perdono comporta a breve termine un’apparente perdita e forse anche una sconfitta. Ma in realtà assicura un guadagno a lungo termine. La violenza è l’esatto opposto: guadagno a scadenza ravvicinata, ma a lungo termine una perdita reale e permanente. Il perdono, al contrario di quello che si pensa di solito, non è una debolezza, anche perché chi lo pratica deve essere munito di una grande forza spirituale, di una grande disciplina nei confronti della propria aggressività. Al perdono occorrerebbe educarsi con pazienza e coraggio. Un imperativo ecclesiale forte è proprio quello dell’educazione al perdono. Nella prospettiva in cui le Chiese del futuro di minoranza perdono tante esigenze (che si ritengono fondamentali e non lo sono) e si concentrano su ciò che conta davvero, ecco una cosa su cui concentrarsi è proprio l’educazione al perdono. Vorrei aggiungere che concedere e accettare il perdono è sempre stato opera di pochi, ma oggi, ha scritto Enzo Bianchi, deve diventare prassi dei cristiani e di altri uomini che cercano vie di senso e desiderano la pace per la terra. Il principio perdono è per il cristiano giusto in sé, perché rifiuta di identificare il male con l’uomo che lo compie e quindi di cosificare l’uomo, riducendolo al suo operare malvagio. L’uomo non è una cosa, anche quando compie il male resta una persona. Il perdono è un investimento in umanità. Per concludere, credo che il perdono possa aiutarci a ripensare profondamente al concetto di giustizia retributiva. Situazioni di conflitto endemico, come appunto nel Medio Oriente, situazioni cariche di odio e di violenza, di azioni e reazioni mortifere, possono trovare una soluzione, un’apertura verso un radicale ristabilimento della giustizia solo attraverso un atto di perdono reciproco per i crimini commessi. Questo lo dico, ben sapendo che oggi tra Israele e Palestina sia quasi folle dire questo. C’è ancora la dinamica non della riconciliazione, ma dell’andare a cercare chi è stato il primo a fare le cose. Mi sono trovato spesso a discutere di questo fino a qualche anno fa, quando andavo in Palestina, e adesso non lo faccio più. Mi sono reso conto che è ancora in atto una dinamica mortale, per il momento non c’è niente da fare. Credo che il nostro compito sia quello di condividere quanto Martini dal suo osservatorio privilegiato, che è Gerusalemme, continua a dire e ha detto mirabilmente in un articolo del Corriere della sera tempo fa sul conflitto israelo-palestinese: “L’unica strada per superare gli idoli dell’odio e della violenza è re-imparare a guardare il dolore dell’altro”. È difficilissimo: vuol dire rispettarlo, rendersi conto che una parte di quel dolore gliel’ho prodotta io, anche se inavvertitamente. In Palestina è evidentemente così. Continua Martini: “la memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessa, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia e della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche la memoria della sofferenza dell’altro,

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dell’estraneo e persino del nemico allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace”.

INDICE

MEIC – Commissione diocesana per l’ecumenismo p. 2

Il saluto del Vescovo p. 3

Il messaggio del Presidente nazionale del MEIC p. 4

Pastore Alberto Taccia La speranza nella riflessione delle chiese evangeliche p. 5

Prof. Paolo De Benedetti La speranza di Israele p. 11

Prof. Don Pier Mario Ferrari Extra ecclesiam nulla salus? Il possibile equivoco di una formula e il ripensamento magisteriale p. 18

Prof. Don Pier Mario Ferrari La provocazione del “pluralismo” religioso: il dibattito teologico in corso p. 30

Prof. Brunetto Salvarani La cristianità del futuro (prima parte) p. 43

Prof. Brunetto Salvarani La cristianità del futuro (seconda parte) p. 51

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