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IL LABIRINTO - Volpiano - Tavola di smeraldo · Cos’è il dolore? La risposta a questa domanda è...

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IL LABIRINTO Periodico telematico di informazione culturale Anno 2, n°10 Ottobre 2009 Comitato Scientifico : Sandy Furlini, Paolo Cavalla, Katia Somà, Roberta Bottaretto www.tavoladismeraldo.it [email protected] GIORNATA DI RIFLESSIONE SUL DOLORE E SOFFERENZA: presentazione del convegno (a cura di Paolo Cavalla) Cos’è il dolore? La risposta a questa domanda è talmente intuitiva che forse non vale neanche la pena rispondervi. Chi infatti non ha mai provato questa spiacevole sensazione nel corso della sua vita! Certo è che esso è parte integrante della nostra esistenza, anche se con modalità ed intensità molto diverse da un individuo all’altro. In realtà la percezione del dolore non è un’esclusiva del genere umano, ma si è sviluppata nel corso dei millenni affinandosi sempre più parallelamente all’evoluzione degli organismi viventi. Questo riscontro è molto importante perché da solo ci permette di affermare con certezza che in biologia “la sensazione dolore” è utile in quanto rende più competitivi gli esseri viventi nella loro lotta per affermarsi all’interno del proprio ecosistema. Infatti, in base alle leggi dell’evoluzione, una caratteristica viene trasmessa e conservata nelle generazioni successive solo quando questa è utile agli individui che la possiedono perché, rendendo questi individui più idonei alla sopravvivenza, aumenta la probabilità che essi si possano riprodurre e quindi possano tramandare il carattere alla propria progenie. I sistemi organici che permettono la rilevazione del dolore non hanno mai smesso di affinarsi nel corso dell’evoluzione accompagnando fedelmente lo sviluppo dell’apparato nervoso che nell’homo sapiens (specie alla quale noi apparteniamo) ha raggiunto il massimo delle capacità operative. Infatti la possibilità di rilevare repentinamente e con maggior precisione stimoli dolorosi permette di conseguenza la possibilità di allontanare con maggior prontezza agenti nocivi prima che possano provocare un danno irreparabile per il nostro organismo. Un individuo che non è in grado di percepire il dolore non potrebbe sapere se per esempio una parte del suo corpo fosse a contatto con un oggetto incandescente, oppure se una torsione di un arto fosse prossima a fratturargli un osso, ecc. Un’altra applicazione importante della sensazione dolore è rilevabile allorquando un processo patologico in atto costringa l’organismo al riposo o alla ricerca di un rimedio: non è un mistero che anche gli animali, in occasione di determinati disturbi, seguendo il loro istinto, ingeriscano sostanze minerali o vegetali in grado di lenire il dolore e curare i loro disturbi. Proprio per questa sua fondamentale funzione di allertamento il dolore deve essere considerato un importante e necessario strumento di adattamento alla vita. Pag.1 Ma la sua utilità biologica si esaurisce qui: quella di spia di una patologia in fieri. Invece oggi sappiamo, ormai anche motivando tale affermazione sul piano scientifico, che il dolore si accompagna spesso a deprecabili effetti psicologici e patologici che possono indirizzare in senso negativo l’evoluzione di una malattia o, addirittura, diventare malattia essi stessi. Vediamo di riassumerne le motivazioni: 1.In primo luogo la sensazione dolorosa non viene elaborata dal sistema nervoso centrale unicamente come input informativo, ma interessa centri cerebrali deputati alla caratterizzazione emotiva dell’impulso. Ecco che il dolore assume anche una valenza affettiva, chiaramente spiacevole. Viene cioè vissuto come un sentimento: la sofferenza. 2.In secondo luogo il dolore tende a cronicizzarsi. Infatti le vie nervose deputate alla trasmissione dell’informazione nocicettiva al sistema nervoso centrale con il perdurare dello stimolo si sensibilizzano maggiormente allo stimolo, continuando poi a trasmettere l’informazione dolorosa anche in occasione di stimoli non patologici o addirittura in assenza di stimoli. Un classico esempio di questo fenomeno lo si può osservare nella cosiddetta sindrome post-erpetica, conseguente alla guarigione da Herpes Zoster (il banale fuoco di Sant’Antonio): non raramente i soggetti colpiti continuano a percepire fastidio o dolore nell’area che era stata interessata dall’affezione nonostante la completa guarigione dalla malattia. Cartesio Rappresentazione del segnale doloroso Cristo velato 1753 di G. Sammartino. Cappella di San Severo Napoli
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IL LABIRINTOPeriodico telematico di informazione culturale

Anno 2, n°10 Ottobre 2009 Comitato Scientifico: Sandy Furlini, Paolo Cavalla,

Katia Somà, Roberta Bottarettowww.tavoladismeraldo.it

[email protected]

GIORNATA DI RIFLESSIONE SUL DOLORE E SOFFERENZA: presentazione del convegno (a cura di Paolo Cavalla)

Cos’è il dolore? La risposta a questa domanda è talmente intuitiva che forse non vale neanche la pena rispondervi. Chi infatti non ha mai provato questa spiacevole sensazione nel corso della sua vita! Certo è che esso è parte integrante della nostra esistenza, anche se con modalità ed intensità molto diverse da un individuo all’altro. In realtà la percezione del dolore non è un’esclusiva del genere umano, ma si è sviluppata nel corso dei millenni affinandosi sempre più parallelamente all’evoluzione degli organismi viventi. Questo riscontro è molto importante perché da solo ci permette di affermare con certezza che in biologia “la sensazione dolore” è utile in quanto rende più competitivi gli esseri viventi nella loro lotta per affermarsi all’interno del proprio ecosistema.

Infatti, in base alle leggi dell’evoluzione, una caratteristica viene trasmessa e conservata nelle generazioni successive solo quando questa è utile agli individui che la possiedono perché, rendendo questi individui più idonei alla sopravvivenza, aumenta la probabilità che essi si possano riprodurre e quindi possano tramandare il carattere alla propria progenie. I sistemi organici che permettono la rilevazione del dolore non hanno mai smesso di affinarsi nel corso dell’evoluzione accompagnando fedelmente lo sviluppo dell’apparato nervoso che nell’homo sapiens (specie alla quale noi apparteniamo) ha raggiunto il massimo delle capacità operative. Infatti la possibilità di rilevare repentinamente e con maggior precisione stimoli dolorosi permette di conseguenza la possibilità di allontanare con maggior prontezza agenti nocivi prima che possano provocare un danno irreparabile per il nostro organismo. Un individuo che non è in grado di percepire il dolore non potrebbe sapere se per esempio una parte del suo corpo fosse a contatto con un oggetto incandescente, oppure se una torsione di un arto fosse prossima a fratturargli un osso, ecc. Un’altra applicazione importante della sensazione dolore è rilevabile allorquando un processo patologico in atto costringa l’organismo al riposo o alla ricerca di un rimedio: non è un mistero che anche gli animali, in occasione di determinati disturbi, seguendo il loro istinto, ingeriscano sostanze minerali o vegetali in grado di lenire il dolore e curare i loro disturbi. Proprio per questa sua fondamentale funzione di allertamento il dolore deve essere considerato un importante e necessario strumento di adattamento alla vita.

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Ma la sua utilità biologica si esaurisce qui: quella di spia di una patologia in fieri. Invece oggi sappiamo, ormai anche motivando tale affermazione sul piano scientifico, che il dolore si accompagna spesso a deprecabili effetti psicologici e patologici che possono indirizzare in senso negativo l’evoluzione di una malattia o, addirittura, diventare malattia essi stessi. Vediamo di riassumerne le motivazioni:1.In primo luogo la sensazione dolorosa non viene elaborata dal sistema nervoso centrale unicamente come input informativo, ma interessa centri cerebrali deputati alla caratterizzazione emotiva dell’impulso. Ecco che il dolore assume anche una valenza affettiva, chiaramente spiacevole. Viene cioè vissuto come un sentimento: la sofferenza. 2.In secondo luogo il dolore tende a cronicizzarsi. Infatti le vie nervose deputate alla trasmissione dell’informazione nocicettiva al sistema nervoso centrale con il perdurare dello stimolo si sensibilizzano maggiormente allo stimolo, continuando poi a trasmettere l’informazione dolorosa anche in occasione di stimoli non patologici o addirittura in assenza di stimoli. Un classico esempio di questo fenomeno lo si può osservare nella cosiddetta sindrome post-erpetica, conseguente alla guarigione da Herpes Zoster (il banale fuoco di Sant’Antonio): non raramente i soggetti colpiti continuano a percepire fastidio o dolore nell’area che era stata interessata dall’affezione nonostante la completa guarigione dalla malattia.

Cartesio Rappresentazione del segnale doloroso

Cristo velato 1753 di G. Sammartino. Cappella di San Severo Napoli

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D’altra parte non possiamo trascurare il fatto che, parallelamente all’affinamento dei sistemi di identificazione del dolore, gli organismi viventi hanno evoluto tecniche di modulazione della sensibilità al dolore. E’ infatti indubbio, anche dal punto di vista evoluzionistico, che la competitività nella trasmissione dei propri caratteri alle generazioni successive rende privilegiati gli individui i quali riescono comunque a portare avanti le attività connesse alla propria sopravvivenza anche quando danneggiati da eventi che compromettono le proprie performances.

IL LABIRINTO

Periodico telematico di informazione a cura del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo. Anno 2, n°10 Ottobre 2009

Per cui, se non ci limitiamo ad esaminare esclusivamente le caratteristiche dell’ecosistema in cui l’uomo è attualmente inserito, dove basta aprire il frigorifero di casa per poter reperire comodamente cibi ipernutrienti a lunga conservazione, sarebbe infatti impensabile poter sopravvivere con le limitate risorse dei nostri progenitori senza avere la possibilità di procurarsi quotidianamente il cibo. Dal punto di vista strettamente biologico si viene pertanto a delineare un quadro molto complesso in cui gli organismi superiori e soprattutto l’uomo, vivono “l’esperienza dolore” come il risultato di una complessa e continua modulazione degli impulsi nervosi dolorosi afferenti al sistema nervoso centrale. Le cose si complicano quando l’analisi del dolore viene fatta da un punto di vista medico, cioè avendo come obiettivo il trattamento del “sintomo dolore”, ovvero, in casi estremi, della “malattia dolore”. Come abbiamo visto sopra, il dolore riveste un’importanza fondamentale quando esso è legato al concetto utilitaristico di avvertimento di un pericolo per l’integrità biologica di un organismo, o di impedimento ad utilizzare inconsapevolmente tessuti lesionati o in via di guarigione. Invece non riveste più alcun significato quando costringe in modo continuo e persistente un individuo a percepire una sensazione spiacevole che non riveste più un significato biologico concreto. *

*Per semplificare facciamo l’esempio dell’ustione: il dolore riveste sicuramente un’importanza fondamentale per evitare di appoggiare una mano su un fornello incandescente, ma che senso può avere lo stesso dolore percepito da un individuo con gravi ustioni su gran parte del suo corpo il quale spesso può contare solo più su pochi giorni di vita? Si viene così a delineare un concetto molto importante e di comune riscontro della praticamedica quotidiana: il dolore non necessario. Cioè quel dolore che, esaurita la sua funzione biologica, determina paradossalmente un’amplificazione degli effetti deleteri della patologia in atto. Inoltre il prolungamento della vita umana e l’efficacia delle terapie oggi a disposizione portano alla sopravvivenza di soggetti malati cronici che purtroppo sono costretti a convivere anche per anni con patologie dolorose.

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E’ questo il caso di quel grande capitolo di malattie croniche che spazia dai tumori alle connettiviti, dall’artrosi alle ulcere cutanee, ecc. Trovandosi di fronte al dolore non necessario diventa pertanto un imperativo medico cercare una valida strategia terapeutica che abbia come obiettivo primario la risoluzione o, quanto meno, l’attenuazione dello stesso. Le armi non mancano affatto, purtroppo spesso manca la volontà! Stranamente l’analgesia, in special modo nel nostro Paese, rappresenta la cenerentola delle branche mediche, e dico stranamente perché tra le più arcaiche motivazioni che contribuirono, fin già dalla preistoria, a creare la figura dello stregone-medico c’è senza dubbio quella di trattare le affezioni dolorose. La regressione dell’analgesia ad un ruolo di secondo piano nelle strategie terapeutiche si è venuta delineando in modo sempre più marcato nel corso dell’ultimo secolo fondamentalmente come corollario sia all’evoluzione tecnologica della medicina, sia alla creazione di una nuova e sempre attuale categoria sociopatica, quella del tossicodipendente. Infatti con la scomparsa, alla fine degli settanta del novecento, della visione olistica dell’individuo che aveva la sua massima espressione nella figura del medico condotto, si è sempre più affermata l’identità di una classe medica distaccata dalle necessità affettive del malato, visto più come un organismo biologico da aggiustare piuttosto che come un essere umano.

Sciamano. Foto di Renato Somà - India

1959 – Robert Tohm – Ippocrate nel visitare un bambino(”History of Medicine in Pictures”, by Robert Thom)

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Ecco che il dolore e la sofferenza possono venire interpretati solo come il corollario di una malattia e, spesso in buona fede, non essere tenuti in debito conto nell’impostazione delle terapie. Un ulteriore e forse più grande impedimento al corretto trattamento del dolore deriva dal fatto che tra le classi di farmaci analgesici la più potente è rappresentata dagli oppioidi, il cui capostipite è la morfina. A dispetto della reputazione fortemente negativa che li accompagna, gli oppioidi sono la più valida delle opzioni terapeutiche che possediamo nei confronti del dolore medio-grave e sono gravate da una incidenza di effetti collaterali irrisoria rispetto ad analgesici di uso molto comune come gli antiinfiammatori non steroidei o i cortisonici. Ormai le prove di quanto affermato sono ampiamente documentate dalla stampa medica internazionale, ma, in Italia, vengono spesso ignorate quando si tratta di pianificare le strategie terapeutiche in tema di analgesia.

Le barriere culturali che determinano questo risultato sono fortemente radicate nel nostro modo di pensare ed interessano sia i sanitari che la popolazione in generale. Quest’ultima interpreta negativamente l’utilizzo degli oppioidi soprattutto per la paura atavica di incorrere in una dipendenza, immaginando che questo rischio possa essere giudicato accettabile solo in caso di patologia rapidamente ingravescente ad evoluzione infausta: in parole povere morfina = neoplasia maligna = condanna a morte. I sanitari sono invece spaventati piùdall’insorgenza di effetti collaterali gravi, prima fra tutti l’insufficienza respiratoria. Io stesso sono consapevole del fattoche appena uscito dall’Università fossi strenuamente convinto che gli oppioidi fossero da impiegare solo in rari e ben selezionati casi. Solo la pratica clinica, e soprattutto gli anni trascorsi nell’emergenza territoriale e in pronto soccorso mi hanno certamente illuminato sul fatto che gli oppioidi, quando correttamente usati nel paziente sofferente, danno evidenti benefici terapeutici con rari effetti secondari. Non ho mai riscontrato effetti collaterali somministrando in modo appropriato gli oppioidi, tanto meno crisi respiratorie, mentre non infrequentemente ho riscontrato gravi emorragie digestive o scompensi cardiaci in soggetti trattati con i FANS. La unica condizio sine qua non da rispettare è quella che gli oppioidi vengano impiegati quando presente dolore. Infatti lo stato di dolore determina il consumo delle molecole farmacologicamente attive privandole della possibilità di provocare effetti collaterali agendo in siti diversi da quello in cui è richiesta la loro azione biologica e questo fatto ha una spiegazione razionale. Infatti le molecole di morfina ed i suoi derivati sintetici mimano la composizione chimica delle molecole prodotte dal nostro organismo per modulare il dolore, le cosiddette endorfine, e agiscono con lo stesso meccanismo d’azione sui loro recettori specifici.

In conclusione, concordando con la bella presentazione fatta per il nostro congresso del 31 ottobre dalla Dr.ssa Appiano, possiamo affermare che da secoli illustri pensatori, filosofi e teologi cercano una risposta convincente per motivare il dolore e la sofferenza. Partendo appunto da un punto di vista squisitamente bioetico, la Dr.ssa Appiano sintetizza efficacemente l’interpretazione della “dimensione dolore” fornita dalle più importanti correnti etico - religiose presenti in Occidente, alla luce anche del fatto che la globalizzazione ha inevitabilmente comportato la convivenza negli stessi ambititerritoriali di persone caratterizzate da background culturali notevolmente diversi tra loro. Resta comunque certo un solo fatto: qualunque sia la risposta che ognuno di noi dà sul perché, il dolore e la sofferenza fanno parte della vita di ciascuno di noi.

Per usare un classico esempio didattico, possono essere paragonate a chiavi che ben si adattano alla serratura rappresentata dai recettori: quando la chiave viene inserita nella sua toppa il recettore viene attivato e si produce l’effetto biologico specifico di quel recettore. Le endorfine e le molecole dei farmaci oppioidi (i quali, a seconda della molecola utilizzata, stimolano i recettori per l’analgesia in modo anche centinaia di volte maggiore rispetto alle endorfine) determinano una inibizione dell’intensità dello stimolo doloroso lungo le vie nervose che dal sito algogenoperiferico trasmettono la sensibilità al sistema nervoso centrale. Più intenso è il dolore, maggiore è il consumo delle endorfine e dei farmaci oppioidi a livello dei loro recettori. Per cui più intenso è il dolore, meno c’è il pericolo di incorrere in effetti collaterali.

Papaver somniferum

Compresse di un Farmaco a base di Morfina

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Periodico telematico di informazione a cura del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo. Anno 2, n°10 Ottobre 2009

Endorfine di Fernanda Core. Acquerello http://www.fernandacore.it

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E’ un argomento scomodo e forse poco popolare perché obbliga l’individuo al confronto e alla riflessione su momenti spiacevoli della sua esistenza. Ma è importante discuterne per cercare sia di essere informati che di poter fronteggiare efficacemente il dolore qualora esso si presenti. Il Dr. Blengini, Medico di Medicina Generale e membro della Commissione Ministeriale terapia del dolore e cure palliative, da anni impegnato nella lotta al dolore inutile, scrive: “Perché un congresso dal titolo “Riflessioni sul dolore e la sofferenza”? Se ne sentiva il bisogno? Ce n’era la necessità? La risposta è indiscutibilmente e senza dubbi un sì pieno e convinto….Un congresso su questi temi potrebbe e dovrebbe diventare un’officina pratica e concreta dove confrontare idee, progetti, ma soprattutto dove si possano vagliare le soluzioni poste concretamente in campo dalle varie realtà locali al fine di definire insieme un modello concreto e non calato dall’alto di come affrontare nella nostra regione il problema del dolore e della sofferenza.” Proprio per questo motivo noi della Tavola di Smeraldo continuiamo a promuovere la discussione su questa scomoda tematica. Fosse anche solo a scopo meramente apotropaico ci siamo fin da subito riproposti di non lasciare che questo argomento venisse sepolto sotto le macerie del nostro vissuto. Oggi disponiamo di armi in grado di combattere efficacemente il dolore, e quando questo non sia necessario da un punto di vista biologico abbiamo il dovere di affrontarlo consapevolmente e di cercare sconfiggerlo con tutte le armi di cui disponiamo.

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Ad ulteriore riprova dell’importanza di quanto affermato resta la grande partecipazione di relatori che in occasione del convegno del 31 ottobre si alterneranno sul palco della Sala Polivalente di Volpiano per testimoniare in prima persona il loro impegno contro il dolore. Saranno presenti figure provenienti dai più diversi ambiti della lotta al dolore: non solo tecnici sanitari come medici, infermieri, ma anche bioeticisti, psicologi e volontari. A tutti coloro che metteranno a disposizione il loro tempo per condividere con noi il loro bagaglio culturale e di esperienza per raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi, va fin da ora il grazie del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo, nella speranza che anche la popolazione recepisca la grande importanza dell’evento.

Con il mese di Ottobre si passa definitivamente dalla stagione più rigogliosa e ricca di colori e fragranze fiorite, all’autunno in cui la natura si trasforma, i frutti ormai sono stati raccolti per le provviste dell’inverno, cambiano i colori, e tutto si prepara al sonno che perdurerà per tutto l’inverno. Allo stesso modo si conclude l’anno per alcuni antichi popoli come i Celti, che con il 31 Ottobre festeggiano il capodanno che, come leggeremo più avanti, rappresenta un importante passaggio simbolico tra la vita e la morte.L’articolo che segue è frutto di un lavoro di ricerca molto più ampio compiuto dall’autrice Sara Bernini sulle origini della festa di Ognissanti. Sara Bernini è responsabile della Rivista Labrys e Presidente dell’associazione Artes che si interessa di approfondire tematiche relative ad arte, spiritualità ed esoterismo. Iniziamo così una interessante e costruttiva collaborazione, e vedremo cosa ci riserverà il futuro....

Il nome Samain o Samhuin, in irlandese, etimologicamente significa "fine dell'estate", anche se secondo altri dovrebbe significare "riunione" come suggerito da T.G.E. Powell. Le celebrazioni cominciavano con lo spegnimento di tutti i fuochi proprio per indicare la morte del sole e la fine dell'estate, che poi sarebbe rinato, movimento che era simbolizzato accendendo un fuoco nuovo.Samhain era quindi il primo giorno dell'anno nuovo, oltre che l'inizio dell'Inverno, o piuttosto era la prima notte dell'anno, poiché i Celti contavano i giorni cominciando dalla notte, non dalla mattina. Rappresentava la fine del vecchio anno ed inizio di quello nuovo, per cui simbolo di morte e rinascita contemporaneamente. Il definire a quale divinità fosse dedicata questa festività lascia ancora molti dubbi, anche se molti miti Celtici si svolgono durante la festa di Samhain e da questi si può cercare di intuire qualcosa a riguardo.

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Periodico telematico di informazione a cura del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo. Anno 2, n°10 Ottobre 2009

FESTE E RITUALI PAGANI(a cura di Katia Somà)

OGNISSANTI: LE SUE ORIGINI, LA SUA STORIA (a cura di Sarah Bernini) ([email protected]) (tratto da Rivista "Labrys", anno I, n.4, Samhain/Yule 2006)

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Riccardo Taraglio in “Il vischio e la quercia” parla anche da un altro punto di vista di questa festa.Egli dice che se, spesso, si è voluto vedere nelle 4 feste maggiori dei Celti un passaggio importante delciclo annuale, a suo parere - sia con Samhain che con Beltane - i Celti volessero celebrare il sorgere e il calare delle Pleiadi, gruppo di stelle facenti parte della costellazione del Toro che sembrano essere state importanti per diversi popoli antichi. Sebbene non vi siano prove che per i Celti esse fossero importanti, sembra che un qualche ruolo lo abbiano avuto per il mondo celtico perché esse segnavano i due momenti fondamentali dell'anno: l'inizio della stagione fredda (ricovero delle greggi e accatastamento delle provviste) e l'inizio della bella stagione (uscita nei pascoli e raccolta dei primi frutti della terra). Infatti, come aveva già fatto notare James Frazer nel suo “Il ramo d'oro” (testo scritto, nella sua versione definitiva, tra 1911 e 1915), più che per il ciclo agricolo, queste feste erano legate al ritmo del lavoro pastorizio; per cui, è possibile che siano feste nate quando ancora i Celti erano un popolo dedito alla pastorizia, molto precedenti quindi al momento in cui si desse importanza al ciclo della terra. Le 4 feste celtiche venivano festeggiate 40 giorni dopo i solstizi e gli equinozi.

Attività magiche svolte a Samhain. Essendo, questa, la festa in cui si incontrano i due mondi, questo era il momento più propizio per attività divinatorie. In Irlanda, Scozia, Bretagna si è sempre mantenuta l'usanza di scoprire il proprio destino tramite certi riti nella notte tra il 31 ottobre e il 1° Novembre.Durante la vigilia di Samhain, i Druidi ordinavano che tutti i fuochi d'Irlanda venissero spenti ed essi accendevano un fuoco nuovo inun luogo elevato da cui partivano dei messaggeri che portavano il fuoco in tutte le case del territorio. Quindi il sole moriva ma risorgeva poco dopo, un po' come successivamente è avvenuto con l'idea della Pasqua nel Cristianesimo. Sempre in questa notte, nel medioevo, si narrava che maghi e streghe si ritrovassero per il loro Sabba, danzando presso i crocicchi con esseri magici che vagano per le campagne in modo semi-visibile. I Celti avevano una forte credenza nella prosecuzione della vitadell'anima oltre la morte, quindi non si interrompeva con la fine della vita sulla terra. Essa, infatti, continuava in due modi: nella “rinascita” in un altro mondo con cui, appunto, si entrava in contatto durante questa festa, oppure sulla terra tramite la metempsicosi, una nuova nascita.Molti sono i miti che sono nati intorno alla festa di Samhain e hanno pervaso le usanze popolari in tutta l’Europa del nord.

Il Sabba delle streghe. Incisione di H. B. Grien

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Dal nostro punto di vista, forse, la cosa più interessante è proprio l'aspetto magico di questa festa celtica, che si esplicava durante la vigilia, il 31 ottobre. In quella serata, al calar del sole, le porte dell'Altromondo si aprivano così che il mondo umano e il mondo del Sidh si incontrassero. I Tumuli in cui il mondo spirituale degli Dèi e degli eroi risiedeva si aprivano al mondo umano. Gli spiriti degli antenati tornavano a trovare i vivi sulla terra, ricordando storie riguardanti le proprie vite e ascoltando le storie cantate dai Bardi, delle loro gloriose vicende, oltre che glorificando gli Dèi. Inoltre, tra le nebbie, potevano presentarsi i prossimi discendenti che avrebbero potuto profetizzare e dare informazioni sul futuro.Quindi, l'importanza di questa festa era che essa univa anno vecchio ed anno nuovo, mondo visibile ed invisibile, senza appartenere né ad uno né all'altro, ma "fluttuando" quasi tra le due realtà. Era al di fuori dal tempo e dallo spazio, in cui si incontravano passato, presente e futuro.

Pleiadi con l'inviluppo delle nebulose è stata scattata il 2 settembre 2005 da Arcidosso (GR) al fuoco diretto di un telescopio Vixen

R200SS (200 mm F:4) su montatura EQ6. Renzo Del Rosso

Fuoco di Samhain – Foto di Katia Somà

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Finito il momento di passaggio, i morti e gli esseri dell'Altromondoritornano alla propria dimora e la "Nuova vita" segue il proprio corso.Un'altra usanza tipica dell'Halloween moderno è quella di mandare i ragazzi di casa in casa a chiedere "Dolcetto o scherzetto", oltre a quella di intagliare le zucche con volti spaventosi per usarle da lanterne.Secondo Frazer, in Scozia, fino al XVIII secolo, è rimasto in uso l'accensione dei fuochi di Samhain sulle alture; le cerimonie di divinazione si svolgevano disponendo le ceneri in circolo dopo che il fuoco si era spento e ponendovi all'interno una pietra per ogni membro delle famiglie che avevano partecipato alla festa.

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Le cerimonie consistevano nella parentatio tumulorum, un servizio funebre servito presso le tombe: si offrivano sul sepolcro corone di fiori, viole sparse, farina di farro con un grano di sale, pane inzuppato in vino.Durante il dominio romano fu esportata, in Britannia, nelle terre celtiche, la festa di Pomona: una festa del raccolto che venne associata a Samhain per cercare di staccare il popolo britannico dal legame che aveva con i Druidi, i propri sacerdoti. Per cui, possiamo capire come, già in epoca romana, vi siano stati tentativi di manipolare una festività importante come Samhain da parte dei popoli occupanti.

La cristianizzazione"Ognissanti" è un' espressione rituale cristiana usata per invocare tutti i santi e martiri del Paradiso, noti o ignoti; per la Chiesa Cattolica la festa, che in latino si chiama Festum Omnium Sanctorum, cade il 1° novembre ed è seguita dalla Commemorazione dei Defunti il 2 novembre. Fin dalla seconda metà del II secolo in Oriente e del III in Occidente, la Chiesa festeggiava ogni anno l'anniversario di nascita di ogni martire, il giorno della sua rinascita in cielo, ovvero la sua morte. I martiri erano ritenuti molti importanti, in quanto testimoni di Cristo, del suo modello. Nei primi secoli si ricordava il martire presso il suo sepolcro con la celebrazione dell'eucarestia: all'inizio si pregava Dio per lui, poi si iniziò a pregare il martire come intercessore presso Dio. L'usanza di celebrare i martiri indusse le chiese locali a compilare un elenco con data di morte e luogo della deposizione del corpo (come voluto da San Cipriano, vescovo di Cartagine morto nel 258).

Le tradizioni popolari rimaste in vitaCome ci ricorda Taraglio, la tradizione del capodanno celtico nei paesi anglossassoni si è mantenuta viva nonostante la cristianizzazione. Nei paesi di lingua inglese, la vigilia di Samhain, il 31 ottobre, ha preso il nome di Allhallows'Eve (Vigilia di Ognissanti) che è conosciuta, più popolarmente, come Halloween, durante la quale le persone girano travestite da mostri, folletti e streghe, riprendendo l'antica usanza rituale del travestimento sciamanico che serviva per porsi al di fuori delle regole della società, assumendo invece l'identità di esseri sovrannaturali per mettersi in contatto con l'Altromondo.

Papa Bonifacio IV istituì il 13 maggio 610 la festa di tutti i Santi che venne celebrata ogni anno per onorare tutti i cristiani uccisi in nome della fede. In quel giorno egli consacrò il Pantheon alla Vergine Maria e a tutti i martiri. Per più di due secoli le due festività, quella pagana e quella cristiana, procedettero in modo parallelo.

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Al mattino si controllava e se una pietra era stata spostata oppure si trovava rotta, probabilmente quella persona sarebbe morta entro l'anno, poiché era fey, ovvero condannata. Le feste dei morti sono presenti in molte culture, in cui hanno delle connotazioni comuni: già gli etruschi, ad esempio, credevano che i defunti sedessero loro accanto sul bordo dei sepolcri partecipando al pasto funebre: nelle necropoli, vivi e morti si mescolavano, come se il velo che dividesse i mondi venisse a sparire, proprio come nel Samhain celtico.Gli antichi Romani festeggiavano i loro defunti per 9 giorni a febbraio, nel passaggio dall'inverno alla primavera, tra vecchio e nuovo anno.

1 Novembre Sollennità di tutti i Santi http://imagepourmesblog.unblog.fr/tag/i-santi/

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Poi, la data venne spostata al 1° novembre da Papa Gregorio III (731-741) per farla coincidere proprio con Samhain, per richieste provenienti dal monachesimo irlandese, sempre per assorbire le festività pagane dando loro una connotazione legata al nuovo messaggio. Papa Gregorio scelse sempre il 1° novembre per consacrare una cappella a San Pietro e alle reliquie dei santi e martiri di tutto il mondo. Alla diffusione di questa festività contribuì particolarmente Alcuino (735-804), autorevole consigliere di Carlo Magno. Nell'835, l'imperatore Ludovico il Pio, su richiesta di Papa Gregorio IV (827-44) decretò il 1° novembre una festività estesa a tutto il regno franco.

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La festa di Ognissanti è ritenuta una solennità dalla Chiesa Cattolica, fa parte delle feste più rilevanti poiché in questo giorno la Chiesa proclama il Mistero Pasquale realizzato nei Santi. Essi hanno assimilato nella propria vita il modello di Cristo ed hanno così offerto la propria vita col martirio "rosso" (il martirio vero e proprio), o con il "bianco" (gli asceti). Quindi: questa festa dell'assunzione in cielo dei Santi ha cristianizzato Samhain ma non contraddicendone lo spirito, in effetti: si tratta sempre di un momento di morte e rinascita, sebbene in un contesto diverso.

Usanze e tradizioni in ItaliaIn questa giornata è consuetudine visitare i cimiteri dopo la messa e portare fiori alle tombe dei propri cari, soprattutto crisantemi (che in Oriente, da dove provengono, sono simbolo di solarità e di immortalità) e ricordare con la famiglia i parenti scomparsi. La differenza sostanziale con il passato è il fatto che il Cristianesimo veda i cimiteri come luoghi di tristezza, mentre dovrebbero essere visti come luoghi famigliari e felici perché contengono le nostre radici, ricordando che comunque gli spiriti dei nostri antenati sono sempre con noi, anche se in modo diverso. Un'usanza ancora più antica è sicuramente l'usanza della preparazione dei cosiddetti "dolci dei morti" che si preparano il giorno precedente e vengono collocati su tavole apparecchiate. Soprattutto qui in Italia, la forma ricorrente di questi dolci è quella delle ossa; Secondo Cattabiani, il fatto che in tutta la penisola si mangino dei dolci particolari per ricordare i defunti, vuol dire che esiste anche da noi la credenza che i morti portino la vita; ed in effetti, in Sicilia, si dice che i morti, nella notte consacrata a loro, portino doni ai bambini, proprio come la Befana. Questi doni si chiamano li cosi dei morti. Sempre secondo l'autore, durante la festa si confezionano questo tipo di dolci a forma di scheletri, ossa, teschi a significare che dai morti, sotterrati come semi, rinasce la vita, i morti in qualche modo ci "nutrono". Di solito sono cibi costituiti da un impasto semplice di farina, uova, zucchero ed aromatizzanti; ma anche mandorle, cioccolata, marmellata, frutta candita e spesso decorati con glassa colorata. I dolci si ritrovano in tutto il nostro territorio, da Nord a Sud.

Curiosità:ricetta per il Pane dei Morti1 e 1/2 tazza di farina - 1/2 tazza di zucchero - 1 cucchiaino di sale - 1 cucchiaio di semi di anice - 2 bustine di lievito - 1/2 tazza di latte - 1/2 tazza d'acqua - 1/2 tazza di burro - 4 uova - da 3 a 4 e 1/2 tazze di farina

• Mescolare a secco tutti gli ingredienti assieme, eccetto per le 3 o 4 e 1/2 tazze di farina.• In un piccolo tegame riscaldare il latte, l'acqua e il burro. Aggiungere questo composto liquido all'impasto già preparato.• Mescolare bene.• Aggiungere le uova e 1 e 1/2 tazza di farina. Continuare a mescolare.• Aggiungere il resto della farina, poco a poco, continuando a mescolare bene.• Impastare il tutto su un tavolo cosparso di farina per 9-10 minuti.• Mettere l'impasto, a cui è stata data la forma di ciambella, in una scodella imburrata e lasciare riposare il tutto fino a che il composto non ha raggiunto il doppio delle dimensioni iniziali (1 ora e mezza circa al livello del mare).• Picchiare ed abbassare l'altezza della ciambella, fino a darle la tipica forma del pane comune e, successivamente, con degli stampini a forma di ossa, incidere la superficie superiore dell'impasto stesso.• Lasciare riposare per un'altra ora.• Cuocere in forno a 180° C per quaranta minuti circa.• Dopo la cottura cospargere il tutto con dello zucchero a velo e dello zucchero colorato.

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Alcuino da York consigliere di Carlo Magno - Anonimo

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L’uomo ha da sempre “investito” molto sull’arte e sull’architettura funeraria più che su quella civile, tipico esempio sono le piramidi egizie che sono arrivate a noi dopo millenni al contrario delle civili abitazioni di cui non resta traccia. La rappresentazione della morte e del morire, come anche la percezione delle popolazioni, si è modificata nel tempo influenzata spesso dalla divinità del momento piuttosto che dagli eventi socio-politici. Le meditazioni umane riguardo questo aspetto costituiscono storicamente uno dei fondamenti nello sviluppo delle religioni organizzate. Anche se i modi di definirlo e analizzarlo variano diametralmente da cultura a cultura, la credenza in una vita dopo la morte - un aldilà - è assai diffusa e molto antica e presente in vari popoli.Molti antropologi ritengono che le sepolture degli uomini di Neanderthal in tombe scavate con cura e adorne di fiori siano la testimonianza di una primordiale fede in una sorta di aldilà. Alcuni considerano che il rispetto per i defunti e per la morte (più o meno allegorizzata) sia istintivo all'uomo. Per un corretto studio della storia della morte, o meglio del morire, alcuni autori sostengono l’importanza di analizzare, oltre l’arte funeraria propriamente detta, anche il contorno determinato dalla pittura, dalla letteratura, dalla musica, ovvero dal contesto sociale più in generale.

Da un punto di vista antropologico la Morte può essere sì considerata un avvenimento di ordine biofisiologico comune, che conclude naturalmente il ciclo di vita di molti esseri viventi in modo inesorabile, ma soltanto nell’uomo scatena un’angoscia radicale, profonda e sconvolgente che richiede dei rituali di accompagnamento, cordoglio e lutto protratti nel tempo.Attraverso lo studio e l’analisi degli arredi funebri, delle necropoli, delle lapidi votive, ecc. e stato possibile conoscere molti aspetti del modo di vivere, dell’arte, della cultura dei popoli fin dall’antichità. Questo aspetto dell’antropologia denota quanto l’uomo sia sempre stato attratto e nello stesso tempo spaventato dalla morte e dall’alone di mistero che ad essa si accompagna al punto di innalzare veri e propri monumenti.

ANTROPOLOGIA DELLA MORTE(a cura di Katia Somà )

Nel primo Medioevo era considerata un evento familiare, preferibilmente sempre annunciato e “nel proprio letto”, che vedeva il morente come il protagonista di una cerimonia pubblica avente lo scopo di addomesticare la paura della morte. Essa perciò, veniva circoscritta in una precisa ritualità che si svolgeva con la partecipazione della comunità intera che era parte integrante del rito. ll decesso di una persona non creava alcun imbarazzo né tra i familiari né all’interno della comunità, tanto che quando un qualsiasi sconosciuto si imbatteva in una veglia, poteva unirsi partecipando. Anche i bambini venivano portati ad assistere.L’anima aveva un ruolo predominante sul semplice corpo che veniva relegato al ruolo di mero involucro, contenitore di qualcosa di più nobile. Questo atteggiamento era probabilmente conseguenza di una situazione sociale molto particolare in cui la mortalità era elevatissima e la vita media di un individuo spesso non superava i 40-50 anni. Si moriva soprattutto per malattie (la peste del 1300 dimezzò la popolazione in buona parte dell’Europa), le donne morivano giovani in seguito alle molte gravidanze (circa 8-10) e la mortalità infantile era di circa 2 bambini su 3. In un clima come questo la morte veniva considerata quasi un fatto normale che toccava la quotidianità di ogni persona.

L'ossessione della morte nella religione e nell'arte del xvsec.,ispirò grandi capolavori quali l'anonimo " Trionfo della Morte ", dipinto per un ospedale siciliano. Questo periodo attirò gli artisti ,spiegando cosi' l ' interesse per le sculture sepolcrali realistiche. Il quadro è stato dipinto da un anonimo siciliano.

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Particolare mosaico di Pompei – foto Katia Somà

A partire dell’epica greca in cui il concetto di trapasso è strettamente legato all’eroe, al guerriero, all’uomo-divinità che combatte contro i nemici della patria e perde la vita per una causa gloriosa (morte eroica) si passa ad una sorta di umanizzazione del termine, a volte quasi banalizzato, svuotato quindi di quegli alti valori morali che portava con sé.

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Lentamente però avviene un cambiamento. L’aumento della presenza della cultura Cattolica apporta degli adeguamenti nella ritualità, nella finalità e nel significato della morte: nonostante mantenga ancora il suo carattere di familiarità e di tappa necessaria, inizia ad affacciarsi la paura del giudizio divino.Per gli uomini del X-XIV secolo se un corpo veniva seppellito (spesso in modo quasi anonimo) all'interno di una struttura ecclesiastica (intesa anche nelle sue estensioni come cortili ecc.) al momento del giudizio si sarebbe salvato, altrimenti sarebbe stato dannato. Tra XV e XVI secolo si pensa invece che il giudizio avvenga al momento del trapasso e si sviluppa la convinzione che per salvarsi occorra morire in modo morale. Le rappresentazioni del periodo mostrano il letto del moribondo circondato da diavoli e angeli che combattono rispettivamente per tentare e salvare l'anima del morente.Tra il 1095 ed il 1291 si assiste al fenomeno delle Crociate verso la Terra Santa, dove intere masse di individui composte da cavalieri ma per lo più da persone del popolo, si riversano alla volta di Gerusalemme considerata ed acclamata dalla Chiesa come il luogo dove sarebbero stati assolti tutti i peccati e in cui ci sarebbe stata la salvazione eterna.

Francesco Hayez, Pietro l'Eremita predica la crociata, 1828.

Rituali e curiosità Le fave sono originarie dell'area del mediterraneo ed erano già conosciute nella prima parte dell'età del bronzo, già utilizzate per l'alimentazione nell'antico Egitto ed in Grecia.Durante il periodo dell'antica Roma il tempo dedicato al ricordo ed alla commemorazione dei defunti non era, come oggi, il primo giorno di novembre ma durava un'intera settimana nel mese di febbraio, che era l'ultimo mese del calendario romano ed era il mese della purificazione.Una delle convinzioni tradizionali era che le fave nere contenessero le lacrime dei trapassati ed erano quindi l'alimento più emblematico di questa tradizione. Secondo Pitagora le fave nere celavano al loro interno le anime dei defunti, dobbiamo quindi interpretare il cibarsi di fave come un'ingestione dello spirito dei cari estinti. Le fave nere erano anche utilizzate per diversi rituali: per implorare la pace ai defunti si usava spargere questi legumi sulle tombe; erano anche considerate "scaramantiche" e per questo si usava gettarsele alle spalle pronunciando le seguenti parole: "con queste fave, redimo me stesso ed i miei cari".Durante il periodo dedicato ai defunti si organizzavano veri e propri banchetti che comprendevano le fave nere. Esse venivano anche date ai poveri, che le consumavano crude, mentre i nobili le cuocevano con diverse e tradizionali ricette con salumi e formaggi.Successivamente all'avvento del cristianesimo e, nonostante i cambiamenti apportati alle usanze pagane, le fave rimasero il simbolo delle commemorazioni ai defunti e venivano consumate prevalentemente in minestre.

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La paura del giudizio universale e della morte contaminati dal peccato hanno terrorizzato il popolo d’Europa per qualche centinaio d’anni. Morire macchiati di un peccato, significava essere dannati in eterno.Bisognerà arrivare ai tempi più moderni dell’Illuminismo per cominciare a prendere le distanze da questo concetto e considerare la persona come essere corpo e anima per cui la salute del corpo diventa indispensabile per uno spirito sano ed in equilibrio.

Dolci Fave dei morti

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Con la caduta dell’Impero Romano del 476 d.C., si assiste in Europa ad una corsa verso una vera e propria ricerca di identità: perso definitivamente l’orizzonte certo e sicuro determinato dalla romanitas, i popoli, dominati da Roma per secoli, avanzarono recuperando terreni trovandosi ora gli uni contro gli altri. Mai come nei secoli che seguirono la caduta diRoma si sviluppò un senso di profonda insicurezza e nessuno poteva più contare su di un’ente superiore, lo stato, garante di una identità di parte, protezione della civiltà e promotore di cultura. In ambito strettamente militare muta radicalmente il punto di vista: con Roma si è assistito ad uno scenario dominato dal conquistatore implacabile, ora, in una dinamica di tutti contro tutti, si sviluppa l’idea che la difesapassiva fosse sempre e comunque superiore all’impeto dell’assalto.

Nell'immaginario collettivo, i conflitti che hanno insanguinato i secoli del Medioevo sono ricordati come roboanti cariche di cavalleria o immensi schieramenti di uomini, luccicanti nelle loro armature di metallo, che, con gli stendardi variopinti al vento, si scontravano con clangore assordante in campo aperto. La realtà dei fatti era, però, non sempre aderente a questa iconografia epica. L'occupazione di territori di vasta estensione passava certamente per grandi episodiche battaglie campali, dove l'esito dello scontro dipendeva spesso dall'abilità di uno dei contendenti ma, altrettanto importante, in alcuni casi addirittura fondamentale, era il possesso delle piazzeforti che costituivano il sistema di controllo, spesso integrato, del territorio. In esse risiedevanoi centri decisionali militare, politico, economico e logistico, il cui smantellamento creava quei vuoti di potere indispensabili per scollegare la rete di difesa esterna dal cuore nemico, la capitale, estremo tentativo di difesa contro l'invasore. In un sistema militare avanzato come quello romano, vero precursore e codificatore di tecniche, tattiche e strumenti di assedio, si era sviluppata già una spiccata attenzione destinata all'espugnazione ed all'occupazione delle piazzeforti nemiche, assumendo un'importanza quasi pari all'organizzazione dell'esercito da campagna. Schiere di ingegneri, carpentieri, falegnami, fabbri, genieri ed artiglieriseguivano le legioni in movimento, realizzando, spesso in loco, le necessarie macchine belliche, edificando forti per il presidio del territorio e predisponendo le opere edili necessarie ad affrontare assedi che a volte duravano anni.

LA GUERRA NEL MEDIOEVO: L’ASSEDIO (a cura di Sandy Furlini) Parte I

La difesa delle terre si sposta dai limes agli estremi confini dell'Impero, all'interno di ogni singolo territorio. Non più quindi la difesa di un confine lineare, espressione dell’avanzata di un unico potere, ma la difesa di territori dal possibile attacco portato da tutte le direzioni. Ne consegue il cosiddetto fenomeno dell'incastellamento, cioè il moltiplicarsi dei castelli e il concentrarsi su di essi degli sforzi difensivi ed offensivi.

Castelli e rocche erano fortilizi aventi esclusivamente funzione di presidio militare. Questi sistemi difensivi, che nel caso dei castelli solitamente erano anche la sede del potere politico, servivano per dominare aree e strade di particolare importanza. Si badi bene, però, che quando si legge che da un determinato castello si dominava e si controllava la tal valle, non si intende che da là si potessero colpire i nemici, perché la gittata massima delle armi, macchine incluse, arrivava al massimo a qualche centinaio di metri. Il controllo dal castello era, potremmo dire, panoramico, in quanto dall'alto delle torri, e grazie anche ai luoghi elevati in cui molti di questi venivano appositamente costruiti, si poteva vedere bene a distanza. Dal castello semmai, come dalla rocca, uscivano i drappelli di cavalieri che intervenivano là dove ce n'era bisogno e che dopo vi ritornavano. Il numero di soldati contenuto in una di queste fortificazioni era sempre esiguo, poche decine di solito, che pure erano bastanti per mantenere l'ordine in una zona ristretta. I grandi eserciti di cui si legge venivano invece formati con il dovuto tempo grazie al sopraggiungere di tutte le forze dai vari presidi.

Immagine tratta da www.ilmedioevo.eu

Mura del castello di Ponferrada (ES) Foto di Katia Somà, Marzo 2008

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Nel Medioevo si assiste ad un perfezionamento delle tecniche ossidionali (d’assedio); si può notare il miglioramento delle macchine utilizzate dagli antichi e l'invenzione di nuove, sempre più potenti ed efficaci, macchine in grado di lanciare grandi massi e di provocare grandi danni alle fortificazioni nemiche. Lo sviluppo delle armi e delle tecniche d'assedio è accompagnato da un analogo incremento delle fortificazioni e un miglioramento generale della loro resistenza ed efficacia difensiva.L’arte di porre un assedio, viene definita poliorcetica (termine di derivazione greca che designa l'arte di assediare ed espugnare le città fortificate).Chi mette in atto un assedio si pone lo scopo di isolare chi lo subisce in modo che questi non possa più avere comunicazioni con l'esterno e che non sia in grado di ricevere rifornimenti di cibo o di mezzi. Ciò avviene, solitamente, circondando l'obiettivo col proprio esercito. Le prime notizie di assedi arrivano da fonti antichissime. Scavi archeologici in Medio Oriente hanno confermato che anche le città più antiche erano dotate di cinte murarie. Le tecniche di assedio romane trovarono probabilmente la loro genesi in quelle greche. La conoscenza che abbiamo di tali pratiche è legata alle fonti letterarie, a partire dal De Bello Gallico di Giulio Cesare, che attesta l’impiego di “mine”, ossia dello scavo di cunicoli sotto le mura nemiche, come fu fatto nell’assedio di Alesia, con lo scopo di far rovinare le murature privandole dell’appoggio delle fondamenta, o con il risultato di sbucare alle spalle dei difensori. I codici che possediamo, alcuni dei quali in lingua greca, danno indicazioni puntuali su come costruire torri d’assedio, dotate di ruote, di armi da getto a bilico (trabucchi), a torsione (mangani e ongari), a tensione (catapulte e balliste)...

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Prendere una fortezza o una città con la forza, secondo l'ordinamento giuridico medioevale, era differente dal conquistarla per resa degli assediati. Questa maniera di pensare è espressa in modo esemplare dall'ultimatum lanciato da Guido da Albereto nel maggio del 1283, trascritto nelle cronache di Salimbene da Parma: «Consegnatevi a noi e potrete andare incolumi, se invece non accettate e sarete presi con la forza sarete tutti impiccati senza misericordia.»

Intorno alla metà del secolo XII, il crescente sviluppo della poliorcetica medioevale, indusse i cronisti militari a mettere in risalto l'importanza degli ingegneri militari e dalle macchine da loro costruite. Molti signori compresero che avere al proprio servizioingegneri più validi poteva significare avere la meglio in un assedio. Diversi di loro abbandonarono il tradizionale disprezzo verso le arti tecniche e cominciarono ad interessarsi personalmente alla progettazione e alla realizzazione della macchine. Anche Leonardo da Vinci, si dedicò alla progettazione di macchinari da utilizzare durante azioni belliche.

II castello, o la rocca, sorgeva solitamente in un luogo elevato, o comunque idoneo alla difesa. Intorno poteva avere più fossati di varie dimensioni e sbarramenti di diverso tipo, come le cosiddette "tagliate", ossia più linee di pali appuntiti piantati nel terreno fino a formare una sorta di reticolato. Molti castelli inoltre erano protetti dalle mura del borgo, entro le quali si trovavano. La strada che il nemico doveva percorrere, davanti alla porta del castello, era spesso sbarrata dal “rivellino”, davanti o dietro il quale spesso c'era il fossato, sempre largo e profondo, a volte pieno d'acqua. Quando il “rivellino” stava per cedere, i suoi difensori raggiungevano il castello, dal quale si alzava il ponte levatoio. E se non c'era il ponte levatoio si tagliava il ponte fisso, che era di legno, a colpi d'ascia. Il “rivellino” è una sorta di piccolo castello attivamente difeso da soldati, posto davanti alle mura del castello vero e proprio.

Mastio del castello di Mondavio (PU) Foto di Katia Somà. Agosto 2009

In tutta l'epoca antica, si intendeva per assedio essenzialmente il blocco statico delle entrate e delle uscite di un luogo fortificato assediato. L'assedio si riduceva così ad una gara allo sfinimento dove i due eserciti erano separati dall'ostacolo invalicabile delle mura cittadine. Il blocco statico era l'unica alternativa per un esercito antico, come quello greco o romano composto da opliti o legionari tradizionalmente concepiti nell'ambito della battaglia in campo aperto. L'investimento di una fortificazione e il tentativo di risolvere un assedio con la forza non erano però estranei alla mentalità degli antichi. Anzi, è proprio in epoca classica che si sviluppano i primi trattati di poliorcetica e vengono costruite le prime macchine concepite appositamente per investire le fortificazioni avversarie. Ma fu proprio nel Medioevo che i concetti mutarono radicalmente.

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Tornando al castello assediato, una volta superato il rivellino, sotto il tiro dei difensori, ci si poteva trovare obbligatoriamente davanti a bassi camminamenti coperti, tanto stretti da far passare solo una persona alla volta, disseminati di angoli dietro cui si celavano i difensori e da feritoie da cui partivano frecce e quadrelli di balestra. Spesso si poteva essere colpiti dal tetto, sempre a mezzo di feritoie, dalle lance dei difensori. L'uscita da un camminamento di tal fatta significava quasi sempre il trovarsi in una sorta di stanza dalle alte pareti a cielo aperto, privo di ripari e sotto una vera pioggia di frecce, sassi, acqua e sabbia rovente. Davanti poteva esserci una porta di quercia foderata di metallo o ricoperta da grossi chiodi che servivano a bloccare i colpi d'ascia. Se, sotto l'infernale tiro, si riusciva a sfondare questa porta, ci si trovava in un buio tunnel in muratura, dal cui tetto si aprivano istantaneamente piccole botole dalle quali piovevano subito frecce, sassi e ancora acqua e sabbia rovente, e persino piombo fuso. Gli attaccanti potevano anche venire soffocati con il fumo provocato da un rogo sul quale venivano gettati rami verdi.

Nel 1183 le truppe di Saladino superarono le mura fortificate del borgo che, secondo Rinaldo di Chatillon, i musulmani non sarebbero riusciti a valicare, e quindi i soldati cristiani dovettero ritirarsi precipitosamente nel castello del Kerak di Moab, che era dentro le mura. Ma se non fosse stato per l'eroismo di un cavaliere chiamato Iven i musulmani sarebbero penetrati nel castello insieme agli stessi fuggitivi. Iven, da solo, difese il ponte mentre i compagni lo distruggevano. Più volte ferito, cercò poi di entrare nel castello ma proprio in quel momento il ponte crollò, precipitando nel fossato asciutto.

Rivellino e mura del Castello di Mondavio (PU) Foto di Katia Somà Agosto 2009

Kerak Giordania, castello dei Crociati. Photos by khaled Al-Bajjali www.panoramio.com

Dentro un tunnel l'effetto poteva essere determinante e a quel punto gli attaccanti potevano fare solo due cose, ossia tornare indietro sempre sotto il tiro nemico o avanzare e uscire dal tunnel, dopo avere sfondato una massiccia porta che lo chiudeva così come all'entrata, e trovarsi in piena luce e senza ripari sotto un tiro nemico identico a quello precedente. Dopo questi e altri sbarramenti, potevano arrivare davanti alla porta del castello. Ma prima c'era il fossato profondo parecchi metri e tanto largo da non poterlo saltare, anche perché arrivava a filo delle mura e non c'erano né spazi né appigli da afferrare per soldati che comunque avevano le mani occupate da spade e scudi. Dopo questi e altri sbarramenti, potevano arrivare davanti alla porta del castello. Ma prima c'era il fossato profondo parecchi metri e tanto largo da non poterlo saltare, anche perché arrivava a filo delle mura e non c'erano né spazi né appigli da afferrare per soldati che comunque avevano le mani occupate da spade e scudi. Se erano riusciti a eliminare o a far ritirare tutti i difensori che agivano nella parte antistante la porta, e avevano così il controllo di quella parte, trasportavano in quel punto pali, grossi rami e pelli in modo da poter costruire un riparo che li proteggesse dai colpi nemici. Dopo iniziavano la costruzione di un ariete coperto, visto che solo con questo avrebbero potuto sfondare la grande porta di legno massiccio ricoperta da lastre di ferro o di chiodi. Oppure potevano adottare un altro sistema,che era quello di strappare, se c'erano, le lastre di ferro che lo proteggevano anche dal fuoco e, grazie a fascine, tronchi secchi, resina e grasso animale, dare alle fiamme il portone. Ma è immaginabile che la partita non fosse così facile poiché i difensori gettavano secchiate d'acqua a profusione giù dalle caditoie, e cioè stretti fori creati sulla sommità delle mura e in questo caso appositamente sopra il portone. Ovvio quindi propendere per l'azione di un ariete.Se si riusciva a distruggere il portone, subito dopo ci si trovava davanti a una sorta di saracinesca in ferro, molto pesante, fatta calare a mezzo di catene e argani dall'alto attraverso due scanalature realizzate dei muri. Questo cancello verticale veniva poibloccato con appositi fermi in ferro, che si trovavano fuori dalla portata degli assalitori.

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Per superarlo, gli attaccanti dovevano cercare di sfondarlo con l'ariete oppure di sradicarlo. E dopo averlo superato, potevano aspettarsi ancora tutta una serie di barriere o trappole che, corredate dal tiro dei difensori, causavano terribili perdite, chefacevano perdere giorni, settimane o mesi, caratterizzati da assalti e sortite degli assediati, quando potevano. Proprio per via di questi sacrifici fatti per conquistare alcuni castelli i vincitori, preferivano smantellarli pietra dopo pietra fino alle fondamenta.

L'assedio crociato di Gerusalemme, nel 1099, riuscì dopo appena 38 giorni perché, fra l'altro, i cristiani trovarono interi boschi di alberi ad alto fusto nei pressi della città. Una volta abbattuti, tagliati in tavole e tronchi squadrati, ebbero il materiale necessario per permettere la costruzione di molte macchine sotto la direzione del genovese Guglielmo l'Embriaco. Non solo, le macchine (ossia petriere e mangani) vennero costruite in bella vista sotto gli occhi dei musulmani che, subito, costruirono le loro sulle mura in modo da effettuare dall'alto un tiro di controbatteria efficace e letale. Nella notte, però, le macchine da lancio cristiane, evidentemente dotate di ruote, vennero astutamente spostate in tre punti diversi.

Le macchine musulmane, che invece non potevano essere spostate, riuscivano così a colpire le torri mobili cristiane inavvicinamento, ma non a replicare al bombardamento cristiano effettuato proprio su loro. Come diremmo nel gergo militare di oggi, erano state "inquadrate" dagli artiglieri cristiani, che avevano avuto il tempo di calcolare l'alzo e la gittata necessari.

È opinione diffusa che le macchine da guerra, un tempo massicciamente e magistralmente utilizzate dai Romani, furono riscoperte dai cristiani durante le Crociate in Terrasanta. In pratica, ritiene che le macchine da guerra furono nuovamente utilizzate in Europa dopo il ritorno di addetti esperti nella loro costruzione, i cosiddetti ingegneri, che avevano imparato a realizzarle per gli assedi alle città di quella parte d'Oriente. Ma ciò non corrisponde completamente al vero. Questo perché ben prima delle Crociate non pochi furono gli eventi bellici che le videro in campo in Europa, come avvenne per esempio nel 536-537 a Roma o nell'886 con i mangani usati nella difesa di Parigi contro i Vichinghi. Sarebbe quindi più corretto dire che la poliorcetica fosse già conosciuta, pur rozzamente, in Europa nell'Alto Medioevo ma che abbia avuto grande incremento numerico e tecnologico nell'XI secolo a seguito dei contatti con i Bizantini e gli Arabi, che erano grandi esperti in materia.

Castello di Ponferrada (ES). Rivellino. Foto di Katia Somà. Marzo 2008

Krak dei Cavalieri. Siria Immagine: www.wikipedia.it

II giorno dopo Gerusalemme cadde, e i cristiani si macchiarono di uno dei più orribili massacri della storia uccidendo, in un giorno e una notte di orrore, tutti i suoi abitanti, sia musulmani che ebrei, uomini, donne, bambini e persino gli animali domestici e il bestiame, tanto che si narra che in certe zone della città i soldati camminassero letteralmente nel sangue che arrivava alle caviglie. Alcuni cavalieri fiamminghi, si distinsero per particolare ferocia. Trucidarono persino i bellissimi stalloni arabi tenuti in città, con grande disappunto dei cavalieri cristiani e, come al solito del tutto nudi in quanto si ritenevano vestiti dalla fede, si diedero anche in questo caso al cannibalismo.

“Un modo più sicuro per assicurarsi la sopravvivenza fu adottato da alcuni fiam-minghi non molto civilizzati, chiamati tafuri, che avevano precedentemente viaggiato in Oriente con Pietro l'Eremita. Raccoglievano i cadaveri dei turchi uccisi e li mangiava-no; quando le scorte di cadaveri turchi erano terminate davano la caccia ai vivi per far provviste” scrive A.Bridge

Bibliografia essenziale: Macchine d’assedio medievali. G. Todaro. 2003 Ed. Penne e Papiri Storia delle Crociate. S. Runciman. Ed. EinaudiStoria medievale. 1998 Donzelli Editore

www.wikipedia.it (voci: assedio, poliorcetica, Krak dei cavalieri, guerra medievale)

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ALLA SCOPERTA DI TRIORA(a cura di Paolo Cavalla) Parte I

In paese l’estate scorreva torrida e sorniona, lontano dalle avventure che sulle spiagge più in voga della riviera fornivano spunti per i gossip di stagione. Un caldo opprimente ci infastidiva mentre preparavamo le borse per il viaggio. Stavamo aspettando i nostri amici: tre giorni di svago a dare la caccia alle baugie di Triora. “Ma che posto mai sarà, questa Triora?” Pensavo. Sandy, adocchiato il posto via internet, vi aveva già fatto una capatina, spinto da quel suo inarrestabile propulsore biologico interno che non gli permette il riposo, attirato dall’eco di vicende legate ad un processo alle streghe (lebaugie appunto) celebrato nel medioevo. Secondo lui valeva la pena ritonarci con noi, anche perché il 21 agosto si sarebbero tenuti i festeggiamenti per l’annuale rievocazione dell’evento. Roberta e Katia non potevano ignorare un così succoso richiamo alla fonte dei loro più reconditi interessi in materia di streghe. Cosa potevo fare io se non aderire con convinzione!!! E così il direttivo del Circolo al completo aveva decretato la missione come priorità culturale. Le streghe chiamavano e noi dovevamo rispondere! Il suono del citofono ci fa sussultare. “Macchina fotografica, cellulare, acqua per il viaggio… Sembra che ci sia tutto.” Pronti. Via, si parte, “Strigora 2009” ci attende. Il viaggio sarà lungo, ma è difficile annoiarsi quando ci si diverte. Gli argomenti per discutere non mancano.

Lasciamo la tangenziale di Torino e imbocchiamo l’autostrada, in un baleno siamo a Cuneo. Il tedioso paesaggio della pianura si trasforma gradatamente quando la strada incontra i primi rilievi. E finalmente i boschi di conifere. Attraversiamo il Tunnel del Colle di Tenda ed eccoci in Francia. “Che si fa? Proseguiamo con la statale fino ad Imperia, oppure rientriamo in Italia per una via alternativa che taglia la montagna e ci fa risparmiare tempo?” Chi di voi non sarebbe stato tentato dalla via alternativa? Probabilmente i sani di mente! Ma noi non sempre lo siamo e decidemmo per l’avventura. Infatti per risparmiare tempo avremmo dovuto avere le ali per poter sorvolare la strada sterrata, piena di buchi e massi affioranti che hanno messo a dura prova i poveri ammortizzatori dell’auto. Certamente di poco aiuto si sono rivelati due ragazzi francesi a cui abbiamo chiesto indicazioni quando smarrimmo la retta via: “The World ended here.” Dissero in inglese “Don’t go there, there is the hell.” Ma noi, cacciatori di streghe, proprio quello cercavamo!…eproseguimmo allegramente.

Ci trovammo incollati ai finestrini a contemplare un bosco infinito, con la notte che incombeva e una brezza fresca che filtrava dai finestrini socchiusi dell’auto. Che pace, che meraviglia, I picchi che riuscivamo a scorgere quando gli alberi si diradavano o quando percorrevamo un tratto sullo strapiombo, mi ricordavano irilievi della Corsica: frastagliati, ricchi di boschi e di precipizi, di un meraviglioso colore rossastro che si arricchiva ancora di tonalità vermiglie grazie agli ultimi raggi solari. Un tipico bivio, poi un tipico trivio, una falsa pista e finalmente un paese. La strada per Triora era ancora aperta, né streghe né saraceni ci ostruivano la via. Eravamo in macchina ormai da quattro ore e lo stomaco incominciava a brontolare, Triora era ad una manciata di chilometri ormai, quando svoltata una curva, in mezzo alla strada, appare un animale esanime, riverso a terra. Era un bell’esemplare di scoiattolo europeo, dopo esserci accertati che fosse morta, da bravi medici, la adagiammo a bordo strada. Da quel momento lo assumemmo a simbolo del nostro fraterno sodalizio, a guisa di “animale totem”. Seppur rammaricati per lamorte della povera bestiola, avremmo poi ritenuto di buon auspicio questo incontro, quasi fosse un segno del destino. Infatti, Sandy docet, lo scoiattolo, dato il suo perenne moto di sali e scendi sul tronco degli alberi, incarna lo spirito di collegamento che permette al terreno di sollevarsi al cielo e al divino di sfiorare il terreno. Non sembriamo dei perfetti scoiattoli, noi?

IL LABIRINTO

Periodico telematico di informazione a cura del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo. Anno 2, n°10 Ottobre 2009

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Puntiamo subito verso il castello (o quello che ne rimane), situato, come si conviene, nella parte alta del borgo. I resti del Castrum Vetus si trovano proprio a ridosso del centro abitato, che dominano con il ricordo della loro antica imponenza. La vista è mozzafiato: il paese, arroccato sul pendio sottostante, sembra quasi sospeso nel vuoto, lo spazio digrada sotto di noi fino al fondo della valle Argentina. Alzando lo sguardo, poi, si resta ammaliati dalla verzura del paesaggio, rotta solo dai terrazzamenti coltivati e dalla presenza di alcuni altri piccoli borghi arroccati sui cocuzzoli circostanti: quello di Triora è il più bello. Solo qualche minuto ad immaginare i rilievi rispendere dei fuochi degli antichi abitanti Celti, i Triullates, sconfitti con fatica dai Romani nel 115 a.C., o a rievocare le antiche invasioni saracene, che costrinsero gli abitanti della zona a scegliere dei siti così impervi per costruire le loro case e i loro castelli difensivi, che già ci ritroviamo in marcia verso una nuova meta. Ci dirigiamo verso i resti della chiesa di Santa Caterina, all’esterno del centro abitato, poche centinaia di metri dietro al castello, proprio sotto il cimitero. Trovarla, partendo dal paese, è un atto di fede, tanto resta immersa nella vegetazione. Un terrazzamento costruito ad hoc permette la realizzazione di una superficie sufficiente ad accogliere il basamento della chiesa ed un angusto cortiletto antistante. Fu fatta edificare da una ricca famiglia locale nel 1390, come simbolo della sua grandezza. Manca del tetto, ma i muri perimetrali, restaurati, sembrano ancora solidi, il pavimento è ancora in parte quello originale. Siamo fuori le mura e decidiamo pertanto di recarci ancora a visitare la Chiesa di Sant’Agostino, ma purtroppo la troviamo chiusa. Peccato, l’ampio viale alberato antistante l’ingresso e le dimensioni rispettabili ci fanno credere che dovesse avere una certa importanza…pazienza, sarà per un’altra volta.

Triora finalmente!...nel buio della notte. La ricerca dell’albergo in cui avevamo prenotato, non crea problemi: è l’unico del paese. Saliamo in camera per posare il bagaglio tra riproduzioni di figure inquietanti ed angolini poco illuminati, in perfetto stile inquisitorio. E via a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Mentre mangiamo, pianifichiamo il domani: ci aspetta una bella sgambata immersi nel mistero tra le vie di Triora e dintorni. Poi tutti a letto. La mattina ci accoglie con un bel sole e una colazione da favola (sorvoliamo su cosa è riuscito a scofanarsi il buon Presidente del nostro rinomato Circolo Culturale…Ermete Trismegisto si sarà rivoltato nella tomba, pover’uomo!). Triora è un paesino tipicamente medievale, purtroppo attualmente quasi disabitato. Si ripopola solo d’estate ed è un peccato, ma - ci viene spiegato - troppo distante dalle industrie e dalla modernità, arroccato com’è in cima ad un cocuzzolo dell’entroterra ligure. A noi appare subito affascinante. Gli stretti vicoli si alternano a slarghi che accolgono i luoghi di raccolta del tempo che fu: la Chiesa, i terrazzamenti, la grotta. Il selciato è ancora quello di allora: si alternano tratti di pavè a quelli lastricati con lastre di pietra parallele disposte longitudinalmente lungo il corso della via, per preservare la pavimentazione dall’usura provocata dal continuo passaggio dei carri.

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Decidiamo allora di tuffarci nel centro del borgo e di ripercorrere gli itinerari delle mitiche streghe. L’intrigo dei carruggi ci avvolge e si chiude sopra di noi. La conformazione digradante del terreno su cui sono costruite le abitazioni è avara di spazio edificabile, così le case restano addossate una all’altra e disposte su più livelli, unite tra loro da un labirinto di viuzze quasi mai in piano, ma spesso ripide e, non raramente, collegate da scalinate. Tipica dell’ambiente ligure è anche la presenza di piccoli archi che, nel mezzo della via, uniscono le facciate delle case che si fronteggiano. L’unico spazio libero è rappresentato dallo spiazzo antistante il duomo, la Collegiata di Santa Maria Assunta, teatro del terribile processo inquisitorio cui deve la sua notorietà il Paese. Non ci fermammo un attimo: girammo e rigirammo ogni centimetro quadrato di quell’intrico di vie riempiendoci i sensi di viste mozzafiato, angolini caratteristici e reperti storici, il tutto condito con allegria e buonumore.

Chiesa di Santa Caterina 1390 Triora (IM) Foto Roberta Bottaretto

Foto Roberta Bottaretto

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L’obiettivo era ora puntato sui dintorni di Triora e ci attendeva una lunga passeggiata nei boschi circostanti. Superati i caseggiati periferici e visitato l’antico lavatoio della Noce, ritenuto luogo di frequentazione abituale delle streghe durante la notte, ci immergemmo sempre più nel fitto della vegetazione, giocando ad intravedere qua e là figure inquietanti e mostri infernali, impazienti di rubarci l’anima. La nostra intenzione era quella di giungere fino al ponte di Loreto, a pochi chilometri da Triora, per poi rientrare in paese da sotto, lungo il fondovalle. Boschi ricchi di selvaggina e terrazzamenti coltivati si alternavano fino al torrente che scorreva impetuoso a valle, dove la discesa ripida e scoscesa infine ci condusse. Le acque cristalline, abitate da pesci e gamberi d’acqua dolce, ci indussero a fermarci per una sosta e per mettere a mollo i piedi. Fui tentato di fare il bagno, ma ormai era tardi. i. Rientrammo, giungendo in albergo ormai sul fare della sera. Doccia, cena e passeggiata serale tra i carruggi di Triora: adesso sì che incontreremo le streghe. Non è possibile negare che la notte aggiunga fascino a quel piccolo borgo, come ce n’è tanti altri in Italia. Rivisitammo i luoghi più significativi visti in mattinata e ci fermammo a chiacchierare beatamente alla Cabotina, in attesa del Maligno, ma non si presentò nessuno: o siamo troppo buoni e gli incutiamo paura, oppure siamo troppo cattivi anche per Lui, e gli incutiamo paura comunque.

Ogni angolo ospitava qualcosa di interessante: il forno antico, la grotta, che sembra una copia di quella di Lourdes, conventi e abitazioni di personaggi famosi che diedero lustro al paese ai tempi in cui il borgo era popoloso e rinomato. Visitammo la Cabotina delle streghe, luogo in cui si dice si riunissero le streghe, ovviamente appartato e prospiciente il pendio boschivo che conduce, tramite un sentiero, a fondovalle. Entrammo in ogni negozietto del paese, alla perenne ricerca di qualcosa di tipico o di stravagante…e alla fine ci trovammo con le facce incollate alla vetrina del negozio di alimentari: si era fatto tardi e quel lungo girovagare per il paese chiedeva il giusto fio. Oggi pranzo al sacco. Come descrivere l’appagamento che l’ingresso in quel negozio diede ai nostri sensi? Giravamo spaesati tra “formaggi tipici”, “miele locale”, “marmellate produzione propria”, aromi, essenze e quant’altro ben di Dio che un affamato possa desiderare. Acquistammo ben più di quanto necessitasse un pranzo al sacco, nel tentativo di portarci a casa un buon ricordo di Triora, scegliendoci tra le imputazioni per un eventuale processo inquisitorio, quella per gola! Scesi un attimo all’albergo per depositare il pesante fardello della nostra spesuccia, con due panini e un po’ di formaggio ci avviammo verso la chiesa romanica di San Bernardino, situata sotto il paese.

Dovete sapere che l’accesso è limitato e per potervi accedere è necessario chiedere le chiavi del portone d’ingresso al personale della locale sezione della Pro Loco, ma questa complicazione è ampiamente ripagata dalla scoperta degli splendidi affreschi custoditi all’interno della chiesa. Eseguiti dal Canavesio nel XXIII secolo, essi raffigurano le pene infernali conseguenti ai sette vizi capitali. Di grande impatto e di notevole fattura, parevano apprezzati anche da un simpatico scorpione che beatamente alloggiava tra le braccia dei dannati perseguitati per la loro accidia. Nonostante il restauro avvenuto ai tempi del fascio (1938), l’aspetto è di mesto abbandono, anche se il tetto pare sano e tutti gli accessi dall’esterno sono in un modo o nell’altro protetti. Riconsegnate le chiavi eravamo nuovamente pronti per l’avventura.

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La Cabotina - Foto Roberta Bottaretto

Domenica mattina è Strigora 2009....banchetti di prodotti tipici, artigianato locale, libri, abbigliamento e oggettistica per diventare una vera strega e ci facciamo tentare anche noi da fare qualche acquisto!L’avventura culturale è terminata e il viaggio di ritorno ci attende!Nel prossimo numero la parte dedicata agli aspetti storico-antropologici.

I Canapazzi www.canapazzi.blogspot.com

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LUDENDO INTELLIGERE: FESTA MEDIEVALE A CASSINE (AL) (a cura di Rossella Carluccio)

I tempi lontani dell’età di mezzo rivivono ancora, sotto la loro luce da sempre fascinosa e suggestiva. Per due giorni Cassine, piccola cittadina dell’Alessandrino riscopre il Medioevo, ospitando tra le sue strade caratteristiche e tra i viottoli del borgo antico, le grandiosità delle tipiche feste medioevali. La cittadina rivive infatti ogniSettembre, le feste dell’epoca antica. Proprio durante una di queste celebrazioni, quasi mille anni fa, la cittadina ricevette la visita di Gian Galeazzo Visconti. E come allora, in onore dell’ospite d’onore si snodano in queste giornate di cerimonia giostre, tornei e spettacoli. Il borgo antico di Cassine, per l'occasione, viene rivisitato attraverso un sapiente assetto sia architettonico che d'ambiente: le arterie cittadine, che si inerpicano nella parte più alta, vengono completamente liberate da qualsivoglia riferimento alla vita contemporanea e si calano, anch’esse nell’atmosfera medioevale.Con i suoi mercanti, cavalieri, musici, danzatori, arcieri, nobili e popolani è difficile non percepire l’atmosfera festosa e sfarzosa del tempo che fu. Gian Galeazzo Visconti. Incisione del

1858. Cesare Cantù

Infatti, attraverso la spettacolarità delle rappresentazioni, il fasto dei banchetti, i giochi di battaglie e sfide e le danze tipiche, la festa medioevale di Cassine, è rimasta l’unica rievocazione, degna di questo nome, sul territorio della provincia di Alessandria. All'interno si svolgono ininterrottamente spettacoli e rappresentazioni di grande effetto, trasformandone il centro storico in un grandioso teatro all'aperto in cui il visitatore è al tempo stesso sia attore che spettatore. “L’obbiettivo è chiaro: divertire, affascinare, ma senza dimenticare la correttezza storica e filologica, che è da sempre uno dei punti di forza di questa manifestazione. La Festa Medioevale, si presenta infatti come un momento peculiare nel panorama delle rievocazioni storiche in Italia, ed è l’unica a dedicare ogni edizione ad un tema specifico della vita medievale” spiegano gliorganizzatori. Questa kermesse, di grande valore sia storico che culturale che folkloristico, nasce nel 1991 come occasione per conoscere il medioevo e al contempo per recuperare fondi per il restauro della stupenda chiesa trecentesca intitolata a San Francesco, oggi diventata monumento nazionale. E pur mantenendo inalterato il suo obiettivo, si è trasformata in uno straordinario strumento di valorizzazione di uno dei centri storici medioevali più importanti e prestigiosi del Monferrato. La zona,infatti, non è per nulla carente di monumenti architettonici e storici di alto rilievo. E sui grandi tornei del passato, sulle giostre medioevali, sugli scontri lancia epici ed al mondo della cavalleria medioevale è dedicata questa diciottesima edizione, andata in scena lo scorso sabato 5 e domenica 6 settembre 2009.

Dall’incontro con gli storici del Medioevo nella magnifica cornice della chiesa di San Francesco, alle taverne del borgo, agli spettacoli allestiti dalle varie compagnie per giungere ai momenti più attesi del sabato sera con il rito della Tarasqueed il torneo della “Charger a la lance!” - la sfida per diletto”, curato della Compagnia stuntmen Tostabur Espadrones da Bratislava, questa edizione è stata una delle più coinvolgenti ed entusiasmanti!

Chiesa di San Francesco. Cassine (AL)

La Domenica è stata segnata oltre che dal tradizionale corteo storico, anche dall’alternarsi di numerosi eventi spettacolari come gli esercizi di falconeria e il torneo cavalleresco. Non sono mancati altri affascinanti spettacoli e animazioni realizzati ad hoc per questa edizione. Vivere la rievocazione di Cassine vuol dire anche immergersi in un autentico mercato medioevale con mestieri e artigiani dell’epoca, conoscendo le tecniche del pittore ad affresco, imbattersi in un monastero di monache oppure in una taverna del passato. E così nel week end di sabato 5 e domenica 6 settembre si sono snodati, per tutta la giornata, diverse attrazioni “ a tema”.

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Primo fra tutti il “gioco della Guerra” curato dal Gruppo storico “Feudalia e Cumpagnia d’La Crus”. Un tempo il torneo era profondamente radicato nella comune identità medioevale di Festa perché nello stesso ambiente convivevano le classi aristocratiche in competizione con l’elemento popolare dedito ad ammirare le doti di destrezza dei cavalieri. Un esercizio propedeutico all’arma bianca per i nobili guasconi, ma anche simbiosi tra cavallo e cavaliere, tra gioco, abilità e destrezza, nell’incontro tra Oriente e Occidente. Oggi il gioco rivive ancora sotto queste peculiarità attraverso momenti di spettacolo di grande emozione ed intensità, e con l’ausilio di armi ed armature assolutamente fedeli, ricostruite sugli originali del tempo e sulle tecniche di combattimento e duello, anche a cavallo, ricavate dagli insegnamenti dei grandi maestri del passato. Giostra medievale di Andilly (Ginevra) Fonte:

www.mondopiccolo.net

Altro importante appuntamento è il “Verbal Tenzone”. Nell’ esperienza di Cassine, da molti anni, si tenta di avvicinare il pubblico alla storia medioevale attraverso l’emozione. Questo è la Verbal Tenzone, ovvero la storia rivista attraverso i suoi esperti. Negli anni si sono susseguiti importanti relatori, storici e di scrittori di fama internazionale come Franco Cardini, Geo Pistarino, Jean Markale, Vittorio Sgarbi e Massimo Centini. E in quest’ultima edizione, realizzata nella magica atmosfera della trecentesca chiesa di San Francesco non è mancato un suggestivo percorso di immagini pittoriche musicali e letterarie curato dai relatori Roberto Maestri, Fabio Molinari, Alessandro Pontremoli e Gianfranco Cuttica di Revigliasco. Tema la spettacolarità della Festa, tra sacra rappresentazione, fasto dei banchetti, giochi di battaglie e danza della festa.

La serata di sabato è stata completamente dedicata alle taverne del borgo. La tradizionale Cena Medioevale, spettacolarità degli apparati e teatralità dei banchetti, si è consumata presso il chiostro del complesso conventuale di San Francesco. Pane alle noci, Vino speziato, polentina morbida di grano saraceno con formaggi, quaglie cotte allo spiedo con erbe provenzali, ravioli con cappone, ricotta ed erbe conditi con burro e zucchero, coscia di maiale cotto stufato e alla brace, l’immancabile bagnetto di erbe varie e spezie e la crostata di farina di farro e fichi cotti nel miele sono solo alcune delle prelibatezze portate ai tavoli dei conviviali.

E così, fortunati ospiti, comodamente seduti a tavola, hanno potuto gustare le raffinatezze e l’originalità della cucina del tempo. Accompagnato da musici, danzatrici , giocolieri, e saltimbanchi, che come per magia sono stati sottratti al tempo inesorabile, il convivio di alta raffinatezza ha portato in tavola le ricche portate di una tipica cena medioevale. Questa è stata rigorosamente ricostruita anche nell’uso delle mani, con molti servizi di credenza e di cucina e ha ripreso antiche ricette di banchetti dell’epoca.

Cena medievale. Fonte: www.inillotempore.it

Immagine: www.media-aetas.it

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CONFERENZE, EVENTI

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31 OTTOBRE 2009Convegno

“RIFLESSIONI SUL DOLORE E LA SOFFERENZA”Volpiano (TO), Sala Polivalente. Via Trieste n°1

Argomenti trattatioppioidi e dolore non oncologico, terapia del dolore, la dimensione sanitaria, etica e sociale

Tavola Rotonda“Alimentazione / idratazione e sofferenza alla fine della vita”

Moderatore: Oscar BertettoIntervengono: Pierpaolo Donadio, Domenico Gioffrè, Maurizio Mori, Michele Piccoli, Paola Piscozzi,

Marilia Boggio Marzet, Ermis Segatti, Furio Zucco.

PROGRAMMA DEFINITIVO scaricabile dal sito www.tavoladismeraldo.it alla pagina EVENTI

INGRESSO GRATUITO FINO AD ESAURIMENTO POSTI PER LA CITTADINANZA

5 CREDITI ECM PER MEDICI ED INFERMIERI (ISCRIZIONE OBBLIGATORIA)

RIFLESSIONI SULL’UOMO

CORSO DI SCRITTURA GEROGLIFICACORSO DI SCRITTURA GEROGLIFICA

Venerdì 13, 20 e 27 Novembre 2009 ore 20:30Villa Volpini Via Giovanni XXIII n°16, presso la Biblioteca di San Benigno Canavese (TO)Relatore: Federico Bottigliengo (Egittologo)

L’evento è patrocinato dal Comune di San Benigno Canavese

Iscrizione obbligatoria. Il corso è gratuito per i soci del Circolo Culturale Tavola di Smeraldo. EURO 15 PER I NON SOCI

Verranno rilasciati attestati di partecipazione e dispense agli iscritti.

Iscrizioni: inviare il modulo allegato al fax: 011-9989278

Per informazioni: 335-6111237

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Circolo Culturale Tavola di SmeraldoVia Carlo Alberto n°37 10088 Volpiano (TO) Tel. 335-6111237 / 333-5478080http://www.tavoladismeraldo.itmail: [email protected]

Comitato Scientifico: Sandy Furlini, Paolo Cavalla,Katia Somà, Roberta Bottaretto

Collaboratori:Antico Egitto: Federico BottigliengoStregoneria in Piemonte: Massimo CentiniMedioevo Occidentale e Crociate: Francesco Cordero di PamparatoStoria dell’Impero Bizantino: Walter HaberstumpfArcheologia a Torino e dintorni: Fabrizio DiciottiFruttuaria: Marco NotarioAntropologia ed Etnomedicina: Antonio Guerci, Massimo Centini Psicologia e psicoterapia: Marilia Boggio MarzetEtica della cura del dolore: Domenico Gioffrè

ISCRIZIONI AL CIRCOLO CULTURALE TAVOLA DI SMERALDO

Collegandosi a www.volpianomedievale.it, nella sezione CONTATTI è possibile scaricare la modulistica predisposta per l’iscrizione.

Ogni aspirante socio dovrà compilare in tutte le sue parti i moduli predisposti ed inviarli al Presidente. La quota associativa per l’anno 2009 è stata fissata dal Consiglio Direttivo pari a €50.

ATTIVITA’ ASSOCIATIVE 2009

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Generalità:-Ente Organizzatore: Circolo Culturale Tavola di Smeraldo-Patrocini richiesti: Comuni di Volpiano (TO) e San Benigno Canavese (TO) e Provincia di Torino -Collaborazioni e Partnership: Associazioni Locali -Partecipazione: gratuita, iscrizione obbligatoria-Prevista una mostra delle fotografie in gara e premiazione pubblica-Soggetti: inquadrature inerenti il territorio, paese o periferia, dei Comuni di Volpiano e San Benigno C.se

“ESOTERISMO ED OCCULTO NELLA STORIA DI CASA SAVOIA”

Si è svolta la Conferenza su Torino dalla Mitologia all’Esoterismo il 19 Settembre a Volpiano (TO). In quell’occasione si è ufficializzata la collaborazione fra Gruppo Amici del Passato ed il Circolo Culturale Tavola di Smeraldo, associazioni culturali di Volpiano (TO). I due Presidenti, Marino Bresso e Sandy Furlini uniscono forze e creatività per una ricerca unica nel suo genere.

SGUARDI E ANGOLI DI PAESE

PREMIO “ENRICO FURLINI”RIFLESSIONI SUL DOLORE E LA SOFFERENZA1° edizione 2009

La giuria si riunirà il 11 Ottobre per una prima valutazione dei lavori pervenuti. Ad oggi sono in gara 3 lavori per la sezione narrativa sulla storia della medicina (Sez C) e 46 poesie per la sezione B. Non sono pervenuti lavori dalle scuole Medie della regione. Il Presidente della giuria Dr Sandy Furlini ed l’Assessore alla Cultura di Volpiano si interrogano su quali possono essere i motivi di questo inspiegabile silenzio.

Per avvicinarci maggiormente ai nostri luoghi, entrarne nei particolari e poter condividere immagini e scorci magari poco noti, la Tavola di Smeraldo organizza un concorso fotografico che ha per soggetto iComuni di Volpiano e San Benigno Canavese. I termini particolari del concorso verranno presto resi noti.

Cappella di San Rocco. Volpiano (TO) Foto di Katia Somà. 2006

Chi fosse interessato ad entrare nel Comitato Organizzativo può contattarci alla nostra mail o Tel. 335-6111237 (S. Furlini)

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Circolo Culturale Tavola di Smeraldo

Sede: Via Carlo Alberto n°37 10088 Volpiano (TO) C.F.= 95017150012

Reg. Uff Entrate di Rivarolo C.se (TO) il 09-02-2009 Atto n° 211 vol.3A

mail: [email protected] – web: ww.volpianomedievale.it Info: 335-6111237 / 333-5478080

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CORSO DI SCRITTURA GEROGLIFICA

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VERSAMENTO DI 15 EURO DA VERSARE ALLA PRIMA SERATA

Data _______________

Firma __________________________________

COMPILARE ED INVIARE VIA FAX: 011-9989278


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