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INDICE
Introduzione ...................................................................................................................... 3
Capitolo 1 ......................................................................................................................... 7
Governance e Welfare Locale. Verso la Programmazione Integrata ............................... 7
1.1 Governance e welfare locale ................................................................................... 7
1.2 Il Welfare Locale: le indicazioni della UE e il contesto Italiano .......................... 14
1.3 La Programmazione integrata e partecipata .......................................................... 19
1.4 Gli strumenti per governare: la programmazione sociale e la legge di riforma del
welfare in Italia ........................................................................................................... 25
Capitolo 2 ....................................................................................................................... 37
La partecipazione nell'ambito della programmazione dei servizi alla persona .............. 37
2.1 La partecipazione: un’introduzione ...................................................................... 37
2.2 Partecipazione ed empowerment .......................................................................... 50
2.3. I Processi partecipativi ......................................................................................... 52
2.3.1 Processi decisionali inclusivi: uno sguardo alle dimensioni operative .......... 54
2.4 La Cittadinanza attiva ........................................................................................... 63
Capitolo 3 ....................................................................................................................... 69
La Programmazione partecipata di politiche a favore della popolazione anziana:
l’invecchiamento attivo .................................................................................................. 69
3.1 Il quadro demografico ........................................................................................... 69
3.2 Essere anziani oggi: i giovani anziani, i grandi anziani ........................................ 72
3.3 Le politiche a sostegno della popolazione anziana tra protezione e prevenzione. 74
3.3.3 Gli anziani come risorsa ................................................................................. 81
3.4 L’Invecchiamento attivo e la programmazione partecipata .................................. 84
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Capitolo 4 ....................................................................................................................... 89
La ricerca empirica: il Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della vita” ............... 89
4.1 L’oggetto e gli obiettivi della ricerca .................................................................... 89
4.2 La metodologia di indagine .................................................................................. 90
4.3 Il contesto di riferimento ....................................................................................... 92
4.3.1 L’architettura istituzionale e la governance. .................................................. 93
4.3.2 La partecipazione in Emilia Romagna: normativa regionale e strumenti .... 101
4.3.3 La dimensione socio - demografica. ............................................................ 104
4.4 Il Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della vita.” La fase di avvio: dalla
presentazione delle Linee Guida “Promuovere la qualità della vita ed invecchiare
bene insieme” all’idea progettuale ............................................................................ 109
4.4.1 La realizzazione del Progetto: gli attori coinvolti ........................................ 112
4.4.2 Lo strumento: i Laboratori tematici ............................................................. 114
4.4.3 Lo svolgimento del Progetto: cosa è successo nei Laboratori ..................... 117
4.5 Strumenti alla prova. ........................................................................................... 121
4.5.1 I Laboratori e la qualità della partecipazione .............................................. 121
4.5.2 Gli esiti delle attività dei Laboratori per la promozione dell’invecchiamento
attivo ...................................................................................................................... 123
4.5.3 Alcuni effetti ‘inattesi’ ................................................................................. 125
CONCLUSIONI ........................................................................................................... 129
APPENDICE ................................................................................................................ 133
BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................... 145
RINGRAZIAMENTI ................................................................................................... 153
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Introduzione
Nella tesi si affronta il tema della programmazione sociale integrata e partecipata a
livello locale, ponendo particolare attenzione agli strumenti d’azione pubblica.
Le ragioni di tale interesse vanno cercate, oltre che nell’attualità di tale tematica, anche
nella mia esperienza professionale. Lavorando infatti dal 1995 nei servizi pubblici alla
persona, prima come assistente sociale di base e poi, dal 2011, come responsabile, ho
sperimentato, e sperimento quotidianamente, l’importanza del rapporto con le realtà
sociali del territorio (associazioni, sindacati, volontariato, ecc..): un legame che si attiva
e si rinforza attraverso la condivisione di progetti e di interventi.
Negli ultimi anni, inoltre si è vissuta un’importante modifica del clima istituzionale,
volto alla necessità di cambiare l’approccio con il cittadino, per creare relazioni nuove
che lo coinvolgano direttamente, in modo da renderlo partecipe.
Se negli anni passati le politiche sociali e i servizi hanno fatto riferimento ad un
cittadino portatore solo di bisogni, oggi non si può non tener conto dell’enorme
patrimonio di risorse relazionali, etiche, di valori, tempo, esperienze, conoscenze che
proprio i cittadini possono attivare per il miglioramento della qualità della loro vita e
della comunità in cui sono inseriti.
Troppe volte infatti all’interno dei Servizi, si è sottovalutato il ruolo del cittadino a
favore di quello del professionista e, nell’ambito della programmazione, si è privilegiata
la mediazione politica rispetto alle competenze relazionali e comunicative di tutti gli
attori coinvolti in un determinato processo.
Comprendere come andare oltre una logica di domanda-offerta di servizi, per scoprire e
valorizzare nuove alleanze con i cittadini, per attivare buone pratiche sociali per il
benessere e la qualità della vita, appare quindi per chi, come me, lavora nell’ambito dei
Servizi Sociali, una questione di grande rilevanza.
La programmazione integrata e partecipata sembra essere una (o l’unica) possibile
modalità per trovare soluzioni innovative, per uno sviluppo di servizi più equi, solidali,
sostenibili, capaci di dare un senso all’agire quotidiano delle persone, siano esse
operatori o cittadini.
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Si rendono quindi necessari degli strumenti idonei per poter perseguire queste finalità.
Degli strumenti che sappiano incorporare valori e sensibilizzare alla partecipazione e
alla condivisione.
Il cambiamento culturale necessario sembra aver fatto alcuni passi in avanti alla ricerca
di soluzioni per superare quegli ostacoli che possano bloccare una reale capacità nei
servizi per creare questo tipo di partecipazione e nell’utilizzare e migliorare questi
strumenti.
Allo stesso tempo i cittadini acquisiscono gradualmente delle specifiche ‘competenze’
per farsi promotori di innovazione sociale per la qualità della vita; è tuttavia necessario
sostenere questo processo affinché ognuno si senta a pieno parte di una società,
contribuendo attivamente al “welfare” del proprio territorio e per far maturare,
progressivamente, la consapevolezza che la soluzione alle situazioni di bisogno può
dipendere dall’azione di ogni cittadino.
Ritengo dunque che sia quanto mai necessario riflettere sia sul livello di definizione
delle politiche, sia sul livello delle esperienze concrete relative alla loro
implementazione, animando il dibattito sulla partecipazione e la programmazione
integrata, ciò al fine di cogliere modalità per mettere al centro dell’attenzione il
cittadino, inteso non solo e non più come detentore di bisogni, ma anche di risorse
uniche e preziose. Sulla necessità della sua partecipazione, del suo coinvolgimento
diretto affinché diventi ‘imprenditore di welfare’.
In questa ottica nel mio lavoro, e in particolare nei primi tre capitoli, ho condotto
un’analisi di sintesi sul dibattito teorico afferente agli argomenti sopra richiamati, con
specifico richiamo all’ambito degli anziani.
In particolare nel primo capitolo illustrerò il quadro concettuale di riferimento della
programmazione sociale all’insegna dell’integrazione e della partecipazione. Mi
soffermerò sugli strumenti d’azione pubblica, quali mezzi che permettono di rendere
operativa l’azione di governo, assumendo una prospettiva che tenga conto dei valori,
delle interpretazioni e delle modalità di regolazione dei rapporti che attraverso la scelta
di ogni strumento si realizza. Mi soffermerò poi sul quadro normativo nazionale
attraverso una breve, ma mirata, analisi alla legge di riforma del welfare, n.328 del
2000.
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Nel secondo capitolo porrò in particolare l’attenzione al tema della partecipazione e
presenterò alcune modalità operative tratte dalla letteratura in materia e dalle esperienze,
affinché la partecipazione si possa rendere in modo sostanziale, illustrando attraverso
quali processi partecipativi si stia sperimentando il coinvolgimento della società civile
nella programmazione. Inoltre, strettamente collegato all’attuazione di una
programmazione partecipata e in particolare al concetto di partecipazione, mi
soffermerò sul concetto di Cittadinanza Attiva.
Infine nel terzo capitolo concentrerò l’attenzione sul tema delle politiche a favore della
popolazione anziana. In particolare analizzerò le trasformazioni demografiche che
pongono oggi l’invecchiamento della popolazione al centro dell’agenda politica della
nostra società; contestualmente affronterò il tema delle concezioni della condizione
anziana: chi sono gli anziani oggi, quali inediti ruoli possano ricoprire; nello specifico
poi affronterò il tema della partecipazione in quest’ambito e mi soffermerò sul concetto
di Invecchiamento Attivo.
Alla luce del quadro di riferimento concettuale delineato nella prima parte del mio
lavoro, dedicherò la seconda parte della tesi all’illustrazione del Progetto ‘Anziani,
imprenditori di qualità della vita’ sviluppatosi nel contesto metropolitano bolognese tra
il 2011 e il 2013 e parzialmente ancora in corso.
Il mio lavoro di ricerca sul campo si è concretizzato nella realizzazione di uno studio di
caso.
Nel quarto capitolo quindi, presenterò da prima il contesto in cui questo Progetto ha
avuto la possibilità di nascere e di espandersi, attraverso un breve excursus circa la
dimensione socio – demografica, l’architettura istituzionale e l’idea di partecipazione
che la Regione Emilia Romagna ha negli anni affrontato e normato. In particolare poi,
dopo aver presentato le fasi di svolgimento del Progetto, mi soffermerò sull'analisi dello
strumento scelto per la sua attuazione: i Laboratori tematici. Le domande di ricerca che
mi sono posta riguardano infatti il se e il come questo strumento abbia contribuito a
raggiungere le finalità del Progetto: la promozione di dinamiche di co-progettazione
partecipata finalizzate alla realizzazione di azioni ed interventi a favore della
popolazione anziana in un'ottica di invecchiamento attivo.
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Capitolo 1
Governance e Welfare Locale. Verso la Programmazione Integrata
1.1 Governance e welfare locale
Per introdurre l’oggetto del mio lavoro, che riguarda la dimensione della partecipazione
nell’ambito della programmazione sociale, richiamerò alcuni elementi su cui essa
poggia le basi: governance e welfare locale. La mia lente sarà focalizzata sulla Pubblica
Amministrazione tentando di cogliere una visione d’insieme e comprendere l’impatto
sulla Pubblica Amministrazione delle trasformazioni connesse all’affermarsi di un
nuovo modo di regolare il welfare state.
E’ possibile ripercorrere, a grandi linee, i tre momenti di sviluppo che hanno condotto
all’affermazione della prospettiva della governance e della dimensione locale del
welfare.
La prima fase decorre a partire dalla metà circa degli anni ‘70 ed è stata caratterizzata
dalla perdita di fiducia nella capacità d’azione dello Stato di trovare soluzioni ai
problemi sociali ed economici. Lo Stato era concepito come parte stessa del problema e
per questo si iniziò a pensare che le sue funzioni potessero essere, almeno in parte,
affidate a entità anche locali, in grado di rispondere in modo più adeguato e flessibile ai
problemi sociali, sempre più complessi.
Nella seconda fase, a partire dagli anni ‘80, alla compromessa affidabilità nello Stato si
sostituì una “fiducia” nel mercato. Si afferma gradualmente la filosofia del New public
management (NPM): le Amministrazioni applicano, adattandoli in maniera opportuna,
alcuni principi e tecniche del management privato, tramite l’applicazione sistemica dei
principi di efficacia, efficienza, coerenza e trasparenza all’intervento pubblico.
Nella terza fase, siamo negli anni ‘90, oltre ai principi adottati dal NPM, si sviluppano
processi di regolazione propri della governance e l’attenzione si concentra sulle
dinamiche della partecipazione dei diversi portatori d’interesse.
“L’obiettivo è quello di trovare un modello che consenta di conciliare gli imperativi
della competizione economica internazionale con quelli della coesione e della
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sostenibilità sociale. Il livello locale è identificato come dimensione della flessibilità, la
governance diventa responsabilità della comunità nel processo di governo: tutti gli attori
locali e della società civile, attraverso reti e partnership, sono esortati a partecipare a tale
processo. Parallelamente alle autorità locali non è più affidata la mera erogazione di
servizi, ma cresce il peso politico della loro azione e del loro ruolo di guida e di
coordinamento” (Sabbatini, 2005, p.409).
Vediamo di seguito i principali elementi distintivi del concetto di governance.
Il termine anglosassone governance è di fatto privo di un sostantivo corrispondente in
italiano. E’ usato innanzi tutto per marcare una distinzione, e anche in contrapposizione,
con il termine government.
“Il government può essere inteso come ruolo di una amministrazione di decisore unico,
articolato in pluralità di istanze istituzionalizzate, ma che resta centralizzato e che agisce
entro forme di coordinamento di tipo gerarchico, a partire da una posizione sovra
ordinata rispetto agli altri soggetti e che fa perno sull’applicazione di procedure
amministrative. La governance invece richiama un insieme di soggetti che insiste su un
perimetro più ampio di quello descritto dalle istituzioni e dalle procedure burocratico
amministrative, che concorre comunque alla gestione del potere di decisione” (Bifulco e
Borghi, 2012, p.14) .
La contrapposizione tra ‘governance’ e ‘government’ serve appunto per sottolineare
come nel secondo termine prevalga l’utilizzo di strumenti di tipo gerarchico, coerenti
con uno scenario in cui nell’amministrazione è predominante la produzione di servizi.
Nella governance invece si privilegiano strumenti di indirizzo e di promozione.
La logica di government è legata al modello ente/istituto pubblico che esercita
prevalentemente poteri sovra ordinati. La logica di governance è più coerente con il
modello di ente/istituto che emana politiche e regola le attività anche con altri soggetti.
Si può quindi dire che il concetto di government è riferito per lo più a quelle attività di
governo pubblico regolate tramite procedure stabilite in sede centrale e per via
gerarchica tra i livelli. Mentre con il concetto di governance si intende la nuova
modalità di comportamento di soggetti pubblici capaci di assumere un orizzonte
strategico: praticare la governance significa porre in essere azioni, comportamenti ed
atteggiamenti che tendono a favorire percorsi di condivisione/convincimento, senza
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ricorrere a determinazioni di autorità, di fronte alle quali gli altri soggetti decisori,
potrebbero assumere atteggiamenti non collaborativi e/o ostativi.
E’ dalla fine degli anni ‘80 – inizio anni ‘90 che si assiste alla delegittimazione
crescente dell’idea di government a favore di quella di governance. “Si passa da
un’architettura del potere centralizzata e gerarchica, dominata da un soggetto pubblico il
cui fondamento di legittimità è l’autorità, a un’architettura reticolare, disegnata da una
pluralità di attori pubblici e privati, che intrattengono relazione negoziali” (Bifulco,
2009, p.2).
In sintesi il passaggio ‘from government to governance’ sottolinea l’affermarsi e
l’alternarsi di diverse combinazioni di attori pubblici, privati e del profit che concorrono
alla formulazione delle politiche e all’erogazione dei servizi. E’ l’insieme delle regole,
formali ed informali, attraverso le quali le persone e le organizzazioni influenzano le
decisioni, che vanno ad incidere sullo stato di benessere e sulla qualità della vita di tutti
i soggetti coinvolti.
La definizione fornita dall’OECD1 nel 2000, sancisce appunto la sostituzione del
termine government con quello di governance, in virtù dell’esistenza di un nuovo modo
di organizzare e amministrare i territori e le popolazioni: “Government non è più una
definizione appropriata del modo in cui le popolazioni e i territori sono organizzati e
amministrati. In un mondo in cui la partecipazione dei rappresentanti degli interessi
economici e della società civile sta diventando norma, il termine governance definisce
meglio il processo attraverso cui collettivamente risolviamo i nostri problemi e
rispondiamo ai bisogni della società, mentre government (governo) indica piuttosto lo
strumento che usiamo”.
1 Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e lo sviluppo economico
10
Fig.1 Caratteristiche del government e della governance
Fonte: adattamento da P. John (2001).
Government Governance
Attori Pochi e omogenei (politici e
amministrativi)
Molti e differenziati (politici,
amministrativi, economici,
sociali)
Struttura del
governo
Gerarchica;
Consolidata
Decentrata e frammentata;
Fluida
Legittimazione
politica
Democratico-rappresentativa Democratico-
rappresentativa;
Influenza diretta degli
interessi
Rapporto fra la
politica e gli
interessi economici
e sociali
Fondato su rappresentanza,
pressione e scambio
Fondato sulla rappresentanza;
Inclusione diretta nel policy
making
Gestione
amministrativa
Burocratica Post-burocratica, con gradi
variabili di orientamento al
mercato
Azione pubblica Routinizzata, simile fra i
diversi settori, indisponibile
alla innovazione
Innovativa e differenziata
Rapporto con il
governo statale
Controllo gerarchico
Dipendenza fiscale
Decentramento delle
funzioni amministrative e
delle risorse;
Negoziato
L’assunzione del concetto di governance poggia dunque sulla necessità di integrare
l’azione di diversi attori ed è finalizzata a “contrastare la frammentazione delle scelte e
delle responsabilità e il peso conseguente dei particolarismi, e viceversa per
incoraggiare quella integrazione tra livelli, tra materie, tra attori, da cui dipende la
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possibilità di giungere a scelte riconosciute e condivise e dunque trasformare il
particolare in generale” (Bifulco, 2005, p. 201).
La Commissione Europea nel 2001 individua e indica, in termini direttivi, l’integrazione
quale risposta alla disorganicità e alle innumerevoli suddivisioni assunte negli aspetti
istituzionali e sociali. L’Unione Europea ha infatti definito il concetto di governance
facendo riferimento alla dimensione politica, sociale ed economica. Il White Paper2 on
European Governance del 2001 definisce il termine governance come “le norme, i
processi e i comportamenti che influenzano il modo in cui le competenze sono esercitate
a livello comunitario”, soprattutto con riferimento ai principi di:
apertura: le istituzioni devono operare in modo aperto, con un linguaggio
accessibile e comprensibile per spiegare cosa si fa e le decisioni adottate;
partecipazione: assicurare ampia partecipazione dalla fase di elaborazione a
quella di esecuzione, per una maggiore qualità, pertinenza, efficacia delle
politiche adottate;
responsabilità: chiarezza nei ruoli legislativi ed esecutivi,
efficacia: produrre risultati attesi in base ad obiettivi chiari, con una valutazione
di impatto futuro
coerenza: decisa assunzione delle responsabilità da parte delle istituzioni, per
assicurare coerenza in un sistema complesso.
Il Libro Bianco si rivolge a tutte le istituzioni e alle amministrazioni centrali, alle
regioni, alle città e alla società civile. La finalità è di creare una maggiore apertura nel
processo di elaborazione delle politiche dell’Unione europea, così da garantire una
partecipazione più ampia dei cittadini e delle organizzazioni alla definizione e
presentazione di tali politiche.
Anche nel contesto politico nazionale, il concetto di governance si traduce nell’idea
secondo cui il ruolo delle istituzioni politiche e dei poteri pubblici non è più sufficiente,
nello scenario contemporaneo, a garantire modalità adeguate di sviluppo locale. Ciò che
si rende necessario, per integrare l’azione del potere pubblico locale, è una più ampia
2 ‘Libro Bianco’: documento di indirizzo che suggerisce ‘regole e modalità’ per la trasformazione di quel
settore, che fa il punto sulla situazione attuale e fa proposte affinché i governi le trasformino in norme.
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mobilizzazione di attori di diverso tipo intorno ad un progetto capace di rendere
sinergiche le iniziative, non tanto attraverso il ricorso alla regolazione normativa, ma
soprattutto attraverso la costruzione di una rappresentazione comune dei problemi e
delle soluzioni.
Riuscire cioè ad attivare un piano di relazione e di coordinamento tra una pluralità di
soggetti di tipo orizzontale, in una logica di ‘rete’. “La governance va quindi a favore di
temi quali il coinvolgimento di cittadini e delle comunità locali, la costruzione di
partnership cooperative e lo sviluppo di processi decisionali inclusivi” (Bifulco e
Borghi, 2012, p.15).
In altre parole, la governance rappresenta “un’attività di comunicazione coordinata al
fine di ottenere obiettivi comuni mediante la collaborazione”. (Willke, 2008, p.1). Il
riferimento è alle modalità che le persone hanno di interagire per raggiungere degli
obiettivi, individuali o collettivi; centrale diviene la necessità di “coordinamento”,
condizione affinché la cooperazione abbia luogo. In tale ottica per Le Gales governance
indica il “processo di coordinamento di attori, gruppi sociali, istituzioni per il
raggiungimento di obiettivi propri, discussi e condivisi collettivamente, in ambienti
frammentati e incerti” (Le Gales, 1998, p.52). Le Gales indica due aspetti fondamentali:
1) il processo di coordinamento che consente di integrare le azioni e i comportamenti
degli attori del sistema; 2) la necessità di orientare e fare sintesi degli obiettivi perseguiti
dagli attori.
Si possono presupporre due diverse forme di coordinamento tra gli attori coinvolti:
quello tra attori istituzionali e quello tra autorità pubbliche e stakeholders locali. Il
coordinamento tra attori istituzionali a sua volta assume una prima forma di carattere
orizzontale, ovvero tra soggetti istituzionali di pari livello, ma che operano in differenti
aree territoriali o in ambiti di competenza eterogenei. Questo presuppone che ci sia, in
ambito locale, collaborazione tra amministratori e funzionari impegnati in ambiti
diversi; implica poi un atteggiamento di collaborazione su scala interlocale. Una
seconda forma è invece di carattere verticale, cioè tra autorità che esercitano i propri
poteri su scale territoriali di diversa ampiezza e riguarda l’instaurazione di un principio
di sussidiarietà tra istituzioni nazionali e sovranazionali (Comuni, Provincia, Regioni,
Stato, UE).
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Il coordinamento tra autorità pubbliche e gli stakeholder locali (quali operatori
economici e i rappresentati dell’associazionismo della società civile) si può realizzare
attraverso un modello che valorizzi il ruolo dei cittadini, la responsabilizzazione degli
amministratori e il miglioramento della qualità dei provvedimenti e dell’attuazione delle
decisioni adottate.
Si pone pertanto l’accento sul ruolo delle istituzioni politico-amministrative, in primo
piano quelle locali, ridisegnando le loro funzioni sulla base di compiti di ‘regia’.
“Compiti che comportano la capacità di dirigere processi frammentati e di promuovere
forme di cooperazione e di partecipazione alle scelte coerenti con le finalità pubbliche
in gioco” (Bifulco, 2005, p.28).
Pertanto il successo della governance dipende anche dalle modalità di coordinamento
che sia attuano, cioè dalle modalità con cui le varie attività vengono coordinate affinché
si possono raggiungere gli obiettivi stabiliti, coinvolgendo gli attori di quel contesto,
come risorse aggiuntive.
La categoria analitica di governance consente quindi di comprendere come si può
ridefinire il ruolo dello Stato, in concomitanza con il cambiamento dei rapporti fra
pubblico e privato, e fra locale/centrale/sovranazionale. Il dibattito è focalizzato su temi
quali la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali, la costruzione di partnership
fra attori pubblici e privati, la diffusione di pratiche deliberative. “L’attore pubblico
locale incaricato del coordinamento/regia del sistema di relazioni, dovrà dimostrare di
saper promuovere opportunità e costruire partnership, integrare e creare collegamenti
efficaci. Queste attività coinvolgono l’amministrazione a diversi livelli, poiché
chiamano in causa tanto la sua struttura organizzativa e il relativo processo
amministrativo, quanto la capacità di decisione in termini “manageriali” e il sistema di
ruoli interni ad essa” (Sabbatini, 2005, p.417).
Nel discorso pubblico, attraverso il riferimento alla nozione di governance, si ricercano
le condizioni di un ‘buongoverno’ ai diversi livelli, tramite l’individuazione di processi
decisionali caratterizzati da un maggior grado di coinvolgimento degli amministratori e
ad una più ampia apertura e partecipazione dei diversi attori territoriali all’elaborazione
e all’attuazione delle politiche.
14
Occorre quindi un livello di rappresentanza istituzionale che porti a conclusione, nel
modo più efficace, ciò che i territori programmano.
Dipende quindi dal ruolo che svolgono le amministrazioni pubbliche. La governance
sembra portare alla trasformazione dell’autorità pubblica lungo una direzione
sintetizzabile “dal passaggio da un ruolo di rowing a un ruolo di steering. In questo
passaggio quando il soggetto pubblico perde sul versante dell’autorità e del comando
può essere compensato da quanto guadagna sul versante del controllo delle risorse”.
(Bifulco, 2005, p.205). Ciò sta a significare che la Pubblica Amministrazione deve
saper assumere un ruolo di guida e non di diretto gestore: “steerin, not rowing”
(“guidare, non remare”, Osborne, 1992).
La governance quindi riguarda la capacità dello Stato di servire i cittadini. Pertanto è di
fondamentale importanza analizzare il modo in cui le pubbliche funzioni e i poteri
normativi vengono esercitati e le risorse pubbliche vengono gestite. Il termine
governance quindi esprime un concetto significativo e pratico relativo agli aspetti
fondamentali del funzionamento di ogni società e di ogni sistema politico e sociale. Se i
concetti di diritti umani, democratizzazione, stato di diritto, partecipazione della società
civile, decentramento dei poteri acquisiscono sempre più importanza, allora la
governance si trasforma in buon governo. E il buon governo è ‘una conditio sine qua
non’ per l'efficacia dello sviluppo e il conseguimento degli obiettivi nei diversi campi
delle politiche.
La governance può essere quindi vista, come “un’azione di rete a somma positiva cioè,
la somma degli addendi risulta superiore alle singole componenti, a cui contribuisco gli
attori: per ogni nodo della rete, le ricompense sono potenzialmente superiori dei
contributi” (Longo, 2005).
1.2 Il Welfare Locale: le indicazioni della UE e il contesto Italiano
A partire dalla diffusione dei processi di regolazione basati sulla logica di governance,
affronterò ora il tema del welfare a livello locale
La riorganizzazione territoriale dei servizi pubblici, ha avuto avvio negli anni 80 con il
varo della così detta Europa delle Regioni promossa dalla presidenza europea di J.
15
Delors (negli anni tra 1985 e il 1995) ed è di fatto coincisa con una ricomposizione
profonda dello spazio politico, grazie alla quale la ‘nazionalizzazione’ è stata
ampiamente superata.
Il passaggio inizialmente più significativo di questo processo a livello europeo
(avvenuto nel corso degli anni 80 e 90) è il Trattato di Maastricht del 1993 in cui si
afferma il principio di sussidiarietà, principio secondo il quale il livello ottimale di
decisionalità politica è quello della maggiore vicinanza alla vita dei cittadini che quindi
porta alla necessità di un’azione generalizzata di decentramento istituzionale.
Questo processo di decentramento ha avuto implicazioni forti sulla configurazione dei
sistemi di welfare, a loro volta attraversati negli anni dall’imponente ciclo di
modificazioni socio-demografiche e dunque da importanti ondate di cambiamento circa
gli obiettivi, le strategie di intervento, i gruppi target.
Per l’insieme di tutto ciò si è resa necessaria una ridefinizione chiara delle
responsabilità di governo e di gestione dei sistemi socio-assistenziale al livello di
Regioni, Provincie Comuni o municipalità.
Chiamati a realizzare il welfare locale in Italia sono in primo luogo gli Enti Pubblici, tra
essi centrale è ruolo dei Comuni, in quanto, come sancito poi dall’art.118 (Riforma del
Titolo V della Costituzione nel 2001), è l’istituzione più vicina a i cittadini, in grado di
interpretare meglio le loro esigenze e di tradurle in concrete scelte operative. Nello
stesso art. 118 si legge anche che i “cittadini singoli o associati” sono chiamati a
realizzare “attività di interesse generale”. Non solo quindi i soggetti pubblici
istituzionali (Stato, Regioni, Provincie, Città Metropolitane, Comuni), ma tutti i soggetti
del privato sociale che si trovano sul territorio, sono chiamati a partecipare in forma
attiva, non più solo alla gestione di servizi, ma anche alla loro progettazione.
Gli Enti locali sono quindi chiamati a ricoprire il ruolo di coordinamento degli attori in
campo, configurando modalità innovative di rapporto tra chi programma, chi finanzia e
chi produce i servizi e gli interventi sociali. “Significa ridisegnare i processi di policy-
making aprendo alla rappresentanza degli interessi di cui sono portatori i diversi
stakeholders, superare la centralizzazione dei poteri in mano allo Stato a favore di una
ripartizione degli stessi, tra diversi livelli istituzionali, sulla base di competenze
specifiche, sostenere cioè una logica di rete piuttosto che una logica gerarchica, attivare
processi di negoziazione e compartecipazione, piuttosto che di imposizione burocratica,
16
incentivare l’inclusione della società civile nei processi decisionali e nelle fasi di
programmazione” ( Maino, 2012, p.174).
Il welfare locale rappresenta “il complesso di prestazioni e di iniziative programmate e
messe in atto da soggetti pubblici e del privato sociale, in un ambito territoriale
omogeneo, articolate e collegate fra loro in forma di rete, finalizzate alla protezione, al
sostegno e alla promozione della persona (sia singola sia quale parte di un nucleo
familiare)” (Frattin, 2012, p. 70).
E’ una definizione ampia che comprende l’insieme di iniziative sociali, culturali e
politiche, che consentono l’esercizio dei diritti di cittadinanza delle persone, la tutela
delle situazioni individuali e familiari di fragilità, di difficoltà, di marginalità, la
promozione dello sviluppo umano, sociale e solidale della comunità.
La complessità di tali azioni mette in moto i processi partecipativi di più attori,
l’intensificazione degli scambi sociali e l’apprendimento collettivo; così da generare
nuove forme di organizzazione, nuovi canali di comunicazione e di aggregazione. I
progetti locali, che investono sulle risorse, sulle esperienze e su gli interessi dei contesti
locali, sono ancorati a obiettivi concreti, e creano spazi per confrontare
contemporaneamente diversi problemi e per combinare insieme diverse competenze.
Anche la comunità o il singolo diviene così una risorsa per rispondere ai bisogni. Nel
welfare locale “la comunità dunque non è soltanto un bacino di utenza o un mercato di
un servizio, ma deve essere un attore sociale” (Franzoni e Anconelli, 2003, p.86).
Il welfare locale si pone quale spazio di policy e di pratiche sociali in cui diventa
possibile ridiscutere idee, progetti ed iniziative di sviluppo, in cui ‘il sociale’ può essere
considerato non più come una dimensione residuale, oppure un costo inevitabile, ma
come elemento di qualità territoriale da cui emergono possibili sinergie e risorse utili
allo sviluppo complessivo di un territorio.
“Il contesto locale non è soltanto lo spazio entro cui sono circoscritte le politiche, le loro
azioni e i loro effetti, e non è nemmeno un dato soltanto amministrativo, ma è anche la
collettività di riferimento, la fonte sia dei problemi che delle risorse e il luogo in cui
queste si combinano e si trasformano. L’ambito locale è la leva per “fare sistema”, con
effetti di integrazione e/o di organizzazione sociale” (Bifulco e De Leonardis, 2002,
p.17).
17
Il welfare locale trae le sua motivazioni anche dal fatto che emergono, a seguito dei
cambiamenti sociali, nuovi profili di rischio sociale che richiedono una capacità di
risposte nuove e nuovi tipi di misure: il welfare locale è il luogo privilegiato di
progettazione e realizzazione. Un sistema di welfare locale si costruisce su processi che
siano finalizzati soprattutto all’innovazione sociale e necessita di un rilancio delle
capacità di governance delle istituzioni locali ed un pieno coinvolgimento della società
civile e del terzo settore.
Pertanto il welfare locale si fonda su processi di governance delle politiche sociali
fondata sul coinvolgimento, nei processi decisionali, di tutti gli attori locali, a
cominciare da quelli del terzo settore. “Alla società civile viene chiesto di uscire dal
particolarismo e dalla difesa delle identità associative, per assumere anche
responsabilità pubbliche” (Ranci, 2005, p.23).
L’Ente Locale quindi deve concretizzare il coinvolgimento della società civile nella
progettazione e nella gestione del sistema integrato dei servizi sociali, così da poter dare
risposte più adeguate e più vicine alla cittadinanza. In tale lettura la sperimentazione e la
realizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale non significa una ‘abdicazione’ o
una ‘delega’ dell’Ente Pubblico al farsi carico del problema del benessere dei propri
cittadini. Infatti l’Ente Pubblico mantiene la titolarità, e, insieme al Terzo Settore, può
offrire risorse aggiuntive, che insieme possano promuovere e sostenere il complessivo
sistema di protezione e promozione sociale, anche in termini di responsabilità condivisa.
Tuttavia a livello nazionale, anche nell’ambito delle politiche sociali, “gli interventi di
carattere legislativo che nel tempo hanno normato le competenze degli enti locali, hanno
avuto la funzione sostanziale di attribuire responsabilità solo potenziali, ampliando il
campo delle opzioni disponibili alle istituzioni locali, senza che a ciò sia seguita una
politica di sostegno finanziario e di vera e propria regolazione degli strumenti di welfare
locale” (Ranci, 2006 p.130). Esiste quindi di fatto in Italia una separazione tra i
programmi nazionali di assistenza sociale, per lo più di stampo economico, che spesso
fanno capo agli stessi cittadini, per i quali non viene operato alcun controllo; e i
programmi locali, dove si sviluppano interventi molto variabili, che generano notevole
frammentazione e separazione dei sistemi di intervento da territorio a territorio. Spesso
non si è nemmeno nelle condizioni di creare combinazioni e sinergie tra tali misure
(nazionali e locali) all’interno di uno stesso ambito territoriale.
18
In Italia è ancora in corso la costruzione del welfare locale, che certamente alimenta la
democrazia locale, ma ci si trova anche di fronte a diseguaglianze tra le Regioni, non
soltanto sul terreno economico/sociale, ma anche ‘politiche’, di potere, di capacità di
‘voice’ e di influenza sulle scelte collettive.
In molte aree di policy prevale tuttora l’impostazione del sistema di welfare articolato
sulla rigida separazione tra alcuni ‘storici’ pilastri fondamentali: previdenza, sanità,
istruzione e basato esclusivamente su misure risarcitorie, ancora lontana è la costruzione
di un modello di welfare fondato su un approccio territoriale integrato. Tale spazio
richiede l’integrazione della politica sociale nel contesto più ampio delle politiche
pubbliche e a cascata della programmazione locale. A tal fine occorre promuovere un
sistema trasversale di attori-chiave dello sviluppo locale, che si mettano insieme
condividendo degli obiettivi per il governo collettivo del welfare locale; così che
crescita economica e coesione sociale, innovazione e sostenibilità si possano mettere
insieme.
Tutto ciò può avvenire solo in una dimensione di sviluppo locale, nei luoghi in cui
vivono e agiscono i soggetti realmente coinvolti nell’intervento sociale. Si creerebbe
così davvero un nuovo modo di fare programmazione sociale, dove le strutture
pubbliche possono assumere “una funzione di catalizzatore” (in quanto non dovrebbero
direttamente produrre effetti, ma favorirli e renderli possibili) trasformandosi in una
sorta di “amministrazione locale condivisa” (Devastato, 2009, p.20). Quindi se si
potessero creare processi di fusione tra le diverse politiche (sociale, sanitaria, del lavoro,
dell’istruzione, …) si potrebbe arrivare ad assicurare un’efficacia implementazione di
un welfare territoriale.
Questa riforma del welfare procede però lentamente e con forti differenziazioni
territoriali, perché più frequentemente si assiste a ‘processi di integrazione tra politiche
diverse’ piuttosto che a ‘promozione di politiche integrate’.
Occorre tuttavia riflettere su alcuni rischi che si possono correre con un richiamo
insistito alla dimensione locale. Questo richiamo può causare effetti di
particolarizzazione, soprattutto rispetto a come vengono definiti i problemi. “Il rischio è
che a contare siano pochi e selezionati interessi con un interesse generale che coincide
con questi ultimi” (Bifulco, 2005, p. 204).
19
La localizzazione quindi può risultare come un processo ambiguo. Certo da un lato
l’ambiguità può essere anche intesa come risorsa, perché può favorire l’autonomia per i
contesti e per gli attori, perché può accrescere le opportunità di arrangiamenti flessibili,
può sollecitare apprendimenti su problemi e soluzioni. Ma questi stessi motivi possono
valere anche in negativo: come rischi di frammentazione.
Le strategie poi, anche se perseguite localmente, rischiano spesso di subordinare
l’obiettivo dell’inclusione sociale a quello della competizione/restrizione economica.
Un altro rischio si può correre se le risposte ai bisogni si dovessero concentrare dentro
le singole sfere (stato, mercato, famiglia e terzo settore) se si è cioè incapaci di cogliere
e sfruttare la complementarietà e le sinergie tra queste diverse sfere. Se ciò succedesse
si rischierebbe un ampliamento del gap tra insider e outsider, rafforzando le tutele dei
primi e lasciando i secondi sempre più esposti ai nuovi rischi.
1.3 La Programmazione integrata e partecipata
La realizzazione del welfare locale in un contesto di governance richiama dunque il
coinvolgimento di diversi attori che concorrano insieme alla programmazione
territoriale che via via assume centralità come modalità di assunzione delle decisioni e
come strumento di governo.
Nelle prossime pagine affronterò più da vicino la specificità di questo processo.
Innanzitutto è utile distinguere tra ‘programmi’ e ‘piani’: termini che vengono usati
come sinonimi per indicare l’esito di un processo attraverso il quale, sulla base dei
valori condivisi e di una data situazione di partenza, viene da prima definita una scala di
priorità degli obiettivi che si intendono raggiungere entro un periodo di tempo; si
specificano poi le modalità con le quali si pensa di raggiungerli e si indicano gli
strumenti e le risorse, umane e finanziarie, considerate necessarie.
Una differenza si può però ravvisare nella modalità maggiormente ‘prescrittiva’
contenuta nel Piano, mentre si ravvisa una natura maggiormente ‘indicativa’ nel
Programma. Dal primo quindi ci si aspetta indicazioni normative che conformano le
azioni dei soggetti destinatari; nel secondo si ritrovano gli obiettivi da raggiungere,
lasciando libertà sulle modalità operative di attuazione.
20
Il ‘programma’ indica i mezzi che permettono di raggiungere gli obiettivi strategici
determinati in precedenza e definisce le risorse disponibili. Il termine ‘progetto’ invece,
altro temine spesso utilizzato, a differenza degli altri due, ha connotati decisamente più
operativi, di dettaglio, all’interno di un piano o di un programma, che ne costituisce la
cornice di riferimento. “Avere un progetto” significa anche dimostrare capacità di
operazionalizzare un’intenzione” (Lascoumes e Le Galès, 2009, p. 122).
La Programmazione quindi è un’attività di elaborazione, di approvazione e di
implementazione di ‘programmi’ e ‘piani’, dove vengono coinvolti, attraverso forme di
scambio, di negoziazione e di accordo, tutti gli attori interessati. In tale attività si
evidenzia l’esigenza di trovare un raccordo tra le scelte politiche, le decisioni delle
amministrazioni pubbliche e la dimensione operativa di tutti i soggetti pubblici e privati
coinvolti nel processo di elaborazione ed attuazione degli interventi, in particolare quelli
di ambito locale.
Anche ‘programmazione’ e ‘pianificazione’ sono simili, in quanto con entrambe si
vuole indicare un processo attraverso il quale, partendo da un problema emergente,
vengono definiti: tempi, modi, strumenti e risorse (umane, materiali e finanziarie) per il
raggiungimento degli obiettivi prestabiliti. La ‘pianificazione’ però si riferisce ad un
livello decisionale macro: una strategia volta a raggiungere obiettivi generali a lungo
termine; la Programmazione invece può essere riferita alle strategie organizzative di
ogni servizio, di un ambito territoriale definito, ed ha obiettivi a medio e breve termine.
Ciò su cui focalizzerò ora la mia attenzione saranno i metodi e le fasi della
programmazione.
In letteratura esistono diversi approcci teorici, alternativi tra loro, a sostegno di diversi
metodi di programmazione, che possono essere applicati a seconda delle finalità che si
vogliono raggiungere, dei tempi a disposizione e del contesto sociale.
Non si intende qui entrare nel dettaglio teorico e delle relative fasi di ogni approccio,
elencherò brevemente alcuni approcci di rilievo ed utilizzati nel sistema di governance
della Pubblica Amministrazione.:
Approccio sinottico – razionale: solitamente utilizzato per progetti che
affrontano problematiche di cui si conoscono bene i fattori causali e per le quali
non si prevedono grosse variazioni nel futuro. “Gli obiettivi vengono definiti
con chiarezza fin dal principio ed individuati in tempi relativamente brevi da
21
poche persone, che dispongono di potere decisorio circa strategie di azione e gli
strumenti di cui avvalersi” (Maggian, 2011, p. 372). La criticità espressa da
questo modello è la caratteristica prescrittiva, che poggia sulle capacità
decisionali dei pochi soggetti coinvolti;
Approccio incrementale: solitamente utilizzato quando si dispone già di
documenti programmatici, elaborati e condivisi, pertanto si rende necessario
apportare delle modifiche, degli adattamenti o delle integrazioni alla
programmazione già in essere, alla luce di nuovi bisogni. Solitamente è un
modello attuato per trovare risposte rapide a richieste immediate e urgenti,
attraverso la valutazione di possibili alternative, sulla base del consenso espresso
dagli attori principali;
Approccio partecipativo – concertativo: si applica nei contesti di complessità
sociale, quando si ritenga necessario e opportuno un confronto con vari soggetti,
sugli obiettivi già in fase preliminare, una negoziazione circa le aspettative e le
priorità portata dai vari stakeholder. Il confronto scaturisce da un gruppo iniziale
di attori che si allarga sempre più, anche a gruppi che possono avere interessi
contrapposti, ma dando a tutti la possibilità di esprimere i diversi punti di vista.
Fondamentale quindi identificare i diversi attori da coinvolgere;
Approccio euristico: si applica quando non si è in grado o non è opportuno
definire in anticipo gli obiettivi. Pertanto si fa in modo che questi scaturiscano
da un processo di comunicazione e ricerca condotta con tutti gli interlocutori
interessati
Project Cycle Management – PCM (Ciclo della Gestione del Progetto):
introdotto nel 1992 dalla Commissione Europea. Questa teoria fa dei beneficiari
finali il suo punto cardine, quindi chi elabora il progetto deve focalizzare
l’attenzione sui reali bisogni dei destinatari dell’intervento. Le tecniche e gli
strumenti del PCM sono tutt’oggi alla base della progettazione europea e dei
relativi finanziamenti.
22
Alla luce delle diverse metodologie elencate, le fasi che solitamente vengono indicate,
come standardizzate nella programmazione integrata possono essere così riassunte e
schematizzate in figura 2:
1) Fase della conoscenza: lettura della comunità di riferimento; è una fase
preparatoria, pertanto occorre acquisire le informazioni e i dati di base circa
l’analisi del contesto. Si raccolgono gli interessi, le conoscenze, le tendenze, le
realtà sociali, le risorse disponibili di quella realtà territoriale e si individuano i
nodi problematici e bisogni. Si avviano le attività di concertazione preliminari
tra i vari soggetti pubblici e privati coinvolti;
2) Fase della condivisione e del coinvolgimento: attraverso un primo atto formale,
giuridicamente rilevante che da avvio al procedimento, è solitamente un atto di
un decisore politico, ma che sia un’assemblea elettiva, un organo esecutivo o un
suo componente, deve comunque essere operata con il concorso, più o meno
visibile, di altri soggetti: “tecnici che redigono materialmente il testo della
decisione e che hanno condotto gli studi preliminari; organizzazioni di
beneficiari che sono state formalmente o informalmente consultate; cittadini fatti
oggetto di analisi o coinvolti più attivamente mediante processi di
partecipazione” (Mari, 2012, p. 116). L’istruttoria quindi deve essere condivisa e
partecipata: si deve trovare il giusto equilibrio tra l’interesse perseguito
dall’amministrazione pubblica e gli altri interessi, dei soggetti coinvolti nel
processo programmatorio, dando una sostanziale parità tra soggetti pubblici e
privati. Questo iter rappresenta un percorso complesso dove si faranno le scelte
delle priorità da affrontare, che vede coinvolti diversi attori, dove, pertanto
occorre anche definire, almeno in modo indicativo, i tempi procedimentali;
3) Fase organizzativa: è la fase della definizione degli obiettivi che si vogliono
raggiungere. La decisione è rappresenta dal Programma o dal Piano che
costituisce il risultato dell’azione di una molteplicità di attori pubblici e privati,
deve contenere, in termini concreti, quanto si intenda valutarne l’efficienza,
l’efficacia o l’economicità;
23
4) Fase operativa: l’atto di approvazione generalmente costituisce per tutti livelli di
governo la forma sostanziale di esternazione delle decisioni e costituisce una
condizione di efficacia in ordine agli effetti che esso è abilitato a produrre. Una
volta approvati, questi atti rappresentano la registrazione di un accordo
intervenuto tra amministrazioni pubbliche (ai vari livelli di governo)
rappresentanze sindacali, esponenti del Terzo settore e del privato sociale, ossia
l’effetto di una reale concertazione. Contengono le assunzioni di responsabilità,
le definizioni dei vincoli e delle risorse di tutti i soggetti coinvolti;
5) Fase valutativa: è la fase della verifica dei risultati. Occorre stabilire quale possa
essere il tipo di verifica più confacente al documento e alle decisioni assunte.
Significa verificare i traguardi, i risultati raggiunti: il livello di soddisfazione dei
soggetti coinvolti, come sono state gestite le risorse, l’individuazione dei nodi
critici, la riprogettazione di nuove azioni.
24
Fig.2 Adattamento da “Fasi per la programmazione integrata e partecipata”
fonte: Zilianti e Rovai (2007)
Pertanto, se fino a qualche tempo fa programmare, a tutti i livelli, voleva dire che
‘dall’alto’ cioè un’attività che coinvolge soltanto i soggetti ritenuti competenti, dopo
aver analizzato i bisogni, individuato gli obiettivi, stabilite le regole, indicati i percorsi e
organizzate le risorse, attivavano le procedure, quindi secondo modalità imperative,
fornivano l’input verso ‘il basso’; nel divenire dei processi di governance, programmare
O
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25
è, necessariamente e sempre più, l’esito di un processo di coinvolgimento dei diversi
attori (decisori, esperti, operatori, utenti,…) dove ‘dall’alto’ si definiscono solo le regole
generali e i vincoli, ma anche questi dovrebbero essere non rigidi ed improntati alla
massima partecipazione, nonché gli obiettivi di fondo da perseguire.
La programmazione integrata è sostanzialmente un metodo decisionale che rappresenta
al tempo stesso uno strumento di raccordo tra competenze diffuse nei diversi livelli di
governo e una modalità di partecipazione del privato all’esercizio del relativo potere: i
rappresentanti dei destinatari degli interventi possono incidere sulle scelte che li
riguardano. La programmazione integrata è l’esito di numerose interazioni tra altrettanti
numerosi organi/strutture pubbliche e il contributo del partenariato sociale.
1.4 Gli strumenti per governare: la programmazione sociale e la legge di riforma
del welfare in Italia
La programmazione integrata e partecipata, di cui ho messo in luce le principali
caratteristiche, è stata introdotta nelle politiche sociali principalmente attraverso la
Legge 328/2000. Tale normativa individua nel Piano di Zona lo strumento principale
per la governance locale in materia di integrazione tra la sfera sociale e sanitaria.
Prima di procedere all’osservazione delle principali caratteristiche della
programmazione, nei diversi livelli, nazionale, regionale fino in particolare al Piano di
Zona, mi soffermerò sul concetto di strumento.
Ciò che si intende solitamente per ‘strumento’ è un insieme più o meno coordinato di
regole e di procedure che consenta di governare le interazioni e i comportamenti degli
attori coinvolti. A seconda degli strumenti scelti ed utilizzati, gli attori potranno dunque
avere capacità d’azione anche molto differenti.
In questa ottica gli strumenti “d’azione pubblica” (Lascoumes e Le Galès, 2009, p. 3)
costituiscono dei dispositivi al tempo stesso “tecnici e sociali”, cioè definiscono chi
organizza i rapporti specifici tra potere pubblico e i suoi destinatari, in funzione delle
rappresentazioni e dei significati di cui sono portatori.
Intendo quindi assumere la definizione data da Cassese (2009, p. X-XI)
nell’introduzione all’illuminato libro di Lascoumes e Le Galès “Gli strumenti per
26
governare” che ritengo utile riportare: “Gli strumenti sono principalmente istituzioni, in
senso ampio, inclusivo cioè dispositivi, tecniche, organizzazioni, modi di operare,
procedure, introdotti per mettere in opera politiche, ma capaci poi di avere vita
autonoma. Gli strumenti non sono neutri. Portano i segni delle politiche per cui sono
stati introdotti. Racchiudono valori. Ma poi hanno dinamiche proprie. Se le politiche
possono essere mutate radicalmente, gli strumenti sono di regola soggetti a cambiamenti
incrementali. Essi mutano al margine, per addizioni e modificazioni, piuttosto che per
grandi rotture”.
Come indicato sempre da Lascoumes (Lescoumes e Le Galès, 2009), uno strumento può
avere tre effetti principali:
a) crea aggregazione, in quanto è un punto di passaggio obbligato che permette ad
attori diversi di mettersi in rete, di affrontare problematiche e di accettare di
lavorare in comune;
b) produce una rappresentazione di ciò di cui si va a trattare, impone cioè di
trovare delle definizioni comuni su ciò di cui si discute;
c) induce a problematizzare la questione che si ha in oggetto, mettendo in ordine
gerarchico le variabili individuate, fino ad arrivare ad individuare una scala di
priorità condivisa.
Uno strumento quindi incorpora valori e si incontra con un contesto e dunque nella sua
messa in opera possono esserci differenti esiti.
“Osservare gli strumenti significa osservare come gli attori si confrontano con la
dimensione istituzionale che vi è incorporata e con il suo potere di tracciare direzioni e
significati dell’azione” (Bifulco, 2009, p. 302) .
Pertanto a seconda degli strumenti che i diversi contesti e le istituzioni scelgono e
adottano, si evidenzia il modo in cui le politiche vogliono coinvolgere i vari attori di
quel sistema, indicando anche gli effetti di innovazione che ne possono conseguire.
La programmazione integrata assume dunque la valenza di raccordo ottimale tra
soggetti istituzionali ai diversi livelli di governo, questo modello si costituisce dal basso
e ciò significa che l’obiettivo concreto deve essere individuato, nella sua concretezza,
solo in sede locale.
27
In questa ottica procederò illustrando in sintesi alcuni degli strumenti individuati dalla
Legge di riforma delle politiche sociali.
Con la Legge n. 328 del 2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali”, attesa da tempo dal sistema italiano dei servizi sociali, si
è tentato di avviare un cambiamento prima di tutto all’insufficiente coordinamento tra i
diversi livelli istituzionali, alle disparità territoriali e alla scarsa integrazione
sociosanitaria; è stata così avviata una complessa riorganizzazione del sistema dei
servizi sociali e sanitari, orientandoli verso un processo di progressiva integrazione e
partecipazione di tutti i soggetti presenti sul territorio.
La legge 328/00 rappresenta quindi attualmente il riferimento normativo fondamentale
in quanto ha indirizzato a un complessivo riordino del modello di welfare producendo
proprio un cambiamento di logica, introducendo il concetto di programmazione
integrata e partecipata in campo sociale.
I principi di decentramento e di sussidiarietà, assunti in questa legge, si intendono infatti
sia in senso verticale, all’interno dei livelli esistenti tra gli attori pubblici; sia in senso
orizzontale, con riferimento ai rapporti tra l’attore pubblico e gli attori privati: “i
soggetti del terzo settore sono quindi ufficialmente inclusi in questo nuovo modello di
regolazione del welfare locale” (Paci, 2008, p.39) in quanto vengono considerati come
capaci di elaborare e realizzare forme di intervento innovative e meno standardizzate,
quindi più adeguate al reale profilo dei bisogni.
Fig.3 Assetto Istituzionale del Sistema Integrato di Interventi e Servizi Sociali – L.328/00
Fonte: Mari 2012
ASSETTO ISTITUZIONALE DEL SISTEMA INTEGRATO DI INTERVENTI E SERVIZI SOCIALI
Ente FUNZIONI E COMPITI L. N. 328/2000
Stato
Esercita poteri di indirizzo, coordinamento e regolazione delle politiche sociali
nella determinazione di principi ed obiettivi della politica sociale attraverso il
Piano Nazionale degli interventi e dei servizi sociali; nell’individuazione dei
livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni; nella ripartizione delle risorse del
Fondo Nazionale per le politiche sociali.
28
Regione
Esercita funzioni di programmazione, coordinamento ed indirizzo degli
interventi sociali, nonché di verifica della rispettiva attuazione a livello
territoriale; disciplina l’integrazione degli interventi con particolare attenzione
all’attività sanitaria e socio-sanitaria. Nel programmare adotta strumenti e
procedure di raccordo e concentrazione con gli Enti locali, per favorire la
cooperazione. Definisce le politiche integrate in materia di interventi sociali,
ambiente, sanità, istituzioni scolastiche, avviamento al lavoro e reinserimento
nelle attività lavorative, servizi del tempo libero, trasporti e comunicazioni.
Provincia
Concorre alla programmazione del sistema integrato di interventi e servizi
sociali, studiando i bisogni e le risorse per affrontarli presenti in ambito
provinciale; analizzando l’offerta assistenziale; promuovendo iniziative di
formazione; partecipando alla definizione e all’attuazione dei Piani di zona.
Comune
Programma, progetta e realizza il sistema locale dei servizi sociali a rete,
indicando priorità e settori di innovazione attraverso la concentrazione delle
risorse umane e finanziarie locali, coinvolgendo attivamente il terzo settore, il
privato sociale e il volontariato. Partecipa all’individuazione degli ambiti per la
realizzazione dei Piani di zona. Garantisce alla cittadinanza i diritti di
partecipazione a controllo di qualità dei servizi.
Come si vede quindi in Fig.3, in particolare è l’Ente Locale che realizza i propri
obiettivi, pianificando un’azione integrata, avvalendosi di tutte le risorse e di tutti coloro
(enti e associazioni) che a vario titolo operano sul territorio. “Le molteplici risorse
quindi devono essere valorizzate e coordinate nella loro azione territoriale, questo
richiede la promozione di una pluralità di iniziative che interagiscono nell’interesse
della comunità. In questa complessa e delicata azione si sostanzia la novità della
funzione dell’Ente Comune, una funzione che non si concretizza solo in una novità
politico-amministrativa e tecnica, per la messa in atto di forme collaborative a tutti i
livelli, ma in una concezione di un modo nuovo di fare politica” (Mari, 2012, p. 64).
La spinta innovativa di tale legge è proprio “la costruzione di arene locali di
programmazione negoziata delle politiche sociali” (Bifulco, 2009, p. 286).
Ne deriva che l’edificio del welfare disegnato dalla legge 328/00 poggia su tre pilastri
fondamentale, sinteticamente rappresentati in Fig.4.
29
Fig.4 edificio del welfare disegnato dalla L.. 328/2000
Fonte: Devastato (2009)
1° pilastro
Programmazione
2° pilastro
Integrazione
3° pilastro
Concertazione
Progetti Interistituzionale (tra le politiche) Co-progettazione
Verifica sistematica Interorganizzativa (tra i servizi) Cooperazione
Qualità ed efficacia Interprofessionale (tra materie) Co-gestione
Valutazione d’impatto Multi-attoriale (tra attori) Co-valutazione
Con l’approvazione poi del Titolo V - parte II della Costituzione Italiana, del 2001,
all’art. 117 si è inteso modificare, in senso federalista, le responsabilità di governo delle
politiche sociali e delle politiche socio-sanitarie: delegando la competenza esclusiva in
materia di assistenza alle Regioni ed esse mantenendo la competenza concorrente nel
settore della sanità.
Questo dettato costituzionale ha quindi intensificato i compiti normativi, programmatori
ed amministrativi affidati alle Regioni in tema di politiche sociali.
Il ruolo di programmazione dello Stato sembra essersi esaurito con l’adozione del Piano
Sociale Nazionale 2001-2003 (DPR n.181/2001 adottato in attuazione dell’art. 18 della
legge 328/00) dove tra l’altro si legge: “le politiche sociali tutelano il diritto a stare
bene, a sviluppare e conservare le proprie capacità fisiche, a svolgere una soddisfacente
vita di relazione, a riconoscere e coltivare le risorse personali, a essere membri attivi
della società, ad affrontare positivamente le responsabilità quotidiane. Il diritto a stare
bene è il fondamento del diritto alle prestazioni e a i servizi sociali, i quali devono
essere offerti ai livelli, secondo gli standard e con le modalità definite dalla normativa di
riferimento” (Parte I – p. 5).
Al Piano Nazionale quindi veniva demandato un raggio di azione molto ampio, ma che
dopo il 2001, con la riforma del Titolo V, si ritiene sia confluito nella legislatura
regionale.
Molte Regioni infatti stanno seguendo una linea di assunzione “di un ruolo pubblico
forte nella programmazione e nella trasformazione delle politiche, orientato a sostenere
innovazioni istituzionali e a promuovere pratiche della cittadinanza e della
partecipazione alla sua realizzazione” (Bifulco e Vitale, 2005, p. 97).
30
Con l’emanazione della legge 328 del 2000 in poi ad ogni livello di governo vengono
attribuite competenze di programmazione, con un meccanismo che procede per
successive specificazioni: dal generale al particolare. Ad ogni livello si prevedono ampi
strumenti di collaborazione e concertazione tra enti territoriali e tra questi ed altri
soggetti pubblici o privati, quali le famiglie, le organizzazioni di volontariato e le
cooperative. Questa sfera di “privato” non è titolare di poteri propri di programmazione,
ma collabora, con modalità ed intensità diverse di volta in volta, alla programmazione
pubblica e alla sua realizzazione.
Il Piano è dunque lo strumento di programmazione che necessariamente si deve
adottare, qualsiasi sia l’ambito territoriale di riferimento, deve rappresentare il “tessuto
connettivo” (Mari, 2012, p. 173) dei vari elementi della programmazione e tra soggetti
diversi.
Scrive Bifulco (2009, p. 296): “rispetto alla possibilità di sviluppare pratiche di co-
programmazione infatti conta molto il quadro regolativo fissato dall’attore istituzionale;
il modo in cui esso incentiva o viceversa scoraggia la partecipazione; il grado di
apertura delle arene e di accessibilità dell’agenda che viene assicurato; ancora il grado
di formalizzazione delle procedure su cui poggia”.
L’iter formale di approvazione del Piano Nazionale, dei Piani Regionali e dei Piani di
Zona e degli altri programmi sociali, vede infatti necessariamente coinvolti molteplici
soggetti, pubblici e privati.
L’iter procedurale di adozione del “Piano Nazionale per i Servizi Sociali” è adottato
previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente in
materia, sentiti gli altri Ministri interessati (salute, economia, …). Lo schema di Piano è
l’esito di una intesa con la Conferenza Unificata Stato - Regioni - Autonomie Locali,
vengono acquisiti anche i pareri degli Enti e delle Associazioni Nazionali di
Promozione Sociale maggiormente rappresentativi, delle Associazioni di rilievo
nazionale che operano nel settore dei servizi sociali, delle Organizzazioni Sindacali e
delle Associazioni di tutela degli utenti. Lo schema del Piano è successivamente
trasmesso alle Camere per l’espressione del parere da parte delle componenti
Commissioni, che si pronunciano entro 30 giorni dalla data di assegnazione.
L’iter dei Piani Socio-Sanitari Regionali non è molto diverso. La legislazione stabilisce
meccanismi partecipativi, dove si prevede che la Giunta Regionale, sentita la
31
Commissione Regionale per le politiche sociali, convochi la Conferenza Sanitaria
Regionale che esprime parere obbligatorio sulla proposta del Piano. La Giunta, acquisiti
tutti gli atti relativi all’istruttoria, adotta il Piano che è presentato al Consiglio Regionale
per la sua approvazione.
I Piani di Zona poi sono adottati attraverso Accordi di Programma disciplinati dal t.u.
delle leggi sugli Enti Locali ai quali partecipano i soggetti pubblici e privati presenti sul
territorio (organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, delle
associazioni e degli enti di promozione sociale, fondazioni ed enti di patronato,
organizzazioni di volontariato).
Risale al maggio 2001 il primo ed unico, finora pubblicato, Piano Nazionale dei Servizi
Sociali (DPR 3 maggio 2000 “Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali
2001-2003”), in precedenza citato, in attuazione dell’art. 18 della L. 328/00. Il Piano
Nazionale costituisce una sorta di ‘premessa decisionale’ e contiene una sorta di lista
delle indicazioni che rappresenta una esemplificazione dei possibili contenuti dei Piani
Regionali. Se l’effetto del Piano Nazionale è quello di indirizzare e coordinare gli
interventi posti a capo degli altri livelli di governo, ciò può verificarsi soltanto se esista
una espressa attribuzione di competenza da parte della normativa. Era stata la legge
quadro 328/00 a disporre che i Piani Regionali venissero predisposti “in relazione alle
indicazioni del Piano Nazionale” ed i Piani di Zona “secondo le indicazioni dei Piani
Regionali”. Pertanto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, di fatto il Governo
non adottò altri Piani Nazionali dei Servizi Sociali.
Oggi sono i governi regionali ad essere chiamati ad elaborare il Piano Regionale degli
interventi e dei servizi sociali, quale principale strumento di programmazione delle
politiche sociali. In esso sono contenute scelte importanti in ordine agli obiettivi
strategici prioritari: dalla valorizzazione di specifiche tipologie di prestazioni, alle
sperimentazioni; dalla ripartizione dei finanziamenti in ambito locale, agli incentivi per
la gestione associata delle funzioni. Il Piano Regionale degli interventi sociali, adottato
tramite l’intesa con i Comuni, costituisce dunque la cornice entro la quale si devono
muovere gli interventi.
Il Piano degli interventi e dei servizi sociali ha una funzione specifica: provvede
all’integrazione socio-sanitaria, in coerenza con gli obiettivi del Piano Sanitario
Regionale, nonché al coordinamento con le altre politiche (dell’istruzione, della
32
formazione professionale e del lavoro). Il Piano Sociale Regionale è quindi un atto di
programmazione settoriale, con cui la Regione, anche con riferimento alle priorità
individuate dal proprio “Programma Regionale di Sviluppo”, definisce e coordina e
razionalizza le politiche in materia sociale.
La legislazione ha previsto espressamente che il Piano Sociale Regionale abbia validità
triennale e a seguire degli aggiornamenti annuali, è ha inoltre stabilito che, fino
all’entrata in vigore dell’aggiornamento, è prorogata l’efficacia del Piano precedente.
Il Piano di Zona resta a tutt’oggi uno degli aspetti lungimiranti della legge quadro n.
328/2000, che all’art. 19 lo ha proprio definito “lo strumento strategico per il governo
locale dei servizi sociali”. L’originalità procedurale e sostanziale di questo strumento è
certamente individuabile nell’innovativo, ma anche normativo, coinvolgimento attivo di
tutti i soggetti, istituzionali e di terzo settore, pubblici e privati, che a vario titolo siano o
possano essere protagonisti sul territorio di riferimento, per la fornitura di servizi sociali
e socio-sanitari alla cittadinanza di riferimento.
Al Piano di Zona è demandato il compito di ridisegnare, in senso operativo sul
territorio, una modernizzazione e una valorizzazione del concetto e della politica di
Welfare Locale, procedendo in forma concreta e sinergica tra i diversi soggetti
impegnati nel settore socio-sanitario e operanti nell’area della prevenzione, della
promozione, della tutela, della cura e dell’inclusione sociale.
La programmazione integrata dei servizi e degli interventi diviene lo strumento ed il
metodo essenziale, perché l’ente locale deve conoscere e valutare le esigenze ed i
bisogni, deve stabilire obiettivi e fare scelte di valore per la comunità di riferimento ed
inoltre deve offrire i servizi e gli interventi, ma tutto ciò deve avvenire in sintonia e
collaborazione con tutte le risorse del territorio: i cittadini sempre meno dovrebbero
essere solo fruitori, ma essi stessi partecipi delle scelte.
Le modalità di formulazione del Piano di Zona rendono possibile un’azione coordinata,
con una molteplicità di soggetti istituzionali e non, garantendo scelte condivise e una
gestione flessibile.
Infatti sono i Piani di Zona lo strumento privilegiato per conseguire forme di
integrazione tra servizi e politiche diverse, a seguito di un’analisi dei bisogni, della
definizioni delle priorità e dell’integrazione delle risorse istituzionali.
33
“Il Piano di Zona quindi diviene lo strumento che rende possibile una rete coordinata di
servizi tra più istituzioni o di più istituzioni in base ad un accordo di programma
conseguente a scelte condivise, con maggiore flessibilità di gestione. L’ente di governo
territoriale pone in essere una pianificazione strategica pubblica alla quale partecipano
vari soggetti istituzionali e no (gruppi formali ed informali) è chiaro che tale
partecipazione non può avvenire solo nella fase di predisposizione del Piano, ma anche
nella fase attuativa e valutativa in itinere e finale” (Mari, 2012, p. 64).
Bifulco (2005) individua i punti di forza del Piano di Zona in alcune idee-base:
la regia che sollecita i Comuni ad assicurare coerenza e continuità alla
costruzione del sistema locale di servizi;
la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni di terzo settore;
la negoziazione che valorizza metodi consensuali di presa delle decisioni;
l’azione associata fra Comuni che richiede coordinamento inter-istituzionale nel
trattamento di problemi collettivi.
Dovrebbe quindi crearsi un nuovo spazio, fondato su rapporti associativi di
cooperazione istituzionale di tipo sovra comunale: l’ambito territoriale o zona sociale.
Occorre quindi progettare e costruire una nuova integrazione territoriale tra gli attori
perché “non c’è piano senza zona” (Devastato, 2009, p.70).
Da questo punto di vista la costruzione dei Piani di Zona è, come definito da Bifulco
(2005) “un processo di institution-building, nel senso che favorisce l’innovazione
istituzionale in direzione dell’introduzione e istituzionalizzazione di nuove forme e
regole cooperative”. Questo processo è notevolmente complesso ed è influenzato da
caratteristiche dei contesti locali. “Proprio per la sua natura di strumento di
programmazione negoziata, il piano può dar vita a diverse forme di regolazione, in
connessione con la cultura amministrativa prevalente, lo stile della leadership politica
locale, l’esistenza o meno di un terzo settore attivo ed organizzato” (Paci, 2008, p. 40).
Il percorso di costruzione del Piano di Zona prevede l’istituzione di tavoli di
coordinamento con il mondo civile e il terzo settore. I contenuti del Piano sono
individuati attraverso una serie di assemblee, riunioni, tavoli di lavoro, per renderlo
maggiormente aderente ai bisogni della popolazione e alle conoscenze scientifiche e
34
tecniche degli esperti. I Tavoli Tematici, solitamente sono quattro, individuati per
target: minori e giovani; adulti; anziani; disabili, costituiti da interlocutori privilegiati
del mondo sociale istituzionale e non, presenti sul territorio. Dovrebbe inoltre essere
attivato anche un Tavolo di Coordinamento, composto da rappresentanti dei quattro
tavoli tematici. Questo quinto tavolo diventa fondamentale sia per confronti
intersettoriali sia per il raccordo tempistico e contenutistico dei tavoli tematici. Tutti
questi tavoli tecnici sono luoghi di concertazione tra i protagonisti degli interventi nel
sociale, per una lettura condivisa dei bisogni sociali e per la formulazione di idee sulle
possibili soluzioni. Operano cercando il massimo consenso fra tutti i soggetti, attivando
un processo di concertazione dei comportamenti degli interventi dei vari soggetti
pubblici e privati. Tutte queste persone, raccolte attorno a un tavolo devono avere pari
diritto di parola, ma avranno anche un diverso potere decisionale, consultivo e operativo
e questo aspetto può avere conseguenze nelle aspettative e quindi si corre il rischio che
possano nascere incomprensioni.
Per tutti questi aspetti è istituito uno ‘spazio apposito’ individuato nell’Ufficio di Piano,
che è il vero organo di regia tecnico- politico dell’iter formativo del Piano. Questo
Ufficio ha natura composita, prevede infatti al suo interno la presenza di rappresentanti
dei Comuni, ma anche degli Enti Locali quali Provincia e Regione, e di rappresentanti
dell’Azienda Sanitaria.
L’Ufficio di Piano ha quindi compiti di coordinamento, pilotaggio ed assistenza tecnica,
in tutte le fasi di elaborazione e realizzazione del Piano. L’Ufficio di Piano è in sostanza
una ‘cabina di regia tecnica’ collocato più spesso in un contesto di elevata complessità
di attori e di relazioni sociali, di cui sono espressione i Comuni con le loro differenti
caratteristiche territoriali, demografiche, economiche e culturali; i vari soggetti pubblici
e privati che partecipano, i politici che fanno riferimento a ideologie spesso in
disaccordo fra loro, i tecnici di diversa professionalità e dipendenza organizzativa.
E’ sempre l’Ufficio di Piano che ha la responsabilità di arrivare a definizione dall’esito
dei diversi tavoli, circa le priorità individuate, per la stesura e approvazione del Piano di
Zona. Il Piano di Zona quindi può essere adottato, e ciò avviene attraverso un ‘accordo
di programma’ (strumento normato all’art.34 T.U. – DGL n.267/2000), sottoscritto dai
Comuni facenti parte dello stesso ambito territoriale (di norma il distretto) e
dell’azienda sanitaria locale. Generalmente all’accordo di programma, per assicurare
35
l’adeguato coordinamento delle risorse umane e finanziarie, partecipano anche altri
soggetti pubblici, organismi della cooperazione, associazioni ed altri enti di promozione
sociale, le aziende di servizi alla persona e tutti i soggetti che, attraverso
l’accreditamento o specifiche forme di concertazione, concorrono anche con propri
risorse alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi previsti dal Piano.
Nell’ambito della pianificazione zonale, seppure in modo frammentato, è stato possibile
sperimentare inedite modalità di programmare il welfare territoriale, coinvolgendo una
pluralità di attori. Dalla pianificazione zonale si sono generate altrettante esperienze di
innovazione sociale, come si avrà modo di osservare anche nella parte empirica del mio
lavoro.
37
Capitolo 2
La partecipazione nell'ambito della programmazione dei servizi alla
persona
2.1 La partecipazione: un’introduzione
Dopo aver delineato la cornice della nuova modalità di attuare la programmazione,
richiamando la prospettiva della governance, approfondirò il concetto della
partecipazione, quale elemento essenziale e conduttore per la programmazione stessa.
L’Italia degli anni ‘70 individuava la partecipazione nelle assemblee di giovani, nelle
loro manifestazioni, che con le energie operaie e intellettuali si muovevano ‘contro il
sistema’. Negli anni ‘80 si assiste invece a un’eclissi della cultura della partecipazione,
così intesa, che diventa un impegno più individuale che pubblico. A metà degli anni ‘90
il concetto di partecipazione conosce una nuova attenzione e diffusione, ma perde la
carica contestataria e la dimensione di protesta e viene usato in svariati contesti e con
significati diversi. Per lo più tende ad avere un significato di strategia di azione pubblica
in riferimento, ad esempio, ad un tipo di approccio per affrontare situazioni sociali
problematiche, in cui c’è conflitto o si teme che esploda la crisi e l’emergenza sfugga di
mano. “La partecipazione così concepita può essere estesa ai più svariati campi
dell’attività pubblica, dall’organizzazione dei servizi alle politiche di welfare, dal
mondo della scuola a quello delle attività culturale ed artistica, dalla promozione della
salute alla tutela dell’ambiente e alla prevenzione dei rischi” (Ciaffi e Mela, 2006, p.
13). Nei Paesi Europei si parla di ‘community capacity building’ (Inghilterra)
rimandando innanzitutto alla capacità dei cittadini di fare e di organizzare (investimenti,
mobilitazioni, iniziative autonome della società civile); in ambito francese e olandese il
generale riferimento alla partecipazione viene suddiviso in più concetti: coesione
sociale; gestione e costruzione delle città in base a criteri di equità; riduzione della
distanza tra rappresentanti eletti e cittadini.
Da queste brevi considerazioni introduttive emerge come il concetto di partecipazione è
polisemico e multidimensionale e per questo difficilmente circoscrivibile entro
38
definizioni esaustive. Infatti si possono richiamare almeno due diversi significati per
arrivare a definire questo termine: quello di ‘prendere parte’ (partecipare nel senso di
venire coinvolto, di poter agire) e quello di ‘essere parte’ (partecipare nel senso di stare
dentro, appartenere). Ne consegue che la categoria della partecipazione risulta essere un
contenitore in grado di accogliere una notevole varietà di traduzioni concrete; così come
operativamente la sostanza della partecipazione può essere resa in forme assai
diversificate. Questo termine comunque, sia nel linguaggio comune che in quello
scientifico e politico, richiama oggi solitamente situazioni relazionali di per sé positive;
questo per la forte carica ideale che esprime questa parola. Il rischio però può essere
quello di svuotarla di contenuti e di perdere le potenzialità creative e innovative, senza
tener conto poi delle criticità insite nei processi partecipativi.
In questo testo considero la definizione che intende la partecipazione come “relazione
della società civile con le istituzioni, tale da porsi come intervento di espressioni dirette
della prima nel processi di azione della seconda” (Burgalassi, 2011, p.1).
Come ho già in parte osservato, la parola partecipazione viene associata, nell’ambito
delle politiche sociali, ai concetti di integrazione (delle politiche e degli interventi) e di
sussidiarietà (orizzontale e verticale): la partecipazione costituisce un passaggio nodale
da forme di government a quelle di governance.
In quest’ottica chi partecipa si assume una responsabilità intesa come impegno morale e
civile: “Il soggetto che diventa protagonista che sa e può partecipare. Non solo attore
sociale, dunque ma qualcosa di più e cioè autore, artefice del proprio destino e della
propria condizione di vita” (Lazzari e Gui, 2013, p. 167) sia rispetto a se stesso, ma
anche e soprattutto verso la comunità di cui fa parte.
Riprendendo quanto scritto da Altieri (2009) non si può comunque pensare di poter
sostituire totalmente la partecipazione alla delega, in quanto la prima è in parte
riappropriazione della seconda, ma necessariamente ogni forma di partecipazione
implica in qualche modo una forma di delega , in forma implicita o esplicita, “chi
partecipa si sentirà in qualche modo delegato da chi non partecipa; i responsabili delle
istituzioni legittimeranno i partecipanti come “delegati” (rappresentanti) di altri
cittadini; al termine del processo partecipativo, anche laddove si è inciso sui processi
decisionali, ci saranno alcuni “delegati” a portare avanti le decisioni prese. E così via”
(Altieri, 2009, p. 107).
39
Nel comporre i diversi momenti partecipativi infatti inevitabilmente si creano questioni
di rappresentanza. Si ripropone quindi il delicato tema della rappresentanza e del
rapporto tra democrazia partecipativa e rappresentativa “dove l’incertezza delle
condizioni, il livello tuttora sperimentato della riforma e la nota frammentazione
istituzionale rendono più probabile che la prima faciliti un processo di logoramento
della seconda, invece che il suo consolidamento e sviluppo” (Costa, 2009, p.91). Infatti
la partecipazione non dovrebbe togliere nulla alla democrazia rappresentativa, ma anzi è
una modalità per acquisire maggiore consapevolezza sulla complessità che deve essere
governata. Il coinvolgimento e la rappresentanza contribuiscono sempre in qualche
modo ad influenzare i contenuti e il potere decisionale degli attori a livello di
programmazione. Occorre dunque porre attenzione al rischio di ricadere nella
parcellizzazione tra chi conosce, chi decide e chi realizza.
Ecco allora che la partecipazione è elemento essenziale nella costruzione dei processi di
programmazione sociale per un sistema di welfare che vuole essere inclusivo, ovvero
appropriato nelle strategie e condiviso, riconosciuto e sostenuto dalla comunità locale.
Si possono ad esempio individuare, attraverso l’osservazione della partecipazione degli
attori sociali ai processi di costruzione del welfare locale, almeno tre scenari
paradigmatici, rappresentati anche in Fig.5:
1. Gli attori sociali rivestono un ruolo che si può definire di ‘comparse’ in quanto il
loro livello partecipativo si colloca in una fase iniziale del percorso di
programmazione e assume carattere consultivo. Il coinvolgimento è strumentale,
finalizzato ad acquisire dagli attori sociali le informazioni che essi detengono in
ragione della loro mission e degli interventi che svolgono;
2. Gli interlocutori del soggetto pubblico rivestono un ruolo quasi esclusivamente
operativo e il loro livello di partecipazione può trovare collocazione nella fase
conclusiva del processo programmazione, allorché si provvede alla
organizzazione della rete dei servizi. Si ricorre cioè alle competenze degli attori
sociali per la produzione delle prestazioni, basandosi su relazioni essenzialmente
paranegoziali;
40
3. Le diverse componenti della società civile organizzata rivestono un ruolo di
protagonismo e la partecipazione è quindi improntata ad una logica di
concertazione e si sviluppa quindi lungo il percorso di costruzione del welfare
sociale. Nelle diverse fasi di tale percorso può assumere significati e contenuti
diversi, ma nel complesso mantiene elevato il livello di coinvolgimento degli
attori sociali e assicura una lunga condivisione delle scelte strategiche e
operative effettuate.
Fig.5 Processo di prospettazione / costruzione / implementazione della rete dei servizi
Fonte: Burgalassi (2011).
Già da questa prima schematizzazione si può osservare che una delle variabili rilevanti
per la pratica della partecipazione nell’ambito della costruzione del sistema locale di
welfare sia identificabile nelle diverse forme (consultiva, negoziale, concertativa) con
cui gli attori istituzionali rendono possibile la partecipazione degli attori sociali; nella
fase del processo programmatorio o in cui si colloca il momento partecipativo; nelle
modalità di selezione dei partecipanti; nel tempo (compresso o prolungato) che il
soggetto pubblico riserva al contributo dei soggetti non istituzionali; nella logica che
41
guida il percorso inclusivo, nelle informazioni che le istituzioni rendono disponibili agli
interlocutori. Viceversa, contano anche quelle variabili che gli stessi interlocutori
possono inserire nel circuito partecipativo; le competenze programmatorie degli attori
sociali e nella loro capacità di assumere un atteggiamento collaborativo - cooperativo;
l’investimento che i soggetti coinvolti nel processo partecipativo sono in grado di
sostenere in termini di risorse umane e temporali. Queste variabili appaiono
assolutamente rivendicabili e decisive per promuove una partecipazione di qualità.
Ci sono però anche variabili legate alle condizioni, per così dire, esterne al concreto
realizzarsi della dimensione partecipativa nei processi di programmazione e che su di
essa impattano, che sono riconducibili al quadro regolativo che alimenta il processo, alla
vitalità dell’attivismo del tessuto sociale di riferimento, all’orientamento della
leadership politico amministrativa territoriale.
Questo tipo di variabili risultano minimamente governabili, ma non sono però
totalmente condizionanti sulla sostanza del processo partecipativo.
Se si assume la prospettiva della “partecipazione come espressione di una società attiva
e diffusamente consapevole” (Bifulco e de Leonardis, 2002, p.10) è allora importante
curare i canali attraverso cui essa si alimenta e al tempo stesso è necessario mediarla.
Perché la si può sì ridurre appunto a consultazione dei cittadini, inquadrati e trattati
come soggetti portatori di intersei particolari, ma la si può (e la si dovrebbe) anche
intendere come apertura alla società civile ai processi decisionali, alla discussione
pubblica e al confronto fra istanze e finalità differenti. E’ in questa seconda accezione
che i policy maker possono prima di tutto imparare ad ascoltare, attraverso un ‘ascolto
attivo’ come definito da Marinella Scalvi, per provare a cambiare e infine tradurre le
molteplicità delle esigenze e soggettività in una unità d’intenti, cioè a far politica. Si
attua così ciò che Bifulco e DeLeonardis (2002, p.19) indicano come “duplice
capacitazione: delle istituzioni e dei cittadini, che passa attraverso la centralità della
politica”.
Anche Altieri (2009), quando indica le quattro dimensioni della partecipazione, analizza
il “livello politico della partecipazione collettiva”. Dimensione in cui si affrontano le
scelte connesse ai processi decisionali, organizzativi dentro le strutture dei servizi. Per
Altieri si può parlare di partecipazione politica “quando i cittadini (o le associazioni o
le rappresentanze) si aggregano e intervengono, direttamente o con un processo di
42
influenzamento indiretto, sulle scelte, discutono di standard, cercano di influenzare le
decisioni sull’allocazione delle risorse, propongono nuovi servizi o interventi di
miglioramento dei servizi, tentano di praticare forme di controllo o di rivendicazione o
di contrattazione” (Altieri, 2009, p. 112).
Per tutti questi motivi si ritiene necessario distinguere tra:
- “ascolto inteso come incremento delle conoscenze e delle informazioni nella direzione
basso-alto, nel senso che si dà voce ai cittadini per sentire loro esigenze ed opinioni, per
rilevare percezioni “altre”, cioè diverse da quelle dei policy maker o dei manager”;
– coinvolgimento definito come “il processo che fornisce l’opportunità ai diversi
soggetti del territorio di riconoscersi e di essere legittimati nei loro problemi e nelle loro
potenzialità” .
Per arrivare poi, appunto al concetto di partecipazione quale salto di qualità: “quando si
è riconosciuti come interlocutori e si acquista un ruolo di influenzamento attivo e
intenzionale nei processi decisionali o in alcune parti di loro. Ascolto e coinvolgimento
hanno a che fare con un significato debole di partecipazione, influenzamento attivo e
intenzionale sui processi decisionali ha a che fare con il significato forte di
partecipazione” (Altieri, 2009, p. 112). Sinteticamente quindi si può dire che le forme di
coinvolgimento degli stakeholder alle politiche possono essere di diverse tipologie,
caratterizzate da diversi ‘gradi di intensità’ (alcune più attive, altre più passive) e da
diversi livelli di impatto sul processo e sugli esiti.
Si possono suddividere in tre categorie:
Informazione/comunicazione: approccio sostanzialmente informativo. La
Pubblica Amministrazione informa, comunica, rende consapevoli gli
stakeholder individuati delle disposizioni, scelte, soluzioni decise
unilateralmente, attraverso gli strumenti della comunicazione;
Consultazione/ascolto: una prima fase di informazione delle scelte che la
Pubblica Amministrazione intende compiere rispetto ad una particolare
politica e in una secondo momento una fase di ascolto degli stakeholder
individuati rispetto all’ambito considerato. Le osservazioni raccolte potranno
43
poi essere considerate dalla Pubblica Amministrazione per una valutazione
della qualità delle politiche e per eventuale rimodulazione;
Collaborazione/coinvolgimento attivo: approccio che prevede l’attivazione di
processi negoziali supportati da tecniche complesse, finalizzato a prendere
decisioni condivise dalla Pubblica Amministrazione e dagli stakeholder.
Questo livello prevede un ruolo attivo e dinamico di collaborazione e
coinvolgimento attivo dei portatori di interesse interno al processo
decisionale.
Ritengo pertanto ora interessante riprendere, attraverso una breve schematizzazione,
quello che è definito nel testo di Ciaffi e Mela (2006) “il ventaglio delle posizioni sulla
partecipazione” proprio per ribadire quali possano essere, concettualmente, i possibili
punti di vista sulla partecipazione:
Fig. 6 ventaglio delle posizioni sulla partecipazione
44
Da un lato, nell’ambito di concezioni della società qui definite ‘organicistiche’ i
processi partecipativi si manifestano in forma ridotta in quanto la preoccupazione
principale è verso la tenuta della coesione del sistema sociale, per la sua stabilità e
governabilità. Il sistema sociale è inteso come una totalità organica. La partecipazione
ha quindi un ruolo principalmente di prevenzione e di mitigazione del conflitto sociale.
Riguarda solitamente gruppi sociali già ampiamente riconosciuti come parte integrante
del sistema e la partecipazione quindi tende ad assumere modalità di esercizio
programmate e controllate: l’enfasi sarà posta sull’accettazione delle ‘corrette’ regole
per l’accesso all’informazione e per la consultazione.
In posizioni centrali sono le concezioni qui definite ‘pluralistiche ed inclusive’ e i
processi partecipativi sono rivolti a tutti i possibili attori individuali e collettivi, creando
i presupposti affinché questo possa avvenire a partire dalla garanzia di un accesso
paritario alle informazioni di base. Oltre al momento della consultazione è ritenuta
essenziale un’azione di empowerment ed iniziative formative rivolte ad aumentare le
competenze e l’attitudine a partecipare di specifici gruppi a rischio di emarginazione.
Dall’altro lato, le concezioni qui definite ‘conflittualistiche’ della società, dove il
massimo di preoccupazione è rivolta all’espressione e all’organizzazione dei bisogni
degli interessi dei gruppi più sfavoriti. Il conflitto è visto come stimolo per la
trasformazione della società e la partecipazione è vista come un mezzo per modificare i
modelli di sviluppo esistenti L’idea di partecipazione è significativa per le forme di
conflittualismo che ritengono utile il confronto e la negoziazione, ai fini di una graduale
trasformazione del sistema sociale; al contrario, le posizioni radicali tendono a credere
che i processi partecipativi siano solo fittizi e che occorrano invece forme di auto-
organizzazione dei soggetti, verso una qualche forma di rottura “rivoluzionaria” del
sistema stesso.
Sempre in quest’ottica introdurrò brevemente ‘le scale’, ovvero una sequenza di opzioni
capace di rappresentare i differenti contenuti della partecipazione attraverso cui la
pratica partecipativa si realizza.
45
In tema di partecipazione esistono varie proposte di tipizzazione, ma la scala elaborata
da S. Arnstein (1971) e la sua riformulazione effettuata da D. Wilcox (1994)
costituiscono indubbiamente i riferimenti da cui hanno preso le mosse la gran parte
delle successive sistematizzazioni.
Arnstein, seguendo una procedura più qualitativa che quantitativa, utilizzò la metafora
della scala in cui ogni piolo “corrisponde all’estensione del potere di cittadini”
(Arnstein, 1971, p. 2) pertanto, dal basso, si ha una totale esclusione ai processi
decisionali, fino ad una crescita sostanziale delle responsabilità dei cittadini. Si ha
quindi una griglia di otto livelli suddivisi in tre categorie fondamentali, che seguono
appunto un ordinamento ascendente.
Wilcox, partendo dallo schema di Arnstein, propose un’interpretazione della scala della
partecipazione cercando di essere il più neutrale possibile. Nel senso che, nei cinque
livelli da lui individuati, non ne propone uno migliore dell’altro, ma ognuno può essere
meglio adattato nei diversi tempi del processo.
Schematicamente richiamerò qui le due scale citate.
47
Fig. 8 Schema riassuntivo della scala della partecipazione proposta da David Wilcox
Fonte: D. Wilcox, (1994)
Processo tipico
Strumenti tipici
Operazione iniziale
Benefici per l’iniziatore del processo
Problemi per l’iniziatore del processo
Cosa serve per iniziare
Supporto delle iniziative locali
Sviluppo della comunità.
-Consulenza; -Sostegno; -Raccolta di fondi.
Proposta di aiuto al soddisfacimento di esigenze locali.
Sviluppo delle capacità della comunità e possibile riduzione della richiesta di servizi.
Incertezza sulla possibilità d’incontro tra i diversi interessi.
Impegno a un sostegno continuo.
Agire assieme
Costruzione di partnership.
Azioni di partenariato.
Richiesta di sviluppare e mettere in pratica decisioni condivise.
Ingresso di risorse addizionali.
Incertezza sugli equilibri di potere tra gli attori e sulla loro reale capacità di lavorare assieme.
Volontà di imparare nuovi metodi di lavoro.
Decidere assieme
Costruzione del consenso.
-Workshop; -Planning for real; -Stategic choice.
Richiesta di sviluppare opzioni e di decidere azioni assieme.
Nuove idee e impegni presi da tutti gli attori.
Dubbi sulle relazioni di fiducia tra gli attori.
Prontezza nell’accettare nuove idee e nel seguirle.
Consultazione
Comunicazione e risposta.
-Indagini; -Meeting.
Presentazione di opzioni e richiesta di un giudizio.
Aumento della chances di un risultato positivo.
Dubbi sulla realisticità delle opzioni e sulle loro esaustività.
-Opzioni realistiche; -Abilità nella gestione delle risposte.
Informazione
Presentazione e promozione.
-Volantini; -Media.
Presentazione di un programma.
Sforzo apparente-mente minimo.
Dubbi sull’accettazio-ne da parte della popolazione del livello minimo di partecipa-zione.
-Visione chiara; -Chiara identificazione dei destinatari dell’informa-zione; -Linguaggio comune.
48
Da un punto di vista pratico è comunemente ritenuto più utile riferirsi ad una scala in
cui siano identificati solo gli estremi: la consultazione come livello minimo cioè
“rilevare dati, informazioni e opinioni che non necessariamente condurranno ad una
conciliazione di interessi, dovendo piuttosto precostituire un quadro di conoscenze
sufficienti affinché il decisore possa pervenire ad una soluzione regolativa efficace”
(Zamagni, 201, p. 70); la concertazione come livello massimo cioè “confronto
triangolare tra poteri pubblici, imprese e organizzazioni sindacali, come ricerca del
punto di mediazione della politica. Centrale il momento del confronto fra interessi
tendenzialmente antagonisti” (Zamagni, 2011, p. 71).
Estremi rispetto ai quali le situazioni intermedie si situano in ragione di una serie di
elementi relativi al chi, al perché, al quando e al come della stessa dimensione
partecipativa.
Come schematizzato in figura:
Fig.9 Le forme della partecipazione
49
Nel 2001 anche un documento dell’OCSE3 ‘Citizens as Partner’ ha individuato due
possibili forme di coinvolgimento della società civile nei processi decisionali: quella
che si realizza attraverso ‘procedure di consultazione’ (consultazione, coinvolgimento,
cooperazione) e quella che invece si definisce in ‘procedure di partecipazione attive’
(trasferimento di potere decisionale).
Questo studio ha evidenziato quanto sia però necessario introdurre alcune modifiche ad
hoc nei tipi largamente impiegati di scale della partecipazione (sopra indicati) in quanto
occorrerebbe rendere più complesso il quadro di riferimento, ipotizzando un modello
tridimensionale, attraverso cui cogliere non solo i modi, ma soprattutto la qualità del
coinvolgimento del terzo settore nella programmazione sociale.
Il concetto di partecipazione, in una sua accezione più generica, infatti può essere
suddiviso in quattro categorie di azioni attraverso cui è possibile, per così dire, smontare
il verbo ‘partecipare’. Quattro azioni che, come ripreso dal testo di Ciaffi e Mela (2006),
necessariamente si potenziano a vicenda:
Comunicare: inviare un messaggio che chi trasmette ha avuto cura di far arrivare
a chi riceve con attenzione alla codifica delle risposte possibili, diverso quindi
da informare, in cui ci si limita a lanciare messaggi senza prevedere alcuna
verifica della ricezione da parte dei destinatari;
Animare: concetto che a sua volta comprende un’ampia gamma di azioni, qui
inteso come una tipologia di intervento sociale che mobilita le risorse identitarie
degli individui;
Consultare: intesa come attività volta a recepire l’espressione delle esigenze da
parte di gruppi organizzati o no, nonché anche il monitoraggio dell’opinione
pubblica attraverso diversi tipi di inchieste e sondaggi;
Empowerment: potenziare i poteri di rappresentanza e le capacità di fare dei
cittadini, quindi far leva sulla responsabilizzazione e collaborazione in prima
persona di spazi e attività sociali, diventa un modo per rendere attivi e addirittura
responsabilizzati i cittadini su un dato tema.
3 Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
50
Ritengo pertanto ora utile soffermami su quest’ultimo termine, ad oggi molto
comunemente usato, per meglio esplicitarlo e definirlo.
2.2 Partecipazione ed empowerment
Da più di 30 anni la parola empowerment è entrata nel lessico comune di quanti si
occupano e si preoccupano di promuovere l’autonomia e le capacità d’azione di
individui, gruppi, organizzazioni, comunità. Rappaport e Zimmermann sono gli
studiosi americani che per primi studiarono il rapporto tra empowerment personale e
partecipazione alla vita di comunità. Rappaport (1977) per primo coniò questo
termine e lo accumunò alla possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare
attivamente la propria esistenza, enfatizzando l’idea di “acquisizione di potere”,
mentre Zimmermann (1999) contribuì in modo determinante alla teoria
dell’empowerment, donando al costrutto una natura multidimensionale, individuando
una tripartizione tra il livello individuale, organizzativo e comunitario. Senza voler
entrare nel merito analitico e scientifico di questi studi, ma più su un piano di
definizione, è interessante dire che questo termine anglosassone ha forse come
miglior traduzione italiana: ‘il potenziamento delle capacità del singolo o del
gruppo’. Ma questa parola non trova un vero corrispettivo in italiano che ne possa
rendere la complessità semantica. Non esiste ancora un’alternativa alla traduzione
classica: ‘favorire acquisizione di potere, rendere in grado’.
Vi sono alcune definizioni accettate in ambito sociale e sanitario quali: “processo
dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità
acquisiscono competenza sulla propria vita, al fine di cambiare il proprio ambiente
sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita” (Wallerstein 2006).
Oppure quella più specifica di ‘empowerment di comunità’: l’azione collettiva
finalizzata a migliorare la qualità di vita e le connessioni tra le organizzazioni e le
agenzie presenti nella comunità. Attraverso l’empowerment di comunità si realizza la
‘comunità competente’.
Nonostante questa molteplicità di definizioni, l’empowerment rappresenta una parola
chiave spesso usata nelle dichiarazioni di amministratori, operatori e esponenti del terzo
51
settore, ad indicare il processo tramite il quale soggetti deficitari di potere o di
capacità/abilità diventano o sono aiutati a diventare più potenti, capaci o abili.
Oltre all’accrescimento sociale di una comunità, il concetto di empowerment richiama
anche l’acquisizione da parte di quest’ultima della consapevolezza di contare di più e di
poter influenzare le decisioni e le azioni che hanno riflessi sulla comunità stessa.
Promuovere l’empowerment dei cittadini significa quindi accrescere la capacità di
padroneggiare e influenzare in modo sempre più consapevole i processi di decisione
collettiva. Tentando quindi di creare, tra gli istituti di democrazia rappresentativa e i
componenti della società, o almeno con la sua parte attiva, un rapporto strutturato di
ascolto e confronto, che riduca la distanza che la delega tende a creare, promuovendo
così una partecipazione capace di durare nel tempo e produrre risultati concreti.
L’empowerment può essere definito anche come “una serie di attività formative che
mettono la popolazione in grado di responsabilizzarsi su alcune questioni” (Ciaffi e
Mela, 2006 p. 87).
In quest’ottica la complessità di fattori implicati e la varietà dei contesti rendono
l’empowerment un concetto multilivello, applicabile con diverse modalità ad un’ampia
gamma di contesti. “Ciò che accomuna i diversi approcci è il passaggio da una cultura
del bisogno, dell’incapacità, dell’assistenza, ad una cultura della possibilità, del
riconoscimento delle competenze e delle risorse di individui e ambienti di vita” (Dal
Pra, 2005, p.212).
Empowerment quindi inteso come “imparare a camminare con le proprie gambe”
(Bobbio, 2004, p. 135) che non significa soltanto “attribuire o delegare potere” (in senso
formale) ma anche “mettere le persone in condizioni di esercitarlo”.
Da qui si può definire quindi ‘l’empowerment dell’utente’ e la sua centralità in quanto
portatore di diritti e di potenzialità, spesso inespresse. Questo concetto è oggi un
elemento essenziale delle politiche sociali nel loro complesso: non ha a che vedere con
‘l’arte di arrangiarsi’, nel qual caso il rischio sarebbe di deresponsabilizzazione le
istituzioni.
La presenza di una regia pubblica è quindi oltre che opportuna anche necessaria.
In questo senso la tematica dell’empowerment è divenuta centrale, proprio perché cerca
di coniugare il supporto e l’intervento pubblico con forme di attivazione delle capacità
di risposta autonome dell’individuo, delle famiglie, delle reti sociali. La percezione del
52
proprio potere e della possibilità di acquisire potere, fra l’altro influisce sulla
motivazione alla partecipazione, facendo sentire gli utenti come soggetti attivi,
promotori di sé, in grado ed autorizzati a esprimersi, ad assumere decisioni e
responsabilità per la ricerca di soluzioni.
In sintesi nell’ambito delle politiche sociali l’empowerment si può concretizzare quale
coinvolgimento e potenziamento della comunità nella programmazione e realizzazione
del sistema dei servizi. Ecco perché la parola empowerment è più o meno ricorrente nei
Piani Regionali triennali per la salute ed il benessere e nei Piani di Zona (gli strumenti
di programmazione illustrati nel capito precedente). La programmazione integrata infatti
propone come centrale la promozione dell’empowerment dei cittadini, quale possibile
strumento per il superamento del disagio sociale.
I già citati tavoli tematici dei Piani di Zona si configurano allora come i luoghi della
condivisione e della concertazione; sono ambiti entro cui sviluppare forme di consenso
e gli orientamenti comuni, senza annullare le differenze.
2.3. I Processi partecipativi
Alla luce della molteplicità di aspetti che riguardano la partecipazione è importante
osservare, nella concretezza delle differenti realtà locali, quali siano le forme attraverso
cui la pluralità di attori viene realmente coinvolta, per rendere sostanziale appunto la
partecipazione stessa. A questo proposito l’inclusione partecipativa ai Piani di Zona può
mostrarsi almeno su due livelli: uno più generale e quantitativamente più esteso nelle
forme di ascolto e informazione della popolazione; un altro, per certi aspetti più
selettivo e maggiormente orientato alla presa di decisione, che implica il
coinvolgimento nei tavoli tematici di soggetti aggregati, per così dire, maggiormente
abilitati e abili. Le maggiori criticità4, in particolare proprio in riferimento alla
partecipazione e alla costruzione dei Piani di Zona, provengono da una scarsa
consuetudine alla collaborazione, da un lato per fattori culturali, dall’altro per interessi
concreti, spesso supportati da un onere in termini di tempo e di cura relazionale, che non
4 Rilevate dalla ricerca redatta nel testo a cura di Lazzari e Gui, 2013
53
agevola la continuità dei processi partecipativi. Alcuni fattori che portano al
conseguente affievolimento della partecipazione sono individuabili nella percezione di
non poter incidere realmente sulle politiche sociali, di non avere un ruolo ben definito e
nell’avere la sensazione che prevalgano interessi soggettivi rispetto ad un agire
collettivo. Sul versante opposto i fattori che favoriscono la partecipazione sono la
disponibilità al confronto e all’assunzione di responsabilità, la chiarezza di ruoli, la
percezione di poter contare e di poter agire efficacemente, il supporto offerto oltre alla
partecipazione ai tavoli anche nella realizzazione delle diverse azioni progettuali.
Strettamente correlate agli aspetti positivi e critici dei processi partecipativi sono le
modalità attraverso cui viene svolta la funzione di regia, funzione che come già
sottolineato deve essere, anche normativamente, assegnare all’Ente Locale. Pertanto
“quanto più i soggetti istituzionali locali riescono a coinvolgere, a responsabilizzare i
partecipanti ai tavoli tematici e a curare le relazioni nel corso del tempo, tanto maggiore
appare l’adesione e la tenuta della partecipazione” (Lazzari e Gui, 2013, p. 68).
Viceversa se l’attenzione dei soggetti istituzionali si focalizza agli aspetti procedurali,
più che relazionali, ciò agevolerà lo sviluppo di logiche adempitive, come fossero dei
rituali, che finisco per svilire l’intero sistema dei servizi.
Spesso quindi l’obiettivo della partecipazione si traduce in pratica attraverso il concetto
di partnership dove le funzioni amministrative vengono concentrate su compiti di
‘regia’, ‘pilotage’, ‘enabling’ e indirizzate a catalizzare (nel suo significato di saper
stimolare) aggregazioni fra gli attori interessati, ad attivare nuove forme della
cittadinanza, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali nelle scelte collettive e
a coordinare processi tendenzialmente frammentati e a bassa integrazione verso “finalità
collettive” (Lescoumes e Le Galès, 2009).
Partnership e partecipazione sono, secondo Bifulco e de Leonardis (2002), tra loro unite
da prima da virtù organizzative, più precisamente consentono di mettere in contatto, in
reti coordinate e cooperative, la pluralità di attori, gruppi sociali e istituzioni, aprendo la
strada all’integrazione fra politiche e competenze settoriali e promuovendo nuove
pratiche della cittadinanza e, in secondo luogo, dallo sviluppo di un approccio negoziale
all’azione pubblica che attiva la contrattazione e la negoziazione tra portatori di interessi
diversi.
54
2.3.1 Processi decisionali inclusivi: uno sguardo alle dimensioni operative
Alla luce di quanto tratteggiato fin ad ora, vediamo ora come un processo partecipativo
determina la presenza di una trasformazione nella distribuzione del potere tra i diversi
attori.
Ogni processo partecipativo, qualora coinvolga in profondità i soggetti, comporta un
aumento della loro consapevolezza e della loro capacità di esprimere le proprie
esigenze. Questo fenomeno di empowerment prefigura già di per sé un mutamento nelle
condizioni strutturali del contesto in cui avviene l’esercizio del potere, in quanto pone le
premesse per una più ampia base di discussione di ogni scelta. Questa modalità di
partecipazione esige delle regole, per far sì che essa costituisca davvero una modalità
innovativa di esercizio del potere, a vantaggio dei cittadini in generale e soprattutto dei
gruppi meno avvantaggiati e contemporaneamente per evitare che essa interferisca in
modo ambiguo con l’attività dei soggetti istituzionali e degli organismi elettivi. Le
regole devono essere sancite e comunque fatte proprie dai legittimi rappresentanti dei
cittadini, e debbono servire a garantire il rispetto dei ruoli istituzionali e a favorire una
trasparenza del processo partecipativo, che consenta di rendere controllabile ogni
segmento del percorso decisionale. L’avvio di un processo partecipativo entro regole
concordate con le istituzioni aggiunge ad essi un fattore di sistematicità e trasparenza.
Si può dire che la presenza di un processo partecipativo contribuisca alla formazione di
quella che ho precedentemente definito governance locale, che tende a raccordare
l’esercizio del potere da parte degli organismi elettivi e delle agenzie pubbliche con le
esigenze e le aspirazioni della società civile e contribuisce ad accrescere la
legittimazione del governo.
Possiamo anche definirli ‘processi decisionali inclusivi’, ossia scelte pubbliche che
vengono compiute mediante il coinvolgimento di altre amministrazioni, associazioni,
soggetti privati o comuni cittadini. E’ un processo inclusivo in quanto cerca di
includere un certo numero (più o meno ampio) di soggetti interessati a quel problema e
di farli partecipare alle scelte. Per riferirsi a questi processi si usano di solito termini
come: concertazione, partenariato, partecipazione, consultazione, negoziazione,
accordi, intese.
55
La pubblica amministrazione, detentrice del potere decisionale in base alle indicazioni
normative, avviando un processo inclusivo, si assume l'impegno, nei confronti dei
partecipanti, di tener conto delle indicazioni che scaturiranno dal processo stesso.
Da qui l’importanza della leadership politico-amministrativa locale: “le soluzioni di
successo in termini di democrazia partecipativa sembrano essere quelle in cui a livello
locale è presente un’adeguata capacità di azione e coordinamento da parte dell’attore
pubblico sulla base spesso di una radicata cultura politica e istituzionale” (Paci, 2008, p.
34).
L’analisi delle esperienze di partecipazione pongono in evidenza diversi elementi che
concorrono al successo e ad esiti positivi, ad esempio è fondamentale che si
promuovano processi inclusivi quando la decisione coinvolge uno specifico gruppo
sociale o una specifica comunità e il principio a cui ispirarsi dovrebbe essere: “nessun
impatto senza rappresentanza” (Bobbio, 2004, p.22). Nel senso che alla comunità o al
gruppo oggetto delle decisioni deve necessariamente essere data la possibilità di
esprimere il proprio punto di vista. Operativamente, sarebbe opportuno aprire il
confronto sin dall’inizio, dall’analisi del problema, per arrivare poi ad ipotesi
progettuali ed in seguito ad un progetto di massima “prima si comincia e meglio è”
(Bobbio, 2004, p.35). Ma la scommessa sta proprio nel non aspettare che la cittadinanza
o un’associazione si muova contro e dare invece subito la possibilità di attivarsi per.
Molte esperienze di questo tipo esistono già: i forum di Agenda 215, i Piani strategici
delle città ed altre esperienze analoghe, quali tentativi di coinvolgere i cittadini (o parte
di essi) in un ragionamento molto generale sul futuro della propria città, del proprio
quartiere o della propria area.
I processi inclusivi possono però essere anche pieni di insidie: nel senso che un
processo inclusivo può attenuare i conflitti, ma può anche esasperarli. Può produrre
decisioni che riescono a comporre i diversi punti di vista dei partecipanti in una visione
condivisa dell'interesse generale, ma può anche generare compromessi. Può anche
portare ad accordi spartitori in cui i partecipanti non tengono conto gli interessi della
collettività. Si possono raggiungere soluzioni condivise in tempi ragionevoli, ma si
possono anche trascinare le decisioni per mesi o anni, rinviandole da una riunione
all'altra con una generale frustrazione. Si possono migliorare le relazioni tra gli attori,
5 particolare tipologia di processo partecipativo indicato dalle Nazioni Unite nel 1992 .
56
ma si possono anche deteriorarle irreparabilmente. Tra gli errori ricorrenti inoltre nei
processi partecipativi può esserci quello dell’incapacità a seguire la dinamica dei
problemi in evoluzione, facendo la scelta di investire ex novo sulla costruzione di
servizi, di fatto già esistenti, ma magari non efficienti, anziché investire su progetti di
comprensione del non funzionamento e rilancio degli stessi.
Questi processi quindi implicano un obiettivo di integrazione che è molto difficile da
realizzare e spesso riesce solo in parte. Si tratta infatti di mettere insieme competenze di
diversi settori (anche all'interno di uno stesso ente locale) che hanno metodi, priorità e
linguaggi diversi e che non sono abituati a comunicare tra di loro. “Saper comunicare è
importante, anzi importantissimo. Ma è ancora più importante saper ascoltare. Non c'è
dialogo, senza ascolto” (Bobbio, 2004, p.38).
Vediamo ora quali sono i soggetti che occorre si pongano in reciproco ascolto; quali
sarebbe opportuno venissero riconosciuti come titolari di diritto e pertanto coinvolti in
decisioni di rilevanza pubblica. Solitamente viene accentuato il ruolo assegnato ai
soggetti di tipo collettivo (enti, organizzazioni, associazioni, gruppi sociali) piuttosto
che a quelli individuali (singolo cittadini).
Gli ampi approfondimenti compiuti sul tema da Bobbio (2004) evidenziano come
l’individuazione degli interlocutori avvenga attraverso tre configurazioni:
I. vengono individuati solo soggetti appartenenti ad Istituzioni Pubbliche, anche di
vario genere. Si tratta di una soluzione ‘semplice’ : è quello che si fa
normalmente quando si convoca una ‘conferenza di servizi’ o si prepara un
‘accordo di programma’ ;
II. si convocano anche i gruppi organizzati quali sindacati, associazioni di vario
genere, gruppi organizzati presenti sul territorio, ecc ;
III. si allarga il coinvolgimento anche ai cittadini non organizzati. Forme di
partecipazione queste maggiormente adatte a contesti territorialmente piccoli,
così che la partecipazione possa risultare elevata e in grado di offrire risultati
significativi.
57
L’attore dei processi partecipativi non è comunque da considerarsi né isolato, né
inevitabilmente compreso in un’entità sociale che ne esaurisca le potenzialità d’azione.
Resta pur sempre un soggetto con molteplici legami con altri attori e condivide con essi
di volta in volta alcuni caratteri sociali. La partecipazione ha comunque e sempre un
valore inclusivo, oltre che avere capacità d’influenza sui processi decisionali, in quanto
“tende a connettere i singoli alle reti e contrasta una tendenza alla frammentazione
sociale e alla segregazione spaziale” (Ciaffi e Mela, 2006, p. 42).
Un processo inclusivo, per definizione, deve cercare di includere tutti, proprio perché si
possano mettere a confronto tutti i punti di vista e gli interessi coinvolti, ma tale ipotesi è
quasi sicuramente irrealistica, ma certamente si può tentare qualche approssimazione
accettabile: “si tratta di compiere ogni sforzo perché tutte le opinioni e gli interessi
rilevanti siano effettivamente coinvolti e che nessuno di essi sia escluso a priori”
(Bobbio, 2004, p. 40). Infatti, spesso, a fronte di una decisione presa da parte dell’Ente
Pubblico, il rischio che si corre è che venga contestata o ostacolata adducendo come
argomentazione il fatto di ‘non essere stati coinvolti’.
Ecco perché parlando degli attori della partecipazione si ricorre a un termine ormai
entrato nel linguaggio comune: stakeholder. Gli stakeholder sono coloro che hanno
(hold) un interesse specifico sulla posta in gioco (stake), anche se non dispongono
necessariamente di un potere formale di decisione o di un'esplicita competenza
giuridica. Ecco perché sarebbe importante che ogni amministrazione potesse disporre di
una mappa degli attori, ossia un quadro dei soggetti che possono essere interessati a
ragionare attorno alle diverse poste in gioco implicate dal progetto.
I processi poi vanno presidiati ed occorre quindi sempre individuare chi detiene la
funzione di regia, in quanto un importante aspetto tra tutti è quello che consiste nella
funzione di garanzia. “Ci deve essere qualcuno in grado di presidiare i processi,
garantire che il gioco si svolga in modo corretto devono offrire ai partecipanti la
ragionevole speranza che le scelte raggiunte attraverso la concertazione saranno prese
seriamente in considerazione dall'amministrazione. Detto in altri termini, i processi
inclusivi non possono reggere se non sono sostenuti da una forte volontà politica”
(Bobbio, 2004, p. 121).
Una volta quindi individuati i soggetti che partecipano ai processi e definito il ruolo di
regia, occorre che tutti i partecipanti si rifacciano a quei principi che Bobbio nel testo
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“A più voci” (2004) indica come comuni, indipendentemente dall’oggetto che si tratta
nel processo e dalla metodologia partecipativa che si intenterà attuare:
favorire la comprensione ai non specialisti: a tutti dovrebbe essere permesso
di ‘sentirsi alla pari’;
fissare regole condivise: relativamente alle fasi del processo; ai tempi per
ogni fase; nella organizzazione e disposizione degli spazi;
creare informalità: creare ambiti in cui ci si possa ‘sentire a proprio agio’;
puntare sulla trasparenza: occorre che ognuno si impegni, cercando di non
nascondere le informazioni. Questo significa anche impegnarsi nella diffusione
delle informazioni tra i partecipanti. E’ un aspetto faticoso ma indispensabile,
in quanto se viene meno la trasparenza e quindi cresce l'opacità,
inevitabilmente si creano squilibri che portano ad incrinare la fiducia;
costituire piccoli gruppi: da 5 a 20 persone come indicazione ottimale, gruppi
nei quali le persone non hanno l'obbligo di fare interventi, ma sarebbe sempre
importante che tutti potessero anche solo limitarsi a esprimere il loro pensiero,
anche in poche parole.
A conclusione di questa parte del mio lavoro, di seguito ho schematizzato i metodi, gli
approcci, le tecniche attraverso i quali si gestiscono solitamente i processi decisionali
inclusivi, che possono di volta in volta essere scelti e utilizzati a seconda della tipologia
di partecipati e del progetto che si affronta. Consapevole del fatto che sempre nuove e
diverse tecniche prendono forma in questo campo, il mio riferimento teorico è, ancora
una volta, Bobbio nel testo “A più voci” (2004) a cui si rimanda per ogni più specifica
indicazione che, per ogni singolo metodo citato, qui non si è potuta riportare. Ho
ritenuto però importante inserire la seguente schematizzazione per rendere evidente
quanti strumenti si possono utilizzare, affinché la partecipazione diventi di ‘uso
comune’ per la programmazione, affinché la si possa davvero, appunto, chiamare
integrata e partecipata.
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TECNICHE PER L’ASCOLTO
Metodi che aiutano a capire come i problemi sono percepiti dagli stakeholder e dai comuni
cittadini. Utilizzate soprattutto in fase preliminare per individuare i possibili interlocutori e
capire quali sono i temi su cui lavorare.
ASCOLTO PASSIVO: un esempio è il sondaggio di opinione: chiedere una risposta in quel
momento a quella domanda.
ASCOLTO ATTIVO, come definito da Mariella Sclavi: comprensione reciproca tra persone
appartenenti a culture diverse. Esso si basa su sette regole fondamentali, qui le tre più
importanti:
se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione
e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva;
quello che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di
vista, devi cambiare il tuo puto di vista. Deve uscire dalla cornice. Deve imparare a
osservarsi;
le emozioni sono strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro
linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi.
Di seguito si elencano alcune tecniche per l’ascolto attivo
OUTREACH: pratica del “andare a cercare” Nella progettazione partecipata è definita come
“andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che esse vengano da noi”. Strumenti
e modalità: materiale informativo; articoli su giornali locali, spot su radio/tv locali; strutture
mobili; “camminate di quartiere”.
ANIMAZIONE TERRITORIALE: tutto ciò che va ad incrementare il grado di sensibilizzazione e di
partecipazione degli attori locali intorno a problemi comuni e strategie che interessano
l’area di appartenenza.
RICERCA-AZIONE PARTECIPATA: coinvolgimento e partecipazione nella Ricerca-Azione da parte
degli stakeholder della comunità. Attivazione di un Forum Locale. La diffusione dei risultati
della ricerca a tutta la comunità di riferimento avviene tramite gli stakeholder.
CAMMINATE DI QUARTIERE: consiste in una o più passeggiate per il quartiere, in cui piccoli
gruppi di residenti (da 10 a 30) guidate da professionisti o da funzionari in un giro per l’area
interessata.
PUNTO: sportelli per il pubblico ubicati all’interno di aree urbane oggetto di interventi di
trasformazione. Auspicabile in qualunque intervento di grandi dimensioni e di lunga durata.
FOCUS GROUP: piccolo gruppo di persone (generalmente da 4 a 12) richiede una certa
omogeneità tra i partecipanti. Assistito da un facilitatore. Usata all’interno di processi
decisionali più complessi.
BRAINSTORMING: lo scopo è di sviluppare soluzioni creative ai problemi. Il gruppo, non più di
15 persone, fissa un tempo limite per l’incontro. Ognuno dà una soluzione al problema con
la prima idea che gli viene in mente. La regola fondamentale è che i partecipanti non devono
assolutamente esprimere giudizi sulle idee proposte dagli altri. Condotto da un facilitatore
60
TECNICHE PER L’INTERAZIONE COSTRUTTIVA
Metodi che aiutano i partecipanti a interloquire tra di loro e a produrre conclusioni
interessanti.
La cornice entro cui i partecipanti sono chiamati ad operare: un quartiere, una comunità,
una città
EASW (European Awareness Scenario Workshop): promuove l’innovazione sostenibile,
attraverso lo sviluppo tecnologico coinvolgendo la comunità sui possibili obiettivi a cui
indirizzarlo
ACTION PLANNING: metodo di progettazione partecipata della comunità locale, per arrivare a
formulare le linee di intervento insieme a coloro che conoscono i disagi perché li affrontano
quotidianamente.
SEARCH CONFERENCE: metodo di progettazione partecipata. Dura da due o tre giorni, 35-40
partecipanti stabiliscono qual è il futuro più desiderabile per il sistema di cui sono parte e
formulano le strategie creative per realizzarlo.
PLANNING FOR REAL: tecniche basate sulla simulazione. Metodo di progettazione partecipato
per mettere in condizione di esprimere le preferenze in modo facile e intuitivo.
OPEN SPACE TECHNOLOGY: tecniche basate sulla spontaneità. I partecipanti, seduti in un ampio
cerchio, apprendono nell’arco della prima mezz’ora come faranno a creare la propria
conferenza. Quando tutti hanno proposto i propri temi, viene dato avvio alla prima sessione
di lavoro. Alla fine della giornata sarà distribuito ai partecipanti il resoconto di tutte le
discussioni svolte. Quattro principi:
Chi partecipa è la persona giusta;
Qualsiasi cosa succeda va bene;
Quando si inizia si inizia;
Quando si finisce si finisce.
LABORATORIO DI QUARTIERE: strumento a carattere didattico ed educativo finalizzato al
coinvolgimento degli abitanti e delle scuole in interventi di recupero e di manutenzione della
città. Metodologia per far partecipare direttamente i cittadini ai processi di riqualificazione
del territorio ed alle scelte per lo sviluppo locale sostenibile.
INCONTRI DI SCALA: strumento di ascolto composito. Ascolto attivo del territorio e simulazione
progettuale.
61
TECNICHE PER LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI
Metodi che aiutano ad affrontare questioni controverse quando sorge un conflitto.
I conflitti si presentano sempre sotto forma di una contrapposizione frontale. Il conflitto è
come un gioco a somma zero: o vince l’uno o vince l’altro. Per trasformare un conflitto in un
gioco a somma positiva esistono due strade possibili: la negoziazione e la discussione. Prima
le parti cercano di raggiungere un accordo adeguato scambiandosi qualcosa. Poi cercano di
raggiungere un punto di vista comune, modificando in seguito agli argomenti che vengono
presentati dagli altri. Si utilizzano strumenti alternativi che passano sotto il nome di
Alternative Dispute Resolution, che si fondano sul confronto fra le parti, spesso con
l’assistenza di un mediatore. L’idea di fondo è che sia preferibile che le parti trovino da sole
un accomodamento o una soluzione. Il primo passo in questa direzione consiste nel
convincere le parti in conflitto a confrontarsi direttamente tra di loro.
NEGOZIAZIONE DISTRIBUTIVA (o POSIZIONALE): nel corso del confronto, ciascuna di esse rinuncia a
qualcosa fino a trovare un compromesso. Il compromesso è un punto intermedio tra le
posizioni delle parti. Un gioco a somma fissa: i vantaggi dell’uno sono perdite per l’altro.
Questo tipo di negoziazione prende il nome di negoziazione distributiva, dal momento che le
parti si devono distribuire una posta in gioco fissa, o di negoziazione posizionale, dal
momento che le parti prendono le mosse dalle loro posizioni iniziali che non mettono mai in
discussione: semplicemente le attuano via via attraverso concessioni reciproche. Nella
negoziazione distributiva si parte dalle posizioni e si cerca di ridurre la loro distanza.
NEGOZIAZIONE INTEGRATIVA (o CREATIVA): lavorare sugli interessi che stanno dietro alle posizioni
chiedendo: “Perche?”. Le parti devono essere indotte a fornire argomenti a sostegno delle
loro posizioni. Le parti devono dedicarsi a un impegno creativo. Nella negoziazione
integrativa bisogna cercare di ampliare la gamma delle opzioni possibili, produrre un numero
elevato di soluzioni.
CONFLICT SPECTRUM: trasformazione dei conflitti. Metodo per trattare un conflitto che si trova
in uno stadio molto iniziale. Possibilità di capire il senso delle posizioni assunte dagli altri e di
avere un’idea precisa sul numero di persone che condividono certe opinioni. Ogni
partecipante si colloca in punto della sala che corrisponde al proprio punto di vista; quando
le persone si sono disposte lungo lo spettro, si chiede a ciascuna di loro di spiegare
brevemente perché hanno scelto di mettersi in quella posizione. Subito dopo è possibile
chiedere ai partecipanti di ricollocarsi lungo lo spettro. Se qualcuno, dopo la discussione, ha
cambiato idea, gli si chiede di spiegare perché.
62
PROCESSO DELIBERATIVO
Secondo l’uso inglese “to deliberat” (deliberare), non significa, come in italiano, “adottare
formalmente una decisione”, ma piuttosto “esaminare le ragioni pro e le ragioni contro una
certa soluzione”. Sono approcci e tecniche che si propongono di risolvere le controversie
mediamente il dialogo o la deliberazione.
ANALISI MULTICRITERI: trovare una soluzione condivisa ragionando insieme sui criteri di scelta,
piuttosto che sulle singole alternative. Strutturare il percorso in tappe prestabilite e offrire a
tutti i partecipanti la possibilità di esprimersi. Accordarsi sulle premesse, ossia, i criteri,
prendere atto delle conseguenze, ossia dell’ordinamento delle alternative che, in base a
quelle premesse, verrà prodotto dall’analisi multicriteri.
GIURIE DI CITTADINI: i membri del gruppo non arrivano mai a verdetti finali e vincolanti, bensì
semplicemente all’individuazione di possibili soluzioni che verranno poi affidate a coloro che
effettivamente possiedono il potere politico per attuarle.
BILANCIO PARTECIPATIVO: “orçamento participativo” introdotto nella città brasiliana di Porto
Alegre nei primi anni ’90. Nasce dall’esigenza di ripartire in modo trasparente ed equilibrato
le spese in conto capitale previste dal bilancio del comune tra i quartieri della città. Processo
inter istituzionale lungo e complesso: dura circa un anno. Costituisce un punto d’incontro tra
la democrazia rappresentativa e quella partecipativa, ma è difficilmente imitabile ed
esportabile nella sua portata.
SONDAGGI DELIBERATIVI: campioni di cittadini rappresentativi della popolazione relativamente
numerosi chiamati ad esprimere un parere su temi importanti quali la sicurezza, l’ecologia
ecc..
CONFERENZE PER IL CONSENSO: gruppi di cittadini sorteggiati con tecniche non strettamente
rappresentative, ma tali da assicurare la loro diversificazione sociale interna. Chiamati ad
esprimere un giudizio su problemi di natura tecnico-scientifica.
COMITATI DEI CITTADINI: mobilitazione della popolazione locale a problemi specifici di politica
urbana o ambientale.
Nella consapevolezza che l’applicazione e l’implementazione di ogni processo
partecipativo va necessariamente riferito al contesto in cui esso si attua, così come
meglio evidenzierò nel caso oggetto di studio; gli elementi significativi che sono
comunque presenti in ogni ambito in cui si attiva la partecipazione, possono essere così
brevemente riassunti: l’individuazione del ruolo di leadership, più spesso detenuta
dall’istituzione pubblica, in quanto comunemente le è riconosciuta la capacità di
coordinamento e di regia rispetto ai vari attori che possono essere coinvolti, nonché di
garanzia verso tutti i soggetti presenti; la capacità di gestire i conflitti che spesso si
possono presentare in processi inclusivi aperti a realtà differenti, a volte anche
63
contrapposte; l’utilizzo, come si è visto, di tecniche particolari, nelle quali la
condivisione del linguaggio, del senso delle parole e delle finalità da perseguire deve
essere sin da subito espressa e chiarita.
2.4 La Cittadinanza attiva
Non si può certo dire esaurito il discorso sulla partecipazione senza richiamarne la
finalità ultima: la cittadinanza attiva.
Prima di introdurre una definizione e un’analisi circa la ‘cittadinanza attiva’ ritengo
necessario soffermarmi, seppur brevemente, sul concetto di cittadinanza e ancor prima
sul significato del termine ‘cittadino’.
Al di là dell’accezione giuridica, il cittadino per Guiba e Lincoln (1989) è un soggetto
che è formato e informato così da potersi far carico di scelte di fondo e di essere
interlocutore degli altri attori in gioco in un processo di mediazione e negoziazione, in
grado quindi anche di esprimersi.
Per Altieri (2009) il cittadino è tale quando giunge a fare i conti coi rapporti di potere e
con i processi decisionali politici che lo riguardano. Il cittadino ha valori propri e una
propria cultura, non è possibile quindi che si limiti a rilevare semplicemente bisogni o
interessi. Il cittadino quindi può (e deve) essere in grado di contribuire attivamente alle
decisioni, anche complesse che lo riguardano.
E’ un cittadino così inteso che diventa artefice della sua stessa cittadinanza.
Il termine cittadinanza può avere diverse connotazioni, è un concetto in progress che nel
tempo è stato considerato come:
indicatore del modo in cui sono ripartiti i poteri e le risorse nell’ambito di un
ordinamento politico-sociale;
rapporto tra individuo e ordine politico, inteso come partecipazione attiva del
soggetto alla sfera pubblica;
intersezione tra individuo e società.
Per cittadinanza si può quindi intendere sia uno status politico-giuridico, ma anche sia
un vincolo attraverso il quale si è parte di una comunità (Lazzari e Gui, 2013)
64
Per de Leonardis (1998) la cittadinanza è da prima un processo sociale, in quanto la si
può considerare come trasformazione sia individuale che sociale. Ed è proprio in questa
accezione che la cittadinanza allora non è solo l’assunzione di uno status riconosciuto di
appartenenza o di esclusione, ma più una pratica. Un concetto cioè più riferito all’agire,
piuttosto che all’essere o all’avere. La cittadinanza è anche ‘esercizio di capacità’ e da
qui prende avvio il concetto di cittadinanza attiva, in quanto la si esercita attraverso
diverse modalità di partecipazione alle scelte pubbliche, alla politica, andando quindi
oltre l’aspetto meramente elettorale.
Il cittadino quindi viene riconosciuto come portatore di ‘voice’, deve avere ‘voce in
capitolo’ e ciò può avvenire solo se gli vengono riconosciute e può esercitare le sue
competenze, sulla base di conoscenze, esperienze, capacità di scelta e di azione.
Il termine cittadinanza si collega strettamente ai “diritti” che la persona, il cittadino,
ritiene gli debbano essere riconosciuti. Quindi per costruire cittadinanza occorre
ripensare ai diritti sociali, che vanno intesi come diritti a esercitare le proprie ‘capacità’.
Necessariamente questa parola richiama l’approccio delle capacità di Amartya Sen
(1979), noto economista e filoso indiano. La teoria di Sen aspira a regolare la
ripartizione sociale di costi e benefici della collaborazione fra cittadini. Sen infatti è
interessato agli individui che, in quanto cittadini, compongono la società. Si rifà al
soggetto richiamando le nozioni di funzionamento (functioning) e capacità (capability).
Per Sen il funzionamento non è solo ciò che un individuo fa, ma anche quello che egli è
(Magni, 2006).
Sen specifica che questo stato di esistenza può essere acquisito involontariamente (es:
stato di denutrizione; di miseria, di salute, di alfabetizzazione,…). I funzionamenti sono
considerati come realizzazioni di uno stato potenziale del soggetto, definito capacità.
Sen definisce le capacità di un soggetto in relazione ai suoi funzionamenti; una capacità
è sempre caratterizzata dalle combinazioni alternative dei funzionamenti che è possibile
acquisire.
Stando a questa prima parziale definizione, capacità equivarrebbe a opportunità
(opportunity), intesa come la presenza di condizioni esterne favorevoli o meno; ma si
può dare anche una seconda definizione di capacità, che completa la prima, in base alla
quale le capacità sono poteri interni del soggetto, presenti anche se non vengono
esercitati. La capacità in tal senso è un aspetto della costituzione individuale delle
65
persone e viene intesa come capacità (capability o ability) di carattere generale. Per
Sen la capacità di un individuo di fare/non fare qualcosa, o di essere/non essere
qualcuno, equivale alla libertà del soggetto di agire e di determinare se stesso. La
prospettiva delle capacità e la prospettiva della libertà allora coincidono, ecco perché
Sen utilizza la nozione di capacità parlando della libertà sostanziale di un individuo.
In questo senso la promozione e lo sviluppo della comunità locale amplifica i diritti di
cittadinanza e rende le persone capaci di individuare ed intervenire sui problemi propri
e del territorio, creando movimenti di pensiero e gruppi di rappresentanza, rendendo
cioè la cittadinanza attiva.
Riprendo a questo punto la definizione di cittadinanza attiva riportata nel “Manuale di
Cittadinanza Attiva” (Moro, 1997, p. 48): “cittadinanza attiva è la capacità dei cittadini
di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse umane, tecniche e finanziarie,
e di agire con modalità e strategie differenziate per tutelare diritti esercitando poteri e
responsabilità volti alla cura e allo sviluppo dei beni comuni”. Anche da questa
definizione si evince che la cittadinanza attiva è prima di tutto una capacità, intesa come
attitudini che i cittadini hanno, e che quindi non debbono essere loro trasmesse da altri,
ma che certamente vanno supportate, spronate, catalizzate da altri (dalle istituzioni in
particolare). Le capacità, le attitudini riguardano in particolare tre tipi di azioni:
l’organizzarsi; il mobilitare risorse e il tutelare diritti e interessi. Azioni che si
realizzano attraverso l’esercizio di poteri e di responsabilità, che richiamano proprio
l’essere della cittadinanza. Il potere sta a dire la forza di influire sul corso delle cose e
sui comportamenti di altri soggetti, cioè il poter incidere. La responsabilità richiama un
carattere costruttivo di questo agire, che caratterizza il sistema di governance di cui si è
detto al primo capitolo.
Nelle pratiche che caratterizzano i contesti sociali contemporanei, il profilo della
cittadinanza attiva richiama l’azione e il ruolo delle organizzazioni che solitamente si
ricomprendono sotto la denominazione “Terzo Settore”. Sono per lo più movimenti
civili interessati a immettere qualità nei processi della decisione e a favorire
cambiamenti nel governo, nell’amministrazione e nei vari settori della politica pubblica,
portando la loro competenza, spesso maturata ‘sul campo’.
66
Da citato manuale è possibile schematizzare (Fig.6), alcune, delle diverse modalità
organizzative che si possono ritrovare nell’universo della cittadinanza attiva:
Fig. 10 Sintesi della tipologia delle organizzazioni della cittadinanza attiva
Fonte Manuale Cittadinanza Attiva. Moro (1998)
TIPOLOGIA DELLE ORGANIZZAZIONI DELLA CITTADINANZA ATTIVA
VOLONTARIATO Gruppi di forte ispirazione, laica o religiosa, legata al tema del servizio e della
solidarietà con i più deboli.
ASSOCIAZIONISMO Organizzazioni di promozione di attività, rivolte per lo più ai propri soci o da questi
realizzate, attraverso la condivisione di valori comuni.
COOPERATIVA organizzazioni che attuano il principio di solidarietà nel mercato.
IMPRESE SOCIALI Imprese senza fini di lucro che organizzano attività economiche nell’area dei
servizi alla persona .
COMUNITÀ organizzazioni in cui è dominante l’idea della solidarietà.
MOVIMENTI DI
RAPPRESENTANZA
Organizzazioni che intendono rappresentare i cittadini in funzione della tutela dei
loro diritti.
MOVIMENTI PROFESSIONALI Professionisti di diversi rami lavorano per ridefinire e riqualificare la propria
professione rafforzandone il senso di responsabilità sociale
STRUTTURE DI SERVIZIO E DI
COORDINAMENTO
Centri di ricerca, formazione ed informazione, iniziative volte a raccogliere e
distribuire fondi per scopi d’interesse collettivo. Tra queste anche le reti
telematiche della Cittadinanza attiva. Ma anche individui e soggetti collettivi,
come gruppi e associazioni, con una propria identità e attività autonome, che per
uno scopo ben determinato tendono a riunirsi.
CENTRO
forma di organizzazione che da punto di riferimento o struttura di servizio per
soggetti individuali e collettivi impegnati in un campo d’azione.
COMITATO nasce per uno scopo determinato e può esaurirsi oppure ridefinirsi una volta
raggiunto lo scopo costitutivo.
NETWORK (RETE) soggetti accomunati da un interesse o da un campo d’azione soprattutto
attraverso attività di comunicazione e scambio d’informazioni.
GRUPPO unità minima d’azione con forte coesione attorno a valori comuni.
67
Questo prospetto è appunto uno schema, non è detto quindi che esistano forme ‘pure’
così come descritte; nella realtà si assiste ad una pluralità di opzioni possibili che la
cittadinanza attiva può scegliere, nessuna forma è migliore di un’altra, dipende solo
dalle circostanze e dalle intenzioni di chi si attiva.
Infatti diverse possono essere le motivazioni che spingono il cittadino ad unirsi ad altri,
con diverse motivazioni all’azione, quali ad esempio:
mettersi al servizio: dedicare proprie risorse per aiutare altri, con motivazioni
personali che possono le più diverse;
cercare un cambiamento: impegnarsi per modificare una realtà che è ritenuta
‘ingiusta’ , con accezioni che vanno da aspetti molto concreti e locali a livelli
invece più globali;
impegnarsi in difesa di diritti: c’è un richiamo al tema della giustizia verso
situazioni ritenute appunto ingiuste;
attivarsi per solidarietà: ci si attiva per cercare di superare concrete situazioni di
abbandono;
spinta all’apertura cognitiva: c’è la volontà di conoscere concretamente.
Anche da questa elencazione non è possibile evincere distinzioni nette, appartenenze
univoche, in quanto questi universi si fondono spesso insieme, gli uni con gli altri in
ogni individuo.
Cittadinanza attiva e partecipazione sono quindi concetti che possono portare ad
individuare nuovi modi di intendere le dinamiche sociali, i percorsi di definizione delle
politiche e le diverse modalità operative che si potranno attuare in risposta ai bisogni di
inclusione, di ridistribuzione, di promozione, di tutela e di integrazione delle differenti
soggettività che animano la vita delle comunità. Un nuovo modo appunto di fare
programmazione integrata, in particolare a livello locale.
“Partecipazione, integrazione sociale e capitale sociale non si producono infatti da sé,
per partenogenesi, ma comportano l’impegno ed esplicite scelte politiche, economiche
ed organizzative, così come l’attribuzione di adeguate risorse da parte dei diversi attori
formali e informali implicati” (Lazzari e Gui, 2013, p. 11).
68
Il divenire della ‘cittadinanza attiva’ prende quindi forma nelle fasi di programmazione,
attuazione e valutazione, in particolar modo in ambito locale e possono essere proprio i
Piani di Zona un’occasione e uno strumento per il coinvolgimento (ed anche per la
costruzione) della cittadinanza attiva.
69
Capitolo 3
La Programmazione partecipata di politiche a favore della popolazione
anziana: l’invecchiamento attivo
3.1 Il quadro demografico
In questo capitolo, conclusivo dell’inquadramento teorico del tema oggetto di questo
lavoro, mi occuperò della programmazione delle politiche a favore della popolazione
anziana. In linea con le argomentazioni fino ad ora affrontate, mi focalizzerò in
particolare sulle dinamiche partecipative così come esse caratterizzano la popolazione
anziana con specifico riferimento al tema dell’invecchiamento attivo.
Affronterò il tema illustrando dapprima sinteticamente il contesto demografico. E’
infatti opportuno, cogliere le caratteristiche di un fenomeno che rappresenta, e sempre
più rappresenterà, per la nostra società una sfida importante: l’invecchiamento
progressivo della popolazione.
Analizzando i dati demografici relativi all’ultimo censimento ISTAT del 2011 si vede
che la popolazione italiana è pari a 59.433.744 individui. I minori di età 0/14 anni sono
il 14,1% ; le persone tra 15 e 64 anni sono il 65,7% ; mentre gli anziani di 65 anni e
oltre sono il 20,8%. Importante notare che la percentuale della popolazione di 65 anni e
più, è passata dal 18,7% del 2001 ad oltre il 20%. L’aumento è stato sensibile anche per
le età più avanzate: la popolazione di 75 anni e più, è passata dall’8,4% del 2001 al
10,4% del 2011 ed anche i “grandi vecchi” ovvero gli ultra 85enni incrementano il loro
peso percentuale sul totale della popolazione residente dal 2,2% del 2001 al 2,8% del
2011. Oggi infatti la speranza di vita in Italia si aggira intorno agli 80 anni con valori
più elevati a vantaggio delle donne.
70
E’ da alcuni anni che la popolazione anziana supera la popolazione in età giovanile e ciò
è evidenziato dal fatto che l’immagine riportata in Fig 11 non ricorda più la classica e
definita ‘piramide dell’età’ ma assomiglia piuttosto ad ‘un albero di Natale’. Non solo si
evidenziano cambiamenti alla base, che via via si restringe, ma la riduzione riguarda
tutte le fasce giovanili, anche oltre i 20 anni. Oltre all’aumento degli ultrasessantenni, è
evidente l’aumento dei ‘grandi anziani’: la punta dell’albero di Natale si fa infatti più
consistente.
Pertanto considerando le tendenze degli ultimi anni si può prevedere un costante e
progressivo aumento percentuale delle persone anziane sul totale della popolazione;
l’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione con 65anni e più e quella con meno di
15 anni) è in progressivo aumento, passando dal 46,1 del censimento del 1971 fino al
148,7% dell’ultimo censimento 2011, ed anch’esso è destinato ad aumentare.
Fig. 11 Piramide per sesso ed età della popolazione residente ai censimenti del 2011 e
del 2001
71
Si potrebbe quindi sintetizzare nel seguente modo: negli anni ‘70 per ogni persona
anziana con 65 anni o più si avevano 2 ragazzi con meno di 15 anni; si prevede che nel
2030 tale rapporto risulterà rovesciato, ovvero ci saranno 2 anziani per ciascun
bambino.
Questa previsione è giustificata dal fatto che ci si sta avviando verso l’anzianità dei così
detti ‘baby boomers’, ovvero i nati tra gli anni 1945 e 1965.
E’ da notare che gli anziani e grandi anziani erano in numero estremamente limitato fino
ad un secolo addietro e, sebbene con un incremento, la loro incidenza è risultata essere
non significativa fino al secondo conflitto mondiale. Dal 1950 in poi si entra nel pieno
del così detto baby boom, grazie al miglioramento delle condizioni di vita e la
diminuzione dei casi di morte precoce; tuttavia già dalla metà degli anni 60 la natalità
ha iniziato a calare, continuando però ad aumentare regolarmente la lunghezza della vita
e conseguentemente il numero degli anziani. Il crollo poi dell’incidenza di giovani si
evidenzia dopo il 1980 e, come si è già fatto notare, l’indice di vecchiaia va aumentando
sempre più.
Lo scenario relativo agli ultimi decenni registra una trasformazione demografica a un
ritmo particolarmente accelerato in Italia, seconda solo al Giappone, il quale presenta un
indice di vecchiaia del 172,2%6, in corrispondenza con l’elevato ritmo di trasformazioni
sociali ed culturali.
Sui fenomeni demografici infatti agiscono, in maniera significativa, i processi di tipo
sociale, economico e culturale ed anche le politiche di welfare.
Ecco allora che vale la pena soffermarsi su come si è arrivati a un tale cambiamento di
rapporto tra la popolazione dei giovani e degli anziani. Il maggior invecchiamento della
popolazione in Italia, ma si può dire dell’Europa rispetto ad altri continenti, è certo da
attribuire ai maggiori progressi fatti, sia in termini di longevità, sia di controllo delle
nascite.
Infatti è interessate quanto evidenziato da Pugliese (2011) il quale parla di un
“invecchiamento dall’alto”: cresce la popolazione anziana per effetto dell’allungamento
della vita media, determinato particolarmente dalla riduzione delle cause di morte
precoce: “per effetto di un maggior benessere e relativa maggiore possibilità di cure
mediche, di assistenza pubblica e altre provvidenze, la vita media si allunga e questo
6 United Nation Word Population Prospect the 2008 revision
72
comporta non solo un aumento del numero di anziani, ma anche un aumento del numero
dei molto anziani” (Pugliese, 2011, p. 22). E di “invecchiamento dal basso”: ci sono
meno nascite e le variabili a tale motivazione possono essere di diversa natura,
diversamente intrecciate tra loro: economiche, sociali e culturali. Certo ha rivestito un
ruolo importante la scolarizzazione di massa e la presenza delle donne nel mondo del
lavoro, fattori che influiscono sia nell’età del matrimonio che sulla nascita del primo
figlio; oltre alla presenza o meno di servizi e/o supporti familiari per la cura dei figli.
Tutto questo poi si intreccia ovviamente con le variabili economiche e di costume.
Questo cambiamento, così importante nella sua portata numerica, coinvolge tutti gli
aspetti della vita: individuale, familiare e collettiva, inclusa anche la percezione e il
“valore” che viene dato agli anziani.
3.2 Essere anziani oggi: i giovani anziani, i grandi anziani
Proprio in riferimento a questo aspetto valoriale è necessario capire chi siano gli anziani
oggi e a chi ci si riferisce quando si usa questo termine. Questo perché all’evidente
mutare delle condizioni di vita degli anziani, si collega necessariamente una tematica
che riguarda le rappresentazioni sociali della vecchiaia e lo status degli anziani nelle
diverse società.
Nel linguaggio comune si sono sempre usati, come sinonimi, i termini “vecchi” e
“anziani”, più recentemente si è aggiunta la distinzione tra anziani e grandi anziani, tra
vecchi e grandi vecchi. Tuttavia definire dal punto di vista sociale, il concetto di
vecchiaia è estremamente difficoltoso ed occorre che venga chiarito, di volta in volta,
l’uso di questo termine.
Dal punto di vista demografico, fino ad un passato recente, convenzionalmente si era
stabilito che l’età anziana iniziasse al compimento del 60° anno d’età; successivamente
l’inizio di tale fase del ciclo di vita è stata spostata ai 65 anni, in corrispondenza con
l’età di cessazione del lavoro e del pensionamento.
Come si è evidenziato tramite l’illustrazione dei i principali andamenti demografici si è
ampliato il numero dei sessantenni e, in modo ancora più significativo, quello degli
appartenenti alle classi di età ancora più anziane. La riduzione delle cause di morte
73
precoce, con i progressi della medicina e del miglioramento delle condizioni socio
sanitarie, ha fatto sì che vi fosse questo aumento, che ha anche determinato un
significativo miglioramento delle loro condizioni fisiche, tale da poterlo definire come
un ‘ringiovanimento’ di questa fascia d’età.
Pertanto non è solo aumentata la probabilità di arrivare in età anziana, ma anche di
arrivarci in buona salute. Ciò ha fatto sì che attraverso l’evidenza del ruolo degli anziani
nella società contemporanea, dei loro comportamenti, delle loro aspettative e delle
opportunità che il tempo di vita ha dato loro, venga spostato in avanti di almeno 10 anni
l’ingresso nella vecchiaia, classicamente inteso. Si può dire che la fase precedente alla
soglia dei 75 anni è quella in cui si sono più drasticamente modificati i comportamenti
attesi.
Infatti oggi i ‘giovani anziani’, quella nella fascia d’età che va dai 65 ai 74 anni, sono di
solito molto attivi e coinvolti in varie attività. Si tratta per lo più di persone autonome e
dinamiche. La situazione dei ‘grandi anziani’ è più complessa e dipende essenzialmente
dalla loro condizione psicofisica.
Da alcuni anni a questa parte, certamente più di un tempo, ogni individuo può ‘sentire’
di avere, sia per caratteristiche biologiche, personali e sociali, un’età diversa da quella
contrassegnata dal calendario, che sia più o meno distante da questa. Questo divario
dipende da diversi fattori: innanzitutto il patrimonio biologico individuale e lo stato di
salute, poi anche il reddito e la cultura, ed anche la storia di vita, nel suo complesso.
Si può dire quindi di essere di fronte ad un ringiovanimento degli anziani, che
continuano a mantenere una vita sociale e stili di vita considerati fino a qualche
generazione o decennio addietro appannaggio solo dei più giovani.
Questo modifica la loro situazione da diversi punti di vista, a cominciare dalle loro
aspettative e dai loro comportamenti e in rapporto a ciò anche le aspettative della società
nei loro confronti: comportamenti e ruoli che da loro ci sia aspetta.
Gli anziani sono quindi considerati a pieno titolo soggetti cruciali per la società, in
quanto attivi consumatori ed elettori forti, in quanto così numerosi: “l’anziano che si
presenta sulla scena sociale, reclamando una sua soggettività e un protagonismo che
sino a oggi gli erano stati negati, è da molti punti di vista assolutamente nuovo” (Golini
e Rosina, 2011, p. 97).
74
Questo ‘nuovo anziano’ ha di fronte un periodo di vita, mediamente lungo oltre
vent’anni, che Laslett (1992) ha definito il “tempo liberato” aperto a nuove possibilità di
espressione e di attività.
Ecco allora che, come già ampiamente riconosciuto da più studiosi, di fatto esiste una
costruzione sociale dell’età. E’ grazie a Laslett che viene introdotto il concetto di terza
età come periodo già compreso tra la seconda età, quella adulta, e la quarta età, quella
della dipendenza.
Per questo studioso infatti la “prima età” è quella della dipendenza, della
socializzazione e dell’educazione; la “seconda età” è quella riferibile alla maturità,
all’indipendenza, alla responsabilità familiare e sociale; mentre la “terza età” è,
finalmente, quella della realizzazione personale, alla quale si aggiunge poi una “quarta
età” di nuovo della dipendenza e della decadenza fisica.
Nella terza età non si è generalmente né dipendenti, né obbligati al lavoro. Questa età
non ha un inizio (o un termine) cronologico preciso in quanto dipende in buona parte
dai diversi contesti di vita. L’elemento di novità che Laslett riscontra, sottolineando la
ricchezza di opportunità che si presentano oggi, per chi ancora si trova in buona salute e
con una discreta condizione di reddito (soprattutto legato alla presenza di pensioni), è
l’uscita degli anziani da “un limbo inteso come la condizione dell’abbandono e
dell’oblio, il luogo delle cose dimenticate e non volute” (Laslett, 1992, p. 245). Questi
anziani possono utilizzare il tempo libero a loro disposizione.
“Pertanto la scansione tripartita (formazione, lavoro, riposo) non funziona più come
prima” (Pugliese, 2011, p. 62).
3.3 Le politiche a sostegno della popolazione anziana tra protezione e prevenzione
La trasformazione demografica e valoriale che ho richiamato si sta manifestando
sempre più, con ricadute evidenti sia in ambito economico che nella sfera sociale, sia
sulle scelte politiche.
In Italia si sono utilizzate le pensioni come ammortizzatore sociale, seguendo una logica
assistenzialistica e clientelare, ma in questo modo il sistema è diventato
progressivamente insostenibile.
75
Infatti il nostro sistema di welfare rientra in quello che è stato definito “modello di
welfare mediterraneo” (Esping Andersen, 1990) caratterizzato appunto dalla presenza
importante della spesa pensionistica, rispetto a quella destinata ai servizi. Le
caratteristiche di tale sistema di welfare si possono così riassumere:
prevalere delle prestazioni in danaro rispetto alla fornitura di servizi o per lo
meno un maggior peso alla prime (benefit in cash) rispetto alle seconde (benefit
in kind) diversamente da quanto si registra nei modelli europei del Nord;
una dicotomia tra beneficiari forti e beneficiari deboli, per cui alcuni strati della
popolazione sono virtualmente esclusi dal sistema dei benefici diretti (chi non è
presente nel mercato del lavoro, in particolare donne e giovani);
un ruolo dei tre attori centrali della fornitura dei servizi di protezione sociale:
mercato, stato e famiglia (welfare mix) dove però la famiglia è sovraccaricata di
responsabilità (anche per la cura degli anziani).
Inoltre alla prevalenza della maggiore incidenza delle pensioni rispetto alla altre voci
della spesa sociale, vanno anche aggiunti i trasferimenti economici di carattere
assistenziale (sussidi di invalidità e altro) che continuano ad avere un peso rilevante.
Questa modalità risulta essere una ulteriore complicazione del sistema di welfare
italiano, in quanto queste provvidenze economiche (quali pensioni di disabilità,
indennità di accompagnamento, assegni di cura e simili) vengono spesso erogate senza
vincolo di destinazione, e in alternativa quindi a servizi in natura. Questa modalità
conferisce al cittadino, oltre alla libertà di scelta, anche la responsabilità di come meglio
impiegare tali provvidenze, per far fronte alle proprie esigenze di cura. Questo è uno dei
motivi che ha favorito lo sviluppo di un ampio mercato privato dell’assistenza, basato
sulle prestazioni erogate a domicilio, spesso in forma sommersa e per questo spesso
anche a basso costo, da persone prevalentemente immigrate coabitanti con la persona
anziana da accudire.
76
Certamente questo fenomeno si è esteso anche in virtù del fatto che, per conciliare
l’impegno lavorativo, più spesso delle figlie femmine, con la loro crescente presenza
sul mercato del lavoro, le famiglie si avvalgono sempre più dei servizi delle immigrate.
In Italia troviamo infatti il maggior numero di lavoratori stranieri impegnati nei ‘servizi
alle famiglie’. In Italia l’assistenza familiare alla persona anziana non autosufficiente
rappresenta quindi ancora la regola, con un numero crescente di nuclei che impiegano
privatamente persone immigrate come assistenti familiari.
Questo tipo di soluzione assistenziale, sostenuta appunto anche se indirettamente, ma in
buona parte dalle provvidenze economiche pubbliche, è difficile da quantificare, dato
l’elevato numero di illegalità che lo caratterizza. Si tende oggi a collocare il numero dei
lavoratori in questo ambito oltre gli 800mila di cui quasi cinque su sei sono persone
immigrate, contro l’uno su cinque di fatto registrate agli inizi del 1990 (studio
Eurofamcare, 2001).
Le citate ulteriori prestazioni economiche in realtà hanno rappresentato una forma di
integrazione della pensione degli anziani e del reddito complessivo delle famiglie, che
ha quindi ulteriormente caratterizzato in senso monetario l’intervento del sistema
italiano di welfare per queste categorie e che ha quindi rappresentato un implicito invio
alle famiglie a continuare ad occuparsi dei loro parenti anziani.
Ma anche se la famiglia continua ad avere un ruolo determinante, con l’inasprirsi della
crisi economica, proprio chi è deputato storicamente ad occuparsi dei propri vecchi e a
mantenerli, cioè i figli, vivendo oggi loro stessi ad un livello minimo di sussistenza, non
sono più in grado di garantire questa possibilità.
Ciò ha evidenziato, in tutti i paesi occidentali, come sia il miglioramento delle
condizioni di salute ed in particolare delle condizioni economiche degli anziani, ha fatto
sì che oggi dentro le reti familiari, i nonni si trovino più nella posizione di re-distributori
di risorse verso le generazioni più giovani, che di destinatari.
Tutti questi fattori hanno accentuato, anche se con differenziazioni territoriali, che esiste
un problema generale di carenza di strumenti pubblici attualmente previsti per
rispondere alla crescente domanda di assistenza.
Come ho già citato nel primo capitolo, prima della rivoluzione industriale la funzione e
la responsabilità di assistenza verso gli anziani, così come ad altri soggetti bisognosi,
erano assunte da istituzioni religiose, ma anche statali. Pertanto non mancava né
77
l’assistenza né le modalità di valutazione per accedervi, ma va sottolineato il fatto che
questi soggetti venivano individuati come oggetto di ‘carità’ e non come portatori di un
diritto all’assistenza e alla cura, quale acquisizione fondamentale proprio della nostra
epoca. Dagli anni ‘70 poi il sistema di welfare italiano si è basato su un’organizzazione
dell’assistenza articolata su due distinti settori: quello sanitario e quello sociale,
tradizionalmente caratterizzati da criteri di eligibilità, gestione e finanziamento diversi.
Sebbene la volontà della Riforma (L.328/00) sia stata quella di superare questo mancato
coordinamento, attraverso l’attivazione di prestazioni sociosanitarie e, anche se dalla
seconda metà degli anni ‘90 si è attuato un incremento della spesa sociale destinata agli
anziani e l’introduzione di misure innovative che hanno anche modificato il rapporto
tra pubblico e privato nella fornitura dei servizi di cura per gli anziani, occorre
comunque tenere presente che questa tipologia di servizi rivolti agli anziani sono stati
caratterizzati storicamente, e lo sono tuttora, da un minor grado di universalismo
rispetto alla fornitura di servizi sanitari o a settori come l’istruzione.
Ecco perché si è reso necessario attivare servizi integrati, proprio nel rispetto della
correlazione stretta tra i diversi bisogni dell’anziano, che spesso è portatore di
problematiche sia di tipo sanitario che sociale. “L’integrazione socio sanitaria è, in tal
senso, una delle sfide più importanti nell’attivazione della rete dei servizi, in generale, e,
in particolare, per gli anziani” (Franzoni e Anconelli, 2003, p. 100).
Un strumento, precursore della realizzazione di tale obiettivo, fu il “Progetto Tutela
Salute degli Anziani” del 1992, emanato quale stralcio del Piano Nazionale Sanitario (L.
833/78) che dava indicazioni alle Regioni per definire le linee in materia di assistenza
domiciliare integrata; per le case protette e per le residenze sanitarie assistite.
Altro strumento per realizzare l’integrazione fra servizi sociali e sanitari fu l’attivazione
delle Unità di Valutazione Geriatriche (UVG), che individuava il gruppo
multidisciplinare di operatori, che nel certificare il grado di non autosufficienza
dell’anziano, doveva anche indicare l’obiettivo dell’intervento. Strumento ancora oggi
utilizzato, nella sua accezione più ampia di equipe di valutazione multidimensionale e
multidisciplinare.
Il Piano Nazionale per i Servizi Sociali del 2001/2003, già richiamato nel primo
capitolo, propone nuovi capisaldi del sistema integrato di interventi e servizi, che si
78
possono sintetizzare nelle seguenti espressioni chiave, citate nel testo di Franzoni e
Anconelli (2003):
personalizzazione e umanizzazione degli interventi;
attivazione di rete di risorse formali e informali;
integrazione tra servizi sociali e sanitari;
collaborazione tra pubblico e privato;
sostegno alla domiciliarità;
miglioramento della qualità nelle strutture residenziali.
Per poter perseguire questi obiettivi con la legge n.296/06 (legge finanziaria 2007)
venne istituito il Fondo Nazionale per le Non Autosufficienze (FNA), finalizzato a
garantire su tutto il territorio nazionale l’attuazione di livelli essenziali delle prestazioni
assistenziali in favore delle persone non autosufficienti. Con questa misura si intese
voler assicurare omogeneità agli interventi realizzati dalle Regioni in favore delle
persone in condizioni di limitata autonomia, attraverso un sistema di assistenza che
assicurasse la piena integrazione delle prestazioni sociali con quelle sanitarie.
Tali risorse vengono attribuite alle Regioni in funzione della popolazione anziana non
autosufficiente e d'indicatori socio-economici. FNA è quindi un finanziamento diretto
ai servizi socio-sanitari rivolti alle persone in condizioni di non autosufficienza, anziani
e non, e a coloro che se ne prendono cura.
Questi interventi sono stati gestiti prevalentemente al livello locale, in base alla
competenza regionale che è stata rafforzata anche a seguito della modifica del Tit V
della Costituzione, con differenziazioni da regioni a regioni, in quanto l’erogazione dei
servizi socio assistenziali, forniti su base municipale, ma finanziati anche con maggiore
prelievo fiscale regionale, presenta una forte variazione territoriale in termini di livello
di risorse impiegate e di tipi di supporti attivati.
Si può infatti fare riferimento a diverse ricerche che concordano nell’individuare quelle
che vengono definite come le “4 italie”, tra queste si prende a riferimento quella
condotta da Catalbiano nel 2004 per IREF7 nella quale si sono comparati: spesa, offerta,
7 Istituto di Ricerche Educative e Formative
79
domanda privata, pressione demografica (invecchiamento e struttura delle famiglie) con
il risultato di individuare appunto quattro diversi sistemi di welfare nella stessa Italia:
1) Welfare munifico: Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta;
(dispongono di risorse maggiori degli altri territori)
2) Welfare efficiente: Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia
Romagna;
3) Welfare sotto pressione: Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Sardegna;
4) Welfare fragile familista: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata,
Calabria, Sicilia.
Il confronto tra questi quattro sistemi sembrerebbe confermare l’esistenza di un legame
negativo tra livello di servizi sociali erogati da un lato e l’intensità dell’assistenza
informale prestata dalla famiglia, dall’altro. Inoltre si evidenzia la conseguenza che
laddove è presente un forte invecchiamento della popolazione, non risulta però
corrispondente un livello sufficientemente elevato di servizi pubblici, in particolare
quindi nei regimi di welfare ‘efficiente’ e ‘sotto pressione’ del Centro – Nord, aumenta
maggiormente la domanda di servizi di cura privati.
Nelle diverse Regioni, anche se come detto in maniera differente, è comunque attiva
una rete integrata di sevizi, che rappresenta la risposta concreta in termini di azioni e
interventi ai bisogni della popolazione non autosufficiente, soprattutto per gli anziani
che si trovano in tali condizioni.
Tali tipologie di servizi si possono sintetizzare nello schema proposta anche da Franzoni
e Anconelli (2003), come riportato in figura 12.
80
Fig.12 Servizi domiciliari, semiresidenziali e residenziali.
SERVIZI DOMICILIARI
ASSISTENZA DOMICILIARE INTEGRATA: prestazioni di carattere socio-assistenziale e sanitario
erogate a domicilio ad anziani non autosufficienti sulla base dei programmi assistenziali
personalizzati dall’UVG;
ASSISTENZA DOMICILIARE: intervento socio-assistenziale svolto al domicilio dell’anziano
autosufficiente o parzialmente non autosufficiente;
ASSEGNO DI CURA: contributo economico a favore delle famiglie disponibili a mantenere
l’anziano non autosufficiente nel proprio contesto. Contribuzione per le attività socio-
assistenziali domiciliari di rilievo sanitario previste dal programma sanitario personalizzato.
SERVIZI SEMIRESIDENZIALI
CENTRO DIURNO ANZIANI: struttura semiresidenziale socio-sanitaria a sostegno delle famiglie
per anziani sia parzialmente che totalmente non autosufficienti.
SERVIZI RESIDENZIALI
CASA RESIDENZA ANZIANI (CASA PROTETTA E RESIDENZA SANITARIA ASSISTITA) : struttura assistenziale
residenziale a rilevanza sanitaria destinata ad anziani in condizioni di non autosufficienza
fisica o psichica. Si tratta di anziani non autosufficienti affetti da patologie croniche
degenerative a tendenza invalidante;
ALTRE SOLUZIONI RESIDENZIALI: appartamenti o case alloggio protetti, case albergo, case famiglie.
Ospitano anziani parzialmente non autosufficienti.
In sintesi, poiché la grande e crescente incidenza della componente anziana sulla
popolazione comporta certamente costi per il sistema sociosanitario e in particolare per
il sistema previdenziale, occorre tenere conto che non si tratta solo di una questione
economica, ma anche della necessità di affrontare i problemi sociali e psicologici delle
famiglie composte da soli anziani, in progressivo aumento, o di anziani soli.
Queste esigenze hanno dato vita a processi di elaborazione di nuove strategie e azioni di
riforma fortemente orientate dal’Unione Europee e tutti largamente ispirati al principio
di ‘attivazione sociale’, da attuare, in particolare per gli anziani, nel loro contesto di
vita, nella loro casa, nel loro quartiere, nella loro città.
81
3.3.3 Gli anziani come risorsa
In Italia le prime iniziative di coinvolgimento degli anziani, a titolo volontario, in
attività di utilità sociale promosse da alcuni Comuni risalgono agli anni ’70, attraverso
l’attivazione di convenzioni. Da una decina di anni poi si sta facendo strada un discorso
pubblico basato sul binomio strategico “anziani / risorsa” che inizialmente sembrava
essere patrimonio solo delle associazioni della terza età, fra cui in Italia spiccano
maggiormente i sindacati dei pensionati e quelle legate al mondo cattolico, che
attraverso le loro strutture e organizzazioni rappresentano le due principale ‘agenzie’ di
attivazione degli anziani nel sociale (Ires 2008)8.
Vengono individuate quattro dimensioni principali relativamente alla motivazione
partecipativa e alla modalità prevalente attraverso cui e per le quali i soggetti anziani si
rendano disponibili all’attività volontaria:
motivazione ‘basilare’: sollecitata da un desiderio chiaro di socializzazione che
si attua attraverso la partecipazione ai centri sociali per anziani, ai corsi e
università della terza età, nelle iniziative culturali e turistiche;
motivazione ‘reattiva’: mossa dal mettersi a disposizione per fare qualche cosa
di utile e si esplica nelle organizzazioni per la raccolta fondi, nell’ impegno
civico nei Comuni (es: nonni civici nei musei e nelle biblioteche);
motivazione ‘solidale’: che risente di un coinvolgimento profondo nel dedicarsi
agli altri attraverso organizzazioni quasi ‘professionali’ ;
motivazione da ‘attore sociale’: in quanto si ha la volontà di far contare di più gli
anziani nella società e si esercita nelle organizzazioni strutturate, quali ad
esempio sindacati e movimenti cattolici.
Secondo le indagini statistiche sull’uso del tempo (Istat 2006), gli anziani di oggi si
collocano ai primi posti per tempo dedicato al volontariato rispetto ad altri
raggruppamenti d’età.
L’utilizzo del termine generico “volontariato” è però di fatto una semplificazione, in
quanto questa nozione chiama in causa diversi tipi di adesione e di differenziazione
8 Istituto di Ricerca Economico Sociali
82
interna a questo mondo, che è appunto del volontariato, ma anche dell’associazionismo
sociale e diverse sono le caratteristiche qualitative e quantitative della partecipazione
sociale degli anziani in questi ambiti. L’unica indicazione che si può certo utilizzare è
data dal CESE9 che già nel 2006 individuava tre criteri ritenuti indispensabili perché
un’attività sia da considerarsi volontaria, cioè essa deve essere caratterizzata da:
libertà della scelta;
gratuità della prestazione (a parte l’eventuale rimborso delle spese sostenute);
a sostegno o a favore di persone o gruppi non appartenenti al nucleo familiare
del volontario.
La normativa italiana disciplina i diversi ambiti del Terzo Settore (volontariato,
promozione sociale, cooperazione sociale, associazioni e società sportive
dilettantistiche, ONLUS, organizzazioni non governative) e per ognuno è prevista una
propria normativa, con una regolamentazione di fatto disorganica. Le due modalità
nelle quali maggiormente gli anziani si trovano coinvolti sono comunque il volontariato,
normato con la Legge n.266/91, e l’associazionismo e la promozione sociale,
regolamentate dalla Legge n. 383/00.
Non si entrerà qui nel merito e nel dettaglio dei contenuti delle leggi, ma è interessante
far notare che in nessuna di queste sono previste forme regolative specifiche per gli
anziani.
Attualmente sono al vaglio del Governo le ‘Linee Guida per una Riforma del Terzo
Settore’ che mira tra l’altro alla creazione di un Testo Unico, ma anche in queste non vi
è, per ora, un richiamo specifico al ruolo e al coinvolgimento degli anziani.
Invece l’Unione Europea già nel Libro Verde del 2005 poneva l’attenzione alle modalità
di sviluppo delle attività che consentono di occupare i senior nel settore associativo e
dell’economia sociale, dichiarando proprio la necessità di favorire la partecipazione
delle persone in pensione. Il Parlamento Europeo ha recepito questa necessità e ha posto
tra l’altro l’attenzione al numero dei potenziali volontari, in conseguenza, come detto,
del cambiamento demografico, ed ha attivato la Commissione Europea a promuovere
programmi specifici per i volontari anziani.
9 Comitato Economico e Sociale Europeo
83
Sembra però esserci ancora incertezza circa le modalità di integrazione di questa risorsa,
ma certo non è difficile individuare nelle intenzioni degli attori sociali (sindacati e
associazioni di anziani) ed oggi anche in quelle dei policy maker, nella promozione del
principio partecipativo, la convergenza per una serie di obiettivi sottostanti il ‘semplice’
principio dell’attivazione sociale delle persone mature. “Tali obiettivi sono riconducibili
all’invecchiamento in buona solute, in quanto è oramai acclarato che socializzazione e
progettualità rappresentano forti fattori di riduzione e di posticipazione dei processi di
fragilizzazione fisica e eventualmente anche psichica proprio delle età avanzate” (Golini
e Rosina, 2011, pag 163). Perché invecchiare bene, cioè in buona salute, implica in
primo luogo la capacità di restare fisicamente autonomi, senza quindi avere la necessità
di essere accuditi o aiutati per le necessità della vita quotidiana, ma vuol dire anche
avere la possibilità di restare impegnati nel lavoro (di mercato o di volontariato) il più a
lungo possibile e di essere quindi soggetti attivi e non oggetti di cura.
Aspetti questi che hanno notevole implicazione nella programmazione e nei relativi
costi delle politiche di welfare. Infatti se per OMS (2011) l’invecchiamento della
popolazione rappresenta “un trionfo della società moderna”, ciò pone anche problemi di
adeguamento delle istituzioni e delle infrastrutture, per far sì che tale successo
rappresenti un’opportunità e non un rischio.
Quindi “invecchiare bene è una delle massime espressioni della solidarietà
intergenerazionale” (Zanfrini, 2012, p. 11) ed è per questo che l’Europa, nel 2012 (anno
dedicato all’invecchiamento attivo), si è data la finalità di voler cambiare la classica
visione degli anziani quale onere e peso della società, rivalutando le competenze e le
esperienze acquisite in particolare dai giovani anziani, riconoscendoli come ancora in
grado di essere utili, proprio per le possibilità di rimanere più a lungo in salute e quindi
attivi, nella consapevolezza che ogni sforzo per preservare la loro salute, sia fisica che
mentale, renderà meno oneroso il carico per le generazioni future.
84
3.4 L’Invecchiamento attivo e la programmazione partecipata
Nelle pagine precedenti ho sinteticamente ripercorso il cammino che ha condotto
l’affermarsi di azioni e interventi atti a promuovere l’invecchiamento in buona salute e
invecchiamento attivo.
Ma il tema non è nuovo, già nel 1982 è stato presentato a Vienna il “primo Piano
d’azione internazionale sull’invecchiamento” condotto dall’ONU, che aveva prodotto
una serie di raccomandazioni a sostegno degli anziani; ma la vera svolta di attenzione si
è avuta nel 1994 al Cairo con la conferenza sulla popolazione con un intero paragrafo
dedicato al problema dell’invecchiamento demografico, visto come tendenza generale.
Il 1999 venne poi intitolato ‘anno internazionale degli anziani’ utilizzando già negli
slogan l’accostamento ‘invecchiamento attivo’ e nel 2002 si tenne a Madrid la “seconda
assemblea mondiale sull’invecchiamento”. Dalla quale ne uscì la trasformazione
dell’immagine, avuta sino ad allora, di un mondo troppo sovrappopolato, per passare
all’evidenza dell’immagine di un mondo troppo sovrappopolato di vecchi. Tanto che la
Commissione delle Comunità Europea nel 2005 divulga il libro verde “Una nuova
solidarietà tra le generazioni di fronte ai cambiamenti demografici”, che traccia
nuovamente l’analisi demografica dell’invecchiamento della popolazione e definisce
quindi la necessità di attuare una solidarietà tra le generazioni, per avere giovani meglio
integrati e per dare ai senior ‘un nuovo posto’ e prendendo atto della solidarietà da
mettere in campo verso le persone molto anziane.
Il 2012 UE ha proclamato ‘anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà
tra le generazioni’ portando una particolare attenzione:
al settore dell’occupazione, nel senso di tentare di offrire ai lavoratori anziani
migliori opportunità nel mercato del lavoro;
alla partecipazione alla vita sociale, dando risalto alla ricchezza sociale
rappresentata dalle persone anziane, partecipazione che può aiutarle e offrire
loro una condizione di vita più gratificante;
all’autonomia, potendo disporre di tutte le risorse per rallentare il fenomeno
naturale del peggioramento delle condizioni di salute, mantenendo quindi il
controllo della propria vita il più a lungo possibile.
85
Anche in funzione di questo nel 2013 la Comunità Europea all’interno del Progetto
“central european platform for ageing society” ha pubblicato il libro verde: “la strategia
per l’invecchiamento per l’Europa Centrale” con l’obiettivo di definire una strategia
transnazionale di contrasto ai fenomeni di invecchiamento attraverso lo scambio di
“buone prassi”, individuando alcune priorità strategiche, quali sfide per i diversi Stati
coinvolti, tra le quali anche la necessità di adeguare i sistemi di welfare (in particolare
pensionistico e socio-sanitario) ai mutamenti demografici.
Con il termine ‘invecchiamento attivo’ (active ageing) ci si riferisce quindi a quanto
specificato dall’OMS (2011) che lo definisce “un processo di ottimizzazione delle
opportunità relative a salute, partecipazione e sicurezza, allo scopo di migliorare la
qualità della vita delle persone anziane” e già OECD10 nel 2006 aveva definito questo
concetto come “la capacità delle persone divenute anziane di condurre una vita
produttiva nella società e nell’economia. Ciò implica la possibilità di compiere scelte
flessibili nel modo di trascorrere il tempo: nella formazione, nel lavoro, nel
divertimento e nel fornire cura”.
E’ un concetto quindi con molteplici dimensioni, ma in primo luogo è il richiamo
all’aspetto dell’autonomia, nel senso sia dell’attività lavorativa sia in generale, cioè
dell’attività umana: dall’impegno nelle relazioni sociali alle attività culturali, allo studio,
alla formazione, all’informazione. Oggi gli anziani infatti tendono sempre più a
svolgere attività, ad accedere e a gestire informazioni, a mantenere relazioni che
appunto ne rallentano l’invecchiamento.
L’apprendimento permanente (lifelong learning), quindi durante tutta la vita, ha
certamente un ruolo essenziale anche per un invecchiamento attivo di successo, e ciò si
attua sia attraverso la partecipazione ad azioni formative, ma anche attraverso la messa
in pratica di attività, quali quelle offerte dal volontariato.
Se la parola “attivo” fa quindi riferimento alla “partecipazione” nei diversi ambiti della
vita, oltre a quello del lavoro, sia sociale, culturale, civico, etc; il concetto di
“invecchiamento attivo” richiama necessariamente ad un approccio basato sui diritti,
non più solo sulle necessità. L’invecchiamento attivo andrebbe quindi sostenuto
10 Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
86
cercando di concretizzare una serie di interventi anche preventivi, che l’Osservatorio
ISFOL11 nel 2012 ha così elencato:
sostenere misure per il pensionamento flessibile, attraverso nuove
sperimentazioni come il part-time (metà lavoro e metà pensione);
lottare contro le barriere discriminatorie dell’età e favorire un’adeguata
formazione lungo tutto l’arco della vita;
migliorare la salute nei luoghi di lavoro per aumentare la qualità della vita delle
persone in generale e in previsione dell’invecchiamento;
sostenere la partecipazione sociale degli anziani, attraverso, in particolar modo il
volontariato.
Come sottolineato, in un interessate articolo sul tema di Tesauro (2012), il concetto di
invecchiamento attivo richiama i concetti di capacità, riflessività e pratiche.
Riprendendo l’approccio di Sen, già richiamato nel precedente capitolo, “il tema diventa
cioè cosa possiamo essere o fare invecchiando, quali condizioni di vita possiamo
realizzare e attraverso quali capacità” (Tesauro, 2012, p. 56). Si restituisce così
centralità al soggetto, andando oltre l’aspetto meramente produttivo, lavoristicamente ed
economicamente inteso. Mentre “il concetto di identità riflessiva consente di rileggere
l’invecchiamento attivo recuperando la dimensione del farsi dell’invecchiamento
attraverso saperi e competenze via via modificabili” (Tesauro, 2012, p. 57). E’ il modo
nuovo di ri-mettersi in gioco, di re-inventarsi il tempo. Le pratiche poi “sono azioni
situate e ripetute nel tempo che performano soggettività e apprendimenti situati”
(Tesauro, 2012, p. 56). L’anziano quindi apprende ed ha appreso attraverso queste
pratiche, si è plasmato e si inserisce in tal modo nella sua comunità e nelle relazioni
sociali che intraprende. La partecipazione così sarà la modalità di esprimere gli
apprendimenti, i sapere e le pratiche attuate nel corso della vita.
Gli anziani di oggi e ancor più quelli di domani dovranno certo fare dell’essere attivi
una virtù oltre che una necessità, pertanto incentivare la partecipazione degli anziani
deve già essere considerato un obiettivo prioritario e occorre quindi valutare quali
politiche possano essere più efficaci in questa direzione.
11 Istituto per lo Sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori
87
La generazione degli attuali ‘giovani anziani’, che ha vissuto la sua fase giovanile e di
formazione nel conteso culturale degli anni 60/70, appare particolarmente portata alla
partecipazione. Si tratta infatti di una generazione che nel complesso ha avuto una
buona istruzione, affacciandosi alla vita civile e sociale nel biennio 1968/69
caratterizzato fra l’altro da una forte cultura partecipativa, sia come espressione nel
modo del lavoro che in ambito studentesco e questi aspetti hanno coinvolto anche le
donne. E’ pertanto verosimile ritenere che l’ondata partecipativa di questa generazione
proseguirà nei prossimi anni tanto che la corrente degli over 64 è l’unica (Istat 2006) a
far registrare nel biennio 2001/2003 un aumento del tasso di partecipazione. Ma si
presenterà poi, nel tempo, il problema del ricambio generazionale, sia in termini
numerici, ma anche legati al fatto che culturalmente già oggi è evidente una minor
predisposizione alla partecipazione da parte degli attuali giovani.
Si rende sempre più evidente quanto sia importante e necessario il coinvolgimento degli
anziani, in particolare dei giovani anziani, nella programmazione del welfare
territoriale, nelle politiche che li devono vedere quali protagonisti attivi. Nel contesto
italiano, proprio per la grande attenzione posta all’invecchiamento della popolazione,
sono riscontrabili diverse esperienze di tal genere, quale ad esempio il Progetto oggetto
del mio lavoro.
89
Capitolo 4
La ricerca empirica: il Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della
vita”
4.1 L’oggetto e gli obiettivi della ricerca
Nella parte teorica del mio lavoro mi sono dedicata all’analisi della programmazione
sociale partecipata affrontando innanzitutto gli aspetti relativi alla sua definizione, al
percorso normativo e agli strumenti per una sua concreta attuazione. Infine ho meglio
circoscritto l’ambito di interesse della mia tesi: la programmazione di politiche a favore
della popolazione anziana, con specifico riferimento alla modalità per promuovere
azioni a sostegno di anziani che fanno dell’invecchiamento attivo il proprio stile di vita.
In questo mio lavoro ho adottato la prospettiva di analisi della strumentazione
dell’azione pubblica (Lascoumes e Le Galès, 2009), intendendo quindi gli strumenti per
la programmazione analizzati, non esclusivamente nella propria valenza tecnica, ma
considerandoli come vere e proprie istituzioni, espressioni di valori, norme, mappe
cognitive. In tale ottica gli strumenti vengono modificati da chi ne fa uso, ma anche
viceversa: lo strumento adoperato induce a comportamenti diversi tra gli attori
coinvolti. Sulla base delle culture presenti nel contesto in cui si è inseriti: “gli attori
sociali e politici hanno, dunque, capacità d’azione molto differenti a seconda degli
strumenti selezionati” (Lescoumes e Le Galès, 2009, p. 5).
Alla luce di questo quadro di riferimento analizzerò ora un Progetto che si è svolto nella
provincia di Bologna dal 2011 al 2013 dal titolo: “Anziani, imprenditori di qualità della
vita”.
Si tratta di una esperienza di programmazione volta alla diffusione di azioni ed
interventi per promuovere l’invecchiamento attivo della popolazione bolognese. La
realizzazione del progetto ha visto il coinvolgimento di una molteplicità di realtà
presenti sul territorio provinciale appartenenti al Terzo Settore, con caratteristiche e
finalità molto diverse tra loro, che insieme ai rappresentati di diversi enti pubblici si
sono mobilitati per sensibilizzare la popolazione a stili di vita sani. A livello operativo
la co-progettazione ha condotto alla realizzazione di cinque Laboratori tematici.
90
Lo specifico interesse che mi ha fatto rivolgere lo sguardo a questo Progetto è stato
innanzi tutto il fatto di essere un’esperienza vicina alla mia realtà; le domande a partire
dalle quali ho esplorato il progetto sono state suscitate dall’utilizzo di uno strumento di
progettazione quale il Laboratorio.
In sintesi le domande di ricerca riguardano il se e il come questo specifico strumento ha
promosso la partecipazione degli attori coinvolti, di quale tipo, attuata da chi e con chi;
il se e il come esso ha contribuito quindi a raggiungere le finalità del Progetto: la
promozione di attività mirate a favorire la socializzazione e la partecipazione,
migliorando il raccordo tra soggetti sociali del territorio e le Istituzioni Pubbliche (in
particolare AUSL e Enti Locali) e l’adozione di comportamenti utili a migliorare la
qualità della vita e i processi di invecchiamento.
4.2 La metodologia di indagine
Per realizzare il mio programma di ricerca ho condotto uno ‘studio di caso’,
metodologia che consente di generalizzare i risultati ottenuti rispetto a proposizioni
teoretiche: il mio scopo infatti è stato quello di tentare di generalizzare alcuni assunti e
non di enumerare frequenze. Nelle pagine seguenti riporterò quindi una descrizione
analitica del’esito della mia indagine.
In generale lo scopo che si persegue con uno studio di caso è proprio quello di leggere
una o più realtà specifiche che possano presentare i connotati previsti dalla proposizione
teorica iniziale e che attraverso le prove (evidences) che la realtà presenterà, consentano
di validare o falsificare la teoria (Yin, 2003). Lo studio di caso è quindi uno dei modi di
condurre ricerca nelle scelte sociali.
In particolare è una metodologia adatta nell’esame di eventi contemporanei, in quanto si
basa su molteplici tecniche e l’elemento caratterizzante risiede nella sua capacità di
trattare una grande varietà di prove: documenti, oggetti, interviste, osservazioni.
Pertanto, si può dire che uno studio di caso è un’indagine empirica che studia un
fenomeno contemporaneo entro il suo contesto di vita reale.
Per realizzare lo studio di caso in oggetto, ho consultato innanzitutto il materiale
esistente sul Progetto: le relazioni presentate ai convegni; i verbali degli incontri sia dei
91
singoli laboratori che dei momenti di coordinamento sovra-laboratoriali; la
documentazione specifica consultata e quella prodotta da ogni Laboratorio.
Ho preso sin da subito contatti diretti con l’Istituzione Minguzzi – Settore Servizio alla
Persona e alla Comunità12, che è stato (ed è tuttora) l’ente che sin da subito ha sempre
tenuto le fila del Progetto. Mi è stato messo a disposizione tutto quanto di cartaceo e
multimediale è stato prodotto e mi sono state illustrate le varie fasi di attuazione del
progetto. Inoltre i riferenti di questa esperienza si sono resi disponibili a presentare la
mia attività alle diverse persone, associazioni e enti, con le quali poi ho successivamente
preso contatto.
Quindi, attraverso una mail di presentazione inviata dall’Istituzione Minguzzi, a
quaranta persone, sono entrata in contatto con gli attori più significativi. Nella lettera ho
presentato la finalità della mia ricerca e gli strumenti che avrei utilizzato per realizzarla:
un’intervista (rivolta ad alcuni di loro) e un breve questionario (rivolto a tutti i
rappresentanti delle diverse realtà coinvolte).
Tra le quaranta persone contattate ho selezionato, per la realizzazione delle interviste,
quelle che sono risultate essere maggiormente presenti durante tutto l’arco di temo in
cui il Progetto si è svolto; ho individuato queste persone in particolare attraverso
l’analisi dei verbali di presenza. Ho contattato quindi i partecipanti che si sono
evidenziati più attivi e propositivi nel corso dello svolgimento delle diverse attività.
Tra le quaranta persone, due in particolare hanno svolto un ruolo assai significativo
nella realizzazione del progetto, anche se non direttamente coinvolte nelle attività
strutturate: la dirigente della Provincia del Servizio Politiche Sociali e per la Salute, per
il sostegno tecnico e politico all’attuazione del progetto in tutta la sua durata e il
Presidente dal Quartiere Navile: uno degli Amministratori Locali che ha raccolto gli
esiti dell’esperienza e ha tentato di applicarli concretamente, anche in termini di
programmazione locale, in particolare rispetto ad alcune tematiche affrontate nel
Progetto.
Ho svolto interviste aperte, ma focalizzate (si veda l’allegata griglia di riferimento),
seguendo quindi un ordine derivante dalla traccia finalizzata allo studio di caso.
12 L'Istituzione Gian Franco Minguzzi della Provincia di Bologna nasce nel 1980 come centro di studio e
di documentazione sulla storia della psichiatria e dell'emarginazione sociale. Nel tempo ha ampliato la
propria mission, progettando e realizzando processi di cambiamento all'interno di reti ed organizzazioni
sociali formali ed informali, pubbliche e del privato sociale, che stimolino una cultura dell'inclusione
sociale. www.minguzzi.provincia.bologna.it
92
Ho svolto le interviste nei mesi tra febbraio e marzo 2014 e sono riuscita a coinvolgere
sedici attori significativi, di questi: nove professionisti di provenienza di ente pubblico
(AUSL, Provincia e Ente Locale); sette persone di provenienza dal mondo della società
civile e dell’associazionismo.
Nei mesi tra maggio e giugno 2014, ho inviato, mezzo mail a tutti i partecipanti, i
questionari13 ed ne ho avuti quattordici di ritorno. Ho proceduto con un invio diretto e
personalizzato ad ognuno di loro, ho poi preso con alcuni contatti telefonici ed ho
provveduto ad un secondo invio per coloro che non mi avevano dato cenno di risposta.
Ho comunque fissato un termine per la restituzione, sia nel primo invio che nel secondo.
Restituzione che è stata fatta o tramite mail o in cartaceo, avendo indicato come punto
di riferimento l’Istituzione Minguzzi. Dei questionari tornati tre sono di professionisti
di provenienza da enti pubblici (su quattordici inviati) e undici dal terzo settore,
genericamente inteso (su ventiquattro inviati).
Nelle prossime pagine illustrerò gli elementi più significativi emersi nel corso del mio
lavoro sul campo. Mi soffermerò innanzi tutto sulla descrizione del contesto in cui
l’esperienza si è svolta, per meglio chiarire e rendere evidente in quale tessuto tale
Progetto abbia avuto la spinta di nascere.
4.3 Il contesto di riferimento
Alla luce del quadro teorico e degli argomenti trattati nei precedenti tre capitoli,
approfondirò la realtà regionale entro la quale il Progetto ha preso vita, per meglio
definire sia il contesto socio-demografico che politico e normativo attraverso il quale si
è contribuito a creare quell’humus utile alla sollecitazione, all’elaborazione e alla messa
in atto del Progetto, oggetto dell’indagine qui presentata.
Riprenderò quindi i concetti di governance e di welfare locale per come sono intesi e
attuati in Emilia Romagna; in particolare evidenzierò come nella mia Regione sia intesa
e praticata la partecipazione. In particolare mi focalizzerò sugli strumenti attraverso i
13 Scheda di sintesi che mi ha permesso di conoscere meglio gli attori coinvolti nel Progetto e le
associazioni, gli enti, e le organizzazioni di loro provenienza. Attraverso diciotto domande a risposta
multipla, di cui due con possibilità di risposta aperta, ho potuto meglio capire il grado di coinvolgimento,
di interesse, di motivazione dei diversi partecipanti e il giudizio complessivo sul Progetto. In appendice
copia del questionario
93
quali si è inteso attuare la governance del welfare in un’ottica di partecipazione. Si
vedrà inoltre come, oramai da diversi anni, in Emilia Romagna ci sia un’accentuata
attenzione alla popolazione anziana in una prospettiva di invecchiamento attivo.
4.3.1 L’architettura istituzionale e la governance.
Per introdurre il tema in oggetto di questa parte del mio lavoro è interessante riportare le
parole attraverso le quali la Regione Emilia Romagna, nel proprio sito web, esplicita
l’idea di governance: “processo con il quale vengono collettivamente risolti i problemi
rispondendo ai bisogni di una comunità locale. Si ha una buona governance quando
nella comunità sociale le azioni del governo (come strumento istituzionale) si integrano
con quelle dei cittadini e le sostengono. La governance sia attua con processi di
democrazia attiva e si basa sull’integrazione di due ruoli distinti: quello di indirizzo
programmatico (governo) e quello di gestione e fornitura di servizi (strutture operative e
amministrative). Un governo è strumento di buona governance quando applica principi,
mutuati dalla nuova cultura imprenditoriale, per il coinvolgimento e la
responsabilizzazione dei cittadini: centralità del cliente-cittadino; capacità di creare
visioni condivise sulle prospettive di sviluppo, comportamenti amministrativi coerenti
con tali visioni, definizioni dei risultati attesi e gestione snella per realizzarli,
apprendimento continuo, apertura al mercato, partecipazione e non gerarchia,
conferimento di responsabilità e potere alle varie componenti del sistema sociale,
perseguendo federalismo, flessibilità ed apertura organizzativa” .
Adottando questa prospettiva, anche sulla base delle buone prassi sviluppate nel proprio
sistema di welfare regionale anche precedentemente l’emanazione della legge di riforma
delle politiche sociali, Legge n.328/2000 e alla Legge 3/2001 (riforma del Titolo V), il
Legislatore regionale ha colto la necessità di introdurre principi e strumenti innovativi
per garantire il carattere di universalità, pari opportunità e diritto di cittadinanza sociale,
e nel 2003 ha approvato la Legge 2: “Norme per la promozione della cittadinanza
sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. E’
questa la legge regionale di riforma dei servizi sociali, con la quale in questa Regione si
è dato il via ad un importante lavoro di riorganizzazione, coinvolgendo una molteplicità
di enti e di amministrazioni sull’intero territorio regionale.
94
L’innovazione della Legge regionale 2/03, emanata sulla scia della riforma del Titolo V
della Costituzione (che come già ricordato, rappresenta il mutamento costituzionale che
ha trasferito alla Regioni competenza legislativa esclusiva in materia di servizi e di
interventi sociali), si trova nelle indicazioni date per la realizzazione di un sistema
integrato tra le politiche sociali e le altre politiche settoriali, in particolare modo quelle
sanitarie, mediante la partecipazione e la cooperazione tra soggetti pubblici e privati che
vi operano a vario titolo, attribuendo loro specifiche responsabilità, così come stabilito
dal principio di sussidiarietà, in continuità quindi con quanto indicato nella L. 328/2000.
In sintesi le parole chiave di tale testo di Legge possono essere riassunte in integrazione;
partecipazione; personalizzazione; sussidiarietà e responsabilità.
Fig.13 Attori LR 2/2003.
Fonte VI° Rapporto Regionale – Regione Emilia Romagna (2008)
(*‘altri soggetti’ comprende ASL, ASP e tutti quei soggetti non inclusi nel Terzo settore)
Gli attori del sistema di governo individuati dalla legge regionale sono pertanto:
la Regione (artt. 19, 27, 28): esercita funzioni di programmazione e
coordinamento, approva il Piano Regionale e definisce i requisiti minimi e le
procedure per autorizzazione ed accreditamento di strutture e servizi;
le Province (artt. 18, 28, 29): promuovono l’integrazione delle politiche sociali
con le altre politiche, in particolare lavoro, casa, formazione professionale,
istruzione, educazione, pianificazione territoriale e promuovono il concorso dei
*
95
soggetti del Terzo Settore e delle ASP alla realizzazione del sistema integrato;
predispongono Programmi Provinciali;
i Comuni (artt. 15, 16, 29): titolari delle funzioni amministrative e di
programmazione, progettazione, realizzazione del sistema locale a rete,
dell’erogazione dei servizi e delle prestazioni. Esercitano il complesso di queste
funzioni in forma singola o associata, di norma in ambito distrettuale;
il Terzo Settore (art. 20) - ASP (art. 25): partecipano alla programmazione,
progettazione, realizzazione ed erogazione degli interventi del sistema locale dei
servizi sociali.
I livelli di governance in campo socio-sanitario individuati in Emilia Romagna sono tre:
la Cabina di Regia Regionale del Welfare (istituita nel 2005): esercita funzioni
di confronto, coordinamento e integrazione tra la Regione e il sistema
Autonomie Locali, in materia di politiche sanitarie e sociali. Lo strumento
specifico di supporto per gli ambiti sociale e sanitario è il Comitato Tecnico
Scientifico della Cabina di Regia;
la Conferenza Territoriale Socio Sanitaria (CTSS - istituita nel 1994):
rappresenta un livello intermedio. E’ l’organo più specificatamente finalizzato al
governo socio-sanitario. Il suo principale limite è l’assenza di riconoscimento di
personalità giuridica, fatto che impedisce all’organismo di assumere
formalmente decisioni immediatamente operative. Lo strumento tecnico a
sostegno delle funzioni tecnico-amministrative è individuato nell’Ufficio di
Supporto alla CTSS, a cui sono affidati i compiti di istruttoria tecnica e
monitoraggio, e in particolare della elaborazione dell’“Atto di coordinamento e
indirizzo provinciale triennale”;
il Comitato di Distretto (istituito nel 2004): ha ruolo di concertazione tra tutti i
Comuni dell’ambito territoriale e AUSL (Direttore di Distretto). E’ l’organismo
di riferimento con compiti di programmazione, formazione e committenza.
L’ambito distrettuale diventa la sede elettiva dell’integrazione. A livello
distrettuale lo strumento di supporto al Comitato di Distretto è l’Ufficio di
96
Piano, costituito per il tramite di una apposita convenzione tra i Comuni
dell’ambito distrettuale e l’Azienda USL.
Gli strumenti programmatici previsti dalla L.328/00, richiamati nei capitoli precedenti, e
ripresi dalla L.R. 2/03, e dei quali ora illustrerò brevemente i contenuti, ritenuti i pilastri
della programmazione regionale e locale, sono il Piano Sociale e Sanitario Regionale e
il Piano di Zona, entrambi di durata triennali, e l’Atto di Indirizzo Territoriale, elaborato
dalle CTSS, che prevede la redazione del Profilo di Comunità.
Fig 14 Il ciclo programmatorio, secondo il Piano Sociale e Sanitario 2008 -2010 – Regione
Emilia Romagna - Fonte Dossier RER n. 192/2010
Livello Strumenti pluriennali Strumenti annuali
Regionale Piano regionale sociale e sanitario.
Piano regionale per la prevenzione.
Programma annuale regionale di
ripartizione delle risorse del Fondo
sociale regionale
Linee annuali di programmazione e
finanziamento del SSR.
Programma annuale di ripartizione del
Fondo regionale per la non
autosufficienza
Intermedio
(Provincia)
Atto di indirizzo e coordinamento, che
comprende anche il Profilo di comunità
Distrettuale/
zonale
Piano triennale di zona per la salute e il
benessere sociale
Programma attuativo annuale,
comprensivo del Piano attuativo
territoriale per le attività sanitarie
Il primo Piano Sociale e Sanitario della Regione Emilia Romagna (PSSR) è stato
approvato dalla Assemblea legislativa il 22 maggio del 2008 con Delibera n.175.
E’ uno strumento di integrazione con la programmazione sanitaria e di raccordo con la
programmazione in materia educativa, formativa, del lavoro, culturale e abitativa.
97
Il principio dell’integrazione tra le queste politiche assume un valore strategico sotto
numerosi profili in quanto: “rappresenta la condizione necessaria per l’omogenea
realizzazione e l’equa esigibilità dei diritti di cittadinanza in campo sociale e sanitario;
favorisce lo sviluppo di processi innovativi nell’organizzazione e nella gestione dei
servizi, prefigurando una più elevata qualità ed efficacia dei servizi; consente la
valorizzazione dell’autonomia dei singoli soggetti, che rappresenta un contributo allo
sviluppo di una società più coesa, civile e dinamica; permette di coinvolgere tutti
soggetti (istituzionali e non) chiamati a svolgere un ruolo per l’affermazione dei diritti
di cittadinanza” (PSSR, p. 17 – Dossier n.192/2010, p.12).
Il PSSR definisce gli obiettivi del triennio, i livelli quali-quantitativi dei servizi
essenziali, i criteri di accesso e le modalità di raccordo tra gli strumenti di
programmazione dei vari livelli.
I principi del PSSR possono essere così riassunti:
‘centralità’ degli Enti Locali e della Regione nella programmazione, regolazione
e realizzazione dei servizi sociali, sanitari e socio-sanitari;
‘separazione’ delle funzioni pubbliche di governo / programmazione,
regolazione e verifica dei risultati da quelle di produzione dei servizi e delle
prestazioni;
‘individuazione’ del Distretto quale ambito ottimale per l’esercizio del governo e
per l’organizzazione associata delle relative funzioni amministrative.
Nel PSSR sono portati a sintesi unitaria gli strumenti di programmazione sperimentati
negli anni: Piani per la Salute, Piani di Zona, Programmai delle Attività Territoriali,
Piano di Azione per gli Anziani, Programma per l’Integrazione dei Cittadini Stranieri.
L’integrazione avviene a livello regionale, provinciale e distrettuale con il
coinvolgimento, nel rispetto delle relative competenze, di tutti i soggetti (Regione, Enti
Locali, strutture pubbliche, private profit e non profit, associazioni, volontariato, forze
sociali) coinvolte nel sistema di welfare.
La governance definita in ambito regionale dal PSSR avviene attraverso il metodo di
governo partecipato. La finalità di tale metodo è “la corresponsabilizzazione degli attori
in rapporto all’universalismo dei diritti, all’equità di accesso, all’appropriatezza delle
98
prestazioni, al consenso, alla sostenibilità economica del sistema” (PSSR, p. 17 –
Dossier n.192/2010, p. 12).
Questo sistema, all’interno del PSSR, viene declinato in:
integrazione istituzionale: richiama alle responsabilità dei vari soggetti
istituzionali presenti sul territorio;
integrazione comunitaria: richiama la necessità di attivazione dell’intera
comunità locale;
integrazione gestionale: richiama la necessità di portare a unicità gestionale i
fattori organizzativi e le risorse in ambito distrettuale;
integrazione professionale: richiama la necessità di realizzare condizioni
operative unitarie tra figure professionali diverse, sanitarie e sociali (PSSR, p.
22/25 – Dossier n.192/2010, p. 13).
La Regione E.R ha ritenuto opportuno e necessario confermare la validità del PSSR
2008/2010 oltre la sua scadenza, in quanto nel PSSR è stato definito il sistema di
servizi, il nuovo sistema di governance pubblica e la promozione di obiettivi che però
solo in parte sono stati raggiunti. Il PSSR 2008/2010 resta quindi valido nelle
indicazioni di fondo. Il sistema integrato di servizi sociali, socio-sanitari e sanitari
individuato nel PSSR 2008-2010 rappresenta la premessa attraverso cui realizzare un
nuovo welfare di comunità locale e regionale in grado di rispondere a bisogni sempre
più complessi Sono stati emanati dei Programmi Annuali contenenti i necessari
aggiornamenti, coerentemente alle priorità evidenziate dalla crisi sia economica che
sociale. Il Piano è quindi ancora in applicazione e in tutta la Regione è attiva la
programmazione a livello locale.
L’ultimo aggiornamento del PSSR è del giugno del 2013, attraverso un documento
programmatico approvato dall’Assemblea Legislativa Regionale con le indicazioni
attuative per il biennio 2013-2014, con Delibera di giunta n. 284/2013. Nelle
Indicazioni Attuative sono esplicitati i modelli partecipativi per la programmazione,
affinché l’intera comunità possa essere parte sia nella definizione degli ambiti di
intervento che nella valorizzazione delle risorse del contesto. Dunque ‘partecipazione e
99
coinvolgimento’ sono le parole chiave adottate dalla Regione e dai servizi, in quanto le
comunità sono intese come parte attiva nell’individuazione delle priorità di intervento.
Ai fini della programmazione, le CTSS elaborano l’Atto di Indirizzo Territoriale quale
strumento di programmazione, quale esito della governance nell’ambito territoriale
intermedio, coincidente con il territorio dell’Azienda USL. In esso si recepisce e si
declina la programmazione regionale e si orienta la programmazione in ambito
distrettuale. L’Atto di indirizzo si può quindi definire come “la fissazione di un
determinato momento dello stato/processo di governance per un determinato ambito
provinciale”. (Dossier 192/2010, p. 88). Serve quindi ad avere un quadro di ‘come sta’
la comunità; per condividere indirizzi utili alla pianificazione locale e per una modalità
di confronto con il Terzo Settore e le Organizzazioni Sindacali. All’interno dell’Atto di
Indirizzo le CTTS inseriscono il Profilo di Comunità: “una lettura ragionata e
partecipata dei bisogni di salute e benessere della popolazione di riferimento che
consente di individuare delle criticità, delle priorità e delle scelte strategiche” (Dossier
192/2010, p. 88).
Il Profilo di Comunità rappresenta il quadro conoscitivo di riferimento per la
programmazione sociale, socio-sanitaria e sanitaria. Comprende dati e riflessioni in
merito alla comunità di riferimento territoriale (profilo demografico, ambiente e
territorio, sicurezza, salute e stili di vita, profilo socio-economico, mobilità, …); ai
servizi, alle risorse informali, alla domanda espressa e soddisfatta (in ambito sanitario,
sociale, socio-sanitario, educativo e socio-educativo, formativo e lavori stico, abitativo,
…); alle principali tendenze e criticità.
Il Profilo di Comunità viene pubblicato come allegato all’Atto di Indirizzo.
Lo strumento di programmazione zonale, approvato con accordo di programma tra i
Sindaci dei Comuni (o tra gli organi competenti delle forme associative scelte dai
Comuni) per la realizzazione degli interventi socio-sanitari previsti anche dal
Programma delle Attività Territoriali, come previsto all’art 29 della LR 2/2003 è il
Piano di Zona.
100
I soggetti del Terzo Settore, gli altri soggetti senza fini di lucro e le ASP concorrono alla
definizione del Piano di Zona, con le modalità stabilite tramite accordo tra i Comuni, e
partecipano all’accordo di programma attraverso protocolli di adesione.
Il ‘Piano di Zona per la salute e il benessere sociale’ , cosi specificatamente denominato
nella DGR 1682/2008 “Linee guida per l’elaborazione e l’approvazione del Piano di
Zona distrettuale per la salute e il benessere sociale”, è lo strumento di programmazione
sociale e di integrazione tra sociale e sanitario. Il Piano di Zona individua, in coerenza
con l’Atto triennale della CTSS, le priorità strategiche e di benessere sociale dei servizi
territoriali; definisce inoltre la programmazione finanziaria triennale relativa agli
interventi sociali, socio-sanitari e sanitari. Il Programma Attuativo Annuale costituisce
la declinazione annuale del Piano di Zona. Oltre a specificare gli interventi e
individuare le risorse per la loro attuazione, definisce ed approva progetti o programmi
specifici in ambito territoriale, d’integrazione con le politiche educative, della
formazione, del lavoro, della casa, dell’ambiente, della mobilità.
In sintesi il processo di maturazione del sistema di governance nella regione Emilia
Romagna è stato relativamente rapido: prefigurato nel 2003 con la LR n.2, ha poi
trovato una prima rappresentazione nel 2005, in coincidenza con l’istituzione della
Cabina di Regia, formalizzato poi nel 2008 con l’approvazione del primo Piano
Sanitario e Sociale Regionale.
Le politiche regionali in questi anni hanno investito sull’obiettivo di far nascere sistemi
di welfare locali centrati sulla lettura dei bisogni e della programmazione in forma
associata e concertata.
La complessa organizzazione rappresentata dalla sinergia tra Cabina di Regia, CTSS e
Comitato di Distretto e relativi organi di supporto e relativa produzione di documenti
programmatici, promuove una forte vicinanza tra il livello regionale e il livello locale,
rafforzando il piano del confronto continuo tra sociale e sanitario, innalzando
sicuramente il livello di omogeneità delle ricadute degli indirizzi regionali, nonché
rendendo più esplicita la compartecipazione dei Comuni e dei cittadini alla ripartizione
e all’utilizzo delle risorse.
101
4.3.2 La partecipazione in Emilia Romagna: normativa regionale e strumenti
La Regione Emilia Romagna, come già si è evidenziando attraverso la sintetica
illustrazione dei diversi livelli di governance e gli strumenti che vengono utilizzati, ha
fatto della partecipazione e della coesione sociale i propri punti di forza. La Legge
Regionale n.2/2003 di riforma del Welfare Regionale infatti “riconosce, promuove e
sostiene la partecipazione attiva dei cittadini, delle organizzazioni di rappresentanza
sindacale, delle associazioni sociali e di tutela degli utenti, assumendo il confronto e la
concertazione come metodo di relazione con le organizzazioni sindacali” (art.2). Inoltre
“La Regione e gli Enti Locali riconoscono il ruolo e la rilevanza sociale ed economica
delle espressioni di auto-organizzazione della società civile in ambito sociale, con
particolare riferimento alle organizzazioni di volontariato, alle cooperative sociali, alle
associazioni di promozione sociale” (art.20).
La Delibera n.175/2008 “Piano Sociale e Sanitario Regionale 2008-2010” (PSSR)
affronta il tema con più ampio respiro: la partecipazione e la responsabilità sociale sono
assunti come fattori di coesione sociale. Il piano riprende anche in maniera organica il
tema della partecipazione dei cittadini e delle loro rappresentanze nel processo di
programmazione.
La Delibera di Giunta n.168/2008 in attuazione del PSSR fornisce poi un indirizzo per
la programmazione di ambito distrettuale e le linee guida per la partecipazione del
Terzo Settore. Definendo nell’Ufficio di Piano il luogo adeguato l’organizzazione della
partecipazione. Queste linee di indirizzo pongono enfasi sulla partecipazione del privato
sociale no profit alla programmazione; alla progettazione; alla realizzazione ed
erogazione di servizi ed interventi ed infine alla valutazione.
Nel 2009 le Linee di Indirizzo contenute nel Documento del Gabinetto di Presidenza,
relative ai processi di partecipazione nella Regione Emilia Romagna precisano che “la
partecipazione deve avvenire a partire dalla fase di programmazione che precede e
sostiene quelle più tecniche e specialistiche della progettazione, realizzazione,
erogazione e valutazione”.
La Regione si è quindi impegnata direttamente nella promozione di iniziative e progetti
di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini alle politiche locali ed ha promosso
102
negli anni diversi strumenti tra cui il progetto “Partecipa.Net”, un sito web14 tramite il
quale si propone di promuovere la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica,
favorendo il dialogo con la Pubblica Amministrazione, attraverso nuovi spazi
informativi e nuovi canali di ascolto, quali il kit dell’e-democracy15 e il forum di
discussione “Iopartecipo”16. Inoltre l’Osservatorio Regionale sulla Partecipazione
raccoglie e descrive analiticamente i processi partecipativi realizzati nel territorio
dell’Emilia Romagna e si pone come strumento di conoscenza e valorizzazione della
democrazia partecipativa, a supporto anche delle decisioni della Regione.
Per rafforzare poi un percorso specifico di partecipazione tra la Regione e il Terzo
Settore sono attivi, sia a livello Regionale che provinciale, i Forum del Terzo Settore.
La Regione inoltre, riconoscendo il ruolo di rappresentanza sociale delle organizzazioni
sindacali nella costruzione del sistema integrato sociale e sanitario, ha stabilito modalità
strutturate di confronto, che nel corso in particolare dell’ultimo decennio, hanno certo
permesso un rafforzamento del percorso di concertazione sulla programmazione socio-
sanitaria.
Per questo motivo un altro strumento di partecipazione, fortemente riconosciuto dalla
Regione, è quello dei Comitati Consultivi Misti (CCM)17, quale organo delle Aziende
USL. I CCM sono organismi di partecipazione dei cittadini che nascono per il controllo
della qualità dei servizi sanitari dal lato dell’utente e sono composti da rappresentai di
associazioni, organizzazioni di tutela dei diritti del malato, sindacati dei pensionati;
rappresentanti dell’AUSL.
Nel febbraio del 2010 la Regione Emilia Romagna ha poi approvato la legge sulla
partecipazione alle politiche regionali e locali (L.R. 3/2010). Con questa legge si è
inteso rispondere all’esigenza di promuovere il diritto alla partecipazione attiva dei
14 www.partecipa.net 15 Il “Kit dell’e-democracy” un insieme di metodologie e strumenti tecnologici open source per
l’attivazione di canali di informazione, ascolto e co-decisione tra le amministrazioni e i cittadini messa a
punto nell’ambito del progetto Partecipa.net, ha fornito strumenti, applicativi software e metodologie utili
che sono state utilizzate dalle amministrazioni partner del progetto per promuovere iniziative sperimentali
di partecipazione digitale sulle politiche urbanistiche e di pianificazione territoriale - L.R. n. 20/2000 16 www.iopartecipo.net/cgi-bin/partecipa.base/unox1 Progetto “Io Partecipo” con l’obiettivo di
coinvolgere attivamente i cittadini su servizi, politiche e programmi della Regione Emilia-Romagna
attraverso l’implementazione dei metodi e degli strumenti di Partecipa.net, utilizzati in un’ottica di
integrazione con le altre esperienze regionali 17 Riconosciuti a livello nazionale dal Decreto Legislativo n.502/92 art.14 e a livello regionale prima dalla
L.R. 19/1994 art 15 e 16 poi dalla L.R. n.29 del 2004 e dalla circolare dell’assessorato alla sanità n.
3/2005
103
cittadini, alla elaborazione delle politiche regionali locali, offrendo alla comunità
regionale un quadro legislativo di riferimento uniforme.
Nel corso degli anni la Regione Emilia Romagna ha elaborato un complesso e articolato
sistema per promuovere la partecipazione nella realizzazione delle politiche regionali di
area socio-sanitaria.
Con l’attivazione degli strumenti messi in campo, la Regione ha inteso superare mere
dichiarazioni di principio sulla partecipazione, nel tentativo di consolidare metodologie
efficaci volte al reale coinvolgimento degli attori, per valorizzare e promuovere una
logica di fiducia reciproca.
In tale prospettiva la strumentazione proposta riguarda la conoscenza dei bisogni, la
condivisione delle priorità e l’allocazione delle risorse, per attivare risorse e competenze
diverse e per creare consenso, al servizio di una buona programmazione.
In conclusione di questo approfondimento è importante soffermarsi sul modello
partecipativo che, proprio da indicazioni regionali contenute nelle Linee Guida
Regionali “La Programmazione Partecipata per un Welfare di comunità” (2013), si
ritiene opportuno venga applicato nei territori, per una migliore e maggiormente
partecipata attuazione dei Piani di Zona, è quello del tipo ‘Community Lab’ (‘andar per
casi’).
Il Community Lab è un modello per l’interpretazione dei cambiamenti sociali, un
modello quindi di mappatura sociale, basato su casi di studio, ovvero sulle
sperimentazioni già in essere.
Questo modello riguarda un cambiamento, una trasformazione, anche dell’aspetto
metodologico, dei Tavoli dei Piani di Zona e parte da un’analisi partecipata,
coinvolgendo i cittadini e non solo i tecnici, dei contesti locali e di analisi di casi
concreti.
Particolarità di questo metodo è anche l’individuazione in maniera puntuale e precisa
della problematicità e/o dell’area di interesse che quel tavolo intende affrontare; occorre
cioè individuare il luogo preciso in cui ‘l’oggetto di lavoro’ insiste, che può essere di
ambito distrettuale, ma anche una strada, un condominio,…
104
Il Community Lab è quindi un ‘metodo di lavoro’ basato sulla programmazione
partecipata, finalizzato a comprendere la comunità e l’evoluzione del welfare locale con
l’apporto dei cittadini. Il ruolo del pubblico non è più visto come ‘gestore’, ma come
‘broker di territorio’: capace cioè di far sviluppare nuove risposte e di favorire
l’autonomia attraverso una co-costruzione e co-gestione con il privato sociale, i cittadini
attivi e le imprese.
Per dare attuazione a un tale metodo è essenziale il riferimento ad un approccio bottom
up: imparare dall’esperienza delle istituzioni e dai concreti casi presenti su quel
territorio.
Con questo approccio non si vogliono solo censire buone pratiche, ma si vuole cercare
di capitalizzare le esperienze e le competenze per renderle trasferibili e delineare così
possibili strategie da condividere ed applicare in contesti anche diversi.
4.3.3 La dimensione socio - demografica.
Dal punto di vista demografico l’analisi della situazione dell’Emilia Romagna, si
colloca in linea alle tendenze che caratterizzano l’intero paese, come evidenziato nel
terzo capitolo. In particolare si tratta dell’incremento del numero degli anziani, ma
anche ad un aumento progressivo della componente 0/14 ed ad una sorta di
stabilizzazione nella fascia 15/64 anni. La Regione è stata infatti interessata negli ultimi
anni da un incremento rilevante della popolazione ad opera dei flussi migratori, che
hanno contribuito appunto a rafforzare le classi giovanili.
Riprendendo i dati dell’ultimo censimento Istat del 2011, la popolazione della Regione
era pari 4.342.135 unità, mentre nel 2001 se ne registrarono 4.000.703, con un
incremento dell’8,5%, nel decennio intercensuario la popolazione italiana è invece
cresciuta solo dello 0,6% (+25.342 unità) mentre quella straniera è più che triplicata
(+316.090 unità).
I minori di età 0/14 anni al 2011 sono pari al 13,4% (nel 2001 erano l’11,7%); le
persone tra 15 e 64 anni sono il 64%, mentre gli anziani di 65 anni e oltre rappresentano
il 22,7% della popolazione. Nel periodo intercorso tra il 2001 e il 2011 la percentuale di
popolazione over65 anni è leggermente aumentata (dal 22,4% al 22,9%, da 896.780
persone a 996.431).
105
Il rapporto tra la popolazione over65 e quella con meno di 15 anni (indice di vecchiaia),
è sceso in modo significativo rispetto al 2001 (da 192,9 a 171,2), in controtendenza
rispetto al dato medio nazionale. Ma è poi interessante notare che i “grandi vecchi”,
ovvero gli ultraottantacinquenni, incrementano il loro peso sul totale della popolazione
residente (dal 3% del 2001 al 3,6% del 2011), toccando quota 157.424 unità. Se nella
classe 95-99 si registra un aumento dell’85,9%, in quella degli ultracentenari si arriva al
+154,7%. Gli ultracentenari, infatti, erano 602 nel 2001 (96 maschi e 506 femmine)
mentre nel 2011 ne sono stati censiti 1.533, con una percentuale di donne pari all’85%
(1.303 unità).
La Regione Emilia Romagna, tenendo conto dell’aumento progressivo della
popolazione anziana, già con la legge regionale n.5 del 1994 “Tutela e valorizzazione
delle persone anziane. Interventi a favore di anziani non autosufficienti” ha individuato
tra le finalità la necessità di “valorizzare la persona anziana come soggetto rilevante per
la società e prevenirne la non autosufficienza, detta norme per l'attuazione di azioni
positive che contribuiscano a mantenere l'anziano nella famiglia e nel tessuto sociale, e
a valorizzarne il patrimonio di esperienza, di conoscenza e di cultura” (art.2).
La LR 2/03, ha ripreso questo assunto nelle sue linee direttrici prevedendo anche, quella
che ancora oggi è una delle maggiori fonti di finanziamento che sostiene gli interventi in
favore della popolazione non autosufficiente ed in particolare della fascia anziana, il
Fondo Regionale per la non Autosufficienza (FRNA).
Le principali tipologie di servizi su cui interviene FRNA sono riconducibile a quelle di
indicazione nazionale (servizi domiciliari; semiresidenziali e residenziali). La Regione
Emilia Romagna evidenzia però una particolare attenzione ai servizi di sostegno alla
domiciliarità, che possono attuarsi attraverso progetti specifici elaborati all’interno di
ogni ambito territoriale e condivisi a livello provinciale.
Nella DGR 1206/07, indirizzi attuativi alla DGR 509/07 “Fondo Regionale per la Non
Autosufficienza”, la priorità individuata è proprio la promozione, il potenziamento e la
qualificazione degli interventi a sostegno delle famiglie e alla domiciliarità, al fine di
mantenere il più possibile la persona non autosufficiente nel suo contesto di vita. Inoltre
nella DGR 1206/07 è inserito un apposito allegato: “Linee per la definizione di
programmi di sostegno delle reti sociali e di prevenzione per i soggetti fragili” e
106
l’attuale DGR 284 del 2013 “Indicazioni attuative del PSSR per il biennio 2013/2014”
dedica un apposito paragrafo alla fragilità: “la necessità di garantire sistemi locali di
sostegno e riferimento per le persone non autonome e fragili rappresenta una assoluta
priorità. Elementi fondamentali di questi interventi sono rappresentati da una reale
integrazione socio-sanitaria, da una integrazione nella comunità locale tra le reti formali
e quelle informali, da un approccio globale e non solo sanitario al tema della
vulnerabilità e fragilità. In questo senso vanno perseguite con forza le politiche di
prevenzione che possono produrre effetti decisivi per il sistema sia in termini di salute
che di sostenibilità, in particolare interventi sugli stili di vita sani o politiche per
l’invecchiamento attivo”.
La finalità è quella di poter attuare una reale integrazione tra le diverse politiche
territoriali, che possano così rispondere ai problemi della terza età, andando a superare
una concezione di popolazione anziana intesa esclusivamente come bisognosa di cure,
tentando di sollecitare interventi che ne riconoscano i bisogni, ma anche le capacità,
cogliendo così lo spirito del principio su cui si basa il concetto di invecchiamento attivo.
In quest’ottica è interessante citare il Progetto ‘PASSI d’Argento’, promosso dal Centro
per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie del Ministero della Salute e delle
Regioni, in collaborazione con l’Istituto Superiore della Sanità. Questo Progetto si
configura come un’importante attività di sorveglianza della popolazione ultra 64enne e
di monitoraggio degli interventi messi in atto dalla rete dei servizi sociali e sanitari e
dall’intera società civile.
Questo progetto prende avvio proprio dalle indicazioni della OMS circa l’‘Active
Ageing’ con lo scopo di creare e rafforzare le condizioni per un invecchiamento attivo,
le cui basi sono da costruire certo prima dell’età anziana.
Infatti sulla base dell’esperienza del sistema di sorveglianza PASSI (Progressi nelle
Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) rivolto alla popolazione 18/69 anni, si è
sviluppato il progetto di sorveglianza ‘PASSI d’Argento’ rivolta appunto alla
popolazione ultra 64enne, che va a valutare, in linea appunto con quanto sancito da
OMS circa l’invecchiamento attivo, aspetti importanti quali: la partecipazione, la salute
e la sicurezza.
107
L’ultima indagine avvenuta nel 2012/2013, con una rilevazione in 17 Regioni, tra cui
appunto l’Emilia Romagna.
Interessante quindi osservare qualche risultato (anno 2012-13) specifico dell’indagine
nell’Emilia Romagna18 presentato proprio in sede regionale nel luglio di quest’anno.
Delle 2.136 interviste attuate in Regione circa il 70% sono state effettuata ad anziani tra
i 65 e i 79 anni, mentre il restante 30% aveva dagli 80 anni e oltre.
Utilizzando poi indicazioni provenienti dalla letteratura scientifica in materia e gli
strumenti statistici idonei, sono stati individuati quattro gruppi in cui poter suddividere
la popolazione intervistata. Gli anziani intervistati dell’Emilia Romagna si sono così
posizionati:
in buona salute 48%
in buona salute ma a rischio di malattia 24%
a rischio di disabilità 16%
in condizione di disabilità 12%
Tra le aree di indagine è interessante vedere ciò che è emerso in quella relativa alla
‘partecipazione sociale’: più di un terzo (37%) degli ultra 64enni intervistati
rappresenta una risorsa, di cui il 21% lo è all’interno della propria rete familiare
(accudisce ed aiuta spesso), il 17% si occupa di persone non conviventi ed il 6% è
risorsa per la collettività. Dai dati è stato rilevato che ‘essere risorsa’ è una
caratteristica maggiormente diffusa nelle donne e nelle persone sotto i 75 anni, con
un livello alto di istruzione e senza modifiche economiche percepite e che si trovano
in buona salute. Inoltre, poco più di un quarto (il 28%) del campione, partecipa
nell’arco di una settimana ad attività con altre persone, ad esempio frequenta il
centro anziani, un circolo, la parrocchia o sedi di partito o di associazioni, il 20%
inoltre ha partecipato nell’ultimo anno agite o soggiorni organizzati. Il 4% degli ultra
64enni ha partecipato negli ultimi 12 mesi a corsi di formazione per adulti e la
frequenza è più alta tra gli uomini (tra i 65 e i 74 anni).
18 http://www.ausl.mo.it/dsp/pdaer
108
Questi dati evidenziano una reale presenza di ‘anziani attivi’ nella nostra Regione
che non sono quindi solo beneficiari di cure, ma anzi che sono loro stessi ad essere
risorsa, oltre che per le loro famiglie anche per la comunità.
Il Progetto ‘PASSI d’Argento’ è collegato al Programma Europeo ‘Guadagnare in
salute’ che vede nelle sue indicazioni “il miglioramento delle reti di relazione, a livello
regionale e a livello locale, tra Enti e Istituzioni, alla promozione di stili di vita sani,
capaci di supportare l’organizzazione di interventi multi settoriali integrati”.
Il concetto alla base del Programma ‘Guadagnare in salute – Rendere facili le scelte
salutari’ è la promozione di stili di vita in grado di contrastare il peso delle malattie
croniche e far guadagnare anni di vita in salute ai cittadini.
Questo programma è stato approvato con Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri nel 2007 e rientra nella cornice della strategia europee ‘Gaining in health’
promossa dall’OMS nel 2006.
Questo programma utilizza strumenti che prevedono il coinvolgimento di settori diversi
della società e delle istituzioni, con attività di comunicazione e azioni volte, in
particolare, a ridurre l’iniziazione al fumo, aumentare il consumo di frutta e verdura,
ridurre l’abuso di alcol, ridurre il consumo di bevande e alimenti troppo calorici,
facilitare lo svolgimento dell’attività fisica.
Il richiamo al Programma ‘Guadagnare in Salute’ ha una valenza molto importate
rispetto al Progetto che andrò a presentare, in quanto grazie alla sensibilizzazione dei
diversi livelli di governance regionale, il Progetto, in una sua particolare veste, di cui
spiegherò, ha avuto proprio esito in questo Programma.
Infine diversi studi e ricerche19 sul tema del volontariato hanno evidenziato che la
Regione Emilia Romagna ha un’antica tradizione di ‘spirito attivistico e volontaristico’
sia in ambito cooperativo che sul versante dell’associazionismo. Si nota infatti che nel
territorio regionale, e in particolare in quello della Provincia di Bologna, sia presente
un’ampia rete di attori sociali che offrono numerose e qualificate risorse ed opportunità,
19 “Struttura, Attività e Identità dei Centri ANCeSCAO nel territorio bolognese: quali scenari per un
possibile sviluppo” L. Martignani e M. Orlandini – UniBo – 2013;
II° volume della ricerca 2011 dell’Osservatorio Nazionale sul Volontariato, che riporta un profilo del
volontariato in Italia;
“Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia” R. Cartocci – Il Mulino -2007
109
in particolare per la popolazione anziana. E’ presente una quota rilevante di persone (per
lo più ‘giovani anziani’) impegnati in attività di volontariato e di promozione culturale,
sportiva e sociale. Inoltre è crescete l’interesse della popolazione a partecipare ad
iniziative tese a promuovere la salute e la tutela dell’ambiente.
La presenza ricca e operosa di una tale realtà, grazie anche alla volontà espressa dal
sistema di governance e della conseguente messa a disposizione di strumenti
istituzionali, ha fatto sì che si venissero a creare le condizioni necessarie alla messa in
atto di questo Progetto.
L’investimento istituzionale, come si è visto nel paragrafo precedente, sui temi sia della
programmazione che della partecipazione; l’attenzione alla popolazione anziana e alle
politiche sociali a loro rivolte, non solo quelle a sostegno, ma anche di prevenzione e
sensibilizzazione, hanno acconsentito che la rete di volontariato si sia negli anni sempre
più motivata ed attivata in tal senso.
Il Progetto è dunque originato a partire da risorse preesistenti e ha potuto svilupparsi in
termini di programmazione locale integrata e partecipata.
Nel paragrafo successivo quindi illustrerò più da vicino il caso di studio; da prima
presenterò le diverse fasi del Progetto, gli attori coinvolti, ed in particolare mi
soffermerò appunto sulle caratteristiche dello strumento laboratorio; infine tenterò di
teorizzare le risposte alle mie domande di ricerca formulate in partenza.
4.4 Il Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della vita.” La fase di avvio: dalla
presentazione delle Linee Guida “Promuovere la qualità della vita ed invecchiare
bene insieme” all’idea progettuale
In un contesto territoriale così descritto, grazie proprio alle indicazioni regionali e alla
volontà delle diverse istituzioni di governance, l’Azienda USL di Bologna, nell’ambito
del Programma Salute Anziani, nel 2010 ha elaborato le Linee Guida “Promuovere la
qualità della vita e invecchiare bene insieme”20.
20 la guida è pubblicata nel sito dell’AUSL di Bologna. La guida individua modi e luoghi per sviluppare
buone pratiche sociali in undici ambiti: . “Tenersi in forma fisica”; “Mantenere attiva la mente”, “Fare
volontariato”, “Mangiare bene e in sicurezza”, “Curare il corpo, i sensi e il sonno”, “Questioni legali e
110
L’idea del Progetto nasce quindi nel 2010 quando nel corso d un seminario
appositamente progettato è stato presentato questo documento che, attraverso schede
informative, intende aiutare le persone ad invecchiare bene e a migliorare la qualità
della vita dell’anziano, fornendo informazioni sui comportamenti corretti e sulle
modalità con cui tali comportamenti si possono adottare insieme ad altri.
A questo evento era presente anche ANCeSCAO21 che venendo a conoscenza del tema,
si dimostrano particolarmente interessati, ritenendo che il Documento debba essere
divulgato all’intera rete di associazioni e volontariato, in particolar modo a coloro che
sono attivamente impegnati nell’area anziani.
Sono infatti due referenti della sede provinciale di Bologna di ANCeSCAO che hanno
preso contatti con i referenti dell’AUSL, responsabili dell’elaborazione delle Linee
Guida ed insieme hanno sollecitato la Provincia (Servizio Politiche Sociali e per la
Salute) affinché si possa pensare di attuare un percorso condiviso, proprio fondato
sull’idea della promozione dell’invecchiamento attivo e della salute degli anziani.
La Provincia da subito si è sentita investita di questo importante impegno ed individua
nell’Istituzione Minguzzi – settore Servizi alla Persona e alla Comunità quale risorsa
per poter coordinare l’attività.
Si è così avviato un percorso volto all’ideazione di un’esperienza che fosse insieme
divulgativa delle Linee Guida, ma anche di reale interesse per gli anziani, in modo da
poterli coinvolgere in modo diretto.
Il ristretto gruppo promotore sin da subito si è mosso in un’ottica di partecipazione, da
realizzare tramite il coinvolgimento dei soggetti del territorio afferenti al terzo settore,
al mondo dell’associazionismo e ai cittadini attivi; tuttavia analoga attenzione è posta
alla necessità di individuazione di modalità adeguate ad ottenere il sostegno e la
partecipazione dei soggetti afferenti all’ambito pubblico, quali gli operatori di settore,
gli amministratori e i politici.
finanziarie”, “Conoscere la città”, “Fare turismo”, “Avere una casa sicura è adeguata”, “Vivere il
territorio in sicurezza”, “Sicurezza sulla strada”. 21 Associazione Nazionale dei Centri Sociali – Comitati Anziani e Orti. Coordinamento istituito a fine
anni ’80. Nel 1990 diviene vera e propria Associazione Nazionale. Lo statuto all’art. 4 definisce
l’Associazione democratica, apartitica e autonoma, e in richiamo alla L.383/2000 si identifica come
Associazione di Promozione Sociale. Sono presenti sul territorio nazionale 1386 Centri con oltre 394000
iscritti; 19 Coordinamenti Regionale e 72 Coordinamenti Provinciali. Il Coordinamento Provinciale di
Bologna è costituito da 114 Centri Sociali con 52000 soci di cui 5000 associati orti. Interessante far
notare che il 56% del totale dei soci è appartenete alla fascia d’età 51/75 anni - dati anno 2013.
www.ancescao-bologna.it
111
Nella stesura definitiva del Progetto si trovano concatenate due finalità principali, volte
a sostenere inedite modalità di raccordo tra istituzioni di welfare, cittadinanza e
sviluppo territoriale: da un lato promuovere l’invecchiamento attivo, attraverso la
presentazione di modalità ed indicazioni per uno stile di vita sano; dall’altro il
miglioramento del rapporto tra società civile attiva ed enti locali. In tale ottica si è
proceduto seguendo i principi della co-progettazione, nella condivisa consapevolezza
dei promotori del Progetto che le informazioni raccolte e le relazioni attivate potessero
diventare importanti input per il policy making locale.
Dai promotori vennero pertanto individuate cinque aree tematiche, scelte appunto tra
tutte quelle citate nelle Linee Guida: alimentazione; fragilità e sicurezza; movimento;
tenere in forma la mente, turismo sociale e culturale, ritenendo potessero essere
particolarmente sentite come vicine ai bisogni della popolazione anziana del territorio
ed applicabili in esperienze concrete di vita, inoltre si è ritenuto potessero risultare utili
e finalizzate proprio alla promozione dell’invecchiamento attivo.
Si forma un ‘comitato scientifico’ composto da sei rappresentanti dell’AUSL; tre di
ANCeSCAO e due della Provincia; si svolgono alcuni incontri nel periodo da settembre
2010 a settembre 2011 per organizzare un evento pubblico per lanciare l’iniziativa.
Tramite la banca dati dell’Istituzione Minguzzi vennero invitate tutte le associazioni ed
enti di promozione sociale presenti sul territorio che a vario titolo potessero avere a che
fare con la popolazione anziana, inoltre vennero contattati anche i diversi rappresentanti
e operatori pubblici coinvolti nel settore.
L’avvio del Progetto è stato quindi ufficializzato nell’ottobre 2011 nel corso di un
evento pubblico a cui hanno partecipato più di 200 persone, tra rappresentanti ed
operatori degli enti locali, dell’università, dei servizi socio-sanitari, del volontariato e
dei sindacati A questo seminario, oltre alla presentazione dei temi di interesse su cui
verteva il Progetto, è stata dedicata buona parte della giornata all’illustrazione dei
contenuti delle cinque sessioni tematiche individuate e alle quali i diversi partecipanti
potevano già scegliere di aderire in quanto sarebbero state oggetto di successivi
approfondimenti. Durante il seminario le associazioni e gli operatori pubblici si sono
suddivisi tra i diversi temi di interesse e da qui è iniziato il percorso di co-progettazione
delle attività e degli interventi finalizzati a più generali obiettivi di promozione
dell’invecchiamento attivo.
112
4.4.1 La realizzazione del Progetto: gli attori coinvolti
Prima di procedere con l’illustrazione delle varie fasi del Progetto ritengo utile
presentare le Associazioni e gli Enti di provenienza dei diversi attori, principalmente
coinvolti ed assiduamente presenti durante ai lavori che hanno caratterizzato
l’esperienza. Li elencherò brevemente, richiamando le loro finalità:
ABILITARE: associazione che fornisce consulenza e formazione relativamente
alle modalità di accessibilità e vivibilità nelle abitazioni per il perseguimento di
una vita autonoma, attraverso la conoscenza delle diverse tipologie e modalità di
utilizzo di ausili e attraverso la fisioterapia;
ANCeSCAO e Centri Sociali: associazioni il cui fine principale è quello di
sostenere gli anziani nell’affrontare la solitudine e l’emarginazione (dalla partita
a carte alle vacanze; dalla ginnastica dolce alle attività per tenere attiva la mente;
dalla collaborazione con le scuole ai corsi di lingua italiana per assistenti
familiari; ecc..); spesso usufruiscono di spazi di proprietà dell’Ente Locale e
godono di alcune sovvenzioni;
Andare a veglia : associazione di volontariato che opera nell’ambito della
socializzazione, particolarmente attenta alla formazione di nuovi volontari.
Attiva in diversi ambiti: sostegno nei compiti pomeridiani a bambini,
volontariato al Pronto Soccorso Pediatrico; recita di fiabe e commedie, ecc;
AUSER : associazione per l’autogestione dei servizi e la solidarietà. Ho lo scopo
di realizzare il diritto degli anziani ad essere attivi, partecipi della vita sociale e
culturale della comunità;
Cittadinanzattiva Emilia Romagna : associazione che si occupa della difesa dei
diritti dei cittadini e dei consumatori, particolarmente attiva nel settore della
sanità;
Confcooperative : organizzazione di rappresentanza, assistenza e tutela delle
cooperative italiane;
Coop ADA : cooperativa nata per iniziativa di alcuni soci del Movimento
Cristiano Lavoratori. Attraverso professionisti fornisce servizi di assistenza agli
anziani, in particolare con aiuti domiciliari;
113
Fattorie Didattiche : Associazione di aziende agricole che promuovano il
rispetto per la salute, l’ambiente, l’origine e la qualità dei prodotti;
Trekking Italia: associazione con finalità di valorizzare il territorio, rivalutando
le capacità di percezione e di relazione dell’uomo, per motivarne la socialità;
Gruppo Lettura San Vitale : Associazione che promuove progetti rivolti a
giovani in stato di disagio o di disabilità e ad anziani fragili, composta in
particolare da donne impegnate in temi della cultura e con esperienze teatrali,
politiche, sociali. In particolare si occupa di laboratori teatrali;
Percorsi: associazione culturale per la promozione e il mantenimento di corretti
stili di vita;
SPI CGIL : Sindacato Pensionati Italiani che condivide con la Confederazione
Generale Italiana del Lavoro la contrattazione sociale con le Amministrazioni
Locali;
UISP : Unione Italiana Sport per tutti.
Gli Enti Locali erano rappresentati da operatori provenienti dai seguenti ambiti:
AUSL di Bologna : Dipartimento delle Attività Socio-Sanitarie; Dipartimento di
Epidemiologia, Dipartimento di Nutrizione e Alimentazione; Dipartimento di
Promozione e Prevenzione della Salute;
Comune di Bologna e Comuni della Provincia: Operatori dei Servizi Sociali
Territoriali;
Istituzione Minguzzi: settore Servizio alla Persona e alla Comunità;
Provincia di Bologna: settore Agricoltura.
Da questi elenchi si nota immediatamente la grande eterogeneità di partecipanti,
afferenti ad aree di azione e di interesse anche molto diverse tra loro. Questa varietà
ricalca la realtà del territorio, particolarmente sensibile, come detto con diverse
sfaccettature, all’associazionismo e alla promozione di attività per la collettività. Hanno
infatti aderito al Progetto rappresentati del pubblico e del privato no profit non tutti
necessariamente legati al mondo degli anziani, ma che si sono dimostrati interessati ai
temi oggetto dell’esperienza.
114
Nello specifico, tra le persone coinvolte nello studio di caso, più del 50% risultano
provenienti dal mondo del Terzo Settore, genericamente inteso, i restanti sono afferenti
alle diverse Istituzioni Pubbliche.
Gli attori coinvolti sono risultati ricoprire, per la maggior parte dei casi (oltre 80%) ruoli
di responsabilità, quali coordinatori, responsabili, rappresentanti, direttori, presidenti,
dirigenti; in maniera quindi assai minori sono stati coinvolti soci, volontari o operatori
di base.
4.4.2 Lo strumento: i Laboratori tematici
Proprio per dare significato e concretezza alla partecipazione, è stato condivisa sin
dall’inizio, dai soggetti promotori del Progetto, la necessità di individuare una
strumento che potesse permettere una conoscenza, una condivisione e un confronto.
Occorreva una modalità che potesse dare a tutti i partecipanti la possibilità di parola, di
interazione e di coinvolgimento.
L’idea quindi di utilizzare i Laboratori tematici come “strumento di invenzione
sociale”22 venne proposta dall’AUSL ed immediatamente accolta dalla Provincia: si
sarebbero potute trattare contemporaneamente diverse tematiche, riconducibili alle aree
di maggiore interesse delle Linee Guida, accumunate da un filo conduttore e con esiti da
condividere e da poter scambiare a vicenda tra i partecipanti. I promotori del progetto
hanno scelto la forma Laboratoriale proprio per incentivare la partecipazione e la
condivisione; ognuno poteva approfondire un tema specifico, in un luogo in cui poter
portare la propria esperienza e le proprie idee.
Il Laboratorio è infatti una strumento didattico ed educativo insieme, in quanto è
finalizzato al coinvolgimento di chi vi partecipa. Con il Laboratorio prima di tutto si
definisce un luogo di incontro, dove le persone si possono incontrare per più volte tra
loro, con una metodologia di lavoro semplice, flessibile e adattabile a chi partecipa. I
Laboratori in generale sono pensati come luoghi di riflessione e di costruzione di
‘interessi comuni’; non sono luoghi cioè dove si definiscono scelte o si prendono
decisioni. Nei Laboratori tutti sono chiamati a dare il proprio contributo, non c’è chi
22 Espressione usata dai referenti del Progetto dell’AUSL in due pubblicazioni riferite al Progetto: Rivista
“Famiglia e Comunità” Dicembre 2013 e Libro “La Fragilità degli Anziani” in bibliografia
115
‘insegna’ e non c’è chi ‘valuta’. Nel Laboratorio si condividono e si costruiscono le idee
e le esperienze. Laboratorio quindi inteso come spazio di condivisione. Si riprende in
parte la modalità espressa nei tavoli tematici dei Piani di Zona. Il Laboratorio si
avvicina molto al modello Community Lab, indicato appunto come nuova modalità da
applicare ai tavoli dei Piani di Zona, dove partendo proprio dall’ elaborazione di
esperienze, di casi concreti, anche se di livello micro, si ritiene possibile comprendere
anche il livello macro: “le relazioni interindividuali che generano risorsa per la
comunità, i conflitti che svelano distanze nuove, dinamiche locali che possono svelare
nuove forme del disagio sociale, ma anche indicare le risorse disponibili e consentire di
valutare il tipo di partecipazione adatta a sostenere nuove forme di welfare” (Mazzoli e
Pellegrino, 2013, p. 8).
La scelta di questo strumento è stata effettuata nell’ottica della sperimentazione per
l’attivazione di forme di co-progettazione. Gli autori del Progetto dichiarano infatti che
nella pratica, con la scelta di questo Strumento, si sono molto avvicinati alla modalità
partecipativa, proposta poi nel 2013, dal modello Community Lab.
La finalità concreta dei Laboratori era di promuovere una cultura comune su
cittadinanza attiva e buone pratiche sociali, attraverso l’individuazione di possibili
attività per il miglioramento della qualità della vita che prevedessero una partecipazione
attiva dei cittadini, in particolare degli anziani. E’ stato attivato un Laboratorio per ogni
area tematica individuata e nei singoli Laboratori si è previsto che si raccogliessero
informazioni e ci si confrontasse sulle esperienze di buone pratiche sociali già attive ed
attuate dai diversi attori presenti. Con i Laboratori inoltre si è inteso incidere sui
processi di partecipazione, attraverso l’individuazione di un luogo che permettesse
proprio il miglioramento della collaborazione tra Istituzioni, Terzo Settore,
genericamente inteso, e cittadini.
Per ogni Laboratorio sono state individuate delle figure che per esperienza, capacità e
conoscenza del tema potessero distinguersi come coordinatori. I promotori non hanno
voluto fare la scelta di indicare solo dei ‘professionisti’ istituzionali, così sono state
definite professionalità specifiche per tre ambiti e due Laboratori sono stati, per così
dire, assegnati ad ANCeSCAO.
I Laboratori hanno preso avvio nel dicembre 2011 e sono rimasti attivi fino al marzo del
2013.
116
I partecipanti ai laboratori (iscrittisi, come detto, in prevalenza al termine della giornata
seminariale dell’ottobre 2011) sono stati circa un centinaio, in rappresentanza di
un’ampia e diversificata tipologia di organizzazioni (enti locali, AUSL, ASP,
ANCeSCAO, Università, Associazioni, Organizzazioni del Volontariato, Cooperative
Sociali, gruppi informali), ma la partecipazione si è ridimensionata, portando ad un
numero medio di presenza per singolo laboratorio di circa sette – otto persone,
mantenendo però la diversa componente di rappresentanza.
Ogni coordinatore mediamente ha attivato incontri mensili e circa ogni 2 mesi venivano
indetti incontri tra i Coordinatori.
I Laboratori proposti sono stati i seguenti:
1. alimentazione: “una sana alimentazione riduce il rischio di molteplici patologie
caratteristiche dell’età senile” - coordinato da AUSL – Settore Alimentazione e
Nutrizione
2. fragilità e sicurezza: “per evitare situazioni di isolamento è necessario che la
persona anziana si metta nelle condizioni di poter effettuare alcune attività
quotidiane senza rischio” - coordinato da ANCeSCAO
3. movimento: “l’attività fisica è fondamentale per ridurre il rischio
cardiovascolare, per tenere il peso sotto controllo e per prevenire l’insorgenza di
stati depressivi. L’attività mantiene la forza muscolare e riduce la progressione
dell’artrosi e l’osteoporosi, inoltre permette di mantenere più a lungo
l’autonomia nelle attività quotidiane” - coordinato da AUSL – Settore
Epidemiologia
4. tenere in forma la mente: “coltivare interessi ed impegnarsi in contesti di
apprendimento aiuta a mantenere attiva la mente, allargare il proprio orizzonte
conoscitivo e arricchire la propria rete di relazioni” - coordinato da AUSL –
Settore Promozione della Salute
117
5. turismo sociale e culturale: “il turismo può rappresentare un fattore assai
positivo per la salute, l’arricchimento culturale e i rapporti umani della persona
anziana. Stimolando la fantasia, la creatività e la socializzazione” - coordinato
da ANCeSCAO
4.4.3 Lo svolgimento del Progetto: cosa è successo nei Laboratori
Ogni Laboratorio nel corso della propria attività ha elaborato dei prodotti diversi, alcuni
con valenza informativa (video, volantini, vademecum, …) altri mirate alla
socializzazione e alla condivisione (itinerari cittadini, proposte per attività di gruppo,…)
altri alla formazione (cicli di incontri pubblici, …), altri ancora indirizzati a
sensibilizzare i leader informali o formali (Presidenti dei Centri Sociali, Referenti delle
Associazioni, ma anche Amministratori e politici locali; …) affinché nelle attività da
loro promosse si potessero adottare metodologie omogenee, efficaci ed in linea con
quanto emerso dalla conoscenza delle Linee Guida e dell’attività dei Laboratori.
I coordinatori hanno presentato il resoconto dell’attività del proprio Laboratorio al
convegno organizzato nell’aprile del 2013 che ha rappresentato l’occasione per
approfondire il tema dell’anziano attivo e del suo ruolo sociale. Si è scelta una modalità
innovativa di divulgazione dei contenuti: ogni Laboratorio ha portato la propria
esperienza, attraverso una vera e propria esposizione delle buone prassi già in atto. Ogni
associazione o ente, ma anche i diversi settori degli enti pubblici coinvolti, con gazebo e
banchetti allestiti in un parco appositamente dedicato, aperti al pubblico ed interattivi,
hanno potuto offrire la possibilità di vedere, provare e scambiarsi le esperienze.
Anche a questa edizione erano presenti più di duecento persone, ma rispetto agli eventi
precedenti si è registrata una maggiore presenza e coinvolgimento da parte di cittadini e
dei soci volontari delle associazioni.
Alcuni laboratori si sono interrotti dopo questa esperienza: il Laboratorio ‘Tenere in
forma la mente’ perché in assenza di fondi economici si è ritenuto che non vi fosse più
la forza di andare avanti; anche il Laboratorio ‘Turismo sociale e culturale’ è cessato
perché durante l’attività laboratoriale erano emerse diverse difficoltà di tenuta e si è
pertanto ritenuto che potesse aver concluso il proprio percorso, ma entrambi hanno fatto
confluire le persone disponibili a mantenere l’impegno nell’attuale Laboratorio, ancora
118
in essere, ‘Fragilità e Sicurezza’, coordinato dai referenti dell’Istituzione Minguzzi.
Mentre gli altri Laboratori ‘Alimentazione’ e ‘Movimento’ hanno avuti esiti più ampi e
sono quindi confluiti in progettualità specifiche di Enti Pubblici, di cui meglio
specificherò nel paragrafo dedicato agli ‘esiti inattesi’.
Nel corso del mio lavoro sul campo è emerso con evidenza quanta creatività e
potenziale di inventiva abbiano messo in campo i diversi attori coinvolti e ancora di più
quanto, attraverso lo strumento Laboratorio, possa essere la capacità di coinvolgimento
che si può ulteriormente attivare. Questi aspetti hanno un valore ancora maggiore se si
tiene conto del fatto che il Progetto non ha goduto di finanziamenti ad hoc; quindi i
Laboratori sono stati frequentati su base volontaria e per realizzare i diversi materiali
presentati, come prodotti finali, si è dovuto ricorre appunto alla creatività e alla
disponibilità personale.
Le potenzialità della creazione di un luogo in cui persone afferenti a realtà differenti
sperimentano il ‘pensare e fare insieme’ presuppone, per il concreto realizzarsi, alcune
considerazioni che hanno a che fare con le dimensioni organizzative, con il divenire dei
processi decisionali.
Proprio dall’analisi dei materiali a mia disposizione lo strumento Laboratorio, in
generale, è stato ritenuto utile perché attraverso di esso si ritiene si siano creati
collegamenti tra le persone, che avevano ruoli e funzioni anche molto diverse tra loro,
ma questa metodologia ha fatto sì che tutti si siano sentiti coinvolti.
A questo proposito uno dei coordinatori di laboratorio afferma: “Il laboratorio è stato
un luogo benefico per la ricaduta che ha avuto sui partecipanti. Si hanno cioè benefici
diversi rispetto ad andare a un seminario, fatto di ascolto e di lezioni frontali, dove
dopo due o tre giorni cosa è rimasto? Nel laboratori invece si può stimolare un
cambiamento, ci si confronta, si capiscono i problemi e si interpretano” (dirigente ente
pubblico).
Attraverso lo strumento Laboratorio è possibile coinvolgere tutti i partecipanti, ognuno
può essere protagonista ed è possibile sviluppare e scambiarsi competenze.
Difficilmente questo può succede in altri contesti.
Non per tutti gli attori è stato però facile individuare l’aspetto di peculiarità del
Laboratorio, che per alcuni è vissuto come un limite, come una chiusura verso gli altri.
119
Si nota infatti una critica alla mancanza di interscambio tra i diversi Laboratori. Un
partecipante in tal senso dice: “il lavoro dei laboratori è stato molto interessante, ma
nuova sfida sarebbe quella di mischiare i gruppi esistenti. Ci sarebbe voluta più
permeabilità tra i gruppi” (presidente di una associazione).
Ma l’attivazione dei laboratori sembra essere stata anche, in particolare per alcuni
esponenti di associazione più grandi, sia in termini di numero di soci che di presenza sul
territorio, la conoscenza di uno strumento che poi è stato fatto proprio, riproponendolo
nelle rispettive sedi.
Questo evidenzia la valenza assegnata al Progetto: luogo in cui poter raccogliere spunti
e realizzare relazioni utili per la propria associazione o per il proprio ruolo nell’ente
pubblico, piuttosto che individuarlo come occasione formativa di buone prassi da
mettere poi in campo nell’azione quotidiana.
Certo l’attività all’interno dei Laboratorio ha messo in luce un aspetto fondamentale per
il buon funzionamento di questo strumento: l’importanza del ruolo del coordinatore. E’
uno strumento quindi che per essere utilizzato al meglio va reso operativo a condizioni
precise: la scelta del coordinatore è determinante, così come le finalità da perseguire,
affinché non diventi un luogo dispersivo o poco funzionale, tanto da rischiarne la tenuta.
Analizzando infatti la modalità di interazione nei diversi laboratori, e focalizzandomi
sul ruolo dei partecipanti e di come sia stato vicendevolmente riconosciuto, in generale
ciò che si percepisce è che la partecipazione sia stata vissuta in maniera più
coinvolgente e propositiva quando il coordinatore è riuscito a fare gruppo, a trovare un
filo conduttore condiviso, a condividere i linguaggi e a definire qual’era l’obiettivo
comune da raggiungere.
Si nota in maniera evidente la differenza di stili di conduzione e di metodologie
apportate dai diversi conduttori. Si evince che i referenti dell’ente pubblico, in questo
specifico caso appartenenti all’AUSL, abbiano ottenuto risultati migliori in termini di
frequenza e di stabilità dei partecipanti. Mettendo in campo tecniche molto diverse,
rifacendosi a modalità conduttive professionali (brainstorming; role-play; approccio
informativo/comportamentale; memory training; uso di questionari interni),
dimostrandosi neutrali nei confronti di tutti i partecipanti e sapendo valorizzare i diversi
attori, hanno avuto un diverso riconoscimento nei partecipanti: “Non ci siamo accorti
120
che il Laboratorio fosse gestito dall’istituzione. Ci siamo sentiti come se fossimo tutti
noi a condurre. E’ stato possibile farci sentire e interagire. Nessuno ci ha imbrogliato e
siamo andati avanti senza che nessuno cambiasse niente di quello che avevamo pensato
di fare” (presidente di una associazione).
In un Laboratorio in particolare, a causa delle difficoltà di tenuta del coordinatore, si è
registrato un alternarsi di persone, che ha creato un grosso momento di empasse per il
laboratorio stesso. Il conduttore infatti non è riuscito a fare sintesi ed ogni partecipante
si focalizzava solo sulla propria esperienza, andando così per compartimenti stagni. E’
stato necessario l’intervento degli operatori della Provincia, che hanno ritenuto
opportuno rivedere la nomina del coordinatore, divenendo loro stessi la nuova guida del
Laboratorio. Infatti è la responsabile di un ente pubblico che evidenzia come nel caso
specifico: “Nel laboratorio c’è stata la moria dei partecipanti perché la modalità di
conduzione era centrata solo su due persone, molto competenti, ma che portavano solo
la loro esperienza, del loro Ente. La Provincia ha quindi dovuto ripartire con una
riprogettazione del gruppo. Con una nuova formulazione e con nuovi contatti per
riattivare tutti i membri “.
Saper quindi approcciare il gruppo con cui si lavora e saper trovare la giusta modalità di
coinvolgimento può portare ad esiti di partecipazione non solo buona, ma anche di
soddisfazione per chi la vive. In alcuni gruppi è più evidente il clima di coinvolgimento
che si è respirato, dove le idee e le esperienze vengono portate da ogni componente, per
arrivare poi a fare sintesi condivisa. In particolare in questi laboratori i partecipanti si
sono mantenuti in contatto anche dopo questa esperienza: “ognuno ha fatto la propria
parte, portando il proprio contributo. E’ stato un modo di mettere insieme una serie di
persone che dopo il secondo convegno hanno continuato ad operare in tal senso,
valorizzandosi a vicenda, essendosi conosciuti” (dirigente di ente pubblico).
Inoltre i Laboratori condotti da un rappresentante di ente pubblico hanno, da un lato,
garantito la neutralità rispetto al giudizio su ogni singola associazione, a garanzia della
rappresentatività di ognuno, e dall’altro ne è stato riconosciuto e legittimato il ruolo.
In generale ciò che emerge è l’attesa, in particolare da parte dei soggetti appartenenti al
mondo del volontariato, di avere una guida e una linea da seguire che venga indicata
delle istituzioni. Sentono la necessità di poter essere condotti e seguiti affinché possano
121
portare la propria esperienza da mettere in comune con gli altri. L’aspetto più difficile è
certo l’integrarsi. Il problema dell’autoreferenzialità, che emerge soprattutto dal
versante delle diverse Associazioni, è molto forte, ma il Laboratorio è stato uno
strumento che ha permesso, poste come detto certe condizioni di base (l’individuazione
di un coordinatore neutrale che sappia approcciare in modo idoneo il gruppo, la
condivisione del linguaggio e della finalità tra i partecipanti), un reciproco
riconoscimento tra istituzioni e mondo sociale.
4.5 Strumenti alla prova.
Fino a qui ho sinteticamente illustrato come si è svolta l’esperienza di programmazione
partecipata. A conclusione farò alcune considerazioni tenendo presente le due principali
finalità individuate: la promozione della partecipazione e la sensibilizzazione
all’assunzione di stili di vita sani ed attivi in un'ottica di invecchiamento attivo, tenendo
sempre presente la peculiarità dello strumento Laboratorio, utilizzato per perseguire
dette finalità.
4.5.1 I Laboratori e la qualità della partecipazione
La maggior parte degli attori dichiara che la motivazione che li ha spinti a partecipare al
progetto è stata individuata sì nell’opportunità di scambio di informazioni sull’adozione
di comportamenti utili a migliorare la qualità della vita ed i processi di invecchiamento,
ma sono stati motivati anche dall’opportunità di migliorare il rapporto con gli altri
soggetti delle rete (istituzionali e non). Tanto che la maggior parte di loro evidenzia
proprio che, grazie al Progetto, c’è stata l’opportunità di far nascere collaborazioni tra le
diverse realtà del territorio avendo avuto modo di poter conoscere le altrui e di far
conoscere le proprie esperienze e attività che già vengono svolte sul territorio.
Inoltre emerge che proprio grazie alla modalità Laboratoriale si è migliorata la qualità
del rapporto sia degli operatori dell’Ente Pubblico verso le Associazioni ma, in
particolare, viceversa.
122
C’è però chi ha espresso pareri discordanti e fa percepire lo scetticismo, portato in
particolare da alcuni rappresentanti di Associazioni di piccole dimensioni e molto
localizzate, rispetto alla dichiarata volontà partecipativa promossa dagli Enti
Istituzionali:
“Alla fine posso dire che qui la partecipazione non c’è, non c’è stata. Qui la
partecipazione dei soggetti in rete non esiste. Per me è stato un buco nell’acqua. Non ci
sono proprio state le condizioni. E la realtà è che la Provincia per ragioni diverse, o
non ha denaro o non ha necessità di tenere certi rapporti, nel momento di chiudere fa
fatica a tenere i soggetti in rete” (coordinatrice in una associazione).
La volontà di lavorare tutti insieme è esplicitata, ma la difficoltà che ciò comporta è
altrettanto evidente. La sfida nell’utilizzo dello strumento Laboratorio sta anche in
questo: tentare di fare rete ed individuare chi la sappia coordinare.
Un’altra difficoltà emersa è stata quella rispetto alla qualità della partecipazione, che
non sia cioè solo presenza, ma che ognuno possa portare contributi concreti.
Infatti in un’altra intervista si dice “mi sono iscritta ma temevo fosse tutto un bla bla bla
e per un paio di volte ha avuto la tentazione di abbandonare, per via dei discorsi troppo
fumosi. Poi pian piano ho iniziato a partecipare. Sono stati incontri ricchi perché c’è
stato scambio di vedute” (componente di direttivo di una associazione).
Inoltre la discontinuità di presenza o l’alternarsi di figure diverse, anche se appartenenti
allo stesso Ente, ha creato punti di caduta notevoli in alcuni gruppi, in quanto il
Laboratorio non riusciva a decollare perché non era mai garantita la continuità di
partecipazione. Emerge dai documenti presi in analisi, in particolare per due laboratori,
che questo aspetto di criticità ha reso difficile la continuità delle elaborazioni del
gruppo, nel definire la condivisione del pensiero e della rotta da prendere. Questo ha
rischiato di rendere la partecipazione ridotta a mera presenza.
C’è chi però ha avuto un’esperienza positiva e propositiva rispetto al valore dato alla
partecipazione all’interno dei laboratori e alcuni coordinatori si erano proprio posti
l’obiettivo di non creare una partecipazione formale del tipo: “ci siamo visti”. Si sono
infatti adoperati affinché i partecipanti prendessero decisioni, consapevoli che una delle
difficoltà maggiori sarebbe stata quella di lasciare molto spazio alla prima fase di
condivisione del linguaggio e della metodologia di lavoro.
123
Dove si è riusciti a far sentire il gruppo come luogo di scambio delle idee e delle
esperienze, e quindi di pieno coinvolgimento, la partecipazione si fatta più assidua e
produttiva.
Il lavorare assieme nel Laboratorio ha permesso, in particolare ai soggetti del mondo del
volontariato, di cogliere la volontà dell’ente locale di un coinvolgimento attivo nella
fase di programmazione ed emerge che: “Questi laboratori sono stati molto utili perché
hanno poi mantenuto attivi i rapporti con l’Ente Locale e con l’AUSL ed abbiamo
potuto partecipare ai tavoli di lavoro a cui forse non saremmo stati coinvolti. Con
questo progetto abbiamo conosciuto attività dell’AUSL e del Comune di cui non si
sapeva nulla” (presidente di una associazione).
Da notare però che solo i rappresentanti di associazioni più grandi, più strutturate ed più
abituate ad avere a che fare con le istituzioni recepiscano l’importanza di poter
programmare insieme.
Sono in particolare i rappresentanti delle istituzioni ad invocare modalità per dare
continuità a forme strutturate di programmazione partecipata e a cercare di individuare
nuovi strumenti affinché ciò avvenga.
Non emerge altrimenti un richiamo forte e di contenuto a questo argomento che,
sebbene sollecitato, o non viene colto o non viene restituito con contenuti rilevanti.
Sembra quindi che siano ancora poche le associazioni che si sentono chiamate in causa
per essere attori della programmazione, poche paiono avere piena consapevolezza,
l’impressione è che restino chiuse nelle loro attività, faticando nel portare fuori le
esperienze e a condividere delle proposte.
4.5.2 Gli esiti delle attività dei Laboratori per la promozione dell’invecchiamento
attivo
Strettamente collegato alle considerazioni richiamate al punto precedente, anche in
merito al concetto dell’invecchiamento attivo e quanto gli attori coinvolti in questa
ricerca ne abbiamo acquisito (o rinforzato) il significato, emerge che, in particolare per
gli attori del terzo settore, questo tema è si associa quasi esclusivamente all’attività
svolta all’interno del proprio ente di riferimento. Come se l’invecchiamento attivo
coincidesse con le attività di volontariato o con le iniziative delle singole associazioni.
124
Difficile che emerga dai volontari o dai rappresentanti delle associazioni un
ampliamento del concetto agli aspetti complessivi della vita quotidiana.
Infatti, ad esempio: “Nella nostra associazione ci occupiamo prevalentemente di agio,
per prevenire il disagio, si fanno attività rivolte allo stare bene, a mantenere la salute, a
prevenire attraverso varie forme di attività” (presidente di una associazione).
E ancora “Noi ci occupiamo di invecchiamento attivo e manteniamo gli anziani attivi,
anche i grandi anziani, infatti organizziamo già da anni le vacanze e le persone che
vengono a queste esperienza hanno proprio desiderio di fare una vacanza, che non sia
andare via con i figli, ma stare in compagnia tra loro” (presidente di una associazione).
Mentre diverso è lo spettro di visuale sull’argomento espresso dai coordinatori e dagli
attori appartenenti agli enti pubblici, il cui coinvolgimento nel Progetto è da ricondurre
proprio alla finalità di promuovere l'invecchiamento attivo come risultante
dell'assunzione di stili di vita sani e attivi attraverso la diffusione di buone pratiche,
quale punto di partenza per l'individuazione di modalità comportamentali
complessivamente orientate al miglioramento delle condizioni di vita. In tale senso, nel
corso del lavoro sul campo, sono emerse una molteplicità di difficoltà da parte dei
diversi partecipanti nel tradurre i principi dell'invecchiamento attivo alla totalità delle
attività quotidiane, così come efficacemente espresso da un coordinatore di un
Laboratorio il quale afferma: “Per essere anziani attivi bisogna prima di tutto esserlo
per se stessi, anche se con sforzo. Se resti chiuso nel tuo nido e fai solo quello che sai
già fare, non si può andare avanti” (dirigente di ente pubblico).
In generale, ciò che sia evidenzia anche dalle modalità di azione sperimentate dai
coordinatori nei diversi laboratori per sensibilizzare sul tema i diversi partecipanti, è che
prima di tutto per condividere delle buone pratiche sull’invecchiamento attivo occorre
conoscerle, poi selezionarle e aderirvi ognuno secondo le proprie possibilità. E’
necessario chiarirsi sul linguaggio, su cosa si intende quando si parla di invecchiamento
attivo. Trovare gli obiettivi comuni e trovare poi le azioni da mettere in campo. Il
rischio che si corre, anche nel corso di esperienze come quella in oggetto, è che ogni
associazione coinvolta fatichi a concepire le specifiche attività organizzate in
integrazione con realtà simili, accomunate dal condividere la prospettiva
dell'invecchiamento attivo come vero e proprio ‘stile di vita’.
125
Cioè che emerge infatti è che la sensibilizzazione e il richiamo a pratiche volte
all’invecchiamento attivo è stato colto nelle attività messe in campo da ogni singola
associazione; tuttavia non sembra essersi diffusa l’idea che per promuovere
l’invecchiamento attivo non sia sufficiente partecipare a qualche attività, quali quelle
proposte da ogni singola associazione, ma occorra adottare stili di vita
complessivamente attivi.
La necessità di portare la propria esperienza e di renderla ‘buona pratica’ si è infatti
evidenziata nel corso dei Laboratori da parte di tutti partecipanti e solo attraverso
l’utilizzo di tecniche specifiche, in precedenza evidenziate, e chiedendo ai partecipanti
di fare uno sforzo al fine di condividere il senso delle parole ed il linguaggio utilizzato,
è stato possibile individuare un percorso che potesse portare ogni Laboratorio
all’elaborazione di un prodotto finale, che potesse essere condiviso, mostrato e praticato
anche dagli altri.
In sintesi gli esiti del progetto si sono concretizzati in azioni informative di stampo
prevalentemente preventivo, attraverso i materiali prodotti nel corso dei Laboratori, e
questo non può che incidere positivamente sulla popolazione.
4.5.3 Alcuni effetti ‘inattesi’
L’analisi di questa esperienza ha posto infine in evidenza lo sviluppo di alcuni aspetti
‘inattesi’, in particolare attraverso la valorizzazione di alcune esperienze portate ‘dal
basso’ verso l'’alto’, grazie ai processi di inclusione di nuovi attori, che si sono
concretizzati proprio all’interno dei Laboratori; è stato infatti possibile inserire
l'esperienza e gli esiti di alcuni Laboratori (‘alimentazione’ e ‘movimento’) in più ampi
processi di pianificazione del welfare territoriale, andando così ad elaborare un nuovo
Progetto che è stato inserito ad un livello intermedio di programmazione.
Questo riconoscimento è in linea con il contesto normativo che caratterizza l'ambito
regionale in base al quale si auspica che ogni livello di governance deve dotarsi degli
strumenti per evidenziare le buone pratiche già esistenti, che devono essere utilizzate
per consolidate metodologie efficaci, tali da poter essere inserite e sostenute nei diversi
ambiti di programmazione integrata.
126
In tale ottica l’Azienda USL e la Provincia di Bologna, all’atto della presentazione degli
esiti del Progetto ‘Anziani, imprenditori di qualità della vita’ nel 2013, nell’ambito di
interesse come detto di due Laboratori, hanno individuato nel Quartiere Navile
(Comune di Bologna) il territorio che per primo potesse essere sensibilizzato per la
l’elaborazione e la presentazione in Regione di un Progetto di Comunità, ampliando
quindi la fascia di intervento originale. Questo Progetto di Comunità, denominato “Alla
salute, cittadini imprenditori di qualità di vita” proprio per dare un'idea di assonanza con
il Progetto iniziale, nel corso del 2014 è stato inserito all’interno del Programma
Nazionale ‘Guadagnare in salute’. Tutti gli attori, coinvolti nei due Laboratori, sono
stati riconvocati e sono ancora attivi in questo nuovo percorso.
Inoltre, nonostante il Progetto non sia stato inserito, al suo esordio, in alcun Piano di
Zona, a causa da un lato della non coincidenza tra i tempi di programmazione locale e
l’elaborazione del Progetto stesso, e dall’altro a causa della frammentarietà territoriale
di provenienza dei diversi attori coinvolti, nel maggio 2012, vista la buona adesione, sia
da parte sia degli enti di Terzo Settore che dei rappresentanti di Enti Pubblici e tenuto
conto della fattiva partecipazione e delle attività che si stavano svolgendo all’interno dei
Laboratori, la Provincia, con l’approvazione dello Staff Tecnico e la presentazione in
CTSS, ha inserito il Progetto nel documento “Programma provinciale a sostegno delle
politiche sociali. Progetti sovrazonali anno 2012". Rinnovandolo anche per l’anno 2013
e rinominandolo per l’anno 2014 in ‘Guadagnare in salute in contesti di comunità’ dove
si legge: “sulla scorta della positiva esperienza condotta nell’ambito del Progetto
‘Anziani, imprenditori di qualità della vita’ (…) si opererà per individuare analoghe
modalità per altri setting e target di popolazione. Verranno pertanto elaborate proposte
innovative e di impatto volte a promuovere corretti stili di vita nella popolazione. (…)
Per ciascuno dei setting e target di popolazione individuati verrà avviata una
progettazione partecipata per la realizzazione di specifici interveti coinvolgendo e
promuovendo la piena collaborazione fra enti, istituzioni e associazioni interessate”23.
Il Progetto ha rappresentato, e lo è tuttora, un orientamento più generale per la
programmazione di Area Vasta. Pertanto, grazie anche alle condizioni contestuali di
utilizzo dello strumento Laboratoriale (al lavoro svolto, alla partecipazione attuata e ai
23 Programma Provinciale a sostegno delle politiche sociali. Anno 2014, p.86
127
prodotti elaborati insieme tra i diversi partecipanti), è stato possibile definire un nuovo
Progetto, inserito in un percorso di governance più ambia e di programmazione
integrata e partecipata, ad un livello locale ben definito.
Il Presidente del Quartiere Navile spiega il perché della scelta rispetto al suo Quartiere
per la promozione del Progetto di Comunità ed evidenzia che “ Il Progetto ‘Anziani,
imprenditori di qualità della vita’ è partito prima della mia nomina di Presidente. Ma
ero presente al Convegno del 2013, che è stato organizzato nel Centro Sociale che è
collocato proprio sotto la sede del Quartiere. Il quartiere è molto grande ed ha sempre
dovuto sviluppare ambiti intermedi: noi chiediamo al nostro territorio di farsene carico
insieme a noi, di attivare la popolazione, tutti i cittadini. C’è una rete già strutturata,
una mappatura delle Associazioni, che sta confluendo nel Progetto di Comunità. Il
quartiere ha sottoscritto la domanda di adesione al Programma Guadagnare in Salute
e lo ha fatto in quanto in questo Quartiere ci si gioca il ruolo della convivenza e della
partecipazione, qui si gioca una sfida vera”.
Questo esito, sebbene parziale, avendo coinvolto solo due dei cinque laboratori, ha
tuttavia esteso la platea di popolazione interessata, è pertanto un risultato inatteso. Forse
anche insperato da parte degli iniziali organizzatori del Progetto, in quanto occorre
tenere conto che il Programma ‘Guadare in Salute’ ha tra i suoi criteri di accesso
proprio quello di prendere in considerazione Progetti che facciano riferimento ai
principi della partecipazione e dell’integrazione tra pubblico e no profit. Questo sta a
significare che certamente questo obiettivo, iniziale del Progetto, oltre ad essere stato
raggiunto, è stato anche riconosciuto ad un livello più alto di quello locale.
Questo Progetto quindi, realizzatosi attraverso un approccio bottom up, ha avuto un
riconoscimento a più livelli di governance: dalla programmazione provinciale,
divenendo un Progetto di Comunità fino ad essere inserito in un Progetto Regionale e
Nazionale, questo grazie anche allo strumento Laboratorio, attraverso il quale è stato
possibile attuare una partecipazione coordinata di attori diversi, gruppi sociali ed
istituzioni.
129
CONCLUSIONI
Il mio lavoro ha preso avvio dall’analisi delle caratteristiche della governance del
welfare territoriale e di come in tale contesto si sia diffusa la programmazione sociale
integrata e partecipata; ho poi approfondito la multidimensionalità del concetto di
partecipazione e le modalità di attuazione di processi decisionali inclusivi. Infine ho
focalizzato l’attenzione sulle politiche sociali relative all’area di mio interesse, quelle
rivolte agli anziani ed in particolare ai giovani anziani e alla dimensione
dell’invecchiamento attivo. La prospettiva di riflessione che ho adottato ha posto
particolare attenzione agli strumenti di azione pubblica, considerando questi ultimi non
esclusivamente dispositivi tecnici, ma vere e proprie istituzioni, espressioni di valori,
quadri cognitivi, regole di coordinamento tra gli attori, le informazioni e il contesto di
riferimento. Alla luce di questo quadro ho poi affrontato lo studio del Progetto ‘Anziani,
imprenditori di qualità della vita’ realizzato negli anni 2011-2013, promosso dalla
Provincia di Bologna, in collaborazione con AUSL di Bologna e ANCeSCAO,
associazione di Terzo Settore molto presente sul territorio. Questo Progetto ha permesso
di evidenziare aspetti di notevole interesse, relativamente agli argomenti di carattere
teorico oggetto della prima parte del mio lavoro.
Nel Progetto sono stati coinvolti numerosi soggetti del Terzo Settore e rappresentanti
degli Enti Pubblici: quaranta sono stati gli attori che ho contattato nel corso della mia
ricerca, di cui sedici di provenienza pubblica e ventiquattro appartenenti al mondo del
volontariato, afferenti ad associazioni o enti no profit del territorio e non
necessariamente già coinvolti in attività in favore della ‘silver age’.
Aspetto peculiare del Progetto è stata la sua realizzazione attraverso l’utilizzo di uno
strumento particolare quale quello Laboratoriale. Cinque sono stati i Laboratori attivati,
suddivisi in aree tematiche specifiche, con la finalità, da un lato, di promuovere una
cultura comune su cittadinanza attiva e buone pratiche sociali per il miglioramento della
qualità della vita e, dall’altro, di incidere sui processi di partecipazione, migliorando la
collaborazione tra Istituzioni, Terzo Settore, genericamente inteso, e cittadini.
L'utilizzo dello strumento Laboratorio ha infatti permesso di agevolare la
partecipazione, valorizzando l'esperienza dei soggetti coinvolti. Si è evidenziato, in
particolare, che la co-progettazione di attività attraverso questa modalità ha consentito
130
ad ognuno di portare il proprio contributo, in quanto nella maggior parte dei Laboratori
il clima è stato caratterizzato dall’uguaglianza tra i partecipanti.
Lo strumento Laboratorio ha tuttavia avuto efficacia diversa in funzione del soggetto a
cui era attribuito il ruolo di regia. Laddove il coordinamento era stato assegnato a
professionisti, in questo caso afferenti all'ente pubblico, i partecipanti ne hanno
riconosciuto il ruolo di terzietà e la partecipazione è risultata, oltre che più assidua,
anche più ricca di contributi e senza manifestazioni di conflitti interni.
Gli strumenti di ricerca che ho utilizzato (interviste, questionari, verbali degli incontri e
materiali prodotti nel corso dei due anni del Progetto) hanno messo in risalto, rispetto
alla finalità del Progetto, la diffusione e la promozione di pratiche e di stili di vita sani e
attivi, una ricca e variegata produzione di attività e materiali, con un ritorno di giudizio
positivo da parte dei partecipanti. Allo stesso modo sono stati evidenziati aspetti di
criticità nella spiccata autoreferenzialità che ogni attore ha mostrato rispetto al proprio
ente di appartenenza. In generale è emersa la fatica di ognuno ad avere una visione di
più ampio raggio: in particolare i referenti del Terzo Settore si riferiscono
tendenzialmente alla propria specifica attività svolta nell’ambito della propria
associazione.
La sensibilizzazione e il richiamo a pratiche volte all’invecchiamento attivo è stato colto
nelle attività messe in campo da ogni singola associazione; tuttavia non sembra essersi
diffusa l’idea che per promuovere l’invecchiamento attivo non sia sufficiente
partecipare a qualche attività, quali quelle proposte da ogni singola associazione, ma
occorra adottare stili di vita complessivamente attivi.
Ciò che a mio giudizio è l’aspetto più critico di questa esperienza è l’essersi focalizzata
sulla progettazione, seppur partecipata, di ‘cose’ (singole attività, prodotti, etc.) e meno
sulle ‘azioni’: processi di integrazione tra le diverse realtà, tra momenti di
programmazione, caratteristiche che sarebbero andate a vantaggio di una visione di
invecchiamento attivo come modalità complessiva di affrontare i problemi dell’età
anziana e le risorse che essa offre, piuttosto che come individuazione di singole
opportunità.
E’ mia opinione che, soprattutto dal lato delle associazioni di Terzo Settore, non sia
ancora stato fatto quel salto di qualità che permetterebbe loro di poter andare oltre
l’autoreferenzialità, comprendendo, ad esempio, che assumere stili di vita sani ed attivi
131
non può essere solo legato all’attività svolta nella propria associazione, ma che tale
concetto va allargato a tutte le aree della vita quotidiana, dentro e fuori la propria attività
di volontariato, in particolare attraverso l’integrazione con le altre realtà del territorio.
Il richiamo all’autoreferenzialità di ogni realtà associativa emerge anche rispetto al
ruolo che il Terzo Settore assume nella programmazione: sembrano essere ancora poche
le associazioni che si sentono chiamate in causa, o che chiedono di esserlo, quali attori
della programmazione. L’impressione è che si focalizzino solo sulle loro attività,
rapportandosi con le Istituzioni per avere sostegno, ma faticando a condividere le
esperienze e proposte, nell’ottica della programmazione e di attivazione di processi di
integrazione ed inclusivi.
Malgrado queste criticità, il Progetto ha portato ad un esito inatteso, proprio attraverso
un riconoscimento ad un livello superiore della governance territoriale.
Infatti l’Azienda USL e la Provincia di Bologna, all’atto della presentazione degli esiti
del Progetto nel 2013, nell’ambito di interesse di due tra i cinque Laboratori attivati
(‘alimentazione’ e ‘movimento’) hanno individuato nel Quartiere Navile (Comune di
Bologna) il territorio che per primo potesse essere sensibilizzato per l’elaborazione e la
presentazione in Regione di un Progetto di Comunità, ampliando quindi la fascia di
intervento. Questo Progetto di Comunità, denominato “Alla salute, cittadini
imprenditori di qualità di vita” proprio per dare un idea di assonanza con il Progetto
iniziale, nel corso del 2014 è stato inserito all’interno del Programma Nazionale
“Guadagnare in salute”. Tutti gli attori coinvolti nei due Laboratori, sono stati
riconvocati e sono ancora attivi in questo nuovo percorso.
Il Progetto, che è stato realizzato attraverso un approccio bottom up, è stato valorizzato,
come da orientamenti regionali, a più livelli di governance: dalla programmazione
provinciale, al divenire Progetto di Comunità fino all’essere inserito in un Progetto
Regionale e Nazionale, questo grazie anche allo strumento Laboratorio, attraverso il
quale è stato possibile sperimentare forme di co-progettazione all'insegna della
partecipazione coordinata di attori diversi, gruppi sociali ed istituzioni.
Questo Progetto ha evidenziato le tante risorse che sono presenti nel sottosistema socio-
culturale di questo territorio e il contributo di idee, proposte e buone pratiche che
possono emergere a patto di saper valorizzare i diversi ruoli, attraverso un lavoro di
squadra. A questo proposito la messa in campo e l’utilizzo di strumenti specifici, come
132
quello Laboratoriale, ha posto in evidenza le condizioni affinché tali potenzialità si
manifestassero: lo stile di governo affinché i cittadini siano posti nella possibilità di
portare contributi e il coinvolgimento per far giocare loro un ruolo attivo nel governo
delle politiche sociali, in quanto sono detentori di idee, di esperienze, di conoscenze, di
progetti che il più delle volte rischiano di perdersi senza trasformarsi in vere opportunità
di investimento sociale. E’ dunque fondamentale riflettere sulle modifiche del ruolo
dell’ente pubblico, in quanto essendo sempre meno impegnato nella gestione diretta dei
servizi, deve necessariamente essere coinvolto nella promozione e nel coordinamento di
un’intesa efficace con i cittadini e con le organizzazioni del territorio. Nuove alleanze
tese a incentivare nuove attività di promozione sociale, ad attuare buone pratiche e
comportamenti che siano di promozione al miglioramento della qualità della vita, che
possono trarre origine proprio da azioni di programmazione locale partecipata ed
integrata come quella che ho esplorato nel corso del mio lavoro.
135
TRACCIA di INTERVISTA QUALITATIVA
rivolta a testimoni privilegiati del Terzo Settore e di Ente Pubblico
che hanno partecipato al
Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della vita”
Nome della persona Intervistata:
Associazione/ Ente/ Organizzazione:
Data:
Luogo dell’intervista:
A) Analisi di sfondo
1) Di cosa si occupa principalmente questa associazione/ente/settore ?
2) Che ruolo riveste all’interno ?
3) Da quanto tempo svolge questa attività?
4) Quanti soci, volontari, collaboratori ha questa associazione/ente/settore?
B) Approccio al Progetto
1) Quando (anno – evento) e come (attraverso chi) ha conosciuto il Progetto?
- Ha partecipato al Convegno dell’ottobre 2011
- Ha partecipato al Convegno dell’aprile 2013
2) Cosa si aspettava dal Progetto?
3) Quando e perché ha deciso di partecipare al Laboratorio?
4) A quale Laboratorio era iscritto?
136
5) Cosa si aspettava dal Laboratorio?
6) Che ruolo ha avuto nel Laboratorio ? (Coordinatore – Partecipante – altro
specificare)
7) Con che frequenza di presenza ha partecipato ?
C) Descrizione del Progetto
1) Quali e quante Associazioni - Enti – Istituzioni erano presenti nel
Laboratori/o?
2) Quante persone erano presenti, sia inizialmente che nel corso del tempo al
Laboratorio?
- Se c’è stata modifica dei partecipanti: secondo lei perché?
3) Tutte le persone presenti al Laboratorio sono state ugualmente coinvolte e
partecipi ?
- Il livello di coinvolgimento è stato più a livello di singole persone o di tutto
il gruppo del Laboratorio?
4) Quale è stato secondo lei il livello di considerazione da parte dei partecipanti
rispetto ai contributi portati da ognuno nel Laboratorio?
5) Come è stato vissuto il ruolo del coordinatore?
6) Qual era il “clima” , la relazionale tra i partecipanti del Laboratorio?
137
7) Nei Laboratori si sono confrontare le esperienze già in essere delle diverse
Associazioni e Enti?
8) Ci sono state esperienze o nuove proposte realizzate nel Laboratorio?
- Se sì quali: descrivere
9) Le attività e i materiali prodotti dai Laboratori sono stati riproposte o
presentati all’interno della sua Associazioni /Ente/ Organizzazione ?
D) Riflessioni sul Progetto
1) Quale era l’obiettivo iniziale del Progetto?
2) Qual’era l’obiettivo del Laboratorio?
3) Cosa è stato realizzato?
4) Cosa è cambiato dopo la partecipazione a questo Progetto e ai Laboratori
- per lei?
- per la sua associazione/ente/organizzazione?
- per il territorio e per gli anziani della zona in cui opera il la sua
Associazione /Ente / organizzazione ?
5) Cosa può ancora cambiare?
6) Considerazioni e suggerimenti sul Progetto, sul Laboratorio
139
Questionario sul Progetto “Anziani, imprenditori di qualità della vita”
Lei risulta aver partecipato ad almeno un incontro dei laboratori legati al Progetto
“Anziani, imprenditori di qualità della vita”. Le chiedo gentilmente di esprimere la
sua opinione in merito, rispondendo alle seguenti domande.
Associazione/Ente : ____________________________
Nome dell’intervistato: ____________________________
Ruolo nell’Ass./Ente ____________________________
1. In quale occasione è venuto a conoscenza dell’esistenza del Progetto “Anziani,
imprenditori di qualità della vita”?
In occasione del Convegno “Anziani, imprenditori di qualità della vita” del
19 ottobre 2011
Sono stato invitato a partecipare dai coordinatori del progetto
Altro _______________________________________________________
Non ricordo
2. Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a partecipare al Progetto?
(anche più di una risposta)
Opportunità di scambio di informazioni sull’adozione di comportamenti utili
a migliorare la qualità della vita ed i processi di invecchiamento
Opportunità di conoscere altre realtà del territorio impegnate sulle stesse
tematiche di cui si occupa la mia associazione/ente
Opportunità di migliorare il rapporto con le Istituzioni (AUSL; Comuni;
Provincia; ….)
Opportunità di raccontare l’esperienza della mia associazione/ente e di dare
un contributo
Altro (specificare) ___________________________________________
140
3. A quale laboratorio ha partecipato?
(anche più di una risposta)
Fragilità e Sicurezza
Turismo Sociale Culturale
Alimentazione
Tenere in forma la mente
Movimento
4. La sua partecipazione ai laboratori è stata:
Solo ai primi incontri
Discontinua
Costante
Solo agli ultimi incontri
Altro (specificare) ___________________________________________
Non ricordo
5. Ha avuto modo di confrontarsi e riflettere all’interno della sua
Associazione/Ente su ciò che emergeva nel Laboratorio a cui partecipava?
Costantemente
A volte
No
Non ricordo
6. Sa se il laboratorio a cui ha partecipato è ancora attivo?
Si
No
Non so
7. Se si, partecipa ancora?
Si
No
141
8. La partecipazione ai laboratori le ha dato l’opportunità di presentare
esperienze avviate dalla sua Associazione/Ente attinenti al tema del
laboratorio?
Si
No
Non ricordo
9. La partecipazione ai laboratori le ha dato l’opportunità di poter conoscere
altre attività/realtà presenti sul territorio?
Si
No
Non ricordo
10. In seguito alla sua partecipazione ai Laboratori sono nate collaborazioni con
altre realtà del territorio?
Si
No
Non so
11. La partecipazione ai Laboratori crede che abbia permesso alla sua
Associazione/Ente di promuovere nuove attività mirate al miglioramento della
qualità della vita e dei processi di invecchiamento (attività di prevenzione e
promozione della salute)?
Si
No
Non so
12. La partecipazione ai Laboratori crede che abbia permesso alla sua
Associazione/Ente di migliorare il collegamento con le Istituzioni (AUSL;
Comuni; Provincia; ….)
Si
No
142
Non so
13. La sua Associazione/Ente ha presentato la propria esperienza durante il
Convegno “Anziani, imprenditori della qualità della vita. Insieme si può fare”
del 13 aprile 2013?
Si
No
Non ricordo
14. Gli esiti (video, volantini informativi, indicazioni pratiche, ecc…) dei diversi
laboratori illustrati al Convegno del 2013, sono stati presentati all’interno della
sua Ente/Associazione?
Si
No
Non so
15. Se no, perché?
non ritenuti di interesse per l’Associazione/Ente
benché ritenuti di interesse non si è trovata l’occasione per presentarli
mancanza di supporti tecnologici/logisti adeguati all’interno
dell’Associazione/Ente
non so
16. Le chiedo di esprimere un giudizio complessivo circa l’esperienza avuta come
partecipante all’interno del Progetto?
Molto positivo
Positivo
Negativo
Molto negativo
145
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Ranci C., 2005 “Le sfide del welfare locale. Problemi di coesione sociale e nuovi stili di
governante”, La Rivista delle Politiche Sociali n.2
Rei D., 1999 “Società civile e agire politico”, Animazione Sociale n.6-7
Tesauro T., 2012 “Invecchiamento Attivo come capacità e pratiche da sperimentare e
imparare”, Sociologia del Lavoro n.125
Vitale T., 2005 “Contrattualizzazione sociale”, La Rivista delle Politiche Sociali n.1
Vitale T., 2005 “Attivazione e Contrattualizzazione nel welfare locale: cambia la
posizione dei destinatari?”, La Rivista delle Politiche Sociali n.5
aa.vv., 2013 “Costruiamo il Welfare di domani”, Prospettive Sociali e Sanitarie n.8-10
aa.vv., 2013 “Riflessioni su Costruiamo il Welfare di domani”, Prospettive Sociali e
Sanitarie n.11
aa.vv., 2012 * Osservatorio ISFOL, n.2
aa.vv. “Famiglie e Comunità”, online dic-13
151
SITOLOGIA
ANCeSCAO Bologna
BoS Bologna Solidale
C.E.S.E
EUROFAMCARE
Europa.eu
IREF
IRES
ISFOL
ISCOE
ISTAT
LabSus
LAPSS
OCSE
OECD
OMS
ONU
Osservatorio Nazionale sul Volontariato
Passi d'Argento
Regione Emilia-Romagna Sociale
Regione Emilia Romagna - Saluter
Regione Emilia Romagna - Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale - Community Lab
Sociale e Salute
URP degli URP
153
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella realizzazione della tesi.
Ringrazio la Professoressa Giullari, Relatore, che oltre al supporto, ha saputo fermarmi
poi spronarmi al momento giusto.
Ringrazio il Dott. Trevisani e la Dott.sa Minelli per la dimostrazione di fiducia e per la
disponibilità accordata.
Ringrazio la Dott.sa Del Mugnaio per avermi dato l’idea; la Dott.sa Lazzari, il Dott.
Orsi e la Dott.sa Pieratelli per i preziosi contributi e ringrazio tutti gli attori del Progetto
per la disponibilità dimostrata.
Ringrazio Gerardo per la spinta iniziale, RosAngela e Francesco per quella conclusiva e
per il tempo che mi hanno dedicato.
Ringrazio Ada, senza la quale sarebbe stato ‘lavorativamente’ impossibile e ringrazio
sua figlia Chiara per il ‘supporto grafico’.
Ogni errore o imprecisione è imputabile soltanto a me.
Ho potuto impegnarmi, in questi tre anni universitari, grazie ad ALE, senza di lui non
avrei potuto e non ce l’avrei fatta.
Ringrazio i miei genitori e i miei suoceri per l’aiuto quotidiano.
Mia sorella e mio cognato per la ‘sopportazione’.
Ringrazio tutti i miei colleghi per la ‘pazienza’ avuta.
Ringrazio, infine ma non per ultimi, tutti i miei amici e le mie amiche per il prezioso
sostegno morale.