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Il Momento Della Rencontre. Filosofia, Politica, Egemonia

Date post: 24-Oct-2015
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Collana diretta da Roberto De Gaetano
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Collana diretta daRoberto De Gaetano

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POLITICA DELLE IMMAGINISu Jacques Rancière

a cura di Roberto De Gaetano

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Proprietà letteraria riservata

© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

Stampato in Italia nel mese di febbraio 2011per conto di Pellegrini Editore

Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

Sito internet: www.pellegrinieditore.it

E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i mi-crofilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

Si ringraziano Alessandro Canadè, Loredana Ciliberto, Andrea Inzerillo e Antonietta Petrelli

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INDICE

Introduzionedi Roberto De Gaetano pag. 9

JACQUES RANCIÈREPolitiche del cinema » 15

PARTE I

SALVATORE TEDESCOPolitiche dei saperi e sistema dell’estetica » 47

CLIO NICASTROParadigmi della mimesis » 63

DARIO CECCHIL’arte dei disaccordi. La questione dellademocrazia tra politica ed estetica » 73

VALERIA COSTANZA D’AGATASchiller e Rancière: impulso al gioco esospensione dei rapporti di dominazione » 91

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CLEMENS-CARL HÄRLEChe cosa fa della traccia un’opera? pag. 103

FILIPPO FIMIANILo spettatore indecidibile. L’emancipazioneestetica tra retorica e poetica » 115

PARTE II

FORTUNATO MARIA CACCIATOREIl momento della rencontre.Filosofia, politica, egemonia » 153

BRUNO BESANAImmaginare l’eguaglianza » 175

DAVIDE TARIZZOLa dignità della politica.Rancière, l’uguaglianza e l’ospitalità » 201

ANTONELLA MOSCATIDi alcuni motivi nella politica di Rancière » 221

BEATRICE MAGNITra accordi legittimi e disaccordi insuperabili » 235

ALAIN BADIOU Le lezioni di Jacques Rancière:sapere e potere dopo la tempesta » 265

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PAOLO GODANILetteratura e politica in Jacques Rancière pag. 303

PARTE III

ROBERTO DE GAETANOPotere e potenza dell’anonimo » 319

DORK ZABUNYANCritica della finzione di sinistra » 341

MARCELLO WALTER BRUNOL’amore-odio della fotografia per la democrazia (e viceversa) » 357

DANIELA ANGELUCCIRancière e la modernità cinematografica » 379

ANDREA INZERILLOLo spazio del cinema.Note su Deleuze e Rancière » 393

BRUNO ROBERTIL’immagine fra incarnazionee irrappresentabilità » 411

JEAN-LOUIS LEUTRATLa notte del cinefilo.Jacques Rancière e il cinema » 429

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DANIELE DOTTORINIMaestria e trasmissione dei saperi:Rancière con Rossellini pag. 461

LUCA VENZIL’icona e il montaggio.Rancière e le Histoire(s) du cinéma » 481

ALESSIA CERVINIOperatività e pensosità dell’immagine » 501

Indice dei nomi » 521

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IL MOMENTO DELLA RENCONTRE. FILOSOFIA, POLITICA, EGEMONIA

V’è politica perché – o quando – l’ordine naturale dei re pastori, dei signori della guerra o dei pro-prietari viene interrotto da una libertà capace di rendere attuale l’uguaglianza ultima su cui riposa ogni ordine sociale.[…] Vi è politica nel momento in cui la presunta logica naturale del dominio viene contaminata dagli effetti di questa uguaglianza. Ciò significa che non c’è sempre politica. Anzi, ce n’è poca, e raramente1.

Parlare di momenti politici non implica […] l’idea che la politica non esista se non in rari momenti insurrezionali strappati al corso normale delle cose. […] Parlare di momenti politici, è anzitutto dire che la politica non s’identifica con il corso ininterrotto degli atti di governo e delle lotte per il potere, che esiste quando la gestione ordinaria dei loro oggetti si apre alla questione relativa a ciò che la politica è, al tipo di comunità che essa concerne, a coloro che sono inclusi in tale comunità e a quale titolo2.

1 J. Rancière, Il disaccordo, tr. it., Meltemi, Roma 2007, p. 37.2 Id., Moments politiques. Interventions 1977-2009, Avant-propos, La fabrique, Paris 2009, pp. 7-8.

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È a partire da queste due citazioni che leggerò Rancière, tentando di seguirne le dimostrazioni e di muovermi tra «politica» e «polizia», tra rarità del «momento» e sua iscrizione istituzionale.

Non c’è sempre politica, anzi, ce n’è poca, e raramente.

I momenti politici non sono semplicemente mo-menti insurrezionali strappati al corso normale delle cose, dunque dalle istituzioni.

La seconda citazione può essere interpretata come un chiarimento della prima: Rancière prenderebbe le distanze dall’idea che oppone semplicemente un momento insurrezionale alle istituzioni, o, più in ge-nerale, la politique alla police, ridotta a «dispositivo statale» (in analogia con la classica polarità società civile/Stato).

Ma, nello stesso passo, si può, forse, intravedere anche l’indice di una difficoltà: non basta, o, addi-rittura, sarebbe fuorviante, limitarsi alla dicotomia, come se i due termini fossero predefiniti e, poi, arti-colati e/o disarticolati, continuassero a conservare la loro unilateralità, in riferimento a un terzo termine, trascendente la loro relazione. Occorre, piuttosto, pensarne la rencontre (incontro-scontro), senza confonderli, né riconciliarli, ma senza dimenticare che l’autonomia dell’uno e dell’altro «campo» si definisce solo per eteronomia e che la divisione (o la Entzweiung) passa per entrambi.

1. Un primo «incontro», preliminare, s’annuncia nel sottotitolo del Disaccordo: quello tra politica e filosofia. L’una s’inscriverebbe nel testo dell’altra sotto forma di «eccezionalità radicale». A recarne

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testimonianza i dialoghi di Platone:

Socrate, infatti, non è un filosofo che riflette sulla politica di Atene, è il solo ateniese a “praticare la vera arte politica” (gorgia, 521d), a far politica nel senso della verità in contrasto con tutto ciò che ad Atene si esercita sotto il nome di politica. Il primo incontro tra politica e filosofia avviene sotto forma di un’alternativa: o la politica dei politici o la politica dei filosofi3.

La «disumanità dell’opposizione platonica» met-terebbe in gioco la sicurezza con la quale si classifica e sistema la «filosofia politica» tra le suddivisioni della filosofia in generale e si assegna a quest’ultima la funzione di «arricchire», con la sua riflessione, o di «fondare», con il suo legiferare, «ogni grande forma dell’agire umano».

La filosofia non ha suddivisioni tali da adattarsi né al suo concetto specifico, né agli ambiti in cui si esercita la sua riflessione o il suo dominio. Si occupa di oggetti singolari, dilemmi nati da un de-terminato incontro con la politica, l’arte, la scienza, o un’altra attività di pensiero, sotto il segno del paradosso, di un conflitto, di un’aporia specifici4.

In tal senso, l’espressione «filosofia politica» non definirebbe alcun «genere», né traccerebbe i

3 Id., Il disaccordo, cit., p. 18.4 Ivi, pp. 18-19.

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confini di un «territorio» determinato, ma sarebbe il nome per un «incontro polemico», che renderebbe «visibile» lo «scandalo della politica»: l’assenza di un «fondamento proprio: «Questo è il disagio tipico della politica, attraverso cui la politica diventa un disagio per la filosofia, un problema filosofico»5. Si tratterebbe, allora, di «mettere alla prova» un’ipotesi critica più generale: «ciò che chiamiamo “filosofia politica” potrebbe anche essere l’insieme di artifici di pensiero attraverso cui la filosofia cerca di farla finita con la politica, sopprimendo uno scandalo di pensiero tipico dell’esercizio della politica»6. Quando viene a contatto con «la poesia, la politica e la saggezza di onesti commercianti», la filosofia «è costretta a usare le parole altrui»7, per «affermare tutt’altro». E, a ogni incontro, giungerebbe «troppo tardi».

La filosofia avrebbe elaborato tale intempestività traducendo il disagio, provocato dall’«incontro», in «vizio costitutivo» o «torto della democrazia»8. E, in tal modo, essa continuerebbe a stringere alleanza con la «polizia».

Ma, se è nell’«incontro», che si dà a vedere, l’eteronomia della filosofia – «anzitutto in rapporto con la politica» – occorre, a mio avviso, chiedersi se la stessa necessità non investa anche il discorso che si propone di «separare la politica da tutto ciò che

5 Ibidem.6 Ivi, p. 21.7 Ibidem.8 Ivi, p. 80.

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comunemente si colloca sotto il suo nome»9. Non sarebbe anch’esso «costretto a usare le parole altrui», quelle del filosofo, certo, ma non solo? E tanto più se, come scrive Rancière, la condizione della politica è una «condizione non politica»10?

Un problema analogo si pone a proposito dei rapporti tra la politica e i suoi altri (la polizia, ad esempio).

2. Per Rancière, «politica» è il nome di una «rot-tura» che, mettendo in gioco la «logica dell’arkhè», segnerebbe l’emergenza della democrazia e la sua differenza rispetto a qualsiasi «regime» (compresi quelli cosiddetti «democratici)11. Sarebbe il «mo-mento» in cui si rivelerebbe l’«errore di calcolo»

9 Ivi, p. 22.10 Ivi, p. 79.11 Id., Dix thèses sur la politique, in Id., Aux bords du politique, Gallimard, Paris 2007. «La democrazia non è un regime politico. È, in quanto rottura della logica dell’arkhè, vale a dire dell’anti-cipazione del comando senza la sua disposizione, il regime stesso della politica come forma di relazione che definisce un soggetto specifico», ivi, p. 231. In forme differenti, e diretto a conclusioni talvolta divergenti, il gesto che distingue la «democrazia» o il «democratico» dal «regime» che ne reca il nome o l’attributo è condiviso da numerose posizioni che, nell’attuale dibattito filosofico-politico, tentano di ripensare i concetti di uguaglianza, libertà, emancipazione, popolo, istituzioni, egemonia. Un solo nome: Ernesto Laclau, del quale mi limito a citare un testo sul quale mi capiterà di tornare più avanti: On Populist Reason, Verso, London-New York 2005; cfr., ad esempio, p. 125: «[…] con “democratico” non intendo, in tale contesto, niente che sia in relazione con un regime democratico».

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che istituisce e, a un tempo, manda in rovina i «di-spositivi che riguardano l’esercizio della sovranità, il vicariato della divinità, il comando delle armate o la gestione degli interessi»12. L’«istituzione» della politica coinciderebbe (ma nella forma del «torto» e dell’antagonismo) con l’«istituzione della lotta di classe». A condizione che quest’ultima non sia pen-sata come il «motore segreto della storia», o come la «verità nascosta dietro le sue apparenze», ma sia presupposta altrimenti: come «la politica stessa», incontrata sempre già in atto da «coloro che vogliono fondare la comunità sulla sua arkhè»13.

Così, il «proletariato» di Marx14 si ricongiunge-rebbe con il demos ateniese. In due diversi momenti storici (ma non sono i soli), emergerebbe la faglia di un’«eccezione radicale» rispetto alla comunità. Ogni volta, il nome di una parte, non contata nell’ordine comunitario, nelle distribuzioni, tanto aritmetiche

12 J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 38.13 Ivi, p. 39. Con «archi-politica» Rancière intende il «pro-getto» (che risalirebbe a Platone) di «una comunità fondata sulla realizzazione integrale e sull’integrale sensibilizzazione dell’arkhè della comunità che sostituisce interamente la confi-gurazione democratica della politica. Sostituire del tutto questa configurazione significa fornire una soluzione logica al paradosso della parte dei senza-parte» (ivi, p. 83). L’archi-politica – dice ancora Rancière – «è anche un’archi-polizia, che attribuisce compiutamente i modi d’essere e i modi di fare, i modi di sentire e i modi di pensare».14 Nome indeciso tra la classe e la non-classe, o la «massa», che non può corrispondere con il concetto di classe, se deve designare la dissoluzione di tutte le classi.

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quanto geometriche, dei posti e delle funzioni, ri-vendica per sé «il nuovo titolo dell’uguaglianza di ciascuno con chiunque», mettendo in scena un altro principio (anarchico). Si direbbe politica – momento politico – perché e quando i «dispositivi» della so-vranità sono interrotti per «effetto di un presupposto del tutto distinto». Ogni volta, una parte dei senza parte dimostra la condizione di possibilità della disuguaglianza (della divisione tra le «classi», della classificazione gerarchica) che è la sua stessa con-dizione d’impossibilità: l’uguaglianza, presupposta, ma come la contingenza di ogni ordine.

Scrive Rancière: «Prima del logos che discute sull’utile e il dannoso, vi è il logos che ordina, e autorizza a ordinare». Ma questo logos primordiale sarebbe «lacerato da una contraddizione originaria». Vale a dire: perché vi sia un ordine e sia efficace, è necessario che la comunità sia divisa in chi ordina e chi obbedisce.

Tuttavia, l’obbedienza è possibile solo se l’ordine viene inteso, e non solo: deve essere compresa anche la necessità di rispettarlo. Chi obbedisce deve essere uguale a chi ordina, se può e deve obbedire. «Senza dubbio, nella quasi totalità dei casi, gli inferiori obbe-discono. Ma resta il fatto che l’ordine sociale viene in questo modo ricondotto alla sua estrema contingenza. In ultima istanza, la disuguaglianza diviene possibile solo tramite l’uguaglianza»15.

La contingenza egualitaria, come «libertà del po-polo» (la eleutheria attribuita incautamente al demos,

15 Ivi, p. 37.

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nella convinzione di riuscire a recuperarne l’ecce-denza e a riclassificarla)16, rivelerebbe l’instabilità strutturale del dominio e l’artificialità del suo ordine naturale. Momento di rottura, «raro», che produce, a sua volta, un dispositivo «specifico»: una divisione della società in parti, che non sono «vere» parti, o l’«istituzione» di una parte che si rende uguale al tutto, affermando una «proprietà», che non è unica-mente la propria (la libertà), in nome di un «comune», che «traduce la comunità di un conflitto»17.

L’«origine della politica» si lascerebbe riconosce-re, allora, nella manifestazione e nel trattamento di un «torto», che si presenta «duplice»: torto sovrano, dell’ordine comunitario, che s’instaura attraverso il rigetto della maggioranza degli esseri parlanti «nel-la notte del silenzio», o «nel rumore barbaro delle voci», capaci solo di esprimere piacere o sofferenza18

16 Ivi, p. 133: «Questa libertà del popolo è una proprietà vuota, una proprietà impropria attraverso la quale coloro che non sono niente pongono il loro essere collettivo come identico al tutto della comunità».17 Ivi, pp. 38-39.18 Uno dei principali testi di riferimento di Rancière al riguardo è Aristotele, Politica, I, 1253a, 9-18: «L’uomo è l’unico animale che abbia la parola: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così via. È proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la città» (il passo è citato e commentato da Rancière

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e torto del popolo, che, non contato, senza visibilità e senza parola, usurpa «il titolo della comunità»19.

3. Rancière propone di chiamare polizia «l’ag-gregazione e il consenso delle collettività, l’organiz-zazione dei poteri, la distribuzione dei posti e delle funzioni» e i sistemi che la legittimano. E riserva il termine politica al movimento di sospensione di tale «armonia».

Due parole, quindi, per due logiche dell’«essere insieme umano», generalmente confuse «sotto il nome di politica»20.

Che la scelta del termine «police» comporti più di un problema, è riconosciuto da Rancière stesso21,

all’inizio del cap. I del Disaccordo, cit., p. 23). La deduzione delle proprietà dell’animale logico, «per gli scopi dell’animale politico», celerebbe una «lacerazione» – l’«incommensurabile del torto» – che, tuttavia, latente, o manifesta in alcuni momenti, renderebbe impossibile il passaggio, la deduzione, dall’utile al giusto in «coloro che logos non hanno, coloro che parlano davve-ro e coloro la cui voce, nel tentativo di esprimere piacere e dolore, non fa che imitare la voce articolata», cfr. ivi, pp. 41-42. 19 Ivi, p. 42. Per Rancière, «popolo» è il «nome, o la forma di soggettivazione, di quel torto senza memoria e sempre attuale tramite il quale l’ordine sociale diviene simbolico». 20 Ivi, p. 47. Per una ricostruzione critica e ben documentata del dibattito filosofico e politico (Nancy, Lefort, Badiou, Agamben, Laclau, Rancière stesso e altri) su questo problema e, in generale, sui concetti di politico/politica/polizia, cfr. O. Marchart, Die politische Differenz, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2010. 21 Ivi, p. 47: «L’aver formulato un’opposizione simile obbliga ad alcune precisazioni e comporta alcuni corollari. Innanzitutto, non faremo dell’ordine poliziesco così definito la notte in cui tutte

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anzitutto per l’ovvia rievocazione della «bassa po-lizia», dei «colpi di manganello delle forze dell’or-dine» o dell’«inquisizione delle polizie segrete». Inoltre, il suo significato appare, troppo facilmente, identificabile con quello di «istituzioni», ridotte al solo «dispositivo statale»22.

le vacche sono nere». È possibile rintracciare i problemi relativi all’uso del termine «polizia», in uno dei tentativi più influenti (nel XX secolo, ma ancora oggi) di pensare sistematicamente la specificità del “politico”. Mi riferisco a Carl Schmitt che, certo, in una prospettiva del tutto differente sul piano teorico e radicalmente opposta in quanto a posizioni politiche rispetto a Rancière, intro-duce la questione in una riflessione più generale sulla sostenibilità dell’equiparazione tra il “politico” e lo “statale”. In gioco, nel 1932, è l’equilibrio «improbabile» ma, per un certo periodo ege-mone, dello «Stato europeo classico»: la saldatura tra pace interna ed eliminazione dell’«inimicizia come concetto giuridico». «È noto – scrive Schmitt – che la formula “pace sicurezza e ordine” serviva come definizione della polizia. All’interno di uno Stato del genere vi era di fatto solo polizia e non più politica; come politica venivano definiti anzi gli intrighi di corte, le rivalità, le fronde e i tentativi di ribellione da parte dei malcontenti: in breve tutto ciò che portava “perturbamenti”. Un simile impiego del termine “politica” è naturalmente possibile e sarebbe un’inutile battaglia terminologica stare a discutere sulla sua correttezza. Va solo osservato che entrambe le parole, politica come polizia, derivano dal medesimo termine greco polis. Politica in senso ampio, alta politica, era allora solo la politica estera che uno Stato sovrano in quanto tale svolgeva nei confronti di altri Stati sovrani, che esso riconosceva come tali, sulla base di questo riconoscimento: nel far ciò ogni Stato decideva intorno all’amicizia, ostilità, o neutra-lità politica», cfr. C. Schmitt, Il concetto di “politico”: testo del 1932, con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie del “politico”, tr. it., il Mulino, Bologna 1998, p. 91. 22 Cfr., al riguardo, É. Balibar, Troisième conférence. Stratégies

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A venire in soccorso contro tali semplificazioni, è Foucault, con la sua analisi della polizia come «tecnica di governo», pervasiva di tutto ciò che attiene all’«uomo» e alla sua «felicità»23. «Polizia» designerebbe, più estesamente, «un disciplinamento dei corpi», ma non solo: indicherebbe, aggiunge Ran-cière, l’imporsi di una «regola del loro apparire». Un ordine del visibile/dicibile (in tal senso: «estetico»), fondato sulla separazione tra gli ammessi nella co-munità e i «senza titolo» a farne parte24.

La «bassa polizia» non sarebbe che una forma particolare di un dispositivo più generale, che au-menterebbe il suo potere discrezionale, in misura

de civilité, in Id., Violence et civilité. Wellek Library Lectures et autres essais de philosophie politique, Galilée, Paris 2010, p. 150. «La nozione di istituzione è equivoca, o piuttosto ricopre tutto uno spettro di trasformazioni storiche e di forme concor-renti». Le istituzioni statali (corrispondenti all’emergenza del “cittadino” come figura politica, erede del polites greco e del civis romano, e ricostituita su altre basi negli Stati-nazione moderni «inegualmente democratici») «non rappresentano evidentemente che un aspetto di ciò che chiamiamo istituzioni». Il «momento decisivo dell’istituzione» non si esaurisce nell’emergere della «sfera pubblica» come «istanza separata dalla società», ma implica «l’articolazione del pubblico e del privato»: la loro «disgiunzione sempre relativa e mobile» è «la condizione del passaggio da una sfera all’altra, che concerne, ad un tempo, gli individui e i gruppi». Tra gli altri, sono i testi di Hegel, Gramsci e Althusser che Balibar analizza, distingue e fa interagire per ripensare la complessità di questa articolazione. 23 Per quanto riguarda Foucault, cfr. almeno Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), tr. it., Feltrinelli, Milano 2007.24 J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 48.

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inversamente proporzionale alla forza e alla coesione dell’ordine comunitario e statale (fino a divenire il supplemento di potenza di governi politicamente impotenti).

Resta ancora la questione: «che cosa c’è di speci-fico, da pensare, sotto il nome di politica»?

La polizia resterebbe (deve restare) «il contrario» della politica (se c’è l’una, non può esserci l’altra) – ribadisce Rancière (come se intendesse scongiurare lo spettro della contraddizione dialettica, o della filo-sofia). Non avrebbe luogo alcuna verifica dell’ugua-glianza, se la politica si risolvesse in ambito «sociale e statale». Ad esempio, l’«emancipazione intellettuale» non potrebbe «istituzionalizzarsi» senza tradursi im-mediatamente in «istruzione del popolo, vale a dire organizzazione della sua eterna minorità»25.

Ma, in tale ragionamento, il riconoscimento della contrarietà di politica e polizia non esclude, anzi sembra esigere, la definizione di «ciò che appartiene a entrambe»26.

Azione della parte dei senza parte, la politica, comincia, essa stessa, a contare (almeno) due volte: come nome di una delle logiche (la «logica egualita-ria») e come nome dell’evento (o della «cosa») che dà luogo al conflitto con l’altra logica. Se e quando l’«incontro» sarà avvenuto, diventerà sempre più difficile evitare le contaminazioni, gli intrecci27 e

25 Ivi, p. 53. Cfr., al riguardo, Id., Il maestro ignorante, tr. it., Mimesis, Milano-Udine 2009. 26 Id., Il disaccordo, cit., p. 50.27 Ivi, p. 51.

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l’iscrizione di altri termini nella ricerca delle spe-cificità. Essi potranno triplicarsi: definita la polizia, ricondotto il processo di «emancipazione» sotto il nome della politica, sarà «il politico» (le politique) a indicare il «terreno» della loro rencontre28.

In ogni caso, non si darebbe alcuna politica, alcun momento d’interruzione, senza la «polizia» (e vice-versa): «Esiste politica quando esiste un luogo ed esistono forme adeguate all’incontro tra due processi eterogenei»29.

La politica incontra ovunque la polizia30. «[…] Occorre aggiungere che queste parole [politica e polizia] possono anche designare, e molto spesso designano, l’intreccio stesso delle due logiche»31.

Per quanto eterogenee e antagoniste, politica e polizia devono essersi incrociate, perché si possa

28 Id., Politique, identification, subjectivation, in Id., Aux bords du politique, cit., p. 113: «Abbiamo allora tre termini: la polizia, l’emancipazione e il politico. Se vogliamo insistere sul loro intreccio (intrigo, entrelacement), possiamo dare al processo d’emancipazione il nome della politica. Distingueremo così la polizia, la politica (la politique) e il politico (le politique). Il politico sarà il terreno dell’incontro tra la politica e la polizia nel trattamento di un torto».29 Id., Il disaccordo, cit., p. 49: «Il primo è il processo polizie-sco nel senso in cui abbiamo cercato di definirlo. Il secondo è il processo dell’uguaglianza. Intendiamo per il momento con questo termine l’insieme aperto delle pratiche guidate dalla pre-sunta uguaglianza di qualsiasi essere parlante con qualsiasi altro essere parlante, e dalla preoccupazione di sottoporre a verifica questa uguaglianza».30 Ivi, p. 50.31 Ivi, p. 51.

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marcare la loro differenza. E perché la prima parola possa essere assegnata a un’attività «ben definita». O, in altri termini, perché il demos esca dalla notte del silenzio, o dal rumore «barbarico» delle voci, il momento politico non basta a se stesso. L’incontro sarà stato inevitabile, o la distinzione tra politica e polizia avrà già posto il presupposto del loro incontro. È la contingenza di quest’ultimo32 a determinare, secondo Rancière, la configurazione dello Stato e a metterne in gioco l’«omogeneità». Perciò stesso, il dispositivo statale resta «il luogo privilegiato», in cui la distinzione tra le due logiche si dissimulerebbe33.

Come Rancière stesso sottolinea, diviso da sé non è solo il kratos poliziesco, ma anche il demos nel mo-mento in cui afferma il suo kratos come universale, o, in termini moderni, la sovranità popolare: «Che il popolo sia diverso da se stesso non è, in effetti, per la politica uno scandalo meritevole di essere denuncia-to. È piuttosto la condizione prima del suo esercizio. Vi è politica quando esiste la sfera di apparenza di un soggetto popolo la cui caratteristica è di essere diverso da se stesso»34.

Il kratos popolare (o un suo «elemento) ap-pare, quando (e se) il presupposto, o l’«assioma» dell’uguaglianza trova il suo spazio d’iscrizione (strutturale e non solo sensibile), in luoghi e modi che, ad esempio, nelle formazioni «democratiche»

32 Ibidem. L’incontro – scrive Rancière – è «impossibile da prevedere».33 Ivi, p. 52.34 Ivi, p. 101.

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moderne, con-divide con i dispositivi dell’ordine:

le formule dell’uguaglianza che figurano nelle Di-chiarazioni dei diritti dell’uomo o nei preamboli dei Codici e delle Costituzioni, quelle che materializ-zano questa o quella istituzione, o che sono scritte sui loro tomi, non sono “forme” smentite dal loro contenuto, o “apparenze” articolate per nascondere la realtà, ma sono un modo effettivo dell’apparire del popolo, il minimo di uguaglianza che s’iscrive nel campo dell’esperienza comune. […] Là dove la parte dei senza-parte, per quanto fragili e fugaci possano essere queste iscrizioni, viene affermata, si viene a creare una sfera di apparenza del demos, e un elemento del kratos, del potere del popolo, comincia a esistere35.

35 Ivi, p. 104. Il passo citato si trova nel cap. IV, intitolato Dall’archi-politica alla meta-politica. Sul concetto di «archi-politica» ho accennato qualcosa nella nota 6. Ora, se esso indica «la revoca della falsa politica, della democrazia», traducendo «in parola lo scarto radicale tra la vera giustizia, simile alla proporzione divina, e le rappresentazioni democratiche del torto, assimilate al regno dell’ingiustizia», il concetto, simmetrico, di «meta-politica» si riferisce alla denuncia del «torto assoluto», in nome della «verità» del «politico» in quanto «manifestazione della sua falsità». Rancière ha di mira criticamente un certo Marx (ad esempio, quello de La questione ebraica, tr. it., Editori Riu-niti, Roma 1974) e le versioni più canoniche del suo pensiero, in particolare, la denuncia della partecipazione politica come «semplice maschera della suddivisione delle parti», come «ipo-crisia intorno a un vero che si chiama società: ideologia. «Ma, reciprocamente, il sociale è sempre riducibile, in ultima istanza, alla pura non-verità della politica», ivi, p. 101.

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Polizia e politica hanno luogo, iscrivendosi in spazi «comuni», l’una trovandovi la legittimazione del proprio ordine, l’altra la possibilità di aumentare la sfera di manifestazione del demos. Proprio perché ne condivide i luoghi, la politica «agisce sulla poli-zia», ridisegnando modi e luoghi del «comune» e trasformando lo statuto delle parole.

Ma il movimento non procede anche nell’altro verso? Non è la politica già sempre esposta all’azione «poliziesca»? O non è, addirittura, tale contro-azione una possibilità interna al prodursi del momento poli-tico (piuttosto che limitarsi a un intervento dall’ester-no, seppure muovendo dal medesimo spazio)?

Se la rencontre resta imprevedibile, non si può escludere che l’«istituzione» stessa possa costituire «l’apertura di uno spazio per la politica», a partire dal conflitto che la divide tra «tendenza alla monopo-lizzazione del potere» e «tendenza alla cittadinanza come conquista effettiva della libertà e dell’ugua-glianza». Né si può escludere che sulle tracce, la-sciate dall’irruzione dei momenti politici, possano installarsi sistemi e apparati «polizieschi».

È, forse, per trovare una via d’uscita a quest’apo-ria, che, nel testo di Rancière, trovano posto l’idea di un «terzo popolo»36 (non quello «sovrano e dei

36 È, forse, solo una suggestione, ma il «terzo popolo», evocato da Rancière, mi ha richiamato alla memoria il «terzo carattere» di Schiller: «Si tratterebbe, dunque, di separare l’arbitrio dal carattere fisico e la libertà da quello morale; di accordare il primo con le leggi e di rendere dipendente il secondo dalle impressioni; di allontanare un poco quello dalla materia e di avvicinarle un poco questo, per produrre un terzo carattere che, affine a quei

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suoi rappresentanti», né il «popolo/non popolo del lavoro» in vista dell’acquisizione della coscienza di sé) e l’immaginazione di una politica democratica nel senso di una «pratica del come se», in vista della costituzione di una «comunità estetica, secondo modalità kantiane»37.

4. Ma cosa garantirebbe che il come se assuma carattere democratico, nel senso di Rancière, se non si vuole assicurare l’analogia tra pratica politica e «disinteresse» del giudizio estetico, attraverso l’«oggettività», per quanto regolativa, del giudizio teleologico? Senza ordinare, cioè, il momento poli-tico a una causa finale?

O, poste la contingenza e l’asimmetria alle radici stesse della politica e, a maggior ragione, di ogni ordine fondato in suo nome o sulla sua presunta verità, cosa lascerebbe prevedere che la «condizio-ne non politica della politica» dia luogo a pratiche d’emancipazione, piuttosto che al loro contrario, o ad articolazioni del tutto impreviste?

Mi limito a introdurre la questione, chiamando in causa la rielaborazione del concetto di egemonia, proposta da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe in He-gemony and Socialist Strategy e in altri lavori. Essi indicano, proprio nel movimento (tropolitologico) di una «forza sociale particolare» che «assume la rap-

due, aprisse un passaggio […] pegno sensibile della moralità invisibile», cfr. J.C.F. Schiller, L’educazione estetica dell’uomo, tr. it., Bompiani, Milano 2007, p. 49. 37 J. Rancière, Il disaccordo, cit., pp. 105-106.

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presentazione di una totalità con essa incommensura-bile» (la parte per il tutto), una condizione essenziale per l’instaurarsi delle relazioni egemoniche38.

Se da un settore particolare della società – scrive Laclau, commentando Gramsci – sono destinati a irradiarsi gli effetti universalizzanti dell’egemonia, essi non potranno essere ridotti all’organizzazione di quella particolarità intorno ai propri interessi, necessariamente corporativi. Se l’egemonia di un particolare settore sociale può aver successo solo presentando i propri obiettivi come gli obiettivi universali della comunità, è chiaro che questa identificazione non sarà il mero prolungamento di un sistema istituzionale di dominio ma che, al con-trario, ogni espansione di quest’ultimo presupporrà il successo di un’articolazione tra universalità e particolarità (una vittoria egemonica). […] Per costruire una relazione egemonica – abbiamo bisogno di obiettivi settoriali di un gruppo che operino come nome per un’universalità che li trascende39.

L’unica «universalità» che una società possa raggiungere è, dunque, «un’universalità egemonica,

38 E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London-New York 2001, p. X.39 E. Laclau, Identità ed egemonia: il ruolo dell’universale nella costituzione delle logiche politiche, in J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza, egemonia, univer-salità, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2010, p. 52 e p. 59.

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ovvero «contaminata dalla particolarità»40. Condizio-ne della sineddoche politica è l’articolarsi tra lotte e movimenti, che, nella loro particolarità, si pongono sullo stesso piano rispetto a una comune controparte. È da tale articolazione contingente che emerge il «soggetto antagonista» della «criminalità generale»41, il quale, tuttavia, non può costituirsi politicamente se non per effetto dell’equivalenza tra le differenti rivendicazioni (demands) che rappresenta. (Ma, di riflesso, anche le particolarità risultano «scisse in due»: «in virtù della loro equivalenza non restano semplicemente le stesse, ma vanno a costituire un’area di effetti universalizzanti…»42.)

Ogni posizione in un «sistema di differenze», in quanto è negata, «può divenire il luogo di un antagonismo». Le catene di equivalenze, in cui si salda l’egemonia, «variano radicalmente a seconda

40 Ivi, p. 53. Se «il passaggio attraverso il particolare è comunque richiesto, lo è perché l’universalità non può essere rappresentata in maniera diretta – non c’è concetto che corrisponda all’og-getto. E ciò significa che l’oggetto, benché necessario, è anche impossibile», ivi, p. 58. 41 Ivi, p. 57. Laclau cita Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Id., Opere Scelte, vol. III, tr. it., Editori Riu-niti, Roma 1976, p. 200: «Affinché la rivoluzione di un popolo e l’emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, affinché un ceto sociale valga come il ceto dell’intera società, bisogna al contrario che tutti i difetti della società siano concentrati in un’altra classe, […] bisogna che una particolare sfera sociale equivalga al crimine notorio dell’intera società, cosicché la liberazione da questa sfera appaia come l’universale autoliberazione».42 Ibidem.

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dell’antagonismo implicato». Tanto l’articolazione tra le parti quanto la loro condensazione egemonica avvengono su un piano di strutturale contingenza. Né le modalità, né gli orientamenti delle relazioni sono stabiliti in anticipo, prima del movimento che modifica le identità differenti articolandole. La prati-ca egemonica è un’«operazione contingente che può muovere in una pluralità di direzioni»43. Il concetto di egemonia implica, dunque, una «teoria della de-cisione presa su un terreno indecidibile»44.

Ciò non significa che l’antagonismo politico sia

43 E. Laclau, On Populist Reason, cit., p. 126.44 E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democratic Politics, cit., p. X e p. 7: fin dall’inizio della sua storia, l’egemonia è stata invocata, teorizzata e praticata, nel corso della tradizione marxista, in risposta agli «squilibri congiunturali», alle irregolarità e alle deviazioni entro un paradigma evolutivo presupposto come necessario. Le trasfor-mazioni del concetto (a partire dal suo uso negli ambienti della Socialdemocrazia russa di inizio Novecento fino alla trasforma-zione decisiva di Gramsci, passando per Lenin), testimonierebbero del suo carattere «complementare» e «contingente». «Il concetto di egemonia – scrivono Laclau e Mouffe, introducendo la loro genealogia – non è emerso per definire un nuovo tipo di relazione nella sua identità specifica, ma per colmare lo iato apertosi nella catena della necessità storica. “Egemonia” alluderà a una totalità assente, e ai diversi tentativi di ricomposizione e riarticolazione che, oltrepassando questa assenza originaria, hanno permesso alle lotte di ricevere un senso e alle forze storiche di dotarsi di piena positività. I contesti nei quali il concetto apparirà saranno quelli di una faglia (in senso geologico), di una fenditura (crepa) che si sarà dovuto colmare, di una contingenza che si sarà dovuto superare. L’“egemonia” non sarà il dispiegamento maestoso di un’identità ma la risposta ad una crisi».

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destinato a collassare in un «universo puramente psicotico», ma che i «blocchi» egemonici, la loro genesi, i loro scopi e la loro durata, sono finiti, pre-cari, esposti a continue trasformazioni. Nulla precede l’articolazione delle differenze e la configurazione della soggettività egemonica. Nulla garantisce che il «popolo», o la parte che ne prende il nome procedano nel senso della «politica» o in quello della restaura-zione «poliziesca».

Ecco perché, forse, il momento di rottura politi-co – l’affermazione e l’estensione del presupposto egalitario – richiede ancora una riflessione sui con-cetti e sulla lotta (o, se si vuole, sulla rencontre) per l’egemonia45.

45 Sospendo a questo punto le mie note a margine dei testi di Rancière presi in esame, indicando, con il concetto e le differenti pratiche dell’egemonia, non una possibile risoluzione definitiva, ma un’ulteriore apertura della problematica.


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