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Nicoletta Bazzano Il mondo della politica in Europa occidentale in età moderna fra storia e storiografia. Lo Stato moderno: dalla nascita alla dissoluzione di un paradigma. Anno accademico 2016-2017
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Nicoletta Bazzano

Il mondo della politica in Europa occidentale

in età moderna fra storia e storiografia.

Lo Stato moderno: dalla nascita alla dissoluzione di un paradigma.

Anno accademico 2016-2017

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Indice

1. Lo Stato moderno fra Otto e Novecento: il paradigma «centro-periferia»

2. Il ruolo delle giurisdizioni particolari e delle istituzioni rappresentative in antico regime

3. Ceti dirigenti, clientele e fazioni

4. La corte

Bibliografia

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1. Lo Stato moderno fra Otto e Novecento: il paradigma «centro-periferia»

L’espressione “Stato moderno” comincia a essere utilizzata ai primi dell’Ottocento per

affermarsi nel corso dello stesso secolo e definisce le strutture statuali in via di crescita e di

consolidamento a partire dal XV secolo e in vigore per l’intera età moderna: un evento la cui

manifestazione assume valore periodizzante per la storia europea. Tale definizione, che impegna la

più parte della storiografia politica europea fino agli anni Sessanta del Novecento si sviluppa, in

linea di massina, sulla base dell’apparato concettuale predisposto nell’Ottocento dagli studi storici

di Leopold von Ranke (1795-1886), dagli studi sociologici di Max Weber (1864-1920) e dalla

secolare tradizione giuridico-amministrativa francese, ripresa e vivificata da Gustave Dupont-

Ferrier (1860-1956).

Leopold von Ranke è noto soprattutto per essere il padre nobile della storia così come noi la

conosciamo: una disciplina che si fonda sullo studio dei documenti, vera sorgente per lui della

verità storica, e non – come fino a lui era stato generalmente fatto – sulla riproposizione di

narrazioni storiche elaborate da altri. Il documento – contratto, accordo, pace e così via –, prodotto

da un’istituzione che per il suo ruolo ufficiale è al di sopra di ogni sospetto di menzogna, la

cancelleria, getta una luce autentica sul passato che lo storico è chiamato a illuminare. Lo storico

che sottopone alla critica delle fonti la documentazione che vaglia può aspirare così a scrivere la

storia “nella sua essenza statuale”, così come essa si è effettivamente svolta. La fiducia positivistica

che sostiene la ricerca di Ranke gli permette di affrontare una serie quanto mai ricca e variegata di

fonti, dando alla luce una serie di opere fondamentali per lo sviluppo successivo della disciplina. Al

loro interno spiccano la Storia dei popoli germanici e latini dal 1494 al 1535 (Geschichten der

romanischen und germanischen Völker von 1494 bis 1535, 1824), che gli vale giovanissimo la

cattedra di Storia all’Università di Berlino e, soprattutto, la Storia dei papi (Die römischen Päpste,

ihre Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert, 1834-36), il suo capolavoro, ancora oggi

caposaldo della letteratura storiografica, ancorché scritta senza prendere visione dei documenti

conservati negli Archivi Vaticani, ai quali egli non ha accesso in quanto protestante, ma grazie alla

documentazione veneziana e romana privata del periodo.

Ranke non offre un modello di Stato moderno, ma descrive, con un tenace empirismo, la

realtà europea fra tardo Quattrocento e Cinquecento, analizzando le unità territoriali e protonazio-

nali sorte in occasione della lunga catena di conflitti che scuote l’Europa in quel periodo. Singoli

monarchi, dalla forte personalità e dalle grandi capacità progettuali, sono spinti dagli eventi bellici

alla creazione di istituzioni unitarie all’interno del territorio in cui governano, con l’obiettivo di dre-

nare la maggior quantità possibile di risorse per finanziare le imprese militari. La reinterpretazione

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del diritto romano, che si svolge nell’ambito della fioritura dell’Umanesimo, corrobora l’azione

accentratrice dei principes. Costoro, mentre all’esterno del loro territorio si pongono come detentori

unici del potere politico, all’interno promuovono un’intensa opera legislativa. Matrici esogene ed

endogene concorrono quindi, secondo Ranke, a dar luogo nell’Europa rinascimentale a un sistema

di Stati, tutti dotati dell’apparato fiscale e amministrativo necessario allo sviluppo della diplomazia

e alla condotta della guerra. Sull’elemento umano, sulle sue capacità di plasmare la realtà e sulle

capacità di presentarsi come fons iuris, legibus soluti, liberi di esercitare l’imperium, secondo la

celebre formula pronunciata dal giurista cinquecentesco Jean Bodin (1530-1596), in cives ac

subditos, si basa invece la riflessione di Jacob Burckardt (1818-1897), che nel suo La civiltà del

Rinascimento in Italia (Die Cultur der Renaissance in Italien, 1860), apre la sua riflessione

dedicando un’intera parte a Lo Stato come opera d’arte, creazione della volontà di un uomo

spregiudicato e tiranno, deciso a sottomettere l’ambiente circostante senza temere di far ricorso alla

violenza e alla crudeltà.

Anche Max Weber riconosce al princeps rinascimentale il merito di avere avviato un

processo di appropriazione dei mezzi per condurre la guerra e per controllare l’amministrazione e la

finanza, in precedenza detenuti da "privati", signori feudali che nel limitato territorio di loro

giurisdizione espletavano pubbliche funzioni, sia amministrative che giudiziarie che fiscali. Il

sociologo tedesco, tuttavia, ritiene fondamentale per la nascita dell’organismo statuale l’appoggio

che al monarca cinquecentesco proviene dal ceto burocratico, affermatosi prepotentemente in

Europa all’inizio dell’epoca moderna. Lo Stato – egli dice nel saggio La politica come professione

(Politik als Beruf: zweiter Vortrag, 1919) – è «una comunità di persone in cui l’apparato

amministrativo rivendica con successo il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica all’interno

di un determinato territorio». Frutto di un’evoluzione durata mezzo millennio, iniziata nelle città

della penisola italiana e nei territori conquistati dai normanni, la burocrazia specializzata annovera

fra le sue fila esperti delle nascenti discipline finanziarie, amministratori pubblici e giuristi, che in

maniera stabile a partire dal XVI secolo, coadiuvano i sovrani nella loro opera di governo e di

amministrazione. L’affermazione all’interno delle unità politiche europee cinquecentesche di questo

ceto specializzato provoca la sostituzione dei valori della fedeltà personale e del favore, che

avevano caratterizzato le relazioni fra il sovrano medievale e i suoi vassalli, con quelli moderni del

dovere oggettivo d’ufficio, della gerarchia, della competenza, della qualificazione specializzata,

della professionalità e della disciplina. I funzionari, così come Weber li descrive, «1. obbediscono,

essendo personalmente liberi, solamente a doveri oggettivi di ufficio; 2. in una precisa gerarchia

d’ufficio; 3. con precise competenze d’ufficio; 4. sono assunti (non eletti) in forza di un contratto -

cioè (in linea di principio) sulla base di una libera selezione; 5. secondo la qualificazione

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specializzata [...]; 6. sono ricompensati con uno stipendio stabilito in denaro, [...] stipendio graduato

in primo luogo secondo il grado gerarchico, poi a seconda della responsabilità della carica [...]; 7.

considerano il proprio ufficio come professione unica e principale; 8. vedono dinanzi a sé una

carriera; 9. lavorano nella più completa "separazione dei mezzi amministrativi" e senza

appropriazione del posto di ufficio; 10. sono sottoposti alla stessa rigorosa disciplina d’ufficio e a

determinati controlli».

Tradizionalmente attenta al mondo istituzionale e burocratico è anche la storiografia fran-

cese dell’Ottocento, che scorge nello studio della centralizzazione burocratica compiutasi in età

moderna la strada maestra da percorrere per delineare la storia francese. Sulla base di queste

premesse intellettuali, quello che si consolida Oltralpe è un robusto filone storico-amministrativo

che trova, all’inizio del Novecento, in Gustave Dupont-Ferrier (1860-1956) e nei suoi allievi degli

infaticabili eredi. Nel suo volume su Gli ufficiali regi di baliaggi e siniscalcati e le istituzioni

monarchiche locali in Francia alla fine del Medioevo (Les Officiers royaux des bailliages et

sénéchaussées et les institutions monarchiques locales en France a la fine du Moyen age, 1902)

Dupont Ferrier, osservando la realtà amministrativa che si viene formando, dopo l’anarchia che

aveva regnato durante la guerra dei Cento anni, a partire dal regno di Carlo VII (1403-1461). Con

sguardo attento e minuzioso, Dipont-Ferrier non solo presenta il quadro geografico dei baliaggi e

dei siniscalcati – sorta di circoscrizioni di natura giuridica dove il potere giudiziario è amministrato

da giudici di nomina regia, i balivi e i siniscalchi, attorniati da una serie di figure sempre nominate

dal sovrano, giudici di prima istanza, luogotenenti sia chierici che laici, commissari ad

universitatem causarum, assessori, luogotenenti per cause civili o criminali, procuratori, ricevitori,

ausiliari e così via –, ma si sofferma anche sulle cellule territoriali che sono raggruppate in baliaggi

e siniscalcati: castellanie, prevosture, viscontee, vicarie, giudicati, mandamenti, municipi,

parrocchie – dove è presente una folla diversificata di funzionari sempre di nomina regia: prevosti,

visconti, vicari, castellani, giudici ordinari, giudici d’appello, sindaci, sergenti, notai. Ogni figura è

parte essenziale di uno di quei molteplici ingranaggi su cui, secondo Dupont-Ferrier, la monarchia,

a partire da metà Quattrocento, costruisce la sua potenza e rende non illusoria, ma reale la presenza

del re in mezzo alla popolazione: la trasmissione, la propaganda e l’esecuzione delle volontà

sovrane si trovano così assicurate nelle istituzioni, se non sempre nei fatti. Un ulteriore tassello alla

costruzione della presenza sul territorio è la nomina di giudici di primo grado e d’appello, che

assolvono al dovere regio di emanare la giustizia, di essere lex animata e di funzionari preposti alla

difesa militare, maestri delle opere incaricati della costruzione e della riparazione dei luoghi

fortificati, e capitani, castellani e governatori, al comando delle guarnigioni stanziate in loco e

generalmente pagate dalle città. La nomina di questi ultimi ufficiali regi priva balivi e siniscalchi di

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gran parte della loro originaria funzione militare. A partire dalla fine del Quattrocento è loro

demandato esclusivamente il comando delle milizie feudali presenti sul territorio, oltre che

l’obbligo di fornire alle truppe di stanza l’approvvigionamento. Balivi e siniscalchi sono altrettanto

privi di autorità dinanzi agli ufficiali finanziari. Il reame è diviso in quattro grandi circoscrizioni, a

parte il Delfinato e la Provenza che hanno un regime autonomo. Ciascuna circoscrizione ha al suo

vertice un tesoriere di Francia, che si occupa della riscossione delle entrate ordinarie o demaniali, e

un generale delle finanze, che sovrintende alle entrate straordinarie (aides, gabelle, taille). Questi

funzionari inviano nei baliaggi e nei siniscalcati i ricevitori, incaricati non solo della percezione

degli introiti e del pagamento delle spese, ma anche della redazione di una sorta di bilancio

preventivo, steso sulla scorta delle indicazioni date da balivi e siniscalchi, e – alla fine dell’anno –

di un bilancio consuntivo, che renda ragione di entrate e uscite. Il minuzioso lavoro d’analisi, che

conduce Dupont-Ferrier a isolare istituti e uffici amministrativi, a elencare gli uomini che alle

cariche si erano succeduti, a delineare la graduale razionalizzazione degli apparati pubblici nel-

l’intera Francia di antico regime, dà luogo a un disegno coerente e preciso che rende reale e plastica

l’idea di Stato moderno: un lavoro che culmina, in Francia, con le opere monumentali, intitolate

nello stesso modo e uscite contemporaneamente su Le istituzioni della Francia del XVI secolo (Les

institutions de la France au XVI° siècle, 1948) di René Doucet e di Gaston Zeller.

È, dunque, a partire da questa tradizione franco-tedesca che si sviluppa la massima parte

della storiografia politica europea, dando origine a un modello che, pur con le debite modifiche

nelle applicazioni da una realtà all’altra, è proficuamente adoperato da intere generazioni di storici.

Il paradigma cosiddetto centralistico prevede come procedura fondamentale di governo

l’irradiazione lineare di ordini, normative e regolamentazioni, da un centro decisionale forte, sia per

la presenza di un uomo di Stato, generalmente il sovrano, dalla spiccata personalità, sia per

l’impassibile metodicità di un meccanismo burocratico perfettamente oleato, verso una periferia

debole e disorganizzata, che accetta più o meno passivamente quanto le viene imposto. Gli ambiti

nei quali esso interviene sono i più diversi. Tuttavia è possibile isolare alcune direttrici precise,

messe di volta in volta in rilievo: il monopolio della violenza, la formazione di una burocrazia

permanente, la costituzione di un sistema diplomatico, il rafforzamento dell’autorità fiscale,

l’affermazione di una legislazione unitaria, l’articolazione di un mercato ampio tramite il successo

del mercantilismo.

Nell’età delle guerre d’Italia (1498-1559) e sulla loro spinta, grazie all’invenzione della

polvere da sparo e delle armi da fuoco, si formano eserciti professionali e permanenti, che hanno

nella fanteria e nell’artiglieria il loro nucleo più robusto. Ciò sminuisce il ruolo della cavalleria,

settore generalmente riservato all’aristocrazia, e crea un corpo militare di estrazione popolare,

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all’interno del quale ricoprono un ruolo fondamentale fabbri, fonditori e artificieri, che ha nel

numero e nella competenza tecnica i propri punti di forza.

Ugualmente competente e specializzato deve essere il personale burocratico, che viene

selezionato di regola attraverso segnalazioni specifiche al sovrano o tramite la vendita degli uffici,

ma che deve essere dotato dei titoli di studio universitari necessari per affrontare i compiti crescenti

dell’amministrazione.

A questo si affianca il personale diplomatico, i residenti stabili – sempre di origine

aristocratica – presso le corti straniere, diventate fisse con la nascita delle città capitali, che

assicurano ai sovrani di cui sono rappresentanti di poter intrecciare alleanze politiche o strategie

matrimoniali vantaggiose sul piano internazionale.

Per far fronte alle spese derivanti dalla nascita del personale specializzato, sia esso militare,

burocratico o diplomatico, si sviluppa una progressiva tendenza ad affermare il monopolio statale in

ambito fiscale, tramite la centralizzazione e la capillarizzazione del sistema di riscossione.

Parallelamente, anche in campo giuridico, lo Stato si pone come unica fonte del diritto,

chiarendo la legislazione, riducendo i privilegi locali, cetuali ed ecclesiastici e, soprattutto, le

capacità giurisdizionali altrui (feudatari, Chiesa, municipi e così via).

Infine, lo Stato regolamenta l’economia, arrivando a controllare il mercato con il controllo

delle importazioni, lo stimolo alle esportazioni, il sostegno alle manifatture statali, nel quadro di

quello che – nella storia del pensiero economico – è stato definito mercantilismo.

In definitiva, secondo questa visione, lo Stato, il centro, sussume al suo interno tutte le

componenti della società, le ordina, le razionalizza, e si pone come realtà unica e ineliminabile del

processo storico di organizzazione del potere nell’Europa occidentale. L’istituzione statale,

moderna prima, assolutistica poi, viene vista come prodromo necessario delle istituzioni

democratiche contemporanee, che sono il risultato della secolare evoluzione dell’unità politica

portata a compimento dai sovrani cinquecenteschi.

La storiografia italiana, nel corso dell’Ottocento, tuttavia, risente di una grossa difficoltà ad

applicare alla frammentata realtà politica della Penisola il paradigma centralistico, che sembra

trovare il terreno più fertile per l’analisi della Francia dei Valois e dei Borbone, della Spagna dei re

cattolici e degli Asburgo e dell’Inghilterra dei Tudor e degli Stuart: fino al compimento dell’Unità

d’Italia, caratterizzata dal bisogno di emancipazione dalla presenza preponderante dell’Austria, il

Cinque e il Seicento italiani, fortemente segnati dalla presenza spagnola diretta e indiretta e

dall’influenza della Chiesa, sembrano riproporsi come un’anticipazione del clima politico

risorgimentale, quando si spera di liberarsi delle catene viennesi. Per la storiografia del tempo, a

causa dell’atmosfera stagnante che, dopo il tramonto dell’età comunale, si respira in Italia, le realtà

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politiche della Penisola, che cominciano a essere definite – con una formula quanto mai ambigua –

antichi Stati italiani, sono estranei al processo di costruzione dello Stato moderno che, invece,

connota l’Europa cinque-seicentesca. Gli antichi Stati italiani riprendono vitalità solo nel periodo

delle riforme settecentesche, autentico prodromo del Risorgimento. Si tratta di una convinzione

storiografica di lungo periodo, che dura fino agli anni Sessanta del Novecento, anche se non

mancano voci critiche verso di essa e studi puntuali che tentano di riallacciare la riflessione

storiografica italiana a quella europea. Sia Benedetto Croce (1866-1952) che Gioacchino Volpe

(1876-1971), fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Novecento criticano tale

visione, auspicando una rilettura della storia italiana e una corretta messa a fuoco delle vicende

della Penisola nei primi secoli dell’età moderna.

Un esempio di fruttuose ricerche, in questa direzione, è quello offerto dagli studi di Federico

Chabod (1901-1960). Lo studioso valdostano, formatosi fra l’Italia e la Germania, si concentra sullo

studio dei meccanismi burocratici che consentono il radicamento di una mentalità moderna e

razionale e lo sviluppo delle istituzioni statali. La sua prima opera matura dedicata allo stato di

Milano del primo Cinquecento, Lo Stato di Milano nell’Impero di Carlo V (1934), armonizza le

diverse lezioni che lo storico ha potuto ascoltare durante il soggiorno berlinese degli anni 1925-26 e

le esperienze d’archivio fatte fra Milano e Simancas: egli non solo dedica particolare attenzione

all’elaborazione concettuale sottesa all’edificazione dello Stato, ma cerca i meccanismi attraverso i

quali l’idea astratta di Stato diviene concreta. Ciò che concretamente Chabod si trova di fronte

nell’Archivo General de Simancas, esplorando i fondi della sezione Estado relativi al ducato di

Milano nella prima metà del Cinquecento, è una sequela di documenti attestanti continue frizioni fra

i governatori nominati da Carlo V e le istituzioni cittadine che, sin dal periodo sforzesco,

amministrano il territorio. La pubblicistica dei secoli XVII-XVIII, inoltre, offre allo storico la

specificazione sempre più attenta del concetto di ragione di Stato, «concetto teorico non indivi-

dualizzato né individualizzabile, superiore allo stesso principe, legge suprema, impersonale,

astratta, che quintessenzia di sé tutte le forze, tutte le necessità, tutti i motivi di vita dell’organismo

politico ed esige la sottomissione del singolo in quanto tale». La constatazione della fragilità

dell’impero di Carlo V, che rinunzia, in ossequio al principio patrimonialistico di gestione del

potere, a creare un unico ordinamento capace di comprendere ed esaurire in sé quelli estremamente

diversi di Castiglia, Aragona, Germania, Napoli, Milano, Sicilia e Paesi Bassi, spinge Chabod ad

appuntare il suo sguardo sulle vicende interne del ducato, nel tentativo di dare ragione dei contrasti

che oppongono governatori e amministratori. Il conflitto si rivela scontro fra due maniere diverse di

intendere lo Stato, «due ideologie, due coscienze, l’una onusta di una tradizione secolare, l’altra

ancora nella sua prima fase di sviluppo, ma destinata a trionfare». È lo scontro fra i governatori

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nominati dal sovrano – Marino Ascanio Caracciolo, Ferrante Gonzaga, Alfonso d’Avalos marchese

Del Vasto – e il gruppo dei funzionari che opera nelle strutture burocratico-amministrative milanesi.

I primi, appartenenti alla nobiltà e chiamati ad assolvere l’incarico di prorex nel ducato, si sentono

legati alla persona del monarca da un sentimento di devozione e di fedeltà individuale: occupano la

carica in grazia di una concessione regia e svolgono il loro compito come un dovere personale,

arrivando ad impegnare le proprie fortune per far fronte agli obblighi di governo. I funzionari sono

portatori di una ben diversa mentalità, formatasi in accordo con le teorie che la giuspubblicistica del

tempo afferma e promuove. Siedono al loro posto non in virtù di una concessione del sovrano ma

grazie a competenze acquisite: sono quindi indipendenti dalla benevolenza di questo o quel

governatore e accettano obblighi e compensi, relativi al compito che svolgono, senza impegnare

interamente la propria persona. «In siffatta energica contrapposizione dell’offitio alla gratia, della

qualità di ufficiale a quella di privato, interponendo fra le due una netta barriera sì che non sia

possibile trarre in causa il secondo, quando si trattino le cose dell’uffizio, è tutta l’antitesi, morale e

spirituale, che separa in quell’ora le due concezioni della vita pubblica. [...] Era già lo stato d’animo

della burocrazia moderna, la quale avrebbe avuta una propria coscienza, in quanto burocrazia, sulla

base dell’idea del “dovere d’ufficio”: idea, naturalmente più o meno forte, più o meno

effettualmente tradotta in pratica, a seconda de’ tempi e degli uomini: ma, comunque, sempre

fondamento morale su cui è riposato il buon funzionamento della vita statale, ne’ suoi ingranaggi

tecnico-amministrativi». All’opaca impersonalità dei burocrati è demandato così da Chabod il

traghettamento verso la modernità di una società ancora impregnata di valori feudali e

cavallereschi. La cecità burocratica assicura la riduzione dei particolarismi locali e permette la

persistente irradiazione nel territorio delle istanze promosse dalle moderne istituzioni statali.

Se in Chabod si avverte la decisa influenza della teorizzazione weberiana, dipendenti dalla

storiografia giuridico-amministrativa francese sono le opere di due storici del diritto, Carlo

Ghisalberti e Guido Astuti. Ghisalberti non si occupa se non marginalmente del processo di

formazione dello Stato, ma focalizza la sua attenzione sull’istituto napoleonico del prefetto. Ma si

richiama esplicitamente allo storico e magistrato francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) e alla

sua affermazione secondo la quale la centralizzazione amministrativa effettuata durante la

Rivoluzione francese e perfezionata durante l’Impero napoleonico è il completamento di un

secolare processo di esautorazione del particolarismo locale a vantaggio del potere regio. Difficile

trovare nella Penisola italiana il grado di coesione della monarchia francese o un governo «in grado

di impostare il problema dei rapporti fra il centro e la periferia, tra il vertice e i corpi o gli enti locali

nelle forme e nei modi che l’assolutismo d’oltr’Alpe renderà tipici»; eppure, allo sguardo di

Ghisalberti, i regni della penisola, primi fra tutti il Piemonte e il regno di Napoli, non sembrano

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sottrarsi al fenomeno di centralizzazione burocratico-governativa, che risulta carattere essenziale

per ogni ordinamento che abbia raggiunto un certo grado di sviluppo e «che abbia preso coscienza

della sua utilità per il conseguimento dei fini politici che gli sono propri».

Anche in Astuti è preponderante l’attenzione per l’elemento amministrativo per cogliere

l’emergere dello Stato moderno in piena epoca rinascimentale. Sia le formazioni politiche minori

della penisola italiana sia le grandi monarchie occidentali sono caratterizzate, nel lungo periodo che

va dal XII al XVII secolo, dallo sviluppo lento ma costante di un diritto pubblico che è in gran parte

diritto amministrativo, sostanzialmente diretto ad accrescere le funzioni, le attribuzioni e i poteri del

governo centrale e della pubblica amministrazione. I provvedimenti che vengono presi nella triplice

intenzione di sottomettere una nobiltà feudale gelosa degli antichi privilegi, di imporre un nuovo

regime giuridico nei rapporti con la Chiesa e di sopprimere o limitare in maniera sistematica le

antiche istituzioni di tipo democratico denunciano la volontaria attuazione di un disegno. Ma il

princeps, nell’affermazione della sua volontà razionalizzatrice, trova forti ostacoli in ordini, corpi e

ceti, che basano la loro resistenza su precisi titoli giuridici, derivanti da ordinamenti preesistenti,

che non possono essere, d’un tratto, eliminati o ridotti a un unico regime giuridico; per cui spesso,

nella Penisola, il modello centralistico non trova che parziale applicazione. Solo la monarchia

sabauda può vantare l’organizzazione di un’attiva burocrazia accentratrice e di efficienti forze

militari.

Il tentativo di rinvenire nell’opera di governo dei sovrani di antico regime una progettualità

statale è presente anche nei prodotti degli studiosi del Mezzogiorno Giuseppe Galasso (1929) e

Rosario Villari (1925), che tratteggiano un quadro caratterizzato dalla compresenza di un centro

organizzato che combatte aspramente un’attiva periferia feudale. Nelle pagine dedicate al primo

Cinquecento da Galasso, la strutturazione dello stato moderno nel regno di Napoli è strettamente

legata al radicarsi della presenza spagnola nella penisola. Nel regno la casa d’Austria imbraccia, sin

dal suo insediamento sul trono, una lotta antifeudale sotto il profilo della giurisdizione e del

controllo politico e amministrativo, con l’intenzione di rintuzzare le pretese autonomistiche

avanzate dal ceto baronale. Ma «al di fuori dei ceti feudali nulla di veramente presente agisce e si

dimostra vivo», mentre gli organismi politici e amministrativi del regno che dovrebbero servire a

instaurare la disciplina, tendono a seguire «la logica dei propri interessi corporativi». Eppure,

sostiene Galasso, pur con faticose e sofferte trasformazioni, si afferma una struttura moderna

paragonabile alle altre che nascono contemporaneamente nel resto d’Europa.

Diversamente, per Villari, il cammino verso la costituzione di istituzioni statali centralizzate,

iniziato con Carlo V e Filippo II, è viziato sin dall’inizio dalla permanenza e dall’efficienza, accanto

ai nuovi istituti, degli organismi rappresentativi tradizionali, il parlamento e gli eletti di Napoli, che

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costituiscono la roccaforte della nobiltà feudale, la piattaforma dalla quale prende le mosse

l’offensiva aristocratica tardocinquecentesca e secentesca. Così, conclude Villari, «lo sviluppo dello

Stato “moderno” fu certamente un fattore di progresso nel Mezzogiorno, ma debole e

contraddittorio; [...] dati i loro precedenti storici e considerato il tipo di rapporti esistenti tra Napoli

e Madrid, i poteri pubblici non furono in grado di arginare, tra la fine del ‘500 e la metà del ‘600, la

massiccia pressione della feudalità ed anzi ad un certo momento la favorirono, con conseguenze che

potremmo dire definitivamente negative nella storia del Mezzogiorno».

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2. Il ruolo delle giurisdizioni particolari e delle istituzioni rappresentative in antico regime

Nel corso del Novecento l’idea dello Stato moderno, così come esso era stato concepito a

partire dalla riflessione di Ranke, continua a essere utilizzato ma, al contempo, sempre più forti si

sentono le critiche nei suoi confronti. Alla radice del dibattito, in certi casi molto acceso, vi sono le

idee sostenute dallo storico tedesco Otto Hintze (1861-1940), uno studioso considerato il padre

della storia comparata e autore di molteplici opere, fra le quali spiccano Staat und Verfassung e

Soziologie und Geschichte (oggi contenute nel volume Stato e società, 1980). Egli sposa la tesi

centrale del pensiero di Ranke, che rintraccia nelle tensioni internazionali del XVI secolo, la radice

delle formazioni statuali di epoca moderna. Tuttavia, lo Stato moderno non è una realtà effettiva,

ma un modello astratto, i cui risultati concreti sono apprezzabili solo laddove la pressione militare

induce i governanti ad accentrare il potere monarchico. Nell’Europa del Cinquecento, Francia e

Spagna, nel tentativo di premunirsi da un’eventuale vicendevole aggressione, sotto la guida del

sovrano si muniscono di un apparato, militare e fiscale, in grado di affrontare risolutamente le

vicende belliche. Altri paesi, come l’Inghilterra, non direttamente interessate dai conflitti della

prima metà del secolo mantengono inalterate le istituzioni parlamentari e le forme di autogoverno

medievali, non consentendo al sovrano di aumentare i propri poteri, che rimangono limitati.

Sulla base di questa sollecitazione sembrano muoversi le ricerche di Jaume Vicens Vives

(1910-1960), presentate postume nel 1960 a Stoccolma in occasione dell’XI Congresso

internazionale di Scienze storiche con il titolo di Estructura administrativa estatal en los siglos XVI

y XVII (La struttura amministrativa statale nei secoli XVI e XVII). Per lo storico catalano, che negli

ultimi anni della sua vita trae dallo studio del marxismo un rinnovato interesse per la vita

economica e sociale della società del passato, risulta impossibile abbordare il tema dello Stato

moderno senza porsi al contempo il problema dell’esercizio effettivo del potere. Se la dottrina

giuridica del tempo sottolinea l’importanza delle facoltà del sovrano, ciò non significa che gli altri

attori giuridici non continuino per lungo tempo a mantenere le proprie posizioni, facendo

intravedere una realtà quanto mai lontana dall’ipotizzata linearità tipica del modello centralistico.

Accanto alla giurisdizione regia agiscono sul tessuto sociale altri poteri, dotati anch’essi di

giurisdizione: i signori, feudatari laici ed ecclesiastici che regolamentano e giudicano le comunità

contadine che vivono nei loro feudi, e la miriade di associazioni di mestiere, corpi, corporazioni,

collegi che caratterizzano le città e che godono di autonomia giuridica e di privilegi specifici,

concessi dal re. Vicens Vices non solo ravvisa nella politerritorialità e nella pluralità degli

ordinamenti la caratteristica principale dell’insieme politico costituito dalla Corona d’Aragona

prima e dalla Monarchia asburgica poi, ma sottolinea come questo insieme era caratterizzato al

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vertice da una concentrazione enorme di potere, che però non aveva la capacità di irradiarsi

efficamente verso la base.

Particolarmente interessanti, a questo riguardo, sono le proposte avanzate negli scritti dello

spagnolo Bartolomé Clavero (1947) e dal portoghese Antonio Manuel Hespanha (1945). Il primo

esordisce, alla fine degli anni Settanta, con un polemico saggio dal titolo Política de un problema:

la revolución burguesa, in cui viene affermato con forza il valore estremo di rottura della

composizione sociopolitica esistente per tutto l’antico regime da parte delle rivoluzioni borghesi di

fine Settecento. È la rivoluzione francese a segnare, secondo Clavero, il vero inizio della modernità

e non il trapasso dall’epoca medievale a quella moderna, tradizionalmente contraddistinto nella

storiografia europea dalla nascita dello Stato moderno. Lo studioso spagnolo, quindi, invita a far

ricorso all’atteggiamento e al metodo propri dell’antropologia per analizzare della società di antico

regime, in modo da rinvenire fra i soggetti politici dell’epoca l’eventuale emergenza di un soggetto

politico da denominare Stato. Clavero ingaggia, in questa maniera, una battaglia contro la

storiografia tradizionale, colpevole di aver reificato la proiezione di un’istituzione politica

contemporanea, lo Stato, giustificando la sua esistenza con la presenza sia del termine status nel

lessico corrente sia di effettive unità politiche: operazione ideologicamente orientata che

comporterebbe il «riconoscimento del proprio» e non la «conoscenza del diverso» e che

impedirebbe, quindi, quella penetrazione analitica che permette di fare scienza. Storico del diritto,

Clavero indica nello ius commune, nel corpus generale legislativo e giuridico di provenienza

medievale e di grande autorità culturale la fonte dalla quale procedere per l’elaborazione di una

nuova storia delle istituzioni, che comporti la definitiva reclusione dell’ideologia contemporanea

dentro le sue coordinate storiche e sociali e la comprensione della società di antico regime nelle sue

differenze da quella attuale, al di là dell’esistenza di una costruzione definibile come Stato

moderno.

Il requiem per lo Stato moderno, intonato da Clavero, appare gravido di decisive

implicazioni per le indagini di storia politico-istituzionale, come dimostra la riflessione di

Hespanha. Il richiamo dello studioso spagnolo a una maggiore specificazione e delimitazione

temporale, insieme alle sollecitazioni provenienti da recenti correnti sociologiche che evidenziano

l’esistenza di unità politiche minime, disperse, che hanno moventi riconducibili alla sfera affettivo-

sentimentale e che esercitano limitatamente il proprio potere e la propria capacità di repressione,

obbligano, secondo Hespanha, a una completa reimpostazione del discorso sulle relazioni tra

apparato, forza e ideologia. È necessaria un’attenzione particolareggiata per i comportamenti dei

singoli soggetti politici, per la loro formazione, per i modi intuitivi di agire all’interno di griglie

normative e disciplinari del tutto autonome rispetto a quelle formali, per l’autorappresentazione

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spontanea che essi hanno della loro attività e del mondo nel quale si dispiega. Una prima, ma

approfondita osservazione della vita sociale e politica del Portogallo del XVII secolo, compiuta nel

volume Vísperas del Leviatán. Instituciones y poder político (Portugal, siglo XVII) (1989), svela un

sistema di potere articolato, in cui il principio unitario, rappresentato dalla monarchia, convive con

il pluralismo dei poteri locali, che amministrano in maniera autonoma tutta una serie di facoltà che

il diritto comune riconosce loro. Il paradosso dell’esistenza di una struttura al tempo stesso

monarchica e pluralista deriva dall’eredità, viva e operante nella società di antico regime, della

scolastica medievale e dal suo modo peculiare di intendere l’unità. Il pensiero medievale,

caratterizzato da una profonda ansia di armonia, postula la coesistenza e la compatibilità fra un

principio unitario che informa e governa la società e l’autonomia delle diverse parti che la

compongono. Questa concezione antropomorfica della società, per cui il principe è la testa del

corpo sociale e i suoi diversi membri le svariate membra, sfocia in un sistema politico corporativo,

all’interno del quale ciascun membro, o corpo od ordine, è dotato di un proprio statuto giuridico e di

una distinta capacità di autoregolamentazione. Il principio di unità che regge il sistema non esige

che il centro, il princeps, privi le periferie, le realtà corporative o locali, dei poteri di cui godono,

ma prescrive solamente che egli, in virtù del principio ius suum cuique tribuere (concedere a

ciascuno il proprio diritto), si ponga come garante sia dell’autonomia delle parti sia del rispetto da

parte di ciascun singolo della vocazione unitaria e armonica dell’insieme. «Dato che questo

equilibrio del tutto preesiste alla volontà del potere ed è indipendente da esso, l’esercizio di questo

si basa non in una volontà arbitraria (arbitrium), ma in una scienza razionale della proporzione

(prudentia, recta ratio). E dato che questa prudentia si dirige al mantenimento degli equilibri

stabiliti, dei diritti radicati, è orientata dal diritto – la iurisprudentia (lo ius commune) – che così

assume un ruolo di “costituzione” del sistema politico» (p. 441). I giuristi sono i mediatori sociali, i

principali produttori e riproduttori dell’autorappresentazione sociale: tramite il loro operato tutte le

istanze istituzionali presenti sul territorio svolgono un ruolo attivo. Anche le istituzioni locali non si

limitano a esercitare una resistenza passiva, ma sono direttamente coinvolte nel processo politico

istituzionale che interessa l’Europa moderna. Teorici ed esperti del diritto si muovono agevolmente

nella selva costituita da alberi di diversa specie, ius communis, ius proprium, diritto giustinianeo e

così via, e nel fitto sottobosco di consuetudini e di precedenti sanno rintracciare i più consoni a far

assorbire senza traumi le innovazioni richieste dal rafforzamento istituzionale incipiente.

Il riconoscimento di poteri che affiancano, coadiuvano o contrastano quello centrale si trova

anche al centro dell’importante contributo della storiografia mitteleuropea allo studio dello sviluppo

dell’istituzione statale in età tardomedievale e moderna e dell’autonoma riflessione portata avanti in

Italia da studiosi in gran parte provenienti dall’area marxista. Un particolare rilievo in proposito,

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nello stimolare la riflessione condotta in Italia, ha l’opera di Otto Brunner (1898-1982), che, nel

saggio Per una nuova storia costituzionale e sociale (Neue wege der Sozialgeschichte, 1956), si

rifiuta di ricostruire il mondo giuridico, sociale e istituzionale di antico regime come se esso

costituisca lo stadio preistorico dello Stato di diritto ottocentesco e propone una lettura del passato

orientata su un centrale nodo problematico: lo studio delle forme del potere all’interno di

formazioni sociali complesse di ambito geografico essenzialmente locale e regionale. Ponendo

l’accento su queste realtà, Brunner critica le categorie concettuali della storiografia costituzionale

tedesca ottocentesca e la loro pretesa di retrospettiva universalità, per constatare all’interno della

società di antico regime le resistenze e le permanenze di elementi non assolutistici dell’assolutismo:

ceti, governi regionali, signorie e così via.

L’impulso di Brunner alla valorizzazione di elementi non riconducibili al paradigma

centralistico così come esso viene affermato nell’Europa del secondo Ottocento e del primo

Novecento, è seguito, nei paesi di lingua tedesca da una nutrita generazione di storici e diffuso in

Italia da Ettore Rotelli e Pierangelo Schiera in una variegata e fortunatissima antologia in tre volumi

dal titolo Lo Stato moderno. Al suo interno, largo spazio hanno gli studiosi mitteleuropei che

sviluppano le tesi brunneriane e dove viene ospitato, non a caso, data la comunione d’intenti,

l’interessante intervento di Vicens Vives presentato a Stoccolma. Nell’opera si precisa come un

processo centralistico che renda possibile la diramazione di direttive dall’apice della piramide del

comando fino alle basi, esiste solo in via del tutto teorica. In realtà, il potere monarchico non ha

incidenza né sul piano provinciale né su quello locale, sui quali invece le istituzioni cetuali

continuano a giocare un ruolo di primo piano, poiché essi si occupano degli affari giudiziari come

di quelli ecclesiastici, dell’amministrazione come dell’ordine pubblico. La monarchia mixta, che

prevede la collaborazione effettiva fra un potere principesco centrale e un potere cetuale regionale o

provinciale, in ogni caso localizzato in un territorio circoscritto, pur nella cronica conflittualità e

grazie a continui e sofferti adattamenti, è una realtà ineliminabile nel mondo politico di età

moderna. Il dualismo fra sovrano e ceti risulta come fondamentale elemento costituzionale delle

nascenti realtà istituzionali: il dialogo con i corpi rappresentativi radicati nel territorio (Êtats,

Cortes, Landtage), è indispensabile alla monarchia tardomedievale per portare a compimento un’a-

zione fiscale e legislativa incisiva.

Il rispetto, più o meno forzato, tributato dai sovrani a istituzioni, privilegi e consuetudini

locali è alla base del concetto di «composite Monarchie», espresso efficacemente dallo storico

inglese John H. Elliott (1930), studioso della realtà spagnola di antico regime con questa o con altre

espressioni come «multiple Kingdoms» o «dynastic agglomerates». Con la fortunata formula di

«monarchia composita» si descrivono le realtà politiche della prima età moderna, composte da stati

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diversi ma aventi a capo lo stesso sovrano, che governa ciascuno di essi come se fossero separati,

rispettandone le tradizioni giuridiche e le strutture istituzionali: una formula che appare ispirata

dalla realtà britannica dell’United Kingdom, una pluralità di stati monarchici diversi legati

esclusivamente dalla figura del monarca, e che è possibile applicare non solo alla Monarchia

asburgica, ma anche a quella inglese, che comprende a partire dall’età degli Stuart l’Inghilterra, la

Scozia e il Galles, e persino alla realtà della Francia, divisa in due parti dai diversi regimi fiscali – il

pays d’éléction e il pays d’État –. Riprendendo le definizioni offerte dal trattatista secentesco Juan

de Solorzano Pereira (1575-1655), Elliott distingue l’unione accessoria, tramite la quale una realtà

politica si unisce a un’altra perdendo le sue caratteristiche giuridiche e istituzionali, dall’unione

aeque principaliter, che consente a ciascun soggetto protagonista dell’operazione la conservazione

delle proprie specificità. La Monarchia asburgica opera grazie alla prima nelle Americhe, che

divengono parte integrante della Castiglia, mentre della seconda si serve in Europa, per legare a sé

territori quanto mai diversi, dalla Sicilia a Napoli, da Milano alle Fiandre, dai regni della Corona

d’Aragona alla Castiglia: ciò che ne emerge è un ritratto quanto mai articolato della realtà di antico

regime.

Un ulteriore passo verso la dissoluzione del paradigma centralistico è quello che si compie,

sempre nel corso del secondo Novecento, in Italia, in un panorama dominato dal magistero

chabodiano e dall’applicazione dei dettami weberiani, grazie ai lavori di Marino Berengo (1928-

2000) e di Angelo Ventura (1930-2016). Essi tentano di ribaltare la prospettiva centralistica,

salutando nelle vicende cinquecentesche non l’emersione della moderna istituzione statuale, ma il

declino delle società urbane medievali e delle libertà cittadine: la loro riflessione si situa quindi

all’interno di un filone interpretativo specifico quale quello che teorizza la decadenza dell’Italia nei

secoli della prima età moderna dopo lo splendore della vita comunale.

Berengo, nel volume Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento (1962), concentra la

sua attenzione sulla cittadina toscana, una delle poche città-stato che ancora nei primi del

Cinquecento non sono state assorbite da realtà politiche più estese. Il governo cittadino, all’interno

del quale un ruolo egemonico occupano un gruppo di ricche famiglie mercantili, impegnate nella

produzione e nella commercializzazione della seta nonché in una serie di traffici e attività creditizie,

si sforza di mantenere l’indipendenza dalla città, dando mostra di un atteggiamento filoimperiale,

volto a contrastare le mire espansionistiche del duca di Firenze, Cosimo I dei Medici. Si tratta di un

tentativo che impegna i gruppi dirigenti per l’intero secolo e che però non va a buon fine. I ceti di

governo fanno propria una “coscienza nobiliare” che mal si accorda con le abitudini mercantili, che

ne hanno garantito la prosperità, e che conduce la città verso il declino economico conclamato del

Seicento: la parabola lucchese diviene così il paradigma della crisi della libertà italiana, della

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decadenza. Come Berengo spiega in una rassegna dedicata a Il Cinquecento, pubblicata nel 1970:

«La brusca sconfitta di quella civiltà, che non ebbe per contropartita la formazione di Stati solidi

nelle loro strutture amministrative e giudiziarie, ma si espresse nel trionfante particolarismo dei

corpi, nella pigra custodia di privilegi nuovi e antichi, in un’egemonia nobiliare condannata a un

precoce invecchiamento dal cessare d’ogni competizione e d’ogni alternativa di ricambio, apre

quella che fu la più certa e la più lunga età di decadenza nella storia dell’Italia moderna» (p. 246).

Gli studi di Ventura si focalizzano, invece, sui centri urbani di terraferma della Repubblica

di Venezia, in cui fra XII e XVI secolo si porta a compimento un processo di cristallizzazione e

aristocratizzazione della vita politica locale, che si intreccia strettamente all’erosione delle libertà

cittadine. Venezia, la Dominante, stipula con l’oligarchia di governo di ogni singola componente

del suo territorio una serie di accordi che le garantiscono particolari privilegi, ma in questo modo dà

luogo non a uno stato chabodianamente inteso quanto a un aggregato di città e di signorie rurali, di

ordini e di corpi, di province e di “paesi” che domina basandosi su un duro diritto di conquista.

Le sollecitazioni provenienti da questi studi, l’invito esplicito lanciato da Berengo ad

approfondire lo studio delle capacità di resistenza di feudi, province, città, patriziato e clero alla

volontà centralizzatrice, l’innesto proficuo sulla modernistica italiana della riflessione mitteleuropea

sui temi dello Stato moderno e dell’assolutismo, l’influenza che si irradia dalle contemporanee

ricerche condotte in Francia, indirizzano, all’inizio degli anni Settanta, gli studi italiani verso una

direzione che lascia largo spazio all’integrazione di diversi elementi, in precedenza trascurati dalla

concezione strettamente statalistica, basata sull’accentramento monarchico. Programmaticamente, il

gruppo di storici che concepisce l’incompiuto Atlante storico italiano si pone come obiettivo una

rappresentazione cartografica della penisola che, delineando le strutture ecclesiastiche, economiche,

agrarie, stradali, demografiche del passato, conduca a ricostruire i lineamenti di fondo della società

italiana. «Il disegno – come ha sottolineato Elena Fasano Guarini, in un saggio edito negli anni

Novanta che ricostruisce i percorsi storiografici seguiti vent’anni prima – non sottende una visione

“moderna” e accentrata dello Stato. Anzi, dovendo produrre risultati cartografabili, lascia semmai

nell’ombra i poteri e le istituzioni raccolte nel centro e privilegia di fatto le periferie; dà ampio

spazio all’analisi e alla rappresentazione dei particolarismi, delle autonomie locali, delle esenzioni

fiscali e giurisdizionali». Il momento precedente alla redazione dell’Atlante segna una tappa

importante della discussione intorno alle strutture di potere in Italia: i successivi prodotti

storiografici fanno tesoro delle indicazioni suggerite.

Il ritratto degli Stati della penisola che ci viene presentato alla fine degli anni Settanta nel

volume La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, curato da

Giorgio Chittolini (1940) non collima con il tradizionale paradigma dello Stato moderno, ma

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disegna una realtà caratterizzata da particolarismi e da vistosi retaggi del passato, che il sorgere di

nuove compagini territoriali non elimina. La frammentazione politico giurisdizionale appare scritta

nel codice genetico di quelli che a partire da quel momento vengono definiti “Stati regionali” o, con

formula più fortunata, “antichi Stati italiani”. Si tratta di realtà geo-politiche costituitesi, fra

Medioevo e prima età moderna, mediante l’acquisizione separata di territori più o meno grandi, e

talvolta minuscoli, che, pur legandosi a un potere centrale, spesso identificabile con una città

dominante, preservano autonomia e individualità tramite una vasta tipologia di patti, contratti e

capitolazioni.

Allo stesso modo, nel volume dedicato alla realtà toscana cinquecentesca e intitolato Lo

Stato di Cosimo I (1973), Elena Fasano Guarini, attraverso lo studio dei Memoriali spediti ai Nove

Conservatori della Giurisdizione e del Dominio fiorentino nella seconda metà del Cinquecento,

mette in luce come l’apparato centrale, articolato ma esile, dia prova di costante debolezza nelle

periferie e sia costretto quindi ad appoggiarsi costantemente e consistentemente sugli organi

comunitativi per tutta una serie di compiti definibili come propri del potere centrale: il

mantenimento dell’ordine pubblico, la lotta al contrabbando, la distribuzione, la percezione delle

imposte e così via. In questo modo l’estendersi del potere statale non si attua in maniera innovativa,

ma riposa sulle forme consuetudinarie dell’organizzazione delle comunità. Seppure tra XV e XVI

secolo le nuove formazioni statali attuino uno sforzo razionalizzatore, nella giurisprudenza come

nella fiscalità, promuovendo la specificazione professionale del ceto burocratico e giudiziario, non

si può concludere che ciò esaurisca gli ordinamenti politici della società e i loro meccanismi di

esercizio. Istituzioni urbane, grandi casati, consorterie, nuclei diversi di organizzazione politica,

gruppi familiari, associazioni corporative, partes rimangono realtà ineliminabili per la

comprensione della dinamica politica in antico regime. Si tratta di uno strano insieme, assai lontano

dall’ipotetico Stato moderno che anche da alcuni studiosi italiani era stato intravisto: un sistema,

spesso confuso e disorganico, di giurisdizioni particolari, di autonomie, di feudi, di privilegi e di

immunità, su cui si reggono gli stati regionali sino alla fine del XVIII secolo. La pluralità dei

soggetti politici è dunque il dato incontrovertibile delle società di antico regime, la cui dinamica

politica è il prodotto di ripetuti patteggiamenti fra “centro” e “periferia”, di una prassi

contrattualistica diffusa e consolidata, e non dell’affermazione rettilinea del potere centrale.

Un ulteriore arricchimento in questa prospettiva è stato fornito da un gruppo di studiosi che

hanno come lontano punto di riferimento le indicazioni offerte da Berengo e che hanno concentrato

la loro attenzione principalmente su Genova e il suo territorio. L’invito allora formulato a studiare,

contro il modello centralistico chabodiano, il “gioco delle forze locali”, concentrando l’indagine sui

rapporti di potere regionali o cittadini e comunità semi-urbane e rurali, si è concretizzato nelle

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ricerche di Angelo Torre (1949), Osvaldo Raggio (1951), Edoardo Grendi (1932-1999) e di altri

studiosi che gravitano intorno alla redazione della rivista «Quaderni storici». Essi sono i fondatori

della cosiddetta “microstoria”: per esplicito programma di ricerca hanno deciso di cogliere quanto

più concretamente possibile le interdipendenze tra società locali e istituzioni statali. Traendo

ispirazione dall’antropologia sociale e dai recenti studi sulla competizione politica locale, rifiutano

pertanto la contrapposizione fra centro e periferia, Stato e comunità, alto e basso, in quanto tale

dicotomia non reggerebbe, a loro parere, alla verifica empirica, e si impegnano nel dimostrare come

parentele, fazioni, partiti radicati a livello locale non siano solo i protagonisti di un’azione di

resistenza ma abbiano un’influenza determinante nella prassi governativa delle istituzioni for-

malizzate a livello centrale. Al centro del volume di Raggio Faide e parentele. Lo Stato genovese

visto dalla Fontanabuona (1990) stanno i conflitti che scuotono le comunità liguri alla fine del

Cinquecento. Si tratta di tensioni causate da dispute riguardanti questioni domestiche (il pagamento

o la restituzione di una dote, l’accesso ai pascoli o all’acqua, il transito del bestiame, una promessa

di matrimonio non mantenuta), che permettono tuttavia, secondo Raggio, a un potere proveniente

dall’esterno, da Genova, di esercitare una funzione arbitrale; ma la volontà del “centro” non si

impone in maniera lineare e univoca, arrogandosi un’autorità completa. Le comunità, infatti, gli

contrappongono forme organizzative e pratiche sociali dotate di autonomia e di una notevole

capacità di condizionare, manipolare e modificare le sue strategie e le istanze di cui è apportatore. I

contenziosi interni a una comunità diventano l’occasione per il potere centrale di intervenire, ma, al

contempo, rappresentano per la comunità stessa l’opportunità di agire “dal basso” su organi lontani:

si innesca così un continuo processo di comunicazione sociale, non esente – naturalmente - da

conflittualità. Fortissima, in questa visione, è la contestazione del paradigma dello Stato moderno,

«chiave di lettura a senso unico dei fenomeni politici e dei movimenti sociali in generale» (p. IX),

mentre vengono messi in evidenza la pluralità dei protagonisti politici e il fitto intreccio fra

dinamiche locali e funzioni dello Stato. Nello studio di Grendi, Il Cervo e la repubblica. Il modello

ligure di antico regime (1993), emerge come la Repubblica ligure, che ha il suo centro decisionale a

Genova, esercita la sua sovranità sul territorio, imponendo e riscuotendo tributi, amministrando

l’alta giustizia, inviando nelle comunità periferiche podestà e commissari, governando la vita

economica; tuttavia, essa non risulta portatrice di un progetto statuale coerente e riesce ad avere un

ruolo politico determinante nel territorio solo quando si confronta direttamente con quelle as-

sociazioni primarie, quali borghi, parrocchie, ville, piccole cittadine e così via, che costituiscono

centri alternativi, almeno in parte, alla metropoli.

Per quanto possa risultare utile e affascinante, la proposta proveniente da questi studiosi

rischia la consacrazione dualistica di binomi rigidi, la statica giustapposizione fra centro e periferia,

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linguaggio ufficiale e idioma politico locale, la canonizzazione di un nuovo paradigma poco duttile

e flessibile di fronte alla molteplicità delle interazioni sociopolitiche che il passato presenta e che

costringono lo studioso, che vede dissolversi i paradigmi rassicuranti predisposti nell’Ottocento e

che vive in un periodo segnato dalla crisi degli organismi statuali contemporanei, a procedere al di

là di ogni schematicità, in un esercizio storiografico segnato dal continuo ricorso alla verifica

documentaria.

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3. Ceti dirigenti, clientele e fazioni

Negli ultimi cinquant’anni, a rinnovare ulteriormente il panorama della storiografia politico

istituzionale, a liberarlo dalla rigida e opprimente griglia, costituita dal concetto di Stato moderno, è

servito il costante e costruttivo dialogo fra storici e studiosi sociali, sociologi e antropologi

soprattutto, su temi diversi aventi come comune denominatore una specifica attenzione alle

dimensioni sociali del potere.

Un primo tentativo di elaborare una metodologia atta a ritrarre i ceti dirigenti delle società di

antico regime, a definirne il carattere e a specificare la natura dei vincoli che legano fra di loro i

singoli componenti rendendo i gruppi coesi e socialmente riconoscibili dall’esterno, è avanzato

negli anni Trenta del nostro secolo in Inghilterra. Il libro di Lewis Bernstein Namier (1888-1960)

The Structure of Politics at the Accession of George III (La struttura politica all’ascesa di Giorgio

III, 1929), dedicato ai gruppi dirigenti nell’Inghilterra di Giorgio III, segna la nascita del metodo

prosopografico. Si tratta, al tempo stesso di un preciso genere storiografico, che postula un’indagine

sui caratteri di fondo posseduti in comune da un gruppo di persone che hanno agito storicamente

per ricavare conoscenza dallo studio collettivo delle loro vite. Lo sguardo su una delimitata

porzione dell’universo sociale e sui legami che fra i suoi componenti si stringono e si mantengono

mette in evidenza particolare il fenomeno del clientelismo, quale pratica consolidata di relazione

all’interno del gruppo preso in esame. Sicuramente uno dei pericoli principali dello studio

prosopografico è l’enfasi sugli aspetti devianti del rapporto di clientela, in quanto la dipendenza da

fonti che documentano legami personali e vicende patrimoniali indurrebbe lo studioso meno esperto

a leggere in modo parziale e sostanzialmente inattendibile il passato, uniformando sotto il comune

denominatore della corruzione sistemi politici diversi fra loro e lontani nel tempo. Tuttavia, a

partire dall’opera pionieristica di Namier, lo studio prosopografico ha completamente rinnovato

l’immagine della politica di antico regime e inserito nel vocabolario storiografico di argomento

politico e sociale i termini di clientela e patronage, facendone una chiave di lettura privilegiata per

comprendere la specificità dei sistemi politici europei anteriori alla Rivoluzione francese.

Una definizione accurata e puntuale del carattere e dello spessore del fenomeno clientelare

all’interno della società di antico regime è quella che proviene dagli studi condotti da Roland

Mousnier (1907-1993). Lo storico francese, tramite un lungo percorso storiografico volto a

precisare in maniera sempre più chiara le suggestioni derivanti da una sua prima fatica sulla natura

e il ruolo degli uffici nella Francia moderna, propone all’attenzione degli studiosi una maniera

peculiare di intendere la società di antico regime e appresta una serie di strumenti metodologici,

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tuttora di grande utilità, per lo studio della vita politica del passato. A metà degli anni Quaranta,

Mousnier pubblica il saggio La vénalité des offices sous Henri IV et Louis XIII (La venalità degli

uffici sotto Enrico IV e Luigi XIII, 1946). In esso l’autore si propone di ricostruire le carriere

burocratiche e di determinare il ruolo del personale amministrativo all’interno della società francese

del tardo Cinquecento e del primo Seicento. Mousnier si serve di fonti fino a quel momento inedite

come gli editti regi, i decreti del Consiglio del re, memorie, lettere e pamphlets del tempo. L’ufficio,

così come viene delineato in base all’analisi di questa documentazione, si discosta dalle categorie

apprestate per la sua comprensione da Weber e si caratterizza per essere al tempo stesso bene

patrimoniale, dignità permanente, irrevocabile e soggetta alle leggi di un mercato specifico, e

funzione pubblica delegata. La venalità non è un espediente preso da una monarchia bisognosa, in

un momento critico della sua esistenza, di denaro pubblico ma un retaggio medievale che la

paulette, un’imposta annuale stabilita dal ministro Sully nel 1604 e pagata da tutti i detentori degli

uffici, sanziona e perfeziona. Un ufficio apposito, il Bureau des Parties casuelles, raccoglie le

entrate provenienti dalla vendita degli uffici e le consegna alla corona, che è priva di

un’organizzazione finanziaria articolata e ramificata nel territorio. Il denaro confluisce nel Bureau

al termine di un lungo cammino che ha visto in molte delle sue tappe un’intermediazione da parte di

privati. Costoro, infatti, dopo aver acquistato un ufficio dal sovrano e dopo aver versato alcuni

diritti fiscali spettanti della corona, ne dispongono liberamente. Moltissimi uffici sono legalmente

passibili di vendita: tutti, in realtà, sono venduti, o sono oggetto di donazione; passano di mano in

mano, di persona in persona, sotto forma di eredità o di gratificazione e diventano così l’oggetto di

uno scambio fra consanguinei o fra individui legati da un rapporto personale, basato sulla parentela

o su un’amicizia fidata. Lungi dall’essere una distorsione di un sistema altrimenti funzionante, la

venalità svolge una funzione di mobilità sociale, contribuendo potentemente al rinnovamento dei

quadri dirigenziali. L’acquisto di uffici minori da parte di mercanti, di maestri di mestiere e di loro

discendenti può condurre gli eredi inseriti nella carriera burocratica, nel giro di poche generazioni,

alle corti sovrane, ai parlamenti, alle funzioni più alte dello stato e, in molti casi, alla nobilitazione.

Inoltre, il sistema della venalità delle cariche consente al sovrano di contare su un gruppo sociale,

quello dei funzionari, interessato a sostenere una monarchia cui ha dato del denaro, traendone in

cambio l’onore e il beneficio di amministrare il regno in suo nome.

È appunto sul valore non commisurabile della “fedeltà”, patrimonio di un ceto burocratico

spesso ma non sempre di origini mercantili, che si appuntano successivamente le ricerche di

Mousnier. Egli approfondisce così alcuni motivi emersi durante lo studio della venalità delle

cariche. Se nel 1955, in un intervento fatto insieme a Fritz Hartung, Mousnier aderisce a una visione

classista e marxista della società di epoca moderna e ammette, fra i molteplici elementi necessari

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alla costituzione dello Stato, la lotta fra una nobiltà desiderosa di conservare il proprio potere e i

propri poteri, e una borghesia economicamente emergente, interessata all’ascesa sociale tramite la

cooptazione all’interno del gruppo dei funzionari e decisa ad imporsi sul terreno politico, grazie

all’appoggio prestato alla monarchia, con una meditazione successiva lo studioso francese propone

un paradigma totalmente diverso di comprensione dei meccanismi sociali e politici del passato. Egli

distingue tra la società di classi, tipica del mondo contemporaneo capitalistico-borghese, basata su

una stratificazione degli individui e dei gruppi in base al patrimonio o al ruolo svolto nella

produzione di beni materiali, e la società di ordini, in cui individui e gruppi sono classificati

secondo l’onore e la stima che ricevono per funzioni non identificabili con quelle economiche. Così

il concetto di classe viene progressivamente bandito dalla sua produzione storiografica a favore di

quelli di ordine e stato, la cui definizione viene progressivamente perfezionata.

Nel volume Les Hiérarchies sociales de 1450 à nos jours (Le gerarchie sociali dal 1450 ai

giorni nostri,1969) i conflitti che scuotono la società di antico regime non sono definibili come

“lotte di classe” ma come scontri fra schieramenti i cui componenti, che provengono da strati sociali

diversi, sono uniti in linea verticale da legami basati sul concetto di “fedeltà”. Mettendo in evidenza

il ruolo di primo piano di esponenti della nobiltà durante i disordini che scuotono i mandati di

governo del cardinale Richelieu e del cardinale Mazarino, Mousnier pone l’accento sui legami di

fedeltà che uniscono i nobili ribelli a membri di ogni gruppo sociale, mette in risalto i fili invisibili

ma saldi che percorrono la piramide sociale e che mettono in contatto diretto i nobili con i fun-

zionari, gli artigiani e i contadini. Il rispettivo livello sociale dei contraenti definisce il tipo di

vincolo: il legame fra signori e contadini deriva dalla società feudale sviluppatasi tra l’850 ed il

1250 circa fra la Loira e la Mosa e ne conserva anche l’atto formale di dedizione; la relazione fra

pari all’interno dei gruppi aristocratici è riconducibile al binomio maître-fidèle, distinta da quella

affine tra protecteur e créature, tipica del mondo del governo. La dimensione affettiva, estranea al

rapporto sostanzialmente di carattere giuridico che intercorre fra il signore rurale e i suoi

censitaires, trova un posto fondamentale nei legami che stringono tra loro i membri dei gruppi

dirigenti. La nozione di “fedeltà”, basilare nelle relazioni fra maître e fidèle e fra protecteur e

créature, si coniuga però in maniere differenti nel mondo nobiliare e in quello burocratico. Nella

relazione fra protecteur e créature, l’affetto e la fiducia reciproca si accompagnano alla devozione

totale da parte della creatura e alla protezione e all’avanzamento sociale da parte del protettore.

Come scrive Mousnier, le creature si danno al protettore, «gli dedicano i loro servizi, si battono per

lui, in duello, in risse, in battaglie campali, parlano, scrivono, intrigano per lui, lo seguono nella sua

fortuna e nella sua sventura, anche lontano, all’estero, si fanno imprigionare per lui, uccidere per

lui. In cambio, il signore, il protettore, li veste, li nutre, dà loro fiducia e confidenza, li fa avanzare

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nella società, li sposa, fa ottenere loro dei posti, li protegge, li fa uscire dal carcere e, se è un

principe, stipula per loro col re i trattati che pongono fine alle rivolte» (p. 71). L’età aurea dei

legami clientelari, che comprende i regni di Enrico IV e di Luigi XIII, tramonta con l’ascesa al

trono del Re Sole. Questi, infatti, pur essendo grande nemico delle relazioni di natura clientelare,

non esita a servirsene. Orienta a proprio vantaggio il sistema delle protezioni e dei favori, verticizza

in dipendenza della sua persona i vincoli personali non scritti che costituiscono il nerbo della

struttura delle élites. Luigi XIV, unico e supremo dispensatore delle grazie, tuttavia, utilizzando il

legame di fedeltà in maniera universale e permanente, ne altera le qualità, lo snatura e lo annienta,

integrandolo in un altro rapporto che deve essere alimentato dai sentimenti della fedeltà, il rapporto

tra suddito e Stato.

Malgrado, anche a detta di Mousnier, queste suggestive conclusioni tratte sulla natura del

potere monarchico nell’età del Re Sole necessitino di più solide conferme, le grandi linee

dell’interpretazione mousneriana sono sostanzialmente accettate anche da studiosi di diverso

orientamento, pur con i dovuti correttivi e distanziamenti, e la particolare attenzione per il mondo

burocratico e per le sue caratteristiche è condivisa, negli anni Sessanta e Settanta, anche all’interno

di altre storiografie europee. L’importanza dei legami clientelari per l’accesso al mondo dei

funzionari in luogo dei requisiti professionali emerge, infatti, anche da ricerche contemporanee, o di

poco posteriori a quelle condotte da Mousnier, su diverse realtà di antico regime.

Le tre p di patrimony, patronage e purchase costituiscono le categorie fondamentali

secondo le quali la britannica monarchia degli Stuart recluta il proprio personale amministrativo,

studiato da Gerald Aylmer (1926-2000). Nel volume The King’s servants. The Civil Service of

Charles I, 1625-1642 (1961), Aylmer si propone di definire la funzione pubblica in età moderna

non solo attraverso lo studio delle strutture e delle procedure amministrative, ma anche e soprattutto

attraverso la pratica degli individui operanti in quelle strutture, la ricostruzione delle loro carriere, la

definizione del loro ruolo negli uffici, compiendo uno studio di tipo prosopografico sulla burocrazia

secentesca. Egli affronta in particolare tre questioni: le entrate dei funzionari, la venalità delle

cariche, la composizione sociale della burocrazia. Alcuni fenomeni descritti da Aylmer per il

mondo burocratico inglese sono tipici della storia del personale amministrativo di questo periodo,

studiato per la Francia da Mousnier, per il ducato di Milano da Chabod, per la Castiglia da Vicens

Vives: la tendenza all’ereditarietà negli uffici maggiori, la riunione di più cariche nella stessa

persona, l’abolizione di vecchi e l’istituzione di nuovi uffici. Tuttavia, Aylmer rileva che, a

differenza della Francia, lo sviluppo della compravendita degli uffici in Inghilterra non favorisce un

trasferimento di ricchezza indirizzato alla Corona, ma incrementa i redditi di una ristretta cerchia di

funzionari, membri della gentry. Sono infatti gli alti ufficiali, e non il monarca, a sovrintendere alla

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nomina del personale e a trarne un profitto economico non indifferente. Essi inoltre godono del

prestigio che può giungere dal poter contare, grazie all’opera di distribuzione di benefici che

effettuano, su una vasta rete clientelare e sono, quindi, non solo i detentori dei proventi che

derivano dalla venalità delle cariche, ma anche i possessori delle leve del potere politico, grazie alla

funzione di collegamento e di mediazione che espletano tra la Corona e i territori provinciali del

regno. I più alti funzionari della corte regia si inseriscono tra il re e la società organizzata, e quindi

influiscono sulle decisioni regie proprio per la possibilità loro offerta di operare come filtro tra il re

e i suoi sudditi, o meglio tra il re e i suoi servitori periferici. Il sistema clientelare, che ha la sua

origine in una peculiare maniera di intendere la venalità delle cariche e che prende il nome di

bastard feudalism, risulta essenziale per garantire la governabilità del regno inglese nella prima

epoca moderna. Le reti clientelari attraversano verticalmente e orizzontalmente la società, legando

persone di diversa estrazione sociale e di differente credo politico: il vincolo personale permette al

sovrano e ai personaggi più influenti per tradizione familiare di elevarsi al di sopra delle divergenze

di opinione riunendo sotto la loro ala protettiva un ingente numero di clienti che chiedono solo di

“servire” il loro patrono in cambio di un incarico pubblico.

Immagine non dissimile giunge dagli studi condotti in altre realtà europee, come il ducato di

Milano e la Castiglia. Le ricerche che comprovano la venalità degli uffici, la loro compravendita e

la natura stessa dell’ufficio come don du souverain e come principale oggetto di scambio all’interno

di pratiche clientelari sono accolte, seppure in maniera molto sfumata, anche da Chabod. Egli,

infatti, torna a dedicarsi negli anni Cinquanta allo studio dell’amministrazione dello Stato di Milano

dopo una pausa ventennale dando alle stampe i saggi Usi e abusi nell’amministrazione dello Stato

di Milano a mezzo il ‘500 e Stipendi nominali e busta paga effettiva dei funzionari

dell’amministrazione milanese alla fine del Cinquecento. Il modello proposto da Mousnier è, però,

ritenuto inapplicabile alla realtà milanese: nel ducato non è presente alcun bureau des parties

casuelles, alcun receveur général des parties casuelles, la camera non calcola alcun utile dalle

vendite, ma soprattutto, non si assiste a quella moltiplicazione degli uffici che è, secondo Chabod,

consueta e logica quando ne trionfa la vera e propria vendita. Se dai documenti relativi alle visitas

compiute nello Stato di Milano emergono vicende che portano a ritenere pratica corrente quella

della vendita, occorre tuttavia sottolineare che essa non è legale, ma extra legem, privata, con utile

esclusivamente privato. Si tratta, secondo lo studioso, di vera e propria corruzione: un male che non

era solo milanese, visto che anche nella Francia coeva è necessario l’aiuto di una persona

importante, remunerata poi con un dono prezioso. Chabod interpreta i dati che gli provengono dalle

sue indagini ancora una volta richiamandosi all’idea di una nuova mentalità che, nei burocrati

cinquecenteschi, è in formazione ma che non si è ancora del tutto sviluppata: il dovere d’ufficio si

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mescola, nel concreto, quotidiano operare, con un modo di pensare cavalleresco, privatistico. Germi

di novità ed elementi di arretratezza si ricompongono, quindi, in un originale intreccio di pubblico e

privato, dando luogo a elementi paradossali: un organismo nato per imprimere efficienza alla cosa

pubblica si sviluppa attraverso forme parassitarie, attraverso la privatizzazione della funzione

amministrativa. Nessun approfondimento particolare è tuttavia dedicato dallo studioso valdostano

all’uso dei meccanismi clientelari che sovrintendono alla vita politica e amministrativa in antico

regime, cui si mostra più sensibile Vicens Vives.

Lo storico spagnolo, nel suo saggio dedicato a La struttura amministrativa statale nei secoli

XVI e XVII, nota che «mentre lo Stato monarchico sviluppa nuove forme di amministrazione, la

maggioranza delle persone, che occupano le cariche, conserva una mentalità totalmente medievale»

(p. 238), che le conduce a considerare l’ufficio un vantaggio personale di carattere patrimoniale.

L’aspirazione massima del ceto burocratico è quella di fondersi con i nuclei aristocratici di sangue o

di patrimonio. «In questo caso il senso del privilegio e della preminenza - derivati dal mondo

feudale - penetrano nel seno dell’amministrazione, contribuendo a darle l’aspetto feudale» (p. 239).

La “feudalità” del personale amministrativo castigliano si dimostrerebbe nell’incompetenza

professionale, nella disonestà, nella mediocrità. Infatti, come viene rilevato, «la preparazione per

l’ufficio si ottiene con un titolo accademico, però con maggiore efficacia con una buona protezione

o con la elevata consistenza patrimoniale propria o familiare» (p.241). Ancora una volta, però, la

constatazione dell’esistenza di catene clientelari che regolano gli accessi alle strutture burocratiche

di antico regime, non dà luogo ad uno studio sistematico delle pratiche interne al sistema ma a un

giudizio moralistico: la corruzione è il carattere distintivo del mondo dei funzionari di antico regime

i quali, anziché attenersi alla precettistica corrente a partire dal XVII secolo che indica l’ufficio

come funzione pubblica, fanno un uso personale e privato delle prerogative che derivano loro

dall’esercizio di una carica.

Ad attirare l’attenzione degli storici sul tema delle clientele, senza uno sguardo

pregiudizievolmente orientato, è intervenuta poi l’assimilazione di quanto elaborato, a partire dagli

anni Quaranta, in maniera totalmente autonoma, nei cantieri delle scienze sociali, sociologia,

politologia e soprattutto antropologia. La cosiddetta “scuola di Manchester”, che annovera fra i suoi

migliori esponenti Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973), innova drasticamente alla fine degli

anni Trenta metodi e sistemi in auge fino a quel momento nella disciplina antropologica, creando

centri di ricerca sul campo in Africa. Nel continente africano, Evans-Pritchard si trova a osservare

società di grandi dimensioni, difficili da ridurre a una coerente delimitazione geografica e solo

secondariamente governate da modi di controllo sociale, quali obbligazioni reciproche, scambi,

controlli magici e così via, vigenti presso le già studiate civiltà dell’Oceania. Le società africane

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risultano dotate di sistemi politici complessi, che le autorità coloniali avevano tentato, con maggiore

o minore successo, di integrare nel sistema di dominio indiretto che avevano costituito. L’interesse

dell’antropologo inglese viene così a concentrarsi sullo studio di questi sistemi politici e più in

particolare sul loro funzionamento, dato che esse risultano visibilmente sprovviste di

un’organizzazione di governo centralizzata. Sia nel volume collettaneo dedicato ai sistemi politici

delle tribù africane, African Political System (1970), che nella monografia dedicata al popolo dei

Nuer, The Nuer: A Description of the Modes of Livelihood and Political Institutions of a Nilotic

People, (I Nuer: un’anarchia ordinata, 1940), Evans-Pritchard analizza la parentela e il lignaggio

come parti di un sistema di rapporti politici piuttosto che come semplici modi di organizzazione

delle relazioni personali. La struttura del lignaggio, ossia di un gruppo di persone collegate per via

maschile da legami di parentela, costituisce infatti la base del sistema politico. Ogni lignaggio si

suddivide in un numero molto vasto di lignaggi minori, i segmenti, che prevedono un alto livello di

cooperazione, tanto che se un loro membro viene offeso o ucciso tutti gli altri membri del lignaggio

si impegnano nell’esigere un compenso per il danno subito, che viene poi diviso fra tutti i

componenti. Se l’offesa non viene debitamente riparata, il contenzioso degenera nella faida. Per

Evans-Pritchard la faida diventa una delle chiavi di lettura del mondo primitivo: essa è il segnale

della violazione di una norma, una sanzione sociale e anche il mezzo grazie al quale si rafforza la

solidarietà interna del gruppo, definendone i confini e rendendo visibile la comunità politica. Anche

la guerra è un indice per scoprire il sistema politico. Durante lo scontro, il potere diffuso come una

sorta di energia pulviscolare all’interno della società, acefala per sua natura, si cristallizza e si

manifesta, poiché la guerra tra le altre cose è la maniera in cui un gruppo acquisisce coscienza di sé

come gruppo dato che stabilisce ogni volta chi deve riunirsi e contro chi.

Malgrado le categorie di parentela e di lignaggio risultino fondamentali nel discorso

costruito da Evans-Pritchard, la riflessione sul clientelismo rimane, nei suoi scritti, per lo più

marginale. Interessandosi a società nelle quali le istituzioni dello Stato sono autonome, nelle quali il

potere si esercita secondo regole specifiche attraverso l’intermediazione di organizzazioni

specializzate e scegliendo come terreno d’indagine le società mediterranee, alcuni allievi di Evans-

Pritchard, nel secondo dopoguerra, incentrano la loro riflessione sulle tematiche inerenti al

fenomeno del clientelismo.

Il rapporto clientelare è definito dagli antropologi, come per esempio J. F. Médard nel

saggio Le rapport de clièntele du phénomène social à l’analyse politique (1976), un «rapporto di

dipendenza personale non legato alla parentela, fondato su uno scambio reciproco di favori fra due

persone, il patrono e il cliente, che controllano risorse ineguali» (p. 103). La relazione fra patrono e

cliente si basa su un mutuo scambio di differenti tipi di risorse, che non vengono offerte e ricevute

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singolarmente ma globalmente e incondizionatamente; un suo elemento prevalente è la solidarietà,

che può essere forte o debole. Le relazioni fra patrono e cliente sono inoltre informali, volontarie e

asimmetriche, in quanto basate su un elemento molto forte di disuguaglianza e di differenza di

poteri fra i due contraenti. Tuttavia, la semplice bilateralità dei contatti fra patrono e cliente non

permette la possibilità di un riscontro storicamente determinato, plausibile invece quando dalla

semplice relazione “diadica” si trascorre alla considerazione dell’immagine della rete, network, che

lega gli individui, già stretti da legami di tipo clientelare, in gruppi corporati e che permette loro

non solo scambi verticali ma anche orizzontali.

L’antropologo Jeremy Boissevain (1928-2015) ha centrato sulla sua attenzione appunto sulle

reti che nascono dall’infittirsi e dall’intrecciarsi di relazioni clientelari e ha messo in luce la

differenza fra patronage e brokerage. Laddove la figura del patrono accentra su di sé le risorse e ne

dispone liberamente, il broker, il mediatore, non potendo contare su sostanze personali, mette in

contatto due parti diverse traendone un vantaggio. Così come essa appare formulata la nozione di

brokerage appare estremamente utile per chiarire la natura dei rapporti fra “centro” e “periferia”

nelle società di antico regime, per comprendere il carattere delle relazioni fra gli apparati centrali di

potere e le comunità locali e regionali e per capire il ruolo di mediazione che le élites rivestono tra

le istanze di accentramento e le resistenze particolaristiche e la capacità di promozione sociale verso

il “centro” che esse esercitano nei confronti dei clienti a loro legati.

L’uso delle categorie elaborate in sede antropologica e sociologica è invalso,

successivamente alla loro divulgazione, anche nella ricerca storica. In questo senso pionieristico

appare il lavoro di due studiosi americani che, durante gli anni Sessanta, si dedicano alla ricerca

sulla élite di governo francese tra Cinque e Seicento, James Russel Major (1921-1998) e Orest

Ranum (1933). Studioso delle istituzioni rappresentative, egli si richiama ai classici della

prosopografia britannica, in primo luogo agli studi di Namier, per giustificare la sua scelta di

cercare di interpretare la monarchia rinascimentale francese attraverso gli Stati generali e propone,

da questo punto di vista, alcune conclusioni che differiscono considerevolmente da quelle avanzate

dai tradizionali studi sulla monarchia rinascimentale. Distinguendo fra monarchia rinascimentale e

monarchia d’antico regime, Russel Major ribalta sistematicamente tutta una serie di acquisizioni in

materia: il sovrano francese è legittimo, dipende cioè dalla legge, e non è affatto legibus solutus;

carattere fondamentale del suo stato è il decentramento: è lontano dalle sue mani il controllo di

molti aspetti del diritto pubblico mentre corti giudiziarie e assemblee rappresentative garantiscono

le autonomie territoriali; egli è intimamente debole contro particolarismi e privilegi poiché non pos-

siede un esercito e una burocrazia numericamente adeguati a controllare in maniera uniforme

sull’intero regno: non può inoltre intervenire con sanzioni sui funzionari, data la

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patrimonializzazione degli uffici, mentre le truppe rispondono ai membri delle principali famiglie

provinciali che le capeggiano; ma, soprattutto, il monarca si appoggia, deve appoggiarsi, a una

nobiltà che risulta essere l’elemento più dinamico e aggressivo della società, come Russel Major

scrive nel saggio La monarchia francese del Rinascimento vista attraverso gli Stati generali

pubblicato nell’antologia Lo Stato moderno: «La crescente percentuale di appartenenti alla nobiltà

minore nella burocrazia ha portato ad ipotizzare il declino della nobiltà. Ma questa è una

generalizzazione molto discutibile. I grandi nobili della Francia svilupparono molti rapporti con la

nobiltà minore, e molti di essi adottarono legalmente membri delle classi medie. Queste persone

chiamate clienti dagli storici francesi, venivano spesso sistemate, dai loro influenti padroni, nei

posti chiave dell’amministrazione e della giustizia dove ci si attendeva che professassero una

fedeltà maggiore per il loro padrone piuttosto che per il re. […] La borghesia, considerata così

spesso la classe dinamica del Rinascimento, era incapace di mantenere le sue posizioni» (pp. 254-

255).

Gli studi di Russel Major sul Cinquecento francese trovano una eco in quelli incentrati sui

decenni del ministériat di Richelieu nel Seicento, condotti da Ranum e confluiti nel volume Le

créatures de Richelieu (1966). L’interesse di Ranum per le élites di governo deriva dagli interessi

delle social sciences americane, attente alla political machinery e al decision making; lo storico ha

inoltre la chiara consapevolezza dell’impossibilità, per un corretto approccio alla struttura politico-

sociale dell’antico regime, di separare nettamente gli aspetti giuridici e formali, inerenti alle

istituzioni, da quelli familiari e personali, che formano con i primi un groviglio inestricabile. Fonte

principale del lavoro di Ranum è la corrispondenza che, negli anni più importanti del ministériat di

Richelieu, fra il 1635 e il 1642, viene scambiata fra il cardinale e gli uomini che ricoprono le

cariche di segretario di Stato e di sovrintendente alle finanze. La minuziosa analisi che lo storico

conduce gli permette di dimostrare come l’ascesa di Richelieu avvenga senza una modifica radicale

delle istituzioni del regno e tramite invece un utilizzo spregiudicato del meccanismo clientelare.

Dopo la nomina di fidati clienti agli uffici più importanti del regno, diventa inutile per Richelieu

modificare l’assetto istituzionale, dal momento che le sue créatures controllano tutti i gangli

dell’amministrazione centrale e, grati al loro patrono, gli assicurano uno scorrevole funzionamento

degli ingranaggi della macchina governativa. Il lavoro di Ranum segna un momento fondamentale

per lo studio delle clientele in relazione agli apparati istituzionali, in quanto trascura il tema dei

meri legami nobiliari per focalizzare la propria attenzione su un tipo nuovo di affiliazione politico-

amministrativa, che ha luogo all’interno della macchina burocratica.

Negli ultimi decenni l’uso dei concetti approntati in sede antropologica e sociologica ha

ricevuto ulteriori impulsi e la costante applicazione delle categorie di clientela e di fedeltà ha

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condotto a un loro progressivo raffinamento. Particolarmente importante per lo studio dell’epoca

moderna appare la considerazione avanzata dal politologo Jean François Médard che, nel suo

saggio Le rapport de clientèle: du phénoméne social à l’analyse politique (1976), tende a smussare

come carattere precipuo delle relazioni di natura clientelare la verticalità, derivante dalla

combinazione fra bilateralità e ineguaglianza fra i contraenti: «Un patrono può avere più clienti

[…]. La sua influenza potrà estendersi di fatto molto più lontano se i suoi clienti saranno a loro

volta patroni di altri clienti. […] Si possono così formare piramidi e catene di clientele. I super-

patroni che le controllano potranno formare alleanze fra uguali con altri patroni, e ci troveremo così

di fronte a cricche o fazioni. In quest’ultimo caso la struttura rimane bilaterale, essendo sempre

fondata su dei pari, ma non è più soltanto verticale, perché le alleanze fra uguali sono di natura

orizzontale. Ci troviamo allora di fronte a reti» (p. 114).

La metafora della rete e la possibilità a essa connessa di una rappresentazione grafica

facilmente intellegibile si sono rivelate particolarmente utili per esplorare e descrivere

sistematicamente i rapporti di interazione fra gruppi parentali all’interno di comunità definite.

Tuttavia, parallelamente alla sua diffusione e alla sua consacrazione quale paradigma storiografico

particolarmente adatto a cogliere la natura delle relazioni intercorrenti fra gli attori sociali e politici

all’interno della società di antico regime, la metafora della rete ha cominciato a essere oggetto di

sempre meno velate critiche. Il rischio che è possibile correre, infatti, nella trasposizione della

strumentazione di matrice antropologica in ambito storiografico è quello di perdere la specificità

che i rapporti clientelari rivestono all’interno di una società data e di equivocarne il peso rispetto ai

molti altri elementi in gioco, giungendo ad un appiattimento della politica sulla mera pratica del

clientelismo. L’uso oculato del paradigma della rete, il suo innesto sulle tematiche di storia istitu-

zionale, l’attenzione ai rapporti personali che intercorrono fra i diversi attori sociali e politici

permettono al contrario di guardare al consolidamento delle strutture istituzionali che ha luogo du-

rante l’antico regime in maniera assai più sfaccettata che in passato, di scoprire le atmosfere e i

giochi politici sottesi al momento in cui si esplica l’atto di governo.

Gli studi compiuti in anni recenti sui caratteri specifici dei rapporti di natura clientelare

all’interno della società europea di antico regime, ferventemente cristiana e al contempo imbevuta

di cultura classica, permettono di definire con sempre maggiore precisione la qualità di legami e

sentimenti che legano fra di loro patroni e clienti, di isolare gli elementi portanti e indispensabili

all’instaurazione di relazioni clientelari, di evidenziare alcune peculiarità di tali relazioni nell’epoca

in questione. A questo fine di grande utilità è sicuramente la rilettura di quegli scrittori che

costituiscono punti di riferimento privilegiati nell’etica quotidiana fra Cinque e Seicento, Aristotele,

Seneca e Tommaso d’Aquino. Altrettanto importante è la meditazione sulla precettistica che, fra

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XV e XVII secolo, rielabora quanto viene ereditato dalla cultura classica e dalla patristica. Le

componenti fondamentali delle relazioni clientelari nella società di antico regime sembrano così

essere l’amicizia, la liberalità, la carità, la magnificenza, la gratitudine e il servizio. Precise norme

regolano le virtù che sovrintendono al rapporto clientelare. L’amicizia fra persone che detengono e

amministrano risorse disuguali risponde a un preciso codice di comportamento che prescrive

reciproco affetto, mutua collaborazione e rispettivi vantaggi. Tuttavia, secondo quanto affermato da

Aristotele, ripreso da Seneca e rielaborato dalla tradizione letteraria della teologia morale europea

della bassa età media e dell’epoca moderna, lo scambio di favori fra coloro che sono stretti da un

legame amicale deve essere direttamente proporzionato alla loro posizione all’interno della

relazione: colui che occupa la posizione inferiore offre beni di minore importanza rispetto a quelli

che riceve mentre è costretto a professare un affezione più grande di colui che detiene la posizione

superiore. Malgrado l’atto del donare, il beneficium, sia una delle principali manifestazioni di

libertà che un individuo possa compiere, Seneca nel De beneficiis, una delle opere classiche più

lette e meditate nell’Europa moderna, sottolinea il suo carattere regolamentato e calcolatore: il

donatore non deve prodigamente donare tutto a tutti, ma soppesare qualità e risorse del destinatario

del suo beneficium. Infatti, il dono obbliga moralmente chi lo ha ricevuto alla gratitudine e al

contraccambio dando inizio a una successione di atti reciproci che saldano il rapporto amicale: alla

liberalità del potentior corrisponde prima il sentimento di gratitudine, che si esprime in formule di

cortesia, di riverenza e di rispetto, da parte dell’humilior, poi il servitium, ossia un gesto tangibile di

obbedienza e di sottomissione. In linea di principio, il servitium è personale e intrasferibile, poiché

lega esclusivamente il debitore al creditore, il cliente al patrono; tuttavia, la logica patrimoniale, che

sovrintende alla relazione clientelare tipica dell’antico regime e che assimila la ricompensa che

l’humilior deve al suo benefattore al debitum, favorisce la sua trasmissibilità ereditaria. Questo

meccanismo di reificazione e di ereditarietà dei servitia facilita la loro perpetuazione nella

tradizione familiare. Il fatto di appartenere a una famiglia, i cui esponenti siano stati destinatari di

beneficia e abbiano contraccambiato a momento debito con un’attitudine condiscendente e con

azioni concrete le attenzioni ricevute, garantisce a un suo membro che voglia farlo la possibilità di

instaurare autonomamente un rapporto amicale di tipo clientelare: egli, infatti, secondo la mentalità

corrente, presenta tutte le garanzie di affidabilità che la relazione richiede. Questo permette da una

parte la cristallizzazione del sistema clientelare, che attraversa intatto nei suoi meccanismi di

formazione e di mantenimento l’intera epoca moderna, dall’altra consente però al singolo individuo

di mettere in atto una strategia personale, di ereditare il patrimonio clientelare degli avi, di

rinnovare legami pregressi o di stringerne di nuovi a seconda delle contingenze politiche e delle

esigenze momentanee. Nella prassi quotidiana, il netto colore della fedeltà, qualità fondante del

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rapporto di amicizia clientelare, si coniuga in modi svariati e assume infinite sfumature, dettate

dalla disamina del momento presente, dalle necessità contingenti, dalla chiaroveggenza politica. Il

legame che i clientes stringono con i patroni sembra infatti aver valore fino a quando le clausole

non scritte, sottese all’instaurazione della relazione, vengono rispettate, fino al momento in cui il

rapporto risulta ugualmente vantaggioso per ambedue i contraenti. Nelle società europee di antico

regime, all’interno delle quali progressivamente il potere regio reclama a sé tutte le prerogative,

comprese quelle del patronage, dando luogo a una struttura fortemente gerarchizzata, il rispetto

delle clausole implicite risulta però arduo. I patroni di ampie clientele, sono legati personalmente

alla figura del sovrano in un rapporto la cui natura è ugualmente clientelare: spesso esclusivamente

dalla vicinanza alla sua persona derivano la capacità di procurare vantaggi ai clienti. La dipendenza

dal favore regio rende la loro posizione estremamente precaria: i sommovimenti politici che

avvengono intorno alla figura del re, il prevalere di un favorito sull’altro, e quindi della fazione

clientelare che questi capeggia su un’altra, comportano un costante movimento all’interno delle reti

clientelari. Il riallineamento su posizioni diverse da quelle assunte in precedenza è, generalmente,

caratteristica precipua degli attori maggiormente periferici, lontani dal centro decisionale effettivo,

dalla figura del sovrano. Tuttavia la loro mobilità costringe anche i patroni a una costante opera di

ricerca di nuove clientele, in modo da poter allettare, con la promessa di nuovi servitia, il massimo

patrono, il sovrano, a concedere il suo favore in maniera continuativa.

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4. La corte

Nodo principale di tutte le reti di relazione che innervano le società europee di antico regime

è la corte, luogo dove risiede il sovrano, fonte preminente della gratia. La corte è un oggetto

storiografico relativamente recente; per un lungo periodo, infatti, gli storici che scorgevano nei

primi secoli dell’età moderna solo l’ascesa dei ceti borghesi, l’affermazione di strutture statuali

centralizzate e il consolidamento di solide istituzioni burocratiche, non ravvisavano nella corte che

un’inutile espressione di irrazionalismo, spreco e fasto. L’interesse dimostrato dall’economista e

sociologo Werner Sombart (1863-1941) all’inizio del nostro secolo nell’opera Der moderne

Kapitalismus (Il capitalismo moderno, 1902) per la corte, studiata in quanto organizzazione

dispendiosa, le cui spese suntuarie mal si accordano con il contemporaneo sbocciare di forme di

economia capitalistica, sembra non avere eco nell’Europa dell’epoca, dove, la corte era ritenuta un

soggetto storico adatto al grande pubblico, amante della storia come di qualsiasi altro

intrattenimento di natura colta. Negli ultimi decenni, invece, l’interesse accademico per la corte è

aumentato in maniera progressiva e crescente, in virtù del fatto che, alla luce della network analysis,

risulta necessario analizzare anche in contesti diversi gli attori politici che si muovono nei più

diversi spazi istituzionali.

Punto di riferimento iniziale per tutti gli storici che si occupano della corte in epoca moderna

è l’opera del sociologo tedesco Norbert Elias (1897-1990), che nel 1969 pubblica il saggio Die

Höfische Gesellschaft (La società di corte), uno studio che risente delle riflessioni avanzate

dall’autore sin dagli anni Trenta del secolo. L’opera di Elias prende le mosse dagli elementi forniti

da Sombart, ma giunge a tratteggiare un panorama totalmente inedito, denso di una ricchezza di

particolari in precedenza mai messi in rilievo. Lo studioso, infatti, avendo come obbiettivo primario

l’analisi di un sistema di relazioni di interdipendenza tra individui nel quale l’azione e la decisione

di ciascuno siano correlate a quelle degli altri, sceglie come campo d’indagine la Versailles di Luigi

XIV e ne approfondisce lo studio principalmente attraverso le osservazioni racchiuse nei Mémoires

del duca di Saint-Simon, uomo di corte vicino al Re Sole. La struttura sociale cortigiana, che si

impone fra Cinque e Seicento in Francia e che raggiunge il suo perfezionamento fra Sei e

Settecento, appare a Elias come il prodotto di un secolare processo di trasformazione attraverso il

quale il potere monarchico giunge a prevalere e a affermarsi su quello aristocratico e nobiliare.

Motivazioni precipuamente economiche sottostanno al cambiamento: la nobiltà francese

indebitatasi durante le guerre di religione, impoverita dalla rivoluzione dei prezzi, protetta solo

dall’esigua milizia che riesce a radunare nei suoi feudi, è costretta a piegarsi dinanzi a un sovrano

che, grazie alle aumentate disponibilità finanziarie fornite da un ramificato sistema fiscale, può

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contare su un forte esercito formato da mercenari. Le mutate condizioni finanziarie, divenute

sfavorevoli per la più parte degli esponenti della nobiltà, pur incidendo sugli equilibri di potere

esistenti a favore del sovrano, non intaccano, tuttavia, il carattere aristocratico della società che

trova nella corte uno specchio ideale nel quale riflettersi. Il sovrano, infatti, non può fare a meno di

un ambiente cortigiano di origine aristocratica, all’interno del quale condurre un’esistenza

improntata al lusso e all’ostentazione. Monarca e aristocrazia si ritrovano, così, legati da una

relazione che presenta spiccate caratteristiche di ambivalenza e di autocostrittività: «La nobiltà

aveva bisogno del re perché soltanto la vita alla corte del re le consentiva, nell’ambito sociale

esistente, di accedere a quelle opportunità economiche e di prestigio che rendevano possibile la sua

esistenza in quanto nobiltà. A sua volta il re aveva bisogno della nobiltà come elemento

insostituibile nell’equilibrio delle tensioni tra i ceti sui quali dominava; e ciò a prescindere dai molti

e vari legami già indicati: il legame tradizionale scaturito dal rapporto tra sovrani e vassalli, il

bisogno del re di avere una propria cerchia nell’ambito di quella società alla quale egli stesso

apparteneva e della quale condivideva i costumi; infine il suo bisogno di distanziarsi dal popolo

ricevendo i servigi di una casta superiore a tutte le altre per rango e prestigio» (pp. 278-279). Il

cerimoniale fastoso e dispendioso che caratterizza la corte francese durante il regno del Re sole, a

cui Elias dedica diverse e accurate pagine, serve quindi a un preciso scopo politico e

rappresentativo. Tramite l’etichetta cortigiana il sovrano lega al suo servizio i nobili, casta

dipendente dalla monarchia, e offre anche all’esterno la rappresentazione manifesta del suo dominio

e della sua preminenza.

L’analisi condotta da Elias rimane legata a una vetusta visione dei processi politici di antico

regime: essa rintraccia nella corte un meccanismo disciplinare centralizzato parallelo a quello che

condurrebbe alla costruzione di moderne istituzioni statali. In questo senso l’opera di Elias, tradotta

in diverse lingue fra cui l’italiano solo a partire dagli anni Ottanta, risente della formazione

dell’autore, avvenuta nei primi decenni del secolo, e della data effettiva della sua stesura, effettuata

alla fine degli anni Trenta. Tuttavia sebbene essa proponga la stesura solo di un modo diverso di

concepire la modernizzazione, non più politico-economica ma psicologico-sociale, e quindi non si

accordi alle premesse dalle quali la società storiografica intende partire per nuove considerazioni sul

passato, al sociologo tedesco va comunque riconosciuto il merito di aver presentato all’attenzione

del mondo scientifico la corte come oggetto storiografico. Progressivamente, infatti, nel corso degli

anni, gli studi europei sulla corte si sono infittiti.

Così avviene anche in Italia. Se ancora negli anni Sessanta veniva affermata con chiarezza la

distanza fra i governi centrali e le corti dei principi e si distingueva fra l’ordinamento delle case

principesche, regolate come dappertutto in Europa dal cerimoniale borgognone, e l’ordinamento del

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governo, composto da funzionari non nobili, al principio degli anni Ottanta si insiste sempre con

maggior forza sul fatto che è necessario, come sottolinea a più riprese nella sua folta bibliografia lo

storico Cesare Mozzarelli, tenere sempre presente la valenza privata delle funzioni di

amministrazione e la rilevanza del binomio corte-amministrazione.

L’ampia storiografia attuale sulla corte abbraccia indirizzi di ricerca e tematiche assai

distinte fra loro. In Italia, i lavori di maggiore rilevanza, sia per l’apporto scientifico che offrono sia

per la veste editoriale che li contiene, sono quelli che provengono dalla lunghissima attività del

Centro studi Europa delle corti. Il Centro, coinvolgendo nella sua attività gruppi di ricerca italiani e

stranieri di diversa estrazione e stringendo rapporti di collaborazione con altri centri specializzati,

quali il Centre d’Etudes Supérieurs de la Renaissance di Tours, il Centre de Recherche sur la

Renaissance presso l’Académie Hongroise des Sciences di Budapest, l’International Courtly

Literature Society di Philadelphia e l’Instituto Universitario La Corte in Europa di Madrid, ha

pubblicato moltissimi volumi sulle corti e i loro principi.

La corte, struttura di lungo periodo presente in tutte o quasi le entità politiche europee di

antico regime, non è strettamente identificabile con le formazioni statali, ma possiede una sua

personalità distinta, autonoma, gradatamente e sempre più chiaramente distinguibile dalle istituzioni

statuali nei secoli che vanno dal XIV al XVIII. Come spiega André Stegmann, in un saggio

pubblicato negli anni Ottanta dal titolo significativo – La corte. Saggio di definizione teorica –, «la

Corte è un’entità geografica, politica, spirituale, culturale e sociologica, luogo rappresentativo

delle componenti della collettività secondo l’immagine che ne crea il “Principe”, in accordo con

l’idea che se ne augurano i soggetti; immagine dinamica, legata a una rappresentazione simbolica a

tutti i livelli: personale, dei meccanismi, rituale. Più brevemente, la Corte è una immagine simbolica

dello Stato conosciuto e approvato dalla collettività» (p. XXI). Come entità geografica essa è legata

a una capitale amministrativa, e pur essendo una struttura separata dalla regione che la accoglie, non

deve essere sentita come un luogo estraneo, ma privilegiata simbolicamente da tutti i notabili e rap-

presentare un definito complesso urbano, amministrativo e socioculturale; come entità politica è il

luogo fisico dell’amministrazione, dell’informazione e della decisione; come entità religiosa, al di

là dei problemi teologici e ideologici che pressanti si fanno dopo la frattura rappresentata dalla

Riforma, la corte presuppone una comunità spirituale che è supporto necessario alla stabilità

politica; come entità culturale la corte promuove la diffusione di una specifica cultura, nel senso più

ampio del termine, attraverso manifestazioni collettive o attività specifiche; come entità sociologica

essa esplica una azione di legame dei diversi corpi sociali che nel personale di corte trovano

idealmente rappresentanza e una azione economica, che si dispiega in attività di produzione,

ordinamento e controllo della vita finanziaria e di promozione e orientamento delle attività

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produttive. L’ottica attraverso la quale esaminarla non deve essere viziata da una comparazione

continua e costante delle specifiche strutture cortigiane con quelle contemporanee delle istituzioni

statuali, ritenendo le prime un embrione, un fenomeno transizionale verso lo Stato moderno, ma

deve mirare a cogliere con puntualità le peculiarità del magmatico fenomeno costituito dalla corte,

la serie degli elementi invariabili che concorrono alla sua produzione, l’organicità degli elementi

che la conformano, le modalità specifiche dei suoi apparati e della sua conformazione.

L’approccio accentuatamente strutturalista del gruppo di studiosi, provenienti da diversi

ambiti disciplinari, che promuovono l’attività del Centro studi Europa delle corti fra gli anni Ottanta

e Novanta del Novecento ravvisa nella corte una forma immutabile nel tempo, al di là delle

tipologiche molteplicità e delle variabili politico-dinastiche e si accompagna a una tendenza

interpretativa che considera la corte come un fenomeno chiuso a tutto ciò che sta al di fuori di esso

e afferma come unica prospettiva possibile di studio quella interna: essa è una scena teatrale che ha

soppresso ogni collegamento e quindi anche ogni possibile allusione a ciò che sta fuori di essa o,

allo stesso modo che appariva a molti contemporanei, come un labirinto.

Nella ricca produzione pubblicata sotto l’egida del Centro studi Europa delle corti è

possibile rintracciare alcune tematiche distinte, che analizzano da diverse prospettive l’ambiente

cortigiano. Tuttavia, il fulcro della riflessione è costituito dall’idea che la corte sia un centro

produttore di una specifica cultura, in grado di fornire una qualificata disciplina sociale.

Sin dal suo apparire, la corte costituisce un ambiente culturale all’interno del quale si crea

un preciso modello di comportamento. Molta della letteratura italiana del XVI secolo, di cui Il libro

del cortegiano, pubblicato da Baldassarre Castiglione nel 1528, è l’esempio migliore e più noto,

risulta in questo senso paradigmatica, come sottolineato nella recente edizione dell’opera dallo

storico della letteratura Amedeo Quondam. Nelle pagine di Castiglione la corte appare come un

luogo artificioso, la cui regola universalissima è quella della dissimulazione simulata. Si

dissimulano i comportamenti naturali e spontanei, nascondendoli dietro atteggiamenti artificiosi; e

si dissimula soprattutto la stessa dissimulazione, presentando come naturale un’azione costruita con

il massimo dell’esercizio. Il comportamento del perfetto cortigiano necessita inoltre di disinvoltura,

ossia come dice lo stesso autore, «dell’usare in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte

e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi». Gli atteggiamenti

improntati all’uso di simulazione, dissimulazione, che l’abitudine alla sprezzatura apparenta a quelli

naturali, che vengono così soppiantati, conducono alla creazione di un’apparenza, contraddistinta da

uno stile gestuale e di conversazione lontano tanto dalla vera virtù quanto dall’affettazione. Nelle

pagine di Castiglione, il culto dell’apparenza, o meglio di un’apparenza congiunturalmente

adeguata, si converte in una necessaria regola di sopravvivenza, nella via più sicura di raggiungere

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il successo in un mondo insidioso e fraudolento. L’artificialismo cortigiano attira le stesse condanne

delle teorizzazioni machiavelliche: soprattutto dopo il concilio di Trento negli ambienti italiani e

iberici il rifiuto della corte, di cui si condanna l’inganno, l’affettazione e la frivolezza, si sviluppa

parallelamente alla condanna della ragione di stato così come essa viene teorizzata da Machiavelli;

per cui accanto alla teorizzazione della politica cattolica si fa largo, nella seconda metà del

Cinquecento, un ideale cortigiano di stampo cattolico. A fronte dell’artificiosità della corte,

all’interno della quale l’onore, la reputazione, la nobiltà sono frutto del caso o del volere del

principe che vi domina, si propone un ordine all’interno del quale la virtù come il vizio, la nobiltà

come la villania siano stabiliti una volta per tutte: la virtù non consiste più nel dissimulare la

condizione di ciascuno, ma nel rendere questa perfettamente equivalente alle apparenze.

L’attività del Centro studi Europa delle corti, nei primi anni del suo operato, malgrado la

qualità dei volumi a cui ha dato vita, si è attirata in contesto europeo numerose critiche. Per

esempio, nell’approccio interdisciplinare tentato dagli studiosi italiani, Oltremanica è stata ravvisata

solo una accozzaglia male assortita di studi specialistici discordanti, una miscellanea di articoli

molti dei quali di poco rilievo per l’approfondimento dello studio della corte, una collezione di

frammenti scollegati, imprecisi e vaghi con prematuri tentativi di sintesi, basati su fonti inadeguate.

L’acrimonia delle critiche è spiegabile con le differenti tradizioni cui rimontano la scuola

storiografica italiana e quella anglosassone. Come sottolineato in una puntuale critica dallo storico

Trevor Dean, «per gli storici di tradizione empirica anglosassone questo tipo di sofisticazioni

intellettuali è inutilizzabile e l’adozione del vocabolario della critica letteraria come pure di quello

delle scienze sociali è una limitazione che ostacola una piena comprensione delle realtà storiche.

[…] Lo studio della grammatica e delle regole della società di corte non ha soltanto trasformato

discutibilmente la corte in un sistema chiuso, ma ha anche trascurato lo studio dei rapporti fra la

corte e la società, sia per quanto riguarda le risorse materiali della corte oppure il suo sostegno

politico ottenuto attraverso le reti di patronage e le fazioni».

Punto di partenza della storiografia inglese sulla corte sono le considerazioni espresse da

Geoffrey Rudolf Elton (1921-1994), durante un discorso alla Royal Historical Society nel 1975, che

definisce la corte (inglese), fino a quel momento mai studiata con attenzione, il gruppo di persone

che risiedono, poiché vi espletano una funzione, nella residenza del sovrano. La definizione di corte

come del gruppo di uomini che godono di accesso al re trascura la suddivisione, usuale negli studi

italiani, fra personale familiare e personale burocratico e porta a isolare e a mettere in luce

tematiche generalmente trascurate dalla storiografia italiana.

Uno degli elementi maggiormente importanti che possono essere ricavati dalla produzione

inglese è il ruolo dell’aristocrazia all’interno della struttura cortigiana. La posizione passiva dei

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nobili nei confronti del signore, da cui attendono un beneficio in cambio di un servizio o

l’addomesticamento, cui andrebbero incontro fra le lussuose sbarre della gabbia cortigiana, subisce

un ridimensionamento notevole attraverso gli studi di David Robert Starkey dedicati a The Reign of

Henry VIII. Personalities and Politics (Il regno di Enrico VIII. Personalità e politica, 2002).

Starkey, nel suo articolato lavoro, guarda di preferenza all’aristocrazia di corte e afferma che il

consiglio privato del sovrano viene creato per garantirle una posizione di preminenza. Dall’interno

di questa roccaforte, la nobiltà può garantirsi una posizione di pressione nei confronti del sovrano e

difendersi dalla spinta ascensionale dei non nobili. La corte, dove la nobiltà si ritrova, svolge quindi

la funzione di baluardo all’interno del quale le varie élites, territoriali e non, si integrano in un

composito ceto dirigente.

Altre tematiche sviluppate dalla storiografia inglese, sulle quali Ronald G. Asch ha scritto

una distesa e accurata rassegna dal titolo Princes, Patronage and the Nobility. The Court at the

Beginning of the Modern Age, C. 1450-1650 (Principi, patronato e nobiltà. La corte agli inizi

dell’età moderna. 1450-1650, 1991), interessano sempre il rapporto fra aristocrazia e corte. Rilievo

particolare è dato all’analisi della continuità fra la household medievale e la corte della prima età

moderna: Asch rileva i fondamentali cambiamenti che hanno luogo alla fine del Medioevo nel

significato e nella funzione della corte del re. Nell’Europa occidentale la corte regia riesce ad

acquisire una posizione dominante all’interno del territorio che la ospita, eclissando le eventuali

piccole corti che le fanno concorrenza. Divenendo centro culturale di primaria importanza dà

impulso a un ideale di vita, esemplato nell’opera di Castiglione, che sostituisce, tra quelle sezioni

della nobiltà che hanno frequenti contatti con l’ambiente cortigiano il tradizionale ethos

cavalleresco-militare. Infine, assimila le tendenze propagatesi dalla corte di Borgogna, quali la

distanza sempre maggiore fra sovrano e suddito, la sacralizzazione della figura del monarca,

l’aumento delle spese suntuarie e lo sviluppo di una cultura specifica, e si pone come struttura

principale di glorificazione della persona del re. Asch infine concentra la sua attenzione sui rapporti

fra la corte e la famiglia del sovrano e fra la corte e le istituzioni statuali ed esamina il ruolo del

centro cortigiano nei sistemi di clientage e patronage. L’uso di queste ultime categorie si rivela

assai utile per comprendere sia gli equilibri politici interni alla corte sia le relazioni che intercorrono

fra il centro cortigiano, insediato stabilmente a partire dal XVI secolo in una capitale, e le distinte e

lontane periferie. L’osservazione delle amicizie clientelari di quei personaggi cortigiani che

rivestono il ruolo di filtro fra il sovrano e la marea di postulanti che premono alle porte della corte,

presentando le proprie petizioni, permette, in primo luogo, la costruzione di autentiche mappe

orientative che possono contribuire a spiegare con motivazioni maggiormente convincenti la

temperie politica di determinati momenti e a scoprire le motivazioni, occultata dai documenti

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ufficiali, sottese alle decisioni di governo. In secondo luogo, la ricostruzione delle dinamiche di

patronage consente una definizione della corte assai lontana da quella fornita generalmente dalla

storiografia italiana, che la tratteggia come un luogo chiuso e labirintico. La corte, così come ritratta

dallo storico inglese, appare fornita di una struttura “stellare”. Le clientele si irraggiano dal centro,

che in virtù della loro esistenza, risulta aperto e in gradi di funzionare in modo dinamico. La trama

delle clientele supera il circoscritto perimetro delle mura del palazzo regio, si allarga fino ai confini

del dominio politico, talvolta superandoli, e coinvolge nel suo dispiegamento uomini di eterogenea

estrazione sociale. Chi è presente alla corte innesca dinamiche di potere e di clientelaggio per il

controllo delle risorse periferiche che possano garantirgli la posizione di preminenza di cui gode. Le

catene clientelari assicurano inoltre la bidirezionalità dello scambio, per cui tramite esse le istanze

politiche periferiche trovano rappresentanza e visibilità all’interno dello spazio cortigiano.

Sul solco tracciato dalla storiografia anglosassone, si muove lo storico spagnolo José

Martínez Millán. Insieme a una nutrita équipe di allievi, egli fornisce un quadro ampio delle reti

clientelari che innervano il tessuto della Monarchia asburgica, dal periodo di Carlo V a quello di

Filippo IV, attraverso la narrazione delle vicende biografiche di alcuni personaggi cortigiani

rilevanti, di diversa origine e con ruoli distinti. Egli non distingue fra mondo cerimoniale e mondo

dell’ufficio all’interno della corte, ma significativamente offre alcuni ritratti di persone che a

diverso titolo e con diverse mansioni hanno l’opportunità di vivere nell’ambiente cortigiano e di

influenzarne gli umori. Riferimento preciso di Martínez Millán sono le ricerche di Starkey,

attraverso le quali si evince che la corte non servì solo, come voleva Elias, ad addomesticare

l’aristocrazia, ma divenne la fortezza di quest’ultima. Le élites dirigenti della Monarchia, raccolte

nella corte regia, danno vita a una serie di istituzioni per governare e difendersi dai gruppi sociali

non privilegiati in ascesa e in cerca di affermazione. La costruzione di un apparato amministrativo e

la stabilizzazione di un sistema legale (che in altri tempi ha condotto alla teorizzazione dello Stato

moderno), non danno tuttavia vita a un sistema burocratico di tipo weberiano, ma a una struttura

piramidale, alla cuspide della quale si trova il sovrano, la cui figura si ammanta a partire dal basso

medioevo di attribuzioni e facoltà in rapido ampliamento fino alla piena età moderna, e via via

digradando le persone a lui più vicine, i funzionari della corona, gli ufficiali e così via. L’ascesa

all’interno della gerarchia degli onori a capo della quale sta il re da parte di coloro che si trovano ai

livelli più bassi non avviene grazie alla valutazione delle singole capacità ma tramite gli appoggi

clientelari. Martínez Millán, quindi, procede alla delineazione delle figure carismatiche all’interno

della corte, i grandi patroni, il cui sostegno permette di conseguire il successo all’interno

dell’ambiente cortigiano: per quanto riguarda il secondo Cinquecento, per esempio, Martínez

Millán delinea la contrapposizione fra i seguaci di Ruy Gómez de Silva, principe di Eboli, e i

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sostenitori di Fernando Álvarez de Toledo, duca d’Alba, rintracciando le motivazioni ideologiche

che renderebbero coesi i gruppi stretti intorno ai due leaders, tratteggia le caratteristiche della

privanza di Diego de Espinosa; analizza il bipartitismo all’interno della corte madrilena nella

seconda metà del regno di Filippo II, dopo la morte della maggior parte dei protagonisti della prece-

dente stagione politica. Dati questi punti di riferimento essenziali, i medaglioni dedicati ai diversi

personaggi fanno vedere con dovizia di particolari come le amicizie all’interno della corte possano

procacciare ricompense e benefici, mentre la loro mancanza condanna a interminabili tribolazioni.

Un ulteriore dato che viene messo in evidenza, all’interno della ricchissima produzione finanziata

dall’Instituto Universitario La Corte in Europa, è la capacita di ramificazione delle catene clientelari

per tutto il territorio della Monarchia asburgica: dal Portogallo all’Aragona, dalla Sicilia alle

Fiandre e così via, i grandi patroni tessono le loro trame. Questa paziente e non sempre

immediatamente remunerativa opera – dato il valore cangiante che l’alleanza clientelare può

assumere nelle diverse contingenze politiche – scardina alla radice il binomio centro-periferia, sulla

quale si è basata per decenni la storiografia politica, a vantaggio di un visione maggiormente

articolata. Centro e periferia, infatti, non sono realtà univoche, che esprimono nel tempo una

volontà coerente: sia le istituzioni centrali sia quelle periferiche sono percorse al loro interno da

tensioni che portano alla formazione di schieramenti politici, diversi e spesso contrapposti.

L’organizzazione di questi gruppi dipende dal centro, poiché essi hanno origine e vertice in coloro

che godono dell’appoggio del sovrano e sono in grado di captarne l’attenzione e il favore.

Attraverso meccanismi informali di integrazione, i gruppi politici cortigiani attraggono le realtà

provinciali nell’arena politica madrilena, che rimane in ogni caso il principale polo di un’attrazione

generale e generalizzata: sia nell’universo ecclesiastico che nel mondo militare carriere e

promozioni dipendono da Madrid, memoriali, denunce e petizioni raggiungono costantemente la

corte, robuste comunità di individui provenienti dalle province, inviati agenti, ambasciatori,

mercanti, affaristi, mediatori, arrampicatori sociali, popolano i quartieri della capitale, la nobiltà

provinciale intesse parentele con l’aristocrazia cortigiana. La doppia dinamica che si sviluppa fra la

corte e le province, causata dalla disponibilità dei gruppi cortigiani ad accogliere nelle loro file

esponenti provinciali e dalla pressione costante che i personaggi lontani dalla corte, tramite agenti e

procuratori, imprimono nella vita politica, consente alle tensioni locali di giungere all’orecchio del

re, di trovare una voce, una rappresentanza e una rappresentazione. È forse per questo che oggi

buona parte della storiografia ispanista utilizza la definizione di Monarchia policentrica per chiarire

la natura politica dell’insieme asburgico. Madrid è sicuramente il cuore della Monarchia; tuttavia, la

comunicazione continua fra essa e le altre città, per quanto lontane, consente la formazione di una

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comunità politica ampissima, che condivide formazione, valori e cultura: il dualismo fra centro e

periferia sembra così essersi dissolto.

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