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IL PAESE DEI COMUNI FALLITI - Moodle@Units · di ALBERTO CUSTODERO ... Una coppia diabolica....

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HOME LUOGHI ARCHIVIO SPECIALE 2015 SPECIALE 2014 SPECIALE 2013 SPECIALE 2012 12 ottobre 2016 Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico L'unica cura: meno servizi al massimo prezzo Alessandria, 1000 euro a testa il conto del crack "Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa" In Sicilia i debiti scatenano l'incubo precari Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico di ALBERTO CUSTODERO ROMA "Too big to fail", dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bila grazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack. Una massima che si può applica all'infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazio IL PAESE DEI COMUNI FALLITI Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack. E' la mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perché impossibili da riscuotere. O che hanno creato società dello sperpero. Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le regole imposte da Bruxelles un anno fa. Ma cosa accade quando un municipio fallisce? E davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni? di ALESSANDRO CECIONI, ALBERTO CUSTODERO, PAOLO GRISERI e CLAUDIO REALE. Video ALESSANDRO CONTALDO Mobile Facebook Network Stampa
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HOME LUOGHI ARCHIVIO SPECIALE 2015 SPECIALE 2014 SPECIALE 2013 SPECIALE 2012

12 ottobre 2016

Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico

L'unica cura: meno servizi al massimo prezzo

Alessandria, 1000 euro a testa il conto del crack

"Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa"

In Sicilia i debiti scatenano l'incubo precari

Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico

di ALBERTO CUSTODERO ROMA -­ "Too big to fail", dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bilancigrazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack. Una massima che si può applicareall'infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazione di

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI

Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack. E' la

mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per

decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perché impossibili da riscuotere. O che hanno

creato società dello sperpero. Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le

regole imposte da Bruxelles un anno fa. Ma cosa accade quando un municipio fallisce? E

davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli

aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni?

di ALESSANDRO CECIONI, ALBERTO CUSTODERO, PAOLO GRISERI e CLAUDIO REALE. Video ALESSANDRO CONTALDO

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salvataggio, e destinataria di eccezioni, misure ad hoc e finanziamenti extra, rischia ora di fallire, come ci raccontano le ultime cronachedal Campidoglio?

Un crack della Capitale, con tutto il danno di immagine che questo comporterebbe per il Paese, è già stato evitato una volta otto anni fa,grazie all’escamotage di commissariare il debito (13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi, che pagheranno tutti gli italiani per trent'anni)anziché il Comune, come avrebbe dovuto succedere. Ma ora lo spettro di un default dell'ente amministrato da Virginia Raggi riappare aun orizzonte neppure tanto lontano con un deficit che, crescendo dal 2008 a una media di 125 milioni l'anno, è già arrivato a sfiorare ilmiliardo. Se a Roma lo Stato ha risparmiato l'onta del dissesto (incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurarel’erogazione dei servizi pubblici), per ovvi motivi di realpolitik in quanto il fallimento della Capitale sarebbe stato una figuracciainternazionale, ben 84 Comuni italiani -­ stando ai dati aggiornati all'8 giugno 2016 -­ quell'onta l'hanno amaramente subita.

Una questione meridionale. I problemi della finanza allegra interessano i Comuni in quanto sono gli unici, tra gli enti pubblici, ad esseredotati di autonomia finanziaria contabile. Da un'analisi della distribuzione geografica sul territorio nazionale delle amministrazionidissestate realizzata da Ifel, l'Istituto per la Finanza locale dell'Anci, emerge con prepotenza una "questione meridionale" 2.0. Su 84Comuni in crisi finanziaria, infatti, ben oltre la metà (60,7%) si concentra in due Regioni, Calabria (25 enti) e Campania (24 enti, di cui 16nella sola provincia di Caserta).

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Ancora più significativa in termini numerici è la questione degli enti che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.Al 28 giugno 2016, risultano infatti in pre-­dissesto 146 enti locali, di cui 10 Province. Anche nel caso del pre-­dissesto, gli enti che hannofatto ricorso alla procedura sono concentrati prevalentemente nelle regioni meridionali, con picchi in Calabria (29), Sicilia (25) eCampania (18). Ma il Settentrione non ne è certo immune: le regioni interessate da casi di pre-­dissesto sono infatti 15, a fronte delle 11in cui sono localizzati gli enti dissestati Il caso Sicilia e il Nordest virtuoso. Con 16 casi, la Sicilia sembra vivere una preoccupante situazione a sé. Non solo per le dimensionidemografiche degli enti coinvolti, ma anche alla luce di una situazione di squilibrio finanziario di lungo corso e che sembra essersicronicizzata nel corso degli anni. Tra i Comuni siciliani con i conti in rosso, figura perfino Taormina, la ‘perla dello Ionio’ scelta dalgoverno Renzi per il G7 del prossimo maggio, che sta sprofondando verso il dissesto sotto il peso di 13 milioni di euro di debiti. Diverso ilquadro al Settentrione. Secondo i dati dell'Ifel, i Comuni più virtuosi si trovano nel Nordest. In Emilia-­Romagna, Friuli-­Venezia Giulia,Trentino-­Alto Adige e Veneto non risulta neppure un caso di dissesto, mentre due crack sono avvenuti in Piemonte.

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Ammettere il dissesto non basta. Nonostante la legge preveda che la procedura del dissesto si completi entro cinque anni dalladichiarazione di default, sono ben 16, secondo l'Ifel, i casi di enti che hanno deliberato il dissesto prima del 2011. Tra questi, due Comunirisultano non aver ancora terminato il risanamento, nonostante sia trascorso addirittura un quarto di secolo dalla dichiarazione difallimento. E il trend è in crescita. Dal 2011 al 2014, il numero degli enti che hanno deliberato il dissesto finanziario è costantementeaumentato: dai 3 che l'hanno dichiarato nel 2011 si è arrivati ai 21 nel 2014, passando per i 14 nel 2012 e i 20 nel 2013.

Deficit tra tagli e malagestione. Negli anni passati il debito è stato la grande leva che ha permesso ai sindaci di poter disporre dinotevoli entrate aggiuntive per finanziare, tra l'altro, propagande elettorali e clientelismi. Disponibilità di cassa – priva di reali coperture -­

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che ha consentito di presentare ai propri elettori, di volta in volta, bilanci allegri e immaginifici, lasciando in eredità alle amministrazionisuccessive l'onere di dover far fronte ai deficit che man mano si accumulavano. A onor del vero, ma non certo a difesa dei tanti casi dimalagestione amministrativa, va ricordato che i Comuni italiani hanno subito pesanti tagli alle entrate da parte dei governi durante glianni dell'austerity. Nel periodo 2010-­2015 la sforbiciata alle loro entrate è stata pari complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Un'ulterioreriduzione della capacità di spesa per 2,5 miliardi è stata determinata poi dall'istituzione del "Fondo crediti di dubbia esigibilità".

Una coppia diabolica. Bilanci gonfiati da crediti di dubbia esigibilità e tagli alle entrate: poggia su questo combinato disposto dall'effettotutto negativo lo scenario politico amministrativo nel quale è maturata la crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, èl'equivalente, per un'impresa, del fallimento. Poiché, però, non è pensabile che l'ente territoriale in stato di insolvenza interrompal'erogazione di servizi pubblici ai cittadini (le imprese invece portano i libri in tribunale e fermano la produzione), il governo locommissaria per sottrarlo alle mani dei politici e dei funzionari locali che non hanno saputo amministrarlo. Questa è la regola. Ma lastoria della contabilità allegra dei Comuni italiani è un'altra e sembra ispirata al motto "fatta la legge, trovato l'inganno", in un clima dimancanza di controlli, di complicità istituzionali e di indifferenza generale.

Chi lo paga il conto? Per tanti, troppi anni, gli enti locali hanno potuto redigere bilanci inserendo tra le entrate delle voci inesigibili (oquantomeno di dubbia esigibilità) che servivano a coprire le uscite. Soprattutto ricchi incassi da multe che in realtà era evidentel'amministrazione non avrebbe mai avuto la capacità di riscuotere. E così, approfittando di una normativa ambigua sui bilanci, tantiComuni – Roma compresa -­ hanno potuto accumulare nel tempo una montagna di deficit.

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Per capire ancora meglio il meccanismo che permetteva di gonfiare i bilanci è possibile fare un esempio: cento euro di crediti per multe –secondo la norma in vigore prima del 2015 -­ erano considerati dai Comuni, nei bilanci preventivi, come se fossero tutti incassabilinell'esercizio in corso. Era quella voce di 100 nell'attivo a dare loro la copertura necessaria per poter sostenere spese di pari importo. Unpadre di famiglia non spenderebbe mai dei soldi senza averli sul conto corrente, ma solo sulla base di un credito che sa benissimo chenon riscuoterà se non in minima parte. I sindaci, invece, per decenni hanno speso soldi senza averli effettivamente in cassa. In altreparole, pur sapendo che a fronte di ogni 100 euro di credito per le multe solo 20 sarebbero entrati davvero, gli amministratori hannocontinuato a spenderne cento. Generando, di fatto, ogni anno un buco di bilancio legalizzato. Con buona pace di chi avrebbe dovutocontrollare: revisori dei conti, Corte dei conti, prefetture, ministro dell'Economia, ministro dell'Interno.

La svolta del 2015. I nodi ad un certo punto sono venuti però al pettine. Dal 2015 il ministero dell'Economia, che fino a quel momentoaveva tollerato il fenomeno, ha deciso, anche su pressione dell'Unione Europea, di porre fine al sistema dei falsi in bilancio legalizzati eha imposto ai Comuni un'operazione di ripulitura dei conti. Il nuovo regime ha introdotto in particolare il principio della "competenzafinanziaria potenziata o a scadenza", un istituto molto simile al bilancio di cassa, che obbliga l'ente a spendere solo quei soldi che hannoeffettivamente incassato. Se riscuote contanti, può spenderli. Se vanta crediti, no. I crediti non esigibili vengono sterilizzati in un fondosvalutazione crediti e ora l'equilibrio di bilancio è dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese.

Se malgrado ciò le uscite sono maggiori di quanto si riscuote e di conseguenza si viene a creare uno stato di dissesto, sindaco,assessore al Bilancio e ragioniere capo vanno incontro a sanzioni penali, tra cui il falso in bilancio e il falso ideologico. E, sanzione ancorpiù temuta dai politici nel caso in cui la Corte dei Conti accerti la loro responsabilità nel dissesto, all'ineleggibilità per cinque anni. Lagiustizia contabile, infatti, non dovrà più dimostrare come accadeva prima che il dissesto ha provocato un danno erariale attraverso unfaticoso procedimento giudiziario. La nuova norma prevede che il dissesto sia di per sé sufficiente ad infliggere le sanzioni.

I 'salvataggi' di Roma e Reggio Calabria. Cosa sarebbe successo se, sotto il peso di quasi 13 miliardi di debito accumulato durante legiunte di centrosinistra Rutelli (assessore al Bilancio Linda Lanzillotta) e Veltroni (assessore al Bilancio Marco Causi), fosse statodichiarato lo stato di dissesto di Roma? La Corte dei conti (all'epoca era in vigore la vecchia normativa), avrebbe dovuto accertare uneventuale danno erariale e contestarlo ai politici e agli amministratori individuati come responsabili del dissesto. La storia, però, è andatadiversamente: anzichè il Comune, s'è preferito commissariare il debito. E così il problema di un eventuale danno erariale contestato acarico di qualche politico non s'è posto.

Diverso ancora il caso di Reggio Calabria -­ sciolto nell'ottobre del 2012 quando era già in vigore la nuova normativa sulla ineleggibilità invigore dal 2011 -­ comune infiltrato dalla 'ndrangheta ma soprattutto devastato da bilanci in rosso. "In questo caso specifico -­ spiega ilsociologo Vittorio Mete, studioso del fenomeno dei Comuni commissariati per mafia -­ il governo ha optato per la più 'facile' soluzionedello scioglimento per infiltrazioni mafiose che, essendo un provvedimento di natura preventiva, riguarda solo l'amministrazione in carica.Per Reggio Calabria il governo evitò dunque di avventurarsi lungo la strada del dissesto che avrebbe portato a conseguenze diverse epiù devastanti per il ceto politico locale, visto che la responsabilità della malagestione era stata attribuita anche alla precedenteamministrazione guidata da Giuseppe Scopelliti, all'epoca governatore della Regione". A Reggio Calabria, insomma, si è verificato unostrano paradosso: anche se in piazza si stracciavano le vesti, lo scioglimento per mafia potrebbe aver salvato – temporaneamente, comepoi si è visto -­ la carriera a più di un politico.

Il disavanzo tecnico. Poiché non sarebbe stato possibile passare da un anno all'altro a un diverso sistema di contabilizzazione, nel2015 è stata prevista un'operazione ponte. L'anno scorso gli enti pubblici hanno redatto due bilanci, uno secondo le vecchie regole,l'altro secondo quelle riformate per far sì che a partire dal 2016 entrassero in vigore i nuovi bilanci. Nell'anno ponte 2015, dunque, aiComuni è stato imposto di redigere due contabilità: una autorizzativa (vecchio sistema) e l'altra conoscitiva (nuovo sistema). L'annoseguente la conoscitiva è diventata autorizzativa, e da quel momento è partito il nuovo regime. Ma non tutto è filato liscio.

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Riscrivendo i bilanci secondo le nuove regole (e non considerando più i crediti inesigibili alla stregua di veri e propri attivi), moltissimi

Comuni hanno evidenziato un disavanzo che, per l'occasione, è stato chiamato "tecnico". Tecnico in quanto risultato di una nuova

normativa. Poiché questo passaggio è stato incentivato dalla circostanza che un eventuale deficit non avrebbe comportato responsabilità

di alcun tipo, di fatto da molti la normativa del 2015 è stata considerata una vera e propria sanatoria contabile. Con le nuove regole quasi

tutti gli enti hanno dichiarato due bilanci con numeri diversi (uno dei due, in teoria, falso). Una rivisitazione contabile che ha fatto

emergere un buco complessivo nazionale compreso tra i 12 e i 15 miliardi di cui per ben 853 milioni è responsabile la sola Roma. A tanto

è risultato infatti ammontare il disavanzo tecnico della Capitale dove il bilancio è passato da 6,5 miliardi a 5,7, con una variazone di poco

inferiore al 10%, in linea con la media nazionale.

Rate trentennali. Poiché, però, il legislatore si è reso conto che quel disavanzo tecnico non è stato (questa volta) colpa degli

amministratori, ma imposto dalla legge (una sorta di buco legalizzato?), è stato deciso di scorporarlo dai bilanci consentendo ai Comuni

di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo. Roma, ad esempio, per

un trentennio dovrà rimborsare una rata di circa 26 milioni.

La speranza è che con la nuova normativa, che rende più difficile e rischioso per gli amministratori truccare i conti, sindaci e assessori

procedano ad una maggiore programmazione, gestendo il denaro pubblico con una cautela sino ad oggi spesso ignorata. In teoria,

dovrebbe essere stato quindi scongiurato il rischio di nuovi e futuri dissesti. Ma, visto l’andamento della politica italiana, si tratta appunto

di speranze e teoria.

Dissesto e pre-dissesto, ecco cosa cambiaLa gravità delle difficoltà in cui si trovano i bilanci di Comuni e Province è indicata con due termini diversi: pre-­dissesto e dissesto.

Qualcuno, utilizzando un termine mediato dal linguaggio finanziario internazionale, sostituisce alla parola dissesto il termine default,

ma la sostanza non cambia. "Sono da considerarsi in condizioni strutturalmente deficitarie gli enti locali che presentano gravi ed

incontrovertibili condizioni di squilibrio", dice il Testo unico degli Enti locali (Tuel). Se il deficit è in qualche modo recuperabile con un

piano di sacrifici che la Corte dei conti approva si può accedere alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale", il pre dissesto.

Ma se "l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili" o se i creditori vantano crediti cui non si può

far fronte con mutui o entrate proprie, allora scatta il dissesto, come il Tuel indica all'articolo 244.

L'unica cura: meno servizi al massimo prezzodi ALESSANDRO CECIONI

ROMA -­ Se le parole chiave nel linguaggio tecnico dei traballanti bilanci comunali sono dissesto e pre-­dissesto, due termini che

corrispondono a fasi diverse della crisi la cui differenza non è di semplice comprensione per i non addetti ai lavori, molto più facili da

capire sono le due parole che segneranno la vita di tutti i giorni dei residenti nei municipi con i conti in rosso: tagli e tasse.

In entrambi i casi, pre-­dissesto o dissesto, la strada che si apre davanti agli amministratori, siano il sindaco o il presidente della

Provincia, per ben cinque anni non prevede infatti alternative: da una parte risparmi sulla spesa corrente, sui servizi, sulla manutenzione

delle strade, sugli asili, sull'illuminazione, sul personale negli uffici, con una conseguente riduzione negli orari di apertura al pubblico e

vari altri disagi. E poi ancora: dismissione degli scuolabus, meno servizi sociali, meno acquisti di libri della biblioteca. Sul fronte delle

tasse ecco invece una tariffa rifiuti alle stelle, addizionale Irpef all'aliquota massima consentita, tasse comunali sulla casa al massimo.

Obbligo per la tassa rifiuti di coprire completamente il costo del servizio, così come per quanto riguarda l'acquedotto. Aumento anche

delle rette della mensa scolastica e di quelle dell'asilo perché deve essere completamente coperta l'aliquota prevista per legge, che può

variare di anno in anno ma che certo non è mai inferiore a un terzo del costo del servizio.

Lacrime e sangue insomma, ma anche debiti che si accumulano sulla testa di ogni cittadino da qui a trent'anni. Basti pensare che il

"Fondo rotativo a cui Comuni e Province" possono attingere per far fronte ai debiti in scadenza da subito, prevedono 300 euro di prestito

per ogni abitante del Comune (diventano 20 se a chiedere i soldi è una Provincia) che si devono restituire in 30 anni con gli interessi.

Già, gli interessi. Oltre a questi ci sono quelli dei mutui che sono stati accesi con la Cassa depositi e prestiti e con le banche. Altre

centinaia di euro che gravano su ogni abitante insieme ai debiti con i fornitori che non sono stati onorati, siano imprese di pulizia,

compagnie telefoniche, imprese petrolifere che hanno fornito il carburante per le auto o metano per il riscaldamento delle scuole, degli

asili, o le società elettriche che fornivano l’energia per le strade e ancora per le scuole, gli asili, gli uffici. Altri debiti che si sommano a cui

si farà fronte cercando prestiti, magari per coprire quel disavanzo cronico fra previsioni di entrate e incassi reali.

Rinegoziare i mutui è la parola d’ordine per gli amministratori, ma la legge qui è tutta a favore delle banche e non dei cittadini. Perché i

mutui con gli istituti di credito non si possono rinegoziare, mentre quelli con la Cassa depositi e prestiti sì. L'auspicio è che a partire dalla

prossima legge di stabilità le cose possano cambiare, ma per ora gli interessi corrono e spesso sono pesanti.

Gli unici che possono sperare di ottenere un vantaggio dal riconoscimento dello stato di crisi, sia pre-­dissesto o dissesto vero e proprio,

sono i creditori. Nel primo caso possono finalmente incassare i soldi delle loro fatture e, magari come a Pescara, ottenere il saldo con

tempi più umani (nel capoluogo abruzzese in un anno si è passati da 146 giorni di attesa a circa la metà). Nel secondo, invece, se la

dovranno vedere con l’Organo straordinario di liquidazione (Osl), struttura nominata dal presidente della Repubblica, cui fanno capo tutti

i debiti dell’ente in dissesto. L'Osl invierà ai creditori delle proposte di transizione per chiedere di rinunciare a una parte dei soldi in

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cambio di un pronto pagamento: "pochi, maledetti e subito", diceva un vecchio film. Qui pare che il "pochi", una volta che l'ente è tornatoin pareggio, possa essere rimesso in discussione, evitando la rinuncia tombale. Ma dopo cinque anni, tanti ne sono previsti per ilsalvataggio, chi ha voglia di tornare a mettere in mezzo gli avvocati?

Alessandria, 1000 euro a testa il conto del crackdal nostro inviato PAOLO GRISERI ALESSANDRIA -­ Vittorio racconta che il momento più difficile "è stato nel 2013, quando le persone entravano nel mio negozio diabbigliamento e si sfogavano: ‘Non ce la faccio più non ho nemmeno i soldi per fallire'". Storie che sembrano ormai di un'altra epoca ecertamente di un'altra parte d'Italia. Alessandria è l’unico comune del Nord ad aver alzato bandiera bianca. Ha dichiarato il dissesto nel2012: "Abbiamo percorso una lunga strada di sacrifici. In questi quattro anni ogni alessandrino ha dovuto pagare in media mille euro peruscire dal pozzo del debito", riassume Rita Rossa, sindaco del Pd, eletta tre settimane prima della certificazione della bancarottacomunale. Nessuno pensava che una città di grande tradizione industriale sarebbe stata costretta a quattro anni di calvario. Oggi la crisiè superata: "Nell’ultimo anno il vento è cambiato", sospira Vittorio. Da cinque mesi Vittorio Ferrari è il nuovo presidente dell’associazionecommercianti: "Vuole sapere quando è iniziata la riscossa? Ce ne siamo accorti seguendo la favola calcistica dell'Alessandria fino allasemifinale di coppa Italia contro il Milan". Destini incrociati: da giovane nella squadra locale aveva giocato Gianni Rivera, uno deglialessandrini più noti insieme a Umberto Eco e Giuseppe Borsalino. Nessuno in realtà è così matto da pensare che si possa uscire daldissesto con una semifinale di coppa Italia. Nel 2012 la situazione era difficilissima: "Quando siamo entrati in municipio – dice l'attualesindaco – ci siamo trovati con un buco di 300 milioni. E dopo tre settimane ci è arrivata la lettera della Corte dei Conti che imponeva didichiarare lo stato di dissesto. Così abbiamo fatto". Come si è arrivati alla voragine? "Drammaticamente semplice: ogni anno e per moltotempo il Comune ha speso 110 milioni e ne incassava 95. Il bilancio era come un lavandino da cui esce più acqua di quella che entra".

Gestione irresponsabile? Il principale accusato è il penultimo sindaco, Piercarlo Fabbio, Forza Italia, recentemente condannato inappello per falso ideologico. È colpevole di aver aggiustato il bilancio consuntivo 2010 per farlo rientrare nel Patto di stabilità. Mette ipuntini sulle "i": "Il buco non era di 300 milioni ma di 80-­90". Non un bel vedere, in ogni caso. Nell'aneddottica locale ci sono le rosecomperate in Croazia per i giardini pubblici e un tartufo regalato a Berlusconi. Le accuse più di sostanza riguardano gli introiti dellesocietà partecipate contabilizzati tutti nello stesso anno: "Mettere a bilancio cinque anni di tassa raccolta rifiuti prima di vedere il denaronon è stata una grande idea", dice Rossa. Fabbio replica: "Avevo dei consulenti e hanno presentato delle perizie prima di compiere certescelte. La decisione di dichiarare il dissesto non era per nulla obbligatoria".

Il risultato è stato comunque deprimente. Lo dice il commerciante e lo confermano i sindacalisti. "Lo stato di dissesto è arrivato insiemealla crisi finanziaria mondiale, una tempesta perfetta. Per tre anni la gente ha comperato solo il pane e pochi generi di prima necessità",racconta Ferrari. Tonino Paparatto è il segretario generale della Cgil alessandrina: "Difficile distinguere gli effetti delle due crisi nella

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perdita dei posti di lavoro. Ma il rapporto con l’attuale amministrazione non è stato semplice. Tagliare nelle partecipate è stata una

tentazione che abbiamo cercato in tutti i modi di contrastare. C'erano a rischio 400 posti di lavoro che alla fine siamo riusciti a salvare". Il

lieto fine è nella grande festa del 9 settembre scorso, casualmente coincidente con la fine dello stato di dissesto: cene in piazza, lo

slogan "Alessandria è viva" e la decisione di decorare i negozi ancora vuoti con opere e installazioni degli artisti locali. Perché il grosso

della crisi è passato ma qualche cicatrice si vede ancora.

"Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa"di ALESSANDRO CECIONI

ROMA -­ Marco Alessandrini, 46 anni, avvocato, è sindaco di Pescara dal 2014. Appena insediato ha dovuto chiedere di poter accedere

alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale" che il "Testo unico degli enti locali prevede" per i Comuni in pre default, quelli che

stanno andando verso il fallimento, ma possono ancora sperare di salvarsi. Per dare un'idea della drammaticità della situazione cita il

titolo di un'opera di Rimbaud, "Il battello ubriaco" ("Le bateau ivre"), ma dice anche che l'ideogramma cinese di crisi è lo stesso di

opportunità. E comunque aggiunge, "la ristrutturazione del debito è per i nostri figli" perché le scelte di oggi hanno un orizzonte di 10 anni

per certi aspetti e di 30 per altri.

Sindaco, bisognerà spiegarlo però ai cittadini che pagheranno l’aliquota massina di Imu, Tasi e Tari, che le buche per strada

non saranno coperte e che i servizi sociali saranno tagliati...

"Noi i servizi alla persona non li abbiamo toccati, è stato un impegno preciso. Con la crisi che c'è non potevamo eliminare la nostra

funzione nel sociale, abbiamo anche pensato esenzioni per le fasce più deboli. Certo il cittadino che protesta perché c'è una buca per

strada, o perché il giardino pubblico è devastato può sentirsi rispondere che le priorità sono altre. Bisogna comunicare bene cosa sta

accadendo. Sono andato molto in televisione, sui giornali, alle assemblee, agli incontri. Ma il 'vergogna, vergogna' non me lo ha

risparmiato nessuno. Nemmeno in consiglio comunale, dove me lo gridano quelli che fino al 2014 hanno speso senza ritegno e poi non

hanno voluto approvare il loro stesso bilancio".

Aveva un’altra scelta? I sindaci che si trovano con il comune sull'orlo del fallimento che possono fare?

"Se la situazione è irrecuperabile si va alla procedura di dissesto. Si tira una linea: di qua c’è la nuova amministrazione, senza debiti, con

tagli, blocco del turnover, tasse aumentate, zero investimenti. Di là la bad company, il Comune fallito con tutti i suoi debiti e una

commissione di nomina ministeriale che la gestisce, come si farebbe in un fallimento, quindi con offerte ai creditori, transazioni".

Se la situazione è recuperabile, invece?

"Dal 2012 c'è l'altra possibilità: programma pluriennale di riequilibrio. L'amministrazione cambia strada, aumenta le tasse, taglia la spesa,

blocca il turnover, non fa investimenti, ma può rifondere tutti i soldi ai debitori. E dato che questi sono nella maggior parte dei casi

imprese del territorio non uccidi l'economia, il tessuto produttivo del tuo Comune. Io ho scelto questa strada per questo motivo, non

potevamo tradire le nostre imprese. Alzare Imu, Tasi e Tarsi all’aliquota massima è doloroso, ma permette di accedere subito al fondo di

rotazione che dà fino a 300 euro per abitante da restituire in 30 anni, soldi che permettono di pagare i creditori. Noi abbiamo preso 33

milioni e 480mila euro. Poi c'è l’opportunità".

L’opportunità?

"Certo, la crisi come momento delle scelte coraggiose, del cambio repentino di strada. I cinesi hanno un ideogramma solo per crisi e

opportunità. Le faccio due esempi di cui vado orgoglioso. Abbiamo aumentato la Tari, tariffa rifiuti, ma già il secondo anno è calata

dell'8% perché la differenziata è passata dal 30 al 34% (arriveremo al 57% nel 2019) facendo calare i costi di smaltimento, inoltre

paghiamo quanto dovuto alla partecipata in anticipo così non chiede soldi in banca e risparmia 1,9 milioni di interessi. Secondo esempio,

l'efficienza dell'illuminazione. Nelle scuole abbiamo messo le lampadine intelligenti che non significa solo che si accendono quando entri

in classe, tipo le toilette dei ristoranti, ma che a seconda della luce che entra dalla finestra abbassano o alzano l'intensità. Sa quanto si

risparmia? Il 75% delle spese di illuminazione. Per me è eccezionale".

Una bolletta della luce più leggera non può bastare però a risanare il bilancio.

"No, aiuta, ma i risparmi si fanno altrove. Nelle gare d'appalto unificate per le mense degli asili, con i dieci milioni in meno di spesa

corrente: auto blu, cancelleria, pulizia. E poi il personale che diminuisce. Mille dipendenti dieci anni fa che oggi, col blocco del turn over,

sono meno di 800. Ah, la telefonia. Non si possono più fare chiamate intercontinentali dall'ufficio, perché succedeva, mi creda".

Lei il disastro lo ha toccato con mano nel 2014. Il 9 giugno viene eletto, apre la porta del Comune e non c’è il pavimento.

"Non è che non conoscessi cosa mi aspettava, ma una cosa è immaginarlo, una cosa è vederlo. Ho passato il mio primo pomeriggio a

guardare le carte. Non c'è voluto molto per scoprire che la situazione era gravissima. C'erano oltre 32 milioni di fatture da pagare, con

mandato già firmato ma niente soldi;; 13 milioni e 300mila euro di fondi vincolati agli investimenti erano stati destinati alla spesa corrente,

mentre la banca ci aveva già anticipato 26 milioni e 400mila euro su cui pagavamo un interesse annuo del 4%. In cassa c'era un milione,

nemmeno i soldi per gli stipendi".

Come può accadere che un Comune si ritrovi in una situazione del genere?

"Intanto – mi scusi il francese – i Comuni italiani hanno tutti o quasi le pezze al culo. Dal 2010 al 2015 i trasferimenti dallo Stato sono

stati quasi azzerati. A Pescara, per esempio, sono passati da 30 a 3 milioni. Ma il problema è un altro. Vista questa situazione si

sarebbero dovute prendere le contromisure, razionalizzare la spesa, pensare a risparmi strutturali. Invece si è continuato a spendere e a

far quadrare i conti con una previsione gonfiata di entrate. E qui è arrivata la nuova disciplina di bilancio che prevede che tu debba

togliere dalla spesa quei crediti che dubiti di incassare".

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12 ottobre 2016

Pescara avrebbe dovuto gestire il bilancio con i nuovi criteri fin dal 2013, era un’amministrazione pilota.

"Il teatro dell'assurdo. Non solo non lo ha fatto, ma sa quando ha approvato il bilancio preventivo del 2013? A dicembre, ovvero quando il

preventivo era di fatto un consuntivo".

Il dissesto dei Comuni arriva solo da previsioni sbagliate e mancati trasferimenti?

"No, certo, arriva da spese fuori controllo, da lavori pubblici gonfiati perché si avvicinano le elezioni, dalla pletora dei consulenti, dalle

spese correnti per stipendi, luce, acqua, telefoni, auto blu. E dalla incapacità dei Comuni di esigere i crediti, far pagare le tasse e i

servizi, si arriva anche al 50-­60% in meno. Poi ci sono i mutui accesi con le banche che non sono rinegoziabili, mentre quelli con la

Cassa depositi e prestiti sì. Per noi averlo fatto vuol dire un risparmio di 20 milioni di euro di interessi in 5 anni. Ma, ripeto, occorre che la

spesa sia razionalizzata, tagliata, e le tasse incassate. Noi siamo riusciti a incrementare del 20% la riscossione. E poi ci sono le

trappole".

Le trappole?

"Vai a vedere bene i crediti che hai in bilancio, le somme che pensi di riscuotere, e ti accorgi che quei soldi non li avrai mai. Debitori

morti, aziende fallite, scomparse. Noi a Pescara abbiamo dovuto portare il fondo per i crediti di dubbia esigibilità da 7 milioni a 51,

adeguandolo alla realtà. Per avere un'idea la Soget, la società di riscossione, ha cancellato 36 milioni prescritti. A questo si aggiunge il

monte di nostri debiti per i quali non c'è nulla da fare se non pagare. Quelli, come si dice in linguaggio da avvocati, dove siamo

soccombenti. Anche lì fondo da istituire per prepararci al peggio: altri 12 milioni".

E ora?

"Il cammino è segnato, i frutti già si vedono. La somma fra residui attivi e passivi, quel parametro che il cuore della nuova contabilità nel

2014 era 300 milioni, oggi siamo arrivati a 140. Oltre la metà dei 160 milioni di differenza sono stati pagati o riscossi. Il piano di

riequilibrio funziona. In cassa ci sono 6 milioni e mezzo di euro e se prima i creditori incassavano in 6-­7 mesi oggi avviene in 75 giorni. Il

debito per abitante era 1344 euro nel 2013, oggi è 1134 euro. Altra strada non c'era. Non c'è futuro senza solidità ed equilibrio

finanziario".

In Sicilia i debiti scatenano l'incubo precaridi CLAUDIO REALE

PALERMO. Nel precipizio, in fondo al baratro del default, ce ne sono già 17. Ma a rischiare sono molti di più: i Comuni siciliani non

riescono più a far quadrare i propri conti, tanto che all’inizio di settembre erano 250 quelli che ancora non avevano approvato il bilancio

del 2015. Effetto del braccio di ferro fra Regione e amministrazioni locali sui finanziamenti, ma anche delle nuove regole contabili entrate

in vigore da quest’anno: adesso, infatti, i sindaci sono costretti a ripulire i documenti finanziari dagli artifici usati negli anni scorsi, e uno

dopo l’altro stanno scoprendo buchi impossibili da coprire.

Voragini le cui radici affondano nella storia. Ad Agrigento, ad esempio, la giunta che si è insediata quest’anno ha trovato un extra-­deficit

da 34 milioni: nel bilancio, secondo l’amministrazione guidata da Lillo Firetto, c'erano vecchi crediti che non è più realistico tenere in

considerazione. Soldi che il Comune attende anche dal 1989, e che a questo punto non arriveranno più. Così, da gennaio ad agosto di

quest’anno, gli enti locali siciliani sono caduti uno dietro l’altro, e all’elenco di undici centri già in default si sono aggiunti Acate,

Barrafranca, Carini, Casteltermini, Mussomeli e Scaletta Zanclea. Sei fallimenti in otto mesi.

La lista, però, è destinata a crescere. Anche perché almeno tre centri sono davvero sull'orlo del precipizio: oltre ad Agrigento, a rischio ci

sono due cittadine vicine, Porto Empedocle e Favara. Proprio quest'ultima è il teatro della storia più curiosa: la giunta a "5 Stelle" guidata

da Anna Alba, subito dopo le elezioni di giugno, ha avviato la procedura per il dissesto a causa di un buco da 40 milioni, ma quando ha

ricevuto dal ministero degli Interni un piano con venti punti per evitare la bancarotta ha risposto "picche". "Un programma del genere –

ha detto l’assessora al Bilancio Concetta Maida – sarebbe peggio del default". Il fallimento di Favara, però, "regalerebbe" alla Regione

un pacchetto da 205 precari.

Ed è qui che si innesta il sospetto. Agitato da un deputato della maggioranza che sostiene Rosario Crocetta: "Proclamare il dissesto –

spiega il democrat Giovanni Panepinto, che è anche sindaco di un piccolo centro dell’Agrigentino, Bivona – per alcuni amministratori è

liberatorio, un rito quasi tribale che scarica il peso dei lavoratori sulla Regione". Già, perché se i Comuni vanno in default il costo dei

lavoratori a contratto passa a carico della giunta Crocetta. Che all'inizio di settembre ha dovuto trovare in fretta e furia tre milioni per

pagarne 779. Ma che potrebbe trovarsi sul groppone un pacchetto più consistente: i precari degli enti locali, in Sicilia, sono in tutto

13.787 e costano ogni anno 187,5 milioni di euro. Una bomba a orologeria per i già risicati conti della Regione.

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