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IL PULPITO DELLA CROCE - Euno Edizioni · la verità dell’evento, ma di rivelarne perennemente il...

Date post: 15-Feb-2019
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Sermoni del Venerdì Santo sulle Sette Parole a cura di Alessandro Magno illustrazioni di Antonio Occhipinti IL PULPITO DELLA CROCE F. Fiasconaro - L. Gulletta - R. La Delfa - S. Morra M. Perroni - A. Plumari - F. Scalia - R. Virgili EUNOEDIZIONI
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Page 1: IL PULPITO DELLA CROCE - Euno Edizioni · la verità dell’evento, ma di rivelarne perennemente il significato. A motivo di questo, la croce parla tuttora. Essa non è una realtà

Sermoni del Venerdì Santo sulle Sette Parole

a cura di Alessandro Magno

illustrazioni diAntonio Occhipinti

IL PULPITO DELLA CROCE

F. Fiasconaro - L. Gulletta - R. La Delfa - S. Morra M. Perroni - A. Plumari - F. Scalia - R. Virgili

EUNOEDIZIONI

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IL LINGUAGGIO DELLA CROCE

Alessandro Magno

Il linguaggio della croce non è distinto dalla suamimica, paradossalmente traduce gesti di atrocesofferenza in parole di estrema fiducia. Ciò che èavvenuto sulla croce è nello stesso tempo un fattoreale e un evento di fede. Il fatto reale si è consu-mato nelle tre ore dell’agonia, l’evento di fede ri-mane fissato in alcune parole pronunciate dal croci-fisso, la cui funzione è quella, non solo di affermarela verità dell’evento, ma di rivelarne perennementeil significato.

A motivo di questo, la croce parla tuttora. Essanon è una realtà statica, un simbolo del rito, il cul-mine supremo di una terribile vicenda religiosa chesi è consumata lontano dalla storia, e il cui sacrificioha senso solo nella memoria liturgica all’altare. Lastoria della croce ha inizio nella storia degli uomini,e ne costituisce il culmine. Lì, Cristo incontra il Pa-dre e con lui colloquia. Da quel momento la croceper noi diviene un pulpito credibile dal quale Cristoparla di Dio parlando con lui. Seguire Cristo sullacroce non ha come traguardo il Calvario bensì l’ab-

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braccio con il Cielo (cf. Mc 16,24; Mt 8,34; Lc 9,23).Paolo esorterà i credenti a sperimentare una croce-fissione mistica, consapevole dell’invito rivolto per-sonalmente da Gesù ai discepoli di addossarsi lacroce e seguirlo (cf. Rom 6,6; Gal 2,20; 6,14). Incam-minarsi verso la croce seguendo Cristo mostra unaspetto spesso sottovalutato di essa: progredire,crescere, diventare capaci del dono di sé che la cro-ce in ultimo esigerà, ma anche diventare capaci diaccogliere il dono che in essa è ricevuto, quello diun amore costoso. Costerà infatti a Dio stesso, mol-to più che all’uomo, conoscere faccia a faccia il pec-cato. La sofferenza sperimentata sulla croce sareb-be poca cosa se non fosse stata motivata dall’idola-tria che ha sostituito l’uomo a Dio e il cui effetto in-sensato fu di colmare l’uomo di orgoglio e di svuo-tare Dio dell’amore.

Le parole pronunziate da Gesù sulla croce nefanno la via attraverso cui Dio unisce la sofferenzaall’amore. Se fosse solo sofferenza, la croce sarebbevana. In essa non c’è alcuna virtù intrinseca, masenza l’amore, la croce resterebbe un assurdo. Lacroce è la stadera che misura il carico dell’amore diDio. Esservi confisso misura poi la durevolezza del-la sua fedeltà, riflessa nel Figlio. In ogni modo ilpondus amoris eccede sempre quello della soffe-renza e lo sbilancia.

Le parole del crocifisso ci raccontano passo pas-so il significato reale di quell’amore costoso. Ilprezzo pagato è valsa la redenzione: la restituzionedell’uomo all’uomo e di Dio a Dio.

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All’uomo, la cui aspettativa di vita si calcolava apartire dalla morte, ora che la morte è stata sconfittae che gli è stata spalancata la porta del paradiso, èstato restituito il tempo, nientemeno, la vita eterna!

A Dio, invece, è stata riconsegnata la libertà diessere se stesso, amore gratuito, senza i condiziona-menti che lo costringevano nella cella asfittica dellaragione dell’uomo o così lontano da apparire im-perturbabile e insensibile.

La parabola del buon seme e della zizzania (Mt13, 24-30) è una metafora della croce, nei suoiaspetti più costitutivi, peccato e misericordia: «Nonraccogliete la zizzania, perché non succeda che, co-gliendo la zizzania, con essa sradichiate anche ilgrano». Accettare la croce come prezzo della re-denzione implica accettare il fatto che Dio, pur nonessendo coinvolto nel peccato, sia tuttavia piena-mente avvolto nella sofferenza. E questo, solo peramore, non perché abbia peccato.

Dinanzi alla sofferenza e alla croce, l’uomoavanza sempre delle controproposte parziali, comecircoscritta e ottusa era la soluzione implicita nellarichiesta dei servi della parabola di sradicare la par-te cattiva del seminato. C’è un equivoco a montedelle scelte limitate dell’uomo, la volontà di rifiutodella sofferenza non accompagnata dall’intenzionedi rinnegare il peccato. Ma c’è anche un paradossoche da ciò promana; negando il peccato e fuggendola sofferenza, l’uomo fa a meno di Dio. Strappare lazizzania può significare perdere il buon grano. Lasapienza della croce risolve questa contraddizione.

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Prima di essere piantata, la croce è portata, pro-prio come prima di esservi inchiodati, essa va ab-bracciata. Scriveva il card. Newman: «La croce nelsalvarci, ci crocifigge». Le parole di Gesù pronun-ziate sulla croce inconfondibilmente attestano lasua volontà di adesione al Padre. Esse tessono uncolloquio intimo che difficilmente può essere com-preso fuori dal raggio della sofferenza e dell’amore.Con sofferenza si carica della croce, ma con amoreabbraccia il suo peso, che è quello dei nostri pecca-ti. Il linguaggio della croce è comprensibile solo aicrocifissi con Cristo: a coloro cioè che sono piantatiin lui, perché portati da lui, come carico soave nellasua croce. Dalla croce è annunciata la sconfitta delpeccato e della morte; e mentre essi rimangono in-chiodati all’albero, l’uomo è liberato e rinnovato.

Il sermone della croce è una pedagogia profon-damente divina e insieme umana della redenzione.Senza la croce, l’uomo difficilmente vede il limitedella sua bontà, e senza di essa difficilmente com-prenderebbe l’arroganza delle sue pretese. Forse, laprima lectio crucis è adombrata nel racconto dellaparabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32), il cuicammino di sofferenza lontano da casa e di ritornoverso di essa, manifesta l’amore misericordioso delPadre. La fuga del giovane è rifiuto consapevole diessere figlio, il ritorno è una rinascita da figlio gra-tuita e inaspettata. «Nella croce di Cristo – suggeri-va Dietrich Bonhoeffer – Dio pone l’uomo di suc-cesso davanti alla sfida di santificare il dolore, lasofferenza, l’umiltà, il fallimento, la povertà, la soli-

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tudine e la disperazione» (Etica, 1937). Vivere, co-me amare, implica imparare ad aprirsi alla sofferen-za. Le parole della croce sono parole difficilmentecomprensibili a chi si è privato del senso dell’amo-re e della vita. Resta solo la conversione.

La meditazione delle parole che dalla croce ri-volge al Padre convincono che Gesù non sia venutoa sopprimere la sofferenza tutta d’un colpo, né aspiegarla, né a giustificarla. È piuttosto venuto adassumerla e trasformarla. Sopportandola con infini-to amore, ci ha insegnato come sollevare gli altridalla loro e come sopportare pazientemente ciò cherimane inevitabile, insieme a lui. Fedele, fiducioso,abbandonato nel Padre anche nella morte, ci ha in-segnato che è possibile essere felici nell’infelicità.Parlando della pienezza della sua gioia, proprio pri-ma della sua passione, ci ha rivelato che le due cose,gioia e passione, non si escludono a vicenda (cf. Gv15,11; 16,20). «Bisogna che il mondo sappia che ioamo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha co-mandato» (Gv 14,31). La verità è che la croce diCristo non ci condanna alla sofferenza, obbligapiuttosto a essere santi.

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LA PRIMA PAROLA

«Padre, perdonali, perché non sanno quello chefanno» (Luca 23, 34).

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SE IL CROCIFISSO APRE BOCCA

Felice Scalia

Tra i ricordi della mia infanzia fluttuano alcunimomenti particolari legati alla Pasqua. Non le «fun-zioni della Settimana Santa» – troppo piccolo perparteciparvi – ma una «Sacra Rappresentazione» inun paese vicino, il rito della pace scambiata al suo-no delle campane a mezzogiorno del Sabato Santo,la «Pasqua rosata», cioè certi gesti popolari il gior-no dell’Ascensione, soprattutto l’indimenticabile«Tre ore di agonia» il Venerdì Santo. La chiesa eraaffollatissima, il predicatore mormorava parole pie-ne di tenero dolore o tuonava contro i peccati degliuomini, facendo vibrare sentimenti nascosti di sbi-gottito pentimento. Ricordo che il Crocifisso a uncerto punto chiudeva gli occhi, poi chinava il capo,e poi veniva schiodato e deposto dalla croce.

Tempi di guerra quelli della mia infanzia, di pau-ra, di fame, di minacce continue di morte.

Si parlava del Crocifisso in quelle «Tre ore», main croce ci sentivamo tutti, sebbene non con in boc-ca le stesse parole del Signore Gesù, anzi costretti atacere, a non esprimere la nostra angoscia, perché

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era un obbligo mostrarsi fieri e sicuri della vitto-ria...

Forse con l’andare del tempo sulla croce di Cri-sto sono salite altre vittime innocenti. La povertà ela minaccia di morte hanno cambiato Continente,ceto sociale, condizione. I neri dell’Africa abbando-nata al suo destino? I bambini-soldato delle decinee decine di guerre dimenticate? I campesinos del-l’America Latina? Gli immigrati di Lampedusa o diRosarno? Le donne ancora umiliate, considerate«oggetto», a rischio di «femminicidio»? Gli oppres-si dalle nostre guerre di conquista mascherate da«missioni di pace»? I morenti senza speranza di un«oltre»? Le giovani generazioni sacrificate alle tre-sche della pirateria finanziaria?

Una cosa è certa: Cristo sale ancora sulla croce,agonizza, muore nei suoi fratelli e amici. In questaumanità decisa a sacrificare la vita umana in osse-quio al dio-potere e al dio-denaro. Per questo al dilà dell’aspetto teologico (tremendo adorare unaVerità crocifissa, avere come modello di vita un«maledetto», come si esprime Dt 21,23), c’è unaspetto esistenziale nella vicenda del Nazarenocondannato a morte «fuori città», sulla «petraia delGolgota», che affascina e coinvolge ogni uomo.

Per l’evangelista Luca il Crocifisso è uno specta-culum, una theoria, qualcosa che attraversa la no-stra vita dandole un senso che a prima vista puòsembrare paradossale, ma in cui, in ogni caso, si ri-specchia la nostra condizione di uomini fragili, mi-nacciati sempre dalla violenza del potere.

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Il popolo cristiano da tempo immemorabile lo hacapito. Per esso il culmine della tragedia di Gesù diNazareth, quelle ore lente che scorrono tra il sudoredi sangue nell’Orto degli Ulivi e la pietra tombaleche si rovescia su un cadavere, vicende come queste,non sono un ricordo del passato, una «disgrazia»della vita privata di un uomo illustre, ma l’epifaniadell’uomo, di ogni uomo, nelle grinfie della sua limi-tatezza e dell’atrocità che può infliggere e subirequando qualcuno ritiene di avere il diritto di uccide-re una vita ingombrante o cade nelle mani di un al-tro uomo.

La riflessione teologica scopre in quel tristissimoevento il senso della storia della salvezza destinata acoinvolgere ogni nato di donna, senza eccezione. Si«proiettano» nel Cristo morente i dolori di ciascu-no, le disperazioni e le speranze, la stessa ansia disalvezza che ci pervade e che ogni giorno ci ridonaluce, nonostante tutto. Ma si proiettano anche gli il-limitati nostri odi contro bontà e verità scomode.

Se questo è vero per ogni uomo che incontra ilProfeta di Nazareth (forse per ogni cristiano, sia ono dotato di pietas e sensibilità interiore), lo è a untitolo molto particolare per la nostra gente del Me-ridione che, come il Cristo, da troppi secoli «conosceil patire». Lo è per l’America Latina, dove le festecristiane più sentite riguardano il Crocifisso e l’Ad-dolorata, archetipi consolatori di un popolo sfrutta-to e massacrato dai cattolicissimi conquistadores.

Nelle terre di Sicilia, in questa isola benedettadalla natura ma preda privilegiata di ogni impero

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che appare e tramonta sulle acque del Mediterra-neo, come la sofferenza della povera gente così an-che il «Sofferente», il «Dio sofferente» e «morto»,sono, ab immemorabili, oggetto di riflessione, dipianto, di compassione, insieme a radice di rivolta esperanza.

Spicca in questo quadro la tradizione ancora vi-va dei riti del Venerdì Santo nell’antica cittadina diRegalbuto (En). Nella Chiesa Madre, a partire dal2007, sono stati chiamati per offrire delle riflessionisulle Sette Parole al popolo credenti di diversa for-mazione e sensibilità, preti e donne, come per farecomprendere alla gente di quale ricchezza è custo-de, in quei gesti che anche uomini semplici conti-nuano a compiere proseguendo sulla strada traccia-ta dai loro padri. Si sono succeduti Don Rino LaDelfa (preside della Facoltà Teologica di Palermo),Mons. Letterio Gulletta (psicologo, attento cultoredi arte e fede), Padre Felice Fiasconaro (francesca-no conventuale, responsabile del Movimento Gio-vanile Francescano), Stella Morra (teologa, docen-te anche alla Gregoriana e al San’Anselmo di Ro-ma), Rosanna Virgili (apprezzata conferenziera,docente di Esegesi Biblica all’Istituto TeologicoMarchigiano), Marinella Perroni (biblista al San-t’Anselmo di Roma e pubblicista).

Arricchite dai quadri del pittore gelese AntonioOcchipinti – eseguiti con attenti occhi di fede, par-tecipazione emotiva, mano esperta e sicura, delica-tezza espressiva in composizioni gradevolmente ar-moniche – e succedute da un accurato, puntuale

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studio storico-liturgico sulla tradizione delle SetteParole in Sicilia del prof. Angelo Plumari, le calde,preziose e profonde riflessioni degli Autori condivi-se nei diversi anni con i fedeli di Regalbuto, vengo-no ora offerte all’intera chiesa italiana. Al popolosanto di Dio, prima di tutto, ma anche alla chiesaistituzionale decisa oggi a recuperare la ricchezzadella pietà popolare. Non si tratta, comunque, diun’operazione dettata da chi sa quale nostalgicotuffo nel passato dei nostri padri, ma di un gesto diintelligente devozione, che si affianca ai 190.000 ap-procci al mistero del dolore infinito che uomini ditutti i tempi e con modalità espressive diverse, han-no tentato di fare.

Come è intuibile il taglio degli Autori è diverso.Si nota subito la finezza della sensibilità femminile,diversa dall’approccio empatico-razionale dei pre-ti, e questo, diverso da righe appassionate e soffertedi qualche lunga preghiera. Accomuna tutti gli Au-tori il desiderio intenso di accostarsi al Crocifisso ei crocifissi con una partecipazione emotiva e pro-gettuale che molto ricorda l’antico concetto asceti-co-mistico di «riparazione». Tutti meditano le SetteParole con affetto, adorazione, coinvolgimento,competenza teologica, delicatezza di tratti, essen-zialità, per far vivere al popolo di Dio non un sem-plice momento devozionale in ossequio alla tradi-zione, ma un autentico dono di grazia in cui Diostesso chiama alla «compassione» – tipico sguardodivino sulla nostra umanità – e dunque alla conver-sione più radicale.

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Dai sotterranei della storia e dal Golgota pareemergere libera e decisa una voce antica che le no-stre piazze avevano sentito: «Qualunque cosa avetefatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatta ame» (Mt 25, 40). Il Cristo che subisce violenza dalpotere è ogni nudamente povero. Nel Cristo cheparla, dice qualcosa ogni oppresso. Nel Gesù conso-lato ogni di sgraziato riceve consolazione. Vicever-sa: non abbiamo altro modo di consolare il Crocifis-so che stare vicino ai crocifissi. Nel Cristo «dispera-to» trova un varco di luce ogni disperato dei nostritempi.

Ma c’è altro.Perché questo coinvolgimento non sia sentimen-

tale soltanto, roba che dimentichiamo con il pranzopasquale e il rito ambiguo della «sorpresa» nell’Uo-vo, è necessario fare percepire in qualche modo ilMistero Santo della Vita, la Santa Verità della Vitache emerge dalla Passione del Crocifisso. Ecco ilvero nodo da sciogliere: il Crocifisso è o no rivela-zione di Dio? È o no rivelazione della più profondaverità dell’uomo? Le parole di Gesù in croce, leSette Parole appunto, manifestano questo voltodell’uomo e di Dio? E ancora: nell’uomo schiaccia-to dal potere e che tuttavia non abdica alla suaumanità, si rivela il fallimento più radicale di unacreatura o emerge finalmente il vero uomo, l’uomovero?

A prima vista, dalla vicenda di quegli Apostoliche, lontani dal Golgota, stanno a guardare, se unaverità emerge, è una verità terrificante. Potremmo

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esprimerla così: la Bontà senza limiti, l’Amore piùdisinteressato e più radicale, la Giustizia, la Passio-ne per la vita piena di ogni creatura umana, la Te-nerezza, tutte queste realtà senza le quali ci sembradi non potere neppure respirare, sono perdenti, de-stinate a essere cancellate dalla faccia della terra,indegne dell’uomo vero. Sono e saranno semprenemiche del Potere che è il vero vincitore. Non laVita vince, ma la Morte. Uomo è chi ha come unicodestino la morte nel suo intimo di ciò che noi chia-miamo «umanità». Dio vero è il Potere che abban-dona al suo destino chi non sposa forza, astuzia, in-ganno, violenza. Verità della vita è la morte, non lavita. Il Dio di cui ha parlato Gesù è un falso. Il veroDio è beffardo e ingannatore, amico dei potenti edei cinici. La Verità è solo errore abissale.

E così rimarrebbero le cose se non ci fossero leSette Parole del Crocifisso, se il divino Condannatonon aprisse bocca e non facesse aleggiare attornoalla sua corona di spine una incredibile, incompren-sibile promessa: la vittoria della risurrezione. E allo-ra anche l’obbrobrio della croce, la stoltezza, loscandalo della croce, diventa buona notizia, vangeloper tutti i disperati. Già sulla croce Gesù è un risor-to un uomo totalmente nuovo, dal cuore traboccan-te di vita eterna, di pienezza della divinità: «Quandosarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32) – aveva detto ai suoi amici – «quando sarò in-nalzato».

Ed è qui che la mano e la voce adorante degliAutori si fanno leggeri e decisi. Ci conducono passo

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dopo passo a scoprire il Mistero, la «vera Verità» diDio e dell’uomo, così come emerge dalle parole diuno ridotto a essere «verme, non più uomo, obbro-brio della gente» (cf. Sal 22,7). L’amore del Padre èdavvero infinito – afferma il Crocifisso – superaogni crimine umano, raggiunge l’uomo anche quan-do sprofonda nel delitto, perché Dio è solo questo:insondabile mistero di amore e di compassione per-donante per l’uomo. C’è dunque salvezza e vita – sele si vuole. Oltre il supplizio e la morte in croce, c’èun Regno che solo i nudamente umani, i non garan-titi e i condannati possono desiderare. C’è un para-diso, anche oggi. E se il Dio delle vostre religioniterrene – sembra dire Gesù – è un Dio che «preten-de» sangue e che si fa manipolare dai suoi adorato-ri, il «Dio mio e Dio vostro, il Padre mio e Padre vo-stro» (Gv 20, 17) che si rivela in questo suo Figlioinchiodato ad una trave, è un Dio che dona tutto disé, perfino sua Madre, un Dio che «non serve a nien-te», non garantisce nessuno, neppure se stesso, ma simette in gioco come fragile offerta di relazione diamore nelle mani delle sue creature. È anche un Dioche chiede un simile abbandono in Lui, anche quan-do ci sembra di essere abbandonati nelle mani del-l’ingiustizia e delle forze della disgregazione.

Affacciarsi a questo sconvolgente mistero è per-dere la religiosità infantile di chi sa che material-mente «neppure un capello cade dal capo senza cheil Padre lo voglia» (cf Lc 21,18), per intuire che l’A-more misteriosamente ci raggiunge anche quandoci sentiamo ormai dannati e maledetti. Proprio per-

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ché Dio è lì, coi dannati, con gli sconfitti, a pendereda una croce, assetato di giustizia come noi, asseta-to di benevolenza e di amore come tutti noi, così in-felici e contraddittori da offrire fiele a chi chiedecomprensione e da ricevere aceto da chi ci aspette-remmo compassione e aiuto.

Sulla croce c’è il senso della vita umana rivelatodallo stesso Figlio di Dio: imparare – forse con esa-sperante lentezza e contraddizione – imparare aconsegnarsi follemente all’Amore, al mistero Santodella Vita, anche quando la delusione ci attanaglia enon potere fare a meno di interessarci degli altrisembra una famelica disgrazia che ci divora. Impa-rare ad amare tanto da consegnare agli uomini, co-me un seme prezioso, il proprio Spirito, quello rice-vuto da Dio, quello che ci fa inquieti «affamati e as-setati di giustizia» (cf Mt 5,6), sapendo che solo dal-lo Spirito del Signore Gesù può sgorgare un fiottodi felicità e di speranza per l’umanità intera.

Sulla croce, anche la nostra speranza.Se il Crocifisso apre bocca rovescia ogni residuo

di religione idolatrica e indica strade di salvezza so-lo al di là delle nostre logiche umane e degli «sche-mi di questo mondo»: Dio è colui che nei suoi figli èvittima della prepotenza umana, così impotente danon potere «far passare l’ora delle tenebre», ma co-sì onnipotente da trarre vita dalla morte e umanitànuova da una genìa assassina. Per Lui non esistonopietre tombali, ma solo pietre pasquali che dopo«tre giorni» si ribaltano per sprigionare vita nuova.

Si riaccende ogni tanto in Italia la questione del

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senso del Crocifisso negli edifici pubblici. Bene fan-no battezzati e laici agnostici quando – a volte stra-namente insieme – tentano di spiegare questo «sen-so». Personalmente mi sentirei più solo senza que-sto «santo segno», più esposto a una falsa idea diuomo. Ma faremmo male tutti, se pensassimo che il«segno» possa sostituire la realtà significata. Realesorgente di vita è la Parola che dalla croce ci giun-ge, non due legni incrociati e un condannato appe-so. Ci restituiscono a noi stessi, ci salvano, le Paroleche il divino Crocifisso da quella assurda cattedrarivolge a cielo e terra. Possiamo forse aggiungere,con un occhio attento alla pagina di Matteo 25, chesolo questo, in fondo, importa al Nazzareno assassi-nato e risorto. Che si ascoltino le sue Parole di allo-ra, amplificate e ripetute oggi dalla bocca dei croci-fissi della nostra storia. Ascoltarle e farle diventareprotesta contro ogni oppressione dell’uomo sul-l’uomo, e speranza di una vita nell’Amore tra di noie col Padre. Cioè carta programmatica per una ter-ra baciata dal cielo e per una vera «vita eterna» chefiorisce fin da ora e per sempre. Per una vita di cro-cifissi-risorti.


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