Note e discussioni
Il quarto volume della biografia di Mussolini di Renzo De Felice.
Il quarto volume della biografia dedicata a Mussolini da Renzo De Felice, apparso nel dicembre 1974 col titolo Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936 merita attenzione per il posto centrale che occupa nell’opera e l ’ampiezza degli avvenimenti che tratta (un arco di sette anni, che comprende la grande crisi economica e la guerra d ’Etiopia) e per le vivaci polemiche suscitate anche sulla stampa a grande tiratura, rinfocolate dalla successiva pubblicazione della Intervista sul fascismo di De Felice1 1 2. In questa nota tuttavia tentiamo di prescindere per quanto è possibile dal contesto della polemica sull ’attività storiografica dello studioso e di limitarci all’esame del quarto volume della biografia di Mussolini, anzi di alcuni dei suoi aspetti centrali. Il volume infatti è talmente ricco di spunti e notizie che il recensore non può soffermarsi su tutte le pagine degne di nota, ma deve operare una scelta dei temi da approfondire. Nel nostro caso saranno tre: il taglio dell’opera, il problema delle fonti e l’interpretazione del fascismo, temi sufficienti, ci sembra, per un giudizio documentato e articolato.
Il taglio dell’opera e la scelta degli argomenti
Ogni biografia (ed a maggior ragione quella di uno statista) pone il problema dei rapporti tra le vicende individuali e la storia generale del periodo: un rapporto che non può essere risolto una volta per tutte, ma deve essere lasciato alla sensibilità dello storico. Giustamente De Felice rivendica e la priorità del taglio biografico e la necessità di un ampliamento a ventaglio della trattazione, estesa a argomenti anche non immediatamente riconducibili alla sfera di interessi di Mussolini (p. IX). La libertà dello storico di scegliere i problemi da approfondire viene tuttavia intesa in modo troppo elastico, a nostro parere,
1 Renzo D e Felice , Mussolini il duce. Parte I: Gli anni del consenso 1929-1936, Torino,Einaudi, 1974, pp. 949, lire 15.000. Tutte le volte che nel corso di questa nota diamo una indicazione di pagina senza altri dettagli ci riferiamo logicamente a questo volume.2 Renzo D e Felice , Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 125, lire 2.000.
90 Giorgio Rochat
fino a rimuovere dalla biografia del dittatore una parte degli aspetti più negativi della sua opera di governo; procedimento tanto più grave e arbitrario poiché in buona parte del volume la biografia del duce si trasforma in una ricostruzione del regime inaccettabile perché basata sullo studio di una parte soltanto dei suoi problemi. L ’errore di De Felice, ci sembra, è di non voler ammettere i limiti della pur ampia documentazione raccolta, tentando perciò di nascondere le lacune della sua ricostruzione oppure di negar loro ogni importanza o più semplicemente non dando mostra di avvedersene. In effetti una valutazione dettagliata dei risultati delle ricerche di De Felice non è facile per la mancanza di una struttura articolata ed esplicitata del volume (e in subordine di un indice per argomenti, indispensabile in un’opera di tanta mole); basti ricordare che le quasi mille pagine sono divise soltanto in sette capitoli (due dei quali di duecento pagine) e non in paragrafi o altre ripartizioni interne3. Ci limiteremo pertanto a segnalare le lacune dei settori a noi più noti, cioè la politica militare e coloniale, senza alcuna pretesa di completezza.Non possiamo tuttavia rinunciare preliminarmente a indicare la lacuna forse più significativa politicamente e più grave metodologicamente dell’intero volume, ossia la rinuncia esplicita a prendere in considerazione l ’ampiezza e le conseguenze della repressione poliziesca nella valutazione della fascistizzazione della società italiana negli anni Trenta. Affrontando questo tema, scrive De Felice a p. 181: « I l momento repressivo del <consenso deve però, per così dire, rimanere sullo sfondo; non è infatti dubbio che a livello di massa esso, pur avendo una importanza che non può essere sottovalutata, ne ebbe molto meno rispetto a quello che potremmo definire di formazione e di attivizzazione del consenso », come la stampa, la radio ed in genere l’organizzazione della propaganda. Si può capire un atteggiamento critico verso le degenerazioni agiografiche che anche l ’antifascismo conosce, ma dinanzi ad un rifiuto così netto di prendere in considerazione una politica repressiva dell’ampiezza di quella fascista (di cui non è fatto altro cenno in tutto il volume) non si sa se parlare di opportunismo filofascista (per quanti tedeschi anche i campi di sterminio non sono rimasti sullo sfondo, in modo da non turbare coscienze e ricordi!) o di illusione provinciale di dimostrare originalità e indipendenza rovesciando l ’impostazione storiografica tradizionale4. Sul piano metodologico, come si può pensare di poter studiare la propaganda del regime lasciando « sullo sfondo » una delle sue componenti costitutive, ossia il monopolio dell’informazione e dell’organizzazione politica? Ogni discorso di Mussolini, ogni titolo di giornale, ogni discussione ideologica o manifestazione propagandistica degli anni Trenta può essere preso in considerazione come documento storico solo se si ha luci
3 De Felice ha così poca cura di evidenziare le articolazioni del suo volume che, ad esempio, a p. 134 annuncia che i punti essenziali del programma del governo del 1929 sono quattro e ne enumera subito due; solo il lettore molto paziente e attento può però cogliere il terzo punto a p. 146 e il quarto addirittura a p. 178, visto che l ’autore disdegna aiutarlo con l’aiuto di qualche accorgimento tipografico.4 Una piccola riprova dell’atteggiamento « distaccato » con cui De Felice guarda la repressione dell’antifascismo si ha a p. 184, nota 1, dove l ’autore, ricordando il desiderio di Mussolini che la stampa desse un’immagine serena e senza nubi della vita nazionale, fornisce questa esemplificazione degli argomenti di cui era vietato dare notizia: « i suicidi, i parti mostruosi, le condanne al confino, delitti particolarmente efferati, eccetera ».
Il quarto volume della biografia di Mussolini 91
damente e continuamente presente che prima di queste affermazioni e manifestazioni c’erano necessariamente la soppressione di ogni libertà di opposizione e di critica, la distruzione di ogni movimento avversario, la diuturna opera di prevenzione e persecuzione poliziesca contro ogni tentativo non allineato. I discorsi di Mussolini e le polemiche della stampa del regime sono documenti costituzionalmente diversi dai discorsi o dalla stampa di Giolitti o di De Ga- speri, perché nascono in una situazione basata sul « momento repressivo » e quindi non devono tener conto delle opposizioni, ma solo di esigenze propagandistiche senza possibilità di replica.
E veniamo alla politica militare. In altra sede abbiamo avuto occasione di lamentare lo scarso interesse di De Felice per il ruolo dei militari nell’avvento e nel consolidamento della dittatura fascista5. Dobbiamo ora constatare che il problema del ruolo delle forze armate nel regime, appena accennato nel terzo volume della biografia, continua ad essere eluso pure nel quarto. L ’unica conclusione del rapidissimo esame di De Felice (sei pagine, quasi per metà occupate da un promemoria inedito di Giuriati) è che Mussolini difendeva le forze armate dalle ingerenze fasciste e dalle aspirazioni ad un riordinamento efficien- tista per evitare « gravi difficoltà con la monarchia » (p. 286): una conclusione non solo superficiale (le forze armate avevano un peso politico autonomo e niente affatto trascurabile, dato che continuavano a detenere il monopolio di un intervento armato in caso di crisi politica), ma deludente per chi ha presente il ruolo determinante del dittatore nella preparazione militare italiana. Presidente della commissione suprema di difesa, che tracciava le linee generali della politica bellica nazionale, responsabile politico del coordinamento delle forze armate come presidente del Consiglio, dopo l ’esautoramento del capo di stato maggiore generale nel 1927, infine ministro della Guerra, della Marina e dell ’Aeronautica dal 1925 al 1929 e dal 1933 al 1943, Mussolini concentrò nelle sue mani un potere così grande nelle scelte politico-strategiche nazionali da richiedere al biografo una trattazione particolarmente attenta, sia che si voglia sostenere che queste responsabilità furono effettivamente esercitate, sia che si ponga l’accento sul vuoto di potere al vertice delle forze armate derivante dallo scarso interesse del dittatore per le reali esigenze della difesa (un atteggiamento politicamente assai significativo, da sottolineare e motivare). Da un punto di vista strettamente biografico come da un punto di vista generale, la sbrigatività con cui De Felice liquida i problemi militari non è giustificabile, a meno che non sia la conseguenza della scarsezza di materiale documentario disponibile — ma in questo caso la lacuna forzata andava segnalata esplicitamente. Anche lo studio della politica coloniale presenta lacune di un certo rilievo, malgrado la relativa abbondanza della documentazione accessibile. Ad esempio De Felice sottolinea giustamente che l’espansionismo italiano nel Mediterraneo e in Africa è una delle costanti della politica estera del regime e uno dei punti di incontro tra nazionalismi vecchi e nuovi e illustra l’ostinata ricerca di compensi coloniali in mezza Africa, ma tace del tutto sulla lunga guerra con
5 G iorgio Rochat, L ’esercito dopo il 1922, in « Quaderni storici delle Marche », 1969, n. 12, pp. 438-45: si tratta di un intervento in un dibattito a più voci sui due primi volumi della biografia di Mussolini.
92 Giorgio Rochat
dotta dal 1922 al 1932 dalle truppe italiane per la « riconquista » della Libia. Eppure queste operazioni costituiscono l ’espressione più concreta dell’espansionismo italiano nel primo decennio del regime, furono condotte in parte sotto la diretta responsabilità di Mussolini (ministro delle Colonie dal 1928 al 1929) e sempre sotto il suo vigile controllo e rappresentano per certi aspetti un tragico salto di qualità nella guerra coloniale italiana — tutti aspetti per i quali esiste ormai un minimo di documentazione accessibile e di studi6. Un altro problema che non interessa a De Felice (eppure servirebbe a precisare la preparazione e l ’attendibilità dei disegni coloniali di Mussolini) è il livello di conoscenza dell’Etiopia che i circoli dirigenti italiani avevano nel momento in cui ne pianificavano la conquista. A noi sembra che nessuno (né Mussolini, né Guariglia, né la « carriera » così fiera della sua competenza, né i tanti conquistatori fioriti in Italia) si preoccupasse realmente di studiare l ’Etiopia al di là delle sparate pubblicitarie e di definire fino a che punto la sua messa a valore fosse facile e realmente utile e produttiva. De Felice non si pone il problema, sembra avallare l’illusione che l ’Etiopia potesse diventare una colonia di popolamento (p. 415) e finisce con l ’accettare come normale che tutti gli sforzi del regime e della « carriera » fossero rivolti all’acquisizione di un paese mitico, del quale nulla di concreto si voleva sapere perché a tutti conveniva una propaganda falsa e bugiarda che inventava ricchezze senza fine e senza base (p. 623).
Altre lacune e reticenze potrebbero essere individuate nella ricostruzione defe- liciana dell’aggressione all’Etiopia, se avessimo lo spazio necessario: basti ricordare la sottovalutazione incomprensibile del ruolo avuto da Mussolini nell’impostazione di una guerra di grandi dimensioni e ambizioni (fu grazie al suo intervento che gli effettivi italiani in Africa orientale passarono in cifra tonda da cento a cinquecentomila) e l ’incredibile svalutazione del chiarissimo promemoria di Mussolini del 30 dicembre 1934. Anche le reiterate pressioni del dittatore durante le operazioni per ottenere una vittoria rapida e definitiva sono relegate in secondo piano, così come è passato sotto silenzio (tranne un cenno pienamente allineato alla propaganda fascista del tempo a p. 724) l ’impiego da parte italiana di moderne e micidiali tecniche di massacro e particolarmente di gas asfissianti, politicamente costosi ma ritenuti necessari per accelerare il crollo abissino. Tutti questi elementi contrastano con la tesi defeliciana che Mussolini cercasse in Africa orientale una vittoria limitata con strumenti essenzialmente diplomatici, e ciò ne spiega l’accantonamento. Altrettanto e forse più gravi sono poi il disinteresse di De Felice per il problema dell’organizzazione dell’impero, in cui Mussolini ebbe un ruolo decisivo e singolarmente negativo, e la vergognosa liquidazione in due righe sole (p. 745, nota 1) della prolungata e aspra resistenza abissina e delle brutali repressioni italiane, sempre controllate, anzi eccitate da Mussolini7.
6 Ci permettiamo di rinviare al nostro articolo: La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1931-32, in « Il movimento di liberazione in Italia », 1973, n. 110; si tratta di uno studio condotto su documenti del fondo Graziani dell’Archivio centrale dello stato, che, come vedremo, De Felice conosce.7 Rinviamo ad un nostro recente studio, pure condotto sui documenti del citato fondo Graziani: L'attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-37, in « Italia contemporanea», 1975, n. 118.
Il quarto volume della biografia di Mussolini 93
Sia pure nell’ambito relativamente ristretto della politica militare e coloniale possiamo così indicare una serie di lacune e reticenze nella ricostruzione di De Felice (e il discorso naturalmente potrebbe essere esteso ad altri settori dell’opera) che non sono da considerarsi casuali, perché riguardano sempre argomenti che avrebbero messo in triste luce Mussolini e il regime, oppure indebolito tesi care all’autore. Elenchiamo queste lacune soprattutto per mettere in luce i limiti di una oggettività sbandierata. L ’oscillazione legittima tra il taglio puramente biografico e quello più generale e la conseguente libertà dell ’autore nella scelta dei temi su cui soffermarsi non possono infatti essere invocate per coprire le distorsioni e omissioni necessarie a un’operazione culturale dell’ampiezza di quella intrapresa da De Felice.
Il problema delle fonti
Il maggior pregio della biografia di Mussolini che stiamo esaminando, come viene generalmente riconosciuto, è l ’ampiezza della documentazione su cui è condotta, tale da rappresentare un passo avanti nelle ricerche d’archivio sul regime fascista. Il discorso trascende i limiti della biografia di Mussolini e dovrebbe investire la politica della ricerca storica in Italia; è un fatto che De Felice ha svolto un ruolo positivo di battistrada nello sfruttamento dell’Archivio centrale dello stato, dove il suo virtuale monopolio degli anni passati si è tramutato in un’apertura sempre più larga per tutti gli interessati. C’è da augurarsi che analoga vicenda possa ripetersi per l’archivio del ministero degli Esteri, che per la preparazione del quarto volume della biografia di Mussolini è stato aperto a De Felice in una misura finora mai verificatasi per uno studioso esterno al ministero stesso; speriamo poi fortemente che lo studio del regime fascista nella guerra mondiale porti il nostro autore a interessarsi degli archivi militari con pari successo e uguali conseguenze.
Il riconoscimento dell’ampiezza delle ricerche di De Felice non può esimerci da un esame per quanto possibile attento della documentazione da lui utilizzata, specialmente perché nel volume in questione manca qualsiasi informazione sui fondi consultati (una lacuna non del tutto corretta). A grandi linee le fonti di De Felice per il suo quarto volume possono dividersi in quattro gruppi: l’Archivio centrale dello stato, il ministero degli Esteri, le fonti ufficiali del regime e gli ambienti fascisti. Con quest’ultima espressione, forzata- mente generica, ci riferiamo alla memorialistica e agli archivi privati dei protagonisti fascisti del ventennio, nonché alle loro testimonianze e indicazioni: una serie disparata di fonti che il nostro autore ha saputo reperire con anni di pazienti ricerche, sfruttando il suo atteggiamento di studioso « al di sopra delle parti », fino a diventare di gran lunga il maggior esperto di questo particolarissimo settore. Una verifica dall’esterno è impossibile; siamo solo in grado di osservare che De Felice dimostra a volte troppa fiducia in una memorialistica interessata e non sempre limpida8. Una critica analoga si può muovere alla
5 Ad esempio, a p. 597 De Felice considera « estremamente interessante » e attendibile il giudizio entusiasta di Guariglia sul comportamento di Mussolini nella crisi etiopica, di-
94 Giorgio Rochat
sua accettazione remissiva delle fonti ufficiali consultate: una sola affermazione di Mussolini in un contesto sfacciatamente demagogico può diventare la prova di un orientamento politico complesso e importante9. L ’utilizzazione di queste fonti ha dei limiti non denunciati: accanto ai discorsi ed agli scritti destinati alla pubblicazione di Mussolini e dei maggiori gerarchi, esaminati minuziosamente, troviamo solo una parte della documentazione edita dai ministeri: particolarmente scarsa quella economica, a sua volta accettata senza dubbi. Mancano gli atti parlamentari ed anche lo studio della stampa tocca solo le testate più note e fa in sostanza affidamento sulle raccolte di ritagli della segreteria di Mussolini.Una valutazione delle ricerche di De Felice negli archivi del ministero degli Esteri, finora chiuso agli studiosi, è logicamente impossibile; al massimo si può rilevare che il nostro autore non ha preso in considerazione l’archivio del ministero dell’Africa italiana, attualmente depositato presso quello degli Esteri. Qualcosa di più possiamo invece dire sull’Archivio centrale dello stato, la cui utilizzazione ormai più che decennale costituisce sempre la base degli studi di De Felice. Se non andiamo errati, i fondi più sfruttati sono la segreteria particolare del duce, sottoposta a uno spoglio di eccezionale minuzia, la presidenza del Consiglio e le carte di polizia del ministero degli Interni. Diversi fondi minori si accompagnano a questi filoni principali, che forniscono al lavoro di De Felice la sua caratterizzazione precipua. Se la presidenza del Consiglio può offrire un quadro generale del regime, nei limiti però degli interessi di governo di Mussolini (nel senso che in questo periodo conserva traccia delle iniziative del dittatore e non del lavoro collegiale dei ministri), le carte di polizia e quelle della segreteria del duce infatti riflettono prevalentemente i rapporti all’interno del fascismo e del suo gruppo dirigente e le esigenze di potere e di prestigio di Mussolini, secondo preoccupazioni che, schematicamente, potremmo definire di politica interna nell’accezione poliziesca del termine. In altri termini, la documentazione dell’Archivio centrale è molto ricca per certi settori quanto carente per altri: non sono rappresentati (salvo carteggi marginali) i ministeri militari, quello degli Esteri, quello delle Colonie ed hanno in genere scarso rilievo i ministeri economici; inoltre i fondi più utilizzati da De Felice non sono in grado di correggere almeno parzialmente questi squilibri, bensì li accentuano dando importanza soprattutto al ruolo personale del dittatore. Si tratta di una situazione abbastanza corrente, purtroppo, nella ricerca storica italiana contemporanea, che non a caso si occupa prevalentemente di politica interna. Ci sembra però che De Felice non abbia coscienza dei limiti della sua documentazione e finisca col rimanerne eccessivamente condizionato,
menticando che il diplomatico era stato forse il più vicino collaboratore del dittatore nel periodo così generosamente e « imparzialmente » lodato. Subito dopo il nostro autore si affida alle memorie di Lessona per sostenere la non premeditazione dell’aggressione italiana all’Etiopia (pp. 609-10), come se anche Lessona non fosse parte in causa e le sue memorie non fossero sfacciatamente distorte, per non dire falsificate, nella maggior parte delle loro pagine.9 Cfr. p. 163: una sola frase detta al Consiglio nazionale delle corporazioni nell’ottobre 1930 diventa la dimostrazione che Mussolini aveva capito subito la gravità della crisi economica, la difficoltà e la lunghezza della sua ripresa. Una semplice formuletta deprecativa (« demagogia a parte », p. 169; « sfrondato dagli orpelli retorici e dagli estremismi verbali », p. 160) basta poi a ridare dignità politica alle declamazioni più accese e roboanti.
Il quarto volume della biografia di Mussolini 95
riducendo i problemi dell’Italia fascista a quelli della fortuna personale del dittatore. Portiamo ad esempio le pagine .sull’economia italiana nella grande crisi, che si appoggiano acriticamente solo sulle carte di Mussolini e dei suoi stretti collaboratori, trascurando le fonti di parte industriale. De Felice può così arrivare alla conclusione che il rilancio della produzione fu pagato dal mondo industriale « con una notevole perdita di autonomia e di coesione, cioè di potere, sul terreno politico » (p. 158) e poi sostenere che in questo modo il regime riuscì a rendersi « in buona parte [...] autonomo dalle grandi forze economiche », affermando concretamente « la preminenza della politica sull’economia » (p. 325): una conclusione che contrasta radicalmente con tutti gli studi finora condotti e basati su un più ampio ventaglio di fonti.
Del resto, stendere un velo di silenzio sulle fonti non gradite sembra essere un’abitudine del nostro autore. Fa specie che le carte di polizia sui confinati politici siano utilizzate per Arpinati (pp. 297-98) e non per le migliaia di comunisti e di democratici, di patrioti slavi e di notabili abissini che conobbero il confino, per parte dei quali Mussolini manifestò un interesse personale assai vivo, dando prova non tanto di « crudeltà », quanto di lucidità politica nella repressione spietata di ogni opposizione reale 10. Un altro esempio indicativo, anche se settoriale, della selezione delle fonti effettuata da De Felice è fornito dall’uso del fondo Graziani dell’Archivio centrale dello stato, uno degli archivi privati più ricchi e disordinati, da cui proviene la cartina di p. 811 sui progetti di spartizione dell’Etiopia dell’aprile 1936 (cfr. p. 740, nota 2). La lunga esperienza che abbiamo di questo fondo ci permette infatti di escludere che De Felice (o uno dei suoi collaboratori: ma il problema non cambia) abbia potuto trovare questa cartina senza aver visto con molto scrupolo una ventina di gonfie e disordinate buste sull’Africa orientale 1935-1937, in cui sono documentate con la massima evidenza le pesanti e continue ingerenze di Mussolini nel governo dell’impero e le drammatiche vicende della resistenza abissina. In altri termini, se De Felice, come abbiamo già lamentato, liquida questi problemi in due sole righe (p. 745, nota 1), non lo fa perché ignori la ricca documentazione dell’archivio di Graziani, ma per una scelta politica dettata dall’esigenza di non turbare il quadro sereno della conquista dell’Etiopia come « capolavoro politico » del dittatore. Il diritto dello storico di compiere scelte politiche sul proprio materiale è indiscutibile (anche se proprio il nostro autore asserisce il contrario in nome di una illusoria e abusata « oggettività »), ma non si estende fino a nascondere una documentazione così ricca su temi così importanti.
10 Le brevi righe di De Felice sull’argomento ci sembrano singolarmente superficiali (p. 298). Condizionare la liberazione dal carcere o dal confino ad una domanda di grazia o ad un gesto di adulazione può forse essere una testimonianza di clemenza nei riguardi dei pochi fascisti colpiti da questi provvedimenti polizieschi, anche se si deve tener conto che queste condanne erano dovute a feroci lotte di potere interne al regime (avallate dal dittatore) e non ad una opposizione reale. Per le migliaia di antifascisti il problema era radicalmente diverso, perché chiedere grazia significava rinnegare la propria opposizione al regime; e difatti furono ben pochi coloro che approfittarono della interessata « clemenza » del dittatore. Le carte dell’Archivio centrale dello stato dimostrano con quanta attenzione Mussolini seguisse le sorti degli antifascisti più noti, per i quali aveva avocato a sé ogni provvedimento,
96 Giorgio Rochat
Anche la storiografia contemporanea è scarsamente utilizzata da De Felice, benché ciò voglia dire rinunciare ad un sostanzioso apporto di notizie e interpretazioni. Si è soliti denunciare il ritardo delle ricerche storiche sul regime fascista, non senza ragione; ciò non vuol dire però che i risultati raggiunti debbano essere sistematicamente respinti o ignorati, come usa De Felice, con la conseguenza di pubblicizzare maggiormente le sue ricerche, ma anche di isolarle dal dibattito critico e di impoverirle notevolmente. Come è noto, la storiografia deH’antifascismo italiano non trova credito presso il nostro autore, che la liquida in blocco come « tendenziosa », salvo recuperarne giudizi isolati per avallare proprie conclusioni (si veda l’uso scientificamente inaccettabile delle Lezioni sul fascismo di Togliatti, o meglio di singoli brani enucleati dal contesto e dall’ipotesi interpretativa di Togliatti); tipico il suo atteggiamento di ripulsa sdegnosa nei riguardi di un uomo e uno storico della statura di Salvemini, che pure non può essere accusato di « ideologismo » e « scelte aprioristiche » se non per il suo limpido e dichiarato antifascismo (pp. 336-37, 516-17 e 650). Protagonisti e testimoni fascisti, abbiamo già notato, sono invece per De Felice fonti sicure, con qualche riserva per gli eccessi demagogici; non è un caso che, malgrado tutte le scoperte d’archivio, Guariglia e Guarneri continuino ad essere le fonti determinanti per la politica diplomatica e finanziaria. Il rifiuto aprioristico si estende poi alla maggior parte della storiografia contemporanea, specie di sinistra: De Febee pretende di scrivere sui rapporti tra industria e regime, per fare l ’esempio più clamoroso, prescindendo dagli studi di Catalano, Foa, Castronovo, Mori, Fano Damascelli e parimenti ignora le ricerche più moderne sulla politica agraria del regime e sull’atteggiamento delle masse. Quanto siano dannosi questi rifiuti settari alla serietà del lavoro è dimostrato dal fatto che le pagine più convincenti del nostro autore sono quelle in cui egli accetta di utilizzare la storiografia disponibile, per esempio per lo studio delle tensioni tra chiesa cattobca e regime e per l’impostazione della politica estera fascista degb anni Venti (ma non più per gli anni Trenta).
Come risulta da queste nostre precisazioni, ci sembra privo di basi il mito di « oggettività » e completezza che ambienti culturali e editoriali interessati hanno costruito intorno a De Felice (non senza la sua collaborazione), facendone il rinnovatore, se non addirittura l ’iniziatore degli studi italiani sul fascismo. È questo mito che permette al nostro autore di avanzare tesi di un certo ii- lievo senza fornire un corredo documentario critico, talvolta senza neppure un solo appiglio metodologicamente accettabile: si pensi all’individuazione del mO' mento di massimo consenso del regime al 1932-34 (una scelta non documentata, che appare dettata dal desiderio di sottolineare il successo del governo fascista dinanzi alla grande crisi e di togliere all’aggressione all’Etiopia una motivazione di politica interna), oppure al tentativo di riservare agli ambienti borghesi illuminati il monopolio di un antifascismo corretto perché moderato, inventando un avvicinamento progressivo e inarrestabile delle masse operaie al regime (sulla base, al solito, di testimonianze fasciste interessate, non vagliate
e con quanta insistenza egli offrisse o facesse offrire la grazia in cambio di un piccolo gesto di resa: un aspetto del « momento repressivo » del regime che non dovrebbe essere lasciato fuori dalla biografia mussoliniana.
Il quarto volume della biografia di Mussolini 97
criticamente né sorrette da una più ampia documentazione: cfr. pp. 73-95 e 192-98). Contro queste mistificazioni va puntualizzato che le ricerche di De Felice, per quanto ampie e per certi settori nuove, hanno limiti « oggettivi » nel contenuto degli archivi, ma soprattutto metodologici (manca persino l’interesse per un discorso critico sulle fonti) e politici, pericolosi perché non confessati.
L’interpretazione del fascismo
La posizione di De Felice dinanzi al fascismo, espressa più volte in sedi diverse e pubblicizzata anche dalla grande stampa, ha il pregio della chiarezza anche se non quello della novità: dobbiamo oggi volgerci indietro « a considerare l’intero arco del periodo fascista senza altra preoccupazione che quella di comprenderlo storicamente senza lasciarci suggestionare dal clamore che certe vicende suscitarono in Italia e all’estero » (p. 55). Questa impostazione legittima la coesistenza nel volume che stiamo esaminando di giudizi nettamente contrastanti. Le affermazioni di De Felice sulla supremazia della politica sull ’economia negli anni Trenta, che abbiamo riportato sopra, sono contraddette a p. 168 dalla descrizione del sistema di equilibri su cui si basava il regime, in cui Mussolini, lungi dal poter esplicare liberamente il suo potere, aveva la funzione di mediatore tra forze più grandi di lui. Quasi metà del volume è spesa per sostenere che l’aggressione italiana all’Etiopia non aveva origine nella crisi del regime, ma a p. 179 si legge che il nuovo orientamento della politica estera fascista intorno al 1934 era dovuto in parte all’avvento di Hitler, in parte era « la conseguenza del desiderio e della necessità per Mussolini di cercare sul terreno della politica estera una rivalsa agli scacchi subiti su quello della trasformazione dei caratteri di base della società italiana » u. Contraddizioni di questo genere sono possibili, anzi relativamente frequenti-, perché sono la logica conseguenza del rifiuto del nostro autore di racchiudere la complessità del reale in schemi interpretativi che inevitabilmente comportano una presa di posizione dello storico; ed è proprio il rifiuto di ogni schema che porta De Felice ad allineare ed appiattire argomenti diversi, senza troppa preoccupazione di evidenziare i loro legami, in una libertà che gli consente di non tener conto delle sue stesse conclusioni, ma di smentire i suoi giudizi concreti per rimanere coerente alle sue prese di posizione generali — dove, ovviamente, ricompare quella politica che si voleva cacciare. Il risultato non è un discorso « apolitico », ma un discorso politico con molte contraddizioni interne che ne dimostrano la debolezza e spiegano il rifiuto di schemi capaci di chiarire i rapporti tra storico e lettore. 11
11 A p. 299 De Felice, riprendendo un concetto caro alla storiografia fascista, fissa al 1932-34 lo « spartiacque » tra la « parabola ascendente » del fascismo e quella discendente, così illustrata: « La logica del potere dittatoriale cominciava ad intaccare profondamente Mussolini e a renderlo sempre più prigioniero del proprio mito e della propria grandezza. Una grandezza che aveva bisogno assoluto sia di sempre nuovi successi sia di una facciata totalitaria, senza crepe e senza ombre di nessun genere, e che, pertanto, non poteva affidarsi che alle mani di esecutori mediocri o senza scrupoli ». Si noti come De Felice dia per scontata una « parabola ascendente » (cui fa seguire una parabola così poco discendente che considera l ’aggressione all’Etiopia il « capolavoro politico di Mussolini », p. 642), parli di
L ’esempio più evidente e sconcertante di questa tecnica è la ricostruzione dell’opera di governo del fascismo dal 1929 al 1934, dove la elencazione della bruciante serie di fallimenti del regime, registrati abbastanza puntualmente anche se minimizzati, non ha alcuna incidenza sulla presentazione quasi sempre favorevole di Mussolini, personaggio di così alta statura da non poter essere sminuito dai disastri della sua politica. Si passa infatti dall’insuccesso dei piani di bonifica integrale (pp. 143-46) a quello più generale dei programmi di ru- ralizzazione (« un fallimento così totale che la società italiana nel secondo decennio fascista si sviluppò [...] lungo una linea praticamente opposta a quella che, sullo scorcio degli anni Venti, Mussolini aveva deciso di farle seguire », p. 147), senza dimenticare la mancanza di risultati della battaglia demografica e di quella contro l’urbanizzazione (pp. 154-56)12. Anche il corporativismo non incise sui problemi reali, ma contò successi solo nel campo della demagogia e della propaganda (pp. 162-63 e 291-92: Bottai però si salva) e Mussolini dovette in pratica rinunciare a controllare la grande industria, pur sacrificando a suo favore tutta la politica economica del regime (pp. 163-78). Soprattutto il fascismo, malgrado l’ampiezza assunta dalla repressione e irreggimentazione interna, dovette registrare « l ’impossibilità, per la contraddizione < che noi consento [sic], di creare quella propria nuova classe dirigente che sola gli avrebbe permesso di perpetuarsi nelle nuove generazioni e proiettarsi quindi nel futuro » (p. 228): un fallimento decisivo, che il nostro autore sottolinea più volte, ricordando lo svuotamento del partito, la sua incapacità di raggiungere i ceti medi e di fascistizzare in profondità la scuola e in genere la consapevolezza che il regime aveva di non poter permettere alcun dibattito reale nel paese, anche se ciò voleva dire sviluppare un superficiale conformismo anziché un consenso politico (pp. 181, 187-93, 199 sgg.). Per chi poi conservasse ancora qualche illusione sulla capacità di Mussolini di impostare una politica interna non puramente repressiva, dopo l’elenco dei fallimenti della sua opera di governo, la biografia defeliciana ha in serbo anche giudizi liquidatori sulla preparazione culturale e le dimensioni di statista del dittatore. Con la politica di ruralizzazione, si legge alle pp. 149-50, « Mussolini tendeva a risolvere insieme tutti i problemi della < vecchia > Italia e tutte le aspirazioni della < nuova > Italia; ruralizzare — per quanto la cosa possa apparire a noi assurda, anacronistica e antistorica, un confuso miscuglio, tipicamente piccolo borghese, di motivi e di suggestioni diversissime — voleva dire per lui trasformare alla radice le caratteristiche stesse più intime della società italiana, quelle economiche come quelle morali, e, al tempo stesso, gettare le premesse (< il numero è potenza >) di un nuovo ruolo e di una nuova potenza dell’Italia nel mondo ». Questa serie di valutazioni così drasticamente negative su tutti i piani dovrebbe chiudere il discorso sul fascismo o su Mussolini, a rigor di logica; oppure portare alla conclusione che il ruolo del dittatore e del partito si esauriva nella
grandezza del dittatore e non di mito della sua grandezza e riversi sugli « esecutori mediocri e senza scrupoli » la responsabilità del declino del regime.12 De Felice tuttavia accetta la più vecchia ed abusata propaganda fascista, quella che si rimprovera ai testi per le elementari, salvando dal fallimento della politica di ruralizzazione la bonifica dell’Agro pontino (« uno dei maggiori successi politici del fascismo », p. 146) e la battaglia del grano (pp. 147 e 152-53), in entrambi i casi senza sottoporre la retorica fascista alla minima verifica critica sui fatti.
98 Giorgio Rochat
II quarto volume della biografia di Mussolini 99
gestione della politica interna repressiva, lasciando alle grandi forze economiche le scelte che contavano. E invece De Felice pare considerare queste pagine perfettamente compatibili con quelle altrettanto numerose ed esplicite di approvazione per il regime e soprattutto per Mussolini, senza indietreggiare dinanzi a battute ridicole e provocatorie nel loro enfatico omaggio al mito del duce, come quelle sul suo stile di lavoro (pp. 19-20) e sulla sua superiorità intellettuale e culturale nei confronti di Hitler, Stalin e buona parte dei dirigenti occidentali (p. 24).
Esemplifichiamo ancora le nostre critiche prendendo in esame le pagine sulla ruralizzazione, che secondo De Felice fu il tema centrale e qualificante della politica fascista dal 1929 al 1934 circa. L ’origine di questa politica è indicata in alcune convinzioni di Mussolini (largamente diffuse, aggiungiamo noi, negli ambienti più chiusi e reazionari del paese), che si riassumono nella necessità di un ritorno generale alla terra, reso possibile da un rilancio della produttività agricola, che offrisse un’alternativa vincente allo sviluppo di una società industriale sovvertitrice dei valori tradizionali e poco permeabile al fascismo (pp. 147-48)13. Un programma ambizioso, di cui lo stesso De Felice indica i limiti più evidenti e il totale fallimento (solo parzialmente addebitato alla crisi economica, cfr. p. 152) per poi concludere sbrigativamente che si verificò allora « questo fatto singolare: che l’Italia divenne paese industriale proprio durante gli anni della ruralizzazione fascista » (p. 156). In questo quadro tutto ci sembra sbagliato, a cominciare dalla ricerca delle cause della ruralizzazione solo nel pensiero di Mussolini; questa politica infatti rispondeva mirabilmente agli interessi di gruppi ben definiti di agrari e di industrali, di cui De Felice non sembra nemmeno sospettare l ’esistenza. L ’ostinato rifiuto che egli fa della storiografia esistente lo porta a ignorare praticamente la battaglia del grano (salvo qualche accenno nella linea della propaganda fascista) e le implicazioni profondamente reazionarie della ruralizzazione, che non fu affatto un fallimento per tutta una serie di gruppi e interessi settoriali. Né il nostro autore si chiede quali classi e gruppi sociali pagassero le spese di questa politica; le condizioni di vita e di lavoro dei contadini « non registrarono sostanziali mutamenti e, anzi, sul piano immediatamente economico subirono spesso un peggioramento » (p. 153): un delicato eufemismo se si pensa che i salari agricoli furono praticamente dimezzati! Infine, il fatto che malgrado tutti i discorsi di Mussolini fosse l’industria a svilupparsi e non l’agricoltura, non vale a indurre il nostro autore a riconsiderare la sua interpretazione per adeguarla ai fatti portati in luce dalla ricerca storica, che preferisce ignorare o minimizzare. Le pagine sulla ruralizzazione si configurano in definitiva come un fragile castello costruito sulle dichiarazioni del dittatore e sulla propaganda del regime e non sui dati e la ricerca storica, che offre conclusioni contraddette nelle pagine precedenti o seguenti dello stesso volume, confondendo le carte in tavola (non importa quanto consapevolmente) per evitare di mettere l’Italia fascista dinanzi alle sue responsabilità storiche.
Cerchiamo di vedere ora se i numerosi riconoscimenti di De Felice per l ’opera
13 Da notare che in questa sede non si accenna ai supposti successi del regime tra le masse operaie.
100 Giorgio Rochat
del fascismo e di Mussolini in particolare si compongano in. una interpretazione generale; se cioè il volume in esame non si limiti a rifiutare le interpretazioni antifasciste e ad allineare giudizi contrastanti e equivalenti sul regime, con un significato abbastanza trasparente di rivalutazione, ma fornisca anche un tentativo di comprensione globale che tenga conto dei fallimenti, dei successi e dei propositi reali di Mussolini e dei suoi. Benché sia evidente il rifiuto del nostro autore di impegnarsi esplicitamente nel disegno di un quadro d ’insieme che non potrebbe non portare alla luce le contraddizioni e le lacune della sua opera, dalle pagine del volume emerge a tratti uno schema sufficiente- mente elastico per offrire al regime tutte le giustificazioni di cui ha bisogno, con il conforto di una terminologia alla moda: la « strategia dei tempi lunghi, lunghissimi » (p. 25), che Mussolini avrebbe condotto al di sopra e talora contro lo stesso partito fascista. A partire dal 1927-28, scrive De Felice, la profonda sfiducia negli italiani e nello stesso suo partito, incapaci di apprezzare e sviluppare un autentico rinnovamento nazionale, indusse il dittatore (ma non sarebbe meglio dire il demiurgo?) a spostare « il terreno della realizzazione della sua politica dall’oggi al domani: non riuscendo ad incidere a fondo negli italiani d ’oggi aveva puntato su quelli di domani, sulle nuove generazioni, convinto di poterle plasmare secondo i suoi desideri e di metterle quindi in grado di realizzare nel futuro quella < vera > Italia fascista che egli si rendeva conto di non essere riuscito e di non poter più riuscire veramente a creare » (p. 2 6 )1+. La politica di ruralizzazione mirava appunto a porre le premesse ambientali, per così dire, di questo progressivo rinnovamento della società italiana, in cui il ruolo maggiore spettava pur sempre al partito ed alle altre organizzazioni fasciste che avevano la responsabilità dell’educazione « nazionale » delle nuove generazioni. Il fallimento del regime nell’uno e nell’altro campo avrebbe avuto come conseguenza un allungamento dei tempi della strategia di Mussolini (sempre distinto e quasi contrapposto al fascismo) e soprattutto l ’adozione di una nuova « didattica », basata sulla ricerca non più di un consenso consapevole, ma di un’adesione irrazionale di tipo religioso. In questa prospettiva troverebbero giustificazione la repressione di ogni opposizione e di ogni critica, anche interna, il monopolio delle organizzazioni fasciste nell’educazione della gioventù e lo sviluppo di tutte quelle forme di coreografica e vuota partecipazione di massa caratteristiche dello « staracismo ». Come scrive De Felice, « grazie a questa vita collettiva e a questa assoluta integrazione nello stato di tutti gli italiani, il regime avrebbe potuto realizzare quella unità di intenti, quella disciplina, quella fede comune che sole gli avrebbero permesso di fare degli italiani e soprattutto dei giovani dei credenti e, quindi, di conseguire la sua piena realizzazione e di proiettarsi nel futuro. Solo creandosi attorno un’atmosfera
14 De Felice ritiene assurda questa prospettiva politica, ma riconosce alla sua radice una idea morale « a suo modo spiritualista », nobilitata dal fatto « di proiettarsi in un futuro in cui il suo ideatore non sarebbe più stato 11 a raccoglierne gli eventuali frutti » (p. 26): un criterio di giudizio piuttosto banale, degno del buon senso comune. Anche la realizzazione dell’ordinamento corporativo sarebbe stata per Mussolini « un problema più del futuro », su un metro addirittura secolare, che del presente, in cui si doveva solo edificarne le premesse senza toccare un’economia in trasformazione (p. 178): un modo più demagogico che elegante per giustificare il sacrificio delle confuse illusioni corporative alle concrete esigenze del grande capitale!
Il quarto volume della biografia di Mussolini 101
religiosa, una < altissima tensione ideale >, il fascismo avrebbe potuto realizzarsi veramente » (p. 245, i corsivi sono dell’autore).Questa « via mistica al fascismo » è presa sul serio da De Felice, come è logico, perché la dissociazione tra la politica concreta del regime, che malgrado le migliori intenzioni è scarsamente difendibile sul piano « morale » come su quello dell’efficacia (quando non ci si fermi al « momento repressivo », beninteso), e la « strategia dei tempi lunghi, lunghissimi » permettono di non coinvolgere tutto il fascismo nel fallimento della sua opera di governo, ma soprattutto rafforza la separazione tra regime e Mussolini, che è il cardine della rivalutazione defeliciana. Non si tratta di una tesi nuova, ma semplicemente dell’interpretazione tradizionale della storiografia fascista e filofascista, che mira appunto a salvare un’immagine positiva del regime, addebitando le sue sconfitte ad una serie di fattori contingenti e riassumendo nella figura di Mussolini tutti i suoi aspetti migliori. L ’ambiguità del taglio biografico dell’opera, la disponibilità degli archivi privati del dittatore e la logica di un’operazione culturale di regime (democristiano, questa volta) incoraggiano De Felice su questa via al punto che il ruolo di Mussolini nel fascismo è un problema non mai toccato nel volume, ma risolto empiricamente e opportunisticamente con quelle oscillazioni tra vicende personali e storia nazionale che abbiamo già indicato. Partito e paese sono di fatto ridotti al terreno grezzo su cui si esercita il genio del duce, che non è mai chiamato a rispondere dei suoi atti, ma solo nobilitato dai suoi successi, e si ripresenta ad ogni capitolo come nuovo, pronto ad affrontare le situazioni più diverse con una carica demiurgica che gli eventi contingenti possono frustrare, ma non mai spegnere.Non ha molta importanza, a questo punto, chiedersi quanto sia consapevole il filofascismo della storiografia defeliciana, perché non sono le dichiarazioni di buone intenzioni o le affiliazioni di partito che contano, ma la sostanza del lavoro presentato al pubblico. Precisiamo in primo luogo che parliamo di filo- fascismo, malgrado l’ambiguità e la sgradevolezza del termine, e non più genericamente di storiografia conservatrice, perché questa nei suoi migliori esponenti presenta un rigore intellettuale e morale e un rispetto delle fonti che non sempre riscontriamo nella produzione defeliciana. In particolare il rifiuto in blocco della storiografia antifascista, sia marxista sia democratica, non può essere ricondotto ad un dissenso costruttivo, nell’ambito di quella libertà di dibattito che per quanto aspra e vivace è essenziale al lavoro storiografico, ma ad una scelta politica di chiusura e di scomunica ideologica che trova riferimento solo negli aspetti più illiberali e provinciali della cultura italiana. La componente più insidiosa del metodo storiografico di De Felice è però la rinuncia a prese di posizioni chiare sui problemi di fondo, in un senso o nell’altro, come se la complessità e contraddittorietà dei fenomeni storici portassero ad un appiattimento di ogni valore e ogni differenza. La biografia di Mussolini non è filofascista soltanto perché prende posizione esplicitamente a favore del dittatore e del regime (anche se non bisogna sottovalutare il peso dei giudizi positivi, solo parzialmente controbilanciati da quelli negativi, ma settoriali, che abbiamo riportato), ma perché tende a dimostrare che è impossibile dare una valutazione univoca e chiara di. un fenomeno delle dimensioni della dittatura fascista. Questa posizione, tipica della cultura fiancheggiatrice del regime (si
102 Giorgio Rochat
pensi all’« apota », cioè all’agnostico Prezzolini, nella famosa polemica con Gobetti), porta ad una storiografìa che, attraverso un frastornante affastellamento di dati non sempre corretti; giunge a giustificare i vincitori proprio perché vincitori. Al limite, un’esaltazione esplicita del fascismo è più costruttiva dell’appiattimento di valori caratteristico della storiografia defeliciana, che, esprimendo una totale sfiducia nelle capacità dell’uomo di conoscere e influenzare il suo destino, finisce col predicare rassegnazione e obbedienza al potere costituito, quale esso sia (purché non realmente rivoluzionario, s’intende). Parliamo perciò di un’operazione culturale filofascista (o fanfaniana, se fosse lecito scherzare su questi argomenti) che si giova di appoggi e collegamenti a vari livelli di potere (da case editrici progressiste come Einaudi e Laterza alle mafie accademiche, dal Consiglio nazionale delle ricerche ad un accesso privilegiato alla televisione ed agli archivi nazionali) per portare avanti l’attacco alla storiografia antifascista e il rilancio di una storiografia opportunista, rispettosa dei potenti e legittimatrice degli equilibri sociali costituiti.
G iorgio Rochat