Questo libro è la bibbia di quanti desiderano realizzare una startup in Italia.
Risponde a tutte le domande di chi ha un’idea e la vuole trasformare in un
business milionario e, soprattutto, svela i trucchi del mestiere per arrivare al
successo. Ma c’è di più. Elenca tutti gli errori da non fare, offre la «mappa» da
seguire e dà le istruzioni dettagliate che ogni aspirante startupper deve
conoscere. Sapete stilare un NDA? Sapete quando proporlo? Riuscireste a
sostenere un «elevator pitch»? Conoscete la differenza tra primo, secondo e terzo
round e le regole di comportamento quando incontrate un venture capitalist?
Siete in grado di stendere un business plan o esporre il vostro business model in
modo convincente? E la formula per realizzare una execution finanziabile? Sapete
dove trovare i primi 100.000 euro e a chi chiedere ulteriori finanziamenti? Bene:
Startup in 21 giorni non si limiterà a darvi tutte le dritte, ma ve le farà vivere. È un
manuale completo e dettagliato, scritto come una storia che accompagnerà i
lettori nella creazione della loro azienda: sbirceremo le «stanze del potere»,
prenderemo parte alle riunioni dove «accadono le cose», assisteremo alla stesura
del piano e avremo accesso alle stesse schede di lavoro di chi già sta costruendo il
suo progetto. Una lettura irrinunciabile per chiunque voglia realizzare una startup
o anche solo comprendere come funziona questo mondo!
L’autore
Lorenzo Ait, classe 1980, è laureato in Scienze della comunicazione. Nasce a
Roma, vive a Palermo, lavora a Milano, potete incontrarlo per lo più in aereo. Il
suo lavoro consiste nel fondare aziende, «automatizzarle», rivenderle o metterle
a reddito: competenze che trasferisce volentieri sia agli imprenditori che vogliono
strutturare aziende più solide (il che, paradossalmente, significa più liquide ovvero
con meno costi fissi e una gestione snella) sia a chi intende realizzare una startup.
Ha una rubrica fissa sulle riviste Riza Psicosomatica e Millionaire, ha pubblicato
diversi libri tra cui, per Sperling & Kupfer, Idiozie geniali, La rivoluzione dei precari
e, con Alfio Bardolla, Milionari in 2 anni e 7 mesi e Business Revolution. Insegna a
giovani (e meno giovani) il metodo, che ha sperimentato lui stesso, per affrontare
il business in modo completamente nuovo e vincente.
www.lorenzoait.com
LORENZO AIT
STARTUP
IN 21 GIORNI
Non tutti gli startupper hanno avuto la fortuna di incontrare un mentor
che spiegasse loro cosa fare e li aiutasse a farlo.
Non tutti gli startupper hanno avuto la fortuna di vivere per un po’
nella «mecca» delle startup, la Silicon Valley, gironzolando nelle sedi
di aziende quali Facebook e Google
e parlare con chi «fa accadere le cose» in quel mondo.
Io ho avuto entrambe le fortune.
Questo libro riporta, nel modo più fedele possibile,
gli insegnamenti che ho ricevuto io.
Non leggetelo come un romanzo, non vuole esserlo.
Non leggetelo neppure come un manuale: le librerie ne sono piene.
Leggetelo, se siete curiosi di scoprire come si comporterebbe con voi un mentor
e quali consigli vi darebbe, per realizzare la vostra startup.
Se poi volete una mano più concreta per realizzare
le vostre idee imprenditoriali,
la mia porta è sempre aperta: il mio sito è www.lorenzoait.com
In bocca al lupo per il vostro progetto!
LORENZO AIT
Lezione n. 1. NDA
Mai partire da quello!
1° marzo - ore 11.30, ufficio del venture capitalist
Entrammo e ci sedemmo. L’uomo che avrebbe deciso il nostro destino era in piedi
di fronte a noi. Alla scrivania, sedeva un ragazzo più giovane in giacca e cravatta
che non avevamo mai visto: il figlio, un socio, il suo avvocato, un manager… Cosa
avrebbe cambiato per noi saperlo? Niente: del resto noi eravamo delle nullità;
nullità con un’idea da milioni di euro, però.
Il giovane ruppe il silenzio. «Bene, spiegateci un po’ chi siete e perché vi
dovremmo finanziare.»
«Abbiamo un’idea che rivoluzionerà per sempre il modo di interagire con i social
network.»
«Mi sembra un’ottima premessa», disse l’uomo coi soldi. «Di che si tratta?»
«Beh, prima di esporvela, vorremmo sottoporvi un piccolo accordo fra
gentiluomini.» Eravamo preparati: lo zio del mio socio aveva predisposto un
NDA;1 magari questo non li avrebbe impressionati, ma avrebbe messo in chiaro
che non avevano a che fare con degli sprovveduti.
L’uomo anziano sbuffò, raccolse il foglio, non lo guardò nemmeno e lo passò al
giovane che lo valutò in maniera sbrigativa. «Pensaci tu», disse.
«Bene», esordì il ragazzo. «Le cose non funzionano così: non potete proporre a un
venture capitalist di firmare un patto di non concorrenza al buio. Capiamo le
vostre ragioni, ma che succederebbe se stessimo già finanziando un’idea simile
alla vostra o se un nostro progetto per caso venisse ripensato e trasformato in
un’applicazione che fa le cose pensate da voi? Questo», concluse restituendoci
l’NDA, «vi fa solo apparire degli sprovveduti.»
Restai di stucco, contrariato e infastidito: avevo insistito io per preparare quel
documento e ne avevo tutte le ragioni. Gli servivamo su un vassoio un’idea da
milioni di euro e non dovevamo tutelarci dal rischio di vedercela rubare? E per
giunta sentirci definire sprovveduti perché temevamo di essere raggirati? Cosa
succederebbe a noi se voi ci rubaste l’idea, piuttosto?! pensai; ma restai in
silenzio, limitandomi a guardarlo con diffidenza. Il giovane mi fissava con
insistenza e non ne capivo il motivo.
«Comprendo i vostri timori, ma così date l’impressione che, oltre all’idea, non
abbiate nient’altro. Ora diteci cos’altro avete.»
Quelle parole chiarivano il punto: non avevamo nulla. Non facemmo l’errore di
guardarci fra noi prima di abbozzare una risposta improvvisata. E comunque
questo «amico del venture» non aveva pronunciato neanche tre frasi che già
provavo per lui un odio sincero.
«Abbiamo sviluppato il progetto.» Mi osservarono sospettosi. «Siamo all’80%...»
mi sbrigai a specificare, «ma non manca molto per una versione beta
funzionante.»
«Questa è un’ottima cosa», disse il giovane. L’uomo coi soldi sbuffò nuovamente,
come uno che al ristorante avesse ricevuto il piatto sbagliato dopo una lunga
attesa. Il ragazzo si rivolse a lui: «Se permetti, vorrei proseguire io con loro, nel
mio ufficio». «Perdi tempo», rispose l’uomo più anziano come se neanche fossimo
lì. C’era già un muro tra noi e lui, e tra poco ce ne sarebbe stato un altro.
Lezione n. 1
Impostare la trattativa chiedendo un accordo di riservatezza ti farà solo apparire
uno sprovveduto.
1 NDA sta per Non-disclosure agreement: è un accordo di riservatezza.
Lezione n. 2. Timing
Il tuo unico asset
1° marzo - ore 11.35, trasferiti in un ufficio più piccolo
«Lasciatemi chiarire un punto prima di proseguire. Il 99% dei match1 che inizia
sottoponendo un accordo di riservatezza, termina con quella frase.»
«Noi siamo l’1%?» mi azzardai a chiedere.
«No. L’1% è chi effettivamente ha le condizioni per proporre un simile
preaccordo. Ma sono pochi.» Ci guardò. «E non voi, comunque», aggiunse per
farci comprendere fino a che punto fossimo delle nullità.
«Ma allora perché non ci avete mandato via subito?» Mentre terminavo la frase,
mi resi conto della gaffe; lui la lasciò cadere. Rispose invece alla domanda che
avremmo dovuto fare.
«Se aveste inventato un macchinario in grado di far regredire un tumore al
pancreas, o la formula chimica per far ricrescere i capelli, allora avreste in mano
qualcosa che può essere tutelato a norma di legge, ma quando si tratta di idee e
di come applicarle, la legge non può proteggere i nostri pensieri: sono infiniti i
modi in cui potremmo modificare la vostra idea e farla sembrare nostra. È per
questo che nel vostro caso non ha senso proporre un NDA, ed è per questo che
avete commesso un errore da dilettanti.»
Rimasi per la seconda volta in silenzio; ma ora si trattava di un silenzio pesante e
consapevole. Magari avevamo a che fare con un maestro delle parole, ma la
nostra leggerezza, sintetizzata in quelle poche, semplici frasi, appariva evidente in
modo imbarazzante.
«Dunque, la situazione è la seguente: voi avete bisogno di soldi per realizzare la
vostra idea rivoluzionaria, ma non potete raccontarla in giro altrimenti rischiate
che ve la rubino; e anche supponendo di trovare uno sprovveduto quanto voi,
disposto a firmarvi un accordo di riservatezza in bianco senza sapere di cosa si
tratti… sono certo che qualunque avvocato potrà confermarvi che il valore legale
di un accordo del genere è pressoché nullo: troppo facile da aggirare, e pochissimi
appigli per dimostrare in un tribunale che l’idea fosse vostra fin dall’inizio. A
questo punto, so che ve lo state chiedendo, perciò lo domando io a voi: come ci si
tutela dal rischio che qualcuno vi rubi l’idea mentre la raccontate in giro per
finanziarla?»
Non lo sapevamo.
«L’unico modo che avete per tutelarvi dal furto della vostra idea...» seguì una
pausa fin troppo studiata, «è muovervi più velocemente di chi la verrà a sapere!»
La voce di Capitan Ovvio2 mi risuonava nella testa: Tutto qua?! Solo questo?
Sbrigarsi a realizzare l’idea prima che lo faccia qualcun altro? Pareva di sì. E non
sembrava affatto la dritta di un genio. Questo tizio mi piaceva sempre meno.
«Una volta finanziata l’idea, sarete tutelati, ma solo da chi vi ha finanziato.»
L’impulso di insultarlo fu bloccato bruscamente da quella precisazione. «Aspetta:
significa che, in ogni momento, anche dopo averla realizzata, una multinazionale
potrebbe decidere di copiarci l’idea di sana pianta, senza che si possa fare nulla
per impedirlo?!»
«No, non è esattamente così… però ci si avvicina molto, in effetti», disse. Poi fece
una pausa di riflessione come se stesse valutando mentalmente le parole da usare
per scoraggiarci meglio. «Possono realizzare un’idea molto simile, cambiare
qualcosa… migliorarne i difetti magari… per poi farvi una concorrenza spietata e
sanguinaria. E anche ammesso che li portiate in tribunale e vinciate una causa,
beh… vi risulta che Samsung abbia smesso di produrre smartphone?!»3
«Roba da pazzi!» esclamai.
Il mio spocchioso mentore sorrideva divertito con l’espressione di chi sta per
giocarsi la battuta: «Benvenuto nel mio mondo».
«Mettiamola così: cosa impedisce a voi e me o a qualunque azienda milionaria,
compresa questa, di copiare l’idea di Google, YouTube o Facebook, crearne una
versione migliore e far loro concorrenza?»
«Direi mancanza di soldi e tempo: le aziende che hai citato esistono da più tempo
e hanno milioni di utilizzatori: partono con un enorme vantaggio competitivo,
inoltre hanno montagne di dollari dalla loro parte.»
Il mio saccente mentore annuiva soddisfatto: l’ovvia risposta a quella sua
domanda retorica lo trovava concorde. «Un vantaggio quasi virtualmente
incolmabile, perché crescono esponenzialmente, esatto! L’essere partiti prima e
la velocità con cui hanno saputo muoversi, espandersi e poi monetizzare4 ha fatto
la differenza!»
Seguì una pausa.
«Bene. Questo è il vostro asset.»5
Adesso sì che ero confuso.
«Aspetta: il nostro asset? Intendi il loro… perché non mi sembra che soldi e tempo
siano esattamente il nostro punto di forza.»
«Deve diventare così: non avete scelta!»
Scattò in avanti e iniziò a sorridere in modo rassicurante, e a me balenò il dubbio
che si trattasse di una persona pericolosa e che non fossimo nella sua stanza
esattamente per ricevere aiuto.
«L’unico asset su cui potete contare è quello di partire prima degli altri e di
muovervi più velocemente. Credetemi: se la vostra idea vale minimamente
qualcosa, ci sono almeno altri duemila cervelli in India e in Cina che la stanno già
pensando, testando e migliorando, correggendone eventuali errori. E non ho
detto duecento, ma duemila: non scherzo mai sui numeri. L’unico vantaggio che
avete per arrivare prima di loro è il timing, vale a dire la velocità alla quale
riuscirete a penetrare il mercato. E dipende solo da quanto in fretta deciderete di
muovervi d’ora in avanti. Allo stato attuale, il vostro vantaggio si assottiglia
sempre più, ogni volta che vi fermate a pensare a quanto sia geniale e
rivoluzionaria la vostra idea, perdendo tempo a tutelarvi da chi potrebbe
rubarvela. Perciò il mio consiglio è: agite adesso! O vi muovete in fretta e correte
tutti i rischi del caso, o siete già fuori dalla gara.»
Cominciavo a innervosirmi: non ci aveva ancora chiesto nulla, ma era come se il
ginecologo della mia ragazza mi stesse domandando se fossi pronto a fare il
padre. Frenai bruscamente per scrollarmelo di dosso. «Quindi dovremmo
rischiare di farci fregare l’idea da voi, per paura che lo facciano duemila indocinesi
che nemmeno ci conoscono?»
«Esatto.»
Lo disse così, senza fare una piega; era serissimo e distaccato, come se la mia
battuta ironica fosse una riflessione seria e pertinente, anziché sarcastica. Il
risultato fu che tornai serio anch’io. «Scherzi a parte, fammi capire: secondo te la
strategia migliore per uno startupper è quella di incrociare le dita e sperare che
non gli rubino l’idea mentre prova a realizzarla?»
«No, la strategia migliore è muovere il culo prima che qualcuno si sieda al tuo
posto.» Rimaneva serio e pacato, però fissava la mia sedia.
«Ma…»
«Se la tua idea è buona, qualcuno prima o poi la realizzerà: datti la possibilità di
essere tu, è così difficile da capire?»
«Ma…» feci ancora.
Indicò l’orologio sul muro. «Tic-tac-tic-tac… Tutto intorno a voi potete osservare il
tempo, unico vero asset per ognuno di noi, che si assottiglia sempre più fino al
momento in cui moriremo tutti.»
Quella frase era fuori registro, ma risultò inaspettatamente efficace per farmi
mettere a fuoco ciò che era davvero importante. «Ok, ok… se si tratta di
competere con chi non ha soldi come me, il tuo consiglio lo capisco; ma
spiegatemi questo: contro una società come la vostra, come potrei anche solo
pensare di essere più veloce? Fuori dai denti, la mia domanda è: come possiamo
fidarci? Una volta che vi diremo in che modo funziona la nostra idea, sarà come se
voi viaggiaste in elicottero mentre noi ci spostiamo in utilitaria; non sarebbe una
gara alla pari!»
Per tutta risposta, sorrise.
«È colpa tua se non è ad armi pari.»
«Colpa mia?»
«Comprendi il perché?»
«No», replicai sincero.
«Ti sei seduto al tavolo giusto, ma lo hai fatto troppo presto. Hai incontrato i
finanziatori e sostenuto il tuo primo match quando ancora non eri pronto. Non
puoi sederti a questo tavolo, il tavolo delle trattative, armato unicamente di una
buona idea. C’è un motivo per cui al casinò, i banchi con la posta più alta hanno
tutti una puntata minima: i grandi giocatori non lasciano margini di manovra ai
novellini. Quando in mano hai solo l’idea, per quanto buona, non hai niente con
cui trattare. E siccome un’idea non vale più nulla dopo che l’hai condivisa, rischi di
bruciarla. Questo lo sai tu e lo sanno i tuoi finanziatori. L’unica cosa che puoi
sperare è che una società come la nostra abbia tante di quelle cose a cui pensare
da ritenere poco profittevole sottrarre l’idea a chi è disposto a dedicare tempo e
risorse per svilupparla, specie se possiamo farti diventare un nostro progetto con
un piccolo investimento.»
«Dovremmo proporvi una joint venture?!»
Sorrise di nuovo. «Ecco un’altra considerazione sbagliata che mi dimostra una
volta in più che siete dei dilettanti. Non siete abbastanza strutturati per proporre
una joint venture: dovreste essere già sul mercato, con una vostra azienda alle
spalle, che produca utili. Per essere chiaro: quando dico ‘un nostro progetto’,
intendo proprio dire un progetto di nostra proprietà; un business controllato da
noi, che coinvolga anche voi, in minima parte.»
Sarei voluto andarmene sbattendo la porta ma, per qualche ragione che non
capivo, mi controllai. «Quindi mi consigli di tornare quando sarò pronto? Di
riprovarci quando avrò in mano qualcosa di più concreto? Di compiere prima i
passi più piccoli?»
«Sì, sarebbe saggio», commentò guardandomi con un’aria di compatimento.
«Peccato che tu non abbia la minima idea di quali siano i passi da compiere prima
di incontrare un venture capitalist. Tu non sai nulla, sei tabula rasa. Sei uno
scherzo della cabala a cui è capitato di vincere la peggiore lotteria della sua vita.
Voglio dire… andare a cercare un venture capitalist troppo presto è stato un
errore, certo, ma la tua vera maledizione è di essere riuscito diosacome a
incontrarne uno! Non è affatto frequente: se posso essere sospettoso… qual è il
tuo segreto? Sei il figlio dell’amico di un amico? Comunque non importa! Sei
entrato in quest’ufficio venti minuti fa, e quanto ci hai messo a bruciarti
completamente?! Personalmente, ti avevo già scaricato al ciao.»
Aprii la bocca per puntualizzare qualcosa, ma non ne uscì nulla.
«L’unico motivo per cui sto ancora parlando con te, la ragione per cui ci siamo
trasferiti nel mio ufficio, è che sei ancora ‘modellabile’, e questo mi stimola.»
Annuivo a intervalli regolari. Aveva detto «modellabile»... intendeva forse fare di
me il suo pongo antistress?!
«Qualsiasi cosa ti proponessi di fare, arrivato a questo punto, non avrai mai la
forza di rifiutarla. Hai annusato l’odore delle stanze dove accadono le cose: qui le
startup diventano case history di successo, e tu muori dalla voglia di restarci, di
diventare una di quelle storie. Per rispondere alla tua domanda: certo che
dovresti tornare indietro e decidere di fare le cose in sequenza, compiere tutti i
passi nell’ordine giusto, e sarebbe di gran lunga la cosa più sensata da fare… ma il
problema è che tu non hai la minima idea di quali siano quei passi.»
Era vero o si stava semplicemente divertendo con me? C’erano dei passi da
compiere prima? Ero caduto vittima di sadismo aziendale? Avrebbe fatto di me
uno scendiletto fingendo di forgiarmi a suo pupillo?! Stavo capendo poco, ma ero
affascinato dal quadro che ne appariva. Ad anni luce dall’impressione che credevo
di aver dato, a eoni da ciò che avevo pianificato, «in una galassia lontana
lontana», la mia convinzione di apparire uno scaltro negoziatore svaniva
inghiottita dai buchi neri. Nel mentre, anche lui era nel suo trip: un trip lucido e
matematico.
«Parliamoci chiaro: anche se tu potessi scegliere – e non puoi – non vorresti mai
tornare indietro, perché la prospettiva di ricevere un finanziamento da noi è
troppo allettante per te, quindi ora ti conviene guardarmi negli occhi e convincere
te stesso che sono degno della tua fiducia; dopodiché puoi solo sperare che io
ritenga la tua idea abbastanza interessante da investirci qualcosa, ma non così
facile da realizzare da volerlo fare per conto mio.»
Era davvero questa la strategia degli startupper che avevano avuto successo?
Fidarsi a scatola chiusa di una società, sperando che avesse cose più importanti
cui dedicarsi? No: quella era la strategia suicida che lui stava suggerendo a me; su
questo era stato fin troppo chiaro.
Che dovevo fare? Avrei riposto tutti i miei sogni di gloria e le mie speranze future,
augurandomi che la sua agenda fosse troppo piena di impegni per trovare uno
spazio di un quarto d’ora tra le dieci e le due per fregarmi? A sentire un tizio
conosciuto venti minuti prima, sì. Tentai un arroccamento sul versante
prospettive a breve termine. «Mettiamo che decidiate di finanziare
completamente la nostra startup: come mantengo il controllo del progetto?»
Vide da lontano il mio bluff e tagliò corto. «È prematuro occuparsi di questo.
Allora, ti va di parlarmi della vostra idea rivoluzionaria? Firmare l’accordo che ci
avete portato è da escludere, ovviamente.»
Avevamo scelta?
Certamente: uscire dalla stanza e cercare altri contatti.
Ma che ne sarebbe stato del timing?!
Quel tic-tac aveva cominciato a risuonarmi nella testa.
Lezione n. 2
Parlare coi finanziatori troppo presto è un errore.
Non puoi sederti al tavolo delle trattative armato solo di una buona idea.
Quando hai soltanto l’idea, il tuo unico asset è il timing.
Tic-tac…
1 Match è il nome dell’incontro con i finanziatori. Solitamente il match è
articolato in tre round, vale a dire tre differenti incontri; il primo dura una decina
di minuti e serve a descrivere il piano di business, il secondo lo approfondisce, il
terzo è quello finale e solo in questo si parla più specificatamente di numeri e
accordi. Durante i vari round si tiene quello che viene definito un pitch, ovvero un
discorso di vendita (un pitcher è un imbonitore da fiera e pitch è appunto il suo
discorso al pubblico, quel «Venghino, signori, venghino» che il pitcher ripete
sempre uguale); per ogni round lo startupper prepara un pitch della durata
specifica, come vedremo più avanti.
2 Capitan Ovvio è un supereroe un po’ bizzarro, l’equivalente a cartoni animati
di Monsieur de Lapalisse.
3 Samsung fu citata in giudizio da Apple per aver prodotto cellulari simili
all’iPhone; nel 2012 Samsung ha perso la causa ed è stata costretta a pagare un
miliardo di dollari alla casa di Cupertino. Sempre nel 2012 il cellulare Samsung
Galaxy S III ha superato le vendite del cellulare iPhone 4S.
4 Monetizzare significa fare denaro; il momento in cui si monetizza è il
momento in cui la startup comincia a incassare.
5 Un asset è una risorsa su cui contare: i soldi sono un asset, le conoscenze, le
competenze, le relazioni eccetera sono un asset.
Lezione n. 3. Execution
L’unica cosa che conta
1° marzo - ore 12.50, bar fuori dall’ufficio
«Bene, la vostra idea è interessante. Ora vi dico che problemi avete. Numero uno,
il fatto che io trovi la vostra idea interessante non ha il minimo valore. Ha del
potenziale, tutto qui; ma trovatemi una sola idea che non ne abbia.»
«Un punteruolo per fare buchi nell’acqua?» Sorrisi e lui sembrò contrariato.
«Una delle dieci applicazioni più remunerative di sempre simula il rumore di una
puzzetta sul cellulare: ha fatto guadagnare oltre 60 milioni di dollari: pensi
davvero che la goliardia non abbia mercato?»
Rimasi serio e imparai a non fare più battute quando si parlava di capitalizzare
un’idea.
«Vi dirò di più, le intuizioni che hanno avuto più successo, non avevano neppure
tutto questo gran potenziale; pensate all’iPad: un computer che non ha accessi
USB e con memoria limitata. Fa praticamente tutto quello che faceva già un
telefono, ma con due enormi difetti: è più ingombrante e non telefona! Eppure è
stato un successo mondiale: mi sapreste spiegare perché?»
«Perché è un tablet?»
«I tablet esistevano da almeno un decennio e nessuno li aveva mai voluti. Ciò che
ha reso l’iPad un successo è quello che voi non avete...»
«Milioni di dollari per la campagna pubblicitaria? Il brand Apple?»
«No e fuochino. No al primo perché non basta spendere milioni per fare
funzionare un’idea, altrimenti i tablet avrebbero funzionato ben prima di Jobs;
fuochino perché il brand Apple… o meglio il brand Steve Jobs… è una conseguenza
di quello di cui sto parlando.»
«Fiducia in se stessi? Vision? Leadership?»
«Richiudi i tuoi manuali di Tony Robbins e Ken Blanchard prima che vi cacci a
pedate, e statemi a sentire: tatuatevi in stampatello davanti agli occhi questa
parola.»
Prese il tovagliolo e scrisse:
EXECUTION
«L’idea che c’è dietro alla vostra startup conta, ma non quanto quello che
dimostrate di saper mettere in moto.»
Il che, detto per inciso, era niente, e non avrebbe tardato a sottolinearlo.
«Tutti sapevano che l’iPad sarebbe stato un successo, perché dietro c’era il team
Apple capitanato da Steve ‘ho lanciato il Mac, l’iPod e l’iPhone’ Jobs. Che il
prodotto funzionasse e come era un dettaglio, credetemi; che sarebbe stato
imperfetto se lo aspettavano tutti, ma sapevano pure che non avrebbe fatto
alcuna differenza: i tecnici lo hanno accolto con freddezza ma le vendite andarono
alle stelle ed è per questo motivo che gli investitori seguono l’execution, non il
valore di un’idea o di un prodotto. Invece che mi dite di voi? Cosa avete realizzato
di concreto fino adesso?»
«Di concreto nulla.» Era inutile girarci attorno.
Tirò fuori una penna e ricominciò a parlare.
«Facciamo l’appello.»
«L’appello?»
«Sì, ricordate i nomi dei vostri compagni di classe?»
«I compagni classe?…» eravamo perplessi.
«Dio mio, ci sarete andati a scuola, no?! Avrete sentito l’appello centinaia di volte,
vi ricorderete qualche nome: ditemene qualcuno.»
Restammo in silenzio a guardarlo perplessi. Anche lui rimase in silenzio a
guardarci. Era una gara di nervi. Il primo che parla perde, pensai; seguì il silenzio.
«…»
«…»
«…»
«Dunque c’era…» Scrivemmo a uno a uno i nomi dei nostri vecchi compagni: mi
stupii di ricordarmeli quasi tutti: ad alcuni di loro non pensavo da una vita.
«Bene, ricerca di contatti: sapete cosa fanno adesso tutti questi ragazzi? Avrete
Facebook, no? È nato per questo!»
Nel giro di venti minuti sapevamo tutto di tutti, tranne il perché ci servivano
quelle informazioni. Quando la lista fu completa, il nostro mentore la prese in
mano.
«Bene, ora ditemi chi andava bene, chi andava male e chi era nella media.»
Completammo il compito mettendo una sigla accanto a ogni nome: M+ sopra la
media, M nella media, M- sotto la media.
«Adesso ditemi cosa notate.»
Era la lista dei nostri vecchi compagni di classe delle superiori. C’erano i nomi, la
loro media scolastica e la carriera che avevano fatto.
«Ciò che salta all’occhio», dissi, «è che non sempre quelli coi voti più alti hanno gli
incarichi migliori… anzi, quasi mai, direi tutti posti nella media. Invece mi stupisce
vedere che alcuni degli studenti peggiori sono diventati imprenditori e manager di
successo.»
«Non dovrebbe affatto stupirti: sempre più laureati vengono assunti da diplomati.
Ecco una statistica interessante: sai che c’è uno studio intitolato ‘Perché studenti
da 10 e lode lavorano per intelligenti che non si applicavano’?!»
«Wow… un duro colpo per il nostro sistema scolastico!»
«Non sono d’accordo con chi afferma che il sistema scolastico ha parecchie falle:
al contrario, funziona benissimo. Gli studenti con voti eccellenti lavorano per gli
studenti con voti mediocri, ma è nell’ordine delle cose, se ci pensate. Avere voti
alti non significa essere migliori o più intelligenti. Lo scopo del sistema scolastico è
quello di scolarizzare, vale a dire creare dei cittadini controllabili che non
disturbino troppo. E, nel caso del lavoro, serve a creare dipendenti. Chi impara
troppo bene la lezione diventa uno schiavo ubbidiente; funziona perfettamente,
per questo la cultura imprenditoriale è un’eccezione: il modo di ragionare degli
imprenditori è diverso da quello della massa e questo significa che vi derideranno
e vi prenderanno per matti; ma non voglio perdere tempo a domandarvi se siete
disposti ad affrontare un po’ di ostilità immotivata: se non aveste avuto questa
predisposizione, sareste usciti dal mio ufficio dopo i primi dieci minuti. Ciò che
voglio mostrarvi è altro.»
«Cosa?»
Indicò la media scolastica di ogni alunno promettente e la sua attuale
occupazione.
«Ecco la ragione per cui i venture capitalist non investono sul potenziale di
qualcosa: il potenziale, statisticamente, disattende le aspettative! Ciò su cui si
investe sono le dimostrazioni di capacità.»
«È quello che chiami execution, giusto?»
«Noi siamo italiani, e lo è anche Massimo Marchiori. Sapete chi è? L’uomo grazie
al quale Google funziona. Sapete cosa fa funzionare Google? Cosa lo rende il
motore di ricerca straordinario che è? Il PageRank…»
«L’algoritmo inventato da Larry Page!» Quello lo sapevo.
«Sei sicuro che l’abbia davvero inventato Larry Page? Alcuni sostengono che
Marchiori, con il suo Hyper Search, abbia creato le basi dell’algoritmo di
PageRank. Nella Silicon Valley lo sostengono in molti, ma in Italia lo conoscono
solo i nerd… iniziate a capire?»
«Gli hanno… rubato l’idea?!» Era ridicolo anche solo pensarlo, figuratevi dirlo ad
alta voce.
«No, l’hanno usata per realizzare Google. Lo stesso Larry Page ama ripetere: non è
l’idea che hai che conta, ma come la realizzi! Lo stesso buon vecchio Larry parla di
execution.»
«Non capisco: stai dicendo che questo tipo ha inventato l’algoritmo di Google?»
«Questo non lo so, ma per lungo tempo il mondo dei venture capitalist lo ha
pensato; quanto varrebbe per un investitore un algoritmo che funzioni meglio di
quello che oggi usa Google? Immaginate che Massimo Marchiori si presentasse da
voi sostenendo di voler creare un motore di ricerca per fare concorrenza a
Google, forte del fatto che è stato lui a inventare l’algoritmo alla base di Google, e
che avesse perfezionato quella fantastica formula e attorno ci avesse costruito un
motore di ricerca incredibile, in grado di funzionare meglio di Google: investireste
in questo progetto?»
«Certamente sì, ha tutte le premesse di un caso di successo!»
«Esatto: premesse! Voi investite sulle premesse: è la vostra mentalità, siete
startupper! I venture capitalist invece vogliono uno storico! Questo motore di
ricerca migliore di Google esiste già, si chiama Volunia, una startup che non è mai
decollata. Marchiori lasciò il progetto nel 2012 e fu la delusione di parecchi suoi
fan.»
«Peccato…»
«E stiamo parlando di un genio dal talento comprovato, una vera e propria
leggenda nerd, che ha dato un importantissimo contributo alla più grande startup
di tutti i tempi! Capite perché la vostra idea geniale, nonostante le ottime
premesse, non è una cosa sulla quale, allo stato attuale, si può investire?»
«Certo: non si investono soldi sulle buone premesse, ma sui risultati pratici che si
è dimostrato di saper portare… questo si intende per execution?»
«Precisamente: e quanti soldi vale la vostra execution finora? Cosa avete fatto? A
parte il giro di relazioni che vi ha portato qui, voi cosa state facendo come
imprenditori? Non come startupper che non significa niente: come imprenditori!»
La risposta era: niente. Non avevamo niente, neppure l’azienda.
«Fatemi indovinare: la risposta è ben poco, eh? Non avete combinato nulla, forse
avete a stento costituito una società…»
Più o meno era così. Società a parte.
«Pensate di essere gli unici a credere in se stessi? Pensate di essere speciali e di
avere talento? Pensate di avere carisma? Buon per voi, ma pensarlo non vi rende
speciali. Al contrario vi fa banali. Dimostrando intelligenza e fiducia in voi stessi
non diventate d’un tratto interessanti per il mondo dei venture capitalist. E non è
neppure lo standard minimo richiesto per entrare da quella porta perché,
purtroppo per voi, di ‘fenomeni’ che hanno bruciato i milioni di un finanziatore ne
sono pieni i registri. Alzarvi alle sei del mattino vi renderà solo appena un po’
interessanti. Lavorare durante i weekend vi fa apparire magari un poco più seri
della concorrenza, ma quello che davvero fa la differenza non è avere un piano
originale, ma farlo funzionare nei tempi giusti!»
«Avere l’idea giusta e realizzarla, ok.»
«No, no! L’idea giusta non fa parte dell’equazione! Sei troppo focalizzato sull’idea:
l’iPad era probabilmente un’idea sbagliata! Non è l’idea: avere l’idea è la parte
facile! Sai cosa dovete mettervi in testa voi startupper? Di smetterla di idolatrare
l’idea e cominciare a mettere al centro l’execution!»
«Ma se non riesco a farmi finanziare quando ho un’idea giusta… come posso
farcela con un’idea sbagliata?»
«Inizia col realizzare un’idea banale! Prova a costruire un business a partire da un
modello già testato, che funzioni. Prepara il business plan di una catena di
caffetterie: credi di riuscirci?»
«Caffetterie?»
«Pensaci: l’idea c’è, funziona e hai già dei modelli testati da copiare… trovami un
solo finanziatore che non ti starebbe a sentire!»
«Ma le caffetterie esistono già...»
«E con questo?! È un vantaggio: puoi copiare e prendere spunto, analizzare case
history, evitare gli errori.»
«Beh… è più difficile entrare in un mercato già presidiato che crearne uno
nuovo!»
«Niente affatto! Sembrate convinti che realizzare qualcosa che non ha ancora mai
fatto nessuno sia più facile, perché c’è meno concorrenza, ma non è così!»
«Giusto, se è già stato fatto può rifarlo chiunque…»
«Non è vero neanche questo! Riuscire in un mercato vecchio ha le sue difficoltà…
creare un mercato nuovo ne ha altre… ma potete fare entrambe le cose a patto
che applichiate la formula!»
«La formula? Quale formula?»
«La formula dell’execution: quella che ti fa diventare finanziabile agli occhi di un
investitore.»
«Nessuno mi ha mai detto che esiste una formula matematica.»
«Non ho mai detto che è matematica, ma esiste e proverò a spiegartela così:
pensi che fare cento flessioni al giorno faccia crescere i muscoli?»
«Beh, sì…»
«La domanda è: in quanto tempo completi la serie?»
«Non ti seguo.»
«Andrò più lento: quaranta lezioni di inglese, se le fai in quaranta giorni, possono
far migliorare il tuo inglese, ma fatte in quaranta settimane, in quaranta mesi o in
quarant’anni, diventano inutili! E stiamo parlando delle stesse identiche lezioni! La
formula è…» Prese la penna e scrisse:
Execution = risultati / tempo.
«Non basta essere in grado di portare risultati, devi anche portarli in tempi
interessanti. Tu quanti risultati sei in grado di portare e in quanto tempo? È su
questo che investiranno eventuali finanziatori! Voi non valete nulla perché non
avete portato risultati ragionevoli, raggiunti in un tempo interessante, da mettere
sul piatto!»
Questa volta fui io a scrivere:
Risultati ragionevoli, in un tempo interessante.
Aveva reso tutto molto semplice. Avevamo l’idea e pensavamo bastasse. Non era
così e ora lo capivamo. Non dovevamo realizzare tutto, ma prima di sederci al
tavolo dei finanziatori avremmo già dovuto ottenere qualche risultato, in un
tempo interessante. Cosa significasse quell’«interessante» per un investitore, ce
lo avrebbe chiarito lui. Almeno così speravo.
«Non dovete rimanere solo ‘chiacchiere e PowerPoint’.»
Ci guardò e, per la prima volta da quando lo conoscevamo, sembrò scendere dal
piedistallo.
«Questo mondo, il mondo degli aspiranti startupper, è pieno di fuffa. Ne vedo
passare a branchi come voi; ragazzi entusiasti e volenterosi, ognuno con un’idea
potenzialmente milionaria nella testa, che si crede più in gamba degli altri. Tutti
vestiti con la divisa da startupper; le vostre sneakers, le vostre presentazioni in
PowerPoint e le proiezioni dei futuri guadagni delle vostre startup; pensate di
scalare velocemente senza rendervi conto che la realtà del mercato fa attrito con
la matematica dei vostri grafici.»
«È sbagliato voler scalare rapidamente?»
«No, anzi, è obbligatorio!» si affrettò a precisare. «Risultati diviso tempo, ricordi?
Ma non ne vedo mai una di quelle proiezioni, in cui il progetto non sia destinato a
diventare milionario entro il primo anno; mentre di norma ce ne vogliono tre.1
Non si rendono conto di quanta noia e pressione si debba affrontare tra l’avvio di
una startup e la sua capitalizzazione. Le idee si infrangono contro la noia: perché
se c’è una cosa vera che potrà confermarvi ogni self-made man, è che diventare
ricchi è noioso. Avete mai visto uno di quei film in cui l’eroe si allena e ci sono
montaggi e dissolvenze? Beh, nella vita reale non ci sono montaggi e dissolvenze:
vanno svolte anche le piccole mansioni insignificanti e sono quelle che portano via
più energia: eseguire bene i dettagli noiosi e ripetitivi; l’eroe non migliora se non
solleva i pesi per il numero di volte giusto, nel tempo giusto. Gli startupper
sottovalutano questo aspetto, perché non hanno mai cominciato ad affrontare
quei punti scritti nel loro piano programmatico partendo dal primo; per questo il
mio consiglio è di mettersi alla prova con un’idea banale, prima di tentarne una
rivoluzionaria: per scontrarsi con il muro della noia e avere una execution nello
storico dei risultati a testimoniare il vostro valore.»
Fine dell'estratto Kindle.
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