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Il rapporto tra razzismo e crimine

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Il rapporto tra razzismo e crimine
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Corso di laurea specialistica in Sociologia e Ricerca Sociale Sociologia della devianza (A) Sistemi di condotta deviante e reazione sociale [35423] prof. Bruno Bertelli Il rapporto tra razzismo e crimine Studente Lorenzo Ruzzene [128048] Anno Accademico 2007-2008
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Corso di laurea specialistica in Sociologia e Ricerca Sociale

Sociologia della devianza (A) Sistemi di condotta deviante e reazione sociale [35423]

prof. Bruno Bertelli

Il rapporto tra razzismo e crimine

Studente

Lorenzo Ruzzene [128048]

Anno Accademico 2007-2008

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Sommario Introduzione.........................................................................................................................3 1. Razzismo, razzismi..........................................................................................................4

1.1 Un’utile distinzione ................................................................................................................4 1.2 La prevalenza di letteratura anglofona...................................................................................5 1.3 Gli studi sul razzismo ............................................................................................................6

2. I meccanismi del razzismo...............................................................................................8 2.1 Terminologia .........................................................................................................................8 2.2 Quattro modelli empirici di razzismo ......................................................................................9 2.3 Il ruolo della ricerca ............................................................................................................. 10

3. Razza, devianza e vittimizzazione .................................................................................11 3.1 La percezione dei neri come criminali.................................................................................. 11 3.2 La teoria dell’etichettamento................................................................................................ 12 3.3 La vittimizzazione ................................................................................................................ 13

4. Alcune ricerche al riguardo ............................................................................................14 4.1 Le nuove forme del razzismo............................................................................................... 14 4.2 Razza e crimine................................................................................................................... 17

Conclusioni ........................................................................................................................20

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Introduzione

Nel presente elaborato tratterò del fenomeno razzista e il suo rapporto con il crimine. Sebbene si possa ritenere un discorso d’altri tempi, gli stereotipi e i pregiudizi svolgono ancora un ruolo rilevante nella scuola, nel lavoro, nei mezzi di comunicazione e più in generale nella normale vita quotidiana.

Basti pensare, come si vedrà, una reale pari opportunità tra i bianchi e i neri degli Stati Uniti è lontana da essere raggiunta; in Sud Africa la fine dell’apartheid non ha ancora portato a seri miglioramenti delle condizioni di vita; in Francia e Regno Unito gli immigrati delle ex-colonie affrontano ancora problemi di effettiva integrazione sociale; non manca all’appello l’Italia, dove i relativamente recenti gli immigrati e le minoranze sono oggetto di continue discriminazioni.

Solo per citare alcuni casi più eclatanti di teorie e movimenti che, anche se in

apparenza meno apertamente, propugnano una supposta superiorità intellettiva dei bianchi, va segnalato il noto e criticato testo The Bell Curve, oppure le recenti affermazioni di James Watson, premio Nobel per i suoi studi sul Dna.

Quello che maggiormente sconvolge è il fallimento del percorso di progressiva espansione della razionalità, ai quale si è dato, a ben vedere, credito immeritato. È necessaria una ridefinizione del razzismo, che è stata tra le più atroci «conflittualità di appartenenza», in quanto in un settore come quello dello studio della devianza è imprescindibile l’analisi del controllo sociale che si esercita su particolari gruppi di individui.

Enuncio brevemente il contenuto dell’elaborato: dopo un contestualizzazione

concettuale e storica del fenomeno razzista, passo ad analizzarne i principi chiave e i modelli in cui si manifesta. Successivamente presento i temi che a mio avviso rendono il fenomeno rilevante nei suoi rapporti con lo studio della devianza, e infine presento alcune ricerche riguardanti una parte delle tematiche prese in esame.

Ritengo doveroso precisare che il termine «razza» sarà inteso dal punto di vista

sociologico e perciò come categoria soggettiva. Le categorie razziali sono reali nelle loro conseguenze in quanto ci sono delle persone che le credono vere. Non si tratta di questioni biologiche o processi evolutivi, ma di schemi sviluppati dagli esseri umani stessi

per delineare i confini dei gruppi sociali (Rydgren, 2004: 1307).

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1. Razzismo, razzismi

Ritengo sia utile iniziare questa breve analisi sul fenomeno del razzismo e sui modi in cui è stato concettualizzato, con quella che è la sua definizione più ristretta, facente capo a quello che, come si vedrà, viene ora definito «razzismo classico». Il razzismo così inteso ritiene che esistano le razza, ovvero differenze sostanziali biologicamente fondate tra gli esseri umani; che esista un rapporto tra le differenze di tipo somatico e le abilità, le caratteristiche psicologiche e la dotazione intellettiva, e che tali differenze, essendo biologicamente fondate, non siano modificabili e conciliabili; che da queste differenze sia derivabile una gerarchia tra le razze, con la razza bianca al vertice; ed infine che essa abbia il diritto-dovere di dominare il mondo, sottomettendolo ed eliminando le altre razze, o comunque di preservare la propria purezza (Mazzara, 1996: 17).

Queste componenti erano prevalentemente presenti nel razzismo “vecchio stile”. Ai

giorni nostri è raro trovare persone o gruppi d’accordo con simili affermazioni, ma ciò non significa che il razzismo sia scomparso. Esso ha assunto forme più sottili e socialmente accettabili, ed è spesso inquadrato in un contesto di apparente disponibilità positiva nei confronti del diverso. Molto spesso dietro frasi del tipo “io non sono razzista, ma…”, si nascondono orientamenti di pensiero e di azione di tipo discriminatorio non molto dissimili dal razzismo classico.

1.1 Un’utile distinzione

In accordo con Alietti e Padovan (2005: 11-14) mi pare opportuno riprendere un’importante distinzione proposta da Taguieff (1987: 163-165). Intendendo come

«razzizzazione» il processo di divisione di una società in razze e l’attribuzione ai diversi gruppi razziali di differenti diritti più o meno formali, egli fa riferimento a due differenti sequenze, le quali producono diversi tipi di razzismo. La prima è quella che prevede “autorazzizzazione, differenza, purificazione/epurazione, sterminio”, la seconda “eterorazzizzazione, disuguaglianza, dominazione, sfruttamento”. L’autorazzizzazione, il razzismo della differenza, corrisponde a un’affermazione della propria identità razziale in quanto gruppo, che solo secondariamente porta ad affermare la propria superiorità sugli altri gruppi. Tramite la costituzione di relazioni di esclusione, raggiunge il paradosso dello sterminio dell’altro, portando alla distruzione della relazione di differenza. È elaborata definendo il sé collettivo in opposizione al resto degli esseri umani, divisi in gruppi sub-umani come gli «ebrei», i «negri», gli «zingari». Si presenta in pratica come l’affermazione

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di una specie differente che mira alla purezza razziale, avversa al meticciato e che ricorre alla selezione garantita dall’eugenetica. Storicamente è associabile all’origine etnica delle

nazioni europee (al nazionalismo dai significati etnici, biologici e razziali che vi era associato), oppure laddove è messa a repentaglio l’identità politica nazionale. Certamente vi fa parte anche il nazismo, dove ha preso forma nel modo più incisivo, soprattutto per quanto concerne l’antisemitismo.

L’eterorazzizzazione, il razzismo dell’ineguaglianza, è invece basata sull’inferiorità dell’altro, essendo finalizzata alla costituzione di relazioni di dominio, oppressione e sfruttamento, le quali sono usualmente di tipo economico e orientate all’interesse e al profitto. Si tratta di quel razzismo di tipo coloniale, della schiavitù, e quello rivolto agli immigrati. Gia Boas ne aveva mostrato gli assiomi: da un lato si afferma “noi siamo i migliori”, sancendo la propria ineguagliabile superiorità; solo quella dell’altro è una razza, e perciò inferiore, iscrivendosi nella classica logica dominanti/dominati. Dall’altro si afferma “noi siamo l’umanità”, e perciò la razza superiore ne incarna l’essenza, i suoi tratti migliori e quindi universali. I «migliori», ossia coloro che detengono il potere, la democrazia, i mezzi di dominio e di governo, non sono razzialmente caratterizzati. Essi non sono una razza particolare, non sentono di appartenere a un razza: sono il genere umano, sono i portatori del principio di universalità. È una logica che si radica nella struttura sociale con l’obiettivo di dominare, subordinare e schiavizzare popolazioni-razze ritenute inferiori. Persegue la cristallizzazione dei rapporti sociali di produzione, affermando l’interesse, razionale, di un gruppo dominante a detrimento degli interessi degli altri gruppi etnici. È rivolta contro gli immigrati, i neri o altre minoranze, e più che alla distruzione della

differenze, mira a una sistemazione razionale delle strutture di oppressione e sfruttamento. Queste due logiche sono difficilmente districabili a volte, ma a seguito delle atrocità

del nazismo la loro differenza si nota maggiormente. Si può quindi dire che il razzismo dell’ineguaglianza sia il più diffuso, ed è il modello ai quali si sono orientati i sistemi sociali occidentali, e non solo. Esso ha interessato maggiormente i paesi di immigrazione, tra cui soprattutto gli Stati Uniti e altri paesi anglofoni.

1.2 La prevalenza di letteratura anglofona

Continuando a seguire Alietti e Padovan (2005: 17-18), si potrebbe obiettare che gli Stati Uniti, attraversati dallo schiavismo e dalla segregazione post-schiavitù, il Sud Africa,

edificato sull’apartheid e il Regno Unito del secondo dopoguerra, caratterizzato

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dall’immigrazione dalle ex-colonie dell’impero, siano incommensurabili che la realtà degli ultimi decenni degli altri paesi europei. Quello di cui però bisogna tenere conto è che le

colonie bianche dell’impero britannico (Stati Uniti, Sud Africa, Canada, Australia, Nuova Zelanda) hanno generato pratiche e ideologie razziste (al tempo funzionali al mantenimento del flusso di ricchezza verso il cuore dell’impero), che si sono diffuse e generalizzate, come ad esempio il modello di relazioni razziali degli Stati Uniti, costituito dalla mescolanza di indigeni, schiavi importati e migranti dell’Asia e del sud ed est Europa. Le interpretazioni e le ricerche condotte in questi contesti possono quindi essere d’aiuto per comprendere i meccanismi che danno forma al razzismo contemporaneo.

La differenza tra il razzismo europeo e quello statunitense riguarda la distinzione sopra accennata, tra razzismo dell’identità e dell’ineguaglianza. In Europa, e in particolare in Francia, Germania e Italia, gli studi hanno tendenzialmente concentrato i loro sforzi nei confronti delle minoranze nazionali (razzismo identitario ed etno-centrico) e dell’antisemitismo; come ho detto, si tratta di un razzismo di altra natura da quello che qui interessa, e per questo la letteratura anglofona è più adeguata a fornire interpretazioni dell’attuale fenomeno razzistico.

1.3 Gli studi sul razzismo

È giunto perciò il momento di compiere una veloce panoramica delle argomentazioni prodotte a partire dagli anni ’20 dello scorso secolo, tenendo conto prima di tutto di due aspetti: il primo è che il razzismo è nato come pratica molto prima che gli venisse assegnato un termine per descriverlo; in secondo luogo è bene tenere a mente che non sono solo le teorie e le interpretazioni ad essere mutate, ma sono anche le stesse scienze sociali che hanno contribuito a mutare il fenomeno. Da qui nasce l’esigenza di costruirne di nuove, che comunque devono tenere presente la sequenza storica delle teorie che si sono cimentate nella sua spiegazione e degli eventi (il cosiddetto «clima culturale») che hanno contribuito a modificarle.

Possiamo distinguere quattro fasi della ricerca sul razzismo negli Stati Uniti (Alietti e Padovan, 2005: 18-20). Tra gli anni ’20 e gli anni ’40, a causa dei conflitti sorti, i governi progressisti dell’epoca si dimostrarono tali anche nei confronti delle minoranze. La sociologia si occupava di conflitti sociali, discriminazioni, migrazioni, linee del colore, dilemmi politici e morali, e ovviamente di razzismo. I più celebri esponenti della Scuola di

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Chicago (Park, Borgaduse Warner) erano ottimisti, confidando nell’inevitabilità del melting-pot, anche se quando il loro interesse passava ai neri del sud, il loro ottimismo scemava.

Negli anni ’50 si vide il ritorno delle forze conservatrici e, come specchio dei tempi, la ricerca si orientò più allo studio del pregiudizio individuale. Sostenendo che le disuguaglianze nascono da problemi interpersonali, il punto d’arrivo fu che sono i singoli individui a «sbagliare» (e non il sistema), in quanto non ben socializzati, o perché dominati da comportamenti irrazionali. Autori di riferimento del periodo sono Allport, uno dei primi psicologi a rinnovare gli studi sulla personalità, e Blumer, fondatore dell’interazionismo simbolico.

Negli anni ’60 e ’70, grazie ai movimenti dei diritti civili, ritornò l’interesse nei confronti delle macrostrutture del sistema sociale. Vennero fortemente criticate le teorizzazioni di Parsons, il quale sosteneva che la modernizzazione aveva e avrebbe portato alla scomparsa delle disuguaglianze ascritte, contestandogli addirittura un peggioramento delle condizioni dei gruppi razziali discriminati. Si fece strada la tesi secondo cui le disparità consisono in un sistema utile per il mantenimento del potere da parte della maggioranza bianca. Principali esponenti furono van Den Berghe e Banton. Degno di nota il fatto che iniziarono a prendere posizione sulle questione, per la prima volta, anche intellettuali afroamericani.

Negli anni ’80 si assiste a una nuova reazione conservatrice, con attacchi e riduzioni nei confronti dell’affirmative action (ovvero quelle politiche pubbliche tese a ridurre le disparità relative), la sostituzione dell’idea di assimilazione a quella di emancipazione, fino a arrivare ad alcuni studiosi che sostengono una fondamentale

perdita d’importanza del fenomeno razzista. Un notevole contributo è invece quello offerto dagli psicologi sociali, i quali parlano di «nuovo razzismo», molto diverso da quello classico, ed in grado di mascherarsi e di esprimersi anche in assenza del concetto di razza. Questi studiosi (ad esempio Dovidio e Gaertner) hanno ricevuto diverse critiche, in quanto si basano su esperimenti di laboratorio, ma si tratta di un metodo comunque utile per individuare la dimensione sempre più simbolica e latente del razzismo.

Un breve cenno a quanto è avvenuto in Europa è d’obbligo, e come detto prima il periodo successivo al nazismo è caratterizzato da un completo rifiuto del razzismo. Da parte di tutti gli scienziati (sotto l’egida dell’Unesco) si mette in moto un’agguerrita macchina per la decostruzione del razzismo e delle sue presunte basi scientifiche. Negli anni ’60 si assiste al ritorno di movimenti xenofobi e razzisti, specie a seguito dei flussi

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migratori diretti in Francia e Gran Bretagna. Il razzismo europeo assume sempre più i caratteri di quello statunitense e porta a domandarsi se la democrazia sia stata davvero in

grado di sconfiggere il fenomeno razzista.

2. I meccanismi del razzismo

Successivamente alla contestualizzazione teorica del fenomeno, ritengo ora opportuno affrontare una breve trattazione della terminologia associata al razzismo, una sua possibile tipologia e le sfide che la ricerca deve affrontare; si tratta di un passaggi che si devono alle ricerche fatte, e che ci condurranno ad una migliore interpretazione di quelle recenti

2.1 Terminologia

Vediamo ora i termini e le definizioni ricorrenti utilizzate nella ricerca del fenomeno razzista (ma anche per altri tipi di discrimazioni, tra cui il sessismo). Si tratta di concetti condivisi ed entrati a far parte del bagaglio di diverse discipline, tutti fondati dalla «non trasparenza» degli esseri umani, che porta gli individui a dover sapere quello faranno gli altri individui anche senza conoscerli o conoscere i loro stati mentali.

Per categorizzazione sociale si intende quel processo che porta a identificare singoli individui come membri di un gruppo sociale poiché condividono determinate caratteristiche tipiche di quel gruppo. Uno stereotipo è una rappresentazione cognitiva o una impressione di un gruppo sociale formata associando a quel gruppo particolari caratteristiche ed emozioni. Il pregiudizio è una valutazione positiva o negativa di un

gruppo sociale e dei suoi componenti. La discriminazione, infine, è un qualunque comportamento positivo o negativo diretto verso un gruppo sociale e i suoi componenti (Smith and Mackie, 1995: 140-146).

Ritengo sia il caso di approfondire i concetti di stereotipo e pregiudizio, spesso confusi nel linguaggio comune. Lo stereotipo è dunque alla base del pregiudizio e della discriminazione: il pregiudizio corrisponde ad un erronea interpretazione, la discriminazione ad un trattamento diseguale; da notare che anche gli stereotipi positivi possono creare situazioni svantaggiose, in quanto si tratta comunque di un’attribuzione di caratteristiche erronee ad un individuo o ad un gruppo. L’esistenza degli stereotipi è dovuta al fatto che essendo la realtà complessa, essa è conoscibile solo attraverso le

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immagini mentali o le rappresentazioni che l’uomo ne crea. Sono perciò “semplificazioni che consistono in forme di organizzazione preventiva dei dati, e che dunque influenzano

massicciamente la raccola e la valutazione dei dati stessi” (Mazzara, 1996: 118). Hanno prevalentemente origine dal contesto culturale e sociale, e sono stati inizialmente studiati da Katz e Braly, tramite liste di aggettivi da assegnare a ciascun gruppo. Ora l’interesse è più incentrato sui meccanismi di formazione e resistenza alle nuove informazioni, piuttosto che i loro contenuti. La stereotipizzazione consiste nell’attribuire di caratteristiche di un singolo al gruppo di cui fa parte

Il pregiudizio etnico, studiato a partire dalla fine degli anni ’20 da Bogardus, “inteso come atteggiamento etnico negativo, vale a dire predisposizione a percepire, giudicare, agire in maniera sfavorevole nei confronti di appartenenti a gruppi etnici diversi dal proprio” (Mazzara, 1996: 116). Uno dei primi indicatori, sviluppato dallo stesso Bogardus, è la distanza sociale, una scala tesa misurare intimità e tolleranza nei confronti degli altri gruppi razziali (dall’avere come turista nel proprio paese allo sposare un nero), al fine di ottenere le predisposizioni personali al pregiudizio. Pochi anni dopo LaPiere dimostrò la presenza di uno scostamento tra gli atteggiamenti e comportamenti, sottolineando l’importanza del contesto normativo in cui essi avvengono.

2.2 Quattro modelli empirici di razzismo

Allo scopo di identificare per analogia degli elementi comuni tra le varie manifestazioni dello stesso fenomeno, si possono distinguere quattro modelli empirici di razzismo (Alietti e Padovan, 2005: 21-31).

Il razzismo di status e disuguaglianze sociali è dovuto al fatto che il mantenimento o l’acquisizione di uno status è uno dei principali motori del razzismo. Quando è all’estremo, è possibile osservare una “linea del colore”, dove il colore della pelle è il criterio esclusivo della posizione sociale degli individui. Park sosteneva che il pregiudizio crescesse se l’ordine sociale e le distanze su cui si fondava fossero a repentaglio, in particolar modo per chi beneficia delle disuguaglianze. Si tratta della più antica fora di discriminazione sociale, anche se solo la società occidentale e capitalistica è stata in grado di usare in modo scientifico le diversità razziali per distribuire diritti e privilegi. Negli ultimi anni tale tipo di razzismo è rintracciabile nel concetto di razzismo avversivo e simbolico studiato dalla psicologia sociale, che, come vedremo, muove dal tentativo di mantenere i propri privilegi.

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Il razzismo della minaccia e della paura è direttamente connesso al tipo precedente, e come vuole la sua denominazione prende forma quando si percepisce come minaccia la

presenza e l’attività politica delle altre razze. La società industriale e capitalistica, basata su relazioni di tipo competitivo, ha alimentato la rivalità e l’ostilità tra gruppi. Blumer ha posto in rilievo la mobilitazione del gruppo dominante per mantenere il suo potere, impiegando la l’intera sfera pubblica nella definizione sfavorevole dell’altro e a raccogliere gli stati d’animo dei «minacciati». In questi decenni è forse il tipo più diffuso, e la minaccia è costituita dalla perdita di status, culturale e connessa alla criminalità, La paura per il criminale è tra le più diffuse nello spazio pubblico, grazie ai mass-media.

Il razzismo istituzionale vede la combinazione dei due precedenti, portando all’istituzionalizzazione di pratiche discriminatorie. È messo in atto sia dalla formulazione di leggi e norme, sia dall’azione dele istituzioni pubbliche e private. Le leggi per il controllo dell’immigrazione, la normativa del lavoro con conseguenze discriminatorie e la segregazione residenziale sono classici esempi di questo tipo di razzismo, che a livello di sistema diventano determinanti nel definire la posizione e il ruolo che potranno occupare gli individui.

Il razzismo strutturale e sistemico, infine, è il ripo che ci permette di cogliere quello che si intende per sistema «razzializzato», in cui il razzismo viene sia dato per scontato che giustificato razionalmente, dove tende a cristallizzare più a lungo possibile le posizioni sociali dei gruppi e dei loro membri. Implementando vari tipi di azioni sociali, politiche ed economiche, un gruppo di persone viene condannato sulla base della combinazione tra apparenza fisica e l’eredità biologica e/o culturale all’esclusione dai diritti di cittadinanza.

Questo lo rende un potente mezzo ideologico per la riproduzione del potere del gruppo dominante.

2.3 Il ruolo della ricerca

Ho già sostenuto che il razzismo sia di fatto un fenomeno persistente, che si esprime e diffonde accompagnato da altri fattori sociali. Questo lo rende flessibile e mutevole; l’argomento «biologico» per esempio non è venuto meno, ma piuttosto è intrecciato con l’aspetto culturale; o ancora, la figura del «razzista democratico», per il quale la discriminazione è accettabile in quanto condivisa e finalizzata alla difesa della comunità nazionale. Questo in quanto “il razzismo corrisponde a combinazioni di pratiche che cambiano in continuazione, pronte a eludere e sfidare norme giuridiche e regole

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amministrative, prescrizioni morali e orientamenti politici, diritti acquisiti e principi di tolleranza. È la natura stessa del razzismo che lo rende inafferrabile da parte di un’unica teoria o di una particolare metodologia di ricerca, per quanto entrambe ben congegnate” (Alietti e Padovan, 2005: 15-16). Si tratta di un fenomeno che non può essere spiegato riducendolo a qualche istanza fondamentale – biologica, sociale, psicologica o economica – che precede logicamente o materialmente tutte le altre. Il compito dei ricercatori non è solo quello di svelare l’ideologia razzista e la diffusione del pregiudizio tra gli individui, ma anche individuare “le radici sistemiche del razzismo e i modelli di costruzione dell’ordine sociale generati da pratiche razziste (individuali, collettive e istituzionali), più o meno consapevoli” (ibid.: 16). Si tratta perciò di mettere a punto degli strumenti teorici ed empirici con i quali cogliere gli atteggiamenti e i comportamenti tipici del rifiuto dell’altro e i diversi meccanismi sociali che producono il razzismo.

3. Razza, devianza e vittimizzazione

Proporrò ora una breve scorsa dei motivi che rendono gli stereotipi e i pregiudizi razziali influenti nello studio dei fenomeni devianti e di vittimizzazione.

3.1 La percezione dei neri come criminali

Lo stereotipo dei neri americani come violenti e criminali è stato documentato dagli psicologi sociali da più di mezzo secolo, a partire dalle ricerche di Allport. Vi sono diversi studi che dimostrano significativi effetti riguardo la valutazione di un comportamento aggressivo ambigio, la categorizzazione di un’arma come tale o meno, il tempo intercorso

prima di sparare a un uomo armato e la stessa scelta di farlo. Inoltre la semplice presenza di un nero può portare a rendere i pensieri di violenza e criminalità più accessibili, e a confondere chi effettivamente teneva un coltello in un evento che si intende ricostruire. Sono stati anche rilevati processi bidirezionali di associazione, e quindi sia pensare a un nero può portare alla mente il crimine, sia pensare al crimine può portare a far venire alla mente un nero.

Le ripercussioni di questi studi sono evidenti, e basta prendere ad esempio l’associazione di volti di persone nere con oggetti violenti e concetti astratti riguardanti il crimine. L’implicazione di tali meccanismi è data dal fatto che un poliziotto che ha di fronte

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un bianco armato può impiegare più tempo a reagire e essere colpito, mentre un nero rischia di più anche se è disarmato (Eberhardt, 2004: 876).

3.2 La teoria dell’etichettamento

Per quanto concerne il fenomeno razzista, la teoria dell’etichettamento offre degli spunti significativi. Partendo dagli studi di Mead del già citato Blumer, ovvero l’interazionismo simbolico (il primo come precursore, il secondo come fondatore), e dagli spunti offerti dal teorema di Thomas e la profezia che si autoadempie di Merton, negli anni ’60 Lemert sostiene che la reazione da parte delle agenzie di controllo sociale nei confronti di un primo atto deviante sarebbe così massiccia nelle sue implicazioni per il sé dell’individuo, che questi comincierebbe a percepirsi come deviante e finirebbe con l’essere sempre più incline a questo tipo di condotta (Bertelli, 2001: 142). In pratica se si «etichettano» gli individui come criminali, si finisce per trattarli come tali anche qualora non

lo fossero. Vi è dunque una relazione fra la concezione del sé come deviante e i rinforzi provenienti dalla reazione sociale. Si tratta di un periodo che come si è visto è caratterizzato dalla critica alle agenzie del controllo sociale, in cui si pone nuova attenzione alle minoranze, ai discriminati e agli emarginati.

L’esponente più noto di questa teoria è tuttavia Howard Becker, il quale nell’opera Outsiders presenta quattro postulati di fondo. Il primo è che la categoria dei devianti non è omogenea (si è considerati devianti anche se non si è infranta alcuna norma, dunque si è falsamente accusati, mentre se si è devianti ma non si viene scoperti si hanno devianti segreti; il secondo sostiene la devianza risiede solo parzialmente nell’atto in quanto tale, in quanto conta il contesto in cui il deviante viene etichettato il tal modo, ovvero l’interazione tra chi commette in atto deviante e quanti reagiscono ad esso; il terzo afferma che la devianza diventa un «master status», alimentata da condizioni ausiliari di conferma (tra cui la razza), e da qui deriva il meccanismo che porta l’etichettato a conformarsi con l’immagine che gli viene attribuita; il quarto, infine, dice che le leggi rispecchiano i valori di imprenditori morali, diffusi grazie all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, al fine di difendere i propri valori (ovverosia quelli della classe dominante) (Bertelli, 2001: 146-148).

Da precisare che in questa sede il focus riguarda il falsamente accusato, che come detto è chi è stato definito e accusato di essere deviante o criminale, forse anche per (tra le varie caratteristiche) la sua razza. In aggiunta è più frequente che l’etichetta falsamente

attribuita colpisca appartenenti ad ambienti svantaggiati, e che essi subiscano condanne a

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morte. Inoltre si fa particolare riferimento alle situazioni di «confine» (reati senza vittime, marginalità sociale), dove il processo di etichettamento pone conseguenze negative

all’identità e al futuro di chi viene definito come deviante. Ciò può provocare disaffezione al sistema e disperazione personale che causano crimine e violenza e sono un costo sociale subito sia dai nerii che dai bianchi.

3.3 La vittimizzazione

Infine, un’ultma componente che ritengo rilevante nel rapporto che lega razzismo e devianza è legato alla recente attenzione posta sulla vittima di un reato. Fattah sostiene infatti che la probabilità di essere vittima non è uguale tra gli individui (esistono delle «predisposizioni vittimogene specifiche»). Contribuiscono sia alla scelta di una determinata persona come oggetto del criminre, sia da stimolo da parte del criminale. Vi sono varie predisposizioni tra cui alcune bio-fisiologiche nelle quali è certamente presente

la razza. Ad esse si possono correlare le predisposizioni di carattere sociale: status, condizioni economiche, condizioni di vita (Bertelli, 2001: 195).

Si può dunque parlare di «vittimizzazione strutturale», che è relativa allle strutture sociali e di potere, radicata nella stratificazione sociale, nei valori e nelle istituzioni, dovuta in gran parte alle disparità di ricchezza e di potere. Le vittime di questa condizione, tra le altre, le appartenenti alle minoranze etniche e razziali. Si esplica in forme diverse, alcune manifeste altre meno. La più comune è l’abuso di potere tramite persecuzione, oppressione e discriminazione, per quanto concerne il razzismo, caratterizzato, come il sessismo, ad iniziare alla nascita e terminare con la morte, ed è sia strutturale che culturale (fondata da costumi, tradizione, religione e altro). Perciò la vittimizzazione dei nei negli Stuti Uniti è strutturale in quanto sono una minoranza, sono poveri e privi di potere, e culturale in quanto vivono in un contesto che promuove la superiorità dei bianchi. I neri di Sud Africa, salvo per il fatto di rappresentare la maggioranza versavano (o tuttora versano, nonostante l’abolizione dell’apartheid) nella stessa condizione (Bertelli, 2001: 197-198).

Un ultimo cenno va fatto alla tendenza a biasimare le vittime di un reato, che costituisce un modo per continuare a considerare il mondo comprensibile e controllabile. È solitamente contrassegnata da frasi del tipo “è giusto che sia così”, o “tutto sommato se lo meritava”. Fenomeno questo che, in interazione al pregiudizio razziale, può aumentare la discriminazione.

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4. Alcune ricerche al riguardo

Passo ora ad una sintesi di alcune ricerche compiute riguardo al razzismo. Per prima cosa esamino gli studi riguardanti le nuove forme assunte dal razzismo; successivamente tratto di alcuni recenti studi riguardo il legame tra queste e il crimine.

4.1 Le nuove forme del razzismo

A partire dagli anni ’80, come ho già detto, prendono il via diversi studi di psicologia sociale riguardanti le nuove forme assunte dal razzismo. Il consenso al riguardo non era ancora stato raggiunto, come fanno notare Sniderman e Tetlock (1986), i quali criticano l’incoerenza degli studiosi del razzismo simbolico, colpevoli inoltre di aver trascurato il pregiudizio dalle loro ricerche. Diversi passi avanti sono stati compiuti nel frattempo, e la ricerca di Dovidio e Gaertner (1998) ne è la dimostrazione.

Gli autori partono dalla considerazione che si riscontra un miglioramento di

opportunità dei neri dopo i movimenti per i diritti civili, ma anche un deterioramento delle relazioni razziali, con tumulti, violenze e una diffusa sfiducia nei confronti dei bianchi. Gli stereotipi negativi di questi ultimi sono in declino in quanto la maggior parte sostiene di non averne, ma ciò non toglie che potrebbero praticare una forma sottile di discriminazione, anche perché si osservano ancora forti disparità tra razze (dal punto di vista demografico e da quello economico).

Dovidio e Gaertner sostengono abbia preso forma il «razzismo avversivo», ovvero un razzismo sottile, spesso non intenzionale, che caratterizza molti bianchi americani in

possesso di forti valori ugualitari, e che pensano di essere privi di pregiudizi. Si sentono avversi ai neri, ma al contempo ritengono che molti aspetti di questo comportamento potrebbero essere pregiudiziali e quindi da rigettare. Vi sono tre processi psicologici normali in cui sono radicati i sentimenti negativi nei confronti dei neri: la categorizzazione, la difesa dello status e le influenze socioculturali.

I razzisti avversivi a differenza dei razzisti classici, a volte discriminano, esprimendo i loro sentimenti negativi, altre volte no, e manifestano le loro crededenze egualitarie. Essi approvano consciamente i valori egualitari e vogliono essere persone corrette, e dunque non si renderanno artefici di discriminazione appare ovvia a tutti gli altri, o quando la risposta appropriata è chiara e ciò che è giusto e sbagliato è correttamente stabilito. Al contrario la discriminazione sarà attuata quando il comportamento appropriato non è ovvio

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o quando è possibile giustificare un atteggiamento negativo sulla base di argomenti che non comprendono la razza; ciò nonostante il loro comportamento li tiene lontani dall’idea

che sia razzialmente motivato. È prevalentemente presente tra le persone politicamente orientate a sinistra, mentre il razzismo moderno e quello simbolico sono più concentrati sui conservatori.

Per dimostrare la presenza del razzismo avversivo, Dovidio e Gaertner utilizzano simulazioni di laboratorio di una situazione di emergenza, nelle quali si nota che qualora ci siano giustificate ragioni per non intervenire nei confronti di un nero (potrebbbero farlo diversi altri, secondo il meccanismo della diffusione della responsabilità), molti effettivamente non forniscono aiuto alla vittima.

La discriminazione è presente anche nella giustizia, dove le condanne inflitte ai neri sono più frequenti e lunghe, in particolar modo se la vitttima è un bianco (anche nel caso di pene capitali). Sempre tramite simulazioni di laboratori si è cercato di osservare le discriminazioni sottili tramite l’introduzione di una prova non ammissibile nel dibattimento, notando come questa tenda ad aumentare i giudizi di colpevolezza dei neri. Questo avveniva anche nel caso piuttosto che svantaggiare i neri, i soggetti tendevano a considerare con minor certezza la colpevolezza del bianco.

A dimostrazione della ricerca di giustificazioni razionali per discriminare, un test di laboratorio ha posto dei soggetti a dover decidere se condannare a morte un imputato nero. Nel caso in cui nella giuria vi fosse un nero che si dichiarava a favore della pena capitale, si è notato come i bianchi con basso livello di pregiudizio tendessero a dichiarare colpevole l’imputato.

Per tentare di cogliere tramite sondaggi e questionari le valutazioni soggettive dei potenziali razzisti avversivi, sono state usate due scale, una di tratti negativi e una di tratti positivi, ed è stato misurato il tempo di reazione a particolari attributi (perché si attendeva comunque una propensione degli intervistati a fornire risposte socialmente accettabili). Mentre quella composta da tratti negativi non presentava differenze significative tra bianchi e neri, quella composta da tratti positivi vedeva una differenza in favore dei bianchi.

Sempre tramite simulazioni di laboratorio si è cercato di rilevare la positiva predisposizione in un’interazione di un bianco nei confronti di un nero. Nonostante il bianco tendesse a ritenere di essersi comportato in maniera amichevole, si è notato che il

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nero tendeva ad osservare diversi comportamenti inconsci (come il contatto visivo o le espressioni non-verbali di disagio), inavvertitamente trasmetti dai bianchi.

Al fine di dimostrare la discriminazione che si potrebbe riassumere nella frase “non è che i neri siano peggiori dei bianchi, ma è che i bianchi sono migliori dei neri”, si è cercato di valutare la posizione di alcuni studenti nei confronti di chi dovesse essere o meno ammesso al loro college. Analizzando varie domande di candidatura, si è notato come i candidati a bassa e media qualificazione non fossero discriminati in base al colore della pelle, mentre i candidati bianchi con un’alta qualificazione erano giudicati in maniera molto più positiva.

Allo stesso modo, allo scopo di spiegare l’opposizione all’affirmative action, si è cercato di osservare se le capacità e lo status fossero considerati allo stesso modo dai soggetti. Posti in una condizione di aiutare un bianco o un nero con una combinazione di queste caratteristiche, le capacità di un nero venivano valutate inferiormente anche se uguali a quelle di un bianco. Da ciò deriva che per quanto un bianco possa ammettere che i neri siano intelligenti in senso assoluto, egli è riluttante a ritenere che un nero sia più, o ugualmente, intelligente. Tali discriminazioni sono osservabili nelle organizzazioni, confrontando i redditi e le possibilità di carriera,

Un’altra verifica empirica dell’opposizione all’affirmative action, consisteva nella misurazione delle reazioni a politiche che possono facilmente essere valutate negativamente (preferenze e discriminazione inversa) ad altre più accettabili (promozione della diversità, rimediare alle ingiustizie storiche). Le prime, se si effettua il paragone tra le reazioni dei soggetti nel caso siano rivolte ai neri oppure agli anziani o ai disabili, sono

considerate negativamente in misura maggiore se rivolte ai neri. L’articolo si conclude con delle proposte per combattere le forme sottili di

pregiudizio, facendo notare come le forme tradizionali, ovvero enfatizzare l’immoralità del pregiudizio e l’illegalità della discriminazione non possano risultare efficaci vista la nuova forma assunta dal razzismo. È importante dunque muoversi contemporaneamente sul piano normativo (istituzione di norme sociali positive), quello delle relazioni di gruppo (puntando sulla costruzione di una comune identità di in-group) e quello personale (riconoscimento e gestione del razzismo), cercando di utilizzare il razzismo normativo come uno stadio di passaggio verso una vera uguaglianza.

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Il problema dei differenti e indipendenti filoni di ricerca accennato all’inizio del paragrafo è tuttora presente (Gawronski et al., 2008). Partendo dalle stesse considerazioni

dell’articolo precedente (il pregiudizio esplicito è declinato, mentre ha preso forma un pregiudizio più sottile), gli autori constatano che le nuove forme di razzismo (avversivo, moderno e implicito) hanno sviluppato programmi di ricerca indipendenti, non essendo dunque integrate in una prospettiva generale. Il loro tentativo è perciò quello di integrare queste prospettive mediante l’approccio della coerenza cognitiva che però non affronteremo in questa sede.

4.2 Razza e crimine

Anche il dibattito sulla relazione tra il crimine e la razza vede molti contributi. Quello che tratto qui (Chiricos et al., 2004) muove dall’potesi generale che il crimine sia associato ai neri, e che l’inclinazione ad aumentare i tassi di incarcerazione sia direttamente legata a

questo. Il maggiore sostegno di risposte punitive al crimine che si è osservato negli Stati Uniti è fondato da un sistema di credenze che costruisce il crimine in termini di razza, e la razza in termini di crimine. Sono presenti diverse testimonianze di personalità autorevoli nel campo della giustizia al riguardo, ma soprattutto è possibile basarsi sui tassi di incarcerazione. Vi sono ricerche che utilizzano altri indicatori, come la dimensione e i fondi dei dipartimenti di polizia, i tassi di arresto e le chance individuali di essere incarcerati. Tutte hanno alla base i meccanismi che in base alla composizione del vicinato, è riscontrabile un senso di minaccia, misurabile ad esempio dalla propensione a fare telefonate d’emergenza. In questa ricerca il tentativo è invece quello di studiare il legame tra razza e crimine, e il sostegno a misure punitive, ovvero come razza, minaccia e controllo sociale interagiscono tra loro.

Il legame tra i neri e il crimine è dovuto in larga parte al ruolo dei media (la televisione in particolare), dalle campagne politiche alle notizie, passando ovviamente per i programmi dedicati alla criminalità. Le conseguenze sono numerose, e vanno dalla impossibilità di ottenere servizi nei quartieri con una presenza di neri ritenuta elevata, agli errori nelle testimonianze dei processi, fino alla maggiore durezza della polizia quando interviene in certe aree di periferia. Queste considerazioni fanno ancora riferimento alle nuove forme assunte dal razzismo, dove se prima si sosteneva che “i neri sono pigri”, ora si preferisce dire “se solo i neri avessero la volontà di lavorare duramente, potrebbero

essere come i bianchi”.

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Gli atteggiamenti punitivi verso i criminali sono stati analizzati da diverse metodologie. Alcuni ricercatori hanno posto una singola domanda, come ad esempio il

sostegno alla pena di morte, o quanto si ritiengono appropriate delle sentenze recenti (quest’ultima è stata spesso usata nelle survey a livello federale). Altri metodi sono porre all’intervistato una serie di possibili modi per trattare dei crimini, valutando la durezza della misura che preferirebbe. Allo stesso modo sono state usate anche delle raffigurazioni riguardanti particolari crimini.

Come prima cosa bisogna precisare che non è stata dimostrata un’associazione tra paura del crimine e atteggiamenti punitivi al suo riguardo, salvo in alcune ricerche e per particolari tipi di crimine. Il legame tra razza e atteggiamenti punitivi è invece abbastanza significativo, e solitamente i bianchi sono più tendenti a misure maggiormente punitive. Gli atteggiamenti di pregiudizio razziale e quelli punitivi nei confronti del crimine sono anch’essi correlati, e questo tutte queste relazioni portano a suppore che è molto probabile che i bianchi vedano i neri come una minaccia criminale.

Gli autori hanno studiato questo fenomeno grazie a un’indagine telefonica. La variabile dipendente è l’atteggiamento punitivo verso il crimine (varie proposizioni a cui assegnare un punteggio da 0 a 10, come “trattare i minorenni omicidi come adulti”, o “pronunciare sentenze più dure per tutti i crimini”). Le indipendenti consistono nella percezione dei neri come criminali (facendo esprimere la percentuale di neri che commette particolari crimini, che tra l’altro è tradizionalmente sovrastimata), la percezione del rischio di subire vari tipi di crimini, la percentuale stimata dei crimini violenti (anch’essa notorialemente sovrastimata). il pregiudizio razziale (misurato in termini di distanza sociale

– avere come vicino, invitare a cena, lavorare alle dipendenze, e così via) e la posizione politica.

Come è possibile dunque spiegare perché negli Stati Uniti il tasso di incarcerazioni dal 1980 al 2002 incrementato del 242 % e che i neri ne sono colpiti 6,6 volte in più dei bianchi? Ci possono essere diverse spiegazioni, ma dalla ricerca emerge che l’associazione del crimine alla razza è un buon indicatore del fenomeno. Il risultato più interessante è che se la preoccupazione nei confronti del crimine e la percezione che esso sia violento sono basse, l’associazione tra razza e crimine è un predittore significativo degli atteggiamenti punitivi. Non è quindi necessario basarsi sul vicinato per cogliere la percezione del crimine, ma essa sta nella mente di molti individui indipendentemente dal quartiere di residenza.

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Le conseguenze di questo meccanismo rispondono pienamente alle nuove forme di razzismo, dove non è tanto per una questione di colore della pelle che si evita di andare a

vivere in certe zone, o andare in posti frequentati da neri. È la paura, l’associazione dei neri con la violenza, le gang, la droga, e più generalmente l’attività criminale, a spingere alla segregazione, alla discriminazione e a una maggiore incarcerazione dei «criminali».

Sullo stesso filone si collonano anche Barkan and Cohn (2005), i quali svolgono

un’analisi secondaria dai dati della “General Social Survey”, associandoli alla spesa concernente il crimine, e rilevando anche in questo caso una relazione significativa.

In una ricerca, precedente a quella vista all’inizio del paragrafo, Hurwitz and Peffley (1997) operano all’incirca sulle stesse ipotesi e metodologia (indagine telefonica, indicatori di pregiudizio, associazione tra neri e crimine, atteggiamenti punitivi nei confronti di reati ipotetici), anche se giungono a relazioni meno evidenti tra i fattori. Eviterò comunque di riassumerne il contenuto, salvo piuttosto segnalare un’utile osservazione riguardo alle conseguenze dell’associazione tra razza e crimine.

Negli anni ’80 la «lotta alla droga» negli Stati Uniti è un’esempio calzante di come politiche anticrimine, appoggiate dai mass-media, possono contribuire a rinforzare l’immagine negativa dei neri di classe povera. Prevalenetmente fu un’operazione rivolta contro i giovani neri, nonostante il consumo di stupefacenti fosse più o meno ripartito tra bianchi e neri. A fronte di 12,5 % di neri americani, ben 40 % di essi furono implicati in tali misure. Ciò fu dovuto a una legislazione e a misure che punivano maggiormente l’uso di crack (consumato in larga misura da neri), piuttosto che quello di cocaina

(tendenzialmente consumata dai bianchi), nonostante sia droghe equivalenti dal punto di vista chimico. I media contribuirono alla conferma dello stereotipo negativo, mostrando immagini stigmatizzanti dai quartieri neri (Hurwitz and Peffley, 1997: 395).

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Conclusioni

Come prima cosa devo ammettere che gli studi riguardanti il razzismo sono numerosi e il campo d’analisi è molto vasto. Non c’è stato quindi né lo spazio, né il tempo, di toccarli. Il ruolo dei media nella formazione degli stereotipi e dei pregiudizi ad esempio, tanto quanto l’analisi del fenomeno mediante l’approccio della scelta razionale. Lo stesso è da dirsi per lo studio dei pregiudizi, delle relazioni e degli atteggiamenti reciproci tra le razze, quando invece la maggior parte delle ricerche si focalizza sulla razza dominante. Infine ha assunto poco spazio la ricerca qualitativa, in grado di far emergere i significati e le interpretazioni latenti e date per scontate che in questo ambito si rivelano fondamentali, e di penetrare in ambienti altimenti difficilmente accessibili in altri modi. Un approccio che sconta per definizione problemi di rappresentatività e condivisione dei dati per altri ricercatori, ma che può perfettamente convivere ed essere di supporto all’analisi

quantitativa. Da quello che abbiamo visto, gli strumenti utilizzati per analizzare il fenomeno

razzista sono le indagini campionarie e le ricerche di laboratorio. Ognuno di essi è dotato di particolari limiti e opportunità. Le indagini campionarie offrono risultati rappresentativi ma riescono difficilmente a misurare il pregiudizio implicito. Le ricerche presentate si basano su una tradizione di domande onestamente acute nel tentare di rilevarlo, anche se ritengo sia un metodo comunque suscettibile di ottenere risposte socialmente, e personalmente, visto che il razzista avversivo non vuole ammettere nemmeno a se stesso certi pregiudizi.

Le ricerche di laboratorio invece permettono di identificare e isolare la discriminazione latente, ma assieme ad essa isolano anche il contesto dove si svolgono le azioni degli individui. Si tratta tra l’altro di strumenti che difficilmente sono applicabili al di fuori del laboratorio, come ad esempio nelle organizzazioni; ciò è ulteriormente vero in quelle professioni in cui sono importanti qualità non tangibili (capacità interpersonali, creatività, abilità prendere decisioni in condizioni di incertezza), e quindi il razzismo latente è difficile da dimostrare, quando nvece andrebbe rilevato, magari, al fine di una persecuzione legale per motivi discriminatori.

Il ruolo della psicologia sociale come si è visto è stato utile, ma ciò non significa che sia l’unica disciplina a poter spiegare il fenomeno, in quanto corre il rischio di eccedere

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nelle interpretazioni individualistiche, riconducendo il pregiudizio a tratti della personalità o a specifici percorsi di socializzazione.

Ritengo, infine, interessante l’utilizzo di dati aggregati riguardanti il tasso di incarcerazione e la spesa nella lotta alla criminalità, pur dovendo tuttavia considerare quanto è fondamentale essere in grado di scendere a livello micro per poter poi comprendere quali meccanismi hanno generato un determinato fenomeno macro.

Quanto visto dovrebbe comunque permettere di comprendere cosa genera e a quali conseguenze portano le politiche anticrimine guidate più dalla passione che dalla ragione, di cui ne abbiamo immediato esempio nell’attuale polemica concernente la proposta di schedatura tramite impronte dei bambini rom nel nostro paese, o il dibattito concernente lo stop & search a Londra, come strumento repressivo contro le violenze di strada che hanno per criminale e vittima ragazzi in giovane età.

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