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Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora ... · Gli occhi di lei, in...

Date post: 17-Feb-2019
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RACCONTI IN CLASSE 2016 Il so gn o ch e aveva fatto p o c h e o r e p ri m a n o n s i e r a a n c o r a d i s s o l t o ; e l a v o c e d i q u e l v io lin o lo a v e v a rip o rtato in dietro n el t e m p o Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo da “Teoria dele ombre” di Paolo Maurensig
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Racconti in classe 2016

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Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto; e la voce di quel violino lo aveva

riportato indietro nel tempo da “Teoria dele ombre” di Paolo Maurensig

Saluto con piacere la presente edizione di questo concorso, che ha visto una straordinaria e rinnovata partecipazione.Un grazie vivissimo a quanti hanno contribuito, nei diversi ruoli e con diverso impegno, al successo di una bella impresa comune che qui documentiamo, raccogliendo il meglio dei tantissimi racconti prodotti e delle immagini che li hanno accompagnati, in un dialogo a più voci e a più codici espressivi.“Racconti in classe” rappresenta una iniziativa ormai consolidata, che ha il pregio di promuovere negli studenti competenze e stili originali e ha il merito di registrare una significativa collaborazione tra scuole del nostro territorio di vari ordini e indirizzi, senza trascurare la sinergia con pordenonelegge.it, in grado di assegnare da sé un valore aggiunto di assoluta rilevanza. Infine, un augurio alle ragazze e ai ragazzi che hanno partecipato, perché possano sempre trovare opportunità per mettere a frutto i loro talenti.

Il Dirigente Scolastico Teresa Tassan Viol

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Il giorno 22 gennaio 2016 si è tenuta la prova del concorso “Racconti in classe”, giunto all’ottava edizione. Il concorso è nato come iniziativa volta a promuovere la pratica attiva della scrittura narrativa nei giovani.A differenza delle edizioni precedenti, quest’anno il concorso si è svolto il pomeriggio, presso la sede del liceo di piazza Maestri del Lavoro e i ragazzi delle classi seconde del “Leopardi-Majorana” e delle classi terze delle scuole medie della Provincia di Pordenone e oltre hanno scelto singolarmente di partecipare, perché attratti dall’idea di cimentarsi in questa nuova sfida. Davvero tante sono state le adesioni da parte dei ragazzi che sono arrivati anche da scuole medie molto lontane.Il concorso trova la sua motivazione nel desiderio di verificare e di confrontare le competenze di scrittura e di espressione raggiunte dagli studenti in due momenti significativi, ma fra loro non lontani, del ciclo scolastico: l’anno terminale della scuola media e la fine del biennio della scuola superiore. Come nell’edizione dell’anno scorso, agli studenti non è stato fornito un incipit, ma una frase da collocare liberamente nel testo e attorno alla quale costruire il racconto. E come l’anno scorso, la fase è stata tratta dall’ultimo libro di uno scrittore friulano, Paolo Maurensig, autore del romanzo Teoria delle ombre: “Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo”.I racconti sono stati poi sottoposti a una selezione articolata in più fasi. Dapprima, insieme, un gruppo di insegnanti di medie e liceo ha scelto quindici racconti per le scuole superiori e quindici per le medie. Fra questi la Commissione Giudicatrice, composta da membri indicati da Pordenonelegge e presieduta da Valentina Gasparet, curatrice di Pordenonelegge.it, ha scelto i vincitori, tre per le scuole superiori e tre per le medie, che saranno premiati nel corso di un’apposita cerimonia. Come nell’edizione precedente, tutti i racconti giunti al vaglio finale della giuria sono stati ritenuti meritevoli comunque di un riconoscimento, che giunge nella forma della pubblicazione in questo volume, la cui stampa è a cura del Liceo “Leopardi-Majorana”, mentre la parte grafica si deve alla collaborazione del Liceo Artistico “E. Galvani” di Cordenons.

I referenti

Prof. Patrizio Brunetta Prof. Angela Piazza

PRESENTAZIONE

Quindici racconti del Liceo Leopardi Majorana

La discesa all’Averno è dolce

La sala era gremita di gente. Le signore, bardate nei loro eleganti vestiti color pastello, civettavano allegre con uomini dalla parrucca incipriata, i quali sembravano apprezzare molto tutte quelle attenzioni. Will se ne stava in disparte, osservando le persone salutarsi, gli amanti scambiarsi sguardi fugaci alle spalle dei coniugi, i ricchi signori parlare d’affari. Il buffet veniva costantemente saccheggiato da grasse aristocratiche che facevano svanire in poco tempo vassoi interi di tartine e dolcetti, dando un bel da fare agli esili paggi incaricati di assicurarsi che ogni ospite avesse sempre di che riempirsi lo stomaco e il bicchiere. Le ore che precedevano l’inizio del ballo vero e proprio erano sempre le più frenetiche: ognuno aveva qualcosa da fare, qualcuno da raggiungere, qualcosa di cui parlare. Will, invece, riusciva solo a confondersi con la tappezzeria, per non dare nell’occhio, sperando che tutto terminasse al più presto. Poi, d’un tratto, uomini in eleganti divise blu notte si riversarono nella sala e gli invitati ammutolirono improvvisamente. Ognuno dei nuovi arrivati si portava appresso una dorata custodia dalle forme più varie: strette e lunghe, alte e tozze, piccole e sottili. Si disposero a semicerchio ai piedi della lunga scalinata che portava ai piani superiori e iniziarono ad aprire quelli che a lui parevano magici scrigni. Scrigni pieni di sogni, colmi di ogni genere d’emozione: pieni di musica. Gli strumenti scivolarono fuori dalle loro gabbie e si lasciarono domare dalle abili mani dei musicisti. La luce delle candele si riversava sugli strumenti

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a fiato, facendoli risplendere come diamanti; si posava sul lucido legno degli archi, per poi spostarsi lentamente sulle curve dell’arpa, giocando tra le sue corde. Ma tutto ciò non era nient’altro che uno sfondo, un teatro meraviglioso pronto ad accogliere l’artista principale. Lei scese le scale lentamente in un abito color del cielo, reggendo anch’essa uno scrigno dorato. Il suo differiva da qualsiasi altro: era lungo un braccio e largo mezzo, e sulla superficie era inciso un delicato giglio. Si portò al centro, nel mezzo del salone, e qui schiuse il suo bagaglio per rivelarne il prezioso contenuto: un violino. Un magnifico Stradivari, che sembrava formare un tutt’uno con colei che lo aveva tra le mani, quasi che la sua figura avesse bisogno di quello strumento per essere completa.L’arco era a pochi pollici dalle corse; musicisti, invitati: tutti aspettavano il loro incontro. Gli occhi di lei, in quell’istante di attesa, rifulsero di luce: e cominciò. Note soavi si diffusero nell’aria circostante, aprendosi una breccia nei cuori di chi le ascoltava, insinuandosi negli animi. Di colpo tutto il salone parve svanire, e con esso tutti i nobili signori e le allegre signore, finché anche gli stessi musicisti si dissolsero, elementi superflui agli occhi di Will. Rimase solo lei, la leggiadra fanciulla dagli occhi scintillanti, e la voce del suo violino. Il ragazzo si sentì pervadere da una forte nostalgia, e portandosi una mano al cuore dolente lo trovò impazzito. Chiuse gli occhi, convinto di non potere più sostenere la vista della ragazza senza perdersi nel suo sguardo. E lì, nei più bui recessi della sua anima, affiorò una voce, simile all’eco che riverbera in un pozzo: “La vedi? E’ così vicina … quanto sei disposto a perdere per riaverla?”

Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo, un tempo in cui era stato felice. Si trascinò lentamente fino al grande specchio vicino alla finestra e, guardandovi dentro, vi scorse il volto anziano di un uomo stanco di sopportare una vita che era giunta al termine molto tempo addietro, quando il cuore di lei aveva finito i battiti. “Tutto” si sorprese a dire alla propria immagine …”darei tutto pur di riaverla con me”. “Basta solo che tu lo voglia”. Una sagoma scura si era staccata dalla parete e ora avanzava verso di lui con occhi fiammeggianti e un ghigno che tentava di apparire amichevole. La voce era la stessa del sogno, cupa e cavernosa.“Presumo tu sappia chi sono. Oh, andiamo, non fingerti stupito: sappiamo dove trovare chi può unirsi a noi”.

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“So chi sei. Che cosa sei. Perché sei qui?” domandò il vecchio Will. “Per proporti un patto”. I suoi denti aguzzi scintillavano nella fioca luce dell’alba. “Un patto? Cosa posso volere io da uno come te?” In realtà lo sapeva benissimo. Quell’essere poteva offrirgli l’unica cosa che desiderasse davvero. Lui poteva offrirgli …“Lei. La riabbraccerai di nuovo se solo mi consegnerai la tua anima”. Il ghigno si trasformò in risata. “Potrete stare insieme per sempre”.“Dovrei vendere la mia anima al Diavolo?” ribatté Will sconvolto.“Pensaci. L’eternità insieme a colei che ami. E in cambio ti chiedo solo che la tua anima vaghi raminga per il mondo a reclutarne altre. E, per tutto il tempo, la avrai accanto. Di nuovo”. “Lei è …”“Agli Inferi? Oh sì. E’ morta suicida, ricordi?”Sì, ricordava. E ricordava anche il suo sorriso, il suo profumo, lo scintillio dei suoi occhi.“Accetto” disse con fermezza. “Qualunque cosa pur di stare ancora con lei”.“Abbiamo un accordo allora”. Il demone gli si avvicinò e gli posò la mano sul cuore. “Farà male?” chiese Will. Non era spaventato, solo … incuriosito.“Non temere” rispose il suo aguzzino, “la discesa all’Averno è dolce”.

Rachele Benvenuto, 2C Liceo Classico

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«Era il più grande direttore di sempre. Ineguagliabile. Irraggiungibile. Uno di quelli che conosce il brano che sta dirigendo meglio di chi l’ha composto. Uno di quelli che, già dopo le prime due battute, hai i brividi che neanche quando sei sulla neve e ci sono 20 gradi sotto zero… Uno di quelli che, a metà concerto, iniziano a scenderti le prime lacrime perché, quando uno che agita le mani apparentemente a caso riesce a far volare uno come me che era andato in quel teatro con l’idea di dormire sulla poltrona per un’ora, non puoi non piangere, non emozionarti. Non puoi non pensare che lui, forse, non è come tutti gli altri, che forse non è umano. Puoi solo renderti conto che lui è uno di quelli che riescono a darti la prova dell’esistenza della perfezione, che ti cambiano la vita in quaranta minuti. Sì, proprio in quaranta minuti, perché questa è la durata di un concerto: del concerto. Quello grazie a cui io, io che fino al 18 gennaio 1958 non sapevo neanche leggere le note, ora sono uno dei più grandi violinisti contemporanei: il concerto per violino e orchestra di Peter Tchaikovskj. A me della musica classica non poteva importare meno di quanto non m’importasse all’epoca, ma per il mio quindicesimo compleanno i miei genitori ebbero la brillante idea di regalarmi il biglietto per un concerto alla “Fenice” di Venezia. – Sarà bellissimo, vedrai! Altro che stare tutta la sera a bere con quei buoni a nulla dei tuoi amici! – Mi dicevano. Io sinceramente non sapevo neanche cosa fosse questa “Fenice” e sarei andato volentieri in qualsiasi altro posto pur di non dover stare un’ora a sentire gente che suonava cose per me incomprensibili. Mi rendo conto di essere stato un ragazzo molto stupido, non mi sarei potuto sbagliare di più: è stato il regalo più bello che io abbia mai ricevuto in tutta la mia vita. La sera di quel 18 gennaio, in quel teatro, c’era lui: il più grande direttore d’orchestra di sempre, che dirigeva una delle migliori orchestre del mondo; e suonavano proprio quel concerto che, grazie all’esperienza che ho adesso, credo di poter etichettare come il miglior concerto per violino e orchestra mai eseguito, almeno a mio parere. Fui veramente fortunato ad assistere a quel momento, perché credo che quel 18 gennaio non verrà mai dimenticato: l’esecuzione del violino solista resterà nella storia per sempre. Quella sera la vita di molte persone è cambiata: quella di tanti musicisti, ma anche di molte persone comuni ed io ne sono la prova».

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Così aveva scritto uno dei più grandi violinisti di quei tempi. Era morto due mesi prima in un incidente stradale e ormai l’anziano maestro aveva perso il conto delle volte che aveva letto e riletto quel breve testo. Mentre gli occhi scorrevano sulle pagine, piangeva perché, il giorno prima dell’incidente, lui era sul palco a Parigi insieme a quel violinista: suonavano Tchaikovskj, dirigeva quello stesso concerto. Aveva le lacrime agli occhi: lui quel violinista lo conosceva bene e conosceva bene anche quella storia perché quel 18 gennaio, sulla pedana del direttore con la bacchetta in mano, c’era lui. Anche quella sera, come sempre da ormai due mesi, aveva sognato Parigi: gli applausi, le luci, la tensione di dirigere di nuovo dopo tanto tempo, i brividi, l’armonia, la felicità, il cielo… e ora stava di nuovo leggendo le parole del violinista, immerso nei ricordi. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Gli aveva fatto capire quanto fosse vero che la musica ti cambia la vita, te la trasforma completamente, te la migliora e te l’arricchisce; perché, quando incontri la musica, non puoi più farne a meno. Non serve ascoltare la messa in Sì minore. No, basta molto meno perché diventi una droga, perché diventi parte di te, perché ti apra le porte per il cielo, perché ti permetta di volare… e, quando qualcuno impara a volare, capisce che quello che faceva prima era un penoso tentativo di camminare diritto. La musica salva le persone, insegna loro a vivere.

Ludovica Borsatti, 2D liceo Scientifico

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Joel si svegliò di colpo. Spalancò gli occhi nell’oscurità della notte; il cuore batteva all’impazzata contro il suo petto. Piano piano il sudore sulla sua fronte si asciugò e il respiro affannoso si calmò. Joel uscì dal giaciglio ricavato sotto una barca capovolta sulla spiaggia. La brezza salmastra mattutina gli scompigliò i capelli e scacciò le ultime tracce di sonno dai suoi occhi. Il ragazzo rimase così, in piedi di fronte all’oceano, a guardare il sole alzarsi pigramente all’orizzonte e tingere le onde di rosso, mentre cercava di cancellare dalla mente le immagini che l’avevano tanto turbato. Ma nel cuore gli era rimasta una sorta di malinconia, che stringeva il suo gracile petto in un dolore senza fine. Due timide lacrime fecero capolino agli angoli degli occhi del ragazzo. Joel non aveva più pianto dal giorno in cui tutto era iniziato. E si sorprese quando sentì le calde gocce rigargli le guance polverose, mentre un grido saliva dalla sua gola abituata al silenzio. Non poteva più rimanere lì: e così scappò, corse via dalla barca sulla spiaggia, lasciandosi dietro una scia di dolore, finché non cadde in ginocchio, sfinito. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Poteva vedere le dita lunghe e bianche di sua madre, il suo collo perfettamente arcuato mentre suonava lunghe note, i lunghi capelli scuri e profumati che ricadevano disordinati da un lato. Nel sogno sta suonando la sua melodia preferita, quando a un tratto si blocca, solleva il nobile viso e sussurra, guardandolo negli “Torna a casa, Joel, bambino mio, torna a casa”. Un attimo dopo sparisce, avvolta dalle fiamme. Quella supplica gli rimbombava nelle orecchie, urlava dentro di lui con una forza incredibile. Era colpa di quella voce se era in cammino verso un passato che credeva di avere dimenticato. Mani di sconosciuti lo strappano da sua madre, che cerca inutilmente di nascondere il proprio dolore. Piange, quel bambino, piange e morde e graffia, ma non può nulla contro le braccia forti di tre uomini. Solo molto tempo dopo Joel capì che i suoi genitori lo avevano venduto. Non potevano fare altrimenti , erano poveri e c’erano troppe bocche da sfamare. Ma questo lui non poteva capirlo. Quando i padroni lo scelsero per farne il proprio giocattolo, Joel credette fosse un errore, presto sarebbe tornato a casa a giocare con i fratelli e ad ascoltare la dolce voce di sua madre. Ma poi capì. Il dolore lo accecò, lo rese pazzo. Odiava i genitori che lo avevano condannato. Joel viveva

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in un incubo, tra la frusta del padrone e le urla della padrona. Finché scappò. Scappò lontano, verso una spiaggia con una barca capovolta che a lungo fu la sua casa. E ora tornava, attirato dalla voce di quel violino e dal dolce ricordo dei suoi primi anni di vita. Per mesi vagò alla ricerca del suo villaggio, sfidando la fame e il freddo, nutrendosi di semi e di piccoli frutti e bevendo l’acqua dei ruscelli. E un giorno finalmente arrivò; ma era troppo tardi: del suo villaggio era rimasto solo un mucchio di cenere. Come un automa si fece strada attraverso le macerie, verso quella che un tempo era stata la sua casa. In mezzo alla polvere qualcosa brillava, riflettendo la luce del sole. Allungò la mano e le sue dita strinsero una catenella d’oro. Sul retro della medaglietta c’era inciso un nome: il nome di sua madre. Joel si lasciò cadere nella cenere, senza neanche la forza per piangere. Morì così, il giovane Joel, con stretta in mano la catenella di sua madre, e la bocca spalancata in un grido che nessuno sentì e nelle orecchie le dolci note di un vecchio violino.

Greta Bruno, 2B Liceo Classico

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Gli piaceva il suo lavoro. Non per la paga o per i ringraziamenti che riceveva. La cosa che davvero amava del suo lavoro era l’adrenalina che gli scorreva nelle vene ogni volta che vedeva un cuore. Perché era uno dei pochi che potevano vedere davvero quell’organo che considerava come un miracolo. Insegnare non gli era mai piaciuto: per lui tutti erano troppo inetti, non degni di vedere ciò che gli faceva vibrare l’anima. Li riteneva incapaci di comprendere la fortuna che avevano a trovarsi lì: al cospetto di quel vibrante organo. Era ateo ma ogni volta che toccava quei tessuti si sentiva come un dio; li tagliava, li suturava, li maneggiava. Lui era l’uomo del cuore.Lei era una promettente studentessa del primo anno e un giorno lui le aveva fatto i complimenti per l’agilità e la delicatezza delle sue mani, mentre suturava una ferita. Lui, che riteneva gli elogi da deboli, si era lasciato andare, complimentandosi con una novellina. La mattina dopo le portò perfino un caffè, dicendole che doveva avere un talento naturale per la chirurgia. Lei subito rise, dicendo che, dopo dodici anni di studio di violino, doveva essersi allenata a dovere. Ogni mattina lui le si avvicinava porgendole il caffè e, dopo un paio di settimane, lei accettò di uscire con lui.Passarono le settimane e i mesi e, quella che era iniziata come una storia destinata forse a finire di lì a poco, si era ormai consolidata. Andarono a vivere insieme e dopo un anno annunciarono il loro fidanzamento.Lui stava per compiere trentanove anni quando la sua vista cominciò ad appannarsi: dava la colpa allo stress ma dopo vari accertamenti venne scoperto un tumore che premeva sul nervo ottico. Doveva sottoporsi a una operazione che gli avrebbe consentito un miglioramento parziale o totale delle facoltà visive. Tutto andò bene e venne abilitato a operare di nuovo, ma per settimane non si fece vedere in sala. Tutti pensavano che fosse spaventato dall’idea di non essere più bravo come una volta, ma il primario lo costrinse a operare. La notte prima del suo rientro la moglie scoprì ogni cosa il marito non voleva operare perché aveva mentito a tutti. La sua vista si offuscava ancora ma non era riuscito a porre fine alla sua carriera, anche se questo comportava che le sue abilità da chirurgo fossero compromesse. Lei decise di mentire per lui e di aiutarlo anche nelle operazioni più complesse.

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Un giorno il loro inganno venne scoperto e tutto crollò. Capì di essere stato avventato ma si rese conto che lo avrebbe fatto ancora e ancora solo per potere ascoltare di nuovo quel rumore: il battito del cuore. La moglie capì la stessa cosa e nonostante tutto decise di mentire per lui, prendendosi la colpa di tutto. Sebbene fossero passati molti anni lui la sognava ancora, mentre faceva di tutto. Ma quella notte era stato diverso: non l’aveva mai sognata mentre faceva quella cosa. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo, ai primi periodi del loro rapporto, quando aveva suonato solo per lui quel brano che avevano deciso insieme di chiamare battito.

Arianna Cattaruzza, 2C Liceo Classico

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Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Seduto sulla poltroncina di velluto caldo del teatro ripensava a quella notte di tanti anni prima. Con l’avanzare dell’età aveva dimenticato tante cose, date importanti, nomi di persone, ma continuava a ricordare quelle giornate al fronte. A quel tempo c’era ancora la guerra e lui, con la sua casacca ricca di mostrine e stelline dorate, si trovava in trincea a dirigere a dirigere operazioni di guerra. Era estate e combattere diventata sempre più difficile: i soldati erano stanchi ed il sole caldo si agosto rendeva ogni azione più faticosa. Anche lui, sotto il cappello, aveva la fronte imperlata di sudore. Gli attacchi si susseguivano uno dopo l’altro lenti, ma senza fine ed anche i nemici erano ormai stremati. Solo la notte offriva un po’ di tregua ad entrambi gli schieramenti poiché, anche se gli scontri non cessavano, almeno i raggi del sole non battevano più sulle loro teste. Quel 10 agosto il sole era già tramontato, quando i soldati udirono una melodia provenire da un punto imprecisato. Più d’uno di loro pensò che fosse tutto frutto della sua mente: in fondo, era stata una lunga giornata e sapevano che troppo sole può giocare brutti scherzi. Anche lui, il generale, sentì quelle note acute, ma armoniose. Che strumento faceva un suono simile? Ma, soprattutto, chi si sarebbe mai messo a suonare in mezzo ad un campo di battaglia, in quella terra di nessuno, disseminata di trappole, che giorno dopo giorno tentavano di conquistare? «È un violino!» esclamò un soldato. Tutti erano come storditi ma avevano gli occhi rivolti al generale, in attesa di ricevere ordini. E lui, il povero generale, non sapeva cosa fare, non sapeva nemmeno cosa pensare: era forse un trucco dei nemici per attirarli fuori dalla trincea e, poi, massacrarli tutti in un colpo solo? O c’era davvero qualcuno là fuori che suonava? Se era così, quest’uomo doveva essere di sicuro un pazzo, pensò. Il generale pagò cara la sua indecisione. I soldati avevano iniziato ad ascoltare quella musica e si erano lasciati trasportare da quella nenia dolce e rassicurante. Il graduato cercò d’imporsi, li esortò a tenersi pronti, nelle loro postazioni, ma fu inutile. I soldati non erano più lì: i loro cuori ed i loro pensieri erano già volati a casa, dalle fidanzate, dalle madri

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preoccupate, dai padri ormai vecchi. La maggior parte dei soldati aveva alzato gli occhi verso il cielo: da quanto tempo non guardavano le stelle? Inutile dire che quella notte il desiderio di tutti fu che quella maledetta guerra finisse. Il generale era ancora fermo e confuso: non poteva essere! Cosa avrebbe detto suo padre, se l’avesse visto in quel momento, con le mani in mano, a capo di un esercito di piagnucoloni? Eppure non poteva negare d’essersi commosso anche lui. Decise allora che non sarebbe intervenuto a meno che i nemici non avessero attaccato per primi. Non sapeva che nell’altra trincea stavano accadendo le stesse cose. Nessuno toccò le armi quella notte e tutti la passarono con il naso all’insù, guardando le stelle. La musica continuò fino all’alba del giorno seguente, ma l’identità del temerario musicista rimase un mistero.Uno scoppio e il suo ricordo si dissolse, riportandolo a teatro. Il violino aveva smesso di suonare. Buio. Grida. Un altro scoppio.

«Mamma, mamma! I broccoli non li mangio! Quelli non li mangio!»«Finisci tutto quello che hai nel piatto, altrimenti il dolce te lo scordi! E ora shhh… Fammi ascoltare il telegiornale.»Attentato terroristico ieri sera al teatro comunale. Gli agenti sono sulle tracce degli attentatori, anche se la dinamica delle esplosioni è ancora incerta. I vigili del fuoco e la polizia lavorano da ore ma il bilancio delle vittime è drammatico.

Viviana Corazza, 2E Liceo Scientifico

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Acqua. Un’immensa distesa infinita di acqua ci separava dalla libertà.Il mare era calmo, non tirava un filo di vento, quell’ammasso blu era immobile come se avesse avuto il fiato sospeso, l’orizzonte ci appariva limpido e netto, niente avrebbe rovinato i nostri piani.Naïm era a fianco a me, dritto in piedi: con una mano si fasciava il ventre, l’altro braccio invece poggiava sul gomito e la mano sorreggeva la testa come se fosse diventata troppo pesante per le spalle. In quella posizione si poteva ammirare tutta la sua fierezza e nello stesso tempo fragilità davanti all’ignoto, davanti al destino.“Naïm, sono stanca, andiamo a riposare, ti prego.” Lui si era voltato e con un dolce sorriso mi aveva preso sotto braccio e accompagnata nella “stanza da letto”.Non era una qualunque stanza da letto; era la stanza da letto del barcone profughi: un enorme stanzone, freddo e buio. C’era una tremenda puzza di sudore e piscio; non ci lavavamo da giorni, ma guardandoci negli occhi siamo entrati comunque, abbiamo preso le nostre coperte e ci siamo addormentati.Dopo poco Naïm si alzò di scatto, svegliando anche me: “Cosa succede?” Sorrise di nuovo. Stavolta però era un sorriso forzato, un sorriso che implorava aiuto, poi iniziò a raccontare: “Un suono dolce e soave come un vento caldo mi abbracciava e mi stringeva a sé. Non voleva più lasciarmi andare. Mi sono sentito al sicuro; era da tanto che non mi sentivo così bene con me stesso, da quando…” e si era interrotto, lasciando cadere una lacrima. Avevo capito benissimo cosa voleva dire.Siamo usciti di nuovo, insieme a centinaia di persone, ci siamo messi a fissare il cielo. “Chissà cosa ci aspetta” disse dopo un po’; lo avevo notato: il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.Lo aveva riportato a Tripoli.Naïm era un giovane che studiava, usciva con gli amici, volava con la fantasia come tutti i ragazzi a quell’età. Lui però era speciale. Lui suonava il violino. Il violino era la sua vita: quando qualcuno gli chiedeva che cosa ci trovava di tanto speciale in un semplice strumento, lui rispondeva: “Il mio violino tiene in vita le persone e per questo io vivo per il mio violino!”Nessuno era mai riuscito a capire cosa intendesse dire, io invece lo sapevo.In Libia c’era, e c’è, una sanguinosa guerra civile, Naïm era solo un ragazzino

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quando mamma, mentre era al mercato, era stata uccisa da un gruppo di ribelli. Succedeva spesso: i ribelli uscivano di casa, sparavano qua e là, senza pensare che quelle persone morte avevano una famiglia che le stava aspettando.Anche Naïm stava aspettando la mamma per ascoltare una delle sue canzoni al violino e poi dormire; ma la mamma non era mai arrivata. Il violino era l’unica cosa che gli rimaneva di lei.Dal giorno della sua morte non si era più ripreso e continuava ad esercitarsi per poter suonare quello strumento ai suoi figli.Pochi anni dopo i miliziani libici sono venuti in casa nostra e hanno portato via anche papà.Siamo rimasti soli, senza nessuna protezione e senza un soldo.Ormai avevamo 18 anni e dovevamo cavarcela da soli, nessun parente voleva aiutarci; ma il lavoro non c’era e non si poteva uscire di casa senza correre il rischio di essere uccisi; così, pochi mesi fa, Naïm era uscito presto, tenendo qualcosa stretto tra le braccia ed era ritornato poche ore dopo con in mano due biglietti di sola andata per “il viaggio della salvezza”.Aveva venduto il suo preziosissimo violino per portarci in salvo, e gliene sarò grata per tutta la vita.Da quel giorno però era diventato freddo e distaccato: sembrava che la sua vita fosse rimasta intrappolata dentro a quel violino.Un gran scossone della barca mi risvegliò dai miei pensieri. Eravamo nel bel mezzo di una tempesta, la barca si rovesciò e noi cademmo nelle gelide acque mano nella mano, e solo allora ci rendemmo conto di essere arrivati. “Naïm, Naïm, ci siamo, forza!” Ma Naïm era disteso pancia all’aria, boccheggiante. Aveva bevuto troppa acqua e non riusciva a respirare.Mi disse: “Yasmina, vai! Nuota fino alla riva, io voglio continuare ad ascoltare il violino” e si lasciò andare. Non rividi mai più mio fratello Naïm, ma lo porto sempre con me.Ho imparato a suonare il violino e ora lo suono ai miei figli prima di dormire.Naïm aveva ragione: il violino tiene in vita le persone.

Eleonora De Gottardo, 2ALiceo Classico

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Quella notte Aleks si era svegliato di soprassalto ben tre volte. Ciò gli capitava spesso da quando aveva perso sua madre. Ora, stava seduto sul suo letto, immobile e silenzioso, fissando il buio davanti a sé. Aveva l’impressione che fossero passati solo pochi minuti da quando aveva aperto gli occhi e si era alzato di scatto, con la netta sensazione che la mamma fosse lì a guardarlo; ma erano passate delle ore. Aveva udito chiaramente le note del violino della mamma ed allora aveva sentito il bisogno di parlarle, urlare, abbracciarla. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Ripensò con tristezza alla dolce melodia che lo collegava a sua madre: un tempo così lieta, ora diventata malinconica. Si sentiva quasi soffocare: l’aria nella stanza s’era fatta d’un tratto irrespirabile. Decise di uscire; papà non si sarebbe accorto della sua assenza: anche quella sera era tornato a casa tardi, accompagnato dalla consueta puzza di alcol e adesso giaceva sul divano del salotto, immerso in un sonno profondo. Aleks prese il cappotto e le scarpe e si diresse verso le scale. Chiuse piano la porta e si gettò nel freddo regno di ghiaccio che dicembre aveva portato con sé. Aleks placò il torpore delle sue dita mettendosi le mani in tasca, dimenticandosi però che proprio in quelle tasche aveva lasciato il ricordo più prezioso che aveva di sua madre. Tirò fuori la piccola chiave argentata dalla tasca; tremava d’emozione questa volta, non più per il freddo. Se la girò tra le dita. C’erano stati momenti, in passato, in cui avrebbe voluto buttarla via per dimenticare gli ultimi attimi di sofferenza di sua madre: consumata dalla malattia, che se la stava portando via. Ma come poteva? L’oggetto che stava causando tanto dolore era, dopo tutto, la chiave dell’unica eredità di sua madre: la chiave dell’armadietto nel quale lei stessa riponeva il violino. Era stata proprio lei a consegnargliela in mano prima di esalare l’ultimo respiro. E ora spettava a lei conservarla insieme al violino. Aleks ebbe un sussulto e gli tornarono in mente le parole del padre, dette il giorno in cui la madre era morta: «Doveva succedere… - aveva detto – tua madre era una persona debole e con i pochi soldi che abbiamo non avremmo più potuto sostenere le spese delle cure per la sua malattia. Mi spiace, ragazzo». Quel “mi dispiace” pronunciato senza sentimento aveva procurato una fitta al cuore di Aleks. Aveva guardato il padre con occhi vacui, ma che nascondevano risentimento ed odio repressi. E anche ora, a distanza di un mese dalla scomparsa della madre, fuori e al gelo, immerso nei ricordi, aveva serrato la mascella con rabbia e aveva sferrato un pugno all’aria, gridando con furia. Suo padre non

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c’era mai stato per lui e sua madre, né prima né durante la malattia. Infatti, da quando aveva saputo delle condizioni di salute di lei, aveva cominciato a bere ed a far tardi la notte. All’inizio Aleks aveva pensato si trattasse di depressione: voleva credere che suo padre stesse soffocando il suo dolore nell’alcol ma ben presto capì che si trattava di pure egoismo. Il padre non avrebbe speso neanche un soldo per curare la moglie, ormai ridotta in uno stato quasi irrimediabile, perché non credeva nei miracoli. Aveva così preferito spendere tutti i pochi soldi rimediati col suo modesto lavoro di operaio per ubriacarsi e non doversi sentire in colpa per le sue scelte da pessimo padre e marito. Era stato Aleks ad occuparsi di lei. Il ragazzo l’aveva fatto imparando a suonare il violino della madre e suonando per le strade per poterle garantire le cure di cui necessitava mediante l’elemosina dei passanti. Ma, quando lei era morta, lui non aveva avuto più il coraggio di riaprire quell’armadietto… ormai nulla più lo motivava a farlo: poteva causargli solo dolore. Fu proprio quella notte, però, che trovò una motivazione: in sogno la madre aveva suonato una melodia e lui aveva bisogno di risentirla: per poter andare avanti, superare il dolore e le sue pene e potersi concentrare solo sulla sensazione che gli davano le dure corde tese e l’archetto sulle dita.Assecondò i suoi impulsi e corse a casa: salì in soffitta, dove sapeva di poter trovare l’armadietto. Lo aprì e con le mani tremanti accarezzò il violino. Si concesse un minuto per onorare il ricordo degli occhi vivaci della madre che si illuminavano alla vista di tale strumento. Si asciugò le lacrime e portò il violino sotto il mento. Non gli importava se il padre l’avrebbe sentito: voleva, doveva suonare. L’archetto fece vibrare le corde e la prima nota risuonò nell’aria: era l’addio più dolce che poteva regalare a sua madre.

Sofia Haberl, 2E Liceo Scientifico

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Alexander si guardò allo specchio, stravolto, confuso, e soprattutto imbarazzato per aver sognato cose così oscene. Il lungo ciuffo scuro gli ricadeva sugli occhi grigi, pieni di rabbia ma soprattutto di una intensa malinconia. Sapeva di doverla smettere di rimuginarci sopra; suo padre gli ripeteva sempre che girare la pagina di un libro, rileggere qualcosa di già compiuto era più inutile che piangersi addosso. Smise di fissare il ragazzo dimagrito e scarno che lo stava osservando dal riflesso e si buttò sul divanetto in pelle accanto al letto. La sua stanza era così buia, anche se le pareti erano bianche e il sole stava riscaldando il pavimento. Era buia e silenziosa, anche se il ticchettio dell’orologio a pendolo e il rumore dei clacson e delle grida della gente era insopportabile. Chiuse gli occhi. Il dottore gli aveva detto che chiudere la porta al mondo e rifugiarsi dentro lo stanzino della propria mente gli faceva bene. <<A volte si può essere più soli di chiunque altro. La solitudine non è altro che il porto sicuro per le persone troppo felici>>. All’inizio non aveva capito quelle parole ma poi, dopo aver perso tutto, mentre passeggiava per le strade inquinate di Manhattan, lo vide: il chiaro segno della falsità umana; il sorriso che non arrivava agli occhi; le facce disinteressate di coloro che prestavano ingenua attenzione a un discorso di qualche amico. Oppure gli occhi di qualcuno pieni di lacrime, ma nascosti da uno strato di gentile menzogna. Nessuno di loro stava bene. E anche lui stava male. E quella notte era stata un incubo. Lo aveva sognato. Di nuovo. Un bambino dai capelli chiari, quasi bianchi, con le guance spesso rosse e il volto sempre illuminato. Molte volte i suoi sogni erano a sprazzi, proprio come allora. Il bambino prima era in grembo alla madre, abbracciandola; poi al parco a guardare i ragazzi più grandi ballare, poi ancora era a scuola ad ascoltare ammirato le lezioni di musica. A un certo punto quel bambino diventa un ragazzo, con i capelli dipinti di un colore più scuro della pece. Il primo segno di ribellione, ancora inconsapevole. Poi c’è l’incursione di notte a un concerto, lui che rimane ammaliato dal violinista, con i capelli scuri come lui e il volto delicato. Si innamorò all’istante e decise di voler diventare un violinista.Un bel discorso alla famiglia, speranzoso, ma i genitori gli ridono in faccia: sono contrari. Un piccolo”cric” li avverte che il suo cuore si è spezzato. Così quel ragazzo inizia a prendere lezioni clandestinamente, spesso non ritorna a casa per giorni. In poco tempo diventa un esperto. È felice, è leggero, si sente libero; ha capito il suo ruolo nel ciclo vitale del mondo. E si sente completo.Ma poi qualcosa va storto. <<Tutto è circolare. Nulla è bello o brutto. Tutto torna

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al suo posto, al suo equilibrio. Sempre>>. Nel vertice massimo della felicità e del desiderio, la cupola serena dentro quel ragazzo si distrusse. Un incidente non gli permetterà più di suonare, dovrà tornare nella sua casa di finta familiarità con le persone che lo tratteranno come un animale a rischio di estinzione. E quella notte lo aveva sognato ancora, quel bambino orgoglioso e ricco di speranze per il mondo. All’improvviso il suono di un violino dal piano di sotto gli fa riaprire gli occhi. Un colpo ferreo al cuore. Ricordi dolorosi. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.

Nikole Katroshi, 2C liceo Scienze Umane

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Brandelli di immagini sfocate erano rimasti intrappolati sotto le palpebre ancora chiuse; luci dai colori vivi e brillanti si erano proiettate nel cervello come lampi a ciel sereno. Hasan aprì gli occhi, respirò profondamente tanto che l’aria calda e polverosa gli irritò la gola secca. Tossì. Nell’oscurità della stanza riusciva a scorgere a malapena le sagome dei suoi fratelli che si erano coricati ubriachi fradici sui tappeti dell’unica stanza che c’era nella misera casupola. Si alzò e si avviò verso la tenda che divideva la strada dal loro spazio. All’orizzonte dietro la moschea si scorgeva una sottile linea rossa che ben presto sarebbe diventata una palla di fuoco. Hasan chiuse gli occhi e le immagini del sogno riapparvero. Non aveva voglia di illudersi, così iniziò a camminare senza meta per le vie di Istanbul, ignaro dello sconvolgimento che avrebbe recato nella sua vita quella giornata. Nel suo cammino Hasan incontrò un gatto così simile a quello sognato che lo seguì. Dopo un paio d’ore il micio sparì dietro a un muretto. Hasan si risvegliò da quello stato di incoscienza in cui era caduto e realizzò di essere all’interno del palazzo da lui visto in sogno. Non sapendo cosa fare si sedette e a occhi chiusi si mise ad ascoltare tutti i rumori che potevano essere percepiti da un orecchio umano. In lontananza si udiva il suono di goccia d’acqua risuonare sul suolo dopo una lunga caduta. Probabilmente quel posto era abitato da qualcuno. Ora sentiva un rumore: era piacevole. Qualcuno stava suonando il violino. I ricordi lo assalirono e le lacrime gli rigarono le guance. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Il volino era l’unico strumento che gli piaceva: lo trovava di una raffinatezza unica. Riusciva a toccargli le corde del cuore. Fin da piccolo suonare il violino era stato il suo sogno ma non aveva mai potuto realizzarlo perché la sua famiglia non aveva denaro sufficiente per comprargliene uno. Ripresosi dallo shock Hasan uscì dall’edificio e andò a comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Nel primo pomeriggio tornò nel palazzo: non sarebbe riuscito a rasserenarsi se non fosse riuscito a dare un volto a quell’anima lasciata volare libera nel suono di un violino. Hasan salì le scale e si ritrovò davanti a una porta. Spostò il vaso che si trovava

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ai suoi piedi e trovò la chiave: era sicuro che il suo sogno non era stata una proiezione notturna del cervello come le altre; quella era stata una visione che lo avrebbe condotto a una vita migliore. Fece irruzione nella stanza senza bussare, senza esitare e si trovò davanti a una vecchietta seduta su una sedia a dondolo, che lo fissava esterrefatta sotto gli occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia. Hasan le chiese cortesemente se lei sapesse chi suonava il violino. Lei si schiarì la voce per un paio di minuti come se non parlasse da secoli e infine rispose di essere lei stessa l’artefice della musica sentita dal ragazzo quella mattina. A quel puntò Hasan le si inginocchiò di fronte e la implorò di insegnargli la sua arte. La vecchietta accettò e Hasan iniziò ad abitare in pianta stabile nel palazzo.Dopo dieci anni precisi da quell’incontro Hasan suonava meglio di qualsiasi altro giovane di Istanbul, ma gli mancava l’anima. Una notte di luglio la vecchietta molto stanca e malata chiamò Hasan nella sua stanza e con sforzo immane si sollevò leggermente dal letto. Ringraziò il ragazzo per tutto, gli diede una benedizione, e toccandogli il capo spirò. Hasan soffrì come se avesse perso una madre ma anche una sorella, una figlia e allo stesso tempo un’amica. Da quel giorno Hasan suonò il violino mettendo tra le note tutto ciò che provava e vedendo ciò che usciva dallo strumento capì che l’anziana signora gli aveva costruito e lasciato l’anima. Hasan aveva provato contemporaneamente un amore immenso e un dolore distruttivo e ora suonando riusciva a esprimere passione per ciò che provava.

Asia Marcuzzi, 2A Liceo Scientifico

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La radura era incipriata di neve. Il piccolo ruscelletto che scorreva poco distante si era gelato. L’aria era scossa da un venticello birichino, che si infilava sotto i rami degli alberi e faceva loro il solletico, sollevando spruzzi di neve che poi ricadevano a terra. La quiete era immensa, e il silenzio tanto denso da dare l’idea di poterlo toccare. Il cielo era color madreperla e il sole era un disco opaco che faceva scintillare la miriadi di cristalli di neve che rivestivano la radura e gli alberi intorno.Lentamente, senza rovinare l’atmosfera bianca e silenziosa, qualcosa si mosse. Era come se il ramo di un pino avesse provato ad avvicinarsi al centro della radura. C’era tensione nell’aria, come se qualcosa stesse per accadere, qualcosa di innaturale e allo stesso tempo arcano, che mutava la situazione di tranquilla stasi in un’attesa immobile e quasi angosciosa: il minimo movimento o rumore avrebbe definitivamente rotto quella sorta di incantesimo creato dalla neve. Fu allora che la voce malinconica e solitaria di un violino fece vibrare l’aria, scuotendo dal torpore qualcosa che aveva riposato per troppo tempo. Il ricordo.

Alessandro aprì gli occhi. Era notte fonda e il buio lo avvolgeva, proteggendolo dai nemici invisibili che si annidano sul fondo dell’anima. Si rigirò nel letto cercando di riprendere sonno. Era stanco e voleva dormire. Dopo diversi minuti si rassegnò. Da un po’ di tempo era così, faceva strani sogni, che poi finivano sempre con rumori che graffiavano il silenzio, senza però rovinarlo mai. E, ogni volta che si svegliava, aveva la sensazione che, nel sogno, stesse per accadere qualcosa di importante che lui non poteva conoscere. Al buio, le sue mani nere si confondevano nella tenebra, come quelle di tutti. Solo al buio poteva immaginare di essere davvero il figlio di Monica e Pietro, non un ragazzo adottato quand’era talmente piccolo da non poter ricordare nulla. Cercava di allontanare da sé questi pensieri come si fa con le mosche. Faceva male pensare di poter avere solo il presente e un brandello di futuro mentre il proprio passato è perso per sempre. Alessandro guardò la radiosveglia: finalmente tra poco sarebbe iniziata la giornata. Eppure, il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. In un tempo remoto e confuso di cui non riusciva a sentire di appartenere. Era una situazione sgradevole.Calciò via le coperte e si alzò.

Il piede di Alessandro dondolava nervoso. La prof. spiegava. La seconda ora era appena iniziata. Il ragazzo era distratto, come al solito, ma l’insegnante era abituata e si era stancata di richiamarlo sempre; facesse pure quello che voleva,

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in fondo era uno studente in gamba, avrebbe recuperato. Anzi, il fatto che fosse distratto quasi la rasserenava. Quegli occhi scuri e profondi la mettevano a disagio, cercavano qualcosa che lei non poteva dargli. La pelle d’ebano risaltava rispetto al pallore dei visi dei compagni e allo squallore dei muri giallini della classe. La prof. sapeva che Alessandro era stato adottato, ovviamente, ma non si era mai preoccupata degli eventuali problemi del ragazzo, in fondo, pensava, quello era il compito degli assistenti sociali, degli psicologi e dei genitori adottivi, non certo il suo. Inoltre, arriva un momento nella vita delle persone in cui si sente la necessità di isolarsi nel proprio piccolo mondo egoista. Forse era per quello che l’insegnante era ancora più distratta di Alessandro e aveva assegnato degli esercizi da fare in classe. Voleva ritagliarsi un momento tutto suo, in cui nessuno, né allievo, né collega, né amico, né familiare, potesse entrare. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino la aveva riportata indietro nel tempo.Le note del violino si intrecciavano, nel sogno, come le braccia di danzatrici invisibili, scivolavano lievi sul ruscelletto gelato, si univano al vento birichino e si fondevano con la neve che incipriava il paesaggio. Poi si era svegliata, e ora il ricordo che quel sogno rievocava era lì. Quand’era bambina amava dondolarsi sull’altalena del giardino di casa dei nonni. Il nonno suonava il violino, e quando l’ultima nota si spegneva, lei saltava giù dall’altalena e rientrava in casa. Quando il violino smise di suonare per sempre, lei smise di andare in altalena. Così andava la vita, aveva imparato. Ognuno vive la sua da solo, sfiorato dalle esistenze degli altri. Poi le vite si interrompono, senza che ci sia un senso o un motivo. Accade e basta.La prof. guardò Alessandro che, svogliato, scribacchiava sul quaderno; per poi posare lo sguardo altrove, in un punto lontano e imprecisato della sua anima.No, non avrebbe mai potuto dare risposta anche a una sola delle mille domande del ragazzo. Semplicemente perché non esistevano abbastanza parole. Forse avrebbe potuto aiutarlo; se solo avesse potuto fargli ascoltare le note del violino del nonno.

Alessandro guardò la prof., seduta in cattedra che li osservava fare noiosi esercizi. Chissà, magari lei avrebbe potuto dargli una mano a fare chiarezza in quel turbinio di colori, emozioni, silenzi e rumori che era la sua vita; se solo lui avesse potuto farle ascoltare le note di quel magico violino che aveva sognato, e che forse era stato suonato da una fata buona o da un antico spirito gentile.

Caterina Moro, 2C Liceo Classico

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“Questa non è una storia per bambini”,così iniziava la storia che mi raccontava la mamma ogni sera prima di darmi la buonanotte; lei parlava, sprofondando in quell’orribile poltrona beige, io sedevo ai suoi piedi e memorizzavo ogni singola parola. “E’ non è una storia felice, è solo una storia” continuava. “C’era un ragazzo, né piccolo né grande, che suonava un violino” immaginavo il ragazzo in questione, a volte alto e castano, a volte basso e biondo; nella mia mente camminava con le dita incrociate al suo strumento, quasi a proteggerlo dal mondo. “Questo ragazzo non suonava quasi mai in pubblico, ma quando lo faceva ogni persona presente si fermava e si girava a cercare la fonte da cui proveniva la musica e restava incantata dalla bellezza delle note che produceva con il solo tocco delle dita”. A occhi chiusi immaginavo questo ragazzo senza volto che sfiorava le corde con l’archetto e con i polpastrelli; potevo assaporare il suono dolce di un do e quello più aspro di un si bemolle. “Ma quel ragazzo non era felice, e non lo sarebbe mai stato”. Mia madre faceva una breve pausa, il tempo di chiederle il perché di questa affermazione; lei sorrideva e sussurrava “perché questa non è una storia per bambini”.Quando ho iniziato a essere più curiosa, quando ho iniziato a chiederle più spesso perché quel ragazzo non fosse mai felice, ha smesso di raccontarmi la storia del violinista triste, e quando ha smesso di suonarmi con il suo violino la melodia che amavo tanto, ho iniziato a dimenticarmi della storia. Non so perché mi sia venuta in mente adesso quella stupida storiella, adesso che sono nella camera d’ospedale di mia madre, seduta alla sua sinistra con il suo violino sulle mie ginocchia, e non so perché lei voglia raccontarmi questa stupida storia che non sentivo da parecchi anni; e non so perché, come quando ero piccola, sono già attenta. E non so perché, faccio ciò che ho sempre fatto: ascolto. “Questa non è una storia per bambini, e non è una storia felice, è solo una storia. C’era un ragazzo, né piccolo né grande, che suonava un violino. Questo ragazzo non suonava quasi mai in pubblico, ma quando lo faceva ogni persona presente si fermava e si girava a cercare la fonte da cui proveniva la musica e restava incantata dalla bellezza delle note che produceva con il solo tocco delle dita. Ma quel ragazzo non era felice, e non lo sarebbe mai stato”. La sua voce si affievolisce e poi si ferma, probabilmente si aspetta la mia solita domanda. Mi scruta e in un sussurro continua. “Quel ragazzo, infatti, non aveva nessuno

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all’infuori del suo violino, perché nessuno era all’altezza di quello strumento e sapeva ciò che lo rattristava. Quel giorno, però, il ragazzo quasi sorrideva alle persone che incrociava per strada. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Ma questa non è una storia per bambini. Poi la voce di quel violino si spezzò, come anche la vita del ragazzo. Una ragazza, sul ciglio della strada, suonava una melodia soave, quella del suo sogno, e lui era rimasto incantato dalle note prodotte dallo sfregare dei suoi polpastrelli sulle corde. Questo prima che l’uomo ubriaco alla guida del Suv investisse il ragazzo che ora era felice”. Guardo mia madre, ha gli occhi vuoti e non sento il sangue pompare nelle vene mentre le stringo la mano. Non riesco a essere triste, so che sta suonando con il ragazzo della storia, e so che entrambi, ora, sorridono.

Alessandra Rigutto, 2B Liceo Classico

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Era tutto nero, l’oscurità lo aveva ormai completamente circondato, non vedeva assolutamente niente, nemmeno le sue mani tremanti di paura.Era confuso. Era convinto di essere ormai giunto alla propria fine e si immaginava una voce, ma non una qualsiasi: sentiva la morte che lo beffeggiava, lo derideva mentre lui, immerso nel buio, tratteneva a stento un pianto di disperazione, quasi una lontana risposta primordiale al terrore dell’imminente disfatta.Un lontano bagliore indefinito, però, lo aveva fatto finalmente distolto da quei pensieri. Voleva assolutamente capire cosa mai potesse essere quella fonte luminosa che lo aveva attratto fin dal primo istante. Cercava di avanzare in direzione della luce, ma riusciva solamente nei movimenti elementari, quali muovere braccia e gambe. Non se ne capacitava: era allibito; ma, allo stesso tempo, anche determinato nel suo intento finale. Dopo vari tentativi dall’esito fallimentare, esausto com’era, aveva deciso di tentare nuove strategie quando, all’improvviso, le sue orecchie avevano iniziato a percepire qualcosa in lontananza, una familiare melodia, in direzione del fascio lucente, da cui si cominciava nel contempo ad intravedere una sagoma deforme avvicinarsi lentamente.Finalmente aveva capito cos’era: era il violino che suo padre era solito suonare per lui quand’era piccolo.Una lacrima, senza che lui nemmeno se ne accorgesse, gli aveva rigato la guancia destra ed era caduta nel vuoto, formando delle onde concentriche come quelle che una goccia di pioggia produce sulla superficie di uno stagno.Ormai, la paura se n’era andata da tempo ed aveva lasciato il posto all’ingenuità che fu sua ormai molti anni or sono. La melodia si faceva sempre più vicina ma, non appena era riuscito a sfiorare, anche solo con le dita, quel magnifico strumento, l’incantesimo s’era infranto fino a distruggersi in mille pezzi. Nuovamente confuso, aveva riaperto gli occhi e l’immagine che per prima gli si era parata dinanzi era quella del display della sua radiosveglia, indicante a caratteri cubitali le 03:00 del mattino.Era sudato dalla testa ai piedi, per cui si era diretto verso il bagno per inumidirsi il viso; poi, se n’era tornato a letto con l’intenzione di riaddormentarsi ma, non

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avendo più sonno, dopo un numero indefinito di minuti, aveva deciso di alzarsi. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Gli era passata davanti agli occhi la sua intera vita fino a quel momento. Ripensando alla sua infanzia, scoppiò nuovamente in lacrime: come aveva potuto sprecare l’unica occasione della sua esistenza di stare con il padre, disprezzando la musica che il suo “vecchio” componeva solo per lui e facendolo preoccupare fino all’ultimo dei suoi giorni? In preda ai sensi di colpa, dapprima un leggero mugolio, poi un gemito più deciso e, infine, un urlo straziante di liberazione si erano propagati dalla sua bocca in tutta la stanza, consumando le sue poche energie rimaste e riportandolo di colpo nel mondo dei sogni.Là aveva incontrato suo padre, proprio come se lo ricordava: perennemente sorridente e col suo preziosissimo violino sotto il mento, nel bel mezzo di un’esecuzione musicale; ma, questa volta, anche circondato dalla stessa aura bianca del sogno precedente. L’uomo stava suonando proprio per lui, solamente per lui e lui finalmente aveva capito che era già stato perdonato dal padre da molto tempo: in fondo, era solamente un ragazzino, non molto diverso da come appariva in quei suoi sogni.

Irene Segato, 2D Liceo Scientifico

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IL sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Gli capitava spesso, ultimamente, di perdersi nei ricordi del passato quando sentiva della musica. Infatti era stato proprio il suono di un violino ad accoglierlo quella sera in cui, poco più che ventenne, aveva varcato la soglia del locale dove certi suoi “amici” gli avevano dato appuntamento per parlare di affari.All’epoca, Michael era un giovane prodigio della boxe, nel massimo della forma e con un’insaziabile fame di vittoria. Aveva un solo obbiettivo nella vita: vincere il titolo mondiale ed entrare nelle pagine di storia della boxe. Da piccolo la strada gli aveva fatto da maestra e gli aveva insegnato che per vivere doveva lottare e colpire più forte dell’avversario; per questo era così determinato.A soli 25 anni gli era stata data la possibilità di combattere con il campione in carica. Non sarebbe stato difficile vincere: il numero uno al mondo, imbattuto da dieci anni, era ormai cinquantenne e non avrebbe potuto contrastare un pugile tanto giovane e determinato.Tuttavia c’erano altri problemi: quelli erano gli anni ’50, il periodo d’oro della mafia, e gran parte dei guadagni della malavita stavano sulle scommesse degli incontri di boxe.Michael lo sapeva, ma la vedeva come una cosa distante da lui e per questo, quella sera, si era recato al locale senza troppi pensieri.Seduto nella penombra e avvolto dal fumo del suo sigaro, Johnny Boy lo aspettava con impazienza. Johnny Boy era un uomo pericoloso, membro della più temuta famiglia della zona,e anche lui era stato un pugile.“200.000” disse con voce autoritaria. “200.000 dollari per perdere l’incontro” ripeté più piano e sbuffando fumo. Michael fece finta di non sentire, ma fu circondato dagli uomini di Johnny Boy. “La vittoria del campione è già stata decisa, non puoi rifiutare: o accetti o non metterai più piede su un ring” minacciò il criminale.Sapendo che la situazione era difficile, Michael disse che ci avrebbe pensato e che sarebbe tornato il giorno dopo.La notte passò lentamente, come se il tempo si fosse fermato. Michael si chiedeva: “I soldi possono comprare l’onore? Forse.” Inoltre pensò che, se non avesse accettato, la sua carriera sportiva sarebbe finita e lui, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto essere ucciso.

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Allora, con la paura che aveva preso il controllo del suo corpo e la sete di denaro che aveva offuscato il suo sogno di diventare campione, il giorno seguente andò da Johnny Boy per dirgli che accettava. Non furono necessarie parole: un cenno del capo e una stretta di mano per sancire quel “patto col diavolo”. Un patto da cui non poteva più tirarsi indietro.La sera del match si respirava nell’aria paura e tensione. All’uscita dallo spogliatoio, accolto dagli applausi della folla che lo acclamava già come campione e dai flash dei giornalisti, l’orgoglio di Michael si risvegliò all’improvviso. “Non perderò! Non questa sera!” pensava, fino a che non vide i tre uomini armati seduti in prima fila. Capì che non erano uomini della sicurezza quando vide che lo guardavano sussurrandosi qualche cosa all’orecchio e allora si ricordò che cosa doveva fare. L’incontro fu breve e finì per KO al primo round, come molti altri suoi match precedenti. Questa volta, però, era lui quello a terra: non perché il suo avversario lo avesse colpito forte, ma perche lui stesso non si era proprio protetto.Solo una volta steso lì, ricoperto di sangue e sudore, capì la gravità della situazione.In pochi secondi aveva gettato via fatiche, sacrifici e desideri: il suo sogno.Neanche i soldi potevano consolarlo, e una volta giunto a casa li gettò nell’angolo più nascosto del cassetto per tenerli lontani, come se fossero avvelenati.Ora, a 30 anni di distanza, la sua vita aveva preso una strada molto diversa e lui aveva fatto carriera in un altro campo. Circondato dalla musica del violino, stava ripensando a quel giorno. Se avesse rifiutato. Le cose sarebbero andate diversamente? Stava ancora riflettendo, seduto nell’angolo più buio del locale, circondato dai suoi uomini armati,quando la porta si aprì.Allora ritornò in sé e, afferrati i soldi e fumato l’ultimo sigaro, accolse il giovane pugile che aveva chiamato per “proporgli un affare”.

Fabio Spangaro, 2A Liceo Classico

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Non capiva dov’era, non riusciva a vedere nulla, era buio e per la prima volta aveva paura. Con voce fioca, sussurrando e quasi balbettando chiese: “C’è qualcuno?” Nessuno gli rispose, tornò a parlare, questa volta più forte, con voca quasi piena: “C’è qualcuno? Vi prego, qualcuno risponda.” Ancora niente. Provò ad alzarsi ma era debole, gli tremavano le gambe, non si era mai sentito così. Lui era un ragazzo forte, di quelli che si credono sempre superiori agli altri, di quelli che si preoccupano di farsi rispettare ma che prendono in giro chiunque capiti solo per divertimento, era di quei ragazzi che hanno sempre la risposta pronta. Non aveva mai combinato niente nella sua vita, ma non gli importava, ora invece aveva paura di perdere tutti gli anni che ancora aveva davanti. “Forza! Dai, dai, sbrigati! Alzati, dobbiamo andare, sei lento!”, un ragazzo era entrato, aprendo con forza la porta che sbattè contro il muro. Aveva corso, notò Davide, perché aveva il fiatone. Il ragazzo fece due respiri per riprendere fiato e ricominciò ad urlare: “Hei, ma sei sordo? Come ti chiami? Andiamo!” Davide venne quasi accecato dalla luce che entrava dalla porta lasciata aperta e non riusciva a tenere gli occhi aperti, così portò una mano alla fronte per cercare di vedere qualcosa e distinse una sagoma.“ Mi chiamo Davide. Tu chi sei? Cosa vuoi? Puoi smetterla di urlare?! Dio, non vedo niente!”“Mi chiamo Alex, è un piacere, devi venire con me, fidati!” Il ragazzo grassottello prese per un braccio Davide, lo tirò su, strinse la presa e corse fuori dalla porta. “Corri, corri!” continuava a gridare Alex ridendo. Sembrava un matto. Davide iniziò a correre, i suoi occhi azzurro ghiaccio erano messi in risalto dalla luce del sole, i capelli neri sembravano danzare col vento e le sue gambe volavano, i piedi quasi non toccavano terra, era libero. Un sorriso gli spuntò in volto, lui nemmeno se ne accorse. I due ridevano, senza un perché, erano così belli da vedere. Poi si fermarono. Davide finalmente riuscì a mettere la vista a fuoco e meravigliato da ciò che osservò chiese dove si trovavano. Alex aspettava quella domanda, così lo portò, passando per il centro della cittadella, in un campo dove sorgeva una collina sulla quale, imponente, una quercia dalla folta chioma, sembrava regnare; i due giovanotti salirono sull’altura e si stesero sotto l’albero e Alex iniziò il suo racconto:” Siamo nel posto che tu custodisci nel

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cuore Davide, siamo in quella tua realtà che ti ostini a nascondere, ma in cui tu credi con tutto te stesso. E’ una città di musica, qui ogni cosa ti riporta a un suono, ogni abitante ha uno strumento a cui è legato in modo vitale.” “Vitale?” Davide non capisce. “Si, vedi ognuno già dalla sua nascita ha il suo strumento musicale che nasce con lui; gli strumenti vivono grazie a chi li suona, alla morte del proprietario lo strumento si distrugge, invece se viene rotto o abbandonato, allora il proprietario vivrà il resto della sua vita senza più poter udire una parola o nota, vivrà in una realtà triste e malinconica. Anche tu hai il tuo strumento Davide, devi solo capire qual è e andare da lui, devi essere te stesso per poterlo trovare.”“ Come? Non so nemmeno chi sono io, non ricordo più nulla. Io odio suonare Alex, non voglio nessuno strumento, non voglio stare qui, non voglio parlare con te. Sono stanco, ho freddo, sonno, basta!”“ E’ facile Davide, per capire ogni cosa devi solo trovare il tuo strumento. Ora riposa, dormi.”“Ma taci Alex, smettila. Si dormo perché sono stufo di starti a sentire.” Entrambi stanno in silenzio. Davide chiuse gli occhi, ma aprì le orecchie lentamente. Sentiva ogni cosa: l’acqua del piccolo ruscello che scendeva rapida, le foglie della grande quercia che si sfioravano come se fossero mani che si intrecciano come per chiedersi scusa, il rumore del vento e quello di una bicicletta che sfrecciò sul sentiero ghiaioso. Poi una voce. No, non era una voce, era un fischio. Nemmeno, Cos’era? Davide inarca le sopracciglia, qualche piccola ruga gli compare in fronte, continua a non capire cosa sia quel suono. Aspetta, si ecco, è quello che fanno gli strumenti, si dai quelli con gli archi e le corde, è dolcissimo, soave, è incantevole.“ E se fosse….no, non può essere. Forse si, ma certo, ora ho capito! E’ esattamente un…” Viene interrotto da una voce squillante:” Tesoro è ora di alzarsi, è tardi, devi andare a scuola, forza.”“E’ un violino! Mamma ma certo, ora è tutto chiaro, limpido, cri-stal-li-no! Il violino è uno strumento tenue, pacato, dolce ma è difficile suonarlo, le note, no o meglio devi imparare come suonarlo e con lui insieme prima o poi riuscirai a fare una splendida melodia. Si è tutto chiaro. Mamma ho fatto un sogno sai? Ma era un sogno di quelli veri, di quelli che ti parlano. E sai che mi ha detto? Che ho bisogno di qualcuno che mi insegni a dare e ad accettare di riceverlo, proprio come fa la musica, c’è una sintonia tra gli strumenti e i musicisti, c’è uno scambio reciproco e nota dopo nota ottengono qualcosa di superlativo e io passo dopo passo costruirò la mia vita.”“Tesoro, ti senti bene? Calmati su! Ora preparati, scendi e vai a scuola, ti voglio

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bene.”“Anch’io mamma.” Davide pianse, non glielo aveva mai detto fino a quel giorno, ma ora che Alex gli aveva fatto capire quanto fosse importante ascoltare se stessi e ciò che ci circonda, sarebbe cambiato e avrebbe apprezzato ciò che in futuro gli sarebbe stato dato. Quel giorno andò a scuola, chiese scusa al ragazzo che il giorno prima aveva picchiato perché non gli aveva passato i compiti e si rese conto della stupidità racchiusa in quel pugno. Dopo scuola andò dalla professoressa di musica, c’era anche una casa rimasta in sospeso, si, il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo, in tutti quegli anni sbagliati trascorsi fino a quel momento, facendogli capire che doveva cambiare. Entrò nell’aula, la professoressa si stupì di vederlo, ma non fece nemmeno in tempo a dire una sola parola che Davide le disse con assoluta convinzione:“Prof., voglio imparare a suonare il violino.”

Asia Vaccher, 2A Liceo Scienze Umane

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L’immensa sala dall’alto soffitto scintillava come rugiada al sole. Non riusciva a distinguere ciò che gli stava intorno: tutto era luce, rumore, brillantezza. Lui era sul palco, solo; aveva con sé il violino: gli pulsava nella mano come una creatura viva.Suonò la prima nota, limpidissima, ma era certo che nessuno l’avesse udita in quell’incredibile caos di voci, gioielli, saluti, riverenze. Suonò ancora: la melodia risultò più stridula, più vibrante, come se anch’essa si sforzasse di ottenere l’attenzione della platea. Suonò ancora e ancora, con foga, con rabbia, ma le spalle di tutti restarono voltate, gli sguardi non si sollevavano per posarsi su di lui. Poi, una nota sommessa ma pura come il cristallo, e il silenzio calò sull’intera sala. Una ragazza suonava dall’altra parte del palco, suonava e tutti l’ascoltavano. Aveva gli occhi chiusi, i ricci dorati lungo le spalle, morbidi sulla seta rossa del vestito. Suonava e nessuno poteva ignorare la sua melodia. Allora anche lui chiuse gli occhi, intrecciò il suono delle sue corde a quello di lei, e si sentì leggero e spensierato dopo molto tempo.Gli applausi. L’inchino. L’immagine svanì.

Su un lampione, vicino alla fermata dell’autobus, una locandina si agitava, infastidita dal vento. Il grande François Gatier di nuovo sul palco, venerdì 22 novembre, alla Scala. Biglietti acquistabili a partire dal primo giugno. E, subito sotto, un foglietto più piccolo ma meno spiegazzato: ”Posti esauriti”.

François Gatier si svegliò nella sua suite, tra lenzuola impeccabilmente candide. Sollevò il ricevitore, ordinò la colazione e uscì in terrazza. Era incredibile come si sentisse sereno, dopo settimane e settimane di prove e, ancor prima, di mesi e mesi di dubbi. Sarebbe tornato a suonare, dopo vent’anni in cui la vita gli aveva messo di fronte così tante difficoltà e delusioni da far passare in secondo piano la musica, l’unica cosa in cui davvero confidasse. E ora, nonostante il terribile vuoto che da vent’anni l’accompagnava fosse ancora così irrimediabilmente incolmabile, sarebbe stato di nuovo su un palco, quella sera stessa. E non su un palco qualunque, ma su quello della Scala, in un paese che non era il suo ma che amava allo stesso modo.Finì di fumare la sigaretta che si era acceso, la spense nel portacenere sul davanzale e andò ad aprire la porta al cameriere del servizio in camera.

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Il televisore nel bar di fronte al Duomo era acceso. Il ritorno di François Gatier dava non poco lavoro e argomento di discussione, ai telegiornali come ai programmi di varietà. La TV stava appunto trasmettendo una dettagliata biografia del “grande violinista” e, se qualcuno avesse prestato ascolto, avrebbe sentito la voce acuta e un po’ stonata della speaker che raccontava per l’ennesima volta le “terribili sofferenze che hanno tristemente costellato la vita dell’artista”. Su un giornale abbandonato su un tavolino, a caratteri cubitali, in prima pagina si leggeva un titolo pressoché identico, seguito da un lungo articolo:”È sicuramente noto a tutti il doloroso motivo che ha allontanato François Gatier dal mondo dello spettacolo per quasi vent’anni. La scomparsa della figlia, avvenuta nel novembre del ’45, ha segnato in modo indissolubile la vita del musicista e ha senza dubbio contribuito alla sua decisione di ritirarsi dal palcoscenico”.

Frnçois Gatier si aggiustò il papillon. Tra pochi minuti sarebbe entrato in scena. Sentiva la sua anima scalpitare per il desiderio di esibirsi. Il suo pensiero volò alla persona che mai era mancata a un suo concerto, alla bimba bionda che restava nel buio delle quinte a fissarlo con occhi estasiati. La bambina che, un pomeriggio d’autunno, era svanita come un sogno alla luce del mattino. Gatier e la figlia erano tornati a Parigi da poco più di una settimana, dopo aver vissuto diversi anni in America, lontani da quell’Europa dilaniata dalla guerra. L’aveva portata al parco, l’aveva persa di vista, distratto dagli elogi di chi l’aveva riconosciuto e si complimentava con lui, e non l’aveva più ritrovata. Si era pensato a un sequestro, ma non era mai arrivata nessuna rivendicazione. La piccola Amelie era scomparsa e lui non l’aveva più rivista, fino alla notte prima: la ragazza che suonava a occhi chiusi non poteva che essere lei, che fin da quando aveva quattro anni aveva dimostrato uno spiccato talento per il violino.Gatier scosse un po’ la testa. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo, in un passato doloroso da ricordare.

Pochi anni dopo, François Gatier ritrovò sua figlia. Una ragazza canadese di origine francese, allieva di una prestigiosa scuola di musica, andò a Parigi per coronare il so sogno: conoscere il suo idolo, il violinista François Gatier. Fu come se due pezzi di uno stesso puzzle fossero stati incastrati nel modo giusto e, combaciando, avessero dato l’immagine più bella: una famiglia di nuovo unita.

Francesca Violi, 2A scientifico, Liceo Leopardi-Majorana

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Torno nella mia unità abitativa dopo il lavoro. La giornata di oggi è stata davvero pesante e non ho avuto nessuna idea. Io e i miei colleghi siamo tutti nella categoria degli speranzosi, ma ultimamente non abbiamo buoni progetti per la società. Non vediamo nulla di buono, anche se siamo certi che presto la situazione cambierà. Presto, una nuova speranza e buone idee miglioreranno la vita a Lonetown. Arrivo di fronte a casa e noto un enorme scatolone sui gradini. Lo porto in salone, dove si stanno già rilassando Kate e John, i miei coinquilini. Kate ha lunghi capelli rosa, segno della sua appartenenza al gruppo di persone tenere ma piene di sé, John invece li ha rossi, simbolo di paura e amore. Li saluto e mostro loro lo scatolone che ho tra le braccia. John lo afferra per liberarmi dal suo peso, e lo apre sotto gli sguardi curiosi che gli rivolgiamo io e Kate.Libri. È uno scatolone pieno di libri. Ne prendo uno che sembra molto antico. “Il romanzo di Chris”, dice il titolo sulla copertina. “Cos’è un romanzo?” penso. Apro una pagina a caso e leggo qualche riga per capire di cosa si tratta. “Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo” leggo. Mi chiedo cosa sia un violino mentre noto la stranezza di questa frase. Non sembra che questo libro spieghi come costruire un robot o come comportarsi lungo i tunnel in città, come i libri che abbiamo in biblioteca.“Cosa state facendo?” la voce di Gemma interrompe i miei pensieri, così alzo lo sguardo su di lei. Capelli blu come la notte incorniciano la sua espressione sempre calma. Osservo gli altri e noto che, come me, hanno un libro stretto tra le mani; Gemma ci ha trovati immersi in una lettura piuttosto insolita.Le sto spiegando cosa abbiamo trovato quando Kate mi interrompe, dicendo di aver trovato qualcosa di strano. Spostiamo tutti l’attenzione sul foglio che tiene

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in mano e ci avviciniamo colmi di curiosità. Leggo quel foglio e mi arrabbio subito realizzando ciò che ho scoperto. Dopo qualche minuto di silenzio, “Dobbiamo partire” affermo. Stranamente nessuno dice che è una follia, anzi negli occhi di ognuno dei noi si vede brillare una piccola luce. Io la conosco bene, la mia luce: speranza, è questo che indica. Questa mattina ci siamo svegliati molto presto, per non farci notare in città. Camminiamo da un bel po’ lungo cunicoli sperduti, nel tentativo di uscire da questo posto per la prima volta. Nessuno di noi sa cosa troveremo, ma non potevamo non avventurarci fin qui dopo ieri sera. Il foglio che ha trovato Kate era un documento. Un’ autorizzazione che il presidente di Lonetown di trecento anni fa ha firmato, per permettere a una società di creare un’attività sperimentale sotterranea: noi. Il documento ci descrive come “essere umani geneticamente modificati in modo da essere in grado di provare solo due emozioni”. In seguito veniva spiegato che in questo modo sarebbe stato più facile catalogarci e renderci più efficienti per la società. Noi non sapevamo niente. Abbiamo passato tutta la vita a invidiare le emozioni altrui e ora abbiamo scoperto che avremmo potuto provarle anche noi. Ci è stata tolta la capacità di vivere del tutto. Non sappiamo nemmeno cosa voglia dire, forse, vivere del tutto. Ieri sera, prima di attraversare la soglia di casa, aspettavo che qualcosa cambiasse, che accadesse qualcosa che facesse sentire le persone meno sole, meno costrette. Ora, quella cosa che aspettavo è successa. Sto facendo in silenzio il primo passo fuori dalla città con i miei amici, i miei compagni di vita, e sorrido. Sorrido perché questa notte non riuscivo a dormire, così ho letto quel romanzo che ho visto ieri; ho conosciuto cose come musica, violini, uomini veri e albe. Sorrido perché questa che ho davanti è un’alba e nella città sotterranea dove vivevo fino a poco fa non ne avevo mai vista una. Ora grazie a quest’alba, so cosa voglio. So che probabilmente potrò provare solo speranza e rabbia per sempre, ma forse per i miei figli potrebbe essere diverso. Voglio battermi fino alla fine, così che nessun altro uomo al mondo possa rovinare una o più vite un’altra volta, voglio mostrare a tutti l’alba di un nuovo mondo.

Elisa Anzolin, Scuola media G. Lozer, Pordenone

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Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.Adam si trovò di fronte ad una piccola porticina malandata con un grande cartello sul quale c’era scritto “APRIMI” e, siccome Adam era un ragazzino molto curioso, decise di aprire la porta accanto con un piccolo cartello sul quale c’era scritto “NON APRIRMI”. Appena Adam toccò il pomello della porta venne lanciato dentro da un qualcosa di invisibile.Adam si girò per riaprire quella maledetta porta ma niente, la porta non c’era più. Il curioso ragazzino sentì un forte bruciore al braccio, alzò la maglia e trovò un segno, più che un segno era una perla, una grande perla bianca. Adam era sconvolto perché non capiva cosa gli stava succedendo e ancora una volta aveva ragione sua madre che gli diceva sempre: “Adam, devi smetterla di essere così curioso, perché poi fai sempre disastri!”Però Adam sapeva che questa volta l’aveva davvero fatta grossa. Decise di andare avanti per cercare di trovare una via d’uscita e camminò per quell’infinita galleria per ore e ore, fino a quando decise di sedersi per terra e si addormentò. Al suo risveglio trovò un biglietto sulle sue gambe con sopra scritto: “SPEZZAMI”. Ma Adam questa volta decise di non fare nulla e di rimettersi in marcia per cercare una via d’uscita. Passò un’ora, ne passarono due e ormai il ragazzino era distrutto e, siccome non trovò alcuna via d’uscita, spezzò il bigliettino e davanti a lui trovò una porta, che si aprì di colpo e da lì uscì un fortissimo fascio di luce che lo fece cadere per terra e lo fece addormentare.Si alzò di colpo e si accorse che era sopra una piccola barchetta con un marinaio, che gli disse: “Buon pomeriggio giovanotto, come ti chiami?” “Mi chiamo Adam” disse lui. “Sai, ti ho trovato in riva al mare disteso e pensavo fossi morto, poi però ho visto che respiravi e ti ho portato qui sulla mia barca” disse il marinaio. “Grazie mille, però ora vorrei tornare a casa”.Si addormentò e al suo risveglio trovò una sirena che gli diede un bacio, lo prese per mano e lo portò negli abissi. Adam riuscì a respirare sott’acqua e la sirena lo portò con lei in una grandissima grotta, nella quale c’era una grande conchiglia con al suo interno una perla, proprio come quella che era comparsa ad Adam sul braccio e appena la toccò… “Adam, tesoro ti devi svegliare, è tardi, devi andare a scuola!”

Alice Cosmo, Scuola media G. Pascoli, Polcenigo

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La sveglia suonava e Marco non voleva iniziare quella sua solita routine. Sarebbe arrivato tardi come sempre, accompagnato dalle urla di sua madre Carla che insisteva nel dargli un pezzo di quella sua solita torta, con quel suo solito gusto di mele, anche se era farcita con pere. Lo avrebbe accolto il solito sguardo del professore che lo avrebbe squadrato, criticando la sua pettinatura scompigliata .Quanto avrebbe voluto scappare da quella sua solita “giornata tipo”! Avrebbe voluto spegnerla quella maledetta sveglia che lo faceva bruscamente tornare alla realtà. Con quel suo andamento goffo, si alzò dal letto, prese a caso i primi vestiti che si era trovato davanti e affrontò quella giornata. Fuori il tempo non era dei migliori, e soffiava un vento che ti penetrava nelle ossa. Con la faccia ancora addormentata scese le scale, salutò sua madre, rifiutò il pezzo di torta e si diresse in strada dove c’era Giacomo che lo aspettava. Marco però era assorto nei suoi pensieri. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Quella strana melodia gli risuonava di continuo e faceva fatica a seguire quei soliti noiosi discorsi di Giacomo sul calciomercato. Marco ripensava a quel violino con cui aveva passato la maggior parte della notte. C’era qualcosa che non voleva farlo andare a scuola; voleva saltare per quel giorno le lezioni e andare in cerca di quelle melodie. “Giacomo, oggi a scuola non ci vengo, prendo l’auto del signor Cris e vado verso il mare”, disse all’improvviso.Il signor Cris era la persona con cui Marco aveva passato la sua infanzia e gran parte della sua adolescenza. Ora che era maggiorenne ci andava raramente, soprattutto per chiedergli in prestito quel furgoncino anni sessanta.“Marco, vengo con te”, rispose con una leggera esitazione Giacomo. E così Marco, un po’ sorpreso, alzò le spalle e si diresse a recuperare l’auto. La meta del viaggio sarebbe stata Genova. Genova distava più o meno un’ora dal paesino dove abitavano. Dopo essere saliti sul quel furgoncino dall’odore di pesce in scatola, usciti da quella piccola cittadina ligure, imboccarono l’autostrada diretti alla città che si affacciava sul mare. Il silenzio regnava in

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macchina e la voce dei Coldplay rompeva quella monotonia che si era creata. “Marco, perché vuoi andare a Genova?”, chiese all’improvviso Giacomo. “Questa notte ho fatto un sogno dove c’era una melodia suonata da un violino. Era la stessa che mio padre mi faceva ascoltare in una piccola piazza genovese. Mi portava quando ero triste o pieno di malinconia. In quella melodia mi perdevo, mi facevo consolare e guardavo quel mare che mi dava così tanto timore. Papà guardava le nuvole. Non aveva paura di quello che c’era sopra di lui. Non aveva paura di quel mastodontico peso che aveva il cielo; pareva certe volte che lo schiacciasse. Lo guardava e mormorava alcune parole che ora mi sfuggono. Io lo guardavo in silenzio e all’improvviso, non so, mi mancava. Voglio andare a riascoltare quelle note perché sì, ho tanta malinconia per lui”, rispose Marco spiazzando il suo amico che cominciò a capire quella persona così complicata.Il viaggio continuava e si poteva distinguere quell’odore inconfondibile che ha il mare. Stava andando tutto bene ed entrambi si sentivano vivi quando all’improvviso Marco, così assorto nei pensieri, lasciò il volante per sporgersi dal finestrino, e tra le urla di Giacomo e il tentativo di riprendere il volante, si sentì un boato e poi di nuovo silenzio. Si era tutto trasformato in un incubo. Marco sentiva le sirene della polizia ma quei maledetti occhi non riusciva ad aprirli per capire cosa gli stesse succedendo. Un forte dolore alla schiena lo aveva sballato del tutto. Non sapeva come comportarsi; non poteva alzarsi e urlare che non era successo niente, che era tutto a posto e che poteva tornare a casa. Sentì poi quell’odore tipico dell’ospedale e il lontananza la voce di sua mamma Carla che non gli chiedeva, per quella volta, se voleva un pezzo di torta. Sentiva voci attorno a lui, senza capire da dove provenissero. Ora pensava solamente a suo papà. Non sapeva a chi rivolgersi. Paura, aveva soltanto paura. “Le condizioni sono stabili, non sappiamo con precisione se si sveglierà”, sentiva.Era in coma. Eh già. Poi a un tratto sentì una melodia. Gli era familiare. Era quella del porto di Genova. Quanto era bella. Per un attimo quel dolore che non gli faceva muovere gli arti scomparve e Marco aprì gli occhi. Era vivo. Ora però non sentiva più il suono del violino. Non aveva voglia di rivivere la monotonia dei giorni che sarebbero iniziati e poi si sarebbero susseguiti. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quelle note, che ora sembravano non avere un ordine preciso.

Veronica Frati, Scuola media G. Marconi, Maniago

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La dolce voce del violino

Nel centro del Cairo, Alì era appena tornato al forno dalla prima consegna, quando il fornaio uscì dalla porta e gli mise tra le mani una nuova cesta colma di pagnotte fumanti. Il ragazzo protestò seccato, ma il fornaio lo invitò ad uscire con un gesto.Rassegnato, Alì si avviò verso la bicicletta per una nuova consegna.Una voce dall’interno disse:”Da Mohammad, alla scuola”. “Va bene, disse a bassa voce il ragazzo, montò sulla bici e partì alla volta della strada trafficata nel centro del Cairo. In una decina di minuti arrivò a destinazione e non fece in tempo a bussare che una voce disse:”Salam, Alì. Dammi pure la cesta. Ecco il denaro. Controlla, dovrebbe essere giusto”. “Due pound e cinquanta piastre. Perfetto!”. “Bene. Allora a domani”.“Ila-al-liqa”, rispose e si allontanò fischiettando una canzone che sentiva spesso alla radio. Poco dopo, verso metà strada, una bottiglia di vetro ridotta in pezzi bucò la gomma della bici, già un po’ scassata di suo, e costrinse Alì a camminare. Lui c’era abituato. Quando era piccolo, infatti, doveva camminare una decina di chilometri al giorno. Il suo villaggio era molto piccolo e si trovava a Siwa, una remota oasi nel deserto occidentale. Anche se ormai era diciassettenne, gli faceva piacere andare a trovare i genitori il mese di Ramadan, il periodo più sacro per un musulmano.Mancavano solo due settimane al giorno della partenza. Mentre stava per arrivare al forno, sentì una melodia dolcissima venire da uno degli appartamenti vicini. Curioso, si guardò intorno, in cerca di quella musica dolce come il miele, ma niente. Tutt’a un tratto, però, scorse una finestra aperta che dava sul vicolo. Anche se il rumore del traffico nella strada vicina era forte, Alì riusciva a sentire nitidamente ogni singola nota. Poi la musica tacque, e proprio da quella finestra si affacciò una ragazza con i capelli neri come la notte che facevano capolino dal velo azzurro. Ad un tratto Alì disse, quasi sussurrando:”Salam”.“Salam. Tu sei...?”, rispose la ragazza.“Alì, mi chiamo Alì e tu?”“Ah, ciao, Alì.Io sono Fatima. Dove vai di bello?”.“Al forno, dove lavoro. Devo trasportare ceste di pane su e giù per il Cairo. E tu?”.“Una bella faticaccia. Io non posso uscire di casa. Mi consolo col mio violino, una cosa che sono riuscita a comprare con i pochi soldi che ho guadagnato da piccola vendendo le ceramiche che faceva mio padre”.“Quindi eri tu quella che suonava?”.

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“Sì, proprio io. Ma senti, tu sei del Cairo?”.“No, vengo da Siwa”.“Ah, si sente!”.“Perché? Scusa, ma ora devo andare…”.“Aspetta! Scrivi il tuo indirizzo su un biglietto e mettilo sotto la porta, per favore”.“Va bene. Ecco fatto. Beh, allora arrivederci, principessa!”, disse lui, strizzandole l’occhio.“A presto, Alì”, ribatté Fatima.Il resto della giornata passò in fretta. Ma non riusciva a dimenticarla. Anche quando andò a letto con i compagni, continuava a pensare a quella fanciulla.Il giorno dopo Belhassen disse:”Ehi, Alì, c’è posta per te!”.Lui gli corse incontro e gli strappò la lettera dalle mani. Lesse in fretta. Solo tre righe:”Ciao, sono Fatima. Oggi mio padre verrà al forno. Consegnagli pure la lettera di risposta. Ti va di scriverci per conoscerci meglio?”. Alì si mise velocemente a scrivere la risposta. Nel pomeriggio passò il padre di Fatima e Alì gli consegnò prontamente la busta. Il giorno dopo Alì trovò sulla soglia del dormitorio una nuova lettera, e ogni mattina da allora.I giorni passarono, e lui dovette andare a Siwa dai genitori. Qualche volta giocava a calcio con i fratelli, mentre altre volte rispondeva alle rare lettere che Fatima gli mandava. In una di queste c’era scritto:”Salam Alì. Volevo dirti che tra poco andrò in Italia, a Cremona, per diventare violinista. Che ne dici se continuiamo lo stesso a scriverci? Ciao. Bacio. Fatima”.“Papà, svegliati!”, disse una vocina.“Io e la mamma stiamo facendo la pasta per la pizza, vieni con noi?”.“Ma certo, piccola”, rispose lui, ancora immerso nei suoi pensieri. “Ti sei fatto una bella dormita, eh?, disse una voce femminile.“Ehi, ciao, Fatima, amore! Hai proprio ragione!”, rispose ridendo.Finito l’impasto della pizza, Alì si mise sul sofà a leggere. Continuava a sentire nell’aria una dolce melodia.Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Gli sembrava di essere ritornato ragazzo. Il tempo passò in fretta, e Fatima disse:”Si mangia!”.Alì guardò di scatto l’orologio: erano le otto di sera. La dolce musica si dissolse in un baleno.“Nassera, hai sentito? Su, andiamo a tavola!”.“Sì, papà”, rispose la piccola. “Ho così tanta fame che vorrei mangiare una fetta di pizza grande come una montagna!”.

Michela Governatori, Scuola media Pasolini, Pordenone

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Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Lo aveva riportato a quel maledetto giorno più brutto della sua vita, il giorno in cui tutto il mondo gli era caduto addosso. Il giorno di tanti anni prima in cui era morta sua madre. Era una mattina molto tranquilla a Milano; l’aria era fresca ma non troppo e lui era affacciato a una finestra di un hotel di lusso. Ormai era abituato a girovagare tutti i fine settimana a causa della popolarità della madre: era una famosa violinista e spesso si doveva esibire in prestigiosi teatri. Quel weekend era uno di quelli. All’esibizione della madre mancavano poche ore e così decise di riposarsi un po’ prima di raggiungerla in sala prove. Si distese sul letto e si assopì. Iniziò a sognare di correre liberamente su un prato verde e pieno di fiori colorati quando sentì il chiavistello della porta scattare; si svegliò di soprassalto e intravide sua madre entrare nella stanza barcollante e piena di sudore. Immediatamente si destò e le corse incontro preoccupato: sua madre soffriva di cuore e molto spesso le capitava di andare nel panico e non riuscire più a trovare il respiro ma, secondo i medici, non c’era soluzione: doveva conviverci. Le chiese se andasse tutto bene e lei rispose di sì con un debole cenno della testa cercando, invano, di pronunciare anche le parole “è uno dei miei soliti attacchi”. Lui si precipitò in bagno per inumidire un asciugamano e poi tamponarle la fronte e mentre faceva questo le disse che forse non era il caso che facesse lo spettacolo perché era evidentemente debole, ma lei con tutta la convinzione che riuscì a tirare fuori gli rispose di no, che ormai quello che era stato promesso era fatto, si alzò furiosamente dal letto dove si era prima seduta e uscì dalla stanza lasciando il figlio da solo. Alex, il figlio, decise di andare a sentire le prove della madre dato che era sveglio, così prese la chiave della stanza, uscì, si assicurò di aver chiuso la porta e scese le scale diretto al teatro. Non appena entrò vide la madre in piedi sul palco con il suo amatissimo violino: indossava un vestito rosso garofano che le arrivava fino alle caviglie, un paio di tacchi sempre rosso lucido e i capelli raccolti in uno chignon ornato da dei fiorellini rossi. Era bellissima e tutti gli sguardi dei presenti erano rivolti verso di lei; così Alex si sedette e non appena la madre iniziò a suonare lui sentì cullare dalle note di quella canzone: l’aveva inventata lei e si chiamava

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“La vita è un fiore”. La sentiva così familiare perché l’aveva dedicata a lui. Era ormai rilassato sulle poltroncine di velluto del teatro e ripensava a tutta la sua vita e a tutte le esperienze belle che aveva fatto grazie a sua madre, quando tutto quel mondo parallelo si spezzò e Alex tornò ad essere a teatro, seduto su una poltroncina. Era frastornato perché la musica si faceva sempre più agitata e sua madre sembrava sempre più insicura di quello che suonava: molte volte si fermava e rimaneva lì alcuni secondi a fissare il vuoto di fronte a lei. Alex pensò che fosse normale: dopo tutto erano tre giorni che dava concerti ininterrottamente; così cercò di ritornare in quel mondo parallelo dove tutto era bello e ci riuscì perché sua madre, seppur con qualche incertezza, continuò a suonare. Però dopo un paio di note la melodie si interruppe di colpo. Lui sbarrò gli occhi e vide sua madre con gli occhi chiusi, la testa china e le braccia molli. Alex, si alzò, salì le scale del palco e man mano che saliva la sensazione di sconforto e di abbandono cresceva. Infine si avvicinò alla madre e cadde in ginocchio. Si sentì crollare il mondo addosso e probabilmente rimase lì fermo immobile per un quarto d’era; poi prese delicatamente il violino dalle mani della madre, entrò in camera, si rannicchiò in silenzio nel letto e iniziò a piangere altrettanto silenziosamente. Non riuscì a darsi una spiegazione ben chiara del motivo per il quale aveva fatto quel gesto. Probabilmente, pensò, se l’aspettava e aveva capito che non c’erano molte altre possibilità. Ma la vita andava avanti e bisognava stare al passo.

Beatrice Manicone, Scuola media Pasolini, Pordenone

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La sveglia era appena suonata con quell’insistenza tipica del lunedì mattina. L’atmosfera fuori era ancora avvolta dalle luci dell’alba e Roberto, ancora avvolto nelle coperte, stentava ad alzarsi. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Gli sembrava ancora di sentire quelle note a tratti dolci e tratti acute che aveva tanto udito da bambino. Le conosceva bene quelle melodie, le stesse che aveva avuto modo di rivivere in quel sogno. Erano le note che spesso amava trasformare in emozioni sua madre, ormai defunta da anni. Erano già le sette e mezza, ma Roberto voleva rimanere lì, a rivivere ad occhi aperti quel sogno che non sembrava poi così tanto lontano dalla realtà. Stava rivivendo il ricordo di sua madre, e di quella passione che aveva sempre inondato tutta la famiglia. Da piccolo, infatti, Roberto amava sedersi su quel suo amato cuscino a gambe incrociate e osservare la madre che si apprestava a suonare il violino. Era uno strumento così affascinante, così piccolo ma in grado di emettere suoni così appuntiti, taglienti. E quando attaccava la prima nota, Roberto ne rimaneva ogni volta incantato. Si lasciava andare su quelle note che ormai erano diventate parte di lui. Iniziava a muoversi, andare, ballare per la stanza. Mentre la madre, che era un tutt’uno con lo strumento, lo accompagnava in quella sua danza armoniosa. Era sempre stato così, si era sempre sentita la voce del violino provenire da quella casa, tanto che quelle note erano come impresse in ogni stanza. Non ci si stancava mai, sembrava che quel violino potesse rendere l’atmosfera e l’umore migliori.Fino a che, un giorno d’inverno, l’anima pura e libera della madre si era spenta. E con lei si erano spente le giornate, che adesso sembravano vuote e troppo silenziose. Non si sentiva più quella melodia che invadeva tutta la casa, ma solo il meccanico rumore degli orologi appesi alle pareti. Si era spenta un po’ anche l’anima di Roberto, che anche dopo la morte della madre continuava a sedersi sul suo cuscino, sempre a gambe incrociate e sguardo fisso su quella sedia, dove un tempo si accomodava sua madre. E rimaneva lì a guardare, e soprattutto a sperare che lei a un certo punto arrivasse davvero. Ma ogni volta se ne andava via deluso e amareggiato. Col tempo, aveva deciso di allontanare i numerosi ricordi legati al passato che spesso gli riaffioravano nella mente, e per molto tempo non aveva più ripensato alla madre e al piccolo mondo che aveva asciato quando

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era morta. Viveva la sua vita nella monotonia di tutti i giorni e l’unica musica che sopportava di sentire era quella dei motorini mentre andava all’università. La ferita nel suo cuore era ancora aperta e viva, e il solo udire dei violini non faceva altro che aprirla ancor di più. Si era sempre distaccato dal ricordare fino a poche ore prima, quando dopo anni aveva rivisto nei suoi sogni sua madre. La sveglia aveva ripreso a suonare, ora con insistenza e prepotenza per far alzare dal letto a tutti i costi Roberto. Ma ancora una volta aveva preferito spegnerla. Quella suoneria così meccanica e robotica rompeva il suono del violino ancora impresso nella sua mente. Era tardi ormai per andare a scuola, e la neve candida che si intravvedeva dalla finestra della camera gli suggeriva di rimanere a casa. Decise a un certo punto di alzarsi dal letto e andare ad accendere il caminetto. Passando per i corridoi bui della casa i ricordi si facevano sempre più vividi e chiari nella sua mente e quel peso iniziava a farsi sempre più pesante nel suo cuore. Doveva dar loro l’opportunità di uscire e farsi spazio dopo che per tanti anni erano rimasti chiusi e repressi. Così aprì la porta della sala ed entrò piano, a passi lenti mentre si godeva d nuovo quell’aria ancora carica di musica. Si sedette sul cuscino blu, che ormai era diventato troppo piccolo, e aspettò. Fissò la sedia e chiuse gli occhi. Ripensò alla voce del violino e si abbandonò di nuovo alle note che ora solo lui sentiva. Gli era mancato sentirsi libero dopo così tanto, e ad occhi chiusi si immedesimò in quella sua danza piena di ricordi.

Sara Massaro, Scuola media G. Marconi, Maniago

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L’ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI

Londra. 3 ottobre 2006. Casey era appena uscito di casa, per andare al parco e incontrare lì i suoi amici. Era un sabato come tutti gli altri; al mattino era andato a lavorare nello studio dell’avvocato Cooper, come faceva tutti i giorni della settimana, e al pomeriggio si era dedicato alla pulizia del suo piccolo appartamento. Da quando si era trasferito a Londra dal suo piccolo paese natale, Castlebright, una desolata terra di contadini, in cui Casey aveva capito che le sue potenzialità non potevano essere sfruttate a pieno, viveva infatti in un piccolo monolocale da solo. Le uniche persone con cui aveva contatti erano infatti solo i suoi tre migliori amici, ex compagni di Università, e altri due ragazzi del suo condominio. E proprio con loro sentiva il bisogno di divertirsi e di uscire dalla solitudine di ogni giorno.Quindi, dopo essersi incontrati di fronte alla Fontana della Pace, al centro del parco, Casey e i suoi amici si erano diretti verso il bar più rinomato del centro, “Da Ronny”, dove avevano ordinato una birra e avevano iniziato a guardare distrattamente la partita, sconcentrati dalle parole di chi raccontava la propria settimana. Dopo qualche cicchetto e un’altra birra, i sei amici si erano salutati ed ognuno si era diretto verso il proprio alloggio. Per arrivare alla fermata della metrò, Casey e i suoi due vicini avevano dovuto attraversare uno tra i quartieri più malfamati di Londra, Glow Street, e lì avevano potuto udire alcune note del brano Va’ Pensiero, che un mendicante tentava di eseguire con un violino, strumento che aveva appassionato molto il ragazzo in età adolescenziale. Era rimasto molto colpito da questo avvenimento, che gli aveva fatto tornare alla mente quei tempi. Arrivato all’appartamento, era andato a letto stanco ma tranquillizzato dall’idea che il giorno successivo si sarebbe potuto riposare. Ma dopo essersi coricato, i suoi occhi non avevano intenzione di chiudersi. Era assillato dalla scena del mendicante vista qualche ora prima. Dopo qualche minuto la stanchezza aveva avuto però la meglio su di lui e il sonno aveva preso il soppravvento. Un sonno non calmo, non gratificante, ma disturbato da un sogno, in cui aveva rivisto tutta la sua vita, come in un film, ed era stato colpito soprattutto dei ricordi di quando aveva sette-otto anni. Gli

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erano ritornate in mente le lezioni di musica impartitegli dalla madre e dal padre, talentuosi musicisti, la messa della domenica con tutti i suoi amici, le pecorelle dei nonni, che accompagnava a pascolare quando il tempo lo permetteva… Ma purtroppo era stato svegliato dal ricordo peggiore, l’ultimo saluto dei genitori prima che un’auto li investisse davanti ai suoi occhi.Da lì la sua vita era cambiata: aveva abbandonato i corsi di musica, non aveva più voluto incontrare gli amici ed era diventato una persona chiusa, silenziosa. Quel fatto era stato un vero trauma per lui.

Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo, quel componimento di Verdi, Va’ Pensiero, l’ultima canzone che sua madre aveva suonato prima di lasciarlo, aveva impresso qualcosa nel suo cuore, che non era facilmente cancellabile. Quel qualcosa, il suo amore per la musica, che secondo Casey sarebbe riuscito a occupare quel posto vuoto, quella solitudine che lo accompagnava, una solitudine provocata dalla perdita dei genitori.La sua vita aveva subito quindi per la seconda volta una svolta epocale; dopo aver lasciato il lavoro di avvocato, Casey aveva acquistato un nuovo violino e aveva ricominciato lo studio della musica, dedicando i suoi progressi alla madre e al padre, che lo avevano sempre sostenuto nelle sue scelte.Per la sua eccezionale bravura era entrato dapprima in celebri bande della città ma poi, grazie anche alla sua forza di volontà e alla sua passione, era stato assunto alla Royal London Orchestra, conosciuta a livello mondiale, diventando un famosissimo virtuoso e autore di metodi per violino. E ogni libro veniva concluso da Casey con la frase “L’essenziale è invisibile agli occhi”, di Antoine de Saint-Exupéry, perché erano state proprio delle semplici note suonate da un mendicante, “invisibili” appunto, a farlo diventare quello che era.

Enrico Mognato, Scuola media G. Galilei, Scorzè

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Per lui, quel giorno, fu uno come gli altri: si svegliò, fece colazione, si cambiò e andò a scuola. Le sei ore passarono in fretta, tra spiegazioni e interrogazioni, e si fecero subito le due. Il ragazzo non vedeva l’ora di arrivare a casa per gustarsi il suo pranzo. Quel giorno, a casa, c’era pure la nonna, passata a stirare i panni della famiglia del ragazzo, e approfittò per preparare il pasto al nipote. Lui avrebbe tanto voluto poter terminare quelle magnifiche lasagne ancora fumanti, ma il tempo non glielo permetteva, doveva ripartire.Corse, corse come non aveva mai corso in vita sua, per raggiungere l’autobus che lo avrebbe portato alla sua destinazione. La sua destinazione era un liceo, un liceo in cui avrebbe dovuto disputare un concorso con altri ragazzi. In realtà il ragazzo non si ricordava nemmeno chi lo avesse costretto, sapeva solo che le prossime quattro ore del suo pomeriggio le avrebbe passate a scrivere un tema. L’idea non lo allettava molto ma era convinto che prima avesse iniziato, prima sarebbe potuto tornare a casa, quindi si incamminò verso l’entrata della scuola.A ogni passo che faceva le mani tremavano sempre di più e l’ansia cominciava a salirgli, e trovò tutto ciò alquanto strano dato che poco gli importava di quel concorso forzato.Il ragazzo fu condotto in un’aula illuminata dalla luce del sole che penetrava tramite quattro finestre. Le pareti erano di una rosa caldo e avvolgente che durava però fino alla metà dei muri; poi diventava vecchio, freddo bianco sporcato dal tempo.Ora, il ragazzo era seduto in prima fila, accanto alla sua migliore amica, sperando che gli potesse fare compagnia ma si accorse poi che, in realtà, era solo … Solo, ma con altri ragazzi, davanti ad un foglio, una penna nera e ad un insegnante che spiegava come procedere … Lui faceva tutto ciò che gli veniva detto, ma quasi senza pensarci … Era concentrato sulla storia che doveva scrivere. Ci aveva quasi preso gusto, era curioso di vedere ciò che avrebbe potuto scrivere …Voleva andare fino in fondo.Ormai il sudore delle sue mani non era più per l’ansia, ma era dovuta alla grinta che gli era nata dentro, solo per riempire due facciate di parole.

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Non sapeva ancora cosa scrivere, allora si lasciò andare all’immaginazione e ai sogni …Stava sognando ad occhi aperti.Mille idee gli passavano per la mente, da draghi sputafuoco del Medioevo a robot super tecnologici del futuro, ma nulla lo convinse, voleva qualcosa di ancora più stravagante. Ad un certo punto, la sua fantasia si spinse oltre, iniziò a vedere gli oggetti della stanza prendere vita, ma sembrava che solo lui se ne fosse accorto. Si lasciò andare e la sua mente sembrava lo stesse prendendo in giro; il ragazzo vedeva penne trasformarsi in serpenti a sonagli, cestini diventare canestri da pallacanestro, gli appendini in fondo all’aula ormai sembravano le torri di un castello, all’armadio erano spuntati i denti e le casse dell’unico computer presente nell’aula riproducevano diverse canzoni ma tutte sovrapposte. Il ragazzo non sopportava tutto quel caos, chiuse gli occhi per qualche istante, quando li riaprì tutto era diverso … Ora, nel suo “sogno”, c’era ordine e, dal nulla, le lancette dell’orologio si staccarono, scesero e presero le sembianze di un uomo e di una donna. Anche le tende delle finestre si animarono, si diressero verso l’uomo e la donna, prima lancette, e li avvolsero in splendidi abiti.Lui rimase incantato nel vedere due lancette di un orologio avvolte da tende iniziare a ballare un lento, accompagnati dalla musica dolce di un violino uscita dalle casse del computer. Era tutto perfetto, in ordine, ma … “Driiiin!!!” Suonò la terza campanella.Il ragazzo ritornò sulla sedia, mancava solo un’ora alla consegna dei testi e il suo foglio era bianco, ma … Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. I due ballerini gli sembravano dei ricchi nobili dell’ottocento che passavano il proprio pomeriggio tra note e passi di danza. Aveva un’idea! Sapeva ciò che avrebbe scritto, sapeva che avrebbe scritto accompagnato dalla melodia di un violino, sapeva che avrebbe scritto ciò che aveva in mente e nel cuore.Allora con un’infinità di emozioni che lo tormentavano, il ragazzo portò la penna verso il foglio e iniziò a scrivere: “Per lui, quel giorno, fu uno come gli altri…”.

Mirco Moretto, Scuola media L. da Vinci, Cordenons

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Vivevo a Londra da quando ero nata. Quella città era sempre stata una magia per me: tutte quelle persone che camminavano frettolosamente, la potente campana del Big Ben che faceva svolazzare via i piccioni e tutte quelle luci che illuminavano la notte cittadina.Quel posto mi affascinava. Vivevo in un antico quartiere, in una stretta via del centro, assieme a mia madre. E mio padre? Di lui non seppi mai nulla. Ricordo solo quel tragico momento in cui mia mamma piangeva e io non capivo perché ero troppo piccola. Appresi da mia madre che ci aveva abbandonato senza ritegno e che l’aveva lasciata con pochi soldi a occuparsi di me.Con questo, mi abituai alla vita fra sole donne e capii che forse era quello il mio destino: vivere per sempre da sola con mia madre. Non che io non mi divertissi, anzi. Facevamo diverse cose insieme: la aiutavo a cucinare, andavamo ai giardini Kensington e, d’estate, andavamo a fare alcune settimane in Cornovaglia.Mamma faceva tutto ciò che poteva per rendermi felice, ma io non lo ero. Dentro di me si creava un vuoto. Un enorme vuoto che, fino a quel momento, nessuno era stato capace di colmare. Il mio cuore era diviso in due: una parte piena di battiti e l’altra vuota e grigia, come una soffitta piena di polvere. Non lo capivo neanche io il perché. Dopotutto, sapevo di dover accontentarmi di tutto quello che il mondo mi offriva, avevo una bella casa, la possibilità di studiare e degli amici. Nel profondo, sapevo di non avere molti amici, in realtà. L’unica di cui mi fidavo era Jenny. Ci conoscevamo dall’asilo e stavamo sempre insieme, essendo vicine di casa. Contrariamente a me, Jennny era una ragazza sicura di se stessa e che difficilmente si faceva condizionare dagli altri. Io all’apparenza sembravo come lei, ma dentro ero infelice e insicura. Se avessi continuato così, il mo cuore si sarebbe chiuso e sarei diventata una ragazza triste, depressa e sola. Dovevo trovare qualcosa che mi soddisfacesse, che mi facesse sentire bene. Avendo quindici anni, pensai bene a ciò che facevano le mie coetanee. Fumare? No, grazie. Bere? Nemmeno per idea. Frequentare i ragazzi? No, non ero pronta. Non avevo idee. Quando le altre ragazze uscivano a fare spese, io rimanevo rintanata in casa a studiare letteratura inglese. E mi piaceva anche leggere. Chi lo giudicava un hobby strano, era stolto e incapace di apprezzare il mondo. Così mi decisi e iniziai a uscire con Jenny. Quando uscivamo da scuola,

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attraversavamo Tower Bridge sotto la pioggia e ridendo ci imbottigliavamo fra la gente. Attraversavamo le strade, i viali e le piazze, fino ad arrivare alla biblioteca comunale. Lì, io e Jenny sfogliavamo e leggevamo i libri. Quel luogo era come una seconda casa; in mezzo ai libri ci sarei rimasta per sempre. Un giorno mi capitò fra le mani uno strano libro: aveva una fodera di velluto blu e le pagine ingiallite dal tempo. Aprendolo, il mio occhio cadde su una frase:” Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo”. Ripensai a ciò che avevo letto, ma una scrollata di Jenny mi riportò alla realtà. Non ci feci caso e mi lasciai trascinare da lei fino a un pub. Era attaccato alla biblioteca. All’interno, era un locale vecchio e buio con un forte odore di birra. Volevo andarmene, ma Jenny obbligò a rimanere. Olivia, una cameriera matta spiritosa amica della mamma di Jenny, ci presentò agli altri camerieri e ai clienti abituali. Di questi uno mi colpì in particolare: si chiamava Jack, era un uomo alto, sulla quarantina, e a me sembrava disperato. All’inizio pensai che fosse uno di quegli uomini disoccupati, senza un soldo e che si ubriacano tutte le sere, ma mi sbagliavo. Dopo quel giorno io e la mia amica iniziammo ad andare nel pub più spesso. Mentre Jenny raccontava le ultime novità ad Olivia, io socializzavo con Jack. Era gentile con me ed era una persona di cui fidarsi. Mi piaceva quell’uomo, forse era il padre che non avevo mai avuto. Mi faceva sapere tutto su di lui, sulla sua carriera, sui suoi difetti. Anch’io gli parlavo di me, della mia breve vita e dei miei sogni. Un pomeriggio gli fissai gli occhi: erano identici ai miei. Ma forse era solo uno scherzo della mia immaginazione. Più tardi gli feci una domanda:”Ma non sei sposato? Non hai una famiglia?” Lui, dopo un sospiro, mi rispose tristemente:”No, ora non più. Tanto tempo fa ero un uomo felice, sposato e avevo una bambina. Un brutto giorno mio padre mi costrinse ad andarmene. Diceva che mia moglie aveva troppi pochi soldi e che non avrei più potuto vivere con lei. Così me ne andai e non seppi più nulla di loro. Non sapevo cosa dire, perciò non gli chiesi altro. Quando lo avevo ascoltato, avevo percepito qualcosa nell’aria. Un fruscio mi aveva scosso la mente. Poi sentii della musica. Nel pub, un uomo stava suonando il violino dolcemente. Lo strumento suonava una melodia struggente, soave e triste allo stesso tempo. Una sera, andai a una festa con Jenny. Si teneva proprio lì, in quel pub. Prima di uscire, mi feci carina e mi misi il profumo della mamma, di nascosto. Quando arrivai al pub con la mia amica, sentii che l’atmosfera era magnifica ed elettrizzante. Ballai tutta la sera, senza pensieri. Poi mi ricordai improvvisamente: Jack! Non lo avevo neanche salutato e ora chissà dov’era.Svelta, uscii dalla folla e mi precipitai al bancone. Lo vidi lì, come se mi stesse

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aspettando. -Beth-mi disse mogio-non mi hai neanche salutato. …-Scusa-dissi imbarazzata-ma io….-Tanto io non conto niente per nessuno-affermò e fece per andarsene, ma si bloccò a un tratto. Annusò l’aria. Poi venne piano verso di me, con gli occhi lucidi.-Elizabeth-disse con voce flebile-sei davvero tu? Io sono tuo padre!Aveva sentito il mio profumo. Corsi e lo abbracciai. Avevo ritrovato mio padre. L’uomo meraviglioso dinanzi a me era mio papà. Scoppiai. Scoppi a piangere, a ridere, a vivere. Quella frase mi aveva aiutato. Il mio cuore era finalmente riempito.

Margherita Moro, Scuola media G. Lozer, Pordenone

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NOTE IN CAMPO

La musica. L’unica cosa che amava, l’unica compagna fedele che l’aveva accompagnato per tutta l’infanzia. Ricordò quand’ancora era bambino e già suonava il violino: una melodia soave, dolce, gentile.Era, per lui, come la mamma che non aveva mai avuto. E poi, tutto finito. In mezzo a tante persone, come un branco di zebre rinchiuse in un terreno arido, senza erba. Senza acqua, senza niente.Come un passero in gabbia, si sentiva. Come un passero che non può volare, via, ai confini della terra, nel cielo infinito. Quanto avrebbe voluto essere come una nota, libera, svolazzante, fra i fogli pentagrammati; quanto avrebbe voluto volare sulle ali della musica. Essere come il do, la nota più bassa, e anche la prima che viene pronunciata. Do la nota della gentilezza, del Dono appunto, io Do, senza pretendere niente in cambio. Come gli sarebbe piaciuto essere Dono. Oppure, ecco sua maestà, il Re, nota dell’eleganza e dello splendore. La nota regale, il cimento dell’armonia.Quanto sarebbe stato bello essere il Re! Altrimenti il Mi! Mi perché si parla di sé. È la nota della riflessione, della calma, del pensiero. E perché scartare il Fa? È la nota del lavoro, della fatica, ma anche quella della soddisfazione e dell’utilità. Quanto soddisfatto sarebbe stato nel Fare, nel sentirsi utile? Il Sol, la nota della felicità, della gioia; il raggio di sole nel posto ostile in cui si trovava. Che contento sarebbe stato a essere il sol! Il La, la nota dolce, la bussola che guida l’armonia. Indica infatti un punto preciso: ”Là”, la retta via, la strada verso il bene. Quale emozione sarebbe stata essere la guida, il cuore delle persone che lo condannavano. Infine, il Si, la nota della vita, del tempo; del passato, del presente e del futuro. Che gioiosa sarebbe stata la vita da Si, da regalo, da presente, appunto.Ma questo era solo un sogno, tutto un sogno, adesso lui era lì, e non poteva più tornare indietro.Quel giorno era particolarmente grigio e cupo e il lavoro era aumentato. La rete che lo separava dalla libertà non era invalicabile, bastava scavarci sotto, sfruttando la buca praticata nel terreno dalle talpe. Un’ operazione rischiosa: se fosse stato scoperto, lo avrebbero fucilato. Erano in tanti, tutti accalcati lì, tutti

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speravano in lui. E quando riuscì a terminare il tunnel, ci si precipitarono fuori disperatamente e scapparono lontano. Intanto si sentì l’adunata: era l’ora della doccia, sarebbe scappato la volta successiva. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo. Indietro fino all’infanzia, fino a quell’ età in cui credeva ancora nei desideri. Dopo tanto tempo dall’oscurità del cielo spuntò il primo raggio di sole. Lui non c’era più. Di lui, persona senza nome, una tra tante cifre, era rimasta solo polvere che volava via dalle ciminiere come in un grande camino. Volava via, nel vento, libera, come aveva sempre desiderato. Adesso era libero ma no, non era stato una nota. Non solo… lui era stato dono, splendore, riflessione, lavoro, sole, bussola, regalo.Lui era stato un’intera melodia; era stato Amore, MUSICA.

Benedetta Mussoletto, Scuola media Padre Marco d’Aviano

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Era luglio, estate finalmente, la stagione preferita da Giacomo, un ragazzo quattordicenne che vedeva la scuola come una prigionia, ma nonostante ciò era vivace, allegro, gli piaceva giocare come tutti i ragazzi, solo che a differenza di loro aveva la passione per la musica e tutti lo prendevano in giro per questo. Il padre non c’era più, ma aveva lasciato un segno indelebile nel giovane. Era un intellettuale borghese, nonché scrittore, compositore e musicista. Passava molte ore del suo tempo nei bar, nei salotti o nel suo studio a lavorare. Non stava tanto con la sua famiglia e di questo aveva risentito Giacomo, che allora aveva già compiuto i tredici anni. Incominciò a odiare il padre, a non rispettare più né lui né quello che faceva come mestiere. Poi un giorno il padre sparì, scomparve all’improvviso e non si seppe più nulla di lui e Giacomo smise di studiare e cominciò a frequentare brutte compagnie. La madre tentò ripetutamente di farlo tornare sulla giusta strada, ma invano; a Giacomo, anche se non voleva farlo vedere, mancava la figura paterna. Finora era cresciuto solamente con gli insegnamenti della madre e gli erano bastati, ma adesso stava diventando grande. All’età di quindici anni Giacomo ha una grave crisi, sente di aver bisogno di affetto, che sicuramente sua madre non gli dà perché s sta facendo in quattro per mandare avanti la casa e crescere un figlio da sola, così si attacca per la prima volta a tutto ciò che gli ricorda su padre. Inizia a leggere i libri che lui scriveva e tutto ciò che componeva fin quando, rovistando tra le scartoffie, trova un diario con sopra scritto il nome del padre, con un lucchetto con la chiave inserita su un lato. Lo apre e comincia a leggere. Gli si spalancò un mondo sconosciuto davanti. Scoprì un lato del padre di cui non sapeva a da cui trasse motivi d’aiuto e di ispirazione. Vi erano riportati i sentimenti più profondi del padre e ciò che lui provava per la sua famiglia e per il suo lavoro. Allora Giacomo si rese conto del tesoro che aveva perso e cercò in tutti i modi di rivivere quelle esperienze e quei momenti che gli ricordavano quanto fosse straordinario suo padre. Incominciò ad appassionarsi alla musica e a scrivere lui stesso quello che suonava. Arrivò persino a comporre e a pubblicare le sue

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canzonette all’età di sedici anni. Riprese a studiare per recuperare tutto ciò che prima non aveva imparato e cominciò a interessarsi alla cultura in generale. Sapeva che non sarebbe mai potuto diventare come suo padre ma voleva che lui, ovunque si trovasse, fosse orgoglioso di suo figlio. Rammentava come lui suonava bene tutti gli strumenti orchestrali, ma uno in particolare gli era rimasto impresso, con quel suono dolce, vellutato e armonioso. Anche a suo padre piaceva molto suonare il violino, ma secondo Giacomo lo strumento di suo padre aveva qualcosa di particolare, lo avrebbe distinto fra tutti come una voce che, quando la senti, riconosci subito la persona. Da un po’ il ragazzo, ormai diciottenne, soffriva d’insonnia, ma quella notte sembrava diverso, stava bene, non aveva più gli incubi e gli attacchi di panico in piena notte, come prima. Adesso stava facendo un sogno bellissimo: cera lui, sua madre, ma la cosa più importante era che c’era suo padre che stava suonando il violino, sì, proprio il suo violino, era straordinario, gli piaceva tanto sentirlo ma….drriiiiiiiinnnn, la sveglia lo fece sobbalzare, proprio quando si stava godendo per la prima volta, dopo tanto, suo padre e il suo violino. Purtroppo per Giacomo era il momento di tornare alla sua musica e ai suoi studi, ma il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.

Enrico Piccin, Scuola media L. Da Vinci, Cordenons

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Nevicava lentamente. Fiocchi leggeri e regolari. Il legno nel caminetto bruciava scoppiettando. A chiunque sarebbe piaciuto sedere su quel divano a guardare il fuoco. A lui no.Una lacrima gli scese sulla guancia. Non riusciva a smettere di pensare a lei. Due grandi occhi azzurri che non avevano mai perso la loro bellezza, mani affusolate e un corpo esile.Sembra strano definire belle le sue rughe, ma lo erano. Erano segni dolci, gentili, quelli che marcano i contorni della bocca di chi sorride spesso.Ora nevicava più forte.Erano le sette di sera, ma non c’erano pentole sul fuoco, né qualcuno che chiamava “è pronto!”Lui non aveva fame.Andò nel solaio. C’era quel sapore di carta ingiallita e polvere stanca. Prese una foto in mano, ma non riusciva a vedere bene. Quando si piange tutto è appannato.Strinse forte la cornice di legno e singhiozzò.Se solo avesse potuto dire “ti amo” ancora una volta… un abbraccio, un bacio, se solo avesse potuto andare da lei, cantare insieme, prenderle le mani e ballare per il salotto, suonare per lei un’ultima volta…Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo… Quel violino… a un tratto si trovò a cercarlo disperatamente. Eccola, la scatola di legno pregiato, impolverata. La aprì. Era lo strumento che lei gli aveva regalato a trent’anni. Prese il violino, la fotografia e scese velocemente le scale. Non si coprì. Nevicava ancora. Appoggiò la foto sulla neve e iniziò a suonare per lei. Era ancora molto bravo. Sapeva che, da qualche parte, lei ascoltava. Piangeva perché anche lui le mancava o sorrideva, davanti a questa musica, la melodia che lui le suonò al matrimonio? Faceva freddo ed era buio, ma era bellissimo. Imparò a vivere i ricordi con gioia.

Venne un tempo quando anche lui dovette abbandonare la vita, ma lo fece quasi in modo felice. La sua sposa lo attendeva.

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Morì circa un anno dopo di lei. Venne ritrovato nel suo letto, quasi come se aspettasse quel momento. Stringeva una foto con una cornice scura di legno. La foto era di due sposi. In bianco e nero. Sotto c’era scritto “Alberto e Agnese”. Dall’altro lato del letto matrimoniale c’era un violino.

Nevicava quel giorno.All’inizio pianoPoi, sempre più forte.

Paola Pilosio, Scuola media E. Fermi, Casarsa

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Erano le cinque e trenta di un venerdì mattina, e Michael non riusciva a riprendere sonno. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.Oramai era abituato a rimanere sveglio tutta la notte, nemmeno i sonniferi facevano più effetto. L’ incubo era sempre lo stesso, stesso posto, stesse urla. Aveva pensato al suicidio, due volte. Possibile che un sogno poteva portarlo a questi pensieri? “Sono le cinque e trenta del mattino e sono ancora sveglio, non ce la faccio più!” urlò Michael.I suoi genitori erano abituati a tutto questo, ormai avevano perso le speranze da molto tempo. Il ragazzo dalla testa colorata si alzò e andò nel suo posto preferito: il tetto. Lì poteva pensare a tutto e a niente e vedere le stelle, o “piccole lucine nel cielo”, come le chiamava lui.Salito sul tetto, vide una casa strana. Si avvicinò meglio e non poté credere ai suoi occhi: era una persona. “Posso aiutarti?” Michael non era spaventato, era incuriosito da quello sconosciuto. Visto che questo non rispondeva, continuò: ”Sai, io adoro venire qui, si vedono tantissime stelle. E poi guarda lì, c’è la Stella Polare, la più luminosa di tutte!”. Finalmente l’ intruso si fece vedere in faccia: era una ragazza. Aveva i capelli di un rosso caramellato, gli occhi erano due lucine blu in mezzo a tutto quel nero. “Come ti chiami, ragazza sconosciuta?” “Isabelle, ma chiamami Izzy”. Michael era così affascinato da quella voce, che per un momento dimenticò tutto, il sogno, il violino, tutto. “E che ci fai sul mio tetto, Izzy?” Michael voleva conoscerla, voleva sapere qualcosa su di lei.“Sono scappata, mio padre mi ha picchiata”. Isabelle era affascinata dai capelli colorati di Michael.“Posso sapere come ti chiami?” chiese timidamente Isabelle. “Michael, Michael Johnson”.“Isabelle, Isabelle Lancaster”.Allora a Michael venne un’idea: “Vuole venire dentro con me, signorina Isabelle Lancaster?”. Michael voleva che Isabelle entrasse, costi quel che costi. Voleva conoscere quella ragazza misteriosa.

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“E se tu volessi farmi entrare per uccidermi?” chiese Isabelle.“Ehi, non sono io quella sul tetto di uno sconosciuto” scherzò Michael. Isabelle rise, rise dopo tanto tempo. A lei piaceva Michael, con i suoi capelli verdi e gli occhi nocciolati.“Allora vuol dire che entrerò con lei, signor Michael Johnson”.Una volta entrati parlarono un po’ di tutto, si trovavano bene insieme, e magari sì, si piacevano un pochino. Prima di allora Michael Johnson e Isabelle Lancaster non si erano mai visti, ma il loro destino era già scritto sulle stelle, era già legato dallo stesso filo rosso, e dallo stesso suono soave di quel violino a loro sconosciuto.

Gaia Poli, Scuola media G. Zanella, Porcia

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Era seduto sulla sedia a dondolo del salotto, davanti alla vetrata che dava sulla vegetazione. Ondeggiava avanti e indietro fissando la magnifica boscaglia che gli si presentava davanti, o almeno, così sembrava. I suoi occhi puntavano al paesaggio, sì, ma il suo sguardo era perso, immerso in pensieri lontani, inconcepibili dall’espressione del volto. Poi, ad un tratto, uno di essi deve averlo svegliato dal momento di “trance” in cui era avvolto poiché si alzò improvvisamente raccogliendo da terra il suo violino e un raccoglitore con su scritto “Musica di Jacob Visley” pieno di fogli pentagrammati vuoti e si diresse, con passo deciso, dentro la sterminata vegetazione. Probabilmente il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo a ricordi che credeva scomparsi per sempre. Era diretto a un arco di pietra nel cuore del bosco dove, quand’era fanciullo, passava ore e ore insieme a sua madre, creando col violino melodie che nessun essere vivente aveva mai udito; di una dolcezza e leggerezza che può nascere solo dall’ amore di madre e figlio. Quel luogo era speciale, un paese incantato dove ci si poteva rifugiare quando si voleva parlare al mondo; ma bisognava essere in due per entrarci, da soli si perdeva la magia. Erano passati anni dall’ultima volta in cui ci era andato, dopo l’incidente, un cratere enorme gli si era creato nel petto e si sa, l’amore di una madre non lo può rimpiazzare nessuno; così aveva preso la decisione di eliminare la gioia del suono del violino dalla sua vita, cosicché questo non accrescesse il suo dolore. O almeno fino ad oggi. Il sogno di quella notte lo aveva risvegliato. Aveva rivisto sua madre, bella come un angelo che suonava una delle melodie più dolci del mondo. Aveva rivisto il suo viso, delicato come quello di un bambino, aveva rivisto l’amore che metteva nel suonare lo strumento che aveva deciso di dimenticare e il sorriso che sa fare solo una mamma quando vuole dire al figlio “Io sono qui, non ti abbandono”. Ecco, era arrivato a destinazione. L’arco di pietra possente davanti ai suoi occhi gli aveva creato un nodo in gola che non riusciva ad eliminare. Avanzava lento, fino a raggiungere il punto esatto dove suonava in passato. E, quando si sedette, si guardò intorno, osservando gli alberi con le loro chiome possenti e ascoltando lo sgorgare dell’acqua di un ruscello lì vicino; era tutto come lo ricordava, fece

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dunque un respiro profondo e lento per godersi quel momento che gli faceva sgorgare lacrime involontarie. Posò dunque il raccoglitore accanto a sé e prese il violino, pronto per tentare di rievocare un sentimento creduto perduto. Ma una cosa inaspettata accadde non appena chiuse gli occhi; improvvisamente un’ immagine sfocata gli apparve, quell’ immagine, l’angelo del sogno, sua mamma, che sembrasse voler suonare assieme a lui. E, di conseguenza, come se non fossero già abbastanza le lacrime uscite finora, un fiume impetuoso iniziò a scendergli sul viso, bagnando la coda del violino. Ci riprovò, chiuse gli occhi una seconda volta accertandosi che non fosse solo un’ illusione e, intanto, le sue mani iniziarono a suonare come da tempo non facevano, come se non fosse solo lui a compiere quell’azione. Non si sbagliava, l’ immagine era ricomparsa, sua mamma, luminosa come non mai, suonava insieme a lui con quel suo viso angelico. Riaprì gli occhi di colpo e insieme alle lacrime spuntò uno di quei sorrisi contagiosi sul suo viso, seguito da un tremolio su tutto il corpo. Ora ne era certo, sua mamma non l’aveva mai abbandonato, ed ora stava suonando con lui.Così, quando chiuse gli occhi per la terza volta, non li aprì più.

Helena Ridolfi Strizzot, Scuola media Padre Marco d’Aviano

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Marco era un ragazzo che all’età di vent’anni si era trasferito a Milano, per studiare medicina: il sogno della sua vita.Marco era un ragazzo timido e impacciato, ma anche intelligente e testardo, che non si abbatteva di fronte alle difficoltà; gli piaceva sentirsi “la pecora nera del gruppo” perché non si vergognava ed era convinto delle sue idee. Il suo più grande sogno era, appunto, diventare medico e trasferirsi in Africa, per studiare le malattie più insolite e poter aiutare i bambini più poveri e indifesi.Questo l’aveva capito fin dalla sua adolescenza quando, anche se in misura minore, aveva sostenuto che ognuno può fare qualcosa per sé e per il mondo, piccolo o grande che sia, e crescendo non aveva fatto altro che rafforzare il suo pensiero.Per realizzare finalmente il suo sogno, si era iscritto all’Università di Medicina a Milano, dove alloggiava in un piccolo appartamento di proprietà di un violinista.Era una notte d’ottobre e pochi giorni dopo Marco avrebbe avuto l’esame più importante e faticoso prima di laurearsi; come si può ben capire, il ragazzo, in questa situazione, era molto ansioso e preoccupato, in effetti quella sera era andato a dormire molto prima rispetto al solito. Si era appena addormentato che già aveva incominciato a delirare, tanto che il suo coinquilino lo richiamò parecchie volte prima di riuscire a svegliarlo. Il sogno che aveva fatto poche ore prima non si era ancora dissolto del tutto; e la voce di quel violino lo aveva riportato indietro nel tempo.Marco aveva avuto un’infanzia difficile, che nessuno conosceva. Non si era mai sentito a suo agio, tra i coetanei, perché molti lo deridevano per come si vestiva o si comportava, o perché non era mai stato fidanzato e quindi non veniva considerato. Ma c’era qualcos’altro che lo turbava, in quel sogno. Marco aveva un superpotere: quello di sapere immobilizzare le persone soltanto soffiando, anche a distanza, verso di esse. Spesso accadeva, nei compiti, che immobilizzando le persone riusciva a sbirciare nei libri e, a fine compito queste persone ritornavano umane come se nulla fosse. Per Marco, questo significava essere un imbroglione, cosa che non era e per cui si era sempre battuto contro. Questo, nel sogno, risultava essere il suo più grande segreto, che il suo ex amore Elisabeth, l’unica persona a cui lo aveva rivelato, delusa e arrabbiata perché Marco l’aveva lasciata, spifferava a tutto il mondo e, di conseguenza il ragazzo

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non riusciva a passare l’esame.Era stato proprio questo a spaventarlo e a svegliarlo, facendolo balzare sul letto, in preda all’angoscia. Non potendo far finta di nulla, aveva cercato di comportarsi normalmente e si era preparato per dirigersi all’Università.Quella mattina, Marco non aveva ancora capito il motivo del suo sogno e perciò sembrava un po’ turbato, ma al contrario lui era calmissimo e aveva concluso il suo ultimo esame con il massimo dei voti.Marco aveva terminato il suo ultimo esame, il suo ultimo passo verso la sua carriera solidale, era diventato medico: il sogno della sua vita si era finalmente avverato, qualcosa in cui aveva sempre sperato e creduto, e che finalmente diventava reale.

Ilaria Valerio, Scuola media G. Lozer, Pordenone


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