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Date post: 15-Feb-2019
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IL SOLE 24 ORE

Draghi all’Italia: «Moderate i toni e abbassate lo spread»

di Riccardo Sorrentino 25 ottobre 2018

Italia, Italia, Italia. Il nostro paese è stato - e giustamente - l’argomento principale della conferenza stampa del presidente della Bce Mario Draghi, tenuta al termine di una riunione del consiglio direttivo che non ha regalato molto novità se non un po’ più di attenzione in più sulla crescita.

«Fiducioso» su un prossimo accordo Non è stata una sorpresa, il rilievo che ha assunto l’Italia. Al punto che Draghi ha potuto riferire il pensiero del vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, che assiste alle riunioni: bisogna rispettare le regole fiscali dell’Unione - ha detto - ma Bruxelles sta cercando un’intesa. Persino Draghi ha voluto - e non avviene raramente - esprimere il suo personale parere: «Sono fiducioso sul fatto che si troverà un accordo», ha detto per poi aggiungere al termine della conferenza stampa: «È una questione di buon senso». Conviene insomma - ha spiegato - al Paese, alle famiglie, alle imprese, ai partiti che guidano il Governo «convergere verso un’intesa». Dove convergere sembra voler suggerire da quale parte si chiede maggiore flessibilità.

«Moderate i toni» Draghi ha anche lanciato un invito forte a tutti coloro che animano il dibattito pubblico in Italia per aiutare le banche del paese ed evitar loro troppi danni dall’ampliarsi dello spread: «Prima di tutto, si abbassino i toni e non si metta in dubbio la cornice costituzionale ed esistenziale (constitutional existential framework, ndr) dell’euro; e poi ridurre lo spread: varare politiche che lo abbassino». Sul differenziale - e in particolare su quello tra titoli italiani e greci,

che si sta riducendo - Draghi non ha voluto indicare, come è giusto, se il valore sia “corretto”, e ha precisato che dopo la fine del qe - se terminerà: il presidente continua a mantenere la porta aperta a tutte le opzioni - questo differenziale sarà determinato solo dalle emissioni nette dei singoli paesi (quindi dall’offerta di titoli di Stato) e non dalla politica monetaria.

Piccoli segni di contagio Non è chiaro, al momento, se le turbolenze italiane abbiano creato contagio. Si è notato - ha spiegato Draghi - un aumento marginale dei tassi di interesse in alcuni paesi non-core, ma ci sono fattori idiosincratici, relativi a ciascun paese, che potrebbero spiegarlo. «Forse ci sono alcune ricadute, ma sono limitate». Eurolandia è dunque molto lontana da una situazione in cui le condizioni monetarie si irrigidiscano al punto tale da richiedere una modifica della politica monetaria. I salvataggi dei singoli paesi - ha invece ripetuto - saranno realizzati solo attraverso gli Omt, acquisti di titoli sotto condizioni di riforme radicali, e solo se compatibili con l’orientamento complessivo della politica monetaria.

Il capital key sarà rispettato Sul dopo-qe, Draghi non ha riferito nulla: non se ne è parlato, ha detto. Sicuramente sarà rispettato il capital key: le quote di riacquisti rispecchieranno quelle dei singoli paesi nel capitale della Bce. «Sarei molto sorpreso - ha detto - se non dovessimo rispettarlo». Non è sembrato particolarmente allarmato dal fatto che a gennaio occorrerà rivedere, come accade ogni cinque anni, le quote di capitale di ciascun paese (e poi in relazione a Brexit): alcuni paesi come Italia e Spagna vedranno ridurre la loro quota e - secondo alcuni calcoli - la Banca d’Italia si troverebbe in portafoglio circa 28 miliardi di titoli “di troppo”, che - in astratto almeno - dovrebbero essere gradualmente ceduti.

Dopo il qe i Tltro? Sugli strumenti da usare dopo la fine (la «sospensione», ha detto Draghi) del programma di acquisti, in differenti situazioni, durante il consiglio sono stati evocati da un paio di governatori gli Tltro, le asta di liquidità a lungo termine finalizzate ai prestiti alle aziende. Draghi ha precisato che si è trattato solo di un esempio di quanto sia ampia la “cassetta degli attrezzi”, ma il fatto stesso che abbia voluto citarli può essere il segnale della volontà di ridurre le aspettative di una ripresa o un prolungamento del quantitative easing lasciando l’idea - ribadita anche in conferenza stampa - che «la politica monetaria deve restare espansiva».

Crescita un po’ più debole Qualcosa sta accadendo sul piano della crescita e richiede un orientamento accomodante. Gli ultimi segnali dai dati sono stati «più deboli delle attese», anche se gli indici di attività restano «al di sopra delle medie storiche».

L’andamento del pil resta al di sopra del potenziale, livello al quale sta tornando in un rallentamento - non nuovo - che riflette anche alcuni fattori legati a singoli settori o a singoli paesi: le auto in Germania - ha citato Draghi - le performances delle esportazioni, le incertezze sul commercio, oltre alle questioni di Brexit e dell’Italia. Molte economie hanno un output gap positivo, anche grazie a politiche economiche procicliche. Nel complesso i rischi restano bilanciati, ma qualche preoccupazione in più resta.

Politica monetaria ancora accomodante Anche sull’inflazione Draghi ha voluto essere un po’ “colomba”. «Non è cambiato molto», ha detto, anche se l’inflazione salariale sta aumentando. Un buon segnale sono, per il presidente della Bce, gli ultimi accordi salariali - per loro natura duraturi - che hanno innalzato le retribuzioni. Il mercato del lavoro, inoltre continua a espandersi e l’utilizzazione degli impianti è ormai «molto alta», in alcuni paesi. La politica monetaria, ha però ripetuto, «deve restare accomodante».

LA GIORNATA DEI MERCATI

Borsa parte in retromarcia in attesa della scure di S&P. Spread sale a 313 di Stefania Arcudi 26 ottobre 2018

Avvio di seduta negativo per le Borse europee che, nonostante il rialzo di ieri a Wall Street, si sono accodate alle piazze asiatiche sulla via dei ribassi. Piazza Affari, che attende le decisioni di S&P sul rating, in arrivo stasera a mercati chiusi, cede meno di un punto percentuale (segui qui l'andamento dei listini). Pesano i timori sulla crescita globale, il braccio di ferro commerciale tra Stati Uniti e Cina e le preoccupazioni sulla Brexit. A questo si aggiungono le turbolenze italiane, dopo il monito di Mario Draghi all'Italia: il governatore ha detto che la Bce non finanzia il deficit degli Stati e che le banche devono essere tutelate riducendo lo spread. Il differenziale di rendimento tra BTp e Bund decennali è salito in. Sul FTSE MIBEni è l'unica in positivo dopo i risultati del terzo trimestre sopra le stime. Il resto del listino è in calo generalizzato, con banche, utility e lusso a guidare i ribassi. In coda al listino Ferrari e il settore auto (Fiat Chrysler Automobiles, Cnh Industrial e Brembo.

Spread risale a 313 punti, rendimento al 3,51% Risale in apertura di seduta lo spread tra BTp e Bund. Il differenziale di rendimento tra il decennale italiano benchmark e il pari scadenza tedesco si attesta a 313 punti base, comunque ben lontano dai 322 punti della chiusura di mercoledì. Sale, seppur leggermente, anche il rendimento del decennale italiano, al 3,51% dal 3,50% di ieri sera.

Petrolio in calo, euro sotto quota 1,14 dollari Il petrolio è in calo: i future a dicembre del Wti scendono dello 0,97% a 66,68 dollari, quelli del Brent dello 0,78% a 76,29 dollari al barile. L'euro torna sotto 1,14 dollari ed è scambiato a 1,1358 dollari (1,1416 alla chiusura di ieri), e vale 127,668 yen (128,27 yen ieri), mentre il rapporto dollaro/yen è a 112,23.

Tokyo ancora in calo, -6% nella settimana Intanto chiude ancora in ribasso la Borsa di Tokyo, ma con effetti meno vistosi rispetto al tonfo di ieri: l'indice Nikkei ha perso lo 0,40% a 21.184 punti, rispetto al 3,72% lasciato sul terreno alla vigilia. L'indice allargato Topix si è ridotto dello 0,31 per cento. Nel corso della settimana il Nikkei si è contratto di circa il 6%, scontando il nervosismo dei mercati a livello globale.

Spread, quali rischi corrono davvero le banche se va a 400 di Morya Longo 26 ottobre 2018

“E’ evidente che se lo spread veleggia verso quota 400 gli attivi delle banche vanno in sofferenza ed è necessaria la ricapitalizzazione». Con le quotazioni delle banche nei giorni scorsi in difficoltà (soprattutto Mps e Banco Bpm) e con lo spread BTp-Bund salito fino a 324 punti base, non possono che tornare in mente quelle parole pronunciate dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti due giorni fa a «Porta a Porta». Tornano in mente perché sembra quasi che i mercati vogliano testare quel livello di 400 punti base sullo spread. E vogliano vedere cosa accadrebbe alle banche. Dal 15 maggio gli istituti di credito italiani hanno perso in Borsa quasi 44 miliardi di capitalizzazione, arrivando tutti insieme a valere a Piazza Affari non molto più di quanto la spagnola Banco Santander vale da sola sul listino di Madrid: 85 contro 65 miliardi. E il calo continua. Solo nella giornata di ieri l’indice bancario a Piazza Affari ha perso il 3,31%, portando a 38% il ribasso da metà maggio.

Guardando dietro il polverone di Borsa, bisogna dunque porsi qualche domanda: quanto soffrono davvero le banche italiane? Quanto soffrirebbero qualora davvero lo spread BTp-Bund arrivasse a 400 punti? Per rispondere a queste domande «Il Sole 24 Ore» ha incrociato i calcoli di vari analisti (quelli di Credit Suisse, Deutsche Bank e Fidentiis) e si è confrontato con molti esperti. E la conclusione è a metà strada tra chi si allarma e chi sta sereno. Da un lato anche a 400 punti base le maggiori banche italiane sono in grado di stare in piedi (solo Mps già soffre a 300). Dunque nessun allarme imminente. Almeno a livello di grandi istituti. Dall’altro “stare in piedi” non basta per fare attività bancaria: il rischio è quindi che la perdita di patrimonio a causa dello spread, anche se non così grande da rendere necessari aumenti di capitale a catena, freni comunque la loro capacità di erogare credito a famiglie e imprese. E crei un effetto domino. Per questo il ministro Tria ieri ha detto che questo livello di spread non può essere mantenuto a lungo.

Il problema nasce dal fatto che le banche italiane hanno nei loro bilanci 372 miliardi di titoli di Stato italiani secondo Bankitalia. Se lo spread sale, significa che questi titoli perdono di valore. E questo va ad erodere il capitale delle banche stesse. Paragonando una banca ad un palazzo, erodere il capitale significa indebolire le sue “fondamenta”. Quelle che lo tengono in piedi. Mediamente ogni 100 punti base di aumento dello spread va a ridurre il capitale di buona qualità delle banche italiane (Cet1) di 35 punti base. Nel solo primo semestre 2018 le prime sei hanno messo in conto un impatto di 3,13 miliardi di euro sul loro Cet1 proprio a causa del deterioramento dei BTp. Calcola Credit Suisse che ogni 100 punti di spread equivalgano a 2,84 miliardi di capitale Cet1 bruciato. Lo spread fa dunque molto male. Molto.

Il punto è però capire se questa erosione delle “fondamenta” sia tale da compromettere la tenuta delle banche stesse. Cioè se lo spread a 400 sia in grado di ridurre il loro capitale sotto le soglie minime indicate dalla Bce per ogni istituto. Le banche hanno due soglie minime: la prima (cosiddetta phase-in) è stimata in base alla legislazione attualmente vigente, la seconda (cosiddetta fully loaded) è calcolata come se la legislazione che entrerà in vigore nei prossimi anni fosse già oggi operativa. La Vigilanza Bce guarda la prima soglia, non la seconda (che è più elevata). E questo è il punto importante: perché la prima non verrebbe intaccata neppure se lo spread andasse a 400 punti. Secondo i calcoli di Deutsche Bank, per scendere sotto questa soglia phase-in (e dunque per rendere obbligatorio un aumento di capitale) lo spread BTp-Bund dovrebbe salire a 2.100 punti base per Intesa Sanpaolo, a 1.341 per UniCredit, a 1.192 per Banco Bpm, a 926 per Mps, a 957 per Ubi, a 1.182 per Credem e a oltre 9mila per Mediobanca. Livelli insomma ben lontani. E a numeri più bassi ma simili nel concetto arriva anche l’analisi di Fidentiis.

La seconda soglia (quella fully loaded) verrebbe invece sfondata molto prima. Secondo i calcoli di Deutsche Bank già con uno spread a 318 punti (livello attuale) Mps la rompe. Banco Bpm la sorpasserebbe con lo spread a 488 punti. Ubi a 731. E le altre sopra i mille punti. Non ci sono numeri su Carige. Sebbene questa seconda soglia non sia quella guardata dalla Bce, il suo sfondamento un impatto potrebbe comunque averlo. Perché il mercato lo noterebbe. E anche la Bce stessa. Questo potrebbe mettere sotto pressione qualche banca. A partire da Mps. E potrebbe creare stress sull’intero settore. Morale: lo spread elevato come oggi magari non è letale, ma di danni ne fa molti. Non solo sulle banche, ma su imprese e famiglie: un Paese composto da miriadi di Pmi che solo in banca trovano i capitali necessari per andare avanti, non può permettersi istituti creditizi deboli.

Nelle regioni del Sud gli extracomunitari lavorano più degli italiani Infodata

26 ottobre 2018

Se il dato dell’occupazione è un indicatore di inserimento sociale, allora

gli extracomunitari che vivono in Italia sono tra quelli meglio posizionati in

Europa.

Lo dicono i dati raccolti da Eurostat, secondo i quali l’Italia si piazza molto

bene nella classifica del tasso di occupazione della popolazione

extracomunitaria. Comparata con i paesi di dimensioni simili alla nostra, infatti,

siamo dietro Polonia e Regno Unito, ma davanti a Germania e Francia.

Ma di per sé questo dato potrebbe non dire abbastanza: per questo se si

confronta questo dato con il tasso di occupazione dei cittadini, si scopre una

ulteriore sorpresa: sono in Italia cinque delle prime sei regioni dove, in

proporzione, gli extracomunitari sono più impiegati degli

italiani: in Campania, Sicilia, Sardegna, Calabria e Puglia vi è infatti

una differenza considerevole a favore dei cittadini extraeuropei, un record in

tutto il continente e che in Campania sfiora 16 punti percentuali di

differenza.

Chiaramente si parla di tassi di occupazione e non di stipendi.

Secondo un recente rapporto del Ministero del Lavoro, che fa il punto della

situazione demografica e occupazionale delle persone regolarmente soggiornanti

nel nostro paese al 1 gennaio 2017 nelle 14 principali città metropolitane italiane.

Complessivamente, il tasso di occupazione dei soggiornanti non

comunitari al 1 gennaio 2017 era del 57,8% a fronte di 57% degli

italiani, nonostante si rilevino una netta settorializzazione dell’occupazione e

una disparità nella retribuzione rispetto agli italiani.

Inoltre, il loro tasso di imprenditorialità è in continua crescita, con un +3,5% di

nuove ditte individuali di cittadini non comunitari nel 2016 sul 2015. Nel 2016

erano 366.425 i titolari di imprese individuali nati in un paese al di fuori

dell’Unione Europea, l’11,3% del totale delle ditte individuali a livello nazionale.

Va poi sottolineano, scrive Cristina Da Rold su questo blog, che a differire fra

nord e sud sono anche le ragioni del soggiorno: nelle città metropolitane del

Meridione, geograficamente più esposte alle rotte migratorie, si registrano

maggiori incidenze dei soggiornanti per richiesta o titolarità della protezione

internazionale sul totale dei regolarmente presenti piuttosto elevate. L’esempio

più eclatante è Catania, dove i titolari di protezione internazionale sono il 36,7%

dei regolarmente soggiornanti (incidenza aumentata del 33% negli ultimi 7

anni). Seguono Reggio Calabria con il 36% e Bari con il 26,7%. Al contrario, a

Bologna, Torino e Venezia la metà dei soggiornanti risiede lì per motivi familiari.

Avere un lavoro non è tuttavia sinonimo di integrazione, perché non significa

un’effettiva uscita da una condizione di indigenza. La maggior parte dei

cittadini non UE regolarmente soggiornanti nel nostro paese

guadagna infatti meno di 800 euro al mese

Se allarghiamo lo sguardo e lo puntiamo sul dato regionale scopriamo che nel

2017 la maggior parte delle regioni dell’Unione europea vanta un tasso di

occupazione dei cittadini stranieri al di fuori dell’Ue era generalmente inferiore a

quello dei cittadini di altri Stati membri e cittadini dell’Ue. Detto meglio , nella

maggior parte delle regioni dell’Ue (91% di tutte le regioni per le quali i dati sono

disponibili), il tasso di occupazione per i cittadini non UE era inferiore

all’obiettivo di Europa 2020 del 75%. Percentuali sotto il 50% si registrano

rispettivamente in Francia, Germania, Belgio e Paesi Bassi. La Martinica, la

regione francese che ha avuto il tasso più basso di qualsiasi regione dell’Ue

(20,8%).

Se poi guardiamo i tassi di occupazione regionali di cittadini di altri Stati dell’Ue

(quindi non extracomunitari ma semplicemente stranieri).

Tasso di occupazione regionale per i cittadini di altri Stati membri

dell’UE

Per i cittadini di altri Stati membri dell’UE, un tasso di occupazione regionale

pari o superiore all’obiettivo di Europa 2020 del 75% è stato osservato in più

della metà di tutte le regioni dell’UE (il 55% di tutte le regioni dell’UE per le

quali sono disponibili dati).

Le regioni con il più alto tasso di occupazione per i cittadini di altri Stati membri

dell’UE sono state registrate nella Repubblica ceca e nel Regno Unito. In

particolare, il tasso più elevato è stato registrato nella regione ceca di Strední

Cechy (94,2%), mentre un tasso superiore al 90% è stato osservato anche a

Strední Morava e in due regioni del Regno Unito: Highlands and Islands e

Cumbria.

I tassi di occupazione regionali più bassi per i cittadini di altri Stati membri

dell’UE sono stati osservati nella regione di Voreia Ellada (livello NUTS 1) nel

nord della Grecia (35,9%) e nelle due regioni meridionali italiane della Calabria

(42,4%) e Sicilia (52,2% ).

Manovra, Preatoni: patrimoniale inutile e dannosa 26 ottobre 2018

L’ipotesi di introdurre una tassa patrimoniale con base i redditi o gli immobili, viene respinta dal finanziere e immobiliarista Ernesto Preatoni, fondatore del gruppo Domina Vacanze e ideatore del progetto turistico Sharm El Sheik sul Mar Rosso, in Egitto. In un articolo pubblicato oggi da Il Sole 24 Ore, Preatoni analizza le diverse possibilità di applicazione di una tassa patrimoniale in base ai redditi dichiarati dai 20 milioni di nuclei familiari italiani. Il gettito finale stimato ammonta a 52 miliardi (il valore della manovra appena varata per il 2019 sfiora i 38 miliardi): questo importo ridurrebbe di appena il 2% il totale dell'indebitamento nazionale

«Si tratta di un valore – scrive Preatoni – assolutamente non significativo. Ecco perché sostengo che la patrimoniale è un'imposta non solo inutile – poiché presenta un gettito irrisorio – ma anche dannosa perché deprime l'economia. Non a caso Luigi Einaudi non ne voleva sentir parlare, ritenendola sommamente ingiusta. Tassa una seconda volta un patrimonio costruito con i risparmi e gli investimenti su cui sono già stati assolti gli obblighi fiscali».

Eni balza a 1,53 miliardi di utile netto (+1,2% produzione idrocarburi) 26 ottobre 2018

Eni chiude il terzo trimestre e i primi nove mesi dell’anno con risultati in forte crescita, e oltre le attese del mercato, spinti dalla solida performance dell’Exploration & Production per effetto del rafforzamento dello scenario petrolifero. Il terzo trimestre ha visto l’utile netto balzare a 1,53 miliardi dai 344 del terzo trimestre 2017 con l’utile netto adjusted a 1,388 miliardi mentre nei 9 mesi l'utile netto è salito a 3,73 miliardi (+181%) e quello adjusted è raddoppiato a 3,13 miliardi. Lo comunica la società petrolifera aggiungendo che l’utile operativo adjusted è più che triplicato nel terzo trimestre a 3,3 miliardi rispetto al periodo di confronto e nei 9 mesi è più che raddoppiato a 8,25 miliardi.

«Sono particolarmente soddisfatto dei risultati del trimestre che ci hanno consentito di produrre una generazione di cassa eccellente». Lo afferma l'a.d. dell'Eni, Claudio Descalzi, nella nota sui conti, sottolinenando che «tutti i business hanno operato bene, con un upstream che mette in luce la sua piena capacità di monetizzare scenari favorevoli dei prezzi degli idrocarburi e soprattutto di incrementare il valore anche a scenari costanti». «Gli incassi netti operativi - prosegue - sono stati pari a 4,1 miliardi di euro, il doppio rispetto al terzo trimestre 2017 e, ancora più importante, il 35% in più rispetto al secondo trimestre 2018 che aveva registrato un prezzo medio Brent simile all'attuale». I business mid-downstream, inoltre, «dimostrano di aver acquisito un livello di sostenibilità in uno scenario per loro complessivamente non favorevole. Grazie a questa performance raggiungiamo un debito netto di 9 miliardi, in riduzione di circa 900 milioni rispetto a fine giugno pur avendo già corrisposto tutti i dividendi di competenza di quest'anno. Possiamo inoltre confermare per il 2018 una neutralità di cassa di gruppo, compresa la copertura dei dividendi, a 55 dollari al barile, oltre 20 dollari più bassa rispetto alle quotazioni Brent attuali, a testimonianza della disciplina finanziaria che siamo determinati a mantenere nel tempo».

PARLAMENTO EUROPEO

Direttiva acqua: va servita a basso costo nei ristoranti. E stop alle bottigliette 25 ottobre 2018

Promuovere il consumo dell'acqua del rubinetto, ridurre i veleni e ridurre gli imballaggi in plastica sono gli obiettivi della proposta di direttiva sull'Acqua potabile approvata martedì 23 ottobre dal Parlamento Europeo, dopo una lunga discussione che ha coinvolto tutti gli stakeholder europei. Tra i punti cardine della normativa quello dell'aggiornamento in modo più rigoroso dei parametri di qualità delle acque. La legislazione inasprisce infatti i tetti massimi per alcuni inquinanti come il piombo (da dimezzare), i batteri nocivi e introduce nuovi limiti per alcuni interferenti endocrini. Fra i nuovi parametri chimici c'è ad esempio l'uranio e il bisfenolo A, un composto organico usato per produrre plastiche e resine e sospettato da decenni di essere nocivo. Fra quelli microbiologici ci sono l'Escherichia coli, un batterio molto comune nelle feci umane. Si stima che i nuovi controlli, insieme ad altre iniziative previste dalla direttiva, potrebbero costare in tutto 6-7 miliardi di euro, quasi totalmente a carico degli operatori dell'acqua.

La direttiva introduce inoltre il monitoraggio dei livelli di microplastica, un problema rivelato di recente. Inoltre, tra i nuovi doveri a carico degli Stati membri c'è quello di garantire l'accesso universale all'acqua pulita e migliorare l'accesso all'acqua nelle città e nei luoghi pubblici, attraverso la creazione di fontane gratuite, laddove sia realizzabile dal punto di vista tecnico e proporzionato all'esigenza di tali misure.

Il Parlamento chiede inoltre che l'acqua del rubinetto sia fornita gratuitamente, o a basso costo, nei ristoranti, nelle mense e nei servizi di ristorazione.

In Italia, la direttiva è stata recepita con largo anticipo con l'introduzione del Water Safety Plan da parte di uno dei maggiori gestori del servizio idrico, Gruppo CAP.

«La nuova direttiva è un passo importante perché pone una sfida a innalzare qualità e investimenti nel settore idrico e a migliorarne la sostenibilità, l'universalità e la partecipazione - commenta Alessandro Russo, presidente di Gruppo CAP e Vicepresidente Utilitalia con delega al settore idrico -. Obiettivi che si possono cogliere solo rafforzando la filiera industriale che nei diversi Paesi gestisce il servizio idrico, migliorandone le performance e lavorando insieme a tutti gli stakeholder, in modo da promuovere l'uso dell'acqua del rubinetto, riducendo l'immissione di plastica nell'ambiente e per garantire in modo concreto l'universalità dell'accesso al più importante bene comune che abbiamo che è l'acqua».

«Concretezza» nella Pa? Servono responsabilità e sanzioni di Francesco Verbaro

Per la prima volta sembra entrare nel nostro ordinamento un criterio di valutazione dell’azione amministrativa per certi versi originale: quello della «concretezza». I puristi avranno storto il naso, ma pensando all’esperienza di chi interagisce con la Pa si pone da tempo un problema di attuazione delle norme; e soprattutto di attuazione delle politiche che stanno a monte. La Pa deve ancora familiarizzare con le tre «E» degli anni ’90: efficienza, efficacia ed economicità. Ora viene proposto un altro principio. Ne abbiamo bisogno? Forse sì, se pensiamo ai vuoti amministrativi scoperti nella vicenda del ponte Morandi. Se pensiamo al rispetto delle norme sui controlli e sulle procedure formali e alla

mancanza di servizi in ampie parti del nostro Paese. Uno dei principi chiave delle riforme degli anni ’90 era il passaggio dalle procedure ai risultati. In questi giorni compie 25 anni il famoso Report predisposto dal vice Presidente degli Usa Al Gore (From Red Tape to Results). Un programma tanto citato nei dibattiti italiani, quanto rimasto nei cassetti.

D’altronde, in Italia abbiamo le norme sull’ambiente e sui controlli delle acque più ambiziose e al contempo, spesso, non funzionano i depuratori. Così i regolamenti sui fondi comunitari, le norme su infrastrutture, sanità, scuola e servizi per il lavoro sono molto puntuali. Ma attuate male o solo formalmente, cioè non attuate. Paghiamo tante tasse ma non abbiamo i servizi. Ciò non fa che aumentare la sfiducia nella democrazia. Quella che viene invocata come «concretezza» è ciò che alcune riforme chiamano attenzione ai risultati. Un tema non nuovo. Basti pensare che il decreto Brunetta del 2009 aveva posto per la prima volta la necessità di migliorare la qualità degli obiettivi, ricordando all’articolo 5, comma 2, che devono essere rilevanti e pertinenti rispetto ai bisogni della collettività, specifici e misurabili e tali da determinare un significativo miglioramento della qualità dei servizi. Qualcuno potrebbe dire che è assurdo scrivere per legge delle ovvietà del genere. Ma in Italia funziona così.

Questa norma che avrebbe dovuto aiutare la concretezza ha un problema, che si pone oggi anche per l’attività ispettiva del nuovo Nucleo previsto dal disegno di legge. Chi è il responsabile della mancata attuazione dei principi della concretezza? Anche la politica. Di che responsabilità parliamo? Che sanzioni prevedere? Come comminarle?

Ci accorgiamo della mancanza dei servizi tardi e senza individuare le responsabilità. È necessario rivedere i controlli, polverizzati e inutili, che producono burocrazia e non garanzia. Servirebbe inoltre un dialogo vero con cittadini e imprese. Assurdo che questo non si realizzi nell’era dei social media. La concretezza passa dalle risorse, soprattutto umane, e il ministro per la Pa, per la prima volta, individua risorse e priorità nel reclutamento delle persone. Speriamo che le amministrazioni assumano le professionalità tecniche e specialistiche indicate nel Ddl. Ma l’esperienza dice che sono più propense ad assumere chi conoscono (precari e idonei di vecchi concorsi), con profili tradizionali, che a bandire nuovi concorsi. Sì, abbiamo bisogno di “concretezza”: ma ricordiamoci che è una battaglia già affrontata, con altri vocaboli, e non vinta.

IL CORRIERE DELLA SERA

La partita del debito pubblico: per coprire il fabbisogno 2019 mancano ancora 100 miliardi Il fondo sovrano russo non potrebbe impiegare più di 6 miliardi La settimana scorsa Matteo Salvini era a Mosca, per una visita della quale l’ambasciata d’Italia è venuta a conoscenza solo alcuni giorni prima attraverso una segnalazione locale: il vicepremier partecipava a un evento di Confindustria Russia, assieme all’omologa associazione moscovita. Del suo viaggio, venne notata nel resto del mondo soprattutto una frase: «In Russia mi sento a casa - disse il leader leghista - mentre in alcuni Paesi dell’Unione europea no». È rimasta invece relativamente in secondo piano una seconda affermazione di Salvini in quelle ore: «Se avete titoli di Stato da comprare, noi abbiamo bisogno di venderne per qualche miliardo alle prossime aste» ha scherzato il vicepremier, rispondendo a una giornalista russa. Anche Vladimir Putin l’altro ieri ha ripetuto qualcosa del genere accanto al premier Giuseppe Conte, ma senza ironia. «Non ci sono remore di carattere politico sull’acquisto di titoli di Stato italiani da parte del nostro fondo sovrano», ha detto il presidente russo. Quindi, poche ore dopo, Salvini ha dato l’impressione di voler frenare: «Non abbiamo bisogno di aiuti esterni». Solo un’occhiata al calendario del 2019 può dare un’idea di cosa esattamente il leader russo e l’italiano stiano parlando. Tolti i Buoni ordinari del Tesoro (Bot), cioè gran parte dei titoli a breve termine, il Tesoro di Roma l’anno prossimo deve infatti collocare sul mercato obbligazioni per circa 250 miliardi di euro. Per più o meno 50 si tratta di nuove emissioni

nette, cioè finanziamenti del deficit pubblico. Gli altri duecento miliardi in titoli a medio e lungo termine - prestiti da raccogliere - servono invece a rimborsare altri prestiti che verranno a scadenza durante l’anno. Non rimborsare o rinegoziare i termini è impensabile: significherebbe scivolare in un default, che può trasformare l’Italia nell’equivalente finanziario di uno Stato-paria. Per questo collocare quei buoni per 250 miliardi nel 2019 è vitale, ma oggi si presenta anche come la sfida più delicata. Nei primi mesi di vita di questo governo, gli investitori dal resto del mondo hanno già fatto uscire dal Paese quasi sessanta miliardi di euro e, se questa tendenza non si inverte, il 2019 si presenta in salita. L’anno prossimo scadono titoli del Tesoro a medio-lungo termine, oltre sessanta miliardi detenuti da creditori esteri; qualora questi ultimi confermassero l’intenzione di non rinnovare, evitando di comprare altro debito di Roma, allora la missione degli investitori italiani diventerebbe sempre più difficile. Per coprire il fabbisogno dello Stato, dovrebbero incrementare la loro esposizione in obbligazioni del governo per oltre cento miliardi: sessanta solo per rimpiazzare gli stranieri, più altri cinquanta per finanziare il nuovo deficit che si crea. Non è impossibile. Dal 1999 in tre annate le famiglie italiane hanno fatto salire la loro esposizione in debito pubblico del Paese di 50 o 60 miliardi, mai di più. Questo però basterebbe ad attrarre altri investitori e infatti proprio per incentivare il piccolo risparmio il Tesoro si sta preparando a varare un nuovo Btp Italia (e forse anche gli sgravi fiscali per i cosiddetti «Conti individuali di risparmio » in titoli di Stato). L’operazione di rimpatrio del debito pubblico è di fatto già partita, ma può anche fallire: banche e assicurazioni nazionali non sono più disposte a sobbarcarsi nuovo rischio-Italia, mentre le famiglie dal 2011 si sono semmai liberate di titoli

per 78 miliardi e invertire drasticamente questa tendenza non sarà semplice. In sostanza, nel 2019 il debito di Roma minaccia di diventare un problema internazionale. Tutti concludono che un eventuale default per carenza di liquidità va evitato, perché lo choc sarebbe molto più grave del fallimento di Lehman Brothers. Meno chiaro però è come riuscirci, se non bastasse il risparmio delle famiglie. Sembra infatti improbabile che possa pensarci la Banca centrale europea: ieri Mario Draghi, il presidente, ha ricordato che ciò potrebbe accadere solo con un programma sul modello Trojka che il Parlamento italiano non sembra disposto ad accettare. È questa la vulnerabilità che Putin ha subodorato. Sa che una crisi italiana può trasformarsi per lui in un’occasione preziosa. Promettere un aiuto a Roma appare a Mosca un modo di guadagnare influenza a Bruxelles attraverso uno Stato fondatore della Ue, ridotto al rango di proprio debitore, quando si discuterà di sanzioni contro la Russia. Ciò che Putin non dice, tuttavia, è che la sua offerta non è credibile: il fondo sovrano russo vale l’equivalente di 60 miliardi di euro e non potrebbe impiegare in Italia più di un decimo delle proprie risorse. Sono livelli quasi irrilevanti. Putin del resto guida un’economia disfunzionale, di un terzo più piccola di quella italiana. Ma potrebbe offrire un’idea a Donald Trump, che in estate ha già offerto aiuto sul debito a Conte (forse, attraverso l’Exchange Stabilization Fund del Tesoro Usa). Sostenendo un governo in crisi, Putin e Trump possono mettere un piede nella porta di Bruxelles: per l’Italia, non proprio

una vittoria della sovranità nazionale.

I 5 Stelle all’attacco della Bce Trump a Conte: avrai successo Salvini: la manovra non cambia, pronti a ricapitalizzare le banche.Ma Di Maio frena La polemica di Alessandro Trocino

Il campus di Scotti ROMA «Non c’è dubbio che la rimanderemo tale e quale». Per Paolo Savona il governo non modificherà di un millimetro la manovra economica. Ed è l’impressione che si coglie anche leggendo le reazioni alle parole del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Anche se l’apparente fermezza delle reazioni non si concilia con i timori di quel che può accadere se lo spread arrivasse a toccare quota 400. Tanto che, dopo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, non esclude una ricapitalizzazione delle banche anche il vicepremier Matteo Salvini: «Se qualcuno ha bisogno noi ci siamo, senza fare gli interventi del passato». Parole non del tutto condivise da Luigi Di Maio (viste anche le tante campagne dei 5 Stelle sulle banche), che frena: «È tutto sotto controllo. Siamo molto vigili e attenti sulla situazione delle banche. Abbiamo contatti diretti ogni giorno con i vari manager per monitorare la situazione in tempo reale». Su Draghi e la manovra, Savona chiarisce, in un’intervista a SkyTg24: «Noi non riesamineremo la manovra, ma il contesto nel quale ci poniamo. Ognuno si assuma le sue responsabilità ». Luigi Di Maio si prende le sue: «Dalla Banca centrale europea vedo che arrivano strali sulla questione del pericolo dell’economia italiana per lo spread. Il governatore Draghi sa però che il problema dello spread non è legato alla manovra ma alla paura dei mercati che il Paese possa uscire dall’euro. Un problema

facilmente risolvibile, con il fatto che noi nel contratto abbiamo inserito che non vogliamo uscire dall’euro». Parole confermate da una nota congiunta dei parlamentari M5S della Commissione Bilancio, che aggiungono anche un attacco a Draghi: «Non vogliamo uscire dall’euro, né vogliamo uno scontro con la Ue. Se i mercati stanno prezzando la possibile uscita dall’euro è perché ogni giorno da parte dei commissari europei e, ci duole dirlo, anche del governatore della Bce, arrivano attacchi all’Italia. Se smettessero di evocare la nostra uscita dall’Euro i mercati tornerebbero a prezzare i nostri titoli al pari di quelli degli altri paesi membri». Savona si rivolge alla Banca europea: «Se lo spread si innalza e nessuno interviene per calmierarlo, ed è un tipico compito delle banche centrali europee, inevitabilmente la caduta del valore dei titoli mette in difficoltà le banche. Se le responsabilità della stabilità del sistema bancario passano nelle mani della Bce, dovrebbe essere lei a intervenire per evitare che il sistema bancario entri in crisi». Secondo l’economista e ministro, «nessun paese vanta la stabilità dell’Italia in un contesto così difficile. Il nostro Paese è solido, non c’è il rischio di insolvenza». In linea anche Matteo Salvini che, in un’intervista al Corriere del Veneto, conferma: «Una cosa è sicura: non si tocca, non si cambia una virgola. Basti pensare che uno dei principali temi di critica della letterina di Bruxelles è la revisione della legge Fornero, che è invece un mio preciso impegno morale. Forse a Bruxelles non hanno capito bene: non faccio marcia indietro nemmeno se me lo chiede Gesù Bambino». E lo spread? «Nella stessa giornata sale e scende di 40 punti, non incide sul piccolo risparmiatore ma su qualche grande speculatore. L’Italia è forte e ha le spalle larghe, ce la faremo». Quanto alla possibilità di un’intesa, auspicata dal presidente Draghi, Salvini

risponde così: «Anche io sono per un accordo, ma sulle nostre posizioni». Una promozione a pieni voti della manovra viene, invece, dal presidente degli Stati Uniti. Dopo un colloquio telefonico con il premier Giuseppe Conte, Donald Trump, con un tweet ha sottolineato che «il primo ministro sta lavorando duramente per l’economia italiana. Avrà successo». In un secondo tweet Trump ha scritto di essere d’accordo con «la linea molto dura che l’Italia sta assumendo sull’immigrazione illegale».

«In Italia c’è un po’ di isteria Ma anche la Ue dialoghi» Tria in missione a Parigi Il ministro: serve moderazione da entrambe le parti

ROMA «Io sono tranquillo, convinto della manovra che abbiamo fatto, fiducioso che il dialogo con la Commissione possa essere fruttuoso. Ma per dialogare bisogna essere indue: un pizzicodi isteria lo si riscontra in Italia, ma anche dalle parti di Bruxelles». Poco prima di atterrare a Parigi, mentre continuano in Europa contatti e polemiche sulla legge di bilancio dell’Italia, Giovanni Tria ragiona con i suoi collaboratori sui giorni che attendono il Paese, sulle parole espresse dal presidente della Bce, Mario Draghi, poche ore prima, sul fatto che «occorre moderazione da entrambe le parti» a Roma, come a Bruxelles. Anche negli uffici della Commissione «devono considerare che occorre anche stabilità sociale non solo di bilancio e questa manovra la garantisce». Alle otto di sera lo attende il ministro delle Finanze

francesi, Bruno Le Maire: dopo un colloquio bilaterale, che non potrà non toccare temi come le Tav, i cantieri navali francesi acquisiti da Fincantieri, e altri temi congiunti, i due ministri parteciperanno alla decima edizione della «Cena internazionale dell’assicurazione» organizzata dalla Federation Francaise de l’Assurance (Ffa). Non è detto che il governo francese possa ammorbidire i rappresentanti francesi della Commissione europea, ma di sicuro a cena i due ministri discuteranno dell’atteggiamento che il governo della Ue dimostra nei confronti dell’Italia: negli uffici del Mef, con un certo disappunto, hanno riscontrato «almeno tre o quattro contestazioni nella lettera europea che sono infondate o fondate su una conoscenza superficiale della manovra». Superficiale è un aggettivo che Tria ha già usato due giorni fa, nel salotto televisivo di Bruno Vespa, ora si riflette insieme allo staff anche su altrodato: la risposta dalla Ue, al progetto di bilancio italiano, «è arrivata in 24 ore, come se la lettera di contestazione e bocciatura fosse stata già scritta». Insomma, in sintesi, quello che dicono Salvini e DiMaio ogni giorno, Giovanni Tria non lo dice in pubblico, non ne condivide i toni, ma nemmeno lo ritiene del tutto infondato: quantomeno, è la riflessione che si fa sulla rotta che da Roma lo porta nella capitale francese. Ci sarebbe stata «una considerazione non troppo approfondita e professionale delle nostre scelte di bilancio, la lettera dela Ue porta con sé anche una fretta politica che non dovrebbe far parte dei compiti di una Commissione super partes». Ragionamenti ufficiosi, per carità, ma che trapelano. E forse anche per questo Giovanni Tria si dimostra con tutti ancora molto sereno: smentisce di aver mai pensato alle dimissioni, è piuttosto convinto che si tratti di «una

partita a poker» che ha molto a che fare anche le elezioni di maggio, per rinnovare i membri del Parlamento di Bruxelles e Strasburgo. «A chi conviene un’Italia sotto procedura di infrazione per debito eccessivo prima delle elezioni? A chi conviene sperare che gli italiani si spaventino e si allontanino dai partiti che li governano oggi», sono gli interrogativi che si pongono negli uffici del Mef. Molto, quasi tutto, dipenderà dall’andamento dello spread, che ieri ha avuto una flessione, dalle reazioni dei partner nella riunione del 5 novembre dell’Eurogruppo, dal giudizio in arrivo di Standard & Poor’s, che potrebbe essere in linea con quello recente di Moody’s. Resta l’impegno di Tria «a trovare una soluzione ragionevole nel confronto con la Commissione», ma la Ue, sottolinea il ministro da Parigi, non può essere solo «procedure e obiettivi contabili», ma deve «ritrovare il senso dello stare insieme». La partita a poker prosegue, con tante, forse troppe, variabili.

Nasce la nuova Lega Via dal simbolo Alberto da Giussano Da Salvini a Calderoli, cinque i soci fondatori

MILANO I soci fondatori, oltre a Matteo Salvini, sono il ministro Lorenzo Fontana, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, il tesoriere Giulio Centemero e Roberto Calderoli. Sono loro che hanno costituito la Lega per Salvini premier, il partito destinato a sostituire in tutto e per tutto la vecchia

Lega Nord per l’Indipendenza della Padania fondata da Umberto Bossi. E sono loro che rappresenteranno in tutto e per tutto il consiglio federale, l’organo massimo della nuova Lega, in attesa che i congressi ne eleggano i nuovi rappresentanti. L’avvio del nuovo partito, il cui Statuto è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 14 dicembre dell’anno scorso, è ormai imminente. In Lega si riteneva che Matteo Salvini ne avrebbe cominciato a parlare al consiglio federale convocato per oggi, a prescindere dalla formulazione dell’ordine del giorno che— quella sì— non cambia mai: «Comunicazioni del segretario federale». In realtà, il leader leghista pare che per oggi preferisca limitarsi a fare il punto politico della situazione all’indomani delle elezioni per la Lega vittoriose in Trentino e in Alto Adige. Quella che un tempo si chiamava «l’analisi del voto»: «Sono tre mesi che non ci vediamo tutti insieme— avrebbe spiegato — e dunque era venuto il momento». Però, appunto, è ormai questione se non di giorni, al massimo, di settimane. Poi, appunto, la parola Nord scomparirà per sempre dall’orizzonte del nuovo partito, che peraltro nazionale lo è ormai da un pezzo. L’articolo 1 dello Statuto non parla più dell’indipendenza della Padania: la «Lega per Salvini premier è un movimento politico confederale costituito in forma di associazione non riconosciuta che ha per finalità la trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali». In compenso, nella carta fondante del partito salviniano entra in modo esplicito il sovranismo: sempre all’art.1 si sancisce che la Lega «promuove e sostiene la libertà e la sovranità dei popoli a livello europeo». La struttura della «Lega per Salvini premier» per qualcuno curiosamente ricorda addirittura «quella del Partito democratico, con un partito

holding a cui poi si agganceranno le associazioni territoriali a livello regionale». In realtà, non soltanto quelle: l’idea è che alla confederazione leghista possano legarsi anche realtà di tipo partitico o forze politiche locali. Per esempio, resta da capire se il Partito sardo d’azione entrerà formalmente nella Lega. Di certo, i gruppi parlamentari hanno già assunto la nuova denominazione. Mentre il simbolo—da non confondere con il contrassegno elettorale— è destinato a cambiare: il guerriero di Legnano (quello comunemente chiamato l’Alberto da Giussano) esce di scena. Sostituito da un semplice rettangolo «di colore blu in cui campeggia la scritta «Lega per Salvini premier» in bianco, circondata da una sottile cornice sempre di colore bianco». Cosa diversa è il contrassegno elettorale in cui «l’Albertino» potrebbe continuare ad apparire. Tutti i militanti si iscriveranno al nuovo partito, in modo tale che la vecchia Lega risulterà, semplicemente, svuotata. Di anzianità, dunque, sarà impossibile parlare. I militanti del sud, che nella vecchia Lega sarebbero «giovanissimi», avranno la stessa età d’iscrizione di chi è leghista da 25 anni. Resterà, però, l’attuale divisione tra «soci sostenitori» e «soci ordinari militanti». In cui i primi sono in una sorta di periodo di prova, prima di diventare militanti a tutti gli effetti con «diritto di intervento, di voto e di elettorato attivo e passivo». Resta il divieto di iscrizione a segrete, «occulte o massoniche». Formalmente, in capo alla vecchia Lega resta anche la rateazione dei 49 milioni per i fondi che sarebbero stati percepiti illecitamente dal partito tra il 2008 e il 2010 e per cui è stato condannato.

Sciopero dei treni, deputati col trolley: nel limbo 2 decreti Slittano i provvedimenti su Genova e Ischia Sicurezza, il premier vede il ribelle De Falco

ROMA Alla Camera la «febbre del trolley» scatta quando si capisce che l’Aula, nonostante gli «stop and go» dovuti alle coperture incerte, interromperà le votazioni sul decreto Genova alle 19. Dopo le 19,20, ci sono ancora 5 Frecciarossa in partenza da Roma per Milano e due Italo sulla stessa tratta, qualche convoglio per Napoli, nulla per il Sud. Poi scatta lo sciopero dei trasporti che paralizzerà l’Italia. Così, già il giovedì, la fuga dal Parlamento diventa di massa. C’è un po’ di ressa nel guardaroba della Camera dove almeno 200 valigie sono disposte con il manico alzato e il cartellino di riconoscimento. A fine Aula, la coda di valigie al seguito si snoda fino al parcheggio dei taxi di largo San Claudio. Per l’aeroporto ci si organizza in gruppi (sempre di partito) per dividere il costo di un’auto pubblica. Solo lunedì, dunque, ripartono le votazioni sul decreto Genova e tutti i fari sono puntati sulle coperture e sull’articolo che prevede il condono edilizio per le case lesionate a Ischia dal terremoto del 2017. Nel governo la ferita aperta dall’insistenza di Luigi Di Maio non si è rimarginata: «Le case abusive le ho sequestrate nella mia vita precedente di generale, mi appello al Parlamento...», osserva il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Al Senato l’effetto trolley e i dissidi interni al M5S provocano uno slittamento a lunedì

delle votazioni sul decreto sicurezza. Qui, in commissione, la Lega marcia compatta mentre il M5S sconta un fronda interna che mantiene sul tavolo 56 emendamenti. Oltre al comandante Gregorio De Falco, che ieri sera ha incontrato a Palazzo Chigi il premier Conte, ora torna allo scoperto (al Tavolo asilo nazionale dell’Arci) anche la senatrice Paola Nugnes: «Più che un decreto sicurezza è un decreto insicurezza. Così ci saranno 120 mila irregolari». C’è poi l’assalto di Forza Italia e di Fratelli d’Italia che presentano emendamenti molto allettanti per la Lega quanto indigesti per il M5S: l’abolizione del reato di tortura che interessa i poliziotti, propone Anna Maria Bernini (FI); la castrazione chimica per gli stupratori rilancia Daniela Santanché (FdI). Il sottosegretario Nicola Molteni (Lega) esclude modifiche al reato di tortura. Invece il ministro Salvini è possibilista: «Fosse per me, castrazione chimica per gli stupratori». Il governo rilancia con un emendamento scovato da Public Policy: agli ex sindaci dei comuni sciolti per mafia sono interdette le elezioni politiche e quelle locali per i due (oggi uno) turni successivi.

Raggi ai giudici: «Sono stata solo io a scegliere Marra» La sindaca: «Il fratello era un compilatore» Presto in aula l’ex capo di Gabinetto Raineri

ROMA «Nella nomina di suo fratello, Raffaele Marra ebbe un ruolo esclusivamente compilativo. Ho davvero fatto tutto da sola»: sul banco degli imputati Virginia Raggi ripete quello che ha sempre sostenuto. Nega di aver raccontato il falso nella lettera inviata all’Anticorruzione

del Campidoglio che le chiedeva chiarimenti sulla scelta di Renato Marra a capo del dipartimento Turismo dove sosteneva appunto di aver agito «in piena autonomia». Nega soprattutto di essere stata informata che proprio Raffaele Marra avesse brigato per la designazione. Ma per smentire che l’allora capo del Personale avesse un ruolo marginale i magistrati dell’accusa sferrano un colpo a sorpresa e chiedono di interrogare in aula Francesca Romana Raineri, il capo di Gabinetto che si dimise insieme all’allora assessore al Bilancio Marcello Minenna proprio per denunciare «lo strapotere di Marra che agisce come sindaco ombra». Richiesta accolta: Raineri sarà sentita il 9 novembre, alla vigilia della sentenza. E in quella sede i pubblici ministeri Paolo Ielo e Francesco dall’Olio cercheranno di dimostrare che in realtà era stato proprio Marra a fare tutto. Del resto in aula è la stessa Raggi—forse non rendendosi conto dell’effetto che le sue parole possono avere — ad ammettere: «Ero stata da tre mesi. Ero più avvocato che sindaco e dunque mi affidavo».

La riunione Sono state le chat con Raffaele Marra, Salvatore Romeo e Daniele Frongia a svelare l’ira della sindaca dopo aver scoperto «leggendo i giornali» che Renato Marra avrebbe avuto un notevole guadagno e uno scatto di fascia grazie a quella nomina. E in questo modo è stata avvalorata la tesi che la designazione fosse stata fatta proprio dal fratello incurante del conflitto di interessi. E invece in aula Raggi arriva quasi a negare l’evidenza. «Non avevo guardato il prospetto che riguardava il passaggio di fascia di Marra seniore non ho visto l’email in cui Meloni ringraziava Raffaele Marra per avere suggerito il nome del fratello a capo del Turismo. La posta viene smistata e quel messaggio mi era

stato inviato per conoscenza». Parla di Raffaele De Santis — da lei delegato alla gestione del personale — come «uno dei collaboratori di cui mi fidavo». E subito dopo dice: «Non sapevo che Raffaele Marra avesse proposto la candidatura di suo fratello e che ci fosse stata un riunione tra l’assessore Adriano Meloni, il delegato al personale Antonio De Santis e lo stesso Marra, alla vigilia della scadenza dell’interpello».

Le lettere La sindaca appare poco convincente anche quando ricostruisce le modalità per rispondere ai rilievi dell’Anticorruzione. Spiega di non aver svolto verifiche «visto che non sono un pm. E in ogni caso se c’era un’indagine non ne potevo parlare in giro anche se capivo che qualcosa mi era sfuggito». Dice che per rispondere ai rilievi dell’Anac «preparai la lettera ma ci misi due giorni. Buttai giù qualcosa, la diedi alla segreteria, feci correzioni». Conferma però che Marra «era un grande esperto di macchina amministrativa, fu lui a preparare il prospetto per le nomine e si mise al lavoro già in campagna elettorale». Racconta che «ci vedevamo spesso anche con gli altri», ma «dopo gli articoli di giornale di settembre-ottobre che lo dipingevano come l’uomo nero, feci qualche passo indietro. Quando gli articoli cominciarono a farsi più precisi chiesi chiarimenti a Marra. Lui portò dei documenti con i quali si difendeva, ma il seme del dubbio c’era». Anche perché — ricorda — «i consiglieri del Movimento mi incalzavano per mandarlo via». Lei ha resistito fino al giorno del suo arresto per corruzione. Poi, pubblicamente, lo ha definito «uno dei tanti dipendenti del Campidoglio

Bilancio delle Regioni, vince l’Emilia Romagna Rating Fondazione Etica:sorprese Liguria e Campania MILANO Ai primi tre posti Emilia Romagna, Lombardia e Toscana. In fondo alla classifica, due Regioni del Sud, Puglia e Molise. Risultati scontati? Non tutti. Perché nell’analisi del Rating pubblico — un modello di valutazione qualitativa delle Pubbliche amministrazioni— delle 15 Regioni a Statuto ordinario, relativamente ai bilanci, spuntano anche due sorprese. La prima che emerge dalla classifica elaborata dalla Fondazione Etica con la Luiss è positiva: il quinto migliore Rating pubblico dei bilanci appartiene alla Campania, che viene subito dopo il Piemonte e con un risultato sostanzialmente analogo a quello del Veneto: tutte con un giudizio «good». Al contrario, nell’altra parte della graduatoria, c’è la sorpresa negativa: il terzultimo posto va alla Liguria, sullo stesso livello di Basilicata, Calabria e Lazio, tutte con un giudizio «satisfactory». Come si spiega la doppia sorpresa? Da anni la Campania, come il Lazio e tutte le Regioni del Sud (Basilicata esclusa), è soggetta al Piano di rientro del disavanzo sanitario, sotto il controllo del ministero dell’Economia. E questo, nel medio periodo, ha portato a un miglioramento in termini di dati di bilancio. Nulla a che vedere con la qualità del servizio sanitario fornito, si parla di numeri. In particolare della limitata incidenza sulle spese correnti dei costi del personale (8,1% su 9,7 di media delle 15 Regioni) e degli organi istituzionali (1,1% su 2,4 di media); della minore pressione finanziaria pro capite (2.115,37 euro su 2.233,53 di media); dell’elevata capacità di spesa (82,9% su 80,6 di media); e dell’avanzo sanitario pro capite (+5,3 euro

a fronte di -17,8 di media). Per la Liguria, al contrario, la bassa posizione in classifica è da mettere in relazione all’elevata rigidità della spesa (6,8% su 5,5 di media), all’eccessiva dipendenza dai trasferimenti statali (14,4% su 11,7 di media) e al rilevante peso della spesa per rimborso prestiti (5,4% su 3,6 di media) e per gli organi istituzionali (3% su 2,4 di media). Anche il primato dell’Emilia Romagna è in parte sorprendente. Non perché risulti la migliore tra le Regioni italiane, essendo conosciuta la solidità della sua capacità amministrativa; quanto, piuttosto, per i livelli raggiunti: un punteggio di 85 su 100, da ecting «poor» (quella immediatamente precedente la «fallible » e, dunque, da monitorare attentamente) e la Puglia, che però riesce almeno a salire in classe «weak». La Puglia può consolarsi con la minore pressione fiscale, con 1.608,91 euro pro capite a fronte degli oltre 2.400 di Lazio e Basilicata, e con il minore indebitamento pro capite (600,20 euro su 1.359,25 di media).

Al via oggi a Bergamo

Festival Città Impresa, tra gli ospiti Fornero, Profumo eTononi Il Festival Città Impresa torna a fare tappa a Bergamo per la seconda edizione. Si parte oggi e si continua fino a domenica 28 ottobre con un programma fitto di incontri. Al centro, le aziende, la crescita, le persone. Quali sono le ambizioni della tecnologia made in Italy? E i campioni della nostra industria possono farsi carico del ruolo di guida e traino della crescita, promuovendo lo sviluppo delle aziende della loro filiera? Sono queste le questioni-chiave su cui si confronteranno stamattina l’amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo e Stefano Paleari,

commissario straordinario di Alitalia alla guida, fino al maggio scorso, del comitato di coordinamento di Human Technopole. Il gruppo nazionale dell’aerospazio e della difesa ha deciso quest’anno di rivoluzionare i rapporti con i fornitori, individuando i «partner per la crescita » attraverso la valutazione delle loro performance in termini di capacità e sostenibilità. Il tutto sotto l’etichetta del programma Leap2020, acronimo che sta per «Leonardo Empowering Advanced Partnerships». A rappresentare il cruciale punto di vista delle imprese sarà il presidente di Confindustria Bergamo, Stefano Scaglia, reduce dall’assemblea dell’associazione di due giorni fa. Ma non è questo l’unico appuntamento della giornata. Tra i piatti forti anche i contributi del presidente della Cdp, Massimo Tononi, e dell’amministratore delegato di Italmobiliare Carlo Pesenti: insieme nel pomeriggio parleranno di finanza d’impresa. Poi sì o no alle quote di genere in azienda; integrazione (vera o di facciata?) degli immigrati in fabbrica. E infine le pensioni. Sul tema, riscaldato dal dibattito sulla legge di Stabilità, incroceranno i loro punti di vista l’ex ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Elsa Fornero e Alberto Brambilla, «padre» del progetto «quota 100» e presidente del centro Itinerari previdenziali. Rita Querzè.

Altre buste esplosive: caos sul midterm Biden e DeNiro tra i destinatari. Il presidente attacca la stampa.Muro contro muro tra i partiti a11giorni dal voto

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

WASHINGTON La campagna del terrorismo per corrispondenza non si ferma. Ieri sono arrivate a destinazione altre tre buste gialle contenenti ancora ordigni rudimentali confezionati con tubi e nastro isolante. Due, identificate in un centro di smistamento nel Delaware, per l’ex vice presidente Joe Biden; l’altra per l’attore Robert De Niro, recapitata negli uffici della Tribeca Productions a Manhattan. L’Fbi, adesso, avverte: attenzione

potrebbe non essere finita. Gli investigatori hanno invitato praticamente tutti i parlamentari e l’ex presidente Jimmy Carter a intensificare le misure di sicurezza. Ma se nella lista c’è anche De Niro, è chiaro che il campo dei possibili bersagli si allarga in modo imprevedibile. Si sospetta che i pacchi siano stati tutti spediti dalla Florida. Tutte le piste sono aperte. Una cosa, però, è sicura: lo scontro politico è diventato, se possibile, ancora più aspro. Martedì 23, il giorno della prima emergenza, Donald Trump, all’ora di pranzo aveva commentato brevemente dalla Casa Bianca: «Ora dobbiamo restare uniti, non c’è spazio per la violenza politica, in qualunque forma, negli Stati Uniti». La sera stessa, però, in un comizio a Mosinee, nel Wisconsin, il leader americano è tornato sui toni consueti, attaccando i media, «il male» del Paese. Sono i canali tv come la Cnn o i giornali come New York Times e Washington Post che «creano questa atmosfera nel Paese». Nessuna parola, neanche di circostanza, per i target scelti dal o dai bombaroli postali: Barack Obama, Bill e Hillary Clinton, l’ex ministro della Giustizia Eric Holder, la parlamentare democratica Maxine Waters, l’ex direttore della Cia, John Brennan. Donald Trump, dunque, continua a cavalcare la rabbia, il risentimento del suo elettorato. Nel rally dell’altra sera i militanti gridavano gli slogan di sempre, come se non fosse successo nulla. Hillary Clinton? «Lock her up», mettetela dentro. La stampa? «Fake news» e così via. E’ il modello ormai dominante nell’area conservatrice. I repubblicani moderati o sono in ritirata, come il senatore dell’Arizona, Jeff Flake, oppure si sono truccati, con effetti anche grotteschi, da super trumpiani, come, per esempio, il senatore del Nevada, Dean Heller o la deputata dell’Arizona,

Soros ● Il finanziere e filantropo George Soros, 88 anni, è stato il primo, martedì, a ricevere un pacco bomba nella buchetta delle lettere della sua residenza di Katonah, Stato di New York

Obama ● L’ex presidente Barack Obama, 57 anni, era il destinatario di un altro pacco bomba intercettato all’ufficio postale: era diretto alla sua casa di Washington

Clinton ● Era in Florida per un appuntamento elettorale, Hillary Clinton, 70 anni, quando un plico con un ordigno è stato intercettato verso la residenza dove vive con il marito Bill

Brennan ● John Brennan, 63 anni, ex direttore della Cia sotto Obama, era destinatario di un pacco inviato agli uffici della Cnn di New York. Brennan ha spesso criticato Donald Trump

De Niro ● Ieri un’altra busta è stata bloccata al Tribeca Grill, il primo e storico

ristorante newyorkese dell’attore e produttore Robert De Niro, 75 anni da sempre sostenitore dei democratici

Biden ● Tra gli obiettivi anche l’ex vicepresidente di Obama, Joe Biden, 75 anni: un pacco era diretto alla sua casa nel Delaware. Biden è anche un possibile candidato alle elezioni 2020

Holder ● Il pacco per Eric Holder, 67 anni, ex ministro della Giustizia con Obama, è stato trovato in Florida, nell’ufficio della deputata Debbie Wasserman Schultz, usata come mittente

Waters ● Altro target, la deputata democratica Maxine Waters, 80 anni, californiana. L’ordigno era indirizzato al suo ufficio parlamentare a Washington ma è stato intercettato a Panico e controlli Un’ispezione della polizia ieri a New York (Epa) Los Angeles

LA STAMPA

Gli istituti di credito italiani rimandano l’emissione di obbligazioni: finanziarsi sul mercato è troppo caro

Credito fragile, stretta di Bankitalia E ora aumentano i controlli sui Btp

Qualche settimana fa,

Monte dei Paschi ha incontrato a Londra una serie di investitori ipotizzando l’emissione di un bond subordinato. Le risposte ottenute hanno posizionato la potenziale emissione a un livello di rendimento «a doppia cifra», ovvero superiore al 10%. Un livello che con i tassi attuali corrisponde al riconoscimento di un rischio assai elevato. Ma Mps, grande malata del sistema bancario italiano, non è un caso isolato. Da maggio, l’unica banca italiana che si sia presentata agli investitori con una emissione di debito proprio è stata Intesa Sanpaolo, la più solida di gran lunga tra gli istituti italiani. Il 23 agosto scorso l’istituto di Ca’ de Sass ha emesso un bond «senior», più sicuro rispetto ai subordinati, della durata di cinque anni con un rendimento del 2,125%. Il rendimento, inferiore al Btp di pari durata, è superiore di oltre 110 punti base rispetto ad una emissione decennale fatta da Intesa il 12 marzo scorso. Quella di agosto è stata la prima - e finora unica - emissione di debito da parte di una banca italiana. Perché quello di Montepaschi - rivelato dal «Financial Times» tre giorni fa - non è un caso isolato. «Adesso, qualunque banca italiana si presentasse al mercato con un bond subordinato pagherebbe rendimenti a

doppia cifra o di poco inferiori», spiega un banker. Per questo tutti gli altri istituti hanno preferito rimandare a tempi più tranquilli. È uno degli effetti del rischio-spread sulle banche italiane, che devono posticipare i propri piani di raccolta e, nel caso dei titoli subordinati, di rafforzamento del capitale. La conseguenza è che, costando di più la raccolta di denaro, costerà di più pretendere finanziamenti per le imprese o accendere nuovi mutui. «Ma il problema - spiega un banchiere d’affari - non è tanto il livello dello spread a 300 o a 400 quanto l’incertezza, la mancanza di visibilità su quello che accadrà nei prossimi mesi per la crescita, gli investimenti, i conti pubblici». Un argomento, quello dell’incertezza e dei rischi che comporta per il sistema, che è stato affrontato anche martedì da banchieri e imprenditori presenti alla cena moscovita con il premier Giuseppe Conte. Intanto la Banca d’Italia - su richiesta della Bce - ha richiesto alle banche italiane nelle scorse settimane un aggiornamento periodico delle posizioni in titoli di Stato, con riferimento in particolare ai titoli detenuti nei portafogli di negoziazione, che hanno impatto sul conto economico, e quelli classificati come detenuti fino a scadenza, le cui fluttuazioni non impattano nel conto economico. In totale, sono 380 miliardi i titoli di Stato nei portafogli delle banche tricolore. La necessità di tanta attenzione è spiegata dal confronto tra salita dello spread e livello del capitale di miglior qualità delle banche principali. Il 31 marzo scorso, con lo spread a 128,4 punti, il Cet1 di Banco Bpm era all’11,5%. Il 30 giugno con lo spread a 237,7 punti il Cet1 era 10,8%. Quello di Ubi Banca è sceso nello stesso periodo da 11,64% a

11,42%. Mezzo punto di Cet1, al 12,51%, lo ha perso in tre mesi anche Unicredit. Mentre Mps è sceso da 11,70 a 10,60% e Carige era già in giugno al 9,90%, poco sopra il minimo richiesto dalla Bce del 9,63%. Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, e grande vecchio della finanza italiana, ha preferito svicolare ogni domanda su manovra e spread limitandosi ai grandi scenari. «Siamo di fronte a un bivio, a una sfida. Ritengo che l’Europa, se riuscisse a trovare la sua anima e lo spirito unitario da cui è stata fondata, potrebbe ancora essere la guida della civiltà moderna », ha detto durante l’apertura alle Galleria d’Italia di una mostra sul Romanticismo, dedicata al contributo italiano all’arte di un’epoca di crisi culturale e politica. Più diretto l’altro grande vecchio, Giuseppe Guzzetti. Anticipando che durante la Giornata del risparmio, il 31 ottobre prossimo, «farò delle considerazioni sul valore del risparmio, su risparmio e politica e anche se questa situazione rischia o se non ha già creato una conseguenza negativa per i risparmiatori italiani». Ma la giravolta del governo sul tema banche e spread, si spiega, non è frutto del caso.

L’economista Pianta ha studiato il rapporto tra disuguaglianze e richiesta di assistenzialismo

Salari bassi e lavori sempre più precari la geografia del voto meridionale del M5S

La mappa del voto del

4 marzo sovrapposta a quella delle diseguaglianze sociali: il Movimento 5 Stelle dilaga dove la caduta del reddito e la precarizzazione dei contratti di lavoro ha tratti più marcati. È la tesi esposta da Mario Pianta, economista e titolare della cattedra della Normale di Pisa intitolata a Carlo Azeglio Ciampi, nell’ambito del convegno «Le conseguenze politiche delle diseguaglianze » che ha chiamato a Firenze studiosi da tutto il mondo: dall’economista statunitense James Galbraith a Colin Crouch, sociologo britannico teorico della «post democrazia». Lo studio di Pianta parte dalla constatazione che in Occidente capitalistico la percentuale di reddito che va al lavoro è diminuita a partire dagli Anni 80. Almeno il 10 per cento della ricchezza si è spostato dal lavoro al capitale, mentre si verificava il fenomeno definito dall’autore «ritiro della politica». In Italia negli ultimi trent’anni i redditi reali del 10 per cento più ricco sono cresciuti del 27 per cento; quelli del 10 per cento più povero calati del 29 per cento. Nello stesso periodo la quota di lavoratori a tempo determinato sul totale è quasi raddoppiata. Gli aumenti di produttività premiano i profitti più che i salari. Pianta dedica un capitolo

del suo studio al tema «diseguaglianze contro democrazia», analizzando le conseguenze della divaricazione dei livelli di benessere sui processi politici: definizione dell’agenda delle priorità; finanziamento delle campagne elettorali, lobbismo; riduzione del perimetro dei servizi pubblici. «Acute diseguaglianze economiche - scrive - colpiscono la rappresentanza politica in modi che possono condurre a nuove forme di potere oligarchico, minando la democrazia». Negli ultimi anni, la diffusa accettazione delle diseguaglianze ha fatto posto a rilevanti reazioni popolari, variamente configurate: contro movimenti; tradizionali proteste di sinistra; mobilitazioni populiste e protezioniste; nazionalismi ed estremisti di destra. Scrive Pianta: «Diseguaglianze, impoverimento, insicurezza sono cruciali nel determinare cambiamenti nei comportamenti elettorali, che avvengono principalmente attraverso forze populiste e di estrema destra». Pianta analizza l’exploit elettorale della tedesca Afd (Alternative für Deutschland), partito di estrema destra fondato nel 2013 e passato in cinque anni dal 4,7 al 12,7 per cento dei voti, terza forza del Bundestag. La mappa dei consensi elettorali mostra significative analogie con quella della disoccupazione. Poi passa allo «spartiacque» delle elezioni italiane del 4 marzo, cogliendo una «impressionante somiglianza» tra la distribuzione regionale dei lavoratori con paghe più basse e quella del consenso ottenuto dal Movimento 5 Stelle. Nelle otto regioni del Mezzogiorno in cui si concentra la quota più ampia dei lavoratori italiani peggio retribuiti, il M5S fa il pieno di voti (dal 40 per cento in Abruzzo al 49 in Campania); nel Nord Est, dove la quota è marginale, i risultati grillini sono dimezzati. Lo stesso tipo di confronto viene effettuato con la mappa del lavoro precario, riscontrando

una «rimarchevole somiglianza»: dove è più diffuso, il M5S cresce. Ad analoghe conclusioni si perviene utilizzando altri indici di «diseguaglianze e disagio»: disoccupazione, inoccupazione giovanile, percentuale di ragazzi che non studiano né lavorano. La dinamica politica del cambiamento, conclude Pianta, non è stata ancora analizzata nel profondo. E soprattutto non è un processo concluso. Il «rivolgimento» è ancora in corso.

GIULIA BONGIORNO Il ministro della Pa: “Nella capitale c’è un problema di zone franche Non condanno nessuno, ma di questo è oggettivamente responsabile la sindaca Raggi”

“Servono più regole e legalità:

così la Lega conquisterà Roma” ROMA

Ieri la ministra ha presentato il disegno di legge “codice rosso” R. MONALDO / LAPRESSE

Per tanto tempo abbiamo

detto alle donne: denunciate la violenza. Ora che molte lo fanno, la denuncia finisce sotto una pila di carte: questo è un tradimento». Ieri la ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, insieme a Michelle Hunziker con cui ha fondato l’associazione Doppia difesa e al ministro Bonafede, ha presentato il disegno di legge “codice rosso”. «Necessario per dare un termine preciso entro il quale una donna che denuncia deve essere ascoltata».

Il tema della violenza sulle donne è un’emergenza. Tra gli ultimi casi, ha scioccato quello di Desirée, a Roma. «Non parlo delle singole responsabilità di chi era con lei, non mi avventuro a fare ipotesi. Ma una certezza l’abbiamo: il contesto di degrado in cui si è svolto l’omicidio. Chi vive a Roma lo sa: San Lorenzo è un quartiere abbandonato, senza controllo del territorio. Esiste purtroppo a Roma un problema di zone franche». Come succede che nella Capitale esistano zone franche?

«Do alla sindaca Raggi due attenuanti. La prima è che si deve occupare di una realtà estremamente vasta; la seconda che eredita una situazione complicata. Ma so per esperienza da penalista che l’illecito prolifera dove non c’è la presenza dello Stato». Cioè della sindaca e dell’amministrazione comunale? «Prendo a prestito le parole di Matteo Salvini: dalla Raggi mi aspettavo di più». Se dà delle attenuanti evidentemente individua anche una condanna… «Non condanno nessuno, dico che di questa situazione è oggettivamente responsabile chi fa il sindaco. Serve più controllo del territorio, io ci credo molto». Quando Salvini è andato a San Lorenzo, quartiere tradizionalmente di sinistra, accanto a chi lo contestava c’era chi lo applaudiva.

«In un video ho sentito qualcuno dire “vieni e liberaci”, come se volessero liberarsi da un oppressore. Hanno riconosciuto una istituzione che ha dimostrato di credere nella legalità». Ma, appunto, la particolarità è che si tratta di un quartiere di sinistra.

«Il punto è che se sei una vittima non te ne importa di destra o sinistra, ti interessa solo la legalità. A prescindere dal colore politico». Pensa che la Lega possa avere un appeal anche a Roma? In caso di condanna sulla vicenda

della nomina di Marra, la Raggi potrebbe arrivare alle dimissioni…

«Prima di tutto, io spero che la Raggi venga assolta. La battaglia politica non deve passare dalle vie giudiziarie». Ma se si aprisse una successione a Roma, è il momento per la Lega di espandersi? «Io sono palermitana, se in passato mi avessero proposto una partecipazione alla Lega Nord avrei risposto di no. A queste elezioni mi sono candidata invece con la nuova Lega: condivido pienamente la necessità di regole, rigore e legalità. Questo tipo di Lega può piacere al Sud come al centro Italia, a persone che non vogliono più sentir parlare solo di diritti, ma anche di doveri». Vuol dire che può raccogliere un elettorato trasversale?

«Assolutamente sì. Ormai lo schema non è più destra o sinistra, ma chi crede nella necessità delle regole e della legalità, e chi no». Detta così sembra che chi, a sinistra, non crede nelle ricette leghiste non voglia regole condivise: forse le vuole ma diverse dalle vostre.

«La scorsa legislatura abbiamo assistito a provvedimenti inaccettabili come la derubricazione di reati a fatti di scarsa tenuità. Io non sono d’accordo. Sono una garantista, sempre: bisogna prima capire se una persona è colpevole. Ma se lo è, deve scontare tutto. A sinistra ho visto spesso un certo perdonismo». Al Campidoglio è ora di una candidatura leghista? «Qui mi fermo e lascio la parola a Salvini». C’è chi dice che lei sarebbe un nome spendibile… «Io sono impegnata h24 come ministro. Esaurita questa esperienza, torno a fare l’avvocato». È sicura? In passato si candidò presidente di Regione, una certa passione per l’amministrazione ce l’ha. «Ho il privilegio di vivere in centro, e anche lì sta cominciando il degrado. Se e quando

parlo di Roma è perché la amo, è la città in cui voglio far crescere mio figlio. E vorrei calpestare marciapiedi puliti ed evitare di avere in studio avvocati che arrivano ogni settimana ingessati per le cadute nelle buche.

TASCA fondatore del centro dedicato alla blockchain dello University College di Londra “Dobbiamo stare al passo con la tecnologia”. Il modello è la nuova Silicon Valley cinese

Collaborazioni università-aziende per formare i lavoratori del futuro

Chi è in grado di dare

una definizione di blockchain? Secondo le ricerche appena il 6% della popolazione, ma per il dottor Paolo Tasca il numero di persone che sarebbero in grado di farlo in modo preciso non supera l’1%. Lui, veneto di Bassano del Grappa, dopo studi ed esperienze di lavoro in mezzo mondo ha fondato il centro per le tecnologie della blockchain allo University College di Londra. Ma perché è così difficile spiegare quella che sembra la tecnologia destinata a rivoluzionare le nostre vite? «Intanto perché non esiste una sola blockchain, ma ne esistono tante», spiega Tasca intervistato dal vicedirettore vicario de «La Stampa» Luca Ubaldeschi. «In generale quando si parla di blockchain si intende la tecnologia che permette a un gruppo di persone che non si conoscono

di raggiungere un accordo sullo stato di un insieme di dati». Senza intermediari e in modo sicuro. Si è iniziato a parlarne con la diffusione delle criptovalute, ma gli ambiti di applicazione sono molti. «E’ una tecnologia destinata a evolversi e tra qualche decennio potrebbe addirittura non esistere più, sostituita da qualcosa che ha contribuito a creare». Un flusso rapido e inarrestabile. D’altronde, come evidenzia anche uno studio del World Economic Forum, il 65% dei bambini che iniziano le scuole elementari oggi, in futuro saranno impegnati in mestieri del tutto nuovi che oggi nemmeno esistono. La sfida è farsi trovare pronti. «Purtroppo c’è troppa distanza fra quello che viene insegnato ai ragazzi e ciò che il mercato richiede», osserva Thomas Parisini, ordinario di Automatica all’Università di Trieste, a colloquio con il diret- tore del «Messaggero veneto» Omar Monestier. «In questo scenario diventa fondamentale provare a dar vita a una partnership tra il mondo dell’istruzione e quello delle grandi aziende». Un esempio arriva dalla nuova Silicon Valley, quella che sta sorgendo a Shenzhen, in Cina, nella Greater Bay Area. «Qui università e colossi della tecnologia hanno creato il più grande laboratorio di ricerca e sviluppo del mondo». Milioni di giovani arrivano ogni anno per offrire valore e cercare opportunità di lavoro. «Ci sono una diversità e una ricchezza incredibili», aggiunge Parisini. «Per una volta dovremmo copiare noi i cinesi, replicando un modello che favorisce la conoscenza». Altrimenti il destino è segnato. «I nostri cervelli andranno via e non riusciremo a trattenerli. I giovani vogliono sognare, dobbiamo offrire speranza».

In arrivo un nuovo decreto per presentare le offerte di acquisto

I dubbi delle Ferrovie su Alitalia E ora i tempi rischiano di allungarsi

Il piano del governo su Alitalia

non sta filando liscio come il vicepremier Luigi Di Maio sperava. Nelle Ferrovie dello Stato, che nei piani del governo dovrebbe acquisire tutta l’ex compagnia di bandiera, c’è un certo malumore per un’operazione non condivisa. E non è un caso dunque se il leader dei Cinque Stelle per la prima volta definisce le Fs «partner tecnico» e non finanziario. Un cambio di rotta, che dimostra la confusione sul dossier all’interno del governo. «Fs non è detto che debba mettere chissà quali soldi, poi potrà decidere se entrare nell’equity», ha detto Di Maio che nei giorni scorsi aveva parlato al contrario di un ruolo finanziario. Le Ferrovie discuteranno di questo possibile investimento in un consiglio di amministrazione in programma all’inizio della prossima settimana, ma tra i consiglieri - raccontano fonti al lavoro sul dossier - ci sarebbero molti dubbi. L’azionista della società è il ministero dell’Economia, che dovrebbe indicare come procedere. Cosa che ancora non è avvenuta, nonostante manchino solo cinque giorni alla scadenza del termine per inviare un’offerta vincolante. La situazione dunque è ancora in alto mare e c’è hanno manifestato interesse ad entrare». Tra questi ci sarebbero Delta, Easyjet e soprattutto Lufthansa, come ha spiegato ieri a La Stampa Joerg Eberhart, l’amministratore delegato di Air Dolomiti, controllata dal colosso di Francoforte. I tedeschi chiedono però tagli al personale, cosa non condivisa da Di Maio: «Se una

compagnia interessata si pone dicendo che dobbiamo tagliare dei posti di lavoro non ha capito che cosa stiamo facendo. Stiamo ricevendo tante manifestazioni d’interesse. Quindi possiamo scegliere». Il clima in realtà è di totale incertezza e preoccupa lavoratori e sindacati,che chiedono un incontro con il ministro e minacciano lo sciopero. STRETTA SULL’ASSENTEISMO E TURNOVER AL 100%

Nuovo piano della P. a. contro i furbetti E si torna ad assumere Disegno di legge Concretezza: arrivano i controlli con impronte digitali, iride o videosorveglianza Impronte digitali, controlli all’iride e videosorveglianza contro i «furbetti del cartellino», black list per dirigenti e pubbliche amministrazioni inadempienti e sblocco totale del turn over a partire dal 2019: raccolti tutti i pareri del caso, a partire da quello del Garante della privacy, il Consiglio dei ministri ieri sera ha varato il «Ddl Concretezza», il pacchetto di misure messo a punto dalla ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno. Arriva così, sottoforma di collegato alla legge di Bilancio, l’ennesima stretta contro l’assenteismo ed un piano per rilanciare l’efficienza della Pa accompagnando il tutto con un piano straordinario di assunzioni. Grazie allo sblocco del turn over dall’anno prossimo sarà infatti possibile sostituire tutti i dipendenti

della Pa, scuola esclusa, che cesseranno il servizio: 450 mila persone in tre anni stando alla Ragioneria dello Stato. «Uno va via ed uno entra» ha spiegato la ministra, che ipotizza anche «assunzioni straordinarie, perché riteniamo che la pubblica amministrazione debba tornare a correre» . La Bongiorno vuole bandire nuovi concorsi (che dovranno essere «unici», per assicurare a tutti uniformità di giudizio)- allo scopo di svecchiare i ranghi della macchina pubblica. Ma per accelerare i tempi è anche previsto che si attinga dai concorsi già banditi facendo scorrere le graduatorie. Le amministrazioni dovranno elaborare i piani di fabbisogno tenendo conto dell’esigenza di assicurare l’effettivo ricambio generazionale e la migliore organizzazione del lavoro ma soprattutto della necessità di reclutare figure con elevate competenze nella digitalizzazione. Addio ai badge

Contro i furbetti del cartellino arrivano poi nuove misure. Badge e fogli presenze lasceranno infatti il passo alle impronte digitali, al controllo PAOLO BARONI dell’iride, all’identificazione facciale ed alla videosorveglianza, strumenti su cui però il Garante della privacy è già intervenuto suggerendo alcuni correttivi: dall’uso di un solo sistema di verifica, vietato quindi incrociare videosorveglianza ed impronte, all’esigenza di introdurre questi nuovi strumenti con gradualità ed in maniera proporzionale rispetto alla dimensione dell’ente in questione ed al numero dei suoi dipendenti. Nucleo valutazione Il ministero, d’intesa con gli enti locali, ogni anno dovrà mettere a punto un Piano triennale delle azioni concrete. All’Ispettorato della Funzione pubblica spetterà il compito di rilevare eventuali violazioni o irregolarità, mentre l’individuazione dei possibili rimedi spetterà al

neonato «Nucleo della concretezza», una task force composta da 50 tra dirigenti e funzionari che dovrà verificare la corretta applicazione delle disposizioni in materia di organizzazione e funzionamento delle amministrazioni e garantire il miglioramento dell’efficienza con «indicazione dei tempi per la realizzazione delle azioni correttive». La mancata attuazione delle misure proposte dal Nucleo costituirà «causa di responsabilità dirigenziale e disciplinare»: le amministrazioni ed i rispettivi dirigenti che non rispetteranno gli obiettivi saranno iscritte in un elenco, una sorta di black list, pubblicato online. Buoni pasto

Nel ddl concretezza c’è anche spazio per affrontare l’annosa questione dei buoni pasto emessi da Qui!group a cui Consip ha tolto l’appalto per gravi inadempienze. Vengono infatti stanziati 3 milioni di euro per coprire le eventuali perdite sui nuovi pasto ancora nelle mani dei dipendenti e non più spendibili che verrebbero ritirati e sostituiti con altri dello stesso importo.— Arriva lo sblocco totale del turnover per tutte le amministrazioni centrali, che dall’anno prossimo potranno procedere ad assunzioni a tempo indeterminato semplicemente mantenendo la spesa allo stesso livello di quella relativa al personale di ruolo cessato nell’anno precedente. Per ridurre i tempi, in attesa dei nuovi concorsi «unici», si potrà ricorrere anche allo scorrimento delle graduatorie coprendo al massimo l’80% dei posti che si liberano ogni anno. — Il Nucleo della Concretezza che sarà istituito presso il Dipartimento funzione pubblica dovrà migliorare

l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e fare da supporto anche a Comuni, Regioni e Asl. La task force sarà composta da 53 persone, 23 dirigenti pescati tra le file della Pa e 30 funzionari assunti ex novo. Il suo compito sarà quello di verificare, anche con visite e sopralluoghi, che il Piano triennale delle azioni concrete concordato con gli enti locali venga realizzato.— Il Ddl Concretezza affronta amche il problema legato al crack di Qui!Group, la società che forniva i buoni pasto ai dipendenti pubblici di Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Lombardia e Lazio a cui Consip ha revocato l’appalto per «gravi inadempienze». Le varie amministrazioni potranno farsi restituire dai dipendenti i buoni maturati e non spesi, per sostituirli con altri di valore nominale corrispondente. Per coprire le eventuali variazioni dei costi vengono stanziati 3 milioni di euro.

ROMA TODAY Risorse per Roma, il nuovo contratto mette al sicuro gli stipendi: ma restano i dubbi di lavoratori e opposizione „

Risorse per Roma, il nuovo contratto mette al sicuro gli stipendi: ma restano i dubbi di lavoratori e opposizione

Mercoledì la firma del contratto di servizio, scaduto ad aprile, da parte della Giunta

Ylenia Sina 26 ottobre 2018

Risorse per Roma, il nuovo contratto mette al sicuro gli stipendi: ma restano i dubbi di lavoratori e opposizione

Con la firma in Giunta del nuovo contratto di servizio, l’allarme stipendi che si era prospettato per gli oltre settecento dipendenti della società capitolina Risorse per Roma è rientrato. Sul tavolo della commissione Trasparenza che si è tenuta ieri mattina presso la sede dei gruppi consiliari di via del Tritone sono però rimasti molti nodi irrisolti, esposti sia dai consiglieri capitolini di opposizione sia dai rappresentanti dei lavoratori presenti. Con l’aggiunta di una polemica ‘trasversale’ alle tematiche affrontate e condivisa da Pd e Fdi: “L’assenza sistematica di assessori e uffici capitolini”. Infatti, se il presidente di Risorse per Roma, Giuseppe Cerasoli, ha risposto all’appello dei consiglieri, nessuno tra gli assessori a Bilancio e Urbanistica, Luca Montuori e Gianni Lemmetti, e rispettivi dipartimenti erano presenti.

Il nuovo contratto di servizio della partecipata che svolge servizi in sostegno al dipartimento urbanistica più il portierato in una serie di sedi comunali e municipali, scaduto il primo aprile scorso, “è stato firmato mercoledì in Giunta con valori economici lievemente rivisti al ribasso per un totale di 42 milioni e mezzo” ha spiegato Cerasoli. “Ora abbiamo 20 giorni di tempo per definire i programmi operativi”. Nel frattempo, ha tranquillizzato, “questa firma ci permetterà di incassare a breve le fatture di aprile e maggio. Possiamo dire di aver superato le criticità finanziarie che nei mesi scorsi ci avevano costretto a segnalare la situazione al Comune”.

Chiedono di vederci chiaro le opposizioni, Pd e Fdi in primis, che avevano già affrontato il tema del contratto di Risorse per Roma nel corso di una commissione urbanistica del 17 gennaio scorso e che lamentano “una completa mancanza di coinvolgimento dei consiglieri che non sono più stati convocati nelle commissioni competenti, come promesso, e non hanno potuto nemmeno visionare il documento”. Da qui la richiesta rinnovata a più riprese da diversi consiglieri “di far accompagnare gli atti per la concretizzazione del contratto di servizio nelle commissioni competenti”.

La motivazione l’ha spiegata a Romatoday il capogruppo Pd in Campidoglio, Giulio Pelonzi: “Risorse per Roma è una partecipata che svolge servizi molto importanti e in continua evoluzione, come per

esempio le pratiche per i condoni, le affrancazioni e i piani di zona. Lo avevamo già chiesto un anno fa” continua il consigliere “lo richiediamo ora: le commissioni competenti siano messe nelle condizioni di partecipare ai contratti attuativi che sono il mezzo attraverso il quale si sostanzia il servizio”.

Motivi di preoccupazione sul destino del servizio e degli oltre settecento lavoratori sono stati espressi anche dai sindacati. "Aspettiamo di leggere il contratto di servizio, ma rispetto ai contenuti che sono emersi fino a oggi siamo molto scettici" commenta Tiziano Tozzi, Rsu Cgil. "Il documento fissa una serie di obiettivi, anche in termini strettamente numerici, che non siamo sicuri siano il frutto di un'analisi delle potenzialità dell'azienda. Risorse per Roma lavora solo se i dipartimenti di riferimento forniscono le attività propedeutiche a quelle che sono le nostre funzioni, se non c'è la definizione delle responsabilità di entrambe le parti potrebbero nascere problemi. Nonostante queste incertezze, il ritardo con cui l'amministrazione è arrivata alla definizione di questo contratto ci pone di fronte al fatto di doverlo accettare comunque perché altrimenti è a rischio la continuità economica dell'azienda e di conseguenza gli stipendi dei lavoratori".

Sul tavolo anche il nodo dei 76 lavoratori che svolgono servizio di portierato. "Siamo nel contratto ma con la spada di Damocle che pende sulla nostra testa della gara Consip alla quale l'amministrazione capitolina si riserva di affidare il servizio qualora si riveli più conveniente" spiega Mario Romani, Rsa Cisl. "E' vero che siamo tutelati dalla delibera 58 di Colomban ma chiediamo che anche nel documento siano inserite clausole più specifiche e un'armonizzazione del nostro contratto con i servizi che effettivamente svolgiamo".

"Nessun lavoratore è a rischio" spiega Cerasoli a Romatoday. "Il Comune ci sta chiedendo di svolgere anche il servizio di portierato. Consip potrebbe bandire a breve la gara del facility management e quindi dare indicazioni all'amministrazione di rivolgersi a un fornitore centralizzato. Sono le norme dello Stato. I timori dei lavoratori sono legati alla previsione di questo scenario, dal momento che non ci sono garanzie occupazionali in questo passaggio, ma al momento non abbiamo evidenze certe. Nel momento in cui si andrà in questa direzione l'amministrazione e la società capiranno quale sarà la cosa migliore da fare".

"Il fondamento giuridico di questo contratto di servizio" attacca ancora Pelonzi "è la delibera 58 sulla riorganizzazione delle società partecipate scritta da Massimo Colomban. Due emendamenti approvati e quindi facenti parte del documento dicono che anche in caso di distacco di un ramo d'azienda i livelli occupazionali saranno salvaguardati. Se così non sarà, sono pronto a ricorrere al Tar e bloccare il contratto di servizio".

Sciopero oggi | Roma | 26 ottobre 2018 | Scuole | Uffici pubblici | Metro e bus | Atac | Cotral |

Ama

Sciopero oggi a Roma: scuole, uffici e mezzi di trasporto a rischio. Il punto della situazione Lo sciopero generale è stato indetto dai sindacati Sgb, Cub, SI Cobas, Usi-Ait e Slai Cobas. In vigore le fasce di garanzia

Redazione 26 ottobre 2018

Sciopero nazionale oggi 26 ottobre. Il venerdì nero riguarda anche la Capitale, dove sono a rischio mezzo di trasporto, uffici pubblici e privati, asili e raccolta dei rifiuti. Lo sciopero generale di 24 ore è stato indetto dai sindacati Sgb, Cub, SI Cobas, Usi-Ait e Slai Cobas. ZTL del Centro Storico diurne non attive.

Sciopero oggi a Roma 26 ottobre 2018

Alle 8:30 ultime partenze e poi chiusura:

Metro A: prosegue servizio Metro B: prosegue servizio Metro C: prosegue servizio Roma-Lido: chiusa Termini-Centocelle: prosegue servizio Roma-Viterbo: prosegue servizi

Bus e tram: possibili riduzioni di corse

Cancellazioni di corse saranno possibili anche sulla rete di superficie sino alle 17 e poi dalle 20 a fine servizio.

Sciopero Atac, RomaTpl e Cotral

A Roma l'agitazione interessa anche i collegamenti Atac (bus, tram, metropolitane, ferrovie Termini-Centocelle, Roma-Lido, Roma-Civitacastellana-Viterbo) e le linee periferiche gestite dalla Roma Tpl. Lo stop previsto è di 24 ore. Saranno comunque in vigore le fasce di garanzia: servizio regolare fino alle 8,30 e dalle 17 alle 20.

Sciopero metro, bus, tram a Roma venerdì 26 ottobre 2018

Sciopero Cotral

Stop anche in Cotral. L'azienda che si occupa del trasporto pubblico extraurbano spiega che "il Sindacato Generale di Base (SBG) aderisce allo sciopero generale dei settori pubblici e privati della durata di 24 ore, con astensione dalle prestazione lavorative dalle ore 08:30 alle ore 17:00 e dalle ore 20:00 a fine servizio. Saranno garantite tutte le partenze dai capolinea fino alle ore 8:30, alla ripresa del servizio alle ore 17:00 e fino alle ore 20:00". Stop anche da parte dei dipendenti di Schiaffini Travel, azienda operante nel Trasporto Pubblico Locale nei comuni di Ciampino e Roma.“

Sciopero Ama venerdì 26 ottobre

Per quanto riguarda Ama, l'organizzazione Sindacale USI (Unione Sindacale Italiana) ha proclamato uno sciopero generale nazionale di tutte le categorie pubbliche e private per l'intera giornata. "In base a precedenti casi del genere, si prevede un’incidenza limitata sull’erogazione complessiva dei servizi aziendali", rendo noto la municipalizzata. In

attuazione di quanto prescritto dalla normativa di legge, Ama "ha comunque attivato le procedure tese ad assicurare durante lo sciopero servizi minimi essenziali e prestazioni indispensabili". Interessati dallo sciopero, con le stesse modalità, anche gli operatori del comparto Settore Funerario. Anche in questo caso, sono stati predisposti i servizi minimi

essenziali. a Roma venerdì 26 ottobre 2018

Sciopero asili, servizi comunali, uffici anagrafici

Lo sciopero interesserà anche tutto il personale a tempo indeterminato e determinato di tutti i settori pubblici e privati. Possibili disagi sono quindi previsti nei servizi comunali, uffici anagrafici e scuole incluse. Alla mobilitazione partecipa anche l'organizzazione sindacale USB che ha indetto uno sciopero della Roma Multiservizi S.p.a.. Come molti municipi si sono premurati di comunicare sui rispettivi siti istituzionali, "potrebbe non essere garantito il regolare svolgimento delle attività didattiche e scolastiche e che la Società Roma Multiservizi erogherà solo i servizi minimi essenziali".

I motivi dello sciopero del 26 ottobre 2018

A spiegare i motivi dell'agitazione è stata il Cub che in una nota ha ricordato che "10 milioni di persone in Italia vivono sotto la soglia di povertà", che ci sono "oltre tre milioni di disoccupati" e che "col jobs act siamo tutti licenziabili". Lo sciopero serve quindi per chiedere "il ripristino dell'articolo 18 per tutti i lavoratori", "la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario", la "sanità gratuità e il diritto alla casa per tutti". E ancora: "Reddito minimo garantito" e "pensione a sessanta anni o con 35 anni di contrib

Lega a Roma, il partito si struttura sul territorio: ecco coordinatori e direttivo Ratificate ieri le nomine dei referenti territoriali della Lega per Roma e provincia

Dodici membri nel direttivo di Roma e provincia, quindici coordinatori municipali, quarantasette referenti per i comuni dell'hinterland romano. La Lega mette radici sul territorio. Ieri la ratifica delle nuove nomine che vanno a costituire la struttura portante del partito nella Capitale e dintorni. Il coordinatore regionale e commissario romano, Francesco Zicchieri, ha firmato e trasmesso gli elenchi con i nomi di chi traghetterà il partito alla conquista della Capitale. Non più "Roma ladrona" ma nuova roccaforte da espugnare per il Carroccio a vocazione nazionale.

Nella lista molte conferme di nomi già consolidati nella Lega, ex Noi con Salvini, specie per le aree periferiche. Nel direttivo di Roma e provincia, come vice coordinatori troviamo i consiglieri regionali Laura Corrotti e Daniele Giannini. Ezio Favetta, segretario nazionale Ugl, sarà il responsabile organizzazione. E ancora i leghisti Mauro Gonnelli, ex sfidante di Esterino Montino alle ultime amministrative di Fiumicino, responsabile per il Litorale sud, il consigliere leghista di Ladispoli Luca Quintavalle per il Litorale nord, Marco Riezzo di Trevignano Romano per l'area Provincia nord, Vincenzo Tropiano, consigliere di Tivoli, referente dell'area Provincia est, Gianluca Chialastri, di Cave, alla Provincia sud, e Felice Squiliteri, già coordinatore di Noi con Salvini di Roma e Frascati, responsabile dei Castelli romani. Tutti o quasi nomi della vecchia guardia.

I volti nuovi, non alla politica ma alla Lega di Salvini, li troviamo per lo più su Roma. Sempre nel direttivo di Roma e provincia Maurizio Politi, ex Fratelli d'Italia, è capogruppo, unico consigliere, in Campidoglio, tra gli eletti in fuga a luglio dal partito di Giorgia Meloni, accusato di arroccamenti al vertice e scarso dialogo con la base, per approdare sul carro del vincitore leghista. Ancora tra i nomi del coordinamento romano troviamo Carlo Passacantilli, capogruppo salviniano della Città Metropolitana, ex Fratelli d'Italia. E' dal bacino degli ex An, fortemente radicati a Roma e nel Lazio, che la Lega ha attinto nomi e pacchetti di voti.

E infatti tra i referenti dei municipi non mancano i transfughi da FdI. Da Matteo Balducci in V municipio a Matteo Crocicchia in XI, a Valeria Campana in XII. Ma tra i nomi dei coordinatori municipali spunta anche qualche reduce di Alfio Marchini: Marco Veloccia ex candidato con la lista del costruttore romano in I municipio, Cristiano Bonelli in III municipio, ex presidente di centrodestra del parlamentino poi ricandidato nel 2016 anche lui con Marchini.

Insomma, la squadra è pronta e il clima attuale, appare chiaro, è da campagna elettorale. Vedi i toni usati dal vicepremier Salvini per commentare i fatti di San Lorenzo. E invocare sicurezza, legalità, stretta sui migranti. C'è l'appuntamento con le elezioni europee di maggio, ma c'è anche da lavorare sul territorio per consolidare quel consenso che già arriva di riflesso dal trend nazionale. Anche perché non è escluso un appuntamento elettorale a Roma: se i giudici dovessero condannare la sindaca Virginia Raggi il 10 novembre (è accusata di falso ideologico) e la stessa fosse costretta a lasciare la poltrona in ossequio alle regole del Movimento, meglio farsi trovare pronti.

Omniroma-DECORO, VASTA OPERAZIONE DI BONIFICA A

VIA CILICIA

(OMNIROMA) Roma, 26 OTT - Vasta operazione di bonifica a Via Cilicia. L'intervento è avvenuto nella giornata di ieri,

nel tratto sottostante la tangenziale est, quando Agenti della Polizia Locale di Roma Capitale, del Reparto Pics

(Pronto intevento Centro Storico) e del Gruppo Centro "ex Trevi", con la collaborazione di personale e mezzi dell'Ama,

hanno dato avvio ad una vasta opera di bonifica dell'area.

Le operazioni sono durate diverse ore, durante le quali sono stati rimossi oltre 20 metri cubi di masserizie (tende,

giacigli di fortuna, materassi) e rifiuti vari. Identificate otto persone di varie nazionalità, le quali hanno rifiutato

l'assistenza alloggiativa offerta.

Tutto il materiale rimosso durante l'intervento è stato conferito in discarica a mezzo AMA.

Presente alle operazioni anche personale della Sovrintendenza e dell'Assessorato alla Sostenibilità Ambientale.

INCIDENTI SUL LAVORO

Tre incidenti sul lavoro in due ore

Sono accaduti nella provincia aretina, nessuno dei tre lavoratori,

uno dei quali della provincia di Pisa, è rimasto ferito in modo grave

AREZZO — Gli incidenti si sono verificati ieri, vediamoli nel dettaglio, uno per uno. Il primo si è

verificato a Monterchi, in Valtiberina. Un operaio di 51 anni di Casciana Terme (Pisa) è stato

colpito da un albero. Non è grave ed è stato portato in ospedale in codice giallo.

A Manciano, Comune di di Castiglion Fiorentino, il secondo incidente sul lavoro. Alle 10 un

68enne che stava eseguendo alcuni lavori in un terreno è caduto rimanendo con un braccio

incastrato sotto il trattore. Anche in questo caso le condizioni non sono gravi.

Poco dopo, alle 10,30 a Levane nel comune di Bucine, il terzo sinistro. In questo caso un elettricista

di 63 anni della zona mentre lavorava in un'azienda è caduto da una scala. Ha riportato un trauma

cranico e un trauma all'anca. Codice giallo anche per lui, come gli altri due.

Sui tre episodi stanno indagando i carabinieri.

Operaio precipita da un ponteggio

L'incidente sul lavoro è accaduto in un cantiere a Focette. L'uomo

è stato trasportato con l'elicottero del 118 fino all'ospedale di

Cisanello

PIETRASANTA — A 24 ore di distanza dall'incidente mortale accaduto a Scandicci e costato la

vita a un muratore di 54 anni, un altro operaio è precipitato da un ponteggio in un cantiere situato in

via Cavour, a Focette.

Subito soccorso, l'uomo è stato stabilizzato e poi trasferito con l'elicottero Pegaso della Regione

fino all'ospedale di Cisanello: ha riportato vari traumi ma non sarebbe in pericolo di vita. Ha 40

anni.

Sul posto anche le forze dell'ordine e gli addetti del servizio di prevenzione e sicurezza sui luoghi di

lavoro dell'Asl.

Indagini in corso sulla dinamica e le cause della caduta.

La parete crolla, muore un operaio

Terribile incidente sul lavoro in un cantiere edile. Un operaio è

morto e due sono rimasti feriti mentre ristrutturavano un immobile

SCANDICCI — Un operaio morto e due feriti, uno in modo grave. E' questo il drammatico

bilancio di un incidente sul lavoro avvenuto in via Pisana. La vittima aveva 54 anni ed era

originario del Marocco, pur abitando da tempo in provincia di Firenze, a Rignano sull'Arno. Anche

uno dei due feriti è marocchino e ha 28 anni, mentre l'altro è italiano e ne ha 47.

Secondo le prime informazioni, gli operai sarebbero stati travolti da una parete, crollata mentre

stavano ristrutturando un immobile in via Pisana.


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