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Il tradimento dei diplomatici - unive.it · Ma, nella prospettiva cosmopolitica, conviene...

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683 Il tradimento dei diplomatici Ritorniamo ora alla questione della chiusura in quanto condizione dello scambio. In cosa la distinzione fra componenti nomadi e sedentari trasforma il problema dello scambio? E, piú precisamente, questa trasforma- zione non ci fa abbandonare il dominio definito all’ori- gine di questa serie di saggi, quello di un’ecologia delle pratiche, al quale corrisponde il problema dei “tipi” psico-sociali suscettibili d’affermare e non di subire questa ecologia? Dopo tutto, speranza e dubbio, sogno e paura sembrano designare una dimensione “pura- mente soggettiva” della vita, la cui nozione di “tipo” sembrava dover risparmiare. Parlare “del fisico” o “del biologo di campo” non significa aver deciso di correre un rischio calcolato riguardo a quello che preoccupa Max Planck, o Albert Einstein, o Stephen J. Gould nella loro singolarità? Ma, inversamente, fare del sogno o dello sgomento, per esempio, gli ingredienti di una vita strettamente “privata” o “psicologica”, non significa dimenticare che, in altre culture, i sogni sono messaggi che riguardano piú di uno e che lo spavento è un ingrediente fondamentale dei rapporti fra universi
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Ritorniamo ora alla questione della chiusura in quantocondizione dello scambio. In cosa la distinzione fracomponenti nomadi e sedentari trasforma il problemadello scambio? E, piú precisamente, questa trasforma-zione non ci fa abbandonare il dominio definito all’ori-gine di questa serie di saggi, quello di un’ecologia dellepratiche, al quale corrisponde il problema dei “tipi”psico-sociali suscettibili d’affermare e non di subirequesta ecologia? Dopo tutto, speranza e dubbio, sognoe paura sembrano designare una dimensione “pura-mente soggettiva” della vita, la cui nozione di “tipo”sembrava dover risparmiare. Parlare “del fisico” o “delbiologo di campo” non significa aver deciso di correreun rischio calcolato riguardo a quello che preoccupaMax Planck, o Albert Einstein, o Stephen J. Gouldnella loro singolarità? Ma, inversamente, fare del sognoo dello sgomento, per esempio, gli ingredienti di unavita strettamente “privata” o “psicologica”, non significadimenticare che, in altre culture, i sogni sono messaggiche riguardano piú di uno e che lo spavento è uningrediente fondamentale dei rapporti fra universi

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“passaggio” non si ponga ovunque, in quale misura lacondizione stessa dello scambio, ivi compreso lo scam-bio fra “rappresentanti politici”, non abbia per condi-zione una forma di “passaggio”.Noi conosciamo bene, in effetti, un “tipo psico-sociale”che integra questa condizione, si tratta del “diplomati-co”. La pratica del diplomatico ha questo di difficile edi molto interessante, cioè che l’espone molto soventeall’accusa di tradimento.2 La diffidenza persino di colo-ro che il diplomatico rappresenta fa parte dei rischi edei vincoli del mestiere, e ne costituisce la vera gran-dezza. Perché questo mestiere è sotto il segno di unatensione irriducibile. Da una parte, si ritiene che ildiplomatico appartenga alla popolazione, al gruppo, alpaese che rappresenta, ne condivida le speranze e idubbi, i terrori e i sogni. Ma, dall’altra, il diplomaticosi rivolge ad altri diplomatici, e deve essere per loro unpartner affidabile, che accetta insieme a loro le regoledel gioco diplomatico. Il diplomatico non può quindiaccomunarsi con coloro che rappresenta, altrimentil’attività diplomatica sarebbe priva di senso o si ridur-rebbe a questa altra strategia inventata dagli esseriumani per evitare il rischio di guerra generalizzata, ilcombattimento singolare fra due “eroi” al cui destinoognuno accetta di affidarsi. Ma il cinismo, l’indifferen-za o il tradimento, anche se è molto raro che ne siaaccusato, non costituiscono la verità del suo mestiere,ma la sua negazione. Designano i rischi inerenti al suomestiere, il pericolo che costituisce la negazione degliobblighi che lo fanno esistere, come sarebbe negazionedegli obblighi dello sperimentatore l’indifferenza versola distinzione fra il testimone affidabile e l’artefatto,come sarebbe negazione degli obblighi del ricercatoredi campo la ricerca di cause con il potere di causare, equindi costituire, il terreno per la messa in scena diuna prova che varrebbe per altri campi. In altri termi-ni, il diplomatico è colui che deve tradurre, e quinditradire, ciò che egli tuttavia vive anche e nel medesimotempo secondo la modalità sedentaria della condizio-ne: ha paura di tradire, eppure traduce. Forse il diplomatico è colui che può aiutarci a pensare aquello che comporta la questione della scienza quando

distinti, fonti di vincoli che conferiscono ai dubbi e allesperanze le matrici dei loro significati? La divisione frala vita affettiva “privata” e quella “pubblica” è una diquelle dimensioni della “grande divisione” che la que-stione cosmopolitica deve trasformare in problema. Laprova alla quale i coterapeuti di Tobie Nathan sonod’ora in poi vincolati, la divinazione, la prescrizione ela fabbricazione di oggetti attivi, la lettura “autoritaria”dei sogni dell’altro (non la “proposizione” di un’inter-pretazione possibile), è qui esemplare. Questa provanon esprime la necessità di un’identificazione con lacultura dove si praticano questi gesti, queste letture,non corrisponde a un’iniziazione, ma “fa passare” quel-lo che per l’altro è condizione in un modo che non lotrasforma in vincolo, di cui il coterapeuta sarà libero direinventare il significato e la portata. Va sottolineatoche l’espressione “far passare” non definisce assoluta-mente una qualsiasi esperienza vertiginosa, dubbioradicale o replica miniaturizzata di ogni territorialità.Non ho la pretesa di negare che questo genere d’espe-rienza possa verificarsi, ma sono fermamente intenzio-nata a negare che costituisca un riferimento, un titolo,un privilegio o una vocazione. La vertigine della pagi-na bianca o la breve distanza fra filosofia e follia sonotemi un po’ troppo lusinghieri, troppo privi di humourper non far sorridere, e il tuffo nel caos si compie sem-pre secondo modalità qualificate, senza le quali né l’ar-tista, né il filosofo, né lo scienziato “riferirebbero”nulla.1 Ciò che “fa passare” la prova è, innanzi tutto,l’impossibilità di ridurre a credenze quello che è con-dizione per l’altro, e l’impossibilità d’adottare unaposizione di tolleranza nei confronti dell’incapacitàdell’altro a operare in questo caso la distinzione fracondizione e vincolo.Per Nathan, l’abbiamo visto, questa prova deve esserepretesa da ogni esperto suscettibile di partecipare allacreazione di una “psicopatologia scientifica”, essaappartiene quindi al “tipo psico-sociale” di un ricerca-tore capace di sfuggire alla passione moderna di squali-ficare ogni pratica che non aderisca all’affermazione diun mondo unico. Ma, nella prospettiva cosmopolitica,conviene domandarsi in che misura la questione del

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i rischi di queste pratiche scientifiche, e spiegano, forse,una ragione per la quale le scienze cosiddette “umane”hanno tanta difficoltà a inventare le pratiche che corri-spondano a delle scienze della contemporaneità.La prima conseguenza della mia analogia è che questescienze, che chiamerò d’ora in poi scienze della con-temporaneità, poiché il tempo della produzione diconoscenza e il tempo del divenire di coloro che esseriguardano devono essere lí accettati come inseparabi-li, hanno come problema non degli individui, ma dellepratiche. Era la conclusione cui ero già arrivata quan-do avevo proposto di considerare che, nella misura incui un enunciato scientifico deve potere essere messo arischio da ciò a cui si rivolge, le scienze cosiddetteumane non possono sperare di produrre un sapereaffidabile solo nella misura in cui esse non si rivolgonoa degli “esseri umani”, ma a degli esseri che esse sannocapaci di prendere posizione riguardo alla pertinenzadelle domande che vengono loro rivolte. La figura deldiplomatico traduce direttamente questo vincolo. Nonesiste diplomazia se non fra “potenze”. Il diplomaticosa di avere l’obbligo di riferire, e quindi di tradire, ma– salvo nel caso di una resa senza condizioni – sa ancheche coloro che tradisce hanno il potere di rifiutare lesue proposizioni. La grandezza peculiare della sua pra-tica sta in questo rischio. Ed è questo rischio che evi-terà l’antropologo delle scienze che visiterà un “sapien-te folle”, o uno di quegli autodidatti sventurati e illumi-nati che costruisce tutto da solo una nuova teoria del-l’unificazione delle forze, o escogita una superba spie-gazione quantistica della telepatia. Nella misura stessain cui lavora nell’impunità, dove quello che ha sceltoper oggetto è socialmente definito da una ridicolaggi-ne o da un’inadeguatezza che egli sezionerà, quelloche “riferirà” l’antropologo sarà un insulto per l’altro,il puro e semplice sfruttamento della sua posizione didebolezza. Allo stesso modo, secondo il metro della“grandezza” diplomatica, sono “piccoli” gli psicologisociali che schematizzano le opinioni di individui difronte a problemi che sono loro completamente estra-nei. L’espressione di questa “cattiva azione” è che laschematizzazione perde la sua pertinenza allorché s’in-

si tratta di “scienze umane”, cioè in quei domini popo-lati di tecniche che si apparentano ai tre mestieriimpossibili di Freud, tecniche alle quali non sembranoaddirsi le esigenze politiche che definiscono una tecni-ca “moderna”. In L’invention des sciences modernes, avevoproposto di vedere nell’esperto delle scienze teorico-sperimentali un ibrido singolare fra giudice e poeta,mente l’arte e i rischi dello scienziato di campo lo raf-frontano all’inquirente o al “segugio” in agguato. Maall’epoca non avevo trovato un equivalente adatto perqueste scienze che avevo chiamato di un “terzo genere”,perché s’indirizzavano a degli esseri che, per definizio-ne, s’interessano o possono interessarsi, o sono capacid’interessarsi, a quanto si esige da loro, nel modo in cuici rivolge loro. Oppure, come il diplomatico, l’espertodi una scienza, dove “le condizioni di produzione diconoscenza dell’uno sono ugualmente, inevitabilmente,condizioni di produzione d’esistenza per l’altro”3 nondeve anch’egli situarsi nel groviglio di due regimi d’ob-bligo, l’obbligo d’accettare che passino in lui i sogni diquelli che studia, i loro terrori, i loro dubbi e le lorosperanze, e l’obbligo di “rapportare” quello che haappreso da altri, di trasformarlo in ingredienti di unastoria da costruire? Cosí, come guaritore, Tobie Nathandeve passare attraverso le condizioni dei suoi clienti,apprendere da loro come guarirli, come “scienziato”,deve “far esistere” quello che ha appreso, deve costrui-re, in particolare, i mezzi per resistere alle favole univer-saliste, contribuire alla costituzione di un corpus, allamessa a punto di un linguaggio abbastanza astratto, perconfrontare senza ridurre, in breve deve partecipare auna storia dove si tratta di prendere la misura di ciò cuiobbliga quello che, in mancanza di meglio, si chiamerà“psichismo”, quando è causa di sofferenza e di erranza.Se l’analogia reggesse e se la doppia dimensione, quellapassiva, dove si tratta di farsi lasciare un segno dal “pas-saggio”, e quella attiva, dove si tratta di “rapportare”, equindi di tradire, caratterizzasse, in effetti, il tipo psico-sociale dell’esperto che ha come primo obbligo quellodi non fare assegnamento sull’indifferenza di coloro chedescrive, ne potrebbero derivare alcune conseguenze.Queste conseguenze precisano la portata, il significato e

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All’ossessione del rapporto di forza da stabilizzare fracolui che interroga e colui che è interrogato, l’analogiadel diplomatico permette di sostituire il rischio diun’operazione di traduzione. La singolarità di quest’o-perazione, la dissimetria che la traduzione, in quantopratica produttrice di sapere, è che ciò che si tratta di“far passare”, di trasformare in sapere, non è per coluiche “riceve” il ricercatore-diplomatico, sapere nellostesso senso. Quello che interessa l’antropologo dellescienze non è quello che interessa lo scienziato a cui favisita. Per quest’ultimo è una condizione di sapere cheva da sé, che si trasmette in modo implicito. Ma, nondi-meno, è una delle poste in gioco essenziali della tra-smissione delle pratiche scientifiche, quello che, peresempio, fa la differenza fra un autodidatta e unoscienziato in grado di riconoscere quello che puòrischiare o quello che, se lo proponesse, lo squalifiche-rebbe. La traduzione, quindi, in questo caso, è rischio-sa in quanto formulata a proposito di esperti capaci dicontestarla. Il che ci riporta all’esigenza che ho già for-mulato: solo le modalità e gli individui in quantoesperti, possono autorizzare una tale pratica di tradu-zione. In effetti, è solo nel loro caso che la dimensionesedentaria dell’esperienza costituisce, comunque sia,l’oggetto di una pratica di trasmissione, e può quindiessere tradita-tradotta, ma non estorta con l’abuso dipotere in nome della scienza. Solo i pratici non posso-no sentirsi giudicati, umiliati, incantati, spodestati,dalla traduzione, non possono identificarsi con ciò cheriferito di loro, non possono attribuire a colui che liinterroga la posizione del “soggetto ritenuto di sape-re”, ma possono interessarsi all’interesse di cui sonooggetto, sorridendo, all’occorrenza, nel venire a saperedal visitatore come la loro pratica sia singolare, bendiversa dai modelli generali di razionalità o di giustifi-cazione che essi credevano di utilizzare.L’analogia fra scienze di contemporaneità e pratichediplomatiche non ha quindi nulla di neutro. Cosí, perfare solo un esempio, essa permette di concludere chenon ci sarà “pedagogia” in un qualunque senso scienti-fico, finché gli insegnanti non avranno i mezzi di defi-nirsi in collettività di esperti, finché il pedagogo si

terroga un individuo la cui pratica, per l’appunto, inte-gra il problema a proposito del quale lo schema racco-glie le “opinioni”. Lo schema esprime il rapporto diforza, la differenza presunta fra colui che l’ha messo apunto e colui che ne è l’oggetto.4Ma si può suggerire una seconda conseguenza, menoevidente. Se un sapere prende come oggetto una prati-ca e i suoi esperti, deve mirare alla loro componentesedentaria, non alla loro componente nomade.Per spiegare quest’ultimo punto, riprendiamo il casodell’etnopsichiatria. Ciò di cui l’etnopsichiatra, comeguaritore, fa esperienza è proprio la componentesedentaria della pratica dell’altro, il rapporto che siimpone agli oggetti attivi, alla molteplicità degli uni-versi, l’effetto su se stesso dei vincoli logici, di cui glioggetti attivi e gli universi multipli sono gli ingredienti.Egli fa l’esperienza, quindi, di ciò che, nella praticadell’altro, non è negoziabile, di ciò che corrispondealle sue condizioni. E, salvo essere iniziato e pienamen-te riconosciuto da coloro che saranno allora suoi“pari”, questa esperienza non lo autorizza minimamen-te a partecipare ai rischi nomadi, a intervenire, qua-lunque sia l’ambito, nel processo attraverso il quale glistessi terapeuti mettono alla prova gli ingredienti dellaloro pratica. Lo stesso vale per l’antropologo che visitaun laboratorio e vi fa l’esperienza delle condizionisedentarie dei suoi abitanti, del modo in cui essi mani-polano i loro dispositivi o costruiscono le loro inter-pretazioni – cosí e non diversamente – il modo in cuiessi trepidano, si eccitano o s’indignano di fronte auna proposizione, di come respingono con un’alzatadi spalle un suggerimento, una domanda o un’obiezio-ne che esprime per loro l’incompetenza del loro inter-locutore, o quando cambiano improvvisamente di stilee farfugliano in un povero linguaggio incomprensibileuna giustificazione “per ogni campo”. Ma sa, o dovreb-be sapere, che, salvo essere riconosciuto come collega,la sua visita non l’autorizza a esprimere un giudiziosulle controversie, le innovazioni o le negoziazioni, dicui usufruisce il laboratorio, e non l’autorizza soprat-tutto a partecipare ai rischi che vi si assumono a parti-re dalle condizioni, di cui fa esperienza.5

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La pratica del diplomatico ha per posta in gioco le con-dizioni effettive di un “incontro”, non la riconoscenzadi una sottomissione. Essa lo pone sempre “fra” duegruppi. Riconosco dunque qui, all’insieme delle scien-ze della contemporaneità, la tesi di Tobie Nathanriguardo a quello che dovrebbe essere una psicopatolo-gia infine scientifica, una scienza che si occupa deglipsicoterapeuti e non dei malati. Tale scienza, abbiamovisto, pone la questione di un rapporto “da gruppo agruppo”, implica la collaborazione con i pratici “nonmoderni” che questa pratica di collaborazione deveattivamente riconoscere come appartenenti a un grup-po reale. Quindi, non è soprattutto a un individuo chesi tratta di rivolgersi, ma a un esperto abilitato a esigereche siano riconosciute le condizioni della sua pratica.Ma l’estensione proposta crea la possibilità di un’esita-zione. Si tratta ancora di “scienza” o si tratta di “politi-ca”, in senso ampio, nel senso d’invenzione dei mezziper “vivere insieme” in seno a una stessa città?Le scienze della contemporaneità non sono, moltosemplicemente, “politica”? Se cosí fosse, il mio tentati-vo di definizione sarebbe fallito. Il fatto che abbia con-seguenze politiche dirette – il legame fra la produzionedi un sapere affidabile e l’esistenza di gruppi reali chedispongono dei mezzi per costruire e affermare unapratica irriducibile all’opinione – non sarebbe che unaltro modo per dire che non esiste un “luogo” precisoper queste scienze, che esse sono interamente dissoltenel problema generale della negoziazione fra pratiche.Avrei finito per fare del mio diplomatico la traduzionedei miei propri interessi, un esperto di quest’ecologiadelle pratiche che tento di costruire.Il termine “rappresentare” ha sempre un duplice signi-ficato, che rimanda al registro scientifico o al registropolitico. Lo scienziato di laboratorio deve poterecostruire la rappresentazione di quello che “dice” ilsuo fatticcio per poter rappresentare altrove, davantiad altri, i vincoli e le possibili derivazioni di questodire. Ma, in questo caso, l’“uscita” dal laboratorio, opiú precisamente dalla rete dei laboratori dove colle-ghi competenti sono esposti allo stesso rischio di “fardire” o di “far fare”, evidenzia il cambiamento di signi-

riterrà libero di spiegare come procedere a un indivi-duo “che insegna”, ma che non ha potuto costruirecon altri, in seno a gruppi reali, i mezzi per valutare lapertinenza di quello che gli si propone. In linee piúgenerali, la tentazione e la possibilità di sottoporrechicchessia alle esigenze del laboratorio diventanoriconoscibili come la trappola per eccellenza. Perché ilpotere del laboratorio, in questo caso, definisce il fattoche l’essere interrogato possa essere un esperto comeostacolo da eliminare o da aggirare. Se sottoponesteAlbert Einstein, Bruno Latour, Tobie Nathan, JacquesLacan o Martin Heidegger, ammesso che accettino, a unbuon protocollo di laboratorio, dovreste avere a chefare soltanto con artefatti umani purificati, cioè caratte-rizzati da semplici differenze quantitative.L’operazione di traduzione alla quale deve arrischiarsiil ricercatore-diplomatico ha quindi un vincolo primor-diale, che definisce i “rischi” intrinseci del mestiere.Questo vincolo è che la traduzione operata non riguar-di “ogni campo”, permettendo al ricercatore di ricono-scere “l’uguale” al di là delle differenze. Per questomotivo, certi concetti centrali nelle nostre “scienzeumane”, che erano considerati in grado di assicurarnel’autonomia, quali “motivazione”, “interesse”, “sugge-stione”, ma anche “simbolo”, “trattamento cognitivo” o“inconscio”, cambiano di significato. Non perdono illoro interesse, tutt’altro, ma questo non ha niente ache vedere con i rischi della produzione di un saperescientifico. Perché il ricercatore che li rispetta è da essiobbligato a esigere da coloro che incontra che essimanifestino la loro sottomissione alla scienza, a esigereche essi confermino l’autonomia delle sue categorie.Motivazione, suggestione, interesse o inconscio nonpossono funzionare in modo rischioso se non comeingredienti di una pratica tecnica d’influenza (il marke-ting, la pedagogia, la gestione delle risorse umane “lapsicoanalisi, la pubblicità ecc.)6. In quanto categorie distile scientifico, tali concetti pongono il problema della“fabbricazione” dell’individuo moderno, colui che, peresempio, sarà pronto ad attribuirsi personalmente un“funzionamento psichico”, per cui si aspetta che altri lomettano in categorie scientifiche.

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ta per far valere i loro interessi e le loro condizioni inuna negoziazione, dove questi interessi e queste condi-zioni possono essere messi in dubbio. In questo caso, non èpiú ad altri ricercatori-diplomatici che s’indirizzeràcolui che è delegato, e non è la costruzione di un sape-re che integrerà o no quello che riferisce, a costituire lapietra di paragone dell’impresa. In questo caso, la pro-blematica è davvero (cosmo)politica e la pietra di para-gone dell’impresa del “tecnico-diplomatico”, il rischiocui è esposto, si colloca nel momento in cui egli fa ritornoda quelli che rappresenta. Non ci saranno piú conti da ren-dere che diano il loro significato alla misura né conticreati da “nomadi” considerati autonomi, o piú precisa-mente i conti creati in questo modo dovranno subire laprova dei loro effetti su coloro cui si riferiscono.Il punto importante, qui, è, come d’abitudine, la non-confusione. Quando è “scientifica”, Tobie Nathan, par-lando di cultura, ne parla dal punto di vista delle tecni-che terapeutiche, di cui ha fatto l’esperienza e che rap-presenta con l’autonomia che quest’esperienza gli haconferito. E può dire allora che queste tecniche, e ilpensiero che esse impongono e suscitano, presuppon-gono un’identità culturale considerata chiusa e stabile,da generazione a generazione. Ma quando “fa dellapolitica”, vale a dire si rivolge a coloro, il cui compito,in un modo o in un altro, nel bene e nel male, non è lacostruzione di un sapere, ma la definizione dei diritti,dei doveri, delle esigenze e degli obblighi che creeran-no le modalità di vita delle popolazioni d’origine stra-niera in Francia, diventa “tecnico-diplomatico” nelsenso che la diplomazia è qui una tecnica, la cui pietradi paragone è una creazione che nulla autorizza. Inquesto caso la chiusura culturale non deve certo esserenegata, ma essa diventa ingrediente di un problema alquale non corrisponde piú alcun sapere autorizzato,ma solamente la prova effettiva, qui e ora, che costitui-sce, per il gruppo interessato, il “ritorno del diplomati-co”. Perché questo problema è quello dei rischi e deidivenire, di cui questa chiusura renderà capaci coloroche vogliono subire la prova delle proposizioni cheesso comporta.7 Questi rischi, lo sottolineo, non riguar-dano direttamente il ricercatore-diplomatico, nel senso

ficato, cioè il cambiamento di luogo. Lo scienziato usci-to dal laboratorio è “autonomo” nel senso che, là dadove viene, il suo fatticcio l’ha reso autonomo, cioè hasoddisfatto le esigenze che permettono di rappresen-tarlo. In compenso, bisogna riconoscere che la “misu-ra” presa dal diplomatico non consente di distinguerein modo generale, indipendentemente dal problemaposto, dalla vocazione assegnata allo scambio “da grup-po a gruppo” che rischia, il significato che sarà attribui-to al termine di “rappresentazione”.Per rispondere a questo problema, è importante distin-guere due “tipi” di pratica derivanti dell’analogia diplo-matica, quello che chiamerò il “ricercatore-diplomati-co” e il “tecnico-diplomatico”, entrambi distinti dall’e-sperto, per esempio, lo scienziato che “esce” dal suolaboratorio, ma anche l’“esperto non moderno” cheaccetterà in quanto tale di collaborare alla costruzione diuna “psicopatologia infine scientifica”. L’esperto si defi-nisce come rappresentante di quello che fa esistere ilsuo gruppo e che il suo gruppo fa esistere, ma definisceanche questo gruppo come attivamente interessato allacostruzione di un sapere, di una pratica, di un dispositi-vo, che richiede la sua rappresentazione. In questocaso, il modo in cui l’esperto traduce-tradisce il suogruppo, il fatto che non sia né ridicolo né insultanteper coloro che rappresenta è beninteso fondamentale,ma il punto importante è che l’esperto è, in ogni modo,considerato “autonomo” perché la vocazione assegnataallo scambio al quale partecipa, implica che le condizio-ni “sedentarie” del suo gruppo non siano messe in dub-bio, ma riconosciute come condizione del contributodell’esperto. Si può anche dire che quando un ricerca-tore-diplomatico riferisce ai suoi colleghi quello che haappreso in una visita, è considerato “autonomo”, Maper ragioni ben diverse. La pertinenza della misura, ilfatto che essa non sia né ridicola né insultante per colo-ro che l’hanno resa possibile con la loro ospitalità, èbeninteso fondamentale, ma il suo scopo, il saperescientifico collettivo che si elabora, non riguarda gliospiti piú di quanto i loro rischi riguardino lo scienzia-to. Molto diverso, in compenso, è il problema del “tec-nico-diplomatico”, “delegato” da coloro che rappresen-

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La pace dei diplomatici

Le domande che suscita il ritorno del diplomatico – dicosa è capace una cultura? A quali possibilità di diveni-re corrisponde la sua chiusura? – non avendo rappre-sentante né teoria, non trovano risposta, caso per caso,che nell’avvenimento di questo ritorno: speranza edubbi, sogni e paura. Si può quindi chiedere in rappor-to a quale impegno sono concepibili i rischi che correil tecnico-diplomatico, o il vero diplomatico. E anchedi quale autonomia dispone il diplomatico quandodeve rendere conto ai propri “mandanti”. Il problemanon è privo d’importanza perché si tratta di costruireun “tipo psico-sociale”, e non l’immagine eroica e asce-tica di colui o colei che sarebbe destinato alla luciditàcritica, costretto a rinunciare, contrariamente a tutti glialtri, a “inquadrarsi”, a “possedere un proprio luogo”, afare esistere le proprie esigenze.L’impegno del tecnico-diplomatico (non del ricercato-re-diplomatico) lo trasforma perfettamente, mi sem-bra, in attore di ciò che io ho definito problemacosmopolitico in quanto tale. La sua autonomia lo legaall’incognita di questo problema. Non nel senso in cui

che egli non ne può prendere la misura. Ma sono lapietra di paragone della pratica del tecnico-diplomati-co, quella che fa la differenza fra il tradimento riuscito,che inventa una modalità di pace, e quello che saràrespinto e farà del diplomatico un traditore.

1 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari,Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit,Paris 1991, p. 190 (trad. it. Che cos’è lafilosofia?, Einaudi, Torino 1996).

2 Correlativamente, il diplomatico èanche accusato di mancare di “princi-pi”. Non procede egli dunque caso percaso? Non evita accuratamente didenunciare la violazione di dirittigenerali per attaccarsi alla costruzionedi regolamenti ogni volta particolari?Il diplomatico ha fatto combutta conl’invenzione della giurisprudenza(vedere Deleuze, “Gauche”, in Abécé-daire, “Arte”, 29 octobre 1995).

3 L‘invention des sciences cit., p. 165.4 La situazione è certamente analoga a

quella del modellizzatore di Cosmopoli-tiche VI, il quale deve scoprire in chemodo il suo terreno risponde al proble-ma posto dal modello, e non verificarela sottomissione di questo terreno alproblema cosí come viene posto dalmodello. Il che, piú o meno, esprime quil’inadeguatezza dell’”arte del tatto”, inquanto il problema posto dallo schemanon esprime un sapere che s’arrischiaad affermare che, in un modo o nell’al-tro, questo stesso problema si poneanche a chi è interrogato. Il “problema”in questo caso si esprime in termini chesqualificano coloro che sono interroga-ti, perché annunciano la differenza cheli separa da colui che interroga (inquanto psicologo sociale, so bene chel’opinione “deve” essere funzione divariabili che identificherò).

5 Salvo, ovviamente, a effettuare larischiosa transizione che gli etnologidefiniscono “rischio del mestiere”: gonative, “diventare indigeno”. Nel qua-dro un po’ meno rischioso degli studi

sociologici delle pratiche parapsicolo-giche, è quanto capitato a Harry Col-lins e Trevor Pinch (Frames of Mea-ning. The Social Construction ofExtraordinary Science, Routledge eKegan Paul, London 1982): che avendotrovato una possibilità di frode, sonodiventati cofirmatari di un articolo cheannunciava alla comunità dei ricerca-tori di parapsicologia come i frodatorierano stati confusi.

6 Il fatto che citi l’insieme di queste tec-niche “alla rinfusa” non significa evi-dentemente che, con il pretesto cheesse non possono avvalersi di unascienza, si equivarranno. Il mio puntoè che per cominciare a creare, fra loro,delle distinzioni, è fondamentale dalpunto di vista cosmopolitico, che sianotutte riconosciute e si riconoscanotutte, in quanto “tecniche d’influenza”.

7 In Confessio philosophi di Leibniz (edi-zione bilingue, Vrin, Paris 1970; trad.it. Confessio philosophi e altri scritti,Cronopio, Napoli 2003), si troverà ilmodello di un’impresa diplomatica, ilcui fallimento permette di pensareinsieme alla bontà di Dio e alla danna-zione di Belzebú. È inutile precisareche i termini del trattato di pace det-tato da Dio all’eremita intercessore, la“semplice” riconoscenza da parte diBelzebú, l’”anima pacificata”, di quellache è la sua unica malignità che èstata la causa della sua dannazione,presuppongono il crollo radicale della“chiusura logica” che è la dannazionestessa di Belzebú. Terribile tautologiache nessuno può “quaggiú” assumersi,ma che nondimeno ne traduce inmodo iperbolico la prova della sceltafra la pace possibile e la guerra certa.

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ziona la loro attività: essi dipendono dalla maniera incui coloro a cui essi si rivolgono, coloro che essi inten-dono rappresentare, definiscono il loro ambiente.Infatti, nei due casi, rappresentare implica in primoluogo, e innanzitutto, che coloro che si rappresentaaccettino di essere rappresentati, vale a dire di subire ilrischio della traduzione-tradimento. Ho fatto della paura, rifacendomi a Tobie Nathan, unadelle componenti di ciò che “succede” quando ilnomade fa l’esperienza di ciò che l’esperienza sedenta-ria decanta, di ciò che essa fa esistere, dell’incognitache essa fa risuonare. Ma quest’operazione di passag-gio presuppone l’ospitalità. L’ospitalità è sempre, piú omeno, condizionale. Presa come condizione di possibi-lità per la costruzione di un sapere, essa implica chequesta pratica di costruzione sia possibile solo se il“ricercatore-diplomatico” viene accolto, se può essereammesso senza per altro venire preso come testimone,reclutato in un’operazione di guerra, costretto a identi-ficarsi alla causa del gruppo mobilitato o ad aderirealla difesa di una identità rivendicativa passiva e lamen-tosa. Il fallimento in questo tentativo può esprimerel’incompetenza del visitatore, la sua angoscia, la suaintolleranza alla paura, l’inesistenza della propria com-ponente sedentaria, del proprio piacere a fare esisterela sua pratica. Può esprimere anche il fatto che ilmomento non è opportuno, e questo non fa meravigliae rientra nel paesaggio dei rischi di ogni scienza. Lapossibilità di una pratica scientifica non è mai un dirit-to, dipende sempre da necessità che devono essere sod-disfatte, ma il cui soddisfacimento non può essereimposto dallo scienziato. Perché l’esperienza sedenta-ria sia “conoscibile”, bisogna che colui che essa riguar-da accetti lo scambio. Anche se questo può suscitare “lapaura” del suo ospite, non deve “volerlo impaurire”,non deve presentarsi come “pauroso”.Ugualmente, se la pace dei diplomatici deve essere pos-sibile, il diplomatico deve accettare la paura associataal rischio di tradimento che implica il suo mandato,ma non deve essere impaurito dai mandanti stessi.1 Il“ritorno del diplomatico” deve essere un momento diprova, ma tale prova deve essere condivisa, seppure in

quest’incognita trascenderebbe qualsiasi situazione,ma nel senso in cui essa non può trovare risposta chein rapporto a una tale o talaltra situazione, nei terminidi tale o talaltro incontro. Risposta alla domanda chevuole sapere se può essere inventato un tipo di com-mercio questo caso e in questi termini.Per tale motivo è importante sottolineare che l’inven-zione del diplomatico precede quella del politico nelsignificato che noi, sulle orme dei greci, attribuiamo aquesto termine. Il diplomatico è stato inventato affin-ché dei popoli, delle nazioni, dei gruppi possano,all’occorrenza, riuscire a coesistere senza che la distru-zione o l’asservimento dell’uno da parte dell’altrocostituisca l’unico orizzonte dei loro rapporti. E questoimplica che i popoli, le nazioni o i gruppi in questioneaccettino non la necessità della pace, ma per lo menola sua possibilità, la sua eventualità. Ritroviamo qui lalimitazione a cui avevo sottoposto l’ecologia delle prati-che. La pace dei diplomatici non è una regola allaquale tutti debbano sottoporsi, di cui tutti debbanoriconoscere che essa trascende i loro interessi e i lorovalori. Essa non è la negazione della guerra, ma piutto-sto restrizione o ingrediente di un regime guerrieroche lo distingue da altri regimi guerrieri. Dopo tutto,se la pace costituisce un obiettivo relativamente ambi-zioso quando è associata a parole d’ordine di buonavolontà e tolleranza, la molteplicità dei regimi guerrie-ri, al contrario, è di estremo interesse. Dalla guerratotale alla controversia sperimentale, una molteplicitàdi disposizioni polemiche può designare il termine“guerra”, una molteplicità che, in quanto tale, si prestaall’invenzione e alla sperimentazione. La “pace deidiplomatici” è dunque un altro nome per un regime diguerra che evidenzia la pace nella misura in cui è possi-bile. L’impegno del diplomatico, le esigenze che pre-suppone la sua pratica, gli obblighi che lo mettono arischio fanno di lui il rappresentante non di un vuotogenerico ideale di pace universale, ma della pace possi-bile, sempre locale, precaria e materia d’invenzione.Se il ricercatore-diplomatico e il tecnico-diplomatico sidevono differenziare dal punto di vista dei rischi cheessi affrontano, li unisce una caratteristica che condi-

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politica. Esso implica in effetti che il gruppo sia ingrado di riconoscere la sua dimensione sedentaria, siacapace quindi di riconoscere che “una cosa non valel’altra” per lui e vivere questa differenza non secondo lamodalità di un diritto la cui legittimità deve essere rico-nosciuta da chiunque, ma sulla modalità di una creazio-ne la cui possibile distruzione può avvenire solo secon-do la modalità della disperazione o dello spavento.2

Esso implica inoltre che sia riconosciuta possibile unadistinzione fra l’espressione, non negoziabile, in quantotale, di questa differenza e l’identificazione statica inuna particolare formulazione di questa differenza.Ho già sottolineato che solo è irrimediabilmentedistruttore e/o tollerante colui che si crede “puramen-te nomade”, in cui niente può suscitare disperazione ospavento, e il gruppo che si identifica in questo modonon può delegare degli esperti. È la caratteristica pereccellenza delle pratiche che io ho definito “moderni-ste”, cioè essere grandi procacciatrici di esperti. Se sipensa, ancora una volta, alla psicoanalisi, è proprio inquesti termini che io ho posto il problema. Lo psicoa-nalista, quando si vive come un “esperto moderno”, sivive anche come “nomade”, staccato dai legami illusoriche tengono avvinti gli altri. Pertanto, l’analista puògiudicarsi ovunque come “a casa propria” perché la suapratica definisce ogni “territorialità”, ogni sedentarietàcome suscettibile di essere “analizzata”.3 L’inconscioche fa esistere la scena analitica, quando autorizza isuoi pratici a svolgere il ruolo di esperti nella città, nonpassa la prova della cernita. La stessa cosa avviene per ilgenoma umano, quando conferisce a Daniel Cohen ilpotere di un nomade che si sa in diritto, dovunque eglisia, di far valere la pertinenza della sua pratica e delegaa decisioni “politiche” il compito di limitare questa uni-versalità in nome dei “valori umani” da rispettare.La cernita è un’operazione immanente. “Abbiamobisogno di diplomatici?”, è la domanda che possonoporsi solo gli esperti e i gruppi che non si definisconopuramente nomadi, che sanno che i loro rischi dipen-dono da valori e impegni singolari e non garantiti daun diritto che solo ostacoli circostanziali verrebbero alimitare. “Possiamo rischiare la possibilità di pace che

modo non simmetrico, da coloro che aspettano questoritorno. L’incognita cui va incontro il diplomatico, ilproblema di un possibile commercio, deve essere, sottoun altro aspetto, accettata dai suoi mandanti. Le pro-poste che egli porta non possono essere misurate inbase alla loro fedeltà statica, alla definizione esplicitache il gruppo dà delle proprie esigenze.Speranza e dubbi, sogni e paura sono affetti sostanzial-mente transitivi che si prestano al passaggio. Tecnico oricercatore, il pratico diplomatico dipende dalle condi-zioni dello scambio con coloro che, seguendo la moda-lità diplomatica o la modalità scientifica, egli ha l’obbli-go di rappresentare, vale a dire di fare esistere per altri.La sua esistenza e la domanda che comporta quest’esi-stenza, “cosa vuole da noi?”, fanno esistere per coloroche egli incontra il rischio di nuove condizioni di scam-bio, o piú precisamente di nuovi modi di attualizzazio-ne delle condizioni che sono le loro. Se i rischi degliuni non riguardano gli altri, al contrario, non è senzaimportanza che sia riconosciuto e accettato il fatto disapere il rischio che devono correre gli uni e gli altri,ciascuno secondo le proprie modalità, ma ciascuno acausa della presenza degli altri. È, si potrebbe dire, ilprincipio di un divenire non simmetrico, che forse sipotrebbe definire trasduttivo, e questo principio è quel-lo che può innescare l’ecologia guerriera delle pratichein un regime che faccia esistere la pace come possibile.Forse ci si può qui avvicinare al problema della “cerni-ta” che Bruno Latour ha altre volte associato all’antro-pologia simmetrica. La domanda senza risposta era disapere come si effettuerebbe la cernita, in nome diquali criteri e secondo quali modalità di incontro.Come “smistare” senza invocare una qualsiasi istanzatrascendente di arbitraggio di fronte alla quale tuttidovrebbero inchinarsi?All’occorrenza, la cernita potrebbe basarsi sul modo incui una stessa pratica, di fronte a un dato problema, defini-sce il proprio rapporto con l’ambiente. Si tratta di dele-gare degli esperti? Abbiamo bisogno di diplomatici? Èla guerra? La cernita non verte sulla soluzione di questaalternativa, ma sulla sua costruzione, poiché il fatto stes-so di porre la domanda fa esistere la questione cosmo-

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raneità, e ha svolto lo stesso ruolo del diplomaticoquando si trattava di salvare il “suo” gruppo dalladistruzione.4 Ma è forse Leibniz, il filosofo diplomati-co cosí spesso vilipeso da coloro che rappresentava,che ha saputo misurare i rischi imposti dalla possibilitàdi dire “il mio corpo” quand’anche, questo corpo, luinon potesse concepirlo come causalmente sottopostoall’anima che lo “possiede”. Rapporto d’appartenenzaparadossale che esprime il vincolo altamente speculati-vo fra il corpo che fa massa, collettivo sottoposto airischi dell’interazione, che si assume i rischi dell’inte-razione e l’anima che può essere detta “dominante”solo perché in essa passa, simile a un eco collettivo, ciòche la fa “aderire” al proprio corpo, ciò che la trasfor-ma in un’affermazione: “Io ho un corpo”.Due piani, ci vogliono sempre due piani, inseparabili,ma concretamente distinti, a causa della assimmetriadelle loro relazioni. Il vinculum leibniziano lega, scriveDeleuze, due espressioni del mondo, l’anima che attua-lizza questo mondo e il corpo che lo realizza.

Il piano che sta in alto si piega su quello che sta inbasso. Non c’è azione dall’uno all’altro, ma apparte-nenza, doppia appartenenza. L’anima è principio divita attraverso la sua presenza e non attraverso lasua azione. La forza è presenza e non azione. [...] L’ap-partenenza ci fa entrare in una zona stranamenteintermedia, o piuttosto originale, dove ogni corpoacquisisce l’individualità di un possessivo in quantoesso appartiene a un’anima privata, e le anime acce-dono a uno statuto pubblico, vale a dire sono presein massa e in blocco, in quanto appartenenti a uncorpo collettivo. Non è in questa zona, questo spes-sore o questo tessuto fra i due piani, che l’alto sipiega sul basso, anche se non si riesce a distingueredove finisce uno e inizi l’altro, dove finisce il sensi-bile e comincia l’intelligibile? Alla domanda dovepassa la piega? si daranno molte risposte diverse.5

È il principio stesso del Parlamento cosmopoliticoapprendere per ciascuna domanda, in ciascuna con-giuntura, per dove passi la piega,6 e come si suddivida-

presuppone il fatto di ricorrere a dei diplomatici?” èuna domanda del tutto diversa, quella che, sempre inrelazione con un determinato problema, fa esistere,salvo a rifiutarla, e allora sarà la guerra, l’incognitacosmopolitica che definisce l’eventualità e il rischio diun commercio possibile.La cernita non è dunque un giudizio, ma una prova ilcui significato si riferisce alla questione speculativa del-l’ecologia delle pratiche. Dal punto di vista di unadescrizione ecologica “neutra”, le pratiche “moderni-ste” costituiscono un gigantesco successo in quantocreatrici di parole d’ordine di ogni campo, di una folladi piccoli messaggeri certi di possedere i mezzi perdistinguere, senza paura né dubbi, senza incontro, ciòche lo giustifica e ciò che lo ostacola, resistenza da sra-dicare o illusione da tollerare. Ugualmente, la sceltadella guerra nel senso in cui essa esclude la possibilitàdi pace non può essere una denuncia, e certamentenon per coloro che si sono voluti “moderni” quando sirivolgono a dei gruppi cui essi hanno inviato non deidiplomatici, ma degli esperti, rappresentanti dellamodernità. La cernita è una prova che non ha il poteredi giudicare, ma da cui dipende la possibilità di creare.Campo mio, dice l’antropologo nel momento in cuiesso lo tradisce con altri antropologi. Paese mio, diceil diplomatico proprio quando questo lo ha discono-sciuto. Questo possessivo segnala ben altro che undiritto di proprietà o un sapere che sarebbe stato con-fermato. Esso esprime la creazione di un rapportod’appartenenza che né lo sperimentatore né lo scien-ziato di terra né il modellizzatore devono conoscere.Galileo che dice “il mio piano inclinato” sarebbe ridi-colo, perché l’ambizione stessa che fa esistere il suofatticcio è quella di essere valida in tutte le situazioniin cui è in discussione la caduta. L’entomologo chedice “le mie formiche” si lascerebbe andare a una iper-sensibilità un po’ inconfessabile, perché le formicheche osserva devono testimoniare la loro specie, devo-no appartenere indifferentemente a questo o a unaltro luogo. Per contro, Shirley Strum parlando dei“suoi” babbuini non ha nulla di ridicolo, perché hafatto della babbuinologia una scienza della contempo-

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Cosa sarebbe un uomo senza elefante, senza pianta,senza leone, senza cereale, senza oceano, senzaozono e senza plancton, un uomo solo, ancora piúsolo di Robinson nella sua isola? Meno di un uomo.Certamente non un uomo. La città dell’ecologianon dice assolutamente che bisogna passare dall’es-sere umano alla natura […]. La città dell’ecologiadice semplicemente che noi non sappiamo ciò chefa la comune umanità dell’uomo e che forse, sí,senza gli elefanti di Amboseli, senza gli straripamen-ti del Drôme, senza gli orsi dei Pirenei, senza lecolombe del Lot, senza la falda freatica della Beau-ce, egli non sarebbe umano.1

La settima città, dell’ecologia, che Bruno Latour pro-pone di aggiungere alle sei città (dell’ispirazione,domestica, dell’opinione, civica, commerciale, indu-striale) riconosciute da Luc Boltanski e Laurent Théve-not,2 ha come grandezza ciò che “noi non sappiamo”,una sospensione della certezza dove risuona daccapo ilgrido di Cromwell, “pensate che forse siete in errore”.

no la folla degli esperti che interagiscono e accettano irischi attraverso cui la loro pratica troverà nuovi campidi realizzazione e la proposta del diplomatico in cui siconcretizza la domanda cosmopolitica della modalitàdi presenza del “suo” corpo.

1 Dove la distinzione che ho giudicatoutile tra “spavento” e “paura” incro-cia la distinzione che ho introdottofra la definizione di cultura che deri-va dalla “psicoterapia” e quella chederiva dal problema ecologico dellecondizioni dello scambio. Lo spaven-to, come tale, appartiene a una cul-tura, la paura esprime il problemadello scambio.

2 Questo allotropo intende rispettare ladifferenza, già introdotta dall’allotropo“paura”/”spavento”, tra diversi tipi di“fatticci”: la messa in dubbio di un“fatticcio” costruito attraverso unapratica la cui vocazione è quella diprodurre del sapere o di creare nuovepossibili tecniche mette in dubbiol’autonomia del costruttore e si vivesulla modalità della disperazione (delfavore o dello smarrimento) e non suquella dello spavento.

3 Lacan ha spinto questa logica al limiteestremo. Cfr. Léon Chertok e IsabelleStengers, Le Cœur et la Raison, Payot,Paris 1989, pp. 186-192 (trad. it. Ilcuore e la ragione: l’ipnosi come pro-blema, da Lavoisier a Lacan, Feltrinelli,Milano 1991).

4 Shirley Strum, Presque humain. Voya-ge chez les babouins , Eshel, Paris1990 (trad. it. Umano o quasi. Unviaggio nel mondo dei babbuini, Fras-sinelli, Milano 1988.

5 Gilles Deleuze, Le Pli, Minuit, Paris

1988, p. 162 (trad. it. La piega. Leibnize il Barocco, Einaudi, Torino 2004).

6 Leibniz stesso, matematico e diploma-tico, teologo e forse creatore dellaprima “scienza umana”, la “prima gran-de fenomenologia dei motivi” (Le Plicit., p. 94) ha saputo viaggiare all’in-terno della piega fra i due piani: egli hadisposto un sistema concettuale dovetutto esercita costrizione e nienteesprime condizione, dove le evidenzedel senso comune sono reinventatesotto l’unico imperativo della coerenzada costruire; ma, infaticabile scrittoredi epistole, non ha smesso peraltro ditentare di incontrare le varie condizionidei suoi corrispondenti, d’accettare lavarietà dei loro requisiti per subito tra-dirli, vale a dire attualizzarli in terminiconcettuali e infine, poiché la praticanon può mai avvalersi dell’ideale, sot-toporli ai suoi corrispondenti. Un pianonon ha senso senza l’altro. “I suoi” cor-rispondenti erano “presenti” per lui,come il corpo è presente per l’anima,nell’operazione in cui essi erano tra-dotti-traditi nell’attualizzazione deisuoi concetti, ed essi erano realmentepresenti, obiettando, ponendo le lorocondizioni nella prova in cui si verifica-va la possibilità della realizzazione inessi di questi concetti, la possibilitàche essi potessero, senza violenza,incorporarli. Vale a dire accettare ildivenire che essi proponevano loro.

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la messa in sospeso della precipitazione a ridurre unproblema al solo registro politico crea la necessità diuna presenza di sedentari in quanto tali. La questioneè dunque quella della presenza di ciò che, per natura,è assente dalla rappresentazione politica, dalla rappre-sentazione di ciò che, per natura, non può essere rap-presentato, del tenere conto di ciò che contrapponecondizioni “sedentarie” al principio imperativo del rac-conto comune da inventare.3Sin da Cosmopolitiche I mi sono imposta di attenermiesclusivamente alla questione dei “tipi psico-sociali”,vale a dire di speculare sul fatto che le loro storiepotrebbero creare esperti capaci e non su un divenireche sfugge alla storia. Dal momento che è una questio-ne di “politica”, sia pure cosmopolitica, il sogno disfuggire alla storia è il banale incubo di un divenireangelico: le anime, non avendo piú corpo, sarebberoin rapporto di pace perpetua (un’altra versione, cui tal-volta giunge “l’esperto psicoanalista”: poiché tale pro-blema sociale o politico rinvia, in ultima istanza, a dellecategorie analitiche, se ciascuno passasse sul divano…).Io ho mantenuto questa limitazione e mi sono pertan-to attenuta a un aspetto determinato di ciò che noichiamiamo pensare, che si basa sulle implicazioni e suirischi delle sue modalità di esistenza stabilizzate, prati-che, collettive.4 E, come d’abitudine quando si tratta dipolitica, sono arrivata al problema della separazionedei poteri e della non-confusione dei ruoli. Il Parla-mento cosmopolitico deve rispettare, e anche fare esi-stere attivamente, relativamente a ogni problema trattato, ladistinzione fra esperti e diplomatici.Cosí come la distinzione fra componenti nomadi ecomponenti sedentarie non ha senso che in relazionecon un incontro, la distinzione tra esperti e diplomati-ci è sempre relativa a un problema. Essa non indicapertanto una differenza stabile che definisce dei grup-pi in sé, e non fonda nessuna procedura per la decisio-ne. Ha portato all’enunciazione di un problema, nonalla sua soluzione. Questo problema interessa attiva-mente un gruppo nel senso in cui deve far valere dellerestrizioni, ma accetta, dal canto suo, l’interesse dellamisura che si tratta di inventare? In questo caso saran-

La sua giustificazione è questa paura “che fa passare”,all’interno delle chiusure logiche attraverso cui ciascu-na pratica identifica il proprio fine e i propri mezzi, ciòche è loro esterno, non annientandole, ma creando,nel territorio che loro corrisponde, l’esperienza di unadeterritorializzazione che rende presenti le speranze ei dubbi, i sogni e le paure degli altri.Nella “città ecologica” di Latour “piccolo” è lo scienzia-to che esce dal suo laboratorio senza spavento, senzache sia presente il problema di ciò che la purificazionevoluta dalla sua pratica lo porta a eliminare. “Piccolo” èanche colui che intima a quelli che lo ostacolano di tra-sformarsi in “esperti”, aventi per obbligo di tradurre-tra-dire irreversibilmente le loro condizioni in vincoli. Lacittà ecologica di Latour effettua dunque la cernita nontanto fra le pratiche quanto fra i modi in cui le pratichepossono presentarsi ed essere presentate per gli altri.Cosa diventa il Parlamento delle cose se la grandezzache egli celebra e che lo giustifica non è quella, politi-ca, della costruzione di reti sempre piú estese, ma quel-la, ecologica e cosmopolitica, che sottomette i rapportitra fini e mezzi che inventano queste reti alla prova del“sogno” degli altri: quelli a cui la rete da costruire noninteressa, ma che sanno che, se il Drôme smettesse distraripare, se condannassimo gli orsi, se vietassimo ilvelo nelle scuole o anche se aspettassimo che il deside-rio di conformarsi facesse “spontaneamente” scompari-re questo velo, qualcosa della “comune umanità del-l’uomo” rischierebbe di essere distrutta?Lo rammento, qui si tratta di cosmopolitica, non dell’ar-te di guarire, di cui il sogno, lo spavento e l’effrazionecome tali sono parte pregnante, né dell’arte di trasmet-tere e d’insegnare, dove si tratta di fare esistere i rischi,le esigenze e gli obblighi di una pratica in quanto tale.In un modo o nell’altro, il problema della rappresenta-zione è dunque centrale, e può essere posto solo secoloro che s’incontrano accettano i rischi e le provecui quest’incontro li obbliga. Nella versione politicadel Parlamento delle cose, è attraverso ciò che io chia-mo la componente nomade delle loro pratiche chel’incontro sembra a priori doversi attualizzare perché laprova della politica si rivolge a questa componente. Ma

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mento capzioso pseudofilosofico si è dimostrato, congrande soddisfazione degli autori, che un animale nonpuò essere “soggetto di diritto”, perché non è capacedella reciprocità che si deve poter esigere dall’alter egogiuridico. Nel frattempo sono emersi poco a poco alcu-ni elementi, che hanno permesso di iniziare a porre ilproblema cosmopolitico di quello che noi infliggiamoagli animali. L’uso degli animali nell’industria cosmeti-ca come pure il loro allevamento a scopi industrialisono un vero e proprio scandalo, e gli esperti, in que-sto caso, devono comunicare a coloro che li delegano,a coloro che l’esperienza di questo scandalo mette sulpiede di guerra, l’annuncio di vittorie parziali e leinformazioni basate su nuove strategie future. Maquando la sperimentazione animale pone il problemadella misura intermedia fra il sacrificio dei topi, deiratti, o anche degli scimpanzé, e gli interessi degli esse-ri umani che soffrono, si passa dallo scandalo al proble-ma indecidibile. E il punto di vista cosmopolitico èallora quello dell’invenzione di dispositivi che faccianoesistere in modo attivo e deliberato questa indecidibi-lità per tutti i protagonisti. Assume allora tutto il suo significato una condizioneimposta in Inghilterra a coloro che sostengono di nonpoter fare a meno della sperimentazione animale: essidevono inserire nelle loro pubblicazioni una descrizio-ne completa delle condizioni di vita dei loro animali dilaboratorio e delle loro possibili conseguenze per lasperimentazione, una valutazione delle sofferenzeinflitte all’animale dalla sperimentazione e la dimostra-zione del fatto che tali sofferenze erano assolutamentenecessarie. L’insieme di questi elementi dovrà poi esse-re presentato, se l’articolo deve essere accettato, secon-do le regole dell’arte che impongono allo scienziato dinon confondere ciò che gli fa comodo con ciò che eglipuò correre il rischio di affermare. Dispositivo a dop-pio scatto, si può legittimamente sostenere, poichéquesto requisito è scientificamente altrettanto perti-nente della specifica tecnica di uno strumento di misu-razione all’interno di un protocollo sperimentale, maesso obbliga peraltro gli sperimentatori ad accettare laprova di interessarsi a ciò che, altrimenti, essi definisco-

no degli esperti a essere delegati, abilitati ad assumersidei rischi in nome dell’interesse riconosciuto. La solu-zione di un problema o il fatto stesso che venga postorischiano di influire su un gruppo, condizionandone ivalori e le logiche della sua modalità di esperienza? Inquesto caso, è necessaria la sua rappresentazionediplomatica, e i diplomatici, invece di essere abilitati anegoziare in suo nome, avranno l’obbligo di fare esi-stere le loro condizioni, i loro requisiti e di renderconto a coloro che essi rappresentano del modo in cuiquesti saranno stati espressi.Non solo la distinzione fra esperti e diplomatici è rela-tiva a un problema, ma è relativa anche al modo in cuiquesto problema può essere posto, cioè innanzitutto algiudizio basato sulle sue diverse componenti. La posi-zione “cosmopolitica” di un problema, pertanto, è sem-pre segnata nel tempo, relativa a un presente chenuovi diplomatici o nuovi esperti faranno passare.Ieri, gli esperti si giudicavano liberi di rappresentarele “vittime”, chi della droga, chi della società che portaalla droga, chi della sofferenza del soggetto in cui ladroga non è che un sintomo. Oggi, coloro che affer-mano la loro esistenza politica di “tossicomani nonpentiti” hanno costretto questi esperti a ridefinire laportata del loro giudizio. I parlamenti politici lo igno-rano ancora, ma il Parlamento cosmopolitico esiste giàladdove il problema di sapere come vivere con ladroga inventa le nuove domande suscitate dalla pre-senza di esperti-tossicomani e di diplomatici-tossico-mani. Esso esiste perché si scopre la necessità di altridiplomatici ancora, che darebbero vita alla voce mutadelle persone per le quali il problema della droga nonè stato inizialmente politico, né inizialmente soggetti-vo, né inizialmente medico o scientifico. E passanoallora sogno e paura, dubbio e speranza, creando l’e-sperienza di una deterritorializzazione delle nostrecategorie, dove si fronteggiano tristemente il dirittonegato di fare liberamente ciò che non nuoce ad altrie il diritto dello Stato di impedire a un cittadino unacondotta identificata con la distruzione-del-legame-sociale-che-presuppone-la-cittadinanza.Nel corso di questi ultimi anni con qualche ragiona-

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pevoli della scomparsa dei dinosauri. Ma siamo respon-sabili “di fronte” a loro del modo in cui noi parliamo diquesta scomparsa, e soprattutto del modo in cui noi neabbiamo da tempo fatto la conseguenza normale emorale del progresso che porta fino a noi. Anche ilpedagogo non è colpevole dei crimini commessi innome della pedagogia, ma ne è l’erede, e deve pensaree parlare “di fronte” alla moltitudine di coloro che nonhanno capito ciò che l’insegnamento voleva da loro.Coloro che corrono il rischio di definire alcuni possibi-li in termini in cui ciò che per altri è condizione diven-ta costrizione, devono accettare la prova di parlare “difronte” al passato, “di fronte” ai giudizi e alle squalifi-che che furono definite come altrettante vittorie dallastoria che essi ereditano.Il Parlamento cosmopolitico non è innanzitutto unluogo di decisioni istantanee ma un luogo delocalizza-to. Esiste ogniqualvolta si costruisce un “noi” che nons’identifica con l’identità di una soluzione, ma con l’esi-tazione davanti al problema. Io assocerei questo “noi”alla sola parola d’ordine che Leibniz abbia mai propo-sto: Calculemus. Calcoliamo. Strana parola d’ordinecostruita per pensare alla possibilità della pace in un’e-poca in cui regnava la guerra. Leibniz era un matemati-co e non un contabile né uno statistico. Il calcolo nonera, per lui, un semplice bilancio che mette in pareggioquantità omogenee, un calcolo di utili o interessi dapresentarsi come commensurabili. Per un matematico,l’esattezza di un calcolo, la validità del suo risultato,sono un problema relativamente facile, “banale” nelsuo vocabolario. Ciò che importa, ciò che non è assolu-tamente banale, è la posizione del problema che, even-tualmente, gli renderà possibile calcolare la creazioneprecisa delle articolazioni, delle restrizioni, la distinzio-ne fra i diversi ingredienti, l’esplorazione dei ruoli cheessi sono suscettibili d’interpretare, delle determinazio-ni o delle indeterminazioni che essi causano o fannoesistere. Non vi è commensurabilità senza l’invenzionedi una misura, ma la sfida del Calculemus sta proprionella creazione di un “noi”, che esclude ogni misuraesterna, ogni accordo preliminare che separa l’illusoriodal razionale, il soggettivo dall’oggettivo, che separa, in

no come “mezzi”. Gli sperimentatori si vedono pertan-to costretti ad accettare il passaggio in essi della pauracui li espone la loro pratica. Questa paura non costitui-sce affatto né una punizione né una ricompensa perciò che viene inflitto all’animale, ma crea una deterri-torializzazione all’interno del territorio sperimentale:apertura della possibilità che gli sperimentatori possa-no capire, non solo tollerare, i problemi che suscitanole loro pratiche; creazione della possibilità per loro diincontrare i diplomatici della parte avversa e di inven-tare con loro delle proposte a partire dalle quali questiultimi potrebbero correre il rischio di tradurre-tradirele condizioni dei loro mandanti.All’interno del Parlamento cosmopolitico non passanosoltanto, attraverso le parole dei suoi diplomatici, lecondizioni di coloro che non si definiscono in modopolitico. Anche nella nostra tradizione moderna, dovesi osa dire che “i morti devono sotterrare i morti” sipuò ugualmente dire che “i morti chiamano i vivi per-ché risveglino i morti”.5 Se altri popoli sanno mantene-re in vita i loro antenati e resuscitare le loro voci attra-verso le parole che essi creano, la storia che noi cisiamo inventati è frequentata dai fantasmi degli uominie delle donne che essa ha cancellato, vinto o fatto pie-gare, e anche dall’ombra di tutto ciò che le nostreragioni, i nostri criteri hanno distrutto, ridotto al silen-zio o ridicolizzato. Il passato non si misura col metrodei rimorsi o delle fedeltà. E nella nostra tradizione,esso non corrisponde a nessun requisito che noi pos-siamo soddisfare. Questa tradizione, proprio perché hadato al tempo il potere di far passare il passato, non cidà le parole, i gesti e gli atti attraverso i quali i vivi pos-sano pensarsi, crearsi, costretti dai morti. Il Parlamen-to, poiché è una nostra invenzione, poiché è cosmopoliti-co, deve dunque ammettere che nessuno dei suoi nego-ziati potrà mai colpire nel giusto, chiudere con il passa-to e far quadrare i conti della tradizione da cui è nato.Se il nostro passato non ha le parole per dire ciò chevuole da noi,6 è nondimeno in grado di costringerecoloro che vogliono essere vettori di possibili che indi-cano l’avvenire a pensare “di fronte” al passato. E nonper prima cosa a ritenersi colpevoli. Noi non siamo col-

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non conosciamo né i termini del problema né le quan-tità assegnate da Dio a ciascuno di questi termini. Cosícome precisa Leibniz nella Teodicea (§ 118):

Dio attribuisce senza dubbio piú importanza a unuomo che a un leone; tuttavia non so se si possaasserire che Dio preferisce un solo uomo all’interaspecie dei leoni sotto ogni aspetto: ma quand’anchefosse, non ne conseguirebbe affatto che l’interessedi un certo numero di uomini prevarrebbe in consi-derazione di un disordine generale diffuso in unnumero infinito di creature.

Il Calculemus leibniziano non deriva, beninteso, dallasola matematica. Attraverso Leibniz, esso testimonial’affinità fra la matematica e la filosofia che praticavaLeibniz e che, sull’esempio di Whitehead, io chiamospeculativa. Che significa l’insistente presenza dellafilosofia speculativa attraverso tutte le pagine di questeCosmopolitiche? Perché, per esempio, un concetto spe-culativo come quello di “trasduzione” ha potutoaccompagnarmi implicitamente o esplicitamentesenza che io abbia apparentemente paura che mi portia giudicare e a squalificare? Quale singolare relazioneho dunque costruito tra filosofia speculativa e “Parla-mento cosmopolitico”?“Ogni scienza – scrive Whitehead –, deve forgiare i suoistrumenti. L’utensile che richiede la filosofia è il lin-guaggio. Cosí la filosofia trasforma il linguaggio nellostesso modo in cui una scienza fisica trasforma appa-recchi preesistenti”.8 “Nello stesso modo”, vale a dire inbase alle proprie esigenze e ai propri obblighi. All’oc-correnza, la filosofia, cosí come la intende Whitehead,ma anche Leibniz, non può pretendere nulla dalmondo nel senso in cui questa esigenza creerebbe unagerarchia fra essenziale e illusorio. Secondo Whi-tehead, essa deve essere obbligata da tutto ciò che“comunica con i fatti immediati”, sapendo che questinon hanno nulla a che vedere con i fatti rudimentali,purificati al fine di fondare un’esperienza che potreb-be rivendicare contro gli altri un qualunque privilegio,ma che essi designano tutto ciò di cui si può dire che

altre parole, coloro che hanno diritto a “entrare” nelcalcolo da coloro che devono subirne il risultato.Il fatto che il Parlamento cosmopolitico accetti una“parola d’ordine matematica” non ha nulla di contin-gente. È l’impegno stesso della pratica dei matematiciquello di dover trasformare, una volta identificate, lecondizioni di un calcolo in materia di nuovi rischi, cioèdi definire ogni spiegazione come l’occasione di unnomadismo da cui verranno all’esistenza matematicanuovi esseri che facciano coincidere i requisiti che lidefiniscono e gli obblighi sottoscritti da coloro che vifanno riferimento. Avevo segnalato sin da CosmopoliticheI che, a mio parere, la matematica non era una “praticamoderna” perché requisito e obbligo sono elementi let-teralmente e inseparabilmente costitutivi della defini-zione degli esseri matematici. Dirò ora che, nel lorocaso, l’esperienza “sedentaria” e il rischio “nomade” siaffermano nello stesso momento, e questo esprime lamodalità d’esistenza propria delle costruzioni matema-tiche finite: i matematici attribuiscono loro in modoquasi irrefrenabile un tipo di preesistenza che essi acco-stano a quella delle idee platoniche, quand’anche que-ste possano essere inesauribili riguardo all’audacia chele ha fatte esistere.7 In altre parole, i matematici posso-no dare il loro Calculemus al Parlamento cosmopoliticoperché, fra tutte le pratiche, quella della matematica sicontraddistingue per il fatto di non aver bisogno, pernessun problema, di essere rappresentata da diplomati-ci. Ogni rischio riguardo alle sue condizioni rappresen-ta per la matematica occasione di creazione.Calculemus non significa pertanto “misuriamo”, “addi-zioniamo”, “confrontiamo”, ma innanzitutto creiamo il“noi” a partire dal quale la natura e i termini dell’ope-razione potranno essere disposti. Non si tratta di proce-dere in nome del vero e del giusto, ma di costruire ilgiusto, la “giusta misura”, sapendo che il “vero” saràsempre relativo a ciò di cui sarà stata capace questacostruzione, sapendo soprattutto l’eterogeneità radica-le che preesiste alla costruzione, l’assenza di qualun-que misura comune preesistente fra gli ingredienti chesi tratterà di disporre. Il migliore dei mondi leibnizianinon garantisce per nulla i calcoli umani perché noi

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mo, che si arrischia il pensiero speculativo. Esso proce-de nell’immanenza dell’obbligo che fa esistere: accettache gli strumenti che crea siano reputati cattivi o difet-tosi se chiunque se ne può servire per creare una posi-zione di potere, per istituire gerarchie o squalificare.Non piú della pratica della matematica, quella dellafilosofia, nel senso che le ho appena dato, ha bisogno didiplomatici,10 perché essa non deve imporre ad altri laminima condizione. Essa deve ricevere, capire e tradur-re-tradire tutte le condizioni espresse. Ma la loro opera-zione di traduzione-tradimento non trasforma i “filosofispeculativi” in esperti. Si può comprendere la tentazio-ne del filosofo “consigliere del principe”, ma è una con-nivenza da infrangere, perché il filosofo non ha piúaccesso di chiunque altro a un qualunque “bene comu-ne”. Le parole e gli usi delle parole che egli crea nonsono piú quelli dei diplomatici, perché la loro propriaprova, cioè far tendere l’esigenza verso zero e l’obbligoverso il massimo, ha per effetto una delocalizzazionedelle implicazioni, un distacco – ma non un’indifferen-za – rispetto ai “calcoli” particolari attraverso cui si com-pie la storia. Il filosofo speculativo è obbligato da tuttociò a cui può essere sensibile, ma non è mai obbligatodalle aspirazioni che afferma ogni linguaggio particola-re. Come il matematico “dimentica” il triangolo mate-riale, egli deve dimenticare i linguaggi particolari o piúprecisamente i privilegi particolari che questi linguaggiconferiscono alle loro ragioni. È per questo che il pen-siero speculativo è presente nel Parlamento delle cose,ma presente senza interazione. Esso si può paragonare“all’anima” riunita al corpo cosmopolitico attraverso unvinculum leibniziano, perché deve costruire i concettiche attualizzano ciò che, in ciascuna epoca, si realizzaall’interno dell’insieme disparato dei Calculemus di cuisiamo capaci. Esso solo può dire “la mia epoca”.Distinguere in tal modo la filosofia speculativa da tuttigli altri “generi” filosofici (filosofia dell’arte, del dirit-to, della storia, delle scienze ecc.) è ricordare che que-sti generi traggono in primo luogo la loro apparentenecessità dalla convinzione che ciò che essi designano(il problema dell’arte, del diritto ecc.) ha “bisogno” diessere rappresentato da mezzi diversi da quelli delle

c’è esperienza (è perché “ciò che non comunica in talmodo è inconoscibile, e l’inconoscibile è sconosciu-to”).9 Sapendo dunque anche che la possibilità di dire“c’è esperienza” appartiene non al registro della prova(io ho la prova che questi animali soffrono), ma a quel-lo dell’affermazione che si tratta di comprendere (lasofferenza degli animali abita la mia esperienza).La matematica ha la caratteristica di dimenticare ciòche non fa esistere: il triangolo “materiale”, materializ-zato da una riga effettivamente tracciata, scompare daltempo dei greci davanti al problema dei requisiti chesoddisfa il triangolo ideale e degli obblighi che esso ciimpone. Oblio e non squalifica, perché la pratica mate-matica non deve, per crearsi, negare qualsiasi cosa lepreesista, salvo eventualmente ciò che ha già unamodalità d’esistenza matematica. Il triangolo materialenon è la vittima del triangolo ideale. Il matematico,poiché va fino al fondo del potere che hanno le paroledi giudicare, vale a dire poiché fa oltrepassare a questopotere di giudicare il limite in cui esso si trasforma inpotere di creare, conosce la differenza tra il giudizioabituale e la creazione matematica. Il motivo, senzadubbio, è che egli può, con meno paura di altri, o piúprecisamente con una paura che fa parte della sua pratica,creare dei problemi laddove l’abituale utilizzo delleparole fornisce delle risposte. Ma il pensiero speculati-vo, dal canto suo, continua a rischiare una creazioneche ha per obbligo quello di “salvare”, contro le paroled’ordine che giudicano e gerarchizzano, tutte le moda-lità d’esistenza a cui, in ciascuna epoca, noi possiamoessere sensibili. Deve pensare allo stesso tempo – inbase a modalità d’esistenza di cui esso costruisce ladistinzione, ma a cui dona lo stesso diritto di esistere –al triangolo materiale e al triangolo ideale. Non proce-de in nome di un vero che avrebbe il potere di squalifi-care, né sotto la prova di un calcolo “giusto” chedovrebbe arrischiarsi “di fronte” a coloro che potreb-bero essere sue vittime. Oppure, queste vittime sonocosmopolitiche, perché è “di fronte” alle vittime di tuttele nostre incoerenze, le vittime radicalmente scono-sciute, generate in ogni istante dal potere di giudicareche mette in moto ciascuna delle parole che utilizzia-

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tuiscono l’oggetto, quanto il DNA per il biologo mole-colare o le abitudini degli scimpanzé per l’etologo? IlParlamento cosmopolitico “esiste” oggi talvolta, inmaniera precaria e quasi improvvisata, senza memoria esenza conseguenze di lunga portata, un po’ come siforma una microbolla al di sotto della temperatura diebollizione di un liquido. Esso non si può stabilizzare,cioè esistere in senso ecologico, senza produzione atti-va, impegnata, arrischiata, di queste pratiche creatricidi saperi relativi a pratiche in grado di trasporre lenostre pratiche in storie, di consentirci di far storia conloro come abbiamo imparato a fare storia con le piante,i reagenti chimici, gli atomi.Tuttavia, lo si sarà notato, esiste al riguardo un’incogni-ta, che corrisponde a ciò che noi crediamo tuttavia diconoscere bene. Cosa diventano i politici in quantotali, coloro che sono oggi gli unici mediatori ricono-sciuti ufficialmente, ammessi ufficialmente a partecipa-re alle decisioni, o piú precisamente a ciò che gli esper-ti, e i poteri che questi esperti rappresentano, lascianoalla loro decisione? Non ci si meraviglierà di questaincognita, di questo troppo conosciuto che ridiventaenigmatico, perché l’incognita esprime qui la differen-za fra l’immagine che tento di far esistere e quello chesarà un programma. L’immagine lancia una sfida, si limi-ta a prendere alla lettera le aspirazioni all’universale,attraverso le quali noi ci siamo inventati, e a piegarleagli obblighi che dovrebbero loro corrispondere, sem-mai dovesse esserci un avvenire civilizzato per tali pre-tese. Di fatto, essa non dice niente della politica comequesta si definisce oggi, perché essa si limita a fare esi-stere il politico laddove oggi è clandestino, laddove iproblemi politici trovano delle “soluzioni” senza esseremai stati posti come tali. Ed essa non può dir nulla per-ché il terreno da cui nasce e dove essa interviene èquello delle pratiche.Il fatto che la pratica della “politica” in quanto tale nonappartenga piú all’ordine del conoscibile, che il visitato-re nomade cerchi invano il fuoco attorno al quale eglipotrebbe ascoltare, dove potrebbero passare le speran-ze e i dubbi, i sogni e le paure di coloro che lo accolgo-no, non è certo una conquista di cui potremmo vantar-

pratiche che corrispondono loro. Ritengo che questaconvinzione, per quanto legittima possa essere, espri-ma innanzitutto il problema posto dalle pratiche inquestione. In altri termini, colui o colei che viene allafilosofia per pensare la storia, la coscienza, l’opera d’ar-te, la follia o la fisica, deve essere accolto, ma con paro-le che esprimono un avvenire sperato dove lui stesso,lei stessa o i loro discendenti potranno raggiungere leregioni che essi non avrebbero mai dovuto lasciare.11

Il Parlamento cosmopolitico crea le parole per esprime-re questo avvenire. Gli esperti e i diplomatici che lopopolano non sono dei filosofi, ma hanno l’obbligo dipensare, e piú precisamente di pensare la loro pratica ela loro appartenenza. Essi non possono limitarsi a rap-presentare il punto di vista generato da questa pratica,ma devono renderla presente attraverso la singolaritàdel punto di vista che essa produce. È la possibilità dipresentarsi nel modo che ho esplorato nel corso dellamaggior parte di queste Cosmopolitiche. Se, cosí facendo,sono stata portata a “squalificare”, in quanto “moderni-ste”, certe pratiche relative a quanto viene definito“scienze umane”, è senza dubbio perché nel loro caso“l’appartenenza” sembrava inconfessabile. Ma l’esisten-za stessa del Parlamento cosmopolitico dipende dallapresenza di esperti e di diplomatici che ho associato airischi pratici delle scienze umane, quelli la cui praticacelebra, per la sua stessa possibilità, il fatto che altrepratiche sono diventate “contemporanee”, conoscibilidal momento in cui hanno accettato il tipo di pace cheè la condizione della loro messa a conoscenza, o il fattoche attività fino a quel momento sottomesse o ribelli,ma incapaci di far valere le proprie esigenze, sonodiventate delle pratiche. Come apprenderà lo scienziatoche esce dal proprio laboratorio perché vuol far valereun possibile che è nato lí dentro a pensare questo possi-bile, a renderlo presente per altri, se questi altri, la mol-teplicità delle pratiche di cui la sua proposta implica lareinvenzione non hanno prodotto i loro rappresentan-ti, esperti e/o diplomatici? E cosa rappresenterebberoquesti ultimi se le pratiche che si tratta di rendere pre-senti non sono divenute di per sé altrettanto interessan-ti, attraverso le traduzioni/tradimenti di cui esse costi-

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pensiero, ma ne sono aspetti stabiliz-zati da tradizioni distinte (cit. p. 198).Il fatto che il problema di cosa sia lafilosofia passi oggi attraverso il pro-blema dell’arte e della scienza implicache si tratti di modalità specifiche ditraduzione-tradimento che non siattengono alla loro propria verità senon nella radicale distinzione delleloro rispettive “grandezze”.

5 Daniel Bensaid, Walter Benjamin. Sen-tinelle messianique, Plon, Paris 1990.

6 I gruppi che possiedono degli antenati,e nella misura in cui la parola ance-strale si traduce attraverso condizioniper la “misura” da costruire, sono cer-tamente presenti attraverso i lorodiplomatici, ma il Parlamento stessonon ha antenati. Esso è il luogo doves’inventa una politica che, come avevaben rilevato Philippe Pignarre (LesDeux Médecines, La Decouverte, Paris1995, p. 179), aveva conservato, attra-verso le sue trasformazioni scientifichee tecniche, la pertinenza del proverbiomh filokrinein “non bisogna cercare inostri antenati”, con cui Pierre Vidal-Naquet ha caratterizzato l’invenzionedello spazio politico greco.

7 A questa singolarità risponde senzadubbio l’ostacolo critico alla trasmis-sione della matematica, che può farnela scuola della sottomissione denun-ciata dagli “automi” di Stella Baruk:dimenticare la definizione di questiesseri non li fa esistere che per coluiche ha già compreso le esigenze cheessi soddisfano e gli obblighi che essicomportano. Si può dire che la praticamatematica è quella la cui ontogenesiricalca perfettamente la filogenesi, valea dire dove il rischio e la passione chehanno contrassegnato la venuta allaluce di un nuovo essere matematicodevono in un modo o nell’altro ripetersi

per ogni nuovo “apprendista”. È in que-sto senso, e non perché “tutto” sarebbecontenuto nelle definizioni, che è veri-tiera l’etimologia che accosta “mate-matica” a manuanein “apprendere”.

8 Procès et Realité, Gallimard, Paris 1995,p. 57 (trad. it. Il processo e la realtà,Bompiani, Milano 1965; ed. or. inglese1929).

9 Ivi, p. 46.10 Al fine di completare il parallelo

indiretto con Qu’est-ce que la philo-sophie?, aggiungerò che le praticheartistiche, dal canto loro, hannobisogno di diplomatici, ma non pos-sono delegare degli esperti. L’artemette a rischio le componenti seden-tarie dell’esperienza attraverso essestesse e le fa esistere per esse stesse,e da là tutto può derivare tranne unsapere “artistico” che pretenda di farvalere le sue costrizioni e negoziarela sua portata e la sua importanzaper gli altri.

11 È del resto significativo che soltanto imatematici, che sanno pensare gliesseri che essi costruiscono, ricono-scono come facenti parte di loro siacoloro che lavorano alla storia dellamatematica sia coloro che elaboranoun pensiero dei rischi matematici,degli oggetti matematici, della moda-lità della verità propria dei matematici.Una volta ancora si sottolinea la sin-golarità (qualunque sia l’arroganzacon cui questa singolarità viene talvol-ta presentata) di una pratica che nonha mai dovuto pretendersi moderna,non ha dovuto cioè squalificare glialtri per far valere le sue esigenze e farriconoscere i suoi obblighi.

12 Gilles Deleuze, Les intercesseurs, inPourparlers, Minuit, Paris 1990, pp.172-174 (trad. it. Pourparler, Quodli-bet, Macerata 2000).

ci. È un limite e un’invocazione. È importante sottoli-neare che la sfida del Parlamento cosmopolitico, comequello del Parlamento delle cose di Bruno Latour, nonè come un nuovo inizio, purificato dalle antiche conflit-tualità politiche che si troverebbero rimandate neldeposito degli accessori inutili. Ma implica che alleopposizioni programmatiche, come quelle che si pensafacciano la differenza fra la destra e la sinistra, si sosti-tuisca un contrasto pratico. È un contrasto di questotipo, proposto da Gilles Deleuze in due pagine che val-gono tre trattati,12 che la “sinistra” può fare esistere eche potrebbe farla esistere indipendentemente dai rap-porti di maggioranza, indipendentemente da un avveni-re in cui essa “salirebbe al potere”. Se “la sinistra habisogno che la gente pensi”, se il suo ruolo, “che sia omeno al potere, è quello di scoprire un tipo di proble-ma che la destra vuole a tutti i costi nascondere”, ladistinzione fra destra e sinistra risponde a un contrastomaggiore: “Sposare il movimento o bloccarlo: politica-mente, due tecniche di negoziazione completamentediverse”. È perché la destra “ha degli intermediari bel-l’e pronti, diretti, direttamente dipendenti. Ma la sini-stra, ha bisogno di intercessori indiretti o liberi, è unaltro stile, a condizione che essa li renda possibili”.

1 Bruno Latour, Moderniser ou ecologi-ser? A la recherche de la ‘septièmecité’, in “Écologie politique”, n. 13,1995, pp. 5-27, cit. p. 19.

2 Luc Boltanski e Laurent Thévenot, Dela justification. Les économies de lagrandeur. Gallimard, Paris 1991.

3 Questo problema potrebbe rimandarea quello della democrazia greca, allacui struttura apparteneva la tragedia.In Le Théâtre des philosophes (Millon,Grenoble 1995), Jacques Taminiaux,infatti, sostiene che la lettura aristote-lica della catharsis dovrebbe intendersinon come purificazione eliminatricedei modi di soffrire che sono la paura

e la pietà, ma come chiarimento dellaprassi a contatto diretto con la paura ela pietà. Taminiaux rifacendosi ad Ari-stotele attraverso Arendt, fa del duali-smo personaggi tragici/coro un vero eproprio operatore del “passaggio”attraverso cui i cittadini che “contano”vivono il fatto che ciò che li fa contaredebba subire la prova (grandezza dellasettima città) di ciò che rifiuta qual-siasi messa in conto.

4 La filosofia, la scienza e l’arte in Qu’e-st-ce que la philosophie? non diconodel resto neppure, se non attraversol’effetto di un malinteso propriamentemodernista, la verità dei rischi del

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All’inizio di questa serie di saggi, ho espresso il mioprogetto di far esistere la questione di un’ecologiadelle pratiche non come soluzione, ma come apprendi-stato, creazione di nuovi modi di resistere, al presente,a un avvenire che ricavi la propria plausibilità dallenostre incapacità cosí come dai rapporti effettivi diforza attraverso cui s’impone questo avvenire.Al parassitismo generalizzato che ho associato alla ride-finizione capitalistica delle pratiche a cui si tratta innan-zi tutto di resistere corrisponde forse l’assiomatica capi-talistica di cui Deleuze e Guattari mostrano ne L’anti-Edipo la differenza di natura con gli antichi codici e iterritori che a essi corrispondenti. L’assiomatica capita-listica, di per sé, non è identificabile in un insieme diassiomi, essa non esiste che nell’invenzione di assiomi,delle loro mutazioni, delle loro riarticolazioni e nell’in-venzione delle ri-territorializzazioni fittizie che sarannofatte, disfatte o rifatte, a seconda delle circostanze.

È con la cosa, il capitalismo, che inizia l’inconfessa-bile: non c’è un’operazione economica o finanziaria

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tanto possibile affermare è che “andare piú oltre”,“accelerare il processo”, non significa affatto andarciallo stesso modo dell’assiomatizzazione capitalistica,accelerarlo secondo le stesse coordinate. E che “l’orri-bile raschiamento”, “l’attività malevola”4 che rispon-dono al “non abbiamo ancora visto niente” sono inte-ramente diretti verso le immaginarie re-territorializza-zioni che non cessano di suscitare gli assiomi capitali-stici, e non hanno nulla a che vedere con una qualsia-si crociata “modernizzatrice”. E infine che non esiste“un bel modo”, di cui bisognerebbe attendere lageniale scoperta, per andare piú oltre in un mododiverso, per accelerare secondo altre coordinate.È precisamente la trappola in cui, mi sembra, è cadutala maggior parte degli eredi di Marx che avevano confi-dato in questo aspetto, l’unico rassicurante, della suaanalisi: che la classe salariata è privilegiata in modo sta-bile per il fatto che essa è la sola il cui interesse obietti-vo è quello di abolire il salariato, e che è dunque dalsuo punto di vista che può essere costruita l’unica verateoria rivoluzionaria. Perché la stabilità rivendicatadalla teoria, in nome della classe salariata (piuttostoche l’inverso), la colloca “fuori calcolo”, o piú esatta-mente in un campo pratico dove tutti i calcoli devonotornare, devono ricondurre in ultima istanza la fonda-tezza dell’analisi di classe, la sola adatta a mettersi acapo e a organizzare in modo affidabile, non illusorio,l’insieme delle lotte minoritarie (femministe, ecologisti,omosessuali, tossicomani ecc.). Se l’assiomatica capitali-stica si colloca nettamente “fuori calcolo”, forse è latrappola tesa a coloro che tentano di costruire deglistrumenti di lotta contro di essa invece che accettarequesto “non terreno”, che li rende doppiamente dipen-denti da ciò contro cui essi lottano. Una cosa è che gliesperti della lotta di classe debbano far valere unamodalità d’analisi che può risparmiare agli altri delleinezie, dei moralismi, delle ingenuità, che siano agguer-riti, obbligati dalla loro pratica a individuare e analizza-re l’insieme di pseudo-consensi, degli argomenti difalso buonsenso e delle oscene normalità che ci aneste-tizzano. Il fatto che questa pratica conferisca loro ilpotere o il diritto di giudicare, gerarchizzare, organizza-

che, supponendo che venisse espressa sotto forma dicodice, non farebbe esplodere il suo carattere incon-fessabile, vale a dire la sua intrinseca perversione o ilsuo essenziale cinismo […]. Ma per l’appunto, èimpossibile codificare queste operazioni.1

L’invenzione di assiomi, inutile dirlo, è “fuori calcolo”,perché è proprio la funzione degli assiomi quella disostituire alla negoziazione del problema gli enunciatinon negoziabili da cui scaturirà la sua soluzione. Nonc’è “noi” che tenga nell’assiomatica capitalista, esoprattutto non c’è il “noi” di “individui capitalisti” cheli opporrebbe come gruppo a tutti gli altri da sfruttare.In questo senso, il capitalismo è davvero “il limite diciascuna società”,2 e Deleuze e Guattari sembrano inco-raggiarci ad accompagnare questo limite:

Ma quale via rivoluzionaria, se pure ve n’è una? […]Andare ancora piú oltre nel movimento del merca-to, della decodificazione e della deterritorializzazio-ne? Perché forse i flussi non sono ancora abbastanzadeterritorializzati, non abbastanza decodificati, dalpunto di vista di una teoria e di una pratica dei flussiad alto contenuto schizofrenico. Non ritirarsi dalprocesso, ma andare piú oltre, “accelerare il proces-so” come affermava Nietzsche: in verità, in questamateria, non abbiamo ancora visto nulla.3

Ho voluto, alla fine di questo saggio, arrivare a questotemibile enunciato, perché è in rapporto a esso, cheapparentemente dissolve ogni misura, che si tratta diadottare la misura piú azzardata di quello che puòesprimere un’ecologia delle pratiche. Nessuno, credo,sa in verità ciò che vuole esattamente dire “andare piúoltre”, e nemmeno gli stessi autori dell’enunciato losapevano. Ciò che essi sapevano e affermavano è chenon si può aspettare di resistere al capitalismoaggrappandosi al mantenimento di vecchi territori, opiú precisamente tentando di farli rivivere come esi-stevano in precedenza, riuscendo solo a far nascerel’incubo di mostruose re-territorializzazioni, ritornodi un arcaico che non è mai esistito. Ciò che è altret-

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scegliere un reagente che non dissolva ciò che mi inte-ressa, che all’occorrenza rispetti le pratiche, ma cheaffronti il modo in cui queste pratiche utilizzano ladisgiunzione “o… o…” per ri-territorializzarsi. Coloroche nei settori chiamati oggi scientifici riescono a resi-stere alle domande che dissolvono la disgiunzione, sidissolvono essi stessi, non lasciando che un residuoeventualmente disponibile per altre pratiche? Ladomanda non esprime piú una possibilità di giudicarecon l’abituale senso critico, ma una pratica critica cheè quella del chimico, nel senso in cui la crisi, che signi-fica anche separazione, si effettua in maniera imma-nente, a contatto con il reagente giusto.Mi sono infatti dedicata alle domande che sembravanoper eccellenza dover portare all’alternativa disgiuntivadegli “o… o…”. Il neutrino esisteva sin dalle originidell’universo, o è una pura fabbricazione dell’uomo?La “realtà” è sottoposta a leggi o è velata? La materia ècomposta di atomi, oppure questi sono semplici riferi-menti convenzionali? La vita “emerge” da processi chi-mico-fisici nel senso che troverebbe in essi la loro spie-gazione, oppure nel senso che costituirebbe una novitàirriducibile? E i ginn, sono relativi solo a una disposi-zione terapeutica o la supernatura da cui dipendonoha in se stessa il potere di imporci la sua esistenza? Sela mia impresa non è un fallimento, essa avrà avutocome effetto non di risolvere, ma di dissolvere questedisgiunzioni, che sembrano fondamentali solo perchécostituiscono un appello incessante riportato al giudi-zio che chiede dei rendiconti in nome di un calcolopredeterminato. Se la mia impresa non è un fallimen-to, essa avrà avuto come effetto quello di suscitare l’in-teresse per altre questioni e di farle proliferare seguen-do lo stesso regime delle pratiche a cui corrispondono– estendere i rischi di queste pratiche, non prenderlicome oggetto – allorquando le drammatiche alternati-ve della separazione, di essere restituite a coloro chenon smettono di inventare i mezzi per dare loro nuovisignificati, avranno adottato un regime che è quello del“e… e…”, “sia… sia…”, “e pertanto!”. Quanto ai perso-naggi che ho messo in scena, che si tratti di Prigogineche elabora appassionatamente le sue funzioni, di

re l’insieme delle lotte minoritarie è un’altra cosa, com-pletamente diversa, che nessuna teoria può legittimare.Si tratta dunque di non “aspettare” che le devastazionidel capitalismo mostrino la verità della lotta di classe. Esi tratta di evitare attivamente, diplomaticamente, dicostruire una qualunque misura in base alla qualepotrebbero essere valutati unilateralmente i modi ade-guati per accelerare il processo, per andare piú lonta-no. Ivi compresa la misura che costituirebbe il “conte-nuto schizofrenico” di una produzione tale che sipotrebbe essere tentati di misurarla a partire dalle tesidi Deleuze e Guattari. Perché la misura di questo con-tenuto, se pretende di collocarsi fuori calcolo, può tra-sformarsi in una nuova legge di fronte alla quale ciascu-no sarebbe insufficiente, necessariamente insufficiente.“Poi… e poi…”, “sia… sia…”, “e pertanto…!”: secon-do Deleuze e Guattari, tutta la questione sta nell’evita-re che queste operazioni produttrici, captatrici, crea-trici, si lascino sottomettere e organizzare da un “o…o…”, segnalando l’aspirazione a contrassegnare sceltedecisive fra termini impermutabili.5 Ma evitare gli“o… o…”, e piú precisamente dissolverli, può prende-re una svolta non molto sbalorditiva, ben lontana dalfascino che rischia di suscitare “lo” schizofrenico. Gli“o… o…” ci circondano, e in primo luogo colui che cipermette di condannare i fatticci. Ne abbiamo incon-trato un certo numero, tra “produzione di sapere” e“semplice opinione”, fra artefatto fabbricato ed essereautonomo, fra “moderno” e “non moderno” eccetera.E la figura stessa del diplomatico, sempre accusato ditradire perché sempre tenterà di sfuggire alla disgiun-zione statica (o sei con noi o sei contro di noi), sem-pre accusato di prendere la tangente (è secondo…),mi sembra almeno altrettanto interessante della figu-ra dello schizofrenico, perché essa evita ogni attritoromantico per un “altrove” che susciterebbe la spe-ranza di sfuggire in un sol colpo al “qui”.Qual è dunque il contenuto in oro di questa lega,domanda il chimico, ed egli sa, in questo caso, e casoper caso, utilizzare i reagenti che costituiscono il signi-ficato della sua domanda, che consentono di renderlacalcolabile. Ho tentato di operare come un chimico, di

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esso corrisponde, è precisamente – ma con modalitàdifferenti a seconda di chi vi arriva, e vi arriva sia comeesperto, sia come diplomatico –8 l’esclusione attiva,inventiva degli “o… o…”. Laddove il Parlamentocosmopolitico “esiste”, per quanto precario ed evane-scente possa essere, non si dirà che come per miracoloil capitalismo è vinto. Si dirà invece che esso incontrauna potenza inventiva capace infine di resistere allapotenza assiomatica da cui deriva. Si dirà anche chel’implicazione della differenza fra un parlamento poli-tico, fosse pure il Parlamento delle cose, e un Parla-mento cosmopolitico sta precisamente in questa esclu-sione inventiva. Al minimo “o… o…” rispettato o ratifi-cato, si forma l’incrinatura da cui tutto ricomincia. “O”tu negozi con noi, “o” tu non hai niente da dire: comenon ricordarci di quegli “uomini in piedi”, piú romaniche greci, ai quali rimanda sempre in Francia “l’idealerepubblicano” (cosí curiosamente distinto dalle prati-che democratiche). Al che gli “altri” possono, dalmomento che esiste il Parlamento cosmopolitico, ribat-tere: e se ci si accovacciasse, come sanno fare gli africa-ni, quando viene il tempo della parola?Tuttavia, non ci si può assolutamente fermare a quelpunto, perché il Parlamento cosmopolitico in sé indicaun “fuori calcolo” che fa risuonare insieme tutti i calco-li disgiunti, ma anche ciascun calcolo individuale.What Makes Nature Tick? è il titolo di un ennesimo librodivulgativo sulla fisica contemporanea, i suoi neutrini, isuoi quark, il suo big bang e le sue iterazioni, unificabi-li o meno. Come dire all’autore che questo titolo, chelui spera accattivante, è una vera e propria oscenità?Piú di un secolo fa, nel 1872, Emil Du Bois-Reymondfaceva risuonare dei solenni Ignorabimus: noi ignoriamoe sempre ignoreremo, anche se conquistassimo laconoscenza del demone di Laplace, “ciò che è”, sia ciòche conosciamo (ciò che, laddove esiste la materia,“abita lo spazio”) sia ciò che conosce (l’essenza e l’ori-gine della coscienza). Dal punto di vista cosmopolitico,questi “limiti” eterni della conoscenza non hanno piúinteresse dell’immagine della conoscenza in rapportoalla quale essi si definiscono in quanto limiti. E non ènemmeno in termini di limiti che si può affermare l’o-

Nathan che inventa strategie terapeutiche dove gli“o… o…” non hanno diritto di cittadinanza, di Kauff-man al confine del caos, e anche di Langton che siaccanisce sulla tastiera, è una speranza, non certo uninsulto, potere affermare che la loro comune grandez-za consiste nell’assomigliare assai meno allo “scienziatoobiettivo” che a Joey, il bambino-macchina di BrunoBettelheim, che L’anti-Edipo ha immortalato.6In altri termini, se pongo la questione del “tipo psico-sociale” a cui corrisponde una pratica, lo faccio inbase alla scommessa che anche in questo caso è possi-bile che “noi non abbiamo ancora visto nulla”. Possi-bile e non probabile, perché la creazione di un possi-bile non ha ovviamente nulla a che vedere con il cal-colo delle probabilità. È possibile che questo concettodi “tipo”, che sembrava finora giustificare un giudiziostatico (Max Planck che definiva la passione “del fisi-co”), possa diventare un riferimento endogeno, unriferimento relativo all’impegno di una pratica, pro-dotta e produttrice al tempo stesso, e messa sotto latensione che creano l’obbligo e il rischio di doversipresentare. Max Planck non dirà piú allora “noi altrifisici”, come se il “noi” dei fisici esistesse prima delleconclusioni che egli trarrà a loro nome. Egli dirà“siamo dunque noi, e tali sono i nostri fatticci”, sco-prendo cosa gli comporta il suo rifiuto di rinunciareal piacere realista, il suo rifiuto di sottomettersi allalucidità critica di Mach. Questo è il primo significatodi Calculemus: il “noi” non esiste prima dell’invenzio-ne del calcolo, della negoziazione degli “e… e…”,degli ingredienti di cui si deve tenere in conto, e dei“sia… sia…” delle loro articolazioni. È questa stessainvenzione che fabbrica il “noi”.Si vedrà allora nel Parlamento cosmopolitico un’imma-gine che corrisponde alla convinzione che è precisa-mente il “contenuto schizofrenico” delle pratiche,7 ilmodo in cui esse sfuggono agli “o… o…”, che le rendecapaci di entrare in calcolo con altri “noi” e creare ciòche Nathan chiamava le “condizioni” dello scambio,scambio esso stesso ad alto contenuto schizofrenico.Perché l’obbligo generale che regge questo disparatoinsieme, il principio della selezione immanente a cui

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quanto possibile, unico riferimento comune, ma riferi-mento senza il quale non si tenterebbe l’avventura.Questo requisito non appartiene alla cosmopolitica inquanto tale, perché la questione della pace non ha lapolitica per sede privilegiata. Corrisponde tuttavia alpassaggio dalla politica alla cosmopolitica, perchéesprime l’insistenza del “cosmo” all’interno della politi-ca. Ma il fatto che possa esprimersi attraverso il termi-ne “pace” – nel senso in cui la pace non è ciò che èpreso come obiettivo, ma ciò di cui si richiede il riferi-mento, per quanto possibile – specifica ciò a cui espo-ne9 l’atto stesso attraverso il quale viene iniziato, a qua-lunque livello, il calcolo cosmopolitico.Quando Leibniz tenta di pensare al problema delladannazione e mette in scena il rifiuto di Belzebú diaderire alla “richiesta di perdono” dettata da Dio, eglimostra anche, forse suo malgrado, quanto l’apparentegenerosità, quando è unilaterale, possa esacerbare ilfurore di colui che si supponeva ne beneficiasse. Il cal-colo cosmopolitico resterà sempre esposto al furore,alla disperazione di Belzebú:

Il veleno s’insinua nelle membra e ben presto il furo-re si scatena / in tutto il corpo: bisogna che al crimi-ne si aggiunga il crimine / cosí noi siamo soddisfatti.Per chi è in preda all’ira vi è una sola vittima, / ilnemico immolato! Il piacere di disperderne la carneai venti, / E, tagliata nel vivo, strappata in mille bran-delli, / trasformata in altrettante testimonianze delmio tormento. / Di sottrarla, questa carne, / allatromba stessa che chiama alla resurrezione.10

È necessaria una particolare sintassi per stabilizzare ilphármakon di questa pace di cui Belzebú esprime l’ef-fetto velenoso, furore che può invadere coloro che,vittime di tanti crimini, si vedrebbero proporre ilrischioso impegno del Calculemus? È necessaria perchéil fisico si distacchi senza rimpianto dall’oscenità checostituisce l’idea stessa che la sua pratica possa appro-priarsi della domanda what makes Nature tick? È fonda-mentale per stabilizzare questo altro phármakon dellanostra tradizione, quello stesso che vota alla dannazio-

scenità di una risposta “teorica” alla domanda di cosafa “battere” la natura(-orologio). Forse, al contrario, ilgenio della lingua inglese attraverso cui sono statiinventati questo titolo e la sua attrattiva offre una scap-patoia. Perché questo titolo significa anche, in manierasottile, “cos’è che ‘spinge’ la natura?”, e anche “cos’èche la fa ‘desiderare’?”. E la domanda prolifera alloraovunque vi sia qualcuno che riesca a costruire unarisposta, a fabbricare un nuovo fatticcio. What makesyou tick? Domanda fuori calcolo, non nel senso cheessa costituirebbe un fattore trascendentale unico pertutti i calcoli, ma nel senso che essa è il fattore virtualedi ogni calcolo, ciò che esso afferma e richiede nell’attostesso in cui s’intraprende.A noi due! esclama il matematico di fronte a un pro-blema complesso, o lo sperimentatore di fronte a undispositivo di rilevamento promettente, ma alquantoinaffidabile. E la parola “due” indica allora una doppiamolteplicità disparata. Quanto al “noi”, esso non esisteprima della venuta alla luce di “noi due”, il matematicoe la sua soluzione, lo sperimentatore e il suo dispositivoinfine affidabile. O piú precisamente, non preesisteche nei sogni e negli incubi dove si mescolano, si scam-biano e si coniugano pezzi di macchina, di processi odi equazioni e pezzi di essere umano, di gesto o diragionamento, dove si sperimentano operazioni chefanno mutare i segni, i corpi, i significati, le disposizio-ni. Né il matematico né lo sperimentatore si rimettonoa chicchessia per costruire i termini della soluzione, eil “noi due” futuro non è né iscritto né prescritto danessuna parte. E nondimeno, il riferimento al possibile“noi due” esiste in quanto requisito, senza il quale né ilmatematico, né lo sperimentatore rischierebbero l’av-ventura. It makes them tick.“Cos’è che spinge” i diplomatici e gli esperti al Parla-mento cosmopolitico? L’ho detto, questo Parlamentopossiede un unico requisito, quello stesso che afferma-va l’ecologia delle pratiche in quanto pensiero specula-tivo e non in quanto stato di cose comunque realizzato.Quello che richiede e afferma è la pace come possibile.Non la convergenza di tutti i calcoli in quanto realizzatio anche realizzabili, ma il processo di convergenza in

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1 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’Anti-Œdipe, Minuit, Paris 1972, p. 294(trad. it. L’anti-Edipo. Capitalismo eschizofrenia, Einaudi, Torino 1975).

2 Ivi, p. 292. Limite relativo, viene preci-sato, quando la “schizofrenia” sarebbeil limite assoluto, il limite esterno alcapitalismo, ma prodotto dal capitali-smo stesso, espressione della sua ten-denza piú profonda e che, attraversori-territorializzazioni artificiali, deveinibire per potere funzionare.

3 Ivi, p. 285.4 Ivi, p. 458.5 Ivi, p. 18.6 Ivi, p. 45: “Questo bambino che non

vive, non mangia, non defeca e nondorme se non collegandosi a macchineprovviste di motori, di fili, di lampade,di carburatori, di eliche e di volanti”.

7 Contenuto residuo, bisogna dire, quel-lo che rimanda alla questione della“sopravvivenza” delle pratiche. Appar-tengono all’avvenire possibile e nonprobabile domande come quelle di ciòche può essere un “fisico yoruba” o uningegnere femminista, e questo nonnel senso di una storia individuale, perquanto ricca possa essere, ma nelsenso dei nuovi rischi cui essi possonoesporre le loro pratiche.

8 Il fatto di poter scrivere qui “sia, sia” enon “o, o” esprime direttamente il fattoche è sulla base di ciascun incontro enon per scelta identitaria che si effet-tua la distinzione, per ogni problema,ma anche, senza dubbio, per ciascunaspetto di uno stesso problema manmano che questi aspetti si delineano.

9 Come “espone” il “pensiero-martello”dell’eterno ritorno di Nietzsche, o ilmigliore dei mondi di Leibniz, o ancorala possibilità stessa della cosmologiadi Whitehead. Per la pace secondoWhitehead vedere Stengers, L’EffetWhitehead, Vrin, Paris 1994, p. 22 epp. 59-60.

10 Gottfried Leibniz, Confessio philosophi,cit. (trad. it. cit.); vedere, in questovolume, la nota 7 in Il tradimento deidiplomatici.

11 Questa era la tesi di Whitehead, in

Science and the Modern World (FreePress, New York 1967, pp. 8-9; trad. it.La scienza e il mondo moderno, Borin-ghieri, Torino 1979): “La Riforma e ilmovimento scientifico furono dueaspetti della rivolta storica costituitadal movimento intellettuale dominan-te della fine del Rinascimento […]. Èun grande errore concepire questarivolta storica come un richiamo allaragione. Al contrario, esso fu, da partea parte, un movimento anti-intellet-tualista. Fu il ritorno alla contempla-zione del crudo fatto; e questo ritornoebbe per origine un indietreggiamentodisgustato di fronte all’inflessibilerazionalità del pensiero medievale.Questo enunciato non è altro che ilriepilogo di ciò che, all’epoca, affer-marono proprio coloro che aderivanoall’antico modo di pensiero. Cosí, nellaStoria di Fra Paolo Sarpi, vedrete chenel 1551 i legati pontifici che presie-devano il concilio ordinarono “che liteologi debbino confermare il parerloro con la sacra Scrittura, tradizionidegli apostoli, sacri e approbati conci-li, e con le costituzioni e autorità deisanti Padri; debbino usar brevità, efuggir le questioni superflue e inutili ele contenzioni proterve [...]. Questaordinazione non fu dalli teologi italia-ni veduta con buon occhio: dicevanoche era una novità ed un dannare lateologia scolastica, la qual in tutte ledifficoltà, si valeva della ragione”(corsivo di Whitehead; cit. in Istoriadel Concilio Tridentino, Libro quarto,capitolo secondo, Sansoni, Firenze1966, vol. 1). “Poveri medievali retro-gradi”, conclude Whitehead, che uti-lizzavano la ragione, ma che nonvenivano piú compresi dai poteridominanti della loro epoca. Poterimobilitati dalla guerra, e Whitehead cipermette di non dimenticare il legamefra la mobilitazione di coloro che ver-ranno ormai chiamati gli “scienziati”riguardo a “fatti” ritenuti capaci divincere le “ragioni” dei teologi, e lamobilitazione religiosa della Chiesanella sua lotta contro la Riforma.

ne Belzebú con l’offerta di salvezza che gli viene daquesto Dio monoteista, dal quale coloro che vi fannoriferimento non cessano di pretendere che dia un fon-damento alle loro esigenze, che autentichi i loro obbli-ghi? È in grado di fare esistere, senza banalità, lamodalità di celebrazione adatta a ciò che si ripeteattualmente in ogni luogo dove si rischia un’eteroge-nesi e tutta intera in ciascuno di questi luoghi?Questa sintassi non è, né può essere, una sintassi religiosanel senso che la religione esige, nel senso che essa creail riferimento a un’unità cui sarebbe riconosciuto ilpotere di slegare, di disfare le appartenenze che essatrascende. Questa sintassi, invece, può essere definitadalla vocazione di dover civilizzare questa unità, ren-derla presente non affrontando simultaneamente tuttii calcoli all’interno dell’incalcolabile, ma come il “fuoricalcolo” che ciascun calcolo richiede. Poiché si tratta dicosmopolitica, non ci si stupirà che sia in seno a questatradizione che ha inventato la politica che mi azzardo adefinire ciò che potrebbe essere il vettore pratico diquesta incognita. Vettore politico per costituzionecome la scienza e la filosofia, vettore coinvolto in millee un crimine, proprio come la scienza e la filosofia. Mail solo fatto di evocarlo può costituire un pensiero-mar-tello per gli eredi delle due prime stirpi, fieri di avereespulso la terza. Perché se l’espulsione della teologiacostituisce per molti un “trionfo” della ragione, questaespulsione non stabilizza forse la definizione di unaragione guerriera, che s’identifica con il trionfo checostituisce la distruzione dell’altra?11

E se non fosse di religione né di credenze che man-cavamo, ma di teologi, capaci di far esistere nei ter-mini del logos, e non della convinzione, quello checaratterizza con l’incertezza e il rischio l’insieme deinostri calcoli e dei nostri giudizi? È un’ultima inco-gnita del problema cosmopolitico, un’incognita pra-tica, il cui primo interesse è quello di comprometterecoloro che vi fanno allusione, come le gesta deglistregoni compromettono gli etnoterapeuti. Paura didovere, alla fine, avere il coraggio di ammettere cheforse non ci siamo allontanati da un passato chesiamo cosí fieri di aver superato.


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