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Il “vero stemma del comune di” - araldicacivica.it · do, uno “vero”. Sono più o meno...

Date post: 16-Feb-2019
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Qualche elemento che sarebbe utile conoscere nell’approntare il redesign di un’immagine o di uno stemma istituzionale Quando riceve l’incarico di definire o rivedere la linea istituzionale di un comune (o di una regione o provincia), insomma di “disegnare la città”, il grafi- co si imbatte di regola in un problema sovente per lui inedito: la presenza, da sola, o fra altre, di un’immagine “araldi- ca”. Qualcosa di già dato, dunque, sul quale egli deve intervenire in qualche modo, ma i cui contorni non gli sono del tutto chiari (e talora non lo sono nem- meno alla committenza). Con un marchio originale è diverso: ma un linguaggio nato, bene o male 800 anni fa, oppone una resistenza con cui occorre fare i conti. Gli verrà chiesto per esempio di inserire in una linea grafica uno stemma comu- nale o di eseguire un vero e proprio redesign o restyling del medesimo. Un rapido giro d’orizzonte gli farà capire che si tratta di un problema relativamente complicato (a meno che non voglia sem- plificarsi eccessivamente la vita sceglien- do qualche superficiale scorciatoia, dando per scontato quello che non è e andando a leggersi una voce d’enciclo- pedia). L’araldica è una disciplina indefi- nita, tra storica e normativa; non ha uno statuto accademico e scientifico consoli- dato, anzi, al contrario, è il classico ter- reno d’evasione di dilettanti; orientarvisi, per il profano, non è cosa del tutto banale: tra gli strumenti in circolazione, sia editoriali, sia sul web – questi ultimi ormai debordanti – è difficile capire che cosa è affidabile e cosa non lo è, e spesso si rischia di farsi scoraggiare o fuorviare da qualche “cattivo maestro”. Affrontare in questa sede la materia nel suo insieme è ovviamente impossibile. Cercheremo almeno di fissare alcuni punti fermi e di fare qualche chiarezza in proposito sui più comuni cortocircuiti che essa innesca. Il grafico che debba affrontare questo problema (e in realtà prima di lui, chi commissiona l’incarico: assessorati, giun- te ecc.), cioè gli stemmi e la loro storia, regolamentazione e realizzazione attuali, incorre, o rischia di incorrere, in alcuni errori concettuali e metodologici. Le prime domande che si porrà, coscien- ziosamente, in queste circostanze sono: “Qual’è il vero stemma del comune di...?, Come lo si deve realizzare? Ci sono rego- le, regolamenti, norme che disciplinano la materia? Che margini di manovra ci sono rispetto ai regolamenti? Quali sono gli elementi essenziali di uno stemma?”. A queste domande non è facile risponde- re in maniera inequivoca; ed è improba- bile che il grafico possa rispondervi esaurientemente da solo, coi suoi mezzi, o affidandosi alla committenza, che, come si è accennato, talora ne sa anche meno di lui. Tentiamo qualche sondaggio preliminare. Il “vero stemma del comune di...” Alessandro Savorelli
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QQuuaallcchhee eelleemmeennttoo cchhee ssaarreebbbbee uuttiillee ccoonnoosscceerree nneellll’’aapppprroonnttaarree iill rreeddeessiiggnn ddii uunn’’iimmmmaaggiinneeoo ddii uunnoo sstteemmmmaa iissttiittuuzziioonnaallee

Quando riceve l’incarico di definire orivedere la linea istituzionale di uncomune (o di una regione o provincia),insomma di “disegnare la città”, il grafi-co si imbatte di regola in un problemasovente per lui inedito: la presenza, dasola, o fra altre, di un’immagine “araldi-ca”. Qualcosa di già dato, dunque, sulquale egli deve intervenire in qualchemodo, ma i cui contorni non gli sono deltutto chiari (e talora non lo sono nem-meno alla committenza). Con un marchiooriginale è diverso: ma un linguaggionato, bene o male 800 anni fa, opponeuna resistenza con cui occorre fare iconti.Gli verrà chiesto per esempio di inserirein una linea grafica uno stemma comu-nale o di eseguire un vero e proprioredesign o restyling del medesimo. Unrapido giro d’orizzonte gli farà capire chesi tratta di un problema relativamentecomplicato (a meno che non voglia sem-plificarsi eccessivamente la vita sceglien-do qualche superficiale scorciatoia,dando per scontato quello che non è eandando a leggersi una voce d’enciclo-pedia). L’araldica è una disciplina indefi-nita, tra storica e normativa; non ha unostatuto accademico e scientifico consoli-dato, anzi, al contrario, è il classico ter-reno d’evasione di dilettanti; orientarvisi,

per il profano, non è cosa del tuttobanale: tra gli strumenti in circolazione,sia editoriali, sia sul web – questi ultimiormai debordanti – è difficile capire checosa è affidabile e cosa non lo è, espesso si rischia di farsi scoraggiare ofuorviare da qualche “cattivo maestro”. Affrontare in questa sede la materia nelsuo insieme è ovviamente impossibile.Cercheremo almeno di fissare alcunipunti fermi e di fare qualche chiarezza inproposito sui più comuni cortocircuitiche essa innesca.

Il grafico che debba affrontare questoproblema (e in realtà prima di lui, chicommissiona l’incarico: assessorati, giun-te ecc.), cioè gli stemmi e la loro storia,regolamentazione e realizzazione attuali,incorre, o rischia di incorrere, in alcunierrori concettuali e metodologici. Le prime domande che si porrà, coscien-ziosamente, in queste circostanze sono:“Qual’è il vero stemma del comune di...?,Come lo si deve realizzare? Ci sono rego-le, regolamenti, norme che disciplinanola materia? Che margini di manovra cisono rispetto ai regolamenti? Quali sonogli elementi essenziali di uno stemma?”.A queste domande non è facile risponde-re in maniera inequivoca; ed è improba-bile che il grafico possa risponderviesaurientemente da solo, coi suoi mezzi,o affidandosi alla committenza, che,come si è accennato, talora ne sa anchemeno di lui. Tentiamo qualche sondaggiopreliminare.

Il “vero stemma del comune di...”

Alessandro Savorelli

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1. Qual’è il vero stemma del comune di...?

Il “vero stemma del comune di”, di soli-to, non esiste. Non esiste se si intendeun modello concreto o direttamenteosservabile. Molto probabilmente chi dàl’incarico fornirà un bozzetto, una ripro-duzione, un file, una fotocopia di cartaintestata, una foto del gonfalone e cosìvia. Deve esser chiaro subito che ciò cheviene fornito “non è il vero stemma delcomune di”: non lo è né storicamente,né normativamente. Sul piano storico glistemmi comunali, come ogni altra cosa(compreso ciò che appartiene alla sferadella simbologia), hanno subìto una con-tinua evoluzione: nel contenuto, nellaforma, negli ornamenti, ecc. Questi ele-menti sono variati a causa di mutamentistorici e politici, dei diversi supportimateriali e delle tecniche impiegati esoprattutto a causa dei cambiamenti distile e di gusto. Lo stesso stemma puòapparire molto diverso se disegnato,dipinto, inciso o scolpito in età medieva-le, barocca o moderna. Non ce n’è dunque, storicamente parlan-do, uno “vero”. Sono più o meno tuttiveri. Lo stesso modello, bozzetto o fotoche il comune sottopone è solo uno diquesti modelli, spesso nemmeno ilmigliore esteticamente, un modello rea-lizzato (talora bene, il più delle voltemale) chi sa quando, chi sa da chi echissà per quale scopo.

2. Come lo si deve realizzare?

Altra cosa che deve essere chiara, inconseguenza di quanto detto sopra, è laseguente: il redesign o restyling che siandrà a fare non sarà che l’ultimo inordine di tempo di molti, spesso moltis-simi (se il comune ha uno stemma moltoantico: i più antichi risalgono ai secoliXII-XIV), redesign o restyling eseguiti neisecoli passati. Ogni pittore, incisore,scultore, disegnatore, miniatore, ecc., chein passato ha eseguito uno “stemma delcomune di”, si è trovato esattamentenella stessa situazione del grafico con-temporaneo, e ha appunto prodotto(anche quando il termine non esisteva enon esistevano photoshop o illustrator)un redesign o restyling. La serie degli“stemmi del comune di” è la lunga seriedei suoi redesign o restyling storici. Nonesiste nemmeno un “modello originale”in ordine di tempo cui rifarsi: certo, imodelli più antichi sono più vicini allospirito, allo stile e alla funzionalità propridell’araldica delle origini: ma quel model-lo raramente ci è stato tramandato e noipossediamo solo rielaborazioni tarde.Oppure lo stemma ha subìto col tempomodificazioni, non solo decorative e stili-stiche, ma strutturali, che è obbligo tenerpresenti, e che dunque rendono inservibi-le un presunto modello originario.Dovrebbe essere già evidente, ora, unaprima risposta alla domanda “come lodevo realizzare?”. Il grafico, proprio comehanno fatto i suoi predecessori nei secoli

passati, lo realizzerà tenendo conto dellapropria abilità, del proprio stile, dei pro-pri mezzi espressivi, delle tecniche di cuidispone, degli scopi che gli sono prefis-si. Eserciterà dunque molto semplice-mente, come i suoi “antenati” grafici, lasua creatività.

3. Ci sono regole, regolamenti, norme che disciplinano la materia?

Se la tanto paventata astrusa materiaaraldica si risolvesse con un sempliceappello alla creatività sarebbe tutto risol-to. Purtroppo non è così. È vero che “laserie degli stemmi del comune di” è la“serie dei suoi redesign o restyling” eche nessuno di essi è il modello “auten-tico”, ma l’araldica funziona un po’ comele idee platoniche. Nessun modello feno-menico o empirico è quello vero, ma c’èda qualche parte l’idea della quale essipartecipano, così come ogni cavallo par-tecipa della cavallinità e ogni azionebuona del bene. L’idea platonica di unostemma comunale, il suo archetipo omodello originario, è però una realtà vir-tuale, che non si percepisce coi sensi.Essa non è mai consegnata a un’immagi-ne, da copiare o tenere come modello,ma a una strana formula chimica, lacosiddetta “blasonatura” (ovvero ladescrizione nel gergo tecnico-araldicodello stemma) e differisce dalle sueincarnazioni concrete come le rispettiveformule chimiche dall’aspirina o dallasoda caustica concrete.

Questa formula – la blasonatura – non èmai esistita ab antiquo: in origine lecittà e i comuni creavano e variavano ipropri simboli in piena libertà e senzaparticolari vincoli. E i grafici dell’epocaerano assai più liberi nelle loro interpre-tazioni. La formula di cui parliamo èinvece un’invenzione dello Stato moder-no, che, tra le tante materie di cui s’im-piccia, si è messo a prescrivere, descrive-re e regolare sul piano legislativo l’aspet-to degli stemmi degli enti pubblici, tracui quelli comunali. In Italia la formula sitrova nei “decreti di concessione o rico-noscimento” dello stemma, emanati untempo (quando c’era il Regno), dallaConsulta Araldica, oggi da un UfficioAraldico in funzione presso la Presidenzadel Consiglio e la Presidenza dellaRepubblica (solo in certe regioni a statu-to speciale, la materia è divenuta dicompetenza locale). I decreti, emessicontinuativamente dalla fine dell’800 aoggi, sono consultabili presso l’Archiviocentrale dello Stato, ma di norma ilcomune ne ha una copia in archivio. Gli organismi preposti alla materia hannonel tempo elaborato una serie di norma-tive, cioè un codice di regole araldiche,del tutto convenzionali ma cogenti: essedisciplinano le caratteristiche delle figurearaldiche, dei loro colori, della loro posi-zione all’interno dello scudo, dei lorodettagli. Il decreto di concessione o rico-noscimento comprende così una descri-zione dello stemma (nell’ostico gergoaraldico), confezionato in base a quelle

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regole, ed è accompagnato da un boz-zetto. Ne consegue, per convenzione,che “il vero stemma del comune di”,attualmente in vigore a termini di legge,è quello descritto tecnicamente e regi-strato nel relativo decreto (del Presidentedella Repubblica, se concesso ex novo,della Presidenza del Consiglio, se ‘rico-nosciuto’; cfr.http://www.governo.it/Presidenza/cerimo-niale/onorificenze_araldica/araldica/servi-zio_araldica.html).

Facciamo un esempio. Il decreto di rico-noscimento dello stemma della città diNapoli, che risale al 13 gennaio 1941,recita: «troncato d’oro e di rosso; orna-menti esteriori da città». Tradotto in lin-guaggio comune (i manuali di araldica incircolazione dovrebbero aiutare il profa-no a decifrare i decreti), vuol dire che sitratta di uno scudo diviso orizzontalmen-te in due parti uguali, giallo sopra, rossosotto, sormontato da una “corona dicittà” e da serti di foglie di forma parti-colare: queste corone e serti si trovanopoi facilmente in qualche manuale o nelsito citato. Lo stemma di Napoli è di unasemplicità disarmante, ma la maggiorparte delle blasonature descrivono stem-mi ben più complessi e suonano perciòall’orecchio non esercitato, del tuttoincomprensibili. Ribadiamo che il bozzet-to che accompagna il decreto è statodisegnato da qualcuno, secondo il suogusto, stile e capacità: ma esso noncostituisce in alcun modo il “vero” stem-

ma, ovvero un modello valido una voltaper tutte dal quale non si debba deroga-re. Il “vero stemma” è dunque solo l’en-tità virtuale contenuta nella blasonatura,che ciascun grafico e artista, come si èdetto (esattamente come un musicistainterpreta uno spartito), potrà realizzaresecondo il proprio gusto, stile, sensibilitàe accortezza tecnica.

4. Che margini di manovra ci sono rispetto ai regolamenti?

Ecco la domanda più insidiosa. Il graficodovrà interpretare la descrizione ufficiale– dar corpo all’idea, mescolarla allamateria sensibile -– così come un musici-sta interpreta uno spartito musicale; nonpotrà inventare di suo cambiando acasaccio; se c’è una nota o un accordo,quelli vanno suonati; il problema ècome, non se. Ha dunque il compito dirispettare in generale le figure descritte, icolori previsti, la struttura dello stemma,ogni altra particolarità espressamentemenzionata nel decreto e così via, senzaalterare tutto ciò. Se lo alterasse inmaniera significativa, si comporterebbecome un musicista che suoni un pezzonon compreso nel programma o unavariazione o improvvisazione sul temanon richieste. Farà bene, a tal fine, aconsultarsi, se lo trova, con un esperto:perché la decifrazione del decreto na-sconde al profano insidie e trabocchetti. Ma c’è altro. Il grafico dovrà anche tenerconto dello “stile araldico”, e qui la que-

stione si fa sottile: è un termine vago,che richiede una certa applicazione, unacerta sensibilità, un certo grado di rico-gnizione storica e filologica, e soprattut-to la capacità di orientarsi mantenendoun equilibrio tra lo stile convenzionaledelle figure araldiche e un certo grado dimodernizzazione e di interpretazione per-sonale di quello stile nato otto secoli fa.Un giro d’orizzonte sulla bibliografia, inmateria così sfuggente, resta inevitabile:la maggior parte dei manuali in circola-zione sono di scarsa qualità, eppure,come non si farebbe funzionare unattrezzo qualsiasi senza leggere prima leistruzioni per l’uso, così bisogna sforzarsidi fare anche con l’araldica, anche sespesso – come accade in altri campi – cisi rende facilmente conto che il “librettod’istruzioni” è ambiguo o stupido.

Perlopiù le figure araldiche, hanno unaloro forma, un loro certo tono o aura, odevono rispondere a certe caratteristichestrutturali. Un leone araldico, per fare unesempio, avrà una certa postura (unazampa alzata, l’altra no; le fauci aperte,la lingua sventolante, la coda a ricciolo,le unghie evidenziate); questi elementi dimassima dovrebbero essere rispettati,onde non trasformare il disegno in unfumetto o in marchio commerciale. È evi-dente, una questione di buon senso, chenon si può trasformare la figura fino astravolgerla, cioè fino a non farla appari-re più come una “figura araldica”, macome un’immagine comune. Il leone, non

potrà dormire, non potrà tenere lezampe a terra, non potrà avere la codatra le zampe… Viceversa, ribadiamolo, non è necessario(anzi, è del tutto insensato) riprodurreuna figura calligraficamente da un pre-sunto modello “autentico”, foss’anche ilbozzetto che diligentemente fornirà l’as-sessorato “competente”: un leone,un’aquila, un giglio, un castello, undrago e così via (una volta stabilito chequeste figure araldiche rispettano deter-minate caratteristiche formali) non vannodisegnati proprio in un certo modo enon in un altro. Il disegno deve seguiresolo alcune regole generali. Lo stesso vale per i colori: un rosso oun giallo non sono definiti da un panto-ne particolare, ma possono oscillareentro i limiti nei quali un certo colore èpsicologicamente riconoscibile. Molte amministrazioni cadono, come si èdetto, nell’errore di considerare il bozzet-to, o uno dei bozzetti esistenti, o sem-plicemente una determinata realizzazioneconcreta e corrente dello stemma, comelo stemma “vero”, e considerano la dero-ga a certi suoi dettagli irrilevanti comeun attentato alla sua purezza. Il comunedi Napoli, ad esempio, redigendo unbando di concorso per il redesign delsuo stemma (2007), precisò assurdamen-te nel suo sito web che il redesignavrebbe dovuto riprodurre l’esemplaredello stemma che si trovava «nell’ufficiodel sindaco». Questa localizzazioneovviamente, per i motivi esposti fin qui,

Stemma

seicentesco

della città

di Napoli.

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non decideva affatto dell’assoluta corret-tezza, originalità e attendibilità dell’im-magine: e rendeva automaticamentel’operazione di redesign inutile.Ma più importante sarà valutare a pieno,al di là dei regolamenti, la storicità diogni segno araldico, dei suoi stili neltempo: in questo campo manuali edesperti servono fino a un certo punto.Ciò che essi non possono insegnare (leleggi non scritte della composizione aral-dica – simmetria, chiarezza, semplicità,stilizzazione etc. – variabili nel tempo, emeglio rispettate in alcuni periodi a fron-te di altri), lo si dovrà imparare per pro-prio conto: cercando di entrare nellalogica di un linguaggio figurato moltoparticolare (un linguaggio che in origine,esattamente come oggi, aveva per scopodi comunicare, e non di decorare oinstaurare una cortina fumogena di reto-rica tra immagine e osservatore), sforzan-dosi di assimilare l’insieme evolutivo del-l’iconografia di un simbolo, valutarne leoscillazioni nei periodi “aurei” o di deca-denza della materia araldica, individuarele magagne di certo stile manieristico,studiarne la struttura geometrica (la“costruzione”: in passato non codificata,ma tutt’altro che assente), cogliere ciòche è significativo e ciò che non lo è.Magari guardando fuori dai confini italia-ni: ci sono paesi in cui una modernagrafica araldica si è creata attraverso unalenta tradizione (da noi purtroppo quasiinesistente), e non è male darle un’oc-chiata.

Alla fin fine, è come imparare una linguasconosciuta: non basta leggere unagrammatica, né frequentare un bar sottol’albergo per imparare dalla “linguaviva”: entrambi gli opposti sono unilate-rali e portano a risultati che o sono“freddi” o fanno sorridere. Nel rifare uno stemma, la “prima”, diregola, non è mai buona; e per quantopossa sembrare elementare combinaredegli animaletti o delle strisce coloratedentro un triangolino di carta, ci siaccorgerà quasi sempre, a proprie spese,che facile non è. Si dovrà imparare adisegnare un leone che non paia un bar-boncino, un’aquila che non sembri un’in-segna nazista o un pollo di rosticceria,un castello che non sembri né la “casinadelle fate”, né il rilievo di un architetto.

Da quanto abbiamo esposto finora, sivede bene che la cosa ha preso unapiega per certi aspetti paradossale. Seesiste cioè una normativa formalmenteelaborata e vincolante, sottoposta alcontrollo di organi istituzionali e discipli-nata tecnicamente il problema stesso diun redesign o restyling di uno stemmacomunale sembra svanire. O quantomeno, i margini dell’operazione di rede-sign o restyling sembrano restringersi.Tutto alla fin fine sembra risolversi nellostilizzare una figura: i vecchi bozzettierano quasi sempre derivati da un clichèdi piombo o plastica, o da un acquarelloe parrebbe perciò sufficiente eliminarequalche linea di contorno, qualche detta-

glio troppo naturalistico (i bordi dei mat-toni di un castello, le sfumature, i ricciolidella criniera di un leone…), limare cioèle sbavature dovute a vecchie tecniche didisegno: e in effetti la maggior parte deiredesign sembra comportarsi così, comechi dia “una rinfrescatina” alle pareti dicasa.

Le cose non stanno proprio in questomodo. Un compositore non può imporrea un esecutore di suonare un pezzo pro-prio così e non diversamente; e altret-tanto la legge non può imporre di dise-gnare un leone, beninteso stabilito unavolta per tutte che leone dev’essere, inun certo modo particolare e non in unaltro. In realtà i vincoli dei regolamenti nonsono stati sufficientemente codificati. Sesi dovesse dar retta alla mentalità buro-cratica che presiede all’Ufficio Araldico,che è scleroticamente attaccato alle for-mule e considera ormai fissata una voltaper tutte, rinunciando a rinnovarla, unacerta normativa e un certo stile dimaniera codificati tra la finedell’Ottocento e gli anni Trenta delNovecento, il problema non esisterebbe.Nei fascicoli dei decreti, l’Ufficio Araldicomenziona sempre una figura professiona-le introvabile, detto “blasonista”: in real-tà un normale disegnatore che ha acqui-sito una certa perizia tecnica nel settore,ma non necessariamente un “creativo”,tutt’altro. Le interpretazioni all’UfficioAraldico non interessano più di tanto: il

suo modello ideale – e assurdo – sareb-be uno stile definito una volta per tutte,eterno. Va da sé che detto ufficio non ènemmeno lontanamente sfiorato dal pro-blema delle moderne tecniche di realiz-zazione e riproduzione di un disegno.Pennelli e tempere sono il suo ultimoorizzonte artistico, e un clichè di piom-bo, che non esiste nemmeno più, il suoorizzonte tecnico. Va anche detto – per inciso – che la nor-mativa alla quale si rifà l’Ufficio Araldico,inserita nella legislazione nobiliare delRegno d’Italia varata nel 1935, ha unalegittimità assai dubbia sul piano giuridi-co, in quanto, essendo stata abrogatadal titolo XIV delle ‘disposizioni transito-rie e finali’ della Costituzione repubblica-na la legislazione nobiliare del Regno, nesono state stranamente stralciate, adispetto della loro palese obsolescenzae delle nuove leggi in materia di ammini-strazione locale, le norme relative a pro-vince e comuni. Chi consulti il sopra cita-to sito web, viene immediatamente edot-to (e la cosa non può non sorprenderela persona dotata di buon senso), che lanormativa attuale risale al regio decreton. 652 del 7 giugno 1943… Non c’è biso-gno di essere esperti di storia per dubi-tare che il ripescaggio di un simile rotta-me o fossile giuridico, concepito in unperiodo in cui il paese era in preda allacrisi politica e morale più grave da quan-do è sorto uno Stato unitario, abbiaancora qualche senso. Che del resto queste norme fossili trovi-

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no oggi puntuale e rigida applicazione, èassai dubbio. L’Ufficio Araldico in funzio-ne presso la Presidenza del Consiglio ela Presidenza della Repubblica (ufficioche nessuno si è mai preso la briga diriformare, tanto la cosa sta a cuore!), leapplica ancora piuttosto stancamente, adispetto degli obblighi solennementesanciti; se un comune chiede un parerequanto alla creazione di uno stemma, intal caso l’Ufficio araldico si ergerà siste-maticamente a paladino e vestale di unanormativa invecchiata e non vorrà sentirragioni: ma non si capisce bene in ulti-ma istanza, in base a quale competenzae potere reale esso operi. Lo dimostra il fatto che esso, in realtà,finge solamente di regolare la materia,così come ogni buon ente inutile: poichéinfatti non solo alcune regioni e provinceautonome l’hanno avocata a sé, ma,soprattutto, le regole sono nella prassilargamente disattese e non sottopostead alcun controllo effettivo. Da anni ilprocesso autonomo di restyling deglistemmi comunali è avvenuto quasi all’in-saputa o nell’indifferenza dell’Ufficio aral-dico, e senza che quest’ultimo mostrasseseriamente di volerne prendere atto e divolersene occupare. Importanti comuni(Roma, Firenze, Milano, Ferrara, Siena,Palermo, etc.), molti comuni più piccoli ediverse province hanno rifatto i propriostemmi e la propria linea grafica, forzan-do talora al limite la presunta normativavigente dal 1943, senza che l’Ufficio aral-dico ne abbia saputo qualcosa o abbia

eccepito. Qualche comune, seguendo unandazzo non sempre commendevole, invigore in altri paesi, ha gettato alle orti-che il vecchio stemma, assumendo unlogo (spesso più banale dello stemmamedievale e vistosamente succube dellalogica dei brands commerciali). Non solol’Ufficio araldico è un ente inutile eobsoleto, ma vive in un empireo nonlambito dal mondo reale.

La prassi dunque va in direzione moltodiversa da quanto i burocrati vorrebbero,ed è in considerazione di questa prassiormai consolidata sulla base di numero-se esperienze e progetti realizzati eapplicati, che il grafico può operare, concoscienza, ma anche con qualche margi-ne di autonomia. Di restyling la normati-va in vigore (o presunta tale) non parlanemmeno: e come potrebbe farlo, se èstata varata prima del 25 luglio e dell’8settembre 1943? Come si è detto, essa èpalesemente anacronistica: in quantonon poteva essere sfiorata, a quelladata, nemmeno lontanamente, dai pro-blemi connessi con la moderna comuni-cazione istituzionale, ma aveva a chefare solo con una disciplina, normativanegli intenti, ma di fatto concepita infunzione meramente decorativo-cerimo-niale dallo sclerotico apparato di corte diuna monarchia al tramonto.

5. Quali sono gli elementi “essenziali” di uno stemma?

La maggior parte degli stemmi comunalireca immagini piuttosto complesse. Masono tutte essenziali e necessarie? Dinuovo: se si interpellasse l’UfficioAraldico, la risposta sarebbe sicuramentesì. Guai a omettere il benché minimodettaglio o trabiccolo previsto dal decre-to legislativo: si sarebbe fuori legge. Ma,di nuovo, ripetiamolo, l’Ufficio Araldiconon ha mai capito la connessione tral’arida parola della legge e le sue appli-cazioni tecniche. La parola duttilità non ènel suo vocabolario, così come l’intelli-genza non ha mai fatto parte del reper-torio delle sue virtù.Chiunque si sia occupato di araldica dalpunto di vista storico, sa che l’elementoo contenuto determinante e decisivo diuno stemma (anche di quelli comunali) èdato, quasi sempre, esclusivamente dallefigure che si trovano all’interno delloscudo: sono esse che identificano simbo-licamente una persona, una famiglia,un’istituzione o un comune, sin dall’origi-ne. In genere le figure esterne allo scudo– e ce ne sono parecchie – sono aggiun-te posteriori, talora effimere (nel casodell’araldica comunale, quasi tutte relati-vamente moderne), e, salvo qualchecaso sporadico, non hanno mai assuntouna funzione identificativa importante.Lo stesso vale per la forma dello scudo:essa ha assunto nei secoli, via via che loscudo divenne inservibile come arma da

combattimento e rimase solo comeimmagine araldica, decine di fogge diver-se, di stile variabilissimo.

La Consulta Araldica del Regno d’Italia ei suoi successori elaborarono un sistemadi particolari figure esterne allo scudoper gli enti pubblici, comuni e province:corone, motti, supporti, etc., che sonoregolamentate espressamente nel singolodecreto. In genere queste figure di con-torno (dette cumulativamente “ornamentiesteriori”), tranne poche deroghe percasi storicamente accertati, sono stan-dard e valide per tutti i comuni. LaConsulta ne fissò il numero e l’aspetto:una “corona murale”, cioè con mura,porte e torri (sopra lo scudo, simile allacoroncina, divenuta un’icona, dell’«Italiaturrita»), diversa nella forma e nel coloreper i comuni e le città; e due serti diquercia e d’alloro che circondano loscudo, uniti in basso da un nastro trico-lore; una variante, altrettanto pomposa eingombrante per le province. Per quantoriguarda infine la forma dello scudo, nefu prescritto un certo tipo, detto ‘sanniti-co’, di forma rettangolare con una puntain basso al centro. Appare evidente, giova ripeterlo, chequesta assurda gerarchia burocratica(che livellava la varietà delle figure stori-camente esistenti), non era che il riflessodella subalternità dell’apparato dell’aral-dica pubblica a quello (dominante sottola monarchia) dell’araldica gentilizia enobiliare. L’araldica pubblica era e dove-

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va rimanere un piccolo capitolo, trascura-bile e maltrattato, della vera araldica,quella che concerneva le prerogative distatus di una classe sociale, la nobiltà, ei suoi rituali genealogico-giuridici: fra iquali stava l’ampolloso, pedante (edesteticamente orribile), gelosamentecustodito catalogo di elmi, scudi, manti,motti, cartigli, frasche, svolazzi, tenenti,supporti, “gridi di guerra”, ecc., che cir-condavano lo scudo per identificarerango e prerogative nobiliari di una fami-glia. Un catalogo kitsch di ammenniccoliretorici di bruttezza devastante rispettoalla chiara semplicità comunicativa del-l’araldica delle origini, distrutta dai buro-crati nel suo significato più autentico disistema di segni. Non aver smantellatoquesto castello in epoca repubblicana,stralciandone invece – immutato – ilcapitolo dell’araldica comunale, testimo-nia della modesta intelligenza del legisla-tore italiano, e del livello del suo buongusto.Come considerare questi elementi ester-ni, queste corone, fronde etc, tutte rigo-rosamente e maniacalmente determinatedai regolamenti del 1943? Innanzi tutto,sul piano del gusto essi riflettonoun’epoca, tra fine dell’800 e il fascismo,che puntava sulle pompe allegoriche edenfatiche nazionali e che amava abbon-dare in elementi decorativi, floreali etc.Mai modificati, e per quanto si cerchi neitentativi più coscienziosi di stilizzarli,questi elementi decorativi sono oggimolto lontani dal gusto comune, e appa-

iono particolarmente ridondanti, spiace-voli e insensati.

Non è un caso, ancora una volta, chenella prassi della comunicazione molticomuni (per l’Ufficio Araldico, se se nefosse accorto, dei comuni fuori legge, dacommissariare!), già li omettano nelleloro linee grafiche, e per vari ottimi moti-vi. In primo luogo perché sono, come siè detto, salvo specifiche eccezioni, ele-menti standard; perché (giova ripeterlo),le figure qualificanti sono di norma quel-le dentro lo scudo, e molti comuni,mostrando più buon senso storico degliarcigni e ammuffiti custodi della materia,li considerano, quali essi sono, degliorpelli inutili, macchinosi, scomodi e insi-gnificanti. In secondo luogo, e soprattut-to, perché (aspetto per il quale l’UfficioAraldico, ripetiamolo, mostra il più subli-me disprezzo) non rispondono più ai cri-teri di leggibilità, semplicità e chiarezza,postulati dalle moderne tecniche grafichee informatiche. La difficoltà, di tradurrein un segno moderno, sobrio, efficace edessenziale elementi così obsoleti, artefat-ti, storicamente ridicoli e vistosamentedatati, è evidente. Così come è chiaroche, riprodotti in piccole dimensioni, essifiniscono fatalmente per sottrarre spazioalle figure dello scudo e rendere il segnoconfuso graficamente, talora del tuttoilleggibile, violando quindi i criteri dellasua funzionalità in ossequio a un princi-pio decorativistico ormai inattuale. Quanto alla forma dello scudo, il “sanni-

tico”, prescritto dai regolamenti (dinuovo: salvo eccezioni esplicitamentemenzionate), è anch’esso non solo un’in-venzione moderna, che sostituiscemodelli storici ben più documentati estoricamente diversi da epoca a epoca eda area ad area, essendo l’Italia unpaese storicamente composito (il chetestimonia nuovamente della insensibilitàstorica della Consulta e della sua accla-rata ottusità livellatrice), ma è, soprattut-to, un “contenitore” particolarmentesgraziato. Molti comuni preferiscono,saggiamente, usare scudi “non a norma”,più gradevoli all’aspetto e più rispettosidella tradizione storica, in palese, magiustificato contrasto con la normativavigente.

Concludendo. Sulla base della prassi inuso corrente, dell’esperienza e del buonsenso, la rinuncia – ove occorra – a esi-bire nella linea istituzionale di un comu-ne gli elementi “perturbatori” e visibil-mente obsoleti dello stemma ufficialedovrebbe ritenersi un dato acquisito. Innessun caso essa dovrebbe essere perce-pita come un’alterazione sostanzialedello stemma, ma come un adattamentoad esigenze pratiche e tecniche e, a dirvero, nella maggior parte dei casi, comeun suo autentico miglioramento graficoed estetico. Né, sia chiaro, la legge ne risulta violataminimamente. Lo stemma “ufficiale”,completo cioè di tutte le sue parti acces-sorie prescritte dai decreti, se questi non

vengano modificati, può essere infattiesibito su due strumenti o supporti clas-sici, come il marchio o timbro, col qualeil comune autentica i suoi atti, e il gon-falone: un oggetto in esemplare unico,che può ritenersi il “depositario” solennedella versione completa dello stemma,rispettosa di tutti i crismi di legge. Negli usi correnti, viceversa, il contenutodello scudo, l’unico realmente qualifican-te, può essere ritenuto sufficiente a iden-tificare il comune: la versione semplice,adatta alla comunicazione istituzionale,può avere una sua autonomia formale.Naturalmente spetta alla sensibilità delgrafico l’includervi o meno, in qualcheforma, quegli elementi esteriori che siritengano non meri stereotipi standardiz-zati, ma realmente caratteristici di unsimbolo comunale tradizionale: queglielementi cioè più fortemente individualiz-zati e frutto di una consolidata tradizio-ne storica e iconografica. Per fare qual-che esempio: i comuni di Ferrara e diRoma usano da secoli, a ricordo del pro-prio rango storico, una corona di tipo“ducale” (non dunque con le mura turritestandard, ma con una decorazione a“fioroni”), e perciò non avrebbe sensoometterla in un redesign; lo stesso valeper casi come quelli del comune diFermo, che usa sullo scudo un “cimiero”,ossia una particolare figura allegorica inuso dal ’500 (nella fattispecie un braccioche sorregge una palla), o del comune diModena, che, dall’epoca rinascimentale,sottende allo scudo due “trivelle”, in

Balzana di Ferrara

ridisegnata

in uno scudo ovato

e sormontata

dalla corona

ducale.

Page 7: Il “vero stemma del comune di” - araldicacivica.it · do, uno “vero”. Sono più o meno tutti veri. Lo stesso modello, bozzetto o foto che il comune sottopone è solo uno di

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allusione al proprio motto, o del comunedi Genova, il cui scudo è sostenuto abantiquo da due grifoni, e così via. Sonofigure individualizzanti, che richiamanouna tradizione simbolica forte e che lagrafica moderna può assumere, opportu-namente trattate, senza tradire la suaessenzialità.Quanto poi alla forma dello scudo,sarebbe sensato sceglierne una storica-mente valida, cioè nello stile del periodoin cui un determinato comune ha assun-to la sua fisionomia storica e simbolicapiù definita. Per fare ancora un esempio,sempre Ferrara ha scelto uno scudoovato, in sostituzione del banale “sanni-tico”, per sottolineare la sua tradizionerinascimentale e per richiamarsi almodello più illustre presente in città,disegnato da Leon Battista Alberti. Inqualche caso lo scudo è stato addiritturaomesso: a Firenze il recente redesigndello stemma ne fa a meno e colloca iltradizionale giglio rosso – molto elegan-temente – su una superficie libera;Palermo, analogamente, ha adattato lafigura – un’aquila, risalente al periodoaragonese – di per sé “pesante” comesegno, ad un semplice fondino rosso informa quadrata, o senza sfondo, su unasuperficie aperta, nella versione in bian-co e nero. L’idea che una figura campeg-gi liberamente su una superficie apertanon è affatto moderna: è anzi una prassiesecutiva tipica dell’araldica delle originie delle sue applicazioni decorative piùversatili e intelligenti, come sanno gli

storici più avvisati. Per Napoli, una forma“medievaleggiante” apparirebbe bugiar-da, dato che le testimonianze più prege-voli dello stemma cittadino sono d’etàbarocca; e così via. Molti redesign moderni tendono a uncompromesso tra la conservazione deglielementi esteriori allo scudo e della suaforma standard e l’innovazione: a voltedisegnano solo la corona turrita, trascu-rando le fronde. Ma si tratta di una scel-ta timida: la corona è quasi sempre lastessa, non caratterizza un particolarecomune: per di più – a differenza diquasi tutte le figure araldiche che, setrattate con attenzione sono relativamen-te adattabili – essa è strutturalmente dif-ficile da stilizzare, modernizzare, o rende-re con un tratto accattivante. Rimarràsempre un pesante gioiello da cerimonia,di quelli che si devono portare per forza aun matrimonio, “se no la zia si offende”.

Dunque, coraggio, grafici, araldisti perforza, necessità o contratto: à vos claviè-res, alle tastiere. Con juicio, ma senza piùsubalternità psicologica alle vecchie zie.

Stemmi

dei comuni

di Fermo,

Modena,

Genova.

Il giglio

di Firenze

(redesign

Walter Sardonini e

Daniele Madio,

SocialDesign 2008)

e l’aquila di

Palermo

(Paolo Di Vita,

2004).

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