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Il_Grande_Inganno_9788881019540_298249

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c o l l a n a

Mafiediretta da Antonio Nicaso

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Nicola Gratteri - Antonio Nicaso

Testi didattici di

Michele Borrelli

Educare alla legalità

Il GrANdE INGANNoI falsi valori della ’ndrangheta

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Proprietà letteraria riservata

© by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

Edizione ebook 2012

ISBN: 978-88-8101-954-0

Via de rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672

Sito internet: www.pellegrinieditore.it

E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

Il presente volume raccoglie ed integra in un’unica edizione, curata spe-cificatamente per l’insegnamento nelle scuole, parti centrali del volume Fratelli di sangue di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso e, quasi interamen-te, l’antologia di testi letterari Senza onore, curata da Antonio Nicaso.la progettazione, la strutturazione, le analisi didattiche, le introduzioni nonché “l’accesso al progetto: Educazione alla legalità - lotta alla ’ndran-gheta” sono di M. Borrelli

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INTroduzIoNE

Educare alla legalità

l’illegalità e la criminalità sono, oggi, talmente diffuse e ra-dicate nelle coscienze individuali e nella società in generale, che l’educazione alla legalità è tema obbligatorio nei curricula delle scuole (e si spera) di ogni ordine e grado.

la possibile strategia che ci auguriamo vincente e, quindi, in gra-do di riportare a lungo raggio e progressivamente le singole strut-ture e, in ultima analisi, la società su un piano di legalità e, quindi, di libertà e di democrazia, dipenderà, infatti, dalla presa di coscien-za che l’illegalità e la criminalità non sono più solo dei fenomeni sociali marginali, accanto ad altri fenomeni riservati e circoscritti ad ambiti, settori o sottosettori d’indagini di natura strettamente sociologica, psicologica o antropologica, ma strutture dominanti complesse che occupano sempre più potere nella società.

Il progetto educazione alla legalità, che proponiamo a docen-ti e studenti, ha come scopo formare nei giovani una coscienza civile contro la criminalità organizzata che va sotto il nome di ’ndrangheta. È una scelta didatticamente esemplare, vale a dire prioritaria, rispetto ad altre possibili ed importanti tematizzazioni o contenuti che riguardano le criminalità organizzate e l’illegalità in generale e ciò per varie ragioni. Innanzi tutto la ’ndrangheta non è riducibile ad un fenomeno che può essere osservato e com-battuto solo dall’esterno, ma è radicata e si estende, vieppiù, in tutti i settori della vita sociale per cui richiede una lotta anche e soprattutto dall’interno. Ciò vale, ancor di più, se si parte dal pre-supposto che la ’ndrangheta, nel frattempo, ha raggiunto un così

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alto grado di ramificazioni nazionali (ed internazionali), tale che la sua portata devastante sul piano economico, politico, culturale mette a rischio la stessa convivenza civile o meglio: i presupposti e le condizioni di possibilità della vita democratica e del progres-so che interessa tutte le fasce sociali e, non da ultimo, l’avvenire delle generazioni future. la ’ndrangheta è passata da fenomeno marginale dal “volto agrario e contadino” a struttura criminale mondiale.

Privilegiare l’esemplarità legata al progetto che qui proponia-mo a docenti e studenti non significa, quindi, richiamare l’atten-zione su uno dei tanti possibili e importanti reali problemi sociali legati all’illegalità e alla criminalità organizzata, ma avviare una riflessione sui rischi della stessa democrazia e sul futuro della so-cietà italiana e non solo italiana.

Nessuna democrazia può reggersi, svilupparsi e crescere real-mente sulla violenza generata dall’illegalità e dalla criminalità. la democrazia implica, allora, non solo un discorrere su regole e principî democratici, ma anche un impegnarsi per le regole e i principî ritenuti democratici. Accettare la democrazia signifi-ca anche difenderla e lavorare affinché essa raggiunga un grado sempre più elevato e più ampio di espressione e di dispiegamento così da abbracciare le singole istituzioni, anzi tutte le istituzioni; significa non solo partecipare a questo processo sempre più ampio e universale di democratizzazione, ma anche di vivere la demo-crazia quotidianamente nelle istituzioni e fuori dalle istituzioni non solo verbalmente, ma come atteggiamento quotidiano di ogni singola persona che si oppone e combatte le forme d’illegalità e di criminalità che distruggono le fondamenta del vivere demo-cratico. la ’ndrangheta si combatte, soprattutto, dall’interno, sottraendo, cioè, a questa organizzazione criminale il consenso, ovverosia l’appoggio diretto (partecipazione all’organizzazione) o indiretto (l’omertà). Non è, come può notarsi, una questione solo di più Stato; è una questione morale ed etica che interessa l’intera società e, quindi, ogni singola persona. Nessuno può e deve sottrarsi a questo compito sociale di difesa dei presupposti della vita democratica.

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Il progetto educazione alla legalità che s’incentra, come og-getto di analisi e di riflessione, sulla criminalità organizzata della ’ndrangheta, trova qui i suoi presupposti prioritari, la sua fonda-mentale legittimazione didattica come risposta situabile non solo all’interno di un singolo territorio (la Calabria), ma come risposta generale o globale. Si tratta, per un verso, di combattere la struttu-ra criminale devastante della ’ndrangheta con gli strumenti legali che una società democratica ha a disposizione, per altro verso di sottrarre ad essa i consensi: quindi creare le basi sociali per preve-nire la criminalità. In ultima analisi: si tratta di opporsi al sorgere e al diffondersi della mentalità ’ndranghetista. È questa mentalità omertosa, e i principî che la alimentano e la compongono, a co-stituire il sottofondo “culturale”-criminale che alimenta, in ultima analisi, la vera forza della ’ndrangheta.

Abbiamo, così, tracciato alcuni degli obiettivi centrali che si perseguono col progetto che viene proposto alle scuole e al qua-le abbiamo dato il titolo Il grande inganno - I falsi valori della ’ndrangheta.

Per il raggiungimento di questi obiettivi, si è pensato di struttu-rare l’analisi didattica sull’organizzazione criminale, che va sotto il nome di ’ndrangheta, tenendo presente tre piani:

– il piano storico-sociale della genesi dell’organizzazione cri-minale della ’ndrangheta;

– il piano socio-economico e socio-politico dell’organizza-zione criminale della ’ndrangheta;

– il piano socio-antropologico, ideologico-culturale dell’orga-nizzazione criminale della ’ndrangheta.

Partiamo, cioè, dal presupposto che una risposta efficace al-l’avanzata, sul piano economico, politico e culturale, di una or-ganizzazione così devastante come la ’ndrangheta, debba essere situata, necessariamente, sui piani che ne hanno reso possibile il suo sorgere, il suo consolidarsi e il suo espandersi, in modo a dir poco inaudito. Il progetto, pertanto, può essere differenziato nelle tre unità didattiche: storia, struttura, sottofondo ideologico

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o culturale della ’ndrangheta. ovviamente gli obiettivi, nella loro complessità e differenziazione, sono raggiungibili solo nell’uni-tarietà delle singole unità didattiche, per cui si è pensato a tre tipi di analisi di contenuti. Col volume Fratelli di sangue abbia-mo voluto offrire a docenti e studenti materiali che interessano le due unità didattiche: storia e struttura della ’ndrangheta. Il volume offre, infatti, tutta una serie sistematica di documenti, in-formazioni e dati che riguardano soprattutto questi due piani di riflessione. Analizzare l’organizzazione della ’ndrangheta su basi obiettive o scientifiche premette, infatti, non solo la possibilità di avere a disposizione una raccolta rigorosa e vasta di materiali che ne mettano a fuoco il suo sorgere, il suo costituirsi, consolidarsi ed espandersi su basi nazionali e nel frattempo internazionali, ma di potersi basare anche su una documentazione sistematica che riesca a dimostrarne la complessità, il grado altissimo di devasta-zione e violenza e le ripercussioni che seguono o meglio segui-ranno per la società e per i singoli sul piano politico, economico e culturale non solo a corto e medio, ma anche a lungo raggio se non si riuscirà a contrastare, o meglio a combattere la struttura e l’espansione di questa organizzazione criminale.

Il volume Senza Onore è pensato per l’unità didattica “sotto-fondo culturale”. È una raccolta che offre ben quindici testi let-terari, tutti selezionati e commentati, con lo scopo di far emer-gere, da più angolazioni, una varietà di possibili interpretazioni del “fenomeno” ’ndrangheta. la pluralità delle interpretazioni è didatticamente voluta per offrire agli studenti un quadro ampio di interpretazioni anche contrastanti e, se si vuole, contraddittorie. lo scopo non è solo quello di acquisire capacità ermeneutiche relative all’interpretazione circa l’organizzazione della ’ndran-gheta, ma anche di acquisire capacità critiche anche rispetto alle interpretazioni che offrono gli stessi autori dei testi. Acquisire, se così si vuole, capacità meta-ermeneutiche nel confronto dei testi e nel confronto fra i testi e le singole interpretazioni che suggeri-scono gli autori dei testi letterari che formano qui l’oggetto della riflessione.

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l’intimo legame tra i due volumi permette, didatticamente, di organizzare l’insegnamento o meglio l’apprendimento a partire tanto dall’unità didattica storia o struttura della ’ndrangheta, quanto dall’unità didattica sottofondo culturale della ’ndranghe-ta. riteniamo importante e didatticamente essenziale non fermar-si ad un singolo aspetto, piuttosto intrecciare i diversi aspetti del tema e cogliere, quindi, possibilmente la complessità di questa organizzazione così violenta e nel frattempo così ramificata so-cialmente da riuscire a mettere in ginocchio, in modo sempre più accentuato, politica, economia e cultura.

Se l’unione dei due volumi qui proposta offre tre possibilità di accesso alla complessità ’ndrangheta, per entrare analiticamente nel problema o motivare gli studenti al tema, si consiglia di par-tire da uno dei tanti casi di cronaca sulla ’ndrangheta che quasi quotidianamente vengono riportati nei giornali. Suggeriamo, cioè, di risalire dalla problematizzazione di singoli casi, gradualmen-te, alla struttura dell’organizzazione della ’ndrangheta, alla sua logica, alla sua storia, alle condizioni che hanno reso possibile il costituirsi di questa organizzazione antisociale e valutare, poi, le conseguenze e gli effetti devastanti per la vita del singolo e per l’intera società.

Come “apertura” al tema, abbiamo qui scelto la Strage di Duisburg che dimostra, senza ombra di dubbio, il grado di barba-rie inaudita raggiunto dalla “cultura” dell’organizzazione crimi-nale ’ndrangheta.

Michele Borrelli

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L’accesso al progetto: Educazione alla legalità - lotta alla ’ndrangheta

Come accedere alla complessità del tema qui in questione? Quali le scelte didattiche circa contenuti e forme di organizzazio-ne dell’apprendimento e dell’insegnamento? Quali le vie metodi-che che possano far sorgere la motivazione alle riflessioni di un tema così importante sul piano individuale e sociale, un tema in cui sono in gioco i principî stessi della democrazia e della nostra costituzione?

Come apertura al Progetto: Educazione alla legalità - lotta alla ’ndrangheta, abbiamo scelto, come si diceva sopra, la Strage di Duisburg. È un esempio a partire dal quale il progetto può avere inizio per poi dispiegarsi sistematicamente nelle sue sfaccettature più rilevanti che abbiamo suddivise in tre: storia, struttura, sotto-fondo culturale o ideologico della ’ndrangheta.

La strage di Duisburg non è un esempio qualsiasi. oltre al fatto che questo eccidio documenta la ferocia inaudita delle faide legate alla ’ndrangheta, mostra al contempo che la ’ndrangheta è una ferrea organizzazione criminale che non si limita a particolari territori o località (per esempio calabresi), ma che la sua scia di sangue, come i suoi affari, non conosce confini.

Per strutturare didatticamente questo accesso al tema, riportia-mo anzi tutto alcune voci (testo nr. 1) che, subito dopo la strage di duisburg, hanno riempito le pagine dei giornali per passare poi ad alcune precisazioni sulle faide (testo nr. 2: Sedici anni di fai-da – Una cronaca di sangue), nonché ai rituali tipici della ’ndran-gheta (testo nr. 3: L’iniziazione) e passare successivamente ad

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alcuni dati della polizia tedesca che chiariscono l’‘internazionali-tà’ di questa organizzazione criminale (testo n. 4: Gli associati ai clan di San Luca - Da un rapporto della polizia tedesca e testo n. 5: Le cosche in Germania) e al ricompattamento tra le cosche (testo n. 6: La tregua).

Testo n. 1:

Duisburg:Un’esecuzione militare: cinquantanove i colpi esplosi dagli

uomini che hanno atteso appostati per la strada le loro vittime.

La festa:Martedì sera (15 agosto 2007) nel ristorante “Da Bruno”, a

Duisburg, sei uomini vicini alla cosca Strangio-Nirta festeggiano il 18esimo compleanno di uno di loro.

Il massacro:Verso le due di notte, all’uscita dal locale vicino alla stazione,

contro i sei uomini si abbatte una tempesta di piombo. Le vittime vengono finite con un colpo alla nuca.

Il ritrovamento:Verso le 2.30 la polizia tedesca trova quattro cadaveri in una

Golf Volkswagen, altri due in un furgone Opel. Una delle vittime muore in ambulanza.

La scena del crimine dice che l’agguato è stato organizzato con una precisione militare. Cinquantanove i bossoli trovati, ma a parte un proiettile che scheggia due volte la vetrina del risto-rante e un altro che segna la statuetta di una spigolatrice, la po-lizia non trova altri ‘segni’.

Chi ha sparato sapeva farlo. Ci sono rose strette di colpi sulle fiancate delle auto. Chi ha sparato s’è allenato a odiare e a non farsi prendere la mano.

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Commento didattico

Alle prime ricostruzioni della strage di duisburg, nelle cronache dei giornali seguirono tutta una serie di puntualizza-zioni e precisazioni sulla storia delle faide legate ai clan, qui in contrapposizione, che offrono a studenti e docenti un primo quadro delle “ragioni” che avrebbero scatenato il massacro. ovviamente, il lavoro con gli studenti non si limita alla lettura di ciò che riportano i giornali. Gli articoli richiedono un’analisi critica. Per questo confronto critico, spesso non è sufficiente la quantità di informazioni che può essere desunta dalle cronache di giornali; a queste informazioni gli studenti devono, quindi, affiancare ulteriori contestualizzazioni, documentazioni e ricer-che specifiche.

Il documento che riportiamo, qui di seguito, sulla storia delle faide, offre senz’altro tutta una serie di informazioni che aiutano docenti e studenti a capire, inoltre, che la cronaca di sangue legata alle logiche ’ndranghetiste non sono improvvisazioni odierne, ma che spesso vanno indietro negli anni. Compito dell’analisi didat-tica non è, allora, solo quello di cercare di cogliere cosa un testo dice, ma cercare di capire anche cosa un testo non dice. Intanto, vediamo come le faide vengono spiegate:

Testo n. 2:Sedici anni di faida – Una cronaca di sangue

l’episodio da cui è nata la faida di San luca risale al Car-nevale del 1991, 10 febbraio: un banale lancio di uova tra due gruppi di ragazzi nella piazza del paese. I giovani appartengono a famiglie contrapposte: da una parte gli Strangio-Nirta, dall’altra i Vottari-Pelle-romeo. una parola di troppo, un’offesa, e si scatena la furia omicida.

1991 (14 febbraio):Vengono ammazzati Francesco Strangio e domenico Nirta,

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tutti e due classe 1971. Feriti Giovanni e Sebastiano Nirta, rispet-tivamente 22 e 20 anni, fratelli dell’ucciso.

1992 (25 luglio):Il clan Strangio-Nirta si vendica con l’omicidio di Antonio

Vottari, 25 anni.

1993 (primo maggio):A san luca la festa dei lavoratori è segnata dal sangue. Sotto

i colpi d’arma da fuoco cadono Giuseppe Vottari, 41 anni, e Vin-cenzo Pugliesi, 19. I Vottari la sera stessa uccidono per ritorsione Antonio Strangio, 40 anni, e Giuseppe Pilia, 23.

Dopo la strage del primo maggio le armi tacciono per più di dieci anni. Ma l’odio fra i clan rivali non è archiviato e la scia di sangue riprende nel 2005.

Gennaio 2005:Domenico Giorgi (affiliato Strangio-Nirta) uccide Salvatore

Favasuli. la pista è quella passionale (l’assassino ha una rela-zione con la fidanzata del morto) ma il morto è vicino ai Vottari e l’omicidio riacutizza i rancori.

31 ottobre 2005:Viene ammazzato il fratello di domenico Giorgi, Antonio, 31

anni.

25 dicembre 2006:I sicari uccidono Maria Strangio, 33 anni, moglie di Giovanni

Nirta (ritenuto il capo del clan). Nell’agguato restano feriti anche Do-menico, 5 anni appena (nipote della donna uccisa), Francesco Nirta, 32 anni (cognato della donna uccisa) e Francesco Colorisi, 23 anni.

20 maggio 2006:Viene ucciso rocco Aloisi (padre di Antonio, vicino ai Votta-

ri), 56 anni.

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12 luglio 2006:La vendetta colpisce Giuseppe Campisi (gruppo Vottari), 32

anni.

3 agosto 2006:Tocca a un altro uomo della famiglia Vottari, Antonio Giorgi,

56 anni.

15 agosto 2007:A duisburg, in Germania, è strage. Muoiono crivellati di colpi

Marco Marmo, 25 anni, Sebastiano Strangio, 39 anni, i fratelli Francesco e Marco Pergola (22 e 20 anni). Tommaso Venturi, 18 anni e Francesco Giorni, 17 anni. Sono tutti più o meno legati allo schieramento Vottari-Pelle-romeo.

Commento didattico:

Le faide

le vendette non conoscono deroghe nel codice della ’ndran-gheta. E talvolta non guardano in faccia nessuno, né donne né bambini. A Duisburg, la faida di San Luca ha riacceso i riflettori sulla ’ndrangheta. Nella cittadina renana, nella notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007 sei giovani sono stati uccisi all’uscita del ristorante “da Bruno”. C’era stato un summit, prima dell’arrivo dei sicari. Nella tasca di una delle vittime, Tommaso Venturi, che quel giorno aveva festeggiato il diciottesimo compleanno, è stato trovato un santino piegato in quattro e bruciato al centro, raffigu-rante San Michele Arcangelo (vedi p. 75), simile a quelli utilizzati dalla ’ndrangheta durante i riti di iniziazione. Secondo gli inqui-renti tedeschi, i sei uccisi a duisburg erano legati o contigui alla cosca dei Vottari-Pelle in guerra con i Nirta-Strangio.

Marco Marmo, una delle vittime di duisburg, il giorno prima della strage, aveva chiamato il fratello a San luca. “Ho le armi”, gli aveva detto, durante una conversazione telefonica intercettata

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dalla Criminalpol. le armi sono state trovate dalla polizia tedesca nello stesso ristorante, di proprietà di Sebastiano Strangio, un’al-tra delle vittime, già sospettato di omicidio, il quale già nel 1993 era ritenuto organico alle cosche di San luca e coinvolto a pieno titolo nel giro del riciclaggio di denaro sporco in Germania.

Chi ha sparato in Germania aveva un obiettivo preciso: vendi-care l’omicidio di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale del 2006 a San luca, il paese della faida.

le faide sono tipiche della ’ndrangheta, scontri all’ultimo san-gue generati da un odio selvaggio che ruota attorno al soldo o alla proprietà o più semplicemente al prestigio o all’affermazione so-ciale. Spesso piccoli moventi possono saturare la riserva di odio, come a San luca dove i primi morti si sono registrati in seguito ad una bravata con lancio di uova durante il carnevale del 1991.

le faide hanno molte cose in comune con le disamistade sarde, caratterizzate dal dovere millenario della vendetta, spesso origi-nata da futili motivi, come lo scontro tra i Succu ed i Corrine.

‘Il punto di partenza’, spiegano luigi Maria lombardi Satriani e Mariano Meligrana, ‘è il concetto popolare di offesa, legato al senso dell’onore e della dignità, e la correlativa affermazione giu-ridica che l’offesa deve essere vendicata (…) Chi si sottrae al di-ritto-dovere della vendetta (…) non è considerato un uomo, cioè viene bandito dall’ideale di umanità che caratterizza storicamente una comunità o un’aggregazione sociale’1.

la catena di vendette, ancora oggi, in alcuni centri della Cala-bria, mantiene in vita un piccolo esercito di fuggiaschi colpevoli in base al codice penale, ma innocenti per secolare codice d’onore accettato e rispettato dagli uomini della ’ndrangheta.

Molti paesi della Calabria rievocano lunghe scie di sangue. Cittanova rimanda al duro scontro tra le famiglie Facchineri e raso-Albanese, mentre Seminara ricorda la sanguinosa faida tra i Giuffrè ed i Pellegrino. Salvatore Pellegrino, boss dell’omoni-

1 l.M. lombardi Satriani-M. Meligrana, Un villaggio nella memoria, Casa del li-bro, reggio Calabria, 1983, p. 139.

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ma famiglia, era soprannominato ‘l’uomo mitra’. una volta si presentò armato al funerale di Giuffrè, mettendo in fuga amici e parenti che seguivano il feretro. Poi esplose alcuni colpi di mitra-gliatore contro la bara dell’avversario defunto: ‘Anche da morto sei rimasto solo’, gridò in uno spasimo di onnipotenza.

l’elenco delle faide in Calabria è lungo. Quelle note sono le-gate a paesi, come Ciminà, locri, Siderno, Gioia Tauro, Castella-ce di oppido Mamertina, Motticella. In quest’ultima faida, scop-piata nella zona di Bova in seguito ad un sequestro gestito male, venne uccisa anche una giovane studentessa universitaria.

Molti attribuiscono la frequenza delle faide alla mancanza di un organo verticistico sul modello di Cosa Nostra, capace di regi-mentare gli scontri. Nella ’ndrangheta non ci sono mai stati boss come Totò riina o Bernardo Provenzano a capo di tutte le fami-glie. In Sicilia, pertanto, si ricordano pochissime faide e quasi tutte in tempi remoti. una delle ultime è quella scoppiata in seno ai Greco. da allora i Greco di Ciaculli hanno cercato sempre di distinguersi da quelli di Croceverde Giardini.

Analisi didattica

Il testo n. 2 parla di una cronaca di sangue che dura da sedici anni: la faida di San luca. Nel testo si fa risalire la scia di sangue, come noi stessi abbiamo commentato, a una ragazzata, ovverosia a un lancio d’uova tra i ragazzi di due clan contrapposti.

Chiediamoci, però: è possibile che un lancio d’uova tra ragazzi possa aver costituito un motivo tale da far scatenare una guerra tra clan contrapposti e che dura ormai da sedici anni? o si trattava forse, già è da sempre e comunque, di una lotta per la supremazia di un clan sull’altro?; di una lotta per il potere e per l’egemonia e l’estensione territoriali? In altri termini: si tratta solo di vendetta per l’“onore ferito”, per il “rispetto perduto” o di stragi anche calcolate per garantirsi e aumentare il potere di un gruppo sul-l’altro?

la ferocia dei delitti, che sfocia nel massacro di duisburg, fa

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presumere che, oltre ai motivi di “vendetta” e d’“onore”, la guer-ra tra i clan miri all’egemonia.

In base alla ricostruzione dell’eccidio di duisburg, si è potuto chiarire che prima dell’arrivo dei sicari, a duisburg, nel ristorante “da Bruno”, a cena, c’era stato un summit. Quella notte non si sarebbe solo festeggiato il compleanno (18 anni) di una delle vit-time, ma anche il suo ingresso nell’“onorata società”, cioè un rito d’iniziazione con la cerimonia della copiata.

Testo n. 3:L’iniziazione

dalle cronache di quotidiani:Nell’occasione, il neo maggiorenne sarebbe stato “inziato”

alla ’ndrangheta. Nel portafoglio di Venturi, il ragazzo che lavo-rava da diverso tempo nel ristorante gestito dai fratelli Sebastiano e Giovanni Strangio, e che aveva studiato alla scuola alberghiera di Muelheim, a poca distanza da Duisburg, infatti, è stato trovato, gelosamente custodito, un santino piegato a quattro, con l’im-magine di San Michele arcangelo. L’immaginetta sacra presenta una bruciatura all’altezza della testa dell’arcangelo in una delle sue classiche rappresentazioni. Il reclutamento nella ’ndranghe-ta avviene secondo un rituale prestabilito e rigido; rituale che ha inizio con il “battesimo”. Con tale rito l’aspirante entra a far parte della ’ndrangheta con l’appellativo di “picciotto”. Il “battesimo”, così denominato perché come con il battesimo nella religione cristiana il bimbo entra a far parte della chiesa, pa-rimenti l’aspirante diventa parte dell’organizzazione criminale. Il rito di iniziazione viene celebrato, di solito, alla presenza del numero minimo di cinque picciotti più il “celebrante” che sarà uno “’ndranghetista anziano”. Il rito inizia con le domande del celebrante sulla possibilità di dar luogo alla cerimonia. Ottenuta risposta positiva l’anziano, con “il vangelo” in mano, ammoni-sce i presenti sull’importanza del rito e intima loro di assumere la posizione prevista con le braccia conserte. Il cosiddetto “van-

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gelo” non è quello usato per le celebrazioni cristiane nella chiesa cattolica, ma è un libro dove sono scritte le regole e i rituali del-l’organizzazione criminale. Quindi pronuncia le prescritte frasi: “battezzo questo locale santo, sacro e inviolabile nella stessa ma-niera nella quale lo hanno battezzato i nostri avi dai quali noi di-scendiamo, i cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, e se un tempo era un posto comune da questo momento diventerà un luogo santo, sacro e inviolabile. Se qualcuno non lo ricono-scerà come tale ne pagherà le conseguenze con cinque “zacca-gnate” nella spina dorsale come è scritto sulla regola sociale”. Al termine di questa locuzione l’aspirante verrà sottoposto a del-le prove che serviranno a mostrare agli astanti il suo coraggio di neofita. Si buca un dito di una mano del giurante e il sangue viene versato su una immagine sacra raffigurante San Michele arcan-gelo. L’immagine viene posata sulla mano dello stesso e le si dà fuoco. A questo punto il neofita, che deve sopportare il bruciore, la passa da una mano all’altra fino a totale spegnimento, giura di mantenere fede ai principi della ’ndrangheta.

(Francesco Sorgiovanni, Il Quotidiano, 31 agosto 2007, pp. 6-7)

Testo n. 4:Gli associati ai clan di San Luca - Da un rapporto della po-lizia tedesca

Secondo un rapporto della polizia tedesca agli associati ai clan di San luca appartengono i seguenti 30 ristoranti, 2 hotel, 3 ditte, 2 edifici abitativi:

da Bruno duisburgzur Flotten Theke duisburgda Michele duisburgHotel zum römerwall Geldernla Gioconda duisburgla Gioconda II duisburglandhaus Milser duisburgIl Mercator duisburg

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Sole del Sud duisburgCalabrisella duisburgla Taverna BochumTrinacria Neukirchenrizzo recklinghausenIsola d’Elba oberhausenMama mia oberhausenPizzeria “Toto” oberhausenditta: “römerwall” oberhausenPaganini im Gildehaus Erfurtrossini ErfurtNirta-Giorgi Gbr Erfurtdue case di abitazioni ad ErfurtIl Mulino Erfurtla Trattoria ErfurtWaldhaus ErfurtFellini ErfurtBorsalino ErfurtSchuhgeschäft zumnorde Erfurtditta Food Gbr ErfurtCaravaggio unterschliessheimBei Toni KaarstSportgaststätte deizisauEiscafè/Gelateria BousPaganini (Pizzeria all’impiedi) LeipzigPaganini (Pizzeria e bar) LeipzigPizzeria leipzig

(Calabria Ora, 26 agosto 2007, p. 26)

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Nr. 5:Le cosche in Germania

(Panorama, 20-09-2007, p. 67)

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Testo n. 6: La tregua

Un mese dopo Duisburg stop alla faide nel cuore della Locri-de. Lo hanno deciso i boss in un summit di pochi giorni fa, perché dopo la strage tedesca l’organizzazione ha bisogno di riprendere i propri traffici.

“un mese dopo la strage di duisburg, San luca, cuore feri-to della locride, galleggia in una pace irreale. la faida che la insanguina da anni sembra essersi fermata. Voci, intercettazioni, fonti confidenziali hanno dato un nome a questo tempo sospet-to: tregua. ‘Quei cunni la devono piantare di portare scompiglio’ era stata la parola d’ordine, intercettata a fine agosto in una delle conversazioni sotto controllo. I ‘cunni’, stupidi in dialetto, erano le famiglie impegnate nella guerra di San luca. E così, a inizio settembre, le più importanti cosche della ’ndrangheta, dai Pelle ai Barbaro, dai Condello ai de Stefano, dai Cordì ai Morabito, hanno inviato i loro ambasciatori in una località segreta, con un unico mandato: riportare la pace in Calabria. un vertice voluto da Antonio Pelle, detto Gambizza, uno dei personaggi carismatici nel pantheon dell’organizzazione. Secondo le notizie raccolte da-gli investigatori, l’armistizio sarebbe stato siglato il 2 settembre, data simbolica, in cui gli affiliati onorano la Madonna di Polsi, il cui santuario si trova sopra San luca. la tregua dura da giorni e, presto, permetterà alle ’ndrine di riprendere i traffici, dalla droga al riciclaggio, interrotti, dopo la mattanza di Ferragosto, per l’on-data repressiva delle forze dell’ordine. ‘In realtà il business non si è mai fermato’ fa sapere Ercole d’Alessandro, ispettore capo del gruppo operativo antidroga della Guardia di finanza di Catanzaro, uno dei massimi esperti sul narcotraffico dei clan. ‘Comunque agli occhi delle grandi famiglie la strage di duisburg è stata una mossa sbagliata, un colpo terribile ai loro affari all’estero. Sono tutti molto arrabbiati’ aggiunge Nicola Gratteri, sostituto procu-ratore della repubblica di reggio Calabria, impegnato in prima linea nelle indagini sulla faida. Qualcuno pagherà per questo im-

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previsto? ‘Non esiste il concetto di gratis nella ’ndrangheta’ pre-cisa il magistrato che nel suo libro Fratelli di sangue aveva già denunciato la ferocia senza pari dell’organizzazione”.

(Panorama, 20. 09.2007, p. 66)

Commento didattico:

Il codice della ’ndrangheta*

la ’ndrangheta, a differenza di Cosa Nostra, ha sempre fatto uso di codici scritti, di rituali e di simbologie. Anche recentemen-te, nel corso di controlli e perquisizioni effettuate dalle forze del-l’ordine, sono state ritro vate copie di codici, cioè le trascrizioni – nella maggior parte dei casi re datte in dialetto, con grafie incerte e da persone semi letterate – del rito e del le formule esoteriche attraverso cui si entra nella ’ndrangheta. In questi stessi codici vengono distinti i ruoli interni della ‘Società’, vengono preci sati i compiti e le caratteristiche dei com ponenti, nonché le regole di com portamento degli adepti e le sanzioni in caso di infrazione delle norme sta tutarie.

Il primo codice di cui si ha notizia è quello di Nicastro (1888)2. Esso conteneva «17 articoli riguardanti gli obblighi e doveri degli affiliati, la formula del giuramento, la parola d’ordine per ricono-scersi fra loro e distinguersi da quelli di altra società».

Il primo codice, a finire nelle mani delle forze dell’ordine è, inve ce, quel lo di Seminara (1896).

da allora le forze dell’ordine sono riuscite a recuperare diver-si esem plari di questo importante documento che nel tempo ha mantenuto la strut tura ori gi nale. Scrive il prof. Massimo Baldini, esperto di comunicazione: «Nelle culture orali primarie il sape-

* Queste pagine, relative al codice della ’ndrangheta, sono tratte da Fratelli di San-gue, pp. 79 sgg..

2 Sezione Accusa, Cantafio Vincenzo +53, volume 129, 25 maggio 1888 in E. Ci-conte, op. cit. p. 25.

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re finisce con l’essere trasmesso at traverso formule, frase fatte, proverbi, massime, in breve finisce con l’es sere un sa pere veico-lato in espressioni verbali essenziali o, per meglio dire, quintes-senziali».

Originariamente, per l’affiliato alla ’ndrangheta, che viveva nel mondo della cultura orale, la gerarchia tra i sensi era diversa dalla nostra, in parte gutenberghiana e in parte elettronica. Egli prediligeva l’udito, in quanto mezzo di ricezione orale, piuttosto che l’occhio, strumento necessario per im possessarsi delle infor-mazioni tipiche del mondo della scrittura.

Quello della ’ndrangheta è un codice che bisogna memorizza-re, non è consentito trascriverlo. Purtroppo, per la mafia calabre-se, a questa regola in molti sono venuti me no.

Nel 1902, i carabinieri interrompono una riunione di picciotti e ca morristi a Catanzaro e trovano per terra “due fogli di carta, l’uno col titolo ‘Società della malavita catanzarese’ coi nomi di 80 individui col rispet tivo grado di Presidente o capo-contabile, camorrista e picciotto, e l’altro col titolo ‘Statuto della malavita catanzarese’ con tutte le norme, specie dell’ammissione ed espul-sione”. A rimarcare il carattere esclusivo della ’ndran gheta, lo sta-tuto sequestrato a Catanzaro prevedeva “la esclusione dei pedera-sti, dei mariti traditi, delle guardie di finanza, di città e car cerarie e dei carabinieri, e di coloro che non si siano vendicati della gra ve offesa dell’onore”. da un processo celebrato a Cosenza nel 1903 si ap pren de che un picciotto non è riuscito a diventare camorrista perché tollera va «che la moglie avesse un ganzo» 3.

In quegli anni, molte sentenze della Corte d’Appello delle Cala-brie accertano l’esistenza di questi codici. In un processo del 1902, il briga diere dei carabinieri di Filandari racconta che un imputato gli aveva dettato a memoria lo statuto di un gruppo di picciotti con sede a rombiolo, ma le gati alla “società maggiore” di Monteleo-ne, l’odierna Vibo Valentia. «Era come se recitasse l’Ave Maria, se lo teneva nella mente impresso», spiegò ai giudici.

3 ASCz, Ibidem, 1904, vol. 407, 9 marzo.

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Il terzo codice, dopo quello di Seminara e Catanzaro, viene ritrovato in un materasso di foglie nel 1926 dal maresciallo Giu-seppe Delfino nella zo na di Platì. In questo documento, in tutto tre fogli di un quaderno scritto a mano, si individua la tipologia dei picciotti secondo il grado di ap parte nenza, e cioè: semplice, di giornata, di sgarro, di sangue e liscio. Nel codice ritrovato da Delfino si fa riferimento ai tre cavalieri spagnoli che nell’imma-ginario degli uomini d’onore rappre sentavano rispettivamente: Gesù Cristo, San Michele Arcangelo e San Pie tro. un anno dopo, un codice simile a quello rinvenuto a Platì, è stato se questrato a Gioiosa Jonica durante una perquisizione domi ciliare.

Agli inizi degli anni Trenta, alcuni fogli di carta su cui erano scritte, nel gergo della delin quenza, le norme della costituzione e i diritti e do veri degli appartenenti alla camorra e dei vari gradi gerarchici, vengono alla luce durante un’altra perqui si zione do-miciliare. l’accenno è conte nu to in una sentenza del Tribunale di reggio Calabria del 16 luglio 1931.

Nel 1963, un altro codice viene scoperto dalla polizia a San Gior-gio Morgeto, in provincia di reggio Calabria dall’allora tenente dei carabi nieri Giuseppe Galatà che comandava la compagnia di Tau-rianova. Era cu sto dito gelosa mente nell’abitazione di un vecchio boss del luogo. l’importante documento san civa gli stessi scopi e prescriveva le medesime sanzioni con tenute negli sta tuti preceden-ti. lo statuto di San Giorgio Mor geto differisce, però, in qualche punto, come spiega Francesco Ca racciolo. Esso specifica meglio lo sco po di garantire agli affiliati il mutuo soccorso e sancisce un altro intento primario e fondamentale, che non è presente negli statuti ri-trovati in precedenza, molto simili a quelli della Camorra, e cioè di di fen dere il de bole contro il forte. Non esclude, inoltre, la ne cessità di pro curarsi il so stentamento, di ottenere un certo lu cro mediante l’esa zio ne di tangenti sulle vincite e taglie da ottenere anche con la violenza contro la pro prietà e le persone. Lo statuto, infine, sotten-de l’ob bligo di dividere il rica vato secondo la di screzione dei capi e stabili sce di dover tutelare l’inte grità e la si cu rezza dell’associa-zione me dian te severe sanzio ni e dure puni zioni da in fliggere a chi tradisce o deflette.

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Altri due statuti vengono sequestrati a Gioia Tauro e a Sant’Eu-femia. Il primo viene rinvenuto a casa di un sicario della ’ndran-gheta dall’allora com mis sario di polizia Gaetano Vasta; il secon-do viene trovato dal capo della Mobile di reggio Calabria del tempo, Alberto Sabatino, nell’abita zio ne di Angelo Violanti, boss di Sant’Eufemia d’Aspromonte 4.

documenti simili sono stati sequestrati anche in Canada e in Australia, dove la polizia dei due Paesi ha individuato la presenza di organizzazioni criminali legate alla ’ndrangheta.

Quello ritrovato a Toronto nel 1971 ripropone lo schema degli altri codici precedenti. Si ispira ai “tre vecchi cavalieri di Spagna, primi fondatori di camorra, che hanno lavorato ventinove anni per fondare le regole so cia li”. Nella parte del rituale che spiega come “vincolare la favella”, cioè come impegnare l’affiliato alla logica del silenzio, il codice ritrovato a Toronto fa riferimento ai “due Fratelli Medici Cosimo e damiano”. Il codice conferma anche l’esistenza della co piata, come referente di ciascun affiliato: «Voi pigliate conto e sotto con to della mia copiata, io piglio conto e sotto conto della vostra copiata».

Sempre in Canada, a london, nel 1985 la polizia federale è riuscita anche a filmare un rito di iniziazione.

Sul video le immagini scorrono nitide, anche se i raggi del sole, filtran do attraverso le tapparelle abbassate, sfocano i profili. Cinque uomi ni si av vicinano al tavolo, parlottando tra loro a voce bassa, qua e là taglia ta da una grossa risata. Quando nella stanza entra il “mastro di cerimo nia” cala il silenzio.

È un filmato eccezionale, unico nel suo genere, che per la pri-ma volta, al di là delle finzioni cinematografiche, getta uno squar-cio di luce sulle for mule di iniziazione mafiosa, su cui ormai, da tempo, esiste una diffusa letteratura.

le immagini risalgono al 1985, quando un agente dell’rcmp,

4 Molti collaboratori hanno descritto agli inquirenti le regole della ’ndrangheta. un codice venne dettato a verbale il 22 gennaio del 1960 al capitano dei carabinieri di Pal-mi, De Salvo, da un affiliato alla cosca locale. Importante, nella ricostruzione di questi documenti, è stata anche la collaborazione del pentito Pino Scriva.

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le Giubbe rosse, Giovanni Persichetti, dopo essersi guadagnato la fiducia dei fratelli zangari, viene invi tato a entrare in un locale di ’ndrangheta. Per mesi a veva acquistato e ri venduto cocaina, grazie all’aiuto di un altro agente sottocopertura che fre quentava l’ippodromo di london, una città dell’on tario. Persichetti con-vince i suoi futuri “confratelli” a celebrare il rito di iniziazione nel suo appartamento, per l’occasione attrezzato di telecamere e microfoni.

dopo le varie raccomandazioni sul tema dell’onore, della fe-deltà alla famiglia e della vendetta che colpisce, ineluttabilmen-te, chi tradisce, Persi chetti sulla lama di un coltello, recita una formula in uso nella ’ndrangheta sin dalla fine dell’Ottocento: «Mangerò con i miei compagni e dividerò con essi giusto ed in-giusto, carne, pelle, ossa e sangue fino all’ultima goc cia. Se fal-lirò ogni macchia d’onore sarà a carico mio e a discarico della società». Tutto avviene sotto l’occhio asettico delle te lecamere che filma no anche la cena a base di pescestocco, una particolare lavorazione del merluzzo, secondo le più antiche tradizioni della mafia calabrese.

Scrive il Raggruppamento Speciale Operativo (Ros) dei Cara-binieri: «la ’ndrangheta ha sempre conservato l’originale carat-terizzazione re gio nalista, connotata da riti e linguaggi ad elevato contenuto simbolico. lo statuto, che è alla base del rito dell’in-vestitura e che diventa il rife rimento per ogni decisione gestio-nale della cosca, ricorre, infatti, ad un linguaggio criptico, in cui appaiono inserimenti lessicali campani, allit terazioni ed al legorie che conferiscono un alone di mistero ed un coin volgimento e motivo analogo a quello presente in molte antiche ag gre gazioni militari e religiose».

Per il ros, «il Codice diventa uno stru mento che assicura il sen-so di appartenenza all’organizzazione, con ferendo alle decisioni in-terne una legittimazione vissuta intimamente da tutti gli affiliati». Ed ancora: «Il rito ed il suo linguaggio permettono la condivisione di potere, attribui sco no il senso di sicurezza e di protezione e rap-presentano, in un contesto di de grado culturale ed economico, la rivalsa dall’umile condi zione e l’e man ci pazione della società cri-

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minale calabrese. ogni ordina mento […] si fonda sull’effettività del valore del linguaggio».

Il ros conclude, precisando che «dalle testimonianze rese da più af filia ti alla ’ndrangheta, emerge il rispetto incondizionato per le regole e la totale assimilazione del lin guaggio della cosca, che generano un’im me desimazione generale dell’uo mo nella struttu-ra criminale di appar tenen za».

Il codice ritrovato nel 1989 nel covo del superlatitante Giu-seppe Chilà conferma i cambiamenti avvenuti nella ’ndrangheta dopo il summit di Montalto. Il documento è diviso in tre parti.

la prima è dedicata alla società di sgarro e ai suoi rituali. I riferimenti storici sono ai mitici cavalieri di Spagna e ai tre pre-sunti assassini di San Michele Arcangelo, Minofrio, Misgrizzi e Misgarro. Il giuramento è quel lo tradizionale che impegna il neo-fita a spartire con gli altri “fratelli di san gue” tutto ciò che pos-siede, fino all’ultimo millesimo, e a difendere la socie tà di sgar ro fino all’ultima goccia di sangue, precisando che ogni infamità o mac chia d’onore avrà ripercussioni personali e non intaccherà l’organiz zazione nel suo insieme.

Nella seconda parte si parla di Vangelo. E, oltre a Gesù Cristo, i re ferenti sono i tre magi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. I fratelli si im pegnano a “non partecipare a nessuna società […] tranne il Sacro Van ge lo”.

Il carattere esclusivo di questo nuovo organismo si coglie me-glio nella terza parte, quando si parla esplicitamente della Santa. Ai re magi su bentrano Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe (sic) la Mar mora e nel giuramento il neosantista si im-pegna a “rinnegare la società di sgarro e qualsiasi [altra] organiz-zazione”. È un passaggio epocale nella sto ria della ’ndrangheta.

Altri tre codici nel 1990 vengono sequestrati a rosarno, la-mezia Ter me e a Valle fiorita, nei quali, oltre al “Conte Avignone, Fiorentino di russia e Cavaliere di Spagna”, si fa riferimento ad un certo Salvatore Bal zano, il quale avrebbe “scoperto la Camor-ra sull’isola di Favignana”. Altri codici, invece, citano il Conte ugolino.

Infine, un codice inedito, del quale pubblichiamo la versione

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integrale in appen dice, è stato scoperto, per caso, nella sof fitta di una abitazione di Prestinace nel 1975.

Anche se il contenuto di questi statuti sembra essere un sug-gestivo re taggio del passato o semplicemente materiale di ricer-ca antropologica, re cen tis si me indagini hanno confermato che la ’ndrangheta continua a farne uso, tanto da poter affermare che non vi è “locale” in Calabria e negli in sediamenti fuori della Ca-labria che sia privo di un codice 5.

In una conversazione intercettata il 5 maggio del 2005, un uomo di Careri viene ascoltato mentre riferisce allo zio residente in Australia parti colari importanti sull’organigramma della ’ndri-na, a cui appartiene. Ven gono forniti molti dettagli sulla cerimonia di iniziazione, utilizzando ter mini inequivocabili, come “mastro di tirata”, “capo di società”, “mastro di giornata” e “contabile”6.

Ha scritto Vincenzo Macrì, sostituto della direzione nazionale antimafia e uno dei magistrati più attenti nell’analisi di questa organizzazione crimi nale: «Ancora oggi [...] quei riti, quelle for-mule, sono osservate come cen to anni fa, nel l’o vile di Platì, come nei rioni di reggio Calabria, nel retro dei bar di Buccinasco, come nelle fattorie australiane, ovunque insomma la ’ndrangheta esprime la continuità della sua presenza, della sua attività, del suo proselitismo, della sua espansione. Anche nel rispetto dell’iden-tità del passato va ricercato uno dei motivi di tale sorprendente capacità di sopravvivenza, di continuo rinnovamento, di rapido adeguamento al muta mento delle situazioni esterne»7.

le diversità dei vari statuti se ci sono, sono marginali e mai sostanziali, dovute molto probabilmente alla trasmissione orale, l’unica ammessa, che in certa misu ra può comportare modifiche e varianti. le parole sono pesate e le allusioni sono profonde, così

5 Tracce dei riti di iniziazione sono state documentate recentemente in un’indagine condotta in liguria e durante un’intercettazione ambientale condotta in Calabria.

6 Guardia di Finanza, Comando Compagnia di locri, relazione conclusiva Proce-dimento Penale nr. 1231/2005 r.G.N.r. ddA.

7 Direzione Nazionale Antimafia, La ’Ndrangheta. Vincenzo Macrì.

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come i dialoghi intrisi di metafore, ma anche di una gestualità di grande interesse antropologico.

raccontano i pentiti di ’ndrangheta che i codici rappresentano degli strumenti formidabili per assi curare il senso di appartenen-za all’organizza zione, ma anche per dare al rapporto associativo una sua legittimazione, fondata su pretesi sentimenti di onore e di superiorità.

C’è, però, una cosa che i codici non spiegano e riguarda l’ele-zione o la nomina dei livelli più alti della gerarchia ’ndrangheti-sta. Non sappiamo come si diventa contaiolo o capo-bastone, se per nomina o per elezione, né quale rituale si segue. Sul finire dell’ottocento, si trova scritto in due sentenze che il capo-bastone veniva “eletto a maggioranza di voti” e che “dovendosi presce-gliere il capo, appellato anche capo-bastone, riunivansi tutti i soci e facevasi la così detta causa del Tronco dell’albero con vota zione franca, libera a teste scoperte”.

Poi non si è più saputo nulla.

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LE UNItà DIDAttIChE:

Storia e Struttura della ’ndrangheta

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Introduzione

lo schema (’Ndrangheta - origini, cause ed evoluzione del fe-nomeno, cfr. p. 34) col quale apriamo all’unità didattica sulla “sto-ria della ’ndrangheta”, raccoglie tutta una serie di informazioni e dati sulla ’ndrangheta che, nel lavoro con gli studenti, sono prezio-si per portare alla luce e analizzare non solo le origini lontane del “fenomeno” criminale, che va sotto il nome ’ndrangheta, ma an-che per evidenziare e discutere gli intrecci che sono esistiti, già da sempre, tra ’ndrangheta e politica e tra ’ndrangheta ed economia.

lo schema storico fornisce, inoltre, anche un quadro delle guer-re intra-’ndranghetiste per il predominio di alcune famiglie sulle altre, nonché una descrizione dei contatti e dei patti di riappacifi-cazione tra più forme di organizzazione criminale (Cosa Nostra siciliana e Camorra napoletana), che se da un lato riguardano il controllo sempre più rigoroso del territorio, dall’altro interessano direttamente le possibilità di consolidamento e di espansione del-la gestione del grande traffico soprattutto della droga.

Nel capitolo 1° (si vedano anche i grafici pp. 50 e 60), accanto alla “storia” della ’ndrangheta, si offre un quadro delle figure che formano le basi della “famiglia” ’ndranghetista o della picciotteria. Appartengono alla “famiglia” della picciotteria i fratelli maggiori (o camorristi) e i fratelli minori (o picciotti). Il boss è il capo-ba-stone. I “giovani d’onore” si dividono in picciotti lisci e picciotti di sgarro; per la “promozione” si versava al puntaiolo la dritta che veniva utilizzata per il pranzo che si consumava assieme a tutti gli “affiliati” (si veda grafico p. 47). La “carriera” si apre con il “rito

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d’iniziazione” (rito valido oggi ancora, vedi pp. 18-19) che sigilla il patto di fedeltà, il rispetto dovuto, ovverosia: l’accettazione del-le regole ferree che devono assicurare l’assoluta omertà.

Intorno a queste regole di sangue, come l’onore e la vendetta, si è creata una sorta di giustificazione della ’ndrangheta. Come dire: lì dove lo Stato è assente, si sviluppano fenomeni di “auto-giustizia”, di esaltazione del coraggio individuale (il “farsi rispet-tare”), la difesa del proprio onore, ecc..

Ma la ’ndrangheta lotta per la difesa di valori umani? Può l’omi-cidio essere un valore? Ci può essere una criminalità buona? una criminalità della giustizia? la vendetta è un atto di giustizia?

Qualche altra domanda su cui si può discutere:Gli omicidi sono atti di giustizia, atti, cioè, che confermano

“i valori della tradizione contadina”? di quale onore, di quale rispetto si fa carico la criminalità organizzata della ’ndrangheta?

Se si passa dai cenni storici alla storia attuale delle ’ndrine (= le famiglie della ’ndrangheta) balza subito agli occhi l’identica struttura ferrea che costituisce la ’ndrangheta; siamo, infatti, so-stanzialmente sempre all’interno di “famiglie” (’ndrine) e, quin-di, sempre all’interno dell’omertà assoluta di cui si diceva sopra. Tant’è vero che l’Onorata Società (o picciotteria) dispone di un proprio tribunale col quale dimostrare l’ineluttabilità e l’inevita-bilità delle punizioni che infligge (cfr. p. 47).

Ma, oltre a smascherare il falso onore di cui si serve la ’ndran-geta, il capitolo 1° fa capire che tra ’ndrangheta e politica c’è stato sempre un rapporto d’intesa. la ’ndrangheta ha trovato negli am-bienti di potere, nelle istituzioni e in non poche figure istituzionali, possibilità di ramificazione, di auto-tutela, di co-partecipazione. Il capitolo 1° permette, quindi, una riflessione, anche e soprattutto, retrospettiva sulla storia della ’ndrangheta, attraverso cui gli stu-denti possono rendersi conto che la ’ndrangheta non si è fatta mai (quindi tanto nella sua genesi, quanto nel suo svilupparsi, consoli-darsi ed espandersi) portatrice di “valori umani”. In altri termini: non c’è stata e non c’è una ’ndrangheta buona. Tutt’altro: si può dimostrare, infatti, che le nozioni di fedeltà, dignità, rispetto, ono-

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re, utilizzate in seno alla ’ndrangheta non sono regole in difesa dell’uomo, ma regole che difendono gli interessi criminali e parti-colari delle ’ndrine. Non solo: ma che, in non pochi casi e quando è ritenuto necessario, sono regole da applicare contro altre ’ndrine. la guerra tra le ’ndrine è anche, soprattutto, scontro di sangue per la supremazia e l’egemonia sui territori e sugli affari. di onore non c’è traccia. Tanto è vero che dalle guerre tra le ’ndrine si passa alla pace o ai nuovi accordi tra le ’ndrine (si veda sopra anche il testo n. 6, La tregua, pp. 22-23), lì dove sono a rischio gli interessi cri-minali di queste organizzazioni (si vedano nello schema iniziale e nei testi qui successivi, le nuove intese, i nuovi accordi).

Questi contesti di lotta, anche all’interno delle ’ndrine, sono documentati nel capitolo 3º (L’urbanizzazione della ’ndranghe-ta). Il capitolo mette in evidenza le trasformazioni all’interno della struttura ’ndranghetista, nonché i passaggi dall’uno all’altro modello di gestione dell’organizzazione criminale. da un lato le divisioni e le gerarchie (si noti le divisioni tra santisti e sgarri-sti), dall’altro il bisogno vitale di unitarietà e coesione all’interno dell’“onorata società” e l’allargamento degli intrecci con altri po-teri (per esempio: la destra eversiva, i legami con la massoneria deviata, quindi con magistrati, poliziotti, politici, avvocati, ecc.). un’analisi attenta del capitolo, che studenti e docenti possono sviluppare nelle forme didattiche che riterranno utili (lavoro di gruppi, analisi individuali o lettura a cui partecipa tutta la classe direttamente), mostra peraltro che le “lotte” interne portano a nuo-ve forme di organizzazioni (lotta tra l’ala tradizionalista (gli sgar-risti della ’ndrangheta contro la società di santa) e a mutamenti anche dei riti d’iniziazione (i cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso vengono sostituiti dalle figure massoniche Gari-baldi, Mazzini, La Marmora). Fondamentale è, però, la fusione che viene a crearsi tra massoneria e ’ndrangheta che permetterà a quest’ultima di infiltrarsi direttamente nelle istituzioni. Far parte della massoneria significava e significa essere rappresentati di-rettamente nelle istituzioni, quindi non solo consolidare il potere, ma creare una forma di simbiosi tra ’ndrangheta e politica. Se a questo intreccio tra mafia e politica si aggiunge che la ’ndranghe-

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ta intensifica i rapporti con Cosa nostra e le famiglie mafiose di Palermo e Catania, allora balza agli occhi ciò che nel capitolo è considerato il “salto di qualità” della ’ndrangheta: da un lato la conquista dei traffici di sostanze stupefacenti (dal Medio oriente al Nord-Africa), dall’altro le mani sulle opere pubbliche, o me-glio: l’accesso ai poteri politico-amministrativi e il controllo dei traffici marittimi (illegittimi: contrabbando di sigarette, ecc.).

I capitoli quattro e cinque offrono a docenti e studenti infor-mazioni significative sulle due “guerre di mafia” nelle quali la ’ndrangheta “agro-pastorale” scompare definitivamente e si crea-no nuovi assetti per la gestione mafiosa che vanno dal traffico di stupefacenti alle risorse pubbliche (appalti), al pizzo, alla guardia-na e al controllo del mercato del lavoro. le guerre servirono, in ultima analisi, a consolidare i rapporti dei gruppi criminosi emer-genti con la Nuova Camorra Organizzata di raffaele Cutolo e con Cosa Nostra. In questo intreccio, si prospettò, non da ultimo, uno scontro frontale con lo Stato, ma la ’ndrangheta più che a scontri diretti con lo Stato e le istituzioni mira ad entrare nelle istituzioni, a mantenere ed ampliare i contatti con logge massoniche, politici, istituzioni deviate (vedi soprattutto capitolo cinque): il suo uni-co scopo è e rimane la massimizzazione dei profitti, mettendo le mani sul potere politico ed economico.

Se, ad una lettura attenta del terzo capitolo, si legano le in-formazioni e i dati contenuti nei capitoli quarto e quinto, gli stu-denti possono sviluppare un quadro dell’ascesa gigantesca della ’ndrangheta a forza istituzionale. In questo quadro si potrebbero raccogliere le voci più significative di questo passaggio:

l’ascesa della ’ndrangheta

dimensione politica dimensione economica............................................... ...................................................

Intreccio tra

Politica e Economia................................................ ................................................

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La divisione territoriale Commento e programmazione didattica

la ’ndrangheta, inizialmente, era (a partire dalla seconda metà dell’Ottocento) un fenomeno ristretto alla provincia di Reggio Calabria. A partire dagli anni Sessanta, ciò che sembrava un fe-nomeno limitato e ristretto alla Provincia di reggio ha raggiunto un grado di espansione tale da penetrare non solo anche nel Cen-tro e nel Nord d’Italia, ma da estendersi ed espandersi anche in molti paesi stranieri. I dati presenti nei capitoli sei, sette, otto e nove mostrano che non si può parlare più di un “fenomeno” di criminalità accanto ad altri fenomeni criminosi, ma di una strut-tura criminale organizzata che non conosce frontiere e capace di imporre razionalmente ed internazionalmente (si veda schema p. 130) il suo dominio.

Il capitolo settiMo offre a docenti e studenti un’analisi serrata relativamente alle ’ndrine calabresi e tutta una serie di cartine che documentano la diversificazione e gli intrecci dell’espansione di questa organizzazione criminale. Al grafico iniziale (La divisione territoriale, p. 112, che spiega la divisione della Calabria in tre mandamenti) abbiamo fatto seguire, come si diceva sopra, sin-gole cartine della criminalità organizzata (del raggruppamento Speciale Operativo di Reggio Calabria): – cartina della criminalità organizzata di Reggio Calabria (p. 128)– cartina della criminalità organizzata della provincia di Catan-

zaro (p. 129)– cartina della criminalità organizzata della provincia di Cosenza

(p. 130)

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– cartina della criminalità organizzata della provincia di Vibo Va-lentia (p. 131)

– cartina della criminalità organizzata: Area tirrenica (p. 129)– cartina della criminalità organizzata: Area Jonica (p. 128).

le cartine si possono trasformare in lucidi e si può avviare una riflessione sulla capacità di estensione della ’ndrangheta. Le car-tine mostrano che la ’ndrangheta è ormai padrona di tutto il terri-torio calabrese e che gli affari criminali vanno dallo sfruttamento della prostituzione ad attività estorsive, dai traffici di stupefacenti al mercato delle armi. I dati mostrano ancora che la ’ndrangheta è penetrata fortemente nel sistema produttivo e nelle amministra-zioni comunali e che non trascura i mercati immobiliari, le attività finanziarie e i grandi appalti pubblici.

diamo uno sguardo, intanto (si veda cap. 7 - appendice), al-l’elenco delle cartine che tracciano le linee centrali dell’espansio-ne della criminalità organizzata nel “resto d’Italia” e che offrono una possibilità per approfondire l’espansione e gli intrecci siste-matici di queste organizzazioni :

– cartina della criminalità organizzata: Marche– cartina della criminalità organizzata: Toscana– cartina della criminalità organizzata: umbria– cartina della criminalità organizzata: liguria– cartina della criminalità organizzata: Piemonte, Valle

d’Aosta– cartina della criminalità organizzata: Veneto– cartina della criminalità organizzata: lombardia– cartina della criminalità organizzata: Emilia romagna

Nel cap. sette - appendice si è voluto mettere a disposizione di docenti e studenti tutta una serie di cartine (mappature) che loca-lizzano la criminalità organizzata per mettere in evidenza che la ’ndrangheta non è circoscrivibile ad una singola regione e non si può, pertanto, combattere in quanto fenomeno singolo, isolato. la ’ndrangheta, invece, è ormai una struttura tendente ad occupare tutto il territorio. In una formula si potrebbe dire: la ’ndrangheta

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non combatte lo Stato, la ’ndrangheta vuole sottomettere lo Stato, vuole, quindi, sostituirsi allo Stato. Cosa ciò possa significare per le istituzioni, in particolare, e per la democrazia, in generale, è un punto centrale della discussione che docenti e studenti non pos-sono fare a meno di avviare, in quanto sono in gioco la libertà, i diritti, il futuro di tutti noi e delle generazioni future.

Prima di avviare questa discussione, è consigliabile a docenti e studenti di tenere presenti alcuni dati significativi sul giro d’affari di questa organizzazione criminale (cfr. cap. ottavo pp. 137 sgg.). Nel grafico (p. 139) si parla di 22,3 miliardi di euro l’anno nel settore del traffico di droga; di 4,7 miliardi di euro nel settore de-gli appalti pubblici e della compartecipazione in imprese; di 4,6 miliardi di euro nel traffico di armi e nel giro della prostituzione; di 4,1 miliardi di euro in estorsioni e usura per un volume com-plessivo annuo di 35,7 miliardi di euro l’anno. Il grafico, inoltre, evidenzia anche altre attività affaristiche: smaltimento di rifiuti solidi e urbani, ma anche tossici e radioattivi, nonché il traffico di esseri umani e il lavoro nero.

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CAPITolo 1º

Le origini della ’ndrangheta*

Sulle origini della ’ndrangheta si sono fatte molte ipotesi. Il no-me fa rebbe pen sare a un etimo greco. Il linguista Paolo Martino so-stiene che ’ndran gheta de ri verebbe dal greco classico, quello parla-to nella zona di Bo va, in provincia di reggio Calabria, e preci sa men-te da andraga thos che significa uomo coraggioso, va lente 1. In mol-te zone del reggino il verbo ’ndranghi tiari, dal greco andra gati zo-mai2, significa as sumere at teg gia men ti ma fio si, spavaldi, valorosi.

Già nel periodo della Magna Grecia, individui valenti e co-raggiosi a vevano dato vita alle cosiddette hetairiai, associazioni in parte segrete di cit ta di ni che, non di rado, conseguivano i loro scopi con mezzi di intimida zio ne e anche con l’eliminazione fisica degli avversari. Molti secoli dopo, in un documento car tografico risalente al 1595 si è scoperto che una vasta area del regno di Na poli, comprendente parti delle attuali regioni della Cam pania e della Basilicata, era nota come Andragathia region, terra a bi tata da uomini valorosi.

In Calabria, la ’ndrangheta, o meglio un’organizza zione cri-minale con tratti simili a quelli che oggi caratterizzano la mafia

* dal libro Fratelli di sangue di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, 11ª ed., Pelle-grini, Cosenza, 2007.

1 P. Martino, Storia della parola ’ndrangheta, in AA.VV., Le ragioni della mafia, Jaca Book, Milano, 1983, p. 124.

2 Il verbo andragatizomai – atteggiarsi a uomo valoroso – è stato usato anche da Tucidide, Aristotele, diodoro Siculo, Plutarco e Polibio.

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calabrese, ha comin ciato a farsi notare all’interno del processo che ac compagna la formazione del lo sta to unita rio.

Nel luglio del 1861 le carceri di reggio Calabria sono infestate di ca morristi e, qualche anno dopo, in una lettera inviata al pre-fetto della città del lo Stretto viene sollecitato l’ar resto di “ladri e camorristi” che a Gal lico «tirano e fanno tirare fucilate di notte ed uccidono cittadini che si la gna no contro di loro per furti, e soprusi che commettono» 3. Non è però un fe no meno ristretto solo alla città di reggio Calabria.

Nel 1877 a Nicastro, l’odierna lamezia Terme, viene condan-nato un cer to Giovanni Guzzi, già recidivo e “ammonito come ozioso, vagabondo e camorrista” mentre nel 1884 la Corte di Ap-pello delle Calabrie si pro nun cia in merito al ricorso presentato da tre imputati in precedenza am mo niti “per maffia e camorra” 4.

uno dei documenti più interessanti di quel periodo riguarda una lettera anonima scritta al prefetto di reggio Calabria, France-sco Paternostro, nel la quale viene denunciata la presenza di un’as-sociazione di criminali do tata di riti di iniziazione che per stabilire ruoli e gerarchie ricorreva con tinuamente alla tirata, una ver sione ru sticana e ple bea del duello, praticata anche nel napoletano5:

Iatrinoli (l’odierna Taurianova, nda): paese di circa 3.000 abbitanti sempre concorde e pacifico da cinque anni a questa parte per una as so cia zione di malfattori camorristi chia mati in paese picciotti si trova al maggior segno demo-ralizzato. Spesso nelle pub bliche vie e piazze succede la tirata per mantenere il pubblico in aggitazione e mostrare nel tempo stes so che la setta nulla teme: la Tirata viene fatta ad arte picciottesca e succede senza ferimento quin-di impunita. […] Il Calabrese che per sua in dole tende al Brigan taggio vedendono che restano impuniti il furto: la

3 A. Nicaso, Alle origini della ’ndrangheta: la picciotteria, rubbettino Editore, So-veria Mannelli, 1990, p. 7 (ASRC, Gabinetto di Prefettura, Inv. 34, B. 39, fasc. 199).

4 ASCz, Procedimento Guzzi Giovanni +2, v. 245, 4 settembre 1877.5 A. Nicaso, op. cit., p. 9. ASrC, Gabinetto di Prefettura. INV. 34, B. 52, fasc. 691.

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violazione del tetto coniugale, l’atten tato al Pudore […] sperezza qua lun que diritto, in guisa che la setta oramai si e stesa su lunga scala. ogni giorno si battezzano picciotti facendo lauti pranzi; e se così continuerà: per l’anima del Sindaco: che S. Filippo Neri, Patrono del paese, si farà battezzare Pic ciotto […].

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Proprio dal nome dei suoi affiliati, l’organizzazione criminale che, in quegli anni, comincia ad affermarsi nelle province di reg-gio Calabria e Ca tanzaro, viene definita Picciotteria. Essa ha ca-ratteristiche simili a quel le della Camorra che, a sua volta, aveva tratto spunto dalla Garduna, un’as sociazione co sti tuita a Toledo intorno al 1417 e aperta a elementi di ogni condizione sociale. Il termine garduna in spagnolo significa faina, l’a stuto animaletto che dà la caccia ai topi e insidia continuamente i pollai.

È possibile pensare che i prodromi della Picciotteria siano da ri-cercare proprio nel perio do della dominazione spagnola in Italia e in particolare in quelle attività delittuose regolarmente impunite di bravacci legati ai poten tati fondiari. Il fatto che non ci sia traccia di documenti prima del 1861 non significa che la Picciotteria, come la mafia, sia nata dal nulla, improvvi samente. È vero simile ritene-re che essa sia il risultato di un lungo pe rio do di incuba zione, che ha dato vita ad altri fenomeni di delinquenza or ga nizzata, come gli spanzati nel vibonese, di cui parla Giuseppe Maria Ga lanti già nel 1792 nel suo “Giornale di viaggio in Calabria”.

Non sembra invece esserci alcuna analogia con il brigantaggio – a nar chico, tanto da perdere spesso il senso delle proporzioni – che ha ca ratte ristiche diverse rispetto alla ’ndrangheta e alle al-tre organizzazioni cri mi nali, tendenti sempre all’ordine e al com-promesso. Inoltre, il brigantaggio è un fenomeno legato alla crisi del latifondo. la picciotteria invece attecchisce nelle zone meno povere della Calabria, quelle ricche di oliveti e vigneti.

Sulla Garduna, progenitrice, o quanto meno ispiratrice del-la Camorra, si sofferma diffusa mente un comandante del Corpo degli Chasseurs des Al pes dell’esercito francese, il quale, dopo l’occupazione napoleonica, vie ne in pos sesso di uno degli statuti dell’organizzazione sorta a Toledo.

«Qualunque uomo onorato che sia fornito di buon occhio, di buone o recchie e di buone gambe, e che non abbia lingua – recita l’articolo 1 del codice di questa setta, stilato nel 1420 6 – può dive-

6 F. Caracciolo, Miseria della mafiologia, Monduzzi Editore, Bologna, 1992, pp. 38-39.

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nire mem bro della Gar duna. Potranno dive nirlo pure le persone rispettabili di una certa età che desidereranno servire la confrater-nita, sia tenendola al cor rente delle buo ne operazioni da farsi, sia dando i mezzi per eseguirle».

Miguel Cervantes, nella novella “rinconete e Cotardillo”, rac-conta di queste confraternite cofradias che allignavano a Toledo, a Siviglia, ri ferendoci di uomini d’onore che esigevano una parte di vincite (bara to) nelle case da gioco, ma anche di organizzazioni, come quella che fa ceva capo a Monipodio, do tata di codici e ge-rarchie – fratelli maggiori (co frades mayors) e novizi (no viciado) – specializzata in vendette private.

Proprio questa distinzione, tra fratelli maggiori e minori, com-pare il 16 luglio 1890 in una sentenza pronunciata dal Tribunale di reggio Cala bria7. Si riferisce alla Picciotteria che già allora era strut turata su due li velli so vrapposti l’uno all’al tro per ga ran tire al me glio il carattere di se gre tezza e di sicurezza. del primo fa-cevano parte i camorristi, del secondo i pic ciotti.

Il boss o capo-bastone era Paolo Scu dieri, un sarto di 37 anni. l’orga nizzazione annoverava numerosi giovani d’o nore, picciotti lisci e di sgarro, che dovevano “mo strar si pro clivi a delinquere contro le persone e le proprietà”. Sorprende l’attualità di certi ri-tuali. Per la promozione a camorrista, il picciotto di sgarro dove-va versare al puntaio lo, il cassiere-se gretario dell’associazione, la drit ta, una quota non meglio specificata, che, come spiegano i giudici nella sentenza, «veniva utilizzata per pre pa ra re un pranzo al quale erano invitati tutti gli affiliati».

Facevano parte della cosiddetta Minore, oltre al puntaiolo, an-che il picciotto di giornata che aveva il compito di tenere i con-tatti con i singoli componenti, distribuire gli incarichi e svolgere funzioni di raccordo.

C’erano anche giu ra men ti e rituali, come quello che regolava l’am mis sione dei picciotti lisci, prima dote della società minore: «la mia votazio ne franca e libera, ed affermativa per ricono-

7 A. Nicaso, op. cit., p. 9. ASrC, Tribunale di rC. Anno 1890, vol. 3.

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Locale – Entità territoriale di almeno 49 affiliati

Gerarchia della ’ndrangheta

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scere in carne, pelle ed ossa per mio fedele compagno N.N. e spartire con lui fino al l’ultimo centesimo, difenderlo giusto ed ingiusto qui ed in qualsiasi pun to ci possiamo incon trare. Quindi il bacio».

le norme erano rigi dissime e comportavano “fedeltà, rispetto e aiuto scam bievole, […] denuncia e sfregio delle spie oltre che […] addestra men to al maneggio delle armi per la propria di fesa e l’altrui offesa”.

Aderire alla Picciotteria non significava soltanto ac cettare que-ste re gole, ma anche la loro spietata applicazione.

da allora, sul piano ordinativo nulla è cambiato.È del 1897, una sentenza del Tribunale di Palmi, nella quale

si fa rife rimento, per la prima volta, all’esistenza di un codice, scoperto a Semi nara8 e “con te nente tutte le regole, sia in rapporto all’ammissione di co loro che inten de vano prendervi parte ed in-dicati di poi col nomignolo di Picciotto, sia in rapporto agli obbli-ghi inerenti, ed ai lucri e prebende, che si ripar ti vano a secondo i gradi”.

Tutto si basava, come spiega ai giudici il maresciallo Michele roc chetti, comandante della stazione dei carabinieri di Seminara, sulla forza di coe sione del gruppo, caratterizzata da stretti vincoli di parentela o di af finità, che assicurano assoluta omertà ma anche solidarietà nel momen to del bi sogno e, in particolare, assistenza legale agli affiliati arrestati, sussidi eco no mici ai loro familiari e, non di rado, corresponsione di stipendi fissi e prebende. Nel codice di Seminara, viene più volte sottolineata l’impor tanza del-l’omertà, cioè la capacità di essere uomo che costituisce uno dei tratti fondamentali della Picciotteria, assieme alla segretezza, alla violenza omi cida, al collegamento con i pubblici poteri e al ta-glieggiamento di pro prietari e commercianti.

Spiega Enzo Ciconte: «l’omertà è [...] lo scudo pro tettivo, la vendetta lo stru mento per non incrinare tale difesa, la fami glia

8 A. Nicaso, op. cit., p. 12. ASCz, Sentenze Penali, Corte d’Appello delle Calabrie, Anno 1897, vol. 364, 31 maggio.

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il mezzo per vinco lare gli associati e impedire eventuali tradi-menti»9.

In quegli anni, la violenza era l’unica industria fiorente in Ca-labria. E la Picciotteria rappresentava, per i ceti subalterni, “una forza di recupero so cia le”10. Il picciotto era temuto e perciò ri-spettato; e questa era la sua ri valsa nei confronti di una socie-tà che prima lo aveva respinto, tenendolo ai mar gini. lo scopo, allora come oggi, era quello di conquistare ricchezza e po te re, due valori cumulabili. Ma anche, come scrive in un rapporto del 1901, Vincen zo Mangione, delegato di pubblica sicurezza a Santo Stefano d’Aspromon te11, «farsi rispettare, nel senso che la Pic-ciotteria dà a questa frase, vale a dire, imporsi ominamente con l’intimidazione, con la prepo ten za, con la minaccia…».

dopo il cosiddetto “decennio felice”, nel quale, durante gli anni ottan ta dell’ottocento, si era notato un ampliamen to delle terre messe a coltura e un attivismo dei massari – la nuova bor-ghesia –, un’altra crisi agraria ri metteva in gi noc chio la provincia di reggio Calabria, mandando sul la strico molte famiglie conta-dine.

Proprio in quegli anni si registra un’impennata di abigeati, fur-ti di le gname, di frutta e di erbe varie che, come spiega Gaetano Cingari, «da soli mo stravano la direzione di base del ceto rurale e il conflitto con la bor ghesia terriera che si era appropriata delle terre demaniali».

Gli unici a trarre qualche beneficio sono i massari che avevano co min ciato a utilizzare i primi picciotti come scherani, una sorta di cuneo tra il vecchio ceto domi nante e i contadini, al centro di una rete di presta zioni che andava sem pre allargandosi, attraverso la capitalizzazione del l’onore, del rispetto e del la violenza.

Allo ra, il bisogno di protezione e l’insicurezza erano pre valenti

9 Enzo Ciconte, ’Ndrangheta: dall’Unità a oggi, Editori laterza, Bari, 1992, p. 10 S. Gambino, Mafia. La lunga notte della Calabria, Quaderni Calabria-oggi, Ser-

ra San Bruno, 1976, p. 34.11 A. Nicaso, op. cit., p. 19, ASrC, Gabinetto di Prefettura, INV. 34, B.57, fasc.

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in Cala bria, una regione segnata dall’assenza dello Stato, ma so-prattutto del senso dello Stato.

osserva Mariano Meligrana 12: «Non che il gabellotto (mas-saro) di per sé coincida esau stivamente col mafioso (’ndrangheti-sta), ma i suoi com por tamenti per uscire dalla ‘pendolarità’ socio-economica, connessa alla man canza di un orizzonte produttivo autonomo, anticipano esemplar mente la prassi e la tipicità com-portamentale mafiosa».

In un secondo momento, il gabellotto (massaro) rompe il suo ruolo di me diazione, la precarietà sociale della sua posizione e va a sostituirsi al pro prietario. un transito, questo, che è comune a molte società contadine. Spie ga Henner Hess: «Ad una parte dei ceti medi, a cui si impedisce di di ventare borghesia moderna, si apre la prospettiva della cooptazione nella clas se dominante con l’accesso alla proprietà terriera, passando attra verso la trafila del-la ‘gabella’ che consente di sfruttare e ta glieggiare i contadini».

È questo il terreno nel quale germina la picciotteria, ma più che la picciotteria i picciotti con la loro retorica e la loro ideolo-gia, basate sul l’o nore, cioè sulla capacità di farsi giustizia da soli e sull’esaltazione del co raggio individuale.

Sono proprio l’onore e la vendetta ad ispirare la leggenda che fa da sfondo alla ’ndrangheta come “cosa”, come mentalità, come compor ta me n to individuale e poi come organizzazione criminale diretta a pra ticare la vio lenza organizzata.

Si narra che nel Seicento su una nave partita dalla Spagna si erano im barcati tre nobili cavalieri costretti a fuggire per aver la-vato nel sangue l’onore di una sorella sedotta. Sbarcati sull’isola di Favignana, Osso, vo tandosi a San Giorgio, decide di restare in Sicilia dove fonda la mafia, Mastrosso, devoto alla Madon-na, si trasferisce in Campania dove orga niz za la Camorra, mentre Carcagnosso, con l’aiuto di San Michele Arcan gelo, pun ta sulla Calabria dove dà vita alla ’ndrangheta.

12 l. M. lombardi Satriani, M. Meligrana, Un villaggio nella memoria, Casa del libro, reggio Calabria.

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Qualcosa di simile è suc cesso anche in Cina con le triadi che, secondo la leggenda, sarebbero state fondate da tre monaci buddi-sti che avevano deciso di ribellarsi alla dinastia dei Manchù. Sto-rie simili popolano l’im magi nario dei wakashu o dei chimpira, i picciotti della Yakuza, la mafia giap po nese, sviluppando una sorta di i dentità collettiva che permette agli affiliati di riconoscersi tra di loro.

Nel caso della mafia calabrese, il modello organizzativo ricalca quello delle società patriarcali. la famiglia, detta anche ’ndrina, è la cellula pri maria della ’ndrangheta. Essa è formata dalla fami-glia naturale del capo-bastone, alla quale se ne aggregano altre, non di rado con un qualche gra do di parentela anche se, general-mente o perlomeno inizialmente, in mo do subalterno, formando il “locale”, su cui fino a qualche decennio fa non esistevano autorità sovraor di nate.

In Calabria, infatti, non c’è mai stato un capo di tutti i capi, sul modello di Cosa Nostra, forse proprio a causa della particolare conformazione oro grafica di questa regione, frammentata e divi-sa, con difficoltà di collega mento tra un versante e l’altro. Tutto ciò ha influito sullo stesso svi luppo della ’ndrangheta che è nata come struttura orizzontale, fortemente radi cata nel territorio, e priva di un comando unico 13. Ciò non toglie che vi sia no stati (e vi sono tuttora) rapporti fra le diverse ’ndrine, che sebbene au-tonome, non hanno disdegnato alleanze, scambi o contatti quasi sempre ri conducibili alla gestione di interessi comuni o a logiche di potere.

Fino a qualche anno fa l’unico elemento di raccordo è stata l’annuale riu nio ne che si tiene a Polsi in occasione della tradi-zionale festa in onore della Madonna della Montagna nel mese di settembre e della quale si trova traccia in documenti giu diziari già agli inizi del Novecento.

Così il capitano dei carabinieri Giuseppe Petella scrive nel

13 L’ambito delle ’ndrine, nonostante la loro portata numerica e l’influenza dei loro boss, è sempre stato territorialmente definito, quindi circoscritto.

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1903 rife rendosi ad una cosca operante nella zona di Africo, San luca, Casalnuo vo, S. Stefano e Bruzzano14:

«risulta evidente il vincolo esistente tra le varie società delit-tuose, la corrispondenza tra i membri di esse, ed il luogo ove si riunivano che era il Santuario della Madonna di Polsi posto quasi nel centro dei circondari di Gerace, reggio e Palmi».

In quella stessa indagine, gli inquirenti si avvalgono anche di un col laboratore, il quale racconta di aver fatto parte dell’Onorata Società, un altro nome con cui veniva identificata la Picciotteria, confermando, tra l’altro, l’esistenza di una costituzione forma-le (e, quindi, una struttura con organi gerarchicamente ordinati), nonché di un ordinamento giuridico con un sistema compiuto di istituti, norme e sanzioni: «Colui che tradiva la società era stipato arbitrariamente (sospeso) da colui che scopriva il tradimento o la mancanza; l’affare si portava quindi al Corpo di Società, cioè a tutta la società riunita che si costituiva in Tribunale. Il Capo fungeva da presi dente, i sottocapi da giudici, si esaminavano i testimoni, i camorristi facevano d’Avvocati l’uno nell’interesse dell’imputato, l’altro della Società. le pene variavano secondo la gravità della mancanza, e consistevano nella espulsione dalla so-cietà, nella ingiuria mercé getto di sterco in fac cia, nello sfregio, e nell’omicidio».

delle sanzioni previste dal codice della ’ndrangheta riferisce anche un de tective della Pinkerton Agency, un’agenzia privata americana che per con to della polizia di Hillsville, in Virginia nel 1906 si era infiltrato per diciotto mesi in una presunta orga-nizzazione criminale guidata da un certo rocco racco ed attiva in quella cittadina. oltre a sottoporsi al rito di ini ziazione che

14 A. Nicaso, op. cit., p. 31, ASCz, Sentenze Penali, Corte d’Appello delle Calabrie, 1904, Vol. 406, 13 febbraio. di Polsi si parla anche nel procedimento penale contro Giovanni Italiano ed altri, imputati di associazione per delinquere nonché dell’omicidio di Giuseppe Priolo, ucciso in contrada Palmento di Podargoni la sera del 29 aprile 1954. In sede di confronto, due degli imputati – Giuseppe Priolo, detto il vecchio, e Fortunato Musolino – spontaneamente parlano, nel tentativo di addossarsi reciprocamente certe responsabilità, di un affiliato del loro ‘locale’ da inviare a Polsi quale delegato.

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poi racconterà con dovizia di particolari, l’investigatore pri vato segnalò l’esistenza di puni zioni, come le zaccagnate, ferite non profonde con la punta di un col tello, e l’uso di escrementi “per umiliare co loro che non si erano attenuti alle regole sociali”15.

Spiega il giudice Saverio Mannino: «la ’ndrangheta tende sempre ad accreditarsi, nei confronti dei suoi affiliati così come presso i suoi interlocutori esterni, per l’ineluttabilità delle sue de-cisioni e l’inevitabilità delle punizioni irrogate» 16.

I picciotti sono al centro di questo complesso sistema di valori e di regole. Essi devono necessariamente farsi riconoscere, come succe de con gli affi lia ti alla Yakuza che ricorrono ai tatuaggi o alle bande dei moto ciclisti che sulle spalle portano lo stemma del-la loro organiz zazione. oggi, molti criminali sfruttano l’imma-ginario condiviso, ricorrendo al cinema per costruirsi un aspetto riconoscibile 17.

Sul finire dell’Otto cento, come rilevano i giudici del Tri bunale di Ni castro18, i picciotti «portavano i capelli alla mafiosa; vesti-vano per lo più, onde riconoscersi, pantaloni larghi, e cappelli a cencio».

Corrado Alvaro, descrivendo questo particolare comportamen-to dei gio va ni picciotti, ne dipinge un quadro vivacissimo19: «Si facevano cre sce re le basette e il ciuffo, assumevano un’andatura dondolante e un po’ le ziosa, portavano a volte un fazzoletto di

15 A. Nicaso, l. lamothe, Angels, Mobsters and Narco-terrorist, the Rising Mena-ce of Global Criminal Empires, Wiley, Toronto, pp. 14-18. l’esistenza delle zaccagnate, come sanzione, è confermata anche nel codice della ’ndrangheta rinvenuto a Toronto, Canada, nel 1971.

16 AA.VV., Criminalità nuova in una società in trasformazione: Il Novecento e i tempi attuali. - La ’ndrangheta nella realtà attuale, Saverio Mannino, p. 372.

17 Nel Nord America, molti giovani mafiosi hanno tratto spunto dall’abbigliamento e dall’atteggiamento dei protagonisti di film per la tv, come ‘I Soprano’ per vestirsi e farsi riconoscere.

18 A. Nicaso, op. cit., pagine 38-39. ASCz, Ibidem, Anno 1897, Vol. 336, 14 ago-sto.

19 l. Malafarina, La ’Ndrangheta, Il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i perso-naggi, Gangemi Editore, roma, 1986, p. 87.

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colore rigirato con molta cura attorno al collo, con annodature raffinate».

Poi col tempo, queste abitudini sono venute meno, così come i tatuaggi, gal loni acquisiti durante la gavetta carceraria. Proprio nel carcere, già nel l’ottocento, si comincia a fare uso del baccag-ghju, un linguaggio con venzionale attraverso il quale gli ’ndran-ghetisti riescono a comunicare. Nel 1897 una prostituta spiega ai giudici il significato di alcune espres sioni tipiche del baccag ghju: «marca carnente è la donna innamorata; maggiorigna, la matrona che gestiva il postribolo; strambola, la sera; putri mento, il let-to; mutria, la faccia; sopracielo, il cappello; sfer ra, il pugnale; cerino, il coltello; lam panti, gli occhi; fangose o ca mi nanti, le scarpe; putea, la questura, zaffi, le guardie, carrubbi, i ca rabinieri; sciacche, le prostitute; muffa, il fazzoletto; ’ntiuno, l’o ro logio; capezza, la catena; gra sciume, l’oro; sfoglio se, le ban conote, e maniglie, le vecchia lire»20. Molti anni dopo a questo glossario si sono ag giunte altre espressione, come l’utri ca fos sa, cioè l’o-micidio, la pena comminata ai traditori.

C’era anche un linguaggio non verbale, quello dello sfregio, un lin guag gio sul corpo, non del corpo, spesso più eloquente di mille parole, che si afferma come deterrente. un tempo si usava il rasoio e spesso le con troversie venivano dirimate attraverso la tirata, il duello con sferra e spec chio. la sferra serviva per col-pire e lo specchio per abbagliare l’avversario, rendendone meno efficace la difesa.

Il linguaggio convenzionale degli ’ndranghetisti era detto a mascolo, da maschi, visto che la pic ciotteria e scludeva l’affi lia-zione delle donne, ri tenute pance molli, cioè incapaci di tenersi dentro i segreti della consor teria.

Sulle donne, però, non sono mancate le eccezioni. In una sentenza del Tribunale di Palmi del 1892, si parla del loro coin-

20 ASrC, Sentenze Penali, Tribunale di reggio Calabria, Anno 1897, vol. VI, 7 settembre. In un altro procedimento, i giudici così scrivono: la società non aveva uno statuto scritto, ma vi era un certo linguaggio convenzionale». ASCz, Ibidem, 1990, Vol. 385, 12 luglio.

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volgimento in un’or ga niz zazione criminale della Piana di Gioia Tauro21: «Vestite da uomini, pren devano parte alla perpetrazio-ne de’ furti ed altri reati». A svelare questo im por tante aspetto ai magistrati di Palmi è rosaria Testa, accusata di asso ciazio ne a delinquere assieme a Concetta Muzzopapa, entrambe di rosar no, rico noscendo che «le donne ammesse [nella Picciotteria] doveva-no pur esse pre stare giuramento, facendosi uscire il sangue del dito mi gno lo della ma no destra». Non è un caso isolato. A Santo Stefano d’A spro monte, la po lizia sco pre che la Picciotteria del luogo aveva anche una se zione fem mi nile e il coinvolgimento delle donne trova riscontro anche in altre sen tenze a Ni castro, dove il capo-bastone del luogo durante le ope ra zioni not turne che si concludono con furti, porta con sé la propria co gnata “armata e ve stita da uomo”22. dal 1880 al 1906 in Calabria ven gono con dan-nate per associazione a delinquere dieci donne, altre otto, in vece, ven gono pro sciolte in appello o in istruttoria.

È, comunque, un fenomeno ristretto, tra reggio Calabria, il circondario di Palmi e Nicastro.

oggi, le donne oltre ad assolvere compiti di assistenza, facen-do da tra mite tra i congiunti detenuti e il resto del gruppo familia-re, svolgono un ruo lo meno remissivo.

da un’analisi della dia, nel 2000 emerge la presenza di 255 donne tra i 7.358 presunti affiliati alla ’ndrangheta nella provin-cia di reggio Cala bria23. E sempre nel 2000 due sorelle, nipoti di un vecchio padrino della ’ndran gheta, vengono coinvolte in una inchiesta e sospettate di essere a ca po di una cosca operante a Taurianova. Altre operazioni mettono a nudo il nuovo ruolo della donna, non più vivandiera o prostituta24.

21 A. Nicaso, op. cit., p. 11, ASCz, Ibidem, Anno 1892, Vol. 336, 9 settembre.22 E. Ciconte, ’Ndrangheta: dall’Unità ad oggi, laterza, Bari, 1992, p. 81, ASCz,

Costanzo Antonio +9, vol. 406, 27 febbraio 1904.23 Direzione Investigativa Antimafia, La ’Ndrangheta nella provincia di Reggio Ca-

labria, 2000.24 Nell’operazione ‘Fiori della notte di San Vito’ è emersa la figura di Maria Mo-

rello, descritta come la sorella d’omertà della lombardia. Spiega il pentito Calogero

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Per definire l’ibrida condizione della “donna mafiosa”, fatta di “lealtà verso le leggi non scritte dell’organizzazione criminale, ma soprattutto di in tima adesione al la propria dipendenza dall’uomo violento e alla propria deresponsabi lizza zione come individuo”, la sociologa renate Siebert par la di “compli cità palesi”25.

Centrale è, invece, il ruolo della donna nelle faide, nella logica del sangue che chiama sangue. Sono le madri ad alimentare la vendetta per ché ad esse è tradizionalmente affi data la custodia della memoria e quindi dei morti. E sono sempre le donne a tra-smettere la cultura e le regole ma fiose ai propri figli. Il vincolo di sangue, infatti, non serve solo a proteggere la famiglia mafiosa, ma anche a rafforzare il potere della cosca.

’Ndranghetisti, per esempio, non si diventa soltanto per me-rito, ma an che per nascita. Nell’aprile del 2003, nel corso di una intercettazione, la figlia di un boss della ’ndrangheta ha ammesso che la propria affiliazione era avvenuta per “discendenza”.

Scrivono i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di reggio Calabria26: «…l’età minima per essere iniziati e diventare picciotti è di 14 anni, anche se prima di questa età i figli degli affiliati vengono sottoposti ad una forma di iniziazione a seguito della quale si dice che sono ‘mezzo dentro e mezzo fuori’».

Certi padri, davanti a familiari e consoci, come ricorda Anto-nio zagari, ponevano vicino alle mani del bimbo, appena nato, un coltello e una gran de chiave, quelle di una volta. Si tratta di un’usanza con cui gli appar te nenti alla ’ndrangheta volevano ve-rificare, a seconda di quale oggetto il neo nato avrebbe toccato,

Marcenò: «Tale carica, che esiste in ogni regione, è affidata ad una donna, che nel caso della lombardia è Morello Maria, che ha il compito di dare assistenza ai latitanti del-l’organizzazione. Nel caso della Morello […] posso dire che la stessa è inserita a pieno titolo nell’organizzazione ed ha la dote di santista che è la più elevate che una donna può avere all’interno della ’ndrangheta. Faccio presente che nella regione può esserci una sola donna componente del clan, che assume la dote di santista e svolge per l’ap-punto le funzioni di sorella d’omertà».

25 r. Siebert, Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 221.26 Procedimento penale a carico di Condello Pasquale ed altri, nr. 46/93 r.g. d.d.A.

reggio Calabria.

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la repubblica, 17 agosto 2007, p. 10

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se fosse diventato malandrino oppure sbirro. Il coltello simboleg-giava la ’ndrangheta, la chiave invece la ‘sbirraglia’. In realtà, la chiave veniva collocata un po’ distante in modo da non poter es se re toc cata27. un’altra usanza era quella del capo “locale” che quando andava a fare visita al nascituro, con una forbicetta gli ta-gliava le unghie. Era la prima forma di affiliazione: il bambino da quel momento diventava una piuma. Gesti carichi di simbolismi.

la ’ndrangheta è pedante nell’osservazione delle regole, ma è anche persuasiva, coercitiva. Come molte altre organizzazioni criminali, essa è una società segreta di cui tut ti devono co noscere l’esi stenza. Scrive Man gione28: «la minaccia, com presa talo-ra nella forma più vaga, esercita, tale influenza sull’animo del minacciato, che egli si piega subito a tollerare, fare od omettere qual che cosa, perocché sia nota a tutti l’e sistenza della società segreta detta Pic ciotteria, la quale è ca pace di compiere vendette, come danneggia menti, incendi, sfre gi, omicidi, senza che perciò i colpe voli temano i rigori della leg ge, sapendo essi sfuggire alle indagini di po lizia giudiziaria con alibi ingegnosi, con prove te-stimoniali false e con minacce di mor te fatte ai te sti moni del de-litto; ove per avventura se ne trovino».

Già allora – siamo nel 1901 – questo solerte investigatore, che dava la caccia al bandito Giuseppe Musolino, comprende che la forza della Picciot teria trae origine dall’interazione, se non ancora identificazione, con am bienti di potere 29: «Sono personalità poli-tiche, avvocati, medici, possi denti, dei quali sorprende la buona fede; e queste persone rispettabili, cui ven gono presentati i fatti, larvati dal sentimento di giustizia, finiscono, per spiegare la loro attività nell’interesse dei raccomandati, i quali, se col pevoli di un reato, con queste raccomandazioni, con le false testimo nianze che apprestano, con le abili difese che si procurano, spesso rie-

27 A. zagari, Ammazzare stanca, Periferia, Cosenza, 1991, p. 728 A. Nicaso, op. cit., p. 20, ASrC, Gabinetto di Prefettura, INV. 34, B. 57, fasc.

850.29 A. Nicaso, Ibidem.

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scono a sfuggire a una condanna; e quando proprio non possono sot trarvisi, per la irrefragabilità delle prove della loro reità, il di-scarico li dipinge onesti, delinquenti d’occasione sventurati, per attenuare il rigore della legge; ed anche dopo una mite condanna, con le medesime influenze, ottengono non di rado la grazia».

oggi, come allora, le relazioni esterne costituiscono la forza, la capacità di adattamento, di radicamento e di diffusione dei ma-fiosi: una sorta di ca pitale sociale, senza il quale la ndrangheta non sarebbe stata e non sarebbe ’ndrangheta.

la certezza della continuità nel tempo trova riscon tro in una sentenza del Tribunale di Palmi del 22 novembre del 1923, nella quale la Pic ciot teria viene paragonata “ad un grande albero di cui il tronco sa rebbe rap presentato dal saggio maestro, le radici ed i rami dai ca morristi, le foglie ed i fiori dai picciotti” 30.

Quattro anni dopo, una sentenza del Tribunale di reggio Ca-labria fa pro pria la confessione di un imputato che, agli inquiren-ti, aveva raccontato il giuramento prestato durante la cerimonia di inizia zio ne 31: «Giusto ap pun to stamattina, cu’ permessu du ca-murrista capu in testa, ferro rovente, coltello tagliente, puntaruolo a mano gi rante, passo la mia prima vota zione: di fronte a noi vi è una tomba coperta di fiori, colui che violerà il segreto, riceverà nel petto cinque pugnalate».

Identico il cerimoniale descritto da Martino lizzi, un picciotto che nel 1937 era entrato a far parte dell’onorata Società nella zona di Siderno, A gna na e Canolo. Scrivono i giudici del Tribu-nale di locri 32: «Egli vi entrò per in vi to del capo Macrì Antonio di Giuseppe e del sottocapo raso rocco fu Giuseppe; il battesimo era avvenuto di notte, in località Vallone di Tri goni, con l’inter-

30 Saverio Mannino, op. cit., p. 400.31 Saverio Mannino, op. cit., p. 401. Sentenza Tribunale di reggio Calabria, 29

marzo 1927 (Schimizzi Giacomo +64, associazione a delinquere costituita nel comune di Melito Porto Salvo negli anni 1919, 1920, 1921).

32 Sentenza Tribunale di locri, 20 marzo 1937, Macrì Antonio +12, associazione a delinquere costituita in Siderno, Agnana e Canolo fino al 14 aprile 1936. Determinante ai fini del processo la confessione resa ai carabinieri da Martino lizzi, ex picciotto.

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vento di quasi tutti i soci, avanti ai quali egli, poggiando la mano sulla punta di un coltello impugnato dal sottocapo raso, giurò so len nemente ripetendo le parole pronunciate dal detto raso, di man te nere il silenzio più assoluto; che la regola della detta società era la cie ca ubbi dienza ai capi ed erano comminate le pene della sospensione, dello schiaffeggiamento e della espulsione per le in-frazioni disciplinari».

Trova anche conferma l’impianto strutturale della picciotteria, rispetto a quello ricostruito nell’ultimo ventennio dell’ottocento. In una sentenza del 1933, i giudici del tribunale di reggio Cala-bria, avvalendosi della testimo nian za di un ex affiliato, scrivo-no 33: «la Società si divide in Società Maggiore e Società Minore. Quella Maggiore è composta di camorristi, e la Minore di picciotti di sgarro e giovani d’onore. la prima è guidata dal ca po di Socie-tà, scelto dai compagni camorristi, la seconda da un capo gio vane. Presso la Società Maggiore e la Minore vi è un contaiolo (conta-bile), scelto tra i camorristi o picciotti capaci. La Società Mag-giore si di vi de in Società in testa o Gran Criminale e in Società i ’ndrina. Il capo del la Società in testa è chiamato capo in testa ed è sempre un camorrista e me rito. la Società i ’ndrina è quella dei quartieri, rioni ecc. la società Mi nore è alla diretta dipendenza della società Maggiore. In ogni rione o quartiere vi è un camorri-sta capo i ’ndrina, un contabile e un camor ri sta di giornata per la società Maggiore ed un capo giovane, un con tabile ed un picciotto di giornata per la società Minore. Il picciotto di giornata ha l’ob-bligo di presentarsi ogni mattina al ‘capo giovane’ per comunicar-gli le novità e ricevere gli ordini; il camorrista di giornata ri ferisce gior nalmente al contabile oppure al ‘capo i ’ndrina’ tutte le no vità, e questi le comunica al ‘capo società’. I gradi sociali sono: fiorillo o giovane d’o nore, picciotto di sgarro, camorrista, contaiolo, capo so cietà. I camorristi emeriti, distin tisi per bravura, sono chiamati camorristi di seta. Questi u ltimi agiscono dietro le quinte; ordina-

33 Saverio Mannino, op. cit., p. 402, Sentenza Tribunale di reggio Calabria, 6 aprile 1933, n. 174 pronunciata nel processo penale a carico di Spanò Demetrio +106.

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riamente nelle imprese delittuose non compa riscono. Il contaiolo custodisce gelosamente la ba cinella, cioè il luogo do ve è riposta la camorra. la società si può formare anche in car cere, sempre che vi siano gli elementi, e comunica con l’esterno a mezzo delle fibbie, i compagni cioè dimessi dal carcere o che vi entrano. le regole ed i simboli della Società sono: l’umiltà, la fedeltà, la poli-tica, la falsa politica, le carte, il coltello e lo specchio. umili verso i compagni, fedeli alla Società, la politica per usarla con i conso-ciati, la falsa politica con gli sbirri e gli infami (tra ditori), le carte per transigere la ‘camorra’, il coltello per difendere la Società, ed infine lo specchio, o rasoio, per pu n ire gli infami ed i traditori. I vari associati si debbono amare recipro ca mente, e debbono il più as soluto rispetto ai superiori. le punizioni pos sono essere lievi o gravi, a secondo della mancanza; vanno dallo stipa mento (cioè priva zione di ogni attività, senza diritto alla camorra), allo sterco sul volto, allo sfregio, all’accoltellamento ed alla morte».

Insomma, non manca la continuità, anche se oggi si tende so-prattutto a mitizzare il passato.

Spiega luigi Maria lom bardi Satriani, ordinario di Etnolo-gia all’università “la Sapienza” di roma: «Non esistono valori buoni che siano anche mafiosi». Così come non c’è mai stata una ’ndrangheta nella quale sussistevano valori di fedeltà e di digni-tà tra persone appartenenti allo stesso clan in contrapposizione a quella di oggi caratte riz zata da una sanguinaria de re gu lation all’insegna dell’arricchimento fa ci le. Spiega ancora lombardi Satriani: «Certo, si può parlare di differenze da un punto di vista dia cronico tra una mafia vecchia e una nuova, ma solo per co-gliere i cambiamenti nel loro divenire e non per legittimare una a disca pito dell’altra».

Cambiano le modalità, le tecniche, i settori di attività, ma re-stano i tratti, come il ricorso all’intimidazione e alla violenza omicida, ma soprat tutto la capacità di combinare rigidità formale ed elasticità ope rativa, un mix di continuità e innovazione. Senza questa flessibilità la ’ndrangheta sa rebbe scomparsa con il feudo e non si sarebbe riambientata in una so cie tà urbanizzata e ad econo-mia prevalentemente terziaria e suc cessiva men te in un contesto

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sempre più internazionalizzato e finanziario. Questa capacità di adattamento ha portato a creare forme associative meno rigide, soprattutto all’estero, dove non sempre è stato possibile ricreare lo humus cul turale e sociale nel quale dalla metà dell’ottocento attecchisce la ’ndran gheta.

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CAPITolo 2º

La struttura della ’ndrangheta

È stato Francesco Fonti, ex affiliato alla cosca di Siderno, pre-cedenti per dro ga, a gettare, negli ultimi anni, un fascio di luce sulla struttura della ’ndran gheta.

«Sono nato a Bovalino [nel 1948] da genitori artigiani», ha di-chiarato ai magistrati il 26 gennaio del 1994 1. «Mio padre aveva una piccola fab brica di mobili per ufficio assieme al fratello Ferdi-nando, mia madre era casa linga. Ho conseguito la maturità scien-tifica al Liceo Zaleuco di Locri e poi mi sono iscritto alla facoltà di Matematica e Fisica dell’università di Mes sina e dopo un anno sono passato alla facoltà di Economia e Com mercio, ma non sono riuscito a laurearmi. Frequentando il Liceo Scien tifico a Lo cri ho conosciuto personaggi come Bartolo Pietro, Cordì Pie tro, Catal-do Pep pe, Modafferi Mimmo. Fu quest’ultimo a raccoman darmi presso il lo cale di Siderno nel quale sono stato ‘rimpiazzato’».

Fonti ha raccontato di essere stato iniziato nel 1966 in un ca-solare in con trada Mirto nel comune di Siderno «alla presenza di un compare di Ma crì Antonio, di professione gioielliere, anziano, proprietario di una gioielleria sul Corso principale di Siderno». Poi ha tracciato i lineamenti della mafia ca labrese che territorial-men te, si articola in “locali”, “cosche” e “’ndrine”.

1 Interrogatorio di Francesco Fonti, 26 gennaio 1994 alla presenza del dott. Vincen-zo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia, a Roma in un luogo di detenzione extracarceraria non specificato.

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la cosca o ’ndrina si fonda in larghissima misura su una fami-glia di sangue. Più cosche, legate tra di loro, danno vita al ‘loca-le’, che costituisce l’unità fondamentale di aggregazione mafiosa su un deter minato territorio, quasi sempre coincidente con un vil-laggio o con un rione di una città.

Per la costituzione del locale è necessaria la presenza di alme-no 49 af filiati. Ogni “locale” è diretto da una terna di ’ndrangheti-sti, detta “co pia ta”, quasi sempre rappresentata dal capo-bastone, dal contabile e dal capo cri mine. la copiata deve essere dichiarata ogni qualvolta un affiliato si presenta in un ‘locale’ diverso da quello di appartenenza oppure qualora venga richiesta da un affi-liato gerarchicamente superiore. La prassi è fina lizzata ad evitare potenziali infiltrazioni esterne.

Il contabile, oltre alle finanze e alla divisione dei proventi, si occupa della cosiddetta “baci letta”, cioè la cassa comune dove af-fluiscono i proventi delle attività criminali, mentre il “capo crimi-ne” è responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di tutte le azioni delittuose. Sia il conta bile che il capo crimine de vono, in ogni caso, agire ottem perando alle disposizioni del capo-ba-stone.

Il capo-bastone generalmente possiede una propria famiglia naturale di note vole ampiezza, la quale, a sua volta, fa parte di un aggregato di parentele naturali anch’esso molto vasto. la relazio-ne interna di base dei gruppi mafiosi calabresi è basata sul vincolo di sangue. Esso tende ad im porsi su ogni altro tipo di relazione, e col tempo avvolge in mo do sempre più vincolante tutti i membri del gruppo criminale, data la pra tica sem pre più diffusa dei ma-trimoni interni ai gruppi mafiosi – una ve ra e propria “endogamia di ceto” – che caratterizza soprattutto la mafia della provincia di Reggio Calabria e la rende sempre più chiusa alle in fluenze ed ai con tatti con la società legale. In un comune della fascia jo nica, nel secolo scorso, discendenti di due famiglie di ’ndrangheta si sono sposati, incrociandosi quattro volte.

Spesso i matrimoni vengono utilizzati per ricomporre faide san gui nose o per creare aggregazioni più forti. È successo anche agli inizi degli anni ottanta con le nozze tra Venanzio Tripodo,

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figlio di don Mico Tripodo, uc ciso nella prima guerra di ma fia, e Teresa Romeo, la figlia di Sebastiano romeo, detto ’u Staccu, boss di San luca ed alleato dei de Stefano.

la stessa famiglia de Stefano si è ulteriormente rafforzata nel 1992, do po il matrimonio tra il figlio di Paolo de Stefano e la figlia di Franco Coco Trovato, uno dei boss più potenti della ’ndrangheta in lombardia.

Funzionali a logiche di potere erano state anche le nozze nel 1985 tra orazio de Stefano e Antonietta Benestare, la nipote di Gio vanni, Giusep pe e Pasquale Tegano.

Nulla è cambiato, come ha accertato il ros di reggio Calabria durante una indagine, condotta tra il 2001 e il 2003. Nel corso di una intercettazione su una utenza domestica a Buccinasco, gli in-quirenti sono venuti a conoscenza dei risentimenti di una giovane donna di Platì, costretta a unirsi in matrimonio con un corregio-nale emigrato in lombardia: «Stavo tanto bene con l’altro e mi hanno fatto sposare con te», ha sbottato la donna, parlando con il marito.

Scrivono nella informativa di reato, il tenente colonnello Va-lerio Giar dina e il tenente Gerardo lardieri: «la vi cenda in esa-me ci riporta indietro di molti an ni, quasi all’epoca me dioevale, allorquando i matrimoni tra i discen denti dei regnanti venivano stipulati a base contrattuale ai fini dell’espan sione e compattezza territo riale…» 2.

Il possesso di una famiglia numerosa e l’appartenenza ad un clan hanno sempre rap presentato elementi indispensabili per la sopravvivenza e la ri pro duzione del proprio potere. le cosche co-stituite intorno ad un singolo in di vi duo – per quanto abile egli possa dimostrarsi nella costruzione di reti di amicizia, di clientele e di interesse – sono caratterizzate da una intrin se ca fra gilità che le porta a decadere e soccombere rapidamente.

2 raggruppamento Speciale operativo dei Carabinieri di reggio Calabria. Informa-tiva di reato relativo a indagini connesse alla disarticolazione di aggregati criminali di Platì (RC), condotte tra il 2001 ed 2002 e coordinate dal Ten. Col. Valerio Giardina e dal Ten. Gerardo lardieri.

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Se si analizza la composizione interna di alcuni tra i più po-tenti “locali” della odierna Calabria meridionale, si rileva come nessuna di esse ri sulta composta, nel suo nucleo fondamentale, da meno di due fratelli.

Nel 1999 su un campione di 47 gruppi mafiosi del circondario di Locri, ben 43 erano costituite da cosche con almeno 3 affiliati legati da vincoli pa rentali e 17 da nuclei con almeno 10 cugini di primo grado o fra telli3.

ogni capo ha potere di vita e di morte sui suoi uomini e ha diritto all’obbedienza assoluta. È pur vero, comunque, che per co-mandare il capo-bastone ha bisogno del consenso, non solo della propria organizza zione, ma anche dell’ambiente nel quale opera.

Quando l’inviato delle potenti ’ndrine di San luca, la cosid-detta “mamma” 4, va a trovare Antonio Cordì di locri, coinvolto nella faida con i Cataldo, non usa mezzi termini. «Totò stai atten-to che [...] quando il popolo vi va contro perdete quello che avete fatto in questi trent’anni! lo perdete!... Quando si buca alla sara-cinesca, a quello gli bruciano la mac china a quello un’altra cosa, il popolo incomincia a ribellarsi”5.

Quella del “capo-famiglia” o capo ’ndrina è una carica che si tra manda ge neralmente di padre in figlio. Esso ha il potere di “rimpiazzare”, cioè af filiare, anche elementi esterni alla famiglia anagrafica. Per uffi cializzare l’adesione di questi nuovi associati c’è però bisogno dell’ap provazione del capo-bastone, a cui costo-ro devono essere presentati durante una riunio ne del “locale” che

3 Analisi degli autori su dati anagrafici relativi a 47 gruppi operanti nella Locride. Gli affiliati esaminati sono stati 1.885, per una media di 40,10 per gruppo.

4 Prima della nascita della commissione provinciale, le riunioni di Polsi costituiva-no il momento di assunzione delle deliberazioni più importanti. la località di Polsi ri-cade nel territorio di San luca e tale collocazione ha assegnato storicamente al ‘locale’ di San luca il ruolo di ‘sede centrale’, di centro propulsore, di punti di riferimento per gli innumerevoli ‘locali’ di ’ndrangheta sparsi nel mondo, di “Mamma” della ’ndran-gheta.

5 operazione Primavera citata nell’ordinanza n. 38/97 GIP Santalucia, relativa a misure cautelari nei confronti di Cordì domenico, 2 marzo 1998, Tribunale di reggio Calabria.

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avviene, per regola, generalmente a fine mese, di sabato, all’im-brunire. Il “capo-famiglia” può anche tenere segreto il nome di al cu ni suoi affiliati.

Quando una ’ndrina raggiunge il numero di cinquan ta-sessanta affiliati che hanno in comune la stessa “copiata”, il capo-famiglia può costituire la cosiddetta “’ndrina distac cata”, che, come spie-gano i pentiti, «è una esten sione del concetto di co sca, la quale cresce di importanza e si ramifica sul territorio».

In origine, il numero massimo di ’ndrine che potevano esse-re distaccate da un locale erano sette, con il passare del tempo, grazie agli enormi pro fitti realizzati dalle cosche con il traffico della droga, le ’ndrine hanno co minciato a proliferare a dismi-sura, per cui questa regola non ha avuto più senso. Si pensi che già nel 1986, secondo le stime dei nuclei investi gativi, le ’ndrine distaccate erano ben 144. Comunque, il ‘distaccamento’ deve es-sere autorizzato dal locale principale, la cosiddetta “Mamma” di San luca, cui ogni capo ’ndrina deve ver sare una quota annuale, spesso sim bolica.

Le affiliazioni, dette in gergo ‘taglio della coda’ 6, gene ral mente avvengono nel territorio di un locale, e in questo caso sono dette di ‘ferro, fuoco e catene’, con riferimento al pugnale che è l’arma propria degli affiliati, alla candela che brucia l’immagine sacra durante il rito di iniziazione ed al carcere che ogni affiliato dovrà essere in grado di sopportare. Quando l’affratellamento avviene in un luogo diverso, come ad esempio in carcere, l’affiliazione viene definita semplice.

resta invece immutata la doppia compartimentazione che, oggi come nell’ottocento, caratterizza la struttura gerarchica del-la ’ndrangheta: la Società Minore e la Società Maggiore.

Allora la differenza era tra picciotti e camorristi, oggi la gerar-chia si è arricchita di molte altre definizioni.

Spiega Fonte: «Nella Minore ci sono i picciotti semplici e

6 Nell’accezione degli ’ndranghetisti, il contrasto mentre cammina solleva polvere. Con il taglio della coda, e quindi con l’ingresso nell’onorata Società, è come se cam-minasse su un tappeto di erba e fiori.

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quelli di gior nata, que sti ultimi hanno il compito di appurare tutte le novità ine renti il ‘locale’ e riferire al ‘capo giovane’ oltre ad avvertire tutti gli af filiati del le riu nioni indette. Poi ci sono i ca-morristi che possono essere semplici, di so cietà, di fibbia, formati e di sgarro. Il camorrista di fibbia può convo care e pre siedere una riunione in cui vengono affiliati nuovi adepti. Il ca morrista for mato in alcune circostanze può fare le veci del capo-bastone ed il ca morrista di sgarro è noto per il suo valore; que st’ultima dote è as se gnata a coloro che hanno compiuto azioni valide, ma non necessa ria mente di sangue. Infine, gli sgarristi che possono essere di ‘sangue’ e ‘defi nitivo’». La ca ratteristica dei vari gradi è la dote che indica il valore di merito conferito ad un affiliato nel corso della sua carriera e che nel tempo aumenta per gradi: più è pesante e più conta.

la dote di sgarrista di sangue è conferita a uomini che hanno commesso almeno un o micidio, quella di sgarrista definitivo, che rappresenta la dote più alta della Società Minore, è conferita ad affiliati di provata fedeltà.

A ciascuna dote cor risponde un Santo o una Santa. Quella del pic-ciotto è Santa liberata, quel la del camorrista è Santa Nunzia e quella dello sgar rista è Santa Elisabetta. l’Arcangelo Gabriele, rappresenta l’Angelo Giu stiziere ed è preso come simbolo dei “locali”.

Chi non fa parte dell’organizzazione viene in gergo definito “con tra sto”. I fiancheggiatori, quelli dei quali ci si può fidare e che potrebbero entrare a far parte dell’organizzazione, sono inve-ce noti come “contrasti onorati”.

Per quanto riguarda la Maggiore, la prima dote, partendo dal basso, è quella del “santista”, una carica alla quale possono ac-cedere gli sgarristi che hanno dimo stra to un certo valore. Sette affiliati con il gra do di santista possono co stituire, nell’ambito del locale, la cosid detta So cietà Maggiore, chiamata anche “Santa”. Spiega ancora Fonte: «la “San ta” […] non dà al cun conto delle sue decisioni, delle sue attività, al loca le di apparte nenza. Nessun affiliato di grado inferiore al santista può par tecipare alle riunioni della Santa che si può quindi definire una élite della ’ndrangheta. Solo in pochi locali si riesce a costituire la “Santa”, come ad

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esempio San luca, Platì, Africo, Gioiosa Jonica, reggio Cala bria, Gioia Tauro, Bo va, Palmi, rosarno, Sinopoli e qualche altro».

Chiarisce Fonte: «Il tutto ha un’evidente radice massonica e un pro fondo legame storico. I personaggi di riferimento dei santisti sono il ge ne rale Alfonso la Marmora come stratega di battaglia e il generale Giu seppe Garibaldi come combattente per la libertà e la giustizia. Il com pito dei santisti non è d’azione, ma di pensiero e organizzazione».

la dote successiva è quella di “Vangelo” ed è stata creata da alcuni santisti per differenziarsi. Secondo Fonte a ricoprire que-sta carica sono «...personaggi eccelsi, conosci to ri dei diritti e dei doveri dell’o no ra ta So cietà con mansioni decisionali al massi-mo livello». Fonte ha indicato co me ’ndranghetisti in possesso di questa dote, tra gli altri, Giuseppe Muià di Siderno, domenico Mar tino, Sebastiano romeo, Antonio Pelle ed i Nirta. Le figure religiose di riferimento sono tutti gli apostoli e i santis simi Pie tro e Paolo, mentre le figure storiche sono Giuseppe Mazzini come fondatore e promotore delle società segrete in genere, e Camillo Benso di Cavour, “somma mente di statista”».

Il collaboratore di giustizia Alessandro Covelli, nel corso del-l’istruttoria dibattimentale del procedimento denominato “Stila-ro”, celebratosi davanti il Tribunale di locri, ha riferito di aver «ricevuto la dote di ‘vangelo’, che è superiore a quella di ‘san-tista’, di cui era stato insignito quale apparte nente al locale di Crotone. Covelli ha raccontato con dovizia di parti colari dello svolgimento della cerimonia, e dell’incisione di una crocetta sulla spalla sinistra, quale segno distintivo del grado ricevuto.

Successivamente due periti hanno confermato che l’ex “vange-lista” presentava «nella regione scapolare sinistra ed in prossimità di un ta tuaggio raf figurante un grifone incoronato, una cicatrice di vecchia data. la sud detta cicatrice ha la forma di una croce i cui bracci, orizzontale e verti cale, si incro ciano pressoché ortogo-nalmente descrivendo quattro an goli retti».

A rivelare per primo l’esistenza di questa “dote” fu nel 1984 il pentito Pino Scriva. disse anche che al di sopra del «vangelo c’erano i gradi di ‘quintino’ e ‘associazione’. Poi si scoprì un’al-

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tra dote, quel la di ‘quartino’ o ‘trequartino’ che, come riferisce Fonte, vennero crea te «solo per comodità di alcuni personaggi che volevano rimanere par ti colarmente segreti». A questa, pro-seguendo in senso ascendente nella gerarchia della ’ndrangheta se ne sarebbe aggiunta un’altra: quella di associazione. lo stesso Fonte ha spiegato ai magistrati che a ricoprire la dote di associa-zione, un termine mutuato dal reato contestato nei processi di ma-fia, attualmente in Calabria sarebbero non più di sette persone, tra cui do me nico Tegano e Antonio Papalia.

Per comprendere appieno tutti questi cambiamenti, bisogna te-nere con to della necessità avvertita dalla ’ndrangheta negli anni Settanta di tute lare quella zona grigia caratterizzata dall’inter-scambio con altri poteri occulti e istituzionali.

le stesse cariche si differenzierebbero per valenza e prestigio a seconda dell’organo da cui promanano, in modo tale che la “for-za” di ogni singola “dote” è corrispondente alla struttura gerar-chica di cui è espressione: quelle conferite dal “Crimine”, inteso come momento assembleare di più lo cali, in occasione della tra-dizione riunione di Polsi, infatti, rivestirebbero maggiore impor-tanza rispetto a quelle impartite dai livelli ordinativi più bassi.

Nell’ambito della procedura finalizzata al conferimento di una “dote”, la “grazia” rappresenterebbe un presupposto essenziale, una sorta di premes sa e di impegno in vista dell’imminente coop-tazione dell’affiliato ad un livello gerarchico superiore.

Fonte ha anche confermato ciò che sul simbolismo della ’ndran-gheta si è sempre saputo. «Essa», ha scritto nel suo memoriale, «è rappresentata dall’al bero della scienza che è una grande quercia alla cui base è col lo cato il capo-bastone o mammasantissima ossia quello che comanda. Il fusto (il tron co) rappresenta gli sgarristi che sono la colonna portante della ’ndran gheta. Il rifusto (grossi rami che partono dal tronco) sono i ca mor risti che rappresentano gli affiliati con dote inferiore alla prece dente. I ramoscelli (i rami propriamente detti) sono i picciotti cioè i sol dati della ’ndrangheta. Le foglie (letteralmente così) sono i contrasti ono rati cioè i non appartenenti alla ’ndrangheta. Infine ancora le foglie che cadono sono gli infami che per la loro infamità sono destinati a morire».

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Nella ’ndrangheta, secondo Fonte, le colpe si dividono in “tra-scuranze” e “sbagli”. le pri me sono in frazioni di lieve entità quasi sempre di carat tere informale e vengono pu nite con la sospensione per un mese dal locale o con il pa ga mento di una ammenda. le se-conde, invece, vengono punite con la morte o, in subordine, con la “spoliazione completa” dell’af filiato con la degradazione al ruolo di “contrasto senza o nore”, come per il massone quando viene messo in sonno. Infine, nel suo memoriale, Fonte conferma l’esistenza dei riti di inizia zione, quel la birinto semantico nel quale confluisce il co-dice della ’ndra gheta. ricorda che ancora oggi per entrare a far parte di questa organizzazione bisogna pun gersi il dito o il braccio con un ago o con un coltello, facendo cadere qualche goccia di sangue sull’immagine di un santino (quella di San Michele Arcangelo, pro-tettore della ’ndrangheta) che poi viene dato alle fiamme, in ossequio ad una suggestiva simbolo-gia tesa a garantire fedeltà e rispetto del vincolo di assog-gettamento alla cosca.

l’am monimento del ca-po-bastone è impietoso: «Come il fuoco brucia que-sta immagine, così brucerete voi se vi macchiate d’infa-mità; se prima vi conoscevo come un contrasto onorato da ora vi riconosco come un pic ciotto d’onore».

Aveva giurato fedel-tà anche Francesco Alba-nese, detto tarra, il qua-le nel 1896 aveva deciso di eliminare due picciotti che si erano rifiutati di spartire con lui il bottino di una ra-pina. Albanese nella piana di Gioia Tau ro era temuto e

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riverito. Cosicché, una volta arrestato, il “Tarra” non fa ticò mol-to a convincere le guardie della sua innocenza e farsi rilasciare. A quei tempi, come per i successivi decenni, tra guardie e ladri si era in stau rato una sorta d’accordo, un patto di tolleranza recipro-ca. Venivano puniti solo gli eccessi, per il resto c’era una sorta di quieto vivere. In quell’occa sione però, il seguito ebbe uno svolgi-mento impre visto, grazie soprattutto ad un magistrato coraggio-so, Giuseppe Trinci, il quale decise di inda gare fino in fondo. Al-la fine riuscì a provare la responsabilità di Albanese, ottenendone la carcerazione.

Bastarono pochi giorni di carcere duro, a pane ed acqua, per convincere il Tarra a collaborare proprio come è successo, in al-cuni casi, con il 41 bis. dinanzi alla prospettiva di marcire in cella, il boss di Gioia Tauro vuotò il sacco sui se greti della sua organizzazione e su tutte quelle regole in gran parte ri maste im-mutate nel tempo.

Prima di Francesco Fonti, importanti conferme erano arrivate dalla te stimonianza di Antonio zagari, autore tra l’altro di una in-teressante au tobiografia dal titolo “Ammazzare Stanca”. zagari ha dichiarato che il vin colo asso ciati vo si estingue solo con la morte, oppure con il tradimento o con l’e spulsio ne per inde gnità. E ha precisato: «l’ipotesi che un espulso dalla ’ndrangheta continui a rimanere in vita è [...] assai remota. In ogni caso, anche se l’or-ganizzazione dovesse decidere di non uccidere un ex af filiato, a questi verrebbe tolto il saluto e nessun uomo d’onore potrebbe più frequentarlo». Secondo zagari nel gergo della ’ndrangheta, «l’affiliato e spulso dall’orga nizzazione viene definito ‘spogliato’, cioè privato della ‘veste’ o ‘camicia’ che simbolicamente e in sen-so metaforico, viene con se gnata al momento del l’af filiazione». Tuttavia, ha spiegato ancora zagari, «esistono casi, anche se ra-rissimi, in cui un appartenente alla ’ndrangheta può ritirarsi a vita privata, ma anche quando è concesso di ritirarsi in ‘buon ordine’ (que sto è il termine usato dalla ’ndrangheta) la persona che si ritira ha sempre e comunque l’obbligo di mettersi a disposi zio ne del l’or ganizzazione, se richiesto, in qualsiasi momento e per tutta la vita».

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CAPITolo 3º

L’urbanizzazione della ’ndrangheta

Giuseppe zappia aveva il viso duro, asciutto, segnato dal sole, dall’aria a spra della montagna e dalle sofferenze. durante il gior-no era solito affac ciarsi sull’uscio e poi si attuffava in casa, come le lucertole che cerca no, tra il capelvenere e le paretarie, un rag-gio di sole. Il 26 ottobre 1969, a Serro Jun cari, una radura ai piedi di Montalto, sull’Aspromonte, aveva pre sie duto l’ultimo summit della ’ndrangheta agro-pastorale, quella che al suono della taran-tella si ba loccava con Osso, Mastrosso e Carcagnosso.

Era la mafia di ’Ntoni Ma crì, Mico Tripodo e Mommo Piromal-li, uo mini tutto d’un pez zo, sangui nari e generosi. della vecchia guardia era uno dei pochi soprav vis suti. Aveva subito tre attentati. «Sono impiombato come un pac co po sta le», raccontò un giorno al giornalista Antonio Delfino che era an dato a tro varlo, arram-picandosi lungo quella strada stretta che si aggrappa a mo struose creature di roccia e che sale, si piega, scende, si con tor ce sfio-rando ciuffi di piante selvatiche, querce secolari, fino ad arri vare a San Mar tino di Taurianova, in provincia di reggio Calabria.

la sua unica colpa era quella di appartenere a una generazione che lui stesso con accento gnomico definiva ormai lontana. Una generazione che si aspettava la ventura di morire nel proprio letto. Aveva superato la set tan tina, ma aveva ancora paura. Balzava dal-la sedia ad ogni rumore, in terrompendo quella sua parlata gestua-le tipica dell’antica consorteria. «È fi nita l’ominità», diceva, «i giovani d’oggi sono assatanati di denaro e non hanno rispetto per nessuno». Quella di zappia è una storia strettamente in trecciata a

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quella della ’ndrangheta, una storia di miti e di morte.Era stato proprio lui a Montalto a esprimere l’esigenza di evitare

divi sio ni. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndran-gheta di ’Ntoni Ma crì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», ave-va detto. «Si deve essere tut ti uniti, chi vuole stare sta, chi non vuole se ne può anche anda re». Quel gior no i delegati dei vari “locali” della provincia si erano riuniti per affrontare molte que-stioni, alcune anche spinose.

racconta Francesco Scopelliti, uno dei partecipanti al summit: «Per primo prese la parola Antonio romeo di San luca, il quale propose di tra sferire l’annuale convegno di Polsi in un’altra lo-calità dell’Aspromonte. la proposta, su mio suggerimento, ven-ne però respinta. Mentre discuteva mo, improvvisamente scoppiò una lite in seno ad un gruppo formato da sei persone di Condofuri, tre dei quali accusavano le altre di essersi allon ta nate dalla mala-vita ufficiale del luogo per formare una società a parte. La lite che stava per degenerare, venne prontamente sedata. Fu a quel pun to che zappia invitò tutti a rimanere uniti».

durante il summit si discusse anche della necessità di inasprire la lotta contro la polizia, ricorren do anche ad attentati dinamitardi.

racconta An gelo oliviero, anch’egli presente a Montalto: «Su questo argomento si sviluppò un acceso di battito. dopo zappia presero la parola altri sette ’ndranghetisti per cri ticare le insop-portabili iniziative del que store Emilio Santillo che con tinuava a man dare gente al confino. Ci fu an che chi pro po se di far saltare gli automezzi della questura e chi di sparare contro la macchina del que store, ma su questo punto non tutti si trovarono d’ac cordo». Si disse anche che quel summit doveva servire per convincere la ’ndrangheta ad al learsi con la de stra eversiva, rappresentata dal “prin cipe nero” Junio Valerio Borghese, ex gerarca della X Mas 1.

1 la testimonianza è di Giacomo lauro. Proprio in quei giorni era previsto un co-mizio a reggio Calabria di Junio Valerio Borghese, sospeso per motivi di opportunità dalle autorità di polizia che temevano incidenti.

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Qualcuno, però, aveva informato la questura che, in poche ore, mise a punto un piano per sorprendere gli oltre 150 mafiosi con-venuti da tutte le parti della provincia a Montalto, dove quell’an-no si era deciso di spostare la tradizionale riunione di Polsi.

In vano i partecipanti al sum mit cer carono di giustificare la loro presen za su quella radura qualifican dosi come ignari caccia tori o cercatori di fun ghi.

l’operazione venne coordinata dal commissario della Polizia di Stato Alberto Sabatino2:

«Per antica tradizione», scrive Sabatino nel rapporto inviato all’au to rità giudiziaria, «la malavita della provincia di reggio Ca labria – de no minata anche ‘onorata società’ o ‘’ndrangheta’ – teneva ogni anno in A spro monte un’assemblea di esponenti e delegati di tutti i nuclei, in oc ca sio ne dei festeggiamenti che si svolgono a settembre in ono re della Ma donna nel Santuario di Polsi, sito nel territorio di San luca. Mai la po lizia aveva avuto modo di cogliere utili informazioni preventive sulle mo dalità e circostanze specifiche, di tempo e di luogo, con cui si organiz-za va no e si svolgevano tali assemblee, e sapeva tuttavia che ad es se par te cipavano gli esponenti più qualificati di tutti i comuni: i ‘capi ba stone’ o ‘ca pi società’, i ‘contabili’, i ‘mastri di sgarro’».

l’operazione Montalto portò davanti ai giudici del Tribunale di Lo cri, competente per territorio, settantadue presunti affiliati alla ’ndran gheta che dovettero rispondere dei reati di associazio-ne per delinquere, scorreria, de tenzione abusiva e porto illegale di armi. Tra gli imputati, sebbene in con tu macia, anche Antonio Ma-crì, domenico Tripodo e Giuseppe Nirta, fi gure pro minenti della ma la vita calabrese del tempo. I gradi di giu dizio che se guirono, le nu me rose condanne e le assoluzioni conseguenti, anche se con sentirono di evi den ziare l’esistenza storico-giudiziaria della malavi ta or ganiz zata nella pro vin cia reggina, non indebolirono o disgregarono af fatto l’operatività cri minale dell’organizzazione

2 La mafia a Montalto, Sentenza 2 ottobre 1970 del Tribunale di Locri, Reggio Ca-labria, Stab. Tip. “la Voce di Calabria”, 1971, pagina 22.

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che già allora era in grado di reggere bril lantemente all’urto di qualsiasi indagine giudiziaria.

le divergenze che avevano animato il summit di Montalto esplosero vio lentemente agli inizi degli anni Settanta.

Molti sentivano la necessità di libe rarsi di quella mentalità poco elastica che impediva ai boss della ’ndrangheta di a vere contatti e rapporti con il potere politico ed economico.

«Ciò che avvenne in quegli anni fu un cambiamento epocale», racconta oggi un vecchio boss della ’ndrangheta che vive all’este-ro, dopo aver pa gato i propri debiti con la giustizia. «È stato Mom-mo Piromalli assieme ai De Stefano a definire le nuove strategie della ’ndrangheta, cioè l’idea di andare oltre lo sgarro e di entra-re in quella zona grigia, rappresentata dalla masso neria de viata, nella quale era possibile incontrare magistrati, poliziotti, politici, av vocati e commercialisti. l’idea è stata subito abbrac ciata dal locale di Toronto, dove vivevano alcuni autorevoli rappresen tan ti della ’ndranghe ta, legati a Cosa Nostra americana».

Venne così creata un’enclave all’interno della ’ndrangheta, detta Santa, composto da 33 per sone, alle quali era permesso di affiliarsi a logge coperte della mas soneria3.

Conferma Gaetano Costa, ex capo del locale di Messina: «Fu Mommo Piromalli che, attesi gli enormi interessi che all’epoca sussistevano nella zona di reggio Calabria (il troncone ferrovia-rio, la centrale siderurgica e il porto di Gioia Tauro, ecc.), al fine di imporre una sua maggiore au to rità, in vista del cambiamento all’interno della consorteria, onde poter ge stire direttamente la realizzazione delle opere pubbliche, si fregiò del gra do di ‘santi-sta’ che, a suo dire, gli era stato conferito direttamente a To ron to, dove esisteva una importantissima ’ndrina’».

dopo Piromalli anche Paolo de Stefano e Santo Araniti si fre-

3 l’inchiesta giudiziaria del 1992, denominata olimpia fece luce su questi intrecci. la Santa sarebbe entrata nella massoneria, tramite logge compiacenti e personaggi, come Pietro Marrapodi, notaio a reggio Calabria, Pasquale Modafferi, esponente di punta del gruppo Condello-Imerti di reggio Calabria e Cosimo zaccone, capo di una loggia massonica di reggio Calabria.

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giarono del titolo di santista. Contrari a questa iniziativa si di-mostrarono sin da su bito ’Ntoni Macrì e Mico Tripodo, entrambi “sgarristi”, esponenti dell’ala tradizionalista della ’ndrangheta.

Macrì in particolare, come racconta Costa, «non volle ricono-scere l’e sistenza della ‘società di santa’, che definiva bastarda, anche perché le regole di questa nuova società consentivano di tra dire ed effettuare dela zioni pur di tutelare un santista».

Come raccontarono altri pentiti «la Santa rappresentò all’inter-no della ’ndrangheta uno stadio occulto, in quanto il relativo gra-do…era no to sol tanto agli altri santisti e nessun rilievo oc cupava all’interno delle ge rar chia della ’ndrangheta».

Cambiarono anche i riti di iniziazione. Ai mitici cavalieri spa-gnoli Os so, Mastrosso e Carcagnosso, i vecchi antenati, suben-trarono eroiche fi gu re mas soniche, come Garibaldi, Mazzini e la Marmora.

«Giuro su questa arma e di fronte a questi nuovi fratelli di San-ta – re cita il nuovo testo del codice della ’ndrangheta sequestrato dalla Squadra Mobile di reggio Ca labria e dalla Criminalpol ca-labrese nel giugno del 1987 nel covo del su perla titante Giuseppe Chilà4 – di rinnegare la società di sgarro e qual siasi or ganizzazione e far parte alla Santa Corona e divi dere sorte e vita con questi nuovi fratelli».

Insomma, come conferma anche il collaboratore Giovanni Gullà, «un santista pur di salvare l’or ganiz za zione po teva persino tradire cento camorristi o sgar risti». un esempio di questa nuova realtà ce lo fornisce Filippo Barreca, capo zona del quar tiere di Pellaro, nominato santista: «Nel 1979 entrai a far parte dell’élite della ’ndrangheta, acquisendo un grado segreto che mi dava la possibilità di a vere rapporti con esponenti della massoneria».

Barreca racconta che a formare la loggia coperta, della quale

4 la fotocopia del codice ritrovato a Sant’Eufemia nel 1987 è stata pubblicata in appendice al libro Alle origini della ’ndrangheta: la picciotteria di A. Nicaso, rub-bettino Editore, nel settembre del 1990. la trascrizione dello stesso documento viene riproposta interamente in appendice a questo libro.

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egli entrò a far parte, assieme alle più importanti personalità cit-tadine, fu Franco Fre da, esponente di punta della destra eversiva, al quale egli stesso aveva dato ospitalità nel 1979 prima della fuga del terrorista in Nicaragua. Cosa No stra era rappresentata da Stefano Bontade e grazie a que sta nuova di men sione la “San-ta” riuscì ad imporsi, assicurandosi il controllo di tutte le prin-cipali attività economiche, compresi gli appalti, e ad infil trarsi nelle i stituzioni attraverso l’elezione di persone di gradimento e fa cilmente avvi cinabili.

Anche per Giacomo lauro fu una svolta storica5: «Sino alla prima guerra di mafia la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ’ndrangheta era subalterna alla massoneria, che fungeva da tramite con le istituzioni», racconta il pentito. «Già sin da al-lora la massoneria rica va va un utile diretto per centualizzato, in riferimento agli affari che per conto nostro mediava. In vero, vi era una presenza massonica massiccia nel le istituzioni tra i po-litici, imprenditori, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e ban cari, e pertanto vi era un nostro interesse diretto a man tenere un rapporto con la massoneria. È evidente che in questo modo era vamo costretti a de legare la gestione dei nostri interessi, con minori gua dagni e con un ne cessario affidamento con personaggi molto spesso i naffidabili. A questo punto capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire diretta mente ed essere rappresen tati nelle isti-tuzioni. Fu così che Paolo de Ste fano, Santo Ara niti, Antonio, Giuseppe e Francesco Nirta, Antonio Mam mo liti, Natale Iamonte ed altri entrarono a far parte della massoneria».

Per anni il potentato fondiario era stato al centro dell’economia calabrese. Altre classi sociali non avevano mai avuto spazi propri e in assenza di un apparato produttivo, la politica era stata l’unica a poter compiere scelte economiche, offrendo potere, prestigio e ricchezza. I mafiosi lo ave vano intuito da tempo.

una relazione inviata al ministero dell’Interno nel 1959 aveva

5 Operazione Olimpia. Direzione Distrettuale Antimafia, Reggio Calabria.

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rilevato i legami dei capi mafia “anche con esponenti politici, ai qua li mantengono sottomano la clientela elettorale”. E alle stesse con clu sioni erano arrivati i giudici Guido Marino, Antonio Stal-tari e luigi Co trona nella sentenza per i fatti di Mon talto: «Che il mondo della mafia tenda costantemente a fare binomio col mondo della politica è una verità ormai notoria»6.

Parallelamente al rapporto con i politici, la ’ndrangheta inten-sifica i rapporti con Cosa Nostra e in par ticolare con le famiglie mafiose di Paler mo e Catania. Gli investigatori, de fi nendo il nuo-vo corso della mafia cala brese, molti anni dopo, parleranno di “entità integrate”, forme di plu ra lismo associativo che troveranno con ferma nel la contiguità con politici cor rotti e massoni legati a logge deviate.

La ’ndrangheta, proprio in quegli anni, compie il definitivo salto di qualità: da una parte la conquista dei traffici, ormai rami-ficati, delle so stan ze stupefacenti dal Medio Oriente e dal Nord-Africa, dall’altra la po litica degli interventi straordinari verso il Meridione che destina anche alla Calabria centinaia di miliardi per “indifferibili opere pubbliche”. Molti an ni dopo, la commis-sione parlamentare antimafia apprenderà dalle parole del giudice, Salvatore Trovato, che tutti i mafiosi che avevano vissuto la sta-gio ne degli interventi straordinari in Calabria, avrebbero potuto dimo stra re di aver ricevuto centinaia di milioni di lire da parte della regione, cioè del lo Stato7.

A determinare la politica degli interventi straordinari contri-buì, proprio nel 1970, la stagione della rivolta sociale, insorta nei quartieri e nel le stra de di reggio Calabria a seguito della decisio-ne po liti ca di spo stare il ca poluogo della regione a Catanzaro. Fu-rono setti mane e mesi di guer ri glia urbana accesa, violenta, senza esclu sione di col pi alla quale il Gover no pen sò di porre ri paro,

6 Tribunale di locri, Sentenza n. 299, N. 75-70 reg. Gen. depositata il 24 marzo 1971. Zappia Giuseppe +71, p. 95.

7 Commissione Parlamentare Anti-Mafia, Audizione del giudice Salvatore Trovato, 1985.

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prima inviando in riva allo Stretto l’esercito e i carri armati, e poi disegnando un nuo vo piano d’inter vento produttivo (il noto “pacchetto”) elaborato dall’al lora presi dente del Con siglio, Emi-lio Colom bo.

Scrivono i magistrati della Procura Distrettuale Antimafia di reggio Ca labria: «l’irruzione nel ramo delle in frastrutture con-sentì il salto nella cate goria imprenditoriale di numerosi espo-nenti dei casati vincenti e rap presentò l’occasione di conquistare un giro di affari senza precedenti e la pos sibilità di accesso nelle stanze della burocrazia politico-ammini stra ti va. I risultati furo-no o vunque clamorosi, tali da spiegare ampia mente l’in coraggia-mento che ne avrebbe ricavato la spregiudicatezza del ‘mafio so-manager’ negli anni successivi: il servizio dei trasporti, la for nitura dei materiali, l’espropriazione dei terreni ne cessari, l’as sun zione della ma no dopera, l’assegnazione stessa degli ap palti vennero mono polizzati o con dizionati dai capi zona e dai loro pro tettori con spiccato senso spe culativo. […] andarono egualmente a se-gno le manovre finali z zate all’ac ca par ramento ed appropriazione dei posse dimenti agricoli ovunque ab ban donati dalla massa con-tadina, richiamata al Nord dai miraggi del mi ra colo eco nomico e dai vecchi proprietari ter rieri non più pre disposti a sot to stare alle stagionali soverchierie dei malavitosi. Peral tro, proprio con la sa piente uti lizzazione delle somme destinate dal Governo all’in-te gra zione dei prezzi di alcuni prodotti (l’olio di oliva tra tutti) e con l’im piego di fondi ra strellati in campi di attività collaterali, la ’ndrangheta nel reg gino si as sicurò il controllo genera lizzato del fondo agrario a condi zio ni di as soluto vantaggio, in modo da garantirsi l’esclu siva di una fon damen tale risorsa produttiva e il con seguente assoluto dominio sui prezzi, sulla di stribuzione e sul mercato dei prodotti agricoli. E così i ma lavitosi che per anni ave-vano costruito il proprio prestigio custodendo militar mente i ter-reni altrui si tramutarono in imprenditori rampanti, altri ripiega-rono tradizio nalmente verso la conquista diretta del fondo agrario calabrese».

Naturalmente, oltre alla speculazione edilizia, alle grandi opere pub bli che ed alle varie risorse legate all’agricoltura e alla

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pastorizia, la ’ndrangheta mise le mani anche sul controllo dei traffici marittimi natural mente ille citi, come il contrabbando di sigarette.

Furono, comunque, la costruzione del quinto centro siderurgi-co e il com ple tamento del l’au tostrada del Sole nel tratto compre-so tra Salerno e reg gio Calabria ad imprimere una nuova svolta al rapporto politica-’ndran gheta, con la creazione di lobby tra ma-fiosi, politici e settori del mondo economico e finanziario locale e nazionale.

Presero piede anche i sequestri di perso na, creando ulteriori e sangui nose divisioni in seno alla ’ndrangheta. dal 1970 al 1978 se ne registrano 53 contro i due veri ficatisi dal 1963 al 1969.

Non ci fu, però, nessun cambiamento dal ruolo passivo della me diazio ne a quel lo attivo dell’accumulazione. Piuttosto ci fu un salto di quan tità, di un fenomeno di integrazione vecchio di se -coli.

osserva acutamente Francesco Caracciolo8: «l’associazione mafiosa e il mafioso, in Calabria, in Sicilia e in Campania, hanno sempre avuto in sé due anime, hanno sempre svolto due ruoli: di mediazione e di accumu la zio ne e di do minio. Solo che ora la rapi-dissima integrazione della mafia calabrese, che negli anni settanta approfitta dell’opportunità di adeguarsi ai tempi sfrut tando le nu-merose occasioni di lucro e di investimento ad e mu lazione della mafia siciliana, ha reso più evidente uno dei due ruoli». Cioè la ’ndrangheta dopo Montalto adegua ai tempi nuovi i suoi vecchis-simi stru menti, con i quali ha sempre esercitato la mediazione e l’accu mula zio ne.

8 F. Caracciolo, op. cit., p. 149.

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CAPITolo 4º

La prima guerra di mafia

la resa dei conti per Peppe zappia arrivò il 5 agosto del 1993, quando veniva ucciso assieme al figlio Giuseppe di 54 anni alle porte di San Mar tino di Taurianova, il paesino aspromontano che, da alcuni anni, era diven tato la sua prigione. I sicari infierirono sul suo corpo esanime, a terra, in una sorta di spasimo di ferocia e di esaltazione. Era l’ultimo patriarca della ’ndrangheta agro-pastora-le, quella che aveva avuto in Antonio Macrì il boss dei boss.

Negli anni Sessanta e Settanta, la ’ndrangheta era soltanto un sostantivo dalla sgra devole sonorità, che al solo evocar lo incute-va fasti dio 1. Macrì era un boss rispettato. Amico di luciano lig-gio, Angelo e Salvatore la Bar bera, Pie tro Torret ta, dei Greco di Ciaculli, negli anni Cin quanta era stato in buoni rapporti con il dottor Michele Navarra, boss dei Corleonesi, confinato a Ma rina di Gioiosa Jonica.

Il suo pupillo era domenico Tripodo, boss di reggio Calabria che, come lui, era fortemente legato alle tradizioni ’ndranghetiste. Entrambi erano contrari ai sequestri di persona, voluti invece dai clan della piana di Gioia Tauro, San luca e Platì. «Attirano su di noi solo gli sbirri», sostenevano. Nella locride, Macrì comanda-va con lo sguardo. Aveva imposto la guar dianìa a tutti i proprieta-ri, tanto che, come avevano scritto nel 1950 i giu dici della Corte d’Assise di locri, nella sentenza di un processo a 41 im putati

1 M. Guarino, Poteri segreti e criminalità, Edizioni dedalo, Bari, 2004, p. 8.

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di Siderno: «Mentre altrove le con tro versie agrarie si discutono da vanti il Tribunale, in Siderno e locri si ri corre all’occulta po-tenza del Ma crì per imporre la volontà dei padroni a contadini e mezzadri».

Il pentito Giacomo lauro, in un memoriale consegnato alla magistra tura di Reggio Calabria, ne traccia un ritratto molto effi-cace: «Que st’uo mo era il capo crimine e rappresentava, secondo me, non ‘inde gna mente’, quel la che si riteneva fosse ‘l’onorata società’; egli, se si può di re, era il capo dei capi (...) il vero unico, rappresentante, con tutti i titoli in Cosa No stra ed aveva le ‘chiavi’ per entrare negli Stati Uniti (New Jersey), Ca nada (da Toronto a Montreal, fino ad Ottawa) e Australia (la zona di Mel bourne, Ade-laide, Griffith); (...) Aveva conosciuto, quando ancora por ta vano i pantaloni corti, sia riina che Provenzano, i quali, ne gli anni ’50 era no al servizio del dott. Michele Navarra di Corleone...».

Macrì aveva saputo sfruttare i vantaggi del contrabbando di si-garette che, in quegli anni, era il vero grande affare del le cosche, quello che pose le basi per le future sinergie con altre organizzazioni criminali.

Nel giro c’erano tutti. Mommo Piromalli nella piana di Gioia Tauro, con i Pe sce di rosarno ed i Mammoliti di Castellace di oppido Mamer tina; domenico Tripodo a reggio Calabria con i clan Codispoti, Canale, Sammarco e Surace; Natale Iamonte, nel-la zona Annà di Melito Porto Sal vo; i Nirta nella zona che va da Bianco a Bovalino; i Marafioti, i Cordì e i Cataldo di locri; Bruno Equisone di Bova; gli ursino-Scali-A quino-Maz zaferro assieme a rocco Monteleone nella vallata del Tor bido (Gioiosa Jonica, Marina di Gioiosa e Mammola); i Ciampà di Cu tro, gli Arena di I so la Capo rizzuto, i Mannolo di San leonardo di Cutro; i Vren-na di Cro tone.

Con loro “trafficavano” anche gli Sca duto di Bagheria, i di Cristina ed i Ferrante di Palermo, i Ferrera, i Fer lito e i Santapaola di Catania, i Nu vo letta di Ma rano. E anche i Mazza rella e i zaza di Napoli. Tutti assieme in or dine sparso.

Spiega Enzo Ciconte: «la brusca e improvvisa accelerazione del traf fico delle bionde fu determinata da una situazione che si

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venne crean do all’esterno della Calabria. le coste siciliane, tra-dizionali posti di sbar co, diventarono insicure per una accorta ed efficace azione di repres sione da parte della Guardia di Finanza. Il traffico venne dirottato allora sul le co ste calabresi di certo più sicure perché non controllate e non sorve glia te; in particolare sul litorale jonico, a Crotone, e soprattutto nella zona della Locri-de». Vi furono sbarchi anche nei pressi di lamezia Terme, dove il contrabbando delle sigarette aveva assunto le modalità dell’a-zio naria to popolare: partecipavano in molti, anche professionisti, deside rosi soltanto di investire i loro risparmi in un’attività alta-mente redditizia 2. d’altronde, così come era successo con il proi-bizionismo nel Nord Ame rica, l’acquisto di sigarette a un prezzo inferiore rispetto a quello del Monopolio non era considerato un fatto riprovevole.

Ci furono anche scontri per il controllo di questa lucrosa at-tività, come quello tra gli ursino-Scali-Aquino da una parte e i Mazzaferro-Femia dal l’altra nella Vallata del Torbido. E per le sigarette avvenne anche la strage di Locri (Piazza Mercato) che vide imputati come mandan ti Anto nio Nirta, potente boss di San luca, ed Antonio Macrì e come e secutori due palermi tani, Tom-maso Scaduto e Antonio di Cristina. Poi tutti assolti.

oltre al contrabbando di sigarette, nell’ottica della ’ndranghe-ta, in quegli anni, entrò anche la distribuzione clientelare delle risorse pub bliche (ap palti) che andò ad affiancarsi al piz zo, alla guardianìa e al controllo del mercato del lavoro.

Nacquero così, in quegli anni, le prime imprese edilizie ma-fiose, cioè le imprese gestite da mafiosi, grazie soprattutto all’au-mentata disponibilità del le risorse finanziarie. Una prova di tale ec cesso di liquidità fu il ritrova mento nella borsa di Giorgio de Ste fano, uc ciso nel 1976 sull’Aspro mon te, di un piano di inve-stimenti immo biliari e industriali di tali pro porzioni da triplicare, se realizzato, la già no tevole scala di attività eco nomica del l’im-pre sa-cosca dei fratelli de Stefa no. E, in quegli stessi anni, in un

2 Intervista con Gianfranco Manfredi, febbraio 2006.

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covo dell’Aspromonte finiva anche Paul Getty III, nipote del noto miliar dario americano. Fu proprio con i profitti dei sequestri che le cosche comincia ro no ad acquistare ruspe e motopale3.

Questo era il retroterra della ’ndrangheta quando scoppiò la prima guer ra di mafia. Don Mommo Piromalli, potente boss di Gioia Tauro, era del l’avviso che la ’ndrangheta non potesse ri-manere eternamente in con flitto con le istituzioni statali ed era convinto che bisognasse prendere lo Stato sottobraccio, come avevano fatto i siciliani entrando nelle logge mas so ni che.

la svolta indicata da don Mommo venne subito appoggiata da Paolo de Stefano, un rampante e ambizioso boss cresciuto nel quartiere Archi di reg gio Cala bria.

I sequestri furono un pretesto e contribuirono a creare un vorti-ce in seno alla ’ndrangheta. Con Piromalli, si schierarono anche i Mammoliti di Castellace, ma soprattutto gli Strangio di San luca, i Barbaro di Platì e i Ietto di Natile di Careri. I traffici di droga, che avevano cominciato a viaggiare sulle stesse rotte seguite dalle casse di sigarette, fecero il resto, de stan do molti appetiti, soprat-tutto tra i giovani che fremevano per con qui sta re nuovi spazi.

Antonio Macrì venne eliminato il 20 gennaio del 1975. Nel-l’agguato ri mase gra vemente ferito Francesco Commisso, detto “u quagghia”, braccio destro del potente boss di Siderno. I due ave-vano appena finito di giocare a bocce in un campetto ubicato nelle vicinanze di un quadrivio in contrada zamma riti di Siderno.

È stato il pentito Giacomo lauro a ricostruire questo omicidio venti an ni dopo. Ha raccontato che a uccidere Macrì furono Pa-squale Condello e Giovanni Saraceno, i quali si avvalsero come copertura di Giusep pe Schi mizzi e di Pietro orlando; quest’ulti-mo, uomo di fiducia di Giuseppe Ca taldo, boss di locri. orlando verrà ucciso il 17 febbraio di quello stesso an no, nei pressi di un semaforo nel centro di locri.

3 Nei cantieri di Gioia Tauro erano utilizzati automezzi appartenenti ad esponenti delle cosche Piromalli, Stanganelli, Mammoliti, rugolo, Nava e Pesce. Cfr. Sentenza emessa dal Tribunale di reggio Calabria in esito al procedimento contro Paolo de Ste-fano +59. – Sentenza n. 1/79 datata 4 gennaio 1979, p. 245.

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l’auto usata per l’agguato era stata rubata a reggio Calabria a due pas si dal Tribunale ad un medico. Verrà ritrovata bruciata qualche giorno do po nelle campagne di Antonimina.

dopo l’omicidio, il gruppo di fuoco, che secondo lauro agì su mandato di Paolo de Stefano, dei fratelli Giuseppe e Nicola Ca-taldo e di Vincenzo, Giuseppe e Francesco Mazzaferro, si rifugiò a Gioiosa Jonica a casa di que sti ultimi. Una fonte confidenzia-le riferì alla polizia che Giuseppe Ca taldo, qualche giorno prima dell’omicidio del Macrì, era stato visto a bor do dell’Alfa romeo rubata a reggio e utilizzata per l’agguato di con trada zamma-riti assieme a do me nico Tegano e Giovanni Saraceno. Sem pre se condo lauro, anche Tegano avrebbe dovuto partecipare all’ag-guato, ma eb be qualche problema a causa della tensione e venne lasciato a casa di amici.

Scrive luigi Malafarina il 22 gennaio del 1975 sulla “Gazzetta del Sud”: «la carriera del boss – che è stato al soggiorno coatto di ustica, del l’Aquila, e di Casarze ligure; latitante per nove anni; alla colonia a gricola dell’Asinara – è stata costellata, nell’arco di cinquant’anni, da tan te asso luzioni. In istruttoria fu prosciol-to dall’accusa di essere il man dante del l’omicidio di Girolamo Commisso, fulminato il 22 agosto 1947 con una scarica di mi-tra; il 23 novembre 1961 fu assolto dalla Corte d’As sise di Melfi, dove il processo si celebrò per legittima suspicione, dal l’a vere or ganizzato l’uccisione dello studente, Antonio Saracini, 20 anni, figlio di un vecchio rivale; il 2 ottobre 1970 il Tribunale di Locri lo mandò libero dalla imputazione di essere uno dei capi della mafia riunitasi a Montalto, e, infine, la Corte d’Assise di Lecce lo dichiarò innocente del l’accusa di es sere uno dei mandanti del-la strage di locri (che costò la vita di do menico Cordì, vecchio amico di don Antonio, Vincenzo Saracini e Car melo Siciliano, vittima inno cente estranea alla contesa tra gruppi mafio si). Tutte queste assoluzioni (don Antonio ha sostenuto sempre di essere stato estraneo a quei delitti e che la giustizia aveva cercato in lui un capro e spiatorio) rafforzarono il mito dell’uomo forte, del ‘mammasantissima’ intoccabile».

Sul luogo del delitto vennero trovati 32 bossoli, quattro, secon-

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do i periti balistici, le armi usate per abbattere il boss dei boss. dirà al giudice istrut tore di locri nel dicembre del 1976 Fran-

cesco Com misso, ferito nel l’ag guato che costò la vita al padri-no di Siderno: «...Tut ti erano a volto sco perto. Potevano avere una trentina d’anni. Pri ma di andarsene uno dei due discese dalla macchina, essendosi accorto che il Macrì ancora respi rava, gli ha sparato contro altri due colpi di mi tra al petto ed alla te sta...».

un anno prima, secondo quanto aveva raccontato una fonte confidenzia le all’allora dirigente della Squadra Mobile di Reg-gio Calabria, Girola mo Celona, Antonio Macrì, accompagnato da un certo Pietro romanello, aveva partecipato a Gioia Tauro a una riunione, alla quale erano presenti Giuseppe Piromalli, che all’epoca era latitante per essersi allonta nato dalla clinica “Ita-lia” di roma sottraendosi così alla misura di preven zione della sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno ed i fratelli de Stefano. l’informatore aveva aggiunto che a un certo punto la discus sione tra Pao lo de Stefano e Antonio Macrì era diventa-ta abbastanza a nimata, tanto che i due erano quasi venuti alle mani. Pare che Macrì a vesse difeso domeni co Tripodo, inviso ai De Stefano. Alla fine, anche per la mediazione di Pi romalli, gli animi si placarono e lo stes so Ma crì si disse disposto a me-diare tra Tripodo e de Stefano4. Invece, qual che mese dopo, d’accordo con il suo figlioccio, organizzò, con l’aiuto del la fa-miglia Ferrante di Na po li, la spedizione punitiva che all’interno del roof Garden, un locale alla moda di reggio Calabria, vide cadere Giovan ni de Stefano. In quell’oc casione ri mase ferito anche Giorgio de Stefano, fratello della vit ti ma. Fu l’inizio del-la prima guerra di mafia, preceduta da un attentato di na mitardo contro due motopale appartenenti a orazio Polimeni, cognato di Tripodo.

Nel solo 1975 si contarono 93 morti, 101 l’anno successivo. ri-ma sero uccisi anche Martino raso, Vincenzo romeo, Giuseppe

4 la riunione si tenne in occasione delle nozze di Girolamo Mazzaferro, che furono festeggiate presso l’Hotel Jolly.

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Poli meni, Giusep pe zito, Giuseppe Imerti, Paolo Bruno Equiso-ne, Totò d’A gostino e do me nico Campolo. Altre faide scoppia-rono a Gioiosa Jonica tra gli Scali-Aquino e i Mazzaferro; a Cro-tone, dove lo scontro tra i Vrenna e i Feu dale, coinvolse anche i Giampà di Cutro e gli Arena di Isola Capo rizzuto; ed a Cosenza, dove l’omicidio di luigi Palermo, detto “u zorru” rivelò i colle-gamenti tra la malavita cosentina, la mafia siciliana, la camorra e la ’ndrangheta.

la stessa sorte di Antonio Macrì toccò a domenico Tripodo nell’in fer meria del carcere di Poggioreale5. Era il 26 agosto del 1976.

racconta lauro: «A quel tempo nel carcere di Poggioreale era dete nuto tale Cutolo Raffaele di Ottaviano (Napoli). Questo non era né malandrino né guappo, ma disponeva di denari. devo dir-vi che in carcere se uno ha soldi è ‘buono’, invece se sulla sua ‘libretta’ soldi non ci sono, questo non è ‘buono’. Allora Cutolo aveva i soldi e così E gi dio Muraca di Ni ca stro (den tro per un se-questro), e Salvatore Mam moliti (fratello dei più noti Vin cenzo, Nino e Saro) lo tennero a battesimo e cioè gli diedero il se con-do battesimo. In poche parole da ‘contrasto onorato’ lo fecero ca mor rista. E siccome il Cutolo già dentro Poggio reale si sen tiva ‘qual cuno’, gli diedero subito i gradi prima di santista e poi di van gelista. Tan to Cutolo spendeva per tutti. E così ancora una volta dei calabresi crearono da un fan te appiedato un generale a cavallo. Così fece umberto Bellocco con i pugliesi. li fece tutti malandrini. Poco importava se erano dediti alla pro stituzione ed al traffico di sigarette. Anzi questo portava ric chezza».

lauro, così, continua nel suo racconto: «Quando dome nico Tripodo venne arrestato (’76) fu condotto in quel carcere (Poggio-reale, nda), o meglio all’infermeria San Paolo del carcere. Per i de Stefano-Mammoliti-Piro malli-Ciccio Canale, fu facile chie-dere al Cutolo il favore di uccidergli un nemico. In poche parole

5 Tripodo e Giorgio de Stefano avevano avuto dei contrasti a causa dell’iniqua spartizione di una carico di contrabbando.

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Cutolo6 accettò la som ma di cento milioni (non duecento come si disse) e diede incarico a Esposito Gennaro ed Effige A grippino, quest’ultimo di un paese vesu viano. I due aiutati da un ap punta to o brigadiere di servizio che aprì loro la cella lo uccisero nella sua stan za sorprendendo il Tripodo a letto che riposava. dovete sa-pere che il giorno prima di essere ammazzato dome nico Tripodo si in contrò (recan dosi a colloquio dal proprio avvocato e con la famiglia, col compare Car mine Alfieri, all’epoca anche egli de-tenuto a Poggio reale...). Per paura che non morisse lo massacra-rono a coltellate. Il Tripodo ebbe la forza di alzarsi dalla branda in cui dormiva e chiuderli dentro la sua cella. Fu così che i due “infami” furono trovati ancora tremanti e pian genti dentro la cella di Mico Tripodo. Non par liamo delle infamità fatte dire ai due pi doc chi per celare lo scopo del vero omicidio. Politica di gente d’onore. La morte di Mico Tripodo segnò la vittoria definitiva (del gruppo De Stefano, nda) e il nuovo assetto terri toriale».

Altre versioni sostengono che l’uccisione di Tripodo venne po-sta a Cu tolo come condizione per il suo ingresso nella ’ndranghe-ta. dal mo men to che non era calabrese, fu necessaria una deroga. Gli assassini cercarono di sviare le indagini sui presunti mandan-ti, raccontando agli inquirenti di a ver ucciso Tripodo perché il boss reggino aveva fatto loro delle proposte sessuali.

Dal conflitto con i vecchi padrini emersero le famiglie Cataldo e Mazzaferro nella locride e quella dei de Stefano, alleati con i Piromalli di Gioia Tauro e i Mammoliti di Castellace, sull’altro versante della provincia. la guerra servì a consolidare i rapporti dei gruppi emergenti con la Nuova Camorra organizzata di raf-faele Cutolo e con Cosa Nostra.

Più che una pace fu una tregua molto fragile. Venne violata, infatti, quindici mesi dopo, il 7 novembre del 1977 in località Ac-qua del Gallo in territorio di Santo Stefano in Aspromonte. Quel

6 racconta il pentito Pasquale d’Amico che nel 1974, nel manicomio giudiziale di Sant’Eframo Cutolo pensò di fondare una nuova camorra, strutturandola sul modello della ’ndrangheta, di cui mutuò anche il sistema e il rituale.

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giorno ad arrivare al capo linea fu Giorgio de Stefano, quello stesso che era scampato all’agguato all’interno del roof Garden. Era stato invitato a partecipare ad una riu nione sulle alture del massiccio aspromontano con boss e consigliori delle principali consorterie mafiose. Scopo ufficiale del summit era quello di rag-giungere un accordo per limitare i sequestri di persona, gli omici-di, gli attentati dinamitardi, al fine di fare allentare sia la pressione esercitata dal le forze dell’ordine presenti in maniera massiccia nella provincia, che quel la delle più importanti testate nazionali, le quali avevano preso una dura posizione contro la ’ndrangheta. Era in gioco l’inserimento delle fa mi glie mafiose nei la vori per la realizzazione degli insediamenti industriali previsti nel pac chetto Colombo e, proprio in quel periodo, si dovevano ag giudicare i la vori per la costruzione della superstrada Jonio-Tirreno con una spesa ini ziale prevista di 45 miliardi.

de Stefano si presentò con il cugino Enzo Saraceno. la sua elimina zione era stata decisa dalle principali famiglie e quella del summit fu solo un pretesto. A uccidere il boss fu Giuseppe Su-raci, cognato di rocco Mu solino, vicesindaco di Santo Stefano, che con de Stefano aveva un conto in sospeso. «Cornuto, tu hai sparato contro mio fratello», gli gridò in fac cia prima di premere il grilletto. Nello scontro rimase ferito anche Sara ceno7.

racconta Giacomo lauro: «In quel tempo Gior gio de Stefano era il capo della sua famiglia e aspirava ad un ruolo ben più inci-sivo anche nell’ambito delle altre consorterie calabresi… tenuto con to che lo stesso era pri vo di qualunque carisma e, quindi, cer-tamente, inidoneo a rivestire il ruo lo di capo supremo, decisero di eliminarlo».

Secondo gli inquirenti, il boss di Archi aveva cercato di mette-re il naso in alcuni investimenti edilizi che interessavano i Mam-moliti e i Piromalli. E l’aveva fatta grossa quando era andato a

7 Per il tentato omicidio di rosso Suraci, avvenuto nella primavera del 1963, al-l’epoca, erano stati denunciati il boss Mico Tripodo e alcuni suoi affiliati, ma non il de Stefano.

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estorcere soldi a un imprendi tore, un certo russotti, protetto dal gruppo Mammoliti-Nava-zinnato.

de Stefano era latitante quando venne ucciso. Era sfuggito a un man dato di cattura emesso dalla Procura di roma in relazio-ne alle indagini sul l’omicidio del giudice Vittorio occorsio e sui contatti dello stesso de Ste fano con il terrorista nero Pierluigi Concutelli8.

I veri mandanti dell’omicidio riuscirono, nell’immediatezza del fatto, a sostenere la propria estraneità, riversando sul Surace ogni colpa e bloccando ogni forma di legittima reazione da parte degli arcoti. Inoltre per evitare che questi ultimi lo interrogassero, il Surace, in base a quanto hanno dichiarato i collaboratori Filippo Barreca e Giacomo ubaldo lauro, venne e liminato e la sua testa recapitata a Paolo de Stefano.

Quest’ultimo, che successe a Giorgio alla guida dell’omonima fa mi glia, si rese conto di non avere i mezzi per affrontare tutte quelle co sche (Piro malli, Mammoliti, Serraino, Mazzaferro, Nir-ta) che avevano promos so la riu nio ne-trap pola nella quale era ca-duto il cugino. la questione venne mes sa da parte per molti anni, fino a quando alla metà degli anni ’80, Fran cesco Serraino, boss dell’omonima famiglia, alleata dei Piromalli e dei Mam moliti, non venne giustiziato all’interno degli o spedali riuniti di reggio Calabria, do ve era ricoverato. La seconda guerra di mafia era alle porte.

8 l’elenco degli amici del boss reggino era lungo. da Aldo Pascucci, e sponente di primo piano della malavita romana, a Guerrino urbani, il pa dre di Gianfranco, detto “Er Pantera”, molto noto negli ambienti dello spac cio di stupefacenti, da Mario Brunetti, capo della malavita nei rioni ri tiro e Giustra di Messina, a Bruno Caccamo, pregiudica-to romano im plicato in sequestri di persona, da Vincenzo zullò, imputato di favoreg gia-men to nei confronti di esponenti della nota banda Vallanzasca, a Enrico Torricciani che aveva ospitato Antonio Nirta durante il soggiorno obbli gato nel Frusinate, da Giuseppe Nardi, implicato in alcuni rapimenti, a Santo Filippone, un boss calabrese residente a Milano, arre stato per il se questro di Paolo Belloni.

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CAPITolo 5º

La seconda guerra di mafia

Se la prima guerra di mafia fu uno scontro generazionale che coinvolse molte famiglie del reggino, la seconda fu determinata da una dura presa di posizione in seno al “locale” dei de Stefano. Quando si concluse, nel l’estate del 1991, si contarono quasi sei-cento morti.

Tutto cominciò con un’autobomba fatta esplodere l’11 ottobre del 1985 a Villa San Giovanni, nel tentativo di eliminare Antoni-no Imerti, ex brac cio destro di Paolo de Stefano. Imerti, sfuggito all’attentato, reagì rabbio samente e due giorni dopo fece uccidere il boss di Archi. A infuocare gli animi era stato il controllo dei futuri appalti relativi alla costruzione del pon te sullo Stretto, ma anche l’interesse dei De Stefano ad allargare la lo ro influenza su Villa San Giovanni, territorio degli Imerti.

l’assassinio di de Stefano provocò una profonda frattura nella ’ndrangheta reggina. Con i de Stefano rimasero i libri, i Tegano, i latella, i Bar reca, i Paviglianiti e gli zito. Con gli Imerti si schie-rarono i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i rosmini e i lo Giudice.

Al conflitto presero parte anche famiglie che operavano in lombardia, come i Paviglianiti e i di Giovine mentre i latella-labate che gestivano assieme i lavori per il raddoppio del binario reggio Calabria-Melito Porto Salvo si divisero schierandosi su fronti contrapposti. un’altra faida nello stesso periodo scoppiò a oppido Mamertina in seguito alla morte del vec chio boss Giu-seppe Ferraro.

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Per le vie di reggio i sicari si inseguivano l’uno con l’altro. I commando omicidi si tenevano in contatto per mezzo di barac-chini. l’odore pungente della polvere da sparo ammorbava l’aria scacciando il profumo di bergamotto e di zagare. lo Stato, che aveva sempre sottovalutato la ’ndrangheta, contava i morti.

A reggio Calabria, molti imprenditori si videro costretti a pa-gare due volte la “mazzetta” e tra le vittime di quello scontro per il controllo del territorio ci fu anche l’on. lodovico ligato, giusti-ziato davanti alla sua vil letta, sotto la ferrovia a Bocale, quindici chilometri da reggio Calabria, da un commando dello schiera-mento contrapposto ai de Stefano.

Alla guerra di mafia si intrecciò anche il cosiddetto “Decre-to Reggio”, un pacchetto di finanziamenti per la realizzazione di opere pubbliche e per la creazione di posti di lavoro. Vennero isti-tuiti comitati di affari, intrecci pericolosi tra malavita e politica, tra mafia e massoneria deviata.

l’ultimo atto della guerra, nell’agosto del 1991, fu l’omicidio del ma gistrato Antonino Scopelliti, sostituto procuratore presso la Procura Ge ne rale della Corte di Cas sazione. Questo delitto co-stituì uno dei mo menti più alti della comunanza di interessi con Cosa Nostra, quanto meno fi naliz zata ad una sorta di mutuo soc-corso. Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappre sentare l’accusa in Cassazione al maxi-processo istruito dal pool antimafia di Pa-lermo.

Poi scoppiò la pace. Anzi più che una pace fu un patto di non belligeranza: la guerra si concluse senza vincitori, né vinti, ma con la volontà unanime di mettere da parte le armi per concentrar-si sui grandi traffici di droga.

La mafia, dopo l’uccisione di Scopelliti e dopo le stragi di Ca-paci e Via d’A melio, cercò di convincere la ’ndrangheta a se-guirla sulla strada dello scontro frontale con lo Stato. la proposta dei corleonesi venne discussa e respinta nell’estate del 1992 in una riunione tenutasi a Nicotera a casa del boss luigi Mancuso. Il summit precedette di poco gli attentati di Firenze e di roma. Conferma Franco Pino, oggi collaboratore di giustizia: «...in Ca-labria non si era mai stati favorevoli al rumore ed allo scontro

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aperto con le istituzioni, abbiamo sempre preferito delegittimare i giudici scomo di».

la pace di reggio Calabria portò alla creazione di una com-missione formata dai rappresentanti delle famiglie più importan-ti della provincia. una sorta di camera di compensazione, come l’ha definita il pentito Gae tano Costa, «con il com pito di gestire una fase di difficile e complessa tran sizione, dopo anni di guerra scellerata e fratricida, dopo anni di scon tro totale e generalizzato che aveva finito con l’indebolire ed impove rire i ‘locali’ aperti ed operanti in provincia di reggio Calabria» 1.

Furono soprattutto i boss della mafia siciliana a insistere per sanare le fratture. racconta il pentito Filippo Barreca che le trat-tative furono molto laboriose. I Tegano e i libri erano favorevoli alla tregua, l’avvocato Gior gio de Stefano subordinava le trat-tative di pace alla consegna degli as sas sini del cugino Paolo. A convincere tutti dell’utilità di deporre le ar mi, ol tre ai siciliani, se-condo lo stesso Barreca, furono Antonio Pelle, det to Gam bazza, e Nino Mammoliti di Castellace. Altri collaboratori sostengo no, invece, che a mediare tra Pasquale Condello e Giorgio de Stefano fu do menico Alvaro, il capo società del ‘locale’ di Sinopoli.

Si è parlato anche dell’intervento di boss dei locali esteri ma la notizia non ha trovato riscontri oggettivi2.

Scrive la Commissione Parlamentare Antimafia: «L’accordo ebbe rilevanti ripercussioni sulla struttura di vertice. E infatti, se-condo il racconto di molti collaboratori, si venne a formare una struttura di raccordo e di comando tra i capi delle maggiori fami-glie ca labresi. Tale struttura è simile, ma non identica, alla ‘Com-missione’ di Cosa Nostra. Essa non è un organismo permanente, si riunisce solo in de terminati momenti e per decidere su que-stioni particolarmente rilevanti. la particolarità di tale organismo

1 rinvio a giudizio di Matacena Amedeo, di cui al procedimento nr. 42/97 r.G.N.r. – D.D.A. presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria.

2 Alcuni pentiti indicarono la presenza e/o l’intervento di Vic Cotroni, boss di Cosa Nostra a Montreal, senza considerare che il vecchio padrino era già morto da tempo (1984).

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consiste nel fatto che esso da un lato im pegna tutte le ’ndrine al rispetto di queste decisioni e dall’altro le la scia del tutto autono-me per quanto riguarda il resto delle attività mafiose. Con ciò la ’ndrangheta è finora riuscita a garantire un comando cen tralizzato delle questioni più delicate – superando, così, una storica man can-za di di rezione unitaria – nel contempo è riuscita a lasciare ampi mar gini di au tonomia ad ogni singola ’ndrina, assecondando in tal modo istanze e caratteristiche di fondo della plurisecolare storia della mafia calabrese».

C’è da dire comunque che la Corte di Assise di reggio Cala-bria, a conclusione del processo olimpia, ha ritenuto che «dal-l’esame del materiale probatorio raccolto non possa desumersi l’esistenza di un superorganismo mafioso di vertice». La Corte è arrivata a questa conclusione perché «tutti i collaboratori di giu-stizia escussi hanno riferito di averne appreso l’esistenza da altre persone e nessuno di loro ha menzionato l’esistenza di con crete riunioni tenutesi per risolvere singole situazioni di tensione crea-tesi tra le varie cosche» e perché «non sempre i collaboratori di giustizia han no indicato le stesse persone».

l’operazione Armonia, qualche anno dopo, riusciva a fugare i dubbi sui nuovi assetti di vertice della ’ndrangheta reggina, ri-levando, durante una conversazione tra due ’ndranghetisti, l’esi-stenza di tre mandamenti, quello jonico, quello tirrenico e quello di centro, suddivisi in collegi, verosimilmente un surrogato se-mantico dei tradizionali locali.

Altre intercettazioni confermavano l’esistenza di un “autore-vole organi smo” denominato la “Provincia”, in grado di interve-nire anche nelle questioni interne dei singoli locali3.

3 Il nuovo organo collegiale, secondo gli inquirenti, è riuscito a conseguire alcuni importanti risultati, come la composizione della faida che contrapponeva gli Asciutto-Grimaldi agli za gari-Viola a Taurianova e quella che ha visto di fronte i Commisso e i Costa a Siderno. Un al tro conflitto è stato sedato sul nascere tra due famiglie tradizio-nalmente rivali di San luca e pro gressi sono stati registrati per evitare ulteriori spargi-menti di sangue a locri e roghudi.

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Oltre alle faide in corso, si è deciso di porre fine ai sequestri di persona.

racconta un vecchio boss della ’ndrangheta che ormai non vive più in Calabria: «Il nuovo corso è stato dettato dalla neces-sità di ridurre l’attenzione e la pressione dello Stato sulla città e sulla provincia di reg gio Calabria per poter con tinuare in tutta tranquillità a gestire una serie di affari, dagli appalti pub blici e privati al lucroso traffico di stu pefacenti, senza dover più pagare il grande costo, e correre l’alto rischio, di una guerra che aveva decimato le famiglie di entrambi gli schieramenti, col pendo non solo i picciotti, ma anche quadri dirigenti di notevole spes sore criminale».

la ’ndrangheta ha scelto di agire sotto traccia, imboccando di nuovo la via che le aveva permesso di esercitare un pesante con-trollo del territorio senza che il suo potere fosse a tutti evidente.

Secondo Gaetano Costa, il cambiamento è stato contrassegna-to anche dall’adozione di un nuovo nome per l’intera associazio-ne: seguendo l’e sem pio siciliano, infatti, la ’ndrangheta avrebbe da qualche anno assunto l’appellativo di Cosa Nuova.

A parte il nome, su cui si sono registrate opinioni contrastanti, alla nuova camera di controllo spetterebbe il compito di rappre-sentare l’intera or ganizzazione di fronte ad altri consorzi crimina-li e mantenere contatti con le logge massoniche, i politici collusi e istituzioni deviate, al fine di mas si mizzare i profitti della ’ndran-gheta nella sfera politica ed econo mica.

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CAPITolo 6º

La ’ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria

la forza della ’ndrangheta nella provincia di reggio Calabria è con fer mata dai numeri: decine di “locali” con un esercito di 7.358 presunti af filiati, tra cui 255 donne, pari al 3% del totale.

I “mandamenti” garantiscono un controllo pervasivo del terri-torio. Le cosche della fascia jonica sono più impegnate nel traffi-co di droga, grazie anche alle radicate proiezioni nel Nord Italia; quella della fascia tirrenica risultano maggiormente orientate alla gestione economica del territorio in cui operano.

Nel circondario di reggio Calabria, Cardeto, Santo Stefano d’A spro monte, Sant’Alessio d’Aspromonte, laganadi e Motta San Gio vanni, attualmente, operano le cosche Araniti, Condel-lo-Imerti-lo Giu di ce-Iannò-Surace-Marra, de Stefano-Tegano-d’Agostino-Franco-Mora bi to d.-Barreca, Ficara, labate, latel-la, libri-zindato, rosmini, rugoli no, Sa ra ceno-Fontana-Trapani, Serraino P.-Ficara (intesi Ficareddi, Serrai no). Ma ci sono anche i Postorino, Nicolò, Caracciolo, Musolino, latella, Caridi, Poli-meni, Cannizzaro, Chirico, Cru citti, e Ambrogio, quasi tutti coin-volti nel la seconda guerra di ma fia.

dopo la pace siglata da Giorgio de Stefano e Pasquale Con-dello, si è deciso di dividere il territorio di reggio Calabria in tredici com prensori, assegnando ciascuno di essi ad una diversa famiglia coinvol ta nei due schie ra menti.

Nell’abitato di reggio sono state create tre grandi zone, nord, centro e sud. la zona nord, in direzione Gallico, è stata assegnata alle famiglie rag gruppate attorno al gruppo Condello-Saraceno-

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Imerti; la zona centro, quel la economicamente più rilevante, è stata attribuita alla gran parte delle consorterie raccolte attorno ai de Stefano-Tegano-libri; la zona sud è sta ta assegnata ai latel-la-Ficara, con i labate ristretti nel quartiere Geb bione. Nel com-prensorio operano anche le famiglie Araniti, Fontana, zin dato, Chi rico, Serraino-di Giovine e Barreca.

Nonostante la guerra e gli ultimi arresti che hanno portato in carcere molti pericolosi latitanti, le cosche di reggio Calabria continuano a co stituire un punto di riferimento importante per tutte le ’ndrine calabresi.

Nella zona di reggio Calabria quasi tutti i ‘locali’ dispongo-no di armi e di uomini pronti ad usarle. le attività più redditizie continuano ad essere il traffico di droga, il commercio di armi, lo smaltimento dei ri fiuti tossici e nocivi, il racket delle estorsioni 1 e le in fil trazioni nei vari settori dell’economia legale.

Nel traffico di droga, la ’ndrangheta di questa provincia ha consolidato la propria leadership a livello internazionale, intensi-ficando i legami con altre consorterie criminali, anche nei settori del ri ciclaggio di proventi illeciti, realizzato attraverso sofisticati e consolidati network finanziari.

Gli in teressi delle varie ’ndrine sono stati indi rizzati anche sui lavori di ammodernamento dell’autostrada A3 Salerno-reggio Calabria e sulle atti vità connesse al porto di Gioia Tauro che ha assunto un ruolo fonda mentale negli scambi commerciali del-l’area del Mediterraneo.

Proprio nel porto di Gioia Tauro, il 24 maggio del 2002, il Raggrup pamento Speciale Operativo (Ros) dei Carabinieri ha scoperto circa 225 chilogrammi di cocaina a bordo della moto-nave “Greenwich Maerks”, proveniente dal porto di Cartagena, in Colombia, nell’ambito dell’inda gine “Thessaloniki” che, tra l’altro, ha accertato un circuito relazionale che coinvolgeva per-sonaggi di spessore internazionale stanziati in Grecia, Bul garia, Macedonia e Albania. Altrettanto significativa è stata l’opera-

1 Secondo il rapporto 2006 della Confesercenti, il 70% delle imprese di Reggio Calabria paga il pizzo.

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zione condotta dal Gruppo Operativo Antidroga (Goa) della Guardia di Finanza di reggio Calabria che il 2 novembre del 2003, in uno dei containers sbarcati da una nave prove niente dalla Spagna, ha scoperto e sequestrato 350 chilogrammi di cocai na, celata in fusti contenenti succo di ananas.

Gli ultimi rapporti di intelligence, comunque, sottolineano l’esistenza a reggio Calabria di una situazione di fragilissima coesistenza fra i “locali” di ’ndrangheta più rappresentativi che esercitano, in regime di apparente convivenza e secondo logiche spartitorie consolidate, il loro potere criminale.

Scrive il roS dei Carabinieri di reggio Calabria:

«In effetti, nell’ultimo periodo si è regi strata una la-tente conflittualità, che ha innalzato l’indice d’in cidenza degli eventi estorsivi2 e rimodulato gli assetti dei ‘locali’ ope ran ti nei quar tieri di San Giovanello 3, Cannavò 4, Ter-reti 5 e Pellaro 6, ge stiti ri spettiva mente dalle consorterie Audino-Postorino, libri, Polimeni e Ficara, inserite nel cartello criminale facente capo, da una parte, alla fa mi glia de Stefano e, dall’altra, a quella Tegano. Proprio all’inter-no di que st’ul timo raggruppa men to criminale, si registra il dato più importante in or dine ad estreme ten sioni che

2 la città di reggio Calabria è stata teatro di una serie di attentati incendiari e dinamitardi, perpetrati quasi quotidianamente, in danno di imprenditori, commercianti e amministratori pubblici, la cui fre quenza sembra esorbitare dalle abituali dinamiche criminose legate alle attività estorsive, nonché pre ludere a una possibile incrinatura degli equilibri mafiosi esistenti.

3 Si tratta di un quartiere di reggio Calabria, collocato a ridosso dell’ospedale “Isti-tuto ortopedico” situato nella parte nord della città, delimitato dalla via Cardinale Por-tonuova, dalla via Eremo e dalla via reggio Campi.

4 Si tratta di una frazione di reggio Calabria, collocata nella parte collinare e set-tentrionale della città, delimitata dal raccordo tra la SS 106 e l’autostrada A/3 e dalle frazioni di Mosorrofa e Cataforio di reg gio Calabria.

5 Si tratta di una frazione di reggio Calabria, collocata a ridosso del centro abitato di ortì e delimitata dalla via reggio Campi Alta e dalla frazione Pietra Sorta.

6 Si tratta di una frazione di reggio Calabria, situata nella parte sud della città, delimitata dalle frazioni Bocale, lazzaro e San Gregorio.

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stanno pregiudicando la storica alleanza tra i com ponenti di en tram be le strutture. A ben vedere, i prodomi di tale con flit tualità sono ricon duci bili alle dialettiche crimina-li intra nee al ‘locale’ di San Giovannello, retto sino alla sua uccisione da Audino Mario Salvatore ed in particolare alla gestione delle estorsioni in danno degli imprenditori ed esercenti com merciali operanti nel centralissimo Corso Garibaldi di questo capoluogo di provincia. In effetti, a seguito della consolidata alleanza tra sversale, intercorsa tra quest’ultimo ed il latitante de Stefano Giuseppe 7, la famiglia Tegano era rimasta esclusa dalla spartizione de-gli illeciti ricavi predatori, nonostante che l’Audino fosse organicamente inserito nella fami glia Tegano. A tal ri guar-do le oggettivazioni investigative 8 avevano con sentito di condurre una qualificata azione di contrasto nei confronti degli affiliati alla famiglia Tegano che, per come emerge, continuano a ma nife stare costantemente un’e le vata capa-cità aggressiva nei confronti delle com ponenti sociali ed istituzionali locali, basata fondamentalmente sul con trollo degli appalti pub blici e sul riciclaggio degli illeciti capitali. In effetti, lo scollamento emerso tra i de Stefano ed i Tega-no, culminato con l’eli mina zione fisica di Audino Mario, avvenuta il 18 dicembre 2003, è stato ulte riormente docu-mentato in maniera oggettiva, grazie alla censura tecnica di una conversazione ambientale 9, nel corso della quale

7 Nato a Reggio Calabria il primo dicembre del 1969 è figlio del defunto boss Paolo de Stefano, ucciso il 13 ottobre 1985. lo stesso è latitante perché colpito dal provve-dimento restrittivo nr. 981/2003 emesso dal Tribunale di reggio Calabria ed inserito nell’elenco dei “30” latitanti più ricercati, stilato dal Ministero degli Interni.

8 Indagine FulMINE del r.o.S.9 In particolare, nell’ambito dell’indagine FulMINE, il 14 dicembre 2004, veniva

intercettata una conversazione durante la quale un noto esponente dei TEGANo così si esprimeva: « ..Franco è destinato che deve morire, caso mai ci sono altri …..incomp… ha sbagliato di brutto..». dal complesso ge nerale della conversazione il “Franco”, è stato identificato in AudINo Francesco, fratello di AudINo Mario, ucciso in reggio Calabria il 19.12.2003.

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esponenti della cosca Tegano avevano predisposto l’ucci-sione del fratello Audino Franco, pluri pregiudicato, in atto reggente la cosca d’appartenenza. Che sia stato un omici-dio, legato alla volontà dei Tegano di compattare le fila dei propri af filiati e riconfermare il proprio ruolo di guida e di vertice è innegabile, e ciò è emerso non solo dalla mancata risposta armata al delitto di sangue esa mi nato, ma anche dal ritrovamento delle armi sul luogo del delitto: questa circostanza ha un preciso senso e cioè, da una parte, im-plica il totale coin volgimento nell’esecuzione dell’azione di sangue suddetta dei reggenti la fa miglia Tegano, al cui interno l’Audino si era imposto come esponente di massi-ma fiducia e, dall’altra, esprime, per certi versi, una sorta di messaggio di rassicurazione ai componenti del locale di San Giovannello che le opera zioni armate sono state con-dotte solo ed esclusivamente all’indirizzo del Ca po Socie-tà, il cui comportamento, evidentemente non in linea con gli accordi assunti, ne ha determinato anche la sua stessa eliminazione fisica.

A seguito dell’eliminazione fisica dell’Audino e della successiva cattura di Tegano Pasquale10 detto “noccioli-na”, avvenuta il 5 agosto 2004 ad ope ra del roS, consi-derato lo storico Capo Società dell’omonima famiglia, si sono evidenziate, in maniera sempre più radicale, le lace-razioni e le fratture con la frangia criminale de Stefano, a tal punto che Tegano Giovanni11, latitante e reggente lo schieramento, unitamente ai fratelli Paolo12, Giusep pe13 e

10 Nato a reggio Calabria, il 14/01/1955, in atto sottoposto al regime detentivo, previsto dall’art.41 bis dell’ordinamento giudiziario.

11 Nato a reggio Calabria il 08.11.1939, coniugato con MArTINo Maria Carmela, inserito nell’elenco dei “30” latitanti compilato dal Ministero degli Interni.

12 Nato a reggio Calabria il 04.04.1943, commerciante, titolare di lavanderia, plu-ripregiudicato.

13 Nato a reggio Calabria il 16.08.1944, commerciante, titolare di pizzeria, pluri-pregiudicato.

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Bruno14, ottenuta la neutralità dei componenti la struttura criminale ca peggiata dal latitante Condello Pasquale15, ha predisposto un progetto, per ora realizzato solo sul piano diplomatico e relazionale, finalizzato ad iso la re i più fedeli adepti alla famiglia de Stefano, evitando contestualmente l’accendersi di conflittualità armate, ritenute pregiudizie-voli e sconvenienti per la conduzione degli affari illeciti da tutto il gotha ’ndranghetista reggino.

Il rapporto dei r.o.S. così prosegue:Parallelamente sul fronte destefaniano, sebbene la strut-

tura abbia subi to, al pari di quella riconducibile ai Tegano, un’importante ridimensiona mento con la cattura del latitante de Stefano orazio16, avvenuta la sera del 22 febbraio 2004, si è assistito, grazie alle indubbie capacità carismatiche di de Stefano Giorgio17, coadiuvato dal cugino Giusep-pe, in atto latitante, ad un rafforzamento delle politiche di alleanza con i componenti delle princi pali famiglie, ope-ranti nel comprensorio di questo capoluogo di provincia, ed in particolare con i latella, i labate ed i Libri al fine di mantenere e svi luppare una credibile struttura criminale che compensi, non solo le eventuali reazioni armate dei Tegano, ma soprattutto il crescente potere delinquen zia le espresso, non solo in questa Provincia, ma in tutta la re-gione, dal latitante Condello Pasquale 18.

D’altra parte, a proposito della figura e del ruolo rico-perto da quest’ul timo nel panorama criminale calabrese,

14 Nato a reggio Calabria il 12.03.1949, commerciante, pluripregiudicato.15 Nato a reggio Calabria il 24.09.1950, pluripregiudicato, ricercato sin dal

28.11.1990 ed inserito nella lista dei “30” latitanti più pericolosi.16 Pregiudicato, Capo Società, inserito noto elenco 30 latitanti più pericolosi ambito

nazionale e ricercato dal 1988.17 Nato a reggio Calabria il 27.11.1948, avvocato, pluripregiudicato.18 Nato a reggio Calabria il 24.09.1950, pluripregiudicato, ricercato sin dal

28.11.1990 ed inserito nel noto elenco dei “30” latitanti più importanti stilato dal Mi-nistero degli Interni.

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si è manifestata in maniera sempre più qualificata la sua opera criminale, distinguendosi non solo per le ogget tive capacità di mediazione e pacificazione nel variegato e de-licato pano rama criminale reggino, sin dai tempi della pax mafiosa del 1991 e per ulti mo nel contesto dei contrasti e dei dissidi insorti tra i de Stefano ed i Te gano, ma anche per la comprovata attitudine a penetrare il tessuto econo-mico reggino, non solo in fase predatoria (estorsioni, usura e rapine), ma ad di rittura attraverso forme di comparteci-pazione e di diretta ingerenza (ap palti pubblici) mediante espressioni imprenditoriali di propria e diretta ema nazione, come le società “Sor. Nova.” di Ionetti Alfredo ed “Edil Primavera” di Alampi Matteo, individuati in maniera og-gettiva dal r.o.S.19.

«Condello Pasquale, strettamente coadiuvato dal cu-gino domenico 20, an ch’esso latitante, opera in posizione apicale nel raggruppamento crimi nale composto dalle co-sche Imerti di Fiumara di Muro (RC), Buda di Villa San Giovanni (RC), Serraino di Cardeto (RC) e di Santo Ste-fano d’Aspro monte (RC), rosmini del quartiere Modena di Reggio Calabria (RC), Fontana-Saraceno del quartiere Archi Carmine di reggio Calabria, rugolino della fra-zione Arghillà di reggio Calabria e Araniti delle frazio ni Sambatello e diminniti di reggio Calabria».

19 Nel corso delle attività investigative rispettivamente denominate VErTICE e roNIN.

20 Nato a reggio Calabria il 4 novembre 1956, coniugato, nullafacente, pluripre-giudicato, ricercato dal 1992, inserito nell’elenco dei “30” grandi latitanti, stilato dal Ministero degli Interni.

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CAPITolo 7º

La ’ndrangheta nelle altre province della Calabria

la ’ndrangheta, come abbiamo detto, prese inizialmente pie-de nella provin cia di reggio Calabria. oltre al capoluogo, nella seconda metà del l’ottocento, furono interessati i comuni di San Luca, Iatrinoli e Radicena (l’odierna Tauria nova), Molochio, Melicuccà, Polistena, Palmi, Si nopoli, rosarno, S. Ferdinando, Siderno, Cittanova, S. Ste fano d’Aspro monte, A frico, rocca-forte del Greco, Bova, Bovalino, Palizzi, ro ghudi, Condo furi, Seminara, Gioia Tauro, Maropati, Pietrapennata, Villa San Gio-vanni, Cam po Calabro, Fiumara, op pido Mamertina e Sci do. Con tem pora nea men te vennero segnalate presenze di organizza-zioni criminali ricon ducibili alla Picciotteria in provincia di Ca-tanzaro e in particolare a Nica stro e Sam biase (Lamezia Terme), Mon teleone (l’odierna Vibo Valentia), Arena, Ricadi, Gizzeria e Plata nia, rombiolo, Mileto, dinami, San Costantino e Nicotera. un apparizione fugace si registrò a Cosenza nei primi anni del Novecento.

dagli anni Sessanta in poi è cambiato tutto. la ’ndrangheta si è espansa in tutte le province della Calabria, anche laddove prima era del tutto assen te, è penetrata via via nel Centro e nel Nord Italia e si è irradiata in vari paesi stranieri, seguendo la catena migratoria di milioni di calabresi onesti e laboriosi e utilizzando anche la misura del soggiorno obbligato, con cui il Governo pen-sava di estirpare la malapianta mafiosa dalla regione di ori gi ne. Il triangolo industriale è stata la prima destinazione. Pezzi della ’ndrangheta si sono trasferiti in Piemonte, liguria e lombardia,

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il pol mone del miracolo economico italiano nel secondo dopo-guerra.

oggi in Calabria non esistono più isole felici. la ’ndrangheta ha con quistato gli ultimi lembi di questa regione sfuggiti alle sue leggi.

la repubblica, 17 agosto 2007, p. 10

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La provincia di Catanzaro

Nella provincia di Catanzaro, la ’ndrangheta ha trovato terre-no fertile già nella seconda metà dell’ottocento. A Nicastro, oggi comune di lamezia, si ha notizia della presenza di camorristi già nel 1887.

A Catanzaro, dove nel 1903 è stata sgominata un’organizza-zione crimi nale nota come “società della malavita catanzarese”, le ’ndrine locali hanno sempre subito l’influenza dei Mancuso di limbadi e degli Arena di Isola Ca po rizzuto. Negli ultimi tempi, si è registrata una sorta di coreggenza de gli Arena con la cosca dei Gaglianesi, un’organizzazione dotata di gran de “pervicacia cri-minale”, aperta anche alla banda degli zingari, che re centemente è stata al centro di un’operazione condotta dalla squadra mobi le di Catanzaro in collaborazione con il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato (Sco). La cosca dei Ga glianesi a Catanzaro era attiva e radicata nel territorio già agli inizi degli anni ’90, quando era stata colpita una prima volta dalle forze dell’ordine. A distanza di anni, però, si è ri costituita sotto la direzione di Gino Costanzo, il capo storico, attualmente in car cere dove sta scon-tando una condanna all’ergastolo per omicidio. Nel capoluogo assieme ai Costanzo operano anche i Catanzariti.

Nel lametino, roccaforte storica della ’ndrangheta, le cosche principali sono tre: quella dei Cerra-Torcasio, o perante nella zona Capizzaglie di Ni castro, alleata con i Gualtieri di lamezia e con i Giorgi-Pizzata di San lu ca; quella dei Giampà di Nicastro, allea-ta con i Iannazzo di Sambiase; e quella dei da Ponte-Cannizzaro. Sono attive anche le famiglie de Fazio, Bagalà, Argento, Mauro-Corrado, dattilo, Gattini, Mercuri-Arcieri-Stran gis 1.

Nel 2000, si è creata una spaccatura tra lo schieramento ma-fioso dei Cerra-Torcasio e quello dei Iannazzo-Giampà2. Questo

1 Direzione Investigativa Antimafia, relazione 2000, secondo volume, p. 105.2 Gravitano attorno a queste quattro famiglie, in un contesto di alleanze, rivalità,

subordinazione e gestita neutralità i gruppi Gualtieri, da Ponte-Cannizzaro, Pagliuso ed Anello.

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scontro, che ha dato origine ad una vera e propria guerra di mafia, ha causato, nel periodo tra settembre del 2000 e giugno del 2003, dieci omicidi e cinque tentati omicidi (operazione Tabula Rasa).

Scrive la Commissione parlamentare antimafia:

«dopo i violenti delitti che l’hanno caratterizzata nel 2003, ed una fase transitoria di non bellige ranza, la fai-da tra le cosche Cerra-Torcasio e Iannazzo è ripresa con altri omicidi. Nel 2004 si è progressivamente affermata la leadership della citata cosca Iannazzo sulla compagine contrapposta. la posizione dei Ian nazzo è stata anche raf-forzata dall’alleanza con esponenti di spicco della co sca Giampà. In tale quadro i Iannazzo hanno orientato i propri inte ressi verso lucrosi affari derivanti dalle attività com-merciali ed imprenditoriali e nel settore degli appalti. È stato confermato il ricorso strumentale ad atti intimidatori di particolare gravità. È inoltre stata rilevata la pre senza del c.d. ‘gruppo di Sambiase’, composto dalle famiglie Pu-lice-An zalone-Chieffallo, dedito alle estorsioni ed affiliato ai Can nizzaro e quindi ai Iannazzo»3.

Sono ripresi anche gli attentati contro amministratori locali. Proprio a lamezia negli anni Settanta si era registrato il primo de-litto eccellente, con l’uccisione dell’Avvocato dello Stato, Fran-cesco Ferlaino, avvenuto il 3 luglio 1975.

Nell’ottobre del 2006 cinquemila manifestanti sono scesi in piazza a lamezia Terme per protestare contro gli attentati dina-mitardi ai danni di molti imprenditori della zona che hanno supe-rato ogni limite, come ha sottolineato il sindaco Gianni Spe ran za. «Facciamoci sentire, per non farci sep pellire», è stato lo slogan che ha aperto il corteo 4.

3 Commissione Parlamentare Antimafia, Sintesi Relazione finale 2004.4 In una indagine condotta dal Centro “riforme-democrazia-diritti” su un campione

di 450 giovani lametini di età compresa tra i 16 e i 21 anni, il 27,75% degli intervistati

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Nel resto della provincia, la zona dell’alto versante jonico è controllata dagli Scumaci-Mannolo, dai Pane-Iazzolino (al leati con la cosca Manno lo di Cutro), dal gruppo Scalise, dai Carpi-no di Petronà (alleati agli Arena) e dai Bubbo (alleati alla cosca Coco-Trovato di Marce nise)5.

Tra i Bubbo e i Carpino di Petronà si sono registrate tensioni ricon ducibili a con trasti per gli appalti boschivi. la faida che ne è scaturita ha avuto il suo momento più cruento nel biennio 1992-93, causando sette omicidi, sei tentati omicidi e un caso di lupara bianca.

Attivi in questa zona sono an che i Ferrazzo di Meso raca che vantano collegamenti anche in Svizzera.

Sul versante opposto, a Guardavalle e nel soveratese operano le cosche Procopio-lentini di Satriano e davoli, e Gallace-Novel-la di Guardavalle, entrambe inserite nei cartelli di narco traf ficanti attivi a Milano, Torino e ro ma. Gli altri clan sono i Iozzo-Chie-fari a Chiaravalle-Cardinale, i Pilò-Gia cobbe a Borgia e dintorni, i Tolone nella zona di Vallefiorita e i Sia a So verato, Montauro, Montepaone, Gagliato e Petrizzi. Questi ultimi, attivi nel settore degli stupefacenti, sono legati ai Valle lunga di Serra San Bruno e ai Procopio-lentini di Satriano6.

Segnala la commissione parlamentare antimafia7: «Sono ri-sultati par ti colarmente diffusi, nel capoluogo e nel lametino, lo sfruttamento della pro stituzione, connessa a fenomeni di immi-grazione clandestina di citta dine dell’Europa dell’Est, e le attività estorsive (tipica forma di controllo e sfruttamento del territorio). Tutte queste fenomenologie si sono affian cate ai prevalenti inte-ressi criminali, quali i traffici di stupefacenti, che han no visto la provincia quale zona di transito di grossi quantitativi desti nati ai

ritiene che la ’ndrangheta sia un male inevitabile. Per il 22,74%, invece, è un fenomeno che si può estirpare, mentre per il 66,21% costituisce un ostacolo alla crescita civile ed economica.

5 dia, relazione 2003, ibidem, p. 106.6 dia, Ibidem, p. 106. Erano legati anche ai Costa di Siderno.7 Commissione Parlamentare Antimafia, Ibidem.

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mercati del Nord Italia e di alcuni Paesi europei, e quelli di armi, operati in collegamento con esponenti di altre organizzazioni. È sembrata sempre più consolidata l’abilità della ’ndrangheta a pe-netrare il sistema pro duttivo, mantenendo una costante capacità di adattamento all’evolu zio ne economica della società civile. le attività meno redditizie sono state lentamente abbandonate per in-teressi economico-finanziari più remunera tivi, come i mercati im-mobiliari, le attività finanziarie e i grandi appalti pubblici. I reati c.d. di “criminalità diffusa” maggiormente consumati so no il fur-to di autoveicoli ed in appartamento, da ricondursi prevalente men-te all’opera di zingari, ormai stanziali, dimoranti nel catanzarese e nel lametino. Al riguardo, il furto di autoveicoli si è dimostrato presup posto delle successive estorsioni con le quali si richiede ai proprietari una somma per la restituzione del mezzo (c.d. cavallo di ritorno). Da segna lare, il nuovo interesse delle citate comunità gitane verso il mercato al mi nuto degli stupefacenti nonché i ten-tativi di avvicinamento alla crimi nalità organizzata locale».

La provincia di Cosenza

Quella di Cosenza è stata l’ultima delle province calabresi a finire nella mor sa della ’ndrangheta. Nel 1903 venivano condan-nate 86 persone che avevano dato vita ad una organizzazione che ricalcava fedelmente la struttura della picciotteria nelle province di reggio Calabria e Catanzaro. dopo quella esperienza le orga-nizzazioni criminali rimasero lungamente sotto traccia. Tornarono alla ribalta il 14 dicembre del 1977, quando a Cosenza ven ne uc-ciso luigi Palermo, capo storico della ’ndrangheta cosentina, det-to “u zorru”. A ordinarne l’uccisione fu Franco Pino, allora boss emergente. Scoppiò una guerra senza quartiere. Con i Sena-Pino si schierarono i Muto di Cetraro, i Basile-Calvano di San lucido e i Cirillo operanti nella Sibari tide e spalleggiati dalle famiglie della Piana di Gioia Tauro e dalla Nuova Camorra organizzata di raffaele Cutolo. Con la compagine dei Perna-Pranno-Vitelli si allinearono invece gli Africano di Amantea e i Serpa di Paola.

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La guerra andò avanti fino alla fine degli anni Ottanta. Vennero uccise 27 persone, tra cui un dodicenne, Pasqualino Perri, figlio di un e sponente del gruppo Pino-Sena.

Altro episodio significativo di quel violento scontro fu il dupli-ce o micidio Geria-Saffioti, avvenuto il 6 agosto 1983 a Scalea. I due, espo nenti della ’ndrangheta reggina, vennero eliminati da un com mando del gruppo “Pino-Sena”, nell’ambito di uno scambio di favori con le cosche di reggio Calabria facenti capo a Pasquale Condello e Giovanni Fontana.

Alla fine degli anni ’80 venne siglata una sorta di “pax” mafio-sa che tuttavia ebbe breve durata a seguito del distacco del gruppo Bartolomeo-Notargiacomo dalla cosca dei Perna-Pranno-Vitelli. Fu in questo contesto di conflitti intestini che maturò l’omicidio del direttore del carcere di Co senza Sergio Cosmai, ucciso il 12 marzo 1985 dagli emissari di Francesco Perna che si era proposto di consolidare il potere del clan anche all’interno del carcere di Cosenza.

In questa seconda guerra di mafia, uno degli episodi più effe-rati fu l’assassinio dei fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, rispettivamente di 24 e 26 anni, sequestrati il 5 gennaio del 1991. I cadaveri dei due fratelli, come hanno dichiarato gli stessi as-sassini, Aldo Acri, Ferdi nando Vitelli, Angelo Santolla e Mario Pranno, furono sciolti nel l’acido. un altro minorenne, Francesco Bruni, nel novembre del 1991, era stato ucciso per una vendetta nei confronti del padre, ritenuto responsabile della morte di Fran-cesco Carelli, vicino al gruppo Pranno-Vitelli.

È stata l’operazione “Missing”, condotta dal raggruppamento speciale operativo e dal comando provinciale dei carabinieri di Cosenza e conclusasi nell’ot tobre del 2006, a ricostruire un quar-to di secolo di guerre di mafia tra clan co sentini. È stato possibile anche verificare gli attuali assetti delle cosche nella provincia, colpite dall’esecuzione dei provvedimenti. Sono stati arrestati i principali esponenti in libertà dei gruppi criminali attivi a Co sen-za, tra i quali Giuseppe Iirillo e dome nico Cicero, della origina-ria cosca Perna-Pranno, ed i fratelli Michele e Pasquale Bruni, capi dell’omo nimo gruppo criminale. Nell’inchiesta sono stati

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coinvolti anche potenti boss da tempo detenuti, come Francesco Muto, storico capo dell’omonima cosca di Cetraro, nonché ro-meo Calvano e Giuliano Ser pa, rispetti-vamen te a capo delle co-sche di San lucido e di Paola. la presenza di Pasquale Condello tra i destinatari dei provvedimenti ha confer mato i rap porti tra la ’ndrangheta reggina e le cosche attive nel nord della regione, già emersi nelle operazioni “Galassia” ed “Eclissi” della Procura di-strettuale Antimafia di Catanzaro.

oggi, in seguito ad indagini è emersa l’esistenza di un diret-torio, un “locale” sorto nel capo luogo, ma con competenza pro-vinciale, per tenere a bada gruppi emer genti o stori ca mente an-tagonisti e per consentire lo sfrut tamento delle cospicue ri sor se finanziarie de sti nate a questa provincia. Fa rebbero parte di questo organismo i clan dominanti di Cosenza e pro vincia.

Secondo i rapporti di intelligence, nel capoluogo continua a do-minare il cartello Perna-Ruà, nel quale sono confluiti i superstiti delle famiglie Per na-Cicero-Pranno, e Pino-Sena. un tempo i due clan erano feroce mente con trapposti. oggi appaiono uniti sotto la direzione di due boss: Ettore lanzino e domenico Cicero 8.

Sempre a Cosenza, lo spaccio di droga sarebbe interamente gestito dal gruppo di zingari, un tempo capeggiati da Francesco Bevilacqua, detto “Franco i Mafalda”, at tual mente collaboratore di giustizia.

Il raggruppamento operativo Speciale:

«Con il riassetto degli equilibri criminali avviato a se-guito delle operazioni Galassia, Gar den, Ciak 1 e 2, Pi-ranha 1, Piranha 2000 e luce, nel capoluogo cosen tino ha progressivamente assunto un ruolo di rilievo il gruppo dei cd. zingari, vicini prima alla cosca Perna e poi alla cosca Pino. In realtà, questo numeroso gruppo ha sempre rappre-sentato l’ago della bilancia ne gli e quilibri criminali, schie-randosi a seconda dei casi con l’una o l’altra con sorteria

8 Direzione investigative antimafia, Ibidem, p. 110.

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mafiosa di Cosenza. In atto, il sodalizio è articolato in due schie ramenti con al vertice Bruzzese Giovanni e Abbruz-zese Celestino, inse diati nella città di Cosenza e nel comu-ne di Cassano allo Jonio; que st’ul tima fazione (nota come Abbruzzese-Elia), unitamente alla storica co sca Carelli di Corigliano, è entrata in contrasto per il controllo del terri-torio e la gestione delle attività illecite con le componenti criminali locali, rap presentate dalla consorteria Faillace-Forastefano».

Nell’area tirrenica operano sempre le cosche Muto-Polillo di Cetraro, Stummo-Valente di Scalea e Belvedere Marittimo, Gen-tile di Amantea, Femia di Santa Maria del Cedro, Tundis-Calvano di San lucido, quale referente della cosca Perna-Cicero, e i Serpa-Martello-Scofano di Paola e Fuscaldo. ultimamente i Serpa hanno preso le distanze dal grup po domi nante Sco fano-Martello 9.

Segnala la Commissione parlamentare antimafia:

«In questa area la ten sione tra le organizzazioni mafio-se si è mantenuta comunque ad alti li velli, a causa dei con-flitti in atto per ristabilire gli assetti che sono stati al terati dall’azione repressiva delle Forze di polizia»10.

Sul litorale jonico e nell’alto cosentino tre sono i locali pre-senti da più tempo: quello dei Manzi-Morfò-Acri a rossano, dei Perri a Corigliano e dei Critelli a Cariati. Quest’ultimo gruppo sarebbe minacciato dalle cre scenti mire e span sionistiche dei Gre-co-Crescenti di Mandatoriccio. Scontri si so no re gistrati anche tra i clan Manzi e Morfò-Acri a rossano e tra le ’ndrine sto riche della sibaritide, principalmente il clan Portoraro, e gli zingari di lau ropoli, un tempo alleati con il clan Carelli.

Conferma la Commissione parlamentare antimafia:

9 dia, Ibidem, pagine 111-210 Commissione Parlamentare Antimafia, Ibidem.

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«la sibaritide e il comprensorio di rossano sono stati caratterizzati da una instabilità do vuta alla precarietà degli equilibri criminali, derivanti sia dalla mancanza di auto-revoli leadership sia dal succedersi di numerose attività repressive. In particolare, dopo gli arresti di Morfò Salva-tore e Acri Nicola, prin cipali esponenti della criminalità di Rossano, sono emerse nuove figure tese a un graduale pro-cesso di stabilizzazione. Nella Piana di Sibari sono risul-tati operativi esponenti della comunità nomade (famiglia Abbruzzese di Cas sano allo Ionio) in contrasto con alcuni gruppi locali. Tale situa zione ha creato una fase di incer-tezza negli equilibri della zona. l’omi cidio di Anto nio Be-vilacqua, legato alla cosca degli Abbruzzese-Pepe di lauro-poli, ha rappresentato l’epilogo della guerra tra i predetti e la cosca contrapposta Faillace-Portoraro-Forastefano per il controllo del mercato degli stupefacenti, considerato l’attività più remunerativa della malavita cassanese che ha visto il piccolo centro tra i più attivi dell’intera provincia. Per quanto riguarda il comprensorio coriglianese, si è regi-strata l’egemonia del clan facente capo ai Carelli, guidato da Perri Natale e da Azzaro rocco, che ha stretto intese operative con la famiglia nomade stan ziale degli Abbruz-zese. Nella zona di Castrovillari, dopo l’uscita di scena di di dieco Antonio, ha assunto una posizione di vertice Esposito An tonel lo. I gruppi cosentini hanno manifestato particolare interesse nei set tori delle estorsioni, dell’usura e del narcotraffico (tale settore, in par tico lare quello della cocaina e dell’eroina, è stato controllato e gestito da per-sonaggi gravitanti nella criminalità organizzata cosentina e da espo nenti della comunità nomade insediatasi in Co-senza ed in Cassano allo Jonio), mentre solo alcune cosche hanno esercitato il controllo delle atti vità con nesse alla pesca ed alla commercializzazione dei prodotti ittici nelle zone di Paola e Scalea e la gestione dei video-poker. È da segnalare l’infil trazione delle cosche cosentine nel settore dei pubblici appalti, attraverso la gestione di alcune impre-

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se aggiudicatarie o con il ricorso al sistema dei sub-appalti e delle forniture mediante il controllo delle ditte interessa-te. Per quanto concerne il fenomeno estorsivo, la cui sta-tistica resta influen zata dalla percezione della generalità degli operatori econo mici quale ‘costo di produzione’ o come sorta di assicurazione, ha se gnato un sen sibile de-cremento. Gli estorsori, appartengono sia alla crimi nalità organiz zata sia a quella comune; quest’ultimi, in maggio-ranza, so no tossicodi pendenti che spesso non esitano ad estorcere piccole somme a chiunque, familiari compresi. Inoltre, specie nel capoluogo, si evidenzia la particola re forma di estorsione, appannaggio di elementi della comu-nità roM, consistente nel furto di veicoli e nella successi-va richiesta di denaro al proprietario per la restituzione del bene asportato. In tutta la provincia sono stati perpetrati reati contro il patrimonio, in particolare rapine, e stor sioni (con la tecnica del ‘cavallo di ritorno’), furti di bestiame a scopo estorsivo o per alimentare il circuito della macel-lazione clandestina. So prat tutto nella piana di Sibari, le manifestazioni di crimi nalità rurale si sono concretizzate, sovente, in attentati e danneggiamenti di strutture a gricole. di particolare rilievo è risultato anche il coinvol gimento di mino renni in reati predatori, nelle estorsioni e nelle con-nesse forme di intimi dazione. Il fenomeno delle rapine ha visto, poi, lo spostamento dell’atten zione della malavita dagli obiettivi tradizionali comportanti maggiori ri schi ad altri più facilmente aggredibili quali le tabaccherie, i di-stributori di carburante, le farmacie, i piccoli supermercati e, in qualche caso, le a bi tazioni. Nella provincia di Cosen-za hanno operato anche gruppi cri minali albanesi attivi nel settore degli stupefacenti, delle armi e nel fa voreggiamento dell’im migrazione clandestina e nel connesso sfruttamen-to, sistematico ed orga nizzato, di persone originarie del-l’Est-Europa e del Nord-Africa. Quest’ul tima attività ha consentito alla criminalità locale, at traverso un rapporto di mutua collaborazione con gli albanesi, di otte ne re armi

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e droga in cambio della gestione dello sfruttamento della pro stituzione»11.

La provincia di Crotone

Il campo d’azione delle cosche crotonesi è sempre stato quello del litorale jonico, dove sono concentrati i maggiori interessi eco-nomici, sin dai tempi di luigi Vrenna, detto ‘u zirru’ 12, morto il 18 maggio del 1982. Si racconta che il potente boss del Marche-sato era riuscito ad evitare il soggiorno obbligato grazie ad una petizione estorta col terrore e a strani certificati di buona condotta rilasciati persino dal vescovo dell’epoca.

Negli anni Settanta i Vrenna furono coinvolti in uno scontro con i Feudale per il controllo degli interessi che ruotavano attorno ad un’area che, grazie anche alla presenza del porto, rappresenta-va un punto nodale per il contrabbando di sigarette e per il traffico di droga. Crotone, negli anni Settanta, costituiva la base di tran-sito delle armi provenienti clandestinamente dai mercati medio-rientali. Nel crotonese trascorse parte della sua latitanza Pietro Vernengo, il quale con i fratelli Mannolo impiantò una raffineria di eroina a San leonardo di Cutro.

oggi, nella provincia di Crotone si registra una fase di ristruttu-razione. I Nicoscia-Arena di Isola Capo rizzuto, un tempo grup-po leader, in debo liti dagli esiti di molte inchieste giudiziarie, non dominano più in con tra stati e de vono convivere con altri gruppi, come i Grande-Aracri di Cutro, e i Farao-Marincola di Cirò13.

la mappa redatta dagli investigatori colloca i Ciampà-Vrenna a Crotone, gli Anania-Cariati a Cirò Marina, gli Iona a rocca di Neto e i dima e i Giglio-Levato a Strongoli, (vicini ai cirotani), i Ferrazzo di Mesoraca, i Comberiati-Garofalo di Petilia Polica-

11 Commissione Parlamentare Antimafia, Ibidem.12 lo zirro è il recipiente di stagno dove viene raccolto l’olio appena spremuto.13 dia, Ibidem, p. 115.

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stro, i Mannolo e i Grande Aracri e i dragone a Cutro14. Il capo cosca Antonio dragone è stato assassinato con un vero e proprio blitz militare preparato nei minimi dettagli nel maggio del 2004, nell’ambito dello scontro tra le cosche Arena-dragone e Nico-scia-Grande Aracri.

In questa provincia, diffuse appaiono le pratiche estorsive ed usuraie, realizzate con attentati incendiari ad autovetture ed eser-cizi commerciali. In crescita anche il fenomeno dello sbarco di clandestini, in prevalenza tur chi, soprattutto ad Isola Capo riz-zuto. le cosche della provincia sono dedite prevalentemente al traffico internazionale di droga (che dividono con le organizza-zioni criminali del reggino con cui hanno dei saldi rap porti di alleanza) spesso attraverso affiliati a strutture logistiche presenti nel nord-Italia (Toscana, Reggio Emilia e Lombardia), in Europa (Ger ma nia) e nel continente americano. In particolare, essi vanta-no contatti con gruppi della malavita internazionale ed elementi della criminalità organiz zata pugliese, che garantiscono l’approv-vigionamento di consistenti quan ti ta tivi di eroina e cocaina pro-venienti dall’Albania.

Annota la Commissione parlamentare antimafia:

«la criminalità organizzata operante nel crotonese ha mostrato una spiccata propensione ad agire in contesti territoriali extra-regionali ed extra-nazionali, facendo ri-corso anche a metodologie aggressive. Essa ha continuato a manifestare un particolare interesse nel traffico interna-zionale di sostanze stupefa centi, condiviso anche con le omologhe consorterie del reggino. In parti colare, questo settore illecito è risultato così fiorente, al punto che Isola Capo rizzuto è risultata essere fra i principali centri di “distribuzione” di narcotici, in grado di rifornire anche la limitrofa provincia di Catanzaro. Hanno operato con tec-niche imprenditoriali sem pre più all’avanguardia ed han-

14 dia, Ibidem, p. 115.

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no investito nel settore edile, condizio nando il mercato e l’imprenditoria grazie al ricorso alla forza intimida trice. la realtà criminale del luogo si è espressa pure con atti di condizio namento e di intimidazione ad amministratori pubblici. le cosche di maggiore spessore e meglio orga-nizzate si sono infiltrate nel sistema dei pubblici appalti, creando le condizioni per riciclare i proventi derivanti dalle attività illecite. d’altronde, gli interessi criminali in questo settore sono aumentati in vista degli stanzia-menti dei fondi previsti per la rea lizzazione di impor-tanti opere pubbliche soprattutto in alcuni comuni del la provincia. Nello specifico sono stati attivati i lavori di bonifica del l’area del petrol chimico. Nel capoluogo la si-tuazione criminale è risultata stabile, stante il predominio incontrastato della cosca “Ciampà-Vrenna-Bo naventura” alla quale sono risultati collegati i “Megna” di Papanice, attivi nel traffico di stupefacenti e nelle estorsioni. Le zone di Isola Capo rizzuto e Cutro sono state teatro di precari equilibri tra gli “Arena”, al leati con i “dragone-Man nolo”, e la cosca “Grande Aracri”, schierata al fianco dei Nicoscia, con conseguente appendice omicidiaria; di-fatti, pur ri manendo gli Arena un’organizzazione forte ed agguerrita, con ingenti capitali a disposizione, le cosche Grande Aracri e Nicoscia si sono raf forzate notevolmente sia sotto il profilo criminale che economico. All’in ter no di quest’ultimo clan, peraltro, sarebbero emersi progressi-vamente tentativi, da parte dei gregari più importanti, di acquisire il controllo del gruppo e ciò ha costituito un elemento di destabilizzazione, acuendo i contrasti ed ori-ginando nuove faide. Infatti, nel 2004, si sono registrati numerosi fatti di sangue tra cui l’uccisione del boss dra-gone Antonio, che ha generato una serie di altri omicidi, dando vita ad una vera e propria guerra tra bande rivali. Tra gli altri, si segnalano l’omicidio di Ciampà Gaetano (genero del Dragone Antonio), di Nicoscia Pasquale e del boss Arena Carmine, quest’ultimo eseguito con un bazoo-

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ka. Ciò nonostante, gli Arena hanno mostrato la volontà di non perdere il controllo esercitato sul territorio anche perché il boss Arena Nicola, detenuto, fautore di una li nea “morbida”, almeno fino a prima dell’omi cidio di Carmine Arena, ha po tuto ancora contare su un gruppo capace di sostenere una mirata rea zione. Nel cirotano è stata regi-strata la posizione di predominio della co sca “Farao-Ma-rincola”, che ha esteso la propria influenza in tutta la pro-vincia nonché nell’area dell’alto Ionio cosentino, attiva nel settore delle estor sioni e del traffico delle sostanze stu-pefacenti. Ciò sarebbe avallato dal l’omicidio del reg gente del clan, avvenuto a seguito della scarcerazione del capo-cosca Farao Giuseppe. Sono, altresì, presenti gli “Anania-Cariati”. Nella Valle del Neto, nel territorio dei co muni di Belvedere Spinello, rocca di Neto e Santa Severina si è registrata la pre senza della cosca “Iona”, capeggiata da Iona Guerino, detenuto, in teressata prevalentemente ai settori delle estorsioni e alla ingerenza in pubblici appalti e lavori edili in genere. Sono stati riscontrati, altresì, casi di truffe ai danni dell’unione europea».

La provincia di Vibo Valentia

Nella provincia di Vibo Valentia il clan Mancuso domina senza solu zione di continuità dagli inizi del secolo scorso. Già nel 1903 la Corte d’Appello delle Calabrie condannava Vincenzo Mancuso assieme ad altre dodici per sone di Monteleone, l’odierna Vibo Valen tia, per associazione a delin quere. da allora, nonostante i duri colpi inflitti a questa organizza zione, i Mancuso continuano ad esercitare quello che, dagli inquirenti, viene defi nito “un domi-nio incontrastato sul territorio”.

la cosca dei Mancuso si è anche ritagliata ampi ambiti di ope-ratività nei settori del traffico nazionale ed internazionale delle sostanze stupefacenti. Il prestigio e la capacità organizzativa fi-nora dimostrate, nonostante alcuni segnali sulla scorta dei quali è

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ipotizzabile l’esistenza di un contrasto in seno al grup po 15, assicu-ra una sufficiente stabilità dell’as set to e degli equilibri crimi nali nella provincia.

Annota il raggruppamento Speciale operativo:

«la cosca Man cu so opera nell’intera provincia vibone-se mediante gestione diretta delle aree territoriali di lim-badi, Nicotera, Vibo Marina, Tropea e gestione de centrata del restante territorio, per il tramite delle cosche Fiarè di San Gregorio, Anello di Filadelfia, Vallelunga di Serra S. Bruno, Pititto di San Giovanni di Mileto e Accorinti di zungri. Mantiene, inoltre, forti legami con il clan Piromal-li-Molè di Gioia Tauro (RC) e la famiglia Bellocco di ro-sario (RC). I Mancuso, inoltre, hanno cointeressenze cri-minali con altri sodalizi attivi nelle province di Cosenza, di Crotone (gruppo Arena di I so la Capo Rizzuto), di Lamezia Terme e di altre parti del territorio nazio nale (lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Toscana). Le prin cipali atti-vità illecite gestite dalla cosca riguardano il traffico (anche internazio nale) di stupefacenti e di armi, le estorsioni e le connesse attività intimi datorie, nonché cointeressenze nel settore degli appalti di opere pub bliche».

oltre ai Mancuso, i principali sodalizi operanti in questa pro-vincia sono i lo Bianco che a Vibo Valentia stanno assumendo una propria autonoma ed assai dinamica penetrazione nel mondo imprenditoriale e dell’usura, gli Accorinti di zungri, i Gaspar-ro-Fiarè di San Gregorio d’Ippona, i Barto lotta di Stefanaconi, i Bonavota di Sant’onofrio, i Vallelunga e i Ciconte di Serra San Bruno ed i Fiumara-Anello di Francavilla Angitola. le altre co-sche sono i Mantino e i Tripodi di Vibo Valentia, i Patania di Stefa-naconi, i Petrolo di Sant’onofrio, i Cracolici-Manco, i larosa di Tropea ed i Vecchio di Joppolo.

15 Ci sarebbero dei contrasti tra Cosmo e diego Mancuso.

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Scrive la Commissione parlamentare antimafia:

«Sono state registrate tensioni sia all’interno della fa-miglia, sia con cosche un tempo alleate ed oggi concorren-ti. la famiglia “lo Bianco”, desiderosa di affrancarsi dalle recenti posizioni subiettive e di recuperare un ruolo signi-ficativo, ha assunto una posizione di rilievo nella gestione dell’attività usuraia e nella infiltrazione nell’economia le-gale. L’influenza dei Mancuso si è evidenziata anche nel settore dei lavori pubblici aggiudicati mediante appalti; ciò ha attribuito loro i connotati tipici di una formazione ma-fiosa ad elevata vocazione eco nomico-finanziaria. È stato registrato un persistente fenomeno di infil trazioni da parte della criminalità mafiosa all’interno delle Ammini strazioni comunali, che in taluni casi hanno patito “condizionamen-ti”, di diverso genere, nella gestioni delle attività. le altre organizzazioni cri minali presenti nella provincia sono state quelle di “Bonavota” e “Petrolo” nella zona di Sant’ono-frio; “Cracolici-Manco” e “Fiumara” nella zona di Pizzo; “Gallace-loiero” nella zona delle Serre Calabre»16.

16 Commissione Parlamentare Antimafia, Ibidem.

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APPENDICE: Mappature della criminalità organizzata

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CAPITolo 8º

Il giro d’affari della ’ndrangheta

Il giro d’affari della ’ndrangheta, attualmente, è pari al 3,4% del Pil nazionale. Il settore più remunerativo rimane quello del traffico di sostanze stupefacenti con introiti di circa 22.300 mi-lioni di euro.

Scrive l’Eurispes: «Negli ultimi anni si è assistito ad un vero e proprio salto di qualità in questa particolare attività illecita: le “cosche” puntano ad ottimizzare sforzi e rischi verso una mag-giore e più oculata gestione dei flussi di sostanze stupefacenti in-ternazionali».

le ’ndrine, negli ultimi venti anni, hanno dimostrato di poter contare su collegamenti diretti con organizzazioni straniere, in particolare sudamericane ed albanesi, nonché con le “famiglie” di Cosa Nostra. Spesso si è registrata la presenza di calabresi stabil-mente insediati all’estero con funzioni di raccordo tra la ’ndran-gheta ed i cartelli locali.

l’individuazione della Calabria come luogo privilegiato di im-portazione nel nostro Paese attesta l’alto grado di affidabilità che le cosche calabresi possono vantare nel mercato criminale, sia con riferimento al controllo del territorio sia con riguardo agli aspetti economici legati al rilevantissimo giro d’affari generato dal traffico di droga.

Inoltre, gli appalti truccati e la compartecipazione nel settore imprenditoriale rappresentano il 18,6% della ricchezza comples-siva prodotta in Calabria. Commenta l’Eurispes: «diventa sem-pre più preoccupante e crescente l’atteggiamento assunto dagli

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1 Caso Calabria: la solitudine di fare impresa in una regione a sovranità limitata. lettera di Giuseppe Gatto, titolare della Gatto costruzioni di Catanzaro, presidente del-l’Ance Calabria, al Sole 24 ore, 24 ottobre 2005.

imprenditori che, già al momento della partecipazione alla gara d’appalto, considerano il pagamento della tangente alla crimina-lità organizzata come una ineludibile voce passiva di bilancio, da imputare, dunque, tra i costi della propria azienda».

l’usura, un fenomeno fortemente presente, ancorché sommer-so, unitamente alle estorsioni, garantisce un giro d’affari stima-to intorno ai 4.100 milioni di euro. In questa attività illecita, la ’ndrangheta è seconda sola alla camorra. Si tratta di un mercato in forte espansione che non è gestito direttamente delle cosche ma si avvale di personaggi ad esse contigui, che rappresentano il trait d’union tra la cosiddetta società civile e quella mafiosa e che si occupano altresì del reimpiego dei proventi illeciti delle cosche. Secondo l’Eurispes l’usura costituisce una forma avanzata di in-filtrazione mafiosa che si denota, nella maggior parte dei casi, con un pericoloso intreccio tra imprenditoria, politiche delle banche e criminalità organizzata.

Tradizionalmente pervasivo è il racket dell’estorsione: chi non accetta il ricatto, finisce sotto tortura. «Lavorare in Calabria è cosa diversa che altrove», commenta Giuseppe Gatto, presiden-te dell’Associazione nazionale costruttori edili in Calabria1. «Ci sono intere aree in cui io stesso, nella mia attività di imprendito-re edile, mi tengo lontano: il lametino, larga parte del reggino, alcune zone della provincia di Catanzaro sono zone off limits, escluse da una normale attività economica. luoghi dove incendi nei cantieri o furti di mezzi sarebbero la ritorsione inevitabile a chi volesse opporsi al racket. È doloroso ammetterlo: la Calabria è una regione a sovranità limitata, con un’economia di mercato falsata dalla presenza arrogante e pervasiva delle cosche. Tutto questo si è già tradotto nella presenza di concorrenti impropri, di imprese che possono godere di capitali abbondanti, di dubbia provenienza. Aziende che in una gara d’appalto possono permet-

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tersi ribassi fino al 30-40%. È impossibile non vedere anche per chi dovrebbe controllare, eppure quasi mai dopo una gara avviene quanto prescritto dalla legge: il controllo della composizione so-cietaria dell’azienda vincitrice. Sarebbe facile scoprire zone gri-gie. Che restano tali».

Sul traffico d’armi e sulla prostituzione, infine, l’Eurispes ha stimato, per il 2004, un introito complessivo illecito per le cosche calabresi di oltre 4.600 milioni di euro.

Numerose inchieste hanno accertato il coinvolgimento della ’ndrangheta nel traffico di armi, le cui rotte si sovrappongono a quelle della droga. In Albania, Medio oriente o in Sud America, sempre più spesso gli stupefacenti diventano merce di scambio. la ’ndrangheta, con i suoi numerosi collegamenti transnazionali, è diventata un’affidabile interlocutrice criminale sia per droga che per armi.

Giro d’affari della ’ndranghetaValori assoluti in milioni di euro. 2004

Traffico di droga 22.300Appalti pubblici truccati e compartecipazionein imprese 4.700Estorsioni ed usura 4.100Armi e prostituzione 4.600Giro d’affari complessivo 35.700

Non è da sottovalutare neanche il giro di denaro che ruota at-torno al traffico di essere umani. Così come quello delle filiere dell’eco-mafia e della criminalità ambientale che ormai hanno fatto breccia anche in Calabria.

«Il tradizionale controllo del territorio esercitato dalle organiz-zazioni mafiose, con la disponibilità di cave, terreni, manodopera a bassissimo costo e il ricorso alla violenza dissuasiva», spiega

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il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, «ha permesso ai sodalizi criminali di imporsi come unico interlocutore imprendi-toriale capace di gestire, in regime di monopolio, gran parte della attività proprie del ciclo dei rifiuti»2.

da oltre vent’anni, infatti, la ’ndrangheta sarebbe coinvolta nel business dei rifiuti tossici e radioattivi. Secondo un memo-riale consegnato da un collaboratore di giustizia alla direzione Nazionale Antimafia, tra gli anni Ottanta e Novanta, sarebbero state affondate volontariamente molte navi con il loro carico di scorie pericolose. Affari di dimensioni planetarie che sono stati investigati dalla Procura di Paola e da quella di reggio Calabria e che avrebbero coinvolto decine di nazioni, politici e faccendieri, servizi segreti e industriali, massoni e malavitosi3.

2 Legambiente: presentato rapporto Eco-mafia 2006: i dati. Sesto Potere. 18 giugno 2006.

3 r. Bocca, Parla un boss: Così lo Stato pagava la ’ndrangheta per smaltire i rifiuti tossici, l’Espresso, 6 giugno 2005.

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L’UNItà DIDAttICA:

Sottofondo culturale della ’ndrangheta

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Analisi didattica

l’unità didattica ha come punto centrale di riferimento la rac-colta antologica Senza Onore di Antonio Nicaso. docenti e stu-denti hanno a disposizione quindici testi letterari per analizzare, discutere e confrontare un’ampia varietà di interpretazioni sul “fenomeno” ’ndrangheta. Parliamo, ovviamente, di interpreta-zioni per più motivi, interpretazioni che, d’altronde, costituiscono il problema di fondo di ogni analisi testuale e dell’ermeneutica in generale: come interpretare? Interpretiamo in modo corretto? Quando sappiamo di interpretare in modo corretto un testo? Ci sono criteri per garantire un’analisi rigorosa, talché il risultato non sia solo unanimità di consenso, legittimazione, ma dimostra-zione rigorosa e oggettiva di conoscenza non più dubitabile e, quindi, vera? ovviamente, non abbiamo a disposizione criteri er-meneutici assoluti e validi una volta per tutte, già per il fatto che l’interprete di un testo (o l’ermeneuta) è (o dovrebbe essere) a conoscenza del fatto che l’interpretazione che lui si avvia a por-tare alla luce ha sì a che fare con il testo che interpreta, ma nello stesso tempo con i presupposti del suo avvicinarsi al testo e col modo mediante il quale i suoi presupposti incontrano il testo e lo interpretano. Praticamente, ogni interprete si avvicina ad un testo da una determinata angolazione o prospettiva (questo non costi-tuisce in sé il problema, dal momento che non ci si può avvicinare ad un testo da un punto zero ma sempre a partire da un’angola-

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zione o prospettiva). Non solo: questa angolazione o prospettiva influisce anche sul risultato dell’interpretazione. In altri termini: non c’è un’interpretazione neutrale. ogni interpretazione avviene all’interno di ciò che gli ermeneuti definiscono circolo ermeneu-tico, all’interno del gioco tra pre-concettualità dell’interprete e oggetto d’interpretazione (testo).

discutere i testi letterari, scelti per questa unità didattica, si-gnifica allora, da un lato, acquisire nozioni, conoscenze e infor-mazioni legate ai contesti in discussione, dall’altro perseguire, anche, tutta una serie importante di abilità e capacità che abbia-mo sopra definite: meta-ermeneutiche. un testo non è solo fonte di informazioni, conoscenze e verità. un testo può essere anche fonte di disinformazione e di falsità, per cui lavorare al testo e con i testi è sempre anche, e diciamolo con chiarezza, soprattutto: interrogare. l’analisi di un testo è un lavoro critico. la raccolta dei testi che abbiamo scelto per il lavoro didattico dei docenti e le possibili e necessarie analisi alle quali saranno sottoposti nell’in-segnamento e nell’apprendimento, permettono in modo ottimale questo lavoro critico d’interrogazione. Se le analisi dei singoli testi verranno confrontate fra di loro (e nell’insegnamento e nel-l’apprendimento non si potrà fare a meno di un confronto del ge-nere), sarà facile notare o dimostrare che le descrizioni tracciate nei testi, sono, a volte, esse stesse interpretazioni e che molte delle interpretazioni sono spesso valutazioni legate a determinate giustificazioni. Lavorare criticamente con un testo significa allora, anche e per lo più, poter sviluppare nei confronti degli autori di un testo una legittima critica. Compito dell’insegnamento e del-l’apprendimento è, non da ultimo, mirare a questa legittima cri-tica dei testi o meglio dei presupposti degli autori dei testi sulla base di conoscenze, informazioni, documenti e dati scientifici che spesso gli autori dei testi non avevano e forse nemmeno si cura-vano di avere. Per questo confronto critico fra testi e fra contenuti dei testi, qui oggetto di analisi e discussione nell’insegnamento e nell’apprendimento, rimandiamo alle fonti sistematiche raccolte nei rispettivi capitoli di questo stesso volume.

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Ciò premesso, passiamo ora alla lettura dei testi in Senza Ono-re, cercando, da un lato, di ricavarne la maggior parte di infor-mazioni possibili, dall’altro di discutere, analizzare e vagliare la rigorosità delle singole interpretazioni.

Il primo testo letterario è di Giovanni de Nava. Si tratta di tre poesie o componimenti poetici scritti in dialetto: I Notti, Picciot-teddu, Mala-vita. riportiamo, ovviamente, la traduzione delle poesie in italiano, partendo dal presupposto che molti dei termini siano al lettore o meglio agli studenti (o a molti studenti) sco-nosciuti e incomprensibili. didatticamente, però, è interessante e motivante cercare di raccogliere la lettura che dei termini dialet-tali riescono a fare gli studenti prima ancora di confrontarsi con le poesie in traduzione italiana. ovviamente, senza i necessari aiuti del docente, saranno letture e interpretazioni diverse, contrastan-ti, contraddittorie ed è bene che all’inizio si crei questa aporia in-torno alle possibili interpretazioni. Molti dei termini non saranno comprensibili e gli studenti avranno difficoltà ad interpretare il senso dei testi. Si passerà, allora, alle singole traduzioni per con-frontare i significati assegnati ai singoli termini e cercare poi il vero senso di ogni singolo componimento. Tracciamo un possibi-le schema di come organizzare didatticamente questa fase iniziale del lavoro sui testi, riferito intanto al primo componimento:

I Notti

Termini dialettali Interpretazioni dei termini––––––––––––––– –––––––––––––––––––––––––––––––––’ntisicari .................................................................bastaseddu .................................................................bizzola .................................................................annaccarata .................................................................ricugghiri .................................................................creanza .................................................................luppinaru .................................................................’nchianari .................................................................

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Dopo questa fase di ricerca spontanea dei significati dei sin-goli termini dialettali, si può passare al controllo o alla verifica del loro senso, utilizzando le singole traduzioni riportate subito dopo i testi in dialetto. Intanto, un aiuto per inquadrare il testo (in questo caso il componimento poetico o la poesia) o l’autore (o meglio: il senso che l’autore del testo vuole trasmettere al let-tore) è offerto dal curatore della stessa antologia. Ovviamente, dipenderà da come si struttura l’insegnamento e l’apprendimento se l’accesso all’analisi dei componimenti poetici avviene già dal-l’inizio con gli aiuti interpretativi offerti dal curatore dei testi o se si privilegia (lo consigliamo) il confrontare successivamente i risultati del lavoro didattico svolto sui testi dagli studenti con la lettura che suggerisce il curatore dell’antologia.

Quale interpretazione suggerisce il curatore dell’antologia? Naturalmente, il curatore, in Senza Onore, ha potuto scegliere solo alcune delle poesie dalla vasta produzione letteraria di Gio-vanni de Nava. Ne ha scelto tre, ma il giudizio del curatore dei testi raccolti in Senza Onore tiene conto di tutta la produzione let-teraria del poeta reggino. Il risultato potrebbe essere sintetizzato in questi pochi punti: il poeta ritiene la ’ndrangheta un prodot-to del degrado socio-economico. In questo senso, la ’ndrangheta potrebbe essere interpretata come “risposta” (necessaria, giusta, giustificabile?) delle “classi diseredate o disagiate”?

Intanto, conviene entrare nel vivo della seconda poesia e chie-dersi: com’è descritto il “picciotteddu”?

Prima di rispondere alla domanda, è consigliabile anche in que-sto caso raccogliere e discutere i singoli termini dialettali di diffi-cile comprensione, similmente allo schema specificato sopra:

termini dialettali Interpretazioni suggerite dagli studenti’ncampanati ..............................................................sddifinta’ ..............................................................

dopo il lavoro ai termini, consigliamo gli studenti di elaborare

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un elenco delle caratteristiche principali che designano il picciot-to, p. es.:

– spacconeria– spavalderia– incutere timore– appartenenza alla “famiglia” della camorra

A cosa mira il “picciotto’?Alcuni obiettivi:– “promozione sociale”– essere “persona di rispetto”– imporsi con la forza

Se si confronta la visione, che suggerisce il poeta, di un’asso-ciazione criminale come “prodotto” delle classi diseredate, con i dati forniti dal Tribunale di reggio Calabria pochi anni prima della pubblicazione della raccolta di poesie di cui qui tre sono oggetto di discussione, si può notare che gli ’ndranghetisti o i camorristi non appartengono alle classi disagiate come la poesia, tutto sommato, suggerisce, ma sono quasi tutti occupati in singo-le attività. Questo è un primo “dato” interessante che conviene annotare e ridiscutere via via che il discorso sulla ’ndrangheta si fa più serrato. Intanto, anche la seconda poesia che si presenta a docenti e studenti, il picciotteddu, mostra che i motivi per entrare nella picciotteria sono variegati. Si va dalla “picciotteria vinaria” (Crupi) che spera di bruciare in fretta le tappe della promozione sociale al volersi presentare “socialmente” come un duro, pronto ad imporsi, dominare, vedersi “rispettato” ad ogni costo. Si con-ferma così l’ipotesi che il motivo scatenante, per far parte dell’or-ganizzazione criminale della ’ndrangheta, non è necessariamente la condizione sociale disagiata, com’è dimostrato, oltre tutto, da relativi atti di processi alla picciotteria.

Ma altri elementi potrebbero e dovrebbero essere oggetto di discussione e riflessione come i due punti seguenti:

– la “visione” che il poeta ha del picciotto (più che saggio, il picciotto è “carne venduta”);

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– il legame tra “peccati” e “l’ira di Dio” che pone fine al male scatenando la fine del mondo.

Nel terzo (Mala-vita di De Nava) e quarto componimento poe-tico (Mala-vita di Giovanni Patari) entrano altri elementi in gioco circa l’organizzazione della ’ndrangheta. Al picciotto segue qui il capobastone. Inoltre si menziona una delle norme centrali del-la struttura criminale dell’“onorata società”: l’omertà. Anche in questi casi, i due poeti offrono tutta una serie di caratteristiche che permettono di individuare la visibilità di questa figura crimi-nale. Balzano subito agli occhi fierezza e superbia e l’orgoglio del camorrista (=l’appartenenza alla malavita); il “saper maneg-giare” rasoio e coltello e incutere paura, a tal punto che la “terra trema” alla presenza del camorrista, nonché la risposta riservata allo “sgarro”. I due componimenti offrono, tra l’altro, la possibi-lità di discutere il concetto, per la ’ndrangheta fondamentale, di omertà e, non da ultimo, l’“onore” che la logica ’ndranghetista o camorrista riserva alla persona omertosa all’interno dell’onorata società o della famiglia camorrista.

Nulla togliendo a questi elementi, senz’altro importanti, che descrivono la “psicologia” del picciotto o del capobastone, si consiglia di estendere la riflessione su come il poeta presenta la ’ndrangheta. Anche in questo caso suggeriamo alcune possibili domande: riesce il poeta a dare un quadro realistico della struttura criminale di questa organizzazione? la ’ndrangheta è un feno-meno marginale, legato a singoli casi di una “cultura dell’onore e del rispetto”? la ’ndrangheta è da intendere come “riscatto” dei diseredati, degli umiliati e offesi? In altri termini: il senso della ’ndrangheta consiste, per davvero, nel reclamare “onore” e “rispetto”, nel porsi, cioè, sul piano dei duri per procurarsi quel-l’ascesa sociale negata alle classi marginali della società?

A questa serie di domande, si possono affiancare altre doman-de con lo scopo di interrogare o problematizzare anche la visione che il poeta ha della ’ndrangheta:– la ’ndrangheta è un fenomeno marginale o strutturale sul piano

sociale?

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– tra ’ndrangheta e politica, tra ’ndrangheta ed economia c’è un rapporto, un’intesa, una condivisione di “valori”, un intreccio, una comunanza di obiettivi?Sono queste alcune domande centrali che richiedono discussio-

ne e approfondimenti e che all’interno del progetto delle tre uni-tà didattiche, troveranno la loro giusta collocazione. Qui, si tratta intanto solo di anticipare l’una o l’altra domanda critica per svi-luppare quella dose di giusto scetticismo nei confronti del testo e abituare, cioè, a poco a poco gli studenti a leggere interrogando e a non lasciarsi prendere dalla visione nuda e cruda suggerita dai te-sti. Problematizzare e approfondire, all’interno del progetto didat-tico, significherà ricorrere a fatti e documenti, all’intreccio o uso complementare, dei due testi Fratelli di sangue e Senza Onore.

di “onore” parla il testo di Francesco Perri. I valori della “mentalità contadina” e la “cultura mafiosa” sembrano intrecciar-si come se avessero un comune sottofondo. Ma è proprio così? Al disonore corrisponde necessariamente la vendetta. Ma il sot-tofondo culturale non è del tutto identico. Anzi dà luogo a incom-prensioni. Pietro, il personaggio che si reca negli Stati uniti per chiedere vendetta circa il disonore della sorella, che ha tradito il marito, trova una realtà diversa e non capisce la frase ’ndran-ghetista: “sotto la mia protezione”. l’onore dello ’ndranghetista comprende la vendetta, ma è ampliato da una serie di “contenuti nuovi”. Appartiene a questi nuovi contenuti il fatto che l’uomo “onorato” della ’ndrangheta è corrispondenza totale alle regole dell’“onorata società”. l’onore ’ndranghetista è, quindi, innanzi tutto e per lo più: ferrea omertà. Appartenere alla ’ndrangheta è difendere, se necessario, col proprio sangue il rispetto delle regole e delle gerarchie. Si tratta di un “patto di sangue” che trova con-ferma ed espressione anche nel rituale di quanti hanno l’“onore” di entrare nell’“onorata società”.

Il testo, da un lato, dà la possibilità di analizzare, discutere e, soprattutto, confrontare l’“intreccio” tra “cultura contadina” e “cultura ’ndranghetista”, dall’altro offre elementi che danno

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prova anche e comunque di dover distinguere tra un concetto di onore di provenienza “agro-pastorale” e un concetto di “onore” strettamente ’ndranghetista che non ha più nulla a che fare con la “civiltà contadina”.

Il testo si presta bene per essere messo in scena riproducendo i dialoghi. Nella sceneggiatura alla quale docenti e studenti posso-no dar vita, è facile far emergere i due mondi: quello della “civiltà contadina” e quello della “civiltà ’ndranghetista”; l’incontro, ma anche lo scontro delle due “civiltà”. Ma a queste due “civiltà” si può far seguire una terza “civiltà”, la “civiltà” di mastro Genio che, vivendo in America una realtà nuova, rispetto a quella delle sue origini, non capisce più la logica del disonore di cui parla Pietro.

oggetto della messa in scena del testo sono, a questo punto, tre mondi che vengono riprodotti e successivamente confrontati e valutati. Il confronto è didatticamente sempre fruttuoso non solo perché offre lo spazio per conoscere e valutare (in questo caso) visioni o modelli di pensiero di provenienza diversa, ma anche perché stimola ad articolare la propria visione di mondo, i propri valori; stimola, cioè, a prendere posizione e a difendere (con ar-gomenti) il proprio punto di vista. Non da ultimo, la traduzione del testo in scene teatrali mette in movimento gli studenti intorno a tutta una serie di idee e riflessioni che vanno al di là di un con-fronto puramente testuale.

In Natalino lanucara ritornano gli stessi motivi che si riscon-trano nel testo, or ora, discusso di Francesco Perri: onore e ven-detta. Il contesto, però, si sposta dall’offesa all’“onore della don-na” all’offesa all’ “onore dell’onorata società”. l’intervento è, in questo caso, la “banda degli americani”. Il contesto è interessante anche per tematizzare l’intreccio ’ndranghetista che si estende, com’è facile notare, anche internazionalmente. Per la “cultura” mafiosa, il fatto grave e inaudito è che a tradire è uno ’ndranghe-tista: un membro della famiglia che “godeva” della protezione. È importante discutere con gli studenti anche un altro aspetto:

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l’unione di “sacro e profano”. Nelle parole di Archilèu: “i traditori e i fedifraghi (= infedeli, che non tengono fede a un giuramento) meritano la morte intanto perché la “cultura” della ’ndrangheta lo obbliga di per sé, e poi perchè l’infedele, ovverosia colui che non mantiene il giuramento, non è stimato e preso in considerazione nemmeno da dio.

Il testo, inoltre, delinea un quadro chiaro delle gerarchie e della “solidarietà” che legano i fratelli di sangue e cosa può significare venire meno alla “parola d’uomo d’onore”. Peraltro, e non da ul-timo, è da notare la simbologia ’ndranghetista, presente nel testo (“il braccio in avanti”, “il simbolo del coltello”), e le minacce (“vi regalerò un orecchio”, “vi manderò una lingua”) che testimonia-no i veri valori dell’“onorata società”.

Questi simboli della “cultura” ’ndranghetista possono essere integrati e ampliati con il quadro normativo offerto dal testo di luca Asprea. Il testo di Asprea è quasi un documento d’iniziazio-ne alle regole e ai principî della ’ndrangheta: – omertà = legge base della società onorata– fedeltà = attaccamento alla Società– politica = vivere con i degni e meritevoli (coi mastri e i fedeli

compagni)– falsa politica = come regolarsi con gli indegni, gli infami e con

gli sbirri– carta e penna = fare i conti e sottoconti alla Società– coltello = serve a difendere il mastro– rasoio = serve a sfregiare la faccia agli infami.

I codici e i riti sono stati e sono tuttora alla base della cultura ’ndranghetista (si vedano i grafici pp. 47 e 50), in quanto forma-no il sottofondo ideologico o la mentalità dello ’ndranghetista. Il rispetto, ovverosia l’interiorizzazione dei codici, quindi delle regole, dei principî, dei “valori”, apre all’iniziato l’ascesa a uomo d’onore, a uomo di rispetto in seno all’onorata società.

Anche il testo di Fortunato Seminara ricalca i temi qui intro-dotti dei “valori” e quindi del disonore, del rancore e della ven-detta. la vendetta ha come obiettivo lo sfregio, come il codice

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’ndranghetista prevede e obbliga, cioè, il marchio d’infamia pub-blico che la “cultura ’ndranghetista” riserva al volto dell’ “infa-me” come segno incancellabile e visibile da ognuno.

Il testo di domenico Cuppari mostra, però, che nemmeno in ciò vi è coerenza, in quanto la ’ndrangheta è senza principî morali. la ’ndrangheta di Cuppari semina lutti e riserva morte programmata allo stesso inziato. l’iniziato viene utilizzato per “giustiziare” un gruppo di infami. Svolto il “compito”, l’iniziato viene ucciso a sua volta.

Indubbiamente, come si evidenziava sopra, il disonore, la ven-detta, lo sfregio sono categorie rilevanti nelle logiche culturali ’ndranghetiste e che si fondono e confondono con i simboli mo-rali di sovrastrutture ideologiche legate ancora a sottofondi ar-caici di condizioni socio-economiche ove regnano incontrastate miseria e ignoranza. Non a caso, i testi finora messi qui in discus-sione rimarcano, da più parti, questo sottofondo arcaico in cui si preferisce la vendetta alla giustizia: o meglio la vendetta diventa un atto di giustizia, anzi l’unico atto vero di giustizia. da questa angolazione, è facile confondere criminalità e giustizia.

Il testo di Corrado Alvaro può essere utile proprio per tematiz-zare ulteriormente l’intreccio tra criminalità e giustizia. Intreccio in cui il delitto diventa un diritto. un’analisi attenta del testo di-mostra, però, che farsi “giustizia” non è solo sfiducia nella legge; è anche un modo criminale di legittimare le regole dell’onorata società. diffusione, cioè, di quel potere occulto criminale che dovrà sostituire le aule dei tribunali. In questa logica i criminali avanzano a rappresentanti di giustizia e i rappresentanti di giusti-zia a criminali.

Se con gli studenti si seguono le tracce del lavoro ermeneutico o di interpretazione che si consigliava inizialmente, è indubbio che il lavoro al testo è anche un lavoro di critica al testo e quindi: anche di critica all’autore del testo. Alcune domande sono obbli-gatorie:– Corrado Alvaro svolge un’analisi reale, quindi, attenta, rigoro-

sa del “fenomeno” ’ndrangheta? o confonde i valori della “ci-

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viltà contadina” (onore, sangue, vendetta come riscatto della propria dignità, del proprio prestigio, del proprio “onore”) con i valori della “cultura ’ndranghetista?

– Corrado Alvaro discute la ’ndrangheta nell’intreccio di crimi-nalità e politica, criminalità ed economia o la sua interpretazio-ne rimane in superficie, diventa una “visione letteraria”, una re-mitizzazione e re-idealizzazione e, quindi, fuga dalla realtà? In altri termini: non è che la fusione tra i simboli morali di vita agro-pastorale e i simboli morali della criminalità organizzata conducono a quello che qualche studioso ha definito “giustifi-cazionismo storico” in cui scompare la differenza tra carnefice e vittima, tra onestà e corruzione, tra giustizia e criminalità?

Ad un’analisi attenta dei passi di Minasi, Gullo, Murdaca, Ali-cata, Caroleo, che precedono il testo di Alvaro, balza subito agli occhi la confusione generale tra criminalità e politica e soprattut-to un dato grave: la sottovalutazione, anche in ambito nazionale, del “fenomeno” criminale ’ndrangheta, o meglio l’ambivalenza della politica nazionale che oscilla tra sottovalutazione e giusti-ficazione.

Per iniziare con gli studenti a problematizzare il contesto dei rapporti tra criminalità organizzata e politica, criminalità orga-nizzata ed economia si può passare ai testi di Saverio Montalto e Saverio Strati. In questi due testi diventano evidenti alcuni dei valori veri della ’ndrangheta.

Prima di discutere la logica o la cultura criminale che si na-sconde dietro l’etichetta onorata società, gli studenti possono svi-luppare un elenco di questi “valori”, di cui, qui di seguito, si ri-porta solo un possibile esempio che potrebbe essere ulteriormente strutturato ed ampliato.

la ’ndrangheta è– associazione a delinquere;– legata al potere;– trasgredisce alle regole che ritiene sacrosante;– architetta infamie;

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– vive di sgarro;– non difende, ma attenta all’onore;– non arretra davanti al delitto di colui che si ribella alla sue

“leggi”;– non difende, ma spoglia la povera gente;– è legata alle strutture di potere politico ed economico, per cui

non è una forma di “anti-stato”, ma un’associazione criminale ben integrata nelle strutture dello Stato e che mira a consolida-re ed estendere i propri poteri all’interno di queste strutture.

I testi di Montalto e Strati non solo danno la possibilità di co-gliere alcuni motivi di fondo della “civiltà” ’ndranghetista (la divisione-distinzione tra uomini e infami), nonché i rapporti che la ’ndrangheta intreccia con i poteri politici, economici e le isti-tuzioni, ma anche di costruire il tipo di tribunale e, quindi, il tipo di giustizia che sono alla base di questa organizzazione criminale e i codici o simboli del sottofondo culturale o ideologico. Con-sigliamo, intanto, di sviluppare, sulla base del testo di Saverio Montalto, uno schema che tenga conto anche delle gerarchie e di passare, poi, servendosi del testo di Saverio Strati, al fascino che emana la cultura ’ndranghetista sui giovani proprio a partire dalle gerarchie, dal linguaggio, dalla retorica ’ndranghetista:

Tribunale della ’ndrangheta Composizione regole Valori

Presidente ................................... .....................................Giudici ................................... .....................................Pubblico ................................... .....................................

Altro punto centrale (del testo di Strati) è il rito. Non vi è al-cun dubbio che termini come onore, onorato, uomo di rispetto sono fondamenti della cultura ’ndranghetista. Colui che entra

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nell’onorata società, accetta le sue regole e i principî della sua giustizia “a costo della propria vita”. la protezione è legata in-teramente al rispetto delle regole e dei principî. Vale altrettanto per l’ascesa sociale. Il “grande avvenire” di quanti entrano nella famiglia onorata e il “riconoscimento di omo d’onore” sono se-gnati dall’accettazione, “a costo della propria vita”, dei “valori” dell’organizzazione criminale. Colui che entra nella famiglia può uscirne solo da morto.

Sorgono, qui, alcune domande che offrono la possibilità agli studenti di discutere anche e soprattutto su problemi di principio, su problemi che riguardano il senso generale che vogliamo asse-gnare a principî che sono essenziali per la consistenza della nostra convivenza civile e democratica :– di quale onore, di quale rispetto si fa carico lo ’ndrangheti-

sta?– Il tribunale ’ndranghetista è un tribunale che si regge su regole

democratiche di giustizia? Su principî condivisi e generalizza-bili? la protezione che assicura l’onorata società è pensata per difendere il singolo (’ndranghetista) dall’infedeltà dalla strut-tura criminale della ’ndrangheta o, al contrario, per difendere la struttura criminale della ’ndrangheta dall’infame, dalla in-fedeltà, dallo sgarro di singoli membri della famiglia?

– Che significa giustizia? Abbiamo criteri validi per ognuno o è questione di libero arbitrio? Chi decide cosa è giusto e cosa è ingiusto?

– Quali sono le possibili conseguenze, gli effetti di una convi-venza civile basata sui “valori” della “cultura” ’ndrangheti-sta?

– Come possiamo opporci alla “cultura” della ’ndrangheta e di-fenderci dai suoi effetti devastanti?

l’unità didattica può essere chiusa con l’elaborazione di tre nuclei tematici:1. un nucleo tematico che riguarda l’individuazione di regole e

i principî in grado di dare risposta ad un’idea di giustizia con-divisibile possibilmente da tutti e, quindi, universale.

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2. un nucleo tematico che mette a fuoco le conseguenze o gli ef-fetti possibili di un concetto di giustizia ridotto alle categorie della cultura della ’ndrangheta.

3. un nucleo tematico che raccoglie gli argomenti, le proposte, le strategie su come combattere l’idea di “giustizia” della ’ndrangheta.

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Scheda dell’Autore*

GIovANNI De NAvA(Reggio Calabria 1873-1941)

A Reggio studia fino a quando, assai giovane, rimane orfano. Continua da solo a formarsi culturalmente. È nominato direttore del primo quotidiano calabrese: «Il giornale di Calabria». Collabora con l’«Avanti» e con altre importanti testate nazionali. la sua poesia si fonda su tematiche sociali, è caratterizzata sia da suggestivi accenti amorosi che dalla riflessione sul dramma dei vinti e degli emarginati. de Nava analizza gli ambienti “esclu-si” e la sua poesia non ricade nello sterile “romanticume”. Il suo linguaggio è incisivo e la scrittura si fa carico di accusare gli oppressori (associazioni organizzate) che nascono nella «mala vita», producendo ’ndrangheta.

opere: Fogghi caduti (1892); Sentiti genti (1894); Passu cantandu (1898); tra ombre e luci (1902); All’ombra del Vaticano (1903); Il sangue di S. Gennaro (1903); Delinquenza e misticismo (1903); Favole umane (s.d.); Sonetti garibaldini (1912); Il brigante Musolino (1930); Canzoni vecchi e canzoni novi (1931).

* Le schede biobibliografiche, che precedono i testi letterari, sono a cura di Antonio d’Elia e Antonietta Cozza.

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Testo 1

I NOttI

È notti, je’ m’arritiru, su’ ’ntassatu,’nc’è un friddu chi tti faci ’ntisicari,’ncuntru nu’ custurinu ’ncappucciatue cchiù nudd’ arma viu caminari.

Jttatu supr’a porta i na’ putìasupr’ ’on bizzolu dormi un bastaseddue caminandu ancora cchiù dda via,’ndi viu n’atru e penzu: “’u maricchieddu!”

Quantu figghioli ma’, ’nta’ sti palazzichi dormunu cuntenti e caddiati;pi chisti, su’ la petra i matarazzi,sunnu i bizzola di li purticati.

Non hannu ’a mamma chi, prima i durmiri,i bascja supr’ ’a frunti annaccarata,p’un ’nzordu i pani vannu a ricugghiriun pugnu di muzzuni ‘mmenz’a strata.

Ma, chi sarannu ma’ chisti figghioli,senza n’ ’a casa, mamma, pani e diu?sarannu un gghiornu i latri e’ mariolich’ ’a sogitati stessa si crisciu!

Sarannu i camurrista ’e picciotteddachi campunu ’nto sgarru ’nta’ paranza,sarannu i muttetusi d’ ’i cutedda,i picciotteddi i cori e d’ ’a crianza!

E cchiù dda’ via, mentri cangiu strata,’ncuntru nu’ luppinaru, i so’ luppinajastima, e ’a fami, ’a sorta ’nnaracata:no ’ndi vindi’ un turnisi i stamatina.

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Cchiù ssupra, ’nta’ nu’ bassu lluminatu,nu’ barcuneddu viu spalancarie na’ figghiola cu’ na’ vecchia a llatumi chiama: “pis, pis, vo’ ’nchianari?”.

Versione italiana*

lE NoTTI

È notte, rincaso, tutto intorpidito / c’è un freddo che ti fa rabbri-vidire, / incontro qualcuno incappucciato / e non vedo più anima viva camminare. // Buttato sull’uscio di una bettola / sopra uno scalino rustico dorme un bastardello / e camminando ancora / ne vedo un altro e penso “poverino!”. // Mamma mia quanti ragaz-zi, in questi palazzi / che dormono contenti e al caldo; / per que-sti altri invece i materassi sono la pietra / gli scalini dei porticati. // Non hanno la mamma che prima di addormentarsi, / li baci sulla fronte accarezzandoli, / per un pezzo di pane raccolgono un pugno di mozziconi per strada. // Mamma, chi saranno questi ragazzi, / senza una casa, una madre, pane e dio? / saranno un giorno i ladri e i furfanti che la società stessa si cresce! // Saran-no i futuri camorristi e i picciotti / che vivranno di sgarro nella malavita, / saranno i vanitosi dei coltelli, / i picciotti inflessibili del rispetto! // Più in là per la via, mentre cambio strada / incon-tro un lupinaio, che bestemmia i suoi lupini, la fame e la mala sorte: / non ha visto un soldo da questa mattina. // In alto, da un luogo illuminato, / vedo spalancare un balcone, e una ragazza con una vecchia al lato, / mi fa: “pis, pis, vuoi salire?”.

* la traduzione delle poesie è a cura di Alessia Antonucci e Michele Borrelli.

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Testo 2

PICCIOttEDDU

U ficiru a Carmelu picciotteddu,è ’nta’ paranza da’ picciotterìa,diciunu cu’ rrasolu e lu cuteddu,Madonna santa, comu lu mania.

Cu’ ddi cazuni ianchi ’ncampanati,cu’ ddu cappeddu ’a storta e sangu i liu,e ccu’ dda’ ’rrisatedda sgalapata,va sapi fari ’a parti di schifiu.

E stu’ figghiolu cu’ llaiva a ddiri,chi ’mma’ facia chista rrinisciuta,e tantu saggiu volarria pariri,ambeci sddifinta’, carni vinduta.

Ch’è bruttu ’u mundu, com’addifintau!“sunnu i piccati, cumparuzzu beddu,sunnu i piccati e diu s’asdignau”,Malachiara, vinni lu sfraceddu!

Versione italiana

PICCIoTTEllo

Fecero di Carmelo un picciotto, / e all’interno della picciotterìa, / si meravigliano per come sia bravo / nel maneggiare i coltelli e il rasoio. // Con i pantaloni bianchi a zampa d’elefante, / Ma-donna Mia con il cappello al contrario, / e con quella risatina sguaiata, / fa la parte dello spaccone. // E chi doveva dirlo che questo ragazzo, / sarebbe diventato così, / voleva sembrare tanto saggio, / invece è diventato carne venduta. // Come è brutto il mondo, cosa è diventato! / “sono stati i peccati, compare bello, / sono stati i peccati e dio s’indignò”, / Mamma mia, verrà il finimondo!

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Testo 3

MALA VItA

È notti, e ’nta’ dda’ casa i ddi ’nfilici’nci sunnu ricugghiuti i picciottedda,unu jastima, n’autru binirici,e ’nn’atri ddui tirunu i cutedda.

unu a Tiresa sapi chi ’nci dici,e n’autru basciulìa a Carmeledda,unu si mangia un ’nzordu i pani e llici,e nn’ ’autru canta na’ canzuna bedda

Ma, ammenz’ ’a chisti quattru, ’nc’ esti ’Ndria,’u capu muttettusu, malandrinu,ch’esti ’u rrispettu d’ a’ picciotterìa;

Si jaza, scjogghi, stringi la curria,si ’mbivi sana n’ ’a buttigghja i vinu,cchiapp’ ’a catarr’ ’e mani e cantulia:

Su… d’ ’a paranza, sugnu camurrista,e sugnu ’u cchiù balenti malandrinu,aundi u peri me’ faci n’ ’a pista,’a terra trema, trem’ ’a terra anzinu.

N’ ’o fazzu no, no dico no pi vantu,ma no ’nzi menti nuddu avanti a ’mia,si beni carchidunu, ’nd’ avi schiantuquantu ’nci fazzu na’ superchiarìa.

Dda’ botta a ddritta, dda’ scagghjat’e manu mi fici fare bona numinata,ddu’ giru di rrasolu ’a ’menzu o a ssanu,è ’a parti di schifiu p’ ’rrasolata.

o picciotteddi i sgarru, o picciotteddi,

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ch’aviti l’anuranza’ sta’ matina,’a scola d’ ’i rrasola e d’ ’i cuteddiv’ambizza’ cca’, sta’ manu malandrina.

Ye’… sintiti… sugnu camurrista,e sugnu ’u cchiù valenti malandrinu,aundi ’u peri me’ faci na’ pista,’a terra trema… trem’ ’a terra anzinu!

Versione italiana

MAlAVITA

È notte, e nella casa dei miseri / si sono radunati i picciotti, / uno bestemmia, l’altro benedice, / e altri due tirano i coltelli. // l’uno sa cosa dire a Teresa, / l’altro corteggia Carmelina, / uno mangia un pezzo di pane e alici, / e un altro canta una bella canzone // Ma tra questi quattro c’è ’Ndria, / il capo vanitoso, malandrino, / che incarna il rispetto della picciotterìa; // Si alza, slaccia, stringe la cintura, / beve una bottiglia intera di vino, / prende la chitarra in mano e canticchia: // Sono un malavitoso, sono camorrista, / e sono il più valoroso dei malandrini / dove metto piede lascio il segno, / la terra trema, persino la terra trema. // Non lo dico tanto per vantarmi, / ma nessuno mi si mette davanti, / poiché chiunque conosce lo spavento se ricorro alla violenza. // Il colpo dritto, la finta / mi crearono una bella fama, / quel roteare del rasoio per metà o la simulazione è il preannuncio, / fatto di di-sprezzo, dell’affondo finale. // O picciotti di sgarro, o picciotti, / che avete l’onore di essere questa mattina a scuola dei coltelli e dei rasoi, / provate a colpire questa mano malandrina. // Ye... ascoltate... sono camorrista, / e sono il malandrino più valoroso, / dove metto un piede lascio il segno, / la terra trema, persino la terra trema!

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Aiuto alla lettura

Nel 1894 Giovanni de Nava compone una poesia in cui, per la prima volta, si parla di picciotteria, un termine che fino ad allora aveva fatto capolino solo nelle aule giudiziarie. dopo de Nava, questa definizione verrà utilizzata da molti saggisti, tra cui Lori, Taruffi e De Nobili nel loro libro sull’emigrazione in Calabria1 e Morselli e De Sanctis nella loro biografia sul bandito Giuseppe Musolino2. Picciotteria è anche il titolo di un saggio scritto da luigi Ferraioli nel 19003.

la raccolta di poesie del de Nava, noto anche per le sue col-laborazioni con l’«Avanti», il quotidiano del Partito socialista italiano (PSI), e l’«Asino», la rivista di satira politica fondata da Guido Podrecca, s’intitola Sintiti genti…

dalle poesie del de Nava, viene fuori una criminalità straccio-na, figlia del degrado socio-economico, delle classi diseredate e del disagio ambientale. la descrizione dei pic ciotti sembra richia-mare il dettaglio secentesco del ciuffo, alla maniera dei bravi di man zo niana memoria e insieme lo scorcio figurativo del cappel-laccio poggiato di traverso di inequivocabile stampo mafioso.

Nel 1890, quattro anni prima della pubblicazione di questa rac-colta di poesie, il Tribunale di reggio Calabria (Guerritore presi-dente, Prestipino e Manferoce a latere) aveva condannato 32 per-sone di età compresa tra 17 e 42 anni, accusati di associazione per delinquere. Spul ciando l’elenco degli imputati, si nota che quasi tutti avevano un’occupazione: nove di essi erano calzolai, due fabbro-ferrai, due chincaglieri, due falegnami, due sarti, uno era proprietario di beni, un altro era macellaio. Poi c’erano un com-merciante, un negoziante, un orefice, uno stagnaio, un fornaio,

1 D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Cala-bria, prefazione di P. Villari, Firenze, Barbera, 1908, pp. 858-859.

2 E. Morselli, S. de Sanctis, Biografia di un bandito, Giuseppe Musolino di fronte alla psichiatria e alla sociologia, Milano, Treves, 1903, p. 216.

3 l. Ferraioli, Picciotteria, Monteleone, 1900.

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uno scopaio, un imbianchino, un fruttivendolo, un mat tonaio, un facchino, un ebanista. Ed infine, nell’elenco dei condannati, fi-gurano an che uno studente e un nullatenente, o “impossidente”, come si diceva allora4. L’asso ciazione, definita dei picciotti e dei malandrini, speculava sui piccoli vizi e sui poveri consumi dei lavoratori, imponendo stili di vita e di malavita, di prepotenza e di interme diazione parassitaria, soprattutto nelle bettole e nei lupanari.

dopo le cause, de Nava prende in esame anche gli effetti della picciotteria. Nella poesia intitolata Picciotteddu, il protagonista viene descritto come un giovane dalla sorte segnata destinato a diventare carne da macello. È una picciotteria vinaria5, come la defi ni sce efficacemente Pasquino Crupi, legata alle bettole e ai postriboli, spavalda e spac cona, desiderosa di bruciare in fretta le tappe della promozione sociale.

di contro, in un processo alla picciotteria di Calanna nel 1905, i giudici riferendosi ad un calzolaio imputato di associazione a delinquere, così scrivono: “Sebbene è persona in buona condi zio-ne finanziaria purtuttavia viveva in mezzo alla picciotteria, e ciò per dominare ed imporsi e vedersi rispettato”6.

Nella poesia intitolata Mala-vita7, De Nava, infine, si soffer-ma su un capobastone spocchioso, di quelli che si annacavano, cioè camminavano con un incedere dondolante che tradiva fie-rezza e superbia. Era un modo, come un altro, per farsi notare, un atteggia mento che riflette i tratti della picciotteria, un’organizza-zione segreta, di cui tutti però devono conoscere l’esistenza. la picciotteria, come scrivono i magistrati del tempo, era una sorta

4 A. Nicaso, op. cit., pp. 51-52.5 P. Crupi, Anomalia selvaggia, camorra, mafia, picciotteria e ’ndrangheta nella

letteratura calabrese del Novecento, Palermo, Sellerio, 1992, p. 42.6 ASCZ, Corte di Appello delle Calabrie, Sebastiano Rizzuto +18, v. 413, 4 aprile

1905.7 G. de Nava, Mala-vita, in Sentiti genti…, cit., pp. 11-12.

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8 E. Ciconte, ’Ndrangheta, Dall’Unità a oggi, Bari, Editori laterza, 1992, p. 95.

di potere visibile, riconosciuto non solo dagli associati che rispet-tavano le rego le imposte dai codici e dalle gerarchie interne, ma anche da chi associato non era ma ne subiva le manifestazioni e le conseguenze più dirette e immediate. Nello stesso tempo pe rò era anche un potere invisibile perché non riconosciuto ufficialmen-te, negato dai diretti interessati nei tribunali. In alcune sentenze, i giudici fanno notare proprio l’apparente contraddi zio ne degli imputati che mentre menavano pubblico vanto di appartenere alla picciotteria, negavano poi questa circostanza in fase di interroga-torio.

C’è, insomma, incongruenza tra la realtà che emerge dai pro-cessi e quella raccontata dal de Nava.

Scrive Enzo Ciconte8: “un’opinione, largamente diffusa, ha sempre considerato la ’ndran gheta come un fenomeno legato a una società arretrata, marginale, contadina. Se con do tale inter-pretazione la ’ndrangheta agisce entro un mondo agropastorale rinchiuso e rinserrato tra inaccessibili montagne. la rappresenta-zione massima di tale opinione è costituita dall’immagine che nel tempo si è avuta dell’Aspromonte. Così, in parte, è nato il mito di una ’ndrangheta espressione di un mondo in declino, fattore di mediazione e di controllo sociale, una forma meno brutale e meno clamorosa di brigantaggio, rappre sentazione, tutto sommato, di una particolare devianza criminale a mala pena mitigata dalla cul-tura dell’onore e del rispetto. un fenomeno, quindi, poco interes-sante sul piano sociale, poco influente sul piano politico, neppure caratterizzato da delitti particolarmente significativi, sicuramente meno vistoso rispetto alla mafia siciliana e meno diffuso rispetto alla camorra napoletana”.

In realtà, la ’ndrangheta non si ferma alle pendici dell’Aspro-monte e non è il frutto di un deficit di controllo, di socializzazione e di opportunità. Va oltre l’Aspromonte, diffonden dosi nei centri più importanti, come reggio Calabria, Crotone, Catanzaro, Vibo Valentia, Nicastro e Cosenza, ma anche nei centri meno grandi, ma comunque vivaci dal punto di vista economico.

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Scheda dell’Autore

FrANcesco PerrI(Careri [Reggio Calabria] 1885-Pavia 1974)

È testimone e protagonista di molti importanti avvenimenti del Novecento. Tra il 1921 e il 1922 assiste alle lotte sociali in Lomellina (Pianura Padana). Nel 1924 pubblica il romanzo I conquistatori, firmato con lo pseudonimo di Paolo Albatrelli, sequestrato nel 1925 per il carattere antifascista. oppo-sitore del regime, tuttavia non condivide l’impegno del proletariato perchè ha un’idea “statica” del mondo e della società del tempo e considera lo stato liberale come un organismo capace di dar vita ad una «camorra or-ganizzata». la sola possibilità per la massa di elevarsi è, secondo Perri, il «canto d’amore». Analizza nei suoi scritti anche la società del dopoguerra e, se prima del conflitto bellico, il contadino è paragonato ad una «bestia da soma», successivamente lo scrittore coglie la delusione e l’impotenza del-l’uomo di fronte ad un mondo che esclude sempre e comunque i più deboli. Se in L’amante di zia Amalietta è il destino a dominare su cose e persone, in Emigranti è il dramma della sua terra che diventa protagonista.

opere: La rapsodia di Caporetto (1919); I conquistatori (1924 - 2ª ed.

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1925); Emigranti (1928); Il discepolo ignoto (1940); L’amante di zia Amaliet-ta (1958).Testo

[La vendetta oramai non spettava a loro]9

[di rosa] non volevano avere più notizie. la vendetta oramai non spettava a loro: quella aveva il marito, al quale essi l’avevano conse-gnata come un fiore. Ci pensasse lui. Per conto loro la cancellavano anche dalla loro memoria, e se anche fosse morta, essi non in tendevano esserne informati.

E siccome anche sulla condotta di mastro Genio correvano nell’ele-mento degli emigranti delle notizie poco simpatiche, Pietro si recò dal cognato, un po’ per accertarsi di persona della consistenza delle dicerie che lo riguardavano, un po’ per incitarlo a ritornare in Italia e punire la colpevole.

lo trovò in una specie di locanda tenuta da una calabrese attempata, di Catanzaro; una di quelle locande-ristoranti che gli emigranti chiama-no storo, dove si dà da mangiare e da dor mire ai lavoratori italiani. Era diventato grasso come un cappone nella stia, con la faccia ripugnante del fannullone. In principio vi si era impiegato come cameriere, poi era diventato l’amante della padrona, che lo teneva da conto come il verme nel formaggio. la sola sua occupazione era quella di strimpellare la chitarra per far divertire gli avventori, e accompagnare le loro canzoni.

difatti Pietro lo trovò seduto dietro il banco, accanto alla padrona: suonava e cantic chiava. lo storo era in una specie di baraccamento, con un salone pieno di piccoli tavoli di ferro, e qualcuno di marmo. I tavoli in parte erano occupati da operai che bevevano bir ra: qualcuno anche mangiava. la padrona, una donna sui cinquant’anni, energica, bru na, con un viso angoloso e sparso di piccole macchioline scure, simili a quelle chiazze di licheni che si formano sui sassi esposti all’umidità, le mani magre d’arpia, segnate da gros se vene violette, carica d’oro al col-lo e ai polsi come una regina barbara, lo ascoltava con un’aria accorata

9 F. Perri, Emigranti, Milano, Mondadori, 1928, pp. 164-167.

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e insieme contegnosa.Quando mastro Genio lo vide entrare, tentò dissimulare il disappun-

to che gli procurava quella visita. Si alzò, gli tese la mano e lo accom-pagnò a un tavolinetto di marmo in un angolo.

– Siedi – gli disse. Poi andò al banco, depose in un angolo la chi-tarra, e ritornò al tavolo dov’era Pietro con una bottiglia di birra e due bicchieri.

Pietro rifiutò il bere, e cominciò a parlare al cognato di quanto l’inte-ressava, col suo cipi glio duro e ingenuo di ragazzone che prende tutto sul tragico. Infine lo invitò senz’altro a ritornare in Italia e a fare le sue ven-dette senza pietà. Se non aveva i denari per il viaggio glieli avrebbe dati lui. Mastro Genio tentennò un po’ il capo, poi rispose seccamente che lui stava troppo bene dove si trovava, e che non aveva nessuna intenzione di ritornare in Italia, dove non aveva lasciato nessun feudo da sfruttare.

– Hai lasciato mia sorella che è tua moglie – fece Pietro stringendo le mascelle, come se aves se voluto stritolarlo dentro. – Cosa intendi fare di mia sorella?

– Tua sorella? non so cosa farmene.– Ma noi te l’abbiamo data con l’onore…– Si vede il bel genere che mi avete dato! Me l’avete data per una

notte, mi sono servito: ve la restituisco.Pietro che era gonfio d’ira, per averlo trovato grasso e tranquillo,

nonostante l’atroce offesa ricevuta, non vide più dagli occhi. Afferrò con le sue enormi mani la lastra di mar mo del tavolino rovesciando bot-tiglia e bicchieri, e lo avrebbe certamente finito se un nugolo di operai presenti, attratti dalle grida della padrona, non lo avessero accerchiato e disarmato.

la padrona strillava come un’aquila: – Accorrete, la polizia, chia-mate i pulisi… Assassi no…

Si produsse un tramestìo d’inferno.– Miserabile! – ruggiva Pietro divincolandosi come un gigante, con

degli scossoni che facevano rotolare due operai per volta sul pavimen-to. – Miserabile! di mia sorella dici di essertene servito? che forse era venuta dalla ruota come te, che non sai neppure di chi sei figlio?

Mastro Genio, bianco come un cencio di bucato, tremante, con le labbra livide dalla paura, si asciugava la fronte, madida di sudor freddo,

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e si nascondeva dietro un gruppo di operai, come un bimbo davanti a un mastino che ringhi minaccioso.

– Che c’è, cos’è stato? – domandarono gli emigranti che non cono-scevano la cagione della rissa.

– Niente… niente… – faceva Pietro soffiando come un toro – la-sciate che gli torca il collo a quel miserabile… che gli mangi il cuore.

uno dei presenti, molto robusto, con un aspetto da bravaccio, si avvicinò e prese Pietro per i lembi della giacca sul petto.

– Paesano, – gli sussurrò scuotendolo – parlate con me. lo storo è sotto la mia pro tezione… – poi pronunciò alcune parole del gergo ca-morristico che Pietro non compre se.

– Io non vi conosco, – rispose il giovane allontanandosi – e non intendo conoscervi. Anzi se mi rivolgete ancora la parola vi pianto un pugno nello stomaco che ve lo sfondo.

– lascialo stare, – gridavano gli operai da ogni parte – ha ragione, per dio, si tratta di sua so rella… Venite, paesano, andiamo fuori, rac-contateci; vi aiuteremo noi a vendicarvi.

E lo trascinarono fuori, mentre mastro Genio, spinto per le spalle dalla padrona dello storo, piagnucolante, si nascondeva in cucina.

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Aiuto alla lettura

Nel 1928, Francesco Perri (1885-1974) pubblica Emigranti, un libro nel quale lo scrittore di Careri più che di ’ndrangheta parla di quella legge non scritta che imponeva agli uomini di farsi giustizia per difendere il proprio onore.

Il romanzo è ambientato in Calabria. Rosa, una delle due figlie di rocco Blefari, aveva tradito il marito, mastro Genio, emigrato negli Stati uniti. Il padre la maledice, ma non l’ammazza. Pietro, il fratello di rosa, va a trovare il cognato, il quale, nel frattempo, era diventato l’amante di “una calabrese attempata di Catanzaro”, proprietaria di un’osteria. lo invita a tornare al paese per lavare nel sangue l’onore macchiato, ma riceve solo in sulti. “Si vede il bel genere che mi avete dato”, dice, riferendosi alla moglie. “Me l’avete data per una notte, mi sono servito: ve la restituisco”. Mastro Genio non è più un uomo. Merita una lezione e Pietro gli si scaglia contro. E qui che la ’ndrangheta diventa ricono scibile. uno dei presenti prende Pietro per i lembi della giacca: “Paesa-no – gli sussurra scuotendolo – parlate con me. lo storo [l’oste-ria, in italiese] è sotto la mia protezione”. Pie tro non comprende, così come l’autore del libro. Per entrambi la ’ndrangheta più che un’associazione criminale è un modo di pensare, un comporta-mento, un quid indefinito ed indefinibile.

In questo romanzo di Perri, la cultura mafiosa si intreccia con quella folclorica che assegna all’onore e al senso del l’onore un’importanza notevole nella gerarchia dei valori della mentalità contadina.

“l’onore – annota Pino Arlacchi10 – è l’unità di misura del valore di una persona, di una famiglia e si accompagna ad una particolare simbologia che ha profondissime radici nelle strutture

10 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 23.11 P. Crupi, op. cit., p. 58.

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mentali di intere comunità”. Spiega Crupi11: “l’uomo, dentro il sistema morale contadino

che ha la sua chiave di volta nell’onore, è una grande passività. Acquista l’onore senza premio e lo perde senza colpa. È onorato se la donna, che gli appartiene è onorata, è disonorato se la donna, che gli ap par tiene, è disonorata. […] Il disonore, che colpisce l’uo-mo, a differenza di quello della donna, ha la durata effimera del tempo utilmente necessario alla consumazione della vendetta”.

uno dei requisiti fondamentali per l’appartenenza alla ’ndran-gheta è proprio quello di es sere un uomo onorato e di essere in grado, alla bisogna, di difendere il proprio onore. Per questo non tutti possono far parte dell’onorata società, non a tutti è dato di partecipare ad un’associazione che, sotto questo aspetto, appare come una società d’elite che sceglie e seleziona i suoi membri.

Il concetto di onore è strettamente connesso a quello di posses-so e di dominio. Nel pic ciotto esso “è innanzitutto riposto nella inalienabilità dei beni che egli è riuscito a pro curarsi o che gli de-rivano da fonti naturali. Al primo posto è la donna: moglie, figlia, so rella, madre, amante. Su di loro esso ha un diritto esclusivo, di vita e di morte”12. Emerge un concetto, esasperato ed estremo, di dominio sulla donna, considerata, per diritto na turale, esclusiva proprietà privata dell’uomo. In una società contadina, nella quale l’uomo nasceva – in profondissima miseria e abiezione – sen-za diritti e senza proprietà, l’unico di ritto che poteva esercitare e l’unica proprietà che poteva rivendicare erano quelli ri cadenti sulle proprie donne. l’onorata società assume questa concezione e la mette a fon damento del suo comportamento e dei suoi giu-dizi.

12 S. Gambino, La mafia in Calabria, reggio Calabria, Edizioni Parallelo 38, 1975, pp. 57-58.

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Scheda dell’Autore

NATALINo LANucArA(Reggio Calabria 1916-1967)

laureatosi in lettere a Messina, sotto la guida di Ettore Paratore e ludovi-co Perroni-Grande, Natalino lanucara inizia la sua carriera di insegnante nel 1937 presso l’Istituto Magistrale “Tommaso Gulli” di reggio Calabria. Appassionato cultore di musica collabora con varie riviste quali «realismo lirico», «l’Airone», «Brutium», «Scrittori calabresi», «la lyra», «Il lette-rato» e, nello stesso periodo, viene nominato redattore di «Bottega dei quat-tro» e direttore dell’«Eco del mondo». Nel 1939 pubblica Fior di bosco, un testo poetico nel quale ricalca le formule metrico-sintattiche del Carducci. Si dedica, dopo la seconda guerra mondiale, alla versificazione, da un lato, e, dall’altro, all’esame della poesia neoumanistica. È preciso filologo e acu-to interprete del verso di molti autori italiani. Sotto lo pseudonimo di Ivon löstz pubblica L’arca di tiràncola, racconto nel quale al “tono” comico si alterna il linguaggio vivo del “dettato quotidiano”. Con Città delle Cor-ti lanucara raggiunge alte vette lirico-descrittive e analitiche. Il romanzo si impone nella letteratura italiana per l’ampia e dettagliata riflessione sul tema mafioso, che nasce dall’osservazione-esame del reale fenomeno ma-fioso e dei suoi tragici “aggettivi”.

opere: Fior di bosco (1939); Voci ne l’etere (1940); Varilia ad Fretum

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(1944); L’arca di tiràncola (1945); Poetica e poesia di Diego Vitrioli (1946); Pascoli in Sofia (1947); Città delle Corti (1949 - 2ª ed. 1950 - 3ª ed. 2006).Testo

Città delle Corti

La Banda degli Americani non aveva ancora visitato ufficialmente il capo tribù del l’accampamento degli zingari attestati a nord di Corte Bufala. Non aveva fatto visita per ché i maggiorenti degli “Americani” si erano recati nella Valle di Polsi, alla grande Assi se della Mafia.

In mancanza di Padron Gustino, che svernava in casanza, erano ve-nuti a Polsi: russu vo tacessi, Andrini e Papaserpi. Erano partiti senza alcun apparato di forza e ciascheduno portava un settesoldi e un vecchio fucile ad avancarica. Il fucile di Papaserpi era un vecchio trombone. Egli lo portava con sè ogni volta che valicava l’Aspromonte. Credeva ciò un segno di onore e di distinzione e gli ricordava i tempi della sua prima giovinezza quan do aveva avuto la buona sorte di proteggere le accorte mosse del Brigante Musolino braccato dalla forza pubblica.

Nell’Assise di Polsi egli portava con sè il vecchio trombone e, per esso, aveva il posto d’onore. Tutti sapevano che in un anfratto Papaser-pi aveva saputo vigilare sui sonni del Brigante durante le battute che egli faceva per vendicarsi dei suoi nemici, dopo la fuga romanzesca dal carcere di Gerace.

A quei tempi, quando Papaserpi ebbe notizia che i migni avevano incastagnato ancora una volta il Brigante, nell’urbinate, provò gran do-lore. Si unì ad altri compaesani e si recò in America dove trovò acco-glienza tra i gangster. Egli aveva raggiunto la sua meta. Non era venuto nelle Americhe per lavorare, come avevano fatto gli altri del suo paese, che ritornavano col gruzzolo e vivevano poi tranquillamente in un pic-colo podere. Aveva voluto portare il saluto del Brigante a coloro che ormai lo attendevano invano.

Forse portava con sè una missione segreta.Avuta notizia della strage immane disseminata dal movimento tel-

lurico era rientrato a Città delle Corti e viveva nel rispetto dei compagni d’onore. Per i suoi capi d’accusa egli occupava uno dei posti più segna-lati nelle Assise di Polsi.

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Qualche giorno prima di partire i tre erano venuti dal Brigadiere. – Avanti, avanti, – aveva detto il Brigadiere – orsù venite avanti.oh, che bella compagnia!Così disse: “Che bella compagnia”; ma voleva dire tante cose.Parlò russu votacessi. disse:– Brigadiere vi portiamo il nostro rispetto.– Grazie – rispose il Brigadiere – oh, mi giova!– Vi giova di più di quello dei nostri nemici – incalzò russu.– Nemici? Nemici? Voi avreste dunque dei nemici?– Brigadiere, voi sapete di chi parliamo.– oh, no certamente! – incalzò il Brigadiere il quale si aspettava la

visita che gli era fatta ogni anno, in quel periodo.– Brigadiere – disse con fare semiserio russo – io un giorno o l’al-

tro vi farò un regalo.– Troppo gentile, ma regali io non ne accetto.– Quella volta lo prenderete. Preparate una boccetta di spirito. Pre-

sto vi regalerò un orecchio e sarà quello di un traditore. C’è uno che sente troppo e parla troppo. Forse vi man derò anche una lingua.

Il Brigadiere rise. Aveva capito che la Banda degli Americani ricer-cava il suo infor matore e fece finta di non intendere.

– Ma no, caro russo. Quando ti sarai stancato di essere libero non ci sarà bisogno che tu vada a mozzare le orecchie al tuo prossimo: verrai da me e mi dirai: “Brigadiere sono stanco di trovarmi sempre in giro senza fare niente. Voglio ritirarmi un pò e stare in meditazione”. Ti as-sicuro che ti spalancherò le porte e sarai accontentato.

E qui risero tutti come se quel discorso fosse stato un divagamento tra buoni amici.

– Che volete, dunque, da me – chiese il Brigadiere.– Quel solito permesso per Polsi. C’è la festa alla montagna e noi

si va per devozione. Mettete un po’ di nero sul bianco. Scrivete: Tizio, Caio e… e l’altro vanno a Polsi e portano il fucile: la Questura può rilasciare il nulla osta.

– Vi basta un fucile – disse il Brigadiere. – Sparerete le salve con un fucile solo.

– No, Brigadiere – interruppe Papaserpi – voi sapete che io por-to con me il trombone che aveva mio nonno quando combattè con i

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picciotti di Garibaldi. lo porto ogni anno per devozione ai piedi della Madonna della Montagna.

Papaserpi mentiva e lo sapevano tutti. Anche il Brigadiere lo sapeva.– E va bene! – esclamò il Brigadiere – porta pure il tuo fucile a

Polsi. Tu vivi troppo di nostalgie.– Brigadiere! – esclamò con tono risentito Papaserpi.– Ah, quello è Andrini.– A servirla, Brigadiere.– Come mai quest’anno tu a Polsi?– Mancava Padron Gustino e allora gli amici mi hanno invitato a

tenere un pò di compagnia…– Cosicchè, tu sostituisci Padron Gustino? – chiese con interesse il

Brigadiere.– Brigadiere, – rispose Andrini – voi parlate difficile. Voi sapete

leggere e scrivere e io no. Come volete che vi risponda qui!– Ah! Ah! Ah! – rideva il Brigadiere e voleva con quel suo sorriso

dare incoraggiamento ai tre.– State attenti con codesti cacafòco – disse ora il Brigadiere – che

non vi accada una disgrazia come quella di Gustino. Il permesso che io vi dò serve per sparare le salve in onore della Vergine della Montagna. lupi niente, veh!

E rise ancora una volta. rise sguaiatamente.– Che disgrazia è successa a Padron Gustino, – chiese con dire su-

perbo russu votacessi – che disgrazia?– olà, fatemi ora i tonti! E quel pastore chi l’ha ucciso a Vallòn Bui.

Chi l’ha ucciso? Sono stato forse io?– Non lo sappiamo né noi né voi né Padron Gustino!– No, no, Gustino lo sa e da buon figliolo me lo ha confessato.– Sì, con lo scarabeo che gli rodeva l’ombelico…– Storie, storie – interruppe il Brigadiere. – Io glielo ho chiesto e lui

me l’ha confidato. Meglio così. Dimostrerà che è stato un accidente e tornerà a casa. Meglio così.

– Brigadiere, – disse in tono conclusivo russu – datemi codesta car-ta e ce ne andiamo. Quando poi vorrete sapere chi ha ucciso il pastore di Vallòn Bui, una volta tanto vi indicheremo noi la persona che potrà informarvi sul punto e sulla virgola! A servirvi, Brigadiere, e grazie

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tante.Il Brigadiere pensò ora che gli “Americani” erano sulla traccia del

suo informatore e decise di avvertirlo che si tenesse lontano per un certo tempo, per non essere ravvisato.

la carovana alla quale si unirono gli “Americani” era composta di sei uomini e una cavalcatura. Camminò per due giorni e una notte. du-rante la notte ci fu una sosta all’accampamento dei Piani e poi, partenza ancora di buon mattino. Prima di giungere al Montalto, Papaserpi piegò il ginocchio destro, si levò il cappello e stette afferrato con ambedue le mani alla corta canna del trombone che poggiava il calcio a terra. Egli guar dava, con animo commosso, il rincorrersi delle montagne e delle vallate e ricordava i gior ni della sua gloria. Papaserpi si commuoveva come un bambino quando ritornava tra i suoi monti e i suoi boschi. una voce gli sussurrava dolcemente: – Fermati Papaserpi, non seguire la via degli altri. Fermati: ora verrà il Brigante. È stanco il Brigante, sai, e ha bisogno di riposo. Chi potrà vigilare sui suoi sonni? Fermati, Papaserpi. Ce l’hai il tuo trombone?

Papaserpi accarezzava la canna del suo vecchio fucile e rispondeva: – È qui, non lo vedi? – E la voce gli ripeteva: – Fermati, dunque, che verrà il Brigante e tu lo proteggerai!

– Io mi commuovo davanti a questo spettacolo che ha un richiamo nelle sue verdi foreste – si giustificò Papaserpi con gli amici che lo at-tenevano. Egli non disse di quella voce che gli sonava insistentemente dentro: – Fermati, Papaserpi, che ora verrà il Brigante…

– Eppure – disse ancora Papaserpi – finirà che regalerò alla Vergine di Polsi questo mio trombone.

Ma non disse perché volesse fare quel voto.I suoi amici non risposero. Non volevano che alla Vergine di Polsi si

promettessero degli oggetti che poi non potevano esserle dati. Gli amici sapevano che Papaserpi non poteva privarsi di una cosa tanta cara che era la sua vita stessa, ogni suo vanto e decoro.

Nell’anfiteatro di Polsi era un continuo rimbombo degli spari voti-vi, e i fuochi dei bivacchi costellavano le pareti della montagna, preci-pitanti arditamente giù giù sino al fiume vicino alle cui scaturigini era il Santuario. I tre pellegrini di Corte Bufala portarono i loro omaggi alla Vergine del Santuario e diedero delle somme di denaro. Salirono su per

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la rampa che conduceva al piano di sopra. lì il balcone correva intorno al cortile interno dell’edificio. Visitarono il padre guardiano che racco-glieva e annotava le somme. dallo stazzo improvvisato accogliente gli animali offerti in dono un tanfo di bestiame urgeva prepotentemente sulla leggera aria montanina e offendeva l’olfatto.

– Padre, vi bacio le mani – disse Papaserpi.– Ben tornati, figlioli. Che portate? – chiese il guardiano guardan-

do al di sopra degli occhiali e tenendo pronta la penna per trascrivere l’elenco degli oggetti votivi e le somme consegnate.

– una somma per la Vergine della Montagna. Anche a nome di Padron Gustino che quest’anno non è con noi a causa di un vile tradimento.

Il guardiano alzò gli occhi ancora una volta al di sopra degli occhia-li quasi ad accertarsi dell’assenza di Padron Gustino che ogni anno gli aveva fatto l’offerta.

– Va bene, figlioli – disse il guardiano, e continuò ad annotare sul suo quaderno.

Papaserpi ancora non aveva saputo donare il trombone. Nel suo ani-mo si agitava una tempesta di passioni.

durante la matura notte, mentre si levava il suono delle zampogne e nei bivacchi guizzavano arditamente le fiamme, lontano dagli occhi indiscreti, in una breve radura circondata da alti alberi di castagno la mafia aveva inaugurato la grande Assise. Guidava i lavori Archilèu del Jonio il quale vantava la più ricca corona di capi d’accusa. Tutti gli intervenuti sedevano su tronchi d’albero disposti in più file e a ferro di cavallo. I lavori della prima notte furono dedicate a varie discussioni e fu rimandata alla notte seguente la cerimonia che serviva a rialzare i nuovi picciotti. Alla destra di Archilèu c’era Papaserpi col suo trombo-ne. Ben presto si parlò anche di Padron Gustino.

Parlò Archilèu e disse:– Quest’onorato consesso è privo di una persona tra le più degne e

meritevoli. Fino allo scorso anno, Padron Gustino di Corte Bufala ha onorato con la sua presenza questa nostra alta riunione e ha portato la voce della sua saggezza. Quest’anno egli è assente perché si trova in casanza. lasciamo parlare russu, sottocapo di Corte Bufala.

– ringrazio il capo che mi consente di portare il saluto della Ban-da degli Americani in questo nobile consesso – disse russu in piedi.

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– la mia parola di uomo d’onore e la presenza di due persone degne di rispetto, Andrini e Papaserpi, fanno fede della mia accusa. Padron Gustino non è qui tra noi perché è stato tradito vigliaccamente da uno spergiuro che abbiamo individuato. la nostra banda s’era riunita e vo-leva condannarlo; ma in vista della nobile riunione di Polsi ha meglio deciso di far pronunciare questo nobile consesso. Io ho parlato.

– la parola al compagno Papaserpi.– la mia indignazione è pari al disprezzo che provo per il traditore.

la nostra banda voleva lavare l’onta ricevuta – disse Papaserpi senza levarsi in piedi e tenendo il trombone tra le gambe. Egli accarezzava lentamente la corta canna.

– Chi altro vuol parlare? – interrogò Archilèu.Nessuno chiese la parola e bastò uno sguardo perché tutti mostrasse-

ro di essere uniti in una tacita intesa. dopo un attimo di silenzio si levò solenne una voce. Era Archilèu che sentenziava. Egli disse: – I traditori e i fedifraghi meritano la morte perché sono disprez zati da dio. Io chiedo, in nome dei nostri compagni d’onore, presenti e assenti, che il nostro diletto sottocapo di Corte Bufala, russu, dica qui il nome del traditore.

russu votacessi si levò in piedi e disse:– Bàsilu; è Bàsilu che ha la Bettola del Gatto. Noi lo abbiamo sem-

pre onorato della nostra alta protezione. Ora s’è lasciato infinocchiare dal Brigadiere e ci tradisce. Chiedo per Bàsilu del Gatto la condanna a morte.

russu tirò il suo settesoldi e lo piantò in un tronco che era davan-ti ad Archilèu, capo dell’Assise di Polsi. Tutti portarono il braccio in avanti verso il simbolo del coltello immerso nel corpo del vile e dissero solennemente, con una voce che non aveva nessun colore: – A morte.

Con le prime luci dell’alba l’Assise rinviò i lavori alla notte seguente.

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Aiuto alla lettura

Natalino Lanucara (1916-1967) è il capostipite della narrativa che affronta anche il tema della mafia. Il suo romanzo Città del-le Corti, pubblicato nel 1949, precede Il Giorno del la civetta di Leonardo Sciascia (1961), La Famiglia Montalbano di Saverio Moltal to (1973) e Il Selvaggio di Santa Ve ne re di Saverio Strati (1977).

la storia è ambientata a reggio Calabria dopo il ter re moto del 1908. In questa città di case improvvisate che ospitano un’uma-nità varie gata e sfiduciata, la ’ndrangheta ha il vol to della Banda degli Americani, ex emigrati che ol treoceano avevano metabo-lizzato for me di evoluzione gangsteristica13.

Padron Gustino, il capobastone, era finito in carcere per colpa di un delatore. Per vendicarsi di questo affronto e per ottenere l’avallo degli altri capibastone, la Banda degli Americani si reca al summit di Polsi. dell’esistenza di questa riunione annuale, che coincide con la festa della Ma donna della Montagna nel mese di settembre, si trovano tracce in documenti giudiziari già agli inizi del Novecento14. Nel romanzo si fa riferimento anche al bandito Giuseppe Musolino, considerato uno dei primi grandi boss della picciotteria, assieme a Santazzo Scidone.

13 Questo è l’aspetto meno esplorato tra le cause che hanno determinato lo sviluppo e l’affermazione della ’ndrangheta in Calabria. In una sentenza della Corte d’Appello delle Calabrie nel 1906, i giudici iden tificano come il “gran bastone” della picciotteria di Gallico un certo Giovanni Costa. Questi, si legge nella sentenza depositata il 12 luglio di quello stesso anno, “oltre ad essere un triste soggetto, era il capo della mano nera in America, e colà merce’ ricatti, estorsioni si arricchì”. Tramite rogatoria venivano sentiti negli Stati uniti alcuni testimoni, i quali confermavano che in “Carbondale [...] si era costituita un’associazione a delinquere, denominata la Mano Nera, o Maffia, il cui capo riconosciuto da tutti era Giovanni Costa”, il quale, “richiamava in America i pessimi soggetti del suo paese, fornendoli dei mezzi di viaggio”. Cfr. A. Nicaso, op. cit., pp. 32-33.

14 A. Nicaso, Ibidem, p. 31.

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Fino ad una decina di anni fa, la riunione di Polsi rappresenta-va l’unico momento di rac cordo tra i locali di ’ndrangheta. dopo la seconda guerra di mafia (1985-1991), la mafia calabrese ha modificato la propria struttura, dotandosi di un’organizzazione di tipo ver ticisti co-fede rativo, comunque, sempre rispettosa degli equilibri geo-politici, ma so prat tutto della natura parentale delle ’ndrine, basata sull’omertà, sulla coesione interna e sul la so stan -ziale autonomia nelle rispettive aree di influenza15.

15 N. Gratteri, A. Nicaso, op. cit., p. 16.

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Scheda dell’Autore

ForTuNATo semINArA(Maropati [Reggio Calabria] 1903-Grosseto 1984)

Studia prima presso il seminario di Mileto, dal 1915 al 1918, poi a Pisa e a reggio Calabria. Si laurea in giurispudenza a Napoli nel 1937. Si forma sui testi di Hugo, Balzac, zola, Cechov, Misasi, deledda, Tozzi, Pratesi. Colla-bora a vari giornali tra i quali «omnibus» e «Meridiano di roma». I moti-vi fondanti della pagina di Seminara sono: il crudo realismo che nasce dalla visione di una realtà emarginata e povera, quale quella calabrese; l’osser-vazione attenta di un individuo-personaggio, il contadino, impossibilitato a raggiungere qualsiasi forma di benessere; la paralisi profonda delle istitu-zioni e di un mondo dominato dallo strapotere dei signorotti. una prosa, la sua, suggestiva e, spesso, liricamente tragica, fondata sui traumi persona-li e sulle disgrazie collettive. la stessa vicenda umana dello scrittore viene spesso adombrata nei suoi romanzi. Muore lontano dalla sua terra.

opere*: Le baracche (1942 - 2ª ed. 2003); Il vento nell’oliveto (1951 - 2ª ed. 2007); La masseria (1952); Donne di Napoli (1953); Disgrazia in casa Amato (1954 - 2ª ed. 2006); Il mio paese del Sud (1957); L’Arca (1997); La fidanzata impiccata (1957 - 2ª ed. 2000); La dittatura (2002); Il Viaggio (2003).

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* la Fondazione “Fortunato Seminara”, unitamente alla Casa Editrice luigi Pellegrini, sta pubblicando l’opera omnia dello scrittore di Maropati.

Testo

Disgrazia in casa Amato

[…] i nostri ragionamenti, come i pensieri in quel tempo, si aggi-ravano attorno allo stesso argomento con un’insistenza ossessionante. una notte, nell’orto, Vincenza mi enumerò tutti gli sfregi commessi in paese, da quando lei aveva memoria, indicandomi con disprezzo gli sfregiati che si erano riconciliati con gli sfregiatori, o avevano mostrato di non curare l’offesa.

Gli sfregiatori sono sempre giovani, alcuni addirittura ragazzi, isti-gati dagli adulti, o smaniosi di farsi presto una fama di uomini terribili, suggestionati dall’esempio degli altri, oppure da un codice d’onore, per cui ogni offesa dev’essere vendicata, per ogni colpo dieci, e nessuna vendetta sembra migliore e duratura come lo sfregio. lo sfregiatore deve provare un piacere sadico a deturpare la faccia del nemico odiato, come torturarlo per tutta la vita, sapendo che quel segno è un marchio che non si cancella, né si può nascondere ed è visto da tutti. A volte, i giovanetti ricorrono allo sfregio, perché è facile e non richiede che agi-lità e gambe leste, non sentendosi il coraggio di affrontare un nemico più forte di loro, quasi sempre persona adulta: colpiscono, e prima che l’altro si renda conto di ciò che gli è accaduto, sono spariti. Fatti adulti e sposati, gli uomini evitano le liti, non di rado diventano pecoroni e co-prono la propria viltà coi doveri verso la famiglia. Si sente dire spesso: “Se non avessi il peso della famiglia, farei vedere… I figli mi legano le mani…”. E quando i figli sono cresciuti, li istigano a vendicare i torti, affermano anzi che è un loro dovere.

ricordo alcuni di quei fatti, che Vincenza mi raccontò, i più note-voli. Il primo era un ragazzo forse di quindici anni: sfregiò un giovane suo parente con una rasoiata, mentre discutevano senza sospetto, fermi al canto di una strada. Era stato istigato da una sorella maritata, la quale si mostrava offesa di certe proposte disoneste fattele dal giovane. Forse era vero, ma la ragione era che durante l’assenza del marito emigra-

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to aveva commesso delle leggerezze e aveva bisogno di riscattare il proprio onore con un fatto chiassoso prima del suo ritorno; scelse per vittima il più innocuo e forse meno colpevole. l’offeso dopo qualche tempo accettò la proposta di pace dell’altra parte per soffocare lo scan-dalo, si contentò del compenso che gli offrirono, e desistette dall’azione giudiziaria. Altri due giovani sfregiarono uomini adulti per offese che non erano proporzionate alla ritorsione. uno degli sfregiati non fece denunzia, non fiatò, guarì e tornò alle proprie occupazioni; tenne per parecchi anni il feritore sotto la paura d’una terribile vendetta, che non fece mai. l’uno e l’altro vivono ancora. Il secondo sdegnò la soddisfa-zione, che poteva dargli la giustizia, e giurò di scannare il feritore. di-fatti un giorno, incontratolo in una strada soli taria del paese, l’afferrò e lo stava mettendo tra le gambe come una capra, per scannarlo, quando, accortisi due uomini, liberarono a stento il disgraziato; andato a monte il primo tentativo, non lo ripeté più, forse perdette il gusto della vendet-ta. lo sfregiatore, dopo alcuni anni, commise un secondo sfregio. un altro sfregio causò tragiche conse guenze, che tutti ricordano ancora con orrore. una sera un uomo, che da poco era tornato dall’America, forse brillo, si divertiva in casa, suonando la chitarra e cantando, mentre poco distante una famiglia era in lutto per la morte d’un congiunto; più tardi, sceso nella strada buia per un bisogno, fu sfregiato con una rasoiata. dopo qualche tempo seppe che era stato il fratello del morto. Passarono degli anni. lo sfregiatore era un bifolco e abitava in campagna. una notte lo sfregiato bussa alla sua porta, e dicendosi stanco per un lungo cammino, chiede ricovero; insiste, perché fa buio e comincia a piovere. Quando l’altro apre la porta, senza proferire una parola gli tira tre colpi di rivoltella nel petto e fugge. Il ferito, ch’era un uomo vigoroso e agile come una belva, lo insegue e lo raggiunge dopo un duecento passi; lotta con lui furiosamente, gli addenta il naso per strappargli la rivoltella di mano e gliela scarica nel ventre. l’abbandona sulla strada e si fa tra-sportare col carro a casa. Il ferito si trascinò per un tratto, lamentandosi e invocando soccorso, ma nessuno l’udì; arso dalla sete, cercò di rag-giungere il torrente; e la mattina fu trovato moribondo in una cunetta da

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un contadino che andava per tempo al lavoro. Morì dopo pochi giorni. Il feritore guarì, scontò una breve pena e tornò a casa.

Aiuto alla lettura

Fortunato Seminara (1903-1984), scrittore solitario e schivo, è rimasto sempre attaccato a Maropati e alla Calabria che tanta parte avranno nelle sue opere.

Disgrazia in casa Amato è la storia di un maestro elementare che anziché vendicarsi denuncia ai carabinieri il capraio violento che l’aveva sfregiato.

In questo romanzo, pubblicato nel 1954, la ’ndrangheta co-mincia a prendere corpo, ma è ancora marginale, come se si ve-desse in controluce. È una malavita che si adatta a ucci dere per “un compenso adeguato”16, che non disdegna di mettersi al servi-zio delle auto rità del paese, le quali la usavano per “commettere soperchierie”17 e che offre la sua pro te zione ai grandi proprietari, le cui terre, pertanto, non avevano a temere da “coloni, caprai e ladri”18. È una malavita colta nella fase della sua frantumazione, dispersione e di sgregazione ad opera del fascismo. Molti malavi-tosi erano “chi in galera, chi emigrato, chi al cimitero”19.

lo sfregio era un marchio d’infamia che additava al pubblico disprezzo la persona sfre giata. C’era solo un modo per riscattarsi: la vendetta.

Nel 1890, in un processo davanti al Tribunale di Palmi dove si stavano giudicando le ’ndrine operanti in alcuni comuni di quel

16 F. Seminara, Disgrazia in casa Amato, Cosenza, luigi Pellegrini Editore, 2006, p. 72.

17 Ibidem, p. 73.18 Ibidem, p. 174.19 Ibidem, p. 72.20 ASCZ, Corte d’Appello delle Calabrie, Michelangelo Calia + 65, v. 324, 14 ot-

tobre 1890.

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circondario, un testimone “dichiarò che nel suo paese molti ave-vano la faccia tagliata dal rasoio ed erano rimasti perciò deturpati nel volto”20. Nella mentalità della ’ndrangheta, come in quella contadina, lo sfregio era una fe rita permanente. Era il volto ad essere sfregiato. una ferita che non era possibile nascondere, dis-simulare, coprire. Chi la portava era segnato per tutta la vita. In questo modo, la ’ndran gheta parlava a tutti senza pronunciare pa-

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rola; un linguaggio non del corpo, ma sul corpo.

Scheda dell’Autore

corrADo ALvAro(San Luca [Reggio Calabria] 1895-Roma 1956)

Tra i più famosi scrittori italiani del Novecento, nato a San luca, Corrado Alvaro riceve la sua prima educazione letteraria tra le mura domestiche. Il padre, insegnante nelle scuole elementari, legge per il giovane Corrado i ro-manzi italiani e stranieri dell’ottocento: Manzoni, Grossi, d’Azeglio, Scott, Hugo. A questi lo scrittore aggiungerà quelli di Proust, Dostojevskij, Joyce, e le letture di Croce, Bergson e Kierkegaard. È la Calabria, tuttavia, la prima e vera maestra dello scrittore: da essa deriva l’essenza e gran parte della costruzione poetica del suo narrare. Alvaro riflette sull’amara condizione di un Sud lacerato dalla miseria e dall’ignoranza, incapace di creare una vera e propria classe media, e perciò lontano dal resto della Nazione. Il dramma si trasforma lentamente in mito e lo porta a idealizzare il paese tanto che per lui si parlerà, a livello di critica, di “realismo magico”, cioè di una scrittura che parte dalla realtà ma la trasfigura in forme mitiche disegnando un paese che, di fatto, non c’è temporalmente. E tale vena si manifesta in particolare nei tredici racconti di Gente in Aspromonte, dove riemergono dalla memo-ria dell’infanzia figure di popolane, di pastori, episodi di vita regionale che non hanno una verità storica ma sono simboli morali e raccontano il popolo calabrese nell’anima più che nello svolgimento storico. Combattente della prima guerra mondiale, giornalista inviato da importanti testate nazionali in varie regioni del mondo, conoscitore della vita europea del suo periodo, calabrese innamorato e pur ben avveduto dei limiti della sua regione (mori-rà lontano da essa nel 1956), Corrado Alvaro ha tracciato acutamente molti profili del carattere umano che non appartengono necessariamente all’uomo calabrese ma all’uomo nella sua essenza.

opere: Poesie grigioverdi (1917); L’uomo nel labirinto (1926); Gente in Aspromonte (1930 - 2ª ed. 1995); Vent’anni (1930 - 2ª ed. 1995); Il mare (1934 - 2ª ed. 2006); L’uomo è forte (1939 - 2ª ed. 1994); Il viaggio (1942); L’età breve (1946 - 2ª ed. 1994); Mastrangelina (1960 - 2ª ed. 1994); tutto è accaduto (1961 - 2ª ed. 1995).

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Per una bibliografia alvariana più dettagliata, che tenga conto dell’intera pro-duzione dello scrittore di S. Luca (poesia, saggistica, teatro) rinviamo ad A.M. Morace, Itinerario di Alvaro, in Idem, Orbite novecentesche, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001, pp. 15-49.Testo

[Scrive Alvaro nel 1955, utilizzando, per la prima volta, il termine ’ndranghita]21:

la Fibbia, la “ndrina”, la “ndrànghita”, l’onorata Società, insom-ma la mafia, di cui si parla in questi giorni, la conosco da quando ebbi l’età della ragione. un ricordo preciso è di quando, tornato a casa per le vacanze, mia madre, venendomi incontro, mi disse che mio padre era occupato nella stanza di sopra con quelli dell’associazione. Mi rallegrai di cendo: “C’è finalmente un’associazione al nostro paese?”. Fresco di studi, credevo si trattasse di un’associazione per gli interessi locali. Mia madre mi fece ricredere subito:

“È l’associazione a delinquere”. Non so che avesse da sbrigare mio padre con quelle persone, comunque non me ne meravigliai. Nessuno in paese li considerava gente da evi tare, e non tanto per timore quanto perché formavano ormai uno degli aspetti della classe dirigente. Per la confusione di idee che regnava tra noi a proposito di giustizia e in-giustizia, di torto e di diritto, di legale e di illegale; per gli abusi veri o presunti di chi in qualche modo deteneva il potere, non si trovava sconveniente accompagnarsi con un “ndranghitista”. I membri dell’as-sociazione professavano il rispetto della religione, posa va no a difensori della morale anche quando non la praticavano, proteggevano le ragazze tradite e ne decretavano le nozze, vedevano di buon occhio i concittadi-ni che si facevano onore. Compivano prepotenze, ed era una di più da tollerare. Si assassinavano tra loro per gli strappi all’omertà, ed erano affari loro. Essi agivano nei paesi, nel tessuto stesso della società. I la-titanti che si rifugiavano in Aspromonte, non sempre diventavano loro gre gari. I loro affiliati provenivano da gente già potente che aspirava

21 C. Alvaro, La Fibbia, in «Corriere della Sera», 17 settembre 1955, ripubblicato poi con il titolo L’Onorata Società in Un treno nel Sud, Milano, 1958.

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a un prepotere, o da oscuri giovani disperati che balzavano così a una certa considerazione.

I delitti in una città, e non meno feroci e raffinati, sono l’ammo-nimento quotidiano di un oscuro pericolo. In un paese, gli autori dei delitti sono gente che si conosce, con cui si è scambiato il saluto e con cui si è parlato. A meno che non si trattasse di crimini infa manti, e l’as-sassinio per vendetta non lo era, chi usciva dal carcere, non per questo si trovava di fronte a gente che non lo volesse riconoscere. ricordo un poveretto che aveva fatto venti anni di lavori forzati, e trascinava la gamba pel ricordo della palla che allora legavano al piede degli ergasto-lani. Era stato liberato perché riconosciuto innocente. Nel suo campo, era stato trovato sepolto un tale, ed egli ne portò la colpa. Morendo, una don na confessò che era stata lei ad uccidere quel tale, perché ne era stata oltraggiata. C’era un altro, un giovane, che, abbandonati gli studi per compiere una vendetta di onore, tor nava dal carcere. Si era sicuri che ne avrebbe compiuta ancora un’altra nella persona dell’amico che lo tradiva con la moglie. Nel frattempo, si intratteneva con noi delle no-zioni che gli erano rimaste dai suoi studi. lo avremmo veduto il giorno dell’arresto; ci guardò come chi sia sorpreso in un atto vergognoso ma naturale. Questi non erano della Fibbia, ma li ricordo come un esempio della scarsa importanza sociale che aveva un delitto. Il compimento d’una vendetta era piuttosto una disgrazia, un farsi giustizia da sé per diffidenza dei Tribunali, e per rispondere all’opinione pubblica che in certi casi re clama il delitto. Ben altro succede nelle città del mondo, ma qui le cose diventano indovinelli da romanzo giallo, soggetti di film. ricordo che alla prima prova delle elezio ni per suffragio universale, nel nostro paese si scatenarono, alla vigilia del voto, i maz zieri dei due partiti in lotta, sequestrando i passanti: i quali, chiusi in una stanza dei ca pipartito, e rifocillati con una buona cena e vino abbondante, vi pas-sarono la notte; per essere condotti a votare la mattina, in fila, con la scheda già pronta nella mariuola della giacca. In paesi dove la libertà personale e di opinione godeva d’un simile rispetto, si può immaginare che cosa altro si vedesse. E l’onorata Società cresceva vigorosa, come oggi improvvisamente si scopre. Nei bassi ranghi, essa rappresentava la rivalsa di una misera condizione; il picciotto appena reclutato as-sumeva una importanza, e da allora non sarebbe stato disprezzato né

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offeso. Negli alti ranghi, presumeva di rappresentare un correttivo alle ingiustizie della società, alla distrazione di un Governo troppo lontano, rappresentato da funzionari mandati là in punizione, e perciò non del migliore umore; alle angherie e alle sopraffazioni, o ritenute tali da gen-te non abituata al libero esercizio dei diritti civili. Alle sopraffazioni, si aggiungevano sopraffazioni nuove. Ma al capo supremo si richiedeva una temerarietà senza limiti. Pare non fosse infrequente il caso che un simile personaggio si presentasse al procuratore del re, e alla polizia stessa, per comunicare i voleri dell’onorata Società.

un ricordo molto remoto, di quando ero ragazzo, è che, mentre mio padre tornava a casa in una sera di luna leggendo il giornale (la limpida luna di certe miti notti d’inverno), fu aggredito e colpito con un gros-so bastone che doveva spaccargli la testa. Ferito di striscio, se la cavò con qualche giorno di letto. doveva avere riconosciuto l’aggressore, ma non ne trapelò mai niente. Mio padre era pronto all’umorismo, e non se ne lasciava mai sfuggire l’occasione. Così imparai a distinguere i capi bastone e i maestri di sgarro, dagli apprezzamenti ironici che egli tribu-tava ai giovanotti che balzavano a una improvvisa considerazione per-ché della ganga. Si facevano crescere le basette o il ciuffo, assumevano un’andatura dondolante e un poco leziosa, portavano a volte un fazzo-letto di colore, rigirato con molta cura attorno al collo, con annodature raffinate. I più appariscenti, e individuabili, erano gente di poco conto, e scelti perciò ad arte. In tempi più vicini, si ebbe anche qualche podestà maestro di sgarro, si ebbe qualche proprietario capo bastone. I raddriz-zatori di torti, i taglieggiatori dei ricchi arrivavano a patti; il potere oc-culto, creato dalla violenza, conquistava il potere ufficiale e finanziario. da allora, mi ha sempre interessato, negli incontri in Calabria, notare quei modi e quegli atteggiamenti, quei particolari della pettinatura e del vestito che fanno arguire un affiliato all’Onorata Società. Era il segno, indefinibile ma sensibile, del mutamento di condizione, dell’esercizio di un potere occulto, una specie di mollezza e insieme uno stare a orec-chi tesi. lungi dall’acquistare apparenze brutali, assumevano una di-stinzione da parvenu. E tenevano ad accompagnarsi a persone di buona condizione, a persone istruite, con esa gerati modi cavallereschi. Forti della violenza, acquistavano un rango sociale. Disprezzati fino a ieri, diventavano temibili. Quando una società dà poche occasioni di mutare stato, o nessuna, far paura è un mezzo per affiorare. Di quel contegno da parvenu mio padre si prendeva giuoco col suo umorismo, la sua ironia

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assumeva il tono della lusinga smaccata, l’arma infida e pericolosa di chi deve tollerare e tollera male.

Aiuto alla lettura

Corrado Alvaro (1895-1956), il più noto scrittore calabrese del Novecento, nei suoi libri, non pone mai l’accento sulla ’ndran-gheta, come se non sia mai esistita, o come se abbia voluto deli-beratamente ignorarla. Non c’è traccia della ’ndrangheta in Gente in Aspro monte, pubblicato nel 1930, né nelle opere successive.

l’unica volta in cui lo scrittore di San luca si occupa spe-cificatamente di questo fenomeno lo fa attraverso le pagine del «Corriere della Sera» il 17 settembre del 1955, con un pezzo dal titolo La fibbia, un altro termine utilizzato per definire la ’ndran-gheta. Questa definizione era emersa, per la prima volta, in Ca-labria durante un processo per associazione a delinquere a Palmi nel 190322.

l’articolo di Alvaro viene pubblicato nel mezzo del dibattito sull’operazione Marzano, dal nome del questore inviato in Cala-bria per fronteggiare l’ondata di delitti che aveva insanguinato la regione. Ad oppido Mamertina, da anni, imperversa una violenta faida mentre nel vibonese, da poco, era stato arrestato Serafino Castagna, il mostro di Presi nace, accusato dell’omicidio di cinque persone, tra cui quello del padre. Ad attrarre però l’attenzione dei quotidiani nazionali era stata la notizia di alcuni colpi d’arma da fuoco esplosi, forse per errore, alla vigilia di Ferragosto di quello stesso anno, contro l’auto sulla quale viaggiava lungo una strada aspromontana la moglie di Antonio Capua, sottosegretario di Sta-to all’Agricoltura e Foreste nel governo Scelba.

22 ASCz, Corte d’Appello delle Calabrie, Anno 1904, Vol. 408, 19 maggio. “...ebbe la fibbia di Palmi con l’incarico di percuotere alcuni di Rizziconi”.

23 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Intervento dell’onorevole rocco Minasi, legislatura II – discussioni – Seduta del 4 ottobre 1955, p. 20188.

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l’esponente di governo, intervistato dal «Tempo», minimizza l’incidente, ri conducendo il tutto “a qualche ragazzaccio invasato di romanticismo, che andrebbe se veramente sculacciato”23. Qual-che mese dopo, per la prima volta il Parlamento prende in esame il tema dell’ordine pubblico in Calabria. Si rivela una discussione inutile; tutti cer cano di giustificarsi, accusandosi a vicenda.

rocco Minasi, deputato socialista, denuncia la perdurante presenza delle “vecchie strutture feudali” che soffocano l’econo-mia calabrese, accusando i mafiosi di offrire un “piedistallo” agli agrari che continuano a vessare i lavoratori24.

Fausto Gullo critica l’operazione Marzano, manifestando dif-fidenza nei confronti dello Stato che non ha saputo migliorare le condizioni di vita delle popolazioni calabresi “con provvedimenti di natura sociale ed economica”25.

Filippo Murdaca, sottosegretario al Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale, dichiara che “rapine, grassazioni, altri crimini” avevano superato il livello di guardia, pre cisando, co-munque, che “alcuni episodi (fra questi i più gravi) non avevano avuto “per cau sale il lucro ed il vizio […] ma la mal intesa digni-tà, parola usata nel gergo della mafia, o il mal inteso onore offeso, causale comune a molti omicidi registrati dalle statistiche nella nostra regione”26.

Anche Mario Alicata, nel suo intervento, stigmatizza il rap-porto tra agrari e mafiosi, chiamando in causa il sottosegretario Capua. “Mi dispiace”, dichiara, “che non sia pre sente […] perché fu proprio in vicinanza dei suoi fondi che, in occasione della lot-ta per l’occupazione delle terre del 1950, apparvero nella zona tirrenica, per la prima volta, dei mafiosi armati che cercarono di spezzare l’ondata di lotta dei contadini ‘affiancando’ l’opera della polizia”27.

24 Ibidem, p. 20189.25 Ibidem, Intervento di Fausto Gullo, pp. 20201-2.26 Ibidem, Intervento di Filippo Murdaca, p. 20288.27 Ibidem, Intervento di Mario Alicata, Seduta del 5 ottobre 1955, p. 20316.

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Infine, Nunzio Caroleo, il quale, dopo aver criticato l’aspet-to scandalistico dei tanti resoconti di corrispondenti e di inviati speciali di buona parte dei giornali italiani, liquida il confino di polizia come un espendiente politico di stati tirannici: “Se vi sono asso ciazioni a delinquere da colpire, si deferiscano al magistra-to penale, che promuoverà le azioni secondo la legge codificata; ma non si dia credito al sospetto, alla diffamazione, per attentare indiscriminatamente alla pace familiare di un’ intera regione che ha tradizioni di generosità e di solidarietà umana universalmente note”28.

I partiti di maggioranza accusano le sinistre di aver arruolato nelle proprie file tristi figuri legati alla mafia; socialisti e comuni-sti criticano la democrazia Cristiana e gli altri partiti di governo per essersi serviti dei mafiosi con l’intento di tenere a bada i con-tadini e condizionare l’esito elettorale. Non si arriva a nessuna conclusione. In Parlamento si tornerà a parlare di ordine pubblico e di organizzazioni criminali in Calabria soltanto nel 1969, quat-tordici anni dopo.

C’è in Alvaro una sorta di giusticazionismo storico. Il suo li-mite è di non aver saputo distinguere i valori della civiltà conta-dina da quelli della ’ndrangheta. Spiega Crupi29: “[Alvaro] non si avvede che i valori della civiltà contadina – onore e sangue, doverosità della vendetta a tutela del proprio prestigio, eccetera, eccetera – strizzano tanta e tale mafiosità da richiedere, quando divengono grumi narrativi, il ritmo interiore del dissenso dello scrittore. Ciò che in Corrado Alvaro non si sente mai. Se mai, quando un volto coperto nasconde uno sfregio, quando il coltello luccica e insaguina, quando un’offesa subita, per reale o presunta che sia, viene vendicata, l’afflitta e lirica sua parola allontana i

28 Ibidem, Intervento di Nunzio Caroleo, Seduta del 6 ottobre 1955, p. 20369.29 P. Crupi, op. cit., p. 70.

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fatti, li margina, quasi li annulla, e il carnefice e la sua vittima sono annebbiati da una equanime pietas storica”.

Scheda dell’Autore

sAverIo moNTALTo(S. Nicola di Ardore [Reggio Calabria] 1898-Ardore Marina 1977)

Il vero nome è Francesco Barillaro. la sua vita è attraversata da una trage-dia. Nel 1940, stanco dei maltrattamenti inflitti dal marito a sua sorella, uc-cide quest’ultima e ferisce il cognato. Il resoconto dell’accaduto è riportato in un memoriale dallo stesso scrittore, pubblicato, con il titolo Memoriale dal carcere, da Mario La Cava e firmato con lo pseudonimo di Saverio Montalto. Il memoriale nasce dalla richiesta fatta dall’autore al magistra-to per poter raccontare il tremendo avvenimento. Montalto, veterinario di mestiere, viene condannato poiché ritenuto malato, ed è rinchiuso in ma-nicomio. Con La famiglia Montalbano si assiste per la prima volta ad una narrazione basata su reali avvenimenti, che hanno come protagonista la ’ndrangheta, accaduti nel 1918. I soprusi perpetuati dai mafiosi alle spalle della povera gente, l’assenza delle istituzioni, il degrado morale e civile, i rapporti del potere occulto con i ricchi, descrivono un sud amaramente

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perduto e sconfitto dalla volontà del silenzio. Ed in silenzio muore ad Ardore Marina lo scrittore amareggiato dalla sua esistenza e da ciò che la sua terra aveva partorito.

opere: Memoriale dal carcere (1957); La Famiglia Montalbano (1973).Testo

I

[Deve piantare cavoli al cimitero]30

Il sei dicembre si festeggiava a S. Filipo il patrono S. Nicola. la malavita del luogo e dei paesi circonvicini era al completo e sui volti dei suoi affiliati si notava un’insolita arrogante prosopopea, dato che l’orizzonte politico si veniva intorbidendo sempre più.

Attraverso quest’orizzonte infido e malefico si andavano delineando prossime le elezioni e il padre del deputato in carica aveva di nuovo chiamato Gianni della zoppa per comunicargli che egli faceva sempre grande affidamento su di lui e per assicurarlo ancora una volta che poteva continuare a fare i comodi suoi senza preoccupazione alcuna, perché al-l’occorrenza, per quanto concerneva la giustizia, ci avrebbe pensato lui.

Gianni della zoppa, sicuro ormai del fatto suo, in occasione della fe-sta, aveva indetto per l’una dopo mezzanotte […], la riunione del “crimi-ne” di prima istanza, che era una specie di tribunale in seno alla “famiglia Montalbano” composto dai capibastoni più meritevoli del circondario.

dopo il “crimine” di prima istanza veniva il “crimine” provinciale o vertice ch’era a sua volta una specie di corte suprema composta dai tre capi trini che detenevano il comando dei tre circondari della provincia e degli altri capi di uguali meriti anche senza comando. Alle riunioni dei due “crimini” potevano prendere parte tutti gli affiliati, però se non interpellati, non avevano voce in capitolo.

Gianni della zoppa in qualità di capo trino presiedeva sempre lui nel circondario il “crimine” di prima istanza e questa volta l’aveva riu-nito per discutere due questioni più importanti: la prima riguardava

30 S. Montalto, La Famiglia Montalbano, cit., pp. 329-331; 335; 348-352.

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l’accusa di un picciotto camorrista negoziante di tessuti della Marina di zuccalìo che aveva venduta una certa stoffa a prezzi esorbitanti ad un picciotto di S. Filipo e la seconda questione si riferiva a Cola Napoli, il quale dovevano giocarselo.

la riunione si teneva quella notte in una casa di campagna di pro-prietà del sottocapo di S. Filipo Bruno lo Spincione sita a qualche chi-lometro a nord del paese in un punto solitario e fuori mano, adatta alla bisogna anche perché durante l’inverno rimaneva sempre disabitata.

Poco prima dell’una la festa era già al suo epilogo. la banda aveva esaurito il programma, i fuochi pirotecnici erano terminati con alcuni colpi fragorosi e scuri, la popolazione si era ritirata, i lumi acetileni che per l’occasione erano stati aggiunti a quelli esistenti per illuminare meglio la piazza e le vie principali erano spenti, i carabinieri avevano preso la via del ritorno verso zuccalìo ed il paese tutto aveva riacquista-to l’aspetto delle altre notti.

Gianni della zoppa e Bruno lo Spincione si avviarono per primi ver-so il luogo della riunione e gli altri mafiosi paesani e forestieri che do-vevano prendere parte li seguirono alla spicciolata. I forestieri che non erano pratici dei luoghi si accompagnavano ai mafiosi del paese […].

Quando Gianni della zoppa stimò giunto il momento, assunse la presidenza: scelse due giudici e il pubblico ministero fra i capi più me-ritevoli tra cui Angelo Bello ed il “crimi ne” entrò nell’esercizio delle sue funzioni.

Il presidente, i giudici ed il pubblico ministero occupavano tre lati del tavolo. dal lato vacante doveva comparire l’imputato. l’unica sedia di avanzo fu data a Carmeluzza che sedette alle spalle tra Gianni della zoppa e Angelo Bello. I rimanenti si accomodarono gre miti a mò di siepe a breve distanza intorno al tavolo. Coloro che conoscevano Car-meluzza si piantarono; gli altri la guardavano con desiderio e curiosità e si domandavano sotto voce chi fosse, ma senza azzardarsi di chiedere spiegazioni, perché dove il maggio re c’è, il minore cessa.

Al centro del tavolo accendeva una candela: la fiammella ogni tan-to tremolava e faceva apparire ancor più torve tutte quelle facce più o meno patibolari […].

Esaurito l’incidente Nardo si passò ad esaminare il caso di Cola Napoli, che interessava per davvero tutti quanti e per il quale, si può

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dire, si era riunito il “crimine”. Il caso di Cola Napoli si era differito fino allora per volontà di Gianni della Zoppa, ma ormai anche lui era convinto che la pera era matura e che bisognava coglierla. Questa volta l’accusa ven ne da Bruno lo Spincione che era quegli che, dopo Gianni della zoppa, considerato che questi da giudice non poteva muovere ac-cuse, aveva la maggiore responsabilità del buon andamento delle cose di S. Filipo. Si alzò fra un silenzio di tomba e un’ansia generale e senza tanti preamboli andò diritto al cuore della questione dicendo che ormai egli, in qualità di vero uomo d’onore, non poteva più tollerare la pre-senza a questo mondo di quello infame, delatore, miserabile uomo di cristiano sbattezzato che si chiamava Cola Napoli. rammentò il fatto della notte di Natale, la protezione di costui agli stronzilli, il tradimento a zio Bottaccio, diversamente se non ci fosse stata la sua mano mise-rabile di spia e di uomo disonesto, zio Bottaccio non poteva venire ar-restato e, soprattutto, tratteggiò la vicenda capitata alla nobile fanciulla Carmeluzza Caruso rimasta macchiata per tutta la vita dal disonore a causa di quel vigliacco; e, benché era notorio a tutti che la causa era stato Angelo Bello e non Cola Napoli, finsero tutti di crederci lo stesso. la quale nobile fanciulla oltre ad appartenere come sorella legittima ad un uomo altamente meritevole ed onorato a cui si doveva ogni riguardo e rispetto anche dopo morto, anzi maggiormente dopo morto giacché i veri uomini si onorano più in morte che in vita, era diventata ormai anche lei sangue e carne della stupenda “famiglia Montalbano”. Per tutte queste ragioni chiedeva che il Cola Napoli si doveva senza indugi e senza ambagi mandare a piantare cavoli al camposanto, perché se fosse rimasto ancora a mangiare pane, co me tutti gli altri, significava un grave disonore per l’onorata società la quale non avrebbe avuto più ragione di vivere nel paese di S. Filipo.

A questo punto si alzò Carmeluzza come una furia profferendo con veemenza che quell’infame doveva mandarsi assolutamente a mangia-re terra nella fossa, perché lei non era donna da essere scherzata da un Cola Napoli qualsiasi; e faceva notare che se aveva ac condisceso alle sue brame, aveva accondisceso solo dopo seducenti lusinghe e reiterate promesse di matrimonio e certo, poiché il partito era buono, ognuno al suo posto avrebbe rischiato tutto per tutto, perché chi non risica non rosica. Ma visto e considerato che il disonesto non aveva mantenuti i

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suoi impegni, doveva essere spedito ipso facto all’altro mondo e qua-lora non intendevano farlo loro uomini, che parlassero chiaro ché lo avrebbe fatto lei, a tamburo battente, da semplice donna, perché il cuore non le mancava e non solo che non le mancava il cuore, ma dopo morta era capace anche di succhiargli il sangue e berselo come si beve una bottiglia di licore. In ogni modo era bene che si rammen tassero tutti e lo tenessero bene in mente che se suo fratello non si fosse trovato a dormi-re sotto terra, quell’individuo sicuramente sarebbe divenuto da tempo suo marito, ovvero, caso contrario, non avrebbe continuato sino a quel momento a respirare l’aria e a man giare e a bere e a divertirsi.

Dette tutte queste cose belle ed edificanti si sedè di nuovo e cam-biando cera di punto in bianco, si mise a guardare con occhio languido ed appassionato Mico rodi che le stava di fronte facendolo tremare da capo a piedi. Il quale aveva in mente di prendere la parola, non per opporsi recisamente, giacché sapeva bene di non poterlo fare, ma per richiamare l’attenzione della rispettabile assemblea sulla circostanza di fatto che, levando Cola Napoli dalla circolazione potevasi andare in-contro a degli imprevisti poiché trattavasi di un individuo appartenente ad una famiglia di cui il capo era stato assessore del comune e quindi la giustizia non poteva del tutto disinteressarsi. In verità ci teneva più che altro alla vita di Cola Napoli perché era un cliente che spendeva bene nel suo negozio. Ma, d’altro canto, sentendosi ora addosso lo sguardo ammaliatore e carezzevole di Carmeluzza, la quale gli faceva venire l’acquolina in bocca e riflettendo meglio che se si fosse lasciato scap-pare quel momento propizio, avrebbe dovuto rinunziare per sempre alle sue grazie e considerato anche che la sua affascinante parola questa volta sarebbe stata voce declamante al deserto, giacché si capiva chiaro ormai dall’atteggiamento generale che si desiderava senza discutere la pelle di Cola Napoli, decise di tenersi la bocca chiusa; e mirando con un dolce ed impercettibile sorriso Carmeluzza abbassò la testa in segno di assentimento. Carmeluzza gli mandò uno sguardo ancora più languido ed appassionato che gli causò un nuovo tuffo al cuore.

Gianni della zoppa non se ne accorse di tutto questo armeggio fat-to d’altronde con oculatezza e riserbo; dappoiché se si fosse accorto, avrebbe esclamato senz’altro dentro di sé: “Non c’è che dire! Qualun-que uomo valoroso, non appena avvista una gonnella, si cala le brache.

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E così! Il mondo è pieno di rammolliti!”. osservò invece con certo stupore, ma non senza piacere, che neanche Mico rodi si opponeva e disse queste brevi parole:

– Amici, vi ringrazio del consenso universale accordato, dato che la questione del miserabile e disonesto uomo Cola Napoli riguarda anche un pò me personalmente. In ogni modo state tranquilli che il “crimine” verace ha già dato il suo consenso e posso assicurare inoltre che nessu-no di voi avrà il minimo dolore in testa e, non solo perché nessuno di questi paraggi comparirà sulla scena, dato che l’incarico sarà dato ad alcuni amici della sponda del bel Tirreno, ma per quanto avremo tutto l’appoggio morale e ma teriale del deputato, il quale è già informato

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che, se Cola Napoli rimarrà in vita, a S. Filipo può contare poco su un numero adeguato di voti a suo favore. E con ciò vi dò la buona notte, perché la seduta è tolta […].

Aiuto alla lettura

È di Saverio Montalto (1898-1977), pseudonimo di Francesco Barillaro, il primo ro manzo organico sulla mafia in Italia. Se nel libro di lanucara la ’ndrangheta viene colta nella sua essenza, male tra i mali, La Famiglia Montalbano, finito di scrivere nel 1945 e pubblicato nel 1973, getta un fascio di luce su un feno-meno che molti avevano volu tamente ignorato o sottovalutato. Commenta Crupi: “[Montalto] sfata i miti, demitizza l’onorata Società. La mafia è un’associazione a delinquere che tresca, in-triga nell’ombra, si affiata con il potere, deruba la povera gente, spoglia e veste gli affiliati, manomette le regole, che essa stessa ha sacralmente ereditato e trasmesso, architetta infamie, vive di sgarro, attenta all’onore delle madri, delle sorelle, delle mogli dei camorristi, che, al contrario, dovrebbe circondare di rispetto, e non arretra dinnanzi al delitto di chi si ribella alle sue leggi”.

lo scrittore di San Nicola di Ardore riesce a cogliere il nesso tra ’ndrangheta e politica, consapevole del fatto che la criminalità di stampo mafioso non sia un fenomeno di semplice devianza le-gato alla marginalità sociale, bensì una realtà politica, economica e sociale attenta al consenso e alle dinamiche istituzionali31.

Montalto non parla di ’ndrangheta, ma di “Famiglia Montal-bano”, uno dei tanti nomi con cui è stata identificata la mafia in

31 È sbagliato definire la ’ndrangheta un antistato, un contropotere criminale, ever-sivo dello Stato democratico. un’analisi della ’ndrangheta, nel suo percorso storico e nella realtà attuale, non può non registrare come dato caratterizzante il rapporto con settori istituzionali, senza di cui molte attività non sareb bero pensabili, a cominciare dagli appalti di opere pubbliche. Va detto anche che la ’ndrangheta, con trariamente a Cosa Nostra ha raramente colpito rappresentanti delle istituzioni.

32 ASCZ, Giuseppe Facchineri +20, v. 460, 18 gennaio 1916.

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Calabria. Nel 1941 ad un processo alla ’ndrina di Cittanova, un testi-

mone raccontò di essere stato invitato a far parte della “Famiglia Montalbano” onde “acquistare rispetto e divenire uomo”32. la stessa definizione era stata usata anche in un altro processo a ca-rico di 39 im putati di Gioiosa Jonica nel 192833. due anni dopo si ricorse ancora a questa defi nizione per identificare un’organizza-zione criminale operante in più comuni ai confini della provincia di reggio Calabria con quella di Catanzaro. Scrivono i giudici34: “la vasta associazione era denominata Famiglia Montalbano per-ché diramazione di quella di Gioia Tauro indicata con lo stesso appellativo”. Sul finire degli anni Trenta, quando fu processata la ’ndrina operante a Marcinà di Grotteria, un teste affermò di essere stato invitato ad “iscriversi alla società di Montalbano, in Marcinà Superiore” con la sicurezza che “avrebbe acquistato ri-spetto e trovato il modo come vivere senza lavorare”35. la stessa definizione fu trovata in un codice della ’ndrangheta sequestrato a Gioia Tauro36.

Montalto, facendo intervenire Carmeluzza alla riunione del ‘crimine’, è anche il primo a mettere in evidenza il ruolo della donna nella ’ndrangheta, come custode della memoria. la ’ndran-gheta, pur essendo formalmente monosessuale, cioè composta da soli uomini (in obbedienza non tanto a una regola interna quanto a una prassi di carattere generale, che voleva le donne subalterne ed escluse dalla vita pubblica e dalle professioni), di fatto, ha sempre assegnato, e continua ad assegnare alle donne, ruoli non seconda-ri, che vanno dalla gestione delle attività legali alla supplenza nel caso della carcerazione di familiari.

33 Ibidem, Luigi Lucà + 38, vol. 504, 9 luglio 1928.34 Ibidem, Vincenzo Annaccarato + 93, v. 516, 25 novembre 1930.35 Tribunale di Locri, Francescantonio Commisso +56, b. 3, 19 luglio 1937.36 l. Malafarina, Il codice della ’ndrangheta, reggio Calabria, Edizioni Parallelo

38, 1981, p. 89.37 N. Gratteri, A. Nicaso, op. cit., pp. 30-31.38 Ibidem, p. 31.

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Nell’ottocento si ha notizia di donne che erano state addirit-tura iniziate alla ’ndrangheta37 e nel 2000 le cronache giudiziarie riportano la vicenda di due sorelle, nipoti di un vecchio padrino, arrestate con l’accusa di aver guidato una cosca operante a Tau-rianova38. un’ulteriore riprova di elasticità e capacità di adatta-mento che spesso viene sottovalutata da chi si ostina a leggere il fenomeno mafioso attraverso le lenti degli stereotipi, dimostrando che quella pseudoscienza che va sotto il nome di “mafiologia” più che produrre analisi adeguate riproduce e rafforza banalità e luoghi comuni.

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La ’ndrangheta, come spiega efficacemente l’autore di que-sto romanzo, ha un proprio tribunale che, contrariamente a quello statuale, prevede anche la pena di morte.

Scheda dell’Autore

sAverIo sTrATI(Sant’Agata del Bianco [Reggio Calabria] 1924) da autodidatta, si laurea a Messina in lettere. È il calabrese misero il per-sonaggio centrale dei suoi romanzi: i protagonisti, particolarmente umani, lottano per l’affermazione della ragione. Vi è nella poetica di Saverio Strati la volontà di opporsi al padrone e alla violenza di “istituzioni”, come quella familiare, legata ad idee che non mutano con il passare dei secoli e condu-cono verso atteggiamenti “omertosi”. un dolore profondo, misto a pietà e risentimento, connota la “voce narrativa” di questo scrittore di Calabria. Il suo è un realismo forte, un tentativo di immaginare una realtà maggiore e migliore, dove, tuttavia, si abbatte come scure il boato dell’emigrazione e dove i contadini sono sconfitti e costretti ad andare via. In questo vuoto, che decreta la sconfitta di una terra e anche quella dello scrittore, si crea il pieno della ’ndrangheta e, in particolare, il romanzo Il selvaggio di Santa Venere racconta nel suo intreccio la potenza totale della malavita calabrese che si è

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ingoiata una terra intera.

opere: La marchesina (1956); La teda (1957); tibi e tascia (1959); Mani vuo-te (1960); Avventure in città (1962); Nodo (1965); Gente in viaggio (1966); Il codardo (1970); Noi lazzaroni (1972); Il selvaggio di Santa Venere (1977); Il diavolaro (1979).Testo

Il selvaggio di Santa Venere39

[…] “Cosa siete: lupo, ape o caccola di capra?” gli domandò il ca-pogiovane.

“lupo e ape; mai caccola di capra”.“di cosa andate in cerca, saggio compagno?” gli domandò ancora

il capogiovane […].“Vado in cerca di onore e sangue” rispose il cardone tutto emozio-

nato che quasi non gli usciva la voce di gola […].“onore e sangue avrete” gli rispose il capogiovane: […] “ma se

non ve li meritate, vi sarà tolto l’onore e il sangue. Se non sapete tenere quello che ora vi diamo, vi sarà tagliata la lingua che sarà gettata ai cani, o anche ai porci” […].

“lo giuro sul mio onore che terrò bene quello che ora mi viene dato: l’onore e il sangue”. E giurò sul suo onore che sarebbe stato un saggio compagno degno, e aggiunse, come voleva il rito, che avrebbe reso conto a tutti i saggi mastri delle sue azioni. “ lo giuro sul mio ono-re che rispetterò e onorerò tutti i saggi compagni e tutti i saggi mastri presenti e assenti e ogni cosa che a loro appartiene, a costo della mia pelle stessa ” […].

dette queste parole, il capogiovane gli si avvicinò e l’abbracciò e subito con la punta di un coltelluzzo […] tagliente fece un segno al braccio del cardone di fresco fatto omo. Il sangue schizzò e il capogio-vane lo succhiò. A uno a uno, per primo il capobastone, succhiarono al braccio dell’iniziato le gocce di sangue che continuava a sgorgare. Poi

39 Nel testo abbiamo inserito, di tanto in tanto, qualche passo informativo (ricono-scibile dal carattere diverso delle lettere) per rendere agli studenti più facile l’analisi del testo.

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gli legarono la piccola ferita e dissero che ormai erano tutti un sangue, una carne, un destino, una fede, la stessa famiglia.

Comincia così il viaggio di Leo nell’onorata società. Che però dura poco. Presto scopre, dall’interno, i legami della ’ndrangheta con i ricchi proprietari terrieri che taglieggia-no e depredano fittavoli e contadini. E nota come la gran massa degli omini – caprai, vaccari e zappatori – vagano tra carcere e tribunali, mentre i boss si godono la ricchez-za accu mulata. Fino a scoprire la strana e assurda giustizia della ’ndrangheta40:

[…] Gli si presentò la scena dell’assassinio nella fiumara, la fossa, la deviazione dell’acqua, la notte lunare. Se non fossi stato presente, come saresti tranquillo, leo! Co me tuo padre che è là fra le viti, e non smette di lavorare […]. Avevano arrestato un mucchio d’indranghetisti che presumibilmente dovevano sapere dell’assassinio. dovun que c’era un grande tù-tù sull’arresto degl’indranghetisti. Anche le rane parlava-no della retata e la gente si augurava che li tenessero per sempre in ga-lera, così il paese e gli onesti sarebbero stati in pace. Più di trent’òmini in tutto il mandamento erano stati beccati. Se qualcuno per debolezza cantava? Se i saggi mastri avevano, ad esempio, stabilito di buttare su di lui ogni responsabilità? Come si sarebbe difeso? Chi erano quei tre ve-nuti non sapeva manco da dove? dovette fare un bisogno, ché le viscere gli si sciolsero a queste domande senza risposta. Egli era complice e perciò colpevole. Era fritto, rovinato per sempre. la sua vita in sostanza s’era conclusa, e male. Malissimo. Inghiottì. Si ricordò di aver sognato l’assas si nato. lo aveva minacciato con l’indice proteso: tu!, gli aveva detto l’assassinato. Poi con l’indice piantato sotto il palmo della mano: quassotto non piove, e se piove non si bagna, gli aveva detto. Verrà il tuo turno e la pagherai, Sel vaggio di Santa Venere. Ché t’ho conosciuto e t’ho già denunciato!… Almeno potesse aprirsi, confidarsi con qualcu-

40 S. Strati, Il selvaggio di Santa Venere, Milano, Mondadori, 1987 (I ed. 1977), pp. 114-150.

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no, per liberarsi del masso che l’opprimeva! Neanche con la sua ombra poteva farlo. Fissò la sua ombra che gli stava distesa lunga davanti a sé. Ebbe la strana idea di saltarle sopra; ma l’ombra, con sorpresa di lui, fece lo stesso balzo in avanti. Egli si stupì parecchio di questo fatto. risaltò e l’ombra scattò anch’essa come lui. uguale.

“Che ti prende?” gli domandò il padre che gli stava a pochi metri.“T’eri accorto che non si può saltare sulla propria ombra?” gli co-

municò sto fesso ingenuo qua, dice mio padre; ed era strabiliato della scoperta.

“Ma fa’ qualche cosa!” gli disse don Mico con tono seccato; ma pensò che egli non si era mai posto un simile problema. Non gli era mai venuto in mente di pensare che sulla propria ombra non si può saltare, che la propria ombra nessuno è in grado di afferrarla.

Anche chi ti parla, che è figlio di suo padre, intuì oscuramente che dentro di noi c’è qualcosa che non ci riesce di afferrare, come la nostra ombra. Cos’era questo fenomeno? S’immerse a pensarci. Non gli riuscì di definirlo. La scontentezza? L’impossibilità di vivere tranquilli? Di essere padroni di noi? di avere amici? E perché? Perché abbiamo dei segreti, dei problemi che ci torturano e non possiamo comunicarli agli altri? Perché, inoltre, si è trascinati come pagliuzze dalla corrente, in avvenimenti che rifiuti, che odi, che ti fanno male per tutta la vita? Chi avrebbe mai potuto cancellare dalla sua mente la scena dell’assassinio a cui aveva assistito là nella fiumara?… Ora quel rozzo ignorante di Santo l’invitava di andare a Polsi per la festa. Non gli poteva dire di no a tondo di palla. Non poteva dire di no a nulla. Per non destare sospetti. Chi è nel ballo deve ballare. Anche se non gli garba deve ballare. Anche se è sfinito di stanchezza non si può rifiutare di ballare. Basta niente e ti fanno il processo e ti stutano con un colpo e ti buttano in una fossa come un vecchio sacco sfondato; e nessuno saprà mai dove sono andate a finire le tue ossa. Ti spediscono all’altro mondo senza manco un domi-nisvobiscum, e la tua anima non avrà mai pace come quella del pastore del pioppo. Inghiottì secco. A quest’ora quel disgraziato è in putrefazio-ne. Immaginò i vermi, a mucchi, sul cadavere. Aveva visti tanti animali morti là nella campagna che pullulavano di vermi, di formiche e di altri insetti. Inghiottì nuovamente. Come dirlo a suo padre, se non poteva tirarsi indietro alla proposta di Santo?… Santo gli aveva fatto intendere

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che a Polsi avrebbe avuto il suo riconosci mento di omo davanti a tutta la famiglia riunita in assemblea generale e che così sarebbe cominciata la sua scalata di giovane degno e meritevole di ogni fiducia e che pertanto da ora in avanti, per come si era comportato, si sarebbe potuto presen-tare a chiunque da pari a pari e in qualsiasi paese sarebbe stato accolto e rispettato come un padreterno. Sputò a questo pensiero. Ma doveva andare a Polsi. E doveva andarci, per non suscitare il più pallido sospet-to in nessuno. Tanto fra pochi mesi sarebbe partito e avrebbe tagliato con quest’omini qua, radicalmente. Santo inoltre gli aveva spiegato che a Polsi ci doveva andare insieme a don Nino che aveva in programma, anche per far egli stesso buona figura, di presentarlo ai capocombric-cola come giovane di grande avvenire. Sicché non si poteva davvero tirare indietro. li avrebbe sbranati, a pezzetti li avrebbe fatti, sti caproni stupidi… Certo suo padre si sarebbe messo a frignare, a maledire, e for-se anche a strillare. Avrebbe certo tentato d’impedirglielo; ma sarebbe scappato lo stesso; non aveva altra scelta. Certo si sarebbe scatenato un putiferio di liti fra loro due che fino a qualche mese fa avevano vissuto in pace. Il groppo, il rovello dei pensieri, delle preoccupazioni era tale e tanto, che cacciò un urlo.

“Che ti prende?” gli strillò incazzato il padre spaventato.“Stracco gli uccelli che mi disturbano la testa”.“davvero ti comporti come un selvaggio!” esclamò don Mico.

Scrollò la testa, amareggiato. Sperò in cuor suo che il figlio partisse al più presto. Sotto le armi si sarebbe maturato, civilizzato. Se pensava a se stesso, doveva concludere che a quell’età non era più esperto e meno rozzo di suo figlio, prima di partire per la naja. Poi, piano piano, a con-tatto di gente di tutto il mondo e per la fortuna che aveva avuto di fare l’attendente a quel signore del suo capitano, gli si era mossa la scorza che lo appesantiva e un pezzetto al giorno gli era in parte caduta. lo stesso sarebbe avvenuto per leozzello suo, certamente.

Suo figlio, spinto da un impulso più forte della sua volontà gli disse a un tratto:

“Io quest’anno vado a Polsi”.“Ah!” esclamò don Mico, e lo fissò. Dopo una pausa tesa, giacché

ebbe la tentazione di prendere un palo e di spezzarglielo sulle corna, ma si frenò stringendo i denti: “Andiamo a dimostrare quanto siamo

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bravi?” fece. Il suo discorso era chiaro nei sottintesi.“Voglio visitare la Madonna prima di partire” gli ribatté pronto il

figlio. “O credi che l’anno prossimo io sarò qua con te?”.È vero. l’anno prossimo non sarà qua con me. Però sapeva che

lo scopo del viaggio a Polsi non era la Madonna, ma la presentazione nella famiglia, la presentazione fra quella maniata di ladri rozzi che non avevano nessuna spinta a civilizzarsi. Questa malariuscita del figlio ti conduce alla tomba, don Mico Arcàdi. Mai avresti immaginato che tuo figlio… Dal pero pere devono nascere, non c’è Cristo che sa dire il contrario. Pere. Su questo non ci sono dubbi. Neanche nel ramo del-la moglie c’era qualcuno che si fosse affibbiato alla malavita. Mai, in nessun’epoca, a memoria d’uomo… Cominciò a mugugnare: che i de-linquenti sono delinquenti, e basta; ma hanno la spudorataggine di no-minarsi òmini; ma non sono certo òmini, visto che ammazzano e manco pagano. Sotto sotto sono dei vili, dunque. Inoltre sono degli sfaticati, dei ladri sfruttatori della povera gente; sono stupidi senza cervello e forse non hanno manco anima, visto che compiono assassini terribilosi. Avevano fatto sparire un povero cristo che aveva avuto il coraggio di cantare chiaro, di fare il nome degli assassini di un padre di famiglia onesto e laborioso. Belle persone, certi individui! Te li presento!

Il figlio non gli diede corda. Gli faceva però rabbia che suo padre avesse sempre ragione. E se viene a scoprire che sono stato testimone di quest’omicidio?! Se scopre quello che accade di tanto in tanto nella ca-setta, e il frischiabut che bevono gl’ingordi animali di pancia; e le ca-pre e i capretti che rubano e scannano e squartano e arrostiscono a quar-ti interi sulle braci e se ne intrippano?! Se i muri della casetta potesse-ro parlare!… Poi a lui toccava cancellare ogni segno della scialacquata, in modo che suo padre non ne trovasse traccia… Non desiderava altro che troncare e al più presto con questa mentalità intollerabile, assurda, disumana, per liberarsi del peso che di notte gli toglieva il sonno… Se non avessi conosciuto Santo, leo Arcàdi!, si ripeteva. Per un momento si faceva l’illusione di non averlo mai conosciuto e di essere libero, con l’animo sgombro d’ogni timore e malopensiero. Ma Santo l’aveva co-nosciuto e al delitto tremendo era stato presente e se lo sentiva gravare dentro. Aveva incubi, certe notti; era angosciato dalla paura di finire in galera; aveva paura perfino degli spettri, lui che prima sarebbe stato ca-

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pace di dormire in mezzo ai cadaveri; lui che in una notte buia e vento-sa, non più di un anno avanti, era salito sul pioppo dov’era stato assas-sinato il pastore di cui si raccontava che il fantasma certe volte si aggi-rasse gemendo e piangendo. Aveva parato la tagliola per la volpe di cui aveva visto le impronte là in giro e la curiosità e la passione l’avevano indotto a spiare l’arrivo di comare rosa… che infatti arriva, ma la fur-ba scansa la tagliola, e lui deluso e imprecando – era anche intirizzito e stordito dal vento – scende, a mezzanotte, e se ne torna deluso alla caset-ta. Ma poi la mattina ci trova la volpe attanagliata alla zampa destra po-steriore. la gioia, oh la gioia! Si tolse il berretto e lo morse dalla gioia. Bestemmiò, dalla gioia. Volle prenderla viva, la volpe; ma era pericolo-so, giacché quella era furiosa: gli occhi rossi dalla rabbia e i denti aguzzi come aghi, pronta a mordere, e balzava di qua e di là meno male che la trappola era robusta e legata a una catena di ferro. Egli corse alla casetta e prese un sacco; stancò l’animalaccio, stuzzicandolo con un lungo palo. Quando la volpe era sfinita che quasi si lasciò andare a terra, egli le but-tò il sacco addosso e l’immobilizzò. Per prima cosa le legò il muso e poi la portò sull’aia e ve la tenne come un cane al guinzaglio. l’addomesticò e tutti si stupivano della sua abilità e del suo coraggio… ora…, aveva… dio santo, mamma mia!… aveva paura di guardare gli altri dritto in vi-so. Se qualcuno parlava dell’omicidio misterioso di cui nessuno sapeva niente di preciso, egli abbassava lo sguardo e piano piano si allontana-va con la coda ciondoloni. Non si riteneva degno di stare in mezzo alla gente onesta, laboriosa. Né lo rasserenava o consolava che non si sape-va dove fosse andato a sbattere quel disgraziato, che non esisteva traccia che potesse indiziare, accusare qualcuno. Anzi!… il peso dentro l’animo gli si accumulava, crescendo come un male che avrebbe potuto esplode-re a un tratto, giacché riteneva che egli solo fosse il colpevole… Chi era-no gli altri tre, da dov’erano sbucati? Non lo sapeva neanche Santo che messo alle strette là sull’aia della casetta, si premette la mano sul petto e disse: so quanto te, sul nostro sacronore, e pronunciò a modo di giura-mento una delle loro parole segrete che non si proferisce quasi mai e da-vanti alla quale si china la testa, dato che quella parola non si usa invano. … Sicché era buio fitto intorno! Non solo per la legge. Ché, non si sareb-be saputo niente di niente della scomparsa di quell’uomo, se la moglie non avesse dichiarato nella sua denuncia alla giustizia che una persona

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forestiera nella notte era andata a picchiare alla porta di casa sua e ave-va chiamato suo marito. Vieni, ti vogliono fuori. Aveva sentito lei con i suoi orecchi questa frase pronunciata dalla voce dell’assassino. una vo-ce che non conosceva, che mai aveva sentita, che di sicuro era di un fo-restiero… Non era escluso che qualcuno degli arrestati – ce n’era uno fra questi che certo sapeva, che certo era stato presente alla riunione duran-te la quale il tribunale aveva deciso la morte dell’infame – parlasse, fa-cesse nomi, buttasse la responsabilità su personaggi di mezza tacca, per allontanare i sospetti dai capibacchetta, per scagionare i pezzi da novan-ta che avevano pronunciato la sentenza di morte. A questo timore si sen-tiva gelare il sangue… Ma i giorni passavano e con sua grande sorpre-sa nulla avveniva a danno suo, né a danno d’altri. Nessuno sapeva nien-te, nessuno dava indicazioni neanche alla lontana. Ciechi e sordi e come muti erano tutti quanti […].

Leo riesce a tirarsi fuori. L’occasione gliela offre la guerra fascista. Quando torna al paese non mostra di avere rim-pianti41:

Ieri si portava rispetto alla gente che ne era degna. ora si va alla caccia di persone danarose e si inviano lettere minatorie. dieci milioni lasciati lì, il tale giorno e alla tale ora, altrimenti te la passerai male tu e i tuoi e anche la tua roba […]. No, questi mafiosi di ora sono sporchi e avidi. Non hanno il senso del rispetto e dell’onore che si aveva un tem-po. Ti aggrediscono alle spalle. Non hanno il fegato di affrontarti a viso e scoperto, in pub blica piazza. un tempo si agiva così.

Leo idealizza. Come tanti che per una ragione o per un’altra decidono di tagliare i ponti con il passato. In realtà, ciò che rende discontinua la ’ndrangheta di ieri da quella di oggi è la qualità non la quantità del delitto, né l’efferatezza.

C’è spazio anche per rammentare velocemente la vera

41 Ibidem, pp. 9-11. 42 Ibidem, p. 9.

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essenza della ’ndrangheta, le sue connivenze con il potere politico. È sempre Leo che parla42: “E tutti sanno chi sono sti mafiosi, sti coraggiosi. Sono personaggi pubblici: occu-pano posti in Comune come as sessori, o addirittura come sindaci. Protetti dai politici – si sussurra che a una riunione plenaria della mafia regionale c’era perfino un ministro”.

Mafia e potere economico diventano un tutt’uno ne Il Diavolaro, pubblicato nel 1979.

Il Diavolaro – così chiamavano Mastro Santo in paese – è una carogna sociale. Entra in a mi cizia con un capobastone che43:

aveva un preciso senso della giustizia relativa alla sua comunità. Era umano, cioè. Non applicava mai la severità del codice d’onore, ma si la-sciava condurre spesso dal cuore… Bisogna compatire, cristianamente, diceva. Bisogna capire, perdonare; ma avvisava a ripetere la brutt’azio-ne era pericoloso.

E infatti chi sgarrava per la seconda volta non perdonava. Attenua-va sempre la pena, giacché il suo istinto di uomo sano lo spingeva a cercare le cause e le ragioni di ogni a zione di quei disgraziati, così li chiamava, che erano ciechi e sordi e vivevano solo perché erano nati senza chiedersi, come le capre, niente di niente, tanto spessa era la loro ar retratezza e tanto immediata era a momenti la necessità di trovare in qualche modo un boccone per i figli e per se stessi.

Commenta Crupi44: “Quando il Diavolaro ha incomincia-to la sua carriera di carogna sociale, la Calabria e il Sud erano infestati dal medioevo agrario, che il fascismo pro teggeva e riempiva di privilegi. La guerra, il dopoguerra, la cacciata del re, l’avvento della Repubblica, la lotta per la conqui-sta delle terre incolte, la rinascita dei partiti dei lavoratori,

43 S. Strati, Il diavolaro, Milano, Mondadori, 1979, pp. 53-54.44 P. Crupi, op. cit., p. 122.

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l’emigrazione, la scolarizzazione, che rappresenta una leva, per quanto am bivalente, del mutamento disegnano il crepu-scolo della Calabria feudalistica e latifon distica”.

Il Diavolaro non si rende conto di tutti questi cambia-menti. Come la ’ndrangheta, si adatta ai tempi, cambia pelle, si adegua. Si illude di potere dominare processi più grandi di lui, ma nessuno lo ascolta. Neanche la figlia, che anziché sposarsi con il figlio del capomafia, don Bastiano, si unisce a Tonino, il giovane intellettuale povero che incita le masse ad occupare i terreni incolti. L’epilogo è tragico ed introduce il tema dei delitti politico-mafiosi:45

Mentre una sera Tonino parlava a una cinquantina di braccianti e di raccoglitrici di gelsomino in un gruppo di case sparse là nell’aperta campagna, qualcuno gli sparò da dietro un’alta siepe di rovi e di ortiche.

Con una fucilata gli fece schizzare il cervello sulle pietre intorno. Una scena terrificante che sconvolse il mandamento, anzi la provincia intiera.

Ne parlarono i giornali e alla Camera ci fu un’interpellanza e nel mandamento successero dei tumulti. Si racconta ancora come omicidio impressionante, e là dove Tonino cadde morto ora esiste un cippo di marmo con la scritta Qua venne assassinato il sindacalista… A memo-ria… I lavoratori…

Si raccontò che a decidere la morte di Tonino erano stati i ricchi del circondario che lo ritenevano un grande rompiscatole. In parte il racconto corrisponde alla verità; ma il punto, la ragione stava un poco altrove: nel rapimento di Eleonora.

Eleonora era la promessa sposa del figlio di don Bastiano. Don Ba-stiano, che era il mastro dei mastri chiamò al dovere don Santo. don Santo, con tanto rispetto per l’amico, rispose che non se la sentiva di rovinare la vita, la felicità di sua figlia.

Cosa fatta capo ha, rispose. I tempi cambiano, e non bisogna essere

45 S. Strati, Il diavolaro, cit., pp. 175-179.

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selvaggi, concluse. don Bastiano s’incavolò brutto e disse a don Santo che non era omo. don Santo gli ribatté che sarebbe stato il tempo a dire chi dei due era omo o mezzomo, e gli ricordò le sue grandi amicizie po-litiche su cui poteva contare. don Bastiano lasciò trascorrere parecchio tempo, senza mai più fare verbo su quello smacco. Ma, da pari suo, ci pensava alla vendetta. Fra l’altro l’attività di Tonino gli metteva i pa-stori contro, perciò Tonino gli stava sempre più allo stomaco. decise di riunire i capibacchetta che, chi più chi meno, erano infastiditi da questo sobillatore fetoso che abbaiava come un cane bastardo. don Bastiano disse che questa merda di rosso dava troppo fastidio ancora. Visto che certi cristiani non avevano avuto il fegato, non avevano sentito il dovere di liberarsene, come si conveniva dopo tanta offesa, e siccome anche lui si sentiva offeso, chiedeva che venisse fatto bianco. don Santo, che era presente, gli ribatté pronto e si oppose. Si tratta di me e dell’avvenire di mia figlia, disse.

Non siamo nei secoli passati. Il mondo s’è aperto. Il timore che sua figlia avesse uno spavento forte che poteva anche rovinarla per sem-pre lo sgomentava. don Bastiano fu duro. Siamo òmini o siamo pupi? strillò. Stavano venendo alle mani, don Santo e don Bastiano che era un poco suggestionato dal potere politico su cui don Santo poteva fare leva. Ma s’indispettì e disse che metteva la cosa ai voti per alzata di mano. I capifibbia a suo favore furono due più della metà.

don Santo tornò sconvolto a casa nella notte profonda. Fu sul punto di denunciare la cosa alla legge. Ma ci meditò e capì che non poteva far-lo: avrebbe segnato la sua fine in modo irreparabile. Si sentì riesplodere dentro l’animo la vecchia antipatia verso il negro che era nato per la sua malanova, che s’era messo fra i suoi piedi per avvelenargli l’esistenza. Si fece la speranza che Eleonora si sarebbe potuta riprendere presto tra-mite l’amore per il bambino che aveva già tre anni. Non osava guardare la figlia in quei giorni indimenticabili e lunghi come anni. Si aspettava di minuto in minuto la notizia dell’uccisione. Era una pila elettrica che non gli si poteva rivolgere la parola; era sempre in giro per gli uffici o per i cantieri sparsi in tutta la provinca. Aveva chiesto che il delitto av-venisse fuori dal suo territorio. Aveva chiesto che fosse preparato come un delitto poli tico puro e semplice… Quando la notizia arrivò come un tuono fragoroso che fa vibrare i mu ri delle case, egli stava pagando un

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gruppo di operai e aveva il nipotino sulle ginoc chia mentre si trovava seduto alla scrivania là nello studio. un grido straziante gli perciò il cer-vello e gli fece rizzare i capelli… Corse di là e trovò Eleonora riversa sui pavimento come morta; trovò sua moglie con le mani fra i capelli e la bocca spalancata in un grido che non le usciva dal petto; e tanta gente c’era là nella stanza, in cucina, nel corridoio, che a un tempo strillava chiedeva raccontava. Qualcuno prese Santino in braccio e se lo portò via lontano, per non far assistere l’innocente a quello sconquasso. Eleo-nora non si riprendeva e un sudore freddo cominciò a inondare tutto il corpo di don Santo che ancora stringeva in mano un mazzetto di carte da mille. Il trambusto era grande e cresceva in continuazione dato che il popolo a lava s’era riversato al palazzo; e don Santo aveva la strana sensazione di assistere a una scena drammatica che non lo riguardava e tutto davanti ai suoi occhi si muoveva come dietro a un velo. Stava sognando. lo scosse la voce della moglie che diceva: fate aria; se no mia figlia muore! Con le braccia don Santo allontanò quel gruppo di persone che s’erano ammucchiate intorno a Eleonora sua che mandava schiuma dalla bocca e faceva vedere in modo impressionante il bianco degli occhi. dentro di sé pensò alla vendetta più crudele e sottile contro coloro che gli ammaz zavano a quel modo anche la figlia. Ebbe però la prontezza di gridare: correte a chiamare il medico.

Eleonora restò fra la vita e la morte per parecchie settimane. Sma-niava, aveva visioni, tanto che si temeva per la sua ragione. Poi per mesi rimase come senza volontà. diceva sempre: sì, papà; sì, mamma; per ogni cosa, come chi non ha più interesse a nulla, come chi preferisce morire piuttosto che vivere. A tratti però sembrava destarsi di colpo e prendeva in grembo Santino e se lo stringeva appassionatamente fra le braccia e scoppiava in lacrime. la madre la rimproverava amorevolmen-te: non affliggere il figliolo a questo modo! E a Santino faceva lei tutte le carezze più care; e quando Santino le domandava: nonna, perché la mamma piange?, la nonna gli rispondeva con dolcezza, ma con gli occhi umidi di lacrime: perché sta male, bello mio. Perché è un poco malata, la mamma. E il bambino: e papà mio dov’è andato? lontano lontano, gli rispondeva la nonna. E quando torna? Andremo noi, poi a raggiungerlo, e la poveretta doveva fare uno sforzo per non scoppiare in singhiozzi davanti a quell’anima candida di dio; e fra sé era certa e convinta che

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la gelosia e la maledizione degl’invidiosi erano cadute sulla sua casa; era certa e convinta che la sua casa ora cominciava ad andare a rotoli, se non si stava attenti; era certa e convinta lei in persona che non aveva mai fatto male neanche a una mosca, che aveva evitato di schiacciare anche una sola formica, che nella gente c’era nei riguardi della sua famiglia un’avversione che prima non c’era, quando viveva Tonino, a cui aveva voluto molto bene, a cui avrebbe dato la sua vita per salvarlo.

Bello, onesto, generoso era stato. uomo grande che i lupi feroci ave-vano assassinato, che i maiali di questo mondo avevano eliminato per stare liberi e soli col gruppo nel truogolo. Quando viveva Tonino anche i muri della sua casa erano rispettati, perché Tonino era come un dio per i giornatai, per le raccoglitrici di olive e di gelsomino. Bastava pensare a quello che successe per la sua morte. Migliaia e migliaia di anime di tutto il circondano e anche dei capoluogo s’erano riversate nel paese e fecero la veglia in piazza dove sistemarono a cielo aperto la bara e grup-pi di donne cantarono i lamenti del figlio del popolo sbranato dai lupi mai sazi di sangue; e c’erano di quelli che stavano per distrug gere le case dei ricchi di tutti i paesi; c’erano di quelli che stavano per mettere fuoco alle caserme e ai municipi. dovettero chiamare d’urgenza rinforzi, per frenare in qualche mo do l’ira della gente, e sua figlia era come morta an-che lei stesa nel letto in un delirio che non aveva fine. Dovettero arrivare volando onorevoli comunisti e socialisti per calmare gli animi. Ci furono bandiere, ci furono fiori e tutte le anime, anche quelle che votavano per i preti, erano presenti e piangevano con rabbia e dolore; e suo marito stava per ammalarsi anche lui, che era rimasto solo in tanta tempesta.

S’era sbiancato in viso, s’era dimagrito, s’era invecchiato ancora di più.

Lavorava con disperazione e guardava quella figlia che stava a occhi spalancati, assente. Poi, un poco al giorno, durante lunghi mesi, Eleo-nora si riprese, con la volontà di dio che la aiutò a salvarsi. Si riprese e cominciò ad avere cura del bambino che nessuno, anche di notte, le poteva staccare dalle braccia; e così piano piano cominciò a tornare la vita del passato in famiglia. lavoro, e la gente che andava e veniva dal palazzo; ma non più nel gran numero di prima, giacché molti comin-ciarono a preparare sacchi e scatole e parti vano per il mondo intiero. Era come se non potessero più vivere nella loro terra, ora che era morto

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il loro difensore, quello che di giorno in giorno, per la prima volta, gli indicava la strada da battere, la maniera di difendersi dagli sciacalli che gioivano di averli sotto come servi nudi e crudi; e così di anno in anno, da quel momento, i paesi si spopolarono e la terra s’impoverì, e conti-nua a impoverirsi ancora oggi.Aiuto alla lettura

Saverio Strati è lo scrittore che, più di ogni altro, si è occupato di ’ndrangheta nella sua vasta produzione letteraria. Nel primo roman-zo, La marchesina (1956), la ’ndrangheta più che un’associazione a delinquere è un modo di essere, una ristretta concezione della vita. domenica, la protagonista, rimasta vedova giovanis sima, si conso-la con un adole scente. Quando il cognato mafioso scopre la tresca, il giovane viene allontanato, ma non ucciso, perchè la ’ndrangheta non ammazza i minorenni. una conclusione troppo bella per essere vera. la cronaca ha purtroppo dimostrato il contrario.

In La teda (1957), la ’ndrangheta non detta regole, non ha rap-porti con il potere padronale e politico, ma distingue gli uomini dagli infami. Strati comincia a mettere in discussione il presunto buonismo degli ’ndranghetisti. A Terrarossa, la ’ndrangheta ri-spetta solo le proprie donne e quelle degli amici. Cicca disonorata da un “picciotto” si uccide. Tutti sanno chi l’ha stuprata, ma nes-suno parla. l’omertà cuce la bocca in questa città dove la gente fa luce con la scheggia di pino.

In Mani vuote (1960), la ’ndrangheta conquista il profilo crimi-noso dell’associazione a delinquere in una Calabria che, dopo il ventennio fascista, torna ad emigrare. È una malavita che sac-cheggia e deruba pastori e contadini e che calpesta le regole del-l’onore con tradimenti e delazioni. rispuntano gli americani che hanno qualcosa in più: cammi nano in piazza col brigadiere, da signoroni, mentre muovono la matassa di tutta la malavita.

le degenerazioni dell’onorata società vengono riprese ne Il

46 S. Strati, Il selvaggio di Santa Venere, Milano, Mondadori, 1987 (I ed. 1977), pp. 9-10.

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selvaggio di Santa Venere, il romanzo nel quale lo scrittore di Sant’Agata del Bianco ripropone il tema della mala vita come ri-sposta all’immobilismo sociale. È anche il romanzo nel quale, per la prima volta, com pare la parola ’ndrangheta. Il protagonista è leo, un giovane insoddisfatto della propria vita. Scrive Strati46: “Era isolato, non vedeva nessuno, non aveva dove andare, non esisteva una sezione di partito, o un cinema, o un bar. Tutt’al più si stava in piazza, e i vaccari si aggruppavano fra di loro; e i figli degli artigiani s’aggruppavano anch’essi fra di loro. divisi dun-que si era anche fra poveri. Perciò, per non rimanere tagliato fuo-ri, per non essere sfottuto e ritenuto animale, una povera anima si aggregava alla ’ndrina. Per essere protetto e per sentirsi uomo, dato che gli dicevano: tu sei omo”.

la ’ndrangheta gli offre la possibilità di sottrarsi all’isola-mento sociale e al controllo del padre che vuole fare di lui uno zappatore. l’incontro con Santo gli cambia la vita. leo rimane affascinato dalle gerarchie, dal linguaggio e dalla retorica della

47 Ibidem, p. 21.

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’ndrangheta. A convincerlo è proprio Santo con la sua parlanti-na47. Il testo chiarisce bene che cosa significa «giustizia» nella logica ’ndranghetista.

Scheda dell’Autore

mArIo LA cAvA(Bovalino [Reggio Calabria] 1908-1988)

Mario la Cava, uno dei più importanti scrittori calabresi, indaga il mondo contadino e le “ragioni” che muovono la società paesana.da un lato l’uomo umiliato e dall’altro il “mito” del padrone, lo stato di prepotenza. Nei suoi scritti si afferma la volontà di una ragione, che è quella superiore dello scrittore, di liberare i più deboli concedendogli la parola. la Cava analizza con grande acume i caratteri di un mondo “chiuso alla libertà” e osserva uomini perduti nel fascino di un potere che non permette l’“attua-

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zione” del pensiero. l’ignoranza si tramuta in malattia sociale ed il potere mal gestito governa le logiche di una falsa e dannosa “giustizia”.

opere: Caratteri (1939); Mimì Cafiero (1959 - 2ª ed. 2006); Vita di Stefano (1962); Una storia d’amore (1972); I fatti di Casignana (1974); Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti (1986); Una stagione a Siena (1988).Testo

[Scrive La Cava, raccontando il dialogo di Cafiero con il futuro suoce-ro, il signor Montevergine]48:

Scese dal carrozzino, ed entrò dal portoncino come se si avviasse non a una casa amica, ma alla stazione nella fretta di prendere il treno. I suoi occhi rossi mandavano fiamme di sdegno, e i capelli neri uscenti dal berretto scomposto incorniciavano un volto tetro. le grosse labbra, sigillate, non si aprivano nemmeno a quel sorriso stento che gli era naturale, e tutta la sua figura vestita di scuro sembrava l’immagine del rancore e della vendetta.

Parlò per primo, senza farsi interrogare, e disse: – Ecco come fun-ziona la giustizia in Italia! Ecco a che punto siamo arrivati, che si ar-disce condannare un innocente come Michele Campagna, senza alcuna prova di reato, dico senza alcuna prova, per semplici indizi dati da tra-ditori e vigliacchi…

– Ah! l’hanno condannato? E a quanti anni? – chiese il signor Mon-tevergine, non molto convinto dell’innocenza di quel Michele Campa-gna, conosciuto in città da tutti come il capo della malavita del luogo.

– A ventiquattro anni, signori miei! l’hanno condannato a ventiquattro anni! Ma voi avreste dovuto vedere il contegno di quell’uomo, è sempre un signore… Io mi trovavo in mezzo alla folla al processo, non mi sono potuto avvicinare a salutarlo, mentre era nella gabbia, giacché i carabi-nieri lo impedivano. Ma lui, alto, in mezzo agli altri imputati, rispondeva appena, sdegnosamente, alle domande del giudice, e poi, quando sentì la sentenza di condanna, disse soltanto: – Avete condannato un innocente! –. Non cambiò per questo di colore nel viso e io sono sicuro che se fosse

48 M. la Cava, Mimì Cafiero, Soveria Mannelli, Ilisso rubbettino, 2006, pp. 115-116.

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stato libero avrebbe fatto una poltiglia di quella gente che si compiaceva del suo dolore. Perché lì non tutti erano favorevoli a lui, quelli favorevoli a lui erano stati disperse, io c’ero, sì, ma gli altri erano contrari. Si capisce che dovessero applaudire alla sentenza, poichè ormai di fronte a un uomo legato non c’era da aver paura. Ma ancora non è tutto perduto. Gli avvocati hanno ricorso in Cassazione, e per quanto ci siano poche speranze con un governo simile che non fa giustizia, pure chi sa!… E allora infelici coloro che lo hanno tradito! dove si nasconderanno, dove?…

– Ma io ancora non capisco perché l’hanno condannato… una ra-gione ci dev’essere…

– la causa è stata che avrebbero giustiziato, a quanto un traditore ha rivelato, un miserabile che lo aveva offeso. C’è chi dice che lo abbia ucciso lui, c’è chi dice che sia stato semplicemente mandante. Non è risultato chiaro. E voi, giudici, nel dubbio condannate a così grave pena un uomo che poi, del resto, non era cattivo?

– Chi sa come hanno visto la cosa i giudici…– È che Michele Campagna faceva ombra a parecchi. Egli, come

sapete, era amico intimo di molti onerevoli del passato regime, poi-chè egli era un signore e aveva influenza. Il nuovo governo ha volute sbarazzarsi di lui, per proteggersi da un’eventuale ripresa del vecchio regime… una porcheria, vi assicuro, non c’è più libertà…

– Già, non c’è libertà… – rispose il signor Montevergine, non molto rammaricato della cosa; e continuò: – dicono che fosse capo della ma-lavita, c’è chi lo vantava come fosse un gentiluomo, e chi assicurava, invece, che aveva la sua parte nelle ruberie che accadevano.

– Io, come sapete, ero amico; perciò sono tanto abbattuto… So io il braccio forte che ho perduto! Poichè Michele Campagna era un uomo che sapeva rispettare gli amici. Si intrometteva lui e aveva tali poteri sui delinquenti da saperli sviare come meglio credesse. Certamente non si metteva di impegno a difendere quelli che gli mancavano di rispetto… E poi non credo che egli avesse la parte nelle ruberie degli altri. Gli ba-stavano i regali che riceveva, per vivere bene. Quando poi al delitto che gli hanno attribuito, non so cosa ci sia di vero in tutto questo… Certo che quel delinquente se lo doveva meritare di essere trattato in quel modo…

– Io dico che se Michele Campagna si fosse fatto i fatti suoi, non gli sarebbe capitato quello che gli è capitato…

– Ma come poteva farsi i fatti suoi? ormai si era messo nella po-litica, e non poteva trarsi indietro. Perchè al fondo di questo processo,

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c’è sempre la politica. ora la ruota è girata dall’altra parte, e Michele Campagna è dentro. domani chissà!

– Sì, la politica c’entra, lo credo anch’io… – ammise il signor Mon-tevergine.

Aiuto alla lettura

Mario la Cava nel romanzo dal titolo Mimì Cafiero, pubblica-to nel 1959, comprende benissimo l’humus nel quale attecchisce la ’ndrangheta che si nutre di consensi. Il protagonista ragiona, pensa, agisce da ’ndranghetista, pur non essendo legato a nessuna organizzazione criminale. In particolare, Mimì Cafiero è mafioso nei comportamenti, nel modo di pensare, non solo quando deci-de di vendicarsi dell’amico che gli aveva fatto contrarre la sifili-de, ma anche quando non perde occasione per difendere Michele Campagna, il capo della malavita del luogo.

Il rapporto con la politica è fondamentale per comprendere l’essenza delle mafie. Senza la politica, la ’ndrangheta non sa-rebbe ’ndrangheta. Spiega Francesco Forgione, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia: “Parliamo dell’organizza-zione mafiosa meno studiata, meno conosciuta anche perché più impenetrabile, più ramificata territorialmente in Italia e all’estero. Tutti gli inquirenti e le recenti indagini giudiziarie ci dicono di un’organizzazione che ha conquistato un suo primato nel traffico degli stupefacenti su scala mondiale. E questa forza è accumulata anche in virtù della sua struttura familiare che l’ha protetta dal fe-nomeno dei collaboratori. Ma è un’organizzazione che ha tessuto una ragnatela di rapporti col mondo economico, col mondo poli-tico, con un potere che in Calabria vive anche di relazioni occulte e massoniche in forme pervasive”49.

l’importanza del consenso non era sfuggita neanche a Stendhal, il quale durante un viaggio in Calabria nella prima metà dell’otto-cento così annotava: “Prima o dopo il calabrese si batterà benissi-mo per gli interessi di una società segreta, che gli sta montando la testa da dieci anni a questa parte. Sono già passati diciannove anni

49 Relazione programmatica del presidente della Commissione antimafia On. Fran-cesco Forgione, 6 dicembre 2006.

50 Conferenza di Gianfranco Manfredi al Convegno Nazionale “Sicurezza urbana”, lamezia Terme, 12 gennaio, 2006.

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da quando il cardinal ruffo ebbe un’idea del genere: probabil-mente queste società (definite dall’autore stesso come una sorta di ‘carboneria di campagna’) esistevano magari prima di lui”50.

Scheda dell’Autore

LucA AsPreA(Oppido Mamertina [Reggio Calabria] 1928-Roma 2005)

Luca Asprea è lo pseudonimo di Carmine Ragno. Sacerdote, figura “inquie-tante” della chiesa calabrese per la sua volontà irriducibile di appartenere, contemporaneamente, alla chiesa e al mondo affascinato in particolare dalla figura femminile. Il suo romanzo Il Previtocciolo (pubblicato da Feltrinelli nel 1971 e ripubblicato integralmente, con largo successo di pubblico, da Pellegrini Editore nel 2003) è uno spaccato vero di vita, vissuto dallo scrit-tore in una Calabria dominata dai poteri oscuri, dalla miseria e nella quale il seminario poteva garantire, con molte delle sue contraddizioni di carattere

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“logistico”e, spesso, di carattere falsamente spirituale, un riparo dalla strada. Il romanzo unisce al linguaggio dialettale quello in lingua e ci rivela l’ambiente mafioso crudele, la sua genesi, i suoi sviluppi e i suoi “principi”.

opere: Il Previtocciolo (1971 - 2ª ed. 2003).Testo

Il Previtocciolo51

Quando arrivai ai Previti, sia Peppe Ballotta, sia il ragazzo Ciccàr-ro, mi accolsero festosamente. Ciccàrro mi era affezionato perché spes-so, nell’estate, al meriggio nella fiumara, ci scambiavamo il pane […]. Poco dopo con Ballotta eravamo seduti sotto un gigantesco e pampano-so albero d’ulivo, i cui rami all’intorno quasi lambivano le felci, come un salice piangente. Era primavera: marzo. la natura germogliava. Bal-lotta invece seminava nel mio cuore, nella mia anima, nel mio cervello. dapprima risi vergognoso e timido per il fatto che un malandrino di quel calibro si degnasse d’insegnarmi cose misteriose, segrete, che mi avrebbero elevato alla stessa importanza. Poi ascoltai con disinvoltura. In seguito anche con fascino. Non gli confidai mai, però, che desideravo di entrare in Seminario, o presto o tardi. “Se uno, in qualunque luogo, ti facesse questa domanda (iniziò egli enfatico ed agitando la montagna di capelli ricci, che non riuscivano a diminuirgli il capo taurino):

Giovanotto, voi che siete?lupo, ape, cannuccia di pipao cacajòcciolo di capra?

oppure:Giovanotto, che stanziate?grugno o piede di pero?

tu sapresti rispondergli a dovere?”“No!” risi. “Nessuno me l’ha insegnato mai”.“Bisogna rispondere così: Badate a parlare, perché qua c’è gente

degna e meritevole e con sangue agli occhi! Allora lui ti può toccare i tasti per accertarsi se sai rispondere con le regole sociali, a quale so-

51 l. Asprea, Il Previtocciolo, Cosenza, luigi Pellegrini Editore, 2003, pp. 177-182.

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cietà appartieni; con quale onore appartieni, cioè che posto occupi e che grado, nella Società; insomma, per assicurarsi se veramente sei un uomo degno e meritevole e con sangue agli occhi. Guai, se non sapessi rispondere! Quindi cominciamo ad imparare di che cosa si compone la società, di quanti membri, di quali e quanta dignità.

Il primo gradino della scala è tenuto dal Giovane d’onore.Si elegge con una sola votazione.Per fare questa votazione si riuniscono:Il Capo Giovane della Minore;Il Puntaiolo, cioè il contabile della Minore. Tutti e due devono ap-

partenere al medesimo Circolo Sociale. devono esserci altre reclute at-tive e devono essere cinque.

di fuori Circolo Sociale devono presenziare:Il Camorrista di Testa, il quale è l’emissario della Maggiore, quale

Ispettore per la Minore; e il Picciotto di Giornata, il quale ha il potere di sequestrare le armature ai minori della Società formata. difatti, prima sequestra le armature e dopo formano.

oltre a questi devono presenziare altri Picciotti Attivi. Più ce ne sono e meglio è. Giovane d’onore può essere fatto un bambino di qua-lunque età; anche un bambino in fasce. Quando egli sarà all’uso della ragione, comincerà ad imparare le regole sodali.

Secondo gradino sociale: il Picciotto, detto anche recluta, o mezza gavetta, o mezza pàmpina.

Se il rialzando non è Giovane d’onore, si crea Picciotto con due votazioni; se invece è Giovane d’onore, basta una sola votazione, quella di recluta.

l’elevazione a Picciotto deve avvenire in una aperta campagna. I presenziatori devono essere o cinque o più di cinque. Mai meno di cin-que. Se per un caso di emergenza sono meno di cinque, allora si prende un fazzoletto e si fanno tanti nodi, quanti presenziatori mancano per arrivare a cinque.

Parole per formare un Giovane d’onore e cerimonia.Il Giovane d’onore sta nel mezzo fra il Capo-giovane e il Puntaiolo

(Contabile della Minore).Inizia a parlare il Capo-giovane e dice: Col permesso del Camorri-

sta chiniamo la testa Capo-giovane e Puntaiolo.

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Si dice così perché presenzia anche il Camorrista di Testa, quale emissario e Ispettore della Maggiore.

Prima il Capo-giovane e poi il Puntaiolo dicono:

Passo la mia prima votazionefranca e libera in attività.Se fino ad ora ho, riconosciuto questogiovane come uno qualunque, d’or ain avanti lo riconosco come ‘giovane d’onore’appartenente alla Società.

Seconda votazione:

Passo la mia prima eseconda votazione francae libera e formativa in attività.Se prima riconoscevo tizio come ungiovanotto d’onore, d’ora in avantilo riconosco come un ‘fedele compagno mio’.Dividerò con lui giusto per giusto;soldo per soldo;centesimo per centesimo,fino all’ultimo millesimo.S’egli porterà raggiri, infamità,debolezze e macchie d’onore, andrannoa carico suo e a discarico della Società.

Questa fu la prima lezione ch’ebbi come aspirante a Giovane d’onore.

la sera, alla scuola serale della Maistra, mentre dicevo il rosario assieme a lei, alla signorina Anna e a Ntonarella la sorda, amichetta scorbutica e musona, le regole sociali mi venivano in mente e la lingua cadeva nella tentazione di ripeterle e il saluto del l’Angelo alla Madonna s’intrecciava, mio malgrado, con le regole sociali create da os, Mastròs e Carcagnòs, fondatori della Camorra, venuti dalla Spagna e sbarcati a Palermo.

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la paura del peccato mi tormentava per un lato; l’orgoglio e la co-scienza di essere qualcosa mi gonfiava dall’altro. In certi istanti sentivo una gioia incontenibile, che non riuscivo a nascondere. Se avevo delle compagne vicine le carezzavo, le pizzicavo, le infastidivo. Credevo che tutto mi fosse permesso, ormai. della Maistra non avevo più paura e lei sbalordiva e mi ricordava che se diventavo un cavallo sfrenato, mi bisticciavo con qualcuno, mi macchiavo la condotta e non potevo più entrare in Seminario. I compagni cominciai a considerarli delle schiap-pe, dei cardoni, dei contrasti, dei bastardi, perché non erano avviati ad essere Giovani d’onore e Picciotti.

Se temevo qualcuno, cominciavo a pensare, a ruminare il modo di farlo fuori, senza cadere nelle mani degli zaffi e senza che alcuno se ne accorgesse. Gli uomini adulti non mi facevano più né paura né ombra: ero convinto che tutti mi dovevano rispetto come ad un uomo. da parte mia rispettavo i degni e i meritevoli; e li intuivo infallibilmente quali erano. I contrasti cominciarono a sentire subito il peso della mia ven-detta.

Verso la fine di marzo sapevo già perfettamente quello che Peppe Ballotta mi aveva detto, spiegato e ripetuto nella prima lezione .

Nella seconda lezione imparai le regole e i doveri e i diritti del Pic-ciotto. Il Giovane d’onore non ha né diritti né doveri. È guardato con occhio di ‘passione’. E perché venga eletto non sono necessarie tante ricerche. È ancora un bambino; e basta che appartenga a una famiglia senza macchia nell’onore.

la seconda lezione che imparai: regole, doveri e diritti del Picciotto

Quando la Società vi ha ‘rialzato’di che cosa vi ha dotato?Mi ha dotato di sette cose belle!Quali sono queste sette cose belle?

Esse sono:1) Omertà2) Fedeltà3) Politica4) Falsa-politica

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5) Carta e penna6) Coltello7) Rasoio

1) Che cos’è l’Omertà?L’Omertà è la legge base della Società Onorata. Essa è l’opposto

dell’arroganza e dello spirito di vendetta. Insegna il bel tatto, le belle maniere, l’educazione, la gentilezza, la bontà, la persuasione con le buone e col ragionamento. Insegna a marciare con spirito di ‘passio-ne’, cioè di benevola comprensione e mai con spirito di vendetta.

Quando l’Omertà diventa falsa-omertà?L’omertà può diventare falsa-omertà, cioè finta bontà, accondi-

scendenza, gentilezza, trappola insospettata di morte ai riottosi pre-potenti incorreggibili che portano l’individuo con le spalle al muro; e agli infami e agli indegni, che sotto il nome della Società commettono infamie, male azioni e criminalità. Per legge l’Omertà – in questi casi – il reo è sopportato in apparenza; e poi eliminato nel più assoluto silenzio. Esiste da quando l’uomo – sulla terra – cominciò a vivere in piccoli gruppi. Fu praticata da sempre e viene praticata tuttora da ogni governo e da ogni religione. Essa fu sempre e lo è tuttora il fondamento e il corpo d’ogni governo e d’ogni religione, e la camorra, palese, cioè legalizzata, o coperta, il sangue di tale corpo.

2) Che cos’è la Fedeltà?La fedeltà è l’attaccamento sincero alla Società, ai Mastri, ai fedeli

compagni e alla pratica perfetta delle regole sociali.

3) Che cos’è la Politica?È la bell’arte che c’insegna a vivere in gentile, amorosa e sincera

armonia con tutti i degni e meritevoli, e specialmente coi Mastri e coi fedeli compagni.

4) Che cos’è la falsa-politica?È l’arte che insegna come trattare con gli indegni prepotenti, con

l’infami e coi sbirri.

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5) La carta e la penna a che servono?Per fare conti e sottoconti alla Società: centesimo per centesimo,

sino all’ultimo millesimo.E la Società ha bisogno del centesimo?Scusate, col vostro permesso, la Società con una mano butta la car-

ta da mille; con l’altra si chiama il centesimo.

6) Il coltello a che cosa serve?Il coltello serve per difendere il mio Mastro, in caso di una ‘questio-

ne’, cioè rissa: scavallo me e incavallo lui.E voi come fate, senza armatura?Mi metto dietro le sue spalle e formo uno ‘specchio’.E se voi siete ‘scavallato’ come è ‘scavallato’ il vostro Mastro?Lo difendo con qualsiasi armatura possa recapitare.

7) Il rasoio a che serve?Per sfregiare la faccia agli infami: entra dolce ed esce amaro.Cos’è il Picciotto di Giornata?Il Picciotto di Giornata è una Sentinella d’omertà, che passeggia

per le strade e ogni 24 ore porta novità. Con un piede alla tomba e uno alla catena; col pugnale alle mani, difende un Corpo di Società.

dopo la seconda lezione per l’iniziazione alla Società onorata, di-ventai più saggio, più calmo; capii che non dovevo essere insultatore, riottoso, prepotente. Questo me l’insegnava la definizione dell’Omertà. Però, se fossi stato insultato da altri, non avrei dovuto mostrarmi debo-le. “Scagliati”, m’insegnava Peppe Ballotta, “e rompigli i pruna! E se qualcuno ti sfida”, insisteva, “non ti rifaldare; ma parola detta e colpo menato!” mi raccomandava enfatico, con occhi da mastino minacciato. “Ha la meglio”, affermava, “chi colpisce per primo. Meglio in galera”, concludeva convintissimo e sicuro, “che ai cipressi! Perché dalla galera c’è speranza d’uscire; ma dalla fossa no”.

Quel modo di parlare mi elettrizzava, mi riempiva d’una gioia in-contenibile e pericolosa. Egli era meravigliato ed entusiasta per i pro-gressi giornalieri che facevo nell’apprendere le regole sociali. “Per la mezza madonna!” esclamava, “io ho dovuto fare un anno di carcere

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per imparare queste regole e tu in pochi giorni ne sai già quanto me. Ce n’è gnogna qui dentro!” mi diceva soddisfatto, mentre mi dava i nocchini lievi lievi sulla fronte, con l’indice e col medio ricurvi della terribile mano, che aveva il sapore di legno, di bastone nocchieruto e stagionato. le sue dita enormi, infatti, mi richiamavano i bastoni che i macellai portavano al braccio, quando andavano a fare abigeato nel versante ionico, o a comprare, a prezzo vile, bestie d’abigeato. Egli era orgoglioso di me; io ero orgoglioso di lui. “Qualche giorno mi ringra-zierà tuo padre”, mi diceva più che convinto. “lui è un grand’uomo di vita (cioè un navigato nella Società Onorata). Lo fu in America, dov’era Capo-Società a Goodland; lo fu sotto le Armi e lo è anche adesso. Ma tu ancora non devi dirgli niente; se lo sa mammazza!”.

In vero, nessuno sapeva niente delle mie cose; o meglio, ciascuno conosceva i rapporti che aveva con me ma nessuno sapeva i rapporti

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che avevo con gli altri. I miei genitori sapevano che io andavo a scuola comunale la mattina; e la sera a ripetizione dalla Maistra […].

Aiuto alla lettura

la ’ndrangheta di don luca Asprea, pseudonimo di Carmine Ragno (1928-2005), è quella della memoria, della fanciullez-za. “Avevo nove anni, quando mio padre rientrò dall’America”, racconterà in un’intervista molti anni dopo la pubblicazione del suo ro manzo Il Previtocciolo (1971). “Contrariamente a tanti al-tri paesani, i suoi bauli a Messina non vennero neanche toccati. C’era di tutto: una pistola, un fucile a doppia can na, generi ali-mentari, vestiario. Ho un bel ricordo di mio padre. Era un uomo straor dinario, tenuto in gran conto in seno alla ’ndrangheta”. luca non segue le orme paterne. A quattro anni, mentre con il fratello e con lo zio lalo assiste ad una processione davanti al duomo di oppido Mamertina, esprime il desiderio di diventare prete. “Mi rimase impressa quella lunga parata con il vescovo benedicente, preceduto da decine di seminaristi e previtoccioli”. Nonostante questa precoce vocazione, fa in tempo ad ap prendere le regole dell’onorata società. “Quando la sera ci riunivamo, spesso con-fondevo i misteri del rosario con quelle della ’ndrangheta”.

Ancora oggi, i codici rivestono un’enorme importanza in seno alla ’ndrangheta. recenti indagini condotte attraverso l’uso di in-tercettazioni ambientali hanno accertato l’attualità e la validità di questi rituali che dal 189652 ad oggi hanno subito po che modifi-

52 Nel 1896 venne sequestrato a Seminara il primo codice della picciotteria.

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che. Codici riconducibili alla ’ndrangheta sono stati sequestrati anche in Canada e in Australia.

Scheda dell’Autore

DomeNIco cuPPArI(Laureana di Borrello [Reggio Calabria] 1932).

di famiglia assai povera, rimane orfano del padre all’età di otto anni. Suc-cessivamente viene mandato dalla madre a prestare servizio nelle terre di ricchi possidenti. All’età di diciotto anni, è accusato di furto e anche di aver ferito un giovane. Innocente, è, tuttavia, condannato come malato di mente e sconta ventidue anni di carcere nei manicomi criminali di Pozzuoli e Barcellona. la sua scrittura si concentra nella narrazione della propria drammatica esistenza (manicomio, repressione, indifferenza dei medici e delle strutture carcerarie).

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Ne Il retroscena vengono messi a fuoco i processi sociali ed il rapporto con una giustizia che è schiava di un potere che affoga la libertà entro un conformismo disumano.

opere: Il retroscena (1975); Killerismo antico e moderno (1997).Testo

tre spari nella notte53

Arcangelo Alessandri, dopo alcuni giorni dalla sua escarcerazione, andò a trovare il giovane Paolino, con una entusiastica manifestazione filiale! E nella loro conversazione, do mandò come si trovava nella sua nuova sistemazione. Il giovanotto, nella sua in genuità, quasi si com-mosse di tanta manifestazione di stima! E rispose che non poteva tro-varsi meglio di così.

la sera, la ragazza si mostrò piuttosto nervosa, però, cercò di non farlo accorgere al giovane! E lui, drogato dal suo travolgente corpo, non chiese il motivo…

Forse, perché lei, conosceva bene l’Alessandri e sapeva che la sua generosità, aveva un prezzo altissimo…

Ma lei, nulla poteva, perché era un oggetto suo e doveva solo ub-bidire!…

un pomeriggio, Arcangelo Alessandri, comparì in compagnia della giovane donna sulla 500, e scendendo senza neanche guardarla, a denti stretti, bianscicò: – Puoi andare!… – lei, vedendo a Paolino in mezzo alla porta, fece un lieve cenno col capo e ripartì.

Egli, senza muovere neppure un muscolo dalla faccia, come vide la donna allontanarsi, gli andò incontro all’Alessandri e gli strinse la mano calorosamente.

E nello stesso tempo, esclamò:– oh, caro compare Arcangelo!Questi, lo covò alcuni istanti compiaciuto, perché da intenditore di

53 d. Cuppari, tre spari nella notte, da tre spari nella notte, in «Calabria oggi», 1 dicembre 1977. Questo brano è stato pubblicato per la prima volta nel libro di Pasquino Crupi, op. cit., pp. 139-151.

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elementi, si rese conto che oramai poteva disporre per qualsiasi cosa di lui!

E con pacate ed esitanti parole, rise:– Comparuccio, sono venuto, perché desidero che facciamo, un gi-

retto insieme…– Compare, io sono ben lieto di assecondare il mio benefattore!!!– Non esagerate troppo, perché, è niente quello che ho potuto fareper te, in confronto a ciò che meriti…– Perciò, chiudi che partiamo!– Va bene, compare, entro un solo momento per prendere qualco-

sa….E nel finire questo “qualcosa”, rientrò in casa e pochi istanti dopo,

si vedeva che si infilava alla cintola dei pantaloni, una grossa pistola automatica.

l’Alessandri, lo osservò da mezzo la porta furtivo e soddisfatto.Il giovane Paolino, con il volto pieno di contento, uscì e facendo

scattare la porta, fece:– Ecco, compare, ora possiamo andare!l’Alessandri, annuendo col capo, aprì lo sportello sinistro della Si-

mca, posta a pochissima distanza dalla porta e, si accomodò. Subito imitato dal giovane che si mise al volante.

Però, prima di partire, si misero ciascuno un paio di lenti scuri, il primo traendole di una tasca della giacca ed il secondo dal cruscotto della macchina.

dopo un minuto o due, Paolino partì lentamente e l’Alessandri, si mise ad agitarsi!

Come un tizio che aveva un qualcosa in corpo…Il giovane, gli diede un’occhiata furtiva e fece: – Compare, c’è

qualcosa che non va?!…– No, comparùccio, va tutto bene…– Solo ci sono un poco di malandrini che cercano di darmi qualche

fastidio!“Paolino, ricordando il giro notturno fatto con Peppe Mantelli, pen-

so, subito agli individui nominati”.E sentendo il dovere di fare qualcosa per il suo protettore, con muso

duro, bianscicò:

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– Chi sono, costoro?!– Comparuccio, non te lo dico!…– Perché, non desidero il loro male…– Compare, nessuno vuole il male di un altro, a condizione che non

cerca di crearne ad altri!– Bravo, comparuccio, hai una perfetta logica, nel rispondere… –

Ma siccome, ti stimo molto, voglio confidarmi con te ! – Sono elementi che ho anche beneficato, comparuccio mio…

– Ed ora, cercano di menare calci, vero?!– Purtroppo, è vero…– Sin oggi, non pensò nessuno a costoro?!…– Non è che, non pensò nessuno, sono stato io!– diciamo che, non lo permisi… – Non trovaste gli amici, giusti! – Perché, se li avevate trovato, il permesso se lo prendevano da

soli…– Forse, hai ragione, mio caro Paolino!– Ma posso anche dirti che, qualcuno, lo avevo trovato…– Però, non sono un essere malvagio di approfittarne..– Non si tratta di approfittare, però, quando è necessario! – Con questo, vi prego di dirmi chi sono, questa specie di malan-

drini!– Così, vediamo quello che si può fare…– Bé, comparuccio, non dovrei dirtelo, però, visto che insisti, sono: – Ciccio Staltaro, Antonio del duca, “Masi u Carabiniere”, o

meglio Tommaso Palermi, Andrea e lucio Ippolito e i cugini Sandro d’’Amico e Vittorio Castelli.

– Bene, vedo che sono gli stessi che mi aveva parlato compare Peppe! – Quando?!– una notte che abbiamo girato un poco! – Non doveva farlo, perché non voglio che gli amici, si agitano il

sangue, per certi miserabili…– Compare, i veri amici, non debbono solo agitarsi il sangue, ma

fare con intelligenza, quello che non potete fare voi!– Sarebbe così, ma io, non voglio… – Compare, o volete o no, io sento che debbo fare qualcosa contro

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questi indegni!…– Tanto, i più li conosco e, quelli che non conosco, me li farò indi-

care di compare Peppe…– Comparuccio mio, non parlare così, altimenti, farai diminuire la

mia stima!…– Compare Alessandri, voi parlate così, perché siete molto buo-

no…– Io, farò in modo che nessuno saprà niente!– Perché, saprò anche come camuffarmi…– Solo, voglio che nessuno sappia!– A tutto il resto, lasciate fare a vostro compare…Appena il giovane Paolino, finì “lasciate fare a vostro compare”,

l’Alessandri con una gioia interna, lo sogguardò per alcuni istanti, con una strana luce negli occhi, poi con voce un poco incrinata dall’emo-zione, respirò:

– Comparuccio mio, io non desidero che fai tanto, per me…Paolino, come un esaltato, rise:– Compare, questo, è soltanto un mio dovere!– dovere, che ogni vero amico, dovrebbe fare…– Comparuccio, vedi che io, non voglio sapere niente!

“Il non voglio sapere niente di Arcangelo Alessandri”, significava:– Però, Paolino puoi passare all’azione… – Sicché, dopo di queste

parole, fra i due, si fece un lungo silenzio.Finalmente dopo una diecina di minuti, giunsero in un incrocio e

l’uomo rivolto al giovane, fece: – Comparuccio, qui si chiama Tre don-ne, ed abbiamo il nostro Ciccio Staltaro!

– Sinceramente, un pezzo di bastardo…– E cornuto!rise Paolino a mò di risposta.l’Alessandri, confermò con un vigoroso tentennamento del capo.dopo altri sei o sette minuti, giunsero in vista di un villaggio.E l’uomo, accendendosi una sigaretta, bofonchiò: – Questo è Vil-

laggio Terranova, ove abita il nostro duca…– un bel tartaro!ruggì il giovane, tra i denti.

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L’Alessandri, con un occhio fisso sul suo giovane amico e con l’al-tro, su una casa a due piani pittata di rosso, mormorò:

– Sì, proprio, un tartaro…– Ed abita, in quella casa!Paolino, addocchiandola furtivo, fece un lieve cenno con il capo.dopo i due uomini, continuarono silenziosi, perché la loro conver-

sazione sembrava priva di mordente!Forse, perché pensavano la stessa cosa… Così, per un quarto d’ora

o meno, nella macchina a volte si udivano soltanto i loro respiri, poi si infilarono fra un folto oscuramento di olivare, in una strada di terra bat-tuta. E passando vicino ad un tre o quattro casette in parte con le mura sul margine della strada, l’uomo a bassissima voce, biancicò:

– Queste abitazioni, sono di due buoni amici…– Come Tommaso Palermi, Ciccio Staltaro ed il del duca?!Ghignò il giovane, con sarcasmo.l’Alessandri, sempre bonario, rise:– Anche un pochino peggio!…– oh, allora, sono meritevoli di una ottima festa…– Non dico di no!– Però, bisogna saperla organizzare, perché sono molto velenosi…– Bé, si organizza a dovere, e poi si trattano con le maschere anti-

veleni!…l’Alessandri, sorrise come uno strano fantasma, nella oscurità del-

la macchina e, dopo alcuni secondi, mormorò: – Comparuccio, qui si chiama “Malafemmina”!

– Va bene, compare, se non lo ricordo, cercherò di non dimenticar-lo…

Finalmente dopo una ventina di minuti, giunsero nelle vicinanze dell’abitazione dei due cugini.

E Paolino, ricordando le raffiche di pistola e le rintronanti fucilate, fra i denti, ringhiò:

– Sdisonorati, saprò ben io, preparare la vostra festa!…l’Alessandri, lo sbirciò di sottocchio e rise:– Chi c’è, comparuccio?!– Niente, compare!…– Solo ci sono altri due miserabili che sparano a vista…

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– Ah, già, io non lo ricordavo!– Però, lo ricordo bene io…– Ma posso dirvi che non per molto!!!dopo questa passeggiata in macchina Arcangelo Alessandri, scom-

parì dalla circolazione! Ed il giovane Paolino rimase, in balia della bella Maria e, dei suoi cattivi pensieri…

Peppe Mantelli, si faceva vedere raramente, perché non era il caso di coltivare ancora un elemento già maturo!

Seppure, il giovane Paolino, talvolta sentiva una interna sensazione di proporre alla donna di scappare!

Però, la respingeva con rabbia nel lato più recondito del suo essere, perché gli sembrava un atto di viltà, dopo tanto bene da parte dell’Ales-sandri.

E ruggiva a for di labbro un qualcosa di inconcepibile e si limitava ad amarla, con più intensità.

lei, non si ribellava mai, perché doveva recitare la sua parte sino all’ultimo.

Così trascorsero, un venti o venticinque giorni dalla comparsa di Arcangelo Alessandri, sotto una indefinibile tensione nervosa, alleviata dall’amore della bella Maria.

E dopo, un pomeriggio, discese nel nascondiglio e si camuffò con una parrucca bionda, poi pigliò un corto mitra dalla rastrelliera e tre caricatori della cassetta e ne inserì uno. una volta camuffato ed armato, risalì nella camera e si infilò una specie di tuta verde. Ed intascando an-che una calibro 9, prima si affacciò furtivo dalla porta e, non scorgendo nessuno, uscì e fece scattare la stess dietro di sé. Appena fuori, respirò profondamente e salì sulla Simca e si allontanò dalla abitazione a passo d’uomo.

la sera, all’imbrunire, in contrada Briganti, vennero falciati a raf-fiche di mitra davanti la loro casa, i cugini Sandro D’Amico e Vittorio Castelli, insieme ad un cane che si era avventato sull’assassino.

“Assassino, rimasto ignoto!”

dopo una quindicina di giorni dalla esecuzione dei due “cugini”, con la stessa tecnica, in pieno giorno, in contrada “Malafemmina”, ven-

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nero uccisi i fratelli Ippolito. Nulla si seppe delle mani esecutori!Al giovane Paolino, nessuno faceva domande… Solo che la bella

Maria, era divenuta un poco fredda nei loro incontri.Ma lui, preso dal pensiero di uccidere, non faceva caso!…Così, con impressionante gradualità, uno dopo l’altro, entro un in-

tervallo di tre mesi, quali a raffiche di mitra e quali a pistolettate, ven-nero uccisi prima, i cugini d’Amico e Castelli, poi, i fratelli Ippolito, Tommaso Palermi, Antonio del duca e Ciccio Staltaro.

Quest’ultimo, insieme un suo cane lupo ed una capra!Questo, perché il giovane Paolino, a forza di uccidere, evidente-

mente, veniva contagiato dall’odore della morte…E provava molto gusto, nelle varie esecuzioni!Poche, erano le testimonianze dalle sue imprese, perché venivano

eseguite con molta intelligenza. E di conseguenza, le forze poliziesche, brancolavano nel buio.

E la giovane donna, non sempre era regolare agli appuntamenti!Perché, qualche sera, addirittura non compariva nessuno, e lui do-

veva arrangiarsi con dei resti del giorno, o dalla sera precedente.E giorno dopo giorno, sembrava crearsi anche una strana atmosfera

ostile attorno a lui!Atmosfera che poteva di un momento all’altro travolgerlo…Finalmente, dopo un tredici o quattordici giorni dall’ultima esecu-

zione, la ragazza si mostrò particolarmente affettuosa con lui, e dopo avere fatto all’amore, scherzosa disse:

– usciamo, perché voglio pigliare una boccata d’aria fresca!Egli, senza fare alcuna obiezione, la seguì fuori. Appena fuori, la

campagna sembrava quasi agghindata a festa, perché, c’era luna piena e si stagliava col suo splendido giallore lassù nel centro del cielo. lei, si diresse in un giardino rettangolare chiuso con delle canne, lontano dall’abitazione, una diecina di metri o meno.

Giardino, tutto rigogliante di peschi, fichi, peri ed altri alberi fruttiferi.dopo un paio di minuti, entrarono da un cancelletto di legno, e lui,

“per dire qualcosa”, mormorò:– C’era un così magnifico giardino e, neanche avevo fatto caso!la donna, si poggiò ad un piccolo pesco e lo sbirciò furtiva e, rima-

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se silenziosa.Però, vedendo che si era fermato ad un passo o due da lei, come tra

sè, sussurrò:– Sì, è proprio magnifico…– Ma nella sua magnificenza, ha il sapore della morte!!!…Paolino, alla parola “morte”, la fissò alcuni istanti semi sconcertato,

poi con uno strano brontolio, fece: – Perché, dici questo?!… A me, non sembra!…

– dico questo, perché so, quello che dico…– E seppure, non ti sembra, ha proprio il sapore della morte!– Ma spiegati…– Sì, con te, sento che posso parlare!– Vedi quel pesco, che è così rigoglioso e carico di frutta quasi vel-

lutata?!…– Sì, ma qua dentro, tutti gli alberi, hanno una particolare rigoglio-

sità…una rigogliosità che possa raccontare tante cose!– Insomma, tutti gli alberi di questo giardino, possono raccontare

una storia…– Perché, sotto quel pesco, venne atterrato Antonino del Nero!…– un giovanotto, poco più che ventitreenne di Sinopoli. – Cosa aveva fatto?!– Nulla!…– Solo quello che facesti, tu…– Io, non feci nulla!!!…– Tutti, dicono, così…– Ma io, so tutto!…– Come non so, niente…– Però, entrambi hanno lo stesso valore!…– Aveva tolto dalla circolazione alcuni nemici di Arcangelo Ales-

sandri.– Perché, costui, ne ha molti…– E considerato che per lui, gli uomini sono dei sassi, e bisogna che

si scanzano dalla sua strada!…– Per farli scanzare, adopera gentilezze, soldi ed elementi come te,

e a sua volta, questi ultimi vengono messi in condizione di non nuoce-

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re…E per questa ragione, questo bel giardino, sa tutto di morte!– Perché, oltre del del Nero, ce ne sono altri nove che mi constata-

no a me…– Laggiù, sotto quella bella ficara, dorme Giovanni Bagnolesi di Co-

soleto, sotto quella perara carica, Enzo Calì da delianuova, sotto quel-l’albicocco, rocco de Pasquale da Melito P. Salvo, in quel nespolaro, Silvano Conte da Filadelfia, in quella limonara, Giuseppe D’Elia di S. Giorgio Morgeto, in quella altra ficara, Ciccio Della Porta da Messina, sotto quella ceresara, ce ne sono addirittura due, leo Baldi ed Emanuele di Vincenzo, il primo da Bova Superiore ed il secondo da Brancaleone. Infine, sotto quella aranciara calabrese, Piero Pergola da Crotone.

Tutti questi giovanotti, erano dai vent’anni ai trent’anni.E che, avevano recitato la loro parte, con l’eliminare molti elementi

che davano fastidio ad Alessandri.Tutti, avevano creduto alla magnanimità da questo uomo che ha le

braccia tentecolanti, come una piovra!Tutti, da disperati, pensavano di farsi una posizione, con la sua be-

nevolenza…E finirono, coll’infumerare questo bel giardino. – Anche tu, avevi creduto come loro!– Però, se non sparisci, sarai sotterrato in quell’angolo, ove vicino

c’è quel melo.– Perché, per Arcangelo Alessandri, non c’è nulla, se non la sua

legge! – legge, misteriosamente protetta da quella “legale”.– lui, non conosce umanità!– Non conosce limite!…– Insomma, è un essere insaziabile in tutto…– Perciò, se vuoi salvarti, vai via!…– Perché, non voglio vederti sotterrare, come gli altri…A questo punto, la donna fece una pausa, e Paolino che la fissava

come uno spiritato, respirò profondamente e balbettò:– Sì, ora capisco, i segni che vidi appena sono arrivato qua!– E che, mi dicevano di andarmene subito…– Non ho obbedito ai mio subconscio ed ora, forse dovrò paga-

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re!…– Sono stato usato, come un oggetto…– Ed ora, non servo più!…la giovane donna, con voce dura che somigliava anche ad uno stra-

no ruggito, fece:– Sì, il termine è esatto!– ora, non servi più…– E vai via, perché non c’è tempo da perdere!Paolino con uno sguardo di fantasma, sotto il chiarore lunare, con

forza bianscicò:– Ma io, potrei discutere con lui…– lui, non accetta discussione!– lui, non si farà più vedere, e se non sparisci, manderà il suo boia

particolare, lo zio Stefano…– Perché, si sente grande, e dopo tolti gli elementi nocivi al suo

comando, desidera stare tranquillo!…– E tu, oramai, per lui, non sei altro che un elemento nocivo…– E non c’è altra soluzione, se non quella di sparire!– Se puoi salvarti, io non posso fare di più per te…– Vedi che è la prima volta, che cerco di salvare qualcuno!– Sino oggi, non lo feci con nessuno.– E non so, perché lo faccia, per te…Appena la ragazza, finì di pronunziare queste parole, si allontanò

brusca da Paolino, forse perché aveva la sensazione di sentire l’odore della morte!

E pochi secondi dopo, fece ruggire la sua 500 e sparì nel mistero della notte, illuminata dalla luna.

Il giovane, dopo un determinato tempo che poteva essere di minuti o, di ore, si scosse, perché gli sembrava di essere avvolto da un indefi-nibile abbraccio e rientrò in casa.

dopo alcuni minuti, uscì e si chiuse la porta dietro di sé, e guar-dandosi attorno, si allontanò furtivo a piedi, tra la baluginosità degli alberi.

Nel pomeriggio del giorno seguente, improvvisamente lo vidi spun-tare fra un filare di vigna, sulla Piana dei Bucceri.

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E poco dopo, si sedette accanto a me, innanzi alla casetta e, mi raccontò questa storia. Appena finì, io rimasi alcuni secondi, come pa-ralizzato, poi mi scossi e borbottai:

– Sono cose, orrende!– Ma ora, vediamo se possiamo fare qualcosa…– Tu, cerca di non parlare con nessuno!Egli, assentì col capo ed io, senza perdere del tempo, lo portai nel

fattore del marchese, mio amico e lo feci assumere al posto di prima, in qualità di pastore.

– Pensando che momentaneamente fosse al sicuro…– Però, avevo calcolato con leggerezza la ferocia di Arcangelo Ales-

sandri, perché dopo, una quindicina di giorni, una notte venne prelevato da due individui sconosciuti e portato sulla ferrovia ed ucciso con tre colpi di pistola.

– Al mattino seguente, nessuno seppe dire niente dalla scomparsa di Paolino.

– Perché, gli altri massari, risposero che, verso mezzanotte, aveva-no sentiti soltanto tre spari!

– Sì, e qualcuno di questi, con un certo sadismo, ripetè: – Solo, tre soli spari nella notte!…

– E non si seppe mai, se qualcuno dei massari avesse, collaborato con i due sconosciuti, nel prelevare il mio povero cugino.

A questo punto, l’uomo si alzò e con sorriso amaro, fece: – Micuz-zo, questi si chiamano “uomini onesti”!…

Io non seppi rispondere niente, perché mille sensazioni si agitavano nel mio cervello, quali di rivolta, e di quali, di disprezzo.

Egli all’improvviso, mi tese la mano e biascicò:– Addio, Micuzzo!– Se posso essere utile, sapete dove trovarmi…Io gli strinsi la mano e risposi:– Bene addio…E con questo mio “addio”, l’uomo uscì subito dalla bettola bar e si

confuse fra la folla del mercato.Io, lo seguii alcuni istanti, perché mentre si allontanava, mi sembra-

va un’ombra in disarmonia, con la folla in movimento!Non so perché…E nel cercare di scoprire gli assassini di Paolino, trovò anche lui, la

morte!

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Perché, dopo una ventina di giorni, gli stessi sconosciuti, lo ucci-sero davanti la propria casetta, con tre colpi di fucile automatico, allo stesso posto, ove aveva seduto suo cugino.

Aiuto alla lettura

domenico Cuppari ha il merito di descrivere la ’ndrangheta così com’è: un’organizzazione senza principi morali che semina lutti. Cuppari nasce a laureana di Bor rello nel 1932. Ha un’infan-zia difficile. Prima perde il padre e poi viene ceduto dalla madre ad una famiglia che lo tratta peggio delle bestie. A quindici anni è già massaro in proprio e malandrino. Trascorre ventidue anni, dal 1950 al 1972, in più manicomi. Scrive un romanzo che non riuscirà mai a pubblicare. La sua è una visione cupa che riflette i lunghi anni trascorsi in carcere e il disincanto per una vita sofferta ed inutile. Nel romanzo inedito tre spari nella notte racconta la storia di una iniziazione mafiosa che non avviene con i rituali de-scritti da Asprea e Strati, ma attraverso una lunga scia di sangue. Il giovane malavitoso viene usato per giustiziare un gruppo di infami e poi eliminato, come tanti altri prima di lui.

Il protagonista del romanzo non si sottrae al compito che gli

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viene assegnato, né si scompone. Esegue ordini, non ha sensi di colpa. l’omicidio è visto come una necessità, funzionale alle logiche della cosca, del clan, del gruppo.

Scheda dell’Autore

ANToNIo mArGArITI(Ferruzzano [Reggio Calabria] 1891-New York 1981)

Con America! America! Margariti affronta il tema della camorra e lo rivisita in maniera autobiografica. Emigrato dalla Calabria, nel primo decennio del Novecento, verso gli Stati Uniti, è qui che lavora e conosce i “difficili pro-blemi” della vita quotidiana. Nel suo racconto sono presenti le “rivisitazioni puntuali” dell’ambiente non solo americano ma anche del paese dal quale

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proviene: Ferruzzano, in provincia di reggio Calabria. Preti, padroni, carabi-nieri dominano la cittadina mentre la mafia muove i primi passi. Analizza poi il fenomeno mafioso calabrese e quello siciliano, il potere della malavita orga-nizzata negli Stati uniti e i suoi risvolti sull’ambiente americano.

opere: America! America! (1979).Testo

America! America!54

In quel tempo i giovani non avevano vie d’uscita. C’erano dei gruppi che usavano la prepotenza come metodo e vivevano senza lavorare e certi sono finiti rovinati: insomma era una società di mafiosi che per in-cutere paura vestivano male e si lasciavano crescere i capelli con il ciuf-fo che scendeva sulla fronte e con il berretto sull’orecchio. la maggio-ranza era analfabeta e credeva di realizzarsi solo con la prepotenza. una sera partii tardi dal paese in compagnia di tre vaccari, Antonio Bono era il più anziano ed era conosciuto co me un bravo ladro. Appena usciti dal paese passammo per la proprietà d’un certo Mu scatello, le cui galline, durante la notte, dormivano sopra una quercia. Bono mi disse di andare a controllare se le galline c’erano. difatti, erano lì sulla quercia ma io non avevo mai rubato e mi batteva il cuore e così mentii riferendo che le gal-line non c’erano. Continuammo a camminare e dopo un pò incontrammo un certo Sarvo zengara, il padre di quello che fece fuoco contro il pre-sidente roosevelt in Miami Florida. Ci parlò il Bono, ma ignoro quello che si dissero. Non molto lontano abitava la famiglia romeo che posse-deva una capra e la capretta. Il Bono ordinò a me e a Sculli d’andare a prelevare la capra e la capretta sarebbe venuta dietro la madre. A questo punto mi incazzai e me ne andai da solo per i fatti miei. dopo vennero da me con la capra e la capretta ammazzate, e ce ne andammo a casa di Bono perché la madre era una brava cuoca ed avevano del buon vino.

A rubare una capra o altri animali sembra aver commesso un grande reato, specie se pensi che la rubi ad un altro povero come te e questo

54 A. Margariti, America! America!, Casalveino Scalo (SA), Galzerano Editore, 1979, pp. 28-29.

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fatto pesa sulla coscienza, ma se guardi la faccenda dall’altro lato pensi che l’uomo si ciba di carne e per averla deve comprarla e ai poveri man-cano i soldi e così deve rubarla a chi la possiede.

dopo un pò di tempo il romeo individuò i ladri delle sue capre e un giorno venne a trovarmi proponendomi di tenermi fuori a condizio-ne che avessi testimoniato contro Bono e Sculli, ch’erano partiti per l’America. replicai di non saperne un’acca, ma lui insistette: “Non vuoi farmi il testimone, ti farò andare in galera, vedrai”!… difatti fui citato come complice davanti al tribunale di Gerace. Con la madre di Sculli fummo difesi da un avvocato, Marvasi, che per difenderci si prese l. 25, somma che dividemmo. Mentre passeggiavo nel tribunale in attesa dell’inizio della causa, fui avvicinato da un vecchio malandrino tra i 40 e i 50 anni, che chiese il paese dal quale venivo e se cono scevo un suo “amico”. Volle conoscere anche la ragione del perché mi trovassi in quel tempio dell’ingiustizia. Saputolo disse: – Insegnami il padrone della capra, col quale adesso ci vado a parlare io per convincerlo di non presentarsi promettendogli che gli pagherete la capra; però, basta solo promettere perché non pagherete nessuno.

Fummo assolti e non pagammo nessuno: l’unico condannato fu Bono, aveva più d’una accusa e nessuno lo difendeva. dopo salutai e ringraziai Sebastiano di Bartolo per il suo positivo intervento e gli domandai cosa faceva lui in tribunale. “O figlio, questa è la mia casa”! disse mentre ci stringevamo la mano.

Antonio Margariti si racconta. Nel 1979 pubblica il suo pri-

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mo e unico romanzo dal titolo America! America!, nel quale ricostruisce le tappe più significative della propria vita: dalla difficile giovinezza a Ferruzzano agli anni dell’emigrazione ol-treoceano.

Scheda dell’Autore

cArmINe AbATe(Carfizzi [Catanzaro] 1954)

Nato a Carfizzi (KR) nel 1954. Ha studiato in Italia e si è laureato presso l’università di Bari. Ha vissuto in Germania e, attualmente, vive nel Tren-tino dove esercita la professione di insegnante. Il suo primo libro di poesie è Nel labirinto della vita. Esordisce in Germania come narratore con la raccolta di racconti Den Koffer und weg e con Die Germanesi, una ricerca socio-antropologica sull’emigrazione svolta con Meike Behrmann e pubbli-cata in italiano, con il titolo I Germanesi da Pellegrini Editore presso cui di-rige la collana “Biblioteca Emigrazione” e ha curato In questa terra altrove, un’antologia di testi letterari di emigrati italiani. Il tema dell’emigrazione filtra poi nel primo romanzo Il ballo tondo, dove emergono i risvolti pro-blematici derivanti da questo fenomeno, che viene riproposto anche in La

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55 C. Abate, tra due mari, Milano, Piccola Biblioteca oscar Mondadori, 2002, pp. 26-28.

moto di Scanderbeg e in tra due mari vincitore di numerosi prestigiosi premi.

opere: I Germanesi (1986); In questa terra altrove (1987); Il ballo tondo (1991 - 2ª ed. 2000 - 3ª ed. 2005); Dimore (1992); Di noi (1992); Den Koffer und weg (Il muro dei muri 1993 - 2ª ed. 2006); La moto di Scandeberg (1999); tra due mari (2002); La festa del ritorno (2004); Il mosaico del tempo grande (2006 - 2ª ed. 2007).Testo

tra due mari55

[…] tutto era cominciato nella tarda mattinata di quella prima do-menica di luglio. la macelleria era vuota, Giorgio Bellusci stava ri-ponendo nella cella frigorifera la carne rimasta. Faceva questo lavoro con fiacca calcolata, restando più del dovuto davanti al frigo aperto. Fuori imperversava l’afa maligna e quelle folate di aria fredda gli rin-frescavano la testa sudata e le lunghe braccia nude, macchiate qua e là di sangue di vitello.

davanti alla macelleria si fermò una macchina di grossa cilindrata con due uomini a bordo. Il guidatore restò seduto al proprio posto. Inve-ce l’altro, un giovane elegante, scese dalla macchina, si guardò intorno e sbuffò per il gran caldo. Entrò in macelleria e salutò educatamente in un italiano con una forte inflessione calabrese. “Buongiorno, capo. Come va?”. Indossava un completo di lino azzurro con delle chiazze di sudore sotto le ascelle.

“Buongiorno a voi”, rispose Giorgio Bellusci “siete arrivato appena in tempo, stavo chiudendo la chianca in questo momento. Mi è rimasto il girello, chè qua non ne capiscono di carne buona e guardano solo il prezzo. Questa è carne che si scioglie in bocca. di vitello casarulo”.

l’uomo toccò con un dito il girello come per accertarsi che fosse veramente tenero. Sorrise compiaciuto. disse: “Vanno bene gli affari, eh, capo”.

Giorgio Bellusci rispose: “Non mi posso lamentare, grazie”.“E la campagna? E le mandrie? Ho sentito che volete comprare del-

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le vigne giù al fiume. E poi questo bel progetto di costruire un albergo! Il Fondaco del Fico! un’idea geniosa! Mio nonno mi diceva che era una locanda coi fiocchi, una volta. Tutti si fermavano lì, i viaggiatori. Ci voleva, sapete. l’albergo più vicino è giù al mare. Farete una barca di soldi, almeno in estate. Vi espandete, eh! Progredite. Si vede che siete una persona sgambigna”.

Giorgio Bellusci ingoiò un pò di aria fredda dal frigo che aveva riaperto e lanciò all’uomo uno sguardo sospettoso: “di dove venite, voi che siete così ben informato sul mio conto, più di mia moglie?”.

l’altro lo guardò per la prima volta con arroganza.“Vengo da dove mi ha fatto mia mamma. A voi questo non deve

interessare. Voi dovete pensare solo a progredire, questo a noi ci piace. Avrete la nostra benedizione, la nostra protezione. Pagherete una picco-la percentuale l’ultima domenica di ogni mese. Passo io a ritirare la pila. Non dovete preoccuparvi di nulla. Siete in buone mani”.

Giorgio Bellusci non credeva alle sue orecchie, non voleva crederci; era così sorpreso che non sapeva cosa rispondere, se sbattergli il girello tra i denti o mandarlo al diavolo o ridergli in faccia. Provò con l’ironia: “Ecchè, m’avete scambiato per uno che ha sbancato l’Enalotto? Io la-voro con queste”. E gli mostrò le sue grandi mani callose.

“Non fare il furbo, noi di te sappiamo pure quanti peli hai nel buco del culo. Paga, non fare il tignoso, o te ne pentirai” disse con tono aggressivo premendo il dito contro il camice di Giorgio Bellusci, sporco di sangue.

Giorgio Bellusci prese il coltellaccio affilato con cui squartava i vitelli e lo appoggiò al dito dello sconosciuto. “levate quel dito, sennò ve lo taglio di netto” disse con gli occhi di fuori. “Vi faccio a pezzettini e li butto ai miei cani da mandria”.

L’uomo scostò il dito d’istinto. Indietreggiò di un passo e infilò la

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mano sotto la giacca. Però cambiò idea. disse: “Ci vedremo domenica prossima, tignoso! un uccellino mi dice che cangerai testa: parola mia d’onore!”. Poi uscì a passi rapidi, salì in macchina e sparì.

Quella stessa notte qualcuno diede fuoco alla porta della macelleria.

Aiuto alla lettura

Nel romanzo tra due mari di Carmine Abate la ’ndrangheta è rappresentata come una malattia invisibile che getta un’ombra scura su una Calabria altrimenti incantata, dove il sole e la brez-za dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, tirano su famiglie unite dall’amore e dalla testardaggine. Il romanzo è la storia appassio-nante di un uomo del Sud, Giorgio Bellusci, che per inseguire i suoi sogni, intrecciati al destino di un fotografo tedesco e ad un manoscritto di Alexandre Dumas, sfida le leggi della ’ndranghe-ta. Bellusci non solo si rifiuta di pagare il pizzo, ma uccide an-che l’esattore delle cosche, appendendolo ad un gancio della sua macelleria. Sconterà otto anni di carcere, ma non abbandonerà il sogno di realizzare un albergo sul “Fondaco del fico”, il terreno ereditato dal padre. Qualche tempo dopo, la ’ndrangheta si ven-dicherà e a morire non sarà solo Bellusci, ma anche il suo amico fotografo, che lo aveva aiutato economicamente nell’avventura. Toccherà al nipote, Florian, nato in Germania, riprendere il filo del sogno. Quell’albergo, costruito a caro prezzo, diventa il sim-bolo di una Calabria che non si arrende, molto diversa dal Sud immobile dell’immaginario corrente.

Il pizzo è il modo più efficace con cui la ’ndrangheta esercita il controllo del territorio. Ma è anche una delle ragioni per cui solo pochi investono in Calabria, una terra che con la sua storia e le sue coste non avrebbe nulla da invidiare ad altre mete del turismo

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di massa. la ’ndrangheta è un’industria che, tra l’altro, produce, pro-

muove e vende protezione privata. In sostanza, offrendo prote-zione, difende da se stessa le vittime del racket.

Scheda dell’Autore

mArIo sTrATI(Sant’Agata del Bianco [antica Samo di Calabria] 1941)

Insegna letteratura italiana all’università di Messina. Vive a locri. Con il romanzo Fra Scilla e Cariddi, Mario Strati descrive la mafia in maniera par-ticolarmente realistica utilizzando una prospettiva distaccata. Il romanzo è

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56 M. Strati, Impallidisco le stelle e faccio giorno, Soveria Mannelli, Ilisso rubbet-tino, 2006. Il libro venne per la prima volta pubblicato nel 1991 con il titolo Fra Scilla e Cariddi.

una vera e propria lettura-analisi dell’azione e dell’organizzazione mafiosa, da un lato, e, dall’altro, è presa di coscienza, del disfacimento delle istituzioni, della degenerazione dello “stato democratico”.

opere: Fra Scilla e Cariddi (1991, poi ripubblicato con il titolo Impallidisco le stelle e faccio giorno, 2006); Nella pianura degli asfodèli (romanzo inedito).Testo

Impallidisco le stelle e faccio giorno56:

rocco Scurli e Gianni Migozzo arrivarono stanchi. Avevano mar-ciato per quasi sei ore, da quando poco prima di mezzanotte, al Ponte dei Cani, erano scesi dall’automobile di Cirlurzo. Erano sudati, a di-spetto dell’alta montagna, dell’ottobre già avanzato e dell’o rario che avevano scelto.

Peppantoni risacca e Gino Trìlibo li stavano aspettando con impa-zienza. Erano dalla sera prima pronti a partire a loro volta.

Si alzava già il giorno.– Eccoci qua – disse Gianni buttando il sacco di tela in un angolo

del pagliaio. Anche rocco buttò il suo, sbuffando. Sedettero tutti e due sulle felci secche che facevano da pa vimento, e da materasso per la notte.

– Il bramanti è tranquillo – disse Peppantoni risacca, da fuori. Con-segnò a rocco at traverso l’apertura che faceva da porta la ricetrasmit-tente. Gli indicò il mitra appeso al ramo del leccio:

– Tutto è a posto; se non ci sono novità noi ce ne andiamo – ag-giunse.

– Nessuna novità. ricordatevi che aspettiamo il cambio per venerdì mattina – rispose rocco.

Gino Trìlibo entrò nel pagliaio e lasciò il suo mitra per terra, sulle felci.

Gianni tirò dalla cacciatora un mazzo di giornali. la Gazzetta del giorno prima la porse a Gino Trìlibo, commentando:

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– le solite cose.ordinò i Satanik e i diabolik formando due mazzetti separati. I set-

timanali d’attualità li mise a parte.rocco Scurli uscì dal pagliaio. Si stiracchiò. Si stropicciò gli occhi.

Arrivò sino all’argine dello strapiombo. Guardò tutt’intorno la mon-tagna. Là sotto la fiumara era una striscia bianca con una macchia nel mezzo: il laghetto che alcuni anni prima s’era formato per la caduta d’una frana. lontano, verso il mare, si vedevano solo matasse bianche di nuvole. Notò, passati ormai i primi minuti di riposo, il venticello fre-sco che gli sferzava il viso. Nel fitto del bosco era cominciato il lagno delle ghiandaie. Si ricordò, come ogni volta che sentiva quel lagno, delle Arpìe dell’Inferno di dante: “Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno”. Questo verso gli era rimasto fisso nella mente. Non si ricordava nien-te di quello che aveva fatto a scuola. Solo quel verso. E le Arpìe, per lui, erano donne-mostro con voce di ghiandaie. Pensò alle lamentatrici delle veglie funebri… Quelle grida… Ebbe un brivido, e si toccò tra le gambe, per scaramanzia. Si scosse. diamogli un’occhiata, si disse. rientrò e prese un passamontagna, poi andò verso il posto dove tene-vano il sequestrato. Quando tornò riferì: – Ho messo un po’ di frasche verdi –. Poi spiegò: – Bisogna metterle sempre col buio. Non si deve muovere foglia, di giorno, e già stamattina è tardi.

– Speriamo che Paperone si decide a sganciare presto, sennò sono cazzi nostri come comincia l’inverno – valutò per tutta risposta Gianni.

– Ma sono più suoi – fece eco rocco, accennando con la testa verso il luogo dove tenevano il bramanti.

Gino Trìlibo terminò di sfogliare il giornale. Si guardò in giro:– dov’è – domandò, ed uscì.– Peppantoni risacca stava tornando accaldato. Era andato in fretta

e furia a controllare una covata di ghiri che allevava per Natale, quelli vicini, chè gli altri, i più, li avrebbe visti scendendo.

– Andiamo? – domandò Gino Trìlibo.Si salutarono con gli amici e partirono. Portavano ciascuno uno zaino

vuoto che a vrebbero lasciato in un casotto prima del paese: lo avrebbero riportato sul pieno del necessario per passare otto giorni in montagna. Nel casotto avrebbero anche cambiato pantaloni maglia e scarpe.

rocco e Gianni, dallo spiazzo davanti alla porta del pagliaio, stet-

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tero a guardarli mentre si allontanavano. Non si mossero nè parlarono sino a quando intesero il rumore del loro saltare per i dirupi. Poi rocco disse, guardandosi le scarpe sporche di terra e bagnate di rugiada:

– Se le cose vanno per le lunghe bisogna trovare un posto meno esposto all’umido e al freddo.

Gianni non rispose. Entrò nel pagliaio e terminò di ordinare le sue cose. Anche rocco entrò nel pagliaio:

– Facciamoci un caffè – disse. Prese la moka, la preparò e la mise su un mini fornello a spirito.

Poco dopo tutt’intorno si sparse l’odore forte del caffè bollente.– Va a finire che qualche volta ci scoprono per quest’odore – disse

Gianni sorridendo.– A strafottere! – rispose rocco. Si sedette su un piccolo ceppo

cilindrico e tenendo il bicchiere appannato e fumante racchiuso tra le mani cominciò a sorseggiare la sua porzione, succhiando con le labbre perche’ scottava.

Accesero, dopo, una sigaretta ciascuno. Gianni si sdraiò sulle felci. Emetteva il fumo a piccoli batuffoli, aprendo e chiudendo ritmicamente le labbra, sporgendo quello di sotto, con lo sguardo fisso all’insù, assente.

– Che succo dici che ci esce? – domandò rocco, valutando – do-vrebbe essere sostanzioso, per ciascuno di noi almeno dieci-venti ma-niglie.

Gianni non rispose subito, poi disse senza muoversi:– Spero di più.Stettero muti. Si sentiva lo stermire del bosco. un petirosso, proprio

davanti alla porta del pagliaio, singhiozzava il suo trillo. A tratti giunge-va, improvviso, il verso delle ghiandaie.

– Bisogna convincere don Nino a stringere i tempi – considerò Gianni, – magari minacciando di tagliare un orecchio al bramanti, come hanno fatto con Paul Getty.

– No, don Nino non deve stringere i tempi, tutt’altro. Certo per noi prima finisce sta storia e meglio è. Ma è meglio ancora se finisce come deve finire, cioè con la pilanga che ci è dovuta. E per arrivare a mungere molto non bisogna mostrare fretta.

– don rosario è ormai caduto all’impiedi.– Ha corso anche lui il suo rischio. E poi non avrà più di centoven-

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ti maniglie; invece se tutto fila liscio noi ne dovremmo avere almeno mille.

– Ma! Speriamo di poterle riciclare, poi. una volta era più facile.– Non ci sono problemi, l’importante è avere la pilanga.Tacquero per un pezzo. Gianni intrecciò le palme sotto la nuca e

chiuse gli occhi. rocco stava con le gambe allargate, il bicchiere tra le mani e il capo ciondoloni.

– don rosario ha spostato tutti i suoi interessi nella capitale. Non sarebbe meglio anche per noi se don Nino trapiantasse la baracca in qualche città, che dici?

rocco lo guardò.– Per noi io e te, o per tutta la famiglia? – domandò.

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– Per la famiglia e per noi.– Per noi certamente. Per la famiglia non lo so. Non è che don Nino

non coltiva gli affari a roma, a Milano e altrove.

Aiuto alla lettura

Quella raccontata da Mario Strati nel libro Impallidisco le stel-le e faccio giorno57 è una ’ndrangheta meno stanziale che ha col-legamenti con altre organizzazioni criminali, cura interessi fuori dalla Calabria, ma non è coinvolta ancora nel traffico di droga. don Nino rodicato è un boss temuto e rispettato. don rosario Scordamaglia, un altro boss, molto attivo nella capitale, gli pro-pone di gestire assieme un sequestro di persona. la vittima, che finisce tra le forre dell’Aspromonte, è figlio di un gioielliere ro-mano.

Quello dei sequestri è stato per la ’ndrangheta un business mi-liardario, ma anche “un ramo della malavita arretrata”58. Poi, dopo la legge sul blocco dei beni alle vittime dei sequestri, la ’ndran-gheta ha intuito che sarebbe stato meglio evitare quell’attenzione dei media e delle forze dell’ordine sulla Calabria ed ha comincia-to a dedicarsi ad attività più redditizie. Ciò avviene dopo la secon-da guerra di mafia, in seguito ad un accordo tra i principali boss del la provincia di reggio Calabria. Va detto, comunque, che negli anni ottanta, ai tempi dei sequestri, la ’ndrangheta della locride era già coinvolta nel traffico internazionale di droga. I soldi dei riscatti venivano spesso investiti nella produzione o nell’acquisto di so stanze stupefacenti, anche oltreoceano59. oggi la ’ndrangheta detiene il monopolio della cocaina in Europa, potendo contare su una serie di rapporti privilegiati con i produttori sudamericani.

Nel suo romanzo, Strati descrive anche i collegamenti della famiglia rodicato con le cosche palermitane, e in particolare lo

57 Ibidem, pp. 107-110.58 F. Veltri, Sequestri, tra lacrime e misteri, Cosenza, Memoria, 1998, p. 75.59 Alcune indagini, per esempio, accertarono che i soldi dei sequestri venivano in-

vestiti nella produzione di marijuana in Australia.

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scambio di sicari per delitti delicati e importanti. Ma racconta anche di una ’ndrangheta capace di “trattare” e di fare la voce grossa con le forze dell’ordine, troppo spesso manesche e vio-lente.

Scheda dell’Autore

eNzo sIcILIANo(Roma 1934-2006)

Si è laureato in filosofia. La sua formazione è segnata da alcuni grandi pro-tagonisti della cultura del Novecento: da Giacomo debenedetti ad Alber-to Moravia, da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Bassani e Attilio Bertolucci. Prima dell’esordio letterario e dell’attività critica e pubblicistica, è stato insegnante, funzionario della rai della quale è stato presidente, dal 1996 al

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1997. uomo di ampia ed elevata cultura ha esordito nella narrativa con Rac-conti ambigui (1963). È stato condirettore di «Nuovi Argomenti» e direttore del Gabinetto Viesseux di Firenze.

opere: Racconti ambigui (1963); La principessa e l’antiquario (1980); Carta blu (1992); I bei momenti (1997); Non entrare nel campo degli orfani (2002); Rosa pazza per amore (1973); La vita obliqua (2007).Testo

La vita obliqua60

Erano tutti ai posti assegnati, sotto l’occhio inquieto di don Ferdi-nando apparso all’improvviso, quando cominciò a schiarirsi il cielo. C’era umido nell’aria, e veli altissimi di nuvole.

Nel primo chiarore del giorno Bruno vide che nella Valletta erano già presenti gruppi di uomini: parlavano, ma le loro parole non potevano essere colte dalla posizione in cui si trovava lui. Vedeva, non lontano, Monaldo, le mani in tasca, appoggiato a un tronco d’albero segato. E vedeva anche Giuseppe, che gli stava sulla destra, abbastanza vicino.

Arrivarono altri, a piedi dal viottolo in basso, dove era parcheggiato l’Ape che la mattina avanti aveva portato il latte. Alcuni di questi, non più di quattro o cinque, si ritirarono dietro un folto cespuglio di rovi che chiudeva su un lato la valletta, come a nascondersi – e parlavano animate, non in modo cordiale.

Ma, quasi ultimo arrivato, un uomo tarchiato e basso, vestito di un doppiopetto nero, la camicia Bianca, gli occhiali da sole, sembrava ricevere più saluti deferenti di altri: nel gruppo si muoveva spedito. Poi disse a voce alta, perché tutti sentissero: “Si rimanda, e si rimanda di un mese. Qui ci sono persone di riguardo, e va usato riguardo, per l’ono-rabilità di tutti”.

Bruno guardò Giuseppe, e Giuseppe sorridendo gli lanciò una striz-zata d’occhio.

Bruno non capiva i dettagli. Al primo appuntamento gli avevano parlato di “cose importanti per reggio”. E gli era stato detto che non

60 E. Siciliano, La vita obliqua, Milano, Mondadori, 2007, pp. 200-202.

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doveva sapere altro. Ma adesso gli sembrò di sapere cose anche in ab-bondanza, pure se i dettagli gli sfuggivano.

Viveva il suo momento, e fu un momento alto se, in risposta alle parole pronunciate dall’uomo tarchiato, dal cespuglio venne una voce – doveva essere conosciuta da molti, dato che nessuno mostrò stupore –, e disse in stretto dialetto reggino con tono quasi di sdegno: “Io non so niente di niente”. ripeté nasale: “Non so niente”, e si fece un silenzio sospeso che l’uomo dal doppiopetto spezzò con una frecciata, rivolgen-dosi però a un tale che gli stava vicino con la coppola calata sulla fron-te: “Ti dovevano togliere il cappello di testa, prima che il tuo padrone aprisse bocca – questo ti dovevano fare… Chi cazzo sei tu!”.

Quindi si guardò intorno col tono di chi impone il consenso. dal cespuglio la voce di prima gridò con tono quasi lacrimevole: “Chiedo scusa… ”.

“Qui ci sono persone, politici eminenti… che fanno a noi l’onore di venire. E questo, ormai, è un fatto pubblico…”. Si arrestò, si guardò in giro come per raccogliere nei suoi gli occhi di tutti. Proseguì, a giro compiuto: “Pubblico fra di noi, voglio dire. Ma sarà pub blico prestis-simo, se lo sdegno di reggio si manifesterà spontaneo…Certo: spon-taneo, ma guidato con intelligenza”.

la solita voce gridò, inscenando un diverso tono di dolore: “Ma il nostro ruolo qual è?”.

Prima di rispondere, l’uomo in doppiopetto rise commiserando: “di controllo, e per compiti specifici. Ma queste persone sono qui, e noi dobbiamo dimostrare che il loro tornaconto coincide con il nostro: che noi siamo degni di fiducia, premiabili…”.

Bruno assaporò l’aggettivo: si sentiva senza dubbio “premiabile”, in possesso di un ardimento privo di confronti e di un’idea soddisfacen-te di parità con il mondo. diede un’occhiata a Monaldo, e lo vide cur-vato su se stesso, la giacca a vento chiusa fino al collo, le mani che per noia andavano a frugare l’inguine, e incurante degli occhi di Giuseppe che lo studiavano.

A Bruno sembrava di stare benissimo a galla sulla difficile marea del dovere – dell’enigmatico dovere che si era scelto. Quell’avventura così singolare era appena agli inizi – ma, qualsiasi sorpresa gli venisse riservato, sentiva che tutto di lui era ormai da riportare a essa. la tene-

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bra immensa in cui era vissuto dileguava – era una fortuna anche essere nati, poteva dirsi.

Guardava la scena che il mattino gli stava offrendo senza parsimo-nia, in una lucentezza di colori che è di quelli sgusciati dalla nebbia e dall’umido.

Si sentiva impegnato a capire le difficoltà che l’avventura poteva parargli contro – quel pensiero gli faceva nascere in petto un languor di disponibilità e nessuna traccia di rammarico. Fissò di nuovo Giuseppe e incrociò il suo sguardo. Stavolta però fu lui a striz zare l’occhio. Ma Giuseppe, il viso in fiamme, le sopracciglia inarcate, gli occhi lucidi, gli rispose con uno scatto violento del capo: – nella piazzola sottostante c’era mo vimento, un vero e proprio fuggi fuggi silenzioso. don Anto-nino arrancava là in mezzo, un fazzoletto bianco sulla bocca. Si sentiva il rombo affaticato di qualche camionetta.

Bruno vide che Monaldo alzava il braccio in un gesto di richiamo verso lo spazio in basso, e Giuseppe che lo afferrava di schiena e con un

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calico agli stinchi lo piegava a terra. A Bruno, con un grido soffocato, disse: “Corri, vieni via con me”.

don Ferdinando, dall’altro capo della collina, faceva cenni di invito a fuggire.

Aiuto alla lettura

Il fremito insurrezionale ed anarchico che pervase la città di reggio nel 1970 diventa romanzo. A raccontare gli intrecci tra massoneria deviata, eversismo e ’ndrangheta è Enzo Siciliano nel libro Non entrare nel campo degli orfani, pubblicato nel 2002.

È la storia di un giovane che, come raskolnikov di Delitto e castigo, uccide per mi seria, ma anche per noia esistenziale, per volontà di potenza e soprattutto per dimostrare al padre la sua consistenza umana, la sua ferocia, la sua ostinata capacità di ri-bellione. le strategie che consentono alla ’ndrangheta di entra-re nella zona grigia delle contiguità vengono messe a punto in un freddo giorno di ottobre del 1969, in un meeting segreto sul-l’Aspromonte, al quale partecipa anche Bruno, il giovane ribelle e due suoi amici, Mo naldo e Giuseppe. Il summit, come quello di Montalto, cui si ispira l’autore, verrà inter rotto da un blitz di polizia e carabinieri.

la ’ndrangheta entra anche nella narrativa dell’ultimo roman-zo di Siciliano, pubblicato postumo, dal titolo La vita obliqua. una storia calabrese ambientata negli anni del fa scismo, ma in-

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centrata su temi e comportamenti che parlano della vita di oggi: la con trapposizione tra Gabriele, un idealista isolato, e il com-paesano Saverio, prototipo di fur bizia e inganno, un opportuni-sta destinato a farsi tradire da compagni ancora peggiori di lui.

Scheda dell’Autore

FrANcescA vIscoNe(Catanzaro 1961)

Vive e lavora in Calabria. Si è laureata in lingue con una tesi sulle fiabe popolari boeme. Ha vissuto in Germania, dove insegnava italiano e tedesco. Scrive storie di piccole comunità e di uomini qualsiasi, capaci però di grandi resistenze contro tutto ciò che tende a distruggerne l’identità o la dignità. Ha pubblicato un libretto su Filadelfia, divenuto poi la sceneggiatura di un documentario, una serie di racconti-memoria su Badolato, Le porte del si-lenzio e una raccolta di articoli, Incontri. Sull’immaginario collettivo ma-fioso ha scritto il saggio La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musi-

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ca, mass media.Collabora con «Calabria», mensile del Consiglio regionale, con il settimanale «diario» e con la rivista di studi antropologici della Fondazione Giusti «Spola».

opere: Le porte del Silenzio (2000); Incontri (2002); La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media (2005).Testo

Romanzo breve (inedito)

A volte ritornano. di quella città mi piaceva soprattutto il lungomare. Si potevano ve-

dere il golfo, i paesi allineati lungo la costa o adagiati in collina. A volte i ricordi ritornano. Stesi come panni, mossi dal vento.la panchina azzurra. Stavamo lì per ore a chiacchierare. la accarezzo con gli occhi. Neanche il colore è cambiato. Mezzogiorno caldo su azzurro di panchina. davanti il mare. Mara,

dieci anni. Titti, tredici. Io. Si parlava sempre di scuola e di casa. Il lavoro dei genitori, i soldi che non bastavano. Titti una volta pronunciò quella frase. la disse veloce, quasi come se volesse liberarsene.

“Mio padre ha detto che chiederà il lavoro ai mafiosi”. Sgranai gli occhi. Ero più piccola di lei, forse non avevo nemmeno

capito di cosa parlasse. lei, invece, aveva le idee chiare.“La mafia non è sempre un male. Protegge le donne e i bambini. Lo

dice mio padre”.Suo padre non era una donna, e nemmeno un bambino. dunque, a

cosa gli serviva quella protezione?Accadde molti anni dopo. Titti si era sposata prestissimo e aveva

avuto tre figli. Mara faceva l’infermiera in ospedale. Io giravo l’Europa, inquieta.

Non pensavo più ai nostri discorsi sulla panchina azzurra vicino al mare. Ma loro tornarono, all’improvviso.

Mi sono sempre chiesta se ci fosse una relazione, e di che tipo, tra quell’evento tragico e le convinzioni della mia piccola amica.

Per un pò di tempo non si seppe niente, tranne che era sparito. Per mesi e mesi ogni domenica il sacerdote ricordava il suo nome durante

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le prediche e pregava perché quel ragazzo potesse tornare dai suoi ge-nitori.

La mafia protegge le donne e i bambini.Il fratello di Titti, più giovane di lei di dieci anni, fu ritrovato. Non

era stato protetto bene. Era stato gettato in un pozzo, non molto pro-fondo.

A volte anche Titti e Mara ritornano.Passeggiamo ancora insieme su quel lungomare. Stiamo sedute sul-

la panchina azzurra. Parliamo. Io guardo Titti e aspetto che quella frase scivoli via dalle sue labbra.

Titti racconta di un fratellino birbante, con cui giocherà tutto il po-meriggio.

Se questa fosse una favola, vorrei cambiare il finale. Ma non posso, perché questa storia è vera.

Mi chiedo se quel che è accaduto si poteva evitare. Vorrei sapere se per caso il padre e la madre di Titti sanno ancora cosa raccontavano ai

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loro figli. Credo di no. Anzi, sono certa che avranno dimenticato. Anche Titti e Mara hanno dimenticato?

La mafia non protegge nessuno. Nemmeno chi ne fa parte può sen-tirsi al sicuro.

Aiuto alla lettura

Francesca Viscone è giornalista e insegnante. Nel libro si ac-costa alla complessa e contorta identità della Calabria, a partire da quelle co struzioni identitarie che negli ultimi decenni l’hanno maggiormente caratterizzata in ter mini negativi: quella di una ri-duzione della Calabria a luogo della ’ndrangheta, della tra duzione dei suoi abitanti a ’ndranghetisti o, comunque, a persone contigue e omogenee all’ideologia criminale. l’inchiesta di Viscone parte dalla produzione di alcuni cd che rac colgono canti di malavita, presentati come un’operazione di riscoperta o scoperta della “vera e autentica Calabria” che coincide con la valutazione positiva dei comportamenti degli “uomini d’onore”.

In questo breve ed inedito racconto, Viscone affronta un altro luogo comune sulla ’ndrangheta vista come ufficio di colloca-mento o, comunque, come un’organizzazione che, in mancanza dello Stato, garantisce occupazione e benessere e rispetta le don-ne e i bambini.

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Filmografia sulla ’ndrangheta

Il brigante Musolino, 1950. regista: Mario Camerini. Cast: Silva-na Mangano, Amedeo Nazzari, Arnoldo Foà, umberto Spadaro. Pro-duzione: dino de laurentiis. durata: 94 minuti. Trama: È la storia di Giuseppe Musolino e del suo amore per la bella Mara. Condannato per un delitto non commesso, Musolino evade e si dà alla macchia. Fino al 1950 la storia del noto brigante calabrese non era mai stata portata sullo schermo per l’assonanza del nome con quello del duce.

Calabria segreta, 1954. regista: Vincenzo Nasso. Cortometraggio, girato a Cardeto (Reggio Calabria) nel quale si racconta il linguaggio malavitoso della tarantella.

La ’ndrangheta, 1974. regista: Giuseppe Ferrara. Cortometraggio.

Milano: il clan dei calabresi, 1975. regista: Giorgio Stegani. Cast: Antonio Sabàto, Pier Paolo Capponi, Silvia Monti, Nicoletta rizzi, Mario donen. durata: 94 minuti. Trama: Paolo Mancuso, calabrese d’origine, emigra con la moglie a Milano in cerca di fortuna. Stanco di soffrire la miseria e la fame, non trova di meglio che cercare di arraffare miliardi inserendosi nel giro della malavita che controlla il traffico della droga e della prostituzione; e, in effetti scala i più alti vertici della mafia divenendo un temuto boss. Ma la sua fortuna scatena contro di lui la lotta delle bande rivali. Braccato, si rifugia in un laboratorio biologico dove viene morso da una cavia portatrice di virus letali. destinato a morire certamente entro 20 ore, decide di trascinare molti dei suoi av-versari nelle tenebre della morte.

Il coraggio di parlare, 1987. regista: leandro Castellani. Cast: riccardo Cucciolla, lello Arena, Gian luca Schiavone, Corrado olmi,

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Enzo Cannavale, Antonio Cantafora, Giuliana Calandra, Francesca rinaldi, Marco leonardi, Angelo Maggi, Cesare Apolito. durata: 99 minuti. Trama: dall’omonimo romanzo di Gina Basso. un ragazzino calabrese si ribella al dominio della ’ndrangheta, prima trasferendosi a Milano, poi, rompendo la rete dell’omertà a rischio della vita. I giovani del suo paese lo imitano. È un film di denuncia contro la criminalità or-ganizzata in Calabria, prodotto dall’Istituto luce e dal Centro Culturale Salesiano.

Faida, 1988. regista: Paolo Pecora. Cast: Gordon Mitchell, Peppe Pecora, Tano Cimarosa, Michele Cimarosa, Paolo Fiorino. durata: 91 minuti. Trama: Un giovane uccide un mafioso che gli aveva violentato la sorella. Don Salvatore, il capo mafia, considera l’omicidio un grave affronto che non può tollerare senza perdere la faccia davanti ai suoi uomini e al paesino dell’Aspromonte che egli domina col terrore.

La corsa dell’innocente, 1992. regista: Carlo Carlei. Cast: Manuel Colao, Francesca Neri. durata: 106 minuti. Trama: È la storia di un bambino la cui famiglia aveva rapito il figlio di un ricco industriale. Quando l’ostaggio viene ucciso, il bambino scappa per riconsegnare ai genitori disperati i soldi del riscatto.

Era mio fratello, 2007. (Fiction tv). Regista: Claudio Bonivento. Cast: Paolo Briguglia, Stefano dionisi, Maurizio Aiello, Enzo de Caro, Pamela Villoresi, Massimo Ghini, Anna Valle. Trama: la storia è quella di due fratelli, figli di un capo clan della ’ndrangheta, che riescono a salvarsi dalla strage in cui perdono la vita i genitori. da quel momen-to i due intraprenderanno strade diverse: Sante (Dionisi), scappa verso l’abitazione del boss Giuseppe Palmisano, che lo accoglie in casa ed alleva assieme al figlio Michele, crescendo nell’ambiente malavitoso, fino a diventare un capo cosca. Luca (Briguglia), invece, viene adottato da Vincenzo, un comandante dei GIS (il Gruppo Intervento Speciale dei carabinieri).

Vent’anni dopo, Vincenzo si troverà a lavorare sotto copertura come infiltrato proprio nel clan dei Palmisano, con lo scopo di arrestare il fratello di Luca, nel frattempo sposatosi e con un figlio.

Tallonato dal colonnello Paolo Cento, Vincenzo scoprirà presto la verità, e una volta detta al figlio, quest’ultimo non potrà non essere coinvolto nelle vicende del fratello latitante.

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INdICE

INTroduzIoNEEducare alla legalità ....................................................................... pag. 5

L’accesso al progetto: Educazione alla legalità - lotta alla ’ndrangheta ........................... » 11

Testo n. 1: la strage di duisburg .................................... » 12Commento didattico ........................................................ » 13Testo n. 2: Sedici anni di faida - una cronaca di sangue » 13Commento didattico: le faide ........................................ » 15Analisi didattica .............................................................. » 17Testo n. 3: l’iniziazione .................................................. » 18Testo n. 4: Gli associati ai clan di San luca -

da un rapporto della polizia tedesca .......................... » 19Nr. 5: le cosche in Germania ......................................... » 21Testo n. 6: la tregua ...................................................... » 22Commento didattico: Il codice della ’ndrangheta ........... » 23

LE UNItà DIDAttIChEStoria e Struttura della ’ndrangheta

Introduzione ......................................................................... » 35

La divisione territoriale Commento e programmazione didattica ....................................... » 39

CAPITolo 1ºLe origini della ’ndrangheta ........................................................... » 45

CAPITolo 2ºLa struttura della ’ndrangheta........................................................ » 67

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CAPITolo 3ºL’urbanizzazione della ’ndrangheta ............................................... » 77

CAPITolo 4ºLa prima guerra di mafia ................................................................ » 87

CAPITolo 5ºLa seconda guerra di mafia ............................................................ » 97

CAPITolo 6ºLa ’ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria ...................... » 103

CAPITolo 7ºLa ’ndrangheta nelle altre province della Calabria ....................... » 111

la provincia di Catanzaro ............................................... » 113la provincia di Cosenza ................................................ » 116la provincia di Crotone .................................................. » 122la provincia di Vibo Valentia ......................................... » 125Appendice: Mappature della criminalità organizzata ...... » 128

CAPITolo 8ºIl giro d’affari della ’ndrangheta .................................................... » 137

L’UNItà DIDAttICASottofondo culturale della ’ndrangheta

Analisi didattica ................................................................... » 143

Scheda dell’Autore: GIoVANNI dE NAVA ........................ » 157testo 1 ............................................................................. » 158testo 2 ............................................................................. » 160testo 3 ............................................................................. » 161Aiuto alla lettura ............................................................. » 163

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Scheda dell’Autore: FrANCESCo PErrI ......................... » 166testo ................................................................................ » 167Aiuto alla lettura ............................................................. » 170

Scheda dell’Autore: NATAlINo lANuCArA .................. » 172testo ................................................................................ » 173Aiuto alla lettura ............................................................. » 179

Scheda dell’Autore: ForTuNATo SEMINArA ................ » 181testo ................................................................................ » 182Aiuto alla lettura ............................................................. » 184

Scheda dell’Autore: CorrAdo AlVAro ......................... » 186testo ................................................................................ » 187Aiuto alla lettura ............................................................. » 190

Scheda dell’Autore: SAVErIo MoNTAlTo ..................... » 193testo ................................................................................ » 194Aiuto alla lettura ............................................................. » 199

Scheda dell’Autore: SAVErIo STrATI ............................. » 202testo ................................................................................ » 203Aiuto alla lettura ............................................................. » 215

Scheda dell’Autore: MArIo lA CAVA .............................. » 217testo ................................................................................ » 218Aiuto alla lettura ............................................................. » 220

Scheda dell’Autore: luCA ASPrEA .................................. » 221testo ................................................................................ » 222Aiuto alla lettura ............................................................. » 229

Scheda dell’Autore: doMENICo CuPPArI ...................... » 230testo ................................................................................ » 231Aiuto alla lettura ............................................................. » 242

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Scheda dell’Autore: ANToNIo MArGArITI ................... » 243testo ................................................................................ » 244

Scheda dell’Autore: CArMINE ABATE ............................. » 246testo ................................................................................ » 247Aiuto alla lettura ............................................................. » 249

Scheda dell’Autore: MArIo STrATI ................................. » 250testo ................................................................................ » 251Aiuto alla lettura ............................................................. » 255

Scheda dell’Autore: ENzo SICIlIANo ............................. » 256testo ................................................................................ » 257Aiuto alla lettura ............................................................. » 260

Scheda dell’Autore: FrANCESCA VISCoNE ................... » 261testo ................................................................................ » 262Aiuto alla lettura ............................................................. » 264

Filmografia sulla ’ndrangheta ........................................................ » 265

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