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Indagine su Piero della Francesca Recensioni Piero.pdf · 2016-03-10 · desco, Silvestro Lega e...

Date post: 08-Jul-2020
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Recensioni Indagine su Piero della Francesca Elisabetta Pozzetti Innominato e innominabile: quello strano senso di stupore sospeso, di emotività metafisica, di intensa eppur immota energia. Nel comunicato stampa di “Piero della Francesca. Inda- gine su un mito” si legge che una mostra come questa non è mai stata realizzata. Un’affermazione così perentoria non trova certamente smentita nei capolavori esposti ma, a ben riflettere, l’ec- cezionalità non risiede tanto nel numero e nella qualità delle opere ma in qualcosa di ben più impalpabile. Qualcosa che gradatamente ti entra dentro e a cui non sai dare immediatamente un nome. È passata una settimana dall’apertura dell’esposizione e quel sentimento, che mi ha pervasa, tarda a lasciarmi. Rimane innominato e innominabile: è uno strano senso di stupore sospeso, di emotività metafisica, di intensa eppure immota energia. È come sentirsi a casa e contemporaneamente spaesati. Simile a quanto provai tanti anni fa sui ponteggi degli affreschi della Leggenda della vera croce nella chiesa di san Francesco ad Arezzo. Forse proprio questa sua “inafferrabilità”, questo suo esserci e al contempo rimandare a un altrove, ha gene- rato un oblio durato secoli, fino alla sua riscoperta avve- nuta tra Ottocento e Novecento. Grazie agli studi di Ber- nard Berenson, di Adolfo Venturi e, in particolare, di Roberto Longhi (autore del saggio Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana uscito su “L’Arte” nel 1914 e della fortunata monografia Piero della Fran- cesca pubblicata nel 1927 e poi riedita), l’artista di Bor- go Sansepolcro è stato ricollocato tra i maggiori prota- gonisti del Rinascimento. Proprio il Longhi gli attribui- sce non più tardi del 1942 la Madonna con il Bambino – già in collezione Contini Bonacossi e ora in quella Ala- na a Newark – presente in mostra assieme al San Giro- lamo in preghiera con un donatore delle Gallerie del- l’Accademia di Venezia, alla strepitosa Madonna della Misericordia – trattasi dello scomparto principale di un polittico destinato alla Chiesa della confraternita della Misericordia della sua città natale a cui lavorò dal 1445 al 1455 – che gli valse la definizione di Bernard Beren- son di un Piero campione di un’arte superbamente “non eloquente”; alla Sant’Apollonia della National Gallery of Art di Washington – facente parte di un altro polittico, quello per l’altare maggiore della chiesa di Sant’Agosti- no a Sansepolcro – meno efficace della Madonna della Misericordia, ma in grado di ispirare nel 1984 una “Full Suite” di Andy Warhol. Piero della Francesca, Madonna della Misericordia, 1445-1455, olio su tavola. Museo Civico, Sansepolcro 1 71 24 febbraio 2016
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Recensioni

Indagine su Piero della Francesca

Elisabetta Pozzetti Innominato e innominabile: quello strano senso di stupore sospeso, di emotività metafisica, di intensa eppur immota energia.

Nel comunicato stampa di “Piero della Francesca. Inda-gine su un mito” si legge che una mostra come questa non è mai stata realizzata. Un’affermazione così perentoria non trova certamente smentita nei capolavori esposti ma, a ben riflettere, l’ec-cezionalità non risiede tanto nel numero e nella qualità delle opere ma in qualcosa di ben più impalpabile. Qualcosa che gradatamente ti entra dentro e a cui non sai dare immediatamente un nome. È passata una settimana dall’apertura dell’esposizione e quel sentimento, che mi ha pervasa, tarda a lasciarmi.Rimane innominato e innominabile: è uno strano senso di stupore sospeso, di emotività metafisica, di intensa eppure immota energia. È come sentirsi a casa e contemporaneamente spaesati. Simile a quanto provai tanti anni fa sui ponteggi degli affreschi della Leggenda della vera croce nella chiesa di san Francesco ad Arezzo.Forse proprio questa sua “inafferrabilità”, questo suo esserci e al contempo rimandare a un altrove, ha gene-rato un oblio durato secoli, fino alla sua riscoperta avve-nuta tra Ottocento e Novecento. Grazie agli studi di Ber-nard Berenson, di Adolfo Venturi e, in particolare, di Roberto Longhi (autore del saggio Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana uscito su “L’Arte” nel 1914 e della fortunata monografia Piero della Fran-cesca pubblicata nel 1927 e poi riedita), l’artista di Bor-go Sansepolcro è stato ricollocato tra i maggiori prota-gonisti del Rinascimento. Proprio il Longhi gli attribui-sce non più tardi del 1942 la Madonna con il Bambino – già in collezione Contini Bonacossi e ora in quella Ala-na a Newark – presente in mostra assieme al San Giro-lamo in preghiera con un donatore delle Gallerie del-l’Accademia di Venezia, alla strepitosa Madonna della Misericordia – trattasi dello scomparto principale di un polittico destinato alla Chiesa della confraternita della Misericordia della sua città natale a cui lavorò dal 1445

al 1455 – che gli valse la definizione di Bernard Beren-son di un Piero campione di un’arte superbamente “non eloquente”; alla Sant’Apollonia della National Gallery of Art di Washington – facente parte di un altro polittico, quello per l’altare maggiore della chiesa di Sant’Agosti-no a Sansepolcro – meno efficace della Madonna della Misericordia, ma in grado di ispirare nel 1984 una “Full Suite” di Andy Warhol.

Piero della Francesca, Madonna della Misericordia, 1445-1455, olio su tavola. Museo Civico, Sansepolcro

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Pochissime opere dunque, emblematiche però di quan-to feconda sia stata la “maniera” di Piero della France-sca prima per i contemporanei, dando vita a quella che il Longhi definisce una “italianizzazione dello stile”, e poi per quelli del XIX e XX secolo, che si sono lasciati permeare dalla impalpabile solidità della sua luce.Piero della Francesca prima ancora che essere il “mo-narcha a li dì nostri de la pictura”, come ebbe a definirlo Luca Pacioli nel 1509, fu teorico: dopo il Trattato d’a-baco, un testo dedicato al calcolo algebrico scritto intor-no all’ottavo decennio, raccolse le proprie riflessioni sulla restituzione dei corpi nello spazio nel Libellus de quinque corporibus regularibus e soprattutto nel De prospectiva pingendi. Quest’ultimo trattato, ponendosi sulla strada inaugurata da Leon Battista Alberti col suo De pictura (1436), apre alle posteriori speculazioni di Leonardo da Vinci. È su questo aspetto di colto trattati-sta che, grazie anche al “furto” dei suoi testi operato da Luca Pacioli sia nella Summa de arithmetica sia nel De divina proportione, la fama di Piero si è protratta nei secoli immediatamente successivi, quando quella di pit-tore era ormai del tutto negletta. La mostra, in corso fino al 26 giugno ai Musei San Do-menico di Forlì, si snoda piacevolmente documentando come tra la fine del Settecento e il secolo successivo l’immagine di Piero riemerga gradatamente grazie al-l’interesse degli eruditi e soprattutto dei conoscitori stranieri che iniziano a far riprodurre le sue opere (in special modo gli affreschi di Arezzo). Tale appassionata rivalutazione culmina, in cima allo scalone, nelle due grandi copie a olio su tela della Ri-scoperta della Vera Croce e de La battaglia di Eraclio contro i Persiani, eseguite tra il 1872 e il 1873 dal cele-bre copista Charles Antoine Joseph Loyeux. Nelle sale al primo piano le opere di Piero sono messe in dialogo con quelle dei più grandi artisti del Rinasci-mento, come Domenico Veneziano, Beato Angelico, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, Francesco del Cossa, Giovanni Bellini (splendida la cimasa della Pala di Pesaro con la Pie-tà-Unzione di Cristo), evidenziando come la rivoluzione visiva di Piero si sia sviluppata in tutta Italia generando la nascita della pittura tonale veneziana disciplinata da una prospettiva efficace e strutturante. La sua maniera “dolce e nuova” (Vasari) non lascia in-differenti anche i fratelli Cristoforo e Lorenzo da Lendi-nara che pare avessero ottenuto dal maestro addirittura dei cartoni di cui servirsi con “diritto di riproducione il-limitata” (Longhi) e che furono certamente precoci ban-ditori del linguaggio pierfrancescano tra Emilia, Veneto e Toscana, attraverso la tecnica della tarsia, fabbrile e allo stesso tempo supremamente “mentale”, in cui la sintesi prospettica di forma e colore si attua mediante il

certosino accostamento dei legni di diversa specie. Sapi-di pure i dipinti di Francesco del Cossa, di Ercole de’ Roberti, di Bartolomeo degli Erri, di Perugino e Barto-lomeo della Gatta. Come non emozionarsi di fronte al supremo nitore formale del busto marmoreo dedicato in mortem alla consorte di Federico da Montefeltro da Francesco Laurana?

Felice Casorati, Silvana Cenni, 1922, tempera su tela. Collezione privata

Il percorso della mostra prosegue ricostruendo, attra-verso una serie di capolavori, la riscoperta avvenuta a metà dell’Ottocento a Firenze grazie alla speciale sinto-nia tra Edgar Degas, Pierre Puvis de Chavannes e i Mac-chiaioli. Tra questi ultimi Silvestro Lega, Odoardo Bor-rani, Telemaco Signorini salirono sui ponteggi allestiti dal “re dei restauratori” Gaetano Bianchi chiamato a

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consolidare e recuperare con estese integrazioni, tra il 1858 e il 1861, gli affreschi aretini allora in grave perico-lo conservativo. Tra tutte le opere della sala spicca Il canto di uno stornello di Lega, nel quale le tre sorelle Batelli appaiono plasmate, nell’atmosfera limpida e ra-refatta, in volumetrie cadenzate e raggruppate come le figure femminili nell’Adorazione del sacro legno. La suggestione di Piero risulta determinante nel conferire sacralità al lavoro quotidiano raccontato da Michele Te-desco, Silvestro Lega e Adriano Cecioni, affini nel ren-dere i corpi luminosi, fissati in profili perduti e in gesti solenni. L’ariosità dei paesaggi pierfrancescani ripresi a volo d’uccello si ritrova in Tedesco e Lega mentre Signo-rini e Francesco Saverio Altamura declinano lo spazio e le architetture attraverso geometrie nitide e misurate, eternate nella luce zenitale.

Massimo Campigli, Le cucitrici, 1925, olio su tela. Mu-seo Statale Ermitage, San Pietroburgo

L’interesse di Georges-Pierre Seurat prelude a quella che sarà la straordinaria fortuna di Piero nella pittura della prima metà del Novecento, dalla metafisica di Car-lo Carrà, Giorgio Morandi, Achille Funi fino a Felice Ca-

sorati. Proprio due capolavori pressoché contempora-nei, L’amante dell’ingegnere di Carrà (1921) e la Silva-na Cenni di Casorati (1922), rivelano, nell’omaggio esplicito a due tra le più note e celebrate opere di Piero, il Ritratto di Battista Sforza e la Madonna della Mise-ricordia, la volontà del recupero di una identità “italia-na e mediterranea” che era andata smarrita. Lo stesso Funi dichiara che “il rifarsi liberamente a un Masaccio o a un Piero della Francesca era per noi un riferimento più spirituale e civile che concettuale”. Piero pervade la pittura tonale di Massimo Campigli e Virgilio Guidi. Di entrambi in mostra sono opere realmente considerevoli, tra tutte si segnalano del primo Le cucitrici, dove le fi-gure divengono stilizzati volumi intrisi di luce, e La spiaggia (La fotografia), capolavoro assoluto eseguito nel 1937 per l’ufficio Marmont arredato da Gio Ponti nel palazzo della Ferrania a Milano. Del secondo il Ritratto della madre (1914-15) e In tram (1923) nelle quali im-perativa si fa una straniante luce diffusa cadenzata da presenze immote serrate nei loro gesti bloccati ma iera-tici. Impossibile non rimanere affascinati dal realismo magico di Antonio Donghi, dal neorealismo della Scuola Romana di Corrado Cagli e Giuseppe Capogrossi.La mostra si chiude con una sala dedicata a Balthus e a Hopper, dichiarando di fatto che l’eredità di Piero della Francesca è stata traghettata e definitivamente conse-gnata alla contemporaneità attraverso questi due geni. Il primo, Balthazar Klossowski, rimane folgorato nel 1926 dal suo primo viaggio in Italia che lo porta alla scoperta di Giotto, Piero della Francesca, Masaccio e Masolino da Panicale, Simone Martini e Pisanello fa-cendo propria la personalità pittorica di ognuno di essi; per il secondo, invece, gli incontri con Piero non sono documentati, diversamente da quelli con Courbet, De-gas, Whistler. La luce delle sue vedute urbane, il con-trollo dello spazio e l’atmosfera atemporale tradiscono visioni contemporanee più affini al linguaggio del cine-ma. Forse non è azzardato pensare che, nella serrata co-struzione geometrica e luministica dei suoi paesaggi ur-bani, dominati dal silenzio e ripresi lungo i ponti e le ferrovie, la suggestione dell’“isolamento plastico e mo-rale” e della “liquida solennità del lume zenitale” di Pie-ro sia stata decisiva.Una volta finito il percorso “nella luce di Piero” rimane innominato e innominabile quello strano senso di stu-pore sospeso, di emotività metafisica, di intensa eppur immota energia.

Elisabetta Pozzetti, laureata in Conservazione dei beni cultura-li con specializzazione in Beni storici artistici, è art curator presso l’agenzia di comunicazione visiva Studio Chiesa.

www.intersezioni.eu

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