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Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo - Mariella Gramaglia

Date post: 13-Dec-2014
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Scheda bibliografica
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Mariella Gramaglia Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo
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Mariella GramagliaIndiana. Nel cuore della democrazia più

complicata del mondo

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Titolo: Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo.

Autore: Mariella Gramaglia

Editore: Donzelli

Pubblicazione: 2008

Pagine: 218

Biografia (Da Ordito e trama, il blog di Mariella Gramaglia)

Mi chiamo Mariella Gramaglia, sono nata a Ivrea e mi sono laureata in filosofia nel

1972. Tra Palazzo Campana, Mirafiori, Vanchiglia e Palazzo Nuovo ho visto molte albe

lungo i viali e sotto i portici, quando Torino era fiammeggiante di molte passioni, ma

non ancora swinging. Poi Roma e il femminismo, la grande scoperta della mia vita:

quando i cuori delle donne hanno cominciato a cantare solo quando ne avevano voglia

loro. Insieme alla politica ho cominciato il lavoro giornalistico: al manifesto, alla Rai, al

Lavoro, nelle riviste e infine a Noidonne, come direttrice nel 1985. Intanto nascevano

due figli: Maddalena e Michele. Oggi due adulti, con dei bei sorrisi e due teste piene di

idee. Nel 1987 sono stata eletta al Parlamento Italiano nella sinistra indipendente. Dai

banchi della Camera ho visto qualche transatlantico della prima repubblica abbandonare

gli ormeggi e qualcun altro restare saldamente alla fonda, ho visto cadere il muro di

Berlino e spiegare al vento le bandiere bucate proprio là dove stavano gli odiati simboli

del comunismo. Ho accompagnato convinta Occhetto nell’avventura della nascita del

Pds. Dal 1994 mi sono misurata con il governo locale. Tredici anni al Comune di

Roma, prima con Francesco Rutelli con compiti manageriali, poi con Walter Veltroni,

di nuovo nella politica come assessore. Ho lavorato tanto, con quella fatica artigiana e

quotidiana che difficilmente si pratica altrettanto in altri ruoli politici. L’elenco tecnico

delle cose fatte per cercare di semplificare la vita dei cittadini, comunicare con loro e

ascoltare il loro punto di vista, sarebbe lungo e noioso. Quello che conta è la sostanza: la

consapevolezza vissuta che i diritti dei cittadini non si esercitano solo una volta ogni

cinque anni per votare, ma sono il sale della democrazia ogni giorno. E che la loro

dignità, la loro uscita dal ruolo di sudditi o di clientes, è uno straordinario valore per il

quale impegnarsi. Oggi, maggio 2007, lasciato il mio incarico di assessore, comincia

una nuova storia. Vado in India, ad Ahmedabad, Gujarat, a collaborare con Sewa, un

importante sindacato autonomo di donne, su incarico di Progetto Sviluppo e della Cgil.

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Dico solo che non sto scappando né dall’impegno, né dalla politica, che non ho una

personalità particolarmente eroica o spericolata e che mi sto facendo un bellissimo

regalo di libertà.

Abstract

Un proverbio indiano recita: «qualunque cosa tu dica dell’India, è sempre vero anche il

suo contrario». Schiacciati da tanta complessità, noi occidentali abbiamo spesso scelto

di racchiudere un oceano sconfinato di differenze nelle piccole ampolle dei nostri

stereotipi. La spiritualità esercitata fino allo sfinimento, il fatalismo arreso di fronte al

dolore di vivere, il furore primitivo delle mille rivolte di comunità e gruppi religiosi, la

povertà estrema sopportata dagli umili e inflitta dai potenti come un destino. Finché,

con gli anni novanta, ecco farsi strada prepotentemente nell’immaginario occidentale

l’ultimo dei clichés: l’India sfavillante, l’India che cresce, l’India del Pil da primato, la

terra delle stelle di Bollywood, dei miliardari in dollari, dei supermanager

dell’informatica neppure trentenni. Un’immensa minoranza, di oltre cento milioni di

persone, fa tendenza nel mondo. Ma intanto, l’altra India, quella degli ottocento milioni

di esseri umani che vivono con un dollaro al giorno, quella dell’analfabetismo

femminile di poco inferiore al 50%, è rimasta uguale a se stessa? Mariella Gramaglia è

vissuta un anno nel subcontinente. Dopo un lungo impegno nel femminismo, nella

politica italiana e nelle istituzioni, ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di

promozione dei diritti. Lavora in Gujarat, con Sewa (Self Employed Women’s

Association), l’unico sindacato autonomo di donne nel mondo che conta un milione di

iscritte, e in Tamil Nadu, dove ferve la ricostruzione dopo lo tsunami. Il suo è un diario

di vita, di ricerca, di lavoro. Attraverso incontri, sguardi di donne e uomini, vicende

pubbliche e dettagli della vita quotidiana, cerca di saggiare la temperatura del suo

legame con l’India e della sua comprensione di quel mondo. Non nega né la modernità,

né la speranza, ma le affida, più che alla borsa di Mumbai, al coraggio delle tante e dei

tanti che si battono per la loro dignità.

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Indiana. Nel cuore della democrazia più complicata del mondo

Indiana è la trasposizione in forma di racconto di un’esperienza di vita di Mariella

Gramaglia. L’autrice del libro riporta in forma scritta pensieri, suggestioni,

considerazioni ed insegnamenti che derivano da un anno di permanenza in India, e che

hanno determinato un mutamento del suo modo di vedere e percepire il mondo. Dopo

un lungo periodo di sentito impegno nel femminismo, nella politica italiana, nelle

istituzioni, la Gramaglia ha scelto di dedicarsi a progetti di solidarietà e di promozione

dei diritti. Già dalle prime pagine del testo, è possibile comprendere quale sia l’obiettivo

dell’autrice: dipingere e diffondere un’immagine del contesto geografico indiano che sia

il più possibile oggettiva e comprensiva di tutte le caratteristiche che connotano questa

antica e complessa cultura, mediante il continuo riferimento alla fase della sua vita

dedita allo studio della società indiana. In quanto attenta e coscienziosa “osservatrice

partecipante”, la Gramaglia si lascia coinvolgere dal nuovo sistema culturale,

assimilandone il funzionamento, e condividendone pienamente gli assunti ideologici che

ne strutturano le fondamenta: “Ma io coltivo anche il mio giardino. Lascio che le

indiane e gli indiani mi cambino e mi facciano apprendere. Da quando la vista mi si è un

po’ appannata sono soprattutto alla ricerca di buoni occhiali. Per guardare meglio il mio

paese domani. Magari con gli occhi resi più precisi dalla lontananza con cui di solito

guardiamo solo i paesi degli altri”.

La prima sezione contiene alcuni riferimenti prettamente autobiografici, finalizzati

a fornire le prime notazioni circa le motivazioni sottostanti allo scritto. Nello specifico,

l’autrice lavora in Gujarat con Sewa (Self Employed Women’s Association), l’unico

grande sindacato autonomo di donne del mondo, con un milione di iscritte e

un’organizzazione figlia del femminismo, oltre che del movimento sindacale:

l’ambizioso programma di questo ente riguarda un progetto di alfabetizzazione e

formazione in un paese dove circa metà della popolazione femminile è ancora

analfabeta. Ed ancora, in Tamil Nadu, insieme agli altri sindacati confederali italiani,

alla Confindustria e al consorzio europeo Solidar, M. G. collabora alla ricostruzione di

un lembo di costa devastata dallo tsunami. Il suo è un diario di vita, di ricerca, di lavoro.

Per evidenziare l’incremento dell’importanza e della rilevanza della posizione che il

subcontinente indiano progressivamente sta occupando nel più ampio dibattito

mondiale, e per sottolineare la necessità di costruire e promuovere un’immagine

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dell’India che rifletta in modo più pertinente la sua reale identità, l’autrice cita due

diverse opere che si caratterizzano per il presentare descrizioni dell’area indiana

totalmente opposte tra loro. La prima, India, il paradiso dei giovani, di Federico

Rampini, presenta un paese idillico, un “paradiso di speranze”, che si distingue per “la

vivacità del dibattito culturale, il gusto che permane della ricerca filosofica e spirituale,

la grazia e la mitezza delle persone, la struttura democratica dello Stato e delle

istituzioni, la mancanza di risentimenti anticoloniali, anzi il piacere della libertà, ma

anche dell’amicizia fra pari, nel confronto con gli occidentali”. La seconda, L’India

brucia, di Arundhati Roy, al contrario, dipinge un paese sull’orlo della guerra civile.

Nelle parole dell’autrice, nessuna delle due descrizioni risulta simile alla nazione nella

quale ha vissuto e nella quale sta tuttora vivendo. Per questo motivo, è necessario

presentare un quadro più oggettivo ed attinente rispetto alla reale situazione indiana.

A questo punto, l’autrice rivolge la sua attenzione a ciò che ha osservato, e che

osserva ancora nel momento in cui elabora lo scritto in analisi, in quanto esploratrice di

una terra a lei ignota: “i figli della folla”, definiti tali da Gandhi, nei loro contesti

abitativi e nei capannoni industriali; bambini di dieci anni che perdono la vista a causa

degli acidi presenti nelle ferriere in cui sono costretti a lavorare. L’India viene descritta

come “democrazia politica piena e universale”, come orientata verso un “neoliberismo

senza welfare”, strutturata solidamente in termini di coesione e compattezza dei sui

abitanti grazie al politeismo, ma, allo stesso tempo, turbata dalla lunga e tenace

tradizione d’odio e di intolleranza propria dello sciovinismo. Le precarie condizioni

economiche, i bassi livelli di sviluppo generale, i problemi legati all’esclusione sociale

ed alla sofferenza di alcune categorie, tuttavia, rendono necessario un intervento

tempestivo. Nelle parole dell’autrice, occorre operare nella direzione di un

miglioramento della situazione indiana e “lavorare per noi e per loro

contemporaneamente alla consapevolezza che la democrazia muore se non viene

nutrita”.

Inizia quindi il racconto concreto dell’esperienza di M. Gramaglia, a partire

dall’analisi del contesto geografico e delle criticità che lo caratterizzano. Nello

specifico, quello della scarsezza d’acqua è il grande dramma dell’India povera e

contadina, ma anche delle classi privilegiate: “l’acqua arriva per due ore al mattino,

dalle sette alle nove, e poi basta. Non è buona né per bere, né per cucinare”.

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L’abitazione presso cui alloggia l’autrice è collocata ad Ahmedabad, una città di oltre

cinque milioni di abitanti. Fornite queste prime notazioni di carattere descrittivo,

finalizzate a far immedesimare il lettore nell’ambiente ideologico e contestuale

nell’ambito del quale si sviluppa la costruzione del racconto, prende avvio un’attenta

disamina del Sewa, il sindacato autonomo di donne per il quale la Gramaglia lavora su

incarico di Progetto Sviluppo, l’organizzazione non governativa per la cooperazione

internazionale che fa capo alla Cgil. Il Self Employed Women’s Association è un

sindacato “senza classe operaia ”, ma anche un movimento di massa di donne con

700.000 iscritte nel solo Gujarat, la regione di Ahmedabad è infatti il punto di forza di

Sewa, e altre 300.000 circa nel resto dell’India. L’autrice sottolinea che pur essendo

“una creatura tutta indiana”, il Sewa non è affatto provinciale, ma ha contatti e

riconoscimenti in tutto il mondo. Le donne iscritte al movimento rientrano in diverse

categorie lavorative: stampatrici di tessuti, operaie edili, fabbre ferraie, venditrici di

frutta, lavandaie. A causa dell’alto tasso di analfabetismo femminile (50% circa),

l’associazione è particolarmente attenta alla “pedagogia della dignità” ed alla

salvaguardia dei diritti delle lavoratrici.

Sewa si comporta come un sindacato classico cui appartengono lavoratrici molto

povere e con la necessità di non interrompere il lavoro: “sensibilizza le donne, le

mobilita, organizza manifestazioni, apre vertenze con i padroni e le convince a ritardare

la restituzione della merce trasformata fino a vertenza finita”. Esposte le finalità

principali del Sewa, viene delineata una breve ricostruzione storica delle vicende che

hanno concorso alla fondazione dell’ente, a partire dall’eredità spirituale ed ideologica

di Gandhi fino ai contributi ed agli sviluppi più recenti. In particolare, nel 1968, dopo

tredici anni di impegno nel Tla, emerge una leader di livello nazionale, Ela Bhatt, che

comincia a studiare le tipologie di iscritte al Sewa. Con la scoperta delle differenze di

genere, nell’ambito delle operazioni di credito, a causa dell’introduzione della

possibilità per i poveri di chiedere un prestito alla Bank of India, si assiste ad un

incremento delle attività degli usurai ai quali si rivolgono quelli che non riescono a

restituire autonomamente le cifre ricevute dalla banca. Pertanto, nel 1974 Sewa fonda la

sua banca per il risparmio e il microcredito alle donne povere. Una delle tragedie contro

cui Sewa si batte è la devastazione della vita dei poveri da parte dell’usura.

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Nel 1990 nasce l’Academy, l’istituto di formazione di Sewa, che costituisce un

importante strumento di potenziamento del livello culturale generale della popolazione

femminile indiana: “dai corsi di alfabetizzazione a quelli di formazione politica, al

training per qualificare le levatrici di villaggio, all’educazione alla salute negli slum, al

recupero scolastico delle ragazzine costrette a restare a casa a badare ai fratelli più

piccoli, alla formazione informatica per le più giovani, a quella economica (per quanto

semplice) per le attiviste che si occupano della banca e delle assicurazioni”. Dopo aver

indicato le principali finalità del sindacato, l’autrice racconta il suo incontro con Ela

Bhatt, fondatrice di Sewa, che tuttavia dal 1994 non ricopre più l’incarico di segretaria

generale dell’associazione.

Ela Bhatt, leader per il movimento femminista e sindacale di tutto il mondo,

nonché membro del parlamento federale, è autrice della più importante inchiesta

parlamentare sulle donne dell’India indipendente. Vengono riportate le parole della

fondatrice di Sewa, la quale, in pieno accordo con l’autrice, espone il suo punto di vista

sul ruolo e sulle potenzialità delle donne indiane e sull’ideologia femminista:

“Femminismo per me significa credere nella profonda uguaglianza della differenza. Se

penso al mondo dal punto di vista dello sviluppo e della povertà, penso che le donne

sono le leader dello sviluppo. Sul piano delle relazioni internazionali concrete, per me è

stato decisivo il rapporto con i sindacati. Il nostro ruolo nel movimento sindacale oggi è

riconosciuto ovunque, a livello federale indiano come nelle assise internazionali. Siamo

state noi a porre in quelle sedi il problema del lavoro informale, del lavoro non tutelato.

Il 50 % della massa di questi lavoratori, i più poveri del mondo, è costituito da donne”.

A sostegno di questa ideologia, la Gramaglia pone una serie di drammatici racconti

finalizzati a descrivere le condizioni di povertà e degrado nelle quali le indiane degli

slum sono costrette a vivere, ed a mettere in evidenza le capacità di adattamento e la

forza interiore che le contraddistinguono. Nello specifico, viene esposta la missione di

Chanchalma, la levatrice del villaggio di Pasunj, impegnata nell’assistenza delle donne

incinte e delle puerpere. Sewa ha dato vita, insieme ad altre associazioni, ad un progetto

a sostegno delle dai (levatrici) al fine di renderle effettive operatrici sanitarie di base.

Queste sono costrette a lavorare negli slum in condizioni igieniche estremamente

precarie senza potersi servire di adeguate attrezzature mediche. In particolare, lo slum

ricalca la struttura del villaggio, imitandone i moduli in maniera impoverita: “abitazioni

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a quadrilatero, area interna per gli animali e gli attrezzi per i lavori a domicilio di fabbri,

di tessitori, di tintori, cortili comuni per affiancare i charpoi (brande di legno) quando il

caldo nelle capanne anguste diventa insopportabile, pozzi e minuscoli templi, talvolta

poco più grandi del seggiolino di un bimbo, ma frequentemente ridipinti di fresco in

colori accesi e contrastanti con quelli delle case, quasi a sottolineare cromaticamente la

rilevanza simbolica del sacro”. Negli slum è possibile incontrare le sigaraie di bidi, la

sigaretta indiana dei poveri prodotte da donne e bambini, costretti in tal modo a

respirare continuamente polvere di tabacco con relativa esposizione al rischio

tubercolosi. In questo ambiente di lavoro, Sewa ha condotto lotte epiche, ottenendo che

il salario minimo venisse effettivamente applicato, divenendo l’autorità garante per il

rilascio e l’autenticità delle carte di lavoro, istituendo un centro medico per la

prevenzione e la cura delle malattie legate al lavoro. In India le donne si ammalano

molto facilmente, a causa di numerosi fattori legati all’ambiente ed alle condizioni di

degrado generale in cui esse sono costrette a vivere: “Qui la tubercolosi non conosce

distanze metaforiche. È presente, angosciosa, è la malattia più diffusa per la quale si

muore e, al momento, ha aggredito in maniera conclamata un numero imprecisato di

persone, di cui trecento (sembrano un’enormità, ma forse sono pochissime rispetto ai

malati che nessuno riesce a raggiungere) vengono curate dal centro specializzato gestito,

assieme ad altri nove in città, da Sewa”.

Il Rann del Kachchh, il “deserto di sale” del quale vengono descritte le

caratteristiche principali, funge da scenario per l’esposizione di una serie di interventi di

recupero di Balasar, piccolo borgo confinate con il deserto, strutturato dalla

cooperazione italiana dopo il terremoto del 26 gennaio 2001: Movimondo è appunto un

programma di agricoltura sostenibile per undici villaggi che si propone di far

condividere ai contadini banche di sementi, di sostenere l’agricoltura, di favorire i

gruppi di risparmio e microcredito bancario. Una breve sosta a Nilpar, dove è presente

una grande scuola gestita dal Gss (Associazione per l’autogoverno locale), consente

all’autrice di assistere alla Raksha Bandhan, la festa di fratello e sorella, nell’ambito

della quale maschi e femmine si scambiano un braccialetto di stoffa in segno di

reciproca protezione. In tal modo, la Gramaglia offre al lettore la possibilità di avere una

visione completa della cultura indiana, anche in termini di riti, simboli, usi e costumi.

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Una sezione ricca di riferimenti storici, culturali, politici e sociali è altresì quella

dedicata alla figura di Gandhi, guida spirituale e punto di riferimento per l’intero popolo

dell’India antica e moderna. Tuttavia, i seguaci della destra induista, nelle parole

dell’autrice, hanno sempre, più o meno silenziosamente, detestato Gandhi ed il suo

ecumenismo etnico-spirituale. Invece, nell’India ricca e disinvolta egli rappresenta

“un’icona postmoderna, deterritorializzata: promuove l’orgoglio nazionale, ma

promuove anche il business”. Sonia Gandhi ha ottenuto che il 2 ottobre di ogni anno,

l’Onu festeggi l’anniversario della nascita del padre della non-violenza, avvenuta nel

1869, con una giornata mondiale dedicata alla pace. Nello stesso tempo, però, il

marchio “Gandhi” è in vendita sul mercato mondiale: “lo ha comprato l’agenzia

americana CMG Worldwide, che detiene i diritti anche su altre icone mondiali, e lo ha

già venduto a Telecom Italia, che ne ha addobbato per mesi la scalinata di Trinità dei

Monti a Roma, e alla Apple americana”. Quindi, si disegna a grandi linee la mappa della

destra indiana: il BJP (Bharatiya Janata Party: Partito del popolo indiano) è

l’espressione politica e istituzionale della destra indiana; il VHP (Vishwa Hindu

Parishad: Consiglio mondiale degli hindu) ne è l’anima religiosa; la RSS,

un’organizzazione parlamentare diffusa tra i giovani che amano la disciplina e gli

esercizi ginnici, che esprime il radicalismo politico diffuso del movimento.

A questo punto, la narrazione inizia a contestualizzarsi, in termini di cornice

cronologica, in epoche più recenti, focalizzandosi su problemi e tematiche dell’India

contemporanea. Dunque, un’analisi di tipo diacronico, finalizzata all’esposizione dei

tratti peculiari del subcontinente assunti nel tempo, ed allo stesso tempo un’indagine

esplorativa di tipo sincronico, atta a verificare l’eventuale risoluzione delle diverse

questioni affrontate, nonché l’emergere di ulteriori elementi di criticità.

Nello specifico, l’autrice fa riferimento alla tragedia dello tsunami che, in quel

tragico 26 dicembre del 2004, provocò la morte di decine di migliaia di persone, e la cui

minaccia tuttora incombe a Velanganni, nel distretto di Nagapattinam. Pur avendo

rappresentato un fenomeno dalle indescrivibili capacità distruttive, pur avendo segnato

indelebilmente i sopravvissuti nel corpo e nell’anima, tuttavia, il ricordo dello tsunami è

anche un punto di svolta che dà forza: molte donne hanno scoperto il valore della

solidarietà, hanno imparato a fare affidamento sulle proprie forze senza dover dipendere

dal marito, hanno raggiunto uno status di indipendenza ed emancipazione. Particolare

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rilevanza è data alla sfera religiosa, attraverso descrizioni emotivamente coinvolgenti e

particolareggiate. Nell’area di Nagapattinam ed in tutto il Sud dell’India, regna

un’atmosfera di preghiera, di raccoglimento, di alta religiosità legata ai simboli dei riti e

della tradizione: “le religioni si intrecciano e si mescolano in una strana comune koinè,

fatta di devozione, talvolta di evidente superstizione, ma anche di apertura allo stupore

verso il mondo e di autentica spiritualità”. Ciò fa da sfondo alla descrizione del tempio

di Madurai ed alle attività ad esso connesse.

In India il rapporto che lega l’individuo alla preghiera è intimo, costante ed

imperituro, si connota per una coloritura panteistica che accompagna ogni singolo gesto.

Il fulcro della fede jain è la non violenza fino al limite estremo, la sconfinata

compassione per ogni essere vivente, il sentimento di connessione ad un prossimo senza

confini geografici o biologici. L’attenzione si sposta poi su Phoolan Devi, “regina dei

banditi”, una contadina analfabeta la cui determinazione ha costituto un esempio

emblematico del potenziale rivoluzionario delle donne, poiché, nelle parole dell’autrice,

“per due anni, dal 1981 al 1983, tenne in sacco con suoi uomini la polizia federale,

trattò la resa sua e della banda sotto la protezione del ritratto della dea Durga, di fronte a

una folla di settemila seguaci, e riuscì persino, dopo dieci anni di carcere, ad essere

eletta in parlamento prima di venire assassinata, probabilmente per vendetta, nel 2001”.

Alquanto complessa è la situazione delle donne indiane dal punto di vista politico e

socioculturale. Infatti, le quote di rappresentanza femminile non sono riuscite a vincere

l’arcaico maschilismo che connota tuttora il potere locale. I giudici delle corti statali e

federali spesso intervenire al fine di limitare gli abusi di potere dei sarpanch (presidenti

dei consigli locali) che, nelle zone più arretrate, vengono considerati capi tribù

autorizzati anche a comminare pene severe. M. Gramaglia nota come le donne si

caratterizzino per un’insita proprietà tipica del loro genere, ossia la non riducibilità in

gruppo e quindi a problema sociale, “a pura rappresentanza cangiante di interessi”.

Un altro cardine della cultura indiana, quello della comunicazione del corpo

attraverso simboli condivisi, viene preso in analisi dall’autrice in termini di aderenza

delle donne alle regole ed ai canoni di cura ed ornamento dei propri corpi, secondo

criteri socialmente determinati: “In India il corpo è una foresta di simboli. L’abito lo

orna, lo copre, lo disegna socialmente, ne codifica il pudore, ma non lo umilia”. Il sari,

l’abito delle donne indiane, la tikka, il tipico punto rosso posto sulla fronte che indica il

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loro essere sposate, gli anelli e le cavigliere d’argento, segni di possesso che alludono al

dominio dell’uomo, rappresentano solo alcuni dei numerosi codici di comunicazione del

corpo nella cultura indiana.

AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” -

DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE

SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO

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