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Indice - Ufficio Catechistico Diocesano Bologna - Home · 2014-11-20 · L’evento di Gesù Cristo...

Date post: 16-Feb-2019
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Indice

Capitolo 1: Per un ritratto di Gesù Cristo – don Erio Castellucci…………. pag. 3

Capitolo 2: La scelta cristologica e antropologica del progetto catechistico

italiano – don Valentino Bulgarelli……………………...... pag. 18

Capitolo 3: Come comunicare il mistero della morte e risurrezione di Gesù nella

cultura contemporanea ……………………………………… ..pag. 26

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1. Per un ritratto di Gesù Cristo

Elementi essenziali per i catechisti

Don Erio Castellucci

L’evento di Gesù Cristo è un mistero inesauribile per l’intelligenza, la volontà dell’uomo. È il perno della fede cristiana, il nucleo attorno al quale nasce la Chiesa, la ragion d’essere dell’evangelizzazione e della catechesi.

Circolano migliaia di articoli, libri e opuscoli su Gesù, molti dei quali si presentano e sono strumenti ottimi anche per i catechisti. Questo piccolo sussidio non ha la pretesa di presentare esaustivamente l’evento di Cristo e neppure di costituire una sintesi di “cristologia”, ma ha il solo scopo di tracciare i “punti fondamentali” – ad uso dei catechisti – per una presentazione adeguata della figura ed opera di Gesù Cristo. I catechisti che intendono approfondire l’argomento, possono utilmente leggere Il Catechismo dei giovani/2 della CEI, “Venite e vedrete”, alle pagg. 12-174 (corredato di utilissime schede su vari aspetti di carattere storico e culturale) e il primo volume del Progetto di Pastorale Giovanile dell’Arcidiocesi di Milano, Il mistero di Cristo. Spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui, ed. Centro Ambrosiano 2011, pagg. 146. Più impegnativi, ma ricchi di contenuti anche per la catechesi, sono i due volumi di J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp. 446; Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 380. Agile, accattivamente ma profondo, utilizzabile direttamente anche con ragazzi e giovani, è il ritratto che il Card. Giacomo Biffi ha offerto della figura di Gesù nell’opuscolo Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, LDC, Torino 1996, pagg. 16.

Gli elementi che mettiamo a fuoco, per tentare un ritratto della persona e opera di Gesù, sono cinque: 1) Il cammino dell’incarnazione fino alla croce; 2) La risurrezione come punto di partenza dell’annuncio di Cristo; 3) La predicazione, gli incontri e i miracoli; 4) L’identità di Gesù; 5) L’equilibrio tra l’umano e il divino in Cristo.

1) Il cammino dell’incarnazione fino alla croce

Il ritratto di Gesù non è uno schizzo in bianco e nero ma una vivace tela a colori, tenui alcuni e altri più intensi. È un ritratto dinamico, mosso, non una raffigurazione statica e immobile. La sua vita è un cammino di progressivo affidamento al Padre (“obbedienza”), nella missione che gli indicava di condividere la situazione degli uomini (“assimilazione”). Questo duplice processo, che si chiama incarnazione – la cui logica è racchiusa nel duplice comandamento dell’amore – è stato appunto in Gesù un cammino, una crescita graduale. All’interno della consapevolezza di essere “il Figlio” in un rapporto unico e insostituibile con Dio, il suo “abbà” (Mc 14,36), le modalità della sua figliolanza e missione si sono precisate davanti agli accadimenti. La lettera agli Ebrei esprime in questa famosa sentenza la progressiva immersione di Gesù nel Padre e nei fratelli: “(Gesù), pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì” (Ebr 5,8). Cristo “impara” progressivamente ad obbedire, proprio attraverso le sofferenze che deve sopportare, ed è in questa obbedienza che entra sempre di più nel mistero di Dio e dell’uomo. La vicenda di Gesù è l’intensificarsi di questo suo affidarsi in maniera sempre più piena al Padre, dal primo momento della sua incarnazione, quando il Figlio dal grembo della Trinità si abbassa nell’umanità e ne accetta i condizionamenti e i limiti, fino al momento in cui, sulla croce, si affida al Padre. I momenti di questa maturazione di Gesù si possono individuare a grandi linee nel Nuovo Testamento, senza pretendere di esaurire il mistero del cuore di Gesù. Questi momenti-

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chiave della vita di Gesù sono nello stesso tempo tappe del progressivo abbassamento di Dio verso l’uomo e del progressivo innalzamento dell’uomo verso Dio.

“Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14)

La prima tappa di questo cammino è l’atto stesso dell’assunzione della natura umana da parte del Figlio di Dio. “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina (...) spogliò se stesso, divenendo simile agli uomini” (cf. l’inno di Fil 2,6-11). “E il Verbo si fece carne” (Gv 1,14). È il primo gradino della discesa: il Figlio di Dio si fa uomo, umiliandosi, abbandonando la ricchezza divina. Paolo, nel brano citato, utilizza una parola molto forte: “si annientò”, “si svuotò”; in questo modo ci vuole dare un’idea dell’incredibile gesto operato dal Figlio di Dio con l’incarnazione: Lui, che aveva tutto, anzi che era la Vita stessa, ha voluto tirarsi addosso una carne di morte, un corpo destinato alla corruzione.

Ed è questo anche il primo momento di “innalzamento” al Padre, perché venendo nel mondo Cristo ha fatto proprio il Salmo: “Ecco io vengo, o Signore, per fare la tua volontà” (cf. Ebr 10,7.9). L’ingresso nel mondo è dunque nello stesso tempo il primo gradino dell'abbassamento sofferente di Dio verso l’uomo e dell’innalzamento obbediente dell’uomo verso Dio. Decidendo di farsi carne, il Verbo si è liberamente assoggettato alle limitazioni spazio-temporali e psicologiche dell’uomo, ha deciso di sottomettersi alle leggi umane della crescita graduale.

L’incarnazione, oltretutto, è avvenuta nella forma della “povertà”: Gesù entra nel mondo non attraverso una reggia ma una mangiatoia e non viene accolto da tutti, anzi viene perseguitato e fa l’esperienza dell’esilio. Da subito dunque “impara” da ciò che “patisce”. Il colore bianco della gioia si mescola fin dall’inizio, nella vita di Gesù, al colore rosso della violenza e della persecuzione.

“Tornò a Nazaret e stava loro sottomesso” (Lc 2,51) Quando si parla di un grande personaggio, si cerca di mettere in luce anche la sua formazione, il suo

ambiente, le doti che mostra già da piccolo e le qualità che sviluppa a poco a poco. Di Gesù invece niente. Sembra quasi che sbuchi fuori all’improvviso da Nazaret e cominci dal nulla la sua carriera pubblica.

È per questo che nei secoli successivi sono nati tanti racconti “apocrifi”, costruiti al di fuori dei quattro Vangeli, per raccontare nel dettaglio l’infanzia e l’adolescenza di Gesù. In questi scritti tardivi emerge un ritratto molto colorito e miracolistico di Gesù: invece di presentare un bambino che, come dice Luca, “cresceva in sapienza, età e grazia” (Lc 2,52), presentano un bambino-prodigio che sa già tutto, che fa i miracoli fin dall’inizio e si muove come un adulto in miniatura. In questo modo veniva magari soddisfatta la curiosità popolare, a prezzo però della piena “umanità” di Gesù. Calcare la mano sulla sua eccezionalità, voleva dire dimenticare che il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha accettato di crescere, come ogni altro uomo, nella conoscenza e nell’esperienza.

Il silenzio quasi assoluto dei Vangeli su quello che è successo a Gesù nei primi trent’anni della sua esistenza terrena è un prezioso invito a considerare il silenzio di Nazaret come una lunga preparazione alle parole e ai gesti della vita pubblica. Gesù ha voluto vivere per trent’anni a contatto diretto con l’umano, prima di iniziare, con il battesimo, il percorso che avrebbe svelato la sua identità divina. È come se Gesù volesse manifestare la sua natura divina solo dopo avere lungamente sperimentato la natura umana. Pensiamo alle proporzioni della sua vita: trent’anni di ascolto e silenzio, tre anni di parole e incontri, e in tre giorni le cose essenziali: passione, morte e risurrezione. Perché le parole e i gesti importanti nascono dall’ascolto e dal silenzio. I trent’anni di Nazaret sono stati la grande scuola di Gesù: prima di essere maestro nella parola e nelle azioni è stato discepolo nell’ascolto e nel silenzio. A Nazaret – poche migliaia di abitanti – ha vissuto la normale vita di una famiglia, ha lavorato come artigiano con Giuseppe, ha incontrato gli amici e imparato ad inserirsi nella vita sociale. Ha ascoltato lungamente le cose umane, per essere più incisivo quando avrebbe poi annunciato le cose di Dio.

È stata la vita semplice e quotidiana di Nazaret a renderlo così capace di leggere il cuore umano; le relazioni in famiglia gli hanno dato quella ricchezza di sentimenti che lo porterà ad interessarsi di tutti; le amicizie di Nazaret l’hanno reso poi così sensibile alle relazioni umane, così attento alla fedeltà nelle amicizie maschili e femminili; il duro lavoro quotidiano nell’officina paterna ha plasmato quel carattere determinato e quella capacità di mantenere la parola data, che lo porteranno alla croce. Dio, certamente,

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lo ha sostenuto e illuminato nei tre anni della vita pubblica, ma i fondamenti della personalità di Gesù sono stati posti nei trent’anni della vita nascosta.

“Quando iniziò il suo ministero aveva circa trent’anni” (Lc 3,23) Una nuova tappa della crescita di Gesù è l’inizio nella vita pubblica attraverso la penitenza e la

tentazione. L’ingresso di Gesù nella vita pubblica avviene attraverso una porta strana e apparentemente poco adatta ad un Messia. Non bastava che un trentenne se ne andasse di casa celibe e senza la sicurezza di un lavoro: due elementi che da soli bastavano a compromettere la reputazione di un giudeo adulto dell’epoca; Gesù sceglie inoltre i due segni della penitenza e della tentazione. “Comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (…). Gesù dalla Galilea andò al Giordano per farsi battezzare” (Mt 3,1-2.13). Senza averne bisogno, Gesù si mette in fila con i peccatori e si sottopone a quel battesimo che è segno di penitenza, di “lavaggio” dei peccati in vista della venuta del Regno di Dio ormai imminente. Poi “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo” (Mt 4,1). Si presentava a Gesù una via messianica facile, che passava attraverso l’esercizio del potere, della violenza, del prestigio... Il diavolo ha stimolato la “carne” di Gesù facendogli balenare davanti questa prospettiva. Gesù l’ha rifiutata, rinunciando a perseguire facili progetti umani di autorealizzazione.

Questo ingresso è un altro gradino che unisce l’uomo a Dio: mistero di abbassamento, in quanto il Figlio di Dio, che avrebbe potuto tranquillamente evitare questo passaggio stretto poiché in lui non vi era peccato (cf. Ebr 4,15) ha voluto invece addossarsi anche la condizione tentata della creatura peccatrice, entrando così più a fondo nella condivisione dell’umano; mistero di innalzamento, in quanto Gesù, vincendo la tentazione diabolica del potere e del successo, ha rafforzato la sua scelta di obbedire al Padre, che gli stava indicando una via messianica molto diversa e ben più dura. Proprio in questi momenti di abbassamento Gesù è riconosciuto dal Padre come “il Figlio prediletto” (cf. Mt 3,17) e lui riconosce Dio come l’unico che merita adorazione (cf. Mt 4,10).

“Stavano per venire a prenderlo per farlo re” (Gv 6,15) Un’altra tappa dell’unione progressiva tra uomo e Dio nella persona di Gesù si può considerare la

rinuncia all’approvazione e agli onori, ai quali Gesù venne designato spesso, specie nella prima parte della sua vita pubblica. Il diavolo se n’era andato dopo le tentazioni nel deserto, ma la mentalità diabolica continuava ad agire, in forma più sottile, nel desiderio che la folla aveva di consacrare Gesù “re” per poter ricevere da questo... mago qualche beneficio. “Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Gv 6,15). La folla gli fa balenare davanti agli occhi la prospettiva di un facile esercizio del potere, di una vita piena di successi e consensi. Ma Gesù sceglie la strada difficile che il Padre continua a indicargli, la strada dell’amore: una strada in salita: “sulla montagna”; una strada senza folle acclamanti: “tutto solo”.

La fama presso la pubblica opinione; la facile condiscendenza verso le attese della folla... furono altrettante tentazioni alle quali Gesù resistette e per le quali patì. Ancora più che l’abbandono delle folle dovette pesare a Gesù la critica delle persone ragguardevoli, specialmente i farisei, che mettevano in cattiva luce Gesù per le sue frequentazioni poco raccomandabili: pubblicani, peccatori, prostitute (cf. Lc 7,36-50).

Egli si abbassò in tal modo ancora di più, poiché sopportò anche di dispiacere agli uomini, di perdere la stima della pubblica opinione e di coloro che la influenzavano; ma nello stesso tempo si innalzò ancora di più, perché anche questa scelta lo fece crescere nell’affidamento al Padre, nella scelta di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.

“Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67)

Fu più difficile ancora per Gesù rinunciare alla stima delle persone care, quelle vicine, quelle dalle quali poteva attendersi un appoggio. È un’altra tappa che Gesù percorre, la disponibilità a rinunciare all’amicizia pur di portare fino in fondo il piano del Padre. Gesù raggiunse anche questo gradino, uno dei più dolorosi per un uomo: abbandonare, se necessario, anche gli affetti dei propri cari (parenti, amici)

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pur di non abbandonare il progetto di Dio. E se i Dodici continuarono a seguirlo anche dopo quelle dure parole, sotto la croce comunque quasi nessuno di loro condivise il suo sacrificio.

Più si avvicinava alla morte, anzi, più “i suoi” sembravano allontanarsi da lui. Più sentiva il bisogno della loro vicinanza, compagnia e vigilanza, più li avvertiva distratti, assonnati e incoerenti: “Restate qui e vegliate con me! (…) Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” (Mt 26,38.40). Mentre Gesù annuncia la sua prossima passione, i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande (cf. Mc 9,34); mentre Gesù stava per offrire il suo corpo e il suo sangue nel pane e nel vino, anticipo dell’offerta reale della sua vita sulla croce, Giuda stipulava un contratto di compravendita a tradimento (cf. Mt 26,14-16); mentre Gesù subiva l’ingiusto processo che lo porterà alla morte, Pietro lo rinnegava per paura (cf. Mt 26,69-75). Ma per lui nessuno degli apostoli, per quanto fragile, diventava “nemico”; persino a Giuda, nell’attimo del tradimento che avviene con un segno di amicizia, il bacio, Gesù riservò il titolo di “amico”: “Amico, per questo sei qui!” (Mt 26,50).

Non è dunque Gesù che ha tradito l’amicizia o l’ha incrinata – per lui tutti continuano ad essere amici, perché il suo cuore è libero dai lacci del risentimento e dell’odio – ma sono gli amici di prima che gli hanno girato le spalle. Attraverso questa grande sofferenza, l’incomprensione delle persone care, Gesù ha percorso dunque un’altra tappa del suo abbassamento verso la condizione umana, che comporta spesso tale dolorosa esperienza, e dell’innalzamento verso il Padre, al quale Gesù, ancora una volta, ha professato piena obbedienza piuttosto che assoggettarsi alle attese sbagliate dei suoi amici.

“Tutto è compiuto” (Gv 19,30) Progressivamente Gesù arriva alla condivisione totale della situazione umana: entra fino in fondo

nell’esperienza dell’uomo, compresi gli aspetti più difficili, la sofferenza e la morte. “Tutto è compiuto”: l’offerta della propria vita è il punto di arrivo dell’obbedienza di Gesù al Padre e

dell’amore di Gesù all’uomo. Ciò che salva, della morte di Gesù, non è la sofferenza in sé, ma l’amore: Gesù non ha scelto la morte perché amasse la sofferenza, ma l’ha scelta perché voleva andare fino in fondo nella condivisione della situazione umana, di cui la morte è l’elemento più enigmatico e pauroso, e nella donazione obbediente al Padre, che la morte ha espresso nella maniera più evidente: non si accetta di morire per Dio se non ci si fida completamente di Lui.

Gesù non ha mai cercato il dolore per il gusto di soffrire, ma ha sempre cercato di amare ed ha sopportato la sofferenza e la morte come prezzo dell’amore. È andato fino in fondo in quella strada così difficile che è la condivisione, ha percorso fino in fondo la via dell’amore e non ha voluto lasciarci soli neppure nell’esperienza umana più brutta, quella della morte. Davanti alla sofferenza e alla morte di Gesù nessuno può dire che il Figlio di Dio “non sa che cosa significa” vivere l’esperienza umana.

Ma non è ancora tutto. Paolo sottolinea che Gesù non ha voluto semplicemente morire – avrebbe potuto morire di vecchiaia nel suo letto o comunque onorevolmente attorniato dalla stima dei suoi –: ha voluto subire la morte “di croce”. La croce è come un buco nero, capace di risucchiare ogni speranza.

“obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).

Siamo davvero al culmine del mistero, nel punto nodale dell’unione tra Dio e l’uomo nella persona di Gesù. “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Gesù non è solo morto ma è morto in croce. Morte di croce significava morte di chi è ritenuto lontano da Dio, abbandonato perfino dal Signore. Morto fuori dalle mura della città santa, per non contaminarla. Gesù ha fatto anche questa terribile esperienza e con ciò è davvero giunto al massimo della condivisione della sofferenza umana: l’esperienza di chi sente per un certo momento Dio lontano.

La croce è il punto estremo della vicenda di Gesù, ma per capirne il senso teologico, occorre ricordare che cosa significa dal punto di vista storico. La pena della croce faceva rabbrividere i giudei. Già una pena che comportasse l’esposizione pubblica del cadavere, dagli antichi ebrei era considerata “maledizione”. Sono famose – perché poi riprese da Paolo – le affermazioni di Deut 21,22-23: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”. Qui non si parla della “croce”, ancora sconosciuta ai tempi del Deuteronomio, ma dell’uso orientale di accentuare

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l’esemplarità della pena esponendo il cadavere del giustiziato dopo la morte: lo si appendeva ad un albero o a un palo in segno di derisione e perché servisse da monito (cf. Num 25,4; Gios 10,26; 2 Sam 4,12; 21,9).

In seguito, quando in epoca romana venne introdotto l’uso della crocifissione, si applicò al crocifisso la maledizione di Deut, come appare, oltre che da Gal 3,13, anche dal Rotolo del Tempio di Qumran (64,6-13). Ai motivi già sopra ricordati di maledizione dovuta all’esposizione del morto se ne aggiunge un altro, derivante probabilmente dallo stretto legame che gli ebrei avevano sempre mantenuto (nonostante Giobbe) tra colpa e castigo divino: la morte di croce era una pena così orribile a vedersi, poiché avveniva lentamente per insufficienza respiratoria, e vergognosa, poiché era riservata a delitti gravi, che supponeva certamente una grossa colpa davanti a Dio. Il crocifisso, insomma – così si ragionava – doveva aver commesso un peccato tanto grave che persino Dio lo aveva abbandonato: altrimenti Dio non avrebbe permesso che un uomo fosse trattato in quella maniera. È per questo motivo che la crocifissione deve avvenire fuori dalle mura della città santa agli ebrei – e i romani rispettano questa sensibilità – per non contaminarla con un maledetto da Dio.

Paolo, in Gal 3,13, riprende l’idea della croce come maledizione affermando, con una espressione molto forte, che Cristo è diventato maledizione per noi (cf. anche Rom 8,3; 2 Cor 5,21; Col 2,14). Cristo-maledizione: un collegamento che si poté fare – e non certamente subito – dopo l’esperienza del Risorto, ma che era assolutamente impensabile prima di “vedere” il Risorto: non c’era alcuna possibilità di collegare l’obbrobrio della croce con la salvezza apportata dal Messia e la croce dovette dunque apparire ai discepoli l’esito fallimentare di ogni pretesa messianica di Gesù. La morte di croce dovette quindi essere, agli occhi dei discepoli, quanto di più anti-messianico poteva capitare al loro Maestro. Se già per un uomo qualunque significava maledizione divina, cosa doveva significare quando si abbatteva su uno che aveva avanzato pretese messianiche? Il prediletto di Dio che muore come il maledetto da Dio: questo contrasto è insopportabile per i discepoli, ai quali la croce apparve – su ciò convergono i dati storici – semplicemente la fine della pretesa messianica di Gesù .

Nella croce, dunque, culmina il doppio movimento di discesa del Figlio di Dio verso le bassezze umane e di ascesa del Figlio dell’uomo verso le altezze divine: anche qui un duplice mistero di condivisione e di affidamento obbediente. La croce è davvero l’incrocio tra il massimo dell’obbedienza al Padre e dell’assimilazione agli uomini, senza riserve. Perciò è già in germe la risurrezione, dove questo doppio movimento sboccia nella vita trasfigurata.

2) La risurrezione di Gesù: il “big bang” della fede cristiana Gli scienziati che studiano l’universo tendono oggi a spiegarne l’origine con la teoria del grande

scoppio iniziale, il Big bang. Circa 14 miliardi di anni fa si verificò questa esplosione di materia, che nei primi istanti era molto ridotta – era quasi tutta energia – ma poi di minuto in minuto si espandeva e dava origine, attraverso innumerevoli passaggi durati fino ad oggi, alle stelle, ai pianeti, a tutta la realtà visibile. Il nostro universo continua ancora ad espandersi a partire da quella grande energia iniziale. La risurrezione di Gesù è il “big bang” della fede: nei primi istanti ha messo in moto poche persone

ma una quantità enorme di energia; i primi testimoni capivano che era successo qualcosa di incredibile; poi, di anno in anno, di secolo in secolo fino ad oggi, tante persone sono state coinvolte in questo annuncio di fede che continua ad espandersi sulla terra. La risurrezione di Gesù è un messaggio in espansione, è una notizia che vuole raggiungere tutti. La risurrezione di Gesù è dunque come il chiodo a cui stanno appese tutte le verità di fede, il nucleo

attorno al quale ruota tutto il Credo. Al centro del messaggio cristiano non c’è una dottrina, una morale, una filosofia, una teoria ascetica: c’è un evento personale nel quale si incrociano Dio e l’uomo, l’eternità e la storia. Tutto il resto – comprese le esigenze più alte dell’etica cristiana (l’amore, il perdono, il sacrificio) ne deriva ed acquista di lì il suo significato. «È impossibile concepire un cristianesimo primitivo in cui l’annuncio fondamentale non fosse questo: Gesù è veramente risorto. Non è mai esistito un cristianesimo primitivo che abbia affermato come primo messaggio “amiamoci gli uni gli altri”, “siamo fratelli”, “Dio è Padre di tutti”, ecc. Dal messaggio “Gesù è veramente risorto” derivano tutti gli altri» (C.M. Martini, Il problema storico della risurrezione negli studi recenti, Università Gregoriana Editrice, Roma 1959, p. 51). Ogni teologia prende avvio dalla risurrezione ed è da essa che riceve il suo peso l’esistenza terrena di Gesù culminante nella croce.

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Se Cristo non fosse risorto, cosa resterebbe di lui? Che cosa in effetti rimarrebbe in piedi della persona e opera di Gesù se eliminassimo la risurrezione?

Un grande uomo? Un profeta coerente? Ma se Gesù non fosse risorto, il suo messaggio rappresenterebbe davvero un ideale da seguire?

Se Gesù non fosse risorto, si potrebbero apprezzare ugualmente – è vero – alcune qualità umane di Gesù, come la sua coerenza e il suo coraggio. Ma già a questo punto occorrerebbe sfumare: coerente e coraggioso, certo, ma non fino in fondo e sicuramente non come tanti eroi del passato, che non hanno pianto davanti alla morte di amici o al rifiuto di compaesani, né sudato sangue di fronte alla loro morte imminente e neppure hanno chiesto di esserne liberati: Socrate ad esempio è andato incontro serenamente alla propria morte e Giulio Cesare l’ha affrontata a viso aperto. Se noi apprezziamo la piena umanità di Gesù, non è perché lo confrontiamo con gli altri uomini, mettendolo sullo stesso piano, ma perché prendiamo le mosse dalla convinzione che è risorto e che quindi, da questa luce, acquista colore e significato ogni esperienza da lui vissuta, comprese le sue apparenti debolezze.

Se Gesù non fosse risorto, si potrebbe mantenere in piedi almeno il suo messaggio? Ma in tal caso resterebbe ancora valido precisamente ciò che è comune ad altri messaggi, come la regola aurea (“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”), gli inviti alla pace e alla giustizia, l’esempio di bontà e di accoglienza, e così via. La gran parte del messaggio di Gesù, invece, sarebbe da tralasciare, a meno di non nutrire desideri di tipo autolesionista: l’esito infelice della sua vita, infatti, rappresenterebbe la migliore dimostrazione che un’etica come quella che gli era specifica, incentrata sull’amore che non cerca il contraccambio, sul perdono, sul sacrificio, conduce inevitabilmente al fallimento. Se la croce fosse davvero la fine della vita di Gesù, sarebbe meglio lasciar perdere quanto di specifico ha annunciato e che si riassume nella logica della croce, perché il risultato della traduzione di questo messaggio sarebbe... il fallimento della croce. Non sarebbe segno di sanità mentale seguire la dottrina di un uomo che, proprio per aver tradotto quella dottrina nella sua vita, ha fallito miseramente.

Ma a proposito del messaggio si può avanzare un’altra osservazione: Gesù non si accontenta di annunciare un messaggio “su terzi”, perché una parte del messaggio riguarda lui stesso, come inviato di Dio, suo Figlio e Messia: se tutto fosse finito con la morte, Gesù allora sarebbe anche un impostore. Dovette essere più o meno questa la sensazione dei discepoli dopo l’esperienza della croce. Chi dice di essere ciò che non è, comunque si sfumino le parole, occupa un posto che non gli spetta. Perciò anche la sua persona perderebbe completamente di credito: e, diversamente dagli altri fondatori religiosi, come Buddha, Confucio e Maometto, che non hanno mai preteso di essere parte integrante del messaggio da essi annunciato, la figura di Gesù crollerebbe insieme al suo messaggio. Buddha non ha mai preteso di essere “la via”, ma ha solo indicato le vie per essere felici; Maometto non si è mai identificato con “la verità”, ma ha ritenuto solo di trasmetterla; Confucio ha mai attribuito a se stesso la qualifica di “vita”, ma ha predicato e insegnato una filosofia di vita adatta alla stabilità sociale. Gesù più volte ha invece avanzato la cosiddetta “pretesa messianica”, cioè si è organicamente e vitalmente inserito nella struttura del Regno che annunciava e – come vedremo – lo ha messo esplicitamente in relazione con la sua predicazione, i suoi miracoli, i suoi incontri e - specialmente in prossimità della passione - la sua stessa persona.

La risurrezione di Gesù come lente per una migliore comprensione di lui

È a partire dalla risurrezione di Gesù – quindi dall’atto finale – che si illumina tutto ciò che lui aveva

detto e fatto prima, anzi ciò che lui era. Per questo l’approfondimento della persona e opera di Gesù nasce… a rovescio.

Nei primi anni dopo la Pasqua, i cristiani sono impegnati a proclamare il Risorto con formule di fede semplici e immediate: “Dio ha risuscitato Gesù” (cf. 1 Tess 1,10; At 2,4), “il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (At 24,34). Poi, gradualmente, vengono raccolte le testimonianze di coloro che lo hanno “visto” dopo la morte; e subito l’interesse di allarga alle narrazioni della sua passione e alla sua vita pubblica: predicazione, incontri, miracoli. Infine – solo per gli evangelisti Matteo e Luca – l’interesse si porta anche sulle sue origini terrene.

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Nel corso di pochi decenni, così, si realizza sotto l’azione dello Spirito Santo (cf. Gv 14,26; 15,26; 16,13-14) un dipinto grandioso e particolareggiato dell’evento di Gesù Cristo. Più i cristiani riflettevano su di lui, lo sperimentavano vivo nella Parola, nel Battesimo e nell’Eucaristia, si radunavano nel suo nome in comunità e vivevano da fratelli, lo pregavano e invocavano, e più comprendevano chi era veramente Gesù. Gli stessi discepoli che avevano vissuto con lui prima della Pasqua lo compresero meglio dopo la Pasqua, a mano a mano che approfondivano il senso del suo messaggio e della sua persona alla luce della risurrezione e della pentecoste.

Se non avessero avuto la certezza della risurrezione del loro Maestro, i discepoli non avrebbero perso tempo a recuperarne la memoria e comunque non ne avrebbero approfondito e sviscerato i contenuti e le ricchezze. Probabilmente il ricordo di Gesù si sarebbe presto sbiadito e al massimo sarebbe citato solo in qualche cronaca locale giudaica o romana, tra i milioni di nomi che si perdono nella storia. Avendo invece la certezza che Gesù era vivo, non semplicemente come uno che riprende vita dopo la morte, ma come uno che entra nella gloria di Dio, i discepoli hanno cominciato ad annunciare Gesù risorto e ad interessarsi della sua predicazione, delle sue azioni e della sua identità.

3) La predicazione, gli incontri e i miracoli: annuncio del Regno di Dio

La vita pubblica di Gesù, che stando al Vangelo di Giovanni dura tre anni, è un periodo

incredibilmente intenso. Parole, volti, controversie, relazioni, guarigioni, delusioni, gioie: un ritmo così intenso che più volte i Vangeli segnalano il suo bisogno di ritirarsi a riposare e pregare (cf. Mt 14,22-23; Gv 6,15). È possibile individuare un “filo di Arianna” nel labirinto della predicazione, degli incontri e dei miracoli di Gesù? Sembra proprio di sì: è l’annuncio del Regno di Dio.

La predicazione del Regno di Dio e la legge dell’amore

Esiste tra i biblisti un consenso unanime nell’individuare la nozione di Regno (di Dio/dei cieli) come idea-guida della predicazione di Gesù. Gesù non predicò in primo luogo la Chiesa, i sacramenti, una morale, una filosofia su Dio, e neppure se stesso: annunciò il Regno. Per convincersi che la realtà del Regno è al centro dell’annuncio di Gesù, sarà sufficiente scorrere i passi dei Vangeli in cui compare il termine Regno/basileia: lo si incontrerà più di cento volte, mentre si troverà ad esempio il termine Chiesa/ekklesia solo in due versetti di Mt (16,18 e 18,17). L’affermazione di Mc 1,15 – “il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo” – riassume il cuore della predicazione di Gesù.

Utilizzando questo linguaggio, Gesù si inseriva in una tradizione ben nota agli ebrei. Dopo un periodo di esitazione tra favorevoli e contrari alla monarchia (cf. Giud 8,22-23; 1 Sam 8,4-20), nell’XI sec. a.C. gli ebrei si dettero un primo re, Saul, al quale poi succedettero Davide e Salomone e parecchie generazioni di re, a volte saggi altre volte empi. È comunque rimasta salda in tutte le epoche della storia dell’antico Israele la convinzione che il vero Re è Dio (cf. Ger 46,18; 48,15; 51,57; Sal 93,1; 96,10; 97,1; 99,1; ecc.). E quando i re terreni deludevano, per la loro condotta immorale, si faceva più forte la convinzione che Dio avrebbe inviato un re messianico, eletto da lui, a ricostruire un regno ideale identificato nell’epoca d’oro, il regno di Davide (cf. Is 9,5-6; 11,5-9); un “figlio dell’uomo” che, provenendo dal cielo, avrebbe ricevuto un regno eterno direttamente da Dio (cf. Dan 7,13-14).

Quando dunque Gesù cominciò ad annunciare che “il regno è vicino”, alimentò le speranze messianiche: Dio sta per cambiare il mondo attraverso il suo inviato, che riporterà la pace del regno di Davide. Per capire il nucleo della predicazione di Gesù, occorre tenere presenti tre aspetti del regno di Dio da lui annunciato.

Il Regno è prima di tutto un evento del futuro, un evento escatologico, che procede dalla azione libera, sovrana e gratuita di Dio e non dai meriti derivanti dall’osservanza della Legge, come pensavano i farisei, o dalla buona riuscita della guerra contro i romani, come volevano gli zeloti. Il Regno non si può meritare, ma solo invocare: “venga il tuo regno” (Mt 6,10); si compirà solo alla fine dei tempi, nel banchetto escatologico (cf. Mt 8,11 par.), quando “i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43) e quando anche Gesù parteciperà al banchetto nel regno del Padre suo (Mt 26,29 par.). Questo Regno escatologico non ha nulla a che vedere con le attese troppo terrene che circolavano ai tempi di Gesù: il Vangelo riporta la costante critica di Gesù verso ogni attesa politico-militare del

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Regno (cf. Mc 11,10; Lc 19,11), che risulta essere una realtà religiosa, non quella teocrazia nazionale politica che, sognando la restaurazione dell’epoca d’oro davidica, attendevano molti giudei. Il Regno è dunque per Gesù l’esercizio della Signoria di Dio non su un territorio, su una nazione, presso una corte, ma sul cuore dell’uomo: l’atteggiamento adeguato di fronte al Regno è infatti quello della conversione/fede.

Sarebbe tuttavia sbagliato assorbire tutta la realtà del Regno predicato da Gesù nell’attesa futura: pur compiendosi alla fine dei tempi, esso è già iniziato, ha un aspetto cristologico. Dio ha preso possesso pienamente di un uomo – Gesù di Nazareth – e in lui, virtualmente, dell’intero genere umano. Il Regno in qualche misura si identifica con la persona e l’opera di Gesù: è in lui che “il Regno di Dio si sta avvicinando” (Mc 1,15; Mt 4,17), perché è nel suo cuore, nel cuore di un uomo, che Dio si è già fatto completamente spazio. Gesù non insiste, come fa il Battista, sulla necessità di fare penitenza per sfuggire all’ira imminente; proprio perché annuncia la salvezza che si avvicina per ogni uomo, Gesù insiste sulla gioia del messaggio, sulla rovina di Satana per l'arrivo del Regno (cf. Lc 10,18), sulla necessità di abbandonarsi alla Provvidenza. Anche Gesù certo predica la penitenza e il giudizio divino: ma come realtà procedenti non dalla collera di Dio, bensì dalla sua grazia.

Se la realtà del Regno si esaurisse in queste prime due dimensioni, escatologica e cristologica, non si potrebbe dedurre granché circa una volontà del Signore di dare inizio ad una Chiesa; ma una considerazione più attenta dei Vangeli coglie facilmente una dimensione comunitaria del Regno, sia nella versione futura che in quella presente. Le parabole del Regno, narrate in Mt 13, mettono in evidenza la crescita nascosta e graduale del Regno stesso: esso si trova presente nel mondo in mezzo al peccato, come indicano le parabole del grano buono e della zizzania, del lievito, del tesoro e della perla, della rete piena di pesci; esso però cresce gradualmente e decisamente, come mostrano la parabola del grano di senapa e, ancora, del lievito. In queste parabole Gesù non si riferisce evidentemente al solo Regno escatologico e neppure solo al Regno che si sta rendendo presente nella sua persona – le immagini delle spighe di grano e dei pesci evocano necessariamente una pluralità di soggetti – ma alla crescita del Regno anche attraverso quelli che accolgono il Vangelo, in primo luogo i discepoli.

Gesù, del resto, aveva implicitamente collegato il Regno ad una comunità quando aveva stabilito il perno della sua predicazione nella legge dell’amore (cf. Mt 22,34-40 par.). Se il Regno annunciato da Gesù vive della logica dell’amore, è chiaro che progredirà attraverso relazioni interpersonali, ossia attraverso una qualche forma comunitaria. La crescita del Regno nel puro ambito della coscienza individuale non avrebbe creato quei rapporti interpersonali che la legge della carità esige: se ciò che viene accolto nella coscienza deve rispondere alle esigenze della carità, necessita di traduzioni in gesti e parole, incontri e relazioni. Per Gesù la legge dell’amore, verso Dio e verso il prossimo, è il segreto per la felicità: “Beati”, ripete per nove volte in quello che si può considerare il suo “manifesto” (cf. Mt 5,1-12). Beati sono per lui quelli che, affidandosi a Dio, continuano a sperare in lui e ad amare nelle tribolazioni e quelli che, confidando in Dio, pongono in atto gesti di amore verso il prossimo. Nelle nove beatitudini vi sono quattro situazioni subite passivamente – pianto, ingiustizia, persecuzione e maldicenza – che umanamente sono solo fallimentari ma quando sono attraversate nell’affidamento a Dio diventano occasioni di crescita; e vi sono cinque situazioni che invece richiedono un impegno attivo – povertà di spirito, mitezza, misericordia, purezza del cuore e azione per la pace – che, confidando in Dio, esprimono l’amore verso il prossimo.

Un aspetto tipico della predicazione di Gesù è l’uso delle parabole. Due di esse, proprie di Luca, fanno capire con grande efficacia i confini – anzi, l’assenza di confini – dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo: la parabola del padre misericordioso e quella del buon samaritano.

L’amore illimitato di Dio: la parabola del padre misericordioso Siamo nelle braccia di un Padre e non sulla bilancia di un giudice, è la buona notizia che annuncia la

grande parabola del padre misericordioso o del “figliol prodigo” (cf. Lc 15,11-32), nelle sue cinque indimenticabili scene.

L'abbandono del tetto paterno è la prima scena. Un particolare svela il senso della scelta del figlio minore: vuole dividere l’eredità paterna. Ma l’eredità non si riceve se non da un defunto… ecco il motivo per cui il figlio se ne va: per lui il padre è come morto, non gli trasmette più vita, almeno quella vita che lui cerca; fatta di divertimenti e spensieratezza, all’insegna del proprio istinto, senza regole. E il padre, nonostante la richiesta illegittima e orgogliosa, gli concede ciò che domanda.

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Quale effetto produce questa scelta? La solitudine: la seconda scena è desolante. Il peccato, dopo una vampata di entusiasmo che si consuma subito come il patrimonio di quel giovane, lascia soli. La solitudine del figlio riguarda tutte e quattro le relazioni umane: con Dio, con se stessi, con gli altri, con la natura. Il figlio infatti è solo perché lontano dalla casa del padre, alla quale ora pensa con nostalgia; è solo perché diviso in se stesso (infatti poi: “rientrò in se stesso”); è solo perché isolato dalle altre persone, che lo abbandonano quando non possono più sfruttarlo; è solo persino nel suo rapporto con la natura, che diventa ostile: le carrube gli sono precluse e i porci gli sono concorrenti. Ogni peccato, sembra dire Gesù, in un certo senso ha già in sé la sua punizione, perché l’orgoglio compromette la realizzazione dell’uomo nelle sue relazioni fondamentali.

Se la parabola finisse qui, sarebbe solo la sconfortante descrizione delle conseguenze dei nostri peccati e ci lascerebbe nell’amarezza. Ma il figlio minore non si arrende. Ha toccato il fondo; ormai, qualunque cosa capiti, non c'è che da risalire: non ha più paura quindi di affrontare le sgridate del padre, lo scherno dei servi, le prese in giro del fratello maggiore. Meglio tutto questo ed altro, piuttosto che contendersi le carrube con i porci, oltretutto animali impuri per un ebreo. Il terzo quadro, perciò, racconta del “pentimento”… ma è meglio dire del “calcolo”. Il ragionamento è semplice: in casa di mio padre anche i servi hanno un pezzo di pane; qui non si può mangiare nemmeno una carruba. Non dice: “che guaio ho combinato! Ho tradito l'affetto di mio padre”. No: fa un puro calcolo di sopravvivenza. Ma, con una buona dose di faccia tosta, si prepara a recitare al padre una filastrocca più nobile. Non poteva andare a dirgli: “sono tornato perché qui almeno si mangia”. E così inventa la scusa ufficiale: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.

La scena del ritorno – la quarta – è totalmente diversa dalle previsioni. Nei panni del padre, noi avremmo probabilmente cercato di dimenticare il prima possibile quel figlio degenere. Ecco invece la sorpresa: “quando era ancora lontano suo padre lo vide”. Non solo non lo ha dimenticato, ma sta alla finestra ad attenderlo. E non basta: “gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Qui è addirittura il padre che sembra doversi far perdonare e inizia a correre, quasi rinunciando alla sua dignità pur di affrettare l’incontro. Il figlio, a questo punto un po' frastornato da tanta accoglienza, comincia a recitare la scusa ufficiale... che al padre non interessa affatto: notate che non gliela lascia nemmeno terminare e il figlio non riesce a dire tutto quelle che si era preparato; il padre lo interrompe dopo la seconda frase. Al padre non importa il motivo per cui il figlio è tornato; gli sta a cuore solo il fatto che è tornato. E inizia la festa. Al figlio che si immaginava al massimo di essere riammesso tra i garzoni, il padre offre non solo il posto di prima, ma addirittura il ruolo del principe: l’anello, i calzari, la festa, facevano parte del rito di nomina del principe ereditario. Questo padre non finisce di spiazzarci: il peccato diventa occasione per una festa principesca; il male perdonato è materia per un bene maggiore.

Ma non tutti sono felici di questa festa. Se la parabola finisse qui, potremmo quasi concluderla con il classico “e vissero felici e contenti”. Non è così. Il figlio maggiore rimase piuttosto male. E non possiamo dargli tutti i torti: a lui, ligio ai suoi doveri, laborioso, senza grilli per testa, neppure un capretto; all’altro, lavativo e ingrato verso il padre, il vitello migliore. Umanamente il suo ragionamento sembra non fare una piega. Sembra... perché in realtà il figlio maggiore dimentica una cosa: “figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo”. Altro che capretto e festa con gli amici! Aveva molto di più, e non se n’era neppure accorto: aveva la presenza stessa del padre e la condivisione dei suoi beni. Era dentro ad una continua festa e non se n’era reso conto. Questo peccato di ingratitudine può colpirci tutti quando siamo nella situazione del “figlio maggiore”, quando cioè siamo nella casa del Padre, condividiamo la vita con Lui, siamo avvolti dal suo affetto, eppure facciamo fatica a renderci conto di questa grazia e magari siamo presi da invidia verso chi fugge dalla casa paterna.

L’amore senza confini verso il prossimo: la parabola del buon samaritano

“Che cosa devo fare”…? “Va’, e anche tu fa’ così”. La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37) inizia

e termina con il verbo “fare”. Gesù indica al dottore della legge un criterio che distingue il fare utile dal fare dannoso: il criterio dell’amore. Alla domanda “che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”, Gesù infatti risponde: “Amerai il Signore… e il tuo prossimo come te stesso”. Proprio perché la risposta non rimanesse astratta, Gesù inventa un fatto che la concretizza: un episodio di cronaca che doveva

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essere frequente a quel tempo, quando il brigantaggio era molto diffuso: nel ripido sentiero che da Gerusalemme scendeva alla vicina Gerico, alcuni pellegrini erano assaliti da ladri che li picchiavano e derubavano. Questi pellegrini erano giudei che riconoscevano nel tempio di Gerusalemme il centro della loro fede. Noi sappiamo dalla storia che invece gli abitanti della Samaria – regione confinante a Nord con la Giudea – non riconoscevano il tempio di Gerusalemme e ne avevano uno alternativo a Garizim; era nota l’inimicizia tra giudei e samaritani, che si facevano continui dispetti.

I primi due personaggi che, scendendo per il sentiero, videro il poveretto steso, sarebbero stati tenuti a soccorrerlo: erano un sacerdote e un levita, cioè due uomini del culto, due giudei che conoscevano molto bene la legge, la quale obbligava a soccorrere un altro giudeo. Quando infatti la legge di Mosé, ricordata da Gesù, prescriveva di “amare il prossimo”, si riferiva ad uno del proprio popolo: il concetto di “prossimo” era per gli ebrei molto ristretto. E invece lo vedono e passano oltre. Gesù qui usa un’espressione terribile: “passò oltre”. Avevano certo molte cose da fare, erano due uomini impegnati, e poi una volta terminato il loro servizio al tempio avevano il diritto di andare a riposarsi...

Ma c’è un terzo personaggio – finalmente un personaggio positivo – in questa parabola: il samaritano. L’unico che non era tenuto a fermarsi si ferma; l’unico che per gli ebrei non era “prossimo”, perché straniero, si “fa” prossimo… addirittura “ne ebbe compassione”: cioè prima di fare qualcosa si lascia fare qualcosa, si lascia prendere il cuore dal poveretto al ciglio della strada. Quasi Gesù volesse dire che il vero “fare” presuppone il “lasciarsi fare”: il samaritano, senza essere prossimo, si “fa” prossimo perché si “lascia” conquistare dalla compassione, lascia entrare dentro di sé la situazione di quel poveretto. Solo a questo punto si muove e “fa” due cose: prima si cala sull’uomo bastonato, poi lo solleva e lo porta alla locanda. Prima si cala su quell’uomo, perché chi ama non guarda dall’alto in basso ma si coinvolge; non rimane sul piedistallo, ma scende ai piedi del fratello. E avrebbe potuto fermarsi qui, essendo già andato molto oltre quanto gli era richiesto: una volta curato il ferito, aveva ampiamente esaurito il suo compito e nessuno avrebbe potuto criticarlo. Invece compie una seconda azione: solleva il ferito, lo porta in un albergo, si prende cura di lui e addirittura progetta di tornare una volta guarito. Chi ama non si limita al pronto soccorso, ma avvia un progetto di risollevamento del fratello ferito: spende del proprio – tempo, energie, denaro – pur di far uscire il prossimo dalla sua situazione disagiata.

Gli incontri di Gesù nella logica del regno di Dio

Gesù non si è limitato a predicare il regno di Dio e la legge che lo anima, la legge dell’amore. Ha praticato lui stesso ciò che diceva. Lo si vede negli incontri narrati dai Vangeli.

Il primo incontro significativo, da lui stesso provocato all’inizio della sua vita pubblica, è quello con i Dodici (cf. il sommario di Mc 3,13-19). Gesù, certo, incontra le folle; si fa seguire da alcuni discepoli, che ad un certo punto sceglie in numero di settanta (cf. Lc 10,1); ma il “suo” gruppo è quello dei Dodici. Il numero è proprio legato alla predicazione del regno di Dio: Gesù voleva ricostituire l’Israele ideale, il regno delle dodici tribù, che prendevano nome dai dodici patriarchi , i figli di Giacobbe (cf. Gen 49,1-28).

Ma anche gli incontri non pianificati da Gesù respirano la logica del regno di Dio: in un modo, però, veramente originale. Gesù in un certo senso accetta e provoca degli incontri che potevano far dubitare della sua identità di inviato di Dio. Incontra i peccatori, si lascia avvicinare dalle donne e abbraccia i bambini. Tutte categorie “emarginate” nella società ebraica del tempo. Chi frequentava i peccatori era considerato impuro per contagio. Le donne non avevano rilevanza né sociale né religiosa, e ancor meno i bambini. Vediamo più da vicino il senso e lo stile di alcuni di questi strani incontri.

Nella figura di Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) si può cogliere al meglio l’atteggiamento di Gesù verso i peccatori. In Zaccheo si concentrano tante povertà. Una carenza fisica, prima di tutto: doveva essere davvero molto piccolo di statura se per riuscire a vedere Gesù deve salire su un albero; poi una mancanza morale: veniamo a sapere dal seguito della storia che la ricchezza accumulata da Zaccheo è frutto anche di furti e imbrogli; e soprattutto una povertà spirituale: non solo era un pubblicano, ma era “il capo dei pubblicani”, della categoria di peccatori più disprezzata dagli ebrei. Un uomo, insomma, che non aveva proprio niente di buono. Tranne forse una cosa: una certa curiosità. Quando lo vede è Gesù stesso – caso piuttosto raro nei Vangeli – che prende l’iniziativa di andargli incontro e di invitarsi a casa di Zaccheo: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Era un uomo piccolo, disonesto, peccatore: un concentrato di povertà; nessuno avrebbe trovato in lui qualcosa di buono: nessuno, tranne Gesù. Lo sguardo di Gesù è tale da trovare in ciascuno, anche nelle persone più

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disprezzate, qualcosa di buono: è uno sguardo che si volge in alto – “quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo” – e non si ferma a guardare nei bassifondi dell’anima; è uno sguardo sul presente – “oggi devo fermarmi a casa tua” – e non si ferma a rimestare sugli errori del passato. Lo sguardo del Signore è in grado di trovare un punto di aggancio anche là dove un’anima sembra una parete liscia. Gesù non fa a Zaccheo nessun complimento, né tanto meno gli dice parole compassionevoli: gli propone piuttosto un incontro, gli dice che vuole essere suo ospite per quel giorno. In altre parole, non lo fa sentire destinatario ma protagonista: è Gesù che prima di fare un favore a Zaccheo gli chiede un favore. Con una grande capacità educativa, Gesù “attiva” le qualità migliori di Zaccheo, lo fa diventare attore di accoglienza. Il risultato con Zaccheo è sorprendente: “scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. Da uomo peccatore e respinto da tutti, Zaccheo diventa colui che ospita Gesù, colui che quel giorno lo accoglie. E non solo la gioia investe Zaccheo, ma anche il desiderio di cambiare vita: “io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Non c’è un miracolo in questo brano, ma forse c’è il miracolo più grande: il cuore di Zaccheo è stato completamente trasformato dalla fiducia di Gesù, che lo ha reso attore e protagonista dell’accoglienza.

L’atteggiamento di Gesù verso le donne è pure tale da lasciare perplessi i suoi contemporanei, perché è piuttosto anticonformista rispetto al suo tempo: in una società marcatamente maschilista come era quella giudaica del tempo di Gesù, egli non solo incontra spesso le donne, ma le tratta con grande dignità. Nel suo ministero incontra una donna malata di emorragia (cf. Mt 5,25-34), una straniera (cf. Mt 7,24-30), una vedova povera (cf. Mc 12,41-44), una vedova che portava il suo unico figlio al cimitero (cf. Lc 7,11-17), una donna che aveva pubblica fama di peccatrice (cf. Lc 7,36-50), Marta e Maria sorelle di Lazzaro (cf. Lc 10,36-42), una samaritana (cf. Gv 4,4-30) e un’adultera (cf. Gv 8,1-11). Inoltre Gesù annovera delle donne nel gruppo dei discepoli (cf. Lc 8,1-3) e, pur non inserendole nella comunità dei Dodici, ne fa le prime testimoni della risurrezione (cf. Mt 28,1-15; Mc 16,1-8; Lc 24,1-12.22-23; Gv 20,1-18).

Anche verso i bambini il comportamento di Gesù è distante dai comuni modi di fare dell’epoca. Non solo in Israele, ma in tutto il mondo antico i bambini erano trascurati e, semmai, fatti oggetto di attenzione solo come possibili futuri uomini. Due episodi nel Vangelo hanno come protagonisti Gesù e i bambini. Nel primo, Gesù viene a sapere dai discepoli che, mentre egli aveva parlato della necessità di farsi piccoli, essi avevano discusso su chi tra loro fosse il più grande; e allora prese un bambino, lo mise in mezzo, lo abbracciò e disse: “chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me; chi accoglie me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (cf. Mc 9,33-37; Mt 18,1-5; Lc 9,46-49). Nel secondo, Gesù ammonisce i discepoli di non sgridare i bambini che lo vogliono avvicinare, ma anzi di lasciare che vadano a lui, “perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio (…), Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (cf. Mc 10,13-16; Mt 19,13-15; Lc 18,15-17). Mentre noi oggi indichiamo ai bambini come ideali alcuni adulti, Gesù indica agli adulti come ideali i bambini: perché i bambini si affidano, sanno di non essere autosufficienti, tendono le braccia verso i genitori. Questo è l’atteggiamento che per Gesù conduce al “regno di Dio”: tendere le braccia umilmente verso il Padre.

I miracoli, segni del regno di Dio

Per Gesù è più importante predicare che fare miracoli e i miracoli non sono altro che una forma di predicazione, concreta e provocatoria. Non pensiamo che Gesù facesse dei miracoli per dimostrare i suoi poteri o per convincere le persone che era il Messia. Non c’era scritto da nessuna parte, nella Bibbia degli ebrei, che il Messia avrebbe dovuto compiere miracoli. Anzi, se Gesù avesse potuto fare a meno dei miracoli, probabilmente li avrebbe evitati, perché facevano aumentare il pericolo di essere scambiato per un guaritore e un mago. Per questo a volte rifiuta di fare dei miracoli, come quando glieli chiedono per metterlo alla prova (cf. Mc 8,11-13 e 15,31). All’inizio del Vangelo di Giovanni Gesù rimprovera la gente dicendo: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete!” (Gv 4,48) e alla fine dello stesso Vangelo, dopo l’incontro con Tommaso, loda coloro che “non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20,29).

E allora perché a volta li compie? Perché non si rifiuta di guarire, moltiplicare i pani e scacciare i demoni? Perché avverte che il suo compito è di mostrare che il Regno di Dio comincia già a farsi presente. L’attesa degli ebrei era quella di un regno dove non ci sarà più posto per la malattia, il male e la morte (cf. Is 61,1-11) e Gesù intende proprio così i suoi miracoli, come si vede dalla risposta che dà ai discepoli del Battista: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la

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vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt 11,4-5). E ancora più chiaramente, dopo un esorcismo, commenta: “se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12,28).

Gesù è venuto a dirci che questo Regno, il cui compimento è atteso per il futuro, è vicino, anzi che Dio sta cominciando a cambiare le cose in profondità; e per darci un segno concreto dell’azione di Dio, comincia già a cambiare qualcosa, ci fa vedere che dove Dio arriva il male arretra e la malattia sparisce. I miracoli non erano delle facili soluzioni ai problemi umani: i malati che Gesù ha curato chissà quante altre volte si saranno ammalati in seguito e poi sono comunque morti; e così le folle per le quali ha moltiplicato i pani, avranno avuto fame altre volte. E quanti lebbrosi Gesù non ha guarito? Quanti indemoniati non ha liberato?... I miracoli rappresentano sempre delle soluzioni gradite, ma temporanee. Non è questo il motivo per cui Gesù li compie: è piuttosto di destare nel cuore umano il desiderio del regno di Dio, di fargli pregustare – come un antipasto – che cosa sarà la vita eterna con lui. Il miracolo è un invito a guardare avanti, è un segno che deve far pensare che siamo al mondo non per vagare – ben che vada – qualche decennio, tra gioie e sofferenze, fatiche e speranze, e poi sparire nel nulla; ma ci siamo per coltivare nel cuore il desiderio di eternità. È questa la differenza più grande tra Gesù e gli altri guaritori. C’erano tante persone, allora come oggi, che operavano guarigioni: facendo leva sulla suggestione oppure utilizzando dei poteri effettivi. Loro lo facevano per alleviare momentaneamente le sofferenze; invece Gesù lo faceva per mettere nel cuore la nostalgia dell’eternità, per dare coraggio ora, facendo capire che dove arriva Dio sparisce il male e che, quindi, la vita eterna del regno di Dio comporterà la scomparsa ogni malattia e sofferenza.

4) L’identità di Gesù “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16,13). Tante volte, mentre Gesù predicava,

incontrava persone e faceva i miracoli, la gente si sarà domandata chi era quell’uomo così singolare. Anche Gesù, come capita a noi, è curioso di conoscere l’opinione della gente su di lui. La risposta che i discepoli danno a questa domanda di Gesù – “alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremia o qualcuno dei profeti” – raccoglie in realtà solo le opinioni positive, quelle degli ammiratori: il Battista e i profeti erano molto apprezzati dagli ebrei e la loro identificazione con Gesù era un complimento. Era come dire che lui aveva un grande compito da parte di Dio, non era un uomo come gli altri, aveva una missione da compiere.

Dai Vangeli sappiamo però che circolavano su Gesù anche delle opinioni negative: la gente lo aveva accusato di essere un bestemmiatore (cf. Mc 2,7; Mt 9,3; 26,65), un pazzo (cf. Mc 3,21), un indemoniato (cf. Mc 3,22; Mt 9,34; 10,25; 12,24), un mangione e un beone (cf. Mt 11,19). Forse per rispetto verso Gesù, i discepoli evitano di comunicargli queste pesanti critiche; lui del resto le aveva sentite o percepite e sapeva bene che stava crescendo l’ostilità nei suoi confronti.

Ma chi era davvero? Pietro lo confessa con parole che non vengono da lui ma dal Padre: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). L’identità profonda di Gesù, quella che sfuggiva alla gente e che gli stessi apostoli comprenderanno meglio dopo la risurrezione di Gesù e l’invio dello Spirito, era quella di “Cristo” e di “Figlio di Dio”. A questi due grandi “titoli”, durante la vita pubblica di Gesù ne viene affiancato un terzo: “Figlio dell’uomo”. Che cosa significano questi appellativi?

“Messia” “Cristo” significa letteralmente “Unto”, in ebraico “Messia”. Era la definizione dei re, che venivano

appunto “unti” di olio nel rito della loro elezione. Al tempo di Gesù, molti ebrei attendevano il “Messia” inviato da Dio, cioè un re che – come un nuovo Davide – ricostituisse l’unità delle dodici tribù. Però questa attesa era equivoca, perché – come abbiamo visto parlando del “regno di Dio” – buona parte del popolo pensava ad un intervento militare, ad una liberazione dal potere dei romani, se necessario persino con le armi come ritenevano gli zeloti.

Per questo Gesù non usa volentieri questo titolo di “Messia” e non lo dice mai di se stesso; non esiste alcun versetto dei Vangeli in cui Gesù dica “Io sono il Messia”. Se lo lascia dire, certo, ma poi lo corregge subito. Infatti dopo che Pietro indovina la sua identità, definendolo “il Cristo” (Mt 16,16),

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Gesù precisa immediatamente che la sua via messianica non è quella della gloria e del successo, ma quella dell’umiliazione e della croce (cf. Mt 16,21). La difficoltà di piegare la nozione di “Messia” alla via seguita da Gesù si coglie in tutto il suo peso se si confrontano le due parole che Gesù rivolge a Pietro nel giro di pochi versetti: “beato” (Mt 16,17) e “satana” (Mt 16,23). Cos’è accaduto di così grave in questo brevissimo arco di tempo? Semplicemente questo: Pietro rifiuta che Gesù passi attraverso la croce. Incoraggiato dal fatto che i discepoli avevano capito la sua missione, Gesù per la prima volta comincia a parlare apertamente della sua prossima uccisione. Ma questo discorso è indigesto per loro: non possono pensare che il Messia, finisca i suoi giorni in maniera tragica. Invece di essere lui, il Messia, a piegare i potenti, come la gente si aspettava, saranno i potenti a piegare lui; e lui non sembra intenzionato neppure a combattere, ma solo a subire. Gesù dunque è effettivamente “il Cristo”, come dirà ormai senza problemi durante il processo, quando non ci sarà più possibilità di fraintendimento (cf. Mc 14,61-64), ma lo è in maniera diversa dalle attese: lo è alla maniera di un Dio che percorre la via dell’amore e del dono di sé e non la via della violenza e del dominio.

“Figlio dell’uomo” Nella stessa scena in cui Gesù accetta ormai di essere definito “il Cristo”, quella appena menzionata

del processo davanti al sinedrio, Gesù si proclama esplicitamente “il Figlio dell’uomo”: “Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14,62). Gesù si riferisce alla profezia, già citata sopra, dell’invio da parte di Dio di un “figlio dell’uomo” che verrà sulle nubi del cielo ad instaurare il regno di Dio (cf. Dan 7,13-14). Gesù quindi si identifica con quella figura messianica.

A differenza del titolo di “Cristo”, quello di “Figlio dell’uomo” si incontra nei Vangeli sempre e solo sulla bocca di Gesù: lo usa per indicare le derisioni subite (cf. Mt 11,19), il suo cammino verso la croce (cf. Mc 8,31), la sua signoria sul sabato (cf. Mc 2,28), il suo potere di rimettere i peccati (cf. Mc 2,10), l’annuncio del suo ritorno nella potenza e nella gloria (cf. Mc 13,26). Lo usa soprattutto, come abbiamo detto, quando si avvicina la sua morte.

La preferenza di Gesù verso questo titolo, rispetto a quello di “Messia”, è dovuta sicuramente al fatto che “Figlio dell’uomo” non si presta al fraintendimento politico e militare. Era infatti una figura esclusivamente religiosa, celeste, inviata dall’alto per mettere fine ai soprusi dei regni umani e instaurare la signoria di Dio. Chiamandosi “Figlio dell’uomo”, Gesù fa capire che la profezia del libro di Daniele si sta realizzando in lui.

“Figlio di Dio” “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? Gesù disse: Io lo sono” (Mc 14,61-62). È nuovamente nel

dialogo tra Gesù e il sinedrio che emerge anche il titolo più impegnativo: “Figlio di Dio”. La coscienza di un legame unico con Dio è innegabile nella vicenda di Gesù ed è il sottofondo costante della sua identità, da lui rivelata solo a poco a poco.

Gesù fa trapelare questo stretto legame con Dio prima di tutto con le sue azioni. Come quando rimette i peccati al paralitico e – giustamente – provoca nei farisei presenti questa critica: “Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?” (Mc 2,7). O come quando dice: “chi accoglie me, non accoglie me ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). E si potrebbero moltiplicare le citazioni.

Ma soprattutto Gesù matura la convinzione che tra lui e Dio c’è un rapporto simile a quello che esiste tra padre e figlio; un rapporto così intimo che lui usa una parola molto affettuosa per rivolgersi a Dio: la parola “abbà” (Mc 14,36), «che non deve tradursi con “padre”, ma piuttosto con “babbo, papa”. Solo I bambini, o comunque i figli, usavano questo termine per rivolgersi al loro padre. In nessun luogo della letteratura ebraica si trova documentato l’uso di questa forma riferita a Dio. Era troppo confidenziale e quasi irriverente per la mentalità comune» (CEI, Il Catechismo dei giovani/2, pag 128).

Fu certamente la parabola dei vignaioli omicidi (cf. Mc 12,1-12), denunciando i capi del popolo ebraico come uccisori dei profeti e dello stesso figlio di Dio, a determinare la decisione di mettere a morte Gesù. In quella parabola, la cui autenticità non è messa in dubbio da nessuno, Gesù si presenta chiaramente come “il figlio prediletto” (v. 6), marcando così nello stesso tempo la sua continuità con la linea dei profeti e la sua originalità rispetto a loro.

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Il titolo di “Figlio di Dio” è alla base dell’approfondimento successivo riguardante la divinità di Gesù, che verrà costantemente affermata nella tradizione cristiana insieme alla sua vera umanità.

5) L’equilibrio tra l’umano e il divino in Gesù Cristo Cerchiamo ora di tracciare la cornice entro la quale collocare il dipinto dell’evento di Gesù. La cornice

ha due elementi irrinunciabili, l’umano e il divino. Sono infatti da sempre due i rischi maggiori davanti alla persona di Gesù: insistere talmente sulla sua componente divina da dimenticare o ridurre quella umana o, al contrario, considerare Gesù solo un uomo, tralasciando o sminuendo la sua divinità. Sarebbe lungo l’elenco delle teorie portate avanti su entrambi i versanti; basta solo richiamarne qualcuna, che ciascuno può approfondire cercando le voci relative in qualsiasi enciclopedia oppure nei volumi di cristologia.

Negazione o riduzione dell’umanità di Gesù

Riducevano l’umanità di Gesù, facendone una specie di mito o di spirito venuto dal cielo, i vari gruppi gnostici cristiani, che già verso la fine del I sec. professavano il cosiddetto “docetismo” quando interpretavano la persona di Gesù; per loro l’incarnazione era solo un simbolo e non una realtà, perché non potevano sopportare l’idea che Dio si abbassasse fino a farsi davvero uomo. Nel IV sec. Apollinare di Laodicea ne propose una versione attenuata, ritenendo che il Verbo di Dio si sia unito non ad un “uomo” ma ad un “corpo”, prendendo il posto dell’anima. Prima, durante e dopo il Concilio di Efeso si affermò il “monofisismo” – di cui il tipico rappresentante fu Eutiche – prospettava l’assorbimento dell’umano di Gesù nella divinità del Verbo. Nello stesso tempo, a livello popolare, gli apocrifi che riempivano gli spazi vuoti dei Vangeli raccontando per filo e per segno l’infanzia e la giovinezza di Gesù, ne facevano un fanciullo e un ragazzetto onnisciente e onnipotente, capace di conoscere tutto e di fare miracoli a ripetizione. Un’onda lunga di questa tendenza è il monotelismo (= “una sola volontà”), sostenuto fino al VII sec., che negava la presenza di una volontà umana in Cristo. Nel secondo millennio questa tendenza si incanalò nella teoria della “visione beatifica” di Gesù, che finiva per negare ogni traccia di maturazione umana in Cristo.

Questa linea contrasta in modo evidente con alcuni dati evangelici e con la tradizione della Chiesa. I Vangeli Sinottici presentano continuamente Gesù come un vero uomo: cresceva in sapienza, età e grazia (cf. Lc 2,52), chiedeva informazioni (Mc 5,30: “chi mi ha toccato il mantello?”; 6,38: “quanti pani avete?”; 8,27.29: “chi dice la gente che io sia?”; “ voi chi dite che io sia?”); dichiarava limitata la sua stessa conoscenza in relazione alla fine del mondo (cf. Mc 13,32: “quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”). Soffriva, piangeva, si lamentava, mangiava e beveva, si arrabbiava… Gesù insomma non è presentato nei Vangeli come un Dio rivestito esteriormente di sembianze umane – quasi recitasse la parte dell’uomo – ma come un vero uomo. E il Vangelo di Giovanni, il cui approfondimento teologico è maggiore, fonda la sua presentazione di Gesù nella professione di fede: “Il Verbi si è fatto carne” (1,14).

In effetti, contrariamente a quanto si pensa e si dice (cf. le strane teorie de Il Codice da Vinci, purtroppo sostenute anche da studi che si presentano con un taglio scientifico), Il problema cristologico dei primi secoli non fu tanto la fede nella divinità quanto quella nella sua piena umanità. Scrittori cristiani, vescovi e comunità faticarono molto di più per difendere l’umanità di Gesù che la sua divinità. Molti infatti erano disposti ad ammettere l’appartenenza di Gesù alla sfera divina: il clima gnostico, nel quale anche alcune comunità cristiane si muovevano, rendeva facile attribuire a Gesù una provenienza celeste. Ciò che appariva incredibile ai più era che si fosse davvero fatto uomo, fosse realmente nato da una donna, avesse preso un vero corpo, avesse realmente mangiato e bevuto, fosse davvero morto sulla croce e fosse corporalmente risorto. Già le lettere di Giovanni, nel Nuovo Testamento, sono preoccupate non tanto della divinità quanto dell’umanità di Gesù, fino ad affermare: “ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo” (1 Gv 4,2-3). È la conferma di come già dalla fine del I sec. l’aria gnostica si stesse diffondendo nelle comunità cristiane. E pochissimi anni dopo, all’inizio del II sec., il martire Ignazio di Antiochia martellava il suo “veramente” (alethòs) contro quegli ambienti spiritualizzanti che interpretavano nascita, vita, sofferenza, morte e risurrezione di Gesù in termini ‘simbolici’ (cf. la sua Lettera agli Smirnesi, I-II).

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Negazione o riduzione della divinità di Gesù

La strada opposta è pure stata percorsa fin dai primi tempi dell’era cristiana. I cosiddetti “ebioniti” erano ebreo-cristiani che ritenevano Gesù il Messia ma non il Figlio di Dio; si mantenevano così entro i parametri delle profezie veterotestamentarie, senza accettare la piena signoria di Gesù. Ma la riduzione più nota e più pericolosa del divino in Cristo fu costituito dall’arianesimo, che ingabbiava l’identità di Gesù in quella del “demiurgo”, un essere sovrumano che mediava i rapporti tra Dio e il mondo; il Figlio, dunque, era per Ario non solo generato ma anche creato: apparteneva al versante del mondo e non di Dio, anche se poi Dio lo aveva elevato sopra il resto della creazione. Questa riduzione di Cristo al solo aspetto umano ha ripreso vigore nell’indagine contemporanea sulla storicità di Gesù, specialmente nelle cosiddette “prima ricerca” (che va dalla fin del Settecento all’inizio del Novecento) e “terza ricerca” (che è iniziata negli anni Ottanta del secolo scorso), dove spesso l’interesse è puntato unicamente sulla ricostruzione dell’ambiente sociologico e culturale in cui Gesù ha vissuto. L’indagine sul “Gesù storico” ha prodotto grandi ed apprezzabili risultati, ma talvolta alcuni risultati sono stati volgarizzati in modo rapido, impreciso e pregiudiziale contrapponendoli inutilmente alla prospettiva di fede (un esempio è il volume di C. Augias e M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 2006).

Anche questa tendenza è contrastata in modo evidente da alcuni passi evangelici e dalla tradizione ecclesiale. I Vangeli mettono in luce più volte una conoscenza da parte di Gesù di persone, pensieri e fatti che dimostrano almeno in alcune occasioni una capacità percettiva superiore a quella ordinaria umana (cf. Mc 2,8; 8,31; 9,31.33-35; 10,33-34; Lc 9,46-48; Gv 2,25; 16,30; Mc 14,36; Mt 11,27; ecc.). Ma questa capacità è solo il riflesso psicologico di un dato che riguarda l’essere di Gesù: la sua natura divina. Una delle tante invenzione de Il Codice da Vinci riguarda l’imposizione, da parte di Costantino, della divinità di Gesù alla Chiesa: «Fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo mortale (...). Lo statuto di Gesù come “Figlio di Dio” è stato ufficialmente proposto e votato dal concilio di Nicea» (pagg. 273-274). Dunque solo nel 325 la Chiesa avrebbe proclamato, obbligata da Costantino, la divinità di Gesù. In realtà già nel Nuovo Testamento si incontrano affermazioni molto chiare in merito non solo a Gesù come “Figlio di Dio” ma anche a Gesù come “Dio”. Il Vangelo di Giovanni inizia con questa affermazione lapidaria: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Gesù viene accusato di farsi “uguale a Dio” (Gv 5,18). L’apostolo Tommaso, otto giorni dopo la risurrezione di Gesù, confessa davanti a lui: “mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28); nella lettera ai Romani, scritta alla fine degli anni cinquanta, S. Paolo afferma che dal mondo ebraico “proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rom 9,5); nella lettera a Tito il Signore è menzionato come il “nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tit 2,13); con una espressione simile inizia la seconda lettera di Pietro, parlando del “nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pt 1,1). Restando nell’ambito del Nuovo Testamento, si potrebbero poi ricordare il passo paolino nel quale a Gesù è attribuita la “natura divina” (Fil 2,6) e quelli nei quali Gesù Gesù è definito “Figlio di Dio”… basti ricordare il primo versetto di Marco: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”.

I Padri della Chiesa, cioè i primi scrittori cristiani, hanno del resto ripreso più volte la confessione della divinità di Gesù e ben prima del Concilio di Nicea. Per limitarci ai Padri del II sec., si possono elencare questi testi: Ignazio agli Efesini, VII, 2 (“Dio nella carne”); Ignazio agli Efesini, XIX, 3 (“Dio apparso in forma umana”); Ignazio agli Smirnesi, I, 1 (“Gesù Cristo Dio”); Ignazio ai Romani, III, 3 (“Gesù Cristo nostro Signore Dio”); Ignazio ai Romani, VI, 3 (“La passione del mio Dio”); Ignazio ai Tralliani, VII, 1 (“Gesù Cristo Dio”); Ignazio a Policarpo, VIII, 3 (“Dio nostro Gesù Cristo”); Giustino martire, Prima Apologia, 63, 14 (“Il Figlio, Parola e Primogenito di Dio, è anche Dio”); Giustino martire, Dialogo con Trifone, 115,4 (“nostro Sacerdote e Dio e Cristo, figlio del Padre dell’universo”); Teofilo ad Autolico, lib. II, 22 (“La Parola generata da Dio è Dio”); Ireneo, Esposizione della predicazione apostolica, 47 (“Il Padre è Dio ed il Figlio è Dio, perché chi è nato da Dio è Dio”); Ireneo, Contro le Eresie, I, 10, 1-3 (“Gesù Cristo, nostro Signore e Dio e Salvatore e Re”); Ireneo, Contro le Eresie, III, 8, 3 (“Colui che ha creato tutte le cose è giustamente chiamato, insieme al suo Verbo, solo Dio e Signore”); Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 2 (“Dio in forma di uomo”); Clemente Alessandrino, Pedagogo, II, 3 (“Dio attento alle piccole cose e Signore dell’universo”); Melitone di Sardi, Omelia sulla Pasqua (“Il Signore pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole e, sepolto per chi è sepolto, risuscitò dai morti”). Si possono inoltre vedere, tra gli altri, la

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definizione di Gesù Cristo come “Dio” in: Clemente di Alessandria, Esortazione ai greci, I,7,1: scritto verso il 190; Tertulliano, L’anima 41,3: scritto verso il 210.

Quando dunque il Concilio di Nicea nel 325 definiva Gesù Cristo “della stessa sostanza del Padre”, e quando il Concilio di Calcedonia nel 451 parlava di Gesù come di “una persona in due nature”, non facevano altro che raccogliere e sintetizzare le prospettive già presenti nel Nuovo Testamento e nei primi autori cristiani.

2 La scelta cristologica e antropologica

del progetto catechistico italiano

Don Valentino Bulgarelli

Il Rinnovamento della Catechesi (RdC) è il primo testo ufficiale postconciliare che in Italia evidenzia sia la dimensione cristologica sia quella antropologica; è l’espressione più eloquente del desiderio, ma anche del travaglio, dei vescovi italiani di tradurre le categorie conciliari nel campo della catechesi. Il testo nella sua globalità descrive e definisce i compiti e le finalità della catechesi, armonizzando la fides quae e la fides qua; la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo. I vescovi italiani, nel RdC, danno alla catechesi uno spazio pastorale molto ampio, tenendo presente il primato dell’iniziativa di Dio ed evidenziano la dimensione ecclesiale, il suo ruolo educativo e la sua centralità cristologica: la catechesi è azione della Chiesa a cui i singoli partecipano in forza delle loro responsabilità; è prolungamento e collaborazione alla missione profetica di Cristo; è servizio all’uomo nel dare valore e significato alla sua vita per raggiungere la maturità di fede; è accompagnamento a pensare e a giudicare con le categorie di Gesù Cristo. La preoccupazione primaria della catechesi, delineata nel Documento Base (DB), dovrebbe essere quella di far incontrare l’uomo e la donna con la persona di Gesù Cristo; favorire un rapporto personale di fede con lui; un rapporto che provochi all’adesione, all’assunzione di responsabilità, alla condivisione sincera dei suoi valori. Il criterio della duplice fedeltà, a Dio e all’uomo, che riecheggia idealmente il discorso di Gesù con il dottore della legge sul primo dei comandamenti, è considerato come la prospettiva più completa per ogni corretta azione pastorale-catechistica: «A fondamento di ogni metodo catechistico, sta la legge della fedeltà alla parola di Dio e della fedeltà alle esigenze concrete dei fedeli » (RdC 160). Armonizzare le due prospettive dell’unica fedeltà, sia dal punto di vista della prassi sia della riflessione, non soltanto non è facile, ma non è scontato. Il DB nei capitoli IV e V si esprime in questo tentativo, dando il primo posto a Cristo e non trascurando di tenere presenti le esigenze della persona umana; mentre nel capitolo VII parla di una catechesi rivolta a tutti, nel rispetto delle diverse situazioni personali e sociali, perché tutti devono crescere in Cristo; si tratta, quindi, non di un’attenzione generica alla vita dell’uomo, bensì di un’attenzione specifica, calata nella realtà concreta di ogni persona. Diventando uno di noi, Gesù avvia un dialogo esistenziale, capace cioè di incidere sulla nostra vita e di trasformarla; l’integrazione tra fede e vita, su cui il DB tanto insiste, è anzitutto e soprattutto integrazione a livello personale con Cristo; la fede si integra nella vita e la vita nella fede, perché il Figlio di Dio si è fatto Figlio dell’uomo.

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L’obiettivo che la catechesi non deve mai perdere di vista è quello di accompagnare la persona all’incontro con Gesù Cristo. All’uomo e alla donna, che sono alla ricerca del vero, del bello e del giusto, attraverso la catechesi, la Chiesa indica la Via o, per meglio dire, la possibilità concreta di ritrovare, in un rapporto interpersonale e dialogico, quel filo rosso che dà unità alla loro vita. Quest’incontro interpersonale, tra colui che cerca e Cristo che si lascia trovare, coinvolge tutte le dimensioni della vita dell’essere umano, ma anche l’intera vita della Chiesa; nella catechesi l’antropologia, la cristologia e l’ecclesiologia trovano un punto di confluenza e interagiscono in un dinamismo circolare e pluridimensionale: «La catechesi deve introdurre i credenti nella pienezza dell’umanità di Cristo, per farli entrare nella pienezza della sua divinità. Lo può fare in molti modi, muovendo da premesse e da esperienze diverse, seguendo metodi diversi, secondo l’età, le attitudini, la cultura, la problematica, le angosce e le speranze di chi ascolta» (RdC 60). In conclusione si può dire che, con il DB, la catechesi acquista una dimensione cristologica, ecclesiologica e antropologica che prima non aveva e che trova la sua sintesi nell’espressione, presente in tutti i testi di catechismo, «per la vita cristiana»; intesa come integrazione tra fede e vita, criterio di lettura e di valutazione dell’intera vita dell’essere umano. A distanza di quarant’anni si può rilevare che, mentre a livello teorico si compiono scelte impegnative, nella prassi la catechesi continua a vivere una certa crisi; non sempre riesce a rispondere ai perché della persona e stenta a iniziare alla vita cristiana; ha ancora sostanzialmente una impostazione scolastica e si svolge, il più delle volte, soltanto in funzione di una socializzazione religiosa dei fanciulli e dei preadolescenti. La catechesi italiana post-conciliare vive come due livelli sostanzialmente paralleli, quello dei documenti, molto evoluto e sostanzioso, e quello della prassi, a volte povero e scialbo. Questo divario crea in alcuni un senso di sfiducia e disimpegno e fa nascere la tentazione di guardare al passato con rinnovata simpatia; ritornare, cioè, al vecchio catechismo di Pio X; in altri, provoca il desiderio di sperimentare nuove vie di pastorale catechistica, nello stile del primo annuncio e con la logica catecumenale. Si può dire che tutta l’azione pastorale della Chiesa italiana anela a elaborare qualcosa di nuovo, che ancora non ha i caratteri ben definiti e che attende di essere ulteriormente approfondito. Il passaggio in atto, che i vescovi italiani sostengono, è: dalla catechesi antropologica o esperienziale così come è stata elaborata negli anni Settanta, a una catechesi in grado di offrire una proposta di primo annuncio evangelico, per iniziare, nello stile del catecumenato antico, alla vita cristiana. Non si tratta di un rinnegamento della scelta antropologica, ma di un ricentramento della prospettiva che, nel IV Convegno Ecclesiale di Verona del 2006, è codificata nella individuazione dei cinque ambiti: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità umana, tradizione e cittadinanza. «È in quest’ottica che ci interroghiamo sulle modalità e sugli ambiti della nostra testimonianza, senza nasconderci le inadempienze e i ritardi, consapevoli di quanto il nostro tempo sia un’ora propizia per la diffusione dell’annuncio di salvezza nel mondo. A questo ci portano anche le scelte compiute circa la testimonianza al Vangelo della carità, le nuove prospettive missionarie della parrocchia, l’urgenza del primo annuncio, il rinnovamento della iniziazione cristiana, l’attenzione alla famiglia, l’accompagnamento e la proposta di senso alle nuove generazioni, il ruolo strategico della cultura e della comunicazione». La testimonianza ecclesiale è indicata, nella nota pastorale a conclusione del Convegno Ecclesiale di Verona, come il contesto più appropriato dove far convergere la dimensione spirituale della vita dei credenti; la missione pastorale della Chiesa come offerta gratuita di un incontro che arricchisce la persona e l’elaborazione di una cultura che dà ulteriore senso, in continuità con la tradizione della società italiana. La Chiesa sente, come suo dovere, di assumere la totalità della vita della persona umana, nella sua unicità e grandezza, per allargare gli spazi di confronto, di ricerca e di comunicazione e offrire a ogni uomo e donna, rinnovati itinerari educativi che inizino e facciano maturare la vita cristiana. L’iniziazione cristiana, come paradigma di tutta la pastorale, è il dono che Cristo fa di sé e la conseguente accettazione che, nella Chiesa, ogni cristiano attua nel quotidiano; nel documento sulla centralità della parrocchia, per dare corpo alla scelta missionaria della Chiesa italiana, si ribadisce che «di primo annuncio vanno innervate tutte le azioni pastorali».

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Il primo annuncio viene indicato sia come «prospettiva» con cui programmare tutta la pastorale, sia come «dimensione» fondamentale da offrire a tutte le tradizioni che caratterizzano la Chiesa italiana. Un processo complesso che coinvolge tutta la vita della Chiesa e che mira a una maturità cristiana personale, radicata nella comunione di vita con Cristo. Questo passaggio di prospettiva ecclesiale pone, in termini più vistosi, alcuni problemi che continuano a interrogare la vita della Chiesa di oggi: la qualità delle comunità ecclesiali e il significato della loro ministerialità nel mondo di oggi; il rapporto che deve necessariamente stabilirsi tra scienze umane e pastorale; la vita di fede che si fonda su un annuncio che chiama a conversione, ma la conversione richiede una vera pedagogia di crescita; il servizio che la Chiesa è chiamata a offrire al mondo e che è un servizio globale, non riconducibile da una parte alla sola dimensione sacramentale e dall’altra alla sola dimensione sociale o caritativa.

Quale attrattiva in Gesù di Nazaret.

Nel nostro tempo, non meno che nelle altre epoche storiche, Gesù di Nazaret esercita la sua irresistibile attrattiva. La figura di Gesù richiama ogni uomo ponendo interrogativi decisivi. Ogni uomo poi si accosta a Gesù e alla Chiesa portando con sé domande importanti, alcune risposte solo abbozzate, porta con sé tristezze e gioie che chiedono un senso. Ogni uomo porta con sé la domanda sul proprio destino e sul proprio cammino. La domanda così viva ai tempi di Gesù: "Sei tu colui che deve venire?" (Matteo 11,3) è tuttora attuale e mette alla prova la validità di un discorso cristologico che sia in grado di porre nella giusta luce la pretesa salvifica universale di Cristo. Viviamo poi un particolare momento storico e culturale dove l'interrogativo sulla umanità dell'uomo si fa inquietante: l'uomo diviene sempre più problema a se stesso in mezzo alle sue miserie. È possibile parlare ancora di un Dio che interviene, quando la storia sembra affermare l’esatto opposto? Per il cristiano Gesù di Nazaret è la risposta di Dio al problema della storia universale e del singolo uomo. Dio interviene in un mondo di male, inviando suo Figlio. Il successo dell’annuncio di Gesù di Nazaret sta proprio nel riconoscimento di Lui, da parte degli uomini, come il messia della storia e l’atteso di ogni uomo. Tuttavia tale successo è condizionato oggi da un contesto pluralistico: vale a dire che viene concesso alle religioni la possibilità di un annuncio, purché esso si ponga come una possibile teoria sull’uomo e su Dio e non l’unica e definitiva risposta agli interrogativi degli uomini.

Come è visto oggi Gesù.

A Gesù è tolto Dio. La vicenda umana di Gesù senza un senso trascendente e teologico.

Oggi predomina il volto storico-umano del profeta. Al centro della riflessione degli studi recenti sulla figura del Nazareno sta "Gesù, uomo libero", di una libertà incarnata nella storia, che si adempie nel dono di sé fino al sacrificio della vita; una libertà capace di fare della morte stessa, inflittagli dalle resistenze del potere oppressivo, una testimonianza del suo essere totalmente per gli altri. Gesù non è studiato come il Cristo della fede, il Figlio di Dio, ma l’uomo capace di vivere il suo essere giusto fino al martirio. L’interesse per la vicenda umana di Gesù è amplificata da una sensibilità nuova dell'uomo contemporaneo per la realtà della storia. Si è alla ricerca di verità storiche che svelino “finalmente” un mistero nascosto dietro alle credenze di una Chiesa che ha celato la verità sull’uomo Gesù dietro a falsi riti e congetture. L’uomo contemporaneo cerca di interpretare Gesù attraverso quelle categorie con le quali interpreta la propria storia: vale a dire la realizzazione della propria umanità oltre la mediocrità dell’individuo comune. L’uomo di oggi si comprende come un essere proteso in avanti verso un compimento non ancora raggiunto, appare come un essere essenzialmente in attesa, che porta con sé la coscienza del suo esistere al di sotto delle proprie aspirazioni. Per cui Gesù diviene l’uomo che riesce a vivere all’altezza della propria umanità e invita ogni uomo a fare come lui. Dall'altro l'uomo prende coscienza nella storia sempre più della impossibilità di realizzarsi da solo, oltre i limiti in cui si dibatte. Gesù è l’uomo che ha saputo vivere la sua missione di martire senza cadere sotto il peso dei limiti personali e storici.

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In definitiva Gesù non svela il volto di Dio, ma semplicemente è un uomo la cui vicenda è eccezionale e diviene modello per gli uomini. A Gesù è tolto ogni riferimento con Dio. Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo.

A Gesù è tolta la Chiesa. Il Gesù della fede non è il Gesù ecclesiale.

Una seconda corrente culturale non esclude il Gesù della fede, per cui Gesù non è considerato semplicemente un uomo. Il nostro mondo contemporaneo è alla ricerca di una "amicizia" (soprannaturale) che ricolmi il vuoto interiore che corrode l'uomo inserito in una cultura di benessere che genera quel senso di spersonalizzazione e di depressione della speranza. Per cui, dicevamo, in questi ambienti culturali si fa strada un Gesù che va oltre la sua vicenda umana, un Gesù della fede che non è il Gesù della Chiesa, ma il Gesù di ogni individuo che interpella l’uomo contemporaneo direttamente e nella sua radicalità. La ricerca della comprensione del Nazareno si incentra in una immagine del Gesù amico. Questi però non è il Gesù dei dogmi e della predicazione, ma il Gesù terreno accolto e creduto nell’intimità. Secondo molti studiosi il Cristo delle chiese sarebbe divenuto, infatti, prigioniero delle interpretazioni ecclesiastiche, perdendo tutto il suo fascino. Di qui un programma per "liberare Gesù dalla chiesa" per ritornare alla sua più pura immagine storica, affinché egli possa ancora "liberamente parlare". Un tale luogo ermeneutico (ossia l’ambito in cui si arriva a formulare l’interpretazione esatta dell’oggetto o del soggetto indagato), per sé essenziale ed irrinunciabile, tende di fatto a prevalere, scavalcando del tutto o subordinando "il luogo ermeneutico della fede ecclesiale" considerato irrilevante, relativo, come un qualsiasi luogo semplicemente culturale ed anzi, come il più delle volte, nocivo alla attualità della immagine di Gesù Cristo. Paradossalmente, allora, proprio la chiesa che ha la sua identità nell’essere "segno di Cristo" viene respinta come filtro opaco che ne rende mitica la figura, mentre in alternativa, si pensa di poter raggiungere, antropologicamente, il vero Gesù sfuggito alle comunità cristiane.

Applicazione alla mentalità comune.

La perdita del riferimento a Dio e alla Chiesa in ambiente culturale se trasferita tout court nella mentalità comune trova una corrispondenza ancora più preoccupante: Gesù è completamente scomparso. Non si sa nulla di Gesù. La pretesa dell’individuo di una relazione intima e a-storica con Gesù, “facile” per i più (quando, ad esempio, si giustifica il rifiuto della Chiesa per la ricchezza che essa ostenta; esso non corrisponde poi, nella maggior parte dei casi, ad una scelta personale di povertà), completamente soggettiva e superficiale, fa sì che in tempi più o meno brevi Gesù scompaia dalla vita delle persone e rimanga relegato nei meandri di una identità culturale (vedi i crocifissi nelle scuole) o segno di una sensibilità religiosa. Possiamo dire allora che i due problemi di partenza che una cristologia a servizio della catechesi deve affrontare sono: da una parte la concezione della storia che l'iniziato alla catechesi porta con sé, dall'altra la questione della credibilità ecclesiale. Per quanto riguarda la questione storica esiste un problema di chiusura aprioristica della storia alla trascendenza, esiste cioè il problema del linguaggio che si sta desacralizzando. L'iniziato alla catechesi, ragazzo o adulto che sia, porta con sé una storia che richiede un senso, ma ha anche una precomprensione chiusa alla trascendenza che si mostra in un linguaggio totalmente profano. Il linguaggio dell'uomo contemporaneo è un linguaggio chiuso, antropocentrico, che porta con sé un rifiuto del trascendente, è assetato di amore, ma è chiuso all'amore di Dio; vive di una cultura della storia mai letta come storia sacra, è la storia dei miracoli ma non dei segni. Invece l’evento Gesù di Nazaret chiede di essere vissuto in tutta la sua trascendentalità: non è un fatto, né una interpretazione di un fatto passato che si applica all’oggi, ma è l’incontro reale con la Parola Presente, nascosta nell’evento dell’annuncio, che si autocomunica. Nella catechesi emerge anche l'altro problema, quello della credibilità ecclesiale. Si parla di sé e non di Cristo. La cristologia a servizio della catechesi deve affrontare come problema primario, prima ancora di "dire" la Parola in un linguaggio accessibile, quello dell'identificazione tra credente e Cristo. Se in un senso teologico non è la prima identificazione, in senso catechetico è la prima. La credibilità della chiesa

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passa per l'identificazione tra Cristo e l'annunciante: Cristo è presente innanzitutto nell'uomo ecclesiale che con la sua vita e il suo annuncio reclama innanzitutto questa identificazione. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, io sono il corpo di Cristo, io sono il corpo spezzato e dato. Il DNA di Cristo si identifica con il DNA del credente, del catechista, dell’ecclesiastico. Questa corrispondenza al dettaglio è visibile all'iniziato che vive l'esperienza dell'incontro con Cristo stesso nella catechesi, nella liturgia ecc. Nella liturgia battesimale il sacerdote mentre unge il battezzato dice: “Cristo stesso ti unge”. La liturgia pone in primo piano questa identificazione: è Cristo che unge anche se materialmente è il sacerdote ad ungere. Il famoso motto: "vi riconosceranno da come vi amerete", non lo leggiamo in senso morale, ma è l'identificazione tra l'amore di Cristo e l'amore che la comunità ecclesiale mostra in tutta la sua pienezza. Non si parla mai di similitudine, ma di identificazione. Quel "vi perseguiteranno a causa mia" è la credenza reale ancora una volta che ad essere perseguitato, rinnegato, odiato è Cristo stesso nella vita di colui che annuncia, e ad amare, perdonare, consolare è Cristo stesso nella vita di colui che annuncia. Questa identificazione per grazia e non per merito, spirituale e non morale, pneumatica e non istituzionale, deve essere visibile agli occhi di chi intraprende un'iniziazione al cristianesimo o meglio alla vita in Cristo. Questo può avvenire solo se colui che funge da strumento si percepisce e si vive alla luce di un mistero di identificazione. È possibile una catechesi solo se il catechista vive una continua mistagogia: vale a dire un porsi continuamente davanti al mistero a cui si è già iniziati, ma del quale ogni giorno si comprende la profondità. Questa identificazione reale e non soggettiva, teologica e non psicologica, non è un autoconvincimento, né un semplice modo di leggere la propria giornata e la propria vita, ma è l'esistenza stessa di Dio che irrompe dall'alto e pretende di dare forma alla mia umana esistenza senza annullarla. L'opera della grazia mi rende Cristo senza annullarmi, senza togliermi il mio essere.

Gesù salvezza e speranza dell'uomo e del mondo

Qui entriamo allora nel vero mistero e scandalo dell'evento Gesù: quello di una parola incarnata che compie la storia senza interromperla. È un mistero grande, lo dico di Cristo e della Chiesa. Cristo muore e risorge e così compie la storia eppure non la interrompe. Cristo muore e risorge in me e compie in me il mistero dell'amore del Padre eppure io continuo ad essere me stesso e a fare le cose degli uomini. Non capire, non accogliere questo paradosso è non vivere il mistero di Cristo e della Chiesa. In Cristo esiste la storia ma esiste anche il compimento. Cristo è un fatto, compiuto, ma è anche il compimento che si sta attuando. Cristo è nato, e nasce; Cristo è morto, e muore; Cristo è risorto, e risorge. Altrimenti la liturgia sarebbe una metafora, altrimenti la cristificazione del credente sarebbe una via morale di perfezione, altrimenti la storia di salvezza sarebbe uno dei tanti modi di leggere la storia.

uno sguardo d’insieme

Struttura narrativa e kerigmatica della fede e della predicazione della Chiesa

Il Nuovo Testamento ci annuncia Gesù il Risorto mantenendo un forte legame con la storia.

Innanzitutto esiste un legame tra l’evento nuovo della Resurrezione e la storia di Israele: infatti l'evento salvifico Gesù Cristo, compiutosi nella Pasqua, non è un fatto isolato, a sé stante, ma è collocato essenzialmente nel cuore della storia della salvezza. Le diverse linee delle attese giudaiche circa la venuta di Dio nel suo popolo per instaurare la sua regalità escatologica e la venuta del suo inviato, il Messia, che dovrà instaurare questo regno, convergono verso Gesù di Nazaret, confessato come Signore e Cristo. Il richiamo alla economia dell'antico testamento è costante. Non solo il messaggio del nuovo testamento, ma tutto il cristianesimo antico ha con costanza ribadito questo aspetto della fede che annuncia il mistero di Cristo come compimento della storia di salvezza, strutturalmente ad essa legato. Questo legame con la storia però trova il suo luogo proprio nel rapporto tra la proclamazione del Gesù Risorto e la vicenda storica del Nazareno.

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La struttura delle testimonianze di fede nel nuovo testamento ci mostra una profonda unità tra la storia di Gesù e il suo annuncio come Risorto. Il riferimento al passato storico terreno di Gesù è in essi evidente, ma a fugare ogni dubbio circa l'importanza della memoria di Gesù di Nazaret per l'origine stessa della fede apostolica sta, nel Nuovo Testamento, la presenza del genere letterario del “vangelo”, che ha la caratteristica di realizzare l'annuncio, proprio attraverso la forma della narrazione storica. I Vangeli continuano ad essere una testimonianza della fede ecclesiale, ma in essi, l'annuncio del Risorto è inseparabilmente unito con la storia della sua vita prepasquale. Questa proclamazione del Risorto attraverso la memoria della storia è detta anamnesi, quindi i Vangeli non sono il ricordo del Gesù terreno, ma la fede della comunità cristiana nella morte e resurrezione di Gesù attraverso l’anamnesi. Il Nuovo Testamento ci presenta l’identità di Gesù sotto due forme letterarie: l’annuncio della morte e resurrezione di Gesù (formule kerigmatiche) e le narrazioni (storia di Gesù nei Vangeli). Queste due forme letterarie sono strettamente connesse: i vangeli sono l’autenticazione storica dell’annuncio e della fede delle prime comunità cristiane. Sono la definitiva risposta della Chiesa a coloro che volevano fare di Gesù un mito. I Vangeli ci dicono che l’annuncio ha un fondamento storico nella storia di Gesù, di cui gli apostoli sono i testimoni. Nello stesso tempo le formule di annuncio ci mostrano come i vangeli non siano una semplice cronologia, ma sono l’anamnesi della prima comunità cristiana, vale a dire lo stesso annuncio di fede espresso in forma narrativa. Dunque lo storico, oggi, non potrà mai arrivare con esattezza ad isolare, negli scritti neotestamentari, le parole di Gesù, come se esse non fossero legate all'atto dell'anamnesi cristiana; né tuttavia si può dire che questa anamnesi non abbia a suo fondamento la verità storica di Gesù di Nazaret, conosciuto dai testimoni diretti. Potremmo concludere dicendo che non era intenzione dei cristiani scrivere una storia “morta”, una cronologia di Gesù, perché lo consideravano vivo in mezzo a loro; dall’altra non volevano annunciare una storia falsa di Gesù, perché era in quella storia che ai loro occhi si era mostrato il Salvatore.

L'evento cristologico della rivelazione è il fondamento della fede ecclesiale

La struttura narrativa della fede e della predicazione cristiana evidenzia dunque quella coscienza di chiesa che comprende se stessa come comunità di salvezza fondata su un avvenimento di rivelazione di Dio: Dio si è rivelato nella storia attraverso i patriarchi, i profeti e in pienezza nella storia di Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. La conoscenza storica del Gesù terreno corrisponde ad un'esigenza imprescindibile della fede cristiana per la quale tale Gesù possiede un significato costitutivo. Non si può adeguatamente comprendere Pasqua se si fa astrazione dal Gesù terrestre (Kasemann). La conoscenza storica di Gesù viene allora a mostrare tutta la sua rilevanza teologica: essa sottolinea la distanza della fede cristiana dalla mitologia, mostra come questa fede ecclesiale non sia chiusa in se stessa, ma abbia il suo contenuto e fondamento oggettivo prefissato da Dio: “Dio ha operato prima che noi che credessimo”. È Gesù stesso, il suo personale messaggio, i suoi gesti misericordiosi e potenti, le sue parole che ne esprimono il senso, che costituisce "la fonte divina della rivelazione per l'uomo ed è quindi il fondamento di ogni cristologia ecclesiale" e di ogni ulteriore discorso di fede e di teologia.

Dire che i vangeli, come anamnesi cristiana, non ci descrivono una storia falsa di Gesù (punto precedente) non basta.

Dobbiamo dire che l’evento storico di Gesù è l’origine del processo dell’anamnesi cristiana. Cosa vuol dire questa precisazione?

Vuol dire che i vangeli narrano la memoria della Chiesa della vicenda di Gesù e questa memoria, grazie ai testimoni diretti, aveva come matrice il linguaggio di Gesù, lo stile di Gesù, le interpretazioni che Gesù aveva dato di se stesso. Non è la fede della Chiesa a ricostruire Gesù colmando i vuoti di memoria, ma è la memoria di Gesù a dischiudere le cose che vanno credute.

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Concludendo i vangeli sono la eco fedele del linguaggio di Gesù, del suo stile, delle sue azioni e del suo modo di comprendersi, anche se non sono la riproposizione esatta di quanto lui ha detto e fatto.

Il linguaggio di Gesù che si trova nei Vangeli non è quindi solo il risultato di una ricostruzione posteriore che interpreta la sua prassi storica. Il suo linguaggio costituisce la intrinseca e fondamentale matrice del linguaggio evangelico. Quest’ultimo è la norma primaria della fede insieme all’evento stesso.

La fede si sviluppa nel NT in vari stadi ed ha il suo punto di partenza nell'evento storico di Gesù

Il primo stadio di sviluppo della fede ecclesiale è profondamente legata all'incontro storico-umano con Gesù di Nazaret. Le parole di Giovanni 1,14 (E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità) sottolineano il carattere incarnato di una fede che non è solo visione interiore per il carisma dello Spirito, ma anche un'esperienza veramente umana di incontro. Questa esperienza storica, da parte di alcuni uomini prima della Pasqua, era già fede autentica anche se in fase iniziale: vale a dire che gli apostoli non restarono alla superficie dei fatti nella loro umana constatazione, ma ne penetrarono già in qualche modo il mistero che in essi si compiva. Esiste quindi un atteggiamento della fede proprio dei giorni della carne che comprese il vedere, l’udire, il sentir umano. La fede dei discepoli durante la vicenda storica di Gesù non fa ancora di loro dei santi, ma sicuramente dei testimoni credibili. Ora questo legame essenziale del credere al vedere e al sentire non dovrà essere superato nelle future generazioni cristiane da uno stadio di fede disincarnata dall'esperienza storica. Certo, con il ritorno del Cristo al Padre e la venuta dello Spirito entra in vigore un regime nuovo: quello del credere senza vedere, ma anche in questo stadio ulteriore della fede, interiormente più approfondita ed evoluta, rimarrà sempre essenziale e normativa per tutte le generazione dei credenti l'esperienza storica dei testimoni prescelti dall'inizio. Importante per noi quanto ci dice Giovanni: l’esperienza storica dei detti e dei fatti di Gesù viene trasmessa fedelmente nella forma di testimonianza (prima lettera di Giovanni 4,14). Grazie a questa testimonianza diretta la fede di coloro che crederanno senza vedere sarà sempre una fede incarnata, cioè legata al fatto della trasmissione (kerigmatica e narrativa) della testimonianza di coloro che allora hanno visto e udito. Per cui possiamo dire che all’origine della fede di ogni cristiano vi è sempre la vicenda storica di Gesù anche se essa arriva all’uomo attraverso la trasmissione della fede. Questa considerazione è decisiva per una cristologia che intende evolvere un discorso di fede in Cristo: essa non potrà non tener conto della genesi della fede in lui e della importanza costante e fondamentale della conoscenza storica di Gesù di Nazaret. Essa si raggiunge però non storicisticamente, ma attraverso la testimonianza di coloro che non solo hanno visto, ma anche creduto. Il secondo stadio di sviluppo della fede ecclesiale è caratterizzato dal permanere di Gesù come presenza attuale di Risorto che insegna mediante l'opera dello Spirito e del ministero apostolico. Per tale insegnamento la Chiesa avanza in una comprensione progressiva sempre più adeguata della sua verità. La tradizione apostolica non è solo un atto interpretativo istituzionale, bensì è un portare alla luce, sotto la ispirazione dello Spirito Santo, il significato intimo che appartiene all’evento cristologico. La cristologia della chiesa apostolica non si sovrappone alla cristologia di Gesù, ma è l'atto con cui la chiesa condotta dallo Spirito di Cristo raggiunge le nascoste dimensioni cristologiche dell'evento originario costituendo perciò la norma più adeguata della fede della chiesa per ogni tempo. Per cui la cristologia apostolica per noi diviene uno strumento imprescindibile per arrivare alla cristologia di Gesù.

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Quale cristologia a servizio della catechesi?

Una cristologia a servizio della catechesi deve partire dalla comprensione della possibilità reale di incontro con il Crocifisso Risorto. Deve saper rispondere alla seguente domanda: come è possibile un incontro reale con il Risorto dopo la vicenda del Gesù terreno? Se la catechesi è la via primaria della parrocchia all’iniziazione alla vita in Cristo, essa deve saper comprendere il mistero dell’incontro personale con Gesù Crocifisso e Risorto. Il catechista deve saper comprendere questo mistero per poter condurre l’iniziato a tale incontro personale. Tutta la catechesi deve essere un servizio volto a fare in modo che il singolo si senta chiamato personalmente da Cristo a fare parte della comunità ecclesiale e a condurre una vita conforme alla vocazione che gli verrà donata. Dobbiamo interpretare non in senso metaforico, ma reale, la fede della Chiesa quando dice che è Cristo stesso che è presente nella preghiera, nella carità, nella catechesi, nel servizio, nella memoria di Lui, nei sacramenti, nell’annuncio missionario. Una cristologia a servizio della catechesi può avere come oggetto della propria riflessione solo il Cristo permanentemente presente nella comunità cristiana che crede in Lui e lo annuncia ad ogni uomo bisognoso di salvezza. La nostra riflessione non può partire dal Gesù terreno, come se il Cristo fosse un evento, un personaggio del passato, conclusosi duemila anni fa. La nostra riflessione non può partire dal Gesù dei dogmi, come se il Cristo fosse un’invenzione, un’interpretazione della Chiesa, senza nessun legame con il Gesù terreno. La nostra riflessione parte dalla constatazione che Gesù stesso viene ad incontrare ogni uomo, di ogni razza, lingua e cultura per chiamarlo alla salvezza e annunciargli l’amore misericordioso del Padre. La persona di Gesù è il nostro punto di partenza. Non il Gesù morto e sepolto, ma il Crocifisso Risorto che ancora oggi incontriamo nella nostra vita di credenti. In questo senso potremmo azzardare questa affermazione: non siamo noi a fare cristologia, ma è Lui che ci dispiega il suo mistero.

Percorso

Come accostarci alla persona di Gesù? Come interpretare la sua persona? Chi è Gesù, Signore e Salvatore? Passo primo: solo una persona può svelare se stessa. Nessuno può dedurre una persona per via teoretica. Ci sono dei gemelli cresciuti nei medesimi ambienti che arrivano ad essere diversissimi. Solo una persona può dire se stessa. Se questo vale per gli uomini, vale anche per Gesù. Gesù è presente per rivelare se stesso. Gesù vuole dire chi sia. Lo vuole dire in un incontro personale con noi uomini. Gesù si rivela personalmente e chiama personalmente alla Vita e alla sequela. Passo secondo: se a ognuno è data la possibilità di incontrare Gesù nella propria storia, questo vuol dire che la storia ha in sé la possibilità di aprirsi a una dimensione che va oltre la materialità. Il catechista deve saper insegnare a leggere la storia oltre la materialità dei fatti. Gesù si incontra nella storia non materialmente, ma realmente. Questo perché la storia ha una dimensione trascendente, vale a dire: esiste una realtà che si nasconde dietro i fatti, ma con gli occhi della fede può essere vista. Passo terzo: esiste un luogo privilegiato in cui Gesù rivela se stesso? Il luogo privilegiato in cui Gesù non solo viene incontrato, ma anche interpretato nella fede è la comunità ecclesiale. Nella comunità ecclesiale che annuncia Gesù Crocifisso e Risorto troviamo il luogo in cui Gesù si fa prossimo ad ogni uomo e svela la sua identità di Figlio e Salvatore. Passo quarto: la credibilità della chiesa come luogo cristologico, non è data a livello istituzionale, ma testimoniale. Esiste una identificazione tra credente e Cristo, che rimane evidente agli occhi di colui che riceve l’annuncio.

Come cominciare?

L’annuncio degli apostoli dopo la pentecoste della resurrezione di Cristo è l’evento esemplare che ci mostra come Gesù incontri l’uomo svelando se stesso. Il testo per noi chiave è il Kerigma in 1 Cor 15:

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3 Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. Gesù si rivela come il Crocifisso Risorto. Gesù adempie le scritture proprio facendosi Crocifisso Risorto. Gesù svela l’azione del Padre proprio essendo il Crocifisso Risorto. Dobbiamo allora vedere nelle narrazioni evangeliche come venga descritta l’identità di Gesù come Crocifisso e come Risorto.

3 Come comunicare il mistero della morte e risurrezione di

Gesù nella cultura contemporanea

contributo di Marco Tibaldi

al Documento base per l'anno della fede nella Diocesi di Bologna

Introduzione Il progetto pastorale della Chiesa bolognese è in piena continuità con le indicazioni della CEI che ha messo al centro della sua riflessione la comunicazione della fede: «Per questo, ci pare che compito assolutamente primario per la Chiesa, in un mondo che cambia e che cerca ragioni per gioire e sperare, sia e resti sempre la comunicazione della fede, della vita in Cristo sotto la guida dello Spirito, della perla preziosa del Vangelo»1. È questa l'intonazione comune che, a partire dall'impulso dato dal Vaticano II, si è poi concretizzato in una miriade di iniziative sia a livello di Chiesa universale - come ad esempio la costituzione del dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione o l'iniziativa pastorale del Cortile dei gentili, per non parlare del Catechismo e del Compendio - , sia a livello nazionale e locale, con il tentativo di rilancio del progetto catechistico italiano, la declinazione del tema comunicazione della fede in quello dell'educazione e così via. L'anno della fede che ci apprestiamo a vivere è un'occasione preziosa per riflettere e per sperimentare “cose vecchie e cose nuove” su come comunicare il mistero centrale della nostra fede: la morte e risurrezione di Gesù. In questo testo, verranno fornite alcune linee di riflessione sul come comunicare Gesù nel contesto contemporaneo2, rimandando l'approfondimento della sua figura agli altri contributi.

Le difficoltà A fronte dell'imponente sforzo di “aggiornamento” e comunicazione portato avanti dalla comunità ecclesiale nel suo complesso, persistono però ancora delle difficoltà di linguaggio. Una osservazione la cogliamo da Benedetto XVI che così riassume la situazione: «Ma come detto, in questo grande contesto la religiosità deve rigenerarsi e trovare così nuove forme espressive e di comprensione. L'uomo di oggi non capisce più immediatamente che il sangue di Cristo sulla croce è stato versato in espiazione dei nostri peccati. Sono formule grandi e vere, e che tuttavia non trovano più posto nella nostra forma

1 CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n.4; le parole evidenziate in corsivo sono nel testo. 2 Il presente testo è la rielaborazione di due miei articoli apparsi su La rivista del Clero Italiano rispettivamente:

"L'evangelizazione ai tempi del Grande Fratello. Narrazione biblica e nuovo annuncio", in RCI, 12, 2011, 842-856 e "Nuovi linguaggi per dire la fede", in RCI, 6, 2012 ,405-420.

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mentis e nella nostra immagine del mondo; che devono essere per così dire tradotte e comprese in un modo nuovo»3. A fronte degli imponenti cambiamenti che segnano la nostra epoca che, non dimentichiamolo, ha sentito il bisogno di darsi un nuovo nome proprio per indicare la radicalità dei cambiamenti in atto, a giudizio del Papa, si devono trovare «nuove forme espressive e di comprensione», che possano parlare alla «forma mentis» dell'uomo contemporaneo, al quale «le formule» con cui la verità della nostra salvezza è stata descritta finora non dicono più nulla. È importante notare che non si tratta tanto di sviluppare una sorta di marketing o di pubblicità spirituale, ma di attuare una vera e propria ricomprensione del nucleo sorgivo del messaggio cristiano. Solo così lo si potrà nuovamente codificare all'interno dei linguaggi della contemporaneità. Il tema del linguaggio ha poi un'altra dimensione forse più interna ma non meno significativa che raccogliamo da un'osservazione di Pierangelo Sequeri: «la città brucia e noi impieghiamo la maggior parte del tempo a spiegarci tra noi. In ogni caso, siamo ormai in regime di dialogo permanente da un bel po', ma l'accanimento delle parti per la pura difesa del diritto di stare in scena si aggrava ogni giorno»4. Viene in mente il detto evangelico sulla divisione del regno (Mc 3,24). Se si fatica a trovare un linguaggio comune all'interno sarà doppiamente difficile che lo si possa trovare per parlare a chi si sente lontano.

Prima mossa: rimettersi in ascolto dell'altro Se è importante conoscere e approfondire ciò che si vuole comunicare, nel nostro caso la relazione con il Risorto, è altrettanto importante conoscere chi è il nostro interlocutore, il fantomatico 'uomo di oggi'. È vero, da un lato, che esistono delle caratteristiche comuni all'uomo di 'sempre', però è altrettanto vero, come insegna la storia dell'evangelizzazione dagli Atti degli Apostoli ad oggi, che esistono accentuazioni, sensibilità, categorie mentali, simboli, detto in una parola culture, diversi. Ogni epoca ha la sua o le sue culture, nel senso più generico del termine, e il primo passo della comunicazione della fede consiste proprio nel saperle leggere e interpretare, per poter così accogliere le persone che vi si identificano. Qui però sorge una difficoltà. Quando si decide infatti di dedicare tempo ed energie mentali alla decodifica del contesto contemporaneo, subito emerge un altro tipo di difficoltà: lo scandalo che esso suscita per la sua superficialità e mancanza di verità. È questo quello che accade quando, ad esempio, ci si voglia interrogare sul perchè del successo di programmi come il Grande Fratello5, che certamente segnano l'avvento di una nuova fase della comunicazione di massa. In questi casi è forte la tentazione di etichettare tali programmi come inconsistenti, superficiali voyeristici ecc. giudicando così immancabilmente anche coloro che li guardano. Il rischio del loro allontanamento però è reale perchè a nessuno piace essere giudicato negativamente. Di contro, va ricordato che è buona norma, per ogni comunicatore, avere ben chiari sia gli obiettivi della propria attività, quanto conoscere a fondo il punto reale in cui si trova il destinatario dell’azione educativa che si vuole intraprendere. Ciò implica due atteggiamenti complementari: la sospensione del giudizio (una sorta di epoché educativa) nei confronti del sistema di valori, identificazioni, orizzonti di senso del proprio interlocutore, e, in parallelo, la loro attenta ed empatica considerazione. Ciò non vuol dire rinunciare ad una pur legittima e doverosa azione critica, occorre però che questa sia inserita in un processo il cui primo gradino è l’accoglienza incondizionata dell’altro, anche se le sue idee e valori sono quanto di più lontano ci possa essere dalla nostra formazione e sensibilità. Senza questa opera di accoglienza e sospensione del giudizio, l’altro si sentirà inevitabilmente incasellato all’interno di un giudizio anche vero, ma spietato e senza carità. Ignorare questa elementare, quanto difficile, regola pedagogica preclude inevitabilmente il dialogo reale con l’interlocutore, facendo sì che la comunicazione diventi paradossale6. L’altro, mangiata rapidamente la foglia, si adeguerà esternamente, non senza fatica e rabbia, al giudizio che l’educatore o il 3 Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2010, 192. 4 P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011,6. 5 Per una valutazione complessiva cf. Francesco Occhetta, “Il Grande Fratello” in, La Civiltà Cattolica, 17/05/2008, n.

3790, 337-347. 6 Cf il classico ma sempre attuale, P.Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana, Roma 1972; M

Tibaldi, Annunciare Gesù, op.cit., 93-102.

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comunicatore ha sparato su di lui, visto che in genere non è in una posizione tale da poterlo contestare, ma internamente prenderà le distanze dal messaggio ricevuto e appena potrà lo contesterà apertamente. Accogliere l’altro significa quindi accogliere incondizionatamente il suo mondo, il suo orizzonte, cercando nel contempo di capirlo a fondo.

L’esempio di San Paolo Anche Paolo si è trovato di fronte al problema dello scandalo suscitato dalla radicale diversità dell'orizzonte culturale del proprio interlocutore ed è riuscito però brilantemente a superare l'ostacolo (At 17). Tra i tanti spunti offerti dal celebre brano7, sottolineiamo la capacità di Paolo di leggere la cultura idolatra greca, senza lasciarsi rinchiudere nella gabbia del fustigatore dei costumi altrui. Il testo riporta esattamente la reazione di Paolo a passeggio per la capitale dell’ellenismo: “fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli” (At 17,16), un po’ come capita a noi di fronte al Grande fratello. Lo sdegno provato, però, non gli impedisce di avere una comunicazione efficace ed accogliente verso i suoi interlocutori: prova ne è che ogni giorno discuteva sia con i giudei nella sinagoga ma anche “sulla piazza principale con quelli che incontrava” (At 17,17). Paolo non cade nel tranello della predicazione fustigatoria, che alla fine darebbe solo sfogo alla rabbia accumulata senza generare una vera comunicazione. Non si rifugia nemmeno nell’attesa dei suoi collaboratori (Sila e Timoteo che attendeva a giorni) per realizzare con loro la comunità dei ‘puri’, di coloro che rischiano di essere accomunati solo dalla critica negativa del mondo circostante. Paolo si mostra capace di compiere quell’epochè di cui parlavamo prima, di ‘digerire’ la rabbia che la visione di tanti idoli, giustamente, gli provoca perché non vuole che questa rabbia diventi un impedimento alla sua missione. È anche questo, se vogliamo, un modo di vivere il proprio battesimo: accettare di immergersi nella sensazione di morte generata dall'abbandono del proprio giudizio, dalla rinunzia a voler dire a tutti i costi le proprie 'giuste' valutazioni, insomma a saper tacere per amore dell'altro. E sopratutto a saper attendere dentro questa morte silenziosa la consolazione dello Spirito che 'sbollita la rabbia' consenta di formulare una parola chiara ma che, nel contempo, non suoni come un giudizio stizzoso verso il proprio interlocutore. Se la predicazione di Paolo fosse stata venata di rabbia ben presto lo avrebbero lasciato perdere. Come Gesù, che aveva la capacità di accogliere proprio i lontani - i peccatori e i pubblicani lo ascoltavano volentieri (Lc 15,1) - così le discussioni intavolate da Paolo suscitano interesse “sulla piazza principale, con quelli che incontrava” (At 17,17), al punto da coinvolgere anche esponenti delle due scuole filosofiche allora dominanti in Atene, quella stoica e quella epicurea. Sono loro che lo invitano all’Areopago, prestigiosa istituzione politica e culturale dell’Atene classica, ma anche una sorta di talk show ante litteram poiché, come annota il redattore degli Atti, “gli ateniesi non avevano passatempo più gradito che parlare e sentir parlare” (At 17,21). All’interno del discorso paolino all’Areopago, è da sottolineare la capacità di non condannare la cultura dell’altro pur così diversa dalla sua, come anche il poterla utilizzare in modo intelligente per farvi germinare il seme della Parola di vita. È così che Paolo trova il varco per poter parlare del “dio ignoto agli ateniesi” anche se inconsapevolmente cantato dai loro poeti come Arato di Soli (At 17,28). Questo genere di analisi non si improvvisa e presuppone lo studio attento e approfondito dell’altro, del suo mondo e del suo modo di rappresentarsi. Soprattutto, però, indica la capacità di individuare le domande implicite nella cultura dell'altro. Paolo fa leva, infatti, sulla ricerca religiosa degli ateniesi emblematicamente rappresentata dall'altare al dio ignoto. Esso è simbolo di una ricerca aperta che non si è conclusa e che lui cercherà di colmare con l'annuncio cristiano.

L'orizzonte simbolico del nostro destinatario Forti dell'esempio paolino, possiamo tornare al nostro contesto e cercare di rinvenire quelle domande di senso che si trovano, ad esempio, all'interno dei programmi televisivi di successo. Essi sono l'orizzonte simbolico del nostro interlocutore e, ci piaccia o no, questi vi trova affrontate a un qualche livello questioni per lui decisive. Si va dai telefilm8 ai cartoni animati9 ai tanto discussi reality che, pur

7 P. Bizzeti, Fino ai confini estremi. Meditazioni sugli Atti degli apostoli, Bologna 2008, 283-294. 8 Aldo Grasso, Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Milano 2007. 9 Citiamo solo a mo' di esempio due testi di analisi e approfondimento relativi al fenomeno “Simpson”, i cartoni

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registrando una certa flessione negli ascolti, hanno ancora una buona presa sul pubblico dei giovani e non solo. Il motivo del loro successo riside nella capacità di interecettare alcune domande antropologiche decisive. Se prendiamo ad esempio il programma condotto da Maria de Filippi nella prima fascia pomeridiana, Uomini e donne, ci possiamo accorgere che esso implicitamente parla di temi decisivi per la crescita di un giovane: come si fa a piacere ad un altro/a? Come si fa a conquistarlo? In base a che cosa l’altro o io scelgo? Che ruolo ha il corpo e il carattere, l’esterno e l’interno? Cosa dicono gli 'altri', rappresentati dal pubblico, delle mie scelte? La stessa valenza antropologica si può ritrovare in altri reality di successo: nel Grande fratello, accanto agli immancabili e deprecabili aspetti voyeristici, viene messo a tema il problema oggi particolamente sentito della convivenza tra 'diversi', mentre in Amici, sempre condotto da Maria de Filippi, si fa leva sulla legittima aspirazione dei giovani a diventare 'qualcuno', ad uscire dalla massa degli indistinti per scoprire una propria originalità, mentre in C'è posta per te, viene di frequente affrontato il tema della riconciliazione: come si fa a sanare una ferita inferta magari tra genitori e figli o tra fratelli? Gli esempi potrebbero moltiplicarsi e applicarsi efficacemente ad ogni tipologia di questi programmi. La suggestione che ricaviamo da essi è duplice. In primo luogo abbiamo visto come il loro sucesso dipenda dalla capacità di intercettare domande relative ai vissuti delle persone che in sintesi si possono raggruppare nella domanda: come si fa a vivere? E soprattutto come si fa a vivere bene, che vuol dire 'diventare qualcuno', essere accettati, benvoluti, amati, sapersi riconciliare con gli altri e con sè stessi. Queste aspirazioni e desideri legittimi del cuore umano ci parlano per converso delle paure che assillano 'l'umo di oggi': la prima è forse quella di non 'apparire', di non essere importante per nessuno, da cui la ricerca spasmodica di 'esserci' in tv, nelle 'notifiche' o nelle 'amicizie' di facebok come nei mesaggini del telefonino... Non secondaria, è la paura di non trovare l'amore, di rimanere soli, di non essere piacenti, di non essere in pace con il proprio corpo ecc. In definitiva, a ben guardare, dietro a questi fenomeni c'è il desiderio di combattore in salsa tecnologica il nemico di sempre: la morte intesa nel suo multiforme aspetto di fine biologica, ma anche di insignificanza, vuoto, delusione, separazione. In secondo luogo, notiamo come la costruzione di questo genere di programmi abbia una duplice nota: da un lato sono 'visivi', le immagini hanno un peso e un'importantza enorme e dall'altro hanno un andamento narrativo. Ci sono sì lunghi e a volte estenuanti dibattiti, avvolti però dalla narrazione delle storie dei personaggi coinvolti. Tutto ciò ci porta a reintorrogarci sul nostro patrimonio tradizionale per recuperare strumenti e approcci che forse avevamo dimenticato.

Dal linguaggio ai linguaggi La prima riscoperta che siamo invitati a fare, a partire dalla lettura del contesto contemporaneo è la ricchezza della rivelazione come fenomeno comunicativo. Se, come è accaduto nella stagione successiva al Vaticano I, si intende la rivelazione soprattutto come una «istruzione»10 sulle verità di fede, il linguaggio con cui essa verrà comunicata sarà soprattutto quello verbale e la trasmissione della fede tenderà a ridursi a un'informazione sui suoi contenuti. Questo modello non è da condannare acriticamente perché va compreso all'interno del contesto in cui è maturato. In un'epoca ancora fortemente segnata dalla cosiddetta “cristianità”, in cui i vissuti delle persone erano ancora permeati da tanti segni della presenza del cristianesimo, è chiaro che la riflessione consapevole si concentrasse su alcuni aspetti messi in discussione dal razionalismo dell'Ottocento. Quando però l'erosione secolarista ha depotenziato la presenza del cristianesimo nel tessuto sociale, la permanenza di modelli di linguaggi e di comunicazione della fede improntati prevalentemente se non esclusivamente sull'istanza veritativa ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Tra i due concili e, sopratutto in seguito al Vaticano II, non a caso uno dei settori della teologia che ha subito maggiormente una revisione è stata proprio la teologia della rivelazione. Questa è stata riscoperta

animati creati da Matt Goening che godono ormai di un più che ventennale successo: W. Irwin- M. T. Conard- A.J. Skoble, I Simpson e la filosofia, Milano 2005; B. Salvarani, Da Bart a Barth. Per una teologia all'altezza dei Simpson, Torino 2008.

10 C.Theobald, La rivelazione, EDB, Bologna 2006, 38- 42.

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come un processo multiforme e articolato di comunicazione che investe tutta la persona e non si rivolge solo alla sua ragione. La Lettera agli Ebrei lo ricorda in modo inequivocabile: Dio parla «molte volte», in «diversi modi» e «ultimamente ha parlato per mezzo del Figlio» (Eb 1,2). Il Figlio poi come ricorda l'incipit dell'Apocalisse ha «reso note le cose che devono presto accadere» «manifestandole», letteralmente «dando dei segni» (or. gr. esemanen lat. signum do) che, come attesta l'ultimo libro della scrittura sono molteplici: verbali, iconici, corporei. È quindi nell'Apocalisse presa nel suo insieme e nel suo meccanismo di funzionamento, un'assemblea liturgica domenicale che rilegge e attualizza le visioni di Giovanni, che possiamo trovare il paradigma dei linguaggi che andiamo cercando11. Un autore che ha pensato a fondo la rivelazione nel segno dell'Apocalisse è Hans Urs von Balthasar dal quale possiamo ricavare la lettura teologica della molteplicità dei linguaggi per pensare ed esprimere la fede in Gesù che stiamo cercando.

La rivelazione come processo di comunicazione globale Per il noto teologo, la teologia deve essere riorganizzata seguendo la forma propria della rivelazione nei suoi tre momenti costitutivi: l’Estetica teologica12, la Teodrammatica13 e la Teologica14. Così come la rivelazione si apre con la creazione della forma, il primo momento della teologia è dato dalla sua percezione che è prima di tutto un 'vedere'. Il secondo momento è invece rinvenibile nell’interazione che Dio ha instaurato con l’uomo all’interno del “teatro del mondo”, da qui il teodramma che ha per protagonista principale il Figlio incarnato nel suo dialogo drammatico con l’umanità ribelle. Il terzo momento è dato dalla riflessione sull’intero processo, per metterne in luce tutta la verità. In questa articolazione possiamo trovare il fondamento della pluralità dei linguaggi con cui la fede può essere raccontata. Parlare di pluralità di linguaggi non implica sceglierne alcuni per abbandonarne altri: i diversi linguaggi, da quello estetico a quelli interattivi o più propriamente riflessivi, non sono in alternativa tra loro; prima o poi infatti dall'uno si deve di necessità passare all'altro, pena una decurtazione della rivelazione e della fede che l'accompagna. Il pregio della proposta balthasariana è stato proprio quello di far vedere la necessaria complementarietà dei tre momenti, visivo (il bello) interattivo (il bene) e riflessivo (la verità). Nel contempo la sua riflessione ha ridato vigore e dignità teologica alla prospettiva del vedere e delle bellezza eccessivamente trascurate. E con essa ha ridato fiato al rapporto con gli altri due trascendentali come ha paradigmaticamente ricordato Solzenicyn nel suo Discorso di Stoccolma. Lì lo scrittore, fine interprete delle metamorfosi del senso religioso contemporaneo, segnalava come all’inaridimento dei primi due rami dell’essere, il vero e il bene, assorbiti da una modernità riduttrice e a volte totalitaria, resisteva «solo il ramo della Bellezza», a cui «tocca ora di far fruttificare tutta la linfa del tronco». Affermazione supportata dallo stupore generato in lui «da un po' di anni, dalla folla che abbandona le chiese ma si affretta ad andare alle grandi mostre… come se aspettassero dalla bellezza la giustificazione della vita, la rivelazione del senso».

Una comunicazione affettiva

Oltre a queste constatazioni, oggi facilmente verificabili, la valorizzazione dell'estetica consente di recuperare la considerazione teologica per la dimensione affettiva. Ciò consente di rimuovere un

11 Per un inquadramento complessivo cfr. U.Vanni, L'Apocalisse. Ermeneutica esegesi teologia, EDB, Bologna 2005 12 «Perchè si chiama Gloria la prima parte di questa sintesi? Perché anzitutto si tratta di prendere visione della

rivelazione in genere di Dio, e Dio può essere veramente riconosciuto unicamente dalla sua signoria, sovranità, da ciò che Israele chiama kabod e il Nuovo Testamento gloria, pur sotto tutte le incognite della sua natura umana e della croce. Ciò signifca: Dio viene primariamente non come maestro per noi ("vero"), non come "redentore" con tanti scopi per noi ("buono"), ma per mostrare e irradiare Se stesso, la gloria del suo eterno amore trinitario, in quella "assenza di interesse" che il vero amore ha in comune con la vera bellezza» H. U. von Baltahsar, La mia opera ed epilogo, Jaca Book, Milano 1994,67.

13 «Ma la manifestazione di Dio (Theophania) è solo il preludio all'evento centrale: lo scontro, nella creazione e nella storia, tra la libertà divina infinita e la libertà umana finita. Di questo centro tratta la Teodrammatica» H. U. von Baltahsar, La mia opera ed epilogo, 77.

14 «La riflessione sul modo in cui l'evento drammatico può essere trasposto nelle parole e nei concetti umani per la comprensione, l'annuncio e la contemplazione» H. U. von Baltahsar, La mia opera ed epilogo, 79.

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pernicioso luogo comune della tradizione occidentale, presente nella filosofia quanto nel cristianesimo: «l’idea che gli affetti e l’estetico appartengono di principio – e magari di diritto – alla sfera dell’irrazionale»15. A questo fa da contrappunto l’insistenza su un’idea di razionalità anaffettiva e anestetica: «un logos che si coltiva asceticamente nell’incontaminatezza, nella separazione, nell’indifferenza alle fedi, alle speranze e agli amori, sui quali peraltro si dispone poi – in virtù della sua coltivata insensibilità - ad emettere sentenze inappellabili di attendibilità razionale e di coerenza etica»16. Detto altrimenti, l’estetica costringe al ripensamento di quell’ontologia degli affetti che la ragione occidentale ha sempre tenuto a distanza. Si tratta in definitiva di recuperare, in tutta la sua importanza, la considerazione per la sensibilità umana, il legame inscindibile tra logos e aisthesis. Se il logos cristiano non rimette a tema queste dimensioni rischia di rimanere «a lungo scisso fra un lato virtualmente razionalistico, che non ha concetti per le affezioni di Dio, e un lato spensieratamente retorico, dove l’enfasi è interiormente posta sull’esperienza della relazione, in contrapposizione con il logos astratto della verità del concetto»17. Alla luce di questi guadagni teorici, vediamo ora alcune applicazioni in linea con queste persuasioni.

Guardare e vedere Uno dei settori in cui negli ultimi anni sono state applicate le considerazioni che abbiamo sviluppato è stato quello dell'arte sacra. Tra gli antesignani del recupero e della valorizzazione del nostro patrimonio in chiave catechetica c'è sicuramente Mons. Timoty Verdon, da anni responsabile dell'Ufficio diocesano di Firenze per la catechesi attraverso l'arte. Egli segnala una difficoltà tipica dei nostri tempi assediati dalle immagini: «Guardiamo, registriamo pure il senso della cosa guardata, ma non lasciamo che l'esperienza visiva oltrepassi il livello nozionale per toccare i sentimenti, per commuovere, per imprimersi nel nostro spirito. Trovando false e triviali, se non addirittura disumane e degradanti, molte immagini che la cultura vigente propone, chiudiamo gli occhi del cuore per conservarne l'integrità: al junk food preferiamo il digiuno»18. Ciò è particolarmente grave se consideriamo il valore che ha il vedere nell'esperienza cristiana, il cui termine ultimo è sempre stato descritto nei termini proprio di una beatifica visio. Inoltre sempre Verdon ricorda il rapporto unico che nel cristianesimo si viene ad instaurare tra arte e teologia: «si tratta infatti di un rapporto unico nella storia delle religioni, perché laddove in altri sistemi di fede l'arte illustra contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo l'arte conduce, per la sua stessa natura, al cuore della cosa creduta: il paradosso di un Dio spirituale che ha voluto esprimersi in forma materiale»19. Da qui l'importanza del recupero e dell'educazione della visione dell'opera d'arte cristiana e la sua valorizzazione in chiave catechetica. Per far questo, occorre saper leggere il contesto antropologico, liturgico e scritturistico entro cui sono germinate le opere d'arte, per farle nuovamente parlare. Nel rapporto con la Scrittura si viene ad instaurare un rapporto particolare di circolarità ermeneutica, poiché «l'immagine si pone come “epifania” e “apocalisse”, manifestazione e rivelazione del senso profondo dei testi. L'arte nel luogo di culto illumina l'attesa dei credenti, visualizzando la trasformazione spirituale promessa dalla Bibbia, col solo fatto di trasformare la materia»20. Troviamo qui verificata quella circolarità tra i trascendentali di cui parlava Balthasar: il vedere è infatti occasione per scoprire quanto era stato promesso dalla lettura dei testi sacri, anticipo della trasformazione reale, drammatica, della vita delle persone.

Il turismo come luogo teologico Un interessante sviluppo delle intuizioni di Verdon è costituito dal progetto Pietre vive fondato a animato dal padre gesuita Jean-Paul Hernàndez, che lo ha illustrato recentemente ad un seminario promosso dal Servizio nazionale per il progetto culturale assieme all'Ufficio catechistico nazionale e all'Ufficio

15 P. Sequeri, Il corpo del Logos. Pensiero estetico e teologia cristiana, Glossa, Milano 2009, 8. 16 P. Sequeri, Il corpo del Logos, op.cit., 10. 17 P. Sequeri, Il corpo del Logos, op.cit., 23. 18 T.Verdon, Attraverso il velo. Come leggere un'immagine d'arte sacra, Ancora, Milano 2007, 11; ed anche T.Verdon

(ed.), Arte e catechesi. La valorizzazione dei beni culturali in senso cristiano, EDB, Bologna 2002. 19 T.Verdon, Attraverso il velo, op.cit., 14. 20 T.Verdon, Attraverso il velo, op.cit., 22.

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nazionale per i beni culturali ecclesiastici21. Questi ha definito Pietre vive una sorta di apostolato al quadrato perché coinvolge sia chi lo mette in atto, per lo più giovani volontari, sia i destinatari in un'intensa esperienza di primo annuncio. Cominciato durante gli anni della sua formazione in Germania nel duomo di Francoforte, il padre Hernàndez ha sviluppato un suo originale percorso di annuncio attraverso i monumenti dell'arte cristiana. Il punto di partenza del suo itinerario è stata l'attenta valutazione del fenomeno del turismo che è oggi una sorta di luogo teologico: «il turista che entra in una nostra chiesa è spinto consapevolmente o inconsapevolmente da questo interrogativo: “Chissà che in questo luogo non trovi una novità per la mia vita, qualcosa che le dia senso?” In una lettura di fede, potremmo dire che è lo Spirito a spingere il turista in questa ricerca. Il turista al contempo desidera e teme questa scoperta. Perché se davvero trova qualcosa, allora la sua vita cambia... e perciò è importante che la comunità cristiana accompagni questo cercatore in questo momento decisivo»22. Il turista è un po' come la Veronica rappresentata dallo scultore Joyce Maria Subirachs in una delle facciate della Sagrada Familia di Barcellona. Una donna senza volto che ha in mano un panno con impresso il volto di Cristo, come a dire che solo in quel panno che simboleggia la chiesa potrà anch'essa ritrovare il proprio volto e la propria identità. Per raggiungere questo obiettivo, il progetto si articola in alcuni snodi fondamentali. Il primo è la sottolineatura che l'edificio stesso della chiesa è già quel cortile dei gentili di cui ha parlato Benedetto XVI. Non solo metafora ma vero e proprio luogo per i gentili di oggi, a cui appartiene emblematicamente proprio il turista. Il primo oggetto del percorso di annuncio è allora far percepire la caratteristica simbolica fondamentale dell'edificio chiesa, che si rifà al modello della basilica paleocristiana. Nasce cioè come contaminazione di uno spazio profano, la parte coperta del foro romano ove venivano trattati gli affari, la politica e amministrata la giustizia, con lo spazio religioso, lo spazio della liturgia. Ora simbolicamente questo sta a significare che nella chiesa la liturgia che vi viene celebrata e la parola che vi viene annunciata non si rivolgono ad un settore particolare della vita dell'uomo ma intendono animare tutti gli aspetti della vita, a cominciare proprio dai più concreti, come l'uso del denaro o dei beni. È un Dio che si fa trovare in tutte le cose e che tutte reputa degne della sua attenzione. Così il turista, che forse si aspettava da queste giovani guide un “fervorino” religioso, viene condotto da esse, con semplicità ma anche con forza, ad uno dei misteri centrali della fede cristiana: il mistero dell'incarnazione di Dio, che è voluto entrare nelle vicende dell'uomo, condividendone tutti gli aspetti, anche quelli più quotidiani e feriali. Questa impostazione genera anche una sorta di conflitto delle interpretazioni, perché questa lettura simbolica e orante delle opere dell'arte cristiana confligge nettamente, nella maggioranza dei casi, con quello che le guide turistiche dicono ai loro malcapitati destinatari. Queste il più delle volte evitano accuratamente di di «entrare nell'orizzonte di fede che anima l'opera d'arte religiosa», per soffermarsi, spesso esclusivamente, sulle motivazioni umane delle opere, «così ad esempio, della visita a una chiesa il turista ricorderà sopratutto che la torre è così alta perché costruita per invidia rispetto a una chiesa rivale e che il volto di un bassorilievo è la rappresentazione nascosta di una qualche relazione proibita»23. Il tema non è secondario perché, spesso, è proprio questa lettura distorta che impedisce al turista di compiere l'itinerario spirituale, che gli propone l'opera d'arte. Così come non si vuol negare la presenza di motivazioni “mondane” nella realizzazione delle opere dell'arte sacra. Ciò che va accuratamente evitato è di far coincidere con esse il significato profondo che quelle opere volevano e vogliono esprimere.

Cinema e dintorni Uno dei linguaggi più amati e diffusi è quello dell'audiovisivo, sia che si tratti di cinema sia che si tratti di prodotti televisivi esponenzialmente aumentati con il passaggio dall'analogico al digitale. Abbiamo già avuto modo di analizzare alcuni fenomeni contemporanei come i reality show, portatori di domande di senso cui vengono date risposte superficiali24. È così ovviamente anche per molti altri 21 Per una sintesi cfr. M. Tibaldi "Gli artisti raccontano Dio" in Settimana del 20 maggio 2012, n.20, 1.16. 22 J-P. Hernàndez "Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia" RTE XIV (2010) 28, 354. Vedi anche: Id., Antoni

Gaudì: La parola nella pietra. I simboli e lo spirito della Sagrada Familia, Pardes, Bologna 2007; Id., Il corpo del nome. I simboli e lo spirito della Chiesa madre dei gesuiti, Pardes, Bologna 2010.

23 J-P. Hernàndez "Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia", 355. 24 M. Tibaldi, "L'evangelizzazione ai tempi del Grande Fratello. Narrazione biblica e nuovo annuncio", in La Rivista

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prodotti audiovisivi. Ciò che a noi preme mettere in rilievo è la capacità di raccontare la fede cristiana attraverso il cinema. Le tante produzioni antiche e recenti possono essere raccolte sotto due categorie esemplate, secondo p. Guido Bertagna già responsabile del Centro culturale San Fedele di Milano, in due film che ben le rappresentano: Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) e The Passion of Christ di Mel Gibson (2004). Entrambi si confrontano con la sfida di rappresentare la persona di Gesù, partendo però da due approcci differenti. Mel Gibson ha cercato di ricostruire il più fedelmente possibile la vicenda di Gesù, cercando di ripresentarla in una modalità il più vicina possibile alla storia, mentre Pasolini ha cercato di far emergere il valore simbolico e attualizzante del racconto evangelico, come lui stesso racconta: «Avrete visto che le bambine avevano gli orecchini della prima Comunione, cioè non ho fatto ricostruzione storica, ma il film è costruito tutto in una specie di serie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione»25. Bertagna ritiene questa modalità particolarmente efficace e lui stesso ce ne offre un saggio, commentando diversi film in cui la figura Christi è come nascosta o reinterpretata in personaggi apparentemente diversi, come il protagonista di Toro scatenato di Martin Scorzese (1980), interpretato da Robert De Niro o in personaggi femminili, come la protagonista de Il Pranzo di Babette di Gabriele Axel (1987) o quella delle Onde del destino di Lars von Trier (1997). Questa modalità di racconto, se al momento non è subito auto evidente, genera però un'attenzione per la ricerca ed ha, in secondo luogo, la potenza dell'attualizzazione, elementi capaci di stimolare, motivare e coinvolgere soprattutto i giovani. Va in questa direzione, la ricerca portata avanti da nuovi protagonisti della scena del film religioso che si stanno affacciando. Interessanti sono, ad esempio, le realizzazioni di Giuseppe Zito che ha una formazione specifica nel campo, avendo conseguito il Master's degree of Fine Arts (MFA) in Film production presso la Loyola Marymount University di Los Angeles. Il suo intento è quello di utilizzare il cinema e la sceneggiatura nei suoi generi più popolari, come la sit com, per portare tematiche di fede anche ad un vasto pubblico, come si vede, tra gli altri, dai suoi corti Melanzane e cioccolato, vincitore degli Angelus Award di Los Angeles nel 2004, e The Eye of the Needle (La cruna dell'ago), selezionato al Palm Beach International Film Festival26. Di altro genere è invece la produzione del regista e Art Director bolognese Mauro Camattari che, dopo una lunga esperienza nel mondo dello spettacolo e del live, da alcuni anni ha messo le sue doti a servizio dell'annuncio. In lui si può vedere come la tradizione possa essere ripresentata con i linguaggi, i tempi e le sonorità dei videoclip27, generando una comunicazione diretta ed efficace. Più vicino alla lezione pasoliniana, è molto attento a cogliere e sviluppare il linguaggio dell'analogia simbolica e dell'allusione evocativa, supportata da una ricerca del ritmo musicale alquanto originale. È una produzione che ha molti tratti innovativi, si presenta come una provocazione rivolta sia ai vicini sia ai lontani, per reinterrogarsi, a partire dall'immaginario contemporaneo, sui grandi temi del vangelo e del credo ecclesiale.

Il vangelo in scena Dal linguaggio audiovisivo a quello corporeo. Il secondo pannello della riflessione balthasariana sul teodramma è oggi coniugato in diversi e interessanti modi. Una prima modalità consiste nel recupero dell'approccio narrativo28 ai testi biblici.

del Clero Italiano 12 (2011), 847.

25 Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, II, Milano 2001, 2884, cit in G. Bertagna, Il volto di Gesù nel cinema, Pardes, Bologna 2005, 14.

26 Si possono vedere entrambi in http://www.cittadidio-cittadegliuomini.it 27 Cfr. "Preghiera", "Deserto", "Gerusalemme" in www.pardes.it/ comunicazione/appunti di viaggio/Terra santa

/emozioni; "Gloria" in www.pardes.it/comunicazione/appunti di viaggio/anno della fede. 28 Per una fondazione teorica, cfr. J-P. Sonnet, L'alleanza della lettura. Questioni di poetica narrativa nella Bibbia

ebraica, San Paolo & GBPress, Milano Roma 2011. Per un'applicazione pratica cfr: M. Tibaldi, Il Codice Abramo. Personaggi in cerca di attore: Abramo e Sara, Pardes, Bologna 2009; Id., La mano e il bastone. Personaggi in cerca di attore: Mosè, Pardes, Bologna 2012.

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Il lettore protagonista La narrazione come fenomeno antropologico ha sempre suscitato un fascino irresistibile. Si può dire che, in un certo senso, faccia parte dei bisogni primari dell'uomo, accanto al nutrimento e all'accudimento. É tramite la narrazione che ciascuno, dalla più tenera età fino al termine dell'esistenza, impara in modo protetto a vivere. La narrazione rappresenta, mette in scena la vita nei suoi molteplici aspetti, consente di provare attraverso la fiction situazioni e contesti che vissuti in presa diretta sono comunque altemanente impegnativi e spesso rischiosi. È insomma una sorta di palestra per allenarsi alla vita. La narrazione realizza tutto questo attraverso una poderosa strategia di coinvolgimento del proprio lettore29. Un testo narrativo, dice Umberto Eco, è una “macchina pigra e reticente”30, che presuppone una forte collaborazione interpretativa da parte del lettore. Il testo narrativo infatti è costruito in modo da coinvolgere il lettore nello svolgimento della storia che racconta. Non ‘dice tutto’ perché vuole che il lettore, con la sua immaginazione, colmi i vuoti che il narratore volutamente lascia nel testo. In tal modo, impone al lettore di immedesimarsi nelle vicende narrate. Chiede di far interagire l’immaginazione, le aspettative, le ipotesi, gli affetti propri del lettore con le vicende dei personaggi di cui parla. In questo sta il piacere che provoca la narrazione, che da sempre ha intercettato l’attenzione dei piccoli quanto dei grandi. Se ognuno riconosce con facilità questi meccanismi nella lettura di un romanzo o nella visione di un film, a fatica li applica alla Bibbia. Spesso si cerca in essa subito il 'contenuto', saltando la storia che lo veicola, impedendosi così di gustarla e di comprenderne il messaggio. Quest’ultimo, infatti, è il risultato dell’intima unione tra la ‘forma’ con cui si presenta e il ‘contenuto’ che intende presentare. Per questo non si può comprendere l’uno pensando di astrarre dall’altra. Se questo è vero per ogni testo letterario, lo è anche per la Bibbia. E se crediamo poi che questi testi siano ispirati da Dio, allora occorrerà prendere in seria considerazione il genere letterario che questi ha scelto per lasciarsi descrivere. E questo genere implica la collaborazione del lettore in massimo grado. Vediamo più da vicino il meccanismo di funzionamento del testo narrativo, così da poter raccogliere anche alcune indicazioni operative per il suo utilizzo.

Leggere significa immaginare In ogni narrazione i punti di massimo coinvolgimento del lettore sono i cosiddetti bivi narrativi, ovvero quelle situazioni create dall’autore in cui i protagonisti si trovano di fronte a delle scelte da compiere. Cosa farà adesso l’eroe o l’eroina del racconto? È qui che si attiva in massimo grado la collaborazione del lettore che, se si è immedesimato nella storia, soffre o gioisce con i suoi personaggi, immaginando e desiderando che facciano le scelte che lui preferisce. Questo ricco repertorio di ricordi, preferenze, aspettative, affetti, costituisce “l’enciclopedia del lettore”. Essa viene attivata dall’immaginazione per decifrare la vicenda raccontata. È molto ricca e varia poichè si nutre di tutto quanto ciascuno ha accumulato nella propria esistenza e formazione. Quando poi dall’immaginare il presente dei personaggi si passa ad ipotizzare le scelte future che ci attendiamo che compiano, allora si parla di “sceneggiature (frame)”31. Sì perché le storie rendono capaci gli spettatori di interagire con esse immaginandosi il loro sviluppo, che sarà di volta in volta confermato o smentito dal prosieguo della vicenda. Per riattivare questa capacità di immedesimazione nel testo biblico, nei bivi narrativi occorre fermarsi e ascoltare le proprie reazioni interiori allo sviluppo della vicenda. Per questo, una volta individuato il

29 “Il testo è produttore di senso in quanto sottoposto alla sua lettura e solo nella storia successiva della sua

interpretazione abbiamo lo svelamento della sua verità. Questa dimemnsione del testo, evidenziata dal più recente orientamento della storia della recezione e delgi effetti destinata ad essere 'forse la pista più feconda dell'immediato futuro' della ricerca biblica” Così R. Vignolo citando a sua volta un pensiero di V. Fusco in “Metodi, ermeneutica, statuto del testo biblico. Riflessioni a partire da L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) in, La Rivelazione attestata. La Bibbia tra Testo e Teologia. Raccolta di studi in onore del Cardinale Carlo Maria Martini, (G.Angelini ed.), Milano 1998, 58.

30 U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione intepretativa nei testi narrativi, Milano 1979, 52. 31 U. Eco, Lector in fabula, op.cit., 111-119.

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bivio, ci si può chiedere, pensando al personaggio e alla situazione descritta cosa, secondo me, prova, pensa e fa, oppure, in forma più diretta, cosa proverei, penserei, farei io nei suoi panni32. Ascoltare quanto la storia sta muovendo nel lettore, in termini di affetti, pensieri e decisioni è poi fondamentale per gustare a pieno ciò che provano, pensano e fanno i personaggi del racconto che, così, di volta in volta, ci stupiranno per la piena consonanza con le nostre previsioni o al contrario per la loro inspiegabile diversità. In questo modo, la vicenda narrata perde quell’aura di noiosa familiarità che ci impedisce di gustarla, stimola ad interrogarsi a fondo sulle scelte compiute dai personaggi, favorisce l'incontro con il messaggio che essa intende veicolare. Tale messaggio è infatti prevalentemente di natura relazionale. Come ha mirabilmente sintetizzato il cap II della Dei Verbum: “con questa rivelazione infatti il Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sè”. Ora la costruzione di un legame affettivo implica tempo e conoscenza reciproca, esibizione e verifica dell'affidabilità della relazione proposta. È questo ciò che consente la narrazione biblica attraverso i meccanismi che abbiamo ricordato. Proprio il tema dell'affidabilità di Dio che si offre nelle Scritture ci costringe, però, a mettere a fuoco una non piccola difficoltà che si incontra nella prassi di lettura della Bibbia.

Leggere le Scritture come Buona Notizia Uno dei principali ostacoli che si incontrano nel tentare il recupero della narrazione biblica, soprattutto in relazione all'Antico Testamento, è la presenza dei cosidetti 'passi oscuri' della Bibbia. Oltre ai passi in cui vengono riportati come giustificabili comportamenti morali inacettabili per la nostra mentalità, sono soprattutto le pagine in cui vengono attribuiti a Dio sentimenti violenti di rabbia, di vendetta o di punizione che generano quel strisciante marcionismo che “la sana dottrina critiana ha sempre rifiutato” (Verbum Domini,40). A fronte di questa difficoltà, responsabile in buona misura dell'allontanamento di molti 'lontani' e del disagio di molti vicini, catechisti in testa, occorre recuperare quella capacità di lettura ben illustrata in numerosi documenti magisteriale, dalla Dei verbum alla Verbum Domini. In particolare sottolineiamo due aspetti. Nella Dei Verbum è stata richiamata l'unità dei due Testamenti. Senza elidere l'eccellenza del nuovo è stata ribadita la sua presenza già nell'antico (DV16). Ora se il Nuovo Testamento si condensa in modo del tutto particolare nei vangeli (DV 18) allora anche nell'antico deve potersi riconoscere quello spirito che anima e informa la buona notizia. E la narrazione è la strada privilegiata per poter mettere in luce questo aspetto fondamentale del messaggio cristiano. Per questo si ricorda, tra gli altri, nel documento della Pontificia Commissione Biblica che “il messaggio biblico deve conservare il suo caratterre principale di buona novella della salvezza offerta da Dio”33. Di contro alle rappresentazioni in cui Dio è descritto con il volto minaccioso di un nemico, occorre poi far giocare l'altro principio ermeneutico ricordato nei documenti magisteriali: “il loro significato alla luce del mistero di Cristo” (VD 40). Se Gesù è l'esegeta del Padre (Gv 1,18) colui che ne rivela in modo pieno e definitivo il volto è a lui che occorre far riferimento ogni volta che si incontra nella lettera e nella pedagogia dell'Antico testamento un volto di Dio che sembra in contrasto con quello di Gesù. Rileggere la buona notizia della vicenda di Gesù incentrata nel mistero pasquale è il miglior antidoto alle false immagini di Dio, che fanno leva su un letteralismo dettato, a volte, da semplice ignoranza e, molto più spesso, dalla paura. Rileggere alla luce del mistero cristiano questi passi mette nella giusta luce e valorizza il principio dell'unità di Dio che si è manifestata nella sua fedeltà. Nel contempo si può meglio apprezzare la “condiscendenza” della divina Sapienza (DV 13) che ha accettato di lasciarsi comprendere in modo progressivo lungo la storia, proprio per poter essere raggiungibile da ognuno.

32 Questo tipo di lettura è un'espansione della metodologia presentata negli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio a

proposito della “composizione di luogo” (cf. EESS nn 47.91.103. 112.151.232) così presentata da P. Schiavone: “Il preludio di composizione di luogo serve a imbrigliare e far collaborare la fantasia. Si tratta di un mezzo. Non è quindi necessario servirsene ad ogni costo. Si consideri, a ogni modo, il profondo valore psicologico di questa preparazione in ordine alla meditazione (o alla contemplazione); quando 'riviviamo' una scena, ci stiamo veramente dentro. Con la fantasia immaginiamo e ricostruiamo, in una mainera del tutto naturale e spontanea, il posto (casa, stanza, strada ecc.) in cui si è svolto l'avvenimento, in tutti i particolari” Commento a Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, Roma 1984, 72. Opportunamente lo stesso cita il Documento Base al n 131 sull'importanza dell'integrazione della dimensione affettiva e dell'immaginazione nella catechesi.

33 Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia, op.cit., 115.

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Ridere con il Vangelo Sulla scia dell'operazione riuscita a Roberto Benigni34, c'è chi sta utilizzando il comico come via per l'annuncio. Benigni, infatti, ha mostrato, attraverso i suoi spettacoli sulla Divina Commedia, che si può presentare un'opera importante, senza snaturarne il significato, proprio attingendo al canale comico. L'enorme successo di pubblico e di critica che l'operazione ha suscitato ha incoraggiato altri a mettersi in questa linea. Stiamo parlando di due esperienze, l'una portata avanti da Paolo Cevoli e l'altra dall'emergente, Bruno Nataloni, vincitore della selezione 2011 dei Teatri del sacro, un'iniziativa promossa dal Servizio nazionale per il progetto culturale. Il comico riccionese, reso celebre dalla trasmissione Zelig, vive la sua professione all'insegna del servizio. Come lui stesso ha detto durante l'incontro di Pontenure (Piacenza) a conclusione dei lavori dell'Alta scuola di formazione per direttori uffici catechistici dell'Emilia Romagna e Lombardia, il comico è simile al cuoco, si serve della realtà che trova per trasformarla e metterla così a servizio degli altri, perché come ha insegnato Gesù il senso della vita sta proprio nel servire35. E non a caso, lo spettacolo che da quasi due anni sta girando i teatri italiani, La penultima cena36, ha come protagonista un cuoco vissuto all'epoca di Gesù che, per una serie di vicende fortuite, si ritrova a vivere in Palestina, nel momento dell'ascesa stessa del nuovo movimento fondato dal Rabbi di Nazareth. Attraverso la vena comica che lo contraddistingue, viene presentata, da un inedito punto di osservazione, l'identità di Gesù, riscoperta in tutta la sua freschezza e con il sorriso sulle labbra. Lo stesso ha fatto Bruno Nataloni con il suo E nei cieli Dio ride37, uno spettacolo autobiografico in cui, attraverso il viaggio di un nipote con il proprio nonno, entrambi interpretati dall'abile Nataloni, viene riscoperto il valore dei sacramenti e il senso autentico della tradizione. Due esempi di come il comico sia capace di intercettare in modo efficace ampie fette di persone che altrimenti non avrebbero nessuna occasione di riflettere sui temi fondamentali della fede cristiana. E sopratutto due modalità incarnate per poter spiegare ai nostri contemporanei la gioia che nasce dall'incontro con il risorto.

Pensare digitale: cyberteologia Il terzo momento dell'itinerario che abbiamo proposto è quello propriamente dedicato alla riflessione. L'attuale pontefice, come abbiamo già ricordato, ha invitato a ripensare le premesse filosofiche entro cui ci si accosta alla rivelazione e alla fede. Tra queste oggi un posto di indubbia importanza è ricoperto dai nuovi media, i quali non sono solo uno strumento, ma un vero e proprio “ambiente” mentale. Se è vero che il modo di parlare è direttamente proporzionale al modo di pensare e viceversa e quindi a seconda del come si parla si percepisce il mondo in modalità differenti, così i termini che descrivono l'universo informatico stanno cambiando il nostro modo di comprendere la realtà e di viverla. Per questo, è importante vincere alcuni pregiudizi e luoghi comuni che rischiano di non far comprendere la portata del fenomeno. Per alcuni, tutto ciò che riguarda le nuove tecnologie è solo “virtuale”, evanescente, irreale, mentre, al contrario, come afferma Domenico Pompili, la rete «è uno spazio dell'uomo, uno spazio umano in quanto popolato da uomini. Non più un contesto anonimo e asettico, ma un ambito antropologicamente qualificato»38. D'altra parte, come ricorda Antonio Spadaro, uno dei massimi conoscitori e analisti del nostro tema, la rete e internet in fondo hanno avuto così successo perché rispondono a esigenze e desideri antichi quanto profondi: «quando si guarda a Internet, occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri che l'essere umano ha sempre avuto e ai quali prova a rispondere, cioè: relazione, comunicazione e conoscenza»39.

34 R. Benigni, Il mio Dante. Con uno scritto di Umberto Eco, Einaudi, Torino 2008. Cfr. Su questo la mia recensione

"Benigni e la nostalgia dell'eterno", in L'Osservatore Romano del 25 giugno 2009, 4. 35 Per l'intervista completa cfr. "Paolo Cevoli: un pataca al servizio di Dio" in www.teosemiotica.info. 36 P. Cevoli La penultima cena, Itaca, Castel Bolognese 2011. 37 B.Nataloni – U. Nicoletti, Parabole di un clown (... e Dio nei cieli ride), Pardes, Bologna 2012. 38 D. Pompili, Il nuovo nell'antico. Comunicazione e testimonianza nell'era digitale, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)

2011, 62. 39 A. Spadaro, Cyberteologia.Pensare il cristianesimo la tempo della rete, Vita e Pensiero, Milano 2012, 16. Dello

stesso altrettanto importanti sono: Id., Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di internet, Pardes Bologna 2006; Id., Web 2.0. Reti di relazione, Paoline, Milano 2010.

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Il travaso poi è reciproco, nel senso che non solo internet e la rete influenzano il modo di pensare la fede, ma la rete stessa è plasmata da molti termini e visioni che vengono dalla fede: «“Salvare” e “convertire” [dei file] sono semplicemente due esempi. Oltre a “giustificare”, potremmo aggiungere, con lo sviluppo dei social network, “condividere” e la stessa parola “comunità”»40. Da tutto ciò per Spadaro, l'urgenza di una cyberteologia intesa come «l'intelligenza della fede al tempo della rete, cioè la riflessione sulla pensabilità della fede alla luce della logica della rete»41. Lui stesso ce ne ha offerto un esempio cominciando questa coraggiosa e stimolante riflessione che ha ripercussioni sia sul tema fondamentale della comunicazione della fede, sia sull'altrettanto delicata questione del modello ecclesiologico che essa suggerisce42. I cambiamenti di mentalità introdotti dalla rete e quelli che essa genererà nel futuro, pensiamo anche solo a tutto il campo della formazione scolastica che sia pur a rilento si sta però sempre più indirizzando in questa via, provocano ad una rivisitazione profonda delle strutture intime della comunicazione e della trasmissione del sapere, cioè toccano i codici fondamentali entro cui finora il sapere e con esso anche la fede sono stati pensanti e comunicati. Parafrasando il Vaticano II, non si tratta tanto di riprendere l'uno o l'altro aspetto della dottrina cattolica, quanto di ripensare l'insieme delle categorie con cui è stata formulata43. É necessaria quella che abbiamo definitivo una sorta di nuova teosemiotica44, intendendo con questo termine, proprio la riflessione a tutto tondo sui segni con cui noi parliamo di Dio, per meglio comprendere i segni con cui Dio ci ha parlato e ci parla tuttora. La sfida non è piccola, ma la Chiesa in nome dell'interna vitalità spirituale che la anima saprà affrontarla e viverla come ha già fatto nelle altre epoche di transizione.

Rilievi conclusivi Il percorso che abbiamo fatto ci ha condotto ad inquadrare il tema dei linguaggi della fede all'interno della decisiva categoria di rivelazione. Non è tanto l'urgenza posta dalla società della comunicazione a riflettere sui linguaggi, anche se ne è un'indubbia occasione, quanto piuttosto è la rivelazione che di sua natura si dispiega con una ricchezza e sovrabbondanza inimmaginabili. Alla scuola di Balthasar, abbiamo cercato di descrivere questa ricchezza riportandola nell'alveo dei trascendentali del bello, del bene e del vero. In particolare, abbiamo dato spazio al ricupero del vedere che tanta parte ha nella sensibilità contemporanea e che, sopratutto, consente di recuperare un ingrediente fondamentale della proposta cristiana: la gratuità. La naturale circolazione tra i trascendentali ci ha portato a vedere una serie di esemplificazioni di come essi possano generare o rivitalizzare dei linguaggi, dal cinema, al videoclip, alla narrazione/drammatizzazione o all'utilizzo del comico per l'annuncio. Ma anche di come esperienze oggi comuni per le masse, come il turismo o l'utilizzo dei nuovi media, possano diventare un ambiente propizio per l'incontro. Tutto ciò che è umano può e deve essere utilizzato per raccontare la salvezza che ci ha raggiunto in Gesù e le realtà che da questo discendono e per far sì, come ricordava Benedetto XVI, che «possano essere tradotte e comprese in un modo nuovo».

40 A.Spadaro, Cyberteologia, op.cit., 31. 41 A.Spadaro, Cyberteologia, op.cit., 34. 42 A.Spadaro, Cyberteologia, op.cit., in particolare il capitolo "Corpo mistico e connettivo", 49-71. 43 «Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale», Discorso di apertura del Concilio, in Enchiridion Vaticanum, Documenti ufficiali del Concilio Vaticano II 1, nn. 54* 55*.

44 Cfr. M. Tibaldi, "Per una teologia del segno. Note a margine all'approccio semiologico di mons. Rino Fisichella", in G. Pasquale - C. Dotolo (edd.), Amore e verità. Sintesi prospettica di Teologia Fondamentale, Lateran University Press, Città del Vaticano 2011, 653-674. Per un approfondimento sistematico cfr. Teosemiotica. Corso di Epistemologia teologica, in http:// edu.pardes.it. Per le declinazioni pastorali cfr. www.teosemiotica.info.


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