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Internazionale 876

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AttuAlità16 Dieci giornidi WikileaksThe GuardianeuropA22 La Germaniaapre le porte ailavoratori stranieriLe FigaroAfricAe medio orieNte24 Mediazioneimpossibilein Costa d’AvorioFinancial TimesAmeriche26 L’America Latinacrede nellademocraziaThe EconomistAsiA e pAcifico30 Il Kazakistandelude alla guidadell’OsceOpen Democracyvisti dAgli Altri32 La tempestaeconomicacolpisce l’ItaliaThe Wall StreetJournaliN copertiNA40 Il lato oscurodegli aiutiThe New YorkerboliviA51 La terra liberadei guaranìXXIscieNzA61 Vado a viverenello spazioThe GuardianreportAge66 Il iume contesoLe foto di FrancescoZizola, con un testodi Stephan FarisritrAtti74 Wang KeqinL’improntadel reporterThe GuardianviAggi76 Le due faccedi EdimburgoLibérationgrAphicJourNAlism78 Cartolineda MexicoElvire CaillonArte81 SplendidaformaLes Inrockuptiblespop96 Il mio primooroscopoRob Brezsny100 La Bosnia bloccaAngelina JolieSlavenka Drakulić
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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 5

Sommario

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La settimana

10/16 dicembre 2010 • Numero 876 • Anno 18

Dati per spacciati, senza più un’identità, in perdita di copie e di autorevolezza, i giornali devono dire grazie a Julian Assange. Con Wikileaks è nato il data

journalism digitale. I giornalisti selezionano, analizzano e controllano enormi quantità di dati. Lavorano in squadra, con esperti e consulenti, per interpretare le informazioni, per individuarne la struttura, per fornire il contesto. E continuano a seguire le notizie anche dopo la pubblicazione: con il follow

up raccontano l’evoluzione dei fatti, ne registrano le conseguenze, ne descrivono l’impatto nel corso del tempo. Janine Gibson, editor del Guardian di Londra, sostiene che i 250mila cablogrammi del dipartimento di stato americano hanno segnato l’inizio di una rivoluzione del mondo dell’informazione. È una grande sida, ma anche una grande occasione per ridare un senso al mestiere di giornalista. Giovanni De Mauro

[email protected]

Occasione

AttuAlità16 Dieci giorni

di Wikileaks The Guardian

europA22 La Germania

apre le porte ai lavoratori stranieri

Le Figaro

AfricA e medio orieNte24 Mediazione

impossibile in Costa d’Avorio

Financial Times

Americhe26 L’America Latina

crede nella democrazia

The Economist

AsiA e pAcifico30 Il Kazakistan

delude alla guida dell’Osce

Open Democracy

visti dAgli Altri32 La tempesta

economica colpisce l’Italia

The Wall Street Journal

iN copertiNA 40 Il lato oscuro

degli aiuti The New Yorker

boliviA51 La terra libera

dei guaranì XXI

scieNzA61 Vado a vivere

nello spazio The Guardian

reportAge66 Il iume conteso Le foto di Francesco

Zizola, con un testo di Stephan Faris

ritrAtti74 Wang Keqin

L’impronta del reporter

The Guardian

viAggi76 Le due facce

di Edimburgo Libération

grAphic JourNAlism

78 Cartoline da Mexico

Elvire Caillon

Arte81 Splendida

forma Les Inrockuptibles

pop96 Il mio primo

oroscopo Rob Brezsny100 La Bosnia blocca

Angelina Jolie Slavenka Drakulić

scieNzA e tecNologiA

102 Le nuove frontiere dello spam

The Economist104 Il diario della Terra

ecoNomiA e lAvoro

106 Non sarà semplice salvare l’euro

The Economist

cultura84 Cinema, libri,

musica, tv, arte

Le opinioni

25 Amira Hass

29 Yoani Sánchez

36 David Rief

38 Noam Chomsky

86 Gofredo Foi

88 Giuliano Milani

90 Pier Andrea Canei

92 Christian Caujolle

101 Tullio De Mauro

103 Anahad O’Connor

107 Tito Boeri

le rubriche15 Editoriali

35 Italieni

111 Strisce

113 L’oroscopo

114 L’ultima

XXI Fondato nel 2008, è un trimestrale francese dedicato ai grandi reportage. L’articolo a pagina 51 è uscito a ottobre del 2010 con il titolo Les hommes libres de Bolivie. The Guardian È un quotidiano britannico progressista. L’articolo a pagina 61 è uscito il 24 ottobre 2010 con il titolo Life aboard the International space station. Les Inrockuptibles Fondato nel 1986, è un mensile francese di musica e cultura. L’articolo a pagina 81 è uscito il 22 novembre 2010 con il titolo Art contemporain: l’Italie de Berlusconi en pleine forme. The New Yorker È un settimanale newyorchese di attualità e cultura, molto

apprezzato negli ambienti intellettuali. L’articolo a pagina 40 è uscito l’11 ottobre 2010 con il titolo Alms dealers. The Wall Street Journal È il più importante quotidiano economico statunitense. L’articolo a pagina 32 è uscito il 29 novembre 2010 con il titolo Warning signs are there for Italy. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

mIr

ko

ILIC

“Il carburante del mondo sono le profezie che si autoavverano”

rob brezsNy, pAgiNA

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Immagini

Contro GbagboAbidjan, Costa d’Avorio4 dicembre 2010

I sostenitori di Alassane Ouattara, il vin-citore delle elezioni presidenziali del 28 novembre, protestano per le strade di Abidjan. Il suo avversario, il presidente uscente Laurent Gbagbo, si riiuta di ac-cettare i risultati elettorali e si è fatto no-minare per un nuovo mandato dal con-siglio costituzionale. L’8 dicembre il presidente dell’Unione africana, Bingu wa Mutharika, ha esortato Gbagbo a ri-spettare la volontà del popolo per “evi-tare un bagno di sangue”. Foto di Schalk van Zuydam (Ap/Lapresse)

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Immagini

Al fuocoHaifa, Israele4 dicembre 2010

Il 5 dicembre è stato domato il peggiore incendio della storia d’Israele grazie all’arrivo di un Boeing 747 Supertanker statunitense in grado di trasportare 76mila litri d’acqua, sedici volte di più di un normale aereo antincendio. Il fuoco era divampato tre giorni prima nel parco naturale del monte Carmelo. Le iam-me hanno provocato la morte di 42 per-sone, distruggendo cinquemila ettari di vegetazione e cinque milioni di alberi. Un ragazzo di 14 anni ha confessato alla polizia di aver provocato l’incendio in-volontariamente. Foto di Dana Friedlan-

der (Oap/Ap/Lapresse)

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Immagini

Donne al lavoroHerat, Afghanistan2 dicembre 2010

Tre donne afgane imparano a usare la macchina da cucire. I corsi professiona-li fanno parte di un progetto di reinte-grazione sociale inanziato dalla Coope-razione italiana nel distretto di Enjil, nella provincia di Herat. Un recente sondaggio ha rivelato che il 69 per cento degli afgani è favorevole all’idea che le donne lavorino fuori casa, e il 64 per cento che lavorino nel governo. Questi dati smentiscono l’idea che in Afghani-stan l’istruzione e il lavoro femminile non siano accettati. Foto di Jalil Rezayee (Epa/Ansa)

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12 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

[email protected]

Afamati di protoni u Sono un lettore di Internazio-nale e, da studente di relazioni internazionali, non ho niente da eccepire sugli interessantis-simi articoli riguardanti l’attua-lità, l’Europa, l’Africa, l’Asia e le Americhe. Da appassionato di scienza vorrei invece vedere potenziata la rubrica, magari raddoppiandone la con-sistenza. Fabio Romano

u Sono laureata in materie scientiiche e lavoro in ambito scientiico. Non sono proprio a digiuno sulla diferenza tra un protone e un elettrone, ma tro-vo molto diicile leggere i vostri articoli di scienze. Sarebbe interessante renderli più frui bili un po’ a tutti e non solo ai ricercatori di isica quantistica! Linda

La Svizzera è così

u Sono svizzero. Mi è molto piaciuto l’articolo di Tony Judt: la Svizzera è proprio così. Mi so-no fatto due risate, riconoscen-doci. Purtroppo non posso af-fermare di amare la Svizzera.

Dopo i referendum sui minareti e sull’espulsione degli stranieri, svizzero è sinonimo di xenofo-bo retrogrado (qui li chiamano conservatori). Una domanda: cos’è il “classico cestino da viaggio svizzero”?Andrea Noce Noseda

Capitan Assange u Alla luce dei recenti avveni-menti, trovo un po’ grottesco che Internazionale, qualche nu-mero fa, abbia presentato As-sange come l’ultimo eroe ro-mantico che salverà il mondo. Questi ruoli lasciamoli ai carto-ni animati di capitan Harlock.L’unica cosa che otterrà è la propria ine prematura. Dario Rivarossa

Uomini ai fornelli u Come vorrei essere un uomoitaliano, con tutto quel tempo libero e una compagna dedita alla casa ben 17 ore in più della sua collega statunitense. Acci-denti, ma io sono un uomo e per giunta italiano. Allora vo-glio protestare a nome di tutti quelli che non corrispondono al cliché dell’articolo. Se si voleva

dare l’immagine della vita reale di questo paese facevano prima a dipingerci con chitarra e man-dolino mentre mangiamo un piatto di spaghetti cucinato dal-la nostra cara mamma. Ora scu-satemi ma vado a mettere a let-to mio iglio perché mia moglie, che gli ha messo il pigiama, de-ve preparare una lezione per domani all’università.Marco Alaimo

Rimandare in eterno u Grazie per l’articolo sui pro-castinatori. È una categoria in cui mi riconosco perfettamen-te. Avrei voluto scrivervi subito dopo l’uscita del numero, ma ho pensato che avevo un sacco di tempo. Così ho rimandato. Alberto De Paulis

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È SU

Facebook.com/internazionaleTwitter.com/internazionaleFlickr.com/internazYouTube.com/internaz09

Cara Milana, che cos’è se-condo te il nirvana?

Per me il nirvana è un concet-to del buddismo che si riferi-sce all’annullamento dei sen-si, che è lo scopo dell’illumi-nazione. Da cittadina del mondo occidentale mi ha sempre sorpreso la tendenza al non esserci, che ci permette di proteggerci dal dolore che la vita comporta. Naturalmen-te il problema è molto più pro-fondo e riguarda il fatto che la ricerca della felicità porta con sé una specie di infelicità, per-ché legandoci sempre di più

alle altre persone, al lavoro e alle cose, l’uomo sviluppa una dipendenza che rischia di tra-sformare la vita in un inferno. Ma è possibile vivere senza di-pendere da qualcosa? Secon-do me il problema sta nel fatto che noi tendiamo a confonde-re la felicità con il piacere ma-teriale. Una persona, per esempio, può stare male quando non riesce a fare un viaggio che aveva pianiicato, perché ha identiicato la desti-nazione con la propria felicità. Ma questo non vale per il be-nessere spirituale: è inganne-vole pensare che le ricchezze

materiali possano liberarci dalle preoccupazioni e dalle sfortune. È sulla base di questi pensieri che nasce il concetto di nirvana come liberazione dalle catene terrestri. Purtrop-po gli occidentali pensano che il nirvana sia una sorta di pia-cere, di beatitudine, di orga-smo. Come il proprietario di un ristorante nel mio quartie-re, convinto non ci sia “nirva-na” più grande che mangiare il suo maiale arrosto. u it

Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indiriz-zo [email protected]

Cara Milana

La felicità dello spirito

Anticipisulla iducia

Caro economista

Con i miei amici seguiamo uno schema di “anticipi a turno”. Al ristorante non ci preoccupiamo di chi paga perché, siccome vogliamo restare amici a vita, prima o poi tocca a tutti e si pareg-giano i conti. Economica-mente è sensato? – Ruth Kirby, SurreyMescolate alti rischi con alte ricompense. Lo scrittore umo-ristico Douglas Adams aveva teorizzato un ramo della ma-tematica surreale, la “bistro-matica”, dedicato agli assurdi calcoli per dividere il conto al ristorante. Grazie al vostro si-stema il cameriere non deve strisciare dieci carte di credito diverse e voi non dovete pre-occuparvi della bistromatica. Inoltre, ogni volta che uno pa-ga il conto fa capire di aspet-tarsi che l’amicizia duri abba-stanza da garantirsi i soldi in-dietro. Purtroppo l’equilibrio del vostro schema vacilla quando al gruppo si aggiungo-no delle altre persone. Degli pseudo amici potrebbero es-sere spinti a unirsi al gruppo solo per scroccare più pasti possibili e poi sparire. Dovre-ste chiedere a ogni nuovo arri-vato di versare un consistente deposito iniziale da cui poter attingere per i primi pasti in-sieme e che tratterrete se lui non collabora. Con questo si-stema i nuovi amici non po-tranno approittare del vostro gruppo.

Tim Harford risponde alle do-mande dei lettori del Financial Times.

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Editoriali

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara EspositoTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Sara Bani, Stefano Costa, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Enrico Del Sero, Nazzareno Mataldi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Spinelli, Ivana Telebak, Bruna TortorellaDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Gabriele Crescente, Catherine Cornet, Giovanna D’Ascenzi, Marzia De Giuli, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 8 dicembre 2010

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Scriveva nel 1958 un giovane Rupert Murdoch, allora proprietario ed editore del quotidiano au-straliano The News: “Nella gara tra segretezza e verità, vincerà sempre la verità”. Forse questa os-servazione rispecchiava la denuncia fatta duran-te la prima guerra mondiale dal padre, Keith Murdoch, il quale rivelò che le truppe australiane erano inutilmente sacriicate sulle spiagge di Gal-lipoli da uiciali britannici incompetenti. E infat-ti i britannici cercarono di farlo tacere.

Ma Keith Murdoch non si fece imbavagliare e così, grazie ai suoi sforzi, si mise ine a quella di-sastrosa operazione militare. A quasi un secolo di distanza da quegli eventi, anche Wikileaks pub-blica coraggiosamente notizie che meritano di essere divulgate.

Sono cresciuto in una cittadina di campagna del Queensland, in Australia, dove la gente era abituata a parlare con franchezza. Erano persone diidenti nei confronti di un governo burocratiz-zato perché erano convinte che sarebbe caduto preda della corruzione se non lo avessero tenuto d’occhio. I giorni bui della corruzione nell’ammi-nistrazione del Queensland, prima dell’inchiesta Fitzgerald (tra il 1987 e il 1989), dimostrano cosa succede quando i politici imbavagliano i mezzi d’informazione impedendogli di dire la verità. Quel ricordo mi è rimasto dentro, e Wikileaks è stato creato proprio sulla base di quei valori fon-damentali. Il progetto iniziale, concepito in Au-stralia, era di usare in modo nuovo internet per raccontare la verità. Di fatto Wikileaks ha dato vita a un nuovo tipo di giornalismo, il giornalismo basato sul metodo scientiico. Noi lavoriamo con altri mezzi d’informazione per dare le notizie ma anche per dimostrare che sono vere. Questo tipo di giornalismo consente di leggere una notizia d’attualità e poi andare in rete e vedere il docu-mento originale su cui si basa. Così si può giudi-care da soli: questa notizia è vera? Il giornalista l’ha riferita correttamente?

Le società democratiche hanno bisogno di mezzi d’informazione forti, e Wikileaks è uno di questi. I mass media contribuiscono a far sì che i governi rimangano onesti. Wikileaks ha rivelato alcune scomode verità sulle guerre in Iraq e in Afghanistan e ha divulgato per primo le notizie sulla corruzione delle grandi multinazionali.

C’è chi ha detto che io sono contro la guerra. Per la cronaca, non è così. A volte i paesi devono andare in guerra, e le guerre giuste esistono. Ma niente è più sbagliato di un governo che mente ai suoi cittadini sulla guerra e poi chiede loro di ri-schiare la vita e le tasse per quelle menzogne. Se una guerra è giustiicata, allora che si dica la veri-

tà, e i cittadini decideranno se appoggiarla.Se avete letto parte degli articoli sulle guerre

in Iraq o in Afghanistan, qualche dispaccio delle ambasciate americane o qualcuno degli articoli sulle rivelazioni di Wikileaks, potete capire quan-to è importante per tutti i mezzi d’informazione poter raccontare liberamente questi fatti. Wiki-leaks non è stato l’unico a pubblicare i dispacci delle ambasciate statunitensi nel mondo. Alcuni giornali, tra cui il Guardian, il New York Times, El País e Der Spiegel, hanno reso pubblici gli stessi cablogrammi. Eppure è stato Wikileaks il bersa-glio degli attacchi e delle accuse più violente da parte del governo statunitense e dei suoi alleati. Io sono stato accusato di tradimento anche se so-no cittadino australiano e non americano. Negli Stati Uniti sono stati lanciati appelli perché venis-si “eliminato” dalle forze speciali. Sarah Palin dice che bisognerebbe darmi “la caccia come a Osama bin Laden”, il senato americano ha all’esame un disegno di legge per dichiararmi “una minaccia internazionale” e riservarmi il trattamento previsto.

Una stampa liberaOgni volta che Wikileaks pubblica la verità su abusi commessi da istituzioni del governo statu-nitense, i politici australiani intonano insieme al dipartimento di stato americano una cantilena di evidente falsità: “Così si rischia di mettere a re-pentaglio delle vite umane! Compromettere la sicurezza nazionale! Esporre le truppe a ulteriori rischi!”. Poi però dicono che nelle notizie pubbli-cate da Wikileaks non c’è niente di importante. Non possono essere vere entrambe le cose. Allo-ra, qual è quella giusta? Nessuna delle due. Wiki-leaks ha al suo attivo quattro anni di rivelazioni. In questi anni, per quanto è dato sapere, a nessu-no è stato torto un capello a causa nostra. Invece gli Stati Uniti, con la complicità del governo au-straliano, hanno ucciso migliaia di persone.

Ma le nostre rivelazioni sono tutt’altro che ir-rilevanti. I dispacci dei diplomatici statunitensi rendono di pubblico dominio alcuni fatti sorpren-denti di politica internazionale di cui ormai tutto il mondo discute da settimane.

Nella sua storica sentenza sul caso dei Penta-gon papers sulla guerra del Vietnam, la Corte su-prema degli Stati Uniti afermò che “soltanto una stampa libera e non soggetta a condizionamenti può denunciare eicacemente eventuali inganni da parte del governo”. La tempesta che è scoppia-ta attorno a Wikileaks raforza oggi l’esigenza di difendere il diritto di tutti i mezzi d’informazione a rivelare la verità. u ma

Difendere la verità

Julian Assange, The Australian, Australia

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16 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Attualità

Lunedì 29 novembre

The Guardianu Israele considerava il 2010 un “anno cru-ciale” per fermare la corsa iraniana al nu-cleare e ha avvertito gli Stati Uniti che non c’è più molto tempo per impedire a Teheran di costruire la bomba atomica.u L’Unione europea ha cercato di boicotta-re l’insediamento di Mahmoud Ahmadi-nejad dopo le presidenziali iraniane del 2009.u L’Iran non ha voluto consegnare ai fun-zionari dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica i piani di un reattore nu-cleare segreto vicino a Qom. Teheran so-

stiene che le prove dell’arricchimento dell’uranio per creare la bomba sono con-trafatte.u Gli Stati Uniti hanno accusato l’Iran di sfruttare la neutralità della sezione iraniana della Mezzaluna rossa per far entrare agen-ti e armi in altri paesi, tra cui il Libano.Der Spiegelu Gli Stati Uniti hanno espresso opinioni severe sui leader politici tedeschi. La can-celliera Angela Merkel è deinita un “rischio e una persona raramente creativa”.The New York Timesu L’Iran ha comprato missili dalla Corea del Nord con cui è in grado di colpire le capitali dell’Europa occidentale. Martedì 30 novembre Der Spiegelu L’amministrazione statunitense ha cer-cato paesi disposti a prendere i detenuti di Guantanamo in caso di chiusura della base.

Dieci giornidi WikileaksThe Guardian, Gran Bretagna

Le rivelazioni più importanti contenute nei dispacci pubblicati inora da Guardian, Spiegel, New York Times, Le Monde ed El País

Il governo tedesco si è dimostrato molto scettico. Secondo i dispacci, Berlino non ha accettato 17 detenuti uiguri, nonostante il sostegno della comunità uigura in esilio a Monaco di Baviera. Temeva di irritare la Ci-na.u La Casa Bianca ha dei dubbi sull’aidabi-lità della Turchia. Deinisce pericoloso il “punto di vista neo-ottomano” del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu e sostiene che Ankara capisce poco il resto del mondo. L’Akp, il partito di governo, è dominato da una “cerchia ristretta di consulenti servili e sprezzanti”.Le Mondeu Secondo i diplomatici, l’ex presidente di Haiti, René Préval è “indispensabile” ma è un tipo diicile: “Ha un carattere camale-ontico” e non accetta consigli.El Paísu In Spagna gli Stati Uniti hanno cercato di rallentare i processi contro soldati e politici statunitensi accusati di crimini di guerra in Iraq o di torture a Guantanamo. Alcuni di-spacci parlano della possibilità che la Spa-gna accetti gli ex prigionieri di Guantana-mo: la situazione politica e l’opinione pub-blica spagnola hanno reso “quasi impossi-bile” un sì di Madrid. Mercoledì 1 dicembre The Guardianu Il capo della Banca d’Inghilterra Mervyn King ha criticato in privato David Cameron e George Osborne (ministro dell’economia) prima delle elezioni. Secondo King, non

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Julian Assange a Londra, il 23 ottobre 2010

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 17

sa separazione tra le attività del governo e quelle della criminalità organizzata. Vladi-mir Putin è accusato di aver accumulato “guadagni illeciti”, che secondo varie fonti sono nascosti all’estero. Secondo un diplo-matico statunitense, è probabile che Putin sapesse del progetto di uccidere il dissiden-te russo Aleksandr Litvinenko a Londra.u Funzionari britannici e statunitensi han-no cercato di manipolare la proposta di mettere al bando le bombe a grappolo. Lon-dra ha assicurato agli Stati Uniti che poteva tenerle in territorio britannico anche se un trattato ne avesse vietato l’uso. Il parlamen-to è stato tenuto all’oscuro dell’accordo se-greto, approvato dall’allora ministro degli esteri David Miliband.u I diplomatici statunitensi consideravano il presidente dello Sri Lanka Mahinda Raja-paksa responsabile di un massacro di sepa-ratisti tamil nel maggio 2009, al centro di un’indagine delle Nazioni Unite.u Secondo i dispacci, la Russia ha armato i separatisti georgiani nell’Ossezia del Sud e in Abkhazia e ha compiuto molte “azioni segrete” per indebolire la Georgia prima della guerra del 2008.Der Spiegelu Dopo aver aiutato a potenziare l’esercito georgiano, gli Stati Uniti hanno messo in atto disperati tentativi diplomatici per im-pedire la guerra con la Russia. L’inviato del-la Casa Bianca nel Caucaso ha avvertito Tbilisi che la guerra le sarebbe “costata il prezioso sostegno di Washington e delle capitali europee”, mentre George W. Bush e il segretario di stato Condoleezza Rice

temevano che l’India reagisse con la forza agli attentati, ma gli Stati Uniti pensavano che la Gran Bretagna “esagerasse”.u Il presidente francese Nicolas Sarkozy è deinito un brillante stratega, ma è descritto come una persona egocentrica, suscettibile e lunatica che tiranneggia i ministri e il suo staf. I sauditi si sono irritati per la decisione di Sarkozy di portare Carla Bruni in una vi-sita di stato nel loro paese prima di averla sposata.u Sarkozy ha invitato Gordon Brown e il premier canadese Stephen Harper alle commemorazioni dello sbarco in Norman-dia perché “i loro governi erano a rischio”.u Il governo britannico ha promesso di di-fendere gli interessi statunitensi durante l’inchiesta indipendente del parlamento sulla guerra in Iraq.u Il presidente afgano Hamid Karzai pro-tegge da anni il leader dei ribelli nazionalisti della provincia pachistana del Belucistan.Der Spiegelu Una iliale della società di sicurezza pri-vata americana Xe (la ex Blackwater) ha violato la legge tedesca sulle esportazioni di armi. Ha portato senza permesso elicotteri tedeschi in Afghanistan attraverso la Gran Bretagna e la Turchia, perché ottenere i do-cumenti tedeschi per l’esportazione richie-deva troppo tempo. Giovedì 2 dicembre

The Guardianu La Russia è “di fatto uno stato maioso”: la corruzione è molto difusa e c’è una scar-

hanno esperienza e tendono a pensare ai problemi solo in termini di impatto eletto-rale. Secondo i sondaggi dei conservatori, Osborne era considerato un politico poco incisivo a causa della sua “voce stridula”.u Le forze speciali statunitensi hanno ope-rato in segreto nelle zone tribali del Paki-stan con l’approvazione di Islamabad. Gli Stati Uniti ritengono che i soldati pachistani siano responsabili di un’ondata di omicidi mirati nella valle dello Swat e nella cintura tribale, ma hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni su questi fatti.u L’ambasciatore statunitense in Pakistan ha detto che l’esercito pachistano inanzia segretamente quattro gruppi di militanti islamici, tra cui i taliban afgani e Laskar-e-Taiba, l’organizzazione responsabile degli attenti di Mumbai del 2008. I diplomatici statunitensi, inoltre, hanno scoperto che le centinaia di milioni di dollari dati dalla Ca-sa Bianca al Pakistan per contrastare i mili-tanti islamici sono usati per altri scopi.u Il capo dell’esercito pachistano, il genera-le Ashfaq Kayani, pensava di deporre il pre-sidente Asif Ali Zardari e di costringerlo all’esilio. Zardari ha conidato al vicepresi-dente americano Joe Biden di temere che l’esercito “voglia eliminarlo”. Ha aggiunto che, se fosse stato ucciso, la sorella avrebbe preso il suo posto.u Zardari ha afermato che il fratello di Na-waz Sharif, il leader dell’opposizione pachi-stana, ha “avvertito” Laskar-e-Taiba delle sanzioni delle Nazioni Unite dopo gli atten-tati di Mumbai e che il gruppo ha svuotato i suoi conti bancari. I diplomatici britannici

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Londra, 7 dicembre 2010. Davanti al tribunale dove si è presentato Assange

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Attualità

continuavano pubblicamente ad assicurar­le il loro appoggio incondizionato.Le Mondeu L’ambasciata statunitense a Mosca ha criticato il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo per gli ingenti prestiti concessi alla Russia, ritenendoli in­giustiicati.El Paísu Uno dei principali obiettivi dell’amba­sciata statunitense a Madrid è stato blocca­re il processo contro tre soldati americani accusati dell’omicidio del cameraman di un’emittente televisiva spagnola a Bagh­dad. Il cameraman di Telecinco José Couso è stato ucciso l’8 aprile 2003 durante il bom­bardamento dell’Hotel Palestine, dove al­loggiava insieme ad altri giornalisti che si occupavano della guerra in Iraq. I diploma­tici statunitensi hanno tenuto una serie di incontri con alti rappresentanti del governo spagnolo.The New York Timesu In Canada i diplomatici statunitensi han­no rilevato una crescente siducia verso gli Stati Uniti. Hanno notato, per esempio, la difusione di “stereotipi negativi” sugli sta­tunitensi nelle tv canadesi. Inoltre, hanno detto che i canadesi “ce l’hanno sempre con tutti”, anche perché sentono che il loro pae­se “è condannato a vita al ruolo di ‘Robin’ del ‘Batman’ americano”. Venerdì 3 dicembre

The Guardianu Dopo un anno di governo Gordon Brown era stato bocciato dall’ambasciata statuni­tense a Londra, secondo cui il premier labu­rista era passato da un “disastro politico all’altro”. Nonostante gli elogi per il salva­taggio delle banche, in pochi mesi il gover­no Brown era diventato una “nave che af­fonda”. Le iniziative internazionali del pre­mier, come l’impegno per il disarmo globa­le, sono state trattate dagli statunitensi con un misto di indiferenza e disprezzo.u Il presidente afgano Hamid Karzai è volu­bile, emotivo, paranoico e sensibile alle teo­rie del complotto. È stato anche accusato dai suoi ministri di complicità in attività cri­minali, compreso l’ordine di minacciare l’alto uiciale incaricato di coordinare i ne­goziati con i taliban.u Secondo i diplomatici statunitensi, c’è il sospetto che Silvio Berlusconi possa “trarre vantaggi personali” da accordi segreti con il

primo ministro russo Vladimir Putin. In un altro dispaccio si cita un amico di Berlusco­ni, secondo cui la passione per i festini è co­stata molto al premier italiano in termini isici e politici.u Le autorità statunitensi hanno respinto le proteste di Londra sui voli segreti partiti dalla base britannica di Cipro per sorveglia­re le postazioni di Hezbollah in Libano. I ministri laburisti, inoltre, temevano che con i rendition lights – i voli con cui gli statuni­tensi trasportavano sospetti terroristi nelle prigioni militari – la Gran Bretagna fosse diventata una complice involontaria delle torture.u Il ministero degli esteri britannico ha mentito al parlamento sul problema delle migliaia di persone espulse dall’isola Diego Garcia, colonia britannica nell’oceano In­diano, per far posto a una base militare sta­tunitense.u I dipendenti di aziende straniere incari­cate di addestrare i poliziotti afgani usavano droga e pagavano giovani “ballerini” per essere intrattenuti. Lo scandalo è stato tale che il ministro dell’interno ha pregato l’am­basciata statunitense di “insabbiare” la vi­cenda. Kabul temeva che la pubblicazione della storia avrebbe “messo in pericolo vite umane”. Ma aveva paura, soprattutto, che circolasse un video relativo allo scandalo.u L’esercito statunitense fa pagare agli alle­ati una tassa di movimentazione del 15 per cento su centinaia di milioni di dollari rac­colti a livello internazionale per ricostruire l’esercito afgano. La Germania ha minac­ciato di non pagare più.u Secondo l’ambasciata statunitense a Ka­bul, l’Iran inanzia diversi leader religiosi e politici afgani, istruisce accademici religio­si, addestra i taliban e cerca di inluenzare i parlamentari.u Gli Stati Uniti non credono che l’esercito messicano riuscirà mai a vincere la guerra contro i cartelli della droga. Lo considerano lento, maldestro e non all’altezza dei “rai­nati” narcotraicanti.u Gli Stati Uniti sono convinti che Ahmed Wali Karzai, fratellastro del presidente af­gano Hamid Karzai e igura di spicco a Kan­dahar, sia corrotto. Si dice che disponga di “soldi e protezione”. Due fratelli di Karzai pensavano di chiedere asilo politico agli Stati Uniti, mentre altri suoi parenti gli sta­vano alla larga e tenevano il loro denaro fuori dall’Afghanistan, sperando che il pre­sidente perdesse le elezioni del 2009.u L’amministrazione Obama e il presidente

afgano Hamid Karzai sono decisi a riiutare i colloqui con il mullah Omar, il leader dei taliban. Anche se in pubblico Karzai ha det­to spesso di voler dialogare con Omar e gli altri leader taliban, i dispacci dimostrano che la sua posizione privata era diversa.u Il presidente venezuelano Hugo Chávez e il suo ex collega colombiano Álvaro Uribe erano “quasi arrivati alle mani” a un sum­mit dell’America Latina, che un dispaccio deinisce “il peggior esempio di colloquio della repubblica delle banane”.u Secondo i diplomatici statunitensi, il pre­sidente del Turkmenistan Gurbanguly Ber­dymukhamedov è “frivolo, sospettoso, diidente, rigido, molto conservatore” e un bugiardo patentato.u Nel 2009 il presidente moldavo Vladimir Voronin aveva oferto una mazzetta di dieci milioni di dollari a un avversario politico nel disperato tentativo di mantenere al potere il suo governo comunista. Sabato 4 dicembre

The Guardianu Il presidente dell’Unione europea Her­man Van Rompuy ha previsto un “disastro” ai negoziati sui cambiamenti climatici a Cancún, in Messico.u Gli Stati Uniti cercano di manipolare i pae si contrari alla loro politica sul riscalda­mento globale.u La Casa Bianca ha appoggiato il tentativo degli Emirati Arabi Uniti di ospitare un’im­portante agenzia internazionale che pro­muove l’energia pulita.u Nel 2009, quando una partita di uranio arricchito consegnata alla Libia ha rischiato di riversare nell’atmosfera materiale radio­attivo, gli Stati Uniti hanno tenuto segreto questo potenziale “disastro ambientale”.Der Spiegel u I diplomatici americani in Libia deini­scono Muammar Gheddai, “una persona alitta da paranoia, ansia e nevrosi, che si ida solo dei suoi collaboratori più stretti. Il suo orgoglio può essere facilmente ferito e non accetta nessuna critica”.Le Mondeu Il Marocco si è sentito tradito quando Sar­kozy ha deciso che l’Algeria sarebbe stata la tappa iniziale della sua prima visita presi­denziale fuori dall’Europa.El Paísu Il Partito popolare, il principale partito d’opposizione spagnolo, è un deserto politi­co da quando ha perso le elezioni nel 2004.

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Il leader Mariano Rajoy non è molto stima-to dai diplomatici statunitensi e si dice che debba la sua longevità politica “soprattutto all’assenza di un successore credibile nel partito”. Domenica 5 dicembre

The Guardianu Di recente la politica estera cinese è di-ventata “aggressiva”. Pechino sta “perden-do amici in tutto il mondo”, ha scritto in un dispaccio l’ambasciatore americano in Ci-na.u Parlando al primo ministro australiano Kevin Rudd, Hillary Clinton ha deinito la Cina “la tua banca”. Il segretario di stato ha manifestato il suo timore per il crescen-te potere economico cinese e il controllo sulle inanze statunitensi.u Secondo un dispaccio dell’ambasciata statunitense a Madrid, la Rolls-Royce ha perso un ricco contratto per la fornitura di motori di elicotteri all’esercito spagnolo in seguito all’intervento personale di José Lu-is Zapatero. Sul premier spagnolo c’erano state forti pressioni dei diplomatici statu-nitensi.Der Spiegelu I diplomatici statunitensi a Vienna han-no espresso “frustrazione”, delusione e preoccupazione per i leader politici au-striaci.Le Mondeu Il Brasile e gli Stati Uniti non sono d’ac-cordo su come trattare con il presidente venezuelano Hugo Chávez.

The Guardianu Il Qatar usa l’emittente televisiva Al Jaze-era come merce di scambio in politica este-ra. Adatta i servizi giornalistici per soddi-sfare alcuni leader stranieri.u L’Arabia Saudita è la principale fonte di inanziamento dei gruppi militanti islamici. Secondo Hillary Clinton, il governo saudita non vuole fermare questo lusso di denaro.u I funzionari del governo iracheno consi-derano l’Arabia Saudita, non l’Iran, la mag-giore minaccia al loro paese.u Il governo libanese teme che l’Iran pren-da il controllo del paese dopo aver smasche-rato una rete segreta di telecomunicazioni usata da Hezbollah.u Il Brasile ha coperto alcuni sospetti terro-risti islamici che vivono a São Paulo e nelle zone di conine nel tentativo di proteggere l’immagine del paese.The New York Timesu Alti funzionari dell’amministrazione Obama dicono che molti milioni di dollari finiscono senza troppi ostacoli ai gruppi estremisti di tutto il mondo. Inoltre, si la-mentano di aver ricevuto poco aiuto dagli alleati in Medio Oriente.u Gli Stati Uniti sono rimasti sconcertati quando il parlamento europeo ha respinto un loro programma per sorvegliare le tran-sazioni bancarie internazionali nell’ambito di indagini sulle attività terroristiche.El Paísu Il premier José Luis Rodríguez Zapatero è

deinito “un politico astuto” da non sotto-valutare, “come molti suoi avversari hanno scoperto troppo tardi”. Anche se è bendi-sposto verso gli Stati Uniti, la sua politica estera è subordinata a quella interna. Re Juan Carlos è “un alleato formidabile quan-do gli interessi spagnoli e quelli statunitensi coincidono”. Martedì 7 dicembre

The Guardianu La giunta militare birmana pensava di ofrire un miliardo di dollari per comprare il Manchester United, proprio mentre il regi-me veniva criticato per la lenta reazione al ciclone Nargis, nel 2008. Than Shwe, il capo della giunta e grande tifoso dello United, è stato invitato a fare un’oferta dal nipote. u La Nato ha preparato un piano militare segreto per difendere la Polonia e i paesi baltici dalla Russia.u In segreto gli Stati Uniti hanno fatto pres-sioni per impedire la nomina di uno scien-ziato iraniano a una carica chiave nell’Inter-governmental panel on climate change.u La collaborazione tra servizi segreti è cre-sciuta al punto che gli Stati Uniti considera-no l’Algeria un protagonista della lotta ad Al Qaeda nella regione del Maghreb.u Gli Stati Uniti cercano da tempo di bloc-care il lusso di armi dall’Europa dell’est al Medio Oriente.The New York Timesu I diplomatici statunitensi temono che gli enormi aerei da carico gestiti dalla Badr Air-lines del Sudan trasportino armi da Teheran a Khartoum. Da qui vengono poi spediti a Gaza, agli uomini di Hamas. Gli Stati Uniti hanno chiesto ai paesi della zona di negare il diritto di sorvolo alla compagnia aerea. La Giordania e altri paesi hanno accettato, ma un dispaccio del febbraio 2009 riferisce che lo Yemen ha riiutato.u La Corea del Nord ha favorito la corsa al riarmo in Medio Oriente, fornendo tecno-logie missilistiche a Iran e Siria. Secondo i servizi segreti statunitensi, Teheran e Da-masco hanno ceduto queste tecnologie ad Hamas e Hezbollah. Nella primavera del 2009 i diplomatici statunitensi hanno solle-vato dubbi su acquisti programmati di lan-ciamissili dalla Corea del Nord da parte dello Sri Lanka e lanciamissili Scud da parte dello Yemen.El Paísu L’ex ministro degli esteri spagnolo Mi-guel Ángel Moratinos si era lamentato con

Londra, 7 dicembre 2010. Il giornalista John Pilger manifesta per Assange

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Lunedì 6 dicembre

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Attualità

Mai sprecare una buona crisi. Era lo slogan della squadra di Barack Obama durante la campagna per le presi­

denziali. Potremmo seguire questo consi­glio per capire cosa possiamo imparare dalle reazioni uiciali ai dispacci di Wiki­leaks.

La lezione più ovvia è che stiamo assi­stendo al primo vero confronto tra l’ordine costituito e la cultura di internet. Ci sono state schermaglie anche in passato, ma questo è lo scontro più importante. Prima sono arrivati gli attacchi ai provider che ospitano Wikileaks sui loro server. Poi Amazon, eBay e PayPal hanno “scoperto” all’improvviso di non poter più ofrire i loro servizi al sito di Julian Assange. Inine il governo degli Stati Uniti ha cercato di inti­midire gli studenti della Columbia univer­

sity che su Facebook parlavano di Wiki­leaks. La reazione del vecchio ordine è stata feroce, coordinata e globale, e rap­presenta un duro avvertimento per chi ha a cuore la democrazia e il futuro di internet.

C’è una deliziosa ironia nel fatto che siano proprio le cosiddette democrazie li­berali a chiedere a gran voce la chiusura di Wikileaks. Pensate, per esempio, a quello che sosteneva l’amministrazione degli Sta­ti Uniti meno di un anno fa. Il 21 gennaio 2010, a Washington, il segretario di stato Hillary Clinton ha fatto un discorso epoca­le sulla libertà di internet, che molte perso­ne hanno interpretato come un rimprovero alla Cina per il suo presunto attacco infor­matico a Google. “L’informazione non è mai stata così libera”, ha dichiarato Clin­ton. “Anche nei paesi autoritari i siti di in­formazione stanno aiutando le persone a scoprire fatti nuovi e a chiedere ai governi di rendere conto delle loro scelte”. Poi Clinton ha raccontato che durante una vi­sita in Cina nel novembre 2009 Barack Obama ha “difeso il diritto delle persone di accedere liberamente alle informazioni, sottolineando che il lusso libero delle in­formazioni rende più forti le società. Il pre­sidente ha osservato che l’accesso alle in­

I potenti nel mondodi internet

I leader dei paesi occidentali hanno attaccato Wikileaks alleandosi con Amazon e PayPal. Ma farebbero meglio ad adeguarsi ai cambiamenti prodotti dalla cultura della rete

John Naughton, The Guardian, Gran Bretagna

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Londra, 7 dicembre 2010l’ambasciatore statunitense dell’atteggia­mento di George W. Bush: “La Spagna è l’ottava potenza al mondo ed è trattata co­me un paese che non conta niente”.u La Spagna è preoccupata dalla prospetti­va che la Mauritania diventi una “seconda Somalia” e una base di Al Qaeda.u L’ambasciata statunitense in nicaragua deinisce il paese uno stato criminale cor­rotto, inanziato dalla droga e da “valigie piene di soldi mandate dal presidente del Venezuela Hugo Chávez”. Il presidente Da­niel Ortega è considerato una persona con­fusa e ossessionata dalla sicurezza.Le Mondeu Stati Uniti e Russia hanno deciso di unire le forze per combattere la guerra alla droga e hanno individuato il principale obiettivo nell’Afghanistan.

Mercoledì 8 dicembre

The Guardianu Il governo britannico ha favorito la scar­cerazione di Abdelbaset al Megrahi, il terro­rista libico condannato in Scozia per la stra­ge di Lockerbie, perché temeva un’azione “dura e immediata” da parte della Libia contro gli interessi della Gran Bretagna. u Due anni fa il governo saudita ha propo­sto agli Stati Uniti di creare una forza araba sostenuta da Washington e dalla nato per entrare in Libano e distruggere Hezbollah. Il piano non è mai stato realizzato.u L’élite saudita ha posizioni molto conser­vatrici in tema di costumi, ma un dispaccio diplomatico racconta di una festa di Hallo­ween organizzata l’anno scorso da un mem­bro della famiglia reale. Il party è stato all’insegna di sesso e droga. La polizia reli­giosa ha chiuso un occhio.Le Mondeu Un dispaccio dell’estate del 2009 analiz­za i problemi della tunisia. L’economia na­zionale è in crescita e sta migliorando la condizione delle donne, ma il regime del presidente Ben Ali si sta sgretolando e non è chiaro chi sarà il suo successore.El Paísu Gli Stati Uniti hanno fatto pressioni sulla Russia per evitare che un progetto di legge della Duma penalizzasse Visa e Master­Card. Der Spiegelu Il summit del 2009 a Copenaghen è falli­to anche perché Stati Uniti e Cina si sono alleati per ostacolare i tentativi dei paesi eu­ropei di raggiungere un accordo. u sdf

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formazioni aiuta i cittadini a responsabi­lizzare i governi, genera nuove idee e inco­raggia la creatività”. Considerato quello che sappiamo ora, il discorso di Clinton sembra un capolavoro satirico.

L’isteria delle autorità può essere spie­gata con il fatto che le rivelazioni di Wiki­leaks dimostrano come le élite politiche delle democrazie occidentali abbiano in­gannato i loro elettori. I dispacci indicano chiaramente non solo che l’avventura degli europei e degli statunitensi in Afghanistan è destinata a fallire, ma soprattutto che in privato lo ammettono anche il governo di Washington, quello di Londra e gli altri go­verni della Nato.

Il problema è che questi politici non possono confessarlo apertamente né pos­sono afrontare i loro elettori, che sono an­che i principali inanziatori di questa follia. I dispacci dell’ambasciatore statunitense in Afghanistan confermano che il regime di Karzai è corrotto e incompetente quanto lo era il regime sudvietnamita di Saigon negli anni settanta. Le rivelazioni mettono anche in chiaro che gli Stati Uniti sono strettamente legati a quel regime, come lo erano a quello del Vietnam, e mostrano i­no a che punto Washington e i suoi alleati sono scettici sulla reale possibilità di tra­sformare l’Afghanistan in uno stato auto­suiciente e meno che mai in una demo­crazia eiciente. Dimostrano che non c’è luce alla ine di questo tunnel. Ma i politici a Washington, Londra e Bruxelles non se la sentono di ammetterlo. In questo senso, l’Afghanistan è un pantano com’è stato il Vietnam. Le uniche diferenze sono che oggi in Afghanistan combattono soldati volontari e che non stiamo bombardando a tappeto i civili.

Fiducia nella nuvolaGli attacchi a Wikileaks, inoltre, dovrebbe­ro essere un campanello d’allarme per chi guarda con ottimismo ad aziende come Google, Flickr, Facebook, Myspace e Ama­zon, che ospitano i nostri blog, memoriz­zano i nostri dati nei loro server e ci per­mettono di aittare computer “virtuali”. Nei termini dei contratti con cui queste aziende forniscono servizi sia “gratuiti” sia a pagamento ci sarà sempre una clausola che gli permette di prendere le distanze dai nostri contenuti, se ritengono che sia nel loro interesse farlo. La morale è che non dobbiamo avere iducia nelle aziende del cloud computing, della “nuvola”, perché

uno di questi giorni questa nuvola ci po­trebbe piovere addosso.

Guardate il caso di Amazon, che ha cancellato Wikileaks dalla sua Elastic com­pute cloud appena le cose hanno comin­ciato a mettersi male. Sembra che Joe Lie­berman, un senatore democratico degli Stati Uniti che sofre di una grave forma di arroganza, abbia fatto pressioni sul gruppo fondato da Jef Bezos. Lieberman ha di­chiarato pomposamente che avrebbe “chiesto ad Amazon quali erano i suoi rap­porti con Wikileaks e cosa pensavano di fare in futuro gli altri fornitori di servizi in­ternet per garantire che non fossero utiliz­zati per distribuire informazioni segrete rubate”.

Queste parole hanno spinto la giornali­sta del New Yorker Amy Davidson a chie­dersi se non ci sia il rischio che “Lieber­man, o qualsiasi altro senatore, chiami la tipograia che stampa il New Yorker men­tre sta per uscire un articolo che contiene

informazioni segrete per far fermare le ro­tative”.

Quello che Wikileaks sta realmente de­nunciando è ino a che punto il sistema de­mocratico occidentale è stato svuotato di signiicato. Nell’ultimo decennio i suoi lea­der politici hanno dimostrato di essere in­competenti (basta vedere come Irlanda, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno cercato di regolamentare le banche), corrotti (tutti i governi sono legati al commercio di armi) o sfrenatamente militaristi (gli Stati Uniti e la Gran Bretagna in Iraq). Eppure questi leader non sono mai stati chiamati a dar conto del loro operato. Invece hanno con­tinuato a confondere le acque e a mentire. E quando inalmente qualcuno ha solleva­to il velo della segretezza, la loro reazione istintiva è stata quella di uccidere chi ha dato la notizia.

Come ha scritto di recente Simon Jen­kins sul Guardian, “la divulgazione delle notizie riservate è al limite della morale e della legalità. Spesso è irresponsabile e a volte imbarazzante. Ma è tutto quello che rimane quando le regole non bastano più. I politici sono intimoriti, la legge tace e i controlli non funzionano. Solo la divulga­zione può costringere il potere a dar conto di quello che fa”. Dai burocrati infuriati delle nostre democrazie provengono solo le urla petulanti di imperatori i cui abiti so­no stati stracciati dalla rete.

Questo ci riporta al signiicato più am­pio del caso Wikileaks. Le élite politiche delle democrazie occidentali hanno sco­perto che internet può essere una spina non solo nel ianco dei regimi autoritari, ma anche nel loro. È stato bufo vedere i politici pestare i piedi sulla rete come gi­ganti impazziti e semiciechi che tentano di calpestare una talpa. È profondamente preoccupante vedere le aziende tecnologi­che che, terrorizzate (inora l’unica ecce­zione è stata Twitter), si piegano alla loro volontà.

Ma ora i politici devono afrontare un dilemma angosciante. Il vecchio sistema non può più funzionare. Migliaia di copie dei documenti di Wikileaks, e probabil­mente di molti altri ancora, sono in giro per il mondo, distribuite da tecnologie peer to peer come BitTorrent.

I nostri governanti devono fare una scelta: imparare a vivere nel mondo di Wi­kileaks, con tutto quello che comporta per il futuro, o chiudere internet. La decisione spetta a loro. u bt

u Il 7 dicembre 2010 Julian Assange è stato arrestato a Londra. Il fondatore di Wikileaks si è presentato al tribunale della capitale britannica non per rispondere di accuse legate alle rivelazioni di Wikileaks, ma in seguito a un mandato d’arresto proveniente dalla Svezia, dove due donne lo hanno denunciato per stupro. Il giudice Howard Riddle ha riiutato il rilascio di Assange su cauzione e ne ha ordinato la detenzione ino alla prossima udienza, issata per il 14 dicembre.

Da sapere

La reazione del vecchio ordine è stata feroce, coordinata e globale, e rappresenta un duro avvertimento per chi ha a cuore la democrazia

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Europa

Di fronte al calo straordinario della disoccupazione e alla do-manda crescente di manodo-pera qualificata, Berlino ha

deciso di facilitare l’accesso degli immigra-ti stranieri nel mercato del lavoro tedesco. Su richiesta del sindacato, la ministra del lavoro cristianodemocratica Ursula von der Leyen ha deciso di sempliicare le pratiche burocratiche per gli immigrati che cercano lavoro nei settori dove la carenza di mano-dopera è più forte. La decisione è stata pre-sa nonostante le polemiche sull’immigra-zione e l’integrazione degli stranieri che da qualche tempo agitano l’opinione pubblica in Germania. “Al momento i servizi del mi-nistero sono impegnati a stabilire un elenco di mestieri a cui applicare il nuovo provve-dimento”, ha afermato Von der Leyen in un’intervista al quotidiano economico Handelsblatt del 2 dicembre. Secondo le regole in vigore, prima di assumere un lavo-ratore straniero, il datore di lavoro deve di-mostrare all’Agenzia federale per l’impiego (Ba) che non ha trovato nessun candidato di nazionalità tedesca qualiicato per quel po-sto. Questa procedura dovrebbe essere eli-minata in alcuni settori industriali, permet-tendo così agli imprenditori di assumere direttamente gli immigrati.

La lista delle occupazioni interessate non è ancora completo, ma Von der Leyen ha anticipato che la nuova procedura ri-guarderà sicuramente gli operai del settore delle macchine utensili e gli ingegneri auto-mobilistici: in questi campi serve urgente-mente manodopera per smaltire gli ordina-tivi. Anche gli elettricisti e i medici potran-no essere assunti senza l’autorizzazione della Ba. La ministra presenterà il suo pro-

getto al governo nei prossimi giorni, ed en-tro la ine dell’anno la legge sarà sottoposta al vaglio del parlamento. Le nuove regole potrebbero entrare in vigore già nel primo trimestre del 2011.

L’obiettivo di Van der Leyen è forzare la mano ai leader della Cdu della cancelliera Angela Merkel e ai loro colleghi della Csu, il partito gemello in Baviera, che frenano il

La Germania apre le porteai lavoratori stranieri

Per far fronte alla carenza di manodopera, la ministra del lavoro Ursula von der Leyen ha deciso di puntare sull’immigrazione. Ma nel governo non tutti sono d’accordo

Patrick Saint-Paul, Le Figaro, Francia

progetto per paura di mettersi contro l’opi-nione pubblica. “Bisogna prendere coscien-za della mancanza di manodopera qualii-cata”, ha dichiarato la ministra. “Questa carenza ha costi enormi perché causa inter-ruzioni alla produzione che iniscono per goniare le cifre sulla disoccupazione. Dob-biamo impedire che certe aziende decida-no di delocalizzare una parte della produ-zione per ovviare a questo problema”. A novembre il tasso di disoccupazione in Ger-mania è diminuito ancora, e oggi è al livello più basso degli ultimi vent’anni. Secondo le cifre uiciali, i disoccupati sono 2,931 milio-ni, il 7 per cento della popolazione attiva.

In base alle stime dell’Agenzia federale per l’impiego, la Germania dovrebbe acco-gliere circa duecentomila immigrati per colmare la carenza di forza lavoro qualiica-ta. “Considerata l’evoluzione della demo-graia in Germania, il ricorso all’immigra-zione è obbligatorio”, ha afermato il diret-tore dell’Agenzia, Raimund Becker. “Dob-biamo orientarci verso un’immigrazione tagliata sulle necessità del nostro mercato del lavoro, adottando un sistema a punti, come quello in vigore in Canada, o stabilen-do un elenco dei mestieri e delle qualiiche più richieste”. u nm

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Da sapere

Un incontro della comunità turca alla porta di Brandeburgo, Berlino

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Francia

cantonacontro le banche La protesta contro le banche lanciata dall’ex calciatore fran-cese Eric Cantona è stata un ia-sco. L’appello a ritirare i soldi dai conti correnti, “per distrug-gere il sistema, costruito sulle banche”, non ha avuto grande seguito. Nemmeno l’ex giocato-re del Manchester United è an-dato a svuotare il conto all’agen-zia Bnp di Albert, in Picardia, come aveva promesso. “L’appel-lo di Cantona è irresponsabile? È vero”, scrive Libération. “Ma chi è responsabile di questa irre-sponsabilità? ”. In buona parte le stesse banche, “che hanno ge-stito il denaro altrui con troppa disinvoltura e non hanno mai chiesto scusa per le soferenze sociali che hanno causato”.

kosovo

il primo voto indipendente Il 12 dicembre i kosovari an-dranno alle urne per rinnovare il parlamento per la prima volta dall’indipendenza, dichiarata nel 2008. La campagna elettora-le, racconta il quotidiano Ex-press, è stata segnata da alcuni scontri tra i militanti del Partito democratico (Pdk) del premier uscente Hashim Thaci e i soste-nitori della Lega democratica, partner di minoranza del gover-no. Secondo i sondaggi, il Pdk dovrebbe confermarsi la prima forza del paese, mentre la vera sorpresa potrebbe essere il par-tito Vetëvendosje (autodetermi-nazione), guidato dall’ex stu-dente ribelle Albin Kurti. Da Belgrado, intanto, il ministro per il Kosovo Goran Bogdanovic ha invitato la minoranza serba ad astenersi “per delegittimare le istituzioni di Pristina”. Ma le forze politiche dei serbi del Ko-sovo sembrano intenzionate a partecipare al voto.

russia-polonia

un’amicizia particolare La visita del presidente Dmitrij Medvedev a Varsavia, il 6 e il 7 dicembre, segna il deinitivo di-sgelo tra Russia e Polonia. Uno dei simboli di questa nuova amicizia è la creazione di un istituto che dovrà agevolare il dialogo sulle questioni storiche ancora controverse e si occupe-rà del museo dedicato al massa-cro di Katyn. Anche dal punto di vista economico i rapporti sono sempre più stretti: quest’anno gli scambi commerciali tra i due paesi sono aumentati del 40 per cento. Il riavvicinamento con Varsavia avrà efetti positivi an-che sulle relazioni tra Russia e Ue. La presidenza di turno po-lacca, prevista per la seconda metà del 2011, sarà infatti netta-mente orientata verso est, pre-vede Nezavisimaja Gazeta.

in breve

Grecia Il 6 dicembre centinaia di persone si sono scontrate con la polizia ad Atene durante una manifestazione in memoria di Alexis Grigoropoulos, il ragazzo ucciso da un agente nel 2008.Francia Un tribunale di Parigi ha stabilito il 6 dicembre che l’incidente del Concorde nel 2000 è stato causato dall’impat-to con un frammento di metallo che si era staccato da un aereo della Continental Airlines.Russia Il 7 dicembre il governo ha concluso un accordo con l’Ue che apre la strada all’ingresso del paese nell’Organizzazione mondiale del commercio.

“Potrebbe far male”, titola Prospect riferendosi alla riforma del servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) allo studio del governo. Finora l’Nhs ha goduto di una certa stabilità inanziaria, ed è stato risparmiato dalla manovra da 111 miliardi di sterline (circa 132 miliardi di euro) approvata a ottobre. Appena arrivata

al governo, la coalizione tra liberaldemocratici e conservatori aveva assicurato di non voler smantellare la sanità pubblica, ma “di volerla razionalizzare, superando il sistema legato agli obiettivi”. La riforma, che punta anche a risanare un deicit previsto di 20 miliardi di sterline nei prossimi cinque anni, dovrebbe consistere in “un mix di decentramento, spirito imprenditoriale e quell’intransigenza che il governo sembra voler applicare ovunque”, scrive Prospect. Nel nuovo Nhs la gestione della maggior parte del bilancio sarà aidata ai general practician, i medici di base. E per la prima volta dagli anni settanta anche le autorità locali avranno voce in capitolo, mentre saranno limitati i poteri dell’Istituto nazionale per la sanità e l’eccellenza clinica. ◆

Gran bretagna

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Prospect, Gran Bretagna

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Gli aeroporti spagnoli nel caosI controllori di volo spagnoli pagheranno per il loro ammutinamen-to, annuncia Público. Dopo lo sciopero a sorpresa del 3 dicembre, 442 controllori rischiano pesanti sanzioni disciplinari e una condan-na per sedizione, reato che prevede una pena ino a otto anni di pri-gione. Per protestare contro la quarta modiica all’orario di lavoro dall’inizio dell’anno, gli scioperanti hanno bloccato gli aeroporti del paese, causando la cancellazione di oltre 4.300 voli. Il governo ha risposto dichiarando lo stato d’emergenza per la prima volta dal 1975 e sostituendo i controllori in agitazione con personale militare.

L’aeroporto di Bilbao, 4 dicembre 2010

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Africa e Medio OrienteNei panni di Napoleone

Venance Konan,Le Patriote, Costa d’Avorio

Le elezioni che gli ivoriani aspetta-vano dal 2005 hanno diviso il pae se. La Costa d’Avorio, un tem-po la nazione più ricca dell’Africa

occidentale e tuttora uno dei principali pro-duttori di cacao del mondo, ha due presi-denti rivali. Il presidente uscente Laurent Gbagbo ha perso il ballottaggio del 28 no-vembre, ma riiuta di ammettere la sconit-ta e accusa l’avversario di brogli. Gbagbo controlla l’esercito e altre istituzioni: tra queste, il consiglio costituzionale, che ha sancito la sua vittoria con il 51,4 per cento dei voti e davanti al quale il 4 dicembre ha giurato come nuovo capo dello stato.

Secondo la commissione elettorale, in-vece, il vincitore è Alassane Ouattara, con otto punti di vantaggio su Gbagbo. L’ex pre-mier ha il sostegno dei ribelli delle Forze nuove, che controllano il nord a maggioran-za musulmana da quando la guerra civile del 2002-2003 ha spaccato in due il paese. Non a caso, Ouattara ha nominato il loro leader, Guillaume Soro, come premier di un governo parallelo. Su invito dell’Unione africana, l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki è andato ad Abidjan per cercare una via d’uscita dallo stallo ma se n’è andato due giorni dopo senza nulla di fatto. Sem-bra molto diicile trovare un accordo tra i

due candidati. Lo sostiene un ex consigliere presidenziale della Nigeria, la principale potenza regionale, che ha incontrato spesso Gbagbo negli ultimi dieci anni, giungendo alla conclusione che non ha nessuna inten-zione di dividere il potere con Ouattara.

L’anello mancanteAnni di mediazioni a livello regionale e in-ternazionale sembrano essere andati in fu-mo nel giro di pochi giorni. La Costa d’Avo-rio è l’anello mancante di una catena di stati dell’Africa occidentale che hanno ri-nunciato alla guerra. In un momento di boom degli investimenti nel settore mine-rario e nei mercati dell’area, potrebbe rie-mergere come importante crocevia com-merciale. Queste elezioni avrebbero dovuto riuniicare il paese e restituire legittimità al governo, ma si rischia di ottenere l’efetto opposto. Ouattara ha l’appoggio di molti leader africani e mondiali. E le Nazioni Uni-te, che hanno certiicato i risultati elettorali, respingono le accuse di brogli. Tuttavia, Gbagbo sembra intenzionato a sfruttare il tema delle interferenze esterne per rafor-zare la sua posizione tra gli allea ti naziona-listi. “Continuerò a lavorare con tutti i paesi del mondo ma non svenderò mai la nostra sovranità”, ha dichiarato Gbagbo. u gim

Mediazione impossibilein Costa d’Avorio

T. Burgis e W. Wallis, Financial Times, Gran Bretagna

Una volta pensava di essere Sun-djata, l’antico imperatore ma-liano, poi Mosè, un’altra volta ancora re David. Il 4 dicembre

Laurent Gbagbo si è messo nei panni di Na-poleone Bonaparte. Come l’imperatore francese, si è incoronato da solo, in compa-gnia di qualche comparsa e di tre ambascia-tori: quelli di Angola, Libano e Sudafrica. Era assente, invece, Mamadou Koulibaly, il presidente del parlamento. Probabilmente Koulibaly ha capito che era meglio prende-re le distanze da questo potere illegittimo, violento e ancora in sospeso. Nel frattempo, il resto del mondo ha riconosciuto come presidente eletto dagli ivoriani Alassane Ouattara. Tutte le persone che il 4 dicem-bre hanno applaudito e festeggiato alla ce-rimonia nel palazzo presidenziale sapevano di partecipare a una farsa. E anche Gbagbo doveva certamente sapere che, mentre si attribuiva ingiustamente la vittoria, in alcu-ne regioni del paese venivano uccisi dei connazionali. Un amico di Issia, nell’ovest della Costa d’Avorio, mi ha detto che sono morte almeno dieci persone negli scontri dopo le elezioni. Episodi simili si sono veri-icati a Oumé, nel centro del paese. È questo il pae se che Gbagbo pensa di amministrare? In realtà, la questione non gli interessa. La sola cosa che vuole è rimanere al potere, anche se deve passare sui cadaveri degli ivoriani. u

Venance Konan è uno scrittore e giornalista ivoriano. Il suo ultimo libro è Les Catapilas, ces ingrats (Picollec 2009).

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Un sostenitore di Alassane Ouattara ad Abidjan, il 6 dicembre 2010

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 25

Dopo il secondo turno delle elezioni legislative, il parlamento egiziano è così composto: 420 seggi su 508 all’Ndp del presidente Hosni Mubarak, e 68 ai candidati indipendenti e all’opposizione. Al Masry al Youm denuncia l’ennesimo plebiscito: da più di trent’anni l’Ndp vince con più dell’80 per cento dei voti ed “è chiaro che si tratta di frodi”. Secondo alcuni analisti, Mubarak ha voluto crearsi un parlamento su misura per realizzare un progetto di successione ereditaria, che prevede la candidatura del iglio Gamal alle elezioni presidenziali del 2011.

Egitto

Parlamento su misura

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Proteste ai seggi a Damas, il 5 dicembre 2010

GUINEA

Via libera agli aiuti la corte suprema ha conferma-to la vittoria di Alpha Condé al-le presidenziali del 7 novem-bre. l’altro candidato, Cellou Dalein Diallo, ha accettato i ri-sultati. Condé, che ha vinto con il 52,5 per cento dei voti, deve garantire stabilità al paese do-po quarant’anni di tensioni, scrive l’Observateur Paalga. Dopo le prime elezioni libere della sua storia, la Guinea spe-ra di beneiciare degli aiuti esteri bloccati dopo il colpo di stato del 2008.

IN BREVE

Iran Il 6 e il 7 dicembre sono ri-presi a Ginevra i negoziati con il 5+1 (i paesi membri del Consi-glio di sicurezza dell’Onu e la Germania) sul programma nu-cleare del paese.Medio Oriente Il 7 dicembre il presidente statunitense Barack Obama ha rinunciato a chiedere una moratoria sulla colonizza-zione israeliana in Cisgiordania come condizione per i negoziati.

Durante la mia assenza da ca-sa ho avuto notizia di due arre-sti. Il primo è quello di Walid Hassayin, fermato il 31 ottobre a Qalqilya dal servizio d’intel-ligence dell’Autorità palestine-se. Il secondo è quello di Mu-stafa al Ghoul, fermato dalla polizia di Gaza il 5 dicembre.

Hassayin è stato arrestato in un internet café dopo aver criticato l’islam in un blog. Se-condo Human rights watch, il provvedimento è stato irmato dal procuratore generale mili-tare, che si era sentito ofeso dalle sue afermazioni. Ma

fonti uiciali hanno riferito al New York Times che l’arresto è stato ordinato per proteggere Hassayin dalla rabbia della po-polazione. A quanto pare que-sta rabbia non è un’invenzio-ne.

Al Ghoul è stato fermato dalla polizia di Hamas dopo aver partecipato a un sit-in di protesta contro la chiusura dell’associazione giovanile Sharek. Il gruppo è stato messo al bando dopo dieci mesi di in-timidazioni. Gli attacchi erano cominciati dopo la pubblica-zione di un rapporto sulle con-

dizioni dei giovani palestinesi. All’inizio del 2010 era stata chiusa la sede dell’associazio-ne a rafah. A maggio alcuni uomini avevano incendiato il campo estivo gestito da Sharek con il sostegno delle Nazioni Unite. la troupe di Al Jazeera non è stata autorizzata a segui-re il sit-in di protesta. I parteci-panti sono stati fermati e poi rilasciati (tranne Al Ghoul). In cambio si sono impegnati a prendere le distanze da Sharek e a non frequentare persone di sesso femminile con cui non hanno legami giuridici. u nm

Da Ramallah Amira Hass

Walid e Mustafa

QATAR

I Mondialidegli arabi Il Qatar è in festa dopo che il 2 dicembre la Fifa ha assegnato all’emirato l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2022 (nel-la foto, l’emiro del Qatar a Gine-vra). Doha investirà quattro mi-liardi di dollari per costruire sta-di ultramoderni, mentre le en-trate commerciali dovrebbero aggirarsi intorno ai 24 miliardi. “È un momento storico per il mondo arabo”, scrive Al Raya. “Questa vittoria può cambiare il volto della regione, allontanan-do i fantasmi della guerra e del terrorismo”. Il quotidiano ricor-da che nel 2022 più della metà della popolazione qatariota avrà meno di 25 anni.

NIGERIA

Armi sospetteda Teheran l’Onu invierà gli ispettori in Ni-geria per indagare su un carico di armi proveniente dall’Iran se-questrato a ine ottobre nel por-to di lagos. Secondo il governo di Abuja erano destinate ad al-cuni politici che, in caso di scon-itta, si preparano a fare scoppia-re violenze alle presidenziali dell’aprile del 2011, scrive Van-guard. Teheran ha fatto sapere che erano dirette “a un altro pae se dell’Africa occidentale”, il Gambia, che dopo l’annuncio ha rotto le relazioni diplomatiche con Teheran. l’Iran è accusato di aver violato il divieto di espor-tare armi imposto dall’Onu.

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26 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Americhe

In America Latina il sostegno alla de-mocrazia e alle imprese private con-tinua ad aumentare. La criminalità è diventata una preoccupazione più

grande della disoccupazione e, in gran par-te della regione, il Brasile è considerato più inluente degli Stati Uniti. Sono alcuni dei risultati emersi dall’ultimo sondaggio con-dotto da Latinobarómetro in diciotto paesi

dell’America Latina e pubblicato in esclu-siva dall’Economist. Dal 1995 il sondaggio aiuta a capire come cambiano le tendenze nella regione.

Proteggere i poveriDue fatti collegati tra loro spiccano tra i ri-sultati del sondaggio di quest’anno. Il pri-mo è che l’America Latina appare ottimista. Il secondo è che la i-ducia nella democrazia e nelle sue istituzioni fondamentali è sempre più solida. Sempre più persone credono nella democra-zia in diversi paesi della costa paciica del Sudamerica.

In Perù per esempio, dove la crescita economica è stata in media del 6 per cento

L’America Latina crede nella democrazia

L’ultimo sondaggio di Latinobarómetro rivela che la maggior parte dei sudamericani si ida delle istituzioni democratiche. Ma ha paura per l’aumento della criminalità

The Economist, Gran Bretagna

all’anno dal 2002, la iducia nella demo-crazia è passata dal 40 per cento nel 2005 al 61 per cento quest’anno.

La iducia nelle istituzioni democrati-che è cresciuta anche in Messico, dove l’economia è in ripresa dopo aver subìto un forte calo l’anno scorso.

Ma in Messico e in Brasile, i due paesi più popolosi della regione, solo la metà degli intervistati crede davvero nella democrazia. Que-sto dato trascina verso il basso la media regionale. Circa il 44 per cento degli intervistati in tutta la

regione è soddisfatto di come la democra-zia funziona efettivamente nel suo paese: la stessa percentuale dell’anno scorso ma molto più alta rispetto al 25 per cento del

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Tijuana, Messico

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 27

2001. Il 34 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver iducia nel parlamento del suo paese e il 45 per cento nel governo. In tutti e due i casi il dato è lo stesso del 2009, ma segna un aumento rispetto al 2003 (rispettivamente del 17 per cento e del 24 per cento).

Dieci anni fa i problemi economici in America Latina avevano indebolito la idu-cia della popolazione nella democrazia. Il fatto che si sia raforzata durante la crisi i-nanziaria mondiale probabilmente si spie-ga con una recessione breve e una forte ri-presa in quasi tutti i paesi della regione. Inoltre, una rete di sicurezza sociale più forte ha contribuito a proteggere i poveri.

Di recente la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina ha reso noto che la percentuale dei latino-americani che vive sotto la soglia di pover-tà è aumentata di poco nel 2009 ed è scesa di nuovo quest’anno, assestandosi al 32 per cento.

Il modello brasilianoMa l’umore varia molto da paese a paese. L’economia forte del Brasile e la popolarità del suo presidente uscente, Luiz Inácio Lu-la da Silva, si rilettono in un clima di otti-mismo ampiamente difuso. La questione è diversa in Messico e in America Centrale, dove la recessione è stata più pesante e la criminalità è più difusa.

Quest’anno, per la seconda volta dal 1995, quando sono cominciati i sondaggi di Latinobarómetro, la maggioranza degli intervistati in tutta l’America Latina ha di-chiarato che il problema più urgente nel suo paese è la criminalità, non la disoccu-pazione. Circa il 31 per cento ha detto di aver subìto un crimine nell’anno passato o di avere un parente prossimo che è stato vittima di violenza. Ma il dato è sceso ri-spetto al 38 per cento dello scorso anno ed è il risultato più basso dal 1995.

Il buon andamento dell’economia ha fatto aumentare anche la iducia nelle im-prese private e nell’economia di mercato: circa il 71 per cento degli intervistati in tut-ta la regione pensa che le imprese private siano indispensabili per lo sviluppo, un da-to in crescita rispetto al 56 per cento del 2007. Il 58 per cento è convinto che l’eco-nomia di mercato sia l’unico sistema che consentirà lo sviluppo del proprio paese, rispetto al 47 per cento del 2009. È interes-sante notare che quest’opinione è condivi-sa dal 62 per cento degli intervistati in Ve-

u Latinobarómetro è un’organizzazione non proit di Santiago del Cile. Ogni anno, dal 1995, conduce un sondaggio sulla democrazia nei paesi dell’America Latina. Quest’indagine è stata compiuta in diciotto paesi, realizzando 20.204 interviste tra il 4 settembre e il 6 ottobre 2010. Il margine di errore è del 3 per cento. Gli uruguaiani sono i più soddisfatti, i messicani i più scontenti.

Il sondaggio

nezuela (dove l’80 per cento è favorevole alle imprese private), anche se il presiden-te Hugo Chávez espropria molte aziende private.

Il paese più inluente in America Latina è il Brasile: lo pensa il 19 per cento degli in-tervistati (in aumento rispetto al 18 per cento dello scorso anno). Seguono gli Stati Uniti (per il 9 per cento dei cittadini, una

percentuale invariata rispetto al 2009) e il Venezuela (secondo il 9 per cento degli in-tervistati, in calo rispetto all’11 per cento dell’anno scorso). Gli Stati Uniti sono con-siderati il paese più inluente dagli intervi-stati in Messico e in gran parte dell’Ameri-ca Centrale, mentre il Venezuela prevale in Ecuador, nella Repubblica Dominicana e in Nicaragua. u sc

Pensate che il vostro paese stia facendo progressi? Percentuale di risposte positive

Siete soddisfatti dello stato della democrazia nel vostro paese? Percentuale di risposte positive

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1996 2001 2010

Fonte: The Economist

La democrazia è preferibile a qualsiasi altra forma di governoPercentuale di risposte positive, media tra i paesi dell’America Latina

Qual è il problema più grave nel vostro paese?Media tra i paesi dell’America Latina,in percentuale

Disoccupazione Criminalità65

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Media ponderata

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 29

MESSICO

Bambinisicari “Il 3 dicembre l’esercito ha arre-stato a Cuernavaca Édgar Jimé-nez Lugo, detto El Ponchis. Il ra-gazzo, 14 anni, appartiene al cartello Pacíico Sur ed è accu-sato di vari omicidi e decapita-zioni”, scrive Milenio. Non ci sono dati uiciali sui bambini e sugli adolescenti coinvolti nel narcotraico. Le organizzazioni civili parlano di 25mila ragazzi, ma il fenomeno è in aumento.

IN BREVE

Argentina-Brasile Il 6 dicem-bre i governi dei due paesi han-no riconosciuto la Palestina co-me stato libero e indipendente all’interno delle frontiere del 1967.Cile L’8 dicembre almeno 83 detenuti sono morti in un incen-dio scoppiato nella prigione San Miguel, nel centro della capitale Santiago. Le iamme sono di-vampate durante uno scontro tra prigionieri.

Il 7 dicembre sono stati resi noti i risultati delle elezioni presidenziali e legislative del 28 novembre. L’ex irst lady Mirlande Manigat, del Rassemblement des démocrates

nationaux progressistes, andrà al ballottaggio il 16 gennaio con Jude Célestin, il delino del presidente René Préval. Il cantante Michel Martelly è arrivato terzo. Intanto in tutto il paese continuano le manifestazioni e gli scontri per i presunti brogli. u

Haiti

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STATI UNITI

Meno tasseper tutti Il 6 dicembre barack Obama ha raggiunto un compromesso con i repubblicani per estendere di due anni i tagli alle tasse intro-dotti da George W. bush, che sa-rebbero scaduti il 31 dicembre: in cambio del prolungamento dei sussidi per la disoccupazio-ne, il presidente ha accettato di estendere le agevolazioni anche ai cittadini con un reddito supe-riore a 250mila dollari all’anno. Obama ha anche accettato di abbassare la tassa di successio-ne sulle eredità superiori a 5 mi-lioni di dollari. “L’accordo ha fatto infuriare i democratici”, scrive il Washington Post.

STATI UNITI

Un milionedi donne La corte suprema deciderà en-tro la primavera se l’azione lega-le collettiva contro la catena di supermercati Walmart potrà an-dare avanti. Il caso è nato dalla denuncia di una ex commessa che ha accusato l’azienda, a no-me di tutte le dipendenti, di ostacolare la carriera delle don-ne e di pagarle meno degli uo-mini. I legali di Walmart conte-stano la legittimità dell’azione collettiva sostenendo che le sto-rie delle dipendenti sono diver-se tra loro. “Se la corte darà il via libera, sarà l’azione collettiva più grande della storia statuni-tense”, spiega il Boston Globe.

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Port-au-Prince. La candidata Mirlande Manigat

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Ha solo 32 pagine e una sobria copertina blu: il passaporto cubano sembra più un salva-condotto che un documento d’identità. Indispensabile per uscire dall’isola, averlo non garantisce però di poter pren-dere un aereo. viviamo nell’unico paese al mondo in cui per avere questo docu-mento di viaggio bisogna pa-gare in una valuta diversa da quella dei nostri stipendi. Co-sta 55 pesos convertibili, e un lavoratore medio deve mette-re da parte lo stipendio di tre mesi.

all’inizio del ventunesimo secolo non è più così insolito incontrare un cubano con un passaporto, ma negli anni set-tanta e ottanta solo pochi elet-ti ne avevano uno. Eravamo diventati un popolo immobile, e i pochi che andavano all’estero erano in missione per il governo (o cercavano di raggiungere l’esilio). attraver-sare la barriera del mare era un premio concesso ai più fe-deli, mentre gli altri restavano a guardare. Per fortuna le cose sono cambiate, forse grazie all’arrivo dei turisti, che ci

hanno contagiato con la loro curiosità.

Oggi quando ottengono la cittadinanza di un altro paese i miei compatrioti tirano un sospiro di sollievo: sanno che presto proveranno un senso di appartenenza per un altro luo-go. Poche pagine, una coperti-na foderata di pelle e l’emble-ma di un altro paese possono fare la diferenza. Nel frattem-po, il libretto blu con l’emble-ma di Cuba rimane nascosto in un cassetto, in attesa che diventi una ragione di orgo-glio e non di dolore. u sb

Dall’Avana Yoani Sánchez

Passaporto o salvacondotto

Americhe

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30 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Asia e Paciico

Sono passati 19 anni dal breve man-dato presidenziale di Michail Gor-baciov e nell’ex Unione Sovietica lo spirito democratico della gla-

snost è ormai un ricordo lontano. Oggi si stima che quasi l’80 per cento dei residenti nell’ex Urss viva ancora sotto regimi autori-tari che li privano dei diritti fondamentali. Gli ultimi dieci anni in particolare, secondo Freedom House, sono stati “un decennio di regressione democratica nell’ex Unione Sovietica”.

Il fenomeno è più evidente in Kazaki-stan, dove dissidenti, giornalisti e attivisti per i diritti umani hanno subìto ripetute e costanti limitazioni. Il presidente Nursul-tan Nazarbaev, 70 anni, è uno dei due lea-der dell’ex Urss ancora al potere dai tempi del comunismo. Nazarbaev si definisce “l’uomo della democrazia”, rivendicando

spesso il suo impegno per la “tutela e la pro-mozione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. In realtà è un dittatore inte-ressato a conservare il potere. Secondo Hu-man Rights Watch i giornalisti che criticano il governo di Nazarbaev subiscono minac-ce, attacchi e sanzioni penali per difama-zione e calunnia. Solo quest’anno, almeno due giornali indipendenti sono stati chiusi in seguito alle pressioni del governo di Asta-na, mentre gli atti di repressione sono all’or-dine del giorno.

Una condizione rilessa nel World press freedom index, l’indice di Reporter senza frontiere che misura la libertà di stampa nel mondo, in cui il Kazakistan occupa il 162° posto su 178 paesi. Un quotidiano in parti-colare, Respublika, è stato ripetutamente

oggetto di ben documentati attacchi da par-te del governo kazaco. Nel 2002, dopo aver sostenuto il partito politico di opposizione Scelta democratica del Kazakistan (Dvk), i giornalisti di Respublika hanno trovato il cadavere di un cane decapitato davanti alla redazione. Accanto al cane un biglietto che diceva semplicemente: “Questo è l’ultimo avvertimento”. Il giorno successivo negli uici del giornale è scoppiato un incendio.Ma Respublika ha continuato a pubblicare cambiando nome e sfuggendo al controllo delle autorità. Boicottato dalle tipograie, il giornale ora è stampato con mezzi di fortu-na e continua a essere distribuito in 19mila copie.

Anche se ha continuato ad applicare mi-sure di censura draconiane, il Kazakistan ha presieduto nel 2010 l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), un organismo intergovernativo composto da 56 paesi il cui mandato com-prende l’impegno ad “afrontare e segnala-re violazioni della libertà di espressione”. “È il colmo”, ha dichiarato Rachel Denber, di Human Rights Watch. “Nessun paese è perfetto, ma il Kazakistan aveva davvero bisogno di fare di più prima di avere la pre-sidenza”.

Secondo alcuni, ofrire al Kazakistan la guida dell’Osce doveva costringere il go-verno ad approvare le riforme. In fondo, quando nel 2007 il Kazakistan aveva pre-sentato la sua candidatura alla presidenza, il ministro degli esteri Marat Tazhin si era impegnato a equiparare le leggi sull’infor-mazione agli standard internazionali. Una promessa che, tre anni dopo, si è rivelata vuota. “La scelta di far presiedere l’Osce al Kazakistan non è servita a niente. Ha addi-rittura peggiorato le cose, alcuni giornali sono stati chiusi per difamazione”, spiega la giornalista di Respublika Evgenia Plakhi-na.

Una parte del problema, ritiene Plakhi-na, dipende dalla posizione geograica del Kazakistan. Il paese è un corridoio verso l’Afghanistan e un alleato fondamentale delle forze della coalizione nella guerra al terrorismo. Inoltre si afaccia sul mar Ca-spio che contiene giacimenti petroliferi per un valore di 12mila miliardi di dollari. “Cre-do che i nostri diritti e le nostre libertà siano barattati con le risorse e altri vantaggi poli-tici che i paesi membri dell’Osce ottengono da noi”, continua la giornalista.“Il Kazaki-stan riceve poche critiche dall’Osce. E que-sto per me è una grande delusione”. u sv

Il Kazakistan deludealla guida dell’Osce

L’anno della presidenza kazaca dell’organizzazione è inito ma il governo di Astana non ha fatto le riforme promesse. E il paese continua a essere uno dei meno democratici del mondo

Ryan Gallagher, Open Democracy, Gran Bretagna

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Un murales propagandistico ad Astana

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 31

PENISOLA COREANA

Dialogare con Pyongyang Il 7 dicembre i ministri degli esteri degli Stati Uniti, della Corea del Sud e del Giappone si sono incontrati a Washington per discutere della crisi coreana. Hillary Clinton, Kim Sung-hwan e Seiji Maehara, scrive il Japan Times, hanno ribadito che non torneranno al tavolo dei negoziati inché Pyongyang non cambierà il suo atteggiamento “provocatorio e belligerante”. I tre ministri, inoltre, hanno lanciato un appello alla Cina perché usi la sua inluenza per far ragionare i nordcoreani. Ma per Pechino il dialogo è l’unica strada percorribile. Nella foto, proteste contro Pyongyang in Corea del Sud

KIRGHIZISTAN

Cercasi primo ministro Il 4 dicembre la presidente Roza Otunbaeva ha incaricato Omur-bek Babanov, leader del partito Respublika, di formare un go-verno di coalizione. In prece-denza era fallito un primo tenta-tivo di coalizione senza il partito ilorusso Ar-Namys e quello na-zionalista Ata Jurt, che ha otte-nuto la maggioranza relativa nelle elezioni del 10 ottobre. La costituzione kirghisa prevede il ritorno alle urne se per tre volte non si riesce a formare un go-verno. Babanov ha buone possi-bilità di successo perché il suo partito è appoggiato da alcuni dei principali clan del nord e del sud del paese, scrive Radio Free Europe. Si concluderebbe così la transizione cominciata con la deposizione dell’ex capo di stato Kurmanbek Bakiev.

IN BREVE

Pakistan Il 6 dicembre 40 per-sone sono morte in un duplice attentato suicida contro i capi di una milizia anti-taliban a Ghala-nai, nel distretto di Mohmand.Cina Diciannove paesi non par-teciperanno il 10 dicembre a Oslo alla cerimonia di consegna del Nobel per la pace al dissi-dente cinese Liu Xiaobo. Intan-to Pechino, in risposta al Nobel, ha istituito il premio Confucio per la pace, “che rilette l’idea di pace e diritti umani della Cina”. Il premio è stato assegnato all’ex vicepresidente taiwanese Lien Chan “per aver creato un ponte tra l’isola e il continente”.

La Cina, che aderisce alla Convenzione per il controllo del tabacco dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a ottobre ha irmato l’accordo che mette al bando l’uso di additivi e profumi nelle sigarette. Eppure, scrive Century Weekly, Pechino non ha certo facilitato i lavori dell’Oms,

opponendo forti resistenze alla campagna contro il fumo. Il paese opta per soluzioni meno drastiche, cercando di ridurre, anziché eliminare, i danni causati dal fumo. Una scelta, sottolinea il settimanale, dovuta all’importanza dell’industria del tabacco. Primo produttore e primo consumatore al mondo, il paese conta più di 300 milioni di fumatori. Ogni anno più di un milione di cinesi muore per malattie legate al fumo. Ma la Cina vanta anche un altro primato, quello dell’imposta sui tabacchi, pari a circa il 9 per cento delle tasse totali. Un delegato al vertice dell’Oms spiega che “le aziende del tabacco sono dello stato, che non ne vuole il fallimento per non perdere posti di lavoro”. Ma soprattutto, spiega Wu Yiqun, vicedirettore di un think tank che si occupa di salute, “al governo sta più a cuore il pil che la salute dei cittadini”. ◆

Cina

Il fumo non fa così male

Century Weekly, Cina

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INDIA

Il governodegli scandali “È stato un novembre terribile per il Congresso”, scrive il setti-manale Outlook nell’articolo di copertina dedicato alla crisi del partito di maggioranza. La frase fa riferimento alla serie di scandali che ha coinvolto il go-

BIRMANIA

Gli scontricontinuano Non si fermano gli scontri co-minciati il 7 novembre a Mya-waddy, nello stato Karen, tra i soldati birmani e l’esercito bud-dista democratico karen (Dkba), uno dei gruppi armati delle mi-noranze etniche. All’origine del conlitto c’è il riiuto, da parte di una fazione del Dkba, di unirsi alle guardie di frontiera, come richiesto dall’esercito centrale. A complicare la situazione, il 1 dicembre l’Unione nazionale karen è intervenuta a ianco del Dkba. A causa delle violenze in-cessanti, scrive Irrawaddy, i birmani che scappano in thai-landia stanno aumentando.

verno e che ha fatto apparire l’India come “una repubblica trufaldina”. Il parlamento, in-fatti, è paralizzato per uno scan-dalo sulla vendita delle licenze per i cellulari di seconda gene-razione (G2) che avrebbero cau-sato allo stato una perdita pari a 27 miliardi di euro. Il ministro delle telecomunicazioni, Andi-muthu Raja (nella foto), si è di-messo ma l’opposizione chiede anche che una commissione parlamentare indaghi sulla vi-cenda, bloccando nel frattempo i lavori del parlamento. Nel ca-so G2 è coinvolta anche Nira Radia, una lobbista che lavora per varie aziende e che, oltre ad aver fatto pressione su Raja per la cessione delle licenze, avreb-be favorito nomine politiche e amministrative nell’interesse dei suoi clienti.

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La buona notizia è che l’Italia, terza economia dell’eurozona per ric-chezza prodotta, non è come la Grecia e l’Irlanda: non è stata vit-

tima di una bolla immobiliare né di un crol-lo del sistema inanziario, almeno non an-cora. La cattiva notizia è che l’Italia è come il Portogallo, che inora è riuscito a evitare i problemi immobiliari e bancari della Grecia e dell’Irlanda ma cresce così lentamente che le entrate iscali potrebbero non bastare per coprire il debito. La notizia peggiore è che l’economia italiana è quasi il doppio di quella della Spagna, che è un paese consi-derato troppo grande per fallire ma del qua-le le istituzioni inanziarie europee diicil-mente potrebbero garantire il salvataggio.

Se la situazione inanziaria dell’Italia è relativamente buona, il merito va soprat-

tutto agli organi di controllo del sistema bancario e all’abilità del governatore della banca centrale, Mario Draghi. Sfortunata-mente questi sforzi non sono sufficienti. Draghi lamenta spesso il fatto che l’Italia è “incapace di crescere a un ritmo sostenuto ed è poco competitiva rispetto ad altri paesi europei”. Tra il 1998 e il 2008 la produttivi-tà è aumentata del 22 per cento in Germania e del 18 per cento in Francia, mentre quella italiana è cresciuta solo del 3 per cento. Se nei prossimi anni questo dato non dovesse cambiare, sarebbe impossibile far crescere il pil a un tasso superiore all’1 per cento, pre-visto dal governo per il 2010 e il 2011. In questo caso, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il gettito iscale diminuirà, e l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi issa-ti per ridurre il deicit.

Le aziende emergenti, che sono fonda-mentali per creare innovazione, produttivi-tà e crescita, faticano a decollare. Gli im-prenditori sono ostacolati dalla burocratiz-zazione delle amministrazioni locali, dalla corruzione e da una struttura iscale che in-centiva l’evasione. Ad aggravare la situazio-ne c’è la siducia della comunità imprendi-

La tempesta economica colpisce l’Italia

È un’illusione pensare che l’economia italiana sia così solida da resistere alla crisi che ha colpito la Grecia e l’Irlanda. Senza una crescita sostenuta, il sistema potrebbe crollare

Irwin Stelzer, The Wall Street Journal, Stati Uniti

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Piazza San Marco, Venezia

toriale italiana nei confronti del governo. Il 14 dicembre il premier Silvio Berlusconi dovrà afrontare un voto di siducia alla ca-mera dei deputati. Gli imprenditori con cui ho parlato credono che, a prescindere dall’esito del voto, si ritroveranno comun-que con un governo incapace di eliminare i riiuti dalle strade di napoli, controllate dal-la criminalità organizzata, salvare i tesori artistici che vanno in pezzi o promuovere le riforme strutturali necessarie per rilanciare l’economia.

A questo si aggiunge un giustiicato sen-so d’impotenza. L’Italia non può agire sul tasso di cambio per rendere più competitiva la sua economia nei confronti di paesi con monete svalutate, come fa la Cina, né mo-diicare il tasso d’interesse a seconda della situazione economica: queste scelte spetta-no alla Banca centrale europea, che fa spes-so gli interessi della Germania. Inoltre l’Ita-lia, quasi completamente dipendente dalle risorse energetiche che provengono da altri paesi, non esercita nessun controllo sui co-sti dell’energia.

L’economia italiana è trainata soprattut-to dalla produzione di beni di consumo d’al-ta qualità realizzata da piccole e medie aziende a conduzione familiare. Ora queste imprese sono minacciate dai beni di scarsa qualità prodotti a costi bassissimi dai lavo-ratori cinesi, sia in Cina sia in Italia.

A Venezia i designer e gli artigiani del settore vetrario non credono di poter soste-nere ancora a lungo la concorrenza delle imitazioni cinesi. nel frattempo gli orai di Vicenza perdono colpi rispetto ai produtto-ri asiatici, che stanno assumendo il control-lo del mercato. La situazione di questi set-tori produttivi italiani non è molto diversa da quella dei calzaturiici portoghesi, che sono stati spazzati via dalle importazioni cinesi a basso costo.

Meglio investire in MongoliaPer le aziende italiane la concorrenza non arriva solo dall’Asia. Molti beni che un tem-po erano realizzati da artigiani italiani ora sono prodotti in Italia da colonie di immi-grati cinesi che lavorano giorno e notte in cambio di salari che gli italiani non posso-no, o non vogliono, accettare. A peggiorare la situazione c’è il fatto che sia in Cina sia in Italia gli operai sgobbano su macchinari di-segnati in Italia, venduti alla Cina e poi co-piati per essere usati dai lavoratori cinesi sottopagati. L’altra faccia della medaglia sono le strade delle grandi città italiane pie-

Visti dagli altri

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 33

ne di clienti cinesi che svuotano gli scafali di negozi che vendono marchi come Gucci e Prada. Consumatori ossessionati dai mar-chi internazionali che i piccoli commercian-ti italiani non riescono ad attirare nei loro negozi.

Rispetto alla Germania, la Grecia, l’Ir-landa, il Portogallo e la Spagna pagano tassi di rendimento sui buoni poliennali superio-ri di cinque o sette punti percentuali. L’Ita-lia, che di recente ne ha pagato uno di appe-na l’1,7 per cento superiore al tasso di riferi-mento tedesco, potrebbe essere il prossimo paese nel mirino degli investitori che chie-deranno tassi più alti. A meno che non rie-sca a far crescere l’economia a un ritmo più alto rispetto a quello attuale. In in dei conti l’Italia, che ha un rapporto tra debito e pil del 120 per cento, è più indebitata del Porto-gallo, il cui debito totale ammonta all’85 per cento del pil. Inoltre, nella classifica dei pae si in cui è più facile fare afari – realizzata dalla Banca mondiale – il Portogallo è al 31° posto, subito dopo Israele e Paesi Bassi. L’Italia, invece, è all’80°. Signiica che per un imprenditore straniero è più diicile in-vestire in Italia che in Mongolia o in Zam-bia. Forse è proprio questo il dato più preoc-cupante. u sdf

Basta camminare per qualche centinaio di metri lungo via Pi-stoiese, una strada stretta alla periferia di Prato, per avere la

sensazione di essersi spostati di migliaia di chilometri. Dietro la panetteria, al civico 29, l’Italia all’improvviso svanisce. Sugli scaf-fali dei supermercati si trovano gigli secchi, confezioni di zampe di pollo surgelate e ba-rattoli di meduse sotto sale. Nei dintorni ci sono un’erboristeria cinese, una gioielleria cinese, ristoranti e bar cinesi e perino una gelateria cinese.

Secondo il ministero degli esteri di Pe-chino, in questo centro tessile della Toscana e nella sua provincia si concentra la più grande comunità cinese in un distretto am-ministrativo fuori dalla Cina. Silvia Pierac-cini, giornalista locale e autrice del libro L’assedio cinese (Il Sole 24 Ore libri 2008), ha calcolato che a Prato vivono 50mila cinesi, che costituiscono circa il 30 per cento della popolazione cittadina. Ma nessuno può dire quanti siano veramente visto che molti di loro – secondo Pieraccini più della metà – sono immigrati irregolari.

Quasi tutti provengono dai dintorni di Wenzhou, una città portuale della Cina su-dorientale, e sono attratti in Italia da un’in-dustria che si è sviluppata da zero in meno di vent’anni. Qui per il pronto moda si uti-lizzano tessuti a basso costo importati, in

genere dalla Cina, poi trasformati con una lavorazione degli ordini a ritmi da capogiro per produrre abiti di moda venduti con l’eti-chetta made in Italy.

Da un magazzino di Macrolotto Iolo, a sud di Prato, vengono portate fuori scatole piene di top da donna. Sono per un gruppo di imprenditori egiziani. “Qui arrivano clienti da tutto il mondo”, dice il giovane responsabile del magazzino. Gli abiti espo-sti sulla scafalatura accanto a lui costano tra i 2,80 e i 4,20 euro. Questi prezzi strac-ciati sono possibili grazie a una riduzione drastica dei salari e del costo dei materiali. Nelle oicine sparse per tutta la città, gli operai cinesi lavorano ino a quindici o sedi-ci ore al giorno, accettando paghe e condi-zioni che gli italiani non prenderebbero nemmeno in considerazione. Yen Chow Chan, missionario dell’organizzazione sta-tunitense Evangelical mission and semina-ry international, ha visitato molte di queste fabbriche. “In ogni officina ci sono circa dieci dipendenti. Non solo ci lavorano”, spiega Chan: “Lì dentro si cucina, si mangia e si dorme”. E per quanto possa sembrare normale in Cina, in Italia questa situazione è contraria alla legge.

Incontro tra culture“Siamo di fronte a un sistema di illegalità organizzata”, dice Roberto Cenni, un im-prenditore del tessile che nel 2009 è diven-tato il primo sindaco di destra della città nel secondo dopoguerra. “Dalla ine di maggio del 2009 a giugno del 2010 la polizia ha ef-fettuato ispezioni in 152 immobili di pro-prietà cinese, sequestrando 152 aziende”. La lista elettorale di Cenni, sostenuta anche dal Popolo della libertà e dalla xenofoba Lega nord, ha ottenuto una vittoria schiac-ciante sfruttando il disagio maturato dai cittadini nei confronti della comunità cine-se.

Yun Yin Lee è nata nei Paesi Bassi. È a Prato come turista. “Qui i poliziotti mi guar-dano come non mi è mai successo prima”. A ottobre gli immigrati hanno manifestato la loro rabbia dopo che il sindaco si è riiutato

Il nuovo volto del made in Italy

A Prato le fabbriche d’abbigliamento gestite dai cinesi hanno messo in crisi l’industria tessile locale. Ma secondo molti le due comunità possono lavorare insieme

John Hooper, The Guardian, Gran Bretagna

Nelle oicine di proprietà dei cinesi, gli operai lavorano sedici ore al giorno

Da sapere

SveziaSlovacchiaGermaniaPoloniaLussemburgoMaltaFinlandiaRepubblica CecaEstoniaDanimarcaAustriaBelgioGran BretagnaPaesi BassiFranciaPortogalloSloveniaUngheriaItaliaCiproLituaniaBulgariaSpagnaIrlandaLettoniaRomaniaGrecia

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4,8

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Variazione del pil nei paesi dell’Unione europea nel 2010, percentuale

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di dichiarare una giornata di lutto per tre cinesi morti in un’alluvione. “La comunità cinese è spesso fonte di problemi”, ammet-te Chan, aggiungendo però che molte delle diicoltà nascono da incomprensioni reci-proche. “Credo che gli italiani siano ami-chevoli verso chi parla la loro lingua. Ma quasi tutti i cinesi che vivono a Prato vengo-no dalla campagna: fanno fatica a parlare il cinese, iguriamoci l’italiano. In ogni caso, molti di loro non hanno tempo per studiare la lingua. Sono tanti gli immigrati che mi dicono: ‘Perché dovrei integrarmi? Mi fer-merò qui solo per una decina d’anni, per ri-sparmiare soldi da mandare a casa e che userò una volta tornato in Cina’”.

Ma, come spiega Chan, la realtà è spes-so diversa da come gli immigrati cinesi la immaginano: il 32 per cento dei neonati che vengono alla luce all’ospedale di Prato ha la mamma cinese. Qualunque sia il loro status giuridico, questi bambini cresceran-no da italiani: la città è piena di adolescen-ti cinesi italianizzati. Le ragazze, con i loro vestiti provocanti e il trucco pesante, dan-

no particolarmente nell’occhio. “Quelli che sono nati qui si vestono da italiani, mangiano come gli italiani e non parlano bene il cinese”, dice Hu Qui Lin. A Prato Hu è famoso come l’unico dei circa cinque-mila imprenditori cinesi iscritto a Conin-dustria. Come molti dei suoi dipendenti, anche il direttore generale della sua azien-da è italiano. Si chiama Giancarlo Mafei. “Il sindaco si è concentrato sul rispetto delle regole, ma farebbe meglio ad aprirsi al dialogo con i cinesi e a cercare di convin-cerli dell’esigenza di una maggiore legali-tà”, dice Mafei, che è anche consulente della giunta provinciale di centrosinistra. Mafei spiega che la provincia “sta cercan-do di aprire un dialogo, ma i problemi non mancano”.

A peggiorare i rapporti tra le due comu-nità c’è il fatto che le fabbriche italiane stanno chiudendo soprattutto a causa della concorrenza cinese. Tuttavia anche Cenni dice che “se riuscissimo a mettere insieme le capacità produttive del settore dell’abbi-gliamento cinese con quelle dell’industria tessile italiana, Prato diventerebbe una ca-pitale della moda”. Secondo Mafei questo processo è già cominciato: “I cinesi com-prano già oggi decine di milioni di metri di stofa dalle aziende italiane”.

A ottobre una delegazione arrivata da Wenzhou ha sottoscritto un accordo con la provincia per incoraggiare le imprese con sede in Cina a comprare tessuti d’alta qua-lità a Prato e il vino prodotto nei dintorni. Alla cerimonia ha partecipato anche il sin-daco Cenni, che però si è riiutato di sotto-scrivere l’accordo. u fp

Philippe Ridet, Le Monde, Francia

Politica

Il 14 dicembre il parlamento italiano voterà la mozione di siducia nei con-fronti del governo. Sulla carta gli op-

positori di Silvio Berlusconi hanno i nu-meri per costringere il premier a dimetter-si. Ma per il momento è diicile capire co-me andrà a inire, soprattutto a causa dell’atteggiamento ambiguo dei leader politici. Tutti dicono di essere pronti per le elezioni anticipate, ma in realtà nessuno vuole combattere una battaglia dall’esito incerto. Il più bellicoso di tutti, Berlusco-ni, avrebbe tutto da perdere dal voto: sa-rebbe a rischio la sua carica e, con essa, l’immunità dai processi penali in cui è im-putato. Indebolito all’interno e poco ap-prezzato sul piano internazionale, il pre-mier non sembra più in grado di riunire le diverse correnti del suo partito. Il Partito democratico (Pd) non sta meglio. Le ele-zioni anticipate richiederebbero la convo-cazione delle primarie per designare un candidato comune a sinistra, mettendo in evidenza le divisioni interne al Pd.

I centristi e i sostenitori di Gianfranco Fini, che potrebbero riunirsi in un terzo polo in grado di fare da arbitro nello scon-tro tra destra e sinistra, non danno grande garanzia di solidità. Inine la Lega nord, l’unico partito dato per vincente in caso di nuove elezioni, non sembra troppo inte-ressata a questa eventualità: il voto po-trebbe mettere in pericolo la riforma isca-le federalista. In pratica tutti hanno inte-resse a far durare la crisi, alcuni cercando di salvare Berlusconi, altri spingendo ver-so un governo tecnico. Il loro problema, adesso, è passare dall’ofensiva alla ritira-ta strategica. La crisi irlandese e la minac-cia di un contagio dell’Italia hanno già spinto più di un parlamentare a chiedere ad alta voce un “armistizio”. Deinendo le rivelazioni del sito Wikileaks come “un complotto contro l’Italia”, anche Berlu-sconi ha fatto appello al senso di responsa-bilità nazionale. Un modo come un altro per giustiicare questi piccoli accordi all’italiana. u adr

Piccoli accordi all’italiana

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Operai cinesi a Prato

Da sapere

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Francia

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Germania

Tasso di disoccupazione dei giovani sotto i 25 anni, nel 2010

0 10 20 30 40 50

Fonte: The Economist

Visti dagli altri

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Zenaida Cordero, 37 anni, è originaria di Cuba e vive a Milano, dove lavora come barista. Abita con il marito e il iglio. È arrivata nel 1999. Le cose che ama di più dell’Italia sono le bellezze e la cultura. Il suo momento più bello inora è stato il giorno del suo matrimonio. Se potesse, voterebbe per l’Italia dei valori. Il suo programma tv preferito è Studio aperto.

Volti nuovi

Bologna

Laila Wadia

Trieste

Trieste è specchio delle contraddi-zioni italiane: dall’8 al 10 novem-bre una parata di premi Nobel ha

silato al Centro internazionale di isica te-orica (Ictp) per celebrare i quarantacinque anni del rinomato istituto di ricerca. Nello stesso periodo gli studenti hanno manife-stato per difendere il diritto all’istruzione messo in discussione dal decreto Gelmini. Irene Borsato frequenta la Scuola superio-re di lingue moderne per interpreti e tra-duttori. Trevigiana d’origine, studia a Trieste sperando che una laurea magistra-le presso questa prestigiosa università pubblica possa costituire un buon biglietto da visita. È d’accordo con il ministro della pubblica istruzione quando dice che non tutti possono avere un ateneo sotto casa. Ma allora le università dovrebbero essere inanziate in base alle loro necessità, non con fondi a pioggia, e vanno salvaguardati gli studenti con redditi più bassi.

Futuro compromessoNegli atenei italiani non piove, diluvia. Nonostante i voti alti e il basso reddito fa-miliare, il 90 per cento degli studenti ri-schia di perdere il contributo per l’alloggio e la borsa di studio. “È una negazione del diritto allo studio”, denuncia Irene, che con i suoi colleghi ha realizzato un video-appello (intern.az/eBORZe). “Hanno sop-presso l’insegnamento di cinese e di italia-no per stranieri”, dice Silvia Udovicic, cro-ata. “È una follia, per una facoltà che ospi-ta studenti da tutto il mondo. Non siamo solo una scuola di lingue ma uno strumen-to di politica ed economia che guarda al futuro”. Molti docenti vicini alla pensione non saranno sostituiti, impoverendo l’of-ferta formativa. E senza studenti l’econo-mia cittadina rischia di crollare. “Non sva-lorizzate il nostro futuro”, dice Irene rivol-gendosi ai politici. “Non voglio far cresce-re i miei igli all’estero”. u

Laila Wadia è nata a Bombay e vive a Trie-ste, dove lavora all’università ([email protected]).

La parola agli studenti

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Il Coordinamento migranti sta cercando di avviare un dialogo con le istituzioni sui diritti dei lavoratori

Tutti contro lo sfruttamento

Francisca Rojas

Sotto ricatto. È la condizione in cui si trovano gli immigrati a causa della legge Bossi-Fini, come hanno de-

nunciato più di quattromila persone nel corteo del 13 novembre durante la manife-stazione in sostegno dei lavoratori immi-grati di Brescia. “La notizia dell’espulsio-ne di Mimmo ci amareggia”, dice Bass, del Coordinamento migranti di Bologna. “Il rilascio del permesso di soggiorno dovreb-be essere scollegato dal contratto di lavo-ro, soprattutto considerando i lunghi tem-pi d’attesa per ottenerlo e la crisi lavorativa nel paese”. Bass è senegalese e vive in Ita-lia da circa vent’anni. Il Coordinamento migranti è nato nel 2004 dalla volontà de-gli immigrati di organizzarsi in autono-mia. “Siamo in prima linea perché cono-

sciamo meglio di altri la nostra condizio-ne. Siamo contro il permesso a punti e per il riconoscimento dello ius soli per chi è na-to qui. A Bologna ci sono le condizioni cul-turali ed economiche per portare avanti un dialogo, ma c’è ancora un vuoto tra noi e le istituzioni. Di fronte alle denunce per la sanatoria trufa o alla domanda di resti-tuzione dei contributi versati a chi viene rimpatriato dopo anni di lavoro, ci sono si-lenzio o repressione”.

Anche Najat fa parte del Coordina-mento. È marocchina e fa l’operaia metal-meccanica. “Ho una laurea in letteratura inglese. Sto sprecando le mie competenze, quando trovi un superiore meno istruito di te, ti senti frustrata. In Italia manca l’aria, nemmeno gli italiani stanno bene. Quan-do incontri persone come quelle del Coor-dinamento prendi coraggio, pensi che si può lottare insieme contro la schiavitù”. u

Francisca Rojas è una scrittrice nata a Santiago del Cile. Vive a Bologna da tredici anni ([email protected]).

Italieni

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Le opinioni

Rendendo pubblici i cablogrammi del dipartimento di stato, Wikileaks ha fatto luce sulla politica estera america-na ma ha mostrato soprattutto il livello di intesa che c’è tra gli intellettuali sta-tunitensi, a qualsiasi parte politica ap-

partengano. Certo, delle diferenze ci sono. A destra si è posto l’accento sul fatto che queste rivelazioni sono una minaccia mortale al nostro paese, impegnato in una lunga guerra contro i jihadisti. Come ha scritto Seth Lipsky sul New York Sun, Julian Assange e i suoi collaboratori “hanno pubblicato quasi mezzo milione di documenti che hanno un valore potenziale per i ne-mici degli Stati Uniti”. Lo scopo, fa nota-re Lipsky, “è vaniicare il nostro sforzo bellico”. Ben diverso il tono della sinistra (o di quella che in America è considerata tale): nessuno ha sostenuto che Julian Assange è un terrorista né che Wikileaks rischia di provocare la sconitta militare degli americani. I progressisti hanno pe-rò previsto conseguenze apocalittiche per il soft power degli Stati Uniti.

Per esempio Michael Cohen e i suoi colleghi del National Security Network dichiarano di voler costruire “una sicu-rezza nazionale forte e progressista contro le manipo-lazioni dei conservatori”. E Cohen ha scritto che le ri-velazioni di Wikileaks “minano alle fondamenta la si-curezza nazionale degli Stati Uniti e la loro possibilità di condurre un’attività diplomatica eicace”.

Cohen è uomo di princìpi e si è opposto agli inter-venti militari americani all’estero. Ha scritto alcune delle analisi più lucide sul disastro in Afghanistan. Ma la sua costernazione di fronte alle rivelazioni di Wiki-leaks sembra poggiare su due presupposti: 1) che la se-gretezza è necessaria per una diplomazia eicace; 2) che siccome “gli interventi statunitensi sulla scena glo-bale sono legittimi”, i diplomatici impegnati a difende-re questi interventi e interessi devono poter agire con il necessario grado di segretezza.

James Rubin (portavoce di Madeleine Albright al tempo in cui era segretaria di stato) ha sostenuto ener-gicamente che, siccome il dipartimento di stato agisce cercando di conquistare la iducia delle autorità stra-niere, e opera attraverso la persuasione e la condivisio-ne delle informazioni, “distruggere la riservatezza equivale a distruggere la diplomazia”. E “tagliare le gambe” ai diplomatici rende meno probabili le soluzio-ni diplomatiche, e quindi più probabili le soluzioni mi-litari spesso sostenute dalla destra.

In ogni caso, non deve sorprendere che le rivelazio-

ni di Wikileaks abbiano fatto inorridire molti progres-sisti. In realtà tra destra e sinistra sulla politica estera ci sono molte e importanti diferenze. Nel complesso i liberal sono scettici sugli interventi militari statuniten-si all’estero e spesso arrivano a essere anche nettamen-te contrari, mentre i conservatori continuano a credere nella centralità della forza militare per la difesa degli interessi nazionali.

Su un punto però sono tutti d’accordo: sulla neces-sità che gli Stati Uniti continuino a esercitare un’ege-monia mondiale. E il motivo, credo, è che non solo i conservatori ma anche i progressisti (compreso il pre-sidente Obama) continuano ad accettare con poche

riserve la tesi dell’eccezionalismo ame-ricano. E anche di questo concetto ci so-no versioni diverse. Per la destra, l’Ame-rica è semplicemente l’ultima speranza dell’umanità, e qualsiasi cosa sia nell’in-teresse degli Stati Uniti è, per deinizio-ne, nell’interesse dell’intero genere umano. L’America per loro svolge nel mondo una missione unica e speciale. Invece per i progressisti l’America è l’ul-tima speranza dell’umanità, anche se ha molti difetti. Prima di entrare in politica, Anne Marie Slaughter, oggi responsabile

del policy planning del dipartimento di Stato, ha scritto un libro intitolato The idea that is America solo per so-stenere che i valori e gli ideali dell’America sono uni-versali, anche se l’America stessa qualche volta non li rispetta. Michael Cohen ha scritto una volta che gli Sta-ti Uniti sono un paese “intrinsecamente buono”.

Ultimamente nella sua rubrica sul New York Times il commentatore conservatore David Brooks ha previ-sto che negli Stati Uniti sorgerà un nuovo movimento, con “uno scopo dichiarato senza ipocrisie: difendere la supremazia dell’America. Tutelerà la posizione dell’America nel mondo, afermando che questa supre-mazia rappresenta un dono ai nostri igli e una benedi-zione per la Terra”.

Non è certo quello che sostengono Rubin e Cohen, ma tra le due posizioni c’è molto in comune. Anzi, direi che Cohen ha assolutamente ragione: se si crede che gli Stati Uniti siano fondamentalmente una forza del bene, non si può non provare orrore di fronte alle rive-lazioni di Wikileaks, che rendono più diicile il lavoro dei diplomatici americani.

Ma se invece si crede che gli Stati Uniti siano un im-pero e si è convinti – da americani – che questa vocazio-ne imperiale stia distruggendo il paese e perciò ci si augura la ine dell’impero, allora non si potrà che salu-tare con entusiasmo le rivelazioni di Wikileaks. u ma

Wikileaks uniscegli intellettuali americani

David Rief

DAVID RIEFF

è un giornalista statunitense. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono Senza

consolazione. Gli

ultimi giorni di Susan

Sontag (Mondadori 2009) e Sulla punta

del fucile (Fusi orari 2007).

Conservatori e progressisti americani sono d’accordo su una cosa: la necessità che gli Stati Uniti continuino a esercitare un’egemonia mondiale

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Le opinioni

La patetica resa di Washington a Israele è stata uno dei momenti più umilianti del-la storia della diplomazia statunitense. A settembre è scaduto il blocco di nuove costruzioni negli insediamenti ebraici dei Territori occupati, e i palestinesi han-

no interrotto i negoziati diretti con Israele. A quel punto gli Stati Uniti hanno chiesto un nuovo congelamento di tre mesi negli insediamenti, esclusi quelli della Gerusa-lemme Est araba. E l’amministrazione Obama, per convincere Netanyahu ad accettare una nuova sospensione e rilan-ciare così i colloqui di pace, le sta provan-do tutte. Tra i regali offerti al governo israeliano di estrema destra ci sono an-che tre miliardi di dollari per l’acquisto di cacciabombardieri a reazione. Questa generosità a spese dei contribuenti torna anche a vantaggio dell’industria statuni-tense, che così guadagna due volte dalla militarizzazione del Medio Oriente. Di recente, infatti, ha venduto armamenti all’Arabia Saudita per 60 miliardi di dollari, una transa-zione utile anche per far rientrare petrodollari nell’eco-nomia statunitense in diicoltà.

Il pretesto per la grande vendita di armi all’Arabia Saudita è stato la difesa dalla “minaccia iraniana”. Ma la minaccia iraniana non è di tipo militare: il vero peri-colo, per Washington, è che l’Iran sta cercando di espandere la sua inluenza sui paesi vicini, “stabilizza-ti” dall’invasione e dall’occupazione statunitense dell’Iraq. La linea uiciale è che gli stati arabi stanno chiedendo aiuti militari a Washington per difendersi dall’Iran. Vera o falsa che sia, quest’afermazione ci for-nisce una lettura interessante del concetto di democra-zia. Qualunque cosa preferiscano le dittature al potere nel mondo arabo, da un recente sondaggio della Broo-kings institution è emerso che tra le principali minacce per la regione i cittadini arabi mettono Israele al primo posto (88 per cento), gli Stati Uniti (77 per cento) al se-condo e l’Iran al terzo (10 per cento). È interessante notare che le autorità statunitensi, come rivelano i di-spacci pubblicati da Wikileaks, hanno ignorato l’opi-nione pubblica araba, e si sono limitati ad ascoltare i dittatori.

Tra i regali degli Stati Uniti a Israele c’è anche il so-stegno diplomatico. Washington si impegna a mettere il veto su qualsiasi risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che possa infastidire i leader israeliani e a la-sciar cadere ogni richiesta di un ulteriore blocco degli insediamenti. Quindi, dopo aver accettato la pausa di tre mesi, Israele non sarà più disturbato dai suoi inan-

ziatori quando riprenderà le sue azioni criminali nei Territori occupati. Sul fatto che queste azioni siano cri-minali non c’è mai stato dubbio in dal 1967, quando il giurista Theodor Meron informò il governo israeliano, di cui era consulente, che i suoi piani per avviare inse-diamenti nei Territori occupati violavano la quarta con-venzione di Ginevra. Anche il ministro della difesa Mo-she Dayan sapeva che Meron aveva ragione, come rac-conta lo storico Gershom Gorenberg in The accidental

empire. Ma la cosa non lo turbava più di tanto. Dayan disse agli altri ministri: “Dobbiamo consolidare il nostro con-trollo del territorio così che con il tempo riusciremo a ‘inglobare’ Giudea e Sama-ria (Cisgiordania) e a fonderle con ‘il pic-colo Israele’”, e nel frattempo “smem-brare la continuità territoriale” della Cisgiordania, con il solito pretesto che “è necessario dal punto di vista militare”. L’ipotesi di Dayan, che alla ine si sareb-be rivelata corretta, era che Washington avrebbe solo protestato formalmente,

continuando a dare supporto militare, economico e di-plomatico a Israele.

La questione dell’espansione delle colonie è solo un diversivo. Il vero problema è l’esistenza stessa degli in-sediamenti, tutti progettati in modo che Israele potesse inglobare più del 40 per cento della Cisgiordania occu-pata, le terre coltivabili e le principali risorse idriche della regione, che si trovano tutte sul lato israeliano del muro di separazione, che in realtà è un muro di annes-sione.

Dal 1967 Israele ha enormemente ampliato i conini di Gerusalemme nonostante le obiezioni della comuni-tà internazionale. Ma il problema degli insediamenti, e l’umiliazione di Washington, non sono gli unici aspetti ridicoli dei negoziati in corso. La loro stessa struttura è una farsa. Gli Stati Uniti sono dipinti come onesti me-diatori che cercano di favorire un accordo tra due avver-sari riluttanti. Ma una trattativa seria avrebbe dovuto essere condotta da un’entità neutrale, con gli Stati Uni-ti e Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra. Non è un segreto che da 35 anni Stati Uniti e Israele sono praticamente gli unici a opporsi all’idea di una soluzio-ne politica che metta d’accordo gli stati arabi, l’Orga-nizzazione della conferenza islamica (Iran compreso) e tutte le altre parti interessate. Con rare eccezioni, que-sti due paesi hanno sempre preferito l’espansione ille-gale alla sicurezza. A meno che Washington non cambi posizione, una soluzione politica è impossibile. E l’espansione, con le sue conseguenze in tutta la regione e nel mondo, continua. u bt

Il into negoziatoisraeliano

Noam Chomsky

Il problema degli insediamenti, e l’umiliazione di Washington, non sono gli unici aspetti ridicoli dei negoziati in corso. È grottesco considerare gli Stati Uniti come onesti mediatori

NOAM CHOMSKY

insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla

nostra pelle. Mercato

globale o movimento

globale? (Il Saggiatore 2010).

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Il trattamento fiscale dipende dalla situazione individuale di ciascun cliente e può essere soggetto a modifiche in futuro. In relazione alle ‘US Persons’ possono essere applicabili leggi USA. Tutte le suddette informazioni devono essere necessariamente integrate con quelle messe a disposizione dall’intermediario in base alla normativa di volta in volta applicabile. PRIMA DELLA NEGOZIAZIONE LEGGERE ATTENTAMENTE IL BASE PROSPECTUS relating to Notes approvato da AFM in data 01.07.2010, IN PARTICOLARE PER I FATTORI DI RISCHIO, ED I PERTINENTI FINAL TERMS, nonché le SCHEDE PRODOTTO in particolare per i RENDIMENTI ANNUI GARANTITI. The Royal Bank of Scotland plc è un rappresentante autorizzato di The Royal Bank of Scotland N.V.

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40 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

In copertina

Nel 1968, in Biafra, una generazione di bambini stava morendo di fa-me. Un anno prima la regione, ricca di petro-lio, si era separata dalla

Nigeria. Il governo di Lagos aveva risposto attaccando lo stato secessionista e comin-ciando così una sanguinosa guerra civile. I corrispondenti dei giornali stranieri che si trovavano nella zona assediata si accorsero dei primi segni della carestia in primavera, e all’inizio dell’estate segnalarono che ogni giorno morivano migliaia di bambini. Nel resto del mondo quasi nessuno prestò loro attenzione ino a quando un giornalista del Sun, il tabloid londinese, andò in Biafra con un fotografo per ritrarre quei bambini smunti, piccoli spettri avvizziti. Per giorni e giorni il quotidiano pubblicò le foto a com-mento del suo straziante reportage. Ben presto la notizia fu ripresa dai giornali di tutto il mondo. Altri fotograi e operatori televisivi furono spediti in Biafra. La guerra civile in Nigeria fu la prima guerra africana a essere trasmessa in televisione.

La sida del BiafraLa carestia del Biafra diventò improvvisa-mente una delle storie più emblematiche di quegli anni. La soferenza degli innocenti scosse le coscienze di tutti. E proprio allora nacquero le organizzazioni umanitarie co-me le conosciamo oggi. “Ci sono state riu-nioni, comitati, proteste, manifestazioni, disordini, sit-in, digiuni, veglie, assemblee,

lettere aperte inviate a tutti i personaggi fa-mosi in grado di influenzare l’opinione pubblica, conferenze, ilm, collette”, scris-se Frederick Forsyth, che continuò a inviare i suoi servizi dal Biafra per quasi tutta la du-rata del conlitto. Sull’argomento Forsyth ha pubblicato anche un libro, prima di dedi-carsi alla iction con il suo primo romanzo, Il giorno dello sciacallo. “Medici e infermieri sono arrivati sul posto per alleviare le sofe-renze della popolazione. Alcuni si sono of-ferti di prendere in casa i bambini del Biafra per tutta la durata della guerra, altri di an-dare volontari a combattere per l’indipen-denza del paese”. Forsyth stava descriven-do la reazione dei britannici, ma le stesse cose accadevano in tutta Europa e negli Stati Uniti.

I corpi dei bambini del Biafra, con le membra stecchite, la pancia gonfia e lo sguardo vuoto, erano diventati una presen-za costante nei telegiornali della sera, come i servizi dalla guerra del Vietnam. Gli ame-ricani che manifestavano per chiedere che il governo intervenisse in Biafra erano spes-so gli stessi che protestavano contro la pre-senza statunitense in Vietnam. Il loro mes-saggio era: lasciamo il Vietnam e andiamo in Biafra. In quei giorni il dipartimento di stato ricevette una montagna di lettere di protesta, ino a 25mila al giorno. “Fa’ spari-re quei negretti dal mio televisore”, arrivò a dire il presidente Lyndon Johnson al sotto-segretario di stato.

I sostenitori del Biafra facevano spesso riferimento all’Olocausto. Spinti da quel

Il lato oscuro Philip Gourevitch, The New Yorker, Stati Uniti. Foto di Massimo Berruti

Negli ultimi quarant’anni gli interventi umanitari nelle aree di crisi si sono moltiplicati. Ma l’industria degli aiuti internazionali rischia di alimentare i conlitti senza risolvere i problemi della popolazione civile. L’analisi di Philip Gourevitch, con un commento di David Rief

ricordo, gli occidentali che ofrirono il loro denaro e dedicarono il loro tempo (e, in al-cuni casi, anche la vita) alla causa del picco-lo paese africano temevano che stesse per compiersi un altro genocidio. Anche per questo gli interventi umanitari ebbero di-mensioni senza precedenti.

Nel 1967 il Comitato internazionale

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 41

oscuro degli aiuti

della Croce Rossa, la più antica e più grande organizzazione umanitaria non governati-va del mondo, aveva un bilancio annuo di appena mezzo milione di dollari. Un anno dopo, solo per il Biafra spendeva circa un milione e mezzo di dollari al mese. Anche la crescita esponenziale di altre ong, laiche e religiose (tra cui Oxfam, Caritas e Con-

cern), era legata al loro impegno in Biafra. Alla ine, per difendere la sua neutralità, la Croce Rossa decise di ritirarsi dalla guerra civile nigeriana. A quel punto, però, il suo peso nelle operazioni di soccorso non era più determinante. Il Biafra era accessibile solo per via aerea, e dall’autunno del 1968 era stato aperto un ponte aereo che però

non aveva l’appoggio uiciale di nessuno stato: era interamente organizzato dalle ong. Per sfuggire alla contraerea nigeriana, tutti gli aerei dovevano volare di notte. Nel 1969 in Biafra arrivavano duecentocin-quanta tonnellate di cibo al giorno.

Fu un’impresa eroica e un successo logi-stico straordinario per le nuove organizza-

Le inondazioni a Batkhela, in Pakistan, il 29 luglio 2010

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42 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

In copertina

zioni umanitarie, ansiose di espiare le colpe del colonialismo e le ingiustizie dell’ordine mondiale stabilito con la guerra fredda. E infatti l’interventismo umanitario che pre-se corpo in Biafra – e il suo braccio legale, la lobby dei diritti umani – è probabilmente l’eredità più duratura dei fermenti del 1968. Questa ideologia non ideologica permette-va agli occidentali, un quarto di secolo do-po Auschwitz, di non rimanere passivi di fronte alle tragedie del mondo e, al tempo stesso, dava loro l’opportunità di non iden-tiicarsi con il potere, di essere sempre dalla parte delle vittime, solidali e con le mani pulite. Le idee e i princìpi di fondo non era-no nuovi, ma in Biafra presero forma e da lì si difusero con una forza che riletteva il desiderio crescente dell’occidente di com-portarsi in modo onorevole sul campo di battaglia senza dover uccidere.

Il prezzo della paceTrent’anni più tardi, in Sierra Leone, una giornalista olandese di nome Linda Polman saliva su un taxi collettivo diretto a Makeni, il quartier generale dei ribelli del Fronte ri-voluzionario unito (Ruf ). Da dieci anni il Ruf era impegnato in una guerriglia violen-tissima e al servizio di una politica incoe-

Polman. Parlando nel dialetto locale, una volta Vandamme aveva detto alla giornali-sta olandese: “Quelle mogli delle ong sono venute a contare quanti malati e quanti bambini ci sono nella zona”. Il censimento era considerato dal colonnello un’ottima opportunità su cui lucrare: “Sono i miei bambini e i miei malati. Chiunque voglia contarli deve prima pagare me”.

Polman era andata a Makeni proprio per sentirsi dire frasi come questa. Tutti pensavano che la guerra civile in Sierra Leo ne fosse stata una vera follia: decine di migliaia di morti, mutilati e feriti, e metà della popolazione sfollata, il tutto per nien-te. Ma la giornalista aveva sentito dire che la furia del Ruf era stata il frutto di “una strategia razionale e calcolata”. La violenza brutale era servita a “far salire il prezzo del-la pace”. “Abbiamo lavorato più di chiun-que altro per la pace, ma non abbiamo otte-nuto quasi nulla in cambio”, aveva detto a Polman un leader ribelle incontrato a Ma-keni. Rivolgendosi alla giornalista come a una rappresentante della comunità inter-nazionale, l’uomo aveva poi aggiunto: “Avete guardato da un’altra parte per tanti anni. Non c’era motivo di fermarsi. Erava-mo nel caos, e voi non ci avete aiutato in nessun modo”.

Alla ine il Ruf aveva intensiicato la vio-lenza e la brutalità, spingendo le forze go-vernative a fare lo stesso, e aveva assoldato bande incaricate di mutilare e seviziare la popolazione civile. “Solo quando avete co-minciato a vedere il risultato di queste vio-lenze vi siete decisi a prestare attenzione a quello che stava succedendo qui. Senza quelle mutilazioni non sarebbe venuto nes-suno”. La missione delle Nazioni Unite in Sierra Leone è stata l’operazione di soccor-so umanitario più costosa di quegli anni. Il vecchio ribelle incontrato da Linda Polman a Makeni era convinto che, invece di essere condannati per le violenze e le mutilazioni, lui e i suoi compagni avrebbero dovuto es-sere elogiati per aver salvato il paese.

È davvero così? Esistono veramente dei maniaci sotto l’efetto di droghe che se ne vanno in giro a mutilare la gente per rende-re più appetibile il loro paese agli occhi dei donatori internazionali? È vero che l’indu-stria degli aiuti umanitari contribuisce a creare proprio quelle condizioni di miseria che invece dovrebbe combattere? Nel suo ultimo libro, The crisis caravan. What’s wrong with humanitarian aid? (La carovana della crisi. Che c’è di sbagliato negli aiuti umanitari?), Linda Polman sostiene che la risposta è sì. Tre anni dopo la visita della giornalista a Makeni, la Commissione per

rente e ine a se stessa. Mentre i leader rivo-luzionari, sostenuti dal presidente liberiano Charles Taylor, si erano arricchiti con il commercio dei diamanti, il loro esercito, composto in gran parte di bambini rapiti e drogati, saccheggiava il paese, stuprando e seviziando i cittadini e incendiando case e villaggi. Nel maggio 2001, tuttavia, era sta-ta irmata una tregua, e quando Linda Pol-man arrivò in Sierra Leone i caschi blu delle Nazioni Unite stavano ormai disarmando e smobilitando le truppe del Ruf. Il business della guerra stava per cedere il posto a quel-lo della pace. A Makeni Linda Polman sco-prì che gli ex signori della guerra, personag-gi che avevano soprannomi come generale Tagliagola e sergente Stupro, avevano co-minciato a chiamare i loro territori “zone umanitarie” e a deinirsi “funzionari uma-nitari”. Come disse un ribelle diventato improvvisamente paciista, che si faceva chiamare colonnello Vandamme, “gli uo-mini bianchi presto avranno bisogno di au-tisti, di guardaspalle e di case. E noi glieli forniremo”.

Il colonnello Vandamme chiamava gli operatori umanitari “mogli”, perché “cura-vano le persone ma erano anche considera-ti soggetti manipolabili e sfruttabili”, spiega

Da sapere

Austria

Belgio

Danimarca

Finlandia

Francia

Germania

Grecia

Irlanda

Italia

Lussemburgo

Paesi Bassi

Portogallo

Spagna

Svezia

Gran Bretagna

Totale paesi europei

membri del Dac*

Australia

Canada

Giappone

Nuova Zelanda

Norvegia

Svizzera

Stati Uniti

Totale paesi del Dac

678

1.463

2.037

680

8.473

7.534

321

607

2.462

236

4.204

1.031

2.437

2.722

7.905

42.789

1.460

2.599

8.922

212

2.199

1.545

19.705

79.432

1.673

2.807

2.185

1.475

14.110

15.509

1.196

1.121

9.262

328

5.070

933

6.925

4.025

14.600

81.221

2.460

3.648

11.906

289

2.876

1.728

24.000

128.128

1.178

2.706

2.299

1.112

10.130

11.691

525

824

3.426

304

5.323

608

5.652

3.915

14.185

63.877

2.460

3.542

8.501

324

2.849

1.881

24.705

108.139

0,23

0,41

0,85

0,37

0,41

0,28

0,16

0,39

0,15

0,79

0,73

0,63

0,24

0,78

0,36

0,35

0,25

0,27

0,19

0,23

0,87

0,40

0,17

0,26

0,51

0,70

0,80

0,70

0,61

0,51

0,51

0,60

0,51

1,00

0,80

0,51

0,59

1,00

0,59

0,59

0,36

0,33

0,22

0,28

1,00

0,41

0,18

0,36

0,37

0,70

0,83

0,56

0,46

0,40

0,21

0,52

0,20

1,00

0,80

0,34

0,51

1,01

0,60

0,48

0,35

0,33

0,18

0,32

1,00

0,47

0,19

0,32

*Comitato di aiuto allo sviluppo, Ocse. Fonte: Ocse

Aiuti allo sviluppo, milioni di dollari Aiuti allo sviluppo, % sul pil

2010 (stime 2005)

2010 (stime 2005)

2010 (stime oggi)

2010 (stime oggi)

2004 2004

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 43

la verità e la riconciliazione in Sierra Leone (Trc, assistita dall’Onu) ha pubblicato un rapporto in cui è descritto un incontro, av-venuto alla ine degli anni novanta, tra i ri-belli e i soldati governativi. Il tema centrale era la comune necessità di attirare l’atten-zione della comunità internazionale. Era evidente a tutti che le mutilazioni avevano ottenuto un’attenzione da parte dei giorna-

mento logico”. Linda Polman sceglie una posizione più provocatoria. Seminare orro-re per raccogliere aiuti e raccogliere aiuti per seminare orrore, sostiene, è “la logica dell’epoca dell’interventismo umanitario”. Pensate a come le organizzazioni umanita-rie cristiane che hanno creato programmi di “riscatto” per ricomprare la libertà degli schiavi in Sudan abbiano allo stesso tempo incentivato gli schiavisti a prendere sempre più prigionieri. Pensate a come, in Etiopia e in Somalia, nel corso degli anni ottanta e novanta, le carestie provocate per motivi politici abbiano attirato gli aiuti alimentari che hanno consentito ai governi di sfamare i loro eserciti mentre continuavano a mas-sacrare la popolazione. Pensate a come, nei primi anni ottanta, grazie agli aiuti interna-zionali, i khmer rossi si siano potuti nascon-dere nelle campagne al conine tra Thailan-dia e Cambogia e imporre al paese altri dieci anni di guerra e terrore. O pensate a quando, alla metà degli anni novanta, i re-sponsabili del genocidio in fuga dal Ruanda sono stati soccorsi dalle organizzazioni umanitarie e così hanno potuto continuare le loro campagne di sterminio e di stupro ino a oggi.

E poi c’è quello che è successo in Sierra Leone dopo che le amputazioni hanno por-

listi maggiore di qualsiasi altro aspetto del-la guerra. “Quando abbiamo cominciato a tagliare le mani, non c’era giorno che la Bbc non parlasse di noi”, ha detto un ribelle alla Trc. Gli autori del rapporto hanno osserva-to che “afrontare i problemi in questo mo-do è folle”, ma allo stesso tempo hanno ammesso che, date le circostanze, “l’atteg-giamento dei ribelli era iglio di un ragiona-

Un campo per gli sfollati a Thatta, 5 settembre 2010

Rifugiati nella valle dello Swat, 15 agosto 2010

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44 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

In copertina

tato la pace, che ha portato nel paese le Na-zioni Unite, che a loro volta hanno fatto ar-rivare i soldi, che poi hanno attirato le ong. Tutti, racconta Polman, volevano la loro parte degli aiuti stanziati per le persone mutilate durante il conflitto. A un certo punto uomini e donne senza braccia e sen-za gambe andavano in giro con i moncheri-ni in bella vista per soddisfare le esigenze dei fotograi e delle ong. Le loro immagini sarebbero servite a portare più denaro e più aiuti. Nell’osceno circo della carità raccon-tato da Polman, arrivarono medici ameri-cani in vacanza che eseguirono operazioni pericolose (e a volte con conseguenze mor-tali) senza l’adeguata assistenza postopera-toria, mentre altri statunitensi convinsero le donne mutilate a dare in adozione i igli, anch’essi mutilati, usando metodi tra la corruzione e il rapimento. Al governo della Sierra Leone bastava allungare una mano per raccogliere un po’ del denaro degli aiuti internazionali che pioveva sul paese.

Polman avrebbe anche potuto trovare aneddoti più ediicanti e citare qualche suc-cesso delle ong: vite salvate, epidemie scongiurate, famiglie riunite. Ma dal suo punto di vista le buone intenzioni degli ope-ratori umanitari troppo spesso fanno passa-re in secondo piano i danni causati dagli

interventi internazionali. La Sierra Leone non è stata l’unica vittima di questo siste-ma. Situazioni simili, scrive Polman, si ve-riicano dovunque siano presenti le orga-nizzazioni umanitarie. Caso dopo caso, non è diicile dimostrare che, nel comples-so, gli aiuti umanitari fanno più male che bene.

“Ma allora dovremmo stare a guardare senza fare nulla?”, si chiede Max Chevalier, un olandese che a Freetown curava i muti-lati per la ong Handicap International. Che-valier ha provato a dimostrare l’utilità dell’impegno delle ong trascurando il quadro storico e politico e concentrandosi, come fanno gli appelli per le raccolte di fondi, sulle soferenze di un’uni-ca persona, in questo caso una ragazzina che i ribelli avevano costretto a mangiare la mano che le avevano amputato. “Dovrem-mo forse abbandonare quella ragazza?”. A volte, risponde Polman, la coscienza ci do-vrebbe imporre di prendere in considera-zione anche una possibilità simile.

Il sogno di Henri DunantIl padrino dell’umanitarismo moderno è stato un uomo d’afari svizzero che si chia-mava Henri Dunant. Il 24 giugno 1859 assi-

stette alla battaglia di Solferino, in cui il Regno di Sardegna, alleato con la Francia, combatteva contro l’esercito austroungari-co. Quello che lo colpì di più fu la scena che vide dopo lo scontro: il campo di battaglia brulicava di soldati feriti, abbandonati an-cora agonizzanti dai loro eserciti. Dunant organizzò un gruppo di civili che recupera-rono, sfamarono e medicarono i sopravvis-suti. Ma la buona volontà dei volontari non poteva compensare la loro impreparazione. Rientrato in Svizzera, Dunant riletté sulla

necessità di istituire un servizio professionale permanente che si occupasse dell’assistenza umani-taria. Poco dopo fondò la Croce Rossa, basata su tre princìpi es-senziali: imparzialità, neutralità

e indipendenza. Nelle sue lettere per racco-gliere i fondi necessari, Dunant descrisse il suo progetto come cristiano e come un buon afare per i paesi che dovevano entra-re in guerra: “Riducendo il numero degli storpi, ci sarà un risparmio per i governi che devono provvedere alle pensioni dei solda-ti feriti”.

Come ricorda Linda Polman, l’umani-tarismo ha avuto anche una madrina: Flo-rence Nightingale, che fu contraria da subi-to alla nascita della Croce Rossa. Nightin-

Una bambina ferita durante la distribuzione di cibo a Muzafargarh, 28 agosto 2010

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gale aveva prestato servizio come infermienra durante la guerra di Crimea negli ospendali militari inglesi, dove le condizioni eranno terribili. Per questo non approvò l’iniziantiva di Dunant. Secondo Nightingale, sollenvare i governi dalle loro responsabilità post belliche voleva dire rendere la guerra più economica e quindi più probabile.

Dunant, però, ebbe la meglio. I princìpi che sosteneva furono sanciti dalla Convennzione di Ginevra, gli valsero il primo Nobel per la pace e da allora sono rimasti invariati. Ma non sono riusciti a rendere la guerra meno crudele. Nel novecento gli interventi umanitari si sono moltiplicati, proprio conme le soferenze alle quali avrebbero dovunto porre rimedio. A Solferino quasi tutte le vittime erano militari. Oggi, invece, seconndo i dati dell’Onu le vittime dei conlitti sonno al 90 per cento civili. Dopo quindici anni trascorsi come corrispondente nelle zone di guerra, dove sono impegnati gli operatonri umanitari, Linda Polman sostiene che aveva ragione Florence Nightingale.

Le scene di soferenza che chiamiamo crisi umanitarie sono quasi sempre consenguenza di circostanze politiche, e non esiste un modo non politico per risolverle. Non è possibile intervenire senza produrre consenguenze di ordine politico. Nel migliore dei casi il ruolo degli operatori umanitari uincialmente neutrali e apolitici è – come avenva previsto Nightingale – semplicemente quello degli addetti all’approvvigionamento. Le organizzazioni umanitarie sollevano le parti in conlitto da molti degli oneri (amnministrativi e finanziari) che una guerra comporta: riducono la necessità di governnare mentre si combatte, tagliano i costi delle cure ai feriti, ofrono il cibo, le medicinne e il supporto logistico che permettono agli eserciti di continuare a combattere.

Nel peggiore dei casi – come ha dimonstrato durante la seconda guerra mondiale l’intervento della Croce Rossa nei campi di sterminio nazisti – si contribuisce a mantennere segrete le atrocità di cui gli operatori vengono a conoscenza. E di fronte a comnportamenti disumani il conine tra imparnzialità e complicità è molto labile.

Cinici e moralistiThe crisis caravan è il più recente di una senrie di libri che negli ultimi quindici anni hanno analizzato l’industria degli aiuti umanitari. Polman prende spunto dalle crintiche avanzate da Alex de Waal, Michael Maren, Fiona Terry e David Rieff. Tutti questi autori sono veterani dell’azione umanitaria o, nel caso di Rief, sono da temnpo compagni di viaggio dei volontari. Poln

man non ha alle spalle un bagaglio di espenrienze simile. Non può essere deinita disilnlusa. In un libro precedente, Onu. Debolezze e contraddizioni di una istituzione indispen-sabile per la pace, ha criticato l’ineicacia delle missioni di pace delle Nazioni Unite. Il suo metodo non è quello del giornalismo investigativo. Lo stile è brusco, duro, con un gusto particolare per l’umorismo macanbro. Polman accumula aneddoti alternanndoli a commenti polemici. Le sue parole sono un J’accuse.

Polman non risparmia nessuno. Denunncia la miscela di cinismo e moralismo con la quale gli operatori umanitari si isolano da tutto quello che li circonda e la decadenza di un umanitarismo costretto a pagare tanngenti ai combattenti – il 15 per cento del van

lore degli aiuti nella Liberia di Charles Taynlor, addirittura l’80 per cento in alcuni ternritori della Somalia – o complice nel fornire le infrastrutture logistiche per la pulizia etnnica, com’è successo in Bosnia. Non risparnmia neanche i suoi colleghi dei mezzi d’innformazione, usati dalle organizzazioni umanitarie per ampliicare le crisi e aumenntare la raccolta dei fondi, e colpevoli di racncontare la soferenza senza inserirla in un contesto politico o storico. I giornalisti dinpendono troppo spesso dagli operatori umanitari per il trasporto, l’alloggio, il cibo e le informazioni. E secondo Polman svinluppano una visione distorta della realtà, convincendosi che l’unica speranza per le persone coinvolte nei conlitti, in grado sonlo di subire o inliggere soferenza, sia l’inntervento dei ilantropi bianchi. “Di fronte alle grandi tragedie, i giornalisti che di solin

to amano presentarsi come osservatori obiettivi diventano improvvisamente dinscepoli degli operatori umanitari. Accettanno acriticamente le loro affermazioni di neutralità, sacriicando così la curiosità e lo scetticismo doverosi per ogni reporter”.

Maren e De Waal denunciano in modo più approfondito l’ignobile meccanismo economico che gli aiuti alimentano e conntribuiscono a creare: per esempio la comnpetizione per ottenere gli appalti, anche per progetti inutili, e il modo in cui gli aiuti stranvolgono i mercati locali e raforzano i signonri della guerra. Soprattutto, però, secondo De Waal gli aiuti indeboliscono i governi che ne beneiciano, esonerandoli dal dover rendere conto del loro operato e minando la loro legittimità. La posizione di Linda Polman è più populista. La sua tesi è a tratti frettolosa, a tratti supericiale. Ma non per questo è meno graiante. La cosa più critincabile nel sistema degli aiuti umanitari è la totale assenza della necessità di rendere conto del proprio operato. Passando da un disastro all’altro con le loro Land Cruiser bianche, gli operatori umanitari sono connvinti di agire nel migliore dei modi e non accettano critiche, come se l’umanitarismo si giustiichi da solo.

Conseguenze imprevisteDai tempi del Biafra l’umanitarismo è dinventato l’idea, e anche la pratica, che guida le reazioni dell’occidente alle guerre e alle catastroi naturali nel resto del mondo. Ulntimamente si è trasformato anche nella giustiicazione principale che gli occidenntali usano per fare la guerra. Molti dei leander di quella che De Waal chiama “humannitarian international” hanno cominciato la loro carriera proprio in Biafra. E il ponte aereo con la regione assediata dall’esercito nigeriano è diventato il mito fondante dell’intera industria dell’umanitarismo: “È stato uno sforzo insuperabile in termini di logistica e di coraggio isico”, scrive De Wan

Da sapere

Nessuna ong è mai stata trascinata in tribunale per i suoi errori o fallimenti

La crescita delle ong europee, 1945-1993

Numero totale di ongNumero di ong create nel quinquennio2.500

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al. Quell’intervento oggi viene ricordato come una cause célèbre. Ma il giudizio mora-le sull’operazione è tutt’altro che unanime.

Quando nel 1970 i secessionisti furono sconitti e il Biafra fu costretto a ricongiun-gersi con la Nigeria, il genocidio che era stato previsto non si veriicò. Se non fosse stato per la carità dell’occidente, la guerra civile sarebbe inita molto prima. Il rove-scio della medaglia delle vite salvate dal ponte aereo è rappresentato dalle decine, o forse centinaia, di migliaia di morti causati dal prolungarsi della guerra. I protagonisti della nascente industria umanitaria, però, non si fermarono a rilettere su questo det-taglio. C’erano già nuove crisi di cui occu-parsi, la più urgente in Bangladesh, e poi chi poteva prevedere che salvare delle vite ne sarebbe costate molte di più? Così la caro-vana degli aiuti ripartì, circondata da un trionfalismo autocompiaciuto che negli an-ni non si è modiicato. Eppure, osserva Da-vid Rief, “nel bene o nel male, alla ine de-gli anni ottanta l’umanitarismo è l’ultimo ideale coerente”.

Com’è possibile, a questo punto, che gli operatori umanitari non vogliano assumer-si nessuna responsabilità per le conseguen-ze negative delle loro azioni? “L’umanitari-smo è nato come risposta etica alle emer-genze globali, non solo perché nel mondo succedono cose terribili, ma anche perché molte persone non hanno più iducia nello sviluppo economico e nella politica come strumenti per migliorare la condizione umana”, osserva il sociologo Craig Cal-houn nel saggio contenuto nel volume Con-temporary states of emergency, curato da Di-dier Fassin e Mariella Pandoli. “L’umani-tarismo attira le persone che cercano uno strumento semplice e moralmente inecce-pibile per rispondere alla sofferenza del mondo”. Per dirla con le parole di David Kennedy, professore di diritto ad Harvard e autore di The dark sides of virtue (Il lato oscuro della virtù), “l’umanitarismo ci fa diventare arroganti, ci fa idealizzare le no-stre intenzioni e i nostri comportamenti”.

Troppo doloreNel maggio del 1996, nella cittadina di Kitchanga, nella provincia del Nord Kivu (nella Repubblica Democratica del Congo, Rdc, che ino al 1997 si è chiamata Zaire), trascorsi la notte in un’aula scolastica che era stata adibita a sala operatoria dai chi-rurghi dalla sezione olandese di Medici senza frontiere (Msf ). Pochi giorni prima una banda proveniente dai campi profughi allestiti dalle Nazioni Unite per gli hutu ruandesi, e controllati dagli stessi respon-

sabili del genocidio, aveva massacrato un gruppo di tutsi congolesi in un monastero vicino. I medici dell’équipe di Msf stavano operando alcuni dei sopravvissuti. Un uo-mo con una ferita da arma da fuoco si torce-va sotto le pinze di un medico bielorusso, gridando in swahili: “Troppo dolore”.

Tutti sapevano che gli hutu, gli autori del genocidio, minacciavano gli operatori umanitari e riscuotevano una sorta di tassa sulle razioni alimentari distribuite. Tutti sapevano che quegli assassini si stavano infiltrando nel territorio circostante per massacrare e cacciare la popolazione tutsi. Nella letteratura sugli aiuti uma-nitari, i campi di conine istituiti dalle Nazioni Unite dopo il geno-cidio ruandese, e in particolare quelli di Goma, figurano come esempi di un interventismo uma-nitario corrotto e disumano. Era evidente a tutti che, a causa della terribile situazione, nei campi prima o poi sarebbe scoppiata un’altra guerra. Gli operatori umanitari erano spaventati, demoralizzati e non ave-vano iducia nel loro lavoro. Nei primi mesi della nuova crisi, nel 1994, diverse organiz-zazioni umanitarie si ritirarono dai campi perché non volevano essere complici del genocidio. Ma altre organizzazioni si preci-pitarono a rilevare i loro contratti. Chi era rimasto descriveva la missione come una sorta di impegno sacro e indiscutibile. Non potevano abbandonare la gente dei campi, dicevano. Ma fu esattamente quello che fecero quando arrivò la guerra: fuggirono appena l’esercito ruandese fece irruzione nei campi per costringere i profughi a tor-nare in Ruanda e inseguì i pochi rimasti, combattenti e no, mentre fuggivano verso

occidente. Decine di migliaia di persone furono uccise, ci furono massacri e violen-ze: la carneicina fu l’ultimo prezzo pagato per l’istituzione dei campi, un prezzo che i congolesi, il cui territorio era occupato dai ruandesi e depredato dai soldati hutu, stan-no pagando ancora oggi.

Anche Sadako Ogata, che in quegli anni dirigeva l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), ed era responsabile dei campi della Rdc, ha scritto un libro a sua discolpa, The turbulent decade (Il decennio turbolento), in cui ripete continuamente il seguente assioma: “Non esistono soluzioni

umanitarie ai problemi umanita-ri”. Ogata intende dire che ogni soluzione dev’essere politica, ma anche che gli operatori umanitari non possono essere ritenuti re-sponsabili delle conseguenze

delle loro azioni. Uno degli alti funzionari dell’Unhcr l’ha detto più esplicitamente quando ha riassunto l’esperienza umanita-ria nei campi controllati dagli hutu usando una formula presa in prestito dall’ex presi-dente statunitense Richard Nixon: “Certo, sono stati commessi degli errori, ma noi non ne siamo responsabili”.

Viene da chiedersi come mai l’autodife-sa degli organizzatori dei campi profughi delle Nazioni Unite sia sfuggita a Linda Pol-man: è il genere di sciocchezze che ama raccontare. A ben vedere, però, la giornali-sta di questo tema si è occupata. “Per quan-to ne so”, fa notare, “nessun operatore e nessuna organizzazione umanitaria sono mai stati trascinati davanti a un tribunale per i loro errori o fallimenti, per non parlare della loro complicità nei crimini commessi da eserciti ribelli o forze governative”.

Mehmood Kot, 29 agosto 2010. Una donna che ha perso la casa nelle alluvioni

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Confesso di essere rimasto leggermente sorpreso, e profondamente indignato, dall’atto d’accusa indiscri-

minato, riduttivo e fondamentalmente sbagliato che il mio amico Philip Gou-revitch ha mosso contro gli interventi umanitari. Proprio lui, che ha trascorso tanto tempo sul terreno accanto alle ong, avrebbe dovuto sapere che le cose non stanno così. Anzi, sospetto che lo sappia benissimo. Eppure ha dipinto un quadro del tutto negativo dell’interna-zionale umanitaria.

A proposito di un ospedale di Medi-ci senza frontiere visitato nel 1996 nel-la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ex Zaire, Gourevitch scrive di aver visto i medici operare alcuni tutsi congolesi scampati a un attacco degli hutu ruandesi. Allora i tutsi vivevano in un vicino campo profughi, gestito dall’Onu con la collaborazione delle più importanti organizzazioni umani-tarie. I medici erano riusciti a salvare la vita a un adolescente, con il collo ferito e coperto solo con una foglia di bana-no. Gourevitch riconosce la nobiltà del loro operato, che però – sostiene – im-pallidisce al confronto di un’ignominia ben più grave: la collaborazione con i responsabili del genocidio, i quali “mi-nacciavano gli operatori e riscuotevano una sorta di tassa sulle razioni alimen-tari distribuite”. Nessuno mette in dub-

bio che gli aiuti siano stati dirottati, co-me avviene in tutti gli interventi di soc-corso umanitario. Ma è proprio qui che Gourevitch, seconde me, commette un errore grave. Devo proprio dirlo: trovo molto discutibile la sua ricostruzione di quanto è successo nell’Rdc dopo il ge-nocidio ruandese. È già abbastanza scorretto che Gourevitch dica a mala-pena che furono segnalati massacri, ri-ferendosi a quelli commessi dall’eser-cito ruandese contro chi fuggì a ovest invece di tornare casa. Non è così: i massacri ci sono stati, e sono stati di proporzioni enormi.

Ma non basta: Gourevitch arriva a fare una vera e propria apologia ilo-ruandese quando sostiene che le di-sgrazie che hanno colpito l’Rdc tra il 1994 e il 2000 sono state la conseguen-za di quello che deinisce “umanitari-smo corrotto”. Paul Kagame e il gover-no ruandese avevano il diritto di com-battere la minaccia rappresentata dai responsabili del genocidio ospitati nei campi lungo il conine. Ma non è certo per questo che i ruandesi e i loro com-plici ugandesi hanno occupato vaste zone dell’Rdc: l’hanno fatto per lucrare sui minerali e sui metalli preziosi di cui quelle regioni sono ricche. Anche se si vuol concedere al governo di Kagame un beneicio del dubbio che non meri-ta, dopo la chiusura dei campi i respon-sabili del genocidio non erano più una minaccia per il Ruanda, e non rappre-sentavano più un motivo plausibile per giustiicare l’occupazione ruandese delle zone di conine dell’Rdc.

Ma ammettiamo pure che sul Ruan-da abbia ragione Gourevitch. L’espe-rienza ruandese giustiica forse la con-danna generalizzata di tutte le organiz-zazioni umanitarie? Questa tesi ha un grave punto debole: Gourevitch usa un caso speciico, e tutt’altro che rappre-sentativo, per arrivare a un giudizio complessivo sugli errori dell’umanita-rismo. In in dei conti, molte delle prin-

Al mercato

della solidarietà

Il confronto

Anche le ong fanno degli errori. Ma attaccare in modo indiscriminato ogni intervento umanitarioè scorretto

La critica

David Riefper Internazionale

Nessuno vigila sulle organizzazioni umanitarie e sui loro operatori, e quindi nessuno giudica le conseguenze delle loro azioni. Quando una missione si conclude in modo catastroico, sono gli stessi operatori a scriverne le valutazioni. E se viene aperta un’indagine sui crimini seguiti al loro inter-vento, le organizzazioni umanitarie sono tenute fuori dalla vicenda. Le critiche di Linda Polman sono particolarmente attua-li, considerato che di recente un nuovo rap-porto dell’Onu sulle atrocità commesse nell’ex Zaire tra il 1993 e il 2003 ha sollevato ancora la questione delle responsabilità per il tragico epilogo dell’istituzione dei campi. Questa storia non potrà essere raccontata in modo imparziale ino a quando le orga-nizzazioni umanitarie continueranno a go-dere di una totale impunità.

Durante la notte passata nella scuola di Kitchanga, i medici mi parlarono di un ado-lescente che era stato trovato nudo con una foglia di banano incollata sulla nuca. Dopo averla rimossa, i dottori scoprirono che il ragazzo aveva un taglio sul collo che arriva-va ino all’osso. La sua testa era piegata da un lato. La mattina dopo lo vidi. Cammina-va lentamente nel cortile della scuola. I me-dici lo avevano ricucito. E quella notte non era l’unico che avevano salvato.

Operazioni del genere rappresentano l’ideale umanitario messo in pratica, puro e senza ambiguità. Questi “piccoli miracoli” si verificano ovunque ci siano operatori umanitari, anche nei luoghi dove i loro in-terventi hanno conseguenze disastrose. Cosa c’è di più nobile che restituire la vita a un essere umano? La vista di quel ragazzo mi commosse così come mi avevano fatto indignare gli abusi dell’industria umanita-ria internazionale. Quello stesso giorno i medici con i quali viaggiavo mi dissero che, per garantire la propria sicurezza, doveva-no dimostrare di essere neutrali curando sia i colpevoli del genocidio sia le loro vitti-me. Allora mi venne spontanea una do-manda: se questi medici non fossero stati qui, quel ragazzo avrebbe avuto bisogno di loro? u bt

L’AUTORE

Philip Gourevitch è un giornalista americano. Il suo ultimo libro, scritto con Errol Morris, è La ballata di Abu Ghraib (Einaudi 2009). In quest’articolo recensisce The crisis caravan (2009), l’ultimo libro della giornalista olandese Linda Polman. Sullo stesso tema Polman ha pubblicato L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra (Bruno Mondadori 2009).

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cipali organizzazioni umanitarie inter-nazionali si sono ritirate da quei campi profughi proprio per i motivi esposti da Gourevitch. Un’ong deve sempre poter esercitare quello che l’ex presidente di Medici senza frontiere (Msf ) Rony Brauman ha chiamato il “diritto all’astensione”. A leggere Gourevitch, invece, si ha l’impressione che il Ruan-da post-genocidio sia il paradigma di tutte le operazioni umanitarie. Da qui discenderebbe che ogni intervento è un compromesso con il male. Certo, negli interventi umanitari ci sono delle zone d’ombra. Quando gente disarmata opera in aree controllate da combat-tenti armati ino ai denti bisogna trova-re un modo per convivere. In termini pratici questo signiica permettere ai combattenti di usare parte delle risorse fatte aluire dalle ong. Gourevitch, pe-rò, si riiuta di chiedersi se le alternati-ve – aidarsi a un intervento militare esterno o rimanere a guardare – siano davvero preferibili.

Naturalmente ci sono momenti in cui le organizzazioni umanitarie devo-no farsi da parte. Se non lo fanno devo-no essere criticate, cosa che succede puntualmente. Non capisco perché Gourevitch, nel 2010, insista nel soste-nere che i mezzi d’informazione parla-no delle ong in modo acritico, quasi adulatorio. Questo non è più vero, al-meno dall’intervento del 1999 in Koso-vo! E ancora: va benissimo parlare di “humanitarian international” ripren-dendo l’espressione di Alex de Waal. Anche a me piace usarla: basta sapere che rischia di essere fuorviante. Dall’articolo di Gourevitch, per esem-pio, non si capisce che diferenza ci sia tra il modo in cui funzionano due orga-nizzazioni come Oxfam e Msf. Né si ca-pisce quanto sia acceso il dibattito in-terno nelle più importanti ong.

Il meglio che si possa dire a soste-gno della sua tesi è che Gourevitch ha tentato di stilare un atto d’accusa gene-ralizzato che poggia su un unico e spe-ciico insieme di circostanze storiche, e l’ha puntellato con citazioni del libro di Linda Polman, che non merita assolu-tamente di essere preso sul serio. Un’operazione che non funziona. u ma

David Rief è un giornalista statuniten-se. Ha scritto Un giaciglio per la notte. Il paradosso umanitario (Carocci 2003).

Rief aferma che la mia analisi dell’umanitarismo poggia in-teramente su un unico esem-pio: i campi dei profughi ruan-

desi nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), l’ex Zaire, tra il 1994 e il 1996. In realtà ho fatto riferimento a quei campi solo nei paragrai conclusivi del mio articolo, dopo una lunga disamina di alcune tesi della letteratura più critica nei confronti del sistema degli aiuti umanita-ri (in cui ho citato anche lo stesso Rief ), e dopo un’approfondita analisi di numerosi altri casi storici: dal dibattito tra Henri Dunant e Florence Nightingale alle crisi in Biafra e in Sierra Leone, dalle carestie africane ino ai campi dove si rifugiavano i khmer rossi lungo il conine tra la Thai-landia e la Cambogia.

Sempre secondo Rief, il mio articolo darebbe una rappresentazione distorta della storia dei campi congolesi e delle guerre che hanno devastato il paese negli anni novanta. Ancora una volta, Rief ignora tutto quello che ho scritto e prende in considerazione solo un frammento per sostenere che sono restio a parlare dei massacri degli hutu in Rdc. In realtà ho afermato esplicitamente (e dal 1997 l’ho fatto più volte) che quelle stragi hanno causato decine di migliaia di vittime. Non ho mai avuto paura di parlare di massacri.

Rief, invece, nel suo libro Un giaciglio per la notte scrive che furono stermina-te centinaia di migliaia di persone, ma non può fornire nessuna prova delle cifre che cita, perché prove non ce ne sono.

Rief sostiene che è oltraggioso af-fermare che tutte le soferenze patite dalla Repubblica Democratica del Congo dal 1994 sono state colpa uni-camente dell’umanitarismo corrotto che gestiva i campi. Ha ragione, sareb-be una tesi stravagante: ed è per que-sto che non l’ho mai sostenuta. So-stengo, invece, che l’umanitarismo è colpevole di aver aggravato una situa-zione già molto diicile, e che ignorare queste responsabilità vuol dire conce-dere alle organizzazioni umanitarie una sorta di impunità. Naturalmente, sostengo anche che tra le cause princi-pali delle soferenze dei congolesi c’è l’occupazione militare ruandese delle regioni orientali dell’Rdc. Di questo argomento ho scritto approfondita-mente in altra sede. Anche in questo caso, però, Rief fraintende le mie pa-role quando scrive che dopo la chiusu-ra dei campi, nel 1996, i responsabili del genocidio dei tutsi “non erano più una minaccia per il Ruanda”. La realtà è che dal 1997 le forze hutu, colpevoli del genocidio, hanno condotto, a par-tire dalla Repubblica Democratica del Congo, una guerra d’iniltrazione che ha destabilizzato gran parte del Ruan-da. Questa insurrezione, e la controin-surrezione che l’ha sofocata, hanno fatto altre decine di migliaia di vitti-me.

Con tutti questi errori e travisa-menti Rief costruisce una caricatura del mio articolo per poi criticarlo. È un peccato: in passato anche Rief aveva analizzato i rischi morali che io giudi-co insiti negli interventi umanitari. Adesso, però, sembra caduto proprio in quella che lui stesso, in Un giaciglio per la notte, deinisce “la prima e più grande trappola umanitaria”, cioè “la necessità di sempliicare, se non addi-rittura di mentire, riguardo alla reale situazione delle zone di crisi, in modo da rendere la notizia più accettabile sia moralmente sia psicologicamente; in poche parole, la necessità di edulco-rare l’orrore del mondo, compreso l’orrore del prezzo che si paga per compiere una buona azione”. u ma

Le organizzazioni ilantropiche hanno una colpa gravissima: non dicono la verità sulle reali condizioni nelle aree di crisi

La replica

Philip Gourevitchper Internazionale

Ci sono momenti in cui le associazioni umanitarie internazionali devono farsi da parte. Se non lo fanno devono essere criticate

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Bolivia

Le unghie ingiallite dalle fo-glie di coca e di tabacco sci-volano su ogni parola pro-nunciata in uno spagnolo approssimativo: “I grandi proprietari terrieri ci hanno

sempre considerato come animali”. Corne-lio Jarillo, 55 anni, decifra ad alta voce, len-tamente, il racconto che lui stesso ha scritto su un foglio di carta a quadretti pieno di let-

tere incerte, alcune macchiate, altre can-cellate. “Il popolo guaranì ha soferto per anni sotto la dominazione dei potenti pro-prietari terrieri, che hanno approittato del-la sua povertà e del suo analfabetismo”. Le rughe del viso e il sorriso sdentato lo fanno sembrare quindici anni più vecchio.

La lettura è incerta e lo sguardo assente. Cornelio, che indossa un cappello per pro-teggersi dal sole di mezzogiorno, è tutto

preso dal suo compito. Il testo è destinato alle Nazioni Unite, ma bisogna ancora lavo-rarci su. L’unghia si blocca su una parola che rilegge diverse volte. Poi alza la testa: “Schiavi. Sì, eravamo schiavi”.

Nel suo racconto si mescolano due fa-miglie: la sua e quella di sua moglie. Legate da molti matrimoni, formano quasi per in-tero la comunità indigena di Itakuatia, un villaggio di duecento persone senza acqua

La terra liberadei guaranìJulie Pacorel e Jean-Baptiste Mouttet, XXI, Francia

Molti contadini vivono ancora in schiavitù. Una comunità indigena si è ribellata ai latifondisti. La loro rivolta ha iniammato il paese

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Alto Parapetí, Bolivia. L’arrivo di Evo Morales, il 14 marzo 2009

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Bolivia

corrente né elettricità, fuori dal tempo e dalle strade principali. Isolato in un’im-mensa montagna boscosa nel sud della Bo-livia, Itakuatia è a quattro ore di strada dalla sottoprefettura della provincia, dove si tro-vano la scuola media, il commissariato, i negozi e le prime strade asfaltate.

“Prima”, ricorda Cornelio, “i giorni co-minciavano sempre ai rintocchi della cam-pana che risuonava nella valle”. Il latifondi-sta Ernesto Chávez, e poi il iglio René Er-nesto detto “Chiqui” (il piccolo), chiama-vano gli indigeni di Itakuatia per andare a lavorare. Loro attraversavano il ponte so-speso sopra un iume impetuoso e salivano verso la casa dei Chávez, che domina il vil-laggio e i grandi campi di mais. Da quando aveva otto anni, Cornelio si è svegliato al suono di quella campana. Quando faceva fatica ad alzarsi, i genitori insistevano: se arrivavano in ritardo, dovevano lavorare di più per recuperare il tempo perso. Anche se era ancora un bambino, Cornelio doveva sollevare sacchi di mais pesanti, occuparsi del bestiame insieme al padre e aiutare la madre a preparare da mangiare.

A casa miaDurante la mietitura e la raccolta delle ara-chidi, i contadini ricevevano qualche foglia di coca da masticare per far passare la fame. Verso mezzogiorno venivano chiamati per il pranzo: una zuppa di mais servita nelle ciotole degli animali. I braccianti mangia-vano accovacciati, prendendo il cibo diret-tamente con le mani. Spesso agli ultimi ar-rivati non restava niente da mettere sotto i denti.

Al calare della notte, dopo una giornata di lavoro di più di dodici ore, tutti tornavano nelle loro case di legno e terracotta. I padri e le madri di famiglia portavano a casa qualche soldo – l’equivalente di 30 o 60 centesimi di euro – e a ine mese ricevevano cinque chili di zucchero di canna. Ma alcuni sostengono di essere stati pagati solo in na-tura. L’unico giorno di riposo era la dome-nica, anche se la tranquillità durava poco. Con il fresco della sera Ernesto Chávez an-dava di persona a controllare il suo villag-gio: entrava a cavallo nei cortili delle case per assicurarsi che tutti sarebbero andati a lavorare la mattina dopo. E se qualcuno gli diceva che non avrebbe risposto ai rintoc-chi della campana perché era malato o per-ché era stanco di essere sfruttato, veniva cacciato immediatamente. Chávez grida-va: “Per voi pago delle tasse. Qui siete a ca-sa mia: credete che faccia tutto questo gra-tis?”.

Gli abiti dei contadini erano anche le

piange ancora e ricorda le parole della “da-ma bianca”: “Non servi a niente, non fai niente, vali meno di un cane”. Poi aggiun-ge: “La padrona è ancora viva, è molto vec-chia. Non so da dove venga, ma non è di queste parti”.

In cinquant’anni di lavoro i Chávez non le hanno riconosciuto nessun diritto. Nean-che nel 1995, quando il iume trascinò via suo marito alla ine di una giornata passata a lavorare nei campi. Di lui la donna non ha potuto recuperare “neanche la coperta su cui dormiva”.

Le prove durissime che ha dovuto af-frontare nella sua vita hanno alimentato nelle iglie, tre donne dallo sguardo duro e poco abituate a sorridere, un forte senti-mento d’ingiustizia. Vivono in una specie di clan: le loro piccole case sono allineate vicino a quella della madre. Tutte e tre han-no fatto della lotta contro i Chávez una que-stione personale. E non è un caso se i loro mariti hanno assunto la guida della rivolta. Alejandrina, la maggiore, guida la piccola tribù. Accanto a lei, forte e organizzata, suo marito sembra debole e malato. Ma secon-do Alejandrina, Cornelio non ha avuto sempre “le idee confuse”: “Prima”, sostie-ne, “era perfettamente lucido”.

Promessa di cambiamento“Cornelio è il nemico numero uno del lati-fondista”, aferma la donna. L’ostilità risale all’inizio degli anni novanta. Suo marito fu eletto dai contadini e diventò il capo di Ita-kuatia. Oggi rappresenta i membri della comunità ed è il portavoce delle decisioni che si prendono nelle assemblee.

Lo chiamano tutti “don” Cornelio, un titolo che nessuno aveva più osato portare dopo che l’ultimo capo del villaggio, minac-ciato di morte dai Chávez, fu costretto a scappare e, come molte altre famiglie, a ri-fugiarsi a Camiri, il capoluogo della provin-cia Cordillera. Con i suoi mercati e la sua piazza centrale ombreggiata, Camiri è la città dove Ernesto Che Guevara cercò di preparare una rivoluzione boliviana che non è mai cominciata. Sarà una coinciden-za, ma nel 1994 a Camiri un’associazione di indigeni incoraggiò le comunità montane a riunirsi. Il risultato è stato la creazione di una capitaneria, che si è installata in una casa blu lontana dal centro.

Nella capitaneria le riunioni si organiz-zano la domenica o la notte, per non desta-re sospetti. Cornelio partecipa a tutte le as-semblee, impara a leggere e a scrivere e scopre che in città alcuni indigeni ricevono uno stipendio con cui riescono a mantenere tutta la famiglia. È una rivelazione. Di ritor-

u Nel 2006 in Bolivia l’87 per cento delle terre coltivabili era in mano al 7 per cento dei proprietari.u Dal 2006 al 2010 le autorità boliviane hanno condotto indagini su 46 milioni di ettari coltivabili. I terreni improduttivi o acquisiti illegalmente sono stati espropriati e ridistribuiti a migliaia di contadini.u Nella regione di Itakuatia la metà delle terre appartiene a sei famiglie. I Chávez possiedono cinquemila ettari. Secondo un rapporto dell’Onu dell’aprile 2010, su queste terre 33 indigeni vivono in situazione di schiavitù e lavoro forzato.u Il rapporto denuncia anche Mario Malpartida e un americano, Ronald Larsen, proprietario di più di 57mila ettari, molti dei quali comprati senza tenere conto degli indigeni che ci vivevano.

Da sapere

loro catene. I pantaloni, le camicie o i cap-pelli ruvidi e logorati dall’uso erano distri-buiti dal proprietario terriero e dovevano essere rimborsati con un anno di lavoro, cioè la durata di vita dei vestiti. “Non ab-biamo mai inito di pagare i nostri debiti”, spiega Cornelio. “Ce li siamo passati di pa-dre in iglio”.

Cornelio è cresciuto nel villaggio e qui ha incontrato Alejandrina, la sua futura moglie. Anche lei aiutava la madre, che vi-ve a pochi metri di distanza, nei lavori do-mestici e nella raccolta. Questa vecchia donna dai lunghi capelli neri è la più anzia-na della famiglia. È stata venduta al pro-prietario del posto quand’era una bambina. Dopo aver concluso l’afare, la moglie del padrone andò a prenderla a cavallo. Lei si ricorda ancora di quanto urlava mentre ve-niva portata via dalla “dama bianca”: si ag-grappava al cavallo e aveva gli occhi pieni di lacrime. I padroni la lasciavano spesso digiuna e la costringevano a dormire su mucchi di stracci. Sessant’anni dopo, con le mani strette intorno a una tazza di mate,

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cambiamento: passeranno al setaccio i tito-li di proprietà dei grandi proprietari terrieri e le condizioni di lavoro dei loro dipenden-ti. I ribelli sono sicuri che alla ine una parte delle terre dei Chávez dovrà essere ridistri-buita. Quello stesso giorno i due cognati di don Cornelio, Nicanor e David, guidano un piccolo gruppo di uomini verso il ponte che collega la comunità al sentiero. Sono impa-zienti di accogliere i funzionari.

Ma, invece della delegazione uiciale, dall’altro lato del fiume trovano Chiqui Chávez armato e accompagnato dai suoi collaboratori più fedeli. David rimane sen-za parole: sull’altra riva ci sono due dei suoi fratelli. Ancora oggi cerca di scusarli: “Era-no stati male informati e strumentalizzati”, sostiene. I due gruppi si studiano a vicenda. Chávez vuole sapere dove si trova la dele-gazione, ma i ribelli riiutano di rispondere: lo scontro è inevitabile. Gli uomini del pa-drone lanciano delle pietre. A quel punto David si rende conto che la comunità e la sua famiglia sono deinitivamente divise.

I quindici funzionari, caduti in un’imbo-scata tesa dai proprietari terrieri della re-gione, non arriveranno mai a Itakuatia. Al-cuni vengono catturati, e chi riesce a scap-pare deve fare i conti con un altro proprieta-rio terriero, Mario Malpartida, deinito da

un’agenzia dell’Onu come “uno dei latifon-disti più violenti e autoritari della regione”. Malpartida li minaccia con il fucile: “Non uscirete vivi da qui”, aferma. I suoi prigio-nieri scappano. In piena notte e con un gps che non sanno usare, vagano sui fianchi scoscesi della montagna. Don Cornelio li ritroverà solo il giorno dopo.

Efetto sorpresaOggi Itakuatia non è più una comunità remota e dimenticata da tutti. Il piccolo villaggio è diventato famoso, perché è qui che si gioca una partita fondamentale per il futuro della Bolivia. La regione è un feu-do dell’opposizione al presidente Morales. I proprietari terrieri non vogliono rinun-ciare ai loro privilegi, hanno il sostegno del governatore e si sono associati per blocca-re le riforme approvate dalla capitale.

I ribelli di Itakuatia sono diventati un punto di riferimento. Per un mese una ven-tina di responsabili sostenuti dai membri delle associazioni vicine alle popolazioni indigene si riuniscono nel piccolo villaggio. I bambini non vanno a scuola perché tutte le aule sono state requisite per le riunioni. Nel cortile della scuola, che si riempie di polli e di maiali quando i ragazzi tornano a casa, c’è sempre un via vai di gente. Uomi-

no al villaggio, cerca di far capire agli abi-tanti che la situazione può cambiare e che l’importante è impegnarsi. Ma si scontra con l’incredulità della gente. “Pensavano che Chávez fosse troppo forte e che non c’era niente da fare per cambiare la situa-zione”, spiega Alejandrina. “Alcuni pren-devano addirittura le difese del padrone e intimavano a Cornelio di stare zitto. Conti-nuando così – dicevano – avrebbe sicura-mente avuto dei problemi”.

Nel 2008 la situazione precipita. Da due anni Evo Morales, un indigeno aymara, è il presidente della Bolivia. Nei suoi discorsi, Morales fa spesso riferimento a parole co-me “popolo indigeno”, “uguaglianza” e “fratelli”, parla di ridistribuzione delle ter-re, incoraggia l’Instituto nacional de refor-ma agraria (Inra) ad agire e apre una serie di inchieste in tutto il paese sulla situazione dei grandi proprietari terrieri.

A Itakuatia don Cornelio è riuscito con molta pazienza e forza di volontà a convin-cere una parte degli abitanti che è arrivato il momento di battersi per i propri diritti. Gli animi sono in fermento. Tutto lascia pensare a una possibile rivolta.

Il 29 febbraio i dipendenti dell’Inra s’in-camminano per il ripido sentiero che porta a Itakuatia. Il loro arrivo è una promessa di

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Chuquisaca, Bolivia. Indigeni guaranì

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ni, donne e anziani si organizzano per pro-teggere Itakuatia. E decidono di organizza-re delle ronde. Don Cornelio e sua moglie parlano alla radio, l’unica via di comunica-zione con il mondo esterno. Il crepitio del vecchio apparecchio non s’interrompe qua-si mai. All’altro capo del ilo, il governo di La Paz o gli uomini dell’Instituto nacional de la reforma agraria a Camiri.

Nel frattempo Chiqui Chávez continua a fare domande ai suoi uomini e impreca contro questi “fannulloni” che si sono ri-bellati. David, deluso dal tradimento dei fratelli, cerca di avvicinarli alla sua causa. Ma i fratelli, i genitori e un cognato riiuta-no di partecipare alle riunioni. La più anzia-na del clan constata la defezione di uno dei igli: “Non lo vedo quasi più, ci ha tradito”.

I funzionari dell’Inra organizzano un secondo tentativo per il 4 aprile. Questa volta il convoglio è scortato da una decina di poliziotti. Alcuni giornalisti partecipano al viaggio e il viceministro del territorio, incaricato della ridistribuzione delle terre, prende parte alla spedizione. Chi oserà at-taccare un rappresentante del governo? Ma pochi chilometri dopo la partenza, i quindici veicoli si scontrano con un primo sbarramento. Le auto vengono prese a sas-sate ma continuano a procedere. Poi trova-

no un secondo sbarramento. I poliziotti lanciano dei lacrimogeni e cercano di rom-pere il blocco. Ma hanno di fronte anche donne e bambini. I funzionari, i giornalisti, il viceministro e i poliziotti tornano indie-tro e si rifugiano in una caserma militare di Camiri.

Una settimana dopo fanno un altro ten-tativo. Questa volta solo otto funzionari accettano di partecipare. I volontari deci-dono di puntare sull’efetto sorpresa e par-tono alle cinque di mattina prendendo la strada per Cuevo, un grande villaggio di cinquemila abitanti a circa sessanta chilo-metri da Camiri. Li accompagna Nicanor, uno dei capi della rivolta. Ma all’entrata di Cuevo il convoglio viene bloccato da due-cento persone. È impossibile fare anche il minimo movimento. “I padroni ascoltava-no la radio e conoscevano il nostro piano”, spiega Nicanor masticando delle foglie di coca. In mezzo alla folla, vicino ai proprie-tari terrieri, Nicanor riconosce la sindaca di Cuevo. “È lei che dirige tutto”, aferma.

I manifestanti bruciano i camion dei vi-veri destinati alle comunità e un avvocato viene preso a frustate. “Gridavano che avrebbero violentato una giornalista che ci accompagnava”. Nicanor scappa verso Ca-miri, ma gli uomini dei proprietari terrieri

gli sono alle calcagna. Si nasconde in un ca-nale dove passa la notte “immerso per metà nell’acqua ghiacciata”. I suoi inseguitori passano a pochi metri da lui senza vederlo.

Quando torna al villaggio la gente lo evita. Il governatore del dipartimento di Santa Cruz ha annunciato che ci sarà un re-ferendum sull’autonomia della regione: un atto molto grave con il quale vuole opporsi a Evo Morales. Il paese è diviso e la sorte di Itakuatia dipende dall’esito di questa con-sultazione.

Verdi contro blu

La schiacciante vittoria degli autonomisti è seguita da scontri violenti in tutta la pro-vincia della Cordillera, la mezzaluna for-mata dalle province più ricche della Boli-via. Itakuatia, le altre comunità vicine e le inchieste dell’Inra vengono dimenticate, e i ribelli si ritrovano di nuovo soli. Ma non sono disposti a cedere: ormai la maggior parte dei braccianti non vuole più lavorare per Chávez. D’altronde lui ha dichiarato che per loro “non c’era più lavoro”. Corne-lio, Nicanor e David perdono il posto. La loro famiglia sopravvive solo grazie all’aiu-to della capitaneria di Camiri. Sono delusi e depressi, e la fame e le diicoltà aumen-tano.

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Chuquisaca, Bolivia. Contadini guaranì al lavoro nei campi

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David ripone le sue speranze nella poli-tica. Sulla porta della sua casa di due stanze in legno e terracotta, dove vivono in cinque, ha aisso un volantino socialista e ha issato la bandiera blu del partito del presidente (il Movimento al socialismo) sull’albero più alto del suo piccolo cortile. I genitori gli ri-spondono piantando lì vicino la bandiera verde degli autonomisti. Suo padre conti-nua ad andare a lavorare tutti i giorni nella proprietà dei Chávez.

Verdi contro blu, la rottura è ormai dei-nitiva.

La madre di David dichiara apertamen-te il suo sostegno ai Chávez. Vestita di rosa, accoglie i visitatori con un grande sorriso e un bicchiere di limonata: “Se non lavoria-mo, non abbiamo nulla. È così. Quello che mi sta a cuore”, spiega accarezzando la te-sta della sua bambina, “sono i igli. Voglio che abbiano un futuro”. Dopo la vittoria al referendum, i genitori del ribelle possono contare sulla protezione e sulla simpatia dei Chávez. I proprietari terrieri hanno ri-preso in mano la situazione. Ronald, un professore che vive a Itakuatia dal 1990 ed è l’unico non guaranì del villaggio, nota che Chávez “entra nelle case” sempre più spes-so. “È venuto a dirmi che sono sulle sue ter-re. Ma gli ho risposto che a scuola sono sulle

terre dello stato”. Dopo la rivolta i dueños – i padroni – vogliono riprendere il controllo del villaggio. Gli spostamenti degli indigeni sono sorvegliati e spesso bloccati. Il 17 lu-glio, quando don Cornelio rientra da Cami-ri, scopre che all’entrata di Itakuatia c’è una recinzione chiusa con delle catene. Impa-ziente di raggiungere la famiglia, la scaval-ca. Immediatamente Chiqui Chávez e un gruppetto di uomini lo raggiungono. “Stai entrando nella mia proprietà”, dice il pa-drone. Don Cornelio non abbassa la testa: “Abbiamo dei diritti, lo so, me lo hanno in-segnato”, risponde. Il vecchio viene spinto-nato, lo tirano per l’orecchio come un bam-bino e lo colpiscono facendolo sanguinare. Il capo guaranì sente le risate del cognato

Miguel, della madre di David e dei suoi due igli. Lo picchiano. “Se ti vediamo un’altra volta da queste parti ti ammazziamo come una capra”, minacciano gli uomini di Chávez. Ma ormai Cornelio è quasi inco-sciente.

Don Cornelio viene portato svenuto i-no al suo letto. Non possono andare in am-bulatorio – che è gestito dai proprietari ter-rieri – così è la moglie a prendersi cura di lui. “Da allora non è più lo stesso”, aferma la donna con uno sguardo triste. La coppia è spaventata, rimane chiusa in casa, esce po-co e aspetta la notte per andare a lavarsi al iume. Ma queste precauzioni non bastano, perché alcune settimane dopo la prima ag-gressione i collaboratori dei Chávez si ri-fanno vivi.

Quel giorno gli uomini sono andati tutti a Camiri. Al villaggio è rimasta solo Cle-mentina, una delle tre iglie della donna più anziana. Dal cortile Clementina vede la madre di David entrare nella casa di don Cornelio, accompagnata dai suoi due igli. I padroni la seguono. La madre di David avverte: “Siamo venuti a prendere la ra-dio”.

Il vecchio apparecchio era l’ultimo con-tatto con il mondo esterno. “Sono partiti con la radio, non ho potuto fare nulla”, si

Il piccolo villaggio di Itakuatia non è più un posto dimenticato da tutti. È qui che si gioca una partita fondamentale per il futuro della Bolivia

Chuquisaca, Bolivia. Una donna guaranì con i suoi igliDA

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rammarica Clementina, che senza dire una parola di più si alza per aiutare la madre a macinare il mais.

Nel villaggio gli abitanti hanno paura e sono scoraggiati. Ma alla ine dell’anno gli uomini dell’Inra fanno irruzione nella pro-prietà dei Chávez. I funzionari sono scorta-ti da quasi cento poliziotti, di cui venti delle forze speciali. La casa dei Chávez, un gran-de ediicio dai muri bianchi, è vuoto. Come tutti i proprietari terrieri del paese, i Chávez sono stati avvertiti poco prima dalla polizia e sono riusciti a scappare. Per un mese i funzionari interrogano per ore tutti gli abi-tanti sui loro stipendi, sugli orari di lavoro e sulle loro condizioni di vita. Alcuni tecnici perquisiscono la proprietà dei Chávez e mi-surano i campi. Vogliono controllare se le dichiarazioni dei proprietari corrispondono alla realtà.

L’articolo 46Questa prima fase è chiamata “risanamen-to”. A questa seguirà la seconda, “la titola-rizzazione”, che di fatto è una ridistribuzio-ne delle terre. David assiste iducioso alle procedure: “Avremo un ambulatorio, poi un collegio per ospitare gli studenti e un si-stema di acqua potabile. Avremo diritto a seminare di più e potremo ingrandire la no-stra parcella e anche chiedere delle macchi-ne agricole”.

Don Cornelio è ottimista: “Il tempo del-la soferenza e del pianto lascerà spazio a quello della pace e della gioia”. Ma mentre l’istituto agrario esamina la situazione dei proprietari terrieri, gli abitanti di Itakuatia non possono ancora avanzare pretese sulle loro terre. Nell’attesa che i tribunali pren-dano delle decisioni, ogni famiglia ha otte-nuto un piccolo pezzo di terra.

Il primo anno David semina mais e zuc-chine nel suo campo a un’ora di cammino da casa. Non basta per sfamare la famiglia, ma lui non si scoraggia: “È solo l’inizio”, sostiene. I cambiamenti tardano ad arriva-re. Gli indigeni continuano a bere l’acqua salata del rio Parapetí e gli studenti che ven-gono dai villaggi vicini dormono ancora nella chiesa adibita a dormitorio. Ma alcu-ni, “stanchi di mangiare tutti i giorni mais”, non condividono l’ottimismo di David. “Adesso abbiamo più libertà”, riconoscono, “ma meno lavoro e meno da mangiare”.

Chiqui Chávez passa sempre meno tempo nella sua hacienda e va sempre più spesso a Santa Cruz o all’estero. Non si ve-de per settimane e non va più a Itakuatia: solo i suoi dipendenti possono incontrarlo. Ma non ha abbandonato le sue terre e con-tinua a presentare un ricorso dietro l’altro.

“Le famiglie del padrone” sono state ricompensate per la loro fedeltà. Il padre di David, assunto dai Chávez per occuparsi del bestiame, è pagato 130 euro al mese, di cui cento in contanti. A livello locale è uno stipendio che fa gola a molti. Un cugino di don Cornelio ha preferito rinunciare ai cin-quecento ettari di terra acquisiti trent’anni fa per cinque ettari lasciati da Chiqui Chávez. Gli uomini fedeli ai proprietari ter-rieri vivono in case vere fatte di mattoni e cemento, con due o tre stanze. Queste case, costruite all’entrata del villaggio, attirano l’attenzione e suscitano l’invidia degli altri abitanti. I ribelli indicano con rabbia le “cinque famiglie delle case che sono diven-tate dei piccoli proprietari”.

I genitori di David si sono trasferiti nella nuova casa nell’aprile del 2010. La madre non ha nessun rimpianto: “Vole-vamo una bella casa come i ric-chi, nient’altro. Adesso posso morire tranquilla. Abbiamo an-che un piccolo orto”. Gli alloggi sono stati costruiti dalla prefettu-ra nell’ambito di un programma di lotta contro la malattia di Chagas. “Gli altri han-no riiutato la casa perché sostenevano che era ‘politica’, ma tutti avrebbero potuto averne una”.

È in quest’atmosfera che per la prima volta dall’inizio della rivolta la prefettura decide di riunire gli abitanti di Itakuatia. Le donne spazzano la sabbia che si è accumu-

lata davanti alle aule della scuola e gli uo-mini dispongono i tavoli e le sedie intorno alla lavagna sistemata all’esterno. Tutto è pronto per l’arrivo dei quattro funzionari. Sono presenti tutti gli abitanti del villaggio, ognuno con le sue tensioni. Gli agenti della prefettura devono presentare il progetto elaborato con l’aiuto del Programma ali-mentare mondiale dell’Onu. “Lavoro in cambio di cibo” è lo slogan scritto a grandi lettere bianche sulla lavagna della scuola. “È molto semplice. Dovete realizzare dei lavori d’interesse generale per ricevere da mangiare. Più questo lavoro sarà importan-te, maggiore sarà la quantità di alimenti che riceverete”.

Sotto il sole cocente, David ascolta con attenzione e a un certo punto interviene: “Mi scusi signore, lei è il benvenuto e spero

che questo progetto possa essere realizzato, ma cosa ci daranno in cambio? Perché l’ultima volta nella farina c’erano i vermi”. Il funzionario esita e cerca con gli occhi i suoi colleghi. La madre di

David interviene e lo riprende: “Ma non hai capito nulla. L’ultima volta erano provviste della prefettura, questa volta vengono dall’Onu”. “Sì”, prosegue l’agente, “in ef-fetti c’è stato qualche problema con l’aiuto della prefettura, ma il nuovo progetto sarà diverso. Passeranno dei controllori per ve-riicare che non ci siano problemi”.

David è soddisfatto della riunione: il progetto gli piace e gli abitanti di Itakuatia potranno inalmente riparare il ponte so-speso, sempre più pericoloso mano a mano che si rompono le assi. Ma la sua mente è già altrove. Ha ricevuto una telefonata e deve subito andare a Sucre, la capitale co-stituzionale del paese, a venti ore da Itakua-tia. Chiqui Chávez è stato convocato dalla corte di giustizia, che gli chiederà di accet-tare la ridistribuzione delle sue proprietà. La moglie di David ha le lacrime agli occhi: sa che il padrone non irmerà.

Nel frattempo don Cornelio, incaricato dell’istruzione nella regione, va sempre più spesso a Camiri. Nel cortile della capitane-ria sfoglia lentamente la nuova costituzione dello stato boliviano. Due uomini anziani, seduti sulle loro sedie, lo ascoltano. Quan-do Cornelio s’interrompe, gli anziani cerca-no di dare un senso alla parola “intercultu-ra”. Don Cornelio ricomincia a leggere il li-bro che il governo ha distribuito in tutto il paese. Facendo attenzione a non sporcare le pagine, lo sfoglia ino a quando trova l’ar-ticolo 46. Lo legge più volte, con una certa soggezione: “Nessuno potrà essere sotto-messo alla servitù o alla schiavitù”. u adr

u Nel dicembre 2005 Evo Morales viene eletto presidente della repubblica con il 54 per cento dei voti. Ex leader cocalero, Morales è il primo presidente indigeno della Bolivia.u A maggio 2008 il dipartimento di Santa Cruz convoca un referendum per approvare uno statuto autonomo, che ottiene l’85 per cento dei voti.u Nell’agosto 2008, per calmare le proteste sollevate dalla proposta di una nuova costituzione, Morales accetta di convocare un referendum revocatorio. Viene confermato alla guida del paese con il 67 per cento dei voti.u Il 25 gennaio 2009 il 60 per cento dei boliviani approva la nuova costituzione. Il testo dà più diritti alla maggioranza indigena del paese, stabilisce che le risorse naturali sono del popolo boliviano e dichiara la foglia di coca patrimonio culturale del paese. In base all’articolo 398, si possono espropriare le proprietà agricole superiori a cinquemila ettari. u Nel dicembre 2009 Morales è rieletto con il 62 per cento dei voti.

Da sapere

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Alle 18 e 41 del 27 ottobre, una piccola luce è appar-sa in basso nel cielo pri-ma di scomparire nel buio. Molti non hanno fatto nemmeno caso a

quel puntino all’orizzonte, ma per una manciata di anime è stato come vedere le

luci di casa. Da quaggiù, sulla Terra, non si vede molto altro. Potendo avvicinarsi, pe-rò, quel puntino assume i contorni più complessi di un blocco luccicante di tubi intrecciati e fasci di metallo, contornato da due giganteschi pannelli a forma di ali. Le dimensioni sono quelle di una casa con cinque stanze, ma è difficile pensare a un’abitazione costruita in condizioni più estreme. Quella che da lontano sembra una stella che vaga nel cielo è la luce del Sole rilessa dalla stazione spaziale inter-nazionale.

Dopo più di dieci anni, i lavori di costru-zione stanno per concludersi, e inalmente gli astronauti potranno muoversi libera-

mente nella stazione spaziale. A giudicare dalle parole di chi ha contribuito a costru-irla e a mandarla avanti, deve trattarsi di un’esperienza straordinaria. “A volte anco-ra non riesco a credere a ciò che ho visto”, dice Piers Sellers, l’astronauta britannico della Nasa che a maggio ha partecipato all’ultima missione dello Shuttle. “Spesso rivedo tutto in sogno”.

I primi astronauti sono sbarcati il 2 no-vembre 2000, ma quelli che hanno vissuto a bordo della stazione, la più grande nave spaziale orbitante mai costruita, sono me-no di 200, e ancora meno sono quelli che ci hanno trascorso più di sei mesi. Più tempo si passa nello spazio, più s’impara ad ai-

Dopo dieci anni la stazione spaziale internazionale è quasi pronta. Una casa galleggiante dove muoversi, mangiare, lavarsi è tutt’altro che scontato

Vado a viverenello spazioIan Sample, The Guardian, Gran Bretagna

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L’astronauta Stephen K. Robinson attaccato a un braccio della stazione spaziale

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Scienza

nare l’arte della vita in caduta libera. Già, perché le cose cadono eccome. Vedendo le immagini degli astronauti leggiadri e sor-ridenti che fanno le capriole e inseguono il cibo luttuante nell’aria si è portati a pen-sare che la stazione galleggi libera dalla forza di gravità. Ma non è così. La base or-bitante (il peso complessivo è di 450 ton-nellate) precipita continuamente verso la Terra e si schianterebbe al suolo se non viaggiasse a una velocità tale da percorrere una leggera curva intorno al nostro piane-ta. In orbita gli oggetti sono privi di peso semplicemente perché cadono alla stessa velocità.

Per arrivare sulla stazione spaziale ci vogliono due giorni. La durata del viaggio è legata sia alla velocità sia all’altitudine. La stazione vola a un’altezza di circa 350 chilometri (più di 30 volte l’altitudine di crociera di un jumbo) e si muove alla velo-cità vertiginosa di 28mila chilometri orari. Prima di arrampicarsi a bordo, gli astro-nauti devono raggiungerla e aiancarla. Per compiere il tragitto uno shuttle impie-ga 900 tonnellate di combustibile solido e più di due milioni di litri di ossigeno e idro-geno liquido, che vengono bruciati nel mo-tore principale. Mentre si avvicina alla sta-

zione spaziale, lo shuttle fa un’elegante capriola all’indietro. In questo modo i membri dell’equipaggio della stazione hanno il tempo di scattare circa 400 foto-graie al rivestimento termico del ventre della navicella. Le foto vengono poi inviate agli operatori della Nasa, che le esaminano cercando eventuali crepe e buchi. La ca-priola è stata introdotta nel 2003, dopo che lo shuttle Columbia si incendiò durante il viaggio di rientro a causa di un danno alle piastrelle protettive del rivestimento. La procedura di attracco è lenta e meticolosa. E non potrebbe essere altrimenti, visto il costo delle due navicelle: 1,7 miliardi di dollari per uno shuttle e circa cento miliar-di di dollari per la stazione spaziale. Una volta completato l’aggancio (la manovra si conclude con un leggero sobbalzo) ci vuole più o meno mezz’ora per equalizzare la pressione e aprire i portelli che separano i due equipaggi. “Dall’altra parte ci sono queste facce pallide, sempre felicissime di vederti. Certe volte passano tre mesi prima di vedere qualcuno”, racconta Sellers.

In tutto, lo spazio vitale a bordo della stazione è più o meno una volta e mezzo quello di un Boeing 747. L’area principale è stata assemblata pezzo per pezzo, avvitan-

do l’uno all’altro enormi moduli a forma di lattina ino a formare un tubo lungo 74 me-tri. A un’estremità ci sono i moduli assem-blati dai russi, dai nomi “funzionali” come Zvezda (stella) e Zarja (alba). Dall’altra, collegati con un adattatore, ci sono i modu-li statunitensi ed europei, dai nomi più “caldi” come Unity, Destiny e Harmony. I magazzini, i laboratori e le stanze laterali si diramano da questo tubo principale in mo-do da lasciare agli astronauti lo spazio per lavorare, per fare esperimenti e per mano-vrare i due bracci robotici della stazione spaziale. Avvitato a croce nel punto dove si congiungono le sezioni russa e statuniten-se c’è un enorme traliccio con attaccati 16 pannelli solari da cui la stazione ricava la corrente elettrica.

Un elefante in una cristalleria

La stazione spaziale ha un equipaggio per-manente di sei persone, perciò l’arrivo di facce nuove ofre sempre un motivo per festeggiare. Tuttavia, anche l’ospite più gradito, se inesperto, può fare danni. È un’arte rainata quella di muoversi senza urtare gli oggetti (o, peggio ancora, le per-sone) e senza staccare i computer e i vari strumenti issati alle pareti con dei cusci-netti di velcro. Un pilota dello shuttle rac-conta che la prima volta che ha provato a spostarsi da una stanza all’altra si è lasciato dietro una scia di computer portatili e altri

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Un momento di svago all’interno della stazione spaziale. A destra, il russo Oleg Skripochka arriva a bordo della stazione con frutta e viveri, ottobre 2010. Nella pagina accanto, Lisa M. Nowak, statunitense, dorme a bordo della stazione.

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coltà. “Ci mettevo un sacco di tempo per lavarmi. Mi spruzzavo un po’ d’acqua sotto i capelli e la schiacciavo con la mano in modo da non farla volare via, poi mi versa-vo lo shampoo in mano e lo cospargevo sulla testa. Quando avevo inito di insapo-narmi mi sciacquavo con un asciugamano bagnato. Mi lavavo nel fine settimana, quando non c’erano tante cose da fare”, racconta. Anche andare alla toilette richie-de un po’ di pratica, ma è meno traumatico da quando al posto delle buste di plastica ci sono i gabinetti a risucchio, come quelli degli aerei. L’urina degli astronauti, tra pa-rentesi, viene riciclata e usata come acqua corrente. Vivere in assenza di peso ha stra-

ni efetti sull’organismo. Del resto, tutta la nostra isiologia si è evoluta in presenza di gravità. I primi giorni nello spazio alcuni astronauti avvertono nausea, un disturbo che nel gergo della Nasa viene definito “consapevolezza di stomaco”. I luidi cor-porei, che sulla Terra sono statici, risalgo-no verso la testa, facendo rinsecchire le gambe e goniando i volti degli astronauti. Tutto questo ha un curioso efetto collate-rale: le rughe scompaiono e i membri dell’equipaggio sembrano molto più gio-vani. Però, in orbita molti astronauti si sen-tono congestionati e perdono quasi com-pletamente l’olfatto. A meno che non ci sia un problema con l’impianto idraulico della stazione (a volte è successo), o il pranzo di qualcuno non voli via andando a inire in qualche anfratto (è successo anche que-sto), non c’è molto da annusare a bordo, perché quando l’aria è in circolo il depura-tore iltra tutti gli odori.

Un’altra vittima della vita nello spazio è il gusto. “Ognuno di noi ha un cassetto con il suo nome e tutte le cose da mangiare che ha scelto prima di partire, ma i sapori non sono quelli della Terra. Sa tutto di carto-ne”, dice Sellers. “Per questo consumiamo litri di tabasco”. Per avere un’idea della dif-icoltà di deglutire nello spazio, suggerisce, provate a mangiare stesi su un ianco. In assenza di gravità, sia le ossa sia i muscoli cominciano a deteriorarsi. Per ogni mese

strumenti. “All’inizio sei come un elefante in una cristalleria”, ammette. “Non avevo idea di dove rimettere tutta quella roba”. Con il tempo s’impara ad attraversare tutta la stazione in linea retta, toccando gli og-getti soltanto con le dita. Gli astronauti galleggiano a mezz’aria, digitando sui computer e ancorandosi con la punta del piede a una serie di cinghie sulle pareti. Spostarsi da un punto all’altro è molto più diicile perché alto e basso, destra e sini-stra hanno un signiicato relativo. La capa-cità di costruire una mappa mentale della stazione – e poi di adattarla alla propria prospettiva – è una risorsa inestimabile per un astronauta.

In spazi così ristretti l’igiene personale è fondamentale, ma lavarsi in assenza di peso è un compito delicato. Le gocce d’ac-qua, se inalate, possono provocare sofoca-mento e possono mandare gli strumenti in corto circuito. Per questo molti astronauti ricorrono alle salviette umidificate. Gli equipaggi composti da soli uomini di solito si spogliano e si lavano tutti insieme, men-tre quelli misti tendono a darsi i turni all’in-terno di un modulo apposito. Lavarsi i ca-pelli è più complicato. Gli uomini, di solito, prima di andare in missione si rasano a ze-ro. Sunita Williams, che ha trascorso 195 giorni consecutivi a bordo (un record per una donna), si era tagliata i capelli all’al-tezza delle spalle, ma ha avuto delle dii-

u L’idea della stazione spaziale internazionale (Iss) è nata dopo la ine della guerra fredda come progetto di esplorazione comune dello spazio di Stati Uniti, Russia, Europa, Giappone e Canada. u Nel 1998 l’Agenzia spaziale russa lancia in orbita Zarya, il primo modulo della stazione spaziale. Nel maggio del 2010 l’Iss era composta da 14 moduli e da una struttura integrata che costituisce la spina dorsale della stazione.u Si stima che il costo totale dell’operazione sarà di 100 miliardi di euro in trent’anni, che fanno dell’Iss l’oggetto più costoso mai costruito.

Da sapere

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passato nello spazio, un astronauta perde circa il 2 per cento della massa ossea. Du-rante le lunghe soste a bordo, i membri dell’equipaggio passano almeno due ore al giorno a fare ginnastica per non indebolir-si, allenandosi al tapis roulant, alla cyclette e a una macchina che simula il sollevamen-to pesi.

La stazione spaziale impiega un’ora e mezza per completare un giro della Terra, per un totale di sedici giri al giorno. Per chi è a bordo, la vista è spettacolare. Quando si aprono le coperture delle inestre la luce è talmente accecante che gli astronauti in-dossano gli occhiali da sole. Dopo 45 minu-ti di luce, sul nostro pianeta compare una linea scura che divide la notte dal giorno. Per un paio di secondi, la stazione spaziale s’immerge in una luce ramata per poi spro-fondare nel buio completo. Altri 45 minuti dopo, con la stessa rapidità, il Sole sorge e inonda di nuovo la stazione con la sua luce abbagliante. Questa alternanza di giorno e

notte rischia di scombussolare l’orologio biologico degli astronauti, che sono tenuti a seguire un ciclo di buio e riposo imposto dai controllori della missione.

Ciascun membro dell’equipaggio ha una cabina grande come un armadio dove appende un sacco a pelo e si corica durante la notte. Qualcuno si lega anche un cuscino alla testa per avere la sensazione di giacere in orizzontale. Le luci, tuttavia, non si spengono mai del tutto. Chi dorme in orbi-ta vede strisce ed esplosioni di colori bril-lanti a causa dei raggi cosmici ad alta in-tensità che rimbalzano sulla retina. Le ventole e i iltri contribuiscono a disturbare il sonno, tanto che alcuni astronauti met-tono i tappi per non sentire il ronzio co-stante.

Per riuscire ad addormentarsi bisogna abituarsi. Spesso mentre si prende sonno si ha l’impressione di cadere da un palazzo di dieci piani. A volte gli astronauti, nel dor-miveglia, improvvisamente buttano indie-tro la testa e spalancano le braccia. Con il tempo le cose migliorano. Un membro dell’equipaggio russo è famoso perché non usa mai il sacco a pelo e si addormenta do-vunque capiti. Chi rimane sveglio ino a tardi lo vede sempre vagare nel sonno, sballottato lentamente da una parete all’al-

tra dalle correnti d’aria che lo spingono e lo tirano dolcemente. I nuovi arrivati riman-gono sempre a bocca aperta davanti allo spettacolo mozzaiato del nostro pianeta. Il miglior punto di osservazione a bordo è la cupola a torretta, che ha sei inestre pa-noramiche afacciate sulla Terra. Ma per una vista davvero fuori dal comune biso-gna uscire all’esterno.

Imprevisto spettacolareA maggio, durante l’ultima missione dello shuttle, per colpa di un guasto informatico l’astronauta della Nasa Garrett Resiman si è ritrovato davanti a una vista incredibile. A volte gli astronauti escono per lavorare su una delle due estremità del braccio ro-botico della stazione, che è lungo 20 metri e serve a spostare gli strumenti da un punto all’altro. Il 17 maggio Reisman era proprio lì, con i piedi agganciati a una pedana, quando un computer è andato in crash e il braccio si è bloccato. Reisman ha avuto 25

minuti per godersi il paesaggio. Chi pas-seggia nello spazio può vedere interi conti-nenti, catene montuose, città, scie di aero-plani e quelle di navi che attraversano gli oceani. Sfrecciando in orbita, i sensi rara-mente percepiscono la velocità. “A volte sembra di stare in un palazzone volante che ruota intorno al mondo, ma la sensa-zione più comune è quella di un gigantesco mappamondo che qualcuno sta facendo girare sotto di te. Non c’è il senso del movi-mento”, spiega Sellers.

Invece che da una comune sveglia, gli astronauti vengono svegliati dalla musica trasmessa tramite gli altoparlanti dal per-sonale di terra della Nasa. Ogni giorno il brano è dedicato a un astronauta diverso e viene scelto dal coniuge o da un collega. La mattina dopo l’incidente della passeggiata nello spazio era il turno di Reisman e per-ciò, grazie alla moglie, il vascello orbitante ha riaperto gli occhi alle due meno dieci del mattino, ora americana, sulle note di Macho man dei Village People. Dopo la partenza dello shuttle, l’equipaggio si è ri-svegliato con la canzone di Wallace and Gromit. Il giorno successivo è stato il turno di Supermassive black hole dei Muse.

Nella maggior parte delle missioni del-lo shuttle, gli astronauti rimangono sulla

stazione spaziale per un paio di settimane, con giornate di lavoro molto intense. Men-tre suonano le prime note della sveglia, le stampanti cominciano già a gracchiare istruzioni per la giornata. Praticamente ogni singola ora viene programmata dagli esperti logistici a terra, che organizzano tutte le attività dell’equipaggio e decidono gli strumenti che i vari membri dovranno utilizzare, facendo in modo che non si ostacolino a vicenda. Almeno questa è la teoria. I membri dell’equipaggio s’incon-trano a colazione, ricevono istruzioni per il lavoro della giornata, poi si sparpagliano, facendo pausa soltanto a pranzo e a cena.

Le missioni brevi sono massacranti ma più facili da gestire a livello psicologico ri-spetto a quelle lunghe. Frank de Winne, astronauta belga, è stato per nove giorni sulla stazione spaziale nel 2002 e ci è tor-nato l’anno scorso per sei mesi, diventando il primo comandante europeo della base. “Se rimani a bordo per una o due settima-ne, sei su di giri tutto il tempo. Ma quando ci stai sei mesi è diverso. Devi gestire il tuo umore e riuscire a motivarti durante gli inevitabili momenti di diicoltà. Quello che all’inizio sembra diicile, come non potersi fare la doccia o mangiare la frutta, diventa parte della normalità. Ciò che ti manca veramente è non poter avere con-tatti con tua moglie, con i tuoi igli, con gli amici e i familiari”, spiega. I membri dell’equipaggio non sono completamente tagliati fuori dalle comunicazioni, e quan-do hanno tempo possono usare la posta elettronica e il telefono.

La stazione spaziale orbiterà intorno alla Terra per almeno altri cinque anni, e probabilmente per molto di più. Tra tutte le agenzie che la inanziano, solo l’Agenzia spaziale europea, composta da 18 membri, deve ancora deinire il piano per tenerla in orbita ino al 2020. Si parla addirittura di far volare la stazione ino al 2028. Con lo shuttle vicino alla pensione, sarà la capsula russa Soyuz a portare avanti e indietro gli astronauti.

Per chi ha costruito la stazione, e per le migliaia di persone che lavorano nelle agenzie spaziali di tutto il mondo, vedere questa luce che attraversa il cielo di sera evoca sensazioni che pochi possono capi-re. “Quando esci la sera guardi lassù e pen-si, per la miseria, io sono stato lì e ho con-tribuito a metterla in piedi”, spiega Sellers. “Quando la vediamo da qui, a Houston, pensiamo sempre a quelli che stanno a bordo, nei loro sacchi a pelo, e girano intor-no alla Terra. Tutti sentiamo di possederne un pezzetto”. u fs

Per addormentarsi bisogna abituarsi. Spesso mentre si prende sonno si ha l’impressione di cadere da un palazzo di dieci piani

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La necessità di capire

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L’urgenza di agire

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Reportage

Il iume contesoLa lotta per le risorse idriche in Medio Oriente ha quasi prosciugato il Giordano. Le foto di Francesco Zizola, con un reportage di Stephan Faris

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Reportage

Non lontano dal luogo do-ve si dice che Gesù abbia camminato sull’acqua e sfamato mi gliaia di per-sone con cinque pani e due pesci, gli ingegneri

del governo israeliano hanno compiuto a loro volta un miracolo: hanno fatto sparire un iume. Il iume Giordano lascia il lago di Tiberiade costeggiando pigramente alcuni campeggi ino a una struttura di cemento, dalla quale escono dei pellegrini vestiti di bianco che vanno a immergersi nell’acqua. Da lì prosegue il suo corso sinuoso tra uli-veti, campi agricoli e macchie boscose. Poi, all’improvviso, si ferma. In una stazio-ne di pompaggio a meno di tre chilometri

dalla sorgente, cinque grosse condutture verdi s’immergono nel iume come probo-scidi di elefanti per attingere dalle sue ac-que. Al di là di una piccola diga di terra, un tubo arrugginito scarica acque di scolo non trattate tra gli argini solitamente aridi.

Il prosciugamento del iume Giordano è un sintomo della lotta per le risorse idriche nel Medio Oriente di oggi. È anche un esempio di quello che potrebbe succedere altrove in un momento in cui i cambiamen-ti climatici stravolgono il ciclo dell’acqua in tutto il pianeta. Anche se si parla soprattut-to della disputa per la terra, nel conflitto israelo-palestinese le risorse idriche sono una questione critica. Le acque del Giorda-no, che un tempo irrigavano i campi della

Cisgiordania, sono state convogliate in pompe, condutture e canali perché possano sgorgare dai rubinetti delle case di Tel Aviv e “facciano iorire il deserto” nel Negev. La deviazione del corso del iume è un succes-so della tecnica che ha fatto la fortuna di Israele, dando vita a una ricca agricoltura, a un’industria ad alta tecnologia e ad alcune delle città più moderne del mondo. Ma un viaggio lungo il corso originario del iume rivela quanto è costato ottenere questi suc-cessi.

L’esile ruscelletto marrone formato dal-le acque di scolo è ingrossato da acqua sa-lata proveniente da sorgenti inadatte all’uso domestico e all’irrigazione. Questa miscela maleodorante scorre per una decina di chi-

Nelle pagine precedenti, un centro termale sul mar Morto. Sopra, il Gai beach resort, sul lago di Tiberiade. A destra, un bambino palestinese gioca in un cana-le ad Al Auja, in Cisgiordania. Sotto, una serra palestinese vicino a Gerico.

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lometri in territorio israeliano, ino al con-ine con la Giordania, dove si mescola con le acque del iume Yarmouk, il più grande aluente del Giordano.

La vittoria del 1967Molti, tra cui l’ex premier israeliano Ariel Sharon, considerano la guerra dei sei giorni del 1967 il primo conlitto per l’acqua del mondo moderno, innescato dalle rivendi-cazioni di diversi stati sulle acque del Gior-dano, che Israele aveva cominciato a pom-pare tre anni prima. Con la vittoria militare, Israele ha consolidato il suo controllo sulle risorse idriche della regione. Tracciando con un dito su una mappa il profilo delle alture del Golan, che Israele ha sottratto

alla Siria, si delinea il bacino del iume Gior-dano. Inoltre, nel sottosuolo della Cisgior-dania, che Israele ha strappato alla Giorda-nia, si trovano la più grandi falde acquifere della zona.

Dal loro lato del confine, Giordania e Siria hanno fatto lo stesso: dalla ine della guerra dei sei giorni hanno stretto il con-trollo sulle risorse idriche nei loro territori. Il trattato di pace del 1994 tra Israe le e Gior-dania conteneva clausole sulla gestione delle acque in comune, ma i iumi sono sta-ti penalizzati. Poco prima della conluenza tra lo Yarmouk e il Giordano, un imponente impianto idroelettrico sorge a cavallo degli argini dell’aluente. È la prova che un tem-po lo Yarmouk era in grado di fornire molta

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energia. “Oggi non farebbe girare neanche la ruota di un criceto”, dice Mira Edelstein dell’associazione Friends of the earth Mid­dle East (Foeme), che ha promosso una campagna per salvare il iume.

La corsa all’acqua ha ridotto la portata del Giordano a meno del 2 per cento di quel­la originaria. La vegetazione d’acqua dolce è scomparsa ed è stata sostituita da piante resistenti all’acqua salmastra, ai liquami e alle acque di scolo dei campi agricoli. Il punto in cui Giordano e Yarmouk s’incon­trano è stato dichiarato “isola di pace”, una parte di territorio giordano che il governo di Amman ha liberato dalle mine e aperto ai turisti israeliani. Non ofre molte attrat­tive: un paio di guardie di frontiera annoia­te, una stazione ferroviaria art déco e la vi­

sta su un anemico fiume Giordano che scorre verso sud. Ma vale la pena di osser­varlo da qui, perché nei successivi cento chilometri, ino alla foce sul mar Morto, il corso d’acqua praticamente scompare. Chiuso da una recinzione che delimita una zona militare, segna il conine con la Gior­dania ed è, salvo rare eccezioni, inaccessi­bile. Il modo migliore per seguire il suo corso è mettersi in viaggio verso sud, co­steggiandolo sulla strada statale 90. Dopo un breve tratto caratterizzato dai campi agricoli, un checkpoint militare segna l’in­gresso in Cisgiordania. Nei Territori pale­stinesi il paesaggio si trasforma. Inizial­mente si vedono alcune aziende agricole ma quasi tutti i campi sono aridi. Brandelli di teli di plastica sventolano sugli scheletri

delle serre. Il iume è nascosto, perso negli avvallamenti. Dal lato giordano la presenza del corso d’acqua è evidente: su terreni co­lor verde scuro come gli spinaci, le serre sorgono in ila l’una dietro l’altra, a dimo­strazione della fertilità di questo suolo quando è irrigato. Sul lato palestinese della valle, invece, si nota soprattutto l’assenza dell’acqua. Quello che resta del iume è pro­tetto dal ilo spinato e gli agricoltori prendo­no l’acqua dalle sorgenti e dai pozzi che at­tingono alla falda. Nel resto del mondo, quando c’è la siccità i contadini guardano il cielo. In Cisgiordania guardano la terra.

Poco prima di raggiungere Gerico, la statale 90 incrocia il villaggio palestinese di Al Auja. Fino a una decina di anni fa, i con­tadini del luogo erano famosi per le loro

ReportageN

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all’università Al Quds. Mi mostra un campo arido, un bacino prosciugato e una stazione di pompaggio coperta di sabbia. Il Giorda­no è in fondo alla collina, dietro una recin­zione di ilo spinato. “Un tempo coltivava­mo le banane”, racconta. Uno dei suoi cam­pi conina con la proprietà di Imad Nussie­beh, che in passato gestiva la cooperativa delle banane. Proprietario di un pozzo poco profondo, Nussiebeh è uno degli agricolto­ri più fortunati del villaggio: l’acqua che attinge è troppo salmastra per coltivare frutta e ortaggi, ma va bene per crescere le erbe aromatiche e medicinali che ha co­minciato a esportare. “Di terra ne abbiamo quanta ne vogliamo. Ma siamo limitati dal­la mancanza d’acqua”, spiega. “Dirigo sem­pre la cooperativa ma non vendiamo più banane”.

La cosa più frustrante per gli abitanti di Al Auja è la relativa prosperità dei loro vici­ni. Nella zona sorgono varie colonie israe­liane, molte delle quali si sostengono con l’agricoltura. Per lunghi tratti la statale 90 è costeggiata da frutteti, vigneti e fattorie. Per irrigare le coltivazioni si usano acque di scarico riciclate, ma spesso viene usata an­che l’acqua che esce dalle condutture, e cioè da quei pozzi che secondo gli abitanti di Al Auja hanno prosciugato la sorgente.

In un certo senso la tensione tra le due comunità esempliica due diverse conce­zioni dell’acqua. Per gli israeliani è una ri­sorsa da conquistare, controllare e distribu­ire con parsimonia, un bene comune che dev’essere gestito dallo stato. Per i palesti­

nesi è un dono della natura, da dividere alla maniera dei loro antenati. Una civiltà ha inventato l’irrigazione a goccia, l’altra si af­ida principalmente ai sistemi di irrigazione a scorrimento. Una investe miliardi negli impianti di desalinizzazione d’avanguar­dia. L’altra ha a malapena un governo. Gli israeliani hanno perforato i pozzi vicino al­la sorgente per regolare il livello delle acque negli strati più profondi della falda. Quando è piena, si pompa l’acqua. Quando il livello scende, si aspetta che si riempia nuova­mente. L’acqua proveniente dai pozzi viene immessa nella rete israeliana, dove è razio­nata e venduta ai coloni e ai palestinesi.

Quattro volte tantoMa c’è una grande disparità tra le due parti. Israele controlla l’80 per cento dell’acqua nel sottosuolo della Cisgiordania, a cui ac­cede principalmente dalle sorgenti che si trovano nel suo territorio. Per impedire un eccessivo sfruttamento Israele ha posto se­vere restrizioni alla trivellazione di nuovi pozzi, mantenendo una situazione in cui i consumi idrici sono estremamente dise­guali. Un cittadino israeliano consuma in media il quadruplo dell’acqua di un palesti­nese, che ogni giorno ne riceve molto meno di cento litri (la quota minima stabilita dall’Organizzazione mondiale della sanità per definire un accesso ottimale all’ac­qua).

Questi due tipi di comunità non si limi­tano a vivere fianco a fianco. Gli insedia­menti hanno introdotto elementi di prospe­rità e modernità in uno scenario da terzo mondo. Israele può permettersi di investire capitali e competenze per fare arrivare la sua acqua ancora più lontano. I palestinesi

banane, un frutto tropicale che riuscivano a coltivare in un ambiente quasi desertico. Il villaggio sorge su una piana a valle di una sorgente montana, il cui lusso veniva accu­ratamente spartito tra le famiglie del luogo. In inverno i campi davano grano, in prima­vera ortaggi. In estate, quando il caldo tor­rido impediva le altre colture, i contadini convogliavano le acque nelle piantagioni di banane. Di recente, però, la produzione agricola è entrata in crisi. I contadini di Al Auja puntano il dito contro i pozzi israeliani che attingono alla falda in profondità e sot­traggono acqua alla sorgente. Il lusso d’ac­qua si è ridotto drasticamente e nei mesi estivi s’interrompe del tutto.

“Questa è la fattoria della mia famiglia”, dice Fayez Freijat, che insegna geografia

A sinistra, il Gai beach resort, sul lago di Tiberiade. Sopra, una serra abbandonata lungo la statale 90.

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no. Finché l’acqua di Al Auja sarà venduta a prezzi di mercato, i coloni israeliani – più ricchi, istruiti e con un migliore accesso ai mercati – saranno in grado di cavarsela me-glio dei loro vicini. Le case di Al Auja hanno l’acqua corrente, ma quello che manca è l’acqua per le coltivazioni. “I campi ad Al Auja sono aridi per tutti”, dice Nussiebeh. “Che può fare la gente? L’unica possibilità è lavorare negli insediamenti”.

Il dibattito su un’equa spartizione delle risorse idriche è uno dei tanti da afrontare per arrivare a una soluzione del conlitto. Per giustiicare le loro richieste, le autorità israeliane fanno leva sulla loro consuetudi-ne di usare le sorgenti e sulle esigenze di una società industrializzata. I negoziatori

palestinesi, invece, sostengono che l’acqua appartiene a loro per ragioni geograiche e di necessità. Ma più i tempi di un eventuale accordo si allungano, più il problema si ag-grava.

Rincorrendo il marePoi ci sono i cambiamenti climatici. Il iume Giordano inisce sulla punta nord del mar Morto, 422 metri sotto il livello del mare. Negli ultimi anni il Medio Oriente ha sop-portato una terribile siccità: un’allarmante anticipazione di quello che potrebbe succe-dere se le emissioni di gas serra continue-ranno a riscaldare il pianeta. Di conseguen-za nel mar Morto non arriva più una quan-tità d’acqua suiciente a compensare l’eva-

porazione e il punto più basso della Terra sprofonda di quasi un metro all’anno.

Gli effetti sono drammatici. Le acque che si ritirano lasciano dietro di sé gigante-sche voragini che rendono impraticabile gran parte delle coste. Anche le imprese meglio avviate faticano a tirare avanti. Le terme di Ein Gedi, dove i turisti vanno per fare i fanghi e i trattamenti con l’acqua sa-lata, sono in perenne costruzione. Oggi, per arrivare al mare i visitatori devono percor-rere almeno un chilometro in trattore. “Ogni anno dobbiamo correre dietro all’ac-qua”, dice il direttore Uri Pri-Gal.

Se, com’è prevedibile, i cambiamenti climatici renderanno più arido il Medio Oriente gli efetti devastanti si vedranno in

A destra, un impianto di depurazione dell’acqua in costruzione vicino a Gerico. Sopra, Yarendit, sul iume Giordano, dove si fanno battezzare i cristiani di tutto il mondo. Sotto, vicino a una sorgente sul monte Arbel, in Israele.

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tutta la regione. È già stato abbastanza dif-icile raggiungere un accordo tra le due par-ti sulla spartizione dell’acqua quando la ri-sorsa era stabile. Cosa succederà se comin-cerà a ridursi?

Nella Striscia di Gaza l’eccessivo sfrut-tamento della falda ha provocato l’inquina-mento dell’acqua. La Cisgiordania rischia un destino simile. Sono state segnalate tri-vellazioni illegali, ma il vero problema non è quello che si estrae dalla terra: è quello che rischia di inirci dentro. In una bella gola nel deserto, a poche centinaia di metri dalle rive del mar Morto, alcune falene bianche svolazzano sulle acque marroni di un ru-scello gorgogliante. Un odore fetido impre-gna l’aria. In questa regione le acque super-

iciali sono quasi inesistenti e un ruscello spesso non è altro che una fogna a cielo aperto. Israele tratta e riutilizza gran parte delle sue acque di scarico, e sollecita i colo-ni a fare altrettanto. Ma l’Autorità Palesti-nese ha un solo impianto di depurazione in tutta la Cisgiordania: una serie di bacini di sedimentazione che scaricano in un corso d’acqua a cielo aperto. Più del 90 per cento della popolazione palestinese scarica i li-quami in pozzi neri o direttamente nelle valli in secca. Queste acque di scarico non trattate rischiano di iniltrarsi nelle falde.

I leader politici israeliani, le autorità pa-lestinesi e la comunità internazionale con-cordano sull’urgenza del problema. Sono stati presentati diversi progetti ma sono fal-

liti a causa di dispute politiche e territoriali. Quanto più a lungo le due parti continue-ranno a litigare, tanto maggiore sarà il ri-schio di contaminazione della principale fonte di acqua potabile sia per gli israeliani sia per i palestinesi. E se non si arriverà a una soluzione in tempi brevi, potrebbe re-stare ben poco da contendersi. u eds

GLI AUTORI

Stephan Faris è un giornalista statunitense esperto di Africa e Medio Oriente. Collabora con Time e The Atlantic. Francesco Zizola è un fotografo italiano. Ha vinto sette premi World Press Photo. Le foto di questo servizio sono state scattate tra settembre del 2009 e maggio del 2010.

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All’arsenale classico del giornalista – astuzia, cre-dibilità e un minimo di abilità nella scrittura – Wang Keqin, 45 anni, ha aggiunto un elemento

tutto suo: la scatoletta di metallo macchia-ta di rosso che porta con sé a ogni intervi-sta. All’interno c’è una spugnetta intrisa di inchiostro scarlatto. Come un detective, il reporter raccoglie le dichiarazioni dei testi-moni e aggiunge in fondo alla pagina le loro impronte digitali, che indicano il loro con-senso.

È un segno della scrupolosità che l’ha fatto diventare il miglior giornalista inve-stigativo di tutta la Cina. E che gli ha per-messo di realizzare una serie di scoop con cui si è guadagnato una grande fama ma anche le minacce di morte da parte di grup-pi criminali e l’ostilità delle autorità. “Di solito ho a che fare con persone molto più potenti di me. Le prove devono essere schiaccianti”, dice picchiettando con il dito sulla sua scatoletta.

Ma a volte questa meticolosità non ba-sta. A maggio, dopo la pubblicazione di un’inchiesta di Wang sui legami tra una scorta di vaccini avariati e la morte e i gravi danni alla salute di alcuni bambini della

provincia dello Shaanxi, il suo direttore al China Economic Times, Bao Yuehang, è stato licenziato e spedito a dirigere un gior-nale meno importante. È solo uno dei tanti casi che aiutano a capire lo zelo dei giorna-listi investigativi cinesi e le side che devo-no afrontare.

La carriera di Wang, dagli inizi come addetto alla propaganda ino al suo ruolo di reporter investigativo, rispecchia lo svilup-po dei mezzi d’informazione in Cina. A me-tà degli anni ottanta Wang ha lavorato co-me funzionario pubblico nella provincia occidentale del Gansu: “Una rapidissima scorciatoia per la ricchezza e il prestigio”, ha detto in un’intervista rilasciata prima che scoppiasse il caso dei vaccini. Il repor-ter ha descritto così il suo lavoro di propa-ganda: “Eravamo come ragionieri che la-voravano con passione sotto la guida del

Partito comunista”. Per arrotondare lo sti-pendio scriveva qualche articolo per alcuni giornali locali.

Ma quando gli abitanti del posto aveva-no cominciato a parlargli dei loro problemi, Wang aveva provato un senso di colpa. “Mi accoglievano con entusiasmo nelle loro ca-se, mi raccontavano le loro esperienze e mi guardavano pieni di speranza. Avevo vent’anni ed era la prima volta che qualcu-no mi dedicava tanta attenzione: mi sem-brava di avere una grande responsabilità, e mi sono sentito in dovere di raccontare le loro storie”. Nel 2001 Wang era diventato il “giornalista più costoso della Cina”. Una deinizione che non ha niente a che fare con il suo stipendio o con il suo stile di vita: ancora oggi, lavora in un piccolo ufficio nell’anonima sede del suo giornale alla pe-riferia di Pechino. Il riferimento, invece, è alla taglia esorbitante messa sulla sua testa dopo che ha denunciato le transazioni ille-cite sui mercati inanziari locali. Poco tem-po dopo un altro articolo ha scatenato la reazione delle autorità locali e gli è costato il lavoro.

Rossi e neri“Avevo dei problemi sia con i neri (la maia) sia con i rossi (lo stato)”, dice Wang. “Avevo sentito dire che era stata creata una squa-dra investigativa speciale con l’obiettivo di sbattermi in prigione”. Evitato da amici ed ex colleghi, Wang è stato salvato da un in-tervento straordinario. Un rapporto sul suo caso, scritto da un impiegato dell’agenzia di stampa statale Xinhua, era arrivato ino al primo ministro di allora, Zhu Rongji, che era intervenuto in favore di Wang. Tutto questo è successo durante quella che per molti reporter cinesi è stata l’età dell’oro del giornalismo, quando una stampa sem-pre più coraggiosa ha cominciato a portare alla luce scandali e abusi di potere. Ma nel 2004 le autorità hanno dato un giro di vite, impedendo ai giornali di coprire zone di-verse da quella dove ha sede la redazione. Anche se questi divieti sono spesso ignora-ti, secondo i giornalisti hanno comunque permesso ai funzionari pubblici di intral-ciare le ricerche e di frenare la difusione del giornalismo d’inchiesta.

“Oggi il giornalismo d’inchiesta è una ‘bestia rara’, oppressa non solo dal potere politico ma anche da quello economico”, dice Qian Gang, ex direttore del quotidiano progressista Southern Weekend e ora im-pegnato nel China media project dell’uni-versità di Hong Kong. Secondo alcuni, ne-gli ultimi anni perino gli organi d’informa-zione statali hanno oferto una difusione

Wang Keqin L’impronta del reporter

È il più importante giornalista investigativo della Cina. Le sue inchieste hanno fatto infuriare governo e criminali, che hanno messo una taglia sulla sua testa

Tania Branigan, The Guardian, Gran BretagnaIllustrazione di Ale+Ale

◆ 14 novembre 1964 Nasce nella provincia cinese del Gansu.◆ anni ottanta Lavora per alcuni anni come funzionario pubblico, iscritto al Partito comunista.◆ 1989 Entra nella casa editrice Gansu Economic Daily e comincia a lavorare come reporter. ◆ 2001 Viene deinito il “giornalista più costoso della Cina”, per la taglia messa sulla sua testa dopo le inchieste sui mercati inanziari locali.◆ 2002 Entra al China Economic Times e realizza numerose inchieste. Collabora con il Journalism & media studies centre di Hong Kong.

Biograia

Ritratti

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più rapida e completa delle notizie, afron-tando anche argomenti delicati. Ma secon-do David Bandurski, un altro collaboratore di China media project, questa tendenza è solo il rilesso della strategia adottata dal governo per manipolare l’opinione pubbli-ca. Nel 2008, quando è scoppiato lo scan-dalo del latte in polvere contaminato, un giornalista frustrato ha scritto sul suo blog che il giornale per cui lavorava sapeva del pericolo ma non aveva potuto parlarne.

Anche se in alcuni casi Pechino favori-sce il giornalismo d’inchiesta, i reporter sono limitati dalla legge che li obbliga a parlare solo di fatti locali, spiega Bandur-ski. Eppure, i più coraggiosi si battono per avere maggiore spazio d’azione, e spesso lo ottengono. Quando il mercato è libero, la pressione della concorrenza stimola la ri-cerca di notizie scottanti. Li Datong, ex di-rettore della rivista Freezing Point licenzia-to nel 2006, ha detto che i mezzi d’infor-mazione possono muoversi più liberamen-te “non perché il governo ha allentato la presa, ma perché la società sta diventando complessivamente più matura”. Quando i terremoti hanno colpito il Sichuan, nel maggio del 2008, e il Qinghai, nell’aprile di

quest’anno, molti direttori di giornali han-no ignorato gli ordini che arrivavano dall’al-to e hanno inviato i loro reporter nelle zone colpite dal sisma. Inoltre, internet ha am-pliicato la voce dei mezzi d’informazione ufficiali. Molti giornalisti hanno aperto blog in cui pubblicano i dati censurati nei loro reportage.

Il regime cambia strategiaMa i reporter sanno che un piccolo errore di valutazione su questi limiti mutevoli può compromettere la loro carriera. E le side che devono afrontare sono sempre diver-se. Zhou Ze, un ex giornalista che ora fa l’avvocato e sta svolgendo un’indagine sul-le aggressioni isiche e sulle pressioni a cui è sottoposta la stampa, ha detto che una delle preoccupazioni principali nasce dalle tattiche sempre diverse con cui i funzionari pubblici afrontano le critiche. “Negli ulti-mi anni le autorità hanno moltiplicato le accuse di corruzione ed estorsione nei con-fronti dei giornalisti”, ha spiegato Zhou Ze. “Se un articolo viene deinito difamatorio, i lettori s’incuriosiscono e cercheranno di verificare. Di fronte all’accusa di essere corrotto o un ricattatore, invece, il giornali-

sta si trova in cattiva luce e perde l’appog-gio dei cittadini”. I lettori hanno buoni mo-tivi per essere sospettosi. In Cina la corru-zione è dilagante: gli stipendi dei giornalisti sono bassi e i compensi per chi partecipa alle conferenze stampa sono la norma. I giornalisti ricevono regolarmente bustarel-le da chi è interessato a insabbiare le notizie negative.

Questa tendenza ha prodotto un’ondata di “inti giornalisti”, che estorcono denaro con la minaccia di rivelare notizie scomo-de. Wang condanna questa pratica ma cre-de che il problema principale siano le “inte notizie”: la propaganda politica o economi-ca travestita da giornalismo.

In un paese dove i cittadini hanno po-che possibilità di costringere i potenti a rendere conto delle loro azioni, un giorna-lismo coraggioso e attendibile è fonda-mentale. Wang si è occupato di vari temi, dalle conische di terreni ai pericoli delle miniere ino alla difusione dell’hiv attra-verso le trasfusioni di sangue infetto. Zhou teme che sempre meno giornalisti avranno il coraggio di raccontare fatti del genere, e che a pagarne le conseguenze saranno i cittadini. u fp

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Viaggi

dall’autore del romanzo L’isola del tesoro. Da una decina d’anni si è aggiunto il Rebus tour che porta gli appassionati dell’ispetto-re alla scoperta dei suoi punti di riferimen-to, compresi quelli istituzionali come il commissariato di polizia di Saint Leo-nards. “In agosto ci sono due appuntamen-ti quotidiani, ma senza di me. Io mi limito a incontrare una volta all’anno uno degli organizzatori per aggiornare il circuito in funzione degli ultimi libri”, commenta lo scrittore.

Rankin frequenta l’Oxford bar da molto tempo e ha conosciuto il fondatore del pub. Un vero personaggio, che si rifiutava di servire gli inglesi e non amava vedere nel suo pub donne e studenti. “Si tratta di un posto molto spartano, frequentato dalla classe operaia. Questo pub mi piace, per-ché quando l’ho conosciuto era un posto pieno di poliziotti. E anche perché rappre-senta una metafora del segreto”.

Cantine oscureEdimburgo ha un rapporto ambiguo con il segreto: la città svela volentieri quelli del passato, quelli che si nascondono nella parte sotterranea. Cantine oscure come tombe dove ci si rifugiava durante le epide-mie del diciottesimo e diciannovesimo secolo. Un’umanità povera e persa. Labi-rinti dove le disgrazie hanno colpito così spesso da influenzare l’immaginazione degli abitanti, piena di streghe e fantasmi. Per una decina di sterline, alcune guide dall’accento impossibile ti portano sotto-terra a visitare questi luoghi maledetti, pieni di umidità, corrosi dal vizio e dai cri-mini del passato. Dove si sono consumate vite concluse in prigione o sulla forca. Sto-rie terribili di destini condannati in dalla nascita, come quello di una prostituta di buon cuore che uccide un magistrato pe-doilo e che inisce con la corda al collo.

Il pub The last drop (l’ultima goccia) in piazza Grassmarket, dove un tempo ese-guivano in pubblico le condanne a morte,

Ian Rankin fa una smoria. Fino a quel momento è stato convinto che l’Oxford bar, il suo pub prefe-rito fosse ignorato o comunque lontano dai circuiti turistici. “Ca-volo!”, sbotta quando scopre che

questo posto da diversi anni è inserito tra i locali di Edimburgo raccomandati dalla Guide du routard sulla Scozia.

Il pub in sé non ha nulla di straordina-rio. Nella stanza più grande c’è il bancone, mentre nell’altra ci sono delle foto di Edimburgo in bianco e nero appese alle pareti. E la via dove si trova, Young street, è in una zona insigniicante che nelle sera-te di pioggia diventa triste. L’Oxford bar è entrato nelle guide del Routard anche per-ché è il posto preferito dell’ispettore John Rebus, il protagonista dei romanzi di Ran-kin.

Appena varcata la soglia si respira un’atmosfera familiare e qui si trova dell’ottima birra scozzese, come la Deu-chars, quella bevuta da Rankin. Una squil-lante risata femminile sovrasta tutte le conversazioni vicine. “Amusing woman”, commenta lo scrittore mentre legge le po-che righe dedicate al pub. “Non è una buo-na notizia. I clienti regolari non amano molto i turisti che vengono qui. Come quel-li del Rebus tour, che arrivano improvvisa-mente in gruppi di 15 persone, mitragliano il bar di lash e se ne vanno senza prendere neanche un bicchiere di birra”, spiega .

A quanto pare la capitale scozzese, do-ve sono nati Walter Scott e Robert Louis Stevenson, ama onorare i suoi scrittori. Da tempo c’è lo Stevenson tour, che porta i tu-risti alla scoperta dei luoghi frequentati

Le due facce di EdimburgoJean-Pierre Perrin, Libération, Francia

ha le pareti tappezzate di quadri che rai-gurano delle forche. Oggi Grassmarket è uno dei posti più apprezzati dai turisti. “Fi-no agli anni settanta il quartiere aveva la reputazione di essere un rifugio per poveri e vagabondi. Da allora il progressivo im-borghesimento della zona ha cambiato il panorama: negozi e locali alla moda hanno convinto i turisti a spingersi verso Victoria street e Candlemaker row”.

Se Edimburgo ama esibire il suo passa-

Con lo scrittore scozzese Ian Rankin nei pub e nei sotterranei della città. Il lato turistico e criminale della capitale scozzese

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scrive come una “piccola città tribale”. “Il lunedì sera era il giorno più tranquillo della settimana in tutti i pub del paese. La paga settimanale e le indennità di disoccupazio-ne erano già stati inghiottiti nelle spese del weekend”, scrive.

Ma gli abitanti non sono ostili nei con-fronti dello scrittore. Vicino all’entrata del-la città, c’è una serie di ville pretenziose che porta il suo nome. Nei suoi romanzi Rankin ha anche scritto della Rosslyn Cha-pel, quindici chilometri a sud di Edimbur-go. In seguito anche Dan Brown ha scritto di questo posto e delle sue storie, adattan-dole a volte in modo incoerente nel roman-zo Il codice da Vinci.

Oggi, a causa del successo del libro e del ilm di Ron Howard, questa cappella del quattrocento ha visto aumentare il nu-mero dei visitatori da novemila a 175mila all’anno. Eppure, anche se continua ad at-tirare le folle e i folli (c’è chi crede che ci sia seppellito Elvis, un altro ha cominciato a usare l’ascia, persuaso che qui sia nascosto il santo Graal), vale la pena venire in qui. Il sito è un capolavoro di rara bellezza. “Sono io ad averne parlato prima di Brown”, insi-ste Rankin.

Ma anche in questo importante luogo spirituale, il crimine non è mai lontano. A causa di una gelosia artistica, il capoma-stro uccise l’apprendista, colpevole di aver creato un pilastro più bello del suo. E in se-guito fu condannato a morte. Inoltre la leg-genda vuole che il posto sia infestato dai fantasmi, almeno otto. Anche qui il dottor Jekyll convive con mister Hyde. Il poeta scozzese Hugh MacDiarmid scriveva: “Edimburgo è il sogno di un dio pazzo / Capriccioso e maleico”. u adr

to nero trasformandolo in attrazione turi-stica, non si può dire lo stesso per il suo presente criminale.

“Attraverso le indagini dell’ispettore Rebus cerco di spiegare com’è veramente Edimburgo. Non esiste modo migliore del-le indagini di un detective per descrivere una città, per scoprire tutti i suoi aspetti. In realtà ci sono due Edimburgo, una turisti-ca, città di cultura e storia, e l’altra fatta di crimine, droga e disperazione. Dopo tutto

è la città del dottor Jekyll e mister Hyde”, spiega Rankin.

Il posto della città dove il dottor Jekyll è più vicino a mister Hyde è probabilmente il quartiere di Leith. Il vecchio porto, famoso per i suoi dock malfamati e le sue baracche, è diventato uno dei posti più alla moda del-la città. I ristoranti sono tanti, ma piuttosto cari. Tra questi c’è il The ship on the shore, sui dock, che propone un delizioso formag-gio di capra cotto coperto di odori e alcuni pesci a un prezzo abbordabile, soprattutto a pranzo. Come sottolinea Rankin, “a Leith ci sono tre ristoranti segnalati dalla guida Michelin, ma basta spostarsi di venti metri per trovare l’altra Edimburgo, quella dei pub malfamati”.

Passato minerarioRankin vive nella contea di Fife, una gran-de lingua di terra in mezzo al mare. In que-sto ex regno, separato da Edimburgo da un braccio di mare e collegato alla città con un grande ponte, ci sono dei posti molto belli: come la cittadina di Saint Andrews, a lungo capitale religiosa della Scozia, con la nera sagoma della sua cattedrale sulle rive del iume, o il borgo di Falkland dove il tempo si è fermato e non è più ripartito.

Rankin però abita nel versante minera-rio, a Cardenden. I pozzi sono chiusi da molto tempo e oggi la loro esistenza è testi-moniata solo da un piccolo museo. Ma il paese minerario continua a mostrare evi-denti segni di depressione, come testimo-niano i negozi chiusi e i grandi magazzini di vestiti a buon mercato. “È una cittadina che ha una cattiva reputazione. Qui ci sono bande di giovani”, insiste un cameriere sui vent’anni. Nei suoi romanzi, Rankin la de-

u Arrivare. Il prezzo di un volo dall’Italia (Lufthansa, British Airways, Klm) per Edimburgo parte da 169 euro a/r. Con date lessibili di partenza e arrivo, Ryanair ofre voli di andata e ritorno a partire da 42 euro, tasse escluse.u Mangiare. Il menù del ristorante The ship on the shore (0044 131 555 0409, 24-26 Shore, Leith), nella zona del porto, ofre soprattutto specialità di pesce. Sul sito (theshipontheshore.co.uk) si possono vedere i piatti del giorno e i relativi prezzi.

u Pub. Sul sito dell’Oxford bar (oxfordbar.com) è possibile fare un tour virtuale del locale. In rete ci sono diverse guide con le recensioni sui migliori pub della città (edinburgh.pubs.freeuk.com; oppure

edinburgh-pubs.co.uk)u Guide. Il sito dell’uicio del turismo (edinburgh.org) è ricco d’informazioni: alberghi e bed and breakfast, ma anche festival cittadini ed escursioni.u Leggere. Anthony O’Neill, Il lampionaio di

Edimburgo, TEA 2006, 8 euro.u La prossima

settimana. Viaggio a Los Angeles. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife aeree, posti dove mangiare, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

G R A N B R E TAG NA

100 km

Scozia

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Maredel Nord

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High

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Edimburgo

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Graphic journalism

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Elvire Caillon è un’autrice di fumetti nata a Parigi nel 1989.

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Arte

“T utte le mattine quando ascolto il giornale radio o leggo i quotidiani, ho l’impressione di vivere in un incubo. A Milano, do-

ve vivo, ogni sera dopo le undici e mezza c’è una sorta di coprifuoco militare a causa dell’immigrazione. In Italia va tutto male. La mia unica speranza è di riuscire a trasfe-rirmi all’estero”.

Incontriamo Vincenzo Latronico ai pri-mi di novembre ad Artissima, la iera d’arte contemporanea di Torino, dov’è stato invi-tato per organizzare una mostra sulla lette-ratura. Questo scrittore di 26 anni sembra

brillante e pieno di idee ma allo stesso tem-po è stanco e disincantato. Nel suo roman-zo d’esordio, Ginnastica e rivoluzione (Bom-piani 2008), descrive una generazione di-sgustata dal berlusconismo e profonda-mente delusa dal mondo politico.

La storia, spiega Latronico, si svolge nel 2001, poco prima del G8. Alcuni studenti italiani politicamente impegnati decidono di andare a Parigi, “la città del maggio ’68”, per preparare la manifestazione di Genova. Ma iniscono per essere assorbiti soprattut-to dalle loro vicende sentimentali e da este-nuanti discussioni che non portano a nulla. Il loro impegno comincia a vacillare e quan-do il romanzo inisce non si sa se i nostri eroi andranno a Genova o meno.

Questo stato d’animo è comune a molti giovani artisti della cosiddetta “non scena” italiana. Sparsi per il mondo, fuggiti a Ber-lino, New York, Parigi o Amsterdam, i gio-

vani artisti italiani sono costretti a lasciare un paese in cui la creatività non ha speran-za. Mancano le strutture, i mezzi, i musei e il sostegno economico. L’università è un’istituzione elitaria e deve anche fare i conti con la politica di destra del governo.

“La destra populista conduce una cam-pagna molto dura contro i diritti civili, con-tro le rivendicazioni femministe, contro l’immigrazione”, spiega Alessandro Rabot-tini, giovane curatore della Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo (Gamec). “Anche l’arte contemporanea è minacciata, accusata di essere incompren-sibile e lontana dai ‘veri’ bisogni della gen-te. La nomina di Vittorio Sgarbi come cura-tore del padiglione italiano della prossima biennale di Venezia è il frutto di questa lo-gica. È una vergogna per l’Italia”.

Diaspora all’italianaIn piena crisi, questa diaspora si ritrova al centro del nuovo panorama internazionale dell’arte contemporanea. Un paradosso all’italiana. Lo dimostra la rivista Kaleido-scope, gratuita e indipendente, italianissi-ma ma pubblicata integralmente in inglese, difusa in tutto il mondo dell’arte: in appe-na due anni si è imposta come un impor-tante punto di riferimento della giovane scena internazionale. La nuova generazio-ne si sta afermando a tutti i livelli – case

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Costretti a cercare lavoro all’estero, i giovani artisti italiani dimostrano un’incredibile vitalità

Splendida forma

Jean-Max Colard e Judicaël Lavrador, Les Inrockuptibles, Francia

Cultura

L’installazione di Lara Favretto Plotone, in mostra a Grenoble

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editrici, gallerie d’arte, critici e un esercito di curatori di mostre – attraverso relazioni internazionali, strategie individuali ma an-che un’efettiva solidarietà, e sembra avan-zare in modo collettivo.

“La forza di questa generazione è che non è solo italiana”, commenta Francesco Manacorda, che vive a Londra dal 2001 e che a gennaio del 2010 è diventato diretto-re di Artissima.

La iera Artissima di Torino si conferma all’avanguardia e molto seria, come tutta la giovane scena artistica. Quest’anno, però, dal punto di vista commerciale è stata poco dinamica: “Forse la crisi economica in Ita-lia è arrivata più tardi”, commenta Mana-corda, “ma è lenta e profonda”. Così, ac-canto agli stand delle gallerie, e quindi fuori dalle rotte commerciali della iera, il direttore di Artissima ha fatto installare un’immensa struttura di materiali riciclati per accogliere mostre sulla danza, sul cine-ma e sulla letteratura: “Si tratta di un mu-seo eimero e ideale, come un sogno, aper-to a tutte le discipline e alla loro unione, come raramente se ne vedono in Italia”, spiega.

“Gli artisti italiani hanno dovuto impa-rare ad arrangiarsi per conto loro”, com-menta Andrea Villani, nuovo direttore del-la Galleria civica di Trento. “Ma in realtà già negli anni ottanta e novanta erano nati

dei modelli di autogestione alternativi per compensare la mancanza di strutture”. Rabottini sottolinea che “la maggior parte dei progetti più ambiziosi e più innovativi si deve all’intraprendenza di addetti ai la-vori con delle idee e mai all’iniziativa dello stato. Questa creatività individuale è al tempo stesso la nostra forza e la nostra di-sgrazia”.

La festa è initaC’è un’altra caratteristica di questa brillante scena artistica, a cui il centro espositivo Le Magasin di Grenoble dedica la mostra Sin-

drome italiana (ino al 2 gennaio 2011, ma-gasin-cnac.org): la marcata predilezione per un’arte che riiuta la festa e lo spettaco-lare, in particolare dall’inizio della crisi eco-nomica, nel 2008. Evidentemente dopo vent’anni di “telegerontocrazia” berlusco-niana e di fallimenti politici della sinistra, gli artisti hanno inalmente preso le distan-ze, nella vita come nelle loro opere, dall’at-tualità italiana.

La dimensione politica nei loro lavori – ripiegati su se stessi, permeati di un reale intellettualismo e profondamente inluen-zati dal cinema e da igure come quella di Pier Paolo Pasolini – è lontana, indiretta, espressa attraverso atteggiamenti e forme più ricercati che letterali.

Come il blocco di coriandoli bianchi messi sul pavimento del Magasin dalla bra-vissima Lara Favaretto: un blocco duro e compatto che si sbriciola nel tempo. Questa

scultura decisamente fredda non evoca nessun “miracolo all’italiana”, nessun car-nevale di Venezia.

Nel frattempo un artista svetta su tutti con il suo genio indecente: Maurizio Catte-lan. Fuggito a New York molto presto, il più intrepido degli artisti italiani ha giocato con il mercato dell’arte in modo sfacciato e qua-si cinico, facendo da modello per le giovani generazioni. È inito il tempo dei gruppi e dei movimenti, adesso è arrivato il momen-to delle strategie individuali.

Un modello di provocazioneCerto, seguire il suo esempio non è facile, e dopo di lui gli artisti preferiscono sperimen-tare forme d’arte meno provocatorie e spet-tacolari. Le polemiche non sono mancate anche per la sua ultima opera: un’immensa mano che fa il saluto romano davanti alla borsa di Milano. Ma le dita sono tagliate e rimane solo il medio, come un enorme “fuck” rivolto agli agenti di borsa milanesi. O forse l’opera vuole suggerire che è il mon-do della inanza a mandarci a quel paese.

Scandalizzato, il direttore della borsa di Milano ha chiesto al sindaco di rimuovere la scultura. Cattelan ha risposto ofrendo la statua alla città purché rimanesse dov’è. Un regalo avvelenato da un milione di euro, impossibile da riiutare. Insomma, Cattelan ha usato il suo potere di artista e la sua quo-tazione sul mercato per imporre una scultu-ra molto provocatoria e critica in uno spazio pubblico. Chapeau! u adr

Cultura

Le Magasin, dopo la performance di Manuel Scano, United (False alarm)

Arte

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Cultura

Cinema

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

stanno tutti bene 11111 - 11111 11111 11111 - - - 11111 11111 11111

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harry potter… 1111111111 - 11111 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

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Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana lee marshall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen International.

NOI CREDEVAMO

Di Mario Martone. Italia/Francia 2010, 170’

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Il risorgimento è stata una ri-voluzione o l’uicio relazioni esterne di un’operazione poli-tico-diplomatica mai vera-mente popolare? Il ilmone di Mario Martone, nato per la tv e poi ridotto per le sale cine-matograiche, cerca di porre la questione, ma si perde fra tra-me e sottotrame, digressioni e caratteristi, abbozzando delle idee ma non portandole quasi mai a termine. Il problema principale di queste tre ore e mezza è il fatto che riducono il risorgimento a una telenovela colta ma purtroppo sceneg-giata senza molta abilità. Alla ine l’aspetto più interessante del ilm (che ho visto e sofer-to a Venezia) è stato il fatto che diversi colleghi italiani mi hanno chiesto cosa ne pensas-si. Forse erano meravigliati che un inglese fosse arrivato ino alla ine, sicuramente molti di loro indecisi su che posizione prendere. Perché al-la ine Noi credevamo non è tanto un ilm, quanto la messa in scena del complesso di una nazione mai completamente sicura di essere tale (e parlo da cittadino di una nazione che di complessi ne ha tanti, non ultimo quello di come cavolo si chiami). Comunque il ilm è stato utile. Mi ha permesso di conoscere dei personaggi sto-rici che ho il brutto vizio di as-sociare a strade e piazze e non a persone: Mazzini, Poerio, Crispi e altri ancora.

l’aumento delle sovvenzioni statali ai ilm messicani inisce per favorire le copie pirata Dal 2000 a oggi il numero dei ilm prodotti in Messico ogni anno si è triplicato (oggi sono 70). Merito dell’incremento dei contributi statali, tra sov-venzioni e sgravi iscali. Non siamo ancora tornati all’epoca d’oro, tra il 1940 e il 1955, quando il Messico produceva cento ilm all’anno. Ci siamo vicini, ma i conti del cinema messicano sono in rosso.

Solo un decimo delle pelli-cole prodotte va in pareggio. Nel 2009 solo un ilm ha in-

cassato più di 50 milioni di pe-sos (un ilm d’animazione, Otra película de huevos y un pol-lo). Eppure il pubblico messi-cano è il quinto al mondo (e può contare su 4.500 schermi, il doppio che in Brasile). Come se non bastassero la pirateria dilagante, che azzera i guada-

gni dei ilm in dvd, e un merca-to di diritti tv dominato dai network, le pellicole messica-ne devono vedersela anche con lo strapotere dei prodotti hollywoodiani, spesso migliori per qualità. Ai budget sempre più alti dei ilm locali, infatti, non sempre corrisponde un prodotto all’altezza. Secondo l’Instituto mexicano de cine-matografía, che elargisce i contributi, la domanda non manca. Basterebbe incentivar-lo, magari con biglietti sconta-ti e distribuzioni più ampie, in-vece di lasciare il campo libero alla pirateria che guadagna so-prattutto con i ilm messicani.the economist

Dal Messico

Paradossi dell’industria

otra película de huevos…

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In uscita I DUE PRESIDENTI

Di Richard Loncraine. Con Michael Sheen, Dennis Quaid, Hope Davis. Gran Bretagna/Stati Uniti 2010, 89’●●●●● Ambientato dopo l’elezione di Tony Blair (Michael Sheen) a primo ministro della Gran Bre-tagna, I due presidenti punta l’obiettivo sul rapporto speciale di Blair con Bill Clinton (Dennis Quaid). Tra Tony e Bill si crea immediatamente un legame molto stretto, ma poi sul più bel-lo scoppia lo scandalo di Moni-ca Lewinsky. E così, dopo il ilm tv The deal, che approfondiva la rivalità tra Blair e Gordon Brown, e The queen in cui il pre-mier, appena eletto, afrontava la sua prima crisi, siamo giunti al terzo episodio (sceneggiato da Peter Morgan). E come in un altro celebre terzo episodio, ve-dremo il nostro eroe abbraccia-re deinitivamente il lato oscu-ro. Il tema di fondo è come i rap-porti personali possono inluen-zare la politica. Perciò Morgan, e il regista Richard Loncraine, si sono concentrati anche sulle di-namiche di altri due rapporti “speciali”: quello tra Tony e Cherie (Helen McCrory) e quel-lo tra Bill e Hillary (un’eccellen-te Hope Davis). Ovviamente il caso Lewinsky diventa un ele-mento centrale: Blair, in un pri-mo momento si lascia prendere dall’ossessione di Clinton a la-sciare una traccia per i posteri, lentamente scivola a destra e monopolizza il palcoscenico della politica internazionale. Le

interpretazioni sono tutte note-voli ma il passo svelto, imposto dalla necessità di sintetizzare tanti avvenimenti in novanta minuti, lascia con il dubbio che forse il formato della miniserie sarebbe stato più adatto. Uri Klein, Ha’aretz

CYRUS

Di Jay e Mark Duplass. Con John C. Reilly, Marisa Tomei, Jonah Hill. Stati Uniti 2010, 92’●●●●● Cyrus è una commedia grade-volmente folle, divertente e a modo suo un po’ misteriosa. Al centro del ilm c’è un triangolo. John (John C. Reilly) a sette anni dal suo divorzio è ancora un’ani-ma persa. In più la sua ex moglie (Catherine Keener) sta per ri-sposarsi. Forse proprio per que-sto John cerca di convincersi che c’è da qualche parte una sua ani-ma gemella e, all’improvviso, conosce Molly (Marisa Tomei), una donna che sembra uscita dai suoi sogni: intelligente, gen-tile, bella e sexy. L’unico proble-ma è la sua complicata relazione con il iglio di 21 anni, Cyrus (Jonah Hill) che abita ancora con lei. I fratelli Duplass riesco-no a tenere sotto controllo la pellicola instillando un senso di pericolo imminente anche gra-zie alle brillanti performance degli attori. Non sorprende più di tanto nel caso dei navigati Reilly e Tomei. Particolarmente ben riuscito però è il personag-gio che dà il titolo al ilm. Jonah Hill, una presenza più o meno costante nelle commedie adole-scenziali degli ultimi tre anni, si dimostra un maestro dell’ambi-guità. Riesce a darci sempre la sensazione che ci sia un abisso tra quello che Cyrus dice e quel-lo che realmente intende. E in fondo è questo il tono generale del ilm. In supericie Cyrus è una farsa divertente che sarebbe piaciuta anche a Feydeau. Ma più in profondità si nascondono delle domande su come l’onestà e il candore (e l’odio che nasce spontaneo tra alcune persone)

possano cambiare le nostre vite.Joe Morgenstern, The Wall Street Journal

IN UN MONDO MIGLIORE

Di Susanne Bier. Con Markus Rygaard, William Jøhnk Nielsen. Danimarca 2010, 100’●●●●●

Dopo una lunga parentesi statu-nitense Susanne Bier torna in Danimarca per regalarci un’al-tra ricchissima e sfaccettata analisi delle dinamiche familia-ri e di quel ilo aggrovigliato che può essere la comunicazione tra gli esseri umani. Collaborando con il suo fedele sceneggiatore Anders Thomas Jensen, Bier, con il suo solito stile stimolante e rilessivo, s’interroga sul paci-ismo e sulla violenza passando da un ristretto contesto familia-re a un contesto internazionale. Anche se probabilmente il ilm non è potente come Dopo il ma-trimonio, il pugno nello stomaco arriva forte e chiaro. Il ilm si apre su Anton (Mikael Per-sbrandt), un medico impegnato in una missione umanitaria in Africa dove aiuta le persone tor-turate da un signore della guer-ra. Nel frattempo in Danimarca, suo iglio Elias viene preso di mira da un teppista della scuola che frequenta. Christian, nuovo arrivato in classe e da poco orfa-no di madre, non sopporta que-sti atti di bullismo e, insieme a Elias, pensa a come vendicarsi del teppista. La tragedia è in ag-guato. Bier è molto brava ad al-zare e abbassare il tono del ilm, che tuttavia, a tratti, sembra un po’ troppo denso di avvenimen-

ti e rilessioni. Ma grazie al suo stile asciutto di regia e a un cast che funziona molto bene, non corre il rischio di scadere nel melodramma.Michael Rechtshafen, The Hollywood Reporter

Ancora in salaINCONTRERAI L’UOMO DEI TUOI SOGNI

Di Woody Allen. Stati Uniti/ Spagna 2010, 98’●●●●●

Una coppia di anziani si separa dopo quarant’anni di matrimo-nio. Anche la loro iglia e il mari-to cominciano a guardarsi intor-no. Nessuno dei personaggi sembra soddisfatto di quello che ha. Tutti cercano qualcosa di più ma, con un’unica, ironica ecce-zione, iniranno con qualcosa in meno. Woody Allen ha fatto ilm che echeggiavano Čechov o Bergman: qui dà un morso a Balzac. Il mondo è dominato dall’egocentrismo e dalla me-schinità e quasi tutto quello che facciamo inisce in inima farsa.David Denby, The New Yorker

TORNANDO A CASA PER NATALE

Di Bent Hamer. Norvegia/Svezia/Germania 2010, 90’●●●●●

Alla ine Bent Hamer e il popo-lare outsider della letteratura norvegese Levi Henriksen si so-no incontrati, dando vita a un ilm insolito e sentimentale, complesso e ricco di dialoghi. La sera di Natale i destini di vari personaggi s’intrecciano in una trama ambiziosa che Hamer di-rige con mano sicura. Ci trovia-mo nel microcosmo descritto nei racconti di Henriksen. Ha-mer, così come Henriksen, non ha paura di essere sentimentale. E il ilm ci guadagna. La sua qualità maggiore è nell’esaltare i dettagli e i piccoli momenti. Hamer è bravo in questo, forse unico nel cinema norvegese.Kjetil Lismoen, Aftenposten

THE SOCIAL NETWORK

Di David Fincher (Stati Uniti, 121’)

IL MIO NOME È KHAN

Di Karan Johar (India, 128’)

PRECIOUS

Di Lee Daniels (Stati Uniti, 109’)

In un mondo migliore

I consigli della

redazione

I due presidenti

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Cultura

LibriItalieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Vanja Luksic, del quotidiano belga Le Soir e del settimanale francese L’Express.

CHIARA GAMBERALE

Le luci nelle case degli altri Mondadori, 392 pagine, 20,00 euro

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Ci sono romanzi che ci attira-no già dal titolo. In questo caso colpisce anche lo sguardo sof-ferto della ragazza in coperti-na. Forse perché è proprio at-traverso lo sguardo di Man-dorla, una bambina rimasta orfana della mamma, ragazza-madre e amministratice di un condominio, che scruteremo “quelle luci”. In una di queste case vive suo padre. È questo che la madre, morta in un inci-dente stradale, le ha lasciato scritto in una lettera-testa-mento: Mandorla è iglia di qualcuno che “forse per noia forse per curiosità” ha fatto l’amore con lei nell’ex lavatoio del palazzo di cinque piani di via Grotta Perfetta 315. Non si sa chi sia, perché le famiglie del palazzo hanno deciso di crescere la bambina tutte in-sieme. È il presupposto per un romanzo corale, con le luci e le ombre di queste famiglie, composite come lo sono quelle di oggi. Mandorla sperimente-rà così la solitudine e la nevro-si della zitella del primo piano, l’unica che si sarebbe potuta sottrarre al “patto”, e l’ostina-to decoro borghese della fami-glia del quinto piano. La nor-malità della coppia gay del ter-zo e l’incomunicabilità più o meno latente delle altre due. E la sua grande paura sarà di non essere come gli altri. Perciò scrive poesie per chiedere agli oggetti di “fare a cambio”.

VIKTOR EROFEEV, EDUARD LIMONOV, VLADIMIR SOROKIN

Russian attack. Antologia di racconti russi Salani, 190 pagine, 14,00 euro

Per un assaggio di umori russi e modi di reagire ai nuovi poteri, i racconti raccolti in questo volume sono intriganti ed esemplari, e sanno praticare l’irriverenza e la provocazione con un senso dell’umorismo antico, ma reso più aggressivo dalla scoperta brutalità del nuovo capitalismo. Si veda, qui, la “lettera aperta” di Erofeev a

Putin che ha per titolo Accoppare gli scrittori nel cesso!

In realtà i tre autori sono accomunati solo dalla scontentezza e dalla difesa della libertà di dire e di criticare. Limonov, che fa anche politica in modi molto azzardati, è più bravo che simpatico. Sorokin, il più noto e “avanguardista”, è più scomodo che appassionante. Mentre il più stagionato Erofeev non ha afatto lo smalto di Mosca sulla vodka, che ce lo fece così amare a metà degli anni settanta, tradotto da Feltrinelli e vietato

in patria. Una cronologia aiuta il lettore a seguire la storia della nuova letteratura russa e delle sue disgrazie dal tempo di Gorbaciov a oggi. Intanto Sellerio continua a pubblicare il simpatico esule Dovlatov purtroppo defunto (La iliale, sentimentale e spiritoso ancora sui russi negli Stati Uniti), Voland insiste sanamente con Shishkin, Prilepin e Prigov (Eccovi Mosca resta una “guida” onirica e bizzara nel ilone dei grandi del passato), e Frassinelli con Ulickaja, buona erede di Čechov. u

Il libro Gofredo Foi

La carica dei russi

Dalla Gran Bretagna

Il garofano verde

Un libro autobiograico di Christopher Fowler vin-ce il primo premio lettera-rio britannico per gli scrit-tori omosessuali

Paperboy, di Christopher Fow-ler, racconta l’infanzia di un ragazzino solitario. Il libro ha vinto la prima edizione del premio letterario Green carna-tion, riservato a scrittori gay. Nelle periferie di Londra, negli anni sessanta, un bambino si divide tra la biblioteca e il ci-nema, rifugiandosi in un mon-do di parole anche per prende-re le distanze da una situazio-ne familiare di grande tensio-ne. Paperboy non è solo una “intelligente e ricca rievoca-zione di un tempo e di un luo-go”, come ha detto il presiden-te della giuria Paul Magrs, è

anche il resoconto della for-mazione di una sensibilità omosessuale e “la storia della crescita di un lettore e di uno scrittore, fantasioso e genero-so”. Magrs è il promotore del premio, il primo di questo ge-nere in Gran Bretagna.

Oltre a lui, in giuria c’erano Simon Savidge di Bent maga-zine, la scrittrice di gialli Le-sley Cookman, l’attrice Katy Manning e il blogger Nick Campbell. Benedicte Page, The Guardian

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Ilford, Londra

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TOM RACHMAN

Gli imperfezionistiIl Saggiatore, 364 pagine, 18,00 euro ●●●●●

Il protagonista dell’avvincente romanzo d’esordio di Tom Rachman è un giornale di cui non si fa mai il nome, pubblica-to a Roma ma scritto in inglese e spedito negli angoli più remo-ti della terra, dove ofre ai suoi isolati lettori l’unico collega-mento con il gran mondo. Il giornale è destinato al fallimen-to. La sua difusione, che non è mai stata esaltante, si è ridotta a poche migliaia di copie. I let-tori stanno ormai scomparen-do, e il giovane e inetto editore del giornale pensa che possa servire solo come vassoio di ci-bo per cani. E poi, per l’amor di Dio, non ha nemmeno un sito web! Gli imperfezionisti raccon-ta quello che succede quando dei professionisti si rendono conto che il loro mestiere non ha più signiicato agli occhi del mondo (come è stato per gli amanuensi) e che le uniche per-sone in grado di capirli sono sulla stessa barca destinata ad afondare. Abbiamo, in breve, una famiglia disfunzionale su scala allargata. Uno per uno, osserviamo i protagonisti nella loro tragicomica corsa in una ruota per criceti, tra speranze di felicità e ricadute nella solitudi-ne. È un’elegia per il giornali-smo vecchia scuola, sofusa di nostalgia per il mestiere per-duto.Louis Bayard, The Washington Post

FLORIANA ILISLa crociata dei bambiniIsbn, 832 pagine, 16,00 euro●●●●●

La crociata dei bambini afronta la perdita dell’innocenza, la perdita irreversibile, matemati-ca, implacabile. Una saga epica, mistica e satirica, raccontata contemporaneamente con le armi dell’utopia e del grande reportage. La trama, puramen-

te utopica, sembra tuttavia pre-sa dalla più scottante attualità: da Cluj parte un treno con a bordo dei bambini, diretto a una colonia estiva a Năvodari, sul mare. Gli scolari, ognuno con il suo dramma, guidati da un bambino di strada, nipote dell’“ultima strega” del quar-tiere di Ferentari, a Bucarest, prendono il controllo del treno. L’autarchico treno dei bambini supera il rapido di Bucarest (il treno degli adulti), nel quale si trova il giornalista più famoso del momento, accanto a una bella emigrante e a una donna in cerca del suo passato. Il mon-do intero è contenuto nei due treni che si superano e si tra-sformano, nel inale, l’uno nell’altro, preigurando il mo-dello virtuale di un mondo al-ternativo, che un programma-tore di computer dal nome ascetico proietta nel cyberspa-zio. Il romanzo di Florina Ilis non è dicotomico, anche se è forte la tentazione di contrap-porre “l’armata terrestre” all’“armata celeste”. Nell’inno-cenza dei bambini ritroviamo le miserie della vita adulta, le bu-gie, la vanità, l’indiferenza. Nelle anime messe a nudo dall’assurdità della situazione, gli adulti regrediscono, ricado-no nell’infanzia, perdono la lo-ro logica e invocano una memo-ria sepolta nello specchio che gli porgono i loro igli.Simona Sora, Dilema Veche

PETER BOGDANOVICH

Chi ha fatto quel ilm?Fandango, 1.320 pagine, 29,50 euro ●●●●●

Le interviste che Bogdanovich ha realizzato a partire dal 1960 con sedici grandi registi di Hol-lywood sono raccolte in un libro enorme e prezioso. Per molti di questi autori, si trattava dell’ul-tima occasione per far sentire la loro voce: Leo McCarey stava morendo di enisema, Raoul Walsh e Fritz Lang erano ciechi, Alfred Hitchcock era vicino alla

PATRICK MODIANO

Nel cafè della gioventù perduta (Einaudi)

FRÉDÉRIC MARTEL

Mainstream (Feltrinelli)

EDWARD RUTHERFURD

New York. Il romanzo (Mondadori)

SINAN ANTOON

Rapsodia irachena Feltrinelli, 112 pagine, 10,00 euro

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Le memorie del carcere conte-nute in questo libro sono, a quanto ci dice l’autore, immagi-narie, e non corrispondono alla storia vera di nessun prigionie-ro iracheno detenuto dall’appa-rato di Saddam Hussein. Eppu-re la sequenza convulsa di im-magini e il crescendo degli in-cubi nella cella di isolamento è realizzata con tanta convinzio-ne che Rapsodia irachena sem-bra una riproduzione in minia-tura delle soferenze dell’Iraq dai baathisti a Bush.

Un prigioniero sconosciuto – uno studente torturato e la-sciato a marcire nella sua cella – riceve all’improvviso carta e penna dai suoi carcerieri, che con tono befardo gli dicono: abbiamo sentito dire che sei uno scrittore, allora scrivi. Ma quegli stessi fogli non gli sono stati passati di nascosto anche da un amico misterioso che si fa chiamare Ahmad? “Ahmad” tornerà a salvarlo? A partire da ricordi “normali”, il detenuto di Antoon si destreggia in un caos crescente, eppure descrive il suo passato con tanta delicatez-za e con tanto vigore da farci di-ventare tutt’uno con lui nel suo nostalgico incubo inale, in cui ci auguriamo contro ogni possi-bilità che il protagonista, pro-prio come noi, si sia sottratto al presente. Infatti, Furat (perché questo è a quanto pare il nome del prigioniero) usa questi fogli per salvarsi la vita attraverso la scrittura, per ritrovare un senso attraverso la memoria. In segui-to saranno “recuperati” e archi-viati da un secondino.

L’ignoto scrittore, si legge nello sprezzante rapporto del funzionario, ha buttato giù un

Il romanzo

La prigione di Furat

guazzabuglio di lettere prive dei “puntini”: mancavano gli i’jaam, i punti diacritici che si aggiungono ai caratteri arabi per chiarimento, per fornire un contesto, per “illuminare”. Così l’agente annoiato aggiunge i “puntini”: il trionfo deinitivo dello stato sullo scrittore. Eppu-re siamo noi l’i’jaam conclusi-vo, noi che capiamo le parole di Furat. Lo stato non vince.

Verso la ine del libro appare una visione di lettere e caratteri che si sbarazzano dei propri puntini o ne sottraggono agli al-tri, che mangiano i puntini, fan-no l’amore in maniera illecita. Lo scrittore ha perso il senno, ma di certo queste lettere ribelli e nichiliste servono anche a ri-iutare la censura, il signiicato che lo stato vuole imporgli. La follia è sia la rivolta sia la ine di Furat. Per questo il manoscritto non ha segni diacritici.

Un personaggio inesistente può toccarci il cuore? La con-quista più grande di Antoon consiste nella sua capacità di scaraventarci nella vita vera, nell’esistenza di tutti i veri pri-gionieri sconosciuti dall’Iraq a Guantanamo. Judith Kazantzis, Banipal

I consigli della

redazione

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Sinan Antoon

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Cultura

Libriine e alcolizzato. Bogdanovich si interessa di tutto: storia, tec-nica, gossip, minuzie. Il libro comprende resoconti in prima persona di molti celebri aned-doti di Hollywood. Alcune delle storie più sconvolgenti del libro riguardano grandi ilm che per poco non sono stati rovinati. Hitchcock, per esempio, parla dell’idea del produttore David O. Selznick per il inale di Re-becca: “Voleva che la casa an-dasse in iamme, e che il fumo formasse la lettera R!”. Quella di Bogdanovich è una storia orale di un’arte che nasce dal pragmatismo, dall’istinto e dal-la fortuna. Roger Ebert, The New York Times

josé Luís peixoto

Il cimitero dei pianofortiEinaudi, 265 pagine, 15,00 euro

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Questa poetica saga familiare ha due narratori. Uno è Franci-sco Lázaro, un atleta portoghe-se che corre nella maratona alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912: ogni suo passo è accom-pagnato da estenuanti ricordi

che si alternano a quelli di suo padre (il cui nome non è rivela-to), un povero falegname di Li-sbona. Anche se padre e iglio sono, in modi diversi, lontani da casa, quel posto sembra esercitare una forza magnetica sui loro pensieri. Più in partico-lare, la maggior parte degli eventi chiave nella vita dei Lá-zaro sembra aver avuto luogo nel “cimitero dei pianoforti”, un ripostiglio polveroso nella bottega di famiglia. È qui che Francisco è stato concepito, ed è qui che lui stesso ha perso la sua verginità. Peixoto riesce, in meno di trecento pagine, a dar-ci l’impressione di aver trascor-so decenni con i Lázaro. Per il lettore, l’investimento emotivo in questa famiglia è inevitabile, e il inale è quasi insopportabil-mente commovente.Jake Kerridge, Financial Times

jens Christian GrøndahL

Quattro giorni di marzoMarsilio, 381 pagine, 20,00 euro

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Quattro giorni di marzo è la sto-ria di una madre di 48 anni che

guarda suo iglio scomparire nel mondo brutale degli adole-scenti. La donna si chiama In-grid, è un architetto, e ha la-sciato il padre di suo iglio per Frank, un uomo sposato e con vent’anni più di lei. Il romanzo, come suggerisce il titolo, è di-viso in quattro sezioni che cor-rispondono a quattro giorni, da giovedì a domenica. Seguiamo la vicenda attraverso gli occhi di Ingrid, ma anche attraverso le conversazioni con la madre giornalista e la nonna scrittri-ce: il romanzo si estende così su sei decenni, e diventa la sto-ria di tre generazioni. Che è per molti versi una storia di ri-petizioni: la storia di un deside-rio femminile che vuole qual-cosa di diverso e di più della maternità e della vita familia-re. A unire le tre generazioni il divorzio e dei bambini che si sentiranno traditi. È quasi co-me se il desiderio della donna fosse una forma di peccato ori-ginale, che si trasmette di ma-dre in iglia attraverso le gene-razioni.Lilian Munk Rösing, Danish Literary Magazine

L’unità d’Italia. Pro e contro il risorgimento a Cura di a. CasteLLi e/o, 141 pagine, 8 euro

Nel 1935 l’antifascista Andrea Cai pubblicò sulla rivista del movimento a cui apparteneva, Giustizia e libertà, un articolo in cui proponeva di farla inita con il mito di Mazzini. All’epo-ca Mazzini era considerato da molti il simbolo di una rivolu-zione italiana cominciata più di un secolo prima, che occor-reva riprendere e portare a ter-mine per reagire al trionfo mussoliniano. L’articolo scate-

nò un dibattito acceso tra i suoi compagni di strada (partecipa-rono tra gli altri Nicola Chiaro-monte e Franco Venturi).

Benché riferito a una que-stione lontana, metteva in luce la diferenza tra chi allora rite-neva che il fascismo fosse un fenomeno da combattere eli-minando il dittatore, e chi, co-me Cai, lo leggeva come il frutto di un problema più pro-fondo, legato a una disarticola-zione della società italiana che aveva radici più antiche. Il li-bro raccoglie i testi della di-scussione insieme ad altri arti-

coli che certamente Cai e i suoi interlocutori conoscevano bene, scritti da Piero Gobetti e da Gaetano Salvemini, a cui si aggiungono, per confronto, anche delle notazioni di Anto-nio Gramsci formulate negli stessi anni. Complessivamen-te la lettura consente di capire bene come il processo che por-tò all’unità conteneva già in sé elementi che si sarebbero ripe-tuti tante volte nella storia del nostro paese: speranze tradite, distanza tra classe politica e società civile, tendenze autori-tarie dietro l’angolo. u

non iction Giuliano Milani

echi del risorgimento

america Latina

juan pabLo ViLLaLobos

Fiesta en la madriguera Anagrama Tochtli vuole un ippopotamo nano della Liberia per il suo zoo privato. Suo padre, Yolcaut, un potente narcotraicante, è sem-pre disposto ad accontentarlo. Il romanzo racconta il folle viag-gio per soddisfare questo folle desiderio. Juan Pablo Villalobos è nato a Guadalajara, in Messi-co, nel 1973. Vive a Barcellona.

miGueL rep

200 años de peronismo PlanetaDuecento anni di storia argenti-na raccontati con molto umori-smo in poco più di 300 pagine e 280 disegni. Rep, scrittore e di-segnatore umoristico, è nato a Buenos Aires nel 1961.

GustaVo Ferreyra

Dóberman EmecéLa storia di Joaquín Riste, che da bambino era afascinato dai doberman. Diventato assistente di un alto funzionario del mini-stero degli esteri viene inviato in Polonia. Colpito da un esauri-mento nervoso, è ossessionato dai cani, dai comunisti e da un’attrice polacca. Ferreyra è nato a Buenos Aires nel 1953.

abiLio estéVez

El bailarín ruso de Montecarlo TusquetsInvitato a Saragozza per un con-vegno, Costantino Augusto de Moreas, studioso cubano, deci-de improvvisamente di prose-guire per Barcellona per vedere come si vive nella sua idolatrata Europa. Scoprirà che la realtà non è come la immaginava. Estévez è nato a Cuba nel 1954.Maria SepaA

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Fumetti

Colori di festa

BASTIEN VIVÈS

Nei miei occhiBlack Velvet, 136 pagine,

15,30 euro

Dopo Il gusto del cloro, il ventiseienne Vivès ci propone un nuovo tentativo di coniugare sperimentazione e accessibilità narrativa del fumetto popolare. Narra la storia perfetta per il Natale: l’approccio tra un ragazzo e una ragazza. Vediamo tutto, però, attraverso gli occhi di un lui che non appare mai. Sempre fuori campo. Raccontata per brevi lash corrispondenti ad altrettanti ambienti. sono impressioni che più impressionistiche non si può. Una festa dei colori per una metafora leggera sulla forza dell’amore ma anche sulla sua fugacità.

Sottotraccia il lettore troverà, come sempre con Vivès, un’interrogazione delicata sul vedere e sull’immagine, e sui momenti quotidiani di vuoto dell’esistenza. Sullo charme

(o il suo inganno?) di esseri che si sentono mediocri.

HUGO PRATT, MINO MILANI

L’isola del tesoroRizzoli Lizard, 176 pagine,

26,00 euro

Adattati negli anni sessanta da Pratt e Milani per il Corriere dei Piccoli, i due classici stevensoniani (l’altro è Il ragazzo rapito) vedono un Pratt ispirato, che rielabora e condensa con sapiente semplicità inluenze tra loro disparate.

TOVE JANSSON

Moomin e i briganti, vol. 1Black Velvet, 96 pagine,

17,10 euro

Colonna del Linus anni settanta, le strip nonsense della inlandese Jansson sono poesia pura adatta per tutti (o quasi). I protagonisti sono dei troll-ippopotami, bianchi come la neve, ectoplasmi eterei quanto umani.Francesco Boille

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Ricevuti

ANDY HAMILTON

Lee Konitz. Conversazioni sull’arte dell’improvvisazioneEdt, 368 pagine, 20,00 euro La storia umana e professionale del grande sassofonista jazz Lee Konitz attraverso alcuni temi chiave: il valore della melodia, l’idea delle variazioni su un tema e così via.

THIERRY JOUSSE

David LynchLindau, 103 pagine, 7,95 euroIl primo volume di una collana in uscita con i Cahiers du cinéma. Un’introduzione alla vita e all’opera del regista statunitense. Con fotograie dei set e la ilmograia completa.

MARTINO NICOLETTI

Nomadi dell’invisibile Exorma, 143 pagine + dvd, 23,50 euroTesti, pagine di diario, immagini fotograiche per narrare l’arcaico rituale del Chöd nel Bön Tibetano. Con un cortometraggio dell’autore, e un contributo di Franco Battiato.

ART SPIEGELMAN

Be a nose!Einaudi, 270 pagine, 30,00 euro Tre taccuini. Uno sguardo segreto al laboratorio di un grande artista contemporaneo.

FRANCESCA BORRI

Qualcuno con cui parlare. Israeliani e palestinesiManifestolibri, 159 pagine, 20,00 euroNelle interviste che compongono il volume, parlano donne e uomini israeliani e palestinesi dalle storie e dalle ferite più diverse, che, pur avendo attraversato le tragedie della guerra, continuano a sentirsi soprattutto persone.

SERGIO STAINO

A chi troppo e a chi nienteBur, 237 pagine, 18,00 euroDal disastro aereo di Smolensk al terremoto dell’Aquila, dalla vicenda della casa monegasca della famiglia Fini alla “legge bavaglio”. L’ultimo anno e mezzo della politica e della cronaca italiana visto con gli occhi di Bobo.

GABRIEL TARDE

Che cos’è una societàCronopio, 77 pagine, 9,50 euroLa società è “una forma di sogno, un sogno su comando e un sogno in azione. Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione del sonnambulo come dell’uno sociale”.

DAVID GROSSMAN

L’abbraccioMondadori, 40 pagine, 10,00 euroPerché è stato inventato l’abbraccio? Con i disegni di Michal Rovner.

FERRUCCIO PINOTTI

La lobby di DioChiarelettere, 320 pagine, 16,60 euro Libro-inchiesta su Comunione e liberazione, la lobby cattolica oggi più inluente e organizzata, attraverso atti e inchieste giudiziarie, testimonianze di ex membri e interviste inedite.

CONCITA DE GREGORIO

Un paese senza tempoIl Saggiatore, 332 pagine, 16,00 euro L’Italia sembra sempre uguale. Scandali, trame oscure, crisi economiche. Calamità, disastri morali, corruzione.

JOHANNA SPYRI

HeidiDonzelli, 180 pagine, 23,00 euro In questa edizione la traduzione integrale è accompagnata dai disegni di Tomi Ungerer.

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Cultura

1Numero 6 Wimbledon C’è un momento in cui il

tempo raddoppia, e scatta il buonumore: “Collera rabbia rancore malversità / nervi a pezzi prurito alle mani”. E poi: “Cerco un litigio sicuro ma pu-re tu / non abbocchi alle pro-vocazioni”. Sembrano di quel-le band di cugini genovesi da reclutare alle feste degli amici. Hanno da poco sfornato un al-bum saputello, I love you fortis-simo: un po’ mod, un po’ brit, un po’ Brunori Sas, capaci di raccontare storie ed esaltare l’“erotico bon ton” di Lea Peri-coli quando commentava dal campo centrale. Questo, sì, è bello.

2 Tre allegri ragazzi morti La cattedrale del dub

(feat. Mama Marjas) Primitivi del dub è una raccolta di versioni & vibrazioni river-beranti del predecessore, Pri-mitivi del futuro. Il dub è il dub e sempre suona dub. L’ascolta-tore si vuole: 1) sobbalzante nell’iperspazio sonoro; 2) ade-guatamente stonato e/o in ve-na di ozio creativo; 3) memore delle gesta eroiche di Lee “Scratch” Perry. Basta rispon-dere a un requisito per apprez-zare questo lavoro made in Italy con ampolle, iltri, guest vocalist e l’artigianato elettro-nico dell’Alambic Conspiracy del dubmaster Paolo Baldini.

3 Wora Wora Washington Seven days

Techno Lovers è l’album, uscito un annetto fa, di quella che ascoltata alla cieca potrebbe sembrare una di quelle band ribalde tracimate da qualche magazzino di Manchester. In-vece sono tre allegri ragazzi vi-vi e veneti: un po’ techno un po’ alt-rock che si gazano le shoes, attaccati a chitarrone ombelicali e a possenti mac-chinari ritmici, viscerali e af-frettati quanto basta per salta-re su un vaporetto low cost per Gatwick, e di lì entrare in una fase tormentata nelle caverne dell’East End londinese. Salvo prendere scorciatoie in tivù.

MusicaDal vivoMATTHEW DEAR

Torino, 16 dicembre, myspace .com/magazzinoparadiso; Roma, 17 dicembre, brancaleone.eu; Milano, 18 dicembre, tunnel-milano.it

loWER DEns

Senigallia (An), 10 dicembre, myspace.com/gratisclub; Cavriago (Re), 11 dicembre, calamita.net

BlooDy BEETRooTs

DEATH CREW 77

Bologna, 11 dicembre, link.bo.it

MElissA Auf DER MAuR

Torino, 10 dicembre, spazio211.com; Roncade (Tv), 11 dicembre, newageclub.it; Ravenna, 12 dicembre, bronsonproduzioni.com

MiCk HARvEy

E nEARly BRoTHERs

Roma, 11 dicembre, initroma.it

pAul gilBERT

Milano, 11 dicembre, magazzinigenerali.it

young WRisTs

Segrate (Mi), 11 dicembre, circolomagnolia.it

sTEvE HogARTH

Milano, 12 dicembre, bluenotemilano.it

sTAnlEy BRinks

Ravenna, 15 dicembre, bronsonproduzioni.com

In Cina nessuno è disposto a pagare per la musica. E si sperimentano modelli al-ternativi di fruizione online

Immaginate se le previsioni sulla ine dell’industria musi-cale si avverassero. Se nessu-no fosse più disposto a com-prare cd o a pagare per scari-care brani da iTunes. Impos-sibile, direte. Invece no. In Cina è già così. “I consuma-tori cinesi non sono disposti a pagare per la musica”, dice Gary Chan, che nel 2006 ha lanciato Top100.cn, un sito che permetteva di scaricare brani su richiesta o tramite abbonamento. I prezzi erano bassi ma non abbastanza, vi-

sti gli scarsi guadagni. Così Chen ha cambiato strategia: download gratuiti e inserzio-ni a pagamento. Il suo è l’uni-co servizio di questo tipo al mondo ad avere l’appoggio dell’industria. I risultati sono buoni (1,5 milioni di raccolta pubblicitaria nel 2010) ma non abbastanza per giustii-

care l’adozione di questo mo-dello su larga scala. Così Chen ha pensato di chiedere agli utenti di pagare non per la musica ma per prodotti collaterali, come recensioni e consigli di musicisti famosi. Nel 2011 lancerà un servizio per permettere di ascoltare i brani da vari supporti. Chen sta applicando al settore l’idea (già difusa in altri campi) che il valore aggiunto non sta nella musica in sé ma nei servizi che la rendono ac-cessibile e nelle informazioni che la accompagnano. Maga-ri non funzionerà, ma l’indu-stria occidentale farebbe be-ne a tenere d’occhio Chan.The Economist

Dalla Cina

il modello di gary Chan

playlist Pier Andrea Canei

fieri dell’artigianato

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Melissa Auf Der Maur

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Pop

anika

I’m having fun now(Invada/Cargo Records)

●●●●●Anika è una ragazza anglotede-sca di 23 anni arrivata da Car-dif a Berlino per lavorare in un’agenzia stampa. Ma nella capitale tedesca si è portata dietro la sua esperienza di dj e di cantante nei Beak>, un grup-po di Bristol guidato da Geof Barrow, dei Portishead. E i Beak> accompagnano Anika nel suo album di debutto. La sua è una musica che dieci o quindici anni fa sarebbe stata deinita post rock e trent’anni fa krautrock: ripetitiva, dai ritmi ostinati, costruita sulla base di pochi accordi, senza grossi slanci melodici, ma in grado di creare un’atmosfera intensa. Uno stile a base di reggaedub, postpunk ed elettronica che non risparmia neanche le cover nell’album: Masters of wars di Bob Dylan, Yang yang di Yoko Ono, End of the world dei Car-penters, I go to sleep dei Preten-ders. Ma su tutto spicca la voce di Anika, così intensa e profon-da da ricordare quella di Nico.Dirk Peitz, Die Zeit

ElettronicaRöyksoPP

Senior(Wall of sound)

●●●●● I norvegesi Röyksopp sono noti per la loro elettronica calda e melodica, in cui la voce ha un

nel groove funky e hard di Cries from the midnight circus.Mark Paytress, Mojo

John GRant

Queen of Denmark(Bella Union)

●●●●● Anche senza considerare la drammatica vicenda personale che sta dietro a queste canzoni – prima delle registrazioni il frontman della band indie The Czars è uscito da una brutta vi-cenda di depressione e droga – Queen of Denmark è un disco bellissimo. Accompagnato dai Midlake e vicino al suono evo-cativo del soft rock degli anni settanta, l’album è dominato da un immaginario sci-i e da un misto di rabbia e malinconia. Nei testi i colpi di scena non mancano (la “lovely carcass”, l’amata carcassa, della sua amata in Where dreams go to die o i continui “fuck of ” in Chicken bones, che ricorda Har-ry Nilsson), ma l’impressione complessiva è quella di un grande musicista che ha inal-mente trovato la sua dimensio-ne.Q

World music

mERcEdEs PEón

Sós(Do Fol)

●●●●● Mercedes Peón è la miglior ar-tista galiziana. Nel 2001, in oc-casione dell’uscita del suo pri-mo album, Isué, ancora oggi un punto di riferimento del folk

europeo, è inita sulla copertina di Froots. Con Sós conferma il suo grande talento. Peón non è macchina da album. Ne tira fuori uno solo quando ha vera-mente qualcosa da dire. In Sós, la grande forza e la sensibilità della sua voce sono circondate da un uso potente e schietto de-gli strumenti di campionamen-to della musica hip-hop e dan-ce, mescolati ai suoni e ai ritmi tipici della musica tradizionale della regione. Sós rispecchia an-che il miglioramento di Peón nelle esibizioni dal vivo. Come ha dimostrato al World music expo, in cui è sembrata perfet-tamente a suo agio tra clarinet-to, gaita galiziana, pandeireta e tamburi.Peter Rüedi, Die Zeit

classicaJEan-Efflam BavouzEt

Ravel: Concerti per piano; Debussy: Fantaisie; Masse-net: pezzi per pianoJean-Elam Bavouzet, piano; Bbc Symphony Orchestra, Yan Pascal Tortelier, direzione (Chandos)

●●●●● Questo album balza nel gruppo di testa delle raccomandazioni per tutto il repertorio che pre-senta. A cominciare dalla Fan-taisie di Debussy, una rarità in disco e in sala, anche se è splen-dido dall’inizio alla ine. L’ese-cuzione è attenta e precisa in ogni sfumatura, con una cura nella lessibilità dei tempi che le permette di non diventare troppo sentimentale o sempli-cemente graziosa. Questa sen-sibilità ailatissima la troviamo anche nei due concerti di Ra-vel, che sono stati raramente così trascinanti. Quello in sol maggiore, in particolare, è pro-babilmente la grande opera del novecento che ha avuto il mag-gior numero di esecuzioni orrende (battuto forse da quello di Gershwin). Questa è un mo-dello. David Hurwitz, ClassicsToday

ruolo di primo piano. Ma il loro quarto album è destinato a smentire quelli che li avevano liquidati come una colonna so-nora da sala d’aspetto. Il primo disco strumentale di Svein Ber-ge e Torbjørn Brundtland è un sontuoso viaggio tra le remini-scenze dei maestri della synth music anni settanta, come Van-gelis, Kraftwerk, Tangerine Dream e Giorgio Moroder. Se-nior è stato registrato contem-poraneamente a Junior, uscito l’anno scorso, di cui secondo il duo rappresenta “il fratello om-broso e introverso che vive in soitta”. Berge e Brundtland hanno dimostrato di non avere bisogno di grandi vocalist per fare un grande disco. Senior è vario, ritmicamente intrigante come un album dance ma abba-stanza pieno di melodie da sod-disfare il più irrecuperabile dei malati di pop. Garry Mulholland, Bbc Music

RockthE PREtty thinGs

Parachute(Madish)

●●●●●Gli appassionati inglesi di psi-chedelia sostengono che il lavo-ro più maturo del gruppo londi-nese di rhythm’n’blues è la rock opera lisergica SF Sorrow, pub-blicata nel 1968. Gli statuniten-si, o almeno lo staf di Rolling Stone, che nel 1970 l’ha eletto album dell’anno, addirittura prima di Let it be, Funhouse e Led Zeppelin III, preferiscono invece Parachute. Non è diicile capire perché. Con le sue armo-nie soisticate e un suono più solido, tra l’acustico e l’elettri-co, con frequenti accenni all’hard rock, Parachute è l’al-bum post-hippy deinitivo. In bilico tra fedeltà alla tradizione del rock’n’roll e ambizioni pro-gressive, il disco – diviso in due parti: città e campagna – rag-giunge il momento migliore quando le chitarre si scatenano

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You haven’t seen thelast of me (Stonebridge club mix)

danceScelti da Claudio

Rossi Marcelli

Anika

Röyksopp

GlEE cast

Teenage dream (dj MichaelAngelo Mix)

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92 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Cultura

shopology

Sabato 11 dicembre, ore 21.40 National Geographic Channel

Fatti e ipotesi sul comportamen-to dei consumatori e sulle strate-gie usate per incentivare gli ac-quisti. Da New York a Tokyo e Londra, una squadra di esperti rivela i segreti che si nascondo-no dietro la vendita di molti pro-dotti. Seconda parte sabato 18 dicembre, stessa ora.

piazza fontana

Domenica 12 dicembre, ore 20.00 Rai Storia

Programmazione speciale per ricordare l’anniversario della strage di piazza Fontana, avve-nuta il 12 dicembre 1969. Dalle Teche Rai tra gli altri Attacco al-la democrazia di Giuliano Mon-taldo, del 1979.

J’ai aCheté une forêt tropiCale

Lunedì 13 dicembre, ore 0.05, Arte

Come migliaia di bravi scolari svedesi, anche Jacob Andrén ne-gli anni ottanta aveva partecipa-to all’acquisto e alla salvaguar-dia di un pezzo di foresta tropi-cale. Vent’anni dopo vuole sco-prire se quel gesto ambientalista è servito.

g2 alla risCossa

Mercoledì 15 dicembre, ore 21.00 Babel Tv

Sara Hejazi, antropologa nata in Iran da madre italiana e padre iraniano e cresciuta negli Stati Uniti, racconta le “seconde ge-nerazioni” attraverso le storie di ragazzi igli di immigrati. Babel è un nuovo canale televisivo de-dicato “all’Italia dei nuovi Italia-ni”. Canale 141 di Sky.

gender me

Giovedì 16 dicembre, ore 21.10 Current

Prosegue il ciclo di documentari a tema religioso con uno sguar-do alla vita quotidiana dei gay musulmani a Istanbul. Tra i te-stimoni intervistati anche il pri-mo imam dichiaratamente omosessuale, in Norvegia.

Video

highrise.nb.ca Da almeno mezzo secolo i grandi palazzoni di cemento armato sono il tipo di abitazione più comune e fanno ormai parte del paesaggio, in tutto il mondo. La canadese Katerina Cizek vuole ribaltare la prospettiva. Entra in 13 appartamenti di 13 città sparse per il pianeta, per conoscere chi ci vive e condividere con loro la vista da quelle inestre grigie e lontane, che così raramente attirano la nostra attenzione. Il sito è solo il primo passo del progetto Highrise, che nei prossimi anni vedrà la produzione di mostre, spettacoli, interventi pubblici e ilm sul tema dell’architettura residenziale, della vita “verticale” in comune e dello spazio urbano, per andare oltre la documentazione e sostenere l’impegno per una migliore qualità abitativa.

in rete out my window

La guerra nucleare è passata di moda, eppure si stima siano tuttora in circolazione 23mila armi atomiche. Alcune non si sa dove siano e in mano di chi potrebbero inire. Sono diversi i regimi non propriamente col-laborativi che le detengono, e poi le tecnologie più semplici e il traico di armi potrebbero mettere testate nucleari a di-

sposizione di chiunque. Lucy Walker ha intervistato esperti internazionali e politici come Jimmy Carter, Blair e Gorba-ciov, per questa inchiesta sull’attualità del rischio atomi-co, parte di una campagna per l’eliminazione totale degli ar-senali nucleari. Il dvd esce ne-gli Stati Uniti.takepart.com/zero

dvdConto alla rovescia

Quattrocentotrentamila euro per un foglio con dieci franco-bolli. Certo è una cifra non in-diferente. I francobolli hanno raggiunto questa cifra non tanto perché raigurano la mi-tica attrice Audrey Hepburn, ma perché sono rari e il foglio intero è senza dubbio un pezzo unico.

Per i ilatelici uno dei moti-vi di interesse è il fatto che, es-sendo datati 2000, il loro valo-re è indicato sia in euro sia in marchi tedeschi. Ma certo non è questo a renderli particolar-

mente rari. Nell’immagine scelta dalle poste tedesche per una serie di francobolli dedi-cati alle grandi star del cine-ma, l’attrice indossa un grande cappello e fuma una sigaretta inilata in un lunghissimo boc-chino. Elegantissima, come sempre. Ma il iglio dell’attrice che non era stato consultato prima di far stampare i 14 mi-lioni di francobolli, una volta ricevuto un foglio con dieci esemplari, non ha dato il suo consenso all’uso dell’immagi-ne della madre. Non voleva

che quella particolare immagi-ne della madre potesse sem-brare un invito a fumare. I francobolli sono stati distrutti, tranne un foglio, quel foglio, che è stato messo in vendita a favore della fondazione Hep-burn, che si occupa di aiutare bambini in diicoltà.

L’attrice ha così involonta-riamente aderito a una campa-gna antifumo. E non ha avuto la sfortuna di Malraux e Sartre a cui le poste francesi hanno maldestramente cancellato le sigarette. u

fotograia Christian Caujolle

il prezzo del fumo

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anish kapoor

National gallery of modern art, New Delhi, ino al 27 febbraio 2011, ngmaindia.gov.in

Sarà Sonia Gandhi a inaugurare la personale dell’artista indiano Anish Kapoor, britannico d’ado-zione dal 1970, che espone per la prima volta nel suo paese d’origine. Kapoor, nato nel 1954 da padre indiano e madre israe-liana, è uno degli artisti più fa-mosi in Gran Bretagna. All’ini-zio la critica ricorreva alle origi-ni indiane per spiegare il suo la-voro. Poi c’è stata un’inversione di rotta e si è cominciato a fare appello a modelli occidentali. Sebbene Kapoor non voglia am-metterlo, una costante icono-graica lega tutte le sue opere che sono palesemente inluen-zate dall’iconograia e dall’ar-chitettura religiosa indiana. L’arte non occidentale raramen-te sfugge a interpretazioni etni-che che la connotano negativa-mente. Perché non usare a spe-ciicità culturale proprio per ca-pire entrambe le parti? Il caso di Kapoor è la prova di come la cultura di un individuo possa adattarsi a contesti diversi e creare opere universali. The Hindu

francesca woodman

Victoria Miro gallery, Londra, ino al 22 gennaio 2011, victoria-miro.com

Nel gennaio del 1981, prima di suicidarsi a 22 anni buttandosi da una inestra a Manhattan, Francesca Woodman aveva scattato ottocento toccanti im-magini. Un’opera matura sco-perta dopo la sua morte. Fino ad allora le sue fotograie in bianco e nero erano state lette come un esempio tardivo di fotograia modernista. Oggi Woodman è universalmente riconosciuta come un talento unico. L’anno prossimo una grande retrospet-tiva viaggerà da San Francisco al Guggenheim di New York. Ora 50 delle sue fotograie sono alla Victoria Miro gallery.The Daily Telegraph

Cyprien Gaillard, trent’anni ap-pena compiuti, premio Duchamp 2010, residente a Berlino, in tre anni e un mese, dal 2006 al 2009, ha attraversa-to il mondo in tutti i sensi: da Angkor a Glasgow, da Pittsbur-gh a Mosca, dalle cave di mar-mo di Carrara ai siti inca in Messico, alla ricerca di torri di-strutte, piramidi azteche, grotte geologiche, ville statunitensi abbandonate, brutali architettu-re sovietiche. Ha fotografato, inventariato e classiicato tutte queste forme di archeologia del passato e del futuro che fanno

inevitabilmente pensare alla ro-vina del mondo. Il frutto di que-sta inchiesta immensa, intitola-ta Geographical analogies, è in oltre novecento polaroid messe sotto vetro come farfalle. Anche le polaroid andranno incontro a una ineluttabile rovina con il passare del tempo e sbiadiran-no. Geographical analogies è un capolavoro ambizioso che supe-ra i conini dell’arte e invade il campo della storia immemora-bile della distruzione. A metà tra vandalismo, land art ed este-tica minimalista, il lavoro di Gaillard oscilla tra documenta-

zione e azioni distruttive. Come quando in Real remnants of icti-

ve wars II, l’artista attiva degli estintori all’ingresso di una gal-leria sprigionando una minac-ciosa nuvola di polvere bianca. Una bomba che esplode dove si ferma, potremmo deinirlo così. Non solo per la sua disinvoltura nel mondo patinato della moda, o per la sua folgorante traietto-ria di artista. Ma soprattutto per aver intrapreso questa follia ro-mantica di costruire un immen-so parco di rovine, disseminate in tutto il mondo.Les Inrockuptibles

da Berlino

Geograia della rovina

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Dove: nella toilette di un ristorante della catena Roy Rogers a Chapel Hill, in North Carolina. Quando: tan-to tempo fa. Personaggio principale: un ragazzo bianco alto e magro con i capelli lunghi ino alle spalle.

Quel ragazzo ero io. Usando le dita come pettine, stavo facendo del mio meglio per dare una forma più decorosa alla mia massa di capelli scompigliati. Qual-che minuto dopo dovevo incontrare la mia ragazza, Babushka, al banco delle insalate e vole-vo sembrare un selvaggio attraente, non un tipo trasan dato.

Mentre stavo per completare quel tentativo rudimentale di migliorare il mio aspetto, mi cadde l’occhio sulla pa-rete sotto il distributore di salviette di carta e vidi una scritta afascinante. “So-no stato Santa Cruziisso e ho Californi-cato”, diceva, “e mi sembrava di essere in paradiso”.

Fui percorso da una scarica di ener-gia kundalini. Ero abituato a cavalcare le onde della sincronicità, collezionare coincidenze si-gniicative era il mio hobby. Ma quello scarabocchio sul muro era un’onda di sincronicità straordinaria. Quel giorno, io e Babushka ci eravamo dati appuntamento per discutere la possibilità di saltare insieme su un Greyhound e andare in un posto che era il sogno di tut-ti gli aspiranti artisti: Santa Cruz, in California.

Mi sforzai di leggere quello che c’era scritto in pic-colo sotto il messaggio. “Sai benissimo che non diven-terai mai l’artista che eri destinato a essere”, diceva, “ino a quando non verrai a vivere a Santa Cruz”.

Mi venne la pelle d’oca e sentii un brivido lungo la schiena. Chiunque fosse, lo strano angelo che aveva scarabocchiato quelle parole sembrava averle pescate direttamente dal mio subconscio. L’idea che esprime-vano corrispondeva esattamente alle mie speranze e alle mie paure. Ormai mi ero rassegnato al fatto che il mio desiderio di diventare un poeta e un musicista ca-pace di ispirare la comunità era destinato a rimanere cronicamente frustrato inché avessi continuato a vive-re nel profondo sud, seppure in una città universitaria come Chapel Hill. Lì non sarei mai stato nient’altro che uno sciroccato, un incrocio tra lo scemo del villaggio e un fenomeno da baraccone vagamente divertente.

In quel momento si decise il mio destino. Il primo giorno di primavera, io e Babushka arri-

vammo a Santa Cruz con novanta dollari in tasca. Era-vamo due allegri vagabondi, che di giorno dormivano nel parco e dalle undici di sera alle sei di mattina gira-vano per i locali. Quando non eravamo impegnati a chiacchierare con un lusso continuo di svitati alquanto pittoreschi, mi mettevo a fantasticare e facevo progetti su come costruire la mia carriera artistica nella terra promessa.

Nel giro di pochi mesi, non solo avevo trovato un piccolo appartamento nel seminterrato sotto il garage

della casa di una vecchia signora, ma sta-vo già per raccogliere i successi per i qua-li avevo deciso di trasferirmi a Santa Cruz.

Poco più di tre settimane dopo che ero sceso dall’autobus che mi aveva por-tato lì, mi ero esibito al Good Fruit Com-pany cafe. Le mie canzoni Blasphemy blues e Reptile rodeo man, e il mio lungo farneticante poema Microwave beehive star avevano fatto colpo sul critico di un giornaletto che si occupava di spettacoli, il quale aveva deinito la mia performan-

ce “uno sconvolgente comunicato dall’inconscio col-lettivo che faceva venire l’acquolina in bocca e solleti-cava l’id”.

Per sfogare la mia energia repressa, mi esibii in una serie di letture di poesie e di performance in diversi lo-cali e spettacoli di strada. Fotocopiai e vendetti 212 co-pie del mio primo libro fatto in casa di ballate e raccon-ti, Crazy science, e praticai l’arte della demagogia illu-minata in un programma radiofonico che andava in onda a tarda notte sulla stazione locale Kzsc intitolato Babbling ambiance.

Ma soprattutto, riuscii a mettere insieme il mio pri-mo gruppo musicale, i Kamikaze Angel Slander. Quan-do suonammo per la prima volta alla festa di un amico, il nostro repertorio era costituito solo da cinque canzo-ni che avevo scritto in North Carolina, le cover di due pezzi di David Bowie e quattro brani epici che avevo composto con la band, tra cui The prisoner is in control.

C’era solo una cosa che frenava la mia crescente eu-foria: la povertà più nera. Con nessuno degli spettacoli o dei concerti riuscivo a guadagnare più di quanto mi serviva per realizzarli. Sembrava che la vita mi stesse dicendo insistentemente che dovevo rinunciare a una parte dei miei progetti e cercare uno stipendio isso. Il fatto di essermi iscritto all’università della California a Santa Cruz mi aiutava un po’: per qualche tempo otten-

Pop

Il mio primooroscopo

Rob Brezsny

Consideravo un abominio gli oroscopi dei giornali, banali e scritti male, tutti, senza alcuna eccezione. Incoraggiavano le persone a essere superstiziose

ROB BREZSNY

è l’autore dell’oroscopo di Internazionale. Questo articolo è l’introduzione di Roboscopo

(Rizzoli 2010), il meglio di dieci anni di oroscopi di Rob Brezsny.

Quando ha iniziato a scrivere oroscopi, Rob Brezsny era un giovane poeta e musicista alla ricerca dell’illuminazione, ma soprattutto di un la-voretto con cui pagare l’afitto e inanziare le sue performance. Giudicava gli oroscopi dei giornali “un abominio: incoraggiano le persone a trarre la con-clusione, assolutamente sbagliata, che l’astrologia predica la predestinazione e nega il libero arbitrio”.Oggi è uno dei più famosi astrologi del mondo e la sua rubrica viene tradotta ogni settimana in tredici lingue su 133 testate, grazie all’inimitabile stile lirico e provocatorio, sempre capace di ispirarci, consolarci e strapparci un sorriso. Solo lui sa svela-re che ciascuno di noi può essere allo stesso tempo un ippopotamo, un giardino profumato, una formi-ca che trasporta una patatina e un guerriero pigro. O spronarci a correre verso il vulcano, espiare le nostre vere colpe, ischiare con due dita, fare un sogno da cinque centesimi, scendere dai tacchi o scrivere sul marmo.

In questo libro, espressamente concepito per l’Ita-lia, sono raccolti per la prima volta per ciascun segno dello zodiaco il proilo della personalità, i personaggi da prendere a modello e gli straordina-ri consigli e spunti di rilessione di Rob, tratti dal meglio della sua ispirata “produzione” degli ultimi dieci anni: i più belli tra quelli pubblicati su “Inter-nazionale” ma anche una ricchissima selezione di inediti, tra cui il suo primo oroscopo in assoluto.

Per chi sa tutto del movimento degli astri e per chi è scettico ino al midollo ma tutte le settimane non può fare a meno di Brezsny; per chi non resiste alla tentazione di leggerlo a voce alta a chiunque gli capiti a tiro o di passarlo agli amici dello stesso se-gno; per chi li legge tutti per decidere quale “adot-tare” oltre al proprio; per chi ha voglia di allargare gli orizzonti e inventarsi mille modi per essere una persona migliore.

Rob Brezsny , poeta, scrittore e interprete illuminato dei se-gni astrali, è autore di Free Will Astrology, un oroscopo letterario che appare su oltre cento pubblicazioni nel mondo, tra cui «Internaziona-le» in Italia. Nel 2006 per Rizzoli ha pubblicato La pronoia è l’antidoto alla paranoia. 888 me-todi per diventare selvaggiamente felici.

«“Se arrivi all’oroscopo è fatta anche per questa settimana” dicono le Regole di

“Internazionale”; dispiace dover informare la redazione che non è così, quasi tutti leggiamo cosa dice Rob Brezsny appena mettiamo le mani sul giornale, ovvio.» Maria Laura Rodotà

Gli oroscopi di Brezsny sono ispirati dalla lettura di Jung, Campbell, Graves, Eliade, Blake, Williams, Ouspensky, Gurdjieff; dalle sostanze allucinogene, dalla meditazione, dal canto, dalla danza, dal sesso tantrico, dalla trascrizione dei suoi sogni.

La pagina di Rob è la più letta di «Internazionale» e la più cliccata sul sito della rivista.

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www.rizzoli.eu

In copertina:Illustrazioni © Francesca GhermandiArt Director: Francesca LeoneschiGraphic Designer: Andrea Cavallini

www.24sette.it RizzoliISBN 978-88-17-04523-0p 14,90

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ni prestiti e borse di studio dal governo in cambio di poche ore alla settimana di frequenza ai corsi di poesia e scrittura creativa. Anche i buoni pasto che ricevevo ogni mese contribuivano alla mia causa.

Nonostante l’aiuto dello stato sociale, ero però an-cora costretto ad abbassarmi a qualche lavoretto part time. Tra le varie umiliazioni, ci furono periodi in cui dovetti lavare piatti nei ristoranti, posare come model-lo per i pittori e raccogliere mele. Anche così riuscivo a malapena a pagare l’aitto e avevo diicoltà a dotarmi di quegli accessori di cui una stella del rock in ascesa non può fare a meno: un’auto e dei buoni strumenti musicali.

Vivevo in uno squallido seminterrato con solo un capriccioso termoventilatore per scaldarmi le mani mentre componevo inni alla ribellione sulla mia tastie-ra da quattro soldi e con tre tasti rotti. Di tanto in tanto ero obbligato a ricorrere a un trucco che avevo impara-to da un amico senzatetto: gironzolare nei self service e razziare quello che i clienti lasciavano nei piatti. Il mio guardaroba? Tanto i vestiti di tutti i giorni quanto i miei costumi di scena venivano da un magazzino chia-mato Bargain barn, dove l’usato costava mezzo dollaro al chilo.

Vista la mia situazione, ogni volta che mi si presen-

tava l’opportunità di guadagnare qualcosa con la scrit-tura creativa la coglievo al volo.

Mi avevano appena rubato la bicicletta e per sosti-tuirla con una usata decisi di guardare gli annunci del Good Times, il più importante settimanale di Santa Cruz. Mentre scorrevo la sezione “miscellanea” mi cadde l’occhio su un’inserzione interessante.

“Cercasi collaboratore per la rubrica di astrologia. Inviare un esempio per la settimana del 26 gennaio all’attenzione del direttore, all’indirizzo 1100 Paciic Avenue, Santa Cruz 95060”.

All’inizio rimasi confuso. Da quello che sapevo Good Times aveva già una rubrica di astrologia. Mi mi-si a sfogliare il giornale per trovarla, ma era sparita. Il suo autore si era arreso? Non che ne sentissi la mancan-za. Le rare volte che l’avevo letta, avevo avuto l’impres-sione che il suo stile coprisse tutta la gamma che anda-va dai più sdolcinati cliché new age alla pura idiozia.

Naturalmente avevo sempre disprezzato le rubriche di astrologia, e forse trovavo quella di Good Times ad-dirittura più ridicola di tante altre. Sebbene fossi anco-ra alle prime armi in materia, i miei standard sulla pra-tica di quell’arte antica erano molto alti. E consideravo un abominio gli oroscopi dei giornali, banali e scritti male, tutti, senza alcuna eccezione. Incoraggiavano le

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persone a essere superstiziose e a trarre la conclusione, assolutamente sbagliata, che l’astrologia predica la predestinazione e nega il libero arbitrio. Non solo rii­lavano ai lettori creduloni consigli inutili che assecon­davano le forme meno interessanti di egoismo, ma – fatto peggiore – si fondavano su una conoscenza mini­ma della vera astrologia. Un esperto serio, per esempio, sa benissimo che per poter valutare le energie cosmi­che bisogna rilettere sui movimenti e i rapporti tra tut­ti i corpi celesti, non soltanto il Sole. Invece gli oroscopi dei giornali basavano le loro inte “predizioni” esclusi­vamente sulla posizione del Sole. Partivano dall’assur­do presupposto che le vite di milioni di persone che condividono un segno vadano tutte nella stessa dire­zione. Consapevole di tutto questo, mi ingegnai di tro­vare un sistema razionale per ottenere quel lavoro. La prospettiva di essere pagato per scrivere qualcosa, qualsiasi cosa, era entusiasmante. E l’idea di avere uno stipendio regolare lo era ancora di più. Si trattava di una rubrica settimanale, non di un unico articolo.

Inoltre, non poteva rivelarsi più umiliante degli altri lavori che ero stato costretto a fare.

“È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve farlo”, fu lo slogan iniziale della campagna per convincere me stes­so. Appurato che gli argomenti a favore della decisione di scrivere una rubrica di astrologia superavano quelli contro, il passo successivo consisteva nel trovare un modo di scriverla che non mi desse l’impressione di ingannare i lettori. Fu allora che decisi di diventare un poeta sotto mentite spoglie.

Dalle tirate farneticanti che riilavo al pubblico tra un pezzo musicale e l’al­tro alle strofe leggermente più coe­renti che producevo per le lezioni di scrittura creativa all’università, mi ero molto impegnato a coltivare

quest’arte e volevo che per me diventasse indispensa­bile come l’aria.

Certo, non potevo fare a meno di notare che la cul­tura in generale giudicava la poesia antiquata e noiosa. Persone che consideravo geni come John Berryman, W.S. Merwin e Galway Kinnell non stavano certo fa­cendo i soldi con le loro creazioni poetiche.

Capivo benissimo perché i lettori non apprezzava­no la forma d’arte che io amavo tanto. Quasi tutti i poe­ti erano accademici casti e morigerati, assolutamente privi di senso dell’umorismo. Era incredibile quanta poca energia psichica, quanto poco divertimento emergesse dalla casta che secondo me avrebbe dovuto abbattere le frontiere dell’immaginazione. Per me la poesia doveva essere impegnativa, complessa, sottile e misteriosa da impazzire. Tutto stava nell’interrom­pere la routine della coscienza di veglia, nel sabotare i cliché e il buon senso, nel reinventare la lingua. Ma perché tanta parte di questo nobile lavoro doveva esse­re così iacca, pretenziosa e inacces sibile?

E poi c’era il mio progetto segreto. M’irritava che così poche delle “antenne della razza umana” avessero il coraggio di provare emozioni più intense facendo uso di sostanze psichedeliche. Come si poteva interrompe­

Storie vereWendy Scott, maestra elementare di North Brookield, nel Massachusetts, ha deciso di applicare a fondo la tolleranza zero nella sua scuola: ha comunicato alle famiglie che i bambini non erano più autorizzati a portare in classe matite o penne, perché potevano essere usate “per costruire armi”. In caso di necessità, gli sarebbero state prestate dalla scuola. Dopo le proteste dei genitori, la preside ha revocato il provvedimento.

re la trance del consenso senza squarciare ogni tanto il velo e afacciarsi dall’altra parte? Ginsberg, almeno, aveva avuto il fegato di seguire la strada degli sciamani. Berryman sembrava aver ottenuto le stesso risultato con l’alcol.

Per quanto mi riguardava, ero entrato in contatto con l’altra parte del velo che tanto mi attraeva prima ancora di ricorrere alla tecnica psichedelica. Ricordavo sempre i miei sogni e ne facevo tesoro in da quando ero bambino, e a tredici anni avevo preso l’abitudine di annotarmeli. Con questa continua immersione nel re­gno dei sogni mi resi conto molto presto che esistevano altre realtà oltre alla piccola nicchia che ognuno di noi occupa normalmente. I miei esperimenti psichedelici non fecero che confermare questa certezza.

Man mano che mi convincevo che la mia educazio­ne formale mi aveva tenuto nascosti nove decimi della realtà, mi misi alla ricerca dei testi che documentavano l’esistenza della parte mancante. Leggendo Jung, Camp bell, Graves ed Eliade scoprii che sciamani, al­chimisti e maghi la descrivevano da millenni. Le loro opere mi indirizzarono verso la ricca letteratura dell’oc­cultismo occidentale, i cui autori non erano accademi­ci ma esploratori che avevano davvero visitato i luoghi di cui parlavano.

I loro numerosi racconti non concordavano com­pletamente, ma molte delle loro descrizioni coincide­vano. L’idea comune a tutti era che l’altra parte del velo non fosse un unico territorio ma una miriade di regni diversi, alcuni più simili all’inferno, altri al para­diso. Si chiamavano tempo del sogno, quarta dimen­sione, oltretomba, piano astrale, inconscio collettivo, aldilà, eternità, stato intermedio e Ade, solo per citar­ne alcuni.

C’era anche un altro punto sul quale tutti gli esplo­ratori si trovavano d’accordo. Gli eventi che si veriica­no in quei regni “invisibili” sono la causa di quello che accade qui da noi. Gli sciamani visitano il mondo degli spiriti per curare i loro pazienti, perché la malattia ha origine là. Per i cabalisti, la Terra visibile non è altro che un minuscolo aioramento alla ine di una lunga cate­na di creazioni che partono da un punto inconcepibil­mente lontano e al tempo stesso vicino e presente. Per­ino gli psicoterapeuti moderni credono in una versio­ne materialistica dell’antica idea che il modo in cui ci comportiamo oggi dipenda da eventi avvenuti in luo­ghi e tempi lontani.

Via via che facevo mie le testimonianze su quella terra di tesori nascosti, mi rendevo conto che i sogni e le droghe non rappresentavano il suo unico punto d’ac­cesso. Ci si poteva entrare anche con la meditazione o alcune forme di canto e di danza, con certe cantilene e rulli di tamburo. La tradizione tantrica ci insegnava che si può raggiungere pure con determinati tipi di comu­nicazione sessuale. E, naturalmente, con la morte.

Volevo passare per tutte quelle porte, tranne l’ulti­ma. Marijuana, hashish e lsd funzionavano molto bene (non ho mai avuto esperienze negative), ma era troppo diicile interpretare le loro rivelazioni. Quando torna­vo da un viaggio psichedelico, non riuscivo a tradurre le verità che avevo scoperto sulla quarta dimensione in

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qualcosa di utile per la normale coscienza di veglia. La-vorando sui sogni avevo visto crescere gradualmente sia la capacità della mia mente inconscia di generare storie cariche di signiicato sia quella della mia mente conscia di interpretarle, invece il mio lavoro di scoper-ta dei tesori nascosti nei luoghi esotici dove mi porta-vano le droghe procedeva a tratti.

Il problema era che, diversamente dalle altre tecni-che, quella psichedelica aggirava la mia volontà. Con il suo ariete chimico sfondava semplicemente le porte della mia percezione. Non richiedeva nessuna abilità da parte mia. Uno dei miei maestri di meditazione mi disse che usare droghe, per quanto in modo responsa-bile, era come voler “penetrare nel regno dei cieli con la violenza”.

Gradualmente, perciò, misi ine al mio rapporto con la magia illegale e decisi di raggiungere la conoscenza con la fatica e l’impegno. L’interpretazione dei sogni, la meditazione e l’esplora-zione tantrica divennero i pilastri del-

la mia ricerca. Con il passare del tempo, imparai ad accedere alla periferia del mistero anche con il canto e con la danza.

Però devo confessare che il mio progetto non diede immediatamente i frutti che speravo. Anche i miei so-gni lucidi più estatici e le mie meditazioni più illumi-nate non producevano immagini vivide e struggenti dell’altra parte del velo come quelle che mi regalavano i viaggi psichedelici. Nemmeno il sesso tantrico e le trance indotte dalla musica ottenevano lo stesso efetto.

Poi scoprii un messaggio che William Blake sem-brava aver scritto apposta per me nella sua Visione del

Giudizio universale: “Questo mondo dell’Immagina-zione è il mondo dell’Eternità, è il seno divino che ci accoglierà dopo la morte del corpo Vegetato. Questo Mondo dell’Immaginazione è Ininito ed Eterno, men-tre il mondo della Generazione, o Vegetazione, è Finito e Temporaneo. In quel Mondo Eterno esistono le Real-tà Permanenti di Tutte le Cose che vediamo rilesse in questo Specchio Vegetale della Natura. Nelle loro For-me Eterne Tutte le Cose sono comprese nel corpo divi-no del Salvatore, la vera Vite dell’Eternità, l’Immagina-zione Umana”.

Esultai per questa scoperta. Blake divenne un’arma segreta che potevo usare nella mia battaglia contro i poeti che si riiutavano di essere “antenne della razza”, quelli che consideravano il mondo reale l’unico del quale la poesia potesse occuparsi.

Era pur vero che alcuni di quei poeti, che io deinivo “materialisti”, m’ispiravano. William Carlos Williams, per esempio, mi aveva insegnato molto sull’arte di co-gliere la bellezza concreta.

Adoravo questa sua poesia: “Così tanto dipende /da una / carriola rossa / laccata dall’acqua / piovana / ac-canto alle galline / bianche”.

Williams era il migliore dei poeti materialisti. Le sue opere mi aiutarono ad ainare le mie percezioni e a rendere il mio linguaggio più vigoroso. Ma il mio

amico Blake mi diede i fondamenti teorici grazie ai quali potevo ribellarmi a Williams e salire a un livello più alto. Secondo Blake, i mondi che sogniamo nella nostra immaginazione potrebbero essere più reali del-la carriola rossa.

Quello con lui fu il mio incontro più importante. An-che allora, nonostante la mia immaturità, ero cauto nell’usare in modo indiscriminato questo concetto libe-ratorio. Avevo letto gli occultisti P.D. Ouspensky e G.I. Gurdjieff, e mi avevano fatto intuire che è a causa dell’immaginazione fuori controllo e al servizio dell’ego che la maggior parte delle persone mente costante-mente a se stessa, creandosi un inferno in Terra. Ovvia-mente, questo non era il tipo di immaginazione che in-tendeva Blake. Giurai di tenerlo sempre a mente.

Più reale di una carriola rossa, Blake mi dimostrò che c’era un’altra via d’accesso alla quarta dimensione: essere un artista creativo, sforzarsi con ogni mezzo di disciplinare e sovralimentare il motore dell’immagi-nazione. Fu una scoperta estremamente piacevole. Compresi che la passione che avevo di giocare con la musica, la lingua e le immagini poteva combaciare perfettamente con il mio desiderio di bighellonare nei Campi Elisi.

Inoltre se era vero, come dicevano Blake e gli scia-mani, che tutto quello che accade sulla Terra ha origine nel mondo dello spirito, chi era in grado di usare bene l’immaginazione potenzialmente collaborava con Dio alla creazione, non solo descrivendo quello che succe-de quaggiù, ma dandogli origine dal nulla. Volevo esse-re così. Volevo volare nella quarta dimensione, perlu-strare la fonte dei confusi eventi che si veriicavano sul piano materiale, e risanarli. O meglio ancora, fantasti-cavo di sentirmi tanto sicuro e a mio agio nel tempo dei sogni da poter frugare in quel mondo alla ricerca di ar-chetipi afascinanti ma ancora in embrione da cattura-re e portare sulla Terra ainché maturassero.

Tutti questi pensieri mi afollavano la mente men-tre tentavo d’immaginare come scrivere una rubrica di astrologia senza violare la mia integrità. Volevo ottene-re quel lavoro a ogni costo. In un modo o nell’altro l’avrei avuto. Ma sarei stato molto più contento se fossi

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Popriuscito a confutare le accuse che mi lanciava la mia coscienza di essere “un imbroglione e un ruiano” con le mie pretenziose cazzate su William Blake e la tradi-zione sciamanica.

“Più reale di una carriola rossa”. Perché non chia-mare così il mio oroscopo? Perché non fare tutto quello che mi suggeriva l’immaginazione e nasconderlo die-tro un oracolo astrologico? Non esisteva sicuramente nessun Comitato internazionale sulle regole da rispet-tare negli oroscopi al quale avrei dovuto rendere conto. Anzi, se avessi scritto i miei oroscopi sotto forma di let-tere d’amore ai lettori probabilmente nessuno si sareb-be lamentato delle teorie blakiane e sciamaniche che ci mettevo dentro.

Ciò che ino ad allora avevo odiato delle rubriche di astrologia era che non si basavano su alcun dato astro-logico serio e non potevano dare un’interpretazione corretta della vita di tanti lettori contemporaneamen-te. Spinto da quello che ormai era diventato un propo-sito irrefrenabile, cominciai a vedere la cosa da un’an-golatura diversa. Quel che ci succede, mi dissi, tende a essere quel che pensiamo ci succederà. Il carburante del mondo sono le profezie che si autoavverano. Perciò i miei oracoli sarebbero stati esatti per deinizione: chiunque li avesse presi sul serio inconsciamente sa-rebbe andato nella direzione che gli avevo indicato. Finché avessi mantenuto un tono ottimistico e inco-raggiante, nessuno poteva accusarmi di manipolare i lettori.

Per scrivere il mio primo oroscopo ci misi 43 ore. C’erano dei passaggi felici come questo: “Quella che tu sfoderi, Scorpione, per discrezione non la chiamo ma-gia nera ma grigia, vivida e smagliante: ti trasformerai in un afascinante enfant terrible che gioca con noiosi teoremi, in un indispensabile piantagrane che stravol-ge con il suo fervido casino tutte le tattiche più giudi-ziose. Se poi per compassione riuscirai a temperare il tuo carattere da stronzo alla ine nessuno verrà morso, anzi tutti apprezzeranno lo spettacolo e l’incanto”.

Ma questa prima creazione, e svariate delle succes-sive, non corrispondeva alle mie nobili intenzioni. Tut-tavia, il mio modo di scrivere fu abbastanza spumeg-giante da conquistarmi il favore del direttore di Good Times. O forse quel brav’uomo si accorse semplice-mente che conoscevo bene l’ortograia e la grammati-ca e pensò che non ci sarebbe stato molto da corregge-re. Per quanto ne so, ero stato l’unico a presentare do-manda per quel lavoro. Non che il compenso previsto potesse attirare le folle. Come scoprii al primo incon-tro con il mio capo, la paga era di quindici dollari alla settimana, così bassa che avrei ancora avuto diritto ai buoni pasto.

Ma la considerai una fortuna, visto che sarei stato pagato per fare il poeta sotto mentite spoglie. Il mio progetto a lungo termine, dopotutto, era quello di co-struirmi un’immaginazione abbastanza fervida da per-mettermi di accedere regolarmente alla quarta dimen-sione senza l’aiuto della psichedelia. E quale allena-mento poteva essere migliore dello sfornare ogni setti-mana dodici oracoli sotto forma di forbite bombe ver-bali? u alo

A ottobre i mezzi d’informazione bo-sniaci hanno annunciato una notizia clamorosa: la star di Hollywood An-gelina Jolie avrebbe diretto un film sulla Bosnia! Sarebbe stata una storia d’amore, girata in Bosnia con attori

del posto. Ma il clamore si è presto trasformato in scan-dalo: il ministero della cultura negava a Jolie e alla sua troupe il permesso di girare nel paese. Il ministro Gavri-lo Grahovac ha spiegato di aver preso la decisione spin-to dalle proteste dell’associazione Donne vittime della guerra, che rappresenta le donne vittime di stupri di massa durante la guerra in Bosnia.

È diicile dire quale sia lo scandalo maggiore, se il divieto delle riprese o le dichiarazioni di Grahovac. Il ministro si è detto dispiaciuto di non poter vietare an-che il ilm, visto il suo carattere ofensivo verso le tantis-sime vittime (si stima che durante la guerra siano state stuprate tra le 20mila e le 50mila donne). In tutto ciò nessuno aveva letto la sceneggiatura, né Grahovac né le donne che gli avevano chiesto di prendere posizione. A quanto pare è la storia di una vittima che s’innamora del suo stupratore.

Anche con tutta la comprensione possibile per le vittime e i loro sentimenti, va detto che l’unica parola per deinire la loro richiesta è “censura”. Che diritto avevano, se non un diritto morale, di chiedere che le riprese fossero vietate? La censura non dovrebbe essere chiesta solo in caso di reati punibili dalla legge? E co-munque, anche in quel caso, spetterebbe a un pubblico ministero intervenire, non a un ministro della cultura. È come se i rappresentanti dei sopravvissuti dell’Olo-causto invitassero un ministro della cultura a prendere posizione contro un ilm in cui una vittima ebrea s’inna-mora di un carneice tedesco. Un’ipotesi assurda.

Il tema degli stupri di massa di donne bosniache è delicato, ma questo non è un motivo per non parlarne. Il ilm di Jasmila Žbanić Il segreto di Esma – Grbavica, Orso d’oro al festival di Berlino del 2006, raccontava la storia di una donna costretta a dire alla iglia adolescen-te che è il frutto di uno di questi stupri. Il problema, nel caso di Angelina Jolie, è che i bosniaci, come molte vit-time, non amano che gli stranieri icchino il naso nella “loro guerra”. Com’è noto, le vittime si considerano i migliori giudici della propria soferenza sul piano mo-rale, se non anche su quello artistico. E gli stranieri sono spesso accusati di sfruttare la soferenza per fare soldi.

Disgraziatamente, molte opere d’arte sulla guerra in Bosnia hanno rappresentato in modo mediocre o inadeguato la soferenza dei bosniaci. Vivere esperien-ze tragiche non garantisce la capacità di esprimerle in una forma artistica. Anzi, secondo alcuni studi sulla psicologia delle vittime, queste ultime sono raramente

La Bosnia blocca Angelina Jolie

Slavenka Drakulić

SLAvenkA DrAkuLić

è una scrittrice e giornalista croata. Vive in Svezia. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Come se io non ci fossi

(Rizzoli 2000). Questo articolo è uscito sulla Neue Zürcher Zeitung con il titolo Bosniens

Scham und Schande.

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 101

Pare che il prestigio di Obama per-da colpi nei sondaggi, ma questo non rallenta l’attività del suo mini-stro dell’educazione, Arne Dun-can. La nomina è stata approvata dal senato il 20 gennaio del 2009 e Duncan si è subito dedicato a ini-ziative che discute con gruppi di insegnanti. Quattro miliardi di dollari delle risorse stanziate dall’amministrazione Obama, in aggiunta a quelle già previste da Bush, sono stati destinati al pro-getto Race to the top. Andranno a quegli stati che presentano proget-

ti per valutare degli insegnanti in base ai miglioramenti dei risultati dei loro studenti nei consueti test standard.

I proponenti sono invitati an-che a includere nei progetti l’espansione di quelle scuole a contratto che hanno poco a che fa-re con le nostre scuole private: operano con contratti a termine nelle aree a rischio e con severi controlli dei risultati che si sono impegnate a raggiungere. E anco-ra: già nel 2001 la camera dei rap-presentanti aveva varato il Deve-

lopment, relief and education for alien minors act, il Dream act. La norma era decaduta. Duncan ne ha ottenuto il rinnovo tre mesi do-po il suo insediamento e in queste settimane è impegnato con le or-ganizzazioni studentesche dei lati-nos a ottenere che la camera ap-provi con urgenza una norma inte-grativa bipartisan perché giovani immigrati senza permesso di sog-giorno possano ottenere il permes-so a tempo indeinito a condizione che studino con successo per due anni in college e università. u

Scuole Tullio De Mauro

Punta al massimo

in grado di descrivere cos’hanno subìto, ancor meno in forma artistica. Angelina Jolie , al suo debutto alla regia, forse farà un ilm bruttissimo e insensibile. Ma è anche possibile il contrario. Chiedere di vietare un ilm che non è ancora stato girato non ha senso.

Non bisogna dimenticare che se nel 2002 lo stupro di massa è stato riconosciuto come strumento di “puli-zia etnica” ed esempio di crimine contro l’umanità, è solo perché le donne stuprate hanno accettato di parla-re con giornalisti, rappresentanti delle organizzazioni umanitarie internazionali, investigatori e giudici (all’Aja), e perché gli stupri di massa in Bosnia e in Ruanda sono initi sotto i rilettori di tutto il mondo.

Non solo: trovo molto discutibile l’argomento prin-cipale delle Donne vittime della guerra, e cioè che si sentono ofese dall’idea che una di loro avrebbe potuto innamorarsi del suo stupratore e aguzzino. È la prova che per loro i responsabili rimangono dei mostri, degli animali. Per stuprare, torturare o uccidere quelle donne hanno dovuto svilirle, privarle dei loro tratti umani, ri-durle a “spazzatura”, come le chiamavano. Negando un’umanità ai responsabili, le vittime fanno esattamen-te quel che gli stupratori hanno fatto a loro.

Non sto dicendo che le vittime di stupri dovrebbero dimenticare. È estremamente diicile. Dimenticare, come perdonare, è un atto individuale. Ma la disuma-nizzazione dei responsabili non fa che ostacolare la comprensione del problema fondamentale: ognuno di noi racchiude dentro di sé, in potenza, il bene e il male. In una situazione critica, non possiamo sapere da che parte staremo. È un lato molto sgradevole della natura umana. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, disumanizzando i colpevoli si inisce per giustiicare i loro crimini: non sono responsabili perché non sono umani. Sono solo animali.

Per dirla tutta, le donne vittime della guerra devono afrontare un altro problema, ben più serio, un’umilia-zione inlitta dalle loro stesse comunità. Il ritorno alla

vita quotidiana non è stato facile per le vittime di stupri. Fino a poco tempo fa non erano nemmeno riconosciute legalmente come vittime civili di guerra. In altre parole, non ricevevano pensione né altre prestazioni sociali, un’ingiustizia che si aggiungeva alla “vergogna” già su-bìta. Questo mancato riconoscimento legale è emerso solo dopo l’uscita del ilm di Žbanić, che ha anche lan-ciato una petizione internazionale ottenendo un cam-biamento della loro condizione giuridica.

Non sarebbe meglio afrontare i problemi e le fru-strazioni reali delle vittime di guerra in Bosnia, invece che quelli immaginari? Essere stigmatizzate e respinte dalle loro comunità, pur non avendo nessuna colpa, le ferisce sicuramente più di una storia d’amore inventata da una star di Hollywood.

La polemica scatenata dalla decisione del ministro è andata avanti un mese. Quando alla ine il divieto è stato annullato, era troppo tardi. Angelina Jolie aveva deciso di girare il ilm a Budapest. u fs

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Scienza e tecnologia

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Le nuove frontiere dello spam

Il 15 novembre, quando il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha pre-sentato il suo nuovo servizio di mes-saggi, ne ha sottolineato la sicurezza:

“Sapendo chi sono i nostri amici, possiamo adottare ottimi iltri per leggere solo quello che ci interessa”, ha spiegato Zuckerberg con un ottimismo forse eccessivo.

Gli spammer stanno passando ai social network perché le email danno sempre me-no risultati. Secondo l’azienda Cisco, alla ine del 2009 il volume dello spam ha co-minciato a ridursi e negli ultimi tre mesi si è quasi dimezzato, dopo che le autorità han-no messo fuori uso alcune reti russe e olan-desi. Uno dei motivi è che le società di sicu-rezza informatica hanno lavorato su tutti gli anelli della catena, dal contenuto dello spam al mittente, riuscendo a bloccarne più del 98 per cento.

Per eludere i iltri, gli spammer hanno bisogno di molti indirizzi. Per una sola truf-fa possono arrivare a comprare diecimila nomi di dominio, il che è sempre più com-plicato. Dopo l’invasione di registrazioni al dominio .cn provenienti dalla Russia, la Ci-na ha imposto controlli più severi per gli stranieri. A settembre, dopo un incontro sulle trufe farmaceutiche in rete, la Casa Bianca si è concentrata sui registrar, le so-cietà che gestiscono i nomi di dominio.

Chi fa affari illegali affidandosi allo spam è a rischio soprattutto nei paesi come gli Stati Uniti, dove la legge viene rispettata. Anche i trufatori, come le aziende oneste, ne apprezzano la solidità dei network e l’af-idabilità degli hosting. In questi paesi, pe-rò, le forze dell’ordine e gli esperti di sicu-rezza informatica sono più attivi e hanno cominciato a lavorare insieme.

Il classico spam viene da freelance paga-ti per convogliare il traico verso siti che vendono pillole e marchi contrafatti. La loro arma principale è sempre stata la quan-tità: mandando milioni di email da più com-puter, ci sono buone probabilità che qualcu-na passi. Ma ora lo spam vecchio stile sta raggiungendo il suo limite, sostiene Patrick Peterson, responsabile della ricerca sulla sicurezza di Cisco. Nel 2008 i ricercatori dell’università della California a Berkeley e a San Diego si sono inti spammer e ne han-no misurato il successo: l’indagine ha con-fermato solo 28 vendite su 350 milioni di email inviate. E da allora, dice Peterson, i numeri continuano a scendere.

Creatività informaticaGli spammer, però, sono molto creativi. In-vece di trufare i consumatori con le vendi-te, ora rubano direttamente i loro soldi. Prima i link indirizzavano a siti che vende-vano prodotti contraffatti, ora installano trojan che setacciano i computer alla ricer-ca di informazioni bancarie e simili: questo tipo di spam è il 5 per cento delle email, mentre il tipo convenzionale è intorno al 90 per cento. Gli spammer sono diventati an-che più abili a sfruttare la iducia degli uten-

La battaglia contro i messaggi indesiderati nella posta elettronica comincia a dare buoni risultati. Ma gli spammer cercano altre vie e partono all’attacco dei social network

The Economist, Gran Bretagna

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ti, e i social network sono i luoghi ideali. Twitter calcola che lo spam rappresenta so-lo l’1 per cento del suo traico. Ma i ricerca-tori dell’università di Berkeley e dell’uni-versità dell’Illinois di Champaign-Urbana hanno dimostrato che l’8 per cento dei link pubblicati è sospetto e conduce in gran par-te a trufe e a trojan. I link dei messaggi di Twitter sono cliccati venti volte di più ri-spetto a quelli delle email.

Nemmeno Facebook è al sicuro. BitDe-fender, una società di sicurezza informati-ca, ha condotto un esperimento creando dei falsi profili e chiedendo l’amicizia a estranei. I proili hanno ottenuto cento nuo-vi amici al giorno, e quelli di ragazze carine avevano più probabilità. Quando i ricerca-tori hanno esteso le richieste a estranei con cui avevano un amico in comune, quasi la metà ha accettato. E un quarto dei nuovi amici ha cliccato su link pubblicati dalla so-cietà, anche se la destinazione era nascosta. Ma la capacità di ripresa degli spammer è stata dimostrata soprattutto da Koobface, un trojan che si difonde nei social network, apparso su Facebook nel maggio del 2008. Secondo gli esperti, inora avrebbe fruttato due milioni di dollari. Lo spam è tutt’altro che tramontato. u sdf

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 103

IN BREVE

Neuroscienze È stata creata la prima mappa tridimensionale del cervello della drosoila, il moscerino della frutta. Permet-terà di studiare il passaggio e l’elaborazione delle informazio-ni tra i neuroni, e quindi il com-portamento degli insetti, scrive Current Biology. I ricercatori hanno collegato virtualmente i 16mila neuroni, ricostruendo le unità locali di processamento delle informazioni e le loro con-nessioni. Nell’immagine, il cervel-lo di una femmina adulta di mo-scerino.Antropologia L’abitudine di masticare le foglie di coca era già difusa tra le popolazioni pe-ruviane ottomila anni fa, scrive la rivista Antiquity, tremila anni prima di quanto si pensasse. Re-sti di foglie sono stati trovati nelle case preistoriche della val-le Nanchoc, in Perù, insieme a rocce di calcite, usate per estrar-re gli alcaloidi dalle foglie.

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NEUROSCIENZE

Profumi nel pancione Le preferenze a tavola vengono registrate nel cervello prima del-la nascita. Lo dimostrano i topi nati all’università del Colorado da madri che durante la gravi-danza erano state alimentate con cibi all’aroma di menta e ci-liegia. una volta svezzati, i topo-lini continuavano a preferire questi odori e avevano glomeru-li più grandi. I glomeruli sono strutture del bulbo olfattivo, da cui dipendono il riconoscimento degli odori e le preferenze indi-viduali. L’esposizione ai profumi durante la gestazione quindi non inluisce solo sui gusti, ma anche sullo sviluppo del sistema olfattivo. Riconoscere i profumi a cui si è stati esposti nella vita fetale ha un signiicato evoluti-vo, scrive la rivista Procee-dings of the Royal Society B: permette di riconoscere dall’odore i cibi commestibili e i propri consanguinei.

AMBIENTE

La pesca al limite L’aumento del pescato negli ul-timi cinquant’anni è stato possi-bile grazie allo sfruttamento progressivo di nuove zone di pe-sca. Ma ora l’espansione ha rag-giunto il limite. Secondo il pri-mo studio globale sulla difusio-ne geograica della pesca dal 1970 al 2005, condotto dall’uni-versità della British Columbia, le acque sfruttate sono aumen-tate al ritmo di un milione di chilometri quadri all’anno dal 1950 al 1970. Nel decennio suc-cessivo il ritmo è triplicato.

Dove tenere le vitamine?

L’armadietto dei medicinali in bagno può sembrare il luogo ideale per conservare le vita-mine e gli integratori alimen-tari, ma non è così. Il calore e l’umidità dei bagni tendono a deteriorare queste sostanze. Il processo, noto come delique-scenza, può ridurre l’eicacia delle vitamine B e C e di altri integratori idrosolubili, ren-dendoli inutili. I tappi ermetici non sempre risolvono il pro-

blema, perché l’umidità entra quando vengono aperti e chiu-si. Nel 2010 un’équipe di scienziati dell’alimentazione della Purdue university ha mi-surato la stabilità di diversi in-tegratori a base di vitamina C. I prodotti hanno mostrato se-gni di deterioramento quando il tasso di umidità superava l’80 per cento, un livello che può essere prodotto dal vapore di una doccia calda. Altri studi hanno rilevato efetti simili su tiamina, vitamina B6 e inte-

gratori alimentari idrosolubili esposti ad ambienti umidi. I li-velli di umidità possono essere molto elevati anche in cucina. I prodotti deteriorabili – multi-vitaminici, vitamine per bam-bini o medicinali in polvere – vanno tenuti in luoghi freschi e asciutti, come la camera da letto. Conclusioni tenere le vitamine nell’armadietto dei medicinali in bagno o in altri luoghi umidi può ridurne l’eicacia.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Fresche e asciutte

un nuovo progetto sostenuto da dieci paesi europei prevede di costruire una grande rete elettrica sottomarina che colleghi la gran Bretagna, la Norvegia, la Danimarca e gli altri paesi che afacciano sul mare del Nord. ora che i giacimenti di petrolio e gas naturale si stanno esaurendo, quest’area potrebbe fornire energia

all’europa grazie al vento. I permessi per costruire gli impianti eolici marini si ottengono più facilmente di quelli per gli impianti terrestri, e i venti forti assicurano una buona produzione di energia. Inoltre l’obiettivo dell’unione europea di tagliare del 20 per cento le emissioni di gas serra entro il 2020 ha incoraggiato la costruzione degli impianti e favorisce il progetto di una rete. Ma gli ostacoli non mancano, dal punto di vista sia economico (un chilometro di cavi sottomarini può costare anche un milione di euro) sia tecnologico. La rete marina funzionerà a corrente continua, a diferenza di quelle attuali a corrente alternata. Sarà quindi necessario sviluppare la tecnologia appropriata, dalle stazioni sottomarine intermedie ai sistemi di controllo, senza dimenticare i sistemi di blocco degli impianti, per evitare che le tempeste marine mandino in tilt tutto il sistema. Il costo previsto per il progetto è di venti miliardi di euro. u

Tecnologia

I venti del nord

Nature, Gran Bretagna

L’aumento del pescato

2005 87 milioni

di tonnellate1950 19 milioni

di tonnellate

Fonte: Plosone 2010

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104 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Il diario della Terra

42,8°CKoolan, Island,

Australia

Papua NuovaGuinea6,9 M

NuovaZelanda

5,4 M

Cina5,5 MIsraele

Abele

PoloniaRep. Ceca

Slovacchia,Lituania

­55,8°CGorjacinsk,

Russia

Cina

Colombia

Albania

Australia

Ecuador

Nuova Zelanda

Svezia2,8 M

Tra il tapis roulant, l’ellittica e la cyclette, qual è la scelta mi­gliore per l’ambiente? La pri­ma risposta di Slate è “alle­narsi all’aperto”. Ma se fuori è buio e fa freddo, si può andare in palestra cercando di inqui­nare il meno possibile. In que­sto caso è meglio evitare i tapis roulant che, tra tutti gli attrez­zi, sono quelli più energivori. In media, una bella corsa ri­chiede tra i 600 e i 700 watt di energia elettrica, quanto tre o quattro televisori lcd da 46 pollici lasciati accesi il tempo dell’esercizio. Se si corre per due ore e mezza alla settima­na, come consigliano gli esperti, il tapis roulant emette­rà circa 50 chili di anidride car­bonica all’anno, l’1 per cento delle emissioni medie di un’auto. Ci sono grandi diffe­renze di consumo tra i model­li: si va da 280 watt a 928 watt. I tapis roulant vecchi e sporchi, i corridori pesanti e la corsa veloce fanno aumentare verti­ginosamente il consumo elet­trico. Le cyclette e le bici ellit­tiche consumano meno. Alcu­ne, ma sono i modelli più co­stosi, sono autoalimentate: un buon ciclista riesce a fornire i 10 watt necessari al funziona­mento del display di controllo e ad alimentare un televisore da 15 pollici per la durata dell’allenamento.

Per quanto riguarda gli stepper, ce ne sono alcuni au­toalimentati mentre altri con­sumano quanto un’ellittica. Esistono anche palestre che rie scono a recuperare l’energia prodotta dai corsi di spinning, ma le apparecchiature neces­sarie per questo tipo di opera­zione sono ancora costose e poco diffuse.

Ginnasticad’interni

Ethical living

Frane Trentasette persone sono morte e un centinaio ri­sultano disperse a causa di una frana che ha travolto il villag­gio di Bello, nel nordovest del­la Colombia.

Incendi Quarantadue per­sone sono morte nell’incendio che si è sviluppato nel parco nazionale del monte Carmelo, in Israele. Le iamme hanno di­strutto cinquemila ettari di ve­getazione. u Ventidue persone sono morte in un incendio nel­la provincia del Sichuan, nel sudovest della Cina.

Freddo Almeno 79 persone sono morte a causa dell’ondata di freddo che ha colpito tre pa­esi dell’Europa centrale: Polo­nia, Repubblica Ceca e Slovac­chia. Altre 16 persone hanno perso la vita in Lituania e nella capitale russa Mosca.

Alluvioni Le alluvioni che hanno colpito la regione di Skhodra, nel nord dell’Albania,

hanno costretto 13mila perso­ne a lasciare le loro case. u Gli allagamenti nel New South Wales, nel sudest dell’Austra­lia, hanno spinto le autorità a trasferire 1.500 persone.

Terremoti Un sisma di magnitudo 6,9 sulla scala Richter ha colpito la Papua Nuova Guinea, senza causare vittime. Scosse più lievi sono state registrate in Nuova Zelanda, nella regione cinese del Tibet e in Svezia.

Vulcani Il governo ecuadoriano ha proclamato lo stato d’allerta dopo il risveglio del vulcano Tungurahua, nel centro del paese.

Cicloni La tempesta tropicale Abele si è formata nell’oceano Indiano centrale.

Foche Ventitré foche, tra cui otto cuccioli, sono state uccise a colpi di mazza nella colonia di Ohau Point, nel sud della Nuova Zelanda.

Batteri Alcuni batteri che si nutrono di arsenico sono stati individuati nel lago Mono, in California. Finora non si conoscevano organismi capa­ci di usare questo elemento tossico, scrive Science.

Meningite Dodici milioni di persone in Burkina Faso saranno vaccinate contro la meningite entro la ine del 2010. MenAfriVac, un nuovo vaccino contro il meningo­cocco A, dovrebbe aiutare a debellare la malattia dai 25 paesi africani della “cintura della meningite”, che va dal Senegal all’Etiopia.

La meningite in AfricaDati registrati in 14 paesi della cintura della meningite, 2009

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Bello, Colombia

Biodiversità La progressiva scomparsa di specie viventi favorisce la trasmissione delle malattie infettive umane, animali e vegetali, scrive Na­ture. Anche se le aree ad alta biodiversità sono delle riserve di patogeni, sono proprio le specie che scompaiono per prime quelle capaci di frenare la difusione dei patogeni.

Acqua Gli oceani della Terra non derivano dal bombarda­mento di comete e asteroidi, terminato circa 3,9 miliardi di anni fa, ma sono di origine terrestre, sostiene Astrophy­sics and Space Science.

5.352 morti

88.199 casi sospetti

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 105

u Nei Paesi Bassi un quarto del-le terre si trova al livello del ma-re o al di sotto. Buona parte del territorio è stata sottratta al ma-re ed è protetta da una fascia di dune costiere e da un sistema di dighe, canali, argini e chiuse. La creazione di nuove terre, a spe-se del mare del Nord, non si è mai fermata e il porto di Rotter-dam ne è uno degli esempi più recenti.

è uno dei principali porti eu-

ropei: nel 2009 sono passate per questo scalo 400 milioni di ton-nellate di merci, ma sta raggiun-gendo i limiti della sua capacità. Per rimanere competitivi, gli olandesi hanno deciso di avvia-re un progetto ambizioso per sottrarre nuove terre al mare e triplicare la capienza del porto. Il satellite Landsat 5 ha seguito la sua espansione, visibile in queste immagini del 2006 (so-pra) e del 2010.

L’obiettivo del progetto, il Maasvlakte 2, è di aggiungere più di 20 chilometri quadrati di supericie. Per la costruzione è stata usata la stessa lotta di na-vi da dragaggio servita per le Palm islands di Dubai. Sono sta-te raccolte tonnellate di sabbia dal fondo dell’oceano e usate per creare delle alture. La terra sottratta al mare servirà soprat-tutto per ospitare i terminal dei containers.– Michon Scott

Per ampliare il porto di

Rotterdam sono state sot-

tratte nuove terre al mare

del Nord.

Il pianeta visto dallo spazio

Rotterdam, Paesi Bassi

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106 Internazionale 876 | 10 dicembre 2010

Economia e lavoro

Il 28 novembre l’ennesima riunione iume a Bruxelles si è conclusa con il salvataggio di un’economia in dii-coltà e con varie idee su come argina-

re la crisi dell’euro. Gli aiuti all’Irlanda han-no un copione simile a quelli della Grecia, ma un esito molto diverso. Dopo i 110 mi-liardi di euro dati ad Atene il rendimento dei titoli di stato greci è sceso e i mercati si sono calmati. Ora è stato approvato un pac-chetto da 85 miliardi per l’Irlanda ed è stato varato il Meccanismo di stabilità europea (Esm), un sistema per la gestione delle crisi che entrerà in vigore nel 2013, ma questa volta i tassi dei titoli sono saliti ed è aumen-tato il rischio che la crisi si estenda a Porto-gallo, Spagna, Italia e Belgio.

I politici protestano. “La speculazione sui mercati inanziari non si può spiegare con argomenti razionali”, ha detto il mini-

stro delle inanze tedesco Wolfgang Schäu-ble. Invece è possibile, e con tre motivi. In-nanzitutto, gli investitori sospettano che il salvataggio dell’Irlanda non risolva i guai del paese. Temono che Dublino non riesca a imporre le misure di austerità promesse e che l’economia irlandese non cresca abba-stanza da garantire le entrate necessarie a rimborsare gli enormi debiti dello stato.

In secondo luogo, gli aiuti europei non sono suicienti per il salvataggio di paesi più grandi. Gli investitori non sono sicuri che l’European inancial stability facility (Efsf ), il fondo da 750 miliardi di euro crea-to a maggio, sia suiciente per salvare la Spagna e le sue banche. Alcuni funzionari della Commissione europea vogliono rad-doppiare la dotazione del fondo, ma la Ger-mania ha subito scartato l’idea.

Infine, bisogna considerare che con l’Esm l’insolvenza di uno stato europeo non sarà più un tabù. Berlino aveva chiesto che i paese a cui sono concessi gli aiuti fossero costretti a ristrutturare il debito, cioè rive-dere il tasso di rendimento e le condizioni per il rimborso dei prestiti (con la ristruttu-razione, in sostanza, gli investitori accetta-no di perdere una parte del credito). Alla i-ne è stato deciso che i paesi avranno accesso

ai fondi dell’Esm senza costringere i credi-tori a rinunciare ai soldi, ma a patto che il Fondo monetario internazionale, la Banca centrale europea (Bce) e la Commissione europea, d’accordo con i ministri inanziari dell’eurozona, lo considerino possibile.

Secondo alcuni avvocati, inoltre, nell’Esm non c’è niente che impedisca la ristrutturazione del debito emesso prima del 2013. Lee Buchheit, dello studio new-yorchese Cleary, Gottlieb, Steen & Hamil-ton, sostiene che i paesi potrebbero imporre per legge una specie di retroattività. Tutto questo rende più probabile la ristrutturazio-ne. Se quindi l’insolvenza dei governi dell’eurozona non sarà più un tabù, gli inve-stitori cambieranno anche il modo di valu-tare l’aidabilità dei paesi. Nelle economie emergenti considerano pericoloso il debito pubblico già quando supera il 40 per cento del pil. Potrebbero fare lo stesso in molti pa-esi dell’eurozona, dove il rapporto tra debi-to e pil è almeno il doppio. Se il rendimento dei titoli di stato resta alto, la strategia di salvataggio dell’Europa fallirà. Sembrano esclusi trasferimenti diretti dai paesi più forti (come la Germania) ed è stata bocciata la proposta di creare bond europei comuni. L’unica alternativa è la Bce, che inora ha aiutato gli istituti in crisi con iniezioni di li-quidità e i governi comprando i loro titoli di stato. Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, ha annunciato che l’acquisto dei titoli e il sostegno alle banche più deboli continue-rà anche nel 2011. In questo modo la Bce potrebbe realizzare di fatto un salvataggio occulto della periferia dell’eurozona. Non sarà una bella soluzione, ma allontana al-ternative molto peggiori. u sdf

Non sarà semplicesalvare l’euro

Il piano per l’Irlanda non ha convinto i mercati. Gli investitori temono che i problemi di Dublino non siano initi e che l’Europa non riuscirà ad aiutare paesi più grandi, come la Spagna

The Economist, Gran Bretagna

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Lisbona, Portogallo

u Il 7 dicembre il governo irlandese ha presentato la inanziaria per il 2011, che prevede tagli e nuove tasse per sei miliardi di euro e fa parte di un piano quadriennale da 15 miliardi. La sua approvazione (la legge è già passata alla camera bassa) sbloccherà la prima tranche degli aiuti approvati dall’unione europea. Tra le misure annunciate dal ministro delle inanze Brian Lenihan c’è la riduzione del 4 per cento delle pensioni percepite da chi ha lavorato nel settore pubblico. Dublino, inoltre, taglierà molte agevolazioni iscali, tra cui quelle per le famiglie con bambini piccoli. Inoltre, sarà introdotto un tetto di 250mila euro annui agli stipendi pubblici.Bbc

Da sapere

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 107

corea del sud

libero scambio con Washington Il 3 dicembre i negoziatori della Corea del Sud e degli Stati Uniti hanno completato i termini di un accordo di libero scambio tra i due paesi. L’intesa, scrive il New York Times, “eliminerà gran parte delle tarife sulle esportazioni, ma la sua attua-zione deve essere approvata dai parlamenti di Washington e Seoul”. I due paesi continueran-no a trattare sulle tarife che ri-guardano le automobili. Per il momento la Corea del Sud ri-durrà dall’8 al 4 per cento i dazi sulle auto importate.

in breve

Stati Uniti A novembre il tasso di disoccupazione è salito dal 9,6 al 9,8 per cento. Nell’ultimo mese l’economia statunitense ha creato solo 39mila posti di la-voro, contro i 130mila previsti. La Casa Bianca ha deinito inac-cettabile il numero dei senza la-voro.

La Colombia è uno dei principali fornitori di carbone dei gruppi energetici tedeschi, che usano sempre più questa materia prima nelle loro centrali. “Ma in Europa”, scrive la Süddeutsche Zeitung, “pochi sanno che l’estrazione del carbone colombiano ha alti costi ambientali e umani. A ottobre, mentre il mondo era in apprensione per i 33 minatori intrappolati nella miniera cilena di San José, un’esplosione ha ucciso 73 persone nella miniera di carbone di Amagá, in Colombia. Dal 2004 l’estrazione di carbone ha ucciso nel paese quasi 500 minatori”. u

colombia

la maledizione del carbone

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unGHeria

Giù le mani dalle pensioni Il 24 novembre migliaia di per-sone hanno protestato a Buda-pest contro la decisione del go-verno di nazionalizzare i fondi pensione privati, usati da tre mi-lioni di ungheresi per integrare la pensione garantita dallo sta-to. La misura permetterà a Bu-dapest di spostare nel bilancio pubblico dieci miliardi di euro. “Una vera e propria manna dal cielo”, scrive Le Figaro. “Buda-pest potrà mantenere gli impe-gni presi con l’Unione europea e il Fondo monetario internazio-nale che, in cambio di un pac-chetto di aiuti da venti miliardi di euro, hanno chiesto all’Un-gheria di ridurre il deicit pub-blico”.

finanza

i complici di Madof Irving Picard, il liquidatore dell’afare Madof, incaricato di recuperare i fondi delle vittime di una delle trufe più grandi della storia, ha chiesto nove mi-liardi di dollari di risarcimenti alla banca britannica Hsbc. “La banca ha ignorato ripetutamen-te le denunce di irregolarità, comprese quelle della società di consulenza Kpmg, per non ri-nunciare a lucrosi guadagni”, scrive l’Independent. Secondo Picard lo schema Ponzi, il mec-canismo piramidale usato da Bernie Madof per la trufa, non avrebbe potuto funzionare sen-za la complicità della banca.

Topaga, Colombia, in una miniera di carbone

Rapporto tra deicit e pil, in percentuale

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2007

-3,7

-4,4

-3,8

2008

2009

2010

Fonte: Le Figaro

il numero Tito Boeri

27 opere prioritarie

Nell’Allegato infrastrutture al-la inanziaria 2011 ci sono 27 opere deinite prioritarie. Dal-la promulgazione della legge obiettivo del 2001 le opere prioritarie sono prima passate da 19 a 9, poi sono arrivate a 182 e ora sono tornate a 27. Ma sono ancora troppe.

A causa dei vincoli di bilan-cio mancheranno a lungo i sol-di per realizzare le opere pre-viste. I tagli agli enti locali la-sciano risorse solo per le gran-di opere inanziate da roma e penalizzano i piccoli progetti locali e le manutenzioni, per esempio quelle delle strade. Ci

saranno ripercussioni non solo sul traico e sull’ambiente, vi-sto che la maggior parte degli spostamenti avviene all’inter-no della stessa regione o città, ma anche sull’occupazione, perché le piccole opere creano più lavoro. Inoltre, come spie-ga Marco Ponti su lavoce.info, in seguito a una recente modi-ica legislativa d’ora in poi non si procederà per “lotti funzio-nali” (le parti di opera che, pur non completandola, hanno una qualche utilità: per esem-pio, il tratto percorribile di una linea ferroviaria o di un’auto-strada), ma per “lotti costrutti-

vi” (la costruzione di tratti che possono inire in aperta cam-pagna ed essere comunque appaltati anche se l’opera non sarà mai inita).

Sarebbe meglio progettare ogni grande opera per fasi suc-cessive legate alla domanda e alla disponibilità inanziaria garantita per ogni lotto. Altri-menti avremo continue inter-ruzioni dettate dalla periodica mancanza di risorse e opere inutilizzabili ino all’inaugura-zione, quando forse saranno obsolete. L’Italia rischia di di-ventare la terra delle opere in-compiute. Ma forse lo è già. u

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 109

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Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 111

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Fermi tutti, questa è una rapina!Dammi subito i soldi o farò qualcosa

che non ti piacerà.

Oh, sul serio?

Certo, ragazzino… non hai idea di cosa sono capace!

Considerato che sto seduto sul collo di quell’ubriaco che ti muove con la mano… Ehi! Mi ha appena vomitato sui pantaloni.

Mi dispiace, bambino. È più o meno l’unica

cosa che riesce a fare in questi momenti cruciali.

No, ma non ho paura di un burattino.

MUSICA!

BALLIAMO

MADARIAGA

NON TE LA

PRENDERE

NON SEI PROPRIO

UN “FRED

ASTAIRE”.

MAMMA, ADESSO CHE HO DODICI ANNI HO IL DIRITTO DI ESSERE TRATTATA COME UN’ADULTA.

HAI RAGIONE.

ACCIDENTI, COME ADULTA SEI UN PO’ BASSINA. E POI CHE CAVOLO DI MAGLIETTA TI SEI MESSA? SEMBRI

UNA BAMBINA!

VIVI ANCORA DAI TUOI? HAI QUALCHE PROBLEMA? NON HAI ANCORA PRESO IL DIPLOMA? DEVI ESSERE STUPIDA.

EHI, MI PRESTI CINQUANTA EURO? HO USATO I SOLDI PER LE PASTICCHE

“ANTI-EGOCENTRISMO” DI MIA FIGLIA PER COMPRARMI UNA CREMA AD AZIONE ULTRA-STRONZANTE.

si dice che i nostri ricordi siano legati ai cinque sensi, e

in particolare all’olfatto.

per questo faccio spesso la cacca su quelli che incontro. è importante lasciare il segno

sulle persone.

devo preoccuparmi per quella festa di compleanno che mi

stai organizzando per il mese prossimo?

rilassati. te l’ho già detto. sarà una notte

indimenticabile.

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Rob Brezsny

L’oroscopo

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VERGINE

Nel suo inquietante brano One blood, la cantante della

Vergine Lila Downs confessa: “La cosa che mi fa più paura è il mio desiderio”. Conosco molte perso-ne della Vergine che esprimono ti-mori simili. Anche tu sei spaventa-to dalla forza del tuo desiderio? Ti accorgi di essere restio a scatenare tutta la forza della tua passione o di essere preoccupato di perdere il controllo o di smarrirti? Se è così, le prossime settimane saranno il periodo ideale per sgominare le tue paure. È arrivato il momento di liberare i tuoi desideri, almeno per un po’.

BILANCIA

Le parole che ti danno forza sono: ibrido, amalgama,

composto, aggregato, miscela, le-ga, ensemble. Quelle che invece ti rendono impotente sono: confu-sione, guazzabuglio, miscuglio, patchwork. Sforzati di usare le pri-me e di evitare le seconde. Il tuo compito è creare un piacevole ac-cordo sinergico tra una molteplici-tà di fattori. Ma evita di mettere in-sieme inluenze diverse in modo disordinato. Mentre realizzi la tua fusione, cerca di essere calcolatore e stratega, non avventato e super-iciale.

SCORPIONE

Sulla mia pagina di Facebo-ok ho postato questo estrat-

to da un brano di Pablo Neruda: “Il nostro amore è come un pozzo nel deserto dove il tempo veglia sui fulmini vaganti. Il nostro sonno è un tunnel segreto che porta al pro-fumo di mele trasportato dal ven-to”. In risposta, un utente che si chiama John F. Gamboa mi ha scritto: “Una volta ho trovato un pozzo nel deserto, c’erano una cor-da e un secchio. Il secchio aveva un piccolo foro. Quando ho tirato su l’acqua, circa la metà è andata perduta. Ma suppongo che se il secchio non fosse stato rotto, qual-cuno l’avrebbe rubato. Perciò me-glio quello bucato, che mi ha per-messo di ottenere ciò di cui avevo bisogno!”. Sono qui per dirti, Scor-pione, che in questo momento an-che a te serve un secchio con un piccolo foro.

CAPRICORNO

Da anni faccio un sogno ri-corrente in cui trovo tesori

tra la spazzatura. Credo signiichi che nella mia vita da sveglio devo essere sempre attento alla possi-bilità di incontrare cose belle o di valore mescolate con quello che è stato scartato o dimenticato. Di recente ho saputo che in Giappo-ne sono riusciti a estrarre un’enor-me quantità d’oro dalla fanghiglia iltrata da un impianto di depura-zione. Ti esorto a farne la tua me-tafora della settimana, Capricor-no. Quali ricchezze potresti estrarre dalla polvere e dalle om-bre?

ACQUARIO

Ti chiedi se faresti bene a immagazzinare la tua ener-

gia e a trattenerla in tutta la sua intensità in attesa di un momento più opportuno? Certo che no! Do-vresti aspettare di avere ulteriori dati prima di trarre una conclusio-ne deinitiva? No e poi no! E se ti girano per la mente pensieri simi-li, esorcizzali. È arrivato il mo-mento di acchiappare tutto quello che puoi, rivelare tutta la verità e realizzare i tuoi progetti deinitivi. Sei pronto a giocare alla grande, chiedi tutto l’aiuto che ti è stato promesso, e trasforma i “se” in “non c’è dubbio”.

PESCI

Nella canzone Dynamite, Taio Cruz racconta quanto

è felice quando va a ballare nella sua discoteca preferita: “Alzo le braccia in aria. Voglio vivere e go-dermi la vita... Metto tutte le mie marche preferite”. Nel consigliarti il modo migliore per cavalcare i ritmi cosmici del momento, Pesci, userò Cruz sia come modello di ruolo sia come modello di anti-ruolo. In questo momento è un tuo sacro dovere intensiicare l’impegno per divertirti e goderti la vita. Ma evita di indossare tutte le tue marche preferite. Per otte-nere il massimo da questo mo-mento di festosa liberazione, sarà necessario che tu dichiari la tua indipendenza dal lavaggio del cervello delle irme e sfugga alla mentalità obnubilante del consu-mismo.

SAGITTARIO

Sei arrivato a un punto di svolta delicato ma turbolento in cui ti si presenteranno opportunità uniche. Voglio of-frirti sette combinazioni di parole che penso catturino

l’essenza di questo momento così importante: 1) saggia innocen-za; 2) primordiale eleganza; 3) grezza santità; 4) elettrizzante equilibrio; 5) punzecchiamento curativo; 6) gioco rigoroso; 7) te-nerezza vulcanica. Per aumentare la tua capacità di far tesoro dei cambiamenti che ti aspettano, ti consiglio di cercare e coltivare questi stati dell’essere, solo apparentemente paradossali.

COMPITI PER TUTTI

Quali sono le situazioni in cui trovi più diicile essere amorevole? Esercitati a diventare un

maestro della compassione proprio in quei casi.

ARIETE

Nelle prossime settimane, la vita ti ammalierà con

enigmi e segreti, ma probabilmen-te non ti rivelerà tutto quello che vorresti. Penso che si tratti di un’opportunità e non di un proble-ma. A mio parere, il tuo compito non è insistere per una maggiore chiarezza, ma piuttosto goderti quei misteri. Lascia che ti riempia-no di benedizioni grazie alla loro stuzzicante magia. Di che natura saranno queste benedizioni? Illu-mineranno la tua mente irraziona-le, stimoleranno la tua immagina-zione, ti insegneranno la pazienza, e nutriranno il tuo rapporto con l’eternità.

TORO

La metamorfosi delle farfal-le è totale: prima di diventa-

re creature alate il loro corpo si tra-sforma in una densa poltiglia. Ep-pure conservano l’essenza di quel-lo che hanno appreso nella loro forma precedente. Prevedo che nel 2011 ti succederà qualcosa di simi-le, Toro. Sarà come se subissi una sorta di reincarnazione senza do-ver sopportare il fastidio di morire sul serio. Come per le farfalle, la saggezza che ti sei conquistato nel-la vita precedente ti accompagnerà nella nuova. Sei pronto? Il proces-so comincerà presto.

GEMELLI

Cos’è che ti nutre emotiva-mente e spiritualmente, Ge-

melli? Non sto parlando di quello che ti diverte o ti lusinga o che libe-ra la tua mente dai problemi. Mi ri-ferisco alle inluenze che ti rendo-no più forte, alle persone che ti ve-dono per quello che sei veramente e alle situazioni che t’insegnano qualcosa che dura tutta la vita. In-

tendo la bellezza che rie mpie la tua psiche, i simboli che ristabiliscono costantemente il tuo equilibrio e i ricordi che continuano ad alimen-tare la tua capacità di essere all’al-tezza di ogni nuova sida. Fai un in-ventario di questi beni preziosi. E poi impegnati a nutrirli.

CANCRO

Negli Stati Uniti due terzi degli insegnanti di scuola

elementare comprano da mangia-re ai loro alunni poveri. C’è un 50 per cento di possibilità che un bambino americano, a un certo punto nella sua vita, ricorra all’as-sistenza pubblica sotto forma di buoni alimentari. Questo mi ha fatto arrabbiare e mi ha spinto a of-frirmi come volontario per distri-buire cibo gratuito alla banca ali-mentare della mia zona. Incorag-gio anche te, compagno Canceri-no, a trovare un buon motivo per arrabbiarti in nome delle persone che sono meno fortunate di te. È sempre terapeutico estendere la tua generosità e condividere la tua ricchezza, ma nelle prossime setti-mane sarà anche vantaggioso. De-gli atti disinteressati ti porteranno beneici profondamente egoistici.

LEONE

Secondo alcune fonti, da giovane Socrate praticava

l’arte della scultura. Ma l’abbando-nò presto, dopo aver deciso che preferiva “scolpire la sua anima piuttosto che il marmo”. Posso in-vogliarti a rivolgere la tua attenzio-ne allo stesso nobile e diicile compito, Leone? Sarebbe un buon momento per dedicarti a scolpire la tua anima. Ti consiglio viva-mente di avviare una lunga fase di ristrutturazione e reintegrazione della tua opera d’arte più preziosa.

Internazionale 876 | 10 dicembre 2010 113

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sharm el sheikh: tufatevi con gli squali assassini. “Dicevamo: due biglietti sola andata”.

“e il vincitore è: il Qatar!”. “psss, è la busta sbagliata”.

belgio. “Costa d’avorio: ecco un paese come si deve! Votano, e dopo una settimana hanno due governi. Qui, sei mesi e niente”.

“sono ottimista: la pace può ancora essere evitata”.

“Il problema di questa età dell’oro delle comunicazioni e dell’informazione è che non c’è modo di sapere cosa succede”.

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Le regole Walt Disney

1 Dumbo andrebbe vietato ai minori di 18 anni. 2 la tipica principessa Disney tende a mettersi nei guai da sola e a farsi salvare da qualcun altro. 3 per scoprire il lato nascosto di Disneyland, lascia a casa i igli e vacci sotto efetto di stupefacenti. 4 gli animali che parlano passi, ma quelli che cantano no. 5 ribellati al buonismo disneyano: spiega a tua iglia che la sirenetta in realtà inisce male. molto male. [email protected]

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