Introduzione al corso
Prerequisiti
Gli studenti devono avere una buona
conoscenza dei movimenti e degli autori
principali della Letteratura italiana
dall’Unità ad oggi. Gli studenti con
particolari lacune possono colmarle
avvalendosi del seguente manuale:
GIULIO FERRONI, Profilo storico della
letteratura italiana, Torino, Einaudi
Scuola, 2001, vol. II, Epoche 9-11, pp.
741-1154.
• Obiettivi formativi
Al termine del corso lo studente avrà
approfondito la conoscenza degli autori e dei
movimenti del periodo storico considerato;
avrà consolidato le conoscenze linguistico-
metrico-retoriche necessarie per lo studio
della letteratura (non solo italiana); avrà
affinato la capacità di leggere, analizzare,
contestualizzare e commentare criticamente
un testo letterario in prosa o in poesia.
• Contenuto del corso
Sicilia e letteratura. Durante il corso si
analizzeranno i romanzi di alcuni grandi
scrittori siciliani per verificare come in questi
testi vengono descritti il carattere dei Siciliani
e la realtà storica, sociale, politica ed
economica della Sicilia contemporanea anche
attraverso una particolare articolazione del
paesaggio siciliano.
• Modalità di verifica dell’apprendimento
La prova d’esame di fine corso si svolgerà in
forma orale e la valutazione sarà espressa in
trentesimi. Il colloquio sarà diviso in una prima
parte dedicata a verificare il possesso dei
prerequisiti, e in una parte successiva tesa a
verificare l’acquisizione da parte degli studenti
delle nozioni impartite durante le lezioni.
Bibliografia
• Testo consigliato per quanto richiesto nei prerequisiti:
- GIULIO FERRONI, Profilo storico della letteratura italiana, Torino,
Einaudi Scuola, 2001, vol. II, Epoche 9-11, pp. 741-1154.
• Testi narrativi nelle edizioni consigliate:
- VITALIANO BRANCATI, Il bell’Antonio, Milano, Oscar Mondadori,
2011 (pp. 269);
- ANDREA CAMILLERI, Il giro di boa, Palermo, Sellerio, 2003 (pp.
269);
- LEONARDO SCIASCIA, Il giorno della Civetta, Milano, Adelphi,
2014 (pp. 138);
Bibliografia
• Testi complementari vivamente consigliati:
- FEDERICO DE ROBERTO, I Viceré, Milano, BUR, 2011;
- DACIA MARAINI, La lunga vita di Marianna Ucrìa, Milano,
Mondadori, 2016;
- GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Milano,
Mondadori, 2015;
• Testi critici nelle ultime edizioni disponibili:
- GESUALDO BUFALINO, Pro Sicilia, L’isola plurale e Quella difficile
anagrafe, in ID., Opere 1981-1988, introduzione di Maria Corti, a
cura di Maria Corti e Francesco Caputo, Milano, Bompiani, 1992,
pp. 1135-1146;
- LEONARDI SCIASCIA, La Sicilia come metafora, Milano,
Mondadori, 1990 (pp. 133).
Altre informazioni
Il corso è riservato agli studenti di LLSM, indirizzo di
Turismo culturale.
A partire dall'a. a. 2016/2017 i programmi d'esame avranno
un solo anno di validità. I programmi 2016/2017, ad
esempio, saranno validi sino agli appelli di gennaio-febbraio
2018. Gli studenti che non riuscissero a dare l'esame entro
la data di scadenza del loro programma dovranno sostituirlo
con quello inserito nel file "Indicazioni e bibliografia per
studenti con programmi scaduti" caricato sulla pagina del
docente.
Gli studenti frequentanti dovranno aggiungere ai testi
indicati nella Bibliografia solo gli appunti delle lezioni.
Gli studenti non-frequentanti, invece, dovranno preparare
per l’esame anche i seguenti testi:
- GIOVANNI VERGA, I Malavoglia, Milano,
Garzanti, 2015 (pp. 279);
- VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto
marinaio, Milano, Mondadori, 2015 (pp. 196).
Gli studenti, frequentanti o non frequentanti, dovranno
presentarsi all'esame con tutti i testi indicati in bibliografia
e disponibili alla Civica Biblioteca A. Mai (P.zza Vecchia
15) o alla Biblioteca della Facoltà di Lingue (P.zza S.
Agostino).
Orari e aule lezioni
• 3° sottoperiodo:
lunedì 11-13 aula 1 Tassis
mercoledì 15-17 aula 1 Tassis
venerdì 13-15 aula 4 Salvecchio
Introduzione: il paesaggio
• In queste lezioni si farà una breve rassegna:
1) dell’evoluzione storica del concetto di
paesaggio
2) del suo rapporto con la rappresentazione
letteraria;
per arrivare poi alla conclusione che nelle fasi più
recenti della fenomenologia letteraria – ossia dalla
seconda metà del Settecento circa sino ad oggi – il
paesaggio ha acquisito un ruolo fondamentale
nell’economia dei testi sia narrativi sia lirici.
• Per quanto riguarda il presente corso, la naturale
conseguenza di questa conclusione è che dal punto di
vista della tecnica narrativa molto spesso sono proprio
le caratteristiche del paesaggio siciliano a dimostrarsi
strumenti utili per ‘giustificare’ il particolare carattere dei
siciliani e, di conseguenza, le condizioni storiche,
sociali, politiche ed economiche della Sicilia.
• Dopo l’introduzione teorica il corso indagherà quindi su
due aspetti:
1) Analisi delle caratteristiche del paesaggio
siciliano nei testi proposti → prospettiva
estetica
2) Analisi delle caratteristiche dei siciliani che
in questo paesaggio vivono → prospettiva
antropologica.
Paesaggio• La nozione di paesaggio si costruisce, nel mondo
occidentale, tra Umanesimo e Romanticismo, perché:
→ è in questo lungo arco di tempo che lentamente
e progressivamente si definisce e assume ampia
portata culturale una visione estetica della
natura.
• Il termine «paesaggio» ha corso nelle principali
lingue neolatine e germaniche a partire dal tardo
Cinquecento, cioè dopo la diffusione, tra i Paesi
Bassi e l’Italia, di rappresentazioni pittoriche della
natura
Paul Bril (15554-1626), Paesaggio fantastico, olio su rame
Claude Lorrain (1600-1682) Paesaggio con figure danzanti
1648
Definizione di paesaggio
• Il paesaggio è una qualunque porzione di
superficie terrestre in quanto oggetto di uno
sguardo umano.
• Questo sguardo implica un’educazione estetica
dell’occhio, la sua attitudine a riconoscere nello
spazio circostante una forma familiare attraente
• L’educazione estetica, opera della cultura e
anzitutto delle arti, costruisce un rapporto
complesso di identificazione tra uomo e spazio
naturale.
Definizione di paesaggio
• Differenza tra «paesaggio» e «natura»:
– Il «paesaggio» è una porzione di superficie
terrestre e quindi un segmento di quella che si
potrebbe definire come una delle manifestazioni
della «natura».
– Il termine «natura», invece, esprime un
concetto di tale vastità che la sua nozione
finisce per escludere solo la dimensione
metafisica, e quindi col non designare nulla,
nessun oggetto specifico.
Definizione di paesaggio
• Dopo il Romanticismo, però, la nozione di
«paesaggio» e quella di «natura» tenderanno a
sovrapporsi e a rinviare entrambe a una visione
totalizzante della relazione tra individuo umano
e natura, perché la natura è vista come una
totalità in rapporto di rispecchiamento con la
coscienza umana.
• Si veda l’esempio di Leopardi.
Paesaggio nell’antichità classica
• Nell’Odissea (IX-VIII sec. a.C.) rapide parentesi di
descrizione paesaggistica sono aperte per evocare i
primi esempi di locus amoenus.
→ Locus amoenus: è un termine usato in
letteratura per definire uno spazio fisico
idealizzato e piacevole, in cui si svolge parte
della trama: nell’Odissea, ad esempio, la
descrizione dell’isola di Calipso o del giardino dei
Feaci, nel Decameron di Boccaccio la villa in cui
trovano rifugio i dieci narratori per sfuggire alla
peste, nel Canzoniere di Petrarca lo spazio
descritto nella canzone Chiare, fresche et dolci
acque.
Paesaggio nell’antichità classica
• Se non è per descrivere il locus amoenus, nei poemi
omerici, e di lì nella tradizione epica, le descrizioni
paesaggistiche sono altrimenti limitate alle
similitudini, in cui appaiono figure di natura generica,
destinata a riflettere i caratteri delle situazioni
umane:
- il turbamento della tempesta;
- la serenità della notte lunare;
In ogni caso, la rappresentazione segue modelli interni
alla letteratura, senza un legame diretto con una
realtà determinata.
• Descrizione virgiliana del regno di Dite, nel sesto
libro dell’Eneide (29-19 a.C.), si è poi costituito il
paradigma del locus horridus, specularmente
opposto al locus amoenus e anch’esso di lunga
durata.
• L’antichità non possiede una visione estetica
unitaria del paesaggio,
ma
• trasmette attraverso la letteratura immagini si
stati naturali temuti o desiderati, usati anche
come similitudini che riflettono gli stati d’animo
umani.
• Questi paesaggi sono proiettati su spazi esotici
o immaginari e rappresentati secondo una logica
non realistica e in uno stile caratteristicamente
conciso.
Tra Grecia ellenistica e Roma imperiale
Visione edonistica della natura e il profilarsi di
un’opposizione tra:
•Città come luogo dell’attività e del disagio;
•Campagna come luogo del riposo e del piacere.
Mito dell’Arcadia pastorale
• Locus amoenus + Arcadia pastorale
• Inventore → Teocrito (Idilli, III sec. a.C.)
• Massimo esponente → Virgilio (Bucoliche, 37
a.C.)
• Mito della campagna arcadica → letteratura del
Rinascimento:
- Arcadia di Sannazzaro (1504),
- Aminta del Tasso (1573),
- il Pastor Fido del Guarini (1590)
Nella pittura che vi si ispira: Lorrain e Poussin.
Thomas Eakins, (1844-1916), Arcadia (1883)
Nicolas Poussin (1594-1665) Paesaggio con i
funerali di Focione (1648)
Nicolas Poussin (1594-1665), Venere e Adone
(1626)
Medioevo
• Paesaggio → elemento puramente simbolico
• Giardino, erede del locus amoenus + Paradiso
terrestre = hortus conclusus
Ma anche
• Selva, associata allo smarrimento e alla
perdizione,
• Montagna, associata all’espiazione: il Purgatorio
o il Monte Ventoso su cui ascende Petrarca
(Familiari, IV, I del 1366)
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
questa selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Oggi, soltanto per il desiderio di visitare un luogo famoso per la sua altezza, son
salito sul più alto monte di questa regione, che non a torto chiamano Ventoso. Da
molti anni avevo in animo questa gita, poiché, come tu sai, fin dall'infanzia io ho
abitato in questi luoghi per volere di quel destino che regola i fatti degli uomini, e
questo monte, che è visibile da ogni parte, mi stava quasi sempre davanti agli
occhi. […] Ma, come spesso accade, a quel primo grande sforzo seguì presto la
stanchezza; sicché ci fermammo su una rupe non molto lontana. Ripartiti di li,
avanzammo, ma più lentamente; io soprattutto m'arrampicavo per il montano
sentiero con passi più moderati, mentre mio fratello per una scorciatoia attraverso il
crinale del monte saliva sempre più in alto; io, più fiacco, ridiscendevo verso il
basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo che speravo
di trovare un più facile accesso dall'altro fianco del monte, e che non mi rincresceva
di fare una via più lunga ma più agevole. Era questo un pretesto per scusare la mia
pigrizia, e mentre i miei compagni erano ormai in cima, io erravo ancora nelle valli
senza che mi apparisse da alcuna parte una via migliore; il cammino diveniva più
lungo e l'inutile fatica mi stancava. Finalmente, ormai annoiato e pentito di quegli
andirivieni, mi decisi a dirigermi direttamente in su; e quando, stanco e affamato,
ebbi raggiunto mio fratello che s'era ormai rinfrancato con un lungo riposo, per un
poco procedemmo di pari passo. Avevamo appena lasciato quel colle, ed ecco che,
dimentico del primo errore, io comincio a rivolgermi in basso, e di nuovo,
attraversate le valli alla ricerca di una via più facile, mi trovo in mezzo a gravi
difficoltà.
Avevamo appena lasciato quel colle, ed ecco che, dimentico del primo errore, io
comincio a rivolgermi in basso, e di nuovo, attraversate le valli alla ricerca di una
via più facile, mi trovo in mezzo a gravi difficoltà. Io cercavo di differire la noia del
salire, ma la natura non cede all'umana volontà, né può essere che un corpo
scendendo guadagni in altezza. Che più? tra le risate di mio fratello, in poche ore
ciò mi successe tre volte e anche più. Così, pieno di delusione, mi sedei in una
valle; e lì, passando con l'agile pensiero dalle cose materiali alle incorporee, mi
rivolgevo a me stesso con queste o simili parole: - Quello che tante volte oggi hai
provato nel salire questo monte, sappi che accade a te e a molti quando si
accostano alla vita beata; e se di ciò gli uomini non così facilmente si accorgono,
gli è che i moti del corpo sono a tutti visibili, quelli invece dell'animo invisibili e
occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto; e stretto, come dicono, è il
sentiero che vi conduce. In mezzo sorgono molti colli, e noi dobbiamo procedere
con nobile incesso di virtù in virtù; sulla cima è il fine estremo e il termine della via,
meta del nostro viaggio. Lassù tutti vogliono arrivare, ma, come dice Ovidio:
«volere è poco; bisogna desiderare ardentemente per raggiungere lo scopo».
(Familiares, IV, I)
Metà del Quattrocento
• la scoperta di tecniche di rappresentazione della
profondità:
→ prospettiva lineare in Italia
→ uso della luce nelle Fiandre
• Topos della finestra
• Persiste però ancora una concezione
antropocentrica del paesaggio:
→ Figura umana centrale
→ Paesaggio = allegoria = dimensione
morale
Antonello da Messina (1430-1479), San Girolamo
nello studio (1474-1475)
Letteratura del Quattro-Cinquecento
• La letteratura di questo periodo è più conservativa.
• Domina ancora l’organizzazione per loci retorici (amoenus e horridus).
• Ripreso anche in letteratura il paesaggio arcadico (vicendevole
influenza letteratura/pittura), specie attraverso l romanzo cavalleresco
e il poema eroico:
- Le isole edeniche e ai boschetti ameni dell’Orlando Furioso di
Ariosto, 1535, e della Gerusalemme liberata di Tasso, 1581.
- Tempeste marine o di intemperie invernali si derivazione classica,
pure tipiche del romanzo cavalleresco:
1) Dal Morgante del Pulci del 1483
2) All’Orlando innamorato di Boiardo del 1495
3) Orlando furioso
4) Ambra di Lorenzo il Magnifico del 1491.
• In letteratura più che in pittura: paesaggio = stati d’animo.
Letteratura barocca
• Letteratura barocca = paesaggio come simbolo (come nel
medioevo) ma non più di forze o concetti soprannaturali
(Dio), bensì come nuova corrispondenza con elementi della
natura umana (come nel Rinascimento)
• Letteratura barocca = sdegnando la descrizione realistica, i
poeti barocchi designano solo elementi naturali che
metaforizzino stati d’animo estremi: il mare, i terremoti e i
vulcani, la primavera e l’inverno.
• Però: scoperte geografiche = Letteratura geografica =
descrizioni naturalistiche realistiche
• Pittura: prosegue l’avanzata del paesaggio pittorico: Lorrain
e Poussin.
• Salvator Rosa
Brughel il Vecchio, Paesaggio nella neve
(1565)
Salvator Rosa (1615-1673), Grotta con cascate
(1639-1640)
Settecento = paesaggio pittoresco
• Goethe, Viaggio in Italia fatto nel 1786-88,
pubblicato nel 1816-17
• Alfieri, Vita del 1804
• Canaletto
• Guardi:
Panorami,
Scorci cittadini
Rovine reali o fantastiche
Ella [alla duchessa Giovanna di Girasole] aprì un’imposta, e io vidi allora
ciò che si vede una sola volta nella vita. Se, così facendo, ella aveva
inteso sorprendermi, v’era perfettamente riuscita. Eravamo a una finestra
dell’ultimo piano, col Vesuvio proprio di fronte; il sole era tramontato da
un pezzo e il fiume di lava rosseggiava vivido, mentre il fumo che
l’accompagnava andava prendendo una tinta dorata; la montagna
mugghiava cupa, sovrastata da una gigantesca nube immobile, le cui
masse a ogni nuovo getto si squarciavano balenando e illuminandosi
come corpi solidi. Di lassù fin quasi al mare correva una lingua di braci e
di vapori incandescenti; e mare e terra, rocce e alberi spiccavano nella
luminosità del crepuscolo, chiari, placidi, in una magica fissità.
All’abbracciare tutto questo con un solo sguardo, mentre dietro il monte,
quasi a suggellare la visione incantevole, sorgeva la luna piena, c’era di
che trasecolare […] Era aperto dinanzi a noi un libro che i millenni non
bastano a commentare. Più fonda era la notte, più luminoso pareva farsi
il paesaggio; la luna risplendeva come un secondo sole […] e la bella
donna, illuminata dalla luna in primo piano su quel favoloso quadro, mi
sembrò farsi più bella ancora, anzi adorabile più che mai. (Goethe,
Italienische Reise, 1816-17)
Giovanni Antonio Canal (Canaletto, 1697-1768), Il
Bacino di San Marco verso est (1730 circa)
Settecento: paesaggio con rovine
• Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, 1756
• La ginestra di Leopardi, 1836-37
• Notti di Young, 1742-45
• Canti di Ossian di Macpherson, 1760
• Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the
Sublime and Beautiful di Edmund Burke, 1757
• Immanuel Kant
• Nouvelle Heloïse di Jean-Jacques Rousseau 1761
• Fantasticherie del passeggiatore solitario, Jean-Jacques
Rousseau, 1782.
Romanticismo: dibattito estetico sul
paesaggio
• Caspar David Friedrich, pittore (1774-1840)
• Friedrich Schiller, scrittore e drammaturgo (1759-1805)
• Ludwig Tieck, poeta (1773-1853)
• Philipp Otto Runge, pittore (1777-1810)
• Friedrich Schlegel, filosofo (1772-1829)
Tutti questi intellettuali e artisti sostengono:
l’uguale dignità se non il primato della pittura di paesaggio
rispetto a quella di storia
conseguenza di:
Una concezione della natura come forma impregnata di un
significato trascendente decifrato dalla soggettività
dell’artista.
Caspar David Friedrich (1774-1840)
Viandante sul mare di nebbia (1818)
Mare di ghiaccio (1823-24)
Abazia nel querceto (1809-10)
Monaco in riva al mare (1808-10)
Tendenze caratteristiche della rivoluzione
romantica relativamente al paesaggio
• L’unificazione della natura = la natura è uno
spazio uno e infinito.
• Quindi, i paesaggi dei pittori romantici
dissolvono gli angoli e le forme, mettono lo
spettatore in contatto con luce e spazio illimitati.
• Quindi, i paesaggi degli scrittori romantici
descrivono l’infinito o lo evoca attraverso le
figure dal repertorio sublime: il mare, la foresta,
la montagna.
William Turner (1775-1851)
Al largo di Ramsgate (1840)
Giacomo Leopardi, L’infinito (1819)
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Tendenze caratteristiche della rivoluzione
romantica relativamente al paesaggio
• L’individuazione del paesaggio: i paesaggi romantici
cessano di essere generici.
• Momenti privilegiati per la contemplazione del
paesaggio, come la sera o la notte (Leopardi, Alla luna,
1819).
• Luoghi privilegiati per la contemplazione del paesaggio:
le abazie in rovina o le località pittoresche italiane.
• Diversi romanzi del primo Ottocento, cominciano con
una descrizione del paesaggio:
- istanza realistica (ancoraggio geografico)
- istanza estetica (visione panoramico-pittoresca del
territorio).
Tendenze caratteristiche della rivoluzione
romantica relativamente al paesaggio
• Il legame simbolico con l’infanzia:
- sia quando ci si congeda dolorosamente da
essa («Addio ai monti» di Lucia nei Promessi
sposi),
- sia quando lo si ritrova (Le Ricordanze di
Leopardi, 1828),
- sia quando è associato a figure infantili
diverse dal poeta.
Tendenze caratteristiche della rivoluzione
romantica relativamente al paesaggio
• Il legame simbolico con la nazione: identificazione geografica e
proiezione dell’identità personale sullo spazio naturale
- Promessi sposi
- Ortis di Foscolo (1802)
• Walt Whitman, Foglie d’erba (1861) → sublime dei grandi spazi come
metafora della giovane democrazia americana.
• Herman Melville, Moby Dick (1851) → sublime dei grandi spazi come
esaltatore dell’individualismo avventuroso dei singoli
• Henry David Thoreau, Walden (1854) → idem
Definizione di cronòtopo (Michail Bachtin)
• Cronòtopo = il rapporto tra le coordinate temporali e
spaziali che danno forma a un testo letterario.
• Questa definizione sancisce l’inscindibilità di spazio e
tempo all’interno di un romanzo.
• Questa inscindibilità serve a determinare il genere
letterario di un romanzo e le sue varietà.
• L’analisi cronotopica serve quindi per comprendere il
testo nel suo insieme e per determinare:
1) la realtà storica in cui è ambientato,
2) il rapporto personale dell’autore con questa realtà
3) la rappresentazione artistica della realtà in cui è posto
il testo.
• Alla fine dell’Ottocento, la parola ‘paesaggio’ sostituisce termini
più concreti e che riflettevano, prima del Romanticismo, una
visione non unitaria della natura come oggetto estetico (‘paese’,
‘campagna’, ‘marina’).
• Sempre alla fine dell’Ottocento è ormai acquisita la
caratterizzazione insieme psicologica e geografica del
paesaggio nella narrativa delle varie correnti realiste.
Geografica nel senso si fa sempre più regionale e provinciale:
- ad esempio: la Sicilia affocata e violenta di Verga (I
Malavoglia, 1881; Mastro don Gesualdo, 1889 e Vita dei
campi, 1880)
- più tardi la campagna senese stregata di Tozzi (Con gli
occhi chiusi, 1919 e Il podere, 1921)
• Entrambe queste ambientazioni sono
contemporaneamente espressive di dati territoriali ed
esistenziali che si riflettono gli uni negli altri.
Simbolismo (fine Ottocento), letteratura e
pittura vittoriana (Preraffaelliti)
• Mette in crisi la nozione di paesaggio come descrizione della
natura visibile e ne afferma un’altra sempre più soggettiva,
centrata sulla selezione arbitraria di dati per scegliere quelli capaci
di suscitare risonanze interiori:
– Baudelaire
– Verlaine
– Rimbaud
– Laforgue
– Mallarmé
– Valéry
Paesaggio = oggetto mentale
• Nella letteratura dell’Inghilterra vittoriana e nella pittura
preraffaellita parchi e giardini, foreste e laghi onirici appaiono
come asili ambigui di una natura insieme protettiva e
mortuaria.
John Everett Millais (1829-1896), Ophelia
(1851-1852)
Eduard Manet (1832-1883), Colazione
sull’erba (1863)
Gustave Caillebotte (1848–1894), Strada di
Parigi; giorno di pioggia (1877)
Max Ernst, Il cipresso affascinante
Riflessioni sulla Sicilia e sull’essere siciliani
Gesualdo Bufalino (1920-1996)
•La luce e il lutto = titolo della raccolta di interventi e articoli
usciti dal 1982 al 1987 e ripubblicati da Sellerio nel 1988
→ Pro Sicilia («Il Tempo Illustrato», 1984)
→ L’isola plurale («Il Giornale», 1984)
→ Quella difficile anagrafe («Il Giornale», 1985)
«La luce e il lutto»
«Il viso plurale della Sicilia»
•«La Sicilia non ha mai smesso di essere un grande
ossimoro geografico e antropologico di lutto e luce, di lava e
miele» (Una Kodak per Faust, in Cere perse, 1985);
•«Luce e lutto, l’allitterazione che mi capitò di coniare una
volta […] per definire il viso plurale della Sicilia» (L’assoluto
del cielo, in Cere perse, 1985).
La formula «la luce e il lutto» viene usata anche in due dei
racconti inseriti nella raccolta eponima: Palmina enne enne
e L’isola plurale
Ho scritto molto sulla Sicilia negli ultimi anni. Più sull’antica che
dell’odierna, più dell’amabile che dell’amara. Non perché non vedessi
o non patissi l’intreccio di frode e violenza che sempre più pare
presiedere al nostro destino, ma per un sentimento d’incompetenza e
d’inanità, del quale, se una regola mi era possibile trarre, era di non
promuovermi giudice o pedagogo, chirurgo o clinico della mia gente
ma di sommessamente capirla. M’è venuto detto una volta d’aver
imparato a non rubare ascoltando Mozart. Non suggerisco ora
quartetti e sonate contro i mali dell’isola. Però resto convinto, che a
guarire l’analfabetismo morale da cui (non solo noi, non solo noi)
siamo afflitti, possano un poco servire, sebbene fatti d’aria, anche le
nostalgie, le favole e i sogni. Operi dunque ciascuno come meglio
riesce: chi da coscienza critica e avvocato di tutti; chi da testimonio
privato e tragediatore di sé. Così io per primo, in questo libro, che pur
insegue, attraverso lievi e gravi occasioni di costume, viaggio e
memoria, un’idea di Sicilia iperbolica, doppiamente gonfia di vita e di
morte, ancora una volta ho più proposto emozioni che non esposto
ragioni. Lusingandomi che quelle sappiano non meno di queste
spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi.
Pro Sicilia
La Sicilia ambivalente: paradisiaca e infernale
↓
«il segreto doloroso e la ricchezza» della storia siciliana
Lato infernale della Sicilia:
•Mafia
•Omertà
•Onore
•Gallismo
•Gattopardismo
«Posti dalla sorte a fare da cerniera fra continenti e culture discordi;
impastati di calcolo e istinto, razionalismo europeo e magismo africano;
condannati da sempre a subire sul viso, come eroi pirandelliani, il
sopruso di molte maschere, tutte attendibili e tutte false, veramente noi
siciliani scoraggiamo chiunque viglia racchiudere in una formula univoca
la nostra franta, ricca, contraddittoria pluralità».
Gallismo
• Derivazione di gallo, per allusione sia al
portamento e comportamento dei galli nei pollai,
sia a espressioni come fare il gallo e simili.
Termine coniato dallo scrittore siciliano Vitaliano
Brancati (1907-1954) per designare
satiricamente la vanità erotica degli uomini in
genere e dei siciliani in particolare, quel loro
sentirsi, e vantarsi, «bravi nelle faccende
d’amore».
Gattopardismo
• Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento
(tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di
chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un
precedente regime, si adatta a un nuova situazione
politica, sociale o economica, simulando d’esserne
promotore o fautore, per poter conservare il proprio
potere e i privilegi della propria classe; il termine, così
come la concezione e la prassi che con esso vengono
espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che
«tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che
è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo
che nel romanzo Il Gattopardo si legge testualmente in
questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi», pronunciata dal nipote
Tancredi.
Ma non dimenticate, insieme, di salvare il
moltissimo ch’è salvabile nella Sicilia che
dura: quel cielo e quel mare,
miracolosamente resistenti agli insulti della
chimica; i vulcani in fiamme, le miti colline; le
pianure dove scorrono i fiumi dal nome di
miele; ecc.
L’isola plurale
• Molteplicità della Sicilia: non una, ma tante Sicilie
• ↓
• Metafore paesaggistiche:
«Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline,
quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella
purpurea della lava».
• Motivazioni storico-geografico-antropologiche per
spiegare quello che Bufalino chiama:
«Eccesso d’identità»
• Spinte contrastanti della personalità dei siciliani secondo
Bufalino:
• Claustrofobia ↔ Claustrofilia
• Claustrofobia: desiderio di evadere, fisicamente e
mentalmente dallo spazio della Sicilia;
• Claustrofilia: «l’insularità […] non è una segregazione solo
geografica, ma se ne porta dietro altre: della provincia,
della famiglia, della stanza, del proprio cuore».
• Insularità = Diversità: «Ogni siciliano è, di fatti, una
irripetibile ambiguità psicologica e morale».
• Alcuni caratteri tipici della psicologia dei siciliani:
• Il rapporto tra lutto e luce.
• Da ciò deriva: l’inaccettabilità della morte, considerata
un’«invidia» degli dei.
• Da ciò derivano: il pessimismo isolano + la modalità
fastosamente funerea dei riti e delle parole che
caratterizzano la vita e le esperienze dei siciliani (anche
l’amore).
• Il pessimismo siciliano = pessimismo della ragione che si
trasforma in pessimismo della volontà:
è inutile fare, perché tanto non serve a cambiare le cose
(Verga).
• Modello di questo pessimismo è Pirandello, per il quale la
ragione nei siciliani è:
• «sempre in bilico fra mito e sofisma, tra calcolo e
demenza; sempre pronta a ribaltarsi nel suo contrario,
allo stesso modo di un’immagine che si rifletta rovesciata
nell’ironia dello specchio»
↓
«enfatica solitudine»
Quella difficile anagrafe
Fino a che punto sia possibile definire lo specifico di un
popolo?
Ovvero
In quale misura esistono e resistono affinità salienti di
carattere e di comportamenti («sangue e umore») fra gli
individui di una stessa entità geografica ed etnica?
1) Tendenza a surrogare il fare col dire. Pessimismo della volontà.
2) Razionalismo sofistico. Il sofisma vissuto come passione.
3) Spirito di complicità verso il potere, lo Stato, l’autorità, intesi come “straniero”.
4) Orgoglio e pudore in inestricabile nodo.
5) Sensibilità patologica al giudizio del prossimo.
6) Sentimento dell’onore offeso (ma spesso solo quando il disonore sia lampante
e non prima).
7) Sentimento della malattia come colpa e vergogna.
8) Sentimento del teatro, spirito mistificatorio.
9) Gusto della comunicazione avara e cifrata (fino all’omertà) in alternativa
all’estremismo orale e all’iperbole dei gesti.
10) Sentimento impazzito delle proprie ragioni, della giustizia offesa.
11) Vanagloria virile, festa e tristezza negli usi del sesso.
12) Soggezione al clan familiare, specialmente alla madre padrona.
13) Sentimento proprietario della terra e della casa come artificiale prolungamento
di sé e sussidiaria immortalità.
14) Sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si
annida…
Leonardo Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in La
corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Milano,
Adelphi, 1991, pp. 11-18
• In realtà il testo risale al 1969
• Spunto: Scipio di Castro, Avvertimenti a Marco Antonio
Colonna quando andò viceré in Sicilia (seconda metà del
Cinquecento).
I siciliani […] generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti
che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura
invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia
facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero
al posto dei governanti. D’altra parte, sono obbedienti alla
Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai
forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro
natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e
sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché
sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli buon fine si
trasformano come tanti Protei, si sottomettono a chiunque può
agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano appunto
nati per servire. Ma sono d’incredibile temerarietà quando
maneggiano la cosa pubblica, e allora agiscono in tutt’altro
modo… E prima aveva avvertito: la Sicilia è stata fatale a tutti i
suoi governanti, e la maggior parte di essi ha lasciata sepolta in
quel Regno la reputazione in modo tale che nemmeno nella
posterità ha potuto mai più risorgere.
Secondo Sciascia, le indicazioni di Di Castro sono
un buon punto di partenza per capire che:
• La Sicilia è una terra difficile da governare perché
difficile da capire:
Nella natura dei suoi abitanti;
Nei suoi istituti giuridici.
• Causa di questa difficoltà è il fattore geografico.
• Conseguenza del fattore geografico è il «senso di
insicurezza» che condiziona la vita dei siciliani,
fatta di:
«paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni,
incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti,
violenza, pessimismo, fatalismo»
• Sciascia cita Pirandello che parla di Verga:
«I siciliani, quasi tutti, hanno un’istintiva paura della
vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del
loro poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con
diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la
natura intorno aperta, chiara di sole, e più si
chiudono in sé, perché di questo aperto, che da
ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia
fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da
sé, e da sé si gode – ma appena se l’ha – la sua
poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti,
si soffre il suo dolore, spesso disperato. Ma ci sono
quelli che evadono…»
Paura storico/geografica = paura esistenziale
• → illusione che l’insularità fisico/esistenziale sia
un beneficio
• → follia alienata che produce atteggiamenti di
arrogante fierezza per la propria condizione
• → follia alienata che sul piano storico depotenzia
qualsiasi eventuale novità migliorativa
assimilandola alla «consuetudine»
• Quindi: «assimilazione depotenziatrice» che
costa maggior fatica rispetto all’accettazione
delle novità (follia).
• Cicerone → Verrine
• Controversia liparitana → scontro tra il Regno di
Sicilia e la Santa Sede, iniziato nel 1711 da un
piccolo conflitto locale fra il vescovo di Lipari e due
ufficiali fiscali della stessa città che avevano
sottoposto al tributo un sacco di ceci che gli
incaricati del vescovo volevano vendere sulla
piazza del mercato e che per questo si beccarono
la scomunica da parte del vescovo. Il caso si
allargò e divenne il punto di scontro tra regalisti e
difensori dei diritti del papa.
• Tesi prevalenti sulla cultura siciliana:
1) Giovanni Gentile: partendo dall’idea di una
Sicilia tagliata fuori dai movimenti della
grande cultura europea e quindi tutta
schiettamente siciliana, il filosofo pensava
che dopo l’unificazione questa cultura aveva
perso il suo carattere squisitamente
regionale.
2) L’altra, promossa da intellettuali ed eruditi
siciliani, di una Sicilia aperta e perfettamente
dialogante con la cultura italiana ed europea.
Autori citati da Sciascia:
• Giovanni Verga,
• Luigi Capuana,
• Federico De Roberto,
• Luigi Pirandello,
• Elio Vittorini,
• Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
• Salvatore Quasimodo → tema dell’esilio ↔ Ibn
Hamdis: «Vuote le mani, ma pieni gli occhi del
ricordo di lei»
Il rinascimento siciliano nel 1880
Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del
romanzo moderno, Macerata Quodlibet, 2007
La narrativa siciliana è riuscita a raggiungere il
grande romanzo europeo grazie al suo
coinvolgente codice realistico e agli artisti che si
proponevano di ricreare un’ambientazione
estremizzata.
Il risultato è un pessimismo antropologico e civile, con una
particolare passione per il vero e per la verosimiglianza.
La narrazione, da Verga in poi, è caratterizzata da tre fattori:
• indagine;
• verità;
• ‘oltraggio’.
Estetica ambivalente:
- rappresentazione del bello naturale ed emotivo
- rappresentazione della spietatezza dei rapporti tra
gli uomini e tra questi e le istituzioni.
Per il romanziere verista la relazione tra opera e lettore è
stravolta: il lettore non è solo tale, ma diventa un testimone
oculare dei fatti narrati e quindi, in qualche modo, ne diventa
anche corresponsabile.
• Conoscere se stessi = atto di turbamento e di
sofferenza.
• Quindi, per reazione, nell’autore scatta una sorta
di «ideologia dell’innalzamento».
• Quindi: alla normalità della degradata condizione
umana fa quindi da contrappeso nell’autore
verista l’insorgere di giustificazioni che
trasformano la straziata Sicilia in un paese strano
ed eccezionale.
- L’arte realistica è un nesso tra vero e ‘finto’.
- Il ‘fingere’ è una forma di interrogazione e
potenziamento per cui il «vero artistico» aiuta a
capire il «vero reale.
- Catania è il luogo del rinascimento della
letteratura siciliana diventata l’elemento propulsore
della letteratura italiana.
Il risveglio dell’isola è dovuto a due fattori:
• Politico;
• Culturale.
Il romanzo siciliano
Il romanzo siciliano = processo complesso
ossia:
tecnica del verosimile → indagine sulle
origini di realtà composta essenzialmente di
una conflittualità esistenziale e sociale
sommersa o dichiarata.
Autori realisti siciliani = inusuale omogeneità tematica ed
etico-morale dovute:
- alla stessa provenienza regionale;
- all’inclinazione a ‘educare’ il pubblico continentale
mettendolo di fronte a una realtà oggettiva tradotta
narrativamente ed esemplificativa della situazione
siciliana.
Questo tipo di narrativa ha i caratteri di un atto fondativo,
da cui prese il via tutta una stagione chiave del romanzo
moderno italiano.
Grazie quindi al Verismo siciliano e all’influenza che esso
ebbe sugli autori siciliani post-veristi si può quindi parlare di
un:
Rinascimento letterario siciliano o catanese.
L’eccezionalità del fenomeno riguarda:
- Il livello dei risultati artistici,
- l’efficacia di nuove forme della scrittura.
Rinnovamento letterario = stravolgimento del
pensiero del tempo perché:
- porta a un modello narrativo che svela le
leggi non scritte del vivere collettivo
- mostra la pressione su di esso esercitata
dalle passioni dagli interessi.
Autori che creano il mito (negativo o
positivo) della Sicilia
1. Luigi Capuana La Sicilia e il brigantaggio (1892), scritto
con l’intento di riaccreditare il profilo negativo dell’isola e
di negare l’esistenza della malavita, riducendola a
normale delinquenza.
2. Franchetti e Sonnino: giudici severi della malavita
dell’isola;
3. Giuseppe Pitrè: fu il più importante raccoglitore e
studioso di tradizioni popolari siciliane.
4. Navarro della Miraglia: intendeva la Sicilia come terra di
«delitti, insicurezza e amoralità», abitata da una plebe
che non sa essere popolo. Introduce la formula «Effetto
Sicilia».
Verga e Capuana = comune matrice programmatica,
ma
pratiche artistiche divergenti che daranno vita a due
archetipi narrativi diametralmente opposti:
• realismo medio e confortevole in cui alternano il codice
introspettivo a quello comico-fantastico (Capuana);
• realismo «estremo» reso attraverso un’intransigente
formalizzazione della realtà che enfatizza la
problematicità e la durezza del quadro antropologico
(Verga);
• Verga e i suoi successori sono quindi coloro che
attraverso la loro narrativa amplificano letterariamente il
concetto espresso dalla formula riassuntiva «Effetto
Sicilia».
- L’effetto Sicilia = anche un patrimonio di immagini
e messaggi che rappresentano la vitalità sia
paesaggistica sia esistenziale dell’Isola che suscita
nel lettore continentale sbigottimento e attrazione.
- Le bellezze naturali o etniche si presentano come
un tutt’uno con lo spettacolo, non meno forte, di
una realtà minacciosa non solo quando esplode in
episodi di spietatezza o illegalità.
- Gli scrittori siciliani:
1) capaci di descrivere la loro terra con un
crudele amore per la verità ambientale
2) capaci di porsi come coloro che esprimono
una letteratura della responsabilità e della
conoscenza.
I temi principali del romanzo siciliano sono dunque:
- la verità,
- il male e le sue cause.
Conclusioni
La letteratura siciliana, dal 1880 ai nostri giorni, va
interpretata come lo strutturarsi tematico-stilistico
della drammatica presa di coscienza di una
particolare condizione esistenziale e sociale (quella
della Sicilia) che assurge a condizione esistenziale
e sociale universale.
La Sicilia come metafora, intervista della
giornalista francese, Marcelle Padovani, 1979
1) inizia dall’identità dello stesso Sciascia, siciliano che ha vissuto
dentro un mondo che definisce pirandelliano, dove identità e relatività
costituiscono elementi portanti che inducono a una sostanziale
solitudine, per superare la quale ha dovuto aggrapparsi alla ragione,
cioè all’altra faccia delle cose e a un modo diverso di “ragionarle”;
2) passa poi a parlare della “mafia” dandone una rappresentazione
quanto mai rivelatrice del potenziale distruttivo e disgregante che
contiene;
3) prosegue con il punto di vista dello scrittore su “come si può essere
siciliani”;
4) si sofferma poi a spiegare cosa sia la “verità dello scrittore”, il quale,
grazie ad una sua esperienza diretta in politica, riesce ad essere molto
critico anche con il partito da lui appoggiato;
5) conclude, infine, con una disamina molto ben articolata del potere, in
particolare quello comunista.
- Come si può essere siciliani? Che significa essere siciliani?
- Quali sono i tratti fondamentali della psicologia siciliana che hanno resistito
attraverso i secoli?
- Perché i siciliani hanno la passione del diritto?
- Perché la donna sembra essere un personaggio insieme fondamentale e
inesistente, nella mentalità del siciliano? Perché in compenso la famiglia si
afferma come la sola «istituzione davvero viva»? Tutto avviene come se,
dentro la sua solitudine naturale, il siciliano avesse a disposizione soltanto la
famiglia per adattarsi alla vita collettiva.
Citazioni presenti nella domanda tratte da Le parrocchie di Regalpetra
(1955)
• «La Sicilia è una terra amara» e «L’intera Sicilia è una dimensione
fantastica»
• «Si costruiscono strade e case, persino Regalpetra conosce l’asfalto e le
case nuove, ma in fin dei conti non si può dire che la situazione dell’uomo
sia molto cambiata dai tempi di Filippo II»
• «In Sicilia, il delitto passionale non nasce dalla passione vera e propria,
dalla passione del cuore, ma da una sorta di passione intellettuale, da
una passione o preoccupazione di formalismo, come dire?, giuridica»
La donna e la famiglia
Buona parte dei sogni dei siciliani continuano a essere
accentrati sulla donna. Un certo comportamento nei confronti
della donna resta come un imperativo categorico: si è veri
siciliani se si hanno donne, se si è ossessionati da esse,
poiché è questa la natura del vero uomo. Tormentato da una
profonda insicurezza, da un terrore esistenziale, da una
fondamentale instabilità. Il siciliano deve per forza rispondere
al richiamo del sesso. D’altronde, attorno alla sessualità
ruota un’idea, quella religiosa o meglio bigotta della famiglia,
il cui nucleo organizzatore è costituito dalla donna. Così la
donna è desiderata come donna solo in quanto altra (o di un
altro o di nessuno, ma in ogni caso non di se stessa), ma
una volta divenuta moglie, ecco che si trasfigura in
istituzione, si trasforma in famiglia e scompare come donna-
individuo.
La Sicilia come terra
«fantastica»• L’anima araba è un principio di creatività
fantastica e surreale, zeppa di riferimenti
alle Mille e una notte.
Perché i siciliani hanno la passione del diritto?
Quali sono i tratti fondamentali della psicologia
siciliana che hanno resistito attraverso i secoli?
Altra dimensione del sogno, della follia, anch’essa
espressione di un bisogno infantile di riconoscimento e di
identità, è una specie di ‘giuridicismo’ esasperato che
effettivamente viene applicato come forma a ogni cosa.
Quando in Cicerone si legge che la retorica è nata in Sicilia
perché i siciliani sono «gente d’ingegno acuto e sospettoso,
nata per le controversie», si ha la sensazione che parli della
Sicilia odierna, che l’isola sia sempre qual è e che secoli di
stratificazione storica l’abbiano modificata poco o niente.
La passione giuridica del siciliano dev’essersi
dunque formata nel corso dei secoli, perché
ha dovuto fare i conti con una quantità di
leggi, di dati dai quali derivavano privilegi.
[…] D’altra parte, può darsi che all’origine di
tutto questo vi sia l’aspirazione a una
giustizia vera, non formalista, di cui la mafia
sarebbe stata, dopo tutto, solo una delle
espressioni.
[…] Affermerei che i siciliani, nonostante le
invasioni subite, sono stati del tutto impermeabili
alle dominazioni straniere, e che un’autentica
identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i
secoli. Tale identità la si trova a livello
dell’espressione artistica, e ha nome «realismo»,
dato che la Sicilia si ridesta all’arte sempre a
contatto di movimenti, di solito esterni, che
possiamo chiamare realistici: Antonello da Messina
a contatto del realismo dei fiamminghi, la grande
triade catanese – Verga, Capuana, De Roberto – a
contatto del verismo francese.
[…] La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali,
che si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai:
«Domani andrò in campagna», ma «dumani vaju in
campagna», domani vado in campagna. Si parla del futuro
solo al presente. Così, quando mi si interroga sull’originario
pessimismo dei siciliani, mi vien voglia di rispondere: «Come
volete non essere pessimisti in un paese dove il verbo al
futuro non esiste?». Ma torniamo alla solitudine. Qui da noi è
profondamente radicata l’idea che, per essere
completamente se stessi, bisogna esser soli, che la
solitudine è il luogo di «ritrovamento» di sé; che gli altri ci
spartiscono, ci sezionano, ci moltiplicano – oh Pirandello! –,
che con gli altri non si riesce a essere creature, ma solo
personaggi; e che per meritarsi di essere creature, bisogna
svignarsela alla volta della solitudine, bisogna essere un
uomo solo, come dice Pirandello in Uno, nessuno e
centomila.
Ma io non ho affatto l’impressione che la Sicilia abbia mai
conosciuto una qualsiasi «età dell’oro» seguita da una decadenza.
Qui da noi, la decadenza non è un dato congiunturale, bensì
permanente. È sempre esistita. Tutti quelli che sono sbarcati
sull’isola hanno rapinato tutto quello che potevano: hanno
cominciato i romani disboscando a man salva, poi la cosa è
continuata con gli spagnoli, con i piemontesi. Quando si definiva la
Sicilia «granaio dell’impero», non si voleva affatto dire che era
ricca, ma che rappresentava un’occasione di rapina sistematica.
Perché? Ma perché un’isola nel cuore del Mediterraneo, questo
mare dove per secoli si è svolta tutta la storia del mondo, non può
essere altro che una terra di conquista e di devastazione. Tuttavia,
ironia della sorte, quest’isola mille volte invasa è stata tagliata fuori
dalla storia dei grandi popoli e delle grandi culture. […] La
particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al
fatto che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal
di fuori e dall’alto. […] Nessuno tuttavia pensava a rovesciare
l’istituzione, le plebi essendo perfettamente avvezze a quest’idea
del mutamento che scendeva dall’alto.
Di tutte le dominazioni straniere che ci sono toccate,
quella che, in epoca moderna, ha permeato più di
tutte la mentalità siciliana, è stata la spagnola:
imposta, certo, ma ci andava talmente bene da un
punto di vista comportamentale ed estetico! Con il
loro amore del fasto, della ricchezza e della festa, il
loro gusto per la dissipazione e la prodigalità
ostentata, la loro tendenza alla grandiosità e alla
pompa, gli spagnoli8 ci misero a nostro agio:
eravamo più fastosi ancora di loro. Il termine
«spagnolesco» d’altronde è più adatto ai siciliani che
non agli spagnoli. In questa corrispondenza siculo-
ispanica c’era una sola nota falsa, ed era che il fasto
gli spagnoli lo vivevano da padroni, mentre i siciliani
ne godevano da schiavi.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa
(1896-1957)
Il Gattopardo
Feltrinelli, 1958
• Composto tra il 1955 e il 1956
• Otto capitoli
• Il film, di Luchino Visconti, esce nel 1963
• Modelli di riferimento:
→ realismo francese ottocentesco: Flaubert,
Balzac ecc.
→ analisi psicanalitica dei personaggi: Freud,
Jung
→ riflessioni sul tempo, il divenire, la storia
ecc.: Proust, Eliot e Joyce
Marcel Proust, Thomas Eliot e James Joyce
Il Gattopardo
Feltrinelli, 1958
• Romanzo storico? → anti-risorgimento
• Il modulo narrativo → ogni capitolo è un blocco a
se stante, formando una sequenza di episodi che,
pur facendo capo ad un personaggio principale,
potrebbero avere ciascuno la propria autonomia
• Fallimento storico = fallimento esistenziale
• Quindi: parvenza di romanzo storico, ma invece
negazione della storia (dell’agire umano)
• Quindi: la vicenda di don Fabrizio = metafora
della «sicilianità»
Il Gattopardo
Feltrinelli, 1958
• Temi del fluire del tempo, della decadenza, della
morte: capitolo sesto – il ballo – capitolo settimo –
la morte di don Fabrizio – e capitolo ottavo – la
decadenze delle tre figlie di don Fabrizio –
(Proust, Thomas Mann)
• Romanzo antistorico: Vittorio Spinazzola, Il
romanzo antistorico, Editori Riuniti, 1990)
• Francesco Orlando, L’intimità e la storia. Lettura
del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998
Il Gattopardo
Feltrinelli, 1958
• Francesco Orlando, L’intimità e la storia. Lettura
del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998.
– Il pregiudizio biografista
– Il pregiudizio immobilistico
– Il pregiudizio ideologico
– Il pregiudizio sperimentalista
• «Il riflesso intimo di un tempo quotidiano,
storicamente significativo, entro una coscienza –
quella appunto di don Fabrizio»
Il Gattopardo
Feltrinelli, 1958
• Don Fabrizio (secondo l’interpretazione di
Orlando):
– rappresentante del potere borbonico;
– uomo riflessivo, meditativo, tendente all’astrazione e al
pensiero piuttosto che all’azione;
• Nella narrazione della vicenda, il punto di vista è
quello del narratore, che si serve di don Fabrizio
come personaggio «riflettore» = don Fabrizio
come coscienza ordinatrice del racconto.
• Monologo interiore indiretto o monologo interiore
in terza persona.
Don Fabrizio Salina: il protagonista (cap. I)
• «L’urto del suo peso da gigante faceva tremare
l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse,
un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma
del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati»
• «Non che fosse grasso: era solo immenso e
fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate
dai comuni mortali) il rosone inferiore dei
lampadari; le sue dita potevano accartocciare
come carta velina le monete da un ducato»
• «Quelle dita, d’altronde, sapevano anche essere
di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare
e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella,
la moglie»
Don Fabrizio Salina: il protagonista (cap. I)
• «I raggi del sole calante di quel pomeriggio di
maggio accendevano il colorito roseo, il pelame
color miele del Principe; denunziavano essi l’origine
tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina
la cui alterigia aveva congelato, trent’anni prima, la
corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui
fermentavano altre essenze germaniche ben più
incomode per quell’aristocratico siciliano nell’anno
1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle
bianchissima ed i capelli biondi nell’ambiente di
olivastri e di corvini: un temperamento autoritario,
una certa rigidità morale, una propensione alle idee
astratte»
Don Fabrizio Salina: il protagonista (cap. I)
• «Nell’habitat molliccio della società palermitana si
erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui
scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici
che gli sembrava andassero alla deriva nel lento
fiume pragmatistico siciliano. Primo (ed ultimo) di un
casato che per secoli non aveva mai saputo fare
neppure l’addizione delle proprie spese e la
sottrazione dei propri debiti, possedeva forti e reali
inclinazioni alle matematiche; aveva applicato queste
all’astronomia e ne aveva tratto sufficienti
riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private»
Don Fabrizio Salina: il protagonista (cap. I)
• «Sollecitato da una parte dall’orgoglio e
dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità
e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio
viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio
zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio
ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna
attività ed ancora minor voglia di porvi riparo»
Il dialogo tra don Fabrizio e Chevalley (cap. IV)
Sviluppo logico del discorso del Principe di Salina:
→ La Sicilia: cause storiche della sua
immobilità e del suo pessimismo.
→ Caratteristiche dei siciliani.
→ Ancora la Sicilia, come spazio fisico
geografico intriso di negatività e di morte.
→ Infine, nuovamente i siciliani, che si credono
dei e non vogliono rinunciare alla loro olimpica
immobilità.
Il dialogo tra don Fabrizio e Chevalley (cap. IV)
Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati
avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano
della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli
in quattro. Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli
emiri berberi, dai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così.
Avevo detto adesione, non avevo detto partecipazione. In questi sei ultimi
mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose
sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un
membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento;
adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene, per
conto mio credo che molto sia stato male, ma voglio dirle subito ciò che lei
capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far
male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è
semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono
venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche
civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi,
nessuna a cui noi abbiamo dato il “la”; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei
Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni
siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra; ma siamo stanchi e
svuotati lo stesso.
Il dialogo tra don Fabrizio e Chevalley (cap. IV)
Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed
essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro
i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo
regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni
siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la
nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate
nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè
ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di
cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse
scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi
di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso
ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali
siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte,
incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno
della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero
antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di
rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.
Il dialogo tra don Fabrizio e Chevalley (cap. IV) D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la
Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le
dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che
ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino,
terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri
razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la
bellezza della baia di Taormina, ambedue fuori misura, quindi pericolosi; questo clima che
c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti Chevalley, li conti: Maggio, Giugno,
Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;
questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor
successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città
maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio
spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o
che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di
sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti,
che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano
di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua
di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché
non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi,
sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si
sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori
d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane
così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d’animo.
Il dialogo tra don Fabrizio e Chevalley (cap. IV)
I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che
credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro
miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se
Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di
raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa
del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti, essi credono
di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi.
Crede davvero lei Chevalley, di essere il primo a sperare di
incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti
imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli
Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno
concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti
funzionari riformatori di Carlo III. E chi sa più chi siano stati? La
Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché
avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è civile, se è
onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una
parola?
Il paesaggio
Quando i cacciatori giunsero in cima al monte, di fra i tamerici
e i sugheri radi riapparve l’aspetto vero della Sicilia, quello nei
cui riguardi città barocche ed aranceti non sono che fronzoli
trascurabili: l’aspetto di un’aridità ondulante all’infinito, in
groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali delle quali la
mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in una
fase delirante della creazione; un mare che si fosse pietrificato
in un attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso
dementi le onde. Donnafugata, rannicchiata, si nascondeva in
una piega anonima del terreno e non si vedeva un’anima viva:
sparuti filari di viti denunziavano soli un qualche passaggio di
uomini. Oltre le colline, da una parte, la macchia indaco del
mare, ancor più duro e infecondo della terra. Il vento lieve
passava su tutto, universalizzava odori di sterco, di carogne e
di salvie, cancellava, elideva, ricomponeva ogni cosa nel
proprio trascorrere noncurante.
Il fluire del tempo, la morte di don Fabrizio (cap. VII)
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre.
Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di
esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di
continuare a vivere, andassero uscendo da lui lentamente ma
continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno
ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio
di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di
grande attenzione, questo sentimento di continuo abbandono
scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve
occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio
continuo all'orecchio, come il battito di una pendola
s’impongono quando tutto il resto tace; ed allora ci rendono
sicuri che essi sono sempre stati lì, vigili, anche quando non li
udivamo.
Paesaggio e morte (cap. VII)
[…] si attraversavano paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure
malariche e torpide; quei paesaggi calabresi e basilischi che a lui
sembravano barbarici mentre di fatto erano tali e quali quelli
siciliani. La linea ferroviaria non era ancora compiuta: nel suo
ultimo tratto vicino a Reggio faceva una larga svolta per Metaponto
attraverso paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici
e voluttuosi di Crotone e di Sibari. A Messina poi, dopo il mendace
sorriso dello Stretto, sbugiardato subito dalle riarse colline
peloritane, di nuovo una svolta, lunga come una crudele mora
procedurale; si era discesi a Catania, ci si era arrampicati verso
Castrogiovanni; la locomotiva che annaspava su per i pendii
favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e,
dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo.
Paesaggio e morte (cap. VII)
Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine luglio, ed il mare di
Palermo compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui,
inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si
sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il
sole immoto e perpendicolare stava lì sopra piantato a gambe
larghe, e lo frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto.
Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che
quello interiore della vita che erompeva via da lui.
Il fragore del mare si placò del tutto
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
• Alcuni episodi e personaggi anticipati già
nel 1948 sul «Corriere della sera» e sul
«Tempo illustrato».
• Pubblicazione a puntate, tra il 19 febbraio e
il 28 maggio 1949, sul settimanale «Il
Mondo».
• Preceduto da un’epigrafe dal Consalvo di
Giacomo Leopardi, il romanzo è suddiviso
in dodici capitoli, ciascuno preceduto da
epigrafi, raggruppabili in tre parti.
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
• Personaggi:
Antonio Magnano
Alfio Magnano
Ermenegildo Fasanaro
Barbara Puglisi (e suo padre, il notaio)
Edoardo Lentini
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
• La prima parte: capitoli I-IV → commedia
degli equivoci
• La seconda parte: capitoli VI-IX → dalla
commedia al dramma
• Terza parte: capitoli X-XII → esplosione
dello scandalo
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
Finalmente Antonio rimase solo e poté guardare a
suo agio i cari tetti di Catania, quei tetti neri,
disseminati di giare, di fichi secchi e di biancheria, sui
quali il vento di marzo, al tramonto, sferra calci da
cavallo; le cupole che, nelle sere di festa, scintillano
come mitre d’oro; le gradinate deserte dei teatri
all’aperto; gli alberi di pepe del giardino pubblico; il
cielo della provincia, basso e intimo come un soffitto,
sul quale le nuvole si dispongono in vecchi disegni
familiari; l’Etna accovacciato fra il mare e l’interno
della Sicilia, con sulle zampe, la coda e il dorso,
decine di paesetti neri che vi stanno arrampicati con
stento.
Vitaliano Brancati: Il bell’Antonio (1949)
«Ha preso da me e da suo nonno! Con noi
Magnano, caro amico, le donne vanno in brodo
soltanto che le tocchiamo con un dito… Io non so
quali siano i rapporti di mio figlio con la contessa,
ma so che quando una donna è stata con lui,
rimane a leccarsi le labbra per tutto il tempo della
sua vita».
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Modelli di De Roberto:
– Paul Bourget (romanzo psicologico)
– Gustav Flaubert di Madame Bovary (romanzo
realista)
– Emile Zola del ciclo dei Rougon-Macquart
(romanzo naturalista e sperimentale)
– Giovanni Verga (romanzo verista)
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
Il ciclo degli Uzeda
→ L’Illusione (1891)
→ I Viceré (1894)
→ L’Imperio (1929, postumo e
incompiuto)
Federico De Roberto: L’illusione e L’imperio
• L’illusione: protagonista Teresa Uzeda, figlia del
contino Raimondo Uzeda e di Matilde Palmi
→ fallimento della vanità aristocratica
• L’imperio: protagonista Consalvo Uzeda, figlio
del principe Giacomo Uzeda, nella sua
esperienza di deputato e poi ministro a Roma
→ romanzo parlamentare
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• I Viceré: storia della famiglia Uzeda dal 1855 al
1882
→ rappresentazione della lotta per l’esistenza
ad alto livello, quello aristocratico
→ divisa in tre parti:
1) Dal 1855 fino alla caduta del regno
borbonico e alla elezione del duca D’Oragua
a deputato,
2) Fino alla presa di Roma (1870)
3) Fino alle elezioni del 1882, quando viene
eletto deputato Consalvo Uzeda.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Saga familiare, ma anche romanzo storico
e di costume:
– Caratteristiche del romanzo familiare
– Caratteristiche del romanzo di costume
– Caratteristiche del romanzo storico
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• I personaggi principali:
– Donna Teresa Risà in Uzeda
– Padre Don Blasco Uzeda
– Donna Ferdinanda Uzeda
– Don Gaspare Uzeda
– Don Giacomo Uzeda
– Don Raimondo Uzeda
– Consalvo Uzeda
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Struttura del discorso:
– discorso indiretto libero: riproduzione di un discorso
di un personaggio con una tecnica intermedia tra
discorso diretto e discorso indiretto → consiste
sostanzialmente in un’omissione dei verba dicendi
(disse che…, penso che…) → nel discorso indiretto
libero, quindi, il discorso indiretto viene iniziato
senza quei precisi segnali grammaticali che
generalmente indicano il momento di passaggio tra i
due discorsi;
– discorso interiore o rivissuto;
– analisi psicologica.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Livelli di ironia nel romanzo:
– Il buon umore;
– La comicità vera e propria;
– Ironia pungente;
– Satira demistificante;
– Sarcasmo sferzante;
– La presa in giro sadica;
– Il disgusto gelido.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• La critica:
– Leonardo Sciascia, Perché Croce aveva torto, in “La
Repubblica”, 14-15 agosto 1977
• Polemica con Croce e i crociani, che giudicavano tutte le
opere letterarie secondo le categorie di «poesia» e «non
poesia»:
Su De Roberto: «ingegno prosaico, curioso di psicologia
e di sociologia, ma incapace di poetici abbandoni»
Su I Viceré: «opera pesante, che non illumina l’intelletto
come non fa mai battere il cuore»
• Tecnicamente, è un romanzo «ben fatto»
• Un romanzo contenuto tra due documenti: il testamento di
donna Teresa del quale si parla all’inizio e il comizio finale di
Consalvo
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• La critica:
– Leonardo Sciascia, Perché Croce aveva torto,
in “La Repubblica”, 14-15 agosto 1977
• Entrambi questi due documenti contengono
elementi che rimandano al concetto di
«feudalità»:
– Feudalità storica e familiare il testamento di
Teresa
– Feudalità politica nel comizio di Consalvo
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Parole chiave dei Viceré:
– Delusione storica
– Ironia
– Contraddizione tra ideale risorgimentale e
delusione postrisorgimentale.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Il duplice obbiettivo de I Viceré:
– Descrivere l’irresistibile ascesa dell’aristocrazia
borbonica anche nell’Italia dei Savoia;
– Dipingere nel modo più fosco e oltraggioso
possibile la stessa aristocrazia borbonica.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Motivazioni ideologiche e intellettuali di
questi obbiettivi:
1) delusione politica ed ideologica nei
confronti della nuova Italia
2) motivazione ontologica = avversione
per l’individualismo dilagante nella
società italiana del secondo Ottocento
→ assenza di una figura che possa
incarnare un principio etico ordinatore.
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Da tutto ciò deriva all’autore una sorta di
stato di profonda frustrazione che si
trasforma nella sua narrativa in una
sferzante ironia e in una continua parodia
dei suoi personaggi.
• Ironia, parodia e sarcasmo diventano
quindi i modi fondamentali della retorica
derobertiana
Federico De Roberto: I Viceré (1894)
• Esempi di questa tecnica retorica → i
discorsi politici di Consalvo Uzeda di
Francalanza (personaggio conoscitivo)
• Questo personaggio ricopre sia un ruolo
retorico che uno antiretorico:
– Il primo = la funzione dialettica tipica dell’uomo
politico, è utile al personaggio per mascherare
i suoi reali obiettivi;
– Il secondo si rivela attraverso i flussi del
pensiero = rivela al lettore le intenzioni più
recondite e l’animo più vero del personaggio.
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Frattanto i preparativi si venivano compiendo; la domenica del
comizio tutto fu pronto. L'aspetto della palestra era grandioso.
Duemila seggiole erano disposte in bell’ordine nell'arena, e
restava tuttavia spazio libero per gli spettatori in piedi. Il lato
meridionale del portico, riservato alla presidenza ed alle
associazioni, conteneva una gran tavola circondata di poltrone e
fiancheggiata da tavolini per la stampa e gli stenografi. Gli altri tre
lati erano per gl'invitati: autorità, signore, rappresentanze varie.
Tutta la terrazza, come l'arena, restava agli spettatori minuti: per
difendere le teste dal sole erano state distese grandi tende di
mussolina tricolore. Trofei di bandiere abbracciavano le colonne,
ed in mezzo a ciascun trofeo spiccava un ritratto: a destra e a
sinistra della balaustrata da cui avrebbe parlato il candidato,
Umberto e Garibaldi; poi Mazzini e Vittorio Emanuele; poi
Margherita e Cairoli; e così tutto in giro Amedeo, Bixio, Cavour,
Crispi, Lamarmora, Rattazzi, Bertani, Cialdini, la famiglia sabauda
e la garibaldina, la monarchia e la repubblica, la destra e la
sinistra.
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Concittadini!... Se la benevolenza dei miei amici vi ha indotto a
credere che io possegga le doti dell'oratore, e vi ha qui
adunati con la promessa che udrete un vero e proprio
discorso, io sono dolente di dovervi disingannare […] Io vi
dichiaro, concittadini, che non posso, che non so parlare; tale
è il tumulto di impressioni, di sentimenti, d'affetti che
sconvolge in questo momento l'animo mio. (Gli stenografi
notarono: Benissimo!) Io sento che fino ai miei giorni più tardi
non si potrà più cancellare il ricordo di questo momento
indescrivibile, di questa immensa corrente di simpatia che mi
circonda, che m'incoraggia, che mi riscalda, che infiamma il
mio cuore, che ritorna a voi altrettanto viva e gagliarda e
sincera quale viene dai vostri cuori a me. (Applausi
prolungati.) Ma questa restituzione è troppo poca cosa e non
vale a sdebitarmi: tutta la mia vita dedicata al vostro servigio
sarà bastevole appena. (Applausi.)
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Concittadini!... Voi chiedete un programma a chi sollecita
l’onore dei vostri suffragi; il mio programma, in mancanza
d'altri meriti, avrà quello della brevità; esso compendiasi in tre
sole parole: libertà, progresso, democrazia... (Battimani
fragorosi ed entusiastici.)
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
La mia fede data dall'alba della mia vita, quando i pregiudizi di casta
che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuti, perché ora
sono meglio in grado di combatterli... (Benissimo!) mi vollero chiuso
qui, tra questi muri. […] Concittadini, […] io sono giovane d'anni, e la
vita potrà apprendermi molte cose e dimostrarmi la fallacia di molte
altre, e darmi quell'esperienza, quel senno maturo che ancora forse
non ho; ma quali che sieno le vicende e le prove che l'avvenire mi
serba, una cosa posso affermare fin da questo momento, sicuro che
per volger d'anni o per mutar di fortuna non potrà venir meno: la mia
fede nella democrazia!... (Salva d'applausi entusiastici.) Questa fede
mi è cara com'è cara al capitano la bandiera conquistata nella
battaglia... (Scoppio di battimani.) […] Voi vedete che io non posso
più rinunziare a questa fede; essa mi è tanto più cara e preziosa,
quanto più mi costa... (Scoppio di battimani fragorosi e prolungati.
Grida di: Viva Francalanza... Viva la democrazia!... Viva la libertà...
L'oratore è costretto a tacere per qualche minuto.)
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Ma voi, concittadini, […] giudicherete forse che se questa fede
compendia tutto un programma, è mestieri che un legislatore si tracci
una precisa linea di condotta in tutte le particolari quistioni riflettenti
l'orientamento politico, l'ordinamento delle amministrazioni pubbliche, il
regime economico e via dicendo. Permettetemi dunque di dirvi le mie
idee in proposito. Disciolte le antiche parti parlamentari, non ancora si
delineano le nuove. Io auguro pertanto la formazione, e seguirò le sorti
di quel partito che ci darà la libertà con l'ordine all'interno e la pace col
rispetto all'estero (Benissimo, applausi), di quel partito che realizzerà
tutte le riforme legittime conservando tutte le tradizioni (Bravo! bene!), di
quel partito che restringerà le spese folli e largheggerà nelle produttive
(Vivissimi applausi), di quel partito che non presumerà colmare le casse
dello Stato vuotando le tasche dei singoli cittadini (Ilarità generale,
applausi), di quel partito che proteggerà la Chiesa in quanto potere
spirituale, e la infrenerà in quanto elemento di civili discordie
(Approvazioni), di quel partito, insomma, che assicurerà nel modo più
equo, per la via più diritta, nel tempo più breve, la prosperità, la
grandezza, la forza della gran patria comune (Applausi generali.)»
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
• Un giorno non lontano, rivendicati i nostri
naturali confini (Applausi vivissimi), riunita
in un sol fascio la gente che parla la lingua
di Dante (Scoppio di applausi), stabilite le
nostre colonie in Africa e forse anche in
Oceania (Benissimo!), noi ricostituiremo
l'Impero romano! (Ovazione).
Ad ogni annunzio di nuovo argomento, piccoli gruppi di spettatori
seccati se ne andavano: «Bellissimo discorso, ma dura troppo...»
Gli uscenti costringevano la folla a tirarsi da canto, i fedeli
ingiungevano: «Silenzio!» e Baldassarre non si dava pace, vedendo
l'ineducazione del pubblico. «Amministrazione della giustizia...
Giustizia nell'amministrazione. Discentrare accentrando, accentrare
discentrando...» Quanto alla marina mercantile, il sistema dei premi
non era scevro d'inconvenienti. Poi, «riforma postale e telegrafica,
legislazione dei telefoni; non bisogna neppure dimenticare l'idra
della burocrazia...». Adesso si vedevano larghi vuoti nell'arena e nei
portici, specialmente nelle terrazze dove il sole arrostiva i crani.
«Ma questo non è un programma elettorale, è un discorso da
ministro!...» sogghignavano alcuni; l'uditorio era schiacciato dal
peso di quell'erudizione, di quelle nomenclature monotone; la luce
troppo chiara, il silenzio del monastero ipnotizzava la gente; il
presidente del comizio abbassava lentamente la testa, vinto dal
sonno; ma, ad uno scoppio di voce del candidato, la rialzava
rapidamente, guardando attonito attorno; i musicanti sbadigliavano,
morendo di fame.
Baldassarre dava di tanto in tanto il segnale di applausi, incorava
i fedeli anch'essi accasciati e vinti; si disperava vedendo passare
inosservate le bellissime cose dette dall'oratore. Questi parlava
da un'ora e mezza, era tutto in sudore, la sua voce s'arrochiva, il
braccio destro infranto dal continuo gestire si rifiutava oramai al
suo ufficio. Egli continuava tuttavia, deciso ad andare sino in
fondo, nonostante la stanchezza propria e del pubblico, perché si
dicesse che aveva parlato due ore difilato. A un tratto alcune
seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero un gran
fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole,
una rissa; l'oratore fu costretto a tacere un momento.
Riprendendo a parlare, la voce gli uscì rauca e fioca dalla
strozza; non ne poteva più, ma era alla perorazione.
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Consalvo non ne poteva più, sfiancato, rotto,
esausto da una fatica da istrione: parlava da due
ore, da due ore faceva ridere il pubblico come un
brillante, lo commoveva come un attor tragico, si
sgolava come un ciarlatano per vendere la sua
pomata. E mentre la marcia, intonata per ordine di
Baldassarre, spronava l'entusiasmo del pubblico,
nel gruppo degli studenti canzonatori
domandavano:
«Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che ha
detto?»
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l'età nostra, né io le dirò che tutto
vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo
perché è passato... L'importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi
rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta
deputato, mio padre mi disse: "Vedi? Quando c'erano i Viceré, gli Uzeda
erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento."
Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d'accordo con la felice
memoria; ma egli disse allora una cosa che m'è parsa e mi pare molto
giusta... Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene
dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto... Certo, dipendere
dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano
stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del
mondo e si considera investito d'un potere divino e d'ogni suo capriccio fa
legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge
umano, numeroso ma per natura servile... E poi, e poi il mutamento è più
apparente che reale. Anche i Viceré d'un tempo dovevano propiziarsi la
folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che
ne ottenevano dalla Corte il richiamo... o anche la testa!
Il comizio di Consalvo nell’ultimo capitolo
La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e
saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra
la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa
d'oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il
primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né
un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo
principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può
essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro
più cercato alla biblioteca dell'Università, dove io mi reco qualche
volta per i miei studi? L'Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice
memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la
legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva
grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta
importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa
puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire
che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti.
Leonardo Sciascia (1921-1989)
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
• Pubblicato nel 1961 dalla casa editrice Einaudi.
• Spunto: l’omicidio di Accursio Miraglia, un sindacalista
comunista, avvenuto a Sciacca nel gennaio del 1947 ad
opera della mafia.
• Sciascia scrive di mafia già nel 1957 recensendo il libro di
Renato Candida, comandante dei carabinieri ad Agrigento
= il personaggio del Capitano Bellodi, protagonista del
romanzo.
• Il testo è composto di 17 parti non numerate.
• Il titolo è tratto dall’Enrico VI di Shakespeare, un cui passo
fa da epigrafe al romanzo: “… come la civetta quando di
giorno compare”.
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e
figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio. Gli Stati
Uniti d'America possono avere, nella narrativa e nei films, generali
imbecilli, giudici corrotti e poliziotti farabutti. Anche l'Inghilterra, la
Francia (almeno fino ad oggi), la Svezia e cosí via. L'Italia non né ha
mai avuti, non ne ha, non ne avrà mai. […] Perciò, quando mi sono
accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto
i limiti che le leggi dello Stato e, piú che le leggi, la suscettibilità di
coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a
cavare. Sostanzialmente, dalla prima alla seconda stesura, la linea
del racconto è rimasta immutata; è scomparso qualche personaggio,
qualche altro si è ritirato nell'anonimo, qualche sequenza è caduta.
Può darsi il racconto ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque,
che non l'ho scritto con quella piena libertà di cui uno scrittore (e mi
dico scrittore soltanto per il fatto che mi trovo a scrivere) dovrebbe
sempre godere. (Dalla Nota alla fine del romanzo)
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
• Inchiesta parlamentare sulle condizioni economiche e
sociali della Sicilia del 1875 + e quella parallela, condotta
di propria iniziativa da due giovani studiosi, Leopoldo
Franchetti e Sidney Sonnino.
• A livello letterario non esisteva ancora un libro che
svelasse gli ingranaggi mafiosi e le modalità d’azione
dell’organizzazione criminale.
• Solo:
– una commedia in dialetto, I mafiusi di la Vicarìa di
Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto
– Ancora un testo in dialetto, Mafia, di Giovanni Alfredo
Cesareo.
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
Parole del dottor Brescianelli:
«Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è
venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli
scandali di quel governo regionale: gli scienziati
dicono che la linea della palma, cioè il clima che è
propizio alla vegetazione della palma, viene su,
verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni
anno… La linea della palma… Io invece dico: la
linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E
sale come l’ago di mercurio di un termometro,
questa linea della palma, del caffè forte, degli
scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…»
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
• Mafia: così è (anche se non vi pare), in Corriere della
Sera del 19 settembre 1982:
«Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere
considerato un esperto di mafia o, come oggi si usa dire,
un ‘mafiologo’. Sono semplicemente uno che è nato, è
vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha
sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli
avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così
come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di
tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e
sentite, delle cose vissute e in parte sofferte…»
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
• Per Italo Calvino Il giorno della civetta è:
– «Giallo che non è un giallo»
– «[…] tutto è limpido, cristallino: le più
tormentose passioni, i più oscuri
interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti,
lucidezza, rassegnazione, non hanno più
segreti, tutto è ormai classificato e
catalogato...»
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
• Personaggi principali:
– Salvatore Colasberna, impresario edile.
– Paolo Nicolosi, potatore
– La moglie di Nicolosi
– Il capitano Bellodi, ufficiale dei carabinieri
– Maresciallo Ferlisi
– Calogero Dibella, confidente dei carabinieri chiamato
Parrinieddu.
– Diego Marchica detto Zicchinetta, killer della mafia e autore
dei due omicidi
– Rosario Pizzuco, suo complice
– Don Mariano Arena, «galantuomo» e capo della mafia
locale
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
Le ragazze prepararono dei tramezzini. Mangiarono,
bevvero whisky e cognac, ascoltarono jazz, parlarono
ancora della Sicilia, e poi dell'amore, e poi del sesso. Bellodi
si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero,
affamato. «Al diavolo la Sicilia, al diavolo tutto». Rincasò
verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma
era incantata di neve, silenziosa, deserta. "In Sicilia le
nevicate sono rare" pensò: e che forse il carattere delle
civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o
sole prevalessero. Si sentiva un po' confuso. Ma prima di
arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia e
che ci sarebbe tornato. «Mi ci romperò la testa» disse a voce
alta».
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
(1961)
Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo
l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella
parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli
uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando)
pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i
mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse
ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli
ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi,
scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora
più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E
infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre
nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più
espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi
inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…
Andra Camilleri (1925)
Andra Camilleri. Il giro di boa (2003)
Taliò verso la finestra, filtrava scarsa luce. Il ralogio segnava quasi le sei.
Si susì, raprì le imposte. A livante la chiarìa del sole che stava per
spuntare disegnava arabeschi di nuvole leggere, non da pioggia. Il mare
si cataminava tanticchia per la brezza mattutina. Si inchì i purmuna d’aria,
sentendo che ogni respiro si portava via un pezzo della nuttata ‘nfami.
Andò in cucina, priparò il cafè e, aspettando il vuddru, raprì la verandina.
La spiaggia, almeno fino a dove si poteva vedere a malgrado del grigiore,
pareva deserta d’òmini e vestie. Si vippi dù tazze di cafè una appresso
all’altra, si mise i pantaloncini da bagno e scinnì in spiaggia. La rena era
vagnata e compatta, forse nella prima sirata aveva chiuvutuo a leggio.
Arrivato a ripa di mare, allungò un piede. L’acqua gli parse assà meno
ghiazzata di quanto aveva pinsato. Avanzò cautamente, patendo di tanto
in tanto lungo la schina addrizzoni di friddo. Ma pirchì, si spiò a un certo
momento, a cinquant’anni passati mi viene gana di fare queste spirtizze?
Capace che mi piglio uno di quei raffreddori che po’ me ne devo stare
una simanata a starnutare con la testa ‘ntrunata. Principiò a nuotare a
bracciate lente e larghe. Il sciauro del mare era violento, trasiva pungente
nelle narici, pareva sciampagna.
Andra Camilleri. Il giro di boa (2003)E Montalbano squasi s’imbriacò, perché continuò a nuotare e a nuotare, la
testa finalmente libera da ogni pinsèro, compiacendosi d’essere addiventato
una specie di pupo meccanico. A farlo tornare di colpo omo fu il crampo
improvviso che l’azzannò al polpaccio della gamba mancina. Santiando, si
voltò sulla schiena mettendosi a fare il morto. Il dolore era tanto forte che
l’obbligò a stringere i denti, prima o poi però sarebbe lentamente passato. Sti
mallitti crampi si erano fatti più frequenti negli ultimi dù-tri anni. Avvisaglie della
vicchiaia appostata darrè l’angolo? La corrente lo portava pigramente. Il dolore
stava principiando ad abacare, tanto da permettergli di dare due bracciate
all’indietro. Alla seconda bracciata, la mano dritta sbatté contro qualcosa.
In una frazione di secondo, Montalbano capì che quel qualcosa era un piede
umano. Qualcuno stava facendo il morto appena davanti a lui e non se ne era
addunato. «Mi scusi» disse precipitoso rimettendosi a panza sotto e taliando.
L’altro davanti a lui non arrispunnì perché non stava facendo il morto. Era
veramente morto. E, a stimare da come s’apprisintava, lo era da parecchio.
Dacia Maraini (1936)
La lunga di Marianna Ucrìa (1990)
Conoscevo troppo bene le arroganze e le crudeltà della Mafia che
sono state proprio le grandi famiglie aristocratiche siciliane a nutrire e
a far prosperare perché facessero giustizia per conto loro presso i
contadini […] Io non ne volevo sapere di loro. Mi erano estranei,
sconosciuti. Li avevo ripudiati per sempre già da quando avevo nove
anni ed ero tornata dal Giappone affamata, poverissima, con la cugina
morte ancora acquattata nel fondo degli occhi. […] Io stavo dalla parte
di mio padre che aveva dato un calcio alle sciocchezze di quei principi
arroganti rifiutando una contea che pure gli spettava in quanto marito
della figlia maggiore del duca che non lasciava eredi maschi. Lui aveva
preso per mano mia madre e se l’era portata a Fiesole a fare la fame,
lontana dalle beghe di una famiglia impettita e ansiosa. […] E invece
eccoli lì, mi sono cascati addosso tutti assieme, con un rumore di
vecchie ossa, nel momento in cui ho deciso, dopo anni e anni di rinvii e
di rifiuti, di parlare della Sicilia. Non di una Sicilia immaginaria, di una
Sicilia letteraria, sognata, mitizzata.
La lunga di Marianna Ucrìa (1990)
Genere: romanzo storico.
Intreccio: intreccio non segue la fabula infatti sono presenti alcuni flash back per
spiegare meglio alcuni avvenimenti della storia e ci sono delle ellissi di alcuni anni.
Voce narrante: il narratore è esterno alla vicenda ma non è onnisciente infatti
racconta la storia dal punto di vista della protagonista Marianna, escludendo quindi
i pensieri nascosti degli altri personaggi.
Spazio: il libro è ambientato in Sicilia (Bagheria e Palermo), a Napoli, a Roma.
Tempo: il romanzo è ambientato nel ‘700, la storia si svolge in circa quarant’anni
(dagli otto ai quarantacinque anni della vita di Marianna) in cui sono presenti delle
ellissi di alcuni anni.
Personaggi: Marianna (la protagonista), il padre, la madre, il marito-zio (Pietro
Ucrìa), i fratelli e le sorelle (Signoretto, Agata Fiammetta, Carlo e Geraldo), le figlie
(Felice, Giuseppa e Manina), Saro, il senatore Camalèo.
Tematiche: l’autrice racconta la situazione della Sicilia nel Settecento, fermamente
legata alle sue tradizioni, e della condizione delle donne in questa realtà.
Stile: registro medio-popolare.
Dacia Maraini (1936)
Sposare, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare, e fare
in modo che le figlie sposate facciano figliare le loro figlie
che a loro volta si sposino e figlino…