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Introduzione - Home page | IRIS Università degli Studi di … · Web viewL'approccio filosofico,...

Date post: 05-May-2018
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PALERMO Dottorato di ricerca in filosofia del linguaggio, della mente e dei processi formativi - XXIV ciclo - Tesi di dottorato AGIRE CONGIUNTO E INTENZIONALITA' COLLETTIVA Sandro Gulì
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PALERMO

Dottorato di ricerca in filosofia del linguaggio, della mente e dei processi formativi - XXIV ciclo -

Tesi di dottorato

AGIRE CONGIUNTO E INTENZIONALITA' COLLETTIVA

Sandro Gulì

TutoreProf. Marco Mazzone

Coordinatore del DottoratoProf. Franco Lo Piparo

2

INTRODUZIONE......................................................................................................................... 5

CAPITOLO PRIMO................................................................................................................... 18

MASSIMALISTI E MINIMALISTI..........................................................................................18

AZIONE CONGIUNTA E INTENZIONALITÀ. UN BINOMIO INSCINDIBILE?......................18

1.1. AGIRE COLLETTIVO E INTENZIONALITÀ.......................................................................................18

1.2. L'INTERDIPENDENZA DELLE INTENZIONI CONDIVISE................................................................24

1.3. LA STRUTTURA DELLE INTENZIONI CONDIVISE..........................................................................26

1.4. INTENZIONALITÀ CONDIVISA E CONOSCENZA COMUNE.............................................................33

1.5 AZIONE CONGIUNTA E SVILUPPO....................................................................................................38

1.6. COORDINAZIONE EMERGENTE E ARCHITETTURA MINIMA DELL’AZIONE CONGIUNTA..........44

1.7 Architettura minima dell’azione congiunta...................................................................48

CAPITOLO SECONDO............................................................................................................. 53

MIND THE GAP........................................................................................................................ 53

2.1 IL DEFLAZIONISMO FILOSOFICO......................................................................................................53

2.2. I LIMITI DEL DEFLAZIONISMO FILOSOFICO...................................................................................57

2.3. BRIDGING THE GAP...........................................................................................................................60

2.4 L'EVOLUZIONE DELLE INTENZIONI: IL RAPPORTO TRA COORDINAZIONE EMERGENTE E

INTENZIONALITÀ.......................................................................................................................................63

2.5. UNA PREMESSA STORICO-CRITICA................................................................................................65

CAPITOLO TERZO................................................................................................................... 68

L'EVOLUZIONE DEI MECCANISMI INTENZIONALI........................................................68

3.1 LA SHARED INTENTIONALITY HYPOTESIS DI TOMASELLO..........................................................68

3.2 ATTENZIONE CONGIUNTA E PRIORITÀ ONTOLOGICA DELL'INTENZIONALITÀ COLLETTIVA. .74

3.3 L'EVOLUZIONE DELLA INTENZIONALITÀ CONDIVISA...................................................................81

CAPITOLO QUARTO............................................................................................................... 83

RAPPRESENTARE CON UN CODICE COMUNE.................................................................83

4.1. IL COMMON CODING.........................................................................................................................83

4.2. COMMON CODING E INTENZIONALITÀ COLLETTIVA...................................................................86

4.3 PREDIZIONE.......................................................................................................................................87

3

4.4 CO-RAPPRESENTARE........................................................................................................................91

4.5 WE REPRESENTATION E ME- REPRESENTATION.........................................................................97

4.6 SFONDO E PROSPETTIVA DEL COATTORE......................................................................................98

CAPITOLO QUINTO..............................................................................................................101

MODI INTENZIONALI COLLETTIVI IRRIDUCIBILI.....................................................101

5.1 NOI CI RIFERIAMO, NOI RAPPRESENTIAMO, NOI AGIAMO. MODALITÀ DEL WE-

COGNIZE.................................................................................................................................................101

5.2 LA NATURA DELL'INTENZIONALITÀ CONDIVISA: MODI INTENZIONALI PLURALI (WE-MODE

INTENTIONALITY)..................................................................................................................................102

5.3 INTENZIONI INDIVIDUALI E INTENZIONI COLLETTIVE: SCOMPONIBILITÀ.............................106

5.4 L'INTENZIONALITÀ COLLETTIVA IRRIDUCIBILE DAL PUNTO DI VISTA FILOSOFICO: IL

CASO DI SEARLE..................................................................................................................................108

5.5 IRRIDUCIBILITÀ EPISTEMICA O ONTOLOGICA.....................................................................111

5.6. IL PRECEDENTE DEL TEAM REASONING DI BACHARACH.................................................116

5.7 LA STRUTTURA DEI MODI INTENZIONALI COLLETTIVI: INTENZIONALITÀ

PRECEDENTE E INTENZIONALITÀ COLLETTIVA IN AZIONE.....................................................120

5.8 L'INTERAZIONISMO NELLA RICERCA SULLA COGNIZIONE SOCIALE............................126

5.9 LA FUNZIONE DEI MODI INTENZIONALI COLLETTIVI NELL'AGIRE CONDIVISO......................130

BIBLIOGRAFIA...................................................................................................................... 133

4

Introduzione

Nella fitta trama della socialità gli individui sono protagonisti di azioni che

compiono da soli e di azioni che compiono insieme ad altri. Per il senso comune,

l'idea che alcune azioni abbiano due o più agenti, non sembra particolarmente

problematica, per la filosofia e la psicologia essa è fonte di un intenso dibattito.

La filosofia, la psicologia cognitiva e quella dello sviluppo hanno una grande

tradizione di ricerca che riguarda azioni con un solo agente. Quando si cerca, però,

di estendere i risultati della ricerca sull'azione individuale a quella collettiva,

sorgono molte domande e molti rompicapi. Per quanto riguarda l'azione, i filosofi

hanno sviluppato teorie che mettono in relazione intenzioni, ragioni, motivazioni

ed emozioni. Queste teorie si applicano alle azioni individuali ma non tutte

possono semplicemente essere estese alle azioni collettive. Si consideri il nesso tra

azione intenzionale e intenzione. E' ampiamente riconosciuto, ad esempio, che

uccidere intenzionalmente è connesso in modo appropriato all'intenzione di

uccidere. In che modo questo concetto si applica alle azioni collettive?

Consideriamo Mario e Valeria, che trasportano un divano insieme. Affinché il

loro trasportare sia un'azione collettiva intenzionale, non è sufficiente che ognuno

di essi, da solo, intenda trasportare il divano. Ci vuole un nesso tra le loro

intenzioni. C'è un gran disaccordo per stabilire quali sono le condizioni sufficienti,

affinché un'azione collettiva sia un'azione collettiva intenzionale. Alcuni

sostengono che ciò comporti avere un'attitudine speciale (Kutz 2000, Searle, 1990

[2002]), mentre altri hanno ipotizzato che sia coinvolto un particolare tipo di

soggetto, un agente plurale (Helm, 2008), o un particolare tipo di ragionamento, il

team-reasoning (Gold e Sugden 2007) o speciali tipologie di obblighi

interdipendenti o di impegni (Gilbert 1992, Roth 2004). Contrariamente a tutti

questi approcci, Michael Bratman (1992, 2009) sostiene che le intenzioni

5

condivise possono essere realizzate da molteplici intenzioni individuali ordinarie i

cui contenuti sono interdipendenti. La diversità di tutti questi approcci indica la

difficoltà di capire che cosa è necessario perché le azioni collettive siano azioni

collettive intenzionali.

L'approccio filosofico, che ha costituito un modo dominante di pensare all'azione

collettiva, ha inaugurato la ricerca sul tema concentrandosi soprattutto su stati

cognitivi di ordine superiore, come le intenzioni, gli impegni, i fini. Tuttavia,

sappiamo dalla ricerca psicologica empirica (Toellefsen & Dale 2012) che nel

caso dell'agire individuale intenzionale, ci sono gran numero di fenomeni

cognitivi, di livello inferiore, che supportano tale agire, come l'elaborazione

percettiva, le intenzioni motorie, le mappe cognitive, la categorizzazione, e così

via. Allo stesso modo, l'agire congiunto comporta una serie di fenomeni di livello

inferiore, comprese l'attenzione congiunta e vari meccanismi di allineamento

percettivo. Senza la comprensione dei fenomeni di livello inferiore, le teorie

filosofiche rimarranno sempre incomplete, perché non restituiscono in concetti la

dinamica cognitiva che richiede un aggiornamento in tempo reale, durante

l'esecuzione dell'azione. Inoltre, come molti ricercatori hanno sostenuto (Pacherie

2010, Michael Blomberg 2010, Knoblich e Sebanz 2008; Tollefsen, 2005;

Butterfill 2011), la nozione di intenzione condivisa. che emerge dalle analisi dei

filosofi, presuppone capacità mentali cognitivamente e concettualmente onerose.

Avere intenzioni condivise richiede, infatti, avanzate abilità rappresentazionali,

concettuali e comunicative e sofisticate forme di ragionamento sulle complesse

relazioni tra le reciproche intenzioni e i fini condivisi, reali e potenziali che siano.

Questo è problematico date le molte scoperte nelle ricerche sullo sviluppo le quali

(Brownell 2012) suggeriscono, da un lato, che bambini di due anni si impegnano

in ciò che appare come un'azione congiunta intenzionale e, dall'altro lato, che i

bambini non padroneggiano, a quell'età, il tipo di abilità di mentalizzazione che le

teorie richiedono come requisito per condividere le intenzioni.

La ricerca psicologica empirica condotta in seno alla psicologia cognitiva e alla

psicologia dello sviluppo, si è concentrata sul contributo dei meccanismi di

6

coordinamento di basso livello per spiegare l'azione collettiva, e sui casi di

un'azione collettiva in cui una full blown Theory of mind può essere assente

(Brownell 2010, Pezzulo 2010 e Wenke et al.2011). Knoblich e Sebanz

(Knoblich & Sebanz 2006; Vesper et al. 2010) a questo proposito, riassumono le

tendenze della ricerca e propongono un'architettura minima dei processi cognitivi

che rendono possibile agire con gli altri: la coordinazione emergente, la

coordinazione pianificata e fattori che servono da facilitatori della coordinazione,

sono sufficienti affinché gli agenti siano in grado di agire congiuntamente.

L'approccio minimalista è aggiornato sulle ricerche delle neuroscienze (Oullier, O.

et al 2008) e sulla psicologia dello sviluppo (Tomasello et al 2005; Rachoczy

2006; Tomasello e Rakoczy 2007). I dati suggeriscono, da una parte, che forme di

coordinazione di varia natura permettono agli attori di rappresentare i fini comuni

e il proprio livello di coinvolgimento, prima di rappresentare le intenzioni altrui,

dall'altra parte, che i bambini si impegnano in azioni congiunte prima di

sviluppare la capacità di avere conoscenza comune o mutua credenza sulle

componenti mentali dell'attività e che proprio l'agire condiviso permette lo

sviluppo di capacità di attribuzione di stati mentali intenzionali ad altri. I risultati

degli psicologi, però, sembrano ignorare ciò che di euristico c'è nell'intuizione dei

filosofi, e cioè che agire in modo congiunto implica che ci sia un'intenzione in

comune, l'elemento per discriminare una azione genuinamente collettiva da una

mera collezione di azioni individuali.

Così vi è un divario, un gap, tra l'approccio filosofico dominante e la ricerca

psicologica sperimentale sull'agire collettivo. Pacherie (2011) ha individuato una

definizione per descrivere i contendenti di questa contrapposizione, i massimalisti

e i minimalisti. Sul versante massimalista troviamo soprattutto filosofi, i quali

argomentano che un insieme di azioni è un'azione congiunta quando i partecipanti

hanno stati mentali intenzionali appropriati, che sono condivisi in qualche modo.

Sul versante minimalista troviamo psicologi dello sviluppo e ricercatori di scienza

cognitiva che indagano i meccanismi cognitivi che permettono l'interazione in

7

tempo reale a individui che si impegnano in forme di agire collettivo senza prima

che il complesso macchinario intenzionale sia all'opera.

Sulla base della constatazione di questa polarizzazione nasce la research question

che giustifica questo lavoro. E' possibile armonizzare la prospettiva psicologica

empirica e quella filosofica? Il contributo di questo lavoro, in questo spazio di

interrogazione che si è aperto, intende essere filosofico e soltanto filosofico. La

research question, quindi, deve assumere una forma particolare, che esprima il

punto di vista filosofico, di fronte a questa tradizione di ricerca sul tema. La

domanda, allora, verterà sul ruolo delle intenzioni condivise per spiegare il

fenomeno dell'agire collettivo. Sono necessarie le intenzioni per spiegare che cosa

vuol dire agire congiuntamente? E se rispondiamo positivamente, come possono

essere concepite in armonia con i risultati che la psicologia dello sviluppo e la

psicologia cognitiva hanno ottenuto? La risposta a questi interrogativi può

contribuire ad uscire dal gap.

Le strategie filosofiche per uscire dal gap e rispondere alla research question sono

molteplici ma riconducibili a due impostazioni:

1) Ci si può porre in una posizione di rottura con il pensiero dominante, essendo

motivati dai recenti sviluppi della psicologia cognitiva e dello sviluppo. In questa

direzione, la proposta è quella di fornire strumenti concettuali per studiare forme

di azione collettiva che non comportano intenzioni condivise da tutti (Seemann

2011, Michael 2011, Woodard 2011 e soprattutto Butterfill 2010).

2) Si può mantenere la centralità dell'intenzione condivisa, offrendo un nuovo, e

potenzialmente meno oneroso, approccio di ciò che conta come intenzione

condivisa (Pacherie 2009, Blomberg 2011). In questa direzione, l'onere è quello di

spiegare quale natura hanno le intenzioni condivise e quali funzioni peculiari esse

hanno, tali che non possono essere escluse dalla spiegazione di come gli individui

si impegnano in forme di agire collettivo.

In conformità ai risultati degli approcci empirici, il filosofo Butterfill (Butterfill

2010, 2012) ha argomentato che gli agenti che partecipano a un'azione congiunta

non hanno la necessità di essere consapevoli dei contributi degli altri come agenti

8

intenzionali, non hanno bisogno, quindi, di agire a causa della consapevolezza del

legame e infine non hanno bisogno di avere una mutua conoscenza delle

componenti mentali necessarie per l'azione. Ha proposto, quindi, di conciliare

prospettiva filosofica e approccio scientifico, eliminando le intenzioni dalle

condizioni necessarie e sufficienti per spiegare l'azione congiunta. Il lavoro di

Butterfill adotta la prima strategia, il presente lavoro intende adottare la seconda.

Prima di illustrare come questo lavoro si colloca nella seconda strategia, vorrei

spiegare il perché di questa scelta e indicare brevemente alcuni approcci

complementari.

E' il riconoscimento del valore e dei risultati dell'indagine empirica che giustifica

l'intuizione che le intenzioni non sono un elemento da escludere nella spiegazione

delle forme di agire condiviso. L'obiettivo della psicologia cognitiva non vuole

eliminare del tutto un appello a nozioni sofisticate di intenzioni condivise.

L'obiettivo delle ricerche, nate in seno alla psicologia cognitiva (Sebanz 2006;

Knoblic Sebanz 2011), è, piuttosto, quello di esplorare se i casi più sofisticati

possono emergere da forme più basilari di azione collettiva, e, se sì, come possono

emergere. Affrontare il groviglio delle questioni scientifiche circa l'azione

congiunta richiede anche la comprensione di come questi meccanismi più basilari

si leghino alle intenzioni condivise.

Il lavoro si muove in un panorama, dove tentativi simili sono in fase di

costruzione. Nel suo contributo, ad esempio, Pacherie (Pacherie 2009) fornisce

una nuova analisi delle intenzioni richieste per un'azione collettiva intenzionale.

Come Pacherie (2012) sostiene, gli approcci esistenti tendono a richiedere

capacità mentali sofisticate per identificare le conoscenze, le intenzioni e gli

impegni di altri agenti . Pacherie offre un approccio alternativo all'intenzionalità

condivisa: perché due o più agenti condividano l'intenzione di A, ciascuno deve

concepire se stesso come membro di un team composto da tutti gli altri agenti,

avendo ciascuno il pensiero che A è la migliore azione per il gruppo nel suo

complesso e l'intenzione quindi di fare la propria parte in A. Se questa idea è

corretta, avere intenzioni condivise richiede modeste capacità di mindreading agli

9

agenti : richiede loro di rilevare altri agenti e di attribuire obiettivi, ma di non

attribuire atteggiamenti proposizionali come la conoscenza o l'intenzione . Una

caratteristica interessante della proposta di Pacherie è l'assenza di qualsiasi

requisito di conoscenza comune. La sua visione implica che due agenti possano

condividere l'intenzione, senza sapere ciò che fanno. Nel suo contributo Pacherie

(Pacherie 2009) fornisce una nuova analisi delle intenzioni richieste per un'azione

collettiva intenzionale.

Blomberg (2010), invece, in un altro tentativo inscrivibile nella seconda strategia

di uscita dal gap, si preoccupa di quello che gli agenti coinvolti in un'azione

collettiva possono intendere. Come egli osserva, è ampiamente accettato e

plausibilmente vero che "ciò che si cerca di fare sono le proprie azioni " (Bratman

1992, p.330). Blomberg porta l'esempio di due pattinatori che eseguono una

manovra, che richiede movimenti corporei coordinati. Il fatto che un agente possa

intendere eseguire solo le azioni, che sono le proprie azioni, sembra implicare che

nessun pattinatore possa intendere eseguire questa manovra. Ciò appare vero,

perché la manovra coinvolge entrambi gli agenti che agiscono. Blomberg sostiene,

tuttavia, che l'implicazione apparente non regge, perché un pattinatore può

sperimentare i movimenti del corpo dell'altro pattinatore, come estensione del

proprio corpo. Qui l'argomento utilizza un'analogia con le esperienze di utilizzo

degli utensili; secondo alcuni approcci, gli agenti sperimentano gli strumenti come

estensioni del proprio corpo (Maravita e Iriki 2004; Spence 2011). Se un utensile

può essere vissuto come estensione del proprio corpo, forse lo stesso vale per il

corpo di un altro. Questo rende possibile quello che Blomberg chiama "intenzione

in azione socialmente estesa": intenzioni che implicano i movimenti del corpo di

un altro agente, ma il cui contenuto non comporta le azioni di un altro agente. Se

ogni pattinatore sperimenta il corpo dell'altro come un prolungamento del suo,

può tentare di eseguire una manovra che coinvolge i movimenti corporei altrui,

senza tentare in tal modo di compiere un'azione che (dal suo punto di vista) non

può influenzare. Questo spiega come un agente può intendere compiere un'azione

che non è la propria azione: viverla come se lo fosse. Mentre molti approcci di

10

azione congiunta rilevano la necessità della conoscenza degli altri agenti e delle

loro azioni, la proposta di Blomberg è coerente con (ma non comporta) il fatto che

i due agenti che agiscono insieme potrebbero avere ogni esperienza come se

stessero agendo da soli.

Lo scopo del presente lavoro è in linea con questa letteratura. In esso si argomenta

che le intenzioni svolgono un ruolo nella spiegazione del fenomeno dell'azione

congiunta, a patto che se ne dia una versione, le cui implicazioni, da un punto di

vista delle abilità cognitive, non sia onerosa e si possano armonizzare con le

visioni che ci provengono dalla psicologia dello sviluppo e dalla psicologia

cognitiva. A differenza di Butterfill, quindi, io credo che le intenzioni non vadano

eliminate ma ripensate e collocate in un ordine naturale. In particolare, al fine di

contribuire ad una versione "più leggera" dell'intenzionalità collettiva, emerge

l'esigenza di affrontare due problemi: dato che i bambini si impegnano in forme di

attività che sembrano essere azioni congiunte, sebbene non abbiano ancora

sviluppato quelle sofisticate capacità mentali presupposte dalle teorie filosofiche,

vi è a questo stadio dello sviluppo un'intenzionalità condivisa e che forma può

assumere? E' possibile che gli individui, che si impegnano in attività congiunte,

rappresentino i contributi degli altri attori verso l'obiettivo comune, in modi meno

onerosi cognitivamente, tali da facilitare una interazione in tempo reale?

Il dialogo con la psicologia dello sviluppo e con la psicologia cognitiva è centrale

per risolvere entrambi i rompicapi. Metodologicamente, gli approcci scientifici, in

seno alla psicologia dello sviluppo e in seno alla psicologia cognitiva, saranno

usati come scenari nei quali verranno descritti e interpretati funzioni, processi e

meccanismi di cognizione sociale, che spiegano quali operazioni sono necessarie

per impegnarsi concretamente nell'azione congiunta.

In psicologia dello sviluppo, l'agire collettivo è strettamente connesso con la

ricerca sulla "Teoria della mente" e i suoi precursori. Con riferimento ad una

nozione particolare di azione collettiva, possiamo chiederci quali abilità mentali

sono richieste per impegnarsi in un'azione collettiva, e quindi, se ci sono delle

capacità mentali la cui acquisizione potrebbe essere facilitata dalla capacità di

11

impegnarsi in un'azione collettiva. Secondo Tomasello e Rakoczy, forme di

attività cooperativa, che appaiono intorno al primo anno di vita, sono "tutte le

manifestazioni di un'unica sottostante abilità socio-cognitiva". Essi chiamano

siffatta abilità intenzionalità condivisa e la descrivono come "la comprensione

delle persone come agenti intenzionali, di chi ha una prospettiva sul mondo che

può essere seguita, diretta e condivisa " (Tomasello e Rakoczy 2003 p. 125). In

questa prospettiva, l'azione collettiva che i bambini compiono nel loro secondo

anno di vita, presuppone già una comprensione relativamente sofisticata delle

menti altrui. Un grappolo di domande cruciali per capire lo sviluppo, quindi, verte

su quali abilità sono richieste per particolari forme di azioni collettive. In questo

primo scenario, ci si concentra sull'attenzione congiunta (Tomasello &Carpenter

2007). come perno della Shared Intentionality Hypotesis. Il meccanismo della

condivisione dell'attenzione, infatti, richiede che i soggetti sintonizzano, l'un

l'altro, le menti attraverso una rappresentazione congiunta del campo referenziale.

Essa è una delle prime abilità socio-cognitive che permettono di interagire con

altri.

Nella psicologia cognitiva, la ricerca sull'azione si concentra sui meccanismi che

connettono il soggetto di un ragionamento ai suoi movimenti corporei. E' opinione

diffusa che azioni, come raggiungere e afferrare una palla da tennis, implicano una

struttura gerarchica di piani (Hamilton e Grafton 2007). Un piano di alto livello

potrebbe essere la specificazione astratta del risultato dell'azione da realizzare (ad

esempio afferrare la palla), mentre un livello intermedio sarebbe il tipo di presa da

utilizzare (intera mano) e i livelli più bassi specificherebbero l'apertura della

mano, le indicazioni relative alla traiettoria, il movimento e la forza necessaria per

tenere la palla. Una questione importante è, allora, come approcci alla

pianificazione delle azioni individuali e del controllo motorio possono essere

estesi per tenere conto delle prestazioni in un compito svolto congiuntamente ad

altri. C'è una gran mole di dati che suggerisce che le persone formano

rappresentazioni della loro attività e di quella dei co-attori che sono, almeno in

12

alcuni aspetti, funzionalmente equivalenti alle rappresentazioni che guidano le

proprie azioni (Knoblich et al. 2011).

Nel secondo scenario si focalizzeranno, quindi, i risultati della common coding

theory (Prinz 1997; Knoblich jordan 2003), che suggeriscono che gli esseri umani

hanno una forte tendenza a prendere in considerazione i compiti altrui (e le

relative intenzioni), in virtù dei meccanismi sottostanti alla shared task

representation (Sebanz et al. 2003; 2005 Sebanz et al .2006b; Sebanz et al. 2007;

Ottone et al . 2005; Mitchell et al . 2005; Amodio & Frith 2006). Proprio la shared

task representation costituisce il fulcro di un approccio alla cognizione sociale che

permette di spiegare come individui, singolarmente, rappresentino il compito

altrui in un'attività condivisa e come questa rappresentazione abbia conseguenze

sull'attitudine che l'agente mostra nello svolgere la propria parte in un'azione

collettiva.

I meccanismi evolutivi, insieme a quelli cognitivi, ci consegnano una modalità di

cognizione sociale nella quale rappresentare, per gli agenti che inter-agiscono,

significa guadagnare aspetti della scena interattiva in una distinta attitudine

psicologica a intendere insieme, a credere insieme, a desiderare insieme e far di

questi il contenuto dell'azione singolare. (Tomasello 2009; Sebanz 2003 Sebanz et

Tai 2006)

A questo puntosarà possibile delineare una risposta alla domanda iniziale: che

foggia prende l'intenzionalità condivisa alla luce di queste acquisizioni? La

proposta di questo lavoro è che i processi di cognizione sociale, che formano e

sostengono le menti condivise suggeriscono una visione filosofica

dell'intenzionalità, nei termini di processi, che sono atteggiamenti psicologici o

"modi" irriducibili collettivi.

Questo lavoro propone, in relazione alla funzione delle intenzioni collettive, che

quando l'azione viene eseguita congiuntamente, gli individui che pensano in

modalità irriducibile e collettiva e agiscono secondo modi intenzionali collettivi,

incrementano le loro possibilità e le opzioni per l'azione, avendo una più ampia

comprensione delle opzioni disponibili e nuove soluzioni. Co-rappresentare il

13

punto di vista degli altri sulla scena d'azione, come condizione per l'azione,

modula, infatti, congiuntamente lo spazio dell'attività mentale e, di conseguenza,

il comportamento, fornendo ad ogni agente accesso ad una serie di descrizioni e

concetti che di fatto sarebbero indisponibili, se si limitassero ad osservare nella

prospettiva della prima persona singolare. Agendo insieme, la cognizione umana

si arricchisce delle risorse della cognizione nel modo irriducibilmente collettivo,

che rimangono latenti fino a quando le persone non sono impegnate nel

particolare contesto interattivo.

La tesi tenta di rispondere alla research question sostenendo, quindi, che

l'incompatibilità teorica, il gap, presente nel dibattito scientifico, tra le spiegazioni

fornite dalla psicologia cognitiva e gli approcci della filosofia per spiegare il

fenomeno dell'azione collettiva, può essere superata, se si adotta un modello

intenzionale dove i processi (modi o attitudini) collettivamente irriducibili sono

sostenuti dai processi cognitivi fondamentali che emergono nello studio

dell'attenzione congiunta e nello studio della shared task representation. Questo

rende l'intenzionalità collettiva, un elemento insostituibile per tracciare le abilità

necessarie a impegnarsi in azioni congiunte.

La tesi si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo è una literature review. Esso

si basa su una ricostruzione del dibattito tra i massimalisti e i minimalisti;

dapprima si ricostruisce il punto di vista dei filosofi (massimalisti), con le loro

divisioni interne, riduzionisti -anti-riduzionisti e le caratteristiche necessarie

perché si possa dire che le intenzioni sono condivise; poi si ricostruisce il punto di

vista di coloro i quali propongono un'architettura minima dei processi cognitivi

basilari, che rendono possibile agire insieme agli altri ( Vesper et al 2010).

Si cerca di far vedere 1) che gli approcci filosofici massimalisti presuppongono

abilità cognitive che escluderebbero che gli infanti abbiano capacità di agire

insieme, 2) che i principali approcci filosofici si basano su una struttura

intenzionale che presuppone la capacità di rappresentare gli altri agenti come

agenti intenzionali. Questo dibattito rispecchia il gap nella ricerca.

14

Sulla scia delle ricerche psicologiche, il secondo capitolo presenta le strategie

filosofiche per uscire dal gap. Una proposta è il minimalismo filosofico di

Butterfill, per il quale si può spiegare il fenomeno dell'azione congiunta soltanto a

partire dai fattori di coordinazione emergente. A quello di Butterfill, viene

contrapposto l'approccio di questo lavoro. Poiché l'approccio psicologico empirico

non nega il ruolo dell'intenzionalità, ma ne richiede una migliore

caratterizzazione, questa tesi sostiene che una migliore soluzione al problema del

gap è fornita da un approccio integrato, dove i processi di basso e di alto livello

cooperano. Nell'approccio integrato i meccanismi basilari sono messi al servizio

di funzioni e meccanismi più complessi che specificano, in differenti scenari, il

tipo di intenzionalità che serve per impegnarsi in interazioni sociali sempre più

sofisticate, come l'azione congiunta. La realtà di questa intenzionalità deve essere

vista attraverso i meccanismi reali che la specificano. Affinché si possa verificare

la realtà ontologica di questi meccanismi intenzionali, è necessario prendere in

considerazione varie branche di ricerca proveniente dalle scienze cognitive e dalla

psicologia dello sviluppo; a questa operazione sono dedicati il capitolo terzo e

quarto.

Nel terzo capitolo, si prende in considerazione l'interazione sociale nell'ambito

della psicologia dello sviluppo che studia l'attenzione congiunta. Attraverso la

lente del dibattito sull'attenzione congiunta, si presenterà la SIH di M. Tomasello.

Il quarto capitolo riprende e interpreta i risultati della common coding theory, che

suggeriscono che gli esseri umani hanno una forte tendenza a prendere in

considerazione i compiti altrui (e le relative intenzioni), pur mantenendo

meccanismi che possano tenerli separati in virtù del meccanismo della shared task

representation (Sebanz et al . 2003, 2005; Sebanz et al .2006b; Sebanz et al. 2007;

Ottone et al. 2005; Mitchell et al. 2005; Amodio & Frith 2006). Partendo dal

common coding, si analizza anche il meccanismo della predizione, applicato alle

azioni congiunte, per definire le funzioni minime delle co-rappresentazioni.

Nel quinto capitolo, si raccolgono i risultati dell'analisi e ci si concentra sulla

versione filosofica della intenzionalità condivisa. Alla luce dei risultati si

15

ripensano le intenzioni collettive come processi che formano e sostengono le

menti condivise, in altre parole le intenzioni sono atteggiamenti psicologici o

"modi" irriducibilmente collettivi (Searle 1990; Bacharach 1976). Un importante

motivo per intraprendere questo percorso è l'insoddisfazione con il presupposto

che le interazioni guidate da intenzioni individuali, sono sempre guidate da

rappresentazioni in capo degli agenti che rappresentano stati di cose, tra cui le altri

"menti, dal punto di vista del pensiero e del soggetto "Io".

L'idea centrale è che gli agenti interagenti condividono le loro menti

rappresentando i loro contributi all'azione congiunta come contributi a qualcosa

che essi hanno intenzione di perseguire insieme, come un 'noi.

16

17

Capitolo primo

Massimalisti e minimalisti.

Azione congiunta e intenzionalità. Un binomio inscindibile?

1.1. Agire collettivo e intenzionalità

Che cosa significa agire insieme? La domanda ha sollevato un'ampia discussione

nella filosofia contemporanea dell'azione1.

Esempi paradigmatici di agire insieme sono: camminare insieme, dipingere una

casa insieme o passare la palla a un compagno in un gioco di squadra.2 E'

difficilmente questionabile che nella realtà ci sia un fenomeno del genere, che

potremmo variamente definire: attività condivisa, azione congiunta o azione

collettiva.3 Quel che è oggetto di discussione è il modo per comprenderlo.

Un modo per affrontare il problema è chiedersi che cosa distingue le azioni che,

prese nel loro insieme, costituiscono un'attività collettiva da quelle che sono una

1 La letteratura filosofica sull'azione congiunta sarà principalmente quella prodotta nell'ambito della filosofia analitica anglo-americana. E' a questa tradizione di pensiero che il presente lavoro si richima. Questo non nega che altre tradizioni e altri approcci possano dare un contributo sostanziale alla spiegazione del fenomeno. 2 Esempi tratti da: Gilbert (1990) Bratman (1992) e Searle (1990).3 Nel presente lavoro, queste denominazioni saranno trattate come sinonimi. Nella tesi si utilizzerà maggiormente l'espressione "azione congiunta", che traduce l'espressione ampiamente diffusa nella letteratura in lingua inglese joint action. L'azione congiunta, nella sua accezione paradigmatica, è vista come un'azione su piccola scala tra soggetti, tendenzialmente, in posizione non subordinata. Ciò non toglie che essa possa essere riferita ad azioni che coinvolgono un gran numero di soggetti come nel caso delle azioni che sono compiute nell'ambito di istituzioni sociali.

18

semplice collezione di singoli atti.4 Si consideri un caso discusso da Searle (1990,

p. 402). Un certo numero di individui si trova in un parco. Improvvisamente,

inizia a piovere e ognuno corre verso una struttura coperta, che si trova al centro

del parco. Sebbene ci possa essere qualche coordinamento (le persone tendono a

non entrare in collisione le une con le altre), correre verso la struttura non è, in

senso rilevante, un'attività che gli individui fanno insieme. Ora immaginiamo un

altro scenario, con le stesse persone che eseguono gli stessi movimenti, questa

volta, però, come membri di una compagnia di danza, che sta eseguendo una

coreografia nel parco. In entrambi i casi, non vi è alcuna differenza nell'insieme o

nella "somma" dei comportamenti individuali. In entrambi i casi, gli individui

stanno correndo in direzione della struttura e, tuttavia, soltanto i ballerini del

secondo scenario sono impegnati in un'azione collettiva, mentre gli individui del

primo scenario non lo sono.

Searle (1990) suggerisce che ciò che distingue i due casi non è il comportamento

esteriore, ma qualcosa di "interno". Egli sostiene che nel caso collettivo, il

comportamento esteriore - correre insieme verso la struttura - non è il risultato di

una coincidenza. Si tratta, piuttosto, di qualcosa cui i partecipanti miravano.

Questo suggerisce che l'elemento "interno" sia un'intenzione.

In entrambi i casi, ogni partecipante ha un'intenzione che si può esprimere nella

forma "io sto correndo verso la struttura coperta" ma, nel caso collettivo,

l'intenzione si riferisce necessariamente alle intenzioni degli altri agenti coinvolti

e si potrebbe esprimere "noi stiamo correndo verso il rifugio" (o forse "Stiamo

eseguendo la parte del pezzo in cui ...."). Nel secondo caso l'intenzione di correre

verso il rifugio è condivisa con gli altri partecipanti. E' questa intenzione

condivisa che contraddistingue l'attività congiunta da una mera sommatoria di

singoli atti.5 Searle è in buona compagnia nel ritenere che ci sia un legame tra una

4 Si potrebbe formulare questa domanda con un'intonazione wittgensteiniana: Che cosa rimane, se sottraggo da quello che stiamo facendo insieme quello che ognuno fa singolarmente?5 Forse è prematuro concludere, come fa Searle, che ci deve essere in gioco una differenza "interna". Se è vero che la maggior parte dei teorici tratta l'intenzione come un atteggiamento psicologico (ad esempio Davidson, 1978, Harman, 1976 Bratman 1986), è vero anche che vi è

19

componente psicologica, mentale e l'agire collettivo. Una rassegna indicativa e

non esaustiva di citazioni può dare un'idea quanto sia diffusa la convinzione di

questo legame causale:

Io assumo che un'azione collettiva implica un'intenzione collettiva"6

"La conditio sine qua non dell'azione collaborativa è un fine collettivo

un'intenzione condivisa e un impegno condiviso".7

"la proprietà essenziale di un'azione congiunta è nella componente interna e cioè

che i partecipanti abbiano una intenzione collettiva o condivisa".8

"L'intenzionalità condivisa è la fondazione sulla quale è costruita l'azione

congiunta".9

"è esattamente la mescolanza e la condivisione degli stati psicologici, la chiave

che permette di capire come gli umani hanno sviluppato le loro numerose e

sofisticate forme di attività collettiva".10

stato il lavoro sulle intenzioni influenzato da Anscombe e Wittgenstein (Wilson, 1989, Thompson 2008), che le interpretano in termini di azioni intenzionali. Resta da vedere come i sostenitori di questa visione affronterebbero esplicitamente le questioni sollevate nella recente letteratura sulla shared agency, anche se qualche mossa in questa direzione potrebbe essere trovata in Stoutland 1997. Il tentativo di Searle si inscrive, quindi, nella tradizione della teoria causale dell'azione individuale che ha in Davidson il suo fondatore. Secondo Davidson (1980 cap 3), un'azione è un evento che è intenzionale secondo una certa descrizione; egli ha stabilito, così, un nesso causale tra un evento (di solito un movimento corporeo) e uno stato mentale (un atteggiamento psicologico) che lo causa.6 Gilbert, M. (2006 3–17).7 Bratman, M. (1992 327–341).8 Alonso, F. M. (2009 444–475)9 Carpenter, M. (2009 380 392).10 Call, J. (2009 p. 368–379).

20

In una prima, generale, ricostruzione si può affermare che, rispetto all'analisi

dell'azione congiunta, in una certa tradizione filosofica,11 è nata la "tesi

dell'intenzionalità". Secondo questa tesi, c'è un elemento della psicologia

individuale che spiega la partecipazione all'azione congiunta. Potremmo

temporaneamente definire questo elemento intenzione condivisa.12 Per impegnarsi

in forme di agire congiunto, gli individui condividono le intenzioni per

raggiungere un fine comune. L'intenzione condivisa mostra, per ogni individuo,

un impegno alla partecipazione all'attività e serve a distinguere le azioni che sono

compiute da soli, dalle azioni che sono compiute insieme ad altri.

Molte delle discussioni, che si trovano nella letteratura filosofica sulle azioni

congiunte, vertono sulla natura delle intenzioni condivise e su come la loro

presenza in differenti individui possa essere messa in relazione; più

specificamente, c'è un vasto accordo sul fatto che, per agire in modo congiunto, ci

debba essere una condivisione delle intenzioni ma non c'è nessun accordo su come

interpretare questa condivisione.13

11 Mi riferisco alla filosofia analitica dell'azione e in particolare alla teoria causale dell'azione inaugurata da Davidson12 Si rende necessaria una precisazione terminologica: La discussione filosofica sul tema dell'azione congiunta ricalca la discussione sull'agire individuale. Nell'azione individuale la teoria causale dell'azione (Davidson 1980) individua un nesso tra intenzione (stato mentale) e azione. Anche nella discussione sulle azioni collettive si cerca di individuare un nesso tra intenzione e azione. Per rimarcare la differenza con l'intenzione individuale coinvolta nell'azione individuale, sono state usate molte espressioni che riflettono il profondo disaccordo sulla natura di queste intenzioni. Alcuni le chiamano we intentions o collective intentions (Searle 1990) per sottolineare che pur appartendo al soggetto sono declinate nella prima persona plurate; altri le chiamano we-mode intentions (Tuomela 2006) per sottolineare la differenza con le I-mode intentions. Altri le chiamano partecipatory intentions (Kutz 2000), per sottolineare che esprimono la volontà di agire con altri soggetti. In tutti i casi si tratta di intenzioni che servono per impegnarsi in forme di agire collettivo e che sono negativamente definite rispetto alle ordinarie intenzioni individuali. Fa eccezione Bratman (1993) per il quale le intenzioni, che servono per agire in modo individuale, sono le sole intenzioni che conosciamo, anche nel caso in cui agiamo di concerto con altri. Poiché uno degli obiettivi di questo lavoro è suggerire la natura di queste intenzioni si sceglie provvisoriamente un termine comunemente accettato e che sembra avere una certa neutralità. E' ampiamente accettato, intatti, che gli individui impegnati in azioni congiunte abbiano intenzioni condivise. La natura di questa condivisione è causa di un largo dibattito.13 Un approccio radicalmente diverso potrebbe interpretare l'intenzione collettiva come un'attitudine particolare di un'entità sovra-individuale. Si veda Rovane (1997), Tollefsen, (2002), Pettit (2003), per la discussione della tesi di Pettit (2003) sulle menti di gruppo. L'intenzione

21

E' possibile, per comodità espositiva, dividere i filosofi che animano il dibattito

sulle intenzioni condivise in due grandi schieramenti: i riduzionisti e gli anti-

riduzionisti.

Alcuni interpretano le intenzioni condivise come intenzioni ordinarie, familiari

allo studio dell'agire individuale associate ad altri stati mentali; se le intenzioni

condivise sono identificate con, o sono costruite a partire da, intenzioni

individuali, si avrà un approccio riduzionista. Tuomela e Miller (1988) hanno

difeso siffatto approccio. Stabiliamo che un individuo sia il membro di un gruppo.

Secondo Tuomela e Miller questo individuo ha un'intenzione condivisa rispetto a

X, se egli intende fare la propria parte in X, crede in alcune condizioni, affinché si

verifichi X e crede che ci sia una credenza reciproca tra i membri di un gruppo,

relativamente alle condizioni che renderanno X possibile.

L'approccio riduzionista utilizza come materiale di studio le stesse intenzioni che

sono state studiate per spiegare le azioni individuali ma per giustificare la loro

natura "condivisa"14 deve ricorrere ad altri stati mentali come la credenza o la

espressa con la proposizione: "stiamo correndo verso il rifugio" sarebbe, secondo questa ipotesi, un'attitudine posseduta da una sorta di entità denotata dal pronome personale plurale "noi". Questo comporta che il gruppo possa essere un agente vero e proprio e un soggetto di attitudine intenzionale. Non bisogna meravigliarsi tuttavia se ci si trova davanti a teorie del soggetto intenzionale sovra-individuale o ipotesi su menti di gruppo o agenti fittizi. E' inevitabile pensare a questi livelli quando si parla di azione congiunta.Ci sono ragioni tuttavia per pensare che la strategia che fa appello a entità sovra-individuali, come soggetti portatori di intenzionalità, non centri il bersaglio, se il fenomeno ontologico sociale da indagare è un'azione congiunta. Non è del tutto ovvio se un individuo, che è un costituente dell'entità sovra-individuale, sia necessariamente impegnato a ciò che si sta facendo insieme; ricordiamo, infatti, che, come partecipante di un'azione congiunta, io sono impegnato relativamente a ciò che faccio, insieme ad altri.C'è un altro argomento per concentrare l'analisi sul livello intenzionale individuale. Le intenzioni sono stati della mente e fino a quando non dimostrerà, oltre ogni ragionevole dubbio, che esista una mente di gruppo, ragioni di parsimonia ontologica ci fanno propendere per collocare queste entità all'interno della mente individuale.In generale, nella tradizione filosofica analitica, c'è un grande accordo sul fatto che le intenzioni, che permettono agli individui di impegnarsi in forme di azione congiunta, siano "proprietà" dell'individuo. Nella letteratura sull'intenzionalità condivisa questa tesi è nota come "The Individual Ownership Claim". L'intenzionalità collettiva appartiene ai soggetti partecipanti, e tutta l'intenzionalità che il singolo possiede è la propria.14 in inglese si rende bene questa natura con l'espressione jointness per caratterizzare le joint intentions

22

mutua conoscenza. Questa complessa struttura intenzionale è sembrata

farraginosa, ad esempio, a J. Searle (1990; 2010).

Searle (1990; 1995; 2005; 2010) difende un approccio anti-riduzionista. Le

intenzioni condivise sono intenzioni collettive (we-intentions) che, pur

appartenendo al soggetto individuale, figurano alla prima persona plurale: noi

stiamo facendo qualcosa.

Searle ha costruito un contro-esempio per confutare l'approccio riduzionista. Egli

ci propone di immaginare che ogni membro di una scuola di business, che

conosce la teoria della mano invisibile di Adam Smith, intenda perseguire i propri

interessi egoistici e in tal modo intenda fare la sua parte per aiutare l'umanità.

Conoscendo la teoria, egli crede che anche gli altri facciano singolarmente il

proprio interesse. Tale intenzione, anche se integrata con il tipo di convinzioni che

Tuomela e Miller richiedono, intuitivamente, non conta come il tipo di intenzione

che si ha, quando si agisce congiuntamente con gli altri e non è plausibile pensare,

quindi, che questi studenti della business school agiscano collettivamente. Eppure

ci sarebbero tutti gli elementi che sembrano soddisfare l'analisi di Tuomela di

Miller. Per agire congiuntamente, gli studenti avrebbero dovuto stringere un patto

e conseguentemente esprimersi: noi intendiamo perseguire la teoria della mano

invisibile di Smith. La conclusione di Searle è che approcci riduzionisti, non

garantiscono l'elemento della cooperazione che è essenziale per l'attività condivisa

e che deve necessariamente essere espresso dagli atteggiamenti dei partecipanti

(Searle 1990 p. 406).

Searle, in contrasto con Tuomela e Miller, sostiene che l'intenzione individuale

condivisa (che lui chiama intenzione collettiva o we intention), sebbene sia

un'intenzione individuale, è un tipo di intenzione fondamentalmente differente

rispetto all'intenzione che figura nell'azione individuale. Quando si agisce insieme

lo si fa in base ad un'intenzione collettiva. Essa è un primitivo della mente al pari

dell'intenzione individuale ed è irriducibile all'intenzione individuale.

23

1.2. L'interdipendenza delle intenzioni condivise

Indipendentemente dal tipo di approccio, riduzionista o anti-riduzionista,

condividere un'intenzione e agire con gli altri dipendono, ovviamente, dalla

presenza di altri agenti, ai quali si è legati in modo opportuno. Supponiamo che

ogni persona in un gruppo abbia un'intenzione condivisa. In che modo si deve

pensare il legame tra questi individui, affinché si possa dire che essi condividono

un'intenzione? Nell'approccio di Searle, l'intenzione è espressa in modo collettivo

primitivo. Date queste premesse, si potrebbe supporre che un requisito, perché le

intenzioni siano condivise, è che la "we-intention" di ogni partecipante abbia la

stessa estensione di quella degli altri, si riferisca cioè alle stesse cose. In altre

parole, nell'approccio di Searle, perché ci sia azione congiunta, ogni individuo

deve avere un token dell'intenzione collettiva (we- intention) che permette di

agire. Tuttavia, questo non sembra essere sufficiente. Nessuna intenzione è

condivisa se la tua intenzione è che noi andiamo in spiaggia mentre la mia e che

noi facciamo qualcosa di incompatibile.

Anche se le nostre intenzioni sull'azione coincidono, se non c'è accordo su come

procedere, o se noi non riusciamo a riconoscere uno status significativo alle

intenzioni dell' altro, non c'è alcuna intenzione o azione congiunta. Così, bisogna

approfondire le interrelazioni delle intenzioni condivise, se vogliamo spiegare il

coordinamento e la cooperazione che troviamo in un'attività congiunta. Searle tace

sulla questione, e quindi, abbiamo bisogno di guardare altrove.

In una serie di contributi, Bratman (1992a 1992b; 2001; 2003) ha sviluppato una

concezione riduzionista delle intenzione condivise.15 Egli interpreta un'intenzione

condivisa come una parte di una struttura di intenzioni interdipendenti, che serve

per coordinare l'azione e la pianificazione e allo stesso tempo per regolare la

contrattazione tra i partecipanti16. Le intenzioni individuali, che costituiscono

15 Vedere Bratman, (1993 p.113) (1999 p.129) per una caratterizzazione esplicita della sua visione come riduzionista.16 La strategia è applicare a gruppi di individui il quadro teorico del funzionalismo di Lewis (vedi Lewis 1983)

24

questa struttura, sono le stesse intenzioni individuali che figurano nella

pianificazione e nel coordinamento dell'attività singolare. Quando le intenzioni

individuali riguardano qualcosa che è fatto da più di una persona assumono la

forma "Io intendo che noi J"; questa è la versione di Bratman della tesi

dell'intenzionalità e il nucleo delle sue proposte circa l'intenzione e l'azione

condivisa. Ma Bratman pone ulteriori condizioni, che servono a legare le

intenzioni in modi caratteristici. Una condizione importante riguarda

l'armonizzazione dei piani subordinati di azione (meshing of sub-plans) (Bratman

1992, 331). Secondo il punto di vista di Bratman, un'intenzione si caratterizza per

il modo in cui conduce alla pianificazione dei mezzi necessari che comportano la

sua soddisfazione. Ora, supponiamo che ognuno di noi abbia l'intenzione di

dipingere la casa (o, come Bratman formulerebbe la frase, ognuno di noi ha

l'intenzione che noi dipingiamo la casa insieme) ma il mio piano è quello di

dipingere tutto di verde, mentre il tuo è di dipingere dappertutto di viola. Sembra

che noi non condividiamo l'intenzione di dipingere la casa. Così, Bratman

introduce la condizione per la quale ogni partecipante deve intendere che i piani

subordinati siano coerenti e reciprocamente realizzabili - questo è il modo nel

quale gli individui hanno un'intenzione condivisa. Noi non esibiamo il giusto tipo

di atteggiamento per l'attività congiunta e l'intenzione, se l'armonizzazione dei

nostri piani subordinati è accidentale e se non siamo disposti a renderli coerenti,

se dovessero diventare incompatibili. Vi è un elemento normativo. I partecipanti

sono soggetti a una sorta di esigenza razionale, per la quale hanno il dovere di

armonizzare i loro piani. Il piano degli altri deve servire come vincolo normativo

al proprio e non vi è alcuna ragione di limitare questo stato al piano e non

estenderlo alle intenzioni, che lo avevano originato. C'è in gioco quella che

potremmo chiamare un'intersoggettività pratica. Ogni partecipante tratta l'altro e le

sue intenzioni nel modo in cui tratta se stesso e i propri piani, come vincoli

razionali per l'intenzione e la pianificazione. Bratman difende una concezione

minima di questa normatività, esprimendo questo vincolo normativo

interpersonale negli stessi termini delle norme, che disciplinano l'impegno

25

nell'intenzione individuale (principali caratteristiche sono i criteri di uniformità e

la coerenza mezzi-fini). Se tu e io siamo impegnati ad agire insieme, le tue

intenzioni e i tuoi piani hanno per me un'autorità, a causa di quella che potremmo

chiamare (seguendo Roth 2003) "la mia intenzione ponte" di armonizzare i miei

piani e le intenzioni con i tuoi piani e le tue intenzioni. L'idea di Bratman è che

data la mia "intenzione ponte", la coerenza delle norme che disciplinano le mie

intenzioni individuali sarà reclutata per plasmare i miei piani e le intenzioni con

un occhio verso la coerenza dei tuoi piani e delle tue intenzioni.17

1.3. La struttura delle intenzioni condivise.

Fino a qui abbiamo ricostruito una mappa concettuale che giustificava alcune

assunzioni minime del dibattito filosofico e ricostruiva alcune controversie

necessarie per collocarsi nel dibattito. La posizione di Bratman può essere assunta

come una posizione paradigmatica, nella sua essenziale struttura, perché è quella

che fa meno ricorso a entità che necessitano di una spiegazione ulteriore. Essa

chiarisce, infatti, la natura delle intenzioni condivise, non interpellando altre entità

diverse dalle ordinarie intenzioni individuali; per quanto riguarda la loro funzione

egli sostiene che esse servono a strutturare impegni e coordinare piani subordinati.

L'intento della nostra ricostruzione, tuttavia non è storiografico e non aspira alla

completezza.18 In questa ricostruzione, si cerca di descrivere alcuni snodi

concettuali del dibattito, che hanno suscitato problemi e la risoluzione dei quali ha

determinato una particolare concezione delle intenzioni condivise. In questa

ottica, il primo nucleo concettuale che suscita problemi teorici è quello che, nella

17 Vedere Bratman, (2009c, 2009b, 1992). Bratman ha espresso l'intenzione ponte nei termini di una condizione che richiede ad ogni partecipante di avere l'intenzione di agire in conformità con e a causa di, intenzioni e piani degli altri. Roth (2003) è simpatetico con i requisiti normativi interpersonali di coerenza come condizioni per l'intenzione e l'azione congiunta, ma resiste al fatto che queste intenzioni siano ridotte a quelle individuali.18 Per una disamina più completa si rimanda a lavori pensati per questo scopo: Tollefsen 2005; Petitt (2001).

26

letteratura sull'azione congiunta, si chiama la pretesa della proprietà individuale

(individual ownership claim).

Definirò brevemente che cos'è la pretesa della proprietà individuale, analizzerò

quali problemi comporta ai teorici dell'intenzionalità e i modi per risolverli.

Abbiamo stabilito che il dibattito ruota attorno a delle comuni acquisizioni: (1) le

azioni congiunte richiedono intenzionalità condivisa (2) l'intenzionalità è una

caratteristica della mente (3) le menti devono essere concepite come menti

individuali e (4) tutta l'intenzionalità che esiste, è posseduta da una mente

individuale.

Dalla (2) e dalla (4) discende la tesi che l'intenzionalità è una proprietà della

mente individuale e che tutta l'intenzionalità che un individuo ha, è posseduta

dalla sua mente (individual ownership claim)

E' stato il filosofo Velleman a sostenere che questo comporta un problema; data la

versione standard delle intenzioni in questi termini, non è chiaro se un individuo

può intendere l'intera attività: ammesso che si possa, ciò sembrerebbe

incompatibile con l'attività condivisa.19 L'argomento di Velleman è basato sul fatto

che intendere è qualcosa che faccio per risolvere una questione deliberativa:

prendo in esame due diverse opzioni A e B, decido di fare A, e quindi intendo A.

Questo argomento suggerisce che ci sia un vincolo, la natura razionale della

decisione: posso intendere solo quello che sta a me decidere o risolvere. Si tratta

di una violazione di un requisito razionale, intendere qualcosa che io non penso di

poter decidere e allo stesso modo considerare i miei piani e le azioni che ne

derivano. Applicando questo ragionamento all'azione collettiva, dire: "Ho

intenzione di andare a pranzo insieme", presume che "andare a mangiare insieme"

sia qualcosa che io possa interamente decidere. Ciò, tuttavia, sarebbe in contrasto

con l'idea che sta alla base dell'azione congiunta, che quel che noi facciamo non

dipende interamente da me singolarmente. Certo si ha voce in capitolo, ma quello

19 Velleman (1997a.) sostiene che anche se si è più liberali sugli oggetti che possono rientrare nel campo di ciò che è direttamente inteso, in modo tale che eventualmente si intenda qualcosa al di là delle proprie azioni, resta la preoccupazione che questo sia vietato in caso di attività congiunta.

27

che si fa, dovrebbe dipendere da noi (Schmid 2008). In altre parole, la

performance di un altro non può essere parte del contenuto dell'intenzione che

qualcuno ha di fare qualcosa.

E' ampiamente accettato e plausibilmente vero che "ciò che si tenta di fare sono

soltanto le proprie azioni" (Bratman 1992, p 330) (Searle 1983; Kutz 2000;

Bardsley 2007) e quindi i filosofi accettano il vincolo razionale che si possono

intendere solo le proprie azioni. N. Bardsley (2012) si riferisce a questo

argomento come un "vincolo non controverso per il quale le intenzioni di un

individuo non possono estendersi alle azioni altrui". Bratman è ben consapevole

del vincolo, perché afferma che il contenuto di ciò che si può intendere è vincolato

dalla "own action condition" (Bratman 1993), "perché qualcosa possa essere

un'intenzione, deve essere posseduta dal soggetto che intende ed essere legata

all'attività intesa" (2009b, p 156).

Il problema interessa tutti gli approcci e prende la seguente forma: come si può

mantenere fermo il vincolo e conciliarlo con l'idea di un'intenzione che è

condivisa con gli altri agenti che agiscono in base e a causa di essa. Questo è il

punto dirimente della questione, poiché il modo in cui si articola questo rapporto

tra intenzionalità, che appartiene ad un individuo, e comportamento di gruppo

determina la natura dell'intenzionalità.

Anche in questo caso, le strategie per affrontare il problema ricalcano la grande

divisione tra riduzionisti e anti-riduzionisti. Probabilmente sono i riduzionisti ad

avere i maggiori problemi teorici, perché il loro punto di partenza è esattamente

l'intenzione individuale, utilizzata per spiegare l'agire individuale.

Bratman (1997) sostiene che la sua concezione dell'intenzione gli permette di

essere più libero rispetto a ciò che è intelligibile intendere singolarmente. Egli

sostiene che c'è una differenza tra "io intendo x" (I intend to X) e "io intendo che

noi x" (I intend that we x), nel secondo caso l'intenzione individuale sarebbe una

group intention e cioè un'intenzione individuale che ha un contenuto collettivo. La

differenza, quindi, sta nel fatto che le intenzioni condivise riguardano il contenuto

28

dell'azione comune; intesa in questo modo, la sua impostazione "Io intendo che

noi J" non tradirebbe il vincolo costituito dalla pretesa di proprietà individuale.

A questo punto dobbiamo chiederci che forma prendono le intenzioni di Bratman

quando sono utilizzate per innescare un'azione collettiva. Per avere una risposta,

citiamo le sue parole: "la concezione pianificante dell'intenzione favorisce la

legittimità di un richiamo alla mia intenzione che noi J" (1992, p 331). In questa

concezione, un'intenzione è uno stato mentale simile a un piano che impegna

l'agente ad agire e per il quale le azioni si generano da un'intersezione di

intenzioni interdipendenti. Da quanto abbiamo ricostruito nel precedente

paragrafo, la struttura delle intenzioni-piano è la seguente:

(1) Le intenzioni di ciascuno sono dirette all'attività congiunta. Io intendo che noi J;

tu intendi che noi J

(2) le intenzioni sono interdipendenti: ciascuno dei partecipanti intende che l'attività

congiunta funzioni in parte in virtù delle intenzioni di ciascuno degli altri

partecipanti. Io intendo che noi J in parte perché tu intendi che noi J e tu intendi che

noi J in parte perché io intendo che noi J

(3) Le intenzioni sono dirette a accordare i sotto-piani: ognuno intende che l'attività

congiunta funzioni per mezzo di piani subordinati che sono co-realizzabili.

(4) Disposizione ad aiutare se necessario: dato che il contributo degli altri

partecipanti alla attività congiunta è parte di ciò che ogni intenzione è, e date le

esigenze di coerenza mezzi-fini che si applicano alle intenzioni, ognuno è sotto

pressione razionale per aiutare gli altri a svolgere il loro ruolo, se necessario.

(5) L'interdipendenza delle intenzioni di ciascun partecipante: ciascuno continua a

intendere l'attività congiunta se e solo se gli altri partecipanti continuano a intendere.

(6) la conoscenza comune tra tutti i partecipanti di tutte queste condizioni. Tutte le

condizioni precedenti sono oggetto di mutua conoscenza tra gli agenti.

E' una struttura abbastanza complessa, che può funzionare solo se gli individui

riescono a tener conto delle intenzioni altrui e riescono a formarsi intenzioni sulle

intenzioni, le "intenzioni-ponte". Questa struttura presuppone che l'agente abbia la

capacità di formarsi delle intenzioni-ponte ma soprattutto abbia la capacità di

29

rappresentare compiutamente le intenzioni altrui. Le intenzioni degli altri possono

funzionare in maniera appropriata nei nostri piani, solo perché noi siamo capaci

sia di predire in modo affidabile che un altro agente si formerà la propria

intenzione sia di manipolare l'intenzione di un altro verso il fine comune (senza

mezzi coercitivi).

Bratman (1999) ha suggerito, quindi, che ciò che un individuo intende si estende

di là da quello che si può stabilire su se stessi, se e solo se, si può ragionevolmente

prevedere che le altre parti interessate potranno agire in modo appropriato. Posso

avere l'intenzione di lavorare sulla mia abbronzatura in spiaggia questo

pomeriggio, perché posso ragionevolmente prevedere che sarà soleggiato. Allo

stesso modo, quando io ragionevolmente credo che hai o avrai le intenzioni

appropriate, posso intendere che noi J. Tra gli approcci riduzionisti, quello di

Bratman sembra fronteggiare bene la conciliazione tra pretesa di proprietà

individuale e intenzionalità condivisa.

Sempre nell'ambito degli approcci riduzionisti, Tuomela (1992) sostiene che

l'intenzione individuale da sola non è sufficiente a spiegare il fenomeno

dell'attività congiunta. "Io posso intendere che noi J ma questo non assicura che

l'azione avrà luogo - egli sostiene (Tuomela 1992 p 54) - devo formare una

qualche credenza sulla tua intenzione che J". Egli postula l'esistenza di intenzioni

individuali responsabili per l'attività individuale e intenzioni individuali

responsabili dell'attività congiunta, con la sola differenza della diversa attitudine

assunta. Se non c'è niente nella natura di queste intenzioni che ci chiarisca il senso

della loro differenza, l'elemento che fa la differenza, per spiegare come gli

individui si impegnano in azioni congiunte, è attribuito alla presenza di altre

condizioni come la mutua credenza e la pubblicità del piano che diventano pilastri

dell'impianto. Prendendo in considerazione la spiegazione del perché un agente

intende far la sua parte nell'azione congiunta, si arriva alla conclusione che egli si

impegna poiché crede che l'altro agente nel gruppo crede che ci sia un'opportunità

di fare X e accetta di fare X in accordo alla sua credenza. Secondo Tuomela,

30

quindi, l'intenzione del gruppo è una we intention individuale, più la credenza

reciproca, più la pubblicità del piano

Velleman (2001), che ha aperto il dibattito, ha sviluppato una soluzione simile a

quella di Bratman, nella quale si chiamano in causa intenzioni condizionali

interdipendenti. Ogni individuo decide ciò che il gruppo vuole fare, a condizione

che ciascuno degli altri abbia un impegno e un intento simile. Risulta così, che io

ho intenzione di J, a condizione che tu allo stesso modo abbia intenzione di J.20

Per analizzare la risposta degli anti-riduzionisti, riconsideriamo la posizione di

Searle. L'approccio di Searle alla conciliazione tra la pretesa della proprietà

individuale e la natura condivisa delle intenzioni, prende le forme dell'aporia che

abbiamo ricostruito. Aderendo al vincolo razionale, Searle concepisce le

intenzioni come proprietà dell'individuo ma per restituire il senso di condivisione

le concepisce come intenzioni nella prima persona plurale.

Il primo problema dell'approccio di Searle è la mancanza di una giustificazione di

questa asserzione. Egli, infatti, considera le intenzioni collettive (il modo in cui

chiama le intenzioni condivise) primitive. L'unico modo nel quale Searle giustifica

la plausibilità di questa natura delle intenzioni, è richiamandosi a un fatto della

biologia, in un approccio naturalistico. E tuttavia, in nessun luogo dei suoi scritti

si trova un riferimento più approfondito della natura biologica delle intenzioni

collettive dentro la mente individuale.

L'approccio di Searle alla struttura dell'intenzionalità condivisa è stato criticato

per avere affermato contemporaneamente che il "noi" delle intenzioni è

irriducibile e che tutta l'intenzionalità esiste nelle menti individuali. Alcuni critici

(Meijers 1994, 2004; Schmid 2004, Zaibert 2003) hanno notato che Searle

abbraccia una metodologia solipsistica e individualistica (Searle 1990 p. 415 e

Searle 2010 p. 47) che rende difficile spiegare le relazioni intersoggettive o

interpersonali, che caratterizzano le attività condivise. Queste relazioni sono

20 Alcuni hanno sollevato dubbi perché quando si hanno intenzioni interdipendenti di questo tipo non è del tutto chiaro se si possa decidere qualcosa se ognuno è impegnato in senso proprio a fare J. Se ogni intenzione è condizionata dall'altra, è altrettanto ragionevole , il divieto di agire quanto lo è impegnarsi in esso

31

addirittura escluse in modo esplicito nel resoconto di Searle. Al contrario di

quanto pensa Searle, è plausibile ritenere, e questa è l'opinione della maggioranza

nel dibattito, che un buon coordinamento degli sforzi, nel perseguimento di

obiettivi condivisi, richiede che relazioni tra gli agenti coinvolti e gli

atteggiamenti degli altri, siano presenti nella struttura intenzionale di questo

processo sociale. Perché un evento complesso sia non solo un insieme casuale di

azioni coincidenti dei singoli agenti, ma un'azione congiunta intenzionale, ha

bisogno di una struttura di atteggiamenti in cui gli agenti coinvolti si riferiscono

gli uni agli altri. In altre parole, nella struttura dell’intenzionalità condivisa

bisogna rappresentare il contributo apportato dagli altri. L'unico riferimento a una

collettività che Searle incorpora nel suo resoconto, il plurale "noi" in ogni mente

individuale, è considerato primitivo e accessibile a una analisi solipsistica (cfr.

Searle 1990: 415). La sua concezione rende, così, intenzionalità collettiva

distributiva, nel senso che il segno distintivo dei fenomeni in questione non è

realizzato da individui insieme, da persone-in-relazione, da soggetti plurali o

gruppi, ma per intero da ciascuno dei soggetti coinvolti.

Il fatto che un individuo abbia questa intenzione collettiva in un modo primitivo

per Searle è indipendente da ciò che avviene nella mente degli altri, o anche dal

fatto che siano coinvolti altri. Pensando di aiutare qualcuno in panne con l'auto,

potrei avere l'intenzione collettiva espressa nella forma "stiamo spingendo la

macchina". E ciò si verificherebbe, anche se io avessi le allucinazioni e non ci

fosse nessuno in giro o come afferma Searle, anche se fossi un "cervello in una

vasca" (1990, 442). Sembra che i soggetti non debbano mostrare una notevole

capacità di rappresentare le altrui intenzioni, perché condividono con gli altri lo

stesso token dell'intenzione collettiva. Quel che rimane misterioso è come i diversi

individui impegnati in forme di agire collettivo pervengano ad avere le stesse

intenzioni collettive.

Riassumendo: il vincolo rappresentato dalla pretesa che tutta l'intenzionalità sia

contenuta nella mente individuale, ha portato l'approccio riduzionista a esprimere

il senso di condivisione (la jointness delle joint intention), per mezzo di una

32

particolare concezione delle intenzioni, le intenzioni pianificanti, e per mezzo di

una particolare struttura, le intenzioni singolari legate ad altri stati mentali,

credenze, desideri, intenzioni altrui. Queste strutture sostengono l'azione

congiunta se e solo se si è in grado di rappresentare le strutture intenzionali gli uni

degli altri.

Gli approcci anti-riduzionisti rispettano il vincolo dell'individualità della

intenzionalità collettiva, interpretando le intenzioni collettive come intenzioni

singolari espresse alla prima persona plurale. Queste intenzioni non prevedono

che il soggetto rappresenti le intenzioni altrui, perché sono due manifestazioni

della stessa intenzione collettiva. Il modo nel quale queste intenzioni si formano,

nelle menti individuali resta largamente non analizzato.

1.4. Intenzionalità condivisa e conoscenza comune.

Vi è poi un altro aspetto della concezione filosofica, che non è stato messo molto

in luce dalla letteratura, e che ha suscitato l'attenzione della comunità scientifica:

il problema della conoscenza comune Le intenzioni individuali, siano concepite

come piani (Bratman 1992) come desideri di partecipare (Kutz 2000) come

attitudini (Tuomela 1992) non bastano a spiegare che l'azione sia svolta in

maniera congiunta. Per rendere il senso di congiunzione pieno e effettivamente

causale, gli approcci filosofici devono introdurre una condizione caratterizzante:

la mutua conoscenza (nei testi in inglese "common knowledge" o "mutual

knowledge" d'ora in poi MC) delle reciproche intenzioni o dei reciproci fini. (S.

Miller 2001, p.59; Alonso 2009, p.458; Gilbert 1993; 2008, p.502; Bratman 1992,

p.335; 1993, p 103; 2009, p.160; Pettit & Schweikard 2006, p. 24; Tuomela &

Miller 1988, Chant e Ernst, 2008, p.550)21. Purtroppo, la vastità della sua

diffusione non corre di pari passo con la sua giustificazione. Bratman, ad esempio,

introduce la MC sostenendo che "sembra ragionevole supporre che,

21Per eccezioni si veda Searle (1990), Gold & Sugden (2007), e Pacherie (2011)

33

nell'intenzione condivisa, il fatto che ciascuno abbia attitudini rilevanti, sia

qualcosa di pubblico." (1993, p.103; si veda anche 1992, pp.334-335). In modo

simile, Seamus Miller sostiene che la "conoscenza comune è ciò che distingue

l'azione congiunta da un'azione interdipendente, che congiunta non è" ma non

spiega mai cosa sia la conoscenza comune, come caratteristica distintiva (Miller

2001, p.60). P. Pettit e D. Schweikard (2006), nel loro resoconto delle condizioni

da rispettare perché due agenti possano genuinamente dirsi impegnati nell'azione

congiunta, enunciano (al quinto punto) la condizione della conoscenza comune:

1. ognuno di loro intende agire congiuntamente

2. ognuno di loro intende fare la sua parte

3. ognuno crede che l'altro intenda far la sua parte e

4. ognuno intende fare la propria parte a causa di questa credenza

5. ognuno ha una conoscenza comune che le precedenti affermazioni siano

mantenute salde nel tempo

Si noti che la conoscenza comune è, tipicamente, una condizione perché si abbia

un'intenzione condivisa ma, poiché un'azione congiunta è il risultato di

un'intenzione condivisa, si deve verificare anche questa condizione perché

un'attività, con agenti plurali, sia un'attività congiunta.

Ci sono almeno due ragioni perché essa è stata considerata essenziale per una

genuina attività congiunta. La prima ragione è cruciale: la MC ci permette di

coordinare le nostre azioni in modo non accidentale; la seconda ragione è di

carattere prudenziale: non sarebbe razionale, in termini di ragionamento pratico,

partecipare all'azione congiunta, se questa condizione non fosse soddisfatta. La

prima ragione è la più importante: la conoscenza comune ci permette di

coordinare le nostre attività congiunte in modo non accidentale.

Se qualcuno si impegna in un'azione congiunta, coordina le proprie azioni con un

altro agente in modo non accidentale. E' diverso il caso di chi percorre

parallelamente un tratto di strada e chi sta facendo una passeggiata. La

34

coordinazione, quindi, può dirsi non accidentale, quando risponde a una certa

interdipendenza tra gli attori, e quando questa è oggetto di una loro conoscenza

comune. Ma come avviene questa coordinazione? Lewis sostiene che due agenti

hanno un "problema di coordinazione" quando i risultati delle loro scelte (di

agire), sono chiari a ciascuno di loro ma dipendono, per l'uno, dall'azione

intrapresa dall'altro (Lewis 1969).

Cerchiamo di far chiarezza, attraverso la costruzione di un esempio tratto dalla

vita quotidiana. Si dia il caso che tu ed io vogliamo incontrarci all'una. A nessuno

dei due importa, dove ci si deve incontrare. La condizione, perché raggiungiamo

lo scopo di incontrarci, è che entrambi andiamo allo stesso posto, all'una. La

migliore scelta di dove andare, è determinata dalla scelta della destinazione da

parte dell'altro. Così, affinché si converga con successo alla stessa località,

ciascuno di noi, come partecipante, si aspetta di trovare l'altro nel luogo in cui si

sta dirigendo. Com'è possibile pervenire a questa aspettativa, a partire

dall'interdipendenza tra noi? Dove devo andare io, infatti, dipende da dove devi

andare tu, che dipende, a sua volta, da dove devo andare io e così via.

Si può risolvere questo tipo di problema di coordinazione, per esempio, con un

accordo esplicito sul luogo nel quale incontrarci. Decidiamo, con un accordo, di

incontrarci a Baker Street. Ora, consideriamo che tipo di conoscenza dell'altro

dobbiamo possedere, quando ci mettiamo d'accordo per incontrarci a Baker Street:

se io non credo che tu credi, che il luogo del nostro incontro sia Baker Street,

allora non è chiaro che io ti incontrerò, se andrò a Baker street. La mia unica

ragione per andare a Baker street è che tu creda che questo sia il punto di incontro.

Se io vado a Baker street, senza la credenza sulla tua credenza sul luogo del nostro

incontro, affiderei al fato e alla fortuna il fatto di incontrarci. Lo stesso si potrebbe

dire di te. Se tu non credessi che io credo, che ci incontreremo a Baker Street, non

potresti nemmeno muoverti. Sfortunatamente la situazione non migliora se

ciascuno di noi non solo crede che il luogo del nostro incontro sia Baker Street,

ma crede che anche l'altro creda ciò. Se io non credo che tu credi che io credo, che

il luogo d'incontro sia Baker Street, allora non è chiaro se ti incontrerò, andando a

35

Baker Street. Dopo tutto, noi abbiamo stabilito che se tu non credi che io credo

che il luogo di incontro sia Baker Street, allora incontrarsi sarebbe solo una

questione di fortuna. Si innesca un meccanismo di rispecchiamento delle credenze

e di ricorsività. Gilbert ha pensato (Gilbert 2003) di inserire un elemento che

possa fungere da spia: la sorpresa. Sembra che se io vado a Baker Street e ti

incontro, dovrei essere piacevolmente sorpreso e potrei in modo appropriato

esclamare: " Oh anche tu hai deciso di andare a Baker Street". Ma chiaramente, se

noi avevamo esplicitamente concordato di incontrarci a Baker street, allora

sarebbe inappropriato esprimersi in questo modo.

Quando noi ci accordiamo per incontrarci a Baker street, il fatto che il nostro

luogo di incontro sia Baker street, deve essere "manifesto completamente" o deve

essere una conoscenza comune tra noi. E' questo ciò che suggerisce il desideratum

che ogni resoconto della conoscenza comune debba raggiungere. Come sostiene

Gilbert:

Nel cercare un resoconto della conoscenza comune, si sta in parte cercando un

resoconto di un fenomeno tale che, per una data proposizione p, atti compiuti con

la premessa che p o nell'assunzione che p, non sorprendano nessuno se questo

fenomeno è presente (Gilbert 1989, p.194)

In un'azione congiunta, quando due attori hanno un'intenzione condivisa di fare

qualcosa, le azioni dell'altro, compiute perseguendo l'intenzione condivisa,

saranno caratterizzate da una mancanza di sorpresa. Il punto di Gilbert però è

puramente limitato al fatto che l'occorrenza della sorpresa indica l'assenza di

conoscenza comune; da questo non deriva che la mancanza di sorpresa sia una

condizione necessaria e sufficiente della conoscenza comune. Azioni, le cui

premesse si basano sulla credenza o l'assunzione che P, possono non sorprendere

per altre ragioni, diverse dal fatto che c'è conoscenza che P. L'indicatore della

mancanza di sorpresa ci indica che il nostro accordo è andato a buon fine e che la

36

ricorsività delle credenze è stata interrotta in un certo punto. Il vero indicatore di

una coordinazione andata a buon fine è un mutuo riconoscimento delle credenze.

Questa ricostruzione combina molte delle riflessioni che vengono fatte, in ambito

filosofico a proposito della MC. Sia Bratman, che Tuomela teorizzano un

momento nel quale, le intenzioni manifeste di fare qualcosa insieme,, si

intersecano alle credenze che queste siano patrimonio comune, aperto alla

conoscenza. Tuomela, a proposito, utilizza la metafora della lavagna. Se due o più

agenti vogliono pulire insieme il parco, affiggono un biglietto con la propria

disponibilità su una lavagna, in modo che gli altri lo possano vedere e le risposte

siano un patrimonio di conoscenza comune che farà superare i problemi di

coordinazione.

Affinché la coordinazione delle azioni non sia accidentale, sembra sia richiesta un

certo tipo di "conoscenza aperta alle parti" (qui nel senso che le cose sono attese,

piuttosto che sono non nascoste) e si è premesso che questo è parte della nostra

nozione intuitiva di un'azione, che viene portata a termine in modo non

accidentale. Dalla breve analisi condotta sembra che la condizione necessaria

perché vi sia questa conoscenza aperta alle parti sia il rispecchiamento delle

credenze.

1.5 Azione congiunta e sviluppo

Tutte le teorie filosofiche dell'azione congiunta si concentrano quasi interamente

su stati cognitivi di ordine superiore, come le intenzioni. Questo conduce a una

serie di problemi ( Tollefsen 2005; Pacherie 2007, p. 166; Pacherie e Dokic 2006,

p 110) soprattutto legati alla mancata ricostruzione dei meccanismi legati alla

cognizione che permettono le interazioni (Toellefsen & Dale 2012)

Dall'analisi svolta fino a questo punto, abbiamo guadagnato l'idea, infatti, che i

filosofi hanno utilizzato materiali a buon mercato, le intenzioni individuali ma il

modo nel quale li assemblano è molto dispendioso da un punto di vista cognitivo.

37

Avere intenzioni condivise richiede, infatti, avanzate abilità rappresentazionali,

concettuali e comunicative e sofisticate forme di ragionamento sulle complesse

relazioni tra le reciproche intenzioni e i fini condivisi, reali e potenziali che siano.

Questo è problematico date le molte scoperte nelle ricerche sullo sviluppo che

suggeriscono che, da un lato, bambini di due anni si impegnano in ciò che appare

come un'azione congiuntamente intenzionale e, dall'altro lato, che i bambini non

padroneggiano, a quell'età, il tipo di abilità di mentalizzazione che le teorie

richiedono come requisito per condividere le intenzioni.

Non si può discutere in questa sede l'enorme letteratura sullo sviluppo delle abilità

di mindreading dei bambini. Mi limiterò a tre osservazioni. Primo, c'è un largo

consenso sul fatto che i bambini non superano il test della falsa credenza prima

dei quattro anni di età (Wellman et al. 2001; Wimmer & Perner 1983) e che essi

abbiano difficoltà, prima di quell'età, a comprendere le intenzioni e distinguerle

dai desideri (Astington 1991, 1994; Perner 1991). E tuttavia, c'è una quota

minoritaria di studi sperimentali che suggeriscono che gli infanti umani preverbali

di 15 mesi (Onishi & Baillargeon 2005, oppure di 13 mesi (Surian, Caldi &

Sperber 2007) o addirittura di 7 mesi (Kovacs, Téglàs & Endress 2010) siano

capaci di registrare le false credenze degli altri agenti. Se l'interpretazione dei dati

è fonte di un intenso dibattito22, per i nostri scopi è necessario notare che nessuno

sostiene che ci sia prova che gli infanti formino rappresentazioni esplicite degli

stati mentali altrui, quel tipo di rappresentazioni che sono necessarie per una

"Teoria della mente" flessibile e per il ragionamento pratico. E tuttavia secondo

gli approcci filosofici tradizionali, una teoria della mente flessibile e il

ragionamento pratico sono necessari per coordinare piani e strutturare accordi. E

quindi, e questa è la seconda osservazione, anche se le conclusioni del dibattito

corrente dovessero portare a concludere che questi dati supportano l'attribuzione

ai bambini di alcune abilità di mentalizzazione, ciò non giustificherebbe

22 Si veda ad esempio, Apperly & Butterfill (2009); Baillargeon, Scott & He (2010), Perner e Ruffman (2005)

38

l'affermazione che questi bambini abbiano le abilità richieste per formare

intenzioni condivise, così come sono definite negli approcci filosofici tradizionali.

Infine, un numero crescente di ricercatori ha sostenuto che gli infanti sono

sensibili ad alcuni aspetti delle attività dirette ad un fine, possono attribuire fini

alle azioni e possono discriminare tra azioni intenzionali e azioni accidentali

(Gergely et al 1995; Csibra 2008 Tomasello e Rakoczy 2003; Woodward e

Sommerville 2000). E tuttavia e questa è la terza osservazione, le prove di una

precoce comprensione dell'attività diretta a uno scopo, non dimostrano la

comprensione delle intenzioni come stati mentali. Per esempio, Csibra e Gergely

(2007) propongono che l'interpretazione dei comportamenti degli altri come azioni

dirette ad uno scopo è garantito da meccanismi di ragionamento teleologico per i

quali, i risultati delle azioni sono valutati in relazione ad un principio di efficacia.

In altre parole, il risultato di un'azione può o non può essere visto come un fine,

secondo la valutazione della relativa efficacia dell'azione compiuta per

raggiungerlo, nel contesto dei vincoli che la situazione presenta. Mentre c'è una

prova che gli infanti si impegnano nel ragionamento teleologico quando osservano

le azioni e così in un certo senso comprendono i fini, è altresì chiaro che i fini che

sono compresi non sono entità mentali ma stati del mondo, esattamente nei

termini di relazioni tra azioni e esiti che rispondono a certi vincoli di efficacia

nella situazione nella quale l'azione è prodotta.

Il fatto che le abilità di mentalizzazione dei bambini siano limitate avrebbe

conseguenze limitate sulla questione che noi stiamo trattando, se questi infanti

non si impegnassero in attività cooperative intenzionali. Ci sono prove che essi lo

facciano?

Nella sua recensione della letteratura sullo sviluppo, Brownell (2011) descrive

diverse fasi dell'azione congiunta nelle prime fasi dello sviluppo. Durante il primo

anno di vita, gli infanti partecipano ad attività congiunte con partners adulti, che

strutturano l'interazione e regolano la partecipazione degli infanti. Questa avviene

da principio in un gioco diadico e nell'interazione faccia a faccia. Alla fine del

primo anno di vita, gli infanti possono dare avvio e gestire questa forma di azione

39

congiunta con gli adulti e contribuire attivamente alla creazione e al

mantenimento di attività coordinate. Come rileva Brownell, il fine di questi giochi

sociali tra bambini molto piccoli e i loro partners adulti, sembra essere

l'affiliazione piuttosto che il perseguimento di alcuni fini strumentali esterni. Alla

fine del primo anno di vita emerge un'interazione triadica, una forma di azione

congiunta nella quale i partners agiscono insieme su oggetti e eventi esterni alla

diade, che è inizialmente strutturata e condotta dall'adulto. Durante il secondo

anno di vita, i bambini diventano progressivamente partners più affidabili e attivi

nelle attività congiunte. Al compimento del secondo anno, mostrano piena e

abilissima coordinazione anche in situazioni nuove, senza il supporto di obiettivi

familiari o di routines, sia con i coetanei sia con gli adulti. Gli studi che

identificano principalmente questo schema generale di sviluppo sono basati su

esperimenti che seguono gli infanti da 6 fino a 18 mesi (Bakeman & Adamson

1984; 1988) o infanti tra 12 e 24 mesi (Hay 1979) e li osservano giocare con le

loro madri e un insieme di giochi. Sebbene questi studi siano in grado di misurare

la progressione di un gioco coordinato con giocattoli e altri oggetti, le

ambientazioni informali nelle quali si svolgono, e il carattere molto ripetitivo

dell'attività, rendono difficile valutare fino a che punto gli infanti contribuiscono

attivamente alla coordinazione.

Warneken, Chen e Tomasello (2006) hanno definito un protocollo di esperimenti

volto a misurare in modo più accurato le abilità di bambini dai 18 ai 24 mesi a

coordinare le loro azioni con quelle degli adulti in un compito cooperativo, inclusi

i loro tentativi di coinvolgere il partner dopo un'interruzione. Essi hanno

sviluppato quattro compiti, due basati sul problem-solving e due giochi con ruoli

complementari o paralleli. Il gioco con ruoli complementari, per esempio,

prevedeva che una persona introducesse un blocco di legno dentro l'estremità

superiore di uno di due tubi e un'altra persona lo afferrasse con una lattina che

produceva un suono metallico. Dapprima due sperimentatori mostravano il gioco,

in seguito il bambino eseguiva il compito con uno sperimentatore. Durante il terzo

e quarto tentativo, lo sperimentatore che fungeva da partner interrompeva il gioco

40

per 15 secondi prima di ricominciare. Gli sperimentatori misuravano il livello di

coordinazione spaziale e temporale del bambino con il partner e analizzavano il

loro comportamento durante l'interruzione. Questo studio ha condotto a tre

scoperte. Primo, i bambini a 18 e 24 mesi erano in grado di cooperare con un

partner adulto non familiare, in una varietà di compiti non conosciuti, che

richiedevano l'azione congiunta. Secondo, l'abilità a coordinarsi con un partner

migliorava sensibilmente nei bambini a 24 mesi di età, mentre il comportamento

dei bambini di 18 mesi è stato valutato, prevalentemente come non coordinato; i

bambini più grandi, infatti, operavano a livelli di coordinazione medi, in ruoli

complementari o subordinati. Il terzo risultato concerne il comportamento dei

bambini durante i periodi nei quali il partner interrompeva la sua attività: i

bambini di entrambi i gruppi di età comunicavano attivamente nel tentativo di far

tornare l'adulto alla sua attività, mentre la frequenza di atti comunicativi era simile

in entrambi i gruppi, la verbalizzazione lo era tra i bambini di età compresa tra 20

e 24 mesi. Questi risultati corroborano precedenti scoperte che rintracciavano una

decisa accelerazione nella capacità di coordinarsi appena prima il compimento del

secondo anno di età; essi estendono i precedenti risultati mostrando che queste

abilità a coordinarsi non sono ristrette ad attività familiari, compiute con partners

familiari. Essi suggeriscono, dunque, che la motivazione a impegnarsi in attivtà

cooperative, come si evince dal tentativo di richiamare il partner che aveva

interrotto l'interazione può essere presente in bambini prima che essi

padroneggino le abilità necessarie per la coordinazione attiva.

Così, come Brownell ci spiega, sembra ragionevole ritenere che gli infanti

inizialmente apprendano la cooperazione partecipando ad attività congiunte,

strutturate e guidate da adulti competenti e gradualmente acquisiscono un

controllo maggiore, fino a quando sono in grado di dar avvio e gestire i loro

contributi da soli e, attorno all'età di due anni, contribuiscono autonomamente e

attivamente alle attività. Prove di queste abilità sono state rinvenute anche nelle

interazioni con i coetanei, nelle quali le azioni coordinate non si verificano prima

41

del secondo anno di vita ma che presentano un incremento deciso tra il

ventiquattresimo e il ventottesimo mese (Holmberg 1980; Eckerman et al 1989).

C'è anche prova del fatto che tra due e tre anni di età, i bambini comprendano e

agiscano rispettando la dimensione normativa delle attività collaborative, inclusa

una comprensione di accordi espliciti, delle regole convenzionali del gioco e

dell'impegno verso altre attività congiunte (Gråfenhain et al 200; Hamann et al.

2012; Rakoczy et al 2008; Warneken et al. 2006; Warneken & Tomasello 2007).

Bambini di tre anni, per esempio, restano impegnati a perseguire l'attività

congiunta fino a quando entrambi i partners ottengono una ricompensa, anche se

uno dei due, per caso, riceve la ricompensa per primo (Hamann et al., 2012).

Inoltre, quando bimbi di tre anni esprimono espliciti impegni con un partner,

verbalmente, si aspettano che gli altri si attengano a questi e essi stessi

riconoscono di doversi scusare se rompono i patti con i partners ( Grafenheim et

al., 2009). Questo suggerisce che bambini di tre anni vedono le proprie azioni e le

altrui come parte di un'attività collaborativa con fini congiunti tali che le loro

azioni si possono dire vere e proprie azioni congiunte.

Ciò che è meno chiaro è se bambini di due anni vedono le loro azioni e le azioni

dei partners come parte di un'attività collaborativa con un fine congiunto piuttosto

che vedere i partners come strumenti sociali per raggiungere i propri scopi.

Ci sono prove che bambini molto piccoli non siano creature puramente egoiste e

che esibiscano comportamenti pro sociali. Gli infanti umani dai 14 ai 18 mesi

aiutano gli altri a ottenere i loro fini - per esempio, aiutandoli a raggiungere

oggetti fuori dalla loro portata o aprendo e chiudendo sportelli - e facendolo

indipendentemente da un compenso dato da un adulto (Warneken & Tomasello

2007). Essi si impegnano in altri tipi di comportamento pro sociale, incluso

condividere risorse con altri e fornire informazioni utili agli altri (Warneken &

Tomasello 2009). Oltre a ciò, ogni bambino molto piccolo mostra già di cooperare

con delle preferenze; per esempio bambini molto piccoli mostrano preferenze per

alcuni individui sulla base di un linguaggio comune (Kinzler, Dupoux & Spelke

42

2007) e di comportamenti precedenti (Hamlin, Wynn & Bloom, 2007; Dunfield &

Kulmeier 2010).

Il fatto che bambini molto piccoli si impegnino in comportamenti pro sociali non è

una garanzia in sé che, quando agiscono congiuntamente, essi vedano la propria

azione e quella del partner come parte di un'azione collaborativa; probabilmente

vedono il partner come uno strumento sociale per quello che vogliono ottenere.

In uno studio più recente con bambini di 27 mesi, Warneken, Grafenhain,

Tomasello (2012) hanno affrontato questo tema problematico analizzando le

risposte di bambini dai 21 ai 27 mesi all'interruzione dell'attività da parte del

partner in giochi nei quali a volte era fisicamente necessario il partner per

raggiungere lo scopo e a volte no e in situazioni nelle quali il partner

interrompeva l'attività o perché non voleva proseguire o perché non poteva

proseguire. Il loro ragionamento si basava sul fatto che, nell'ipotesi in cui il

partner fosse uno "strumento sociale", indipendentemente dal fatto che non

volesse o non potesse proseguire, i tentativi di supportare il partner avrebbero

dovuto essere più probabili nei compiti con azioni collegate causalmente, perché

solo in questi compiti, la partecipazione dell'altra persona è necessaria per il

raggiungimento del fine personale. Al contrario, nell'ipotesi del partner

collaborativo, si dovrebbe ottenere lo schema inverso: i bambini dovrebbero

essere sensibili alle intenzioni del partner e rispondere in maniera differente alle

interruzioni, secondo se il partner lo fa perché non vuole o perché non può

continuare. I ricercatori hanno scoperto che nell'ipotesi del partner collaborativo, i

bambini di tutte le età incoraggiavano il partner recalcitrante con la stessa

frequenza, sia nel caso in cui egli fosse fisicamente necessario per il

raggiungimento del fine, sia nel caso in cui non lo fosse, ma che questo avveniva

più spesso quando il partner era impossibilitato a continuare piuttosto che quando

non volesse continuare.

Nell'insieme, questi studi forniscono prove che i bambini sono non soltanto capaci

di impegnarsi in forme di agire congiunto con altri ma anche capaci di vedere

queste interazioni come attività genuinamente collaborative con fini congiunti. Lo

43

studio di Warneken, Grafenhain, e Tomasello (2012) suggerisce che questa abilità

è già presente nei bambini di due anni, prima che essi sviluppino una

comprensione degli aspetti normativi espliciti delle attività collaborative.

In sintesi, bambini di due anni sembrano impegnarsi in azioni congiunte che

presentano i requisiti di azioni congiunte vere e proprie, avere, cioè fini congiunti

e tuttavia mancano del tipo di sofisticatezza cognitiva che sarebbe richiesta perché

essi possano condividere le intenzioni, almeno nel modo in cui questo è concepito

dagli approcci filosofici prevalenti e in particolare dall'approccio di Bratman.

1.6. Coordinazione emergente e architettura minima dell’azione

congiunta.

Sul versante della psicologia cognitiva, si riconosce che i primi approcci al tema

dell'azione congiunta provengono dall'interesse dei filosofi per la natura

dell'intenzionalità condivisa e che questi approcci specificano i sistemi di

rappresentazione che consentono la pianificazione di azioni congiunte (Clark

1996; Brennan 2005). Allo stesso tempo, però, si sostiene che questi approcci

sono stati raramente oggetto di verifica empirica e ciò ha determinato grande

incertezza circa la valutazione di tali sistemi di rappresentazione. Non è mai stato,

considerato, ad esempio, il contributo dei processi cognitivi basilari, di basso

livello, che specifichino che cosa siano le intenzioni, da quali processi cognitivi

siano realizzati e come è possibile formarsi intenzioni interdipendenti.

La domanda di partenza quindi dovrebbe essere: Quali sono i processi percettivi,

cognitivi e motori che permettono alle persone di agire con gli altri, e come può

essere caratterizzata la componente apparentemente irriducibile delle azioni

congiunte (Hutchins, 1995) ?

I risultati di queste ricerche sembrano suggerire che i filosofi abbiano postulato

strutture intenzionali complesse, che spesso sembrano andare oltre la capacità

cognitiva umana di interagire in tempo reale, con il risultato di una sorta di

44

"inflazione intenzionale" (Knoblich & Sebanz 2006). Cerchiamo di capire su cosa

si fonda questa critica. La domanda che ha ispirato molte ricerche empiriche sul

fenomeno verte sulla possibilità di capire se le intenzioni come stati mentali di

alto livello siano veramente gli unici elementi necessari per spiegare il complesso

meccanismo che permette agli individui di agire in modo congiunto. Questa

visione, infatti, viene criticata dalle discipline interessate al problema delle

interazioni sociali. L'argomento consiste nel dire che gli individui non sembrano

dispiegare complessi sistemi di rappresentazione delle intenzioni altrui, perché

quando si interagisce, gli agenti sembrano avere accesso a più informazioni sul

comportamento dei loro partners di quante ne avrebbero, se essi fossero

osservatori in un contesto sociale disincarnato.

La fondamentale research question, conseguentemente, è stata: che cosa fanno,

minimamente, due o più attori quando agiscono insieme ? A quali risorse

cognitive minime si affidano ?

Ci sono due tipi di risposte che identificano due ipotesi esplicative per l'azione

congiunta: gli individui si coordinano secondo meccanismi automatici di

coordinazioe emergente e quindi possiamo fare a meno delle intenzioni e delle

rappresentazioni all’interno delle menti individuali oppure gli individui nel

rappresentare il contributo degli altri non devono far ricorso a complesse strutture

intenzionali interdipendenti ma a meccanismi cognitivi più semplici e basilari

(Sebanz et al 2011).

1.6.1 Coordinazione emergente

Nella coordinazione emergente, il comportamento collettivo occorre in virtù della

congiunzione tra percezione e azione, che fa si che più individui agiscano in modo

simile, ma è indipendente da eventuali piani congiunti o da conoscenza comune

(che può essere del tutto assente). Piuttosto, gli agenti sono in grado di trattare

segnali percettivi e motori allo stesso modo. Due agenti separati possono

cominciare ad agire come una singola entità (Marsh et al, 2009;. Spivey, 2007), in

45

virtù del fatto che processi comuni nei singoli agenti sono guidati dagli stessi

stimoli e dalle medesime routines motorie. Se io sono sul bus e vedo una mamma

con un passeggino che è in difficoltà a salire e la aiuto con un movimento del

braccio, non ho agito in base ad una intenzione congiunta, ho estratto dalla scena

percettiva elementi che mi suggeriscono alcune possibili azioni.

Comincerò ad analizzare brevemente la coordinazione emergente. Questo primo

scenario è di particolare interesse perché fornisce una giustificazione teorica a chi

voglia fare a meno delle intenzioni. In esso, infatti, gli attori influenzano il

reciproco comportamento "sintonizzandosi automaticamente" (entrainment) o si

impegnano in un'azione congiunta perché un oggetto dell'ambiente fornisce loro la

stessa opportunità di azione (affordances simultanee). Al fine di interpretare

correttamente concetti come affordances e entrainment, è importante tener

presente che la psicologia ecologica, dalla quale essi provengono, è probabilmente

la versione più radicale di embodiment, che rifiuta qualsiasi nozione di

rappresentazione che sia interna all'attore. In questa visione interazionista di come

gli attori e ambiente entrano in relazione (Gibson 1979; Turvey 1990; Shaw

2001), si assume che l'informazione emerga in una relazione invariante tra attori

che cambiano dinamicamente i propri movimenti e le loro percezioni. Come

conseguenza di questa interazione, percezione e movimenti si specificano gli uni

attraverso gli altri.

In contrasto con molti orientamenti della scienza cognitiva, in questi approcci le

intenzioni non sono considerate alla stregua di stati mentali, psicologici,

appartenenti a una persona ma proprietà di un ecosistema (Shaw 2001), che

emergono nell'interazione tra organismi e ambiente. Conseguentemente, le

intenzioni sono considerate un aspetto del mondo fisico piuttosto che di quello

mentale. Un'ulteriore implicazione consiste nel fatto che le relazioni attore-

oggetto e attore-attore sono governate dai medesimi principi dinamici. Il ruolo

centrale delle relazioni dinamiche nel framework ecologico ha condotto i

ricercatori a esplorare la sincronizzazione temporale durante l'interazione sociale.

Gli studi più recenti mostrano che effetti di sincronizzazione temporale spontanea

46

sono osservabili, anche se gli attori non sono istruiti a sincronizzare i loro

movimenti. (Schmidt & O'Brien 1997; Richardson et al 2005). Un famoso

esempio proviene da uno studio nel quale due partecipanti, che sedevano

affiancati su sedie a dondolo, che avevano una frequenza di oscillazione simile

(Richardson et al 2007;2008), convergevano automaticamente verso una

medesima frequenza di oscillazione. Nella condizione nella quale i partecipanti si

guardavano, essi tendevano a oscillare in sincronia, anche se le frequenze di

partenza erano differenti.

Accanto alla sincronizzazione spontanea, l'approccio ecologico teorizza un altro

comportamento coordinato che è mediato dalle affordances dell'oggetto (Gibson

1977). Quando due organismi hanno un repertorio di azioni simile e percepiscono

lo stesso oggetto, essi adottano lo stesso comportamento perché l'oggetto "invita"

alla stessa azione. A proposito dell'azione congiunta, alcuni ricercatori hanno

cominciato a esplorare come la presenza di un'altra persona fornisca affordances

per agire insieme (Richardson et al 2007). Forme di coordinazione spontanea,

emergente, quindi sono un fatto non trascurabile nell'interazione e sono

particolarmente adatti a descrivere fenomeni di interazione veloce in tempo reale.

.

1.7 Architettura minima dell’azione congiunta

La coordinazione emergente da sola non basta a spiegare il fenomeno dell'azione

congiunta; essa è limitata perché non permette di spiegare come le persone

distribuiscono differenti parti di un compito tra loro e nemmeno come esse

correggono le loro azioni rispetto agli altri o sono flessibili nel raggiungere fini

comuni. (Knoblich & Sebanz et al 2011)

Consapevoli di ciò sono i sostenitori di una teoria minimalista dell'azione

congiunta i quali, infatti, sostengono che i meccanismi di coordinazione

emergente sono reclutati in sinergia con meccanismi di coordinazione pianificata

47

(Knoblich, Sebanz, Butterfill 2012). Gli agenti pianificano le proprie azioni in

relazione ad azioni comuni o in relazione alle azioni degli altri (laddove nella

coordinazione emergente la pianificazione è assente o confinata alle proprie

azioni). La pianificazione coordinata si basa soprattutto su una operazione: la

rappresentazione dei compiti condivisi.

Sia nelle azioni individuali sia in quelle congiunte, gli individui rappresentano gli

obiettivi e le attività che devono essere eseguite per raggiungere questi obiettivi.

Ad esempio, si consideri una persona che deve sollevare un cestino da picnic a

due manici con qualcun altro. Il suo obiettivo è quello di mettere il cestino su

un'automobile. Quello che si deve fare - il proprio compito - è sollevare uno dei

due manici in modo tale che l'altro possa sincronizzarsi. La concezione

minimalista dell'azione congiunta suppone che si rappresenti la metà (spostare il

cestino da picnic) del proprio compito. In casi molto semplici, tuttavia, Vesper et

al (2010) propongono che non è necessario per l'individuo né rappresentare

l'incarico dell'altro né concepire l'altro come agente intenzionale. Come differisce

questa situazione dal caso di azione individuale, in cui una persona solleva un

cestino da solo? Dal punto di vista dell'agente, l'unica differenza è che l'agente si

rende conto che l'esecuzione del suo compito non è sufficiente per raggiungere il

suo obiettivo. In altre parole, dato il modo in cui l'agente rappresenta il suo

compito, l'obiettivo può essere raggiunto solo con il sostegno di X, sia esso un

altro agente o qualche altra forza. Questo viene reso dalla formula ME + X. Nei

casi più semplici, si suppone che l'agente rappresenti soltanto il suo compito. In

molti casi, però è necessario che l'agente rappresenti il compito dell'altro,

corrispondente a quello che X dovrebbe fare. Questo compito altrui può essere

rappresentato sia come qualcosa che l'altro non farà o come qualcosa che ci si

aspetta che faccia.

Secondo l'architettura minima dell'azione congiunta, un individuo deve

minimamente rappresentare il proprio obiettivo. Non è necessario, anche se in

genere molto utile, rappresentare pure il compito dell'altra persona. Per illustrare il

48

caso, consideriamo due persone che ballano il tango insieme. Il leader e il

follower devono coordinare i loro passi, l'uno con l'altro. In linea di principio, il

follower potrebbe rappresentare il compito del leader in un modo molto specifico,

che comprende per esempio il bisogno di fare un movimento in avanti con il piede

destro. Ciò implicherebbe che il follower potrebbe, in linea di principio, invertire

il ruolo con il leader. Ma è più probabile che il follower non rappresenti il compito

del leader in dettaglio, ed è plausibile che non rappresenti per niente il compito

del leader. Tutto quello che si richiede è una rappresentazione del proprio compito

e l'obiettivo di muoversi lungo una certa traiettoria, senza perdere il contatto con il

partner. Possono agenti che non rappresentano le rispettive mansioni, realmente

agire in modi che portano insieme a un obiettivo? La prova sarebbe fornita da

studi in cui un agente non ha accesso a informazioni relative ad un compito

cooperativo con un partner, ma è comunque in grado di raggiungere un obiettivo,

come un effetto comune dei propri sforzi e di quelli del partner. Ciò si collega alla

domanda se la collaborazione in animali non umani e bambini umani comporta il

rappresentare le attività altrui. Studi condotti sulla collaborazione in scimpanzé

potrebbero avere interpretazioni tali da non coinvolgere rappresentazioni. Ad

esempio, Melis, Hare, e Tomasello (2006 ) hanno presentato a degli scimpanzé un

ripiano con del cibo, al quale potevano accedere solo se due scimpanzé avessero

tirato entrambe le estremità di una corda, nello stesso momento. Gli scimpanzé

sono stati in grado di fare questo e anche di scegliere il miglior partner per il

coordinamento. Tuttavia, è possibile che uno scimpanzé non rappresentasse il

compito dell'altro e invece utilizzasse il partner come "strumento sociale'' (Moll &

Tomasello, 2007). In particolare, potrebbe aver capito che non doveva tirare la

corda, tranne quando era in tensione, effetto che si verificava quando l'altro stava

iniziando a tirare. In modo simile, è possibile che le prime azioni congiunte che i

bambini svolgono insieme agli adulti, non richiedano che il bambino rappresenti il

compito dell'altro. Per esempio, un bambino può avere l'obiettivo di recuperare un

giocattolo preferito da uno scaffale alto e rendersi conto che non può ottenere

questo fatto da solo. Il modo per ottenere il giocattolo può coinvolgere l'adulto che

49

solleva il bambino in modo che può raggiungere il giocattolo. In questo caso, il

bambino non ha bisogno di rappresentare ciò che l'adulto sta facendo al fine di

raggiungere l'obiettivo insieme. Tuttavia, abbiamo visto che ci sono prove che

suggeriscono che, fin dalla tenera età, i bambini sono sensibili alle parti degli altri

in un'azione comune (Moll & Tomasello, 2007). Essi protestano quando un agente

non agisce in conformità con le regole pre- specificate ( Rakoczy , Warneken, e

Tomasello, 2008), e sembrano avere una comprensione che agire insieme implica

impegno (Carpenter, 2009; Gräfenhain, Behne, Carpenter , & Tomasello, 2009).

Anche se un agente coinvolto in un'azione congiunta può rappresentare soltanto il

proprio compito e l'obiettivo comune, come nel caso minimo, è generalmente utile

rappresentare il compito altrui. Questo permette di prevedere ciò che l'altro farà

dopo. Infatti, è stato dimostrato che gli adulti sono inclini a rappresentare quello

che un altro sta facendo. Negli studi sulla co-rappresentazione ( Atmaca , Sebanz ,

Prinz , e Knoblich , 2008; Sebanz , Knoblich , e Prinz , 2003, 2005 , Tsai , Kuo,

Jing , Hung , eTzeng , 2006) una sequenza di stimoli appare sullo schermo del

computer a due partecipanti che siedono accanto. Un partecipante è istruito a

rispondere ad un tipo di stimolo, mentre il suo co-attore deve rispondere ad un

altro tipo di stimolo. Alcuni degli stimoli sono tali da produrre tra risposte che si

manifestano in termini di errori o ritardi nella risposta corretta nel caso in cui vi

sia un unico partecipante. I risultati hanno mostrato che le prestazioni del

partecipante sono state disturbate proprio come se stesse eseguendo entrambe le

attività solo. Questo suggerisce che una persona rappresenta il compito dell'altra

persona, anche quando agisce su un obiettivo al quale il co-attore non può

contribuire. Ulteriore sostegno a questa tesi viene da prove elettrofisiologiche che

dimostrano che le persone mentalmente svolgono il compito del co-attore

(Sebanz, Knoblich , Prinz , e Wascher 2006; Tsai , Kuo, Hung, e Tzeng , 2008).

In sintesi, gli agenti possono non rappresentare l'altrui compito (task x), né

l'esecutore di questo compito (X). Tuttavia, in molti casi, essi rappresentano il

compito (x). Questo compito potrebbe essere rappresentato in maniera neutrale

50

rispetto all'agente-, senza rappresentare X, o essere legato a una rappresentazione

di ( delle caratteristiche di) X.

Rappresentazioni del compito comune23 forniscono strutture di controllo che

consentono agli agenti di impegnarsi in modo flessibile in azioni congiunte. Esse

non solo servono a specificare in anticipo le singole parti che ogni agente (me e te

nel caso più semplice) sta per compiere, ma governano anche il monitoraggio e la

previsione, processi che consentono il coordinamento interpersonale in tempo

reale (Knoblich & Giordan, 2002; Pacherie & Dokic, 2006). Ad esempio, due

calciatori di una squadra, in cui un giocatore è specializzato nel cross e l'altro è

specializzato nei colpi di testa, sapranno monitorare e prevedere l'un l'altro le

rispettive mosse in vista di un fine, monitorando e prevedendo i comportamenti

reciproci.

Il grado con il quale il compito degli altri agenti, le loro percezioni, la loro

conoscenza e le loro intenzioni sono prese in considerazione, durante la

pianificazione di un'azione congiunta, può variare sensibilmente. Al grado

minimo, la pianificazione coordinata richiede un piano che specifica soltanto

l'esito comune dell'azione congiunta, la propria parte nella stessa e una qualche

consapevolezza che l'esito può essere raggiunto soltanto con il supporto di un altro

agente o di una forza (X). Per un piano minimamente congiunto, l'identità di X e

le sue parti, rimangono non specificate (Vesper et al 2010). Partendo con requisiti

di rappresentazioni minime (Clark, 1977), si può analizzare una grande varietà di

casi di azioni congiunte, che non implicano le rappresentazioni dettagliate degli

altri agenti o dei loro piani, che sono state postulate dagli approcci filosofici

massimalisti all'azione congiunta. Attraverso un'analisi dei meccanismi cognitivi

necessari per agire, i minimalisti ritengono restrittiva oltre il necessario,

l'assunzione delle rappresentazioni dettagliate delle intenzioni altrui, postulate dai

filosofi24. Gli approcci tradizionali sono criticati per aver prodotto delle strutture

23 Torneremo su questa operazione nel quarto capitolo: nella strategia di questo lavoro, infatti essa spiega bene come è possibile formarsi intenzioni che guidano l'azione congiunta.24 cfr il complesso meccanismo rappresentativo di Bratman e Tuomela.

51

troppo sofisticate, che non sono state in grado di descrivere come gli agenti

possono agire insieme. Il modo nel quale gli agenti di un'azione congiunta

pianificano la loro azione non è quello descritto dai massimalisti perché la

pianificazione non deve prevedere intenzioni che si interconnettono per aver

luogo. La coordinazione e la pianificazione possono avvenire a un livello

cognitivo di complessità inferiore che non prevede sofisticate abilità mentali

rappresentative.

Questo è il cuore dell'argomento minimalista.

Capitolo secondo.

Mind the Gap

Dismettere le intenzioni o ripensarle?

2.1 Il deflazionismo filosofico.

La rassegna comparata della letteratura filosofica e di quella psicologica produce

l'impressione che ci sia una grande divisione tra le ipotesi esplicative. Per

contribuire a gettare luce sul fenomeno dell'agire congiunto è necessario lavorare

nella direzione di una collaborazione tra i diversi filoni di ricerca. Se, infatti, i

filosofi sembrano concentrati soltanto sulle intenzioni condivise, la prospettiva di

52

un'architettura minima dell'azione congiunta non sembra esaustiva nel dar conto

della complessità del fenomeno e soprattutto del tipo di fenomeno al quale i

filosofi sono interessati.

I modi per uscire da questo gap potrebbero essere molteplici e in letteratura sono

riconducibili a due strategie. Ci si può porre in una posizione di rottura con il

pensiero dominante, essendo motivati dai recenti sviluppi della psicologia

cognitiva e dello sviluppo. In questa direzione, la strategia consiste nel fornire

strumenti concettuali per studiare forme di azione collettiva, che non comportano

intenzioni condivise da tutti (Seemann 2011, Michael 2011, Woodard 2011 e

soprattutto Butterfill 2010). Si può mantenere la centralità dell'intenzione

condivisa, offrendo un nuovo, e potenzialmente meno oneroso, approccio di ciò

che conta come intenzione condivisa (Pacherie 2009, Blomberg 2011). L'onere di

chi intraprende questa strada è spiegare quale natura hanno le intenzioni condivise

(tale che possano essere armonizzate con i meccanismi cognitivi che la psicologia

cognitiva e dello sviluppo riconosce come condizioni per agire in modo condiviso

e non escludere gli infanti dal fenomeno) e quali funzioni peculiari esse hanno,

affinché emerga che esse non possono essere escluse dalla spiegazione di come gli

individui si impegnano in forme di agire collettivo. La prima strategia è stata

messa in atto da Butterfill, alla seconda è dedicato il presente tentativo.

Mi confronterò con il tentativo di Butterfill (2010, 2012) che si può considerare il

più compiuto approccio filosofico riconducibile alla prima strategia. Egli sostiene

che ci può essere azione congiunta senza intenzioni condivise. In particolare,

Butterfill argomenta contro talune altre condizioni definite erroneamente

necessarie per un'azione congiunta. A suo parere, gli agenti che partecipano a

un'azione congiunta non devono essere a conoscenza del senso di congiunzione

nell'azione, non devono riconoscere gli altri agenti come intenzionali, non devono

quindi agire, in parte, a causa della loro consapevolezza della congiunzione e

dell'agire altrui, e, infine, non hanno bisogno di essere a conoscenza degli

atteggiamenti degli altri agenti verso l'azione comune. Possiamo definire questo

approccio la visione filosofica deflazionista dell'azione congiunta (Butterfill 2012

53

p 2). La domanda iniziale di Butterfill è se si possa definire l'azione congiunta

senza un elemento caratterizzante come l'intenzione, senza ricorrere, quindi, a

quello che negli altri approcci è un "ingrediente necessario"(Butterfill 2010 p 1).

La sua strategia è ribaltare le normali descrizioni di un'azione congiunta partendo

non dalla nozione di intenzione ma dalla nozione di fine condiviso.

Il passo preliminare per scindere intenzioni e individuazione dell'azione è

sostenere che l'azione congiunta non sia una azione ma un evento.25 L'evento

costituito dall''attività plurale degli agenti ha come esito quello di ottenere un fine

condiviso. L'errore, secondo Butterfill è stato associare l'idea di un fine con l'idea

di un'intenzione e pensare il fine come uno stato psicologico. Si può, invece nella

sua prospettiva, adottare una terminologia più neutra, da un punto di vista

psicologico e intendere il termine fine come il risultato di uno sforzo comune.

L'intenzione non è un fine ma uno stato, lo stato di un agente che rappresenta un

fine.Interpretando il fine, invece, come il semplice risultato di un evento (l'attività

plurale), è possibile descriverlo senza fare appello alle intenzioni dei partecipanti.

Bisogna, tuttavia, trovare una possibile alternativa, che svolga la funzione di

legame tra i partecipanti, la funzione, cioè, che negli approcci tradizionali è svolta

dalle intenzioni.

Per far questo, secondo Butterfill, bisogna approfondire la funzione di un fine

condiviso. Che funzione ha il fine condiviso? Secondo Butterfill, il fine condiviso

ha la funzione di coordinare l'attività plurale. Basandosi sui risultati empirici delle

scienze cognitive (Butterfill 2010), egli argomenta che la coordinazione può

25 In questo modo non si viola il principio si Davidson (1980). Naturalmente la mossa non è senza conseguenze. Il problema diventa ontologico e metafisico; Butterfill, infatti, suggerisce che non esiste nella realtà qualcosa che si chiami "azione congiunta". Tutto quello che conosciamo è "azione"/"azioni" alle quali è possibile applicare il principio di Davidson. Gli eventi non devono per forza essere descritti in termini intenzionali (a meno che non siano azioni). Il concetto e il fenomeno "agire insieme" è analizzato attraverso una serie di azioni individuali. L'intero processo è definito come un evento. Ecco perché la sua è una prospettiva deflazionista. In questo lavoro si cercherà di far emergere che non che sia possibile eliminare la realtà ontologica dell'azione congiunta e uno dei suoi scopi sarà proprio mostrare che le ricerche empiriche più avvedute sul tema suggeriscono che esista un fenomeno vero e proprio che si può chiamare azione congiunta e che poggi su certe capacità cognitive che sostengono processi intenzionali.

54

essere raggiunta in molti modi. Noi possiamo coordinarci con altri, anche se non

siamo consapevoli di come ci stiamo coordinando, in virtù di molti processi di

coordinazione emergente, che sono indipendenti dai fini delle azioni degli agenti e

che soprattutto spesso sono processi automatici e non controllabili. "La

coordinazione richiesta perché le azioni abbiano un fine comune spesso coinvolge

soltanto i sistemi motori piuttosto che il pensiero cosciente, così come fattori non

psicologici, come le proprietà dinamiche dei corpi". (Butterfill 2012). Non c'è la

necessità di rappresentare l'intenzione di un altro per spiegare come ci si impegna

in forme di agire congiunto. A questo punto, una possibile obiezione potrebbe

essere quella di avere una definizione troppo ampia che includerebbe fenomeni

che, intuitivamente, sono difficilmente definibili azioni collettive in senso pieno.

Butterfill è consapevole di dover delimitare metafisicamente la caratterizzazione

dell'evento per individuare una serie di azioni che siano legate verso un fine

condiviso Egli raffina la sua analisi distinguendo due tipologie di fini: fini

distributivi e fini collettivi. Se Tizio e Caio, da due angolazioni diverse e

all'insaputa l'uno dell'altro, sparano ad un uomo e questo muore, essi avevano un

fine condiviso ma non hanno agito congiuntamente; nella terminologia di

Butterfill, essi hanno un fine distributivo. Un fine si dice distributivo quando

occorrono due condizioni: primo, il risultato è un fine al quale gli agenti sono

individualmente intenzionalmente diretti, secondo, ogni agente di un gruppo è in

relazione ad un fine in modo tale che è possibile, per tutti gli agenti

singolarmente, pervenire al fine. "Tizio e Caio uccidono" può voler dire che

entrambi hanno un fine, che possono ottenere singolarmente. Questa nozione

spiega casi molto generali di jointness, essendo distributiva, ma non descrive la

relazione causale necessaria che si dà per individuare casi intuitivamente più

importanti di agire insieme. Accanto ai fini distributivi esistono fini collettivi.

Un risultato comune è il fine collettivo di un'azione quando a) è un fine

distributivo tra gli agenti, b) le azioni degli agenti sono coordinate c) la

coordinazione favorisce occorrenze di questo tipo in condizioni normali, d)essere

55

agenti di questo evento costituisce un contributo essenziale a raggiungere il fine

senza il quale il fine non potrebbe essere raggiunto.

Pervenuto a queste conclusioni, Butterfill tenta una definizione di azione

congiunta che non preveda le intenzioni: un'azione congiunta è un "evento causato

da due o più agenti dove tutte le azioni, prese nell'insieme (a) hanno un fine

collettivo (b) sono in relazione le une alle altre e a tutto l'evento in modo

sufficiente perché ogni agente sia un agente di questo evento"(Butterfill 2010). Il

risultato della deflazione sembra essere raggiunto, perché l'appello alle intenzioni

è scomparso. Alla rappresentazione delle intenzioni, Butterfil, sulla scia delle

analisi empiriche ha sostituito la coordinazione. La formulazione sembra

persuasiva e sembra fronteggiare bene il groviglio che i diversi indirizzi di ricerca

producono nel proporre azioni collettive di tipo paradigmatico26 e tuttavia vorrei

suggerire che non raggiunge il suo obiettivo. Non coniuga i diversi approcci e non

elimina le intenzioni dalla spiegazione dell'azione congiunta.

2.2. I limiti del deflazionismo filosofico

Ciò che Butterfill suggerisce è che bisogna mettere in risalto alcune forme di

coordinazione tra gli agenti di un'azione. La coordinazione può prendere molte

forme. Può essere raggiunta per via ormonale (nel caso delle formiche) o

attraverso meccanismi psicologici. Mentre alcune forme di coordinazione sono

sotto il controllo intenzionale, altre non lo sono. Varie forme di coordinazione

emergente, dove il comportamento coordinato avviene attraverso la

collaborazione tra la percezione e l'azione, che facciano agire molti individui in

modo simile, sarebbero annoverabili sotto la seconda categoria e per ricostruire il

26 A margine si potrebbe obiettare che l'ingrediente necessario che rappresenta una minaccia al tentativo di deflazionare la nozione di joint action è la coordinazione. Seguendo la stretta logica della metodologia adottata da Butterfill, per la quale nessun elemento deve essere irrinunciabile, la sua analisi non rispetta le premesse. La sua caratterizzazione di un fine collettivo richiede, infatti, la presenza della coordinazione che finisce per essere il vero elemento distintivo. Il punto, comunque non è centrale per la ricostruzione.

56

tipo di legame, che è possibile immaginare tra agenti, Butterfill fa riferimento alla

sola coordinazione emergente, la quale è, secondo gli approcci ecologici che

abbiamo ricostruito, "intenzionalmente cieca".27

Mentre l'aggiunta di un requisito di coordinazione emergente ci permette di

catturare una forma molto basilare di interazione, non è sufficiente per catturare il

fenomeno dell'agire congiunto a cui la maggior parte dei filosofi è interessata. i

filosofi, infatti, sono interessati ad azioni congiunte che siano intenzionali. Il

requisito della coordinazione dell'azione non ci fornisce spiegazioni per questa

tipologia perché ammette azioni congiunte che implichino soltanto forme di

coordinazione emergente.

Il tentativo di Butterfill contribuisce, per così dire, all'alleggerimento del carico

cognitivo, richiesto ai partecipanti ad un'azione congiunta ma taglia fuori una

parte consistente del fenomeno.

Il tentativo di Butterfill conserva tuttavia il vantaggio di proporre un approccio

poco oneroso dal punto di vista cognitivo, perché ha sostituito i fini condivisi alle

intenzioni condivise. Come abbiamo visto, approcci che fanno appello alle

intenzioni condivise tendono, infatti, ad essere cognitivamente più "costose"

rispetto al tipo di approccio di Butterfill. Condividere un'intenzione richiede la

conoscenza che l'intenzione è condivisa mentre questo requisito non è richiesto ai

fini condivisi. E' possibile avere fini condivisi senza sapere di averli. Questo li

renderebbe più adatti a spiegare le azioni congiunte tra gli infanti.

Proviamo a emendare, allora, il tentativo di Butterfill mantenendo l'idea dei fini

condivisi ma emendando il suo errore di considerare la sola coordinazione

emergente (intenzionalmente cieca) prendendo in considerazione una

coordinazione volontaria, Se si adotta una forma modificata del suo requisito di

coordinazione, si consente alle azioni congiunte di valere come intenzionalmente

congiunte, se ci sono in opera processi di coordinazione volontaria, verso un fine

condiviso. Per realizzare questo passo, si può mantenere la nozione di Butterfill di

fine condiviso, laddove i fini condivisi sono caratterizzati nei termini della loro

27 vedi capitolo I § 1.6.

57

funzione di "coordinare attività dirette ad un fine di molteplici agenti, affinché

esso sia ottenuto come effetto comune dei loro sforzi"(Butterfill 2012, 37). In

contrasto rispetto ad altre forme di coordinazione, la coordinazione verso i fini

condivisi è volontaria e dipende dai fini ai quali gli agenti sono diretti. Potremmo

chiamare questo nuovo requisito: il requisito della coordinazione dell'azione

intenzionale.

Secondo questa caratterizzazione dei fini condivisi, però, le azioni individuali

degli agenti che si trattano come strumenti sociali potrebbero costituire un'azione

congiunta intenzionale. Supponiamo che Marco abbia la seguente situazione: il

suo fine è ottenere l'effetto E; egli pensa che Valeria ha lo stesso fine; egli pensa

che potrebbe usarla come mezzo sociale per raggiungere il suo fine con maggiore

facilità e che per usarla come strumento sociale in maniera efficiente si deve

coordinare con lei; come risultato egli coordina la sua azione con lei. Supponiamo

che Valeria sia nella stessa situazione; supponiamo che nessuno dei due realizzi (o

a nessuno dei due importi) che l'altro è semplicemente usato come strumento

sociale. Il raggiungere il fine comune da parte di Marco e Valeria sarebbe

qualificabile, secondo questa versione modificata di Butterfill, come un'azione

intenzionalmente congiunta.

In contrasto a ciò, i filosofi che fanno appello alle intenzioni condivise stanno

cercando di catturare una nozione più forte di azione congiunta. Perché un'attività

sia un'azione congiunta intenzionale, l'individuo impegnato nell'attività non deve

soltanto pensare come raggiungere il suo fine ma come arrivare al fine insieme,

prendendo in considerazione il contributo dell'altro.

Il progetto di Butterfill quindi di dare un approccio semplice che ci può aiutare a

caratterizzare le azioni congiunte compiute dai bambini e che ci suggerisce la

necessità di catturare alcune azioni che siano cognitivamente meno "costose" dei

tradizionali approcci finisce per escludere la vera istanza di comprensione del

carattere cooperativo dell'azione congiunta. Io penso che ci sia spazio per un

approccio che sia più comprensivo di quello di Butterfill e che sia cognitivamente

meno dispendioso degli approcci tradizionali.

58

C'è anche una seconda ragione per la quale il tentativo di Butterfill non è efficace.

E' una ragione che guarda alle analisi di tipo empirico. E' interessante notare che

nel manifesto dell'architettura minimale (Vesper, 2010) dell'azione congiunta non

si affermi la necessità di eliminare le intenzioni dal modello esplicativo ma di

specificare come i meccanismi di basso livello possano implementare le intenzioni

(e non sostituirle). Knoblich e Sebanz (2006) sono molto chiari nel dire che la

coordinazione pianificata, ad esempio, ha luogo una volta che l'abilità di trattare

se stessi e gli altri come agenti indipendenti e intenzionali sia già operativa

(Sebanz Knoblich 2008). E conseguentemente, l'obiettivo dei minimalisti in

psicologia non è quello di abbandonare il livello intenzionale o escluderlo dalle

possibili spiegazioni ma di integrarlo con livelli, per così dire, più bassi. Il

problema teorico, infatti, è collegare i vari livelli e speculare e indagare le

connessioni che essi hanno.

Se è vero che la coordinazione può essere ottenuta attraverso meccanismi di basso

livello è pur vero, e anche Butterfill lo accetta, che nella maggior parte dei casi

proprio le intenzioni hanno la funzione di coordinare le azioni dei diversi agenti

coinvolti (Butterfill 2010 p. 32).

Sarebbe meglio dire, quindi, che le intenzioni non vengono esautorate nel loro

ruolo esplicatorio, ma relegate a spiegare i casi più sofisticati, laddove processi di

basso livello non consentono di dar conto del tutto della pianificazione.

Lo stesso Butterfill concorda nel dire che in casi molto semplificati, la

coordinazione avviene a livello automatico e senza un'intenzionalità cosciente ma

in altri casi sono proprio le intenzioni che svolgono una funzione di raccordo e

che permettono pianificazioni più sofisticate (Butterfill 2012).

In questo senso, il tentativo di Butterfill è incompleto. Esso è utile a segnalare

l'esigenza teorica che gli approcci filosofici trovino un terreno concettuale comune

con gli approcci psicologici e tuttavia è fallace nell'indicare la sola coordinazione

emergente come massimo comun denominatore. Esso lascia aperta la possibilità

che ci siano due possibili fonti di spiegazione di un fenomeno unico.

59

2.3. Bridging the gap.

Un altro modo di superare il gap tra ricerche empiriche e ricerche filosofiche, è

continuare a ritenere che l'intenzionalità abbia un ruolo centrale nella spiegazione

del fenomeno e allo stesso tempo darne una versione che sia cognitivamente meno

onerosa, tale che possa essere estesa anche agli infanti. Per far questo dobbiamo

proseguire con le due grandi esigenze che sono emerse dall'analisi comparativa

delle ricerche e dal contributo di Butterfill. La prima esigenza è comprendere che

cosa c'è di speciale nell'attività cooperativa degli infanti e fino a che punto e in che

modo può essere considerata intenzionalmente condivisa. La seconda questione ci

proviene dall'ultima critica che abbiamo mosso a Butterfill. E' possibile pensare

che per gli individui che si impegnano in forme di agire congiunto ci sia una via di

mezzo tra sviluppare quel tipo di conoscenza delle intenzioni altrui, ipotizzata

dagli approcci tradizionali e utilizzare gli altri come strumenti sociali senza tener

conto delle loro rappresentazioni?

Invece di avere una generica categoria di "azione plurale propositiva" (Butterfill

2010), nella quale le attività di uno sciame di api e le attività degli infanti, che

devono acquisire le abilità necessarie per l'azione pianificata collettiva, sono

accomunate, potrebbe essere interessante sviluppare un approccio "leggero" alle

intenzioni condivise, che consiste in una teoria dell'agire intenzionale condiviso

teso a catturare (tra le altre cose) che cosa c'è di speciale nelle attività condivise

degli infanti.

Il secondo requisito che una versione cognitivamente poco onerosa

dell'intenzionalità condivisa dovrebbe avere è contribuire a spiegare come

emergono le capacità di ottenere rappresentazioni dei fini comuni e come queste

rappresentazioni dei fini guidino l'azione. In questo senso si dovranno indagare

quali meccanismi cognitivi e quali operazioni permettono di monitorare, sostenere

e modificare la nostra parte in funzione del raggiungimento di un fine condiviso;

60

questi meccanismi dovranno metter capo ad un concetto di rappresentazione,

diverso da quel concetto forte di rappresentazione che gli approcci filosofici

propongono.

Questo è il contributo concettuale che un'analisi filosofica può dare ed è la

strategia che questo lavoro suggerisce per uscire dal gap esplicativo.

Il punto è che l'analisi logico-concettuale è insufficiente per affrontare questioni di

fatto sulla realtà dell'intenzionalità condivisa nell'ordine naturale, e allora è

necessario guardare al di fuori delle scienze umane e sociali, a un ambito in cui il

problema dell'intenzionalità condivisa è sottoposto a prove di laboratorio e viene

pertanto affrontato come empirico piuttosto che logico. Affinché si possa

verificarne la realtà ontologica, è necessario prendere in considerazione varie

branche di ricerca proveniente dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze e

trattarli come scenari dai quali emergono diverse abilità e operazioni cognitive che

permettono agli individui (infanti compresi) di impegnarsi in forme di agire

congiunto. Se i filosofi, infatti, hanno postulato strutture intenzionali, che vanno al

di là delle capacità degli individui di agire (inflazione intenzionale),

metodologicamente bisogna confrontarsi con le proposte della ricerca psicologica

Che cosa si chiede alla ricerca empirica? Si chiedono funzioni e meccanismi che

consentano di rispondere alle due questioni sollevate.

Per dispiegare concretamente la strategia, si indagheranno due scenari che

specificano come i meccanismi e le funzioni cognitive sostengono forme di

interazione nell'infanzia e spiegano cosa vuol dire rappresentare gli stati mentali

altrui. Poiché una delle grandi obiezioni agli approcci filosofici è non avere tenuto

conto delle attività congiunte degli infanti, l'attenzione sarà rivolta alle ricerche

che hanno individuato forme di intenzionalità condivisa nella prima infanzia. Il

primo scenario sarà, dunque, la prospettiva evoluzionista di Tomasello. Con

riferimento ad una nozione particolare di azione collettiva, secondo Tomasello

(Tomasello 2005), forme di attività cooperativa, che appaiono intorno al primo

anno di vita, sono "tutte le manifestazioni di un'unica sottostante abilità socio-

cognitiva". Egli chiama questa abilità "intenzionalità condivisa" e la caratterizza

61

come "la comprensione delle persone come agenti intenzionali, di chi ha una

prospettiva sul mondo che può essere seguita, diretta e condivisa " (Tomasello e

Rakoczy 2003:125). Questa abilità si manifesta nel meccanismo dell'attenzione

congiunta che sarà oggetto della nostra indagine.

Il secondo scenario cercherà di rispondere alla questione se si possa pensare ad

una forma di rappresentazione diversa da quella di Bratman. Nella psicologia

cognitiva, una questione importante è come estendere gli approcci alla

pianificazione delle azioni individuali e del controllo motorio, per tenere conto

delle prestazioni in un compito svolto congiuntamente ad altri; un altro punto di

interesse è indagare come agire insieme modula singoli processi cognitivi. C'è una

gran mole di dati che suggerisce che le persone formano rappresentazioni della

loro attività e di quella dei co-attori che sono, almeno in alcuni aspetti,

funzionalmente equivalenti a rappresentazioni che guidano le proprie azioni

(Knoblich et al. 2011). In particolare, si analizzerà la proposta avanzata dal

gruppo di ricerca SOMBY (The social mind and Body group) sul meccanismo

responsabile della rappresentazione dei compiti altrui in un'azione congiunta.

(Sebanz et al 2006). Tuttavia, è necessario un ulteriore lavoro per specificare in

che modo esattamente i compiti degli altri sono rappresentati, in quanto

rappresentazioni "condivise" e come queste rappresentazioni facilitino il

coordinamento in un'azione congiunta. Questi meccanismi di rappresentazione di

un compito in comune potrebbero essere ideali candidati per spiegare come le

persone, nell'interazione, sviluppino la capacità di rappresentare i compiti altrui.

Questi scenari, quindi dovranno fornire dei meccanismi e delle funzioni che

rappresentano la particolare modalità cognitiva di chi agisce insieme e attraverso

questi sarà possibile precisare la natura degli stati mentali intenzionali.

La risposta alla domanda sulla natura dell'intenzionalità, fornirà evidenze

empiriche per assolvere completamente il compito di ripensare le intenzioni in

un'azione congiunta.

62

2.4 L'evoluzione delle intenzioni: il rapporto tra coordinazione emergente

e intenzionalità

L'impostazione metodologica di questo lavoro si giustifica in virtù di suggerimenti

e sfide che provengono dalla psicologia cognitiva. Knoblich e Sebanz (2008)

hanno proposto, infatti che è possibile non pensare alle funzioni, ai meccanismi e

alle intenzioni come se fossero contenuti in moduli isolati ma in una rete

gerarchica molto interattiva, con i meccanismi sensoriali descritti nella

coordinazione emergente al livello più basso e in alto l'intenzionalità collettiva.

Questo è simile alle ipotesi fatte dai modelli gerarchici di controllo dell'azione

individuale. (Koechlin et al 2003; Pacherie 2005; Jordan &Ghin 2007).

Naturalmente, questo implica che il funzionamento dei livelli inferiori è

mantenuto, quando sorgono funzioni più complesse. Al tempo stesso si presume

che i meccanismi più semplici tendono a essere controllati da quelli più complessi.

Come conseguenza, il funzionamento dei livelli più bassi è incorporato in nuove

strutture di controllo e può essere utilizzata in modo più flessibile.

Propongo, quindi, di interpretare i risultati delle indagini empiriche alla luce di

un'integrazione tra i livelli necessari per impegnarsi all'azione congiunta, che si

rivela efficace se i diversi livelli e i diversi meccanismi lavorano di concerto.

Anche il livello più basso, infatti, che sembra quello più cieco dal punto di vista

intenzionale, potrà mettere le proprie funzionalità al servizio del meccanismo

intenzionale ipotizzato nel livello più in alto, e sarà in grado di supportare diverse

forme di un'azione congiunta. Incorporare i meccanismi di entrainment e

affordance all'interno dell'intenzionalità congiunta permette, ad esempio, di

comprendere una serie di azioni congiunte che richiedono azioni sincronizzate.

Esempi in cui un'azione comune dipende dall'entrainment si trovano facilmente in

domini come la musica, l'arte e lo sport. Pensiamo a due batteristi e alla creazione

di un ritmo particolare o ai ballerini che si muovono in sincronia.

63

A sostegno di questa ipotesi ci sono alcuni degli studi sulla sincronizzazione

interpersonale, i quali presuppongono questo tipo di interazione tra intenzionalità

congiunta e entrainment. Istruire i partecipanti, per sincronizzare le loro azioni

(ad es Schmidt et al. 1990) implica che ciascun di loro avrà l'intenzione di

eseguire la stessa azione dell'altro partecipante, allo stesso tempo. Questo di solito

non è discusso nei resoconti ecologici all'interazione sociale perché richiederebbe

di assumere qualche forma di rappresentazione interna delle intenzioni, che è

contraria al credo ecologico fondamentale (Marsh et al. 2006).

Combinare affordances simultanee con intenzionalità condivisa permette di

affrontare la questione di come i diversi attori eseguono azioni non identiche sullo

stesso oggetto. Per esempio, il modo che hanno le persone di sollevare una cesta a

due manici, dipende dal fatto se la sollevano da soli o insieme. Da solo, una

persona afferra ogni maniglia con una mano; insieme, una persona normalmente

afferra la sinistra con la sua mano destra e l'altra persona avrebbe afferra la destra

con la sua mano sinistra. Così, incorporando in un sistema di intenzionalità

condivisa, le simultanee modifiche delle affordances si trasformano in un

affordance comune, invitando a due azioni diverse i due co-attori. In altre

situazioni, affordances condivise possono aiutare i co-attori a determinare quando

uno ha bisogno dell'aiuto dell'altro. Questo è stato dimostrato in un esperimento

(Richardson et al 2007, 2008 esperimento 4) dove i partecipanti sollevavano

tavole di lunghezza diversa da un nastro trasportatore, prendendole dalle loro

estremità. Di notevole interesse era capire quando i partecipanti ritenevano la

dimensione tale da poter essere sollevata singolarmente e quando richiedevano

l'aiuto degli altri. Il risultato era che il cambio di prospettiva poteva essere messo

in relazione all'apertura combinata delle braccia dei partecipanti. Così, le

affordance della lastra dipendevano dalle capacità di intervento comuni del

gruppo

64

2.5. Una premessa storico-critica.

Prima di prendere in esame gli scenari bisogna inquadrare il ripensamento

dell'intenzionalità in una prospettiva storico-critica, per capire la direzione nella

quale una naturalizzazione dell'intenzionalità si colloca.

Se si riflette a fondo sul punto di attrito tra le prospettive filosofiche e quelle

empiriche, si noterà che l'inconciliabile rapporto tra intenzionale e non

intenzionale viene letto come un conflitto tra automatico/inconscio e

intenzionale/conscio.

In maniera molto generale si può dire che la distinzione tra processi controllati e

automatici (Schneider & Shiffrin 1977) ha dominato la ricerca psicologica sulla

cognizione sociale negli ultimi tre decenni (Bargh 1984; Wegner & Bargh 1997;

Greenwald et al. 2002) e continua ad essere forte (Dijksterhuis & Nordgren 2006).

In questa distinzione, coscienza e intenzionalità sono equiparati (controllato =

cosciente, automatico = inconscio), portando ad una distinzione categoriale tra

processi intenzionali e non intenzionali all'interno dei singoli sistemi cognitivi.

Pertanto, vi è stata una forte attenzione sull'elaborazione individuale delle

informazioni sociali, che è ancora attuale in molta ricerca sociale cognitiva

(Liebermann 2007; Occhsner 2007). Gli psicologi sociali cognitivi si sono

interessati a dimostrare come gli stimoli sociali avessero conseguenze sul

comportamento sociale, al di la della consapevolezza (Dijksterius & van

Knippenberg 1998) Le ricerche sull'intenzionalità e la reciprocità in psicologia,

invece, sono state confinate al livello conscio o controllato.

La cognizione individuale di alto livello è stata il fuoco di molte teorie e tendenze

nella scienza cognitiva (Fodor 1975). Molto rilevante, per esempio è stato il

lavoro della Teory of mind sulla nostra abilità ad attribuire stati mentali ad altri.

Questo lavoro ha guidato le ricerche sociali sullo sviluppo cognitivo, verso lo

studio della conoscenza esplicita degli altri e ha influenzato le ricerche sui

presupposti neurali del mindreading (Frith & Frith 2006).

65

Anche gli approcci filosofici, hanno basato le loro indagini sull'azione congiunta

su meccanismi cognitivi di alto livello e hanno trascurato il contributo dei processi

di basso livello, inconsci o automatici. Più in generale, essi non hanno sottoposto

le loro analisi ad una verifica empirica.

E tuttavia in letteratura, questa distinzione non è pacifica. In contrasto con gli

approcci sopra descritti, infatti, varie scuole di pensiero, in linea di massima

sostenitrici di una cognizione incarnata (cfr. Clark 1997; Barsalou 2008), hanno

sottolineato che la cognizione di livello superiore si fonda su processi di

percezione e azione di base oppure emerge dall'interazione dell'organismo con il

suo ambiente (Gibson 1979; Smith & Thelen 1994; Port & van Gelder 1995; Van

Orden et al. 2003).

Si è, poi, riconosciuto che tali ipotesi possono avere implicazioni fondamentali per

l'interazione sociale (Rizzolatti & Arbib 1998. Barsalou et al 2003; Gallese et al.

2004; Arbib 2005; Marsh et al. 2006; Sommerville & Decety 2006; Spivey 2007).

L'idea centrale è che i processi percettivi e motori basilari sono sufficienti a

consentire molte forme di base di interazione sociale ma che, allo stesso tempo

sono parte del meccanismo che rende possibili interazioni sociali più complesse.

L'approccio proposto in questo lavoro è in linea con questa impostazione e allo

stesso tempo cerca di far vedere quali siano i meccanismi cognitivi (Shaw 2001;

Jordan & Ghin 2007) che permettono di condividere le intenzioni; in questa

direzione sembra possibile che l'evoluzione dei meccanismi intenzionali (Barresi

& Moore 1996; Toellefsen 2005; Tomasello et al 2005; Pacherie & Dokic 2006)

insieme a meccanismi che specificano il tipo di cognizione sociale che si mette in

campo nell'interazione (Sebanz 2006), possano essere proprio la dimensione

chiave che permette interazioni sociali sempre più sofisticate.

66

Capitolo terzo.

L'evoluzione dei meccanismi intenzionali

3.1 La Shared intentionality Hypotesis di Tomasello.

Nelle scienze cognitive, che si occupano di azioni congiunte nell'infanzia, il

concetto di intenzioni condivise, figura in un diverso corpo di conoscenze rispetto

alla filosofia (Levinson 2009), che trova una sintesi potente nel lavoro dello

psicologo Tomasello.

Tomasello ha articolato una teoria dei fondamenti della socialità, shared

intentionality hypothesis - d'ora in poi SIH - secondo la quale certe abilità socio-

cognitive si sono evolute grazie a meccanismi unici per condividere gli stati

mentali intenzionali (Tomasello & Carpenter 2007).

In questo scenario emerge un'abilità in particolare, l'attenzione congiunta, che ha

suscitato molto interesse in filosofia e psicologia, per il suo ruolo nella fondazione

dello sviluppo della cognizione sociale umana. (Tomasello 2005; Tomasello et al.

2005, Tomasello & Carpenter 2007)

Molte ricerche hanno proposto che l'attenzione congiunta fornisca un

meccanismo basilare per condividere le rappresentazioni di oggetti e di eventi e

che essa serva a creare un "common ground percettivo" (Tomasello, 1995, 1999;

Tomasello & Carpenter, 2007, Tollefsen 2005, Sebanz et al 2006). Il fenomeno

dell'attenzione congiunta è più complesso del semplice fatto che due persone

osservino lo stesso oggetto. Ci deve essere almeno una connessione causale tra i

due atti di osservazione dei soggetti (la coordinazione causale) e secondariamente

ogni soggetto deve esser cosciente dell'oggetto come di un oggetto che è presente

a entrambi; in altre parole, ci deve essere una condizione di mutua disponibilità,

67

manifesta a entrambi. Evidenze empiriche dimostrano che sebbene la

coordinazione causale e una certa comprensione di cosa stia guardando l'altro

siano abilità comuni ad altri primati, la mutua apertura manifesta e la reale

attenzione condivisa sia una capacità riconducibile unicamente agli umani

(Tomasello & Carpenter, 2007).

Forme di proto-comunicazione, che implicano il seguire con lo sguardo, si

osservano molto presto nella vita di un infante, prima che raggiungano una

qualche costanza a circa sei mesi di età. Si può facilmente immaginare una scena

in cui un adulto introduce un oggetto vicino alla linea di reciproco sguardo e il

bambino guarda alternativamente o a lui o all'oggetto. Interazioni diadiche

diventano più complesse, fino a quando una serie di nuovi comportamenti emerge

all'età di 9 a 12 mesi circa. Gli infanti, in questa fase, si impegnano in una

relazione triadica con esseri inanimati e animati, in una condizione che coinvolge

una più ampia gamma di abilità di coordinamento e di capacità di attenzione

rispetto a quella osservata nei rapporti diadici. Tipicamente, bimbi di un anno

prendono oggetti per condividere l'attenzione con gli adulti e per controllare le

reazioni del corpo degli altri e il loro centro dell'attenzione.

Per gli scienziati dello sviluppo, è relativamente incontrovertibile che

comportamenti di attenzione congiunta sono episodi di coinvolgimento

intersoggettivo, dove l'entità esterna deve essere attivamente scelta non solo da

parte dei soggetti, ma anche essere vissuta come un'entità che è presente per

entrambi (Moore e Dunham 1995). Divergenze sorgono quando si tratta di

descrivere la natura dello speciale legame in base al quale i partecipanti al

triangolo percettivo di attenzione congiunta si rendono conto che stanno

guardando allo stesso oggetto insieme (Tomasello 1995). Infatti, questioni come il

modo di cogliere il senso pieno di "comunanza" tipico di relazioni triadiche e che

tipo di meccanismi lo realizzino sono oggetto di una controversia, alimentata da

due classi di spiegazioni, i cosiddetti approcci ricchi o deboli. La teoria di

Tomasello occupa un posto di rilievo nel campo degli approcci ricchi, (potremmo

68

chiederci perché egli sostiene tale approccio, ma questa domanda è secondaria per

la presente discussione).

La domanda interessante per i nostri scopi è perché, sottoscrivendo gli approcci

ricchi, Tomasello caratterizza l'attenzione congiunta come una possibile

manifestazione di intenzionalità collettiva (la prima nell'ontogenesi, in effetti).

Che particolare approccio all'intenzionalità collettiva meglio si adatta a

comportamenti di attenzione congiunta, se ve ne sono? E che cosa ci dice questa

strategia circa l'intenzionalità collettiva, nel contesto della ricerca scientifica ?

Le analisi filosofiche delle intenzioni condivise si concentrano sui casi di

comportamento intenzionale collettivo in cui gli individui deliberatamente si

impegnano in un percorso pianificato di azione, per raggiungere un obiettivo

specifico. Secondo questa concezione di azione congiunta, non solo le persone si

coordinano per raggiungere l'obiettivo, ma, perché l'obiettivo sia condiviso, ogni

soggetto deve essere a conoscenza di esso come reciprocamente presente a tutti

(Bratman 1992). Come abbiamo visto, profondi disaccordi sono sorti nel dibattito

sull'intenzionalità collettiva tra i filosofi sul modo migliore di catturare la

mutualità della consapevolezza, il senso di "we-ness", che sembra necessario

perché un'attività condivisa possa accadere. Abbiamo visto che gli approcci

filosofici rendono lo stato in cui due soggetti rivolgono l'attenzione alla stessa

entità e mostrano consapevolezza di questo fatto come uno stato di "conoscenza

mutua" (Pettit & D. Schweikard 2006). Il risultato è un insieme altamente

sofisticato di teorie di azione congiunta, che postulano rappresentazioni dettagliate

nella mente dei singoli agenti, specificando compiti e obiettivi condivisi. Queste

rappresentazioni sono presentate come il risultato di processi consci e riflessivi di

cognizione sociale e, di solito, sono descritte nel contesto di interazioni

paradigmatiche, come un'orchestra che esegue un pezzo o uno sport nel quale le

squadre giocano insieme.

Abbiamo anche visto che questo approccio lascia scoperta una buona dose di

interazione, come ad esempio i casi di (spontanea, non pianificata) coordinazione

"emergente", in cui l'interazione non richiede rappresentazioni dettagliate nella

69

mente degli agenti. Tali casi di socialità sono facilmente osservabili nel neonato e

nel comportamento sociale dei primati, dove non sono ancora pienamente

sviluppate o sono carenti le sofisticate capacità rappresentazionali del genere

postulato in resoconti filosofici di intenzioni condivise.

Evidentemente, l'attenzione congiunta appare come una forma di interazione

faccia a faccia. Così come Tollefsen (2005) ha osservato, è molto problematico

interpretare le prove che i bambini sono in grado di impegnarsi in comportamenti

di attenzione congiunta così presto nella prima infanzia, nei termini degli stati

intenzionali che vengono postulati nel contesto della mutua conoscenza. Ma,

allora, poiché Tomasello attinge esplicitamente alle risorse della teoria

dell'intenzionalità collettiva per dare un resoconto dell'attenzione congiunta, la

domanda diventa, dove si colloca rispetto al problema della conoscenza reciproca

e della intenzionalità collettiva più in generale.

Nella sua prima formulazione, la SIH è stata preceduta dalla constatazione che

comportamenti di attenzione congiunta hanno alla base una tendenza naturale e

unica per la specie di cogliere le ragioni altrui per l'azione come un prerequisito

per condividere la attenzione (Tomasello1999). L'idea è che il tipo di

compresenza percettiva, vissuta dal soggetto in attenzione congiunta, deriva da un

esercizio attivo di comprensione dell' intenzione, con il bambino che è in grado di

elaborare le informazioni sul pensiero e le motivazioni degli altri, oltre che di

rappresentare il centro dell'attenzione come reciprocamente presente sia a lui che

al genitore28. Alcune formulazioni suggeriscono quindi che Tomasello si orienti

verso una concezione della mutualità dell'attenzione congiunta in termini di

reciproca conoscenza, che sarebbe compatibile con gli approcci riduzionisti di

intenzionalità collettiva (Tomasello 1995). "Riduzionista" significa che se tutto

ciò che conta per i soggetti, per raggiungere il caratteristico we-ness

dell'attenzione congiunta, è la loro capacità di leggere nella mente degli altri,

allora non c'è ragione di postulare un modo irriducibile we-mode, per ragioni

esplicative.

28 Tomasello 1999, 102

70

Tuttavia, le parole di Tomasello non riflettono alcuna preferenza particolare per la

soluzione di conoscenza mutua; il suo approccio è piuttosto guidato da

considerazioni che indicano una notevole incertezza sul modo migliore per

specificare l'esatto significato di concetti come "mutualità" e "condivisione"

(Tomasello 2009, 69). La confusione nasce soprattutto dall'idea che se

mutualismo è il risultato del riconoscimento da parte dei soggetti che le loro

azioni sono dirette verso un obiettivo comune, che è realizzato tramite mind-

reading, allora la domanda è: quali risorse cognitive e concettuali sono necessarie

perché ci si renda conto di avere un obiettivo comune da cui partire.

A prima vista, quest'approccio corre lo stesso pericolo di circolarità esplicativa

che colpisce tutti i resoconti dell'intenzionalità collettiva che invocano la mutua

conoscenza.

L'argomento decisivo contro questa caratterizzazione viene da un'influente

scoperta nella cognizione dei primati. Tomasello e i suoi collaboratori hanno

eseguito una serie di studi comparativi che testano la capacità di sguardo

seguendo uno scimpanzé giovane, e, contrariamente all'ipotesi iniziale che postula

una teoria della mente come il tratto distintivo della cognizione umana, hanno

fornito la prova che gli scimpanzé sono animali altamente sociali, nel senso che

mostrano alcune propensioni rudimentali per la comprensione intenzionale

(Tomasello et al 2005; Tomasello 2008). Le prove, però, mostrano anche che le

grandi scimmie non hanno il caratteristico senso di comunanza osservato

nell'uomo, quando tutto è alla luce del sole e conosciuto reciprocamente. Nel "role

reversing task", per esempio, che verifica la capacità dei giocatori di cambiare i

loro ruoli al fine di raggiungere un obiettivo specifico in coordinazione, è stato

dimostrato che, a differenza degli infanti umani, gli scimpanzé giovani non

invertono i ruoli e svolgono la loro azione senza riferimento agli altri, cioè in un

modo strumentale piuttosto che mutualistico (Tomasello e Carpenter 2005).

I primati sanno cosa vedono i loro conspecifici, anche se da una prospettiva

individualistica. In altre parole, la loro comprensione della struttura intenzionale

di azione non sarebbe condivisa nello stesso modo in cui la comprensione dei

71

bambini del focus di attenzione è condivisa nell'attenzione congiunta. Se, quindi,

il riconoscimento della reciprocità di attenzione congiunta è specie specifico e

consente agli umani forme di interazione sociale sconosciute nel regno animale,

questo richiede più della comprensione dell'intenzione dal momento che questa

capacità viene mostrata anche dagli scimpanzé. La lezione di questi esperimenti è

che qualsiasi teoria della cognizione sociale che mira a cogliere il particolare

legame di attenzione congiunta deve trovare un equilibrio tra due desiderata che

tirano in due direzioni. Uno è quello di non razionalizzare eccessivamente la

mente del bambino, nonostante la sua presunta capacità di impegnarsi in azioni

comuni che richiamano alcune piuttosto complesse capacità per la condivisione di

intenzionalità. L'altro è quello di consentire alla cognizione infantile di essere

abbastanza ricca per dare un senso alle differenze osservate negli esseri umani e

scimpanzé, quando si tratta di rappresentare azione come condivise.

Questa tensione trova una soluzione nella versione più recente del SIH: non solo

sono i fini e le intenzioni ad essere colte in modo interpersonale, ma devono anche

essere condivisi nel senso pieno della joint attention29. Gli scimpanzé non

condividono stati mentali, perché incapaci di rappresentare la struttura

intenzionale dell'azione a "volo d'uccello", quella che rappresenta il proprio e

l'altrui obiettivo in un formato unico (Tomasello 2008, 179; 2009, 68). Gli esseri

umani, invece, inquadrano la scena interattiva in un'unica rappresentazione: ogni

individuo giunge alla comprensione del fine delle sue azioni come se dicesse:

"stiamo perseguendo il fine insieme". Si potrebbe sostenere che, perché gli agenti

possano rappresentare il "noi" in una lettura collettiva invece che distributiva,

devono essere in grado di sapere cosa vuol dire pensare e agire insieme piuttosto

che da soli. E questo potrebbe essere interpretato come una richiesta che i

29 Ecco come Tomasello coglie il punto: "Una ragione importante è che i primati non umani non partecipano alle attività di collaborazione in modi simili agli umani; anche se hanno competenze simili a quelle umane per comprendere l'intenzionalità individuale, non hanno competenze simili agli umani e motivazioni per intenzionalità condivisa "(2008, 180-81). Oltre alla mancanza di capacità di rappresentazione di un certo tipo, gli scimpanzé non hanno le motivazioni fondamentali di agire in modo che non serve solo ai fini strumentali. La base motivazionale di intenzionalità condivisa non è meno importante delle basi cognitive della SIH.

72

partecipanti a un'attività congiunta posseggano un concetto distintivo di "we-ness"

che non si risolve in rappresentazioni di livello individuale del fine condiviso. Ma

questa conclusione dovrebbe essere evitata perché implica abilità concettuale e

meta-rappresentazionale che difficilmente possono essere attribuiti a bambini di

un anno di età.

Una formulazione che si adatta meglio alla metafora della vista a volo d'uccello,

che si intreccia con le domande sui primi sviluppi cognitivi e concettuali è: la SIH

postula non una specifica rappresentazione "dell'essere insieme" ma distinte

attitudini di vedere insieme, di percepire insieme, pensare insieme (Gross 2010). Il

senso di congiunzione dell'attenzione congiunta sarebbe raggiunto dai soggetti che

rappresentano il fine rilevante, in modi differenti ma nello stesso modo

psicologico (we-mode) - che Tomasello indica come "il senso unicamente umano

del noi", il senso dell'intenzionalità condivisa (Tomasello 2009, 57 59). Diversi

passaggi degli scritti di Tomasello suggeriscono che questa potrebbe essere

considerata la sua posizione (Tomasello 2009). Se è così, allora ci sono buone

ragioni per argomentare che Tomasello sia incline a una visione dell'irriducibilità

delle intenzioni condivise.

Tuttavia, l'approccio scientifico-naturale di ricerca di Tomasello propone una

concezione dell'irriducibilità dell'intenzionalità collettiva che difficilmente trova il

suo posto nelle teorie filosofico-concettuali attualmente disponibili. Nel

successivo paragrafo, io sostengo che questa differenza metodologica è

fondamentale per comprendere perché le questioni di intenzionalità collettiva sono

empiriche e richiedono una combinazione di metodi concettuali e sperimentali.

3.2 Attenzione congiunta e priorità ontologica dell'intenzionalità

collettiva

Tomasello (2009) ipotizza che l'infrastruttura "biologicamente ereditata" che ci

rende inclini alla socialità e le abilità di lettura della mente che consentono

73

l'incontro di menti, necessarie per l'azione congiunta, sono capacità specie-

specifiche. Questa affermazione ha scatenato un intenso dibattito interdisciplinare

sulla presunta unicità della cognizione umana (Elian 2010). Ciò che sembra essere

particolarmente problematico, da un punto di vista filosofico, è che a dispetto di

un robusto corpus di dati, la SIH non comprende una risposta strutturata o anche

parzialmente elaborata per il problema della realtà biologica dell'intenzionalità

collettiva. Quindi, l'affermazione che la capacità di pensiero nella modalità del

noi, potrebbe derivare da una traiettoria evolutiva unica e seguire un percorso di

sviluppo distinto nei primi mesi di vita, è quanto abbiamo a disposizione e rimane

una speculazione che ha bisogno di ulteriore elaborazione. Tuttavia, sulla base dei

risultati di esperimenti di laboratorio ben controllati, Tomasello e i suoi

collaboratori, postulano un adattamento biologico per la condivisione di stati

intenzionali, nel quadro di una spiegazione naturale-scientifica dell'infrastruttura

dello sviluppo umano. Quindi, alla luce della distinzione tra interpretazioni

logico-concettuali o empiriche di intenzionalità collettiva, dove ci porta questa

conclusione per quanto riguarda la questione della sua natura?

Si potrebbe, naturalmente, leggere questa domanda come un'indicazione che le

prove scientifiche provenienti dagli esperimenti di Tomasello siano in qualche

modo decisive, per rivendicare ci sia un fondamento per l'abilità dell'intenzionalità

collettiva, nella biologia dell'organismo. Ma questa lettura solleverebbe un

insieme ancora più controverso di domande circa la legittimità di una qualche

versione di "naturalismo ontologico" - quella posizione per la quale, ciò che ci

dice la scienza, nella sua versione migliore, è vero rispetto ai costituenti del regno

naturale, non importa se animati o inanimati.

Abbiamo bisogno di spiegare perché affermazioni ontologiche possono essere

affrontate solo con una metodologia integrata di strumenti empirici e concettuali.

Mentre aspetti della SIH sono già stati discussi in dettaglio in relazione alle teorie

di intenzioni condivise (Tollefsen 2005), in questo scenario mi riferisco

all'approccio naturalistico che sostiene la SIH per sostenere che essa può

giustificare l'idea che le intenzioni collettive rappresentino un modo di pensare e

74

di guidare l'azione in una modalità cognitiva diversa da quella della razionalità

individuale. Si comincia a delineare un'idea di processi collettivi irriducibili che

sono propri dell'individuo nella modalità plurale (we mode) e che non sono

riducibili alle intenzioni individuali.

Vorrei suggerire che c'è un senso ontologico di irriducibile secondo il quale i

predicati intenzionali collettivi non possono essere ridotti alle operazioni parziali

che sono alla base dei singoli stati. L'approccio di Tomasello ci aiuta a capire in

che cosa può consistere questa irriducibilità. In filosofia, questa affermazione

rischia di essere modellata sulla competenza descritta dalla psicologia popolare e

giustificata attraverso intuizioni; il risultato è una crescente proliferazione di punti

di vista che, nonostante l'impegno dei loro autori al naturalismo, portano a trarre

conclusioni affrettate circa le presunte condizioni esistenziali naturali in cui gli

stati mentali contano come condivisi. Searle (1990, 1995), per esempio, sostiene

che il concetto di una primitiva capacità di pensare nella modalità della prima

persona plurale, sia uno strumento esplicativo che aiuta a descrivere il senso di

agire insieme, vissuto dai partecipanti alle attività congiunte e lo postula come un

processo dedicato di cognizione sociale, radicato nella biologia di cervelli umani.

Che cosa giustifica parlare di irriducibilità in quest'ultimo senso?

Searle offre un motivo importante per credere nell'irriducibilità ontologica

dell'intenzionalità collettiva: la continuità causale tra il modo del noi e la

comparsa di azione individuale.

Egli osserva che le persone, che si impegnano in azione congiunta, comprendono

il fine condiviso in prima persona singolare, il quale però è stato stabilito da

rappresentazioni che sono in modalità collettiva. "Intuitivamente, nel caso

collettivo, l'intenzionalità individuale, espressa da 'sto facendo A, è derivata dalla

intenzionalità collettiva' Stiamo facendo A" (Searle 1990, 92). L'intuizione della

"derivazione", tuttavia, è poco sviluppata nell'opera di Searle. Sarebbe meglio dire

che quando si fa riferimento a un obiettivo da perseguire con qualcun altro,

esprimerlo nella prima persona plurale, consentirebbe all'agente di "vedere" la

scena dell'azione in un modo che sarebbe semplicemente precluso se fosse stata

75

rappresentata in prima persona singolare. Il risultato sarebbe una nuova

comprensione del fine, che causerebbe poi un certo corso di azione da selezionare

a livello individuale. Quindi, l'intenzionalità collettiva è primitiva e l'individuale è

intenzionalità derivata, nel senso che la prima è precedente a quest'ultima in

situazioni di azione congiunta.

Eppure, in che senso rispetto al suo potere causale, l'intenzionalità collettiva

eserciterebbe un potere nel determinare il pensiero individuale e l'azione? Questa

è una domanda che è frequentemente, anche se implicitamente, posta da

discussioni sull'azione congiunta, che unisce intuizioni dalla teoria

dell'intenzionalità collettiva con la ricerca in psicologia dello sviluppo. Ma non ha

una risposta chiara nella letteratura filosofica, tantomeno in Searle. La ragione è

che si tratta di una questione che l'analisi dei concetti di collettività non è adatta a

soddisfare su basi puramente aprioristiche, a meno che non si aggiunge la ricerca

che indaga fino a che punto i fenomeni intenzionali collettivi producono effetti e

comportamenti nel mondo. Lo studio della causalità in genere comporta il

confronto e la variazione controllata per assicurarsi che la variabile indipendente

sia separata, in modi che sarebbe impossibile da raggiungere in circostanze non

sperimentali. In laboratorio, infatti, le spiegazioni del senso comune che chiamano

in causa correlazioni tra, diciamo, la capacità di intenzionalità collettiva e azione

individuale, sono sottoposte a test che hanno la pretesa di isolare i relativi fattori

causali, trasformando quelle associazioni in generalizzazioni causali affidabili.

E' quindi necessaria la ricerca scientifica, per precisare che cosa significa per un

meccanismo essere primario nel senso di causare un certo effetto.

Nella cognizione sociale, studiata dalla psicologia dello sviluppo, in particolare, è

progettando la migliore condizione possibile per testare la proto-communication

che è diventato possibile "osservare" l'emergere di comportamenti di attenzione

congiunta a una certa età, isolando le cause. Ed è nel contesto della ricerca

empirica, piuttosto che senza di essa, che si è rivelato che la capacità per la

condivisione di stati mentali è davvero elementare in situazioni di attenzione

congiunta, conferendo un particolare senso al termine "priorità", cioè un senso

76

ontogenetico. Questa è una scoperta cruciale per affrontare la questione

dell'irriducibilità della intenzionalità collettiva. Quindi, per illustrare il punto in

dettaglio, analizziamo come trattare la questione in termini empirici; questo ci

permette di affrontare il problema dell'ontologia (ontogenesi) dell' intenzionalità

collettiva in un modo che un'analisi logica da sola non permette.

Ricordiamo che la preoccupazione filosofica riguarda la formazione di stati

intenzionali condivisi, cioè, le condizioni alle quali due persone realizzano che

l'obiettivo delle loro azioni è condiviso per la buona riuscita dell'azione congiunta.

Sostenendo che il contenuto dei singoli stati intenzionali può derivare

dall'intenzionalità collettiva, suggerisco che la modalità del noi è causalmente

efficace nella misura in cui essa contribuisce a risolvere il problema di come due

persone arrivano a capire che essi intendono la stessa cosa in una interazione.

La letteratura filosofica sul riferimento ha riconosciuto che la reciproca

comprensione richiede una certa condivisione a livello mentale. Ma questo

problema è stato trattato come un problema logico, con poco lavoro fatto per

capire in che consiste il condividere che porta alla conoscenza del riferimento. Un

passo decisivo in questa direzione è stato fatto ampliando l'indagine alle

condizioni psicologiche che spostano la comprensione del riferimento in

ontogenesi, quando i bambini iniziano la comunicazione in un modo abile, prima

che il linguaggio sia acquisito del tutto. Che cosa significa essere "esperti

comunicatori" nello sviluppo?

Bambini prelinguistici non fanno discorsi, eppure essi mostrano competenze di

base per impegnarsi significativamente in atti referenziali. Sebbene questa

osservazione è interpretata in una varietà di modi differenti e spesso in

competizione in letteratura, vi è ampio consenso nel descrivere la socialità di

forme primitive di comunicazione, come il risultato di un attiva "trattativa" per

l'attenzione tra i piccoli e genitori (Brown 2012)

È interessante notare che per i nostri scopi, questa linea argomentativa in

psicologia è stata portata avanti da Tomasello, il quale indica il triangolo di

attenzione congiunta come la prima manifestazione di comprensione del

77

riferimento in ontogenesi (Tomasello 1998). Teorie dell'attenzione congiunta, tra

cui la SIH, possono così essere intese, in senso ampio, come teorie del

riferimento.

Specificamente, la SIH ha le sue radici teoriche nel paradigma di ricerca istituito

da Jerome Bruner nel 1970, quando le domande circa l'attenzione congiunta,

entrarono nell'agenda degli psicologi sotto forma di domande circa lo sviluppo del

linguaggio e l'evoluzione della comunicazione intenzionale, come la transizione

dal riferimento preverbale a forme di riferimento verbale (Scaini e Bruner 1975;

Bates, Camaioni, e Volterra 1975; per una panoramica, vedere Moore e Dunham

1995).

L'intuizione di Bruner è che, data la sua rilevanza come impalcatura per le forme

successive di cognizione sociale, l'attenzione congiunta può fornire il tipo di

formato che consente alle persone di stabilire la comprensione reciproca del

riferimento. In breve, il riferimento è "una forma di interazione sociale che ha a

che fare con la gestione dell'attenzione congiunta" (Bruner 1983, 68, corsivo

nell'originale).

Un esempio di comportamento di attenzione congiunta nella comunicazione

prelinguistica, e presumibilmente negli esseri umani prima del linguaggio, è il

vasto repertorio di gesti di attenzione-coordinamento per indirizzare e seguire lo

sguardo di qualcuno verso un determinato obiettivo. Tra questi, i gesti deittici

sono responsabili per il trasferimento di conoscenza del riferimento dal genitore al

bambino. Nella tipica scena di attenzione congiunta, per esempio, i neonati e i

genitori guardano qualcosa insieme e lo scambio avviene con un contatto degli

occhi, in un modo tale che sia chiaro che essi condividono la stessa attitudine.

Procedure di attenzione congiunta danno forma ad un orizzonte comune sul quale

innestare il riferimento, imponendo vincoli rilevanti a ciò cui si assiste

congiuntamente, introducendo il bambino "nel procedimento di capire che cosa si

stava intendendo con ciò che veniva detto - quali interpretanti sono stati necessari

per gettare un ponte tra un segno e il suo significante (s) " (Bruner 1998, 220-21;

enfasi in originale). Tuttavia, il riferimento ha bisogno di più di qualche indizio

78

contestualizzato da fissare. Bambini piccoli sono così abili nel comprendere e

produrre gli atti di riferimento che sembrano sapere quale oggetto specifico è

reciprocamente presentato a loro e ai loro genitori, nel triangolo di attenzione

congiunta. E tuttavia, come fanno a pervenire in questa forma di comprensione, se

non sanno che essi stanno condividono la loro attenzione (Bruner 1995, 2)?

Come ho indicato nel paragrafo precedente, Tomasello sostiene che rappresentare

i loro obiettivi e quelli degli altri come qualcosa che "noi vogliamo portare avanti

insieme", permette agli infanti di cogliere l'aspetto specifico del fine cui assistere

congiuntamente. Questo è il senso in cui intenzionalità condivisa in definitiva è

uno "spazio condiviso di un terreno psicologico comune" (Tomasello e Carpenter

2007, 121). Così, il we-mode è principalmente un mettere in rilievo certe

rappresentazioni dell'oggetto di riferimento invece di altre, proprio quelle davanti

alle quale il comunicatore e il destinatario interpretano i reciproci atti referenziali,

sulla base di esperienze e di attività fatte insieme (Moll 2008, Liebal et al 2009,

Tomasello 2008).

L'intenzionalità collettiva è quindi evolutivamente precedente alla conoscenza del

riferimento nel I-mode, in situazioni in cui gli obiettivi sono condivisi. Cioè, il

riconoscimento da parte degli individui che essi partecipano a qualcosa insieme

nella comunicazione, è il presupposto, piuttosto che la conseguenza, della lettura

della mente al singolare e in prima persona per "cercare" il riferimento esatto di

pensieri e gesti.

Vale la pena sottolineare che, mentre le implicazioni di questa teoria sono ancora

oggetto di dibattito e spunti di indirizzi futuri della ricerca, l'enfasi della mia

argomentazione è sul modo in cui viene reso il senso particolare di priorità

ontogenetica con metodi concettuali ed empirici. Ciò vuol dire che quando

l'indagine di questioni ontologiche si svolge in un modo naturalistico, l'indagine

non consiste solo nel tipo di pensiero concettuale che caratterizza la formazione

filosofica più tradizionale. Chiarificazioni concettuali emergono dal compito

sperimentale delle associazioni e della verifica tra cause ed effetti, mantenendo

fattori di sfondo sotto controllo. La morale è che quando il naturalismo è praticato,

79

il risultato è un approccio interdisciplinare dove concettuale ed empirico si

intrecciano in modo che realizza la contiguità tra la filosofia e la scienza in modo

fecondo. La SIH può quindi essere vista come un resoconto naturalistico della

mente, o almeno di una parte di essa, perché sfrutta gli strumenti e le tecniche

della psicologia scientifica per affrontare i problemi dell'ontologia sociale.

3.3 L'evoluzione della intenzionalità condivisa.

Il lavoro di Tomasello e colleghi suscita un grande interesse tra coloro che

vogliono dare un resoconto naturalistico delle radici della socialità, sulla base

della capacità di intenzionalità collettiva. Molto deve essere fatto per chiarire le

ipotesi di quello che ho chiamato il SIH, prima di valutare le sue implicazioni per

la naturalizzazione dell'intenzionalità collettiva. In questa sezione ho presentato la

SIH nel contesto del problema centrale della intenzionalità collettiva e ho

sostenuto che essa è uno scenario per giustificare la tesi della irriducibilità della

intenzionalità collettiva a intenzionalità individuale. Non avere riconosciuto che le

domande circa l'esistenza e l'identità di uno stato mentale condiviso non può

essere fissato dall'analisi dei soli concetti sociali ha provocato sfortunate

conseguenze per il dibattito sulla naturalizzazione dell'intenzionalità collettiva

La mia tesi si basa sulla ricerca sperimentale di Tomasello nell'ambito della

psicologia dello sviluppo che si occupa di cognizione sociale, mostrando che il

pensiero nella modalità del noi specifica le condizioni per la comprensione di

riferimento in I-mode. Questa interpretazione porta a compimento l'opera di

resoconti pragmatici del riferimento, da Bruner (1983) a Tomasello (1998),

secondo i quali la conoscenza del riferimento si basa su forme di intenzionalità

condivisa, come l'attenzione congiunta, nella misura in cui si richiede che i

soggetti sintonizzano, l'un l'altro, le menti attraverso una interpretazione congiunta

del campo referenziale. Integrando recenti successi dello studio dello sviluppo e

dell'evoluzione della "mente sociale ", nella filosofia dell'intenzionalità collettiva,

80

ho sostenuto che questo filone della ricerca scientifica in psicologia ci aiuta a

capire la natura empirica dell'intenzionalità collettiva.

81

Capitolo quarto.

Rappresentare con un codice comune.

4.1. Il common coding

Nel secondo scenario si descrive l'interazione sociale secondo un'attualizzazione

della teoria ideomotoria di James (James 1890, estensioni: Prinz 1997, Jeannerod

1999 Hommel et al.2001) sostenuta da risultati sul mirroring (Decety & Grezes

1999, 2006; Rizzolatti & Craighero 2004). L'approccio ideomotorio sostiene che

gli individui percepiscono le azioni degli altri alla luce del proprio repertorio di

azione. Percepire un attore che manipola un oggetto, attiva una corrispondente

rappresentazione dell'azione percepita nell'osservatore. In questo incontro,

l'osservatore simula l'esecuzione dell'azione percepita. Lo stesso vale per il

percepire un attore che compie le sue azioni verso un altro attore. Per esempio,

quando si vede qualcuno afferrare un bicchiere di birra, si attiva parzialmente il

proprio programma motorio di afferrare il bicchiere, che conduce a una

simulazione dell'azione osservata.

Contrariamente all'approccio ecologico della coordinazione emergente,

l'approccio ideomotorio sostiene che vi siano rappresentazioni intenzionali negli

organismi e postula un'interfaccia tra la percezione e l'azione che permette

all'osservatore di simulare azione intenzionale in altri. Si possono distinguere due

componenti centrali di questa interfaccia. La prima è "un comune dominio

rappresentazionale" (Prinz 1997) che cattura aspetti che restano invariati tra

situazioni in cui si agisce su oggetti o individui e situazioni in cui si percepisce

un'altra persona che agisce su oggetti o individui. Queste invarianti possono

trovarsi nell'effetto che l'azione ha sull'oggetto o nel movimento con cui l'azione è

82

portata a compimento. La seconda componente è costituita da meccanismi di

simulazione, che attingono al sistema motorio dell'osservatore (Blakemore &

Decety 2001; Grush 2004; Wilson & Knoblich 2005). Questi meccanismi possono

essere utilizzati non solo per derivare scopi di un'azione durante o dopo

l'osservazione di azioni (Bekkering et al 2000; Rizzolatti & Craighero 2004;

Hamilton & Grafton 2006), ma possono anche essere usati per predire i risultati

delle azioni (Knoblich & Flach 2001; Umiltà' et al 2001; Schubotz & von Cramon

2004; Wilson & Knoblich 2005). In poche parole, il presupposto è che quando si

osservano le azioni degli altri, si possono proiettare relazioni intenzionali che

guidano la propria azione diretta a un oggetto o diretta a un'azione osservata.

Vi sono molte prove empiriche a sostegno dei meccanismi descritti sopra (per una

recente rassegna si veda Keysers & Gazzola 2006), che vanno dagli studi sulla

singola cellula nelle scimmie agli studi di brain imaging o sul comportamento.

Per riassumere brevemente (un'ampia trattazione di questi temi va oltre gli scopi

di questo capitolo) i risultati, è stato mostrato che:

(a) percepire un'azione influenza lo svolgimento concorrente di un'azione correlata

(Stanley, Gowen & Miall, 2007);

(b) anche persone che non intendono eseguire una particolare azione, vedendo

altri che la compiono, sviluppano una tendenza a compiere la stessa azione (Lakin

& Chartrand, 2003);

(c) giudizi percettivi sulle azioni degli altri sono influenzati dallo stato corrente

del proprio sistema motorio. (Schutz, Bobasch & Prinz, 2007).

I meccanismi descritti dalla teoria si basano su un procedimento che si può

definire simulazione di azione.

L'approccio ideomotorio ha ricevuto ampia attenzione a seguito della scoperta di

neuroni specchio nella corteccia premotoria ventrale (Gallese et al. 1996) e

parietale inferiore (cfr. Fogassi et al . 2005) dei macachi (da qui il termine'

83

mirroring'). Questi neuroni si attivano non solo quando la scimmia esegue

un'azione diretta a un oggetto, ma anche quando la scimmia osserva un altro

individuo eseguire la stessa azione. Così, i neuroni specchio forniscono un

substrato neurale per l'incontro tra la percezione diretta e l'azione, descritto in

precedenza. Negli esseri umani, è stata osservata attività del cervello in aree

analoghe, non solo quando si osservano le azioni dirette a un oggetto ma anche

quando si osservano meri movimenti corporei (Decety et al. 1997; Buccino et al.

2001, 2004; Grezes et al. 2003), come la danza (Calvo - Merino et al 2005; .

Croce et al . 2006). Da un punto di vista comportamentale, lo stretto legame tra la

percezione e l'azione si manifesta sotto forma di effetti di interferenza e di

facilitazione, per i quali è più facile eseguire le azioni che si stanno osservando in

concomitanza (Sturmer et al. 2000; Ottone et al . 2001) e più difficile eseguire

azioni opposte a quelle simultaneamente osservate (Kilner et al. 2003).

Finora la nostra discussione si è concentrata su come la struttura ideomotoria

permette ad un osservatore di identificare relazioni attore-oggetto. Ai fini della

spiegazione di come si agisca in gruppo, è più importante la questione di come

sono percepite le relazioni attore-attore.

La simulazione dell'azione avviene anche quando si percepisce un organismo che

agisce su un altro? Ad esempio quando una scimmia percepisce una scimmia che

pulisce un altro della specie? Sarebbe sorprendente se questo non avvenisse

(Knoblich & Prinz 2003), in caso contrario si avrebbe bisogno di assumere che le

scimmie sono in grado di distinguere tra relazioni tra attore e oggetto e relazioni

attore-attore e che un match di percezione-azione si verifica solo per le prime

(Knoblich 2006). Un'altra questione che si pone è come il meccanismo di

simulazione affronta il caso nel quale due organismi interagiscono. Considerando

che le relazioni attore-oggetto sono asimmetriche per definizione (atti dell'attore

su di oggetto), le relazioni attore-attore sono spesso simmetriche, con due

organismi che agiscono l'uno sull'altro.

Che cosa possiamo ottenere dall'incorporare il commom coding nell' intenzionalità

collettiva ?

84

4.2. Common coding e intenzionalità collettiva

Uno dei risultati che provengono dall'integrare i risultati del common coding è la

possibilità di tenere insieme simulazioni che riguardano le proprie azioni e

simulazioni di azioni che riguardano le azioni degli altri (cf. Knoblich & Jordan

2002; Decety & Grezes 2006). L'idea è che codici comuni e i meccanismi di

simulazione che ne derivano, possono essere usati per programmare le proprie

azioni, e per prevedere le azioni degli altri e i loro risultati, in parallelo e in

relazione a un risultato inteso congiuntamente. Esempi in cui tali simulazioni

parallele possono tornare utili abbondano nella musica, l'arte e lo sport.

Consideriamo due musicisti jazz che improvvisano insieme. Ognuno di loro ha

bisogno di prevedere ciò che l'altro starà facendo allo scopo di mantenere

dissonanze all'interno di una gamma consentita da uno stile particolare. Allo

stesso modo, gli acrobati hanno bisogno non solo di gran tempismo ma di

prevedere come si evolvono i movimenti del partner. Essi saranno utili, ad

esempio, nel calcio quando il centrocampista di una squadra passa la palla in un

punto tale che solo l'attaccante sarà in grado raggiungere, prima che i difensori

della squadra avversaria possano raggiungere lui.

In virtù di queste caratteristiche, gli studiosi di questo scenario hanno cominciato

a sottoporre a prove empiriche l'ipotesi che vi sia un meccanismo cognitivo

dedicato che individua le rappresentazioni comuni quando gli individui agiscono

insieme.

Utilizzando un'attività di monitoraggio semplice che può essere eseguita da soli o

insieme, Knoblich e Jordan (2003) hanno studiato se due gruppi sono in grado di

coordinare le loro azioni in relazione a risultati futuri della loro attività congiunta,

così come un singolo attore esegue, da solo, con successo, un compito complesso.

I risultati hanno mostrato che i co-attori hanno preso le reciproche azioni in

considerazione e hanno imparato ad adeguare reciprocamente le loro azioni in

85

modo che il loro coordinamento era quasi indistinguibile dal coordinamento

individuale, che essi potevano realizzare da soli. In questo compito, il buon

coordinamento poteva essere raggiunto solo attraverso l'integrazione degli effetti

del proprio e dell'altrui agire in una previsione del risultato congiunto. I risultati,

quindi, hanno fornito prove comportamentali per l'assunzione della simulazione

parallela.

Uno studio di imaging cerebrale, dove le persone eseguivano azioni identiche o

complementari a quelle che avevano osservato, fornisce ulteriore supporto a

questa ipotesi (Newman-Norlund et al. 2007). L'attivazione nelle zone di

pertinenza del mirror system (corteccia pre-motoria e parietale) era più forte

quando i partecipanti eseguivano azioni complementari rispetto a quando

eseguivano la stessa azione osservata. Questo suggerisce che l'azione percepita e

un'azione propria sono simulate in parallelo.

Infine, in studi comportamentali utilizzando lo stesso paradigma sperimentale, si è

constatato che i partecipanti mostravano tempi di risposta uguali sia nel rispondere

alle immagini di azioni, che prevedevano l'esecuzione di azioni complementari sia

nell'eseguire azioni identiche (Van Schie et al ). Questo è stato considerato

sorprendente, dato che la percezione di un'azione dovrebbe attivare il programma

motorio corrispondente, facilitando prestazioni delle azioni identiche. Tuttavia, il

risultato può essere spiegato se si presume che un più alto livello intenzionale

controlla la simulazione di azione.

4.3 Predizione

Che cosa ci serve per agire con qualcun altro? In un certo senso ci serve l'abilità di

prevedere, in modo affidabile, come si svolgerà l'azione nell'immediato futuro.

Una delle abilità, quindi coinvolte nella spiegazione del fenomeno è la predizione.

Bisogna fare attenzione e distinguere. Quello di cui ci stiamo occupando è lo

svolgimento dell'azione congiunta, in una situazione di compresenza degli attori e

durante una esecuzione complementare di un compito. Contrariamente ad una

86

predizione che riguarda eventi a lungo termine (chi comprerà la vernice per

dipingere la casa tra due imbianchini) il processo che si vuole chiarire è la

generazione di aspettative sui risultati dell'azione in presa diretta (come quando il

partner di un duetto suonerà la prossima nota). Il common coding, in sé, postula

che osservare un'azione attiva una corrispondente rappresentazione di questa

nell'osservatore. Così c'è una saldatura a livello degli scopi dell'azione. Perché la

simulazione comprenda anche l'elemento temporale, si devono postulare

meccanismi che permettano di applicare predizioni temporali, generate nel nostro

sistema motorio.

Secondo le teorie correnti del controllo motorio, si generano precise predizioni

temporali sulle conseguenze sensoriali delle nostre azioni ogni volta che noi

pianifichiamo di muoverci. (Wolpert & Ghahramani, 2000, Wolpert et al 2003).

Se le nostre azioni si svolgono come pianificate, le conseguenze sensoriali reali e

quelle predette coincidono, sfociando nel fenomeno conosciuto come " sensory

cancellation" una neutralizzazione degli effetti attesi (Questo è il motivo per il

quale noi non possiamo farci il solletico da soli).

In uno studio di Sato (2008) che fornisce supporto alle tesi che sostengono che gli

individui siano capaci di anticipare il futuro corso delle azioni altrui (Graf et al.

2007;Wilson and Knoblich, 2005), i partecipanti percepiscono una nota in modo

meno intenso quando hanno premuto il tasto che la genera, piuttosto che quando

ascoltano la nota, improvvisamente suonata da altri. Questo effetto di sensory

cancellation, si ritrova anche quando i partecipanti osservavano un'altra persona

premere un tasto e suonare. Così le note sembrano meno intense quando gli

osservatori hanno la possibilità di premere un tasto dimostrando che la sensory

cancellation si basa su accurate predizioni temporali.

Il meccanismo della predizione temporale fa affidamento sulla simulazione di

azione, a partire dalla propria esperienza motoria; in particolare è stato dimostrato

che siamo molto affidabili nel riconoscimento di patterns temporali

nell'osservazione di azioni. Un risultato sorprendente è stato raggiunto, ad

esempio, in un esperimento nel quale ad alcuni pianisti è stato chiesto di

87

riconoscere tracce registrate in precedenza della loro performance, basandosi su

patterns temporali (Repp & Knoblich 2001; Keller, Knoblich & Repp 2007). Essi

erano capaci di riconoscere la propria performance con pochi margini di errore. In

questa direzione si specula per sostenere che i modelli predittivi interni basati sul

proprio repertorio di azione, servono a generare predizioni per le proprie azioni e

allo stesso modo potrebbero predire il timing di quelle altrui.

Questi risultati delle ricerche sulle predizioni temporali si possono poi estendere

agli effetti congiunti delle reciproche azioni (Knoblich & Jordan 2003). Piuttosto

che simulare esattamente la parte di qualcun altro, è possibile che si generino

predizioni, in relazione alla propria performance e al fine da raggiungere. Si fa

affidamento alla propria capacità di rappresentare un timing dell'azione e si

rapporta questa verso un fine. Un'analogia che rende in modo efficace questo

meccanismo è l'apprendimento del windsurf. Quando si impara ad andare su una

tavola, si impara a bilanciarsi su questa e a tenere la vela in modo da mettere in

conto possibili repentini cambi di vento. Non si deve imparare tutto su specifici

cambi di vento o di onde ma imparare a controllare il proprio corpo affinché si

raggiungano differenti scopi. Allo stesso modo, quando agiamo con un'altra

persona, si impara a predire e regolare il timing delle proprie azioni, cosicché esse

possano accordarsi con quelle di qualcun'altro e focalizzare le conseguenze degli

sforzi combinati. Così, piuttosto che acquisire uno specifico modello sull'azione

altrui, si acquisisce, forse, un modello per muoversi con gli altri. Nella linea di

ricerca che sto perseguendo, credo che l'acquisizione di un modello interno

predittivo che supporta l'azione congiunta potrebbe funzionare allo stesso modo

sfruttando la nostra capacità di utilizzare i pattern temporali per predire gli effetti

delle azioni. I meccanismi di predizione che la teoria fornisce, dimostrano come le

rappresentazioni e le predizioni non sono semplici simulazioni ma sono già

orientate verso un fine.

Ci sono molte prove che suggeriscono che le azioni sono predette in relazione

degli effetti che si vogliono ottenere (Prinz 1997) piuttosto che degli esatti

movimenti che bisogna fare. Gli effetti che si vogliono ottenere, attraverso la

88

coordinazione delle reciproche azioni probabilmente forniscono un "orizzonte di

pianificazione" sul quale sono comparati gli effetti delle azioni congiunte.

Questo rende molto importante il momento della ricognizione degli errori durante

la performance che deve essere eseguita. Gli errori si notano di più se accadono al

livello degli effetti intesi congiuntamente piuttosto che se occorrono a livello

dell'azione individuale. Per esempio, se un musicista in un gruppo suona una nota

sbagliata, potrebbe non esserne del tutto cosciente se la totalità della musica

prodotta è conforma a come doveva essere eseguita.30

Le azioni congiunte, poi, avvengono in uno spazio fisico e questo solleva molte

questioni su come i co-attori possano organizzare questo spazio comune. In linea

con il tema del common coding e quindi di un meccanismo di simulazione

d'azione sul proprio repertorio d'azione, si può speculare sulla predizione di

caratteristiche spaziali di altri (Erlhagen & Jancke, 2004; Jordan & Hunsiger,

2008). Condividere uno spazio vuol dire che un attore deve fare predizioni sia su

dove l'altro si sta muovendo sia su dove gli oggetti, sui quali si agisce, finiranno.

In termini concettuali, sembra che simulare l'azione di un altro possa aiutarci a

predire dove egli si muoverà. Se un ballerino vede il partner che compie un

particolare salto, egli sarà in grado di generare una predizione sul punto in cui

ricadrà basandosi sulla comprensione del tipo di salto. Così come le simulazioni in

tempo reale possono essere usate per predire la tempistica, allora forse è possibile

usarle per predire lo svolgimento del movimento degli altri nello spazio. Evidenze

empiriche in questo senso sono scarse e le speculazioni sono quindi molto aperte.

Abbiamo invece qualche evidenza da esperimenti, nei quali individui devono

predire la posizione di arrivo di oggetti lanciati; i risultati suggerirebbero l'idea

che la simulazione di azione supporti la predizione sul luogo di caduta degli

oggetti (Knoblich & Flach, 2001). E' stato mostrato che avendo visto soltanto la

parte iniziale del lancio, i partecipanti possono predire la posizione di atterraggio

30 Sfortunatamente non c'è sufficiente mole di lavoro che riguarda il ruolo delle simulazioni parallele e i modelli di azione congiunta; è possibile che questi processi abbiano luogo in situazioni differenti e a livelli differenti ma che lavorino insieme.

89

in maniera più accurata, quando vedono un video delle loro azioni precedenti

piuttosto che quando vedono un video che ritrae lanci effettuati da altri altre

persone. Questo dimostrerebbe che la predizione recluta il sistema motorio

dell'osservatore. Maggiore è il nesso tra il sistema che percepisce l'azione e il

sistema che la compie, maggiormente accurata sarà la predizione sulla

destinazione dell'oggetto.

4.4 Co-rappresentare

Nel presente scenario, tuttavia, l'acquisizione più importante riguarda l'idea che i

meccanismi che fondano un dominio rappresentazionale comune, possano

generare un modo proprio di rappresentare i movimenti e i compiti dei co-attori,

un modo specifico che avviene soltanto nell'interazione. Se è così, questo diventa

rilevante ai fini di comprendere il processo e i meccanismi che ci permettono di

condividere le intenzioni. Questi processi suggeriscono che ci sia una modalità di

cognizione dedicata, che si manifesta nell'interazione e ha radici in domini

rappresentazionali più profondi. E' questa ipotesi che deve essere ulteriormente

approfondita.

Abbiamo visto che la common coding theory (Prinz 1997) postula un'interfaccia

tra la percezione e l'azione, così che la percezione di un'azione porta

all'attivazione di una corrispondente rappresentazione d'azione nel sistema

dell'osservatore. Se applichiamo questo principio alle azioni congiunte, otteniamo

l'interessante ipotesi che le azioni degli altri vengono codificate a partire dal

repertorio d'azione dell'osservatore.

Nei casi molto semplici, è possibile che l'agente rappresenti solamente il proprio

compito. In molti altri casi, però, è necessario che l'agente rappresenti il compito

altrui (Sebanz et al 2006; Sebanz & Knoblich 2009; Vesper et al 2010, Sebanz &

Butterfill 2011). Uno dei modi più importanti in cui il "common coding"

contribuisce, quindi, alla spiegazione di come l'intenzionalità abbia un ruolo nella

spiegazione dell'azione congiunta è attraverso il meccanismo della

90

rappresentazione del compito condiviso, in un contesto di azione congiunta.

Questo è il meccanismo che intercetta il legame tra gli agenti che prendono parte

ad un'azione congiunta. Scienziati cognitivi hanno cominciato a distribuire

compiti tra co-attori per investigare se gli individui formano rappresentazioni

simili dei compiti, sia quando essi sono condivisi sia quando sono compiuti in

solitario (Atmaca, Sebanz, & Prinz, 2003, 2005; Tsai, Kuo, Jing, Hung & Tzeng,

2006). Ne è nata l'espressione "shared task representation" riferita all'idea che

durante la performance di un compito condiviso, ogni co-attore non soltanto

rappresenta la propria parte ma la parte che deve essere portata a termine dal suo

co-attore.

In uno studio (Sebanz, Knoblich & Prinz, 2003) è stato mostrato, attraverso una

variante di un compatibility task (Simon1990) che due partecipanti che

condividono l'esecuzione di un compito, mostrano gli stessi effetti di compatibilità

mostrati da un singolo partecipante che esegue lo stesso compito. Lo studio è stato

fatto con un singolo partecipante e con due partecipanti. Nella versione con un

solo partecipante si rispondeva al colore di un anello, che era mostrato sul dito

indice di una mano puntata verso il soggetto. Un colore richiedeva di premere un

tasto sinistro e un altro colore, il pulsante destro. In aggiunta a ciò, la mano

puntava o a destra o a sinistra. Sebbene la direzione nella quale la mano indicava

fosse irrilevante per il compito, i partecipanti hanno risposto più velocemente con

il tasto sinistro a stimoli che puntavano a sinistra piuttosto che a stimoli che

puntavano a destra e viceversa. Questo effetto di compatibilità spaziale avviene

perché lo "stimolo spaziale", attiva automaticamente l'azione corrispondente. Se lo

stimolo rilevante "colore" richiede l'azione opposta, allora si forma un'interferenza

tra due rappresentazioni d'azione concorrenti. Nella condizione sottoposta a

verifica e cioè nella condizione nella quale il compito era diviso tra co-attori, ogni

individuo rispondeva soltanto ad un colore tra due, usando soltanto un tasto.

Sebbene i partecipanti eseguissero soltanto la metà del compito, essi mostrarono

un effetto di compatibilità spaziale simile a quello registrato nell'azione compiuta

da un singolo individuo. Al contrario, non si è registrato un effetto di

91

compatibilità quando i partecipanti eseguivano metà del compito da soli (senza un

co-attore) Questo è sorprendente perché il compito era lo stesso sia nell'ultima

condizione sia in quella congiunta. Come è possibile spiegarlo? Nella condizione

individuale (un singolo che compie metà del compito) è stata rappresentata solo

un'azione e così non si è registrato conflitto. Nella condizione, invece, in cui due

individui hanno agito in maniera congiunta, l'azione alternativa sotto il controllo

dell'altro individuo è stata co-rappresentata come se fosse parte del proprio

compito.

Questi risultati sono stati replicati in uno studio in cui i partecipanti hanno risposto

a numeri pari e dispari con la pressione dei tasti destro o sinistro (Atmaca, Sebanz,

Prinz, e Knoblich, 2008). I numeri variavano da 2 a 9 e la grandezza del numero

era sempre irrilevante. E' ben noto che quando gli individui eseguono il compito

soli, come un compito a due scelte, la pressione dei tasti a sinistra è più veloce in

risposta a numeri piccoli e le pressioni dei tasti a destra è più veloce per i numero

più grandi. Questo effetto di grandezza del numero sui giudizi (il cosiddetta

Effetto "SNARC") è stato spiegato con l'ipotesi che la percezione di numeri attiva

automaticamente una rappresentazione della grandezza su una linea numerica

mentale che va da sinistra verso destra (Dehaene, 1997). Atmaca e colleghi hanno

dimostrato che lo stesso effetto si verifica quando due persone siedono una

accanto all'altra e eseguono il compito insieme, in modo tale che uno risponde

solo a numeri pari e l'altro soltanto a numeri dispari. Il partecipante seduto a

sinistra era più veloce nel rispondere a numeri di piccola entità, e il partecipante

seduto a destra era stato più veloce nel rispondere a grandi numeri. Questo

suggerisce che, come nel compito di compatibilità sopra descritto, i partecipanti

rappresentavano la propria azione alternativa in relazione alle azioni del co-attore.

Gli effetti della co-rappresentazione suggeriscono, quindi, che quando gli

individui compiono parti differenti di uno stesso compito, essi tendono a

rappresentare l'intero compito, anziché la propria parte. Le azioni del co-attore

sono rappresentate in modo simile al repertorio di azioni a propria disposizione.

92

Se le azioni che si eseguono e le azioni che si osservano in altri sono rappresentate

in un modo funzionalmente equivalente, ciò fornisce una piattaforma di

integrazione per l'esecuzione di attività congiunte.

Un'implicazione, che segue da questo punto di vista, è che condividere un compito

dovrebbe essere molto simile a eseguirlo in proprio, almeno quando azioni

complementari sono distribuite tra due persone. Simulare e rappresentare sono il

primo passo per diminuire i tempi di risposta.

Indagando sulla co-rappresentazione, tuttavia, si è visto che sapendo qual è il

compito di un altro, conoscendo, cioè, le circostanze dello stimolo-risposta di quel

compito si può predire che cosa, probabilmente, si farà. Evidenze empiriche

mostrano che quando il soggetto sa mappare gli stimoli-risposta propri e del co-

agente, genera una rappresentazione accurata della sequenza d'azione e di risposta

appropriata, prima dell'osservazione dell'azione (Kilner e al 2004; van Schie et al

2004).

Come si vede in uno studio di Hollander (Hollander et al 2011), si può rinvenire,

"un potenziale di prontezza lateralizzato", che riflette un'attivazione di aree

motorie contro-laterali che rispondono alla mano, non solo quando i partecipanti

si preparano ad agire, ma anche quando anticipano l'azione del partner. Questo

studio rivela che l'attivazione motoria, quando è il turno del co-agente, risponde

alla preparazione del partecipante ad agire e indica che il partecipante simula,

effettuando l'azione che dovrebbe essere fatta dal coattore. Le rappresentazioni

congiunte dei compiti, quindi, permettono di estendere l'orizzonte temporale della

pianificazione e rendono possibile anticipare le azioni future degli altri e

prepararsi per questo scopo.

(Sebanz & Milanese 2010).

La rappresentazione di compiti condivisi, infatti, ha effetti sul controllo

dell'azione. Un caso significativo e importante è il rinvenimento degli errori.

Effetti delle rappresentazioni di attività condivise sul controllo dell'azione sono

stati dimostrati da studi che hanno valutato l'osservazione di errori (Bates, Patel,&

Liddle, 2005; Schuch & Ribaltabile, 2007; van Schie, Marte, Coles, &Bekkering,

93

2004). Per studiare se processi inibitori simili si verificano nella persona che sta

cercando di fermare un'azione e in un osservatore, che guarda il suo co-attore

interrompere un'azione, Schuch e Tipper (2007) hanno chiesto ai partecipanti di

rispondere ai targets il più rapidamente possibile, ma di fermarsi se si fosse

presentato un segnale di arresto poco dopo il target. E' ben noto che i partecipanti

rispondono più lentamente nella prova a seguito di un segnale di arresto, sia se

hanno correttamente arrestato l'azione sia se hanno fatto un errore. I risultati

hanno mostrato che i partecipanti non erano solo più lenti dopo che l'azione si era

interrotta o avevano commesso un errore essi stessi, ma anche dopo che il loro co-

attore lo aveva fatto. Questo indica che i processi di controllo per governare le

proprie azioni sono attivi anche durante la prestazione di un coattore, anche se la

performance del co-attore è irrilevante per il proprio compito.

Evidenze elettrofisiologiche suggeriscono che agire insieme richiede l'assunzione

di processi di controllo per garantire che uno non agisca quando è il turno

dell'altro. Un potenziale positivo correlato all'evento che si verifica 300-500 ms

dopo lo stimolo è significativamente più pronunciato quando i partecipanti hanno

necessità di inibire la loro azione, perché è il turno del coattore rispetto a quando

avevano bisogno di inibire l'azione, perché nessuno doveva agire (De Bruijn,

Miedl, e Bekkering, 2008;. Sebanz, Knoblich, et al,2006; Tsai et al, 2006).

Nello studio sul joint flanker effect, riportato da Amaca, Knoblich, Sebanz, (2011)

si dimostra che la co-rappresentazione non è riferita soltanto ai compiti che

presuppongono una mappatura arbitraria dello stimolo risposta. Lo studio

suggerisce che la ToM gioca un ruolo nella co-rappresentazione. Affinché, infatti,

abbia luogo una co-rappresentazione è cruciale che gli individui percepiscano i

co-attori come agenti intenzionali. I partecipanti non mostrano un joint flanker

effect quando le azioni dei loro co-attori sono controllati da una macchina,

indicando che solo compiti di agenti intenzionali sono co-rappresentati.

Recentemente gli studi su questo meccanismo di condivisione hanno sottoposto ad

indagine il tipo di rappresentazione che si genera, cercando di comprendere se i

partecipanti che si impegnano nell'esecuzione di un compito comune possono

94

avere un senso della loro agency condivisa. Uno studio molto importante, in

questo senso è quello condotto nel 2013 da un gruppo di ricerca (Wenke, Atmaca,

Hollander Prinz, 2013) nel quale si sostiene che la co-rappresentazione, nella

condivisione un compito, così come avviene durante una joint action, deve essere

intesa come un meccanismo rivolto a identificare che vi sia un altro attore che

deve compiere un'azione e quando costui deve intervenire nell'azione. Lo studio

introduce una nuova componente molto interessante ai fini della nostra ricerca la

agent identification. Le interferenze registrate durante la condivisione di un

compito, sarebbero dovute al problema di un'identificazione dell'agente e del suo

tempo di azione. Dal punto di vista della presente ricerca, il punto importante è

che durante i compiti condivisi, non ci si focalizza soltanto su come il co-attore

risponderà ad alcuni stimoli ma sul riconoscimento del fatto che un altro attore è

responsabile per l'esecuzione della propria parte del compito.

Per riassumere, prove comportamentali, elettrofisiologiche e prove ottenute

attraverso Brain Imaging evidenziano che gli esseri umani rappresentano non solo

i propri compiti, ma anche quelli dei partners. Come abbiamo visto, se gli agenti

rappresentano compiti degli altri non dipende dal fatto che è necessario, per

svolgere i propri compiti in modo efficace, percepire sempre direttamente i co-

attori, ma dipende dal credere che l'altro compito è effettuato da un agente

piuttosto che da un algoritmo, e in alcuni casi, dipende dal fatto che gli agenti

agiscano in uno spazio peri-personale. Se è difficile, attualmente, specificare

completamente un modello dettagliato di come sorgono le rappresentazioni del

compito comune, ci sono molte prove, invece, sulla questione relativa ai loro

effetti . Rappresentare il compito del coattore significa inibire le proprie azioni

attraverso il proprio sistema motorio e diventare sensibili agli errori degli altri.

Così, le rappresentazioni di attività condivise realizzano il monitoraggio e la

pianificazione delle azioni comuni.

95

4.5 We representation e me- representation

Questi esperimenti suggeriscono che esiste un modo di rappresentare che è

specifico dell'interazione nella modalità del noi (una we-representation).

Rappresentando nella modalità del noi, la mia azione svolta come membro del

gruppo, mantengo distinto il mio contributo ma riesco a rappresentare il compito

comune e quello del co-attore. In altre parole in un'azione congiunta il contributo

individuale sarà guidato da una rappresentazione a livello individuale di ciò che

stiamo facendo insieme (un we-representation).

Infatti, secondo l'"effetto groop" descritto da Tsai, J.C. et al. (2011) la prestazione

individuale in un compito comune, varia a seconda che i partecipanti

rappresentano il loro compito come contributo a qualcosa che fa il gruppo

collettivamente o come qualcosa da eseguita dal singolo individuo ('me-

rappresentazione')

Il groop effect aggiunge qualcosa alla ricerca precedente (Sebanz, N. et al. 2003),

che sostiene che gli individui tendono a co- rappresentare l' azione degli altri

quando svolgono compiti con altri. L'esperimento sul Groop - effect esplora la

possibilità che il rapporto azione - percezione negli individui sia anche influenzato

dalla eventualità che essi si sentano parte di un gruppo. L'interpretazione

dell'esperimento sul groop effect ci dice che nella condizione congruente, il

partecipante e il coattore vedono due mani sinistre, che implicano due persone che

lavorano insieme, come loro. Nella condizione incongruente, vedono una mano

sinistra e una destra, che implica una persona che lavora da sola. Le prove che il

partecipante rappresenta l'attività come un contributo a qualcosa che il gruppo

svolge, o come qualcosa che deve essere eseguita dall'individuo da solo, vengono

dai risultati sul tempo di reazione del partecipante registrati in eventi congruenti e

incongruenti. I tempi di reazione sono più veloci nella condizione congruente

(senso di appartenenza al gruppo) " agire in gruppo", rispetto alla condizione

96

individuale incongruente, anche se, a livello individuale, il compito di rispondere

ai movimenti della mano destra sullo schermo è identico.

4.6 Sfondo e prospettiva del coattore

Affinché una persona capisca la sua parte come un contributo a qualcosa che

viene realizzato congiuntamente da tutti membri del gruppo, deve essere in grado

di co-rappresentare le azioni del proprio partner che interagisce, reale o potenziale

che sia, tenendo conto della sua prospettiva nella scena interattiva.

figura 1

In un esperimento sul background e la presa in considerazione della prospettiva

altrui, un attore è seduto a un tavolo con quattro tazze davanti a lui, due più vicine

e tre più lontane. Per lui, ogni tazza sul tavolo ha una affordance a essa associata

(Obhi, S.S. & Sebanz, N. 2011), che indica che è potenzialmente disponibile per

l'azione. Dal punto di vista dell'attore, le tazze 1 e 2 hanno un alta affordance,

perché sono alla sua portata, mentre la tazza 3 ha una bassa affordance, perché è

97

fuori portata. La presenza di un potenziale collaboratore, suscita co-

rappresentazioni, inducendo l'attore a prendere in considerazione la prospettiva

del coattore. La mappa per rappresentare le azioni a disposizione del 'gruppo' è

cambiata, in modo che la tazza 3 ora ha un alto affordance, perché è nella portata

del coattore (Costantini, M. et al. 2012) Per contro, tazza 2 ha ora una affordance

inferiore, dal momento che il coattore non può vederla. (Vedi figura 1)

3.7 La cognizione nel modo collettivo

Interpretando questi risultati, suggerisco che ci sia una modalità di cognizione

peculiare all'interazione di individui che si impegnano in un'azione congiunta.

L'idea centrale è che in questa modalità collettiva, gli agenti interagenti

condividono le loro menti per rappresentare il loro contributo all'azione congiunta

nei termini di contributi a qualcosa che essi hanno intenzione di perseguire

insieme, "come un 'noi'. Secondo tale punto di vista, la cognizione nella modalità

congiunta non implica che gli individui hanno rappresentazioni mentali del loro

compito con la stesso, o simile contenuto, o una specifica rappresentazione dello

'stare insieme', o del noi. Rappresentare le cose in una modalità collettiva significa

interagire con individui che a livello individuale specificano il contenuto delle

loro azioni rappresentando aspetti della scena interattiva in un atteggiamento

psicologico distinto di intendere-insieme, credere-insieme, desiderare-insieme.

Ciò equivale a dire che due agenti capiscono quello che fanno nei termini di fare

la propria parte, come contributo al loro fare insieme.

Tuttavia, affinché una persona capisca la sua parte come un contributo a qualcosa

che viene realizzato congiuntamente da tutti i membri del gruppo, deve essere in

grado di co-rappresentare le azioni dei partners che interagiscono reali o potenziali

che siano tenendo conto della loro prospettiva nella scena interattiva.

Questo rende più facile intendere, in termini generali, come le rappresentazioni

del compito comune possono facilitare l'azione congiunta. Rappresentando i

98

compiti dei coattori, gli agenti possono coordinare le loro azioni e prevedere il

loro esito congiunto perché hanno uno strumento per monitorare e pianificare.

I contorni della condivisione diventano più chiari, se consideriamo che c'è un

meccanismo che ci permette di regolare il senso di far la propria parte con

qualcuno in un'azione verso uno scopo. Tutti gli approcci filosofici, infatti, dai

riduzionisti ai non riduzionisti, si affidano a intuizioni per descrivere quel senso di

agire in comune che caratterizza le azioni congiunte. In questo senso, invece

ritroviamo un meccanismo concreto che potrebbe fungere da ipotesi esplicativa.

99

Capitolo quinto

Modi intenzionali collettivi irriducibiliUn nuovo approccio alle we-intention.

5.1 Noi ci riferiamo, noi rappresentiamo, noi agiamo. Modalità del we-

cognize

L'idea centrale che abbiamo guadagnato dall'analisi dei precedenti scenari,

soprattutto attraverso l'identificazione di meccanismi cognitivi specifici che

sostengono le azioni congiunte, è che gli individui rappresentano i propri

contributi all'azione congiunta come contributi a qualcosa che essi stanno

perseguendo insieme, in quanto gruppo, come un "noi". Rappresentare in questa

disposizione significa per gli agenti che interagiscono, guadagnare aspetti della

scena interattiva in una distinta attitudine psicologica a intendere insieme, a

credere insieme, a desiderare insieme e far di questi il contenuto dell'azione

singolare. (Tomasello 2009; Sebanz 2003 Sebanz et Tai 2006). Secondo i risultati

che abbiamo illustrato ciò non implica che gli individui abbiano le stesse

rappresentazioni mentali del compito, che abbiano un contenuto uguale oppure

che abbiano una specifica rappresentazione del loro essere insieme o del loro

essere "un noi", significa piuttosto che l'attitudine singolare proviene da una

rappresentazione che non potrebbe aver luogo se non si fosse coinvolti in

un'interazione. Questo ha delle conseguenze sul modo nel quale si concepisce la

cognizione sociale.31

31 Con cognizione sociale si intende l'insieme dei processi che sostengono la comprensione degli altri, e l'interazione con loro. Teorie della cognizione sociale riflettono modi diversi di pensare la natura della cognizione umana, in termini di processi individuali: come la simulazione o la teoria della teoria (o entrambi) e/o di processi relazionali tra organismo e il suo ambiente.

100

Nell'economia del presente lavoro, sono stati scelti e analizzati alcuni esempi, che

rappresentano una modalità di cognizione sociale che si manifesta nell'interazione

con altri individui, nella forma di un riferimento comune o nella forma di una co-

rappresentazione dei contributi altrui in un compito condiviso. In questa modalità,

l'azione singolare di un membro del gruppo è guidata da una rappresentazione di

livello individuale di ciò che noi stiamo facendo congiuntamente (una we-

representation). Per averne un'idea intuitiva, richiamiamo alla memoria

brevemente due meccanismi analizzati. Affinché gli agenti possano intendere la

propria parte come contributo a qualcosa che è ottenuto congiuntamente da tutti i

membri del gruppo, gli agenti sono in grado di co-rappresentare le azioni dei loro

reali o potenziali co-attori, tenendo in considerazione le loro prospettive della

scena interattiva (Sebanz, N. et al. 2003) Secondo il "GROOP effect" (Tsai, J.C. et

al. 2011), la prestazione individuale, in un compito congiunto varia in base al fatto

che i partecipanti rappresentano i loro compiti come contributi a qualcosa che

tutto il gruppo persegue o come qualcosa che è realizzato dal singolo agente (me-

representation). Come abbiamo ricostruito (Cap IV §), co-rappresentare svolge

varie funzioni nell'azione congiunta, ad esempio, fornisce strutture di controllo e

monitoraggio dello svolgimento delle azioni, durante episodi di coordinazione in

tempo reale. (Obhi, S.S. and Sebanz, N. 2011 Knoblich, G. et al. 2011). Oltretutto,

ci sono le prove che gli individui registrano ciò che gli altri stanno facendo anche

di fronte alla mera presenza di altre persone, anche quando non è sicuro che

l'interazione avverrà e addirittura quando è possibile che questa interazione

rallenti la prestazione individuale.

5.2 La natura dell'intenzionalità condivisa: modi intenzionali plurali (we-

mode intentionality)

A questo punto dobbiamo chiederci che foggia prende l'intenzionalità condivisa

alla luce di queste acquisizioni.

101

In generale, i filosofi sono concordi nel ritenere che gli agenti devono avere stati

mentali, qua "intenzioni condivise", perché le azioni siano congiunte (Roth, A.S.

2011) ma sono in forte disaccordo sulle condizioni che permettono alle menti di

essere condivise. La disputa filosofica sulla natura delle intenzioni condivise, ora,

può essere letta alla luce degli scenari che abbiamo tracciato e dei meccanismi che

abbiamo ricostruito.

Per gli approcci riduzionisti32, le intenzioni condivise sono le intenzioni singolari

di un individuo e non differiscono da quelle impegnate nella pianificazione

dell'agire individuale33. Il senso di condivisione è realizzato attraverso una

particolare natura della struttura interdipendente delle intenzioni (Bratman 2002)

oppure attraverso il coinvolgimento di altri stati mentali, quali credenza e

desiderio. Alla luce di quanto abbiamo ricostruito, l’impostazione riduzionista non

sembra essere teoricamente la più adatta a essere armonizzata con i risultati

acquisiti. E' una visione individualista, che avalla un'idea "spettatoriale" (Hutto et

al 2010) della cognizione sociale degli individui e che diventa inadeguata, se si

assumono i risultati dell'apporto alla cognizione sociale, dei meccanismi di we-

mode-cognize che abbiamo ricostruito. L'approccio riduzionista prevede, infatti,

che l'individuo debba rappresentare la propria intenzione e le intenzioni altrui,

prima di impegnarsi in un'azione congiunta e che la condivisione possa avvenire

in un esercizio ricorsivo di "lettura della mente"; se volessimo tradurre questa

attitudine nei termini di una teoria cognitiva della mente, potremmo dire

l'approccio riduzionista partendo dalle intenzioni singolari, interpreta l'agente

come un mindreader osservatore.

Suggerisco, allora, che il problema con gli approcci riduzionisti all'intenzionalità

condivisa nasce dal sottostante modello della cognizione sociale. La visione da

spettatore della cognizione sociale che essi presuppongono, interpreta il

32 Bratman (1992), Miller e Tuomela (1998) sono gli esponenti principali di questa tendenza che riduce le intenzioni condivise a intenzioni individuali associate ad altre condizioni.33 Chant 2008 ha chiarito bene come gli approcci filosofici classici (Bratman Tuomela Gilbert) partono sempre da un analogia tra azione individuale e azione collettiva/intenzione individuale intenzione collettiva

102

comportamento degli agenti interagenti dalla prospettiva di un osservatore teorico,

che rappresenta il problema di decisione affrontato da questi per impegnarsi in

forme di azione congiunta dal punto di vista del soggetto singolare34.

Ed è proprio nell'architettura della struttura intenzionale, che segue la scelta di

mettere al centro le intenzioni individuali, che si ritrova l'obiettivo delle critiche

dei minimalisti: l'idea di rappresentazione che la loro concezione

dell'intenzionalità comporta è onerosa dal punto di vista cognitivo perché non

rende conto del fatto che quando si interagisce, gli agenti sembrano avere accesso

a maggiori informazioni sul comportamento dei loro partner di quanti ne

avrebbero ottenute come semplici osservatori, in un contesto sociale senza

corpo.35

Impegnandosi in un'azione congiunta quello che cambia è il modo in cui gli agenti

interagenti concepiscono il contesto e il loro ruolo, poiché le caratteristiche

contestuali della scena interattiva innescano rappresentazioni che non sono

disponibili al "teorico" (Hindriks, F. 2012). La modalità cognitiva (we cognize),

che specifica come conosciamo gli altri e il mondo, suggerisce che la

consapevolezza interpersonale non si raggiunge attraverso una ricorsiva lettura

delle menti ma attraverso un "incontro di menti". E' il senso dell'essere congiunto,

allora, che diventa la caratteristica più importante della psicologia del

comportamento collettivo.

La proposta di questo lavoro è che i processi di cognizione sociale che formano e

sostengono le “menti condivise” suggeriscono una visione filosofica

dell'intenzionalità condivisa, per la quale questi processi sono atteggiamenti

psicologici o "modi" irriducibili collettivi (We-mode intentionality). Questo si

accorda maggiormente con una visione generale di intenzionalità collettiva

34 Richiamiamo alla memoria il modello paradigmatico di Bratman. Per agire insieme, io devo intendere che tu indendi J e io devo intendere che tu devi intendere che tu armonizzi con me i piani di azione subordinati. La traduzione in termini cognitivi di questo schema è la necessità che il soggetto sappia attribuire al partner stati mentali di ordine superiore e che abbia capacità rappresentative e meta-rappresentative. Non è casuale se sorge il problema della iper-intelletualizzazione e la conseguente esclusione degli infanti dal fenomeno.3537 In tutti gli episodi di coordinazione emergente e pianificata

103

irriducibile, laddove l'irriducibilità è relativa ai modi e alle attitudini posseduti dal

soggetto agente. Gli stati mentali nuovi, che prendono forma durante l’interazione

sono modi psicologici o attitudini. Che cosa è un modo nella teoria

dell’intenzionalità?

Gli stati mentali intenzionali sono rappresentazioni caratterizzate dall'oggetto che

rappresentano (su cui vertono o sono diretti) e dalla forma aspettuale in cui

l'oggetto intenzionale appare al soggetto. Un modo è una caratteristica della

rappresentazione mentale che coglie la prospettiva del soggetto o il suo

atteggiamento verso l'oggetto intenzionale. Il modo della rappresentazione

mentale è una funzione aggiuntiva del contenuto mentale, che specifica se l'azione

degli individui è rappresentata come qualcosa che ogni persona si propone di

compiere individualmente o come qualcosa da compiere insieme con gli altri

(azione congiunta)36. Le intenzioni condivise possono essere pensate quindi come

modi irriducibilmente collettivi, non ulteriormente riducibili a intenzioni che

presiedono al comportamento individuale (I intention).37

Riassumendo, l'idea centrale è che il modello di cognizione sociale che supporta le

intenzioni irriducibili collettive, porta gli agenti interagenti a rappresentare il loro

contributo all'azione comune come un contributo a qualcosa che essi hanno

intenzione di perseguire insieme, in una modalità quindi diversa da quella

individuale. Mi riferirò a questi processi come processi che, essendo

intrinsecamente plurali, sono parti del meccanismo responsabile dell' "incontro' di

menti" che è essenziale per un'azione congiunta. Gli stati intenzionali sono da

intendere come modi psicologici irriducibili, che si manifestano nell'interazione e

36 L'uso del termine 'modo' non ha lo scopo di catturare la differenza tra i tipi di stati mentali intenzionali, o 'modi intenzionali', come credere, desiderare, immaginare, etc ma la prospettiva del soggetto.37 In questa sede irriducibile si riferisce al dibattito filosofico e quindi si contrappone alle intenzioni condivise riducibili concepite come le intenzioni individuali variamente combinate; in un altro senso le intenzioni collettive sono riducibili a meccanismi più elementari, che sono esattamente quelli che abbiamo descritto quando abbiamo ricostruito l'intenzionalità nell'ordie naturale.

104

hanno luogo nella mente individuale ma rappresentano il contenuto dell'azione

individuale come un contributo al compito condiviso.

I modi collettivi irriducibili non richiedono quel dispendio cognitivo che è la

causa dell'accusa di "inflazione intenzionale". Essi, infatti, sono

ontogeneticamente, una delle prime manifestazioni di socialità e sostengono

l’azione congiunta degli infanti. Essi, poi non richiedono che l’individuo formi

rappresentazioni degli stati mentali altrui, perché si basano sulla co-

rappresentazione. La co-rappresentazione è un fenomeno che si verifica quando

gli individui devono portare a termine un compito condiviso.

Essi, quindi, costituiscono una versione più “leggera” delle intenzioni condivise

che la tradizione filosofica ha proposto come candidato per spiegare come gli

individui si impegnino in forme di azione congiunta.

5.3 Intenzioni individuali e intenzioni collettive: scomponibilità.

Giova aggiungere una piccola postilla per evitare equivoci, dettati da una

sovrapposizione terminologica. In questo scenario, ci muoviamo all'interno del

dibattito filosofico, illuminato dalla luce di una circostanziata ricostruzione dei

meccanismi che permettono le interazioni sofisticate, come le azioni congiunte.

Nel dibattito filosofico, i contendenti candidati a spiegare la condivisione, sono,

da un lato, i sostenitori di una versione riduzionista delle intenzioni condivise, per

i quali queste sono da ridurre alle stesse intenzioni individuali che riscontriamo

nella pianificazione dell'agire individuale e dall'altro i sostenitori di una peculiare

forma di intenzioni condivise, che sostengono che esse siano intenzioni di tipo

collettivo. Nel presente lavoro si è presa in esame questa controversia alla luce di

alcuni processi che sono stati ricostruiti per descrivere l'intenzionalità in un ordine

naturale, soprattutto a partire dai meccanismi di cognizione sociale che

sostengono e formano queste intenzioni. Conseguentemente a questa impostazione

sono state le intenzioni condivise a essere sottoposte a un processo di

105

scomposizione, per vedere come in altri scenari interpretativi delle azioni

congiunte, esse potessero avere una plausibilità e come differenti approcci

potessero gettare luce sulla loro natura38. Il risultato è stato che le intenzioni

condivise sono peculiari modi intenzionali che non sono riducibili alle intenzioni

individuali., ma sono riducibili a processi e meccanismi che ne specificano la

peculiare natura.

L'obiezione potrebbe essere: tanto le intenzioni individuali che quelle collettive

sono entità complesse e stratificate a vari livelli. Quindi, in un certo senso, se non

si può costruire la nozione di intenzione collettiva a partire da quelle individuali, è

perché innanzitutto la nozione stessa di intenzione individuale va scomposta.

L’argomento che questo lavoro cerca di dimostrare tuttavia è che anche

analizzando i lavori già svolti o facendone uno ex novo che avessero al centro la

scomponibilità delle intenzioni individuali non avremmo ancora risolto il

problema di spiegare come gli individui si impegnano in forme di agire collettivo.

Quando gli individui agiscono insieme utilizzano e condividono peculiari modi

intenzionali irriducibili. Diverso è l’argomento per il quale questi modi peculiari

possono essere ridotti ad altri meccanismi studiati da altri filoni di ricerca.

Nel presente lavoro rimango neutrale39 rispetto ad una scomponibilità delle

intenzioni individuali. Siano esse semplici o un'entità complessa, non possono

costituire l'explanans che ci conduce a una spiegazione del fenomeno dell'agire

condiviso.

38 Da un punto di vista teorico, all'inizio della trattazione, sebbene si avessero delle intuizioni provenienti dall'analisi della letteratura, il punto di osservazione di questo lavoro era neutrale rispetto alle due prospettive. Dopo l'analisi degli apporti di altri filoni di ricerca empirica, sembra che si diano argomenti in favore di una natura irriducibile delle intenzioni collettive. Il punto di partenza era in ogni caso una nozione neutra di intenzione condivisa, perché questa è al centro del dibattito filosofico e questo genere di intenzionalità andava sottoposta ad analisi. L'analisi delle intenzioni individuali prescinde dagli scopi di questo lavoro perché in nessun approccio (neppure in Bratman 2002) è data, pleno iure, come spiegazione dell'agire congiunto39 Esiste e l'autore di questo lavoro ne è al corrente una fiorente letteratura sulla natura delle intenzioni individuali. Essa non è stata presa in esame perché il lavoro prescinde dalla semplicità o dalla natira stratificata delle intenzioni individuali.

106

Nel presente lavoro, poi, si cerca di determinare in che senso le intenzioni

individuali e quelle condivise hanno due nature differenti.

5.4 L'intenzionalità collettiva irriducibile dal punto di vista filosofico: Il

caso di Searle

Le intenzioni condivise, concepite come collettive e irriducibili, non sono nuove

alla letteratura filosofica. I precedenti filosofici più importanti sono la teoria

dell'intenzionalità collettiva di Searle (Searle 1990, 1995, 2010) e il tem reasoning

di Bacharach. Vi sono tuttavia dei problemi di natura teorica che questi approcci

non hanno risolto e che questo lavoro vorrebbe contribuire a risolvere. Descriverò,

allora alcune caratteristiche filosofiche salienti di questi approcci per chiarire

similitudini e differenze con questo lavoro e per avanzare proposte in direzione

della soluzione di talune aporie.

Searle (Searle 1990, 1995, 2010) è stato motivato a credere nell'irriducibilità

dell'intenzionalità collettiva dalla presunta incapacità degli approcci riduzionisti di

restituire il senso di collettività (Searle 1990). Un individualista egli stesso,

argomenta che l'analisi del comportamento collettivo non può essere basata su una

più elementare unità, in particolare il singolo stato mentale intenzionale degli

agenti, anche se integrato con la reciproca conoscenza o credenza, perché non c’è

niente nella struttura e nella logica degli stati intenzionali singolari che esprime

quel particolare senso dell’essere insieme che si esperisce quando si agisce

insieme. L'unico modo, secondo lui per spiegare la specificità del comportamento

intenzionale collettivo è riconoscere che i singoli agenti possono avere intenzioni

collettive e in particolare intenzioni collettive irriducibili. Le intenzioni collettive

non riducibili non devono postulare nulla oltre a loro stesse. Questo è il principale

punto di concordanza con l’analisi serleana. E’ quella che lo stesso Searle (1990)

definisce un’intuizione fondamentale. E infatti si tratta di un’intuizione, che

107

Searle motiva attraverso il ricorso al caso della Business school, che abbiamo

ricostruito nel primo capitolo di questo lavoro. Quanto alla precisa natura di

queste intenzioni, Searle è molto parco nelle analisi e in più testi si esprime spesso

sostenendo che le intenzioni collettive le (we-intention) sono un primitivo. Tale

evidenza di tipo biologico non è stata molto analizzata da Searle, che si limita a

dire che essa è presente negli uomini e in molti animali ed è spiegabile in base alla

selezione naturale.

Nelle intenzioni collettive non c’è qualcosa di speciale rispetto al soggetto che ne

è portatore. L'intenzionalità collettiva non consiste in un pensiero di gruppo e non

esiste una mente di gruppo che è portatrice delle rilevante intenzione collettiva.

Secondo Searle non c’è nemmeno qualcosa di speciale nel contenuto delle

intenzioni collettive. Egli sostiene che il tratto distintivo delle intenzioni collettive

non consiste nel fatto che esse hanno lo stesso contenuto. Per esempio,

supponiamo che due agenti abbiano l'intenzione collettiva nella forma "noi faremo

X". Secondo Searle ciascuno ha un distinto token dell'intenzione collettiva: le

persone, che intendono suonare un duetto insieme, possono intendere l'obiettivo

delle loro azioni in diverso modo e agire, tuttavia, verso l'obiettivo generale di

suonare un duetto insieme (Searle 2010). Se non c’è niente di speciale nel

soggetto portatore né nel contenuto qual è la caratteristica saliente delle intenzioni

collettive? La caratteristica saliente è un tratto psicologico distintivo (Searle 1997)

per il quale esse sono stati mentali singolari espressi nella forma plurale. Per gli

individui, pensare e agire come un gruppo significa vedere insieme, pensare

insieme, percepire insieme, credere insieme, e così via, l'obiettivo dell'attività

condivisa.

Le analisi di Searle (Searle 1983 Searle 1990) supportano la visione che le

intenzioni che conosciamo sono stati mentali dell'individuo. Se tu ed io siamo

impegnati in un'attività congiunta, non diremo: io intendo che noi J, dando

l'impressione di determinare l'agire di qualcun altro ma diremo "noi intendiamo

che g" in una modalità psicologica che esprime il senso della congiunzione.

108

In questo lavoro concordo con Searle nel concepire le intenzioni collettive come

proprietà psicologiche che sono patrimonio del soggetto individuale ma che

esprimono una particolare attitudine plurale. Si può dire, quindi, che in questo

lavoro si condividono due intuizioni fondamentali dell’analisi serleana:

l’intuizione delle intenzioni collettive irriducibili, una particolare forma della

pretesa di individualità dell’intenzionalità. Quel che differenzia le analisi è la

mancanza nella struttura argomentativa di Searle di una qualche forma i

giustificazione o di argomentazione che non sia una petizione di principio in

favore della natura primitiva di queste intenzioni. Non si può, infatti, prescindere

da questo requisito, quando si analizza la posizione di Searle. Secondo il suo

approccio le intenzioni collettive sono un fatto primitivo della biologia che non

hanno necessità di un'ulteriore giustificazione.

C’è un altro tratto importante dell’analisi di Searle che lo avvicina al presente

lavoro e ha a che fare con la dimensione della cooperazione. La struttura delle

intenzioni collettive, così come sono concepite da Searle, deve catturare la

nozione di cooperazione. Secondo Searle, al fine di spiegare il carattere

cooperativo delle intenzioni collettive, dobbiamo fare appello alle capacità di

"Sfondo". Ciò che l'intenzionalità presuppone è "un senso dell'altro come un

candidato per l'agire cooperativo; cioè, presuppone un senso degli altri come più

di semplici agenti consapevoli, anzi come reali o potenziali membri di una attività

di cooperazione "(1990 : 414 ). Ora, le capacità di sfondo, secondo Searle, non

sono rappresentative. Piuttosto, sono un insieme di capacità pre-intenzionali che

permettono agli stati intenzionali di funzionare. In altre parole, essi sembrano

essere fenomeni biologici o fenomeni neurofisiologici piuttosto che fenomeni

intenzionali40. Serle, quindi, sembra essersi dotato di uno strumento, lo sfondo,

che gli consente di rendere bene il carattere di cooperazione che esiste tra il livello

intenzionale e il livello pre-intenzionale. Se abbiamo presente le dispute tra

40 Questa è in realtà una proposta di alcuni critici di Serle (Pacheri 2005; Tollefsen, 2005) perché in nessun luogo egli approfondisce la natura dello sfondo con argomenti tratti dalla biologia o dalle neuroscienze.

109

filosofi e psicologi e il gap delle loro spiegazioni, possiamo arguire che lo sfondo

costituisce un interessante caso di ammissione dell’importanza del livello non

intenzionale nella spiegazione dell’agire condiviso. Certo questo ha suscitato

qualche critica. Come Fisette ( Fisette 1997) sottolinea, tracciando una linea tra il

regno dell' intenzionale e lo sfondo e considerando la dimensione di fatto della

cooperazione come parte dello sfondo, Searle riconosce che non la si può spiegare

totalmente in termini intenzionali. E tuttavia secondo la nostra prospettiva questa

articolazione rende quindi molto bene l'alternanza tra fenomeni intenzionali e

fenomeni non intenzionali Secondo quello che stiamo sostenendo in questo

lavoro, la capacità di cooperazione può dipendere in parte da alcune capacità

biologiche non intenzionali, e per altri versi penso che possa essere interpretata in

termini intenzionali.

5.5 Irriducibilità epistemica o ontologica.

Fin qui abbiamo tracciato gli elementi che accomunano questo lavoro con la

proposta di Searle, ci concentreremo adesso su che cosa differenzia i due approcci.

Avversando i filosofi che sostengono che gli stati intenzionali collettivi possono

essere ridotti alle loro intenzioni singolari e alle loro interrelazioni, ho sostenuto

che abbiamo bisogno di postulare un concetto irriducibilmente collettivo per

catturare il senso di we-ness. Intendo argomentare che l'interpretazione serleana

della tesi di irriducibilità è stata epistemica, in altre parole Searle è partito dalla

domanda su come noi descriviamo, concettualizziamo, inferiamo

sull'intenzionalità collettiva. Ed è una domanda che egli ha per lo più affrontato

per mezzo di analisi del linguaggio ordinario, che mirano a stabilire le condizioni

a priori, prive di eccezioni e intuitivamente accettabili, per la riduzione dei

concetti di socialità alle loro componenti mentali. Nell'approccio di J. Searle

(1990, 1995, 2010), l'intenzionalità collettiva è intesa come un "fenomeno

biologico primitivo che non può essere eliminato o ridotto a qualcos'altro" (1995,

110

24) ma non troviamo nessun argomento per giustificare il fatto che l'intenzionalità

collettiva sia presa come un fenomeno biologico. Sebbene Searle si professi

naturalista, in linea di principio, non ha mai perseguito questa linea di ricerca in

pratica.

In questo lavoro, io argomento che la questione dell'irriducibilità non può essere

analizzata soltanto sulla base dell'analisi logica e dell'intuizione. Questa

impostazione chiama in causa questioni ontologiche per comprendere se

l'intenzionalità collettiva sia reale (appartenga alla realtà che noi abitiamo).

Determinare se l'intenzionalità collettiva abbia un referente nella realtà o sia

un'espressione metaforica, non è operazione da realizzare producendo nuovi

argomenti concettuali. Abbiamo dovuto interrogarci su cosa voglia dire

condivisione e abbiamo dovuto richiedere uno scrutinio scientifico.

Il punto di partenza è che e' difficile stabilire, infatti, se un resoconto filosofico

possa guadagnare sufficiente forza argomentativa, per aggiudicarsi il punto nel

dibattito sulle condizioni alle quali gli stati mentali possono dirsi condivisi, poiché

filosofi delle scuole avversarie, potrebbero coltivare autenticamente contrastanti

intuizioni sul concetto di intenzionalità collettiva.Si potrebbe sostenere che questo

è il motivo per cui il dibattito filosofico sulla struttura degli stati intenzionali

collettivi è in stallo. L'argomento proviene da quelli che di solito guardano con

sospetto a teorie che sono esplicitamente costruite su nozioni irriducibili o

primitive. In questo senso non è accettabile che si dica che l'intenzionalità

collettiva è un primitivo. Certo si potrebbero contrastare le critiche con una

considerazione sul significato di "primitivo". In generale, l'affermazione che una

caratteristica è un primitivo in un dominio, significa che non può essere spiegato

in termini di semplici costitutivi dello stesso dominio di definizione. Primitivo

non significa, tuttavia, che a un predicato intenzionale non possa essere data una

spiegazione riduttiva in un altro framework teorico Così, il punto che

l'intenzionalità collettiva è primitiva non equivarrebbe a dire che non è riducibile a

qualsiasi livello di spiegazione. Approcci che postulano un senso primitivo di we-

ness, nella mente dei soggetti coinvolti in un'azione congiunta, sono rilevanti per

111

l'analisi di concetti sociali ordinari dell'ontologia sociale, che sono

tradizionalmente formulati nello schema della folk-psychology. Al di fuori di

questo contesto, potrebbe anche essere plausibile che il senso di intenzionalità

collettiva ammetta una spiegazione riduttiva.

Esiste, tuttavia, una migliore risposta agli scettici sulla tesi dell'irriducibilità. Io

sostengo, che la posizione di Searle è limitata perché conduce a un'interpretazione

fuorviante della tesi di irriducibilità.

Concentrandosi principalmente sulla struttura logica degli stati intenzionali

collettivi - che cosa significa per le persone pensare e agire nella modalità del noi-

gli argomenti filosofici serleani spesso slittano nella descrizione della natura

dell'intenzionalità collettiva. Ma se il suo obiettivo era la natura dei predicati

intenzionali, la questione chiave avrebbe dovuto essere quali condizioni rendono

quei predicati veri, per il mondo in cui viviamo. Nel descrivere il pensiero nella

modalità del noi, come (epistemicamente) primitivo, Searle ha inteso abbastanza

pacificamente suggerire che esso potrebbe essere sostenuto da una capacità che

non è riducibile all'intenzionalità individuale.

Che cosa significa per una capacità, o meccanismo, essere irriducibile?

Per chiarire la questione, torniamo alla pretesa di irriducibilità di Searle.

Notoriamente, Searle non si riferisce solo ad una forma irriducibile e collettiva,

egli definisce anche l'intenzionalità collettiva come una forma di vita mentale

biologicamente primitiva. Ma questo presuppone un diverso senso di

irriducibilità: se "primitivo" e "irriducibile" vengono utilizzati con lo stesso

significato epistemico, intendendo che l'intenzionalità collettiva non può essere

scomposta nei concetti che usiamo per capire l'intenzionalità individuale, in

questo caso "primitivo" si presenta come attributo di una putativa capacità

biologica.

Secondo questa linea di argomentazione, la tesi dell'irriducibilità dovrebbe essere

ontologica e non epistemica, riguarda le condizioni di esistenza e di identità,

piuttosto che di conoscenza degli stati collettivi. Quindi, l'argomento che vi sia

una differenza nella modalità, tra predicati intenzionali alla prima persona plurale

112

e quelli alla prima persona singolare, si deve trasformare nell'idea che una tale

differenza ha le sue radici in meccanismi cognitivi reali.

La mancata esplicita distinzione tra irriducibilità epistemica e ontologica ha

portato una notevole confusione, circa il metodo migliore per affrontare le due

questioni. Questa confusione è ancora più chiara quando si tratta di valutare sia le

debolezze dell'approccio ontologico di Searle, sia l'inadeguatezza delle critiche al

suo modo sostenere l'irriducibilità ontologica dell'intenzionalità collettiva. In

realtà, da uno strenuo difensore del "naturalismo biologico" (Searle 1983, 2007) ci

si aspetterebbe l'argomento che soltanto una teoria scientifica e la sua pratica

possano fornire una risposta affidabile a quale sia la natura dell'intenzionalità

collettiva; ci si aspetterebbe che Searle si riferisse al linguaggio scientifico e alla

ricerca empirica ma egli ha optato, sorprendentemente, per un'altra strategia

argomentativa. La realtà biologica dell'intenzionalità collettiva è presentata

piuttosto come un fatto auto-evidente, che trova il suo posto accanto all'argomento

epistemico che gli stati intenzionali collettivi non possono essere ridotti o

eliminati in favore di qualcos'altro.

Tuttavia, il fatto che l'intenzionalità collettiva sia irriducibile a quella individuale

in termini epistemici non è una prova che si tratti di un primitivo, cioè un bruto

fatto della mente. In altre parole, quando diciamo che un'entità è ridotta a un altra,

la prima può essere spiegata nei termini di quest'ultima, proprio perché le due

sono ontologicamente la stessa cosa. Continuiamo a riferirci alle due entità come

se fossero distinte, quando in realtà sono una e una sola cosa. Ma rendere una cosa

più comprensibile, mostrando che in realtà è un'altra cosa, è una riduzione di tipo

epistemico, non è un fatto nuovo, in termini ontologici. Per essere accertato, tale

fatto ontologico richiede qualcosa di più di un'analisi degli usi di concetti di

collettività nel linguaggio ordinario e nella ricerca delle scienze sociali. E' allora

preferibile fare un'indagine su cosa esiste e cosa non esiste, il che implica la

volontà di disegnare una teoria confrontandosi con la pratica della scienza

naturale, per affrontare il puzzle filosofico (Papineau 2007). Poiché questa

indagine sulla natura biologica manca nelle affermazioni di Searle, sembra allora

113

che sia stato dato un ruolo preminente alle prove concettuali, nell'affrontare la

questione empirica del posto dell'intenzionalità collettiva nel regno naturale.

In effetti, questa è la strada che la maggior parte dei commentatori hanno preso

nell'indicare che qualsiasi ipotesi che colloca l'intenzionalità collettiva tra i fatti

bruti del cervello sarebbe "magica" in mancanza di un controllo scientifico

(Hornsby 1997, 432). Questa critica non è del tutto ingiustificata. La questione di

come catturare le condizioni alle quali gli atteggiamenti intenzionali contano come

irriducibilmente collettivi è una domanda logica. Quindi è separata dalla questione

se in realtà non vi è alcuna teoria scientifica valida che riesce a soddisfare i criteri

per l'esistenza di stati intenzionali collettivi. L'approccio di Searle fornisce

notevoli intuizioni nella questione, ma dice poco circa i fatti bruti, se ce ne sono,

che consentono di pensare e di agire nella modalità del noi. Così, mentre egli

sottolinea, giustamente, il ruolo della scienza per aiutare a illuminare enigmi

filosofici (e viceversa), in realtà non fa fare alla naturalizzazione

dell'intenzionalità collettiva un passo avanti. Tuttavia, se la strategia adottata dai

critici per attaccare l'idea che ci possa essere un fatto circa questione della

capacità di intenzionalità collettiva, è metodologica, allora è corretto concludere

che nessun argomento convincente è stato ancora fornito che faccia rigettare la

proposta di Searle su una base veramente naturalistica.

Il motivo è che la questione della realtà biologica dell'intenzionalità collettiva è

una questione scientifica. Pertanto, apre ad un insieme di questioni e

considerazioni che si coagulano in un altro dibattito sull'intenzionalità collettiva in

campo che ha una somiglianza terminologica con, anche se è sostanzialmente

distinto da, discussioni di irriducibilità epistemica. Se i due dibattiti sono confusi

in un'interpretazione unica di irriducibilità, allora è impossibile rendersi conto che

ogni domanda teorica individua un settore problematico a se stante e richiede

alcuni metodi per affrontarlo.

114

5.6. Il precedente del team reasoning di Bacharach

Per articolare l'intuizione che la modalità del noi possa essere irriducibile, si

prenda ad esempio in considerazione la capacità degli individui di team reasoning.

Molti episodi di socialità ammettono una spiegazione razionale basandosi sul

presupposto che gli agenti prendono decisioni qua membri di un gruppo di cui

sono pronti ad essere parte (il 'noi') (Bacharach, M. 2006; Tomasello, M. 2009

Gold, N. and Sugden, R. 2007). Per i teorici del team-reasoning, l'affermazione

che tu vedi o "inquadri" la tua azione come parte di uno sforzo che noi-come-

squadra stiamo perseguendo insieme, significa che si è in grado di capire quale

corso di azioni, intrapreso da parte di tutti i membri del gruppo, è più adatto per

perseguire il compito comune (Gold, N. 2012). In seguito a questo ragionamento

si agisce di conseguenza facendo la propria parte (Hakli, R. et al. 2010) Questo

suggerisce che rappresentando nel modo del noi, la mia azione, come membro del

gruppo, sarà guidato da una rappresentazione a livello individuale di ciò che

stiamo facendo insieme (in una 'noi-rappresentazione').

Per Bacharach, pensare a se stesso come membro di un gruppo è una questione di

"frame" adottato. Un "frame" è un insieme di concetti, di descrittori, utilizzati

quando si parla di una situazione. Secondo Bacharach, l'identificazione di un

agente con un gruppo riguarda quale frame si usa per rappresentare se stessi e gli

agenti con cui interagire, perché il frame che si usa determinerà la logica con la

quale ragionare su cosa fare. Bacharach tratta l'identificazione della persona con

un gruppo come una propensione umana di base. La sua argomentazione mira a

enunciare almeno alcune delle condizioni che producono questo fenomeno e a

caratterizzare i suoi effetti più importanti e i cambiamenti nella modalità di

ragionamento. Bacharach insiste che l'uso di un frame non è una questione di

scelta razionale. Di fronte ad un dilemma si assumono differenti prospettive che

sono differenti attitudini basilari. Di fronte al dilemma del prigioniero, ad esempio

in teoria dei giochi, si può assume la prospettiva individuale o si può assumere la

115

prospettiva collettiva. Con questo intendo che la scelta non è direttamente tra

cooperazione e defezione ma tra porsi la domanda "Che cosa dobbiamo fare?"

(prospettiva del noi) o la domanda "Cosa devo fare?" (prospettiva dell'io) al fine

di risolvere il problema. Se un giocatore decide per la prospettiva del noi,

selezionerà l'opzione (cooperare, collaborare) e farà la sua parte in essa, vale a

dire cooperare. Se un giocatore decide la prospettiva individuale, di conseguenza

non parteciperà. La scelta del frame cambia completamente il modo di ragionare.

Per Bacharach, l'agire condiviso non comporta il trasferimento dell'agency da

individui a soggetti plurali, ma piuttosto consiste in individui che concepiscono se

stessi come membri di un gruppo e che si impegnano nel team-reasoning.

Tuttavia, perché ci sia una reale intenzione condivisa, diversi agenti devono

impegnarsi in un ragionamento collettivo. Un vantaggio importante della teoria

del team reasoning è che permette alla cooperazione di emergere anche in

situazioni in cui gli agenti non possono comunicare o influenzarsi reciprocamente

in altri modi Questo è in contrasto sia con Bratman che con Gilbert. Come i teorici

del team reasoning hanno fatto notare (Bacharach 2006; Bardsley 2007; Oro e

Sugden 2007, 2008), nel resoconto di Bratman, le decisioni e le azioni degli agenti

sono regolate dal classico (cioè individualista) canone della razionalità. A meno

che non possano influenzare le intenzioni di tutti attraverso le proprie intenzioni o

azioni, essi non saranno in grado di generare aspettative razionalmente determinati

circa le azioni degli altri. Anche se questo è meno frequentemente osservato (ma

vedi Bardsley 2007: 154), la teoria di Gilbert affronta un problema simile. Una

volta che hanno formato un impegno comune, gli agenti possono, come un

soggetto plurale, razionalmente decidere a favore dell'opzione cooperativa.

Eppure, è attraverso accordi espliciti o taciti che formano impegni comuni, e

questi accordi richiedono una qualche forma di interazione precedente.

Pensare alle azioni comuni e alle intenzioni condivise in termini di team

reasoning, ci permette di ridurre considerevolmente il carico cognitivo che

imponiamo agli agenti per essere partecipanti ad azioni congiunte. Ricordiamo

che nelle analisi di Bratman, gli agenti devono avere capacità di mentalizzazione a

116

pieno titolo, al fine di formare intenzioni condivise: essi devono avere il concetto

di stati mentali, dal momento che ogni partecipante dovrebbe rappresentare che gli

altri partecipanti hanno intenzioni ed altri atteggiamenti importanti per l'attività

congiunta, e devono avere le capacità meta-rappresentative pienamente sviluppate,

in quanto i contenuti delle intenzioni di ogni partecipante fanno riferimento sia

alle proprie intenzioni sia alle intenzioni degli altri partecipanti.

Per Bacharach, l'identificazione col gruppo è un fenomeno indotto

automaticamente da meccanismi psicologici. Vedersi come parte del gruppo non è

frutto di scelta; un agente non sceglie di impegnarsi in team reasoning, piuttosto

che in un ragionamento individuale

Nella versione di Bacharach della teoria del team reasoning, i meccanismi

psicologici di identificazione del gruppo possono portare le persone

spontaneamente a ragionare come team, senza considerare preliminarmente se gli

altri saranno inclini a fare altrettanto. Adottare il team reasoning dipende da tali

meccanismi psicologici e rende l'impegno in un'azione congiunta molto meno

cognitivamente oneroso.

L'identificazione di gruppo coinvolge la sensibilità a determinate caratteristiche

delle situazioni, tra cui la presenza di interessi comuni e l'interdipendenza.

L'individuazione di interessi comuni e di interdipendenza presuppone una certa

capacità di rappresentare gli altri come agenti intenzionali, e diretti ad un fine .

Molti psicologi dello sviluppo sarebbero d'accordo che agency detection e goal

attribution sono precursori della lettura della mente e insieme all'attribuzione di

'intenzione e di desiderio - sono i primi componenti di mindreading41.

Eppure, chiedere che gli agenti abbiano queste competenze è ben lungi dal

chiedere che abbiano abilità di mindreading a pieno titolo, perché queste ultime

coinvolgerebbero la padronanza di una gamma più ampia di concetti mentali e

41Una schiera di ricercatori ha sostenuto che i bambini sono sensibili ad alcuni aspetti delle attività finalizzate e capaci di discriminare tra le azioni intenzionali e quelle accidentali ( Gergely , Nadasky , et al 1995; . Csibra 2008; Tomasello e Rakoczy 2003; Woodward 1998; Woodward e Sommerville 2000) Psicologi dello sviluppo sono anche ampiamente d'accordo sulla comprenssione del desiderio

117

ragionamenti sofisticati sulle intenzioni e gli atteggiamenti altrui. La modestia

delle richieste riguardanti le abilità di mindreading non è compensata da notevoli

esigenze in termini di capacità di ragionamento. I principi inferenziali di base

utilizzati nel team reasoning, sono perfettamente analoghi ai principi inferenziali

utilizzati nel ragionamento individuale. Questo non vuol dire che la teoria di team

agency non ha bisogno di postulare abilità di mindreading sofisticate o abilità di

ragionamento nel soggetto, solo che tali competenze non sono un prerequisito

dell'agire condiviso. In effetti, le capacità di mentalizzazione più robuste possono

essere necessarie quando le situazioni sono meno immediatamente trasparenti.

Sebbene secondo la versione di Bacharach della teoria del team agency, gli agenti

non hanno bisogno di aspettative circa le azioni degli altri, le intenzioni e le

credenze al fine di ragionare in team, il team reasoning può produrre tali

aspettative.

Dall'esame di questi due precedenti, si ricava l'argomento che le intenzioni

collettive possono essere modi psicologici collettivi, nei quali si manifesta una

diversa modalità di ragionamento, basata su una diversa modalità di cognizione.

Nell'interazione noi sviluppiamo un senso di appartenenza, un senso di "we-ness"

e ci pensiamo (frame) come parte di un gruppo che agisce in una modalità nuova

5.7 La struttura dei modi intenzionali collettivi: intenzionalità

precedente e intenzionalità collettiva in azione.

Fino a qui abbiamo enunciato una plausibilità teorica della concezione

dell'intenzionalità nei termini di modi o attitudini collettive. E tuttavia questa

plausibilità resterebbe una petizione di principio se non si persevera nel tentativo

di armonizzazione tra le prospettive.

Gli approcci minimalisti non hanno difficoltà con le intenzioni per se ma con la

necessità di postulare una complessa struttura per ascrivere stati mentali di ordine

superiore, che inficia la possibilità di agire in tempo reale; essi sono criticabili

118

perché hanno tralasciato di analizzare i meccanismi di basso livello che

permettono lo svolgimento dell'azione. Le intenzioni collettive irriducibili

potrebbero essere criticate se fossero soltanto processi di ordine superiore. Nel

nostro modello integrato, invece, l'intenzionalità pervade gli scenari; non si

sfuggirebbe alla critica minimalista, se essa non si presentasse in modo articolato.

Dalla critica ai modelli riduzionisti, ricaviamo l'idea che le intenzioni collettive

devono articolare meglio il rapporto tra pianificazione ed esecuzione. Le

intenzioni, infatti, non possono essere assunte soltanto come piani rivolti al futuro

ma devono articolare il rapporto tra ciò che intendiamo fare nel futuro e ciò che

stiamo facendo insieme (Toellefsen dale 2005); oltre a questa funzione esse

devono essere parte della spiegazione per le azioni congiunte che avvengono in

intervalli di tempi brevi e quelle che non sembrano essere innescate da

pianificazioni a lungo termine.

Vorrei sostenere che nell'approccio integrato, tutta la struttura che sostiene

l'azione congiunta è intenzionale e articolata e vorrei suggerire che l'articolazione

consiste in una versione aggiornata della distinzione serleana tra intenzionalità

precedente e intenzionalità in azione.

Searle introduce tre differenze tra intenzioni in azione e intenzioni precedenti. La

prima differenza concerne le condizioni di soddisfazione. Egli sostiene che se il

contenuto delle intenzioni in azione presenta movimenti fisici, il contenuto delle

intenzioni precedenti rappresenta tutta l'azione, che è non soltanto un movimento

fisico ma la sequenza causale che consiste di intenzioni in azione che causano il

movimento fisico. La seconda differenza tra le intenzioni precedenti e le

intenzioni in azione è che le prime rappresentano le loro condizioni di

soddisfazione, laddove le ultime le presentano. Searle introduce la distinzione tra

presentazione e rappresentazione nella discussione dell'intenzionalità percettiva al

fine di rimarcare il contrasto tra i modi nei quali le esperienze percettive e le

credenze sono in relazione ai loro oggetti. Le esperienze percettive sono definite

presentazioni, in quanto forniscono un accesso diretto agli oggetti. Come Searle

puntualizza, l'esperienza ha una sorta di immediatezza e involontarietà che non è

119

condivisa da una credenza (Searle 1983 p. 46). In seguito, egli stabilisce

un'analogia tra percezione e azione sostenendo che le relazioni formali tra la

memoria visiva di un fiore e l'esperienza visiva del fiore e il fiore sono immagini

che rispecchiano le relazioni tra l'intenzione precedente di alzare il braccio,

l'intenzione in azione dell'alzare il mio braccio e il mio braccio che va su. In

particolare l'intenzione precedente (rappresentazione) sta all'intenzione in azione

(presentazione) come la memoria percettiva (rappresentazione) sta all'esperienza

percettiva (presentazione).

Infine, Searle sostiene che il contenuto dell'intenzione in azione è più determinato

del contenuto di un'intenzione precedente, il che significa che la mia intenzione in

azione di alzare il braccio implicherà che il mio braccio vada su e che lo facci ad

una certa velocità etc etc.

Nel contesto dell'intenzionalità collettiva, è particolarmente importante il ruolo

delle intenzioni in azione perché specificano il momento esecutivo dell'azione

congiunta e infatti Searle introduce la nozione di “intenzione collettiva in-azione”.

La posizione di Searle, però, così come è espressa in Searle (1983), Searle (1990)

e Searle (199), è principalmente incentrata su quelle azioni guidate da intenzioni

collettive in-azione che sono interamente sotto il focus dell’attenzione, e che

vengono esplicitamente rappresentate nel momento dell’azione. Ciò si evidenzia

anche negli esempi da lui utilizzati, quali quello della preparazione della salsa

olandese42 o quello del corpo di ballo43. Nel capitolo precedente si è cercato di

mostrare che il intenzionale non riguarda soltanto ciò che è sotto il fuoco

dell'attenzione ma anche ciò che potenzialmente può esserlo (Jordan 2010)

L'approcccio serleano, quindi, ha bisogno di essere implementato e si cercherà di

rispondere a questa esigenza suggerendo che è necessario isolare due tipi

fondamentali di intenzioni collettive in azione: le intenzioni collettive non mediate

(ICNM ) e quelle mediate (ICM ).

Intuitivamente l’ICNM si ha quando un individuo prende parte ad un’azione

42 Searle 1990

43 Searle 1990

120

collettiva e la sua attenzione non è specificamente ed esplicitamente orientata al

contenuto intenzionale della parte di azione che sta svolgendo. Al tempo stesso il

focus dell’azione può essere spostato e le azioni in questione sono così portate al

centro dell’attenzione. La locuzione “non mediate” intende esprimere l’ipotesi che

il contenuto di tali intenzioni non sia esplicitamente rappresentato dai soggetti

cognitivi44.

Il mio assunto generale è che le intenzioni di questo tipo siano abitualmente

collegate a movimenti corporei, che implicano quindi la co-presenza degli

individui che partecipano all’azione considerata. Il fatto che queste intenzioni —

nel momento in cui sono presenti — non siano esplicitamente rappresentate,

tuttavia, non implica che non lo possano mai divenire: esse si collocano alla

periferia dell’attenzione, ma — qualora ne emerga la necessità — possono essere

portate nella zona focale45. Una possibile obiezione a questa formulazione è che,

dal momento che tali intenzioni non sono (in un certo senso) completamente

consapevoli, non dovrebbero neppure essere chiamate intenzioni.

Tuttavia, dal momento che: a) esse dirigono di fatto le nostre azioni verso

specifici fini; e b) a differenza dei meri riflessi, possono essere inibite, è nostra

convinzione che rientrino di diritto nel dominio dell’intenzionalità46 Ad esempio,

si consideri il caso (non collettivo) di una persona che si trova in viaggio su di un

treno sprovvisto di appositi sostegni per contenitori di liquidi; ad un certo punto, il

treno frena all’improvviso e la bottiglia d’acqua posizionata sul tavolino di costei

viene sbalzata in aria. Immediatamente, le braccia e le mani della viaggiatrice si

protendono in modo da afferrare la bottiglia prima che si rovesci a terra. In questo

caso, possiamo affermare con una certa sicurezza che la viaggiatrice avesse tutta

l’intenzione di afferrare la bottiglia, sebbene di certo non abbia avuto il tempo di

44 In un certo senso sono non-concettuali, o meglio potenzialmente concettuali. Si veda

Szabó (2008) e Roskies (2008).45 A tal proposito Searle parla di un “Principio di Connessione”, cioè che tutti gli stati

intenzionali non coscienti sono in principio accessibili alla coscienza (Searle, 1992).

46 Per una disamina di queste tematiche nell’ambito delle neuroscienze si veda Jeannerod (1997)

121

formulare alcun pensiero del tipo: “Intendo afferrare la bottiglia”. Si noti che

un’azione del medesimo tipo, avrebbe potuto essere interrotta (od inibita), ad

esempio, se la viaggiatrice avesse avuto con sé anche un qualche oggetto fragile di

valore e avesse scelto, di conseguenza, di afferrare quest’ultimo anziché la

bottiglia. Se ne deduce che azioni di questo tipo non sono meri riflessi e — in

diverse situazioni — possono essere guidate da intenzioni esplicitamente

rappresentate.

In un certo senso, il nostro contributo potrebbe essere interpretato come

un’estensione dell’analisi searliana: la nozione proposta di ICNM potrebbe

costituire un sottocaso della nozione di intenzioni collettive in-azione.

La mia analisi, tuttavia, non è sostanziata soltanto da riflessioni filosofiche47, ma

anche da considerazioni ed evidenze emerse da studi empirici. D. Tollefsen

(Tollefsen 2005), V. Gallese e Metzinger (Metzinger e Gallese (2003) hanno già

evidenziato le difficoltà che gli approcci fortemente rappresentazionali48

incontrano nel trattamento di una certa classe di azioni che possono essere

descritte sia come intenzionali — per via della loro peculiarità di essere dirette a

un fine — sia come collettive, dato il tipo di “consapevolezza del noi” (we-

awareness ), manifestata dagli agenti che vi partecipano49 . Tale difficoltà viene

illustrata tramite un elenco di attività cooperative che bambini molto piccoli ed

47Queste si riferiscono, è necessario precisarlo, soprattutto alla filosofia analitica. In ambito

fenomenologico vi sono stati dibattiti differenti che hanno portato a considerare qualcosa che

potrebbe essere accostabile alle ICNM, anche se la ricerca in merito è tutta da approfondire. Alfred

Schutz è forse a riguardo tra i primi e i più importanti filosofi ad essersi interessato alla

fenomenologia dell’intenzionalità collettiva (Finn, 1997). Nella sua analisi delle relazioni “in

modalità del noi” ha introdotto le relazioni “in modalità del noi pure” che emergono in situazioni

di contatto vis à vis fra individui, intendendole come una via immediata e intuitiva che permette

quella relazione empaticache qui cerchiamo di suggerire (Schutz, 1974).

48Come ad esempio Bratman (1999) e, per certi versi, Tuomela (1995)

49Per autori quali Bratman, Tuomela ed altri, l’intenzionalità collettiva è comunque frutto di una

complessa interconnessione di rappresentazioni esplicite delle intenzioni proprie e altrui. Questo è

il senso in cui è da intendersi l’attributo“rappresentazionalista” come usato nel mio lavoro.

122

animali sono perfettamente in grado di compiere, nonostante non possiedano una

capacità di rappresentazione degli stati mentali altrui pienamente sviluppata.

Fra gli esempi citati da Gallese (Gallese e Metzinger 2003), vi è quello

dell’imitazione precoce: i neonati di 18 ore sono già in grado di imitare i

movimenti facciali degli adulti, ovvero di riprodurre un comportamento osservato,

utilizzando una parte del proprio corpo alla quale non hanno accesso visivo. Un

altro esempio è fornito dai primati, che appaiono in grado di anticipare il

comportamento altrui. Un ultimo esempio viene invece fornito da Tollefsen

(Tollefsen 2005) : bambini di 18 mesi che giocano a “fare finta di preparare il tè”.

Questi studi empirici forniscono quindi una prima motivazione a favore delle

ICNM. Vi sono, tuttavia, ulteriori motivazioni.

Anche nel caso di adulti umani, infatti, ci sono molte situazioni nelle quali appare

improbabile il coinvolgimento di rappresentazioni mentali esplicite, come mostra

il seguente esperimento mentale. Si consideri il caso di due esperti ballerini di

tango. Siamo inclini a ritenere che essi eseguano una serie di particolari

movimenti coordinati che, a loro volta, implicano degli schemi precisi, dei quali,

tuttavia, i ballerini non sono pienamente consapevoli durante l’esecuzione della

danza; ovvero, ai quali non prestano necessariamente attenzione nel momento

dell’esecuzione (contrariamente a ciò che accadrebbe, invece, se si trattasse di

principianti). Potremmo — ad esempio — osservare il ballerino leader che muove

un passo avanti con il piede destro, mentre, contemporaneamente, il partner lo

segue facendo un passo indietro con il piede sinistro. Ora, supponiamo, a ballo

concluso, di chiedere ai ballerini quale tipo di ragionamento abbia accompagnato

quello specifico passo di danza. Ci aspetteremmo forse una risposta dettagliata del

tipo: “Poiché credevo che il mio partner stesse per muovere all’indietro il piede in

accordo con la sua volontà di ballare il tango con me, ed anch’io ero d’accordo a

ballare il tango con lui, ho deciso di muovere il mio piede in avanti”. È

ragionevole pensare che, rispetto a quello specifico movimento, la risposta

potrebbe consistere piuttosto in qualcosa come: "L’ho fatto automaticamente, non

ci ho pensato specificatamente" Si noti che, in questo caso, è ovvio come ciascun

123

ballerino — pur non essendo del tutto consapevole di ogni singolo movimento

eseguito — sia in grado di interrompere il ballo in qualsiasi momento lo ritenga

opportuno. Questa affermazione può essere ulteriormente avvalorata

dall’osservazione che molte azioni collettive di questo tipo richiedono

un’esecuzione molto veloce per poter essere compiute in maniera appropriata.

Appare quindi tanto più improbabile che in questi casi sia coinvolta una forma di

ragionamento di alto livello su contenuti rappresentazionali.

La tesi qui sostenuta è che le ICNM, per via del loro carattere non

rappresentazionale, non siano facilmente riducibili a combinazioni di intenzioni

individuali. Quindi tali intenzioni sono esattamente quelle che dovrebbero essere

definite “primitive” (nei termini enunciati da Searle). D’altra parte, in azioni più

complesse che coinvolgono pianificazione ed impegno (commitment), il

coinvolgimento di una forma di intenzionalità collettiva di più alto livello sembra

più che probabile.

5.8 L'interazionismo nella ricerca sulla cognizione sociale.

Fino qui abbiamo chiarito la natura dell'intenzionalità collettiva e tuttavia questo

approccio mira a dimostrare che la prospettiva intenzionale sia irrinunciabile

rispetto alla spiegazione di come gli individui agiscono isieme e intende formulare

pienamente una proposta alternativa di uscita dal gap tra approcci minimalisti di

tipo psicologico e approcci di tipo filosofico. Per far questo dobbiamo analizzare

in che modo la nostra proposta integra quella della psicologia e allo stesso tempo

cosa la prospettiva intenzionalista aggiunge. Anticipando in breve, la nostra

ipotesi è che individui impegnati in un'azione congiunta hanno una più ampia

comprensione del comportamento dei loro partners, e così maggiori opzioni

disponibili per l’azione, rappresentando gli aspetti della scena interattiva in una

modalità plurare; in altre parole la funzione dei modi intenzionali collettivi è

incrementare le potenzialità di agire degli individui nell'interazione

124

L'argomento del minimalismo psicologico, relativamente alla ricerca sociale

cognitiva è che, quando si interagisce, agenti sembrano avere accesso a ulteriori

informazioni sul comportamento dei loro co-attori di quanto non ne avrebbero

come meri osservatori senza corpo. Questa teoria si inscrive in una più generale

tendenza a considerare i risultati della cognizione incarnata e tuttavia, come

abbiamo visto nel caso della coordinazione emergente, porta a negligere ogni

forma di contributo dell’intenzione.

Per apprezzare, quindi, la proposta di questo lavoro bisogna ricostruire

brevemente le ragioni e le insidie teoriche dell'interazionismo.

Secondo gli interazionisti, la tradizione di ricerca in teoria della mente ha

affrontato il problema della cognizione sociale in un modo individualistico,

interessandosi soltanto alla questione di ciò che porta l'individuo all'interazione.

La comprensione sociale e l'azione sono, quindi, state caratteristicamente

raffigurate come il risultato di elaborazione cognitiva che ha luogo nella testa

degli individui (Hutto, D.D. et al. 2011). In contrasto con questa visione, molti

interazionisti abbracciano la posizione enattivista, per la quale la vita e la

cognizione degli agenti sono regolate dalla dinamica degli incontri con l'ambiente

fisico e sociale ( De Jaegher, H. and Di Paolo, E. 2007). Questi incontri non sono

riducibili ad attributi della mente individuale, perché è l'unità interattiva che si

comporta in un certo modo; la causa di questo comportamento è catturata dalla

dinamica degli stessi collettivi. L'interazione offre, quindi, non solo un ambiente

di cognizione sociale ma, più enfaticamente, può costituire le risorse cognitive

sociali degli individui, in un modo che non ha bisogno di essere mediato da

cambiamenti intrinseci all'individuo (De Jaegher, H. et al. 2010).

Rispetto a queste affermazioni bisogna, tuttavia, distinguere. Sebbene sia

fondamentale rilevare il ruolo dell'ambiente per la comprensione interpersonale in

generale, per i nostri scopi bisogna notare che l'enattivismo implica due

affermazioni circa la cognizione sociale.

La prima è che l'attività cognitiva è costituita prevalentemente nel dar senso alle

cose nel mondo, dove sense-making è il processo relazionale tra un organismo e il

125

suo ambiente, che trasforma il mondo in un luogo, fatto di senso e di valore

(Thompson, E. and Stapleton, M. 2009). Quando l'ambiente è sociale, il sense-

making occorre in un modo partecipativo (De Jaegher, H. and Di Paolo, E. 2007).

L'altra affermazione riguarda lo scopo del sense-making partecipativo. Dire che i

significati emergono e sono continuamente negoziati in virtù dell'incontro

interattivo degli individui con il mondo sociale, non significa altro che dire che le

dinamiche di interazione definiscono e vincolano il contenuto delle menti

individuali (Grammont, F. et al., eds 2010 Gallotti, M. 2012). Sebbene la prima

affermazione, e cioè che le caratteristiche del mondo fisico e sociale danno forma

alla cognizione, sia stata ampiamente esaminata, ad esempio, nell'ipotesi della

mente estesa (Menary, R. (ed.) 2010 Herschbach, M. 2012), minore attenzione è

stata dedicata alla valutazione della portata del sense-making partecipativo, cioè in

che misura l'enactivism riesce a catturare il ruolo dell'interazione, non solo per

processi cognitivi in generale, ma in senso un po' più ristretto per la cognizione

sociale. E' con questa seconda affermazione che bisogna confrontarsi per vedere

in che modo il ruolo dell'individuo ha ancora un senso.

L'idea del sense-making partecipativo è che gli aspetti centrali delle prestazioni

cognitive (individuali), in particolare la formazione del significato, sono

intrinsecamente relazionali. È interagendo con gli oggetti fisici e sociali, tra cui le

menti di altre persone, che il mondo diventa denso di significati per gli individui.

Cosa ci dice questa posizione sul ruolo dell'interazione per la cognizione sociale?

Una risposta è che la cognizione è necessariamente modulata dall'interazione con

altri, perché i significati sono acquisiti e condivisi attraverso pratiche interattive.

Bisogna interpretare bene questa risposta perché può dare esiti alternativi.

Alcuni degli interazionisti radicali sono anche radicali anti-individualisti,

sottovalutando l'importanza dei meccanismi individuali e intenzionali nella

cognizione sociale. Ad esempio, De Jaegher e colleghi (2010) sostengono che il

processo di interazione stesso può essere visto come un'abilitazione e un fattore

costitutivo per la cognizione sociale e gli dovrebbe quindi essere dato un ruolo

esplicativo principale in questa teoria. Essi si spingono fino ad affermare che " [ ...

126

] possiamo concepire le dinamiche di interazione in quanto, in alcuni casi, offrono

le prestazioni cognitive necessarie. Non vi è alcuna necessità di duplicare i loro

effetti in un meccanismo individuale." (De Jaegher et al., 2010).

Si può dar credito al fatto che le singole spiegazioni diventano superflue, una

volta che il processo di interazione è spiegato al livello sovra-individuale. E'

possibile che l'interazione sociale non sia riducibile ai singoli processi neurali e

cognitivi; tuttavia è così certo che i singoli processi non siano ancora una parte

della storia?

Un aspetto vulnerabile dell'interazionismo radicale, ad esempio, è la tendenza a

enfatizzare eccessivamente interazioni sociali che sono prive di conflitto, e

cooperative. Potrebbe anche essere il caso che, in situazioni in cui l'interazione

sociale evolve uniformemente nella direzione accettata da tutti i partecipanti, ci sia

poco bisogno per i partecipanti di preoccuparsi di attribuire stati mentali ad altri.

Ma è lecito chiedersi se questo è il caso in situazioni di competizione, disaccordo,

conflitto o evidenti incomprensioni (De Boas 2013). E' possibile che le persone a

volte osservino altre persone da un punto di vista in terza persona e, inoltre,

tengano conto degli stati mentali degli altri per ottenere una migliore

comprensione di ciò che stanno per fare. Inoltre, è dubbio che gli approcci

interazionisti siano in grado di spiegare molte forme di interazione linguistica50.

C'è da aggiungere che il problema del sense making partecipatorio e il problema

della cognizione sociale sono collegati ma non sono la stessa cosa. Come sostiene

Gallagher (2013) uno riguarda il modo in cui conosco il mondo con altri l'atro

riguarda il modo in cui capisco gli altri. Il primo può gettare luce sul secondo ma

non lo esaurisce.

Per questa ragione propongo di considerare forme meno radicali di

interazionismo. Per esempio, secondo la letteratura emergente sul ruolo della

'seconda persona' nella cognizione sociale, gli individui, impegnati nell'interazione

sociale in tempo reale, sono in grado di raggiungere una maggiore comprensione

50 ad esempio quelle che richiedono l'ipotesi griceana sulle intenzioni comunicative (Grice 1968,

1969)

127

degli obiettivi degli altri e possono utilizzare queste prove per attribuire stati

mentali di ordine superiore (Butterfill, 2012)51.

Mindreaders interagenti potrebbero conoscere cose che non sarebbero in grado di

conoscere, se fossero manifestamente osservatori passivi? La ricerca di Butterfill

sostiene di si. L'approccio ha conseguenze per la comprensione di come le

capacità di interagire in combinazione con forme relativamente semplici di

mindreding possono spiegare l'emergere, in evoluzione o nello sviluppo, di forme

sofisticate di cognizione sociale. Suggerisco pertanto di interpretare la svolta

interazionista con la sua idea del sense-making partecipatorio, nella misura in cui

essa può aiutare a spiegare come l'interazione faccia pervenire a un qualcosa di

unico nel modo in cui gli agenti conferiscono senso alle menti degli altri, che non

è riducibile al tipo di processi cognitivi utilizzati, per dare senso alle altre cose che

il mondo presenta.

5.9 La funzione dei modi intenzionali collettivi nell'agire condiviso.

La forza di un approccio alla cognizione sociale basato sull'interazione consiste

nel sostenere che gli individui interagenti guadagnano la loro comprensione

interpersonale attraverso un 'incontro' di menti piuttosto che attraverso un infinita

attribuzione di stati mentali di ordine superiore.

Nel presente lavoro siamo d'accordo nel sostenere che la tendenza della ricerca a

concentrarsi sull'osservatore isolato è insoddisfacente Questa tendenza implica

che il rapporto tra mente e società può essere semplicemente spiegato estendendo

affermazioni circa la cognizione all'interno dell'individuo alla cognizione

51 L'intenzione di Butterfill è mostrare che mindreaders interagenti potrebbe sfruttare rotte per la

conoscenza degli obiettivi delle azioni degli altri, che non sono a disposizione dei semplici

osservatori. In questo modo dimostra che mindreaders pronti a interagire con gli altri possono

sapere cose sulle loro menti, che altrimenti potrebbero non essere in grado di conoscere.

128

sociale52. Infatti, gli agenti impegnati in un'attività congiunta realizzano un

risultato che non è riducibile , ad un adeguato livello di descrizione , alla somma

dei loro singoli contributi, perché secondo il we-mode cognize, quando si agisce

insieme in gruppi, gli individui hanno accesso alle informazioni circa le

intenzioni, ragioni e le emozioni dei loro partner interagenti che aprono nuove

possibilità di azione non disponibili per osservatori isolati. E tuttavia proprio per

la stessa ragione che condividiamo con gli interazionisti, la nostra preoccupazione

non è rivolta all'irriducibilità del gruppo in quanto soggetto. Siamo piuttosto

interessati ai processi cognitivi alla base del comportamento di gruppo.

Questa motivazione diventa particolarmente evidente se richiamiamo gli approcci

filosofici del team reasoning di Bacharach che abbiamo ricostruito. Essi

riguardano episodi di socialità, nei quali gli agenti interagiscono in un modo che

sembra razionale per il gruppo, ma che non può essere interpretato come razionale

per i singoli sulla base delle ipotesi tradizionali di come gli individui ragionano

nelle interazioni sociali. Su questi presupposti, ci sono caratteristiche di

comportamento di gruppo che non possono essere pienamente spiegate con

riferimento ai meccanismi della cognizione e dell'azione individuale di intendere

dei singoli

La domanda però è: come, allora, può un approccio non- riduzionista alle

intenzioni che sostengono le azioni, essere complementare alle teorie

interazioniste evitandone gli aspetti più radicali?

La nostra proposta è che individui impegnati in un'azione comune hanno una più

ampia comprensione del comportamento dei loro partner, e così di fatto più

opzioni disponibili per l' azione, perché rappresentano gli aspetti del scena

interattiva in una modalità cognitiva peculiare.

Secondo la nostra proposta, quando l'azione viene eseguita da un gruppo gli

individui che pensano in modalità irriducibile e collettiva e agiscono secondo

modi intenzionali collettivi, si incrementa il potenziale degli agenti, avendo questi

52 Questo è il motivo per il quale avversiamo gli approcci filosofici riduzionisti all'intenzionalità collettiva.

129

una più ampia comprensione delle opzioni disponibili per la azione e nuove

soluzioni per azione. Co-rappresentare il punto di vista degli altri sulla scena

d'azione come condizione per l'azione modula congiuntamente lo spazio

dell'attività mentale e, di conseguenza, il comportamento, fornendo ad ogni agente

accesso ad una serie di descrizioni e concetti che di fatto sarebbero indisponibili

se si limitassero ad osservare nella prospettiva della prima persona singolare.

Agendo insieme la cognizione umana si arricchisce delle risorse della cognizione

in modo irriducibilmente collettivo, che rimangono latenti fino a quando le

persone non sono impegnate nel particolare contesto interattivo. A questo

riguardo, il we- mode è una proprietà di individui, ma, dal momento che si

manifesta durante l' attiva partecipazione a comportamenti di gruppo, essa non

può essere intesa puramente in termini individualistici

Con questa proposta, mi propongo di offrire una risposta equilibrata alla richiesta

di un approccio basato sull'interazione; condivido la preoccupazione dei

minimalisti riguardo il ruolo dell'interazione per contrastare la natura riduzionista

di teorie classiche dell'intenzionalità, e tuttavia abbiamo avanzato ipotesi

fondamentali circa il ruolo dell'individuo nell'affrontare le questioni della socialità

più in generale.

Concludiamo, chiarendo che questa teoria dell'azione è coerente con

individualismo, perché la we -mode intentionality non è altro che una serie di

meccanismi organizzati intorno a strutture cognitive e neurali che sono intrinseche

all'individuo e risultano da un apposita storia evolutiva e di sviluppo. Tuttavia,

non pensiamo che ci sia un 'contrasto' tra l'individuale e il sociale, che può essere

affrontato solo scegliendo una parte o l'altra. Piuttosto, in linea con la maggior

parte recenti discussioni in scienze cognitive si è cercato di integrare , tali livelli

in un approccio mechanism oriented alla cognizione sociale, pur restando

impegnati a una visione non-riduzionista della psicologia collettiva. Il nostro

suggerimento è che la cognizione sociale è incorporata nell'ambiente sociale, in

una estensione che dovrebbe essere più attentamente ponderata e teorizzata da

scienziati e filosofi.

130

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