UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PALERMO
Dottorato di ricerca in filosofia del linguaggio, della mente e dei processi formativi - XXIV ciclo -
Tesi di dottorato
AGIRE CONGIUNTO E INTENZIONALITA' COLLETTIVA
Sandro Gulì
TutoreProf. Marco Mazzone
Coordinatore del DottoratoProf. Franco Lo Piparo
INTRODUZIONE......................................................................................................................... 5
CAPITOLO PRIMO................................................................................................................... 18
MASSIMALISTI E MINIMALISTI..........................................................................................18
AZIONE CONGIUNTA E INTENZIONALITÀ. UN BINOMIO INSCINDIBILE?......................18
1.1. AGIRE COLLETTIVO E INTENZIONALITÀ.......................................................................................18
1.2. L'INTERDIPENDENZA DELLE INTENZIONI CONDIVISE................................................................24
1.3. LA STRUTTURA DELLE INTENZIONI CONDIVISE..........................................................................26
1.4. INTENZIONALITÀ CONDIVISA E CONOSCENZA COMUNE.............................................................33
1.5 AZIONE CONGIUNTA E SVILUPPO....................................................................................................38
1.6. COORDINAZIONE EMERGENTE E ARCHITETTURA MINIMA DELL’AZIONE CONGIUNTA..........44
1.7 Architettura minima dell’azione congiunta...................................................................48
CAPITOLO SECONDO............................................................................................................. 53
MIND THE GAP........................................................................................................................ 53
2.1 IL DEFLAZIONISMO FILOSOFICO......................................................................................................53
2.2. I LIMITI DEL DEFLAZIONISMO FILOSOFICO...................................................................................57
2.3. BRIDGING THE GAP...........................................................................................................................60
2.4 L'EVOLUZIONE DELLE INTENZIONI: IL RAPPORTO TRA COORDINAZIONE EMERGENTE E
INTENZIONALITÀ.......................................................................................................................................63
2.5. UNA PREMESSA STORICO-CRITICA................................................................................................65
CAPITOLO TERZO................................................................................................................... 68
L'EVOLUZIONE DEI MECCANISMI INTENZIONALI........................................................68
3.1 LA SHARED INTENTIONALITY HYPOTESIS DI TOMASELLO..........................................................68
3.2 ATTENZIONE CONGIUNTA E PRIORITÀ ONTOLOGICA DELL'INTENZIONALITÀ COLLETTIVA. .74
3.3 L'EVOLUZIONE DELLA INTENZIONALITÀ CONDIVISA...................................................................81
CAPITOLO QUARTO............................................................................................................... 83
RAPPRESENTARE CON UN CODICE COMUNE.................................................................83
4.1. IL COMMON CODING.........................................................................................................................83
4.2. COMMON CODING E INTENZIONALITÀ COLLETTIVA...................................................................86
4.3 PREDIZIONE.......................................................................................................................................87
3
4.4 CO-RAPPRESENTARE........................................................................................................................91
4.5 WE REPRESENTATION E ME- REPRESENTATION.........................................................................97
4.6 SFONDO E PROSPETTIVA DEL COATTORE......................................................................................98
CAPITOLO QUINTO..............................................................................................................101
MODI INTENZIONALI COLLETTIVI IRRIDUCIBILI.....................................................101
5.1 NOI CI RIFERIAMO, NOI RAPPRESENTIAMO, NOI AGIAMO. MODALITÀ DEL WE-
COGNIZE.................................................................................................................................................101
5.2 LA NATURA DELL'INTENZIONALITÀ CONDIVISA: MODI INTENZIONALI PLURALI (WE-MODE
INTENTIONALITY)..................................................................................................................................102
5.3 INTENZIONI INDIVIDUALI E INTENZIONI COLLETTIVE: SCOMPONIBILITÀ.............................106
5.4 L'INTENZIONALITÀ COLLETTIVA IRRIDUCIBILE DAL PUNTO DI VISTA FILOSOFICO: IL
CASO DI SEARLE..................................................................................................................................108
5.5 IRRIDUCIBILITÀ EPISTEMICA O ONTOLOGICA.....................................................................111
5.6. IL PRECEDENTE DEL TEAM REASONING DI BACHARACH.................................................116
5.7 LA STRUTTURA DEI MODI INTENZIONALI COLLETTIVI: INTENZIONALITÀ
PRECEDENTE E INTENZIONALITÀ COLLETTIVA IN AZIONE.....................................................120
5.8 L'INTERAZIONISMO NELLA RICERCA SULLA COGNIZIONE SOCIALE............................126
5.9 LA FUNZIONE DEI MODI INTENZIONALI COLLETTIVI NELL'AGIRE CONDIVISO......................130
BIBLIOGRAFIA...................................................................................................................... 133
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Introduzione
Nella fitta trama della socialità gli individui sono protagonisti di azioni che
compiono da soli e di azioni che compiono insieme ad altri. Per il senso comune,
l'idea che alcune azioni abbiano due o più agenti, non sembra particolarmente
problematica, per la filosofia e la psicologia essa è fonte di un intenso dibattito.
La filosofia, la psicologia cognitiva e quella dello sviluppo hanno una grande
tradizione di ricerca che riguarda azioni con un solo agente. Quando si cerca, però,
di estendere i risultati della ricerca sull'azione individuale a quella collettiva,
sorgono molte domande e molti rompicapi. Per quanto riguarda l'azione, i filosofi
hanno sviluppato teorie che mettono in relazione intenzioni, ragioni, motivazioni
ed emozioni. Queste teorie si applicano alle azioni individuali ma non tutte
possono semplicemente essere estese alle azioni collettive. Si consideri il nesso tra
azione intenzionale e intenzione. E' ampiamente riconosciuto, ad esempio, che
uccidere intenzionalmente è connesso in modo appropriato all'intenzione di
uccidere. In che modo questo concetto si applica alle azioni collettive?
Consideriamo Mario e Valeria, che trasportano un divano insieme. Affinché il
loro trasportare sia un'azione collettiva intenzionale, non è sufficiente che ognuno
di essi, da solo, intenda trasportare il divano. Ci vuole un nesso tra le loro
intenzioni. C'è un gran disaccordo per stabilire quali sono le condizioni sufficienti,
affinché un'azione collettiva sia un'azione collettiva intenzionale. Alcuni
sostengono che ciò comporti avere un'attitudine speciale (Kutz 2000, Searle, 1990
[2002]), mentre altri hanno ipotizzato che sia coinvolto un particolare tipo di
soggetto, un agente plurale (Helm, 2008), o un particolare tipo di ragionamento, il
team-reasoning (Gold e Sugden 2007) o speciali tipologie di obblighi
interdipendenti o di impegni (Gilbert 1992, Roth 2004). Contrariamente a tutti
questi approcci, Michael Bratman (1992, 2009) sostiene che le intenzioni
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condivise possono essere realizzate da molteplici intenzioni individuali ordinarie i
cui contenuti sono interdipendenti. La diversità di tutti questi approcci indica la
difficoltà di capire che cosa è necessario perché le azioni collettive siano azioni
collettive intenzionali.
L'approccio filosofico, che ha costituito un modo dominante di pensare all'azione
collettiva, ha inaugurato la ricerca sul tema concentrandosi soprattutto su stati
cognitivi di ordine superiore, come le intenzioni, gli impegni, i fini. Tuttavia,
sappiamo dalla ricerca psicologica empirica (Toellefsen & Dale 2012) che nel
caso dell'agire individuale intenzionale, ci sono gran numero di fenomeni
cognitivi, di livello inferiore, che supportano tale agire, come l'elaborazione
percettiva, le intenzioni motorie, le mappe cognitive, la categorizzazione, e così
via. Allo stesso modo, l'agire congiunto comporta una serie di fenomeni di livello
inferiore, comprese l'attenzione congiunta e vari meccanismi di allineamento
percettivo. Senza la comprensione dei fenomeni di livello inferiore, le teorie
filosofiche rimarranno sempre incomplete, perché non restituiscono in concetti la
dinamica cognitiva che richiede un aggiornamento in tempo reale, durante
l'esecuzione dell'azione. Inoltre, come molti ricercatori hanno sostenuto (Pacherie
2010, Michael Blomberg 2010, Knoblich e Sebanz 2008; Tollefsen, 2005;
Butterfill 2011), la nozione di intenzione condivisa. che emerge dalle analisi dei
filosofi, presuppone capacità mentali cognitivamente e concettualmente onerose.
Avere intenzioni condivise richiede, infatti, avanzate abilità rappresentazionali,
concettuali e comunicative e sofisticate forme di ragionamento sulle complesse
relazioni tra le reciproche intenzioni e i fini condivisi, reali e potenziali che siano.
Questo è problematico date le molte scoperte nelle ricerche sullo sviluppo le quali
(Brownell 2012) suggeriscono, da un lato, che bambini di due anni si impegnano
in ciò che appare come un'azione congiunta intenzionale e, dall'altro lato, che i
bambini non padroneggiano, a quell'età, il tipo di abilità di mentalizzazione che le
teorie richiedono come requisito per condividere le intenzioni.
La ricerca psicologica empirica condotta in seno alla psicologia cognitiva e alla
psicologia dello sviluppo, si è concentrata sul contributo dei meccanismi di
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coordinamento di basso livello per spiegare l'azione collettiva, e sui casi di
un'azione collettiva in cui una full blown Theory of mind può essere assente
(Brownell 2010, Pezzulo 2010 e Wenke et al.2011). Knoblich e Sebanz
(Knoblich & Sebanz 2006; Vesper et al. 2010) a questo proposito, riassumono le
tendenze della ricerca e propongono un'architettura minima dei processi cognitivi
che rendono possibile agire con gli altri: la coordinazione emergente, la
coordinazione pianificata e fattori che servono da facilitatori della coordinazione,
sono sufficienti affinché gli agenti siano in grado di agire congiuntamente.
L'approccio minimalista è aggiornato sulle ricerche delle neuroscienze (Oullier, O.
et al 2008) e sulla psicologia dello sviluppo (Tomasello et al 2005; Rachoczy
2006; Tomasello e Rakoczy 2007). I dati suggeriscono, da una parte, che forme di
coordinazione di varia natura permettono agli attori di rappresentare i fini comuni
e il proprio livello di coinvolgimento, prima di rappresentare le intenzioni altrui,
dall'altra parte, che i bambini si impegnano in azioni congiunte prima di
sviluppare la capacità di avere conoscenza comune o mutua credenza sulle
componenti mentali dell'attività e che proprio l'agire condiviso permette lo
sviluppo di capacità di attribuzione di stati mentali intenzionali ad altri. I risultati
degli psicologi, però, sembrano ignorare ciò che di euristico c'è nell'intuizione dei
filosofi, e cioè che agire in modo congiunto implica che ci sia un'intenzione in
comune, l'elemento per discriminare una azione genuinamente collettiva da una
mera collezione di azioni individuali.
Così vi è un divario, un gap, tra l'approccio filosofico dominante e la ricerca
psicologica sperimentale sull'agire collettivo. Pacherie (2011) ha individuato una
definizione per descrivere i contendenti di questa contrapposizione, i massimalisti
e i minimalisti. Sul versante massimalista troviamo soprattutto filosofi, i quali
argomentano che un insieme di azioni è un'azione congiunta quando i partecipanti
hanno stati mentali intenzionali appropriati, che sono condivisi in qualche modo.
Sul versante minimalista troviamo psicologi dello sviluppo e ricercatori di scienza
cognitiva che indagano i meccanismi cognitivi che permettono l'interazione in
7
tempo reale a individui che si impegnano in forme di agire collettivo senza prima
che il complesso macchinario intenzionale sia all'opera.
Sulla base della constatazione di questa polarizzazione nasce la research question
che giustifica questo lavoro. E' possibile armonizzare la prospettiva psicologica
empirica e quella filosofica? Il contributo di questo lavoro, in questo spazio di
interrogazione che si è aperto, intende essere filosofico e soltanto filosofico. La
research question, quindi, deve assumere una forma particolare, che esprima il
punto di vista filosofico, di fronte a questa tradizione di ricerca sul tema. La
domanda, allora, verterà sul ruolo delle intenzioni condivise per spiegare il
fenomeno dell'agire collettivo. Sono necessarie le intenzioni per spiegare che cosa
vuol dire agire congiuntamente? E se rispondiamo positivamente, come possono
essere concepite in armonia con i risultati che la psicologia dello sviluppo e la
psicologia cognitiva hanno ottenuto? La risposta a questi interrogativi può
contribuire ad uscire dal gap.
Le strategie filosofiche per uscire dal gap e rispondere alla research question sono
molteplici ma riconducibili a due impostazioni:
1) Ci si può porre in una posizione di rottura con il pensiero dominante, essendo
motivati dai recenti sviluppi della psicologia cognitiva e dello sviluppo. In questa
direzione, la proposta è quella di fornire strumenti concettuali per studiare forme
di azione collettiva che non comportano intenzioni condivise da tutti (Seemann
2011, Michael 2011, Woodard 2011 e soprattutto Butterfill 2010).
2) Si può mantenere la centralità dell'intenzione condivisa, offrendo un nuovo, e
potenzialmente meno oneroso, approccio di ciò che conta come intenzione
condivisa (Pacherie 2009, Blomberg 2011). In questa direzione, l'onere è quello di
spiegare quale natura hanno le intenzioni condivise e quali funzioni peculiari esse
hanno, tali che non possono essere escluse dalla spiegazione di come gli individui
si impegnano in forme di agire collettivo.
In conformità ai risultati degli approcci empirici, il filosofo Butterfill (Butterfill
2010, 2012) ha argomentato che gli agenti che partecipano a un'azione congiunta
non hanno la necessità di essere consapevoli dei contributi degli altri come agenti
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intenzionali, non hanno bisogno, quindi, di agire a causa della consapevolezza del
legame e infine non hanno bisogno di avere una mutua conoscenza delle
componenti mentali necessarie per l'azione. Ha proposto, quindi, di conciliare
prospettiva filosofica e approccio scientifico, eliminando le intenzioni dalle
condizioni necessarie e sufficienti per spiegare l'azione congiunta. Il lavoro di
Butterfill adotta la prima strategia, il presente lavoro intende adottare la seconda.
Prima di illustrare come questo lavoro si colloca nella seconda strategia, vorrei
spiegare il perché di questa scelta e indicare brevemente alcuni approcci
complementari.
E' il riconoscimento del valore e dei risultati dell'indagine empirica che giustifica
l'intuizione che le intenzioni non sono un elemento da escludere nella spiegazione
delle forme di agire condiviso. L'obiettivo della psicologia cognitiva non vuole
eliminare del tutto un appello a nozioni sofisticate di intenzioni condivise.
L'obiettivo delle ricerche, nate in seno alla psicologia cognitiva (Sebanz 2006;
Knoblic Sebanz 2011), è, piuttosto, quello di esplorare se i casi più sofisticati
possono emergere da forme più basilari di azione collettiva, e, se sì, come possono
emergere. Affrontare il groviglio delle questioni scientifiche circa l'azione
congiunta richiede anche la comprensione di come questi meccanismi più basilari
si leghino alle intenzioni condivise.
Il lavoro si muove in un panorama, dove tentativi simili sono in fase di
costruzione. Nel suo contributo, ad esempio, Pacherie (Pacherie 2009) fornisce
una nuova analisi delle intenzioni richieste per un'azione collettiva intenzionale.
Come Pacherie (2012) sostiene, gli approcci esistenti tendono a richiedere
capacità mentali sofisticate per identificare le conoscenze, le intenzioni e gli
impegni di altri agenti . Pacherie offre un approccio alternativo all'intenzionalità
condivisa: perché due o più agenti condividano l'intenzione di A, ciascuno deve
concepire se stesso come membro di un team composto da tutti gli altri agenti,
avendo ciascuno il pensiero che A è la migliore azione per il gruppo nel suo
complesso e l'intenzione quindi di fare la propria parte in A. Se questa idea è
corretta, avere intenzioni condivise richiede modeste capacità di mindreading agli
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agenti : richiede loro di rilevare altri agenti e di attribuire obiettivi, ma di non
attribuire atteggiamenti proposizionali come la conoscenza o l'intenzione . Una
caratteristica interessante della proposta di Pacherie è l'assenza di qualsiasi
requisito di conoscenza comune. La sua visione implica che due agenti possano
condividere l'intenzione, senza sapere ciò che fanno. Nel suo contributo Pacherie
(Pacherie 2009) fornisce una nuova analisi delle intenzioni richieste per un'azione
collettiva intenzionale.
Blomberg (2010), invece, in un altro tentativo inscrivibile nella seconda strategia
di uscita dal gap, si preoccupa di quello che gli agenti coinvolti in un'azione
collettiva possono intendere. Come egli osserva, è ampiamente accettato e
plausibilmente vero che "ciò che si cerca di fare sono le proprie azioni " (Bratman
1992, p.330). Blomberg porta l'esempio di due pattinatori che eseguono una
manovra, che richiede movimenti corporei coordinati. Il fatto che un agente possa
intendere eseguire solo le azioni, che sono le proprie azioni, sembra implicare che
nessun pattinatore possa intendere eseguire questa manovra. Ciò appare vero,
perché la manovra coinvolge entrambi gli agenti che agiscono. Blomberg sostiene,
tuttavia, che l'implicazione apparente non regge, perché un pattinatore può
sperimentare i movimenti del corpo dell'altro pattinatore, come estensione del
proprio corpo. Qui l'argomento utilizza un'analogia con le esperienze di utilizzo
degli utensili; secondo alcuni approcci, gli agenti sperimentano gli strumenti come
estensioni del proprio corpo (Maravita e Iriki 2004; Spence 2011). Se un utensile
può essere vissuto come estensione del proprio corpo, forse lo stesso vale per il
corpo di un altro. Questo rende possibile quello che Blomberg chiama "intenzione
in azione socialmente estesa": intenzioni che implicano i movimenti del corpo di
un altro agente, ma il cui contenuto non comporta le azioni di un altro agente. Se
ogni pattinatore sperimenta il corpo dell'altro come un prolungamento del suo,
può tentare di eseguire una manovra che coinvolge i movimenti corporei altrui,
senza tentare in tal modo di compiere un'azione che (dal suo punto di vista) non
può influenzare. Questo spiega come un agente può intendere compiere un'azione
che non è la propria azione: viverla come se lo fosse. Mentre molti approcci di
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azione congiunta rilevano la necessità della conoscenza degli altri agenti e delle
loro azioni, la proposta di Blomberg è coerente con (ma non comporta) il fatto che
i due agenti che agiscono insieme potrebbero avere ogni esperienza come se
stessero agendo da soli.
Lo scopo del presente lavoro è in linea con questa letteratura. In esso si argomenta
che le intenzioni svolgono un ruolo nella spiegazione del fenomeno dell'azione
congiunta, a patto che se ne dia una versione, le cui implicazioni, da un punto di
vista delle abilità cognitive, non sia onerosa e si possano armonizzare con le
visioni che ci provengono dalla psicologia dello sviluppo e dalla psicologia
cognitiva. A differenza di Butterfill, quindi, io credo che le intenzioni non vadano
eliminate ma ripensate e collocate in un ordine naturale. In particolare, al fine di
contribuire ad una versione "più leggera" dell'intenzionalità collettiva, emerge
l'esigenza di affrontare due problemi: dato che i bambini si impegnano in forme di
attività che sembrano essere azioni congiunte, sebbene non abbiano ancora
sviluppato quelle sofisticate capacità mentali presupposte dalle teorie filosofiche,
vi è a questo stadio dello sviluppo un'intenzionalità condivisa e che forma può
assumere? E' possibile che gli individui, che si impegnano in attività congiunte,
rappresentino i contributi degli altri attori verso l'obiettivo comune, in modi meno
onerosi cognitivamente, tali da facilitare una interazione in tempo reale?
Il dialogo con la psicologia dello sviluppo e con la psicologia cognitiva è centrale
per risolvere entrambi i rompicapi. Metodologicamente, gli approcci scientifici, in
seno alla psicologia dello sviluppo e in seno alla psicologia cognitiva, saranno
usati come scenari nei quali verranno descritti e interpretati funzioni, processi e
meccanismi di cognizione sociale, che spiegano quali operazioni sono necessarie
per impegnarsi concretamente nell'azione congiunta.
In psicologia dello sviluppo, l'agire collettivo è strettamente connesso con la
ricerca sulla "Teoria della mente" e i suoi precursori. Con riferimento ad una
nozione particolare di azione collettiva, possiamo chiederci quali abilità mentali
sono richieste per impegnarsi in un'azione collettiva, e quindi, se ci sono delle
capacità mentali la cui acquisizione potrebbe essere facilitata dalla capacità di
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impegnarsi in un'azione collettiva. Secondo Tomasello e Rakoczy, forme di
attività cooperativa, che appaiono intorno al primo anno di vita, sono "tutte le
manifestazioni di un'unica sottostante abilità socio-cognitiva". Essi chiamano
siffatta abilità intenzionalità condivisa e la descrivono come "la comprensione
delle persone come agenti intenzionali, di chi ha una prospettiva sul mondo che
può essere seguita, diretta e condivisa " (Tomasello e Rakoczy 2003 p. 125). In
questa prospettiva, l'azione collettiva che i bambini compiono nel loro secondo
anno di vita, presuppone già una comprensione relativamente sofisticata delle
menti altrui. Un grappolo di domande cruciali per capire lo sviluppo, quindi, verte
su quali abilità sono richieste per particolari forme di azioni collettive. In questo
primo scenario, ci si concentra sull'attenzione congiunta (Tomasello &Carpenter
2007). come perno della Shared Intentionality Hypotesis. Il meccanismo della
condivisione dell'attenzione, infatti, richiede che i soggetti sintonizzano, l'un
l'altro, le menti attraverso una rappresentazione congiunta del campo referenziale.
Essa è una delle prime abilità socio-cognitive che permettono di interagire con
altri.
Nella psicologia cognitiva, la ricerca sull'azione si concentra sui meccanismi che
connettono il soggetto di un ragionamento ai suoi movimenti corporei. E' opinione
diffusa che azioni, come raggiungere e afferrare una palla da tennis, implicano una
struttura gerarchica di piani (Hamilton e Grafton 2007). Un piano di alto livello
potrebbe essere la specificazione astratta del risultato dell'azione da realizzare (ad
esempio afferrare la palla), mentre un livello intermedio sarebbe il tipo di presa da
utilizzare (intera mano) e i livelli più bassi specificherebbero l'apertura della
mano, le indicazioni relative alla traiettoria, il movimento e la forza necessaria per
tenere la palla. Una questione importante è, allora, come approcci alla
pianificazione delle azioni individuali e del controllo motorio possono essere
estesi per tenere conto delle prestazioni in un compito svolto congiuntamente ad
altri. C'è una gran mole di dati che suggerisce che le persone formano
rappresentazioni della loro attività e di quella dei co-attori che sono, almeno in
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alcuni aspetti, funzionalmente equivalenti alle rappresentazioni che guidano le
proprie azioni (Knoblich et al. 2011).
Nel secondo scenario si focalizzeranno, quindi, i risultati della common coding
theory (Prinz 1997; Knoblich jordan 2003), che suggeriscono che gli esseri umani
hanno una forte tendenza a prendere in considerazione i compiti altrui (e le
relative intenzioni), in virtù dei meccanismi sottostanti alla shared task
representation (Sebanz et al. 2003; 2005 Sebanz et al .2006b; Sebanz et al. 2007;
Ottone et al . 2005; Mitchell et al . 2005; Amodio & Frith 2006). Proprio la shared
task representation costituisce il fulcro di un approccio alla cognizione sociale che
permette di spiegare come individui, singolarmente, rappresentino il compito
altrui in un'attività condivisa e come questa rappresentazione abbia conseguenze
sull'attitudine che l'agente mostra nello svolgere la propria parte in un'azione
collettiva.
I meccanismi evolutivi, insieme a quelli cognitivi, ci consegnano una modalità di
cognizione sociale nella quale rappresentare, per gli agenti che inter-agiscono,
significa guadagnare aspetti della scena interattiva in una distinta attitudine
psicologica a intendere insieme, a credere insieme, a desiderare insieme e far di
questi il contenuto dell'azione singolare. (Tomasello 2009; Sebanz 2003 Sebanz et
Tai 2006)
A questo puntosarà possibile delineare una risposta alla domanda iniziale: che
foggia prende l'intenzionalità condivisa alla luce di queste acquisizioni? La
proposta di questo lavoro è che i processi di cognizione sociale, che formano e
sostengono le menti condivise suggeriscono una visione filosofica
dell'intenzionalità, nei termini di processi, che sono atteggiamenti psicologici o
"modi" irriducibili collettivi.
Questo lavoro propone, in relazione alla funzione delle intenzioni collettive, che
quando l'azione viene eseguita congiuntamente, gli individui che pensano in
modalità irriducibile e collettiva e agiscono secondo modi intenzionali collettivi,
incrementano le loro possibilità e le opzioni per l'azione, avendo una più ampia
comprensione delle opzioni disponibili e nuove soluzioni. Co-rappresentare il
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punto di vista degli altri sulla scena d'azione, come condizione per l'azione,
modula, infatti, congiuntamente lo spazio dell'attività mentale e, di conseguenza,
il comportamento, fornendo ad ogni agente accesso ad una serie di descrizioni e
concetti che di fatto sarebbero indisponibili, se si limitassero ad osservare nella
prospettiva della prima persona singolare. Agendo insieme, la cognizione umana
si arricchisce delle risorse della cognizione nel modo irriducibilmente collettivo,
che rimangono latenti fino a quando le persone non sono impegnate nel
particolare contesto interattivo.
La tesi tenta di rispondere alla research question sostenendo, quindi, che
l'incompatibilità teorica, il gap, presente nel dibattito scientifico, tra le spiegazioni
fornite dalla psicologia cognitiva e gli approcci della filosofia per spiegare il
fenomeno dell'azione collettiva, può essere superata, se si adotta un modello
intenzionale dove i processi (modi o attitudini) collettivamente irriducibili sono
sostenuti dai processi cognitivi fondamentali che emergono nello studio
dell'attenzione congiunta e nello studio della shared task representation. Questo
rende l'intenzionalità collettiva, un elemento insostituibile per tracciare le abilità
necessarie a impegnarsi in azioni congiunte.
La tesi si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo è una literature review. Esso
si basa su una ricostruzione del dibattito tra i massimalisti e i minimalisti;
dapprima si ricostruisce il punto di vista dei filosofi (massimalisti), con le loro
divisioni interne, riduzionisti -anti-riduzionisti e le caratteristiche necessarie
perché si possa dire che le intenzioni sono condivise; poi si ricostruisce il punto di
vista di coloro i quali propongono un'architettura minima dei processi cognitivi
basilari, che rendono possibile agire insieme agli altri ( Vesper et al 2010).
Si cerca di far vedere 1) che gli approcci filosofici massimalisti presuppongono
abilità cognitive che escluderebbero che gli infanti abbiano capacità di agire
insieme, 2) che i principali approcci filosofici si basano su una struttura
intenzionale che presuppone la capacità di rappresentare gli altri agenti come
agenti intenzionali. Questo dibattito rispecchia il gap nella ricerca.
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Sulla scia delle ricerche psicologiche, il secondo capitolo presenta le strategie
filosofiche per uscire dal gap. Una proposta è il minimalismo filosofico di
Butterfill, per il quale si può spiegare il fenomeno dell'azione congiunta soltanto a
partire dai fattori di coordinazione emergente. A quello di Butterfill, viene
contrapposto l'approccio di questo lavoro. Poiché l'approccio psicologico empirico
non nega il ruolo dell'intenzionalità, ma ne richiede una migliore
caratterizzazione, questa tesi sostiene che una migliore soluzione al problema del
gap è fornita da un approccio integrato, dove i processi di basso e di alto livello
cooperano. Nell'approccio integrato i meccanismi basilari sono messi al servizio
di funzioni e meccanismi più complessi che specificano, in differenti scenari, il
tipo di intenzionalità che serve per impegnarsi in interazioni sociali sempre più
sofisticate, come l'azione congiunta. La realtà di questa intenzionalità deve essere
vista attraverso i meccanismi reali che la specificano. Affinché si possa verificare
la realtà ontologica di questi meccanismi intenzionali, è necessario prendere in
considerazione varie branche di ricerca proveniente dalle scienze cognitive e dalla
psicologia dello sviluppo; a questa operazione sono dedicati il capitolo terzo e
quarto.
Nel terzo capitolo, si prende in considerazione l'interazione sociale nell'ambito
della psicologia dello sviluppo che studia l'attenzione congiunta. Attraverso la
lente del dibattito sull'attenzione congiunta, si presenterà la SIH di M. Tomasello.
Il quarto capitolo riprende e interpreta i risultati della common coding theory, che
suggeriscono che gli esseri umani hanno una forte tendenza a prendere in
considerazione i compiti altrui (e le relative intenzioni), pur mantenendo
meccanismi che possano tenerli separati in virtù del meccanismo della shared task
representation (Sebanz et al . 2003, 2005; Sebanz et al .2006b; Sebanz et al. 2007;
Ottone et al. 2005; Mitchell et al. 2005; Amodio & Frith 2006). Partendo dal
common coding, si analizza anche il meccanismo della predizione, applicato alle
azioni congiunte, per definire le funzioni minime delle co-rappresentazioni.
Nel quinto capitolo, si raccolgono i risultati dell'analisi e ci si concentra sulla
versione filosofica della intenzionalità condivisa. Alla luce dei risultati si
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ripensano le intenzioni collettive come processi che formano e sostengono le
menti condivise, in altre parole le intenzioni sono atteggiamenti psicologici o
"modi" irriducibilmente collettivi (Searle 1990; Bacharach 1976). Un importante
motivo per intraprendere questo percorso è l'insoddisfazione con il presupposto
che le interazioni guidate da intenzioni individuali, sono sempre guidate da
rappresentazioni in capo degli agenti che rappresentano stati di cose, tra cui le altri
"menti, dal punto di vista del pensiero e del soggetto "Io".
L'idea centrale è che gli agenti interagenti condividono le loro menti
rappresentando i loro contributi all'azione congiunta come contributi a qualcosa
che essi hanno intenzione di perseguire insieme, come un 'noi.
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Capitolo primo
Massimalisti e minimalisti.
Azione congiunta e intenzionalità. Un binomio inscindibile?
1.1. Agire collettivo e intenzionalità
Che cosa significa agire insieme? La domanda ha sollevato un'ampia discussione
nella filosofia contemporanea dell'azione1.
Esempi paradigmatici di agire insieme sono: camminare insieme, dipingere una
casa insieme o passare la palla a un compagno in un gioco di squadra.2 E'
difficilmente questionabile che nella realtà ci sia un fenomeno del genere, che
potremmo variamente definire: attività condivisa, azione congiunta o azione
collettiva.3 Quel che è oggetto di discussione è il modo per comprenderlo.
Un modo per affrontare il problema è chiedersi che cosa distingue le azioni che,
prese nel loro insieme, costituiscono un'attività collettiva da quelle che sono una
1 La letteratura filosofica sull'azione congiunta sarà principalmente quella prodotta nell'ambito della filosofia analitica anglo-americana. E' a questa tradizione di pensiero che il presente lavoro si richima. Questo non nega che altre tradizioni e altri approcci possano dare un contributo sostanziale alla spiegazione del fenomeno. 2 Esempi tratti da: Gilbert (1990) Bratman (1992) e Searle (1990).3 Nel presente lavoro, queste denominazioni saranno trattate come sinonimi. Nella tesi si utilizzerà maggiormente l'espressione "azione congiunta", che traduce l'espressione ampiamente diffusa nella letteratura in lingua inglese joint action. L'azione congiunta, nella sua accezione paradigmatica, è vista come un'azione su piccola scala tra soggetti, tendenzialmente, in posizione non subordinata. Ciò non toglie che essa possa essere riferita ad azioni che coinvolgono un gran numero di soggetti come nel caso delle azioni che sono compiute nell'ambito di istituzioni sociali.
18
semplice collezione di singoli atti.4 Si consideri un caso discusso da Searle (1990,
p. 402). Un certo numero di individui si trova in un parco. Improvvisamente,
inizia a piovere e ognuno corre verso una struttura coperta, che si trova al centro
del parco. Sebbene ci possa essere qualche coordinamento (le persone tendono a
non entrare in collisione le une con le altre), correre verso la struttura non è, in
senso rilevante, un'attività che gli individui fanno insieme. Ora immaginiamo un
altro scenario, con le stesse persone che eseguono gli stessi movimenti, questa
volta, però, come membri di una compagnia di danza, che sta eseguendo una
coreografia nel parco. In entrambi i casi, non vi è alcuna differenza nell'insieme o
nella "somma" dei comportamenti individuali. In entrambi i casi, gli individui
stanno correndo in direzione della struttura e, tuttavia, soltanto i ballerini del
secondo scenario sono impegnati in un'azione collettiva, mentre gli individui del
primo scenario non lo sono.
Searle (1990) suggerisce che ciò che distingue i due casi non è il comportamento
esteriore, ma qualcosa di "interno". Egli sostiene che nel caso collettivo, il
comportamento esteriore - correre insieme verso la struttura - non è il risultato di
una coincidenza. Si tratta, piuttosto, di qualcosa cui i partecipanti miravano.
Questo suggerisce che l'elemento "interno" sia un'intenzione.
In entrambi i casi, ogni partecipante ha un'intenzione che si può esprimere nella
forma "io sto correndo verso la struttura coperta" ma, nel caso collettivo,
l'intenzione si riferisce necessariamente alle intenzioni degli altri agenti coinvolti
e si potrebbe esprimere "noi stiamo correndo verso il rifugio" (o forse "Stiamo
eseguendo la parte del pezzo in cui ...."). Nel secondo caso l'intenzione di correre
verso il rifugio è condivisa con gli altri partecipanti. E' questa intenzione
condivisa che contraddistingue l'attività congiunta da una mera sommatoria di
singoli atti.5 Searle è in buona compagnia nel ritenere che ci sia un legame tra una
4 Si potrebbe formulare questa domanda con un'intonazione wittgensteiniana: Che cosa rimane, se sottraggo da quello che stiamo facendo insieme quello che ognuno fa singolarmente?5 Forse è prematuro concludere, come fa Searle, che ci deve essere in gioco una differenza "interna". Se è vero che la maggior parte dei teorici tratta l'intenzione come un atteggiamento psicologico (ad esempio Davidson, 1978, Harman, 1976 Bratman 1986), è vero anche che vi è
19
componente psicologica, mentale e l'agire collettivo. Una rassegna indicativa e
non esaustiva di citazioni può dare un'idea quanto sia diffusa la convinzione di
questo legame causale:
Io assumo che un'azione collettiva implica un'intenzione collettiva"6
"La conditio sine qua non dell'azione collaborativa è un fine collettivo
un'intenzione condivisa e un impegno condiviso".7
"la proprietà essenziale di un'azione congiunta è nella componente interna e cioè
che i partecipanti abbiano una intenzione collettiva o condivisa".8
"L'intenzionalità condivisa è la fondazione sulla quale è costruita l'azione
congiunta".9
"è esattamente la mescolanza e la condivisione degli stati psicologici, la chiave
che permette di capire come gli umani hanno sviluppato le loro numerose e
sofisticate forme di attività collettiva".10
stato il lavoro sulle intenzioni influenzato da Anscombe e Wittgenstein (Wilson, 1989, Thompson 2008), che le interpretano in termini di azioni intenzionali. Resta da vedere come i sostenitori di questa visione affronterebbero esplicitamente le questioni sollevate nella recente letteratura sulla shared agency, anche se qualche mossa in questa direzione potrebbe essere trovata in Stoutland 1997. Il tentativo di Searle si inscrive, quindi, nella tradizione della teoria causale dell'azione individuale che ha in Davidson il suo fondatore. Secondo Davidson (1980 cap 3), un'azione è un evento che è intenzionale secondo una certa descrizione; egli ha stabilito, così, un nesso causale tra un evento (di solito un movimento corporeo) e uno stato mentale (un atteggiamento psicologico) che lo causa.6 Gilbert, M. (2006 3–17).7 Bratman, M. (1992 327–341).8 Alonso, F. M. (2009 444–475)9 Carpenter, M. (2009 380 392).10 Call, J. (2009 p. 368–379).
20
In una prima, generale, ricostruzione si può affermare che, rispetto all'analisi
dell'azione congiunta, in una certa tradizione filosofica,11 è nata la "tesi
dell'intenzionalità". Secondo questa tesi, c'è un elemento della psicologia
individuale che spiega la partecipazione all'azione congiunta. Potremmo
temporaneamente definire questo elemento intenzione condivisa.12 Per impegnarsi
in forme di agire congiunto, gli individui condividono le intenzioni per
raggiungere un fine comune. L'intenzione condivisa mostra, per ogni individuo,
un impegno alla partecipazione all'attività e serve a distinguere le azioni che sono
compiute da soli, dalle azioni che sono compiute insieme ad altri.
Molte delle discussioni, che si trovano nella letteratura filosofica sulle azioni
congiunte, vertono sulla natura delle intenzioni condivise e su come la loro
presenza in differenti individui possa essere messa in relazione; più
specificamente, c'è un vasto accordo sul fatto che, per agire in modo congiunto, ci
debba essere una condivisione delle intenzioni ma non c'è nessun accordo su come
interpretare questa condivisione.13
11 Mi riferisco alla filosofia analitica dell'azione e in particolare alla teoria causale dell'azione inaugurata da Davidson12 Si rende necessaria una precisazione terminologica: La discussione filosofica sul tema dell'azione congiunta ricalca la discussione sull'agire individuale. Nell'azione individuale la teoria causale dell'azione (Davidson 1980) individua un nesso tra intenzione (stato mentale) e azione. Anche nella discussione sulle azioni collettive si cerca di individuare un nesso tra intenzione e azione. Per rimarcare la differenza con l'intenzione individuale coinvolta nell'azione individuale, sono state usate molte espressioni che riflettono il profondo disaccordo sulla natura di queste intenzioni. Alcuni le chiamano we intentions o collective intentions (Searle 1990) per sottolineare che pur appartendo al soggetto sono declinate nella prima persona plurate; altri le chiamano we-mode intentions (Tuomela 2006) per sottolineare la differenza con le I-mode intentions. Altri le chiamano partecipatory intentions (Kutz 2000), per sottolineare che esprimono la volontà di agire con altri soggetti. In tutti i casi si tratta di intenzioni che servono per impegnarsi in forme di agire collettivo e che sono negativamente definite rispetto alle ordinarie intenzioni individuali. Fa eccezione Bratman (1993) per il quale le intenzioni, che servono per agire in modo individuale, sono le sole intenzioni che conosciamo, anche nel caso in cui agiamo di concerto con altri. Poiché uno degli obiettivi di questo lavoro è suggerire la natura di queste intenzioni si sceglie provvisoriamente un termine comunemente accettato e che sembra avere una certa neutralità. E' ampiamente accettato, intatti, che gli individui impegnati in azioni congiunte abbiano intenzioni condivise. La natura di questa condivisione è causa di un largo dibattito.13 Un approccio radicalmente diverso potrebbe interpretare l'intenzione collettiva come un'attitudine particolare di un'entità sovra-individuale. Si veda Rovane (1997), Tollefsen, (2002), Pettit (2003), per la discussione della tesi di Pettit (2003) sulle menti di gruppo. L'intenzione
21
E' possibile, per comodità espositiva, dividere i filosofi che animano il dibattito
sulle intenzioni condivise in due grandi schieramenti: i riduzionisti e gli anti-
riduzionisti.
Alcuni interpretano le intenzioni condivise come intenzioni ordinarie, familiari
allo studio dell'agire individuale associate ad altri stati mentali; se le intenzioni
condivise sono identificate con, o sono costruite a partire da, intenzioni
individuali, si avrà un approccio riduzionista. Tuomela e Miller (1988) hanno
difeso siffatto approccio. Stabiliamo che un individuo sia il membro di un gruppo.
Secondo Tuomela e Miller questo individuo ha un'intenzione condivisa rispetto a
X, se egli intende fare la propria parte in X, crede in alcune condizioni, affinché si
verifichi X e crede che ci sia una credenza reciproca tra i membri di un gruppo,
relativamente alle condizioni che renderanno X possibile.
L'approccio riduzionista utilizza come materiale di studio le stesse intenzioni che
sono state studiate per spiegare le azioni individuali ma per giustificare la loro
natura "condivisa"14 deve ricorrere ad altri stati mentali come la credenza o la
espressa con la proposizione: "stiamo correndo verso il rifugio" sarebbe, secondo questa ipotesi, un'attitudine posseduta da una sorta di entità denotata dal pronome personale plurale "noi". Questo comporta che il gruppo possa essere un agente vero e proprio e un soggetto di attitudine intenzionale. Non bisogna meravigliarsi tuttavia se ci si trova davanti a teorie del soggetto intenzionale sovra-individuale o ipotesi su menti di gruppo o agenti fittizi. E' inevitabile pensare a questi livelli quando si parla di azione congiunta.Ci sono ragioni tuttavia per pensare che la strategia che fa appello a entità sovra-individuali, come soggetti portatori di intenzionalità, non centri il bersaglio, se il fenomeno ontologico sociale da indagare è un'azione congiunta. Non è del tutto ovvio se un individuo, che è un costituente dell'entità sovra-individuale, sia necessariamente impegnato a ciò che si sta facendo insieme; ricordiamo, infatti, che, come partecipante di un'azione congiunta, io sono impegnato relativamente a ciò che faccio, insieme ad altri.C'è un altro argomento per concentrare l'analisi sul livello intenzionale individuale. Le intenzioni sono stati della mente e fino a quando non dimostrerà, oltre ogni ragionevole dubbio, che esista una mente di gruppo, ragioni di parsimonia ontologica ci fanno propendere per collocare queste entità all'interno della mente individuale.In generale, nella tradizione filosofica analitica, c'è un grande accordo sul fatto che le intenzioni, che permettono agli individui di impegnarsi in forme di azione congiunta, siano "proprietà" dell'individuo. Nella letteratura sull'intenzionalità condivisa questa tesi è nota come "The Individual Ownership Claim". L'intenzionalità collettiva appartiene ai soggetti partecipanti, e tutta l'intenzionalità che il singolo possiede è la propria.14 in inglese si rende bene questa natura con l'espressione jointness per caratterizzare le joint intentions
22
mutua conoscenza. Questa complessa struttura intenzionale è sembrata
farraginosa, ad esempio, a J. Searle (1990; 2010).
Searle (1990; 1995; 2005; 2010) difende un approccio anti-riduzionista. Le
intenzioni condivise sono intenzioni collettive (we-intentions) che, pur
appartenendo al soggetto individuale, figurano alla prima persona plurale: noi
stiamo facendo qualcosa.
Searle ha costruito un contro-esempio per confutare l'approccio riduzionista. Egli
ci propone di immaginare che ogni membro di una scuola di business, che
conosce la teoria della mano invisibile di Adam Smith, intenda perseguire i propri
interessi egoistici e in tal modo intenda fare la sua parte per aiutare l'umanità.
Conoscendo la teoria, egli crede che anche gli altri facciano singolarmente il
proprio interesse. Tale intenzione, anche se integrata con il tipo di convinzioni che
Tuomela e Miller richiedono, intuitivamente, non conta come il tipo di intenzione
che si ha, quando si agisce congiuntamente con gli altri e non è plausibile pensare,
quindi, che questi studenti della business school agiscano collettivamente. Eppure
ci sarebbero tutti gli elementi che sembrano soddisfare l'analisi di Tuomela di
Miller. Per agire congiuntamente, gli studenti avrebbero dovuto stringere un patto
e conseguentemente esprimersi: noi intendiamo perseguire la teoria della mano
invisibile di Smith. La conclusione di Searle è che approcci riduzionisti, non
garantiscono l'elemento della cooperazione che è essenziale per l'attività condivisa
e che deve necessariamente essere espresso dagli atteggiamenti dei partecipanti
(Searle 1990 p. 406).
Searle, in contrasto con Tuomela e Miller, sostiene che l'intenzione individuale
condivisa (che lui chiama intenzione collettiva o we intention), sebbene sia
un'intenzione individuale, è un tipo di intenzione fondamentalmente differente
rispetto all'intenzione che figura nell'azione individuale. Quando si agisce insieme
lo si fa in base ad un'intenzione collettiva. Essa è un primitivo della mente al pari
dell'intenzione individuale ed è irriducibile all'intenzione individuale.
23
1.2. L'interdipendenza delle intenzioni condivise
Indipendentemente dal tipo di approccio, riduzionista o anti-riduzionista,
condividere un'intenzione e agire con gli altri dipendono, ovviamente, dalla
presenza di altri agenti, ai quali si è legati in modo opportuno. Supponiamo che
ogni persona in un gruppo abbia un'intenzione condivisa. In che modo si deve
pensare il legame tra questi individui, affinché si possa dire che essi condividono
un'intenzione? Nell'approccio di Searle, l'intenzione è espressa in modo collettivo
primitivo. Date queste premesse, si potrebbe supporre che un requisito, perché le
intenzioni siano condivise, è che la "we-intention" di ogni partecipante abbia la
stessa estensione di quella degli altri, si riferisca cioè alle stesse cose. In altre
parole, nell'approccio di Searle, perché ci sia azione congiunta, ogni individuo
deve avere un token dell'intenzione collettiva (we- intention) che permette di
agire. Tuttavia, questo non sembra essere sufficiente. Nessuna intenzione è
condivisa se la tua intenzione è che noi andiamo in spiaggia mentre la mia e che
noi facciamo qualcosa di incompatibile.
Anche se le nostre intenzioni sull'azione coincidono, se non c'è accordo su come
procedere, o se noi non riusciamo a riconoscere uno status significativo alle
intenzioni dell' altro, non c'è alcuna intenzione o azione congiunta. Così, bisogna
approfondire le interrelazioni delle intenzioni condivise, se vogliamo spiegare il
coordinamento e la cooperazione che troviamo in un'attività congiunta. Searle tace
sulla questione, e quindi, abbiamo bisogno di guardare altrove.
In una serie di contributi, Bratman (1992a 1992b; 2001; 2003) ha sviluppato una
concezione riduzionista delle intenzione condivise.15 Egli interpreta un'intenzione
condivisa come una parte di una struttura di intenzioni interdipendenti, che serve
per coordinare l'azione e la pianificazione e allo stesso tempo per regolare la
contrattazione tra i partecipanti16. Le intenzioni individuali, che costituiscono
15 Vedere Bratman, (1993 p.113) (1999 p.129) per una caratterizzazione esplicita della sua visione come riduzionista.16 La strategia è applicare a gruppi di individui il quadro teorico del funzionalismo di Lewis (vedi Lewis 1983)
24
questa struttura, sono le stesse intenzioni individuali che figurano nella
pianificazione e nel coordinamento dell'attività singolare. Quando le intenzioni
individuali riguardano qualcosa che è fatto da più di una persona assumono la
forma "Io intendo che noi J"; questa è la versione di Bratman della tesi
dell'intenzionalità e il nucleo delle sue proposte circa l'intenzione e l'azione
condivisa. Ma Bratman pone ulteriori condizioni, che servono a legare le
intenzioni in modi caratteristici. Una condizione importante riguarda
l'armonizzazione dei piani subordinati di azione (meshing of sub-plans) (Bratman
1992, 331). Secondo il punto di vista di Bratman, un'intenzione si caratterizza per
il modo in cui conduce alla pianificazione dei mezzi necessari che comportano la
sua soddisfazione. Ora, supponiamo che ognuno di noi abbia l'intenzione di
dipingere la casa (o, come Bratman formulerebbe la frase, ognuno di noi ha
l'intenzione che noi dipingiamo la casa insieme) ma il mio piano è quello di
dipingere tutto di verde, mentre il tuo è di dipingere dappertutto di viola. Sembra
che noi non condividiamo l'intenzione di dipingere la casa. Così, Bratman
introduce la condizione per la quale ogni partecipante deve intendere che i piani
subordinati siano coerenti e reciprocamente realizzabili - questo è il modo nel
quale gli individui hanno un'intenzione condivisa. Noi non esibiamo il giusto tipo
di atteggiamento per l'attività congiunta e l'intenzione, se l'armonizzazione dei
nostri piani subordinati è accidentale e se non siamo disposti a renderli coerenti,
se dovessero diventare incompatibili. Vi è un elemento normativo. I partecipanti
sono soggetti a una sorta di esigenza razionale, per la quale hanno il dovere di
armonizzare i loro piani. Il piano degli altri deve servire come vincolo normativo
al proprio e non vi è alcuna ragione di limitare questo stato al piano e non
estenderlo alle intenzioni, che lo avevano originato. C'è in gioco quella che
potremmo chiamare un'intersoggettività pratica. Ogni partecipante tratta l'altro e le
sue intenzioni nel modo in cui tratta se stesso e i propri piani, come vincoli
razionali per l'intenzione e la pianificazione. Bratman difende una concezione
minima di questa normatività, esprimendo questo vincolo normativo
interpersonale negli stessi termini delle norme, che disciplinano l'impegno
25
nell'intenzione individuale (principali caratteristiche sono i criteri di uniformità e
la coerenza mezzi-fini). Se tu e io siamo impegnati ad agire insieme, le tue
intenzioni e i tuoi piani hanno per me un'autorità, a causa di quella che potremmo
chiamare (seguendo Roth 2003) "la mia intenzione ponte" di armonizzare i miei
piani e le intenzioni con i tuoi piani e le tue intenzioni. L'idea di Bratman è che
data la mia "intenzione ponte", la coerenza delle norme che disciplinano le mie
intenzioni individuali sarà reclutata per plasmare i miei piani e le intenzioni con
un occhio verso la coerenza dei tuoi piani e delle tue intenzioni.17
1.3. La struttura delle intenzioni condivise.
Fino a qui abbiamo ricostruito una mappa concettuale che giustificava alcune
assunzioni minime del dibattito filosofico e ricostruiva alcune controversie
necessarie per collocarsi nel dibattito. La posizione di Bratman può essere assunta
come una posizione paradigmatica, nella sua essenziale struttura, perché è quella
che fa meno ricorso a entità che necessitano di una spiegazione ulteriore. Essa
chiarisce, infatti, la natura delle intenzioni condivise, non interpellando altre entità
diverse dalle ordinarie intenzioni individuali; per quanto riguarda la loro funzione
egli sostiene che esse servono a strutturare impegni e coordinare piani subordinati.
L'intento della nostra ricostruzione, tuttavia non è storiografico e non aspira alla
completezza.18 In questa ricostruzione, si cerca di descrivere alcuni snodi
concettuali del dibattito, che hanno suscitato problemi e la risoluzione dei quali ha
determinato una particolare concezione delle intenzioni condivise. In questa
ottica, il primo nucleo concettuale che suscita problemi teorici è quello che, nella
17 Vedere Bratman, (2009c, 2009b, 1992). Bratman ha espresso l'intenzione ponte nei termini di una condizione che richiede ad ogni partecipante di avere l'intenzione di agire in conformità con e a causa di, intenzioni e piani degli altri. Roth (2003) è simpatetico con i requisiti normativi interpersonali di coerenza come condizioni per l'intenzione e l'azione congiunta, ma resiste al fatto che queste intenzioni siano ridotte a quelle individuali.18 Per una disamina più completa si rimanda a lavori pensati per questo scopo: Tollefsen 2005; Petitt (2001).
26
letteratura sull'azione congiunta, si chiama la pretesa della proprietà individuale
(individual ownership claim).
Definirò brevemente che cos'è la pretesa della proprietà individuale, analizzerò
quali problemi comporta ai teorici dell'intenzionalità e i modi per risolverli.
Abbiamo stabilito che il dibattito ruota attorno a delle comuni acquisizioni: (1) le
azioni congiunte richiedono intenzionalità condivisa (2) l'intenzionalità è una
caratteristica della mente (3) le menti devono essere concepite come menti
individuali e (4) tutta l'intenzionalità che esiste, è posseduta da una mente
individuale.
Dalla (2) e dalla (4) discende la tesi che l'intenzionalità è una proprietà della
mente individuale e che tutta l'intenzionalità che un individuo ha, è posseduta
dalla sua mente (individual ownership claim)
E' stato il filosofo Velleman a sostenere che questo comporta un problema; data la
versione standard delle intenzioni in questi termini, non è chiaro se un individuo
può intendere l'intera attività: ammesso che si possa, ciò sembrerebbe
incompatibile con l'attività condivisa.19 L'argomento di Velleman è basato sul fatto
che intendere è qualcosa che faccio per risolvere una questione deliberativa:
prendo in esame due diverse opzioni A e B, decido di fare A, e quindi intendo A.
Questo argomento suggerisce che ci sia un vincolo, la natura razionale della
decisione: posso intendere solo quello che sta a me decidere o risolvere. Si tratta
di una violazione di un requisito razionale, intendere qualcosa che io non penso di
poter decidere e allo stesso modo considerare i miei piani e le azioni che ne
derivano. Applicando questo ragionamento all'azione collettiva, dire: "Ho
intenzione di andare a pranzo insieme", presume che "andare a mangiare insieme"
sia qualcosa che io possa interamente decidere. Ciò, tuttavia, sarebbe in contrasto
con l'idea che sta alla base dell'azione congiunta, che quel che noi facciamo non
dipende interamente da me singolarmente. Certo si ha voce in capitolo, ma quello
19 Velleman (1997a.) sostiene che anche se si è più liberali sugli oggetti che possono rientrare nel campo di ciò che è direttamente inteso, in modo tale che eventualmente si intenda qualcosa al di là delle proprie azioni, resta la preoccupazione che questo sia vietato in caso di attività congiunta.
27
che si fa, dovrebbe dipendere da noi (Schmid 2008). In altre parole, la
performance di un altro non può essere parte del contenuto dell'intenzione che
qualcuno ha di fare qualcosa.
E' ampiamente accettato e plausibilmente vero che "ciò che si tenta di fare sono
soltanto le proprie azioni" (Bratman 1992, p 330) (Searle 1983; Kutz 2000;
Bardsley 2007) e quindi i filosofi accettano il vincolo razionale che si possono
intendere solo le proprie azioni. N. Bardsley (2012) si riferisce a questo
argomento come un "vincolo non controverso per il quale le intenzioni di un
individuo non possono estendersi alle azioni altrui". Bratman è ben consapevole
del vincolo, perché afferma che il contenuto di ciò che si può intendere è vincolato
dalla "own action condition" (Bratman 1993), "perché qualcosa possa essere
un'intenzione, deve essere posseduta dal soggetto che intende ed essere legata
all'attività intesa" (2009b, p 156).
Il problema interessa tutti gli approcci e prende la seguente forma: come si può
mantenere fermo il vincolo e conciliarlo con l'idea di un'intenzione che è
condivisa con gli altri agenti che agiscono in base e a causa di essa. Questo è il
punto dirimente della questione, poiché il modo in cui si articola questo rapporto
tra intenzionalità, che appartiene ad un individuo, e comportamento di gruppo
determina la natura dell'intenzionalità.
Anche in questo caso, le strategie per affrontare il problema ricalcano la grande
divisione tra riduzionisti e anti-riduzionisti. Probabilmente sono i riduzionisti ad
avere i maggiori problemi teorici, perché il loro punto di partenza è esattamente
l'intenzione individuale, utilizzata per spiegare l'agire individuale.
Bratman (1997) sostiene che la sua concezione dell'intenzione gli permette di
essere più libero rispetto a ciò che è intelligibile intendere singolarmente. Egli
sostiene che c'è una differenza tra "io intendo x" (I intend to X) e "io intendo che
noi x" (I intend that we x), nel secondo caso l'intenzione individuale sarebbe una
group intention e cioè un'intenzione individuale che ha un contenuto collettivo. La
differenza, quindi, sta nel fatto che le intenzioni condivise riguardano il contenuto
28
dell'azione comune; intesa in questo modo, la sua impostazione "Io intendo che
noi J" non tradirebbe il vincolo costituito dalla pretesa di proprietà individuale.
A questo punto dobbiamo chiederci che forma prendono le intenzioni di Bratman
quando sono utilizzate per innescare un'azione collettiva. Per avere una risposta,
citiamo le sue parole: "la concezione pianificante dell'intenzione favorisce la
legittimità di un richiamo alla mia intenzione che noi J" (1992, p 331). In questa
concezione, un'intenzione è uno stato mentale simile a un piano che impegna
l'agente ad agire e per il quale le azioni si generano da un'intersezione di
intenzioni interdipendenti. Da quanto abbiamo ricostruito nel precedente
paragrafo, la struttura delle intenzioni-piano è la seguente:
(1) Le intenzioni di ciascuno sono dirette all'attività congiunta. Io intendo che noi J;
tu intendi che noi J
(2) le intenzioni sono interdipendenti: ciascuno dei partecipanti intende che l'attività
congiunta funzioni in parte in virtù delle intenzioni di ciascuno degli altri
partecipanti. Io intendo che noi J in parte perché tu intendi che noi J e tu intendi che
noi J in parte perché io intendo che noi J
(3) Le intenzioni sono dirette a accordare i sotto-piani: ognuno intende che l'attività
congiunta funzioni per mezzo di piani subordinati che sono co-realizzabili.
(4) Disposizione ad aiutare se necessario: dato che il contributo degli altri
partecipanti alla attività congiunta è parte di ciò che ogni intenzione è, e date le
esigenze di coerenza mezzi-fini che si applicano alle intenzioni, ognuno è sotto
pressione razionale per aiutare gli altri a svolgere il loro ruolo, se necessario.
(5) L'interdipendenza delle intenzioni di ciascun partecipante: ciascuno continua a
intendere l'attività congiunta se e solo se gli altri partecipanti continuano a intendere.
(6) la conoscenza comune tra tutti i partecipanti di tutte queste condizioni. Tutte le
condizioni precedenti sono oggetto di mutua conoscenza tra gli agenti.
E' una struttura abbastanza complessa, che può funzionare solo se gli individui
riescono a tener conto delle intenzioni altrui e riescono a formarsi intenzioni sulle
intenzioni, le "intenzioni-ponte". Questa struttura presuppone che l'agente abbia la
capacità di formarsi delle intenzioni-ponte ma soprattutto abbia la capacità di
29
rappresentare compiutamente le intenzioni altrui. Le intenzioni degli altri possono
funzionare in maniera appropriata nei nostri piani, solo perché noi siamo capaci
sia di predire in modo affidabile che un altro agente si formerà la propria
intenzione sia di manipolare l'intenzione di un altro verso il fine comune (senza
mezzi coercitivi).
Bratman (1999) ha suggerito, quindi, che ciò che un individuo intende si estende
di là da quello che si può stabilire su se stessi, se e solo se, si può ragionevolmente
prevedere che le altre parti interessate potranno agire in modo appropriato. Posso
avere l'intenzione di lavorare sulla mia abbronzatura in spiaggia questo
pomeriggio, perché posso ragionevolmente prevedere che sarà soleggiato. Allo
stesso modo, quando io ragionevolmente credo che hai o avrai le intenzioni
appropriate, posso intendere che noi J. Tra gli approcci riduzionisti, quello di
Bratman sembra fronteggiare bene la conciliazione tra pretesa di proprietà
individuale e intenzionalità condivisa.
Sempre nell'ambito degli approcci riduzionisti, Tuomela (1992) sostiene che
l'intenzione individuale da sola non è sufficiente a spiegare il fenomeno
dell'attività congiunta. "Io posso intendere che noi J ma questo non assicura che
l'azione avrà luogo - egli sostiene (Tuomela 1992 p 54) - devo formare una
qualche credenza sulla tua intenzione che J". Egli postula l'esistenza di intenzioni
individuali responsabili per l'attività individuale e intenzioni individuali
responsabili dell'attività congiunta, con la sola differenza della diversa attitudine
assunta. Se non c'è niente nella natura di queste intenzioni che ci chiarisca il senso
della loro differenza, l'elemento che fa la differenza, per spiegare come gli
individui si impegnano in azioni congiunte, è attribuito alla presenza di altre
condizioni come la mutua credenza e la pubblicità del piano che diventano pilastri
dell'impianto. Prendendo in considerazione la spiegazione del perché un agente
intende far la sua parte nell'azione congiunta, si arriva alla conclusione che egli si
impegna poiché crede che l'altro agente nel gruppo crede che ci sia un'opportunità
di fare X e accetta di fare X in accordo alla sua credenza. Secondo Tuomela,
30
quindi, l'intenzione del gruppo è una we intention individuale, più la credenza
reciproca, più la pubblicità del piano
Velleman (2001), che ha aperto il dibattito, ha sviluppato una soluzione simile a
quella di Bratman, nella quale si chiamano in causa intenzioni condizionali
interdipendenti. Ogni individuo decide ciò che il gruppo vuole fare, a condizione
che ciascuno degli altri abbia un impegno e un intento simile. Risulta così, che io
ho intenzione di J, a condizione che tu allo stesso modo abbia intenzione di J.20
Per analizzare la risposta degli anti-riduzionisti, riconsideriamo la posizione di
Searle. L'approccio di Searle alla conciliazione tra la pretesa della proprietà
individuale e la natura condivisa delle intenzioni, prende le forme dell'aporia che
abbiamo ricostruito. Aderendo al vincolo razionale, Searle concepisce le
intenzioni come proprietà dell'individuo ma per restituire il senso di condivisione
le concepisce come intenzioni nella prima persona plurale.
Il primo problema dell'approccio di Searle è la mancanza di una giustificazione di
questa asserzione. Egli, infatti, considera le intenzioni collettive (il modo in cui
chiama le intenzioni condivise) primitive. L'unico modo nel quale Searle giustifica
la plausibilità di questa natura delle intenzioni, è richiamandosi a un fatto della
biologia, in un approccio naturalistico. E tuttavia, in nessun luogo dei suoi scritti
si trova un riferimento più approfondito della natura biologica delle intenzioni
collettive dentro la mente individuale.
L'approccio di Searle alla struttura dell'intenzionalità condivisa è stato criticato
per avere affermato contemporaneamente che il "noi" delle intenzioni è
irriducibile e che tutta l'intenzionalità esiste nelle menti individuali. Alcuni critici
(Meijers 1994, 2004; Schmid 2004, Zaibert 2003) hanno notato che Searle
abbraccia una metodologia solipsistica e individualistica (Searle 1990 p. 415 e
Searle 2010 p. 47) che rende difficile spiegare le relazioni intersoggettive o
interpersonali, che caratterizzano le attività condivise. Queste relazioni sono
20 Alcuni hanno sollevato dubbi perché quando si hanno intenzioni interdipendenti di questo tipo non è del tutto chiaro se si possa decidere qualcosa se ognuno è impegnato in senso proprio a fare J. Se ogni intenzione è condizionata dall'altra, è altrettanto ragionevole , il divieto di agire quanto lo è impegnarsi in esso
31
addirittura escluse in modo esplicito nel resoconto di Searle. Al contrario di
quanto pensa Searle, è plausibile ritenere, e questa è l'opinione della maggioranza
nel dibattito, che un buon coordinamento degli sforzi, nel perseguimento di
obiettivi condivisi, richiede che relazioni tra gli agenti coinvolti e gli
atteggiamenti degli altri, siano presenti nella struttura intenzionale di questo
processo sociale. Perché un evento complesso sia non solo un insieme casuale di
azioni coincidenti dei singoli agenti, ma un'azione congiunta intenzionale, ha
bisogno di una struttura di atteggiamenti in cui gli agenti coinvolti si riferiscono
gli uni agli altri. In altre parole, nella struttura dell’intenzionalità condivisa
bisogna rappresentare il contributo apportato dagli altri. L'unico riferimento a una
collettività che Searle incorpora nel suo resoconto, il plurale "noi" in ogni mente
individuale, è considerato primitivo e accessibile a una analisi solipsistica (cfr.
Searle 1990: 415). La sua concezione rende, così, intenzionalità collettiva
distributiva, nel senso che il segno distintivo dei fenomeni in questione non è
realizzato da individui insieme, da persone-in-relazione, da soggetti plurali o
gruppi, ma per intero da ciascuno dei soggetti coinvolti.
Il fatto che un individuo abbia questa intenzione collettiva in un modo primitivo
per Searle è indipendente da ciò che avviene nella mente degli altri, o anche dal
fatto che siano coinvolti altri. Pensando di aiutare qualcuno in panne con l'auto,
potrei avere l'intenzione collettiva espressa nella forma "stiamo spingendo la
macchina". E ciò si verificherebbe, anche se io avessi le allucinazioni e non ci
fosse nessuno in giro o come afferma Searle, anche se fossi un "cervello in una
vasca" (1990, 442). Sembra che i soggetti non debbano mostrare una notevole
capacità di rappresentare le altrui intenzioni, perché condividono con gli altri lo
stesso token dell'intenzione collettiva. Quel che rimane misterioso è come i diversi
individui impegnati in forme di agire collettivo pervengano ad avere le stesse
intenzioni collettive.
Riassumendo: il vincolo rappresentato dalla pretesa che tutta l'intenzionalità sia
contenuta nella mente individuale, ha portato l'approccio riduzionista a esprimere
il senso di condivisione (la jointness delle joint intention), per mezzo di una
32
particolare concezione delle intenzioni, le intenzioni pianificanti, e per mezzo di
una particolare struttura, le intenzioni singolari legate ad altri stati mentali,
credenze, desideri, intenzioni altrui. Queste strutture sostengono l'azione
congiunta se e solo se si è in grado di rappresentare le strutture intenzionali gli uni
degli altri.
Gli approcci anti-riduzionisti rispettano il vincolo dell'individualità della
intenzionalità collettiva, interpretando le intenzioni collettive come intenzioni
singolari espresse alla prima persona plurale. Queste intenzioni non prevedono
che il soggetto rappresenti le intenzioni altrui, perché sono due manifestazioni
della stessa intenzione collettiva. Il modo nel quale queste intenzioni si formano,
nelle menti individuali resta largamente non analizzato.
1.4. Intenzionalità condivisa e conoscenza comune.
Vi è poi un altro aspetto della concezione filosofica, che non è stato messo molto
in luce dalla letteratura, e che ha suscitato l'attenzione della comunità scientifica:
il problema della conoscenza comune Le intenzioni individuali, siano concepite
come piani (Bratman 1992) come desideri di partecipare (Kutz 2000) come
attitudini (Tuomela 1992) non bastano a spiegare che l'azione sia svolta in
maniera congiunta. Per rendere il senso di congiunzione pieno e effettivamente
causale, gli approcci filosofici devono introdurre una condizione caratterizzante:
la mutua conoscenza (nei testi in inglese "common knowledge" o "mutual
knowledge" d'ora in poi MC) delle reciproche intenzioni o dei reciproci fini. (S.
Miller 2001, p.59; Alonso 2009, p.458; Gilbert 1993; 2008, p.502; Bratman 1992,
p.335; 1993, p 103; 2009, p.160; Pettit & Schweikard 2006, p. 24; Tuomela &
Miller 1988, Chant e Ernst, 2008, p.550)21. Purtroppo, la vastità della sua
diffusione non corre di pari passo con la sua giustificazione. Bratman, ad esempio,
introduce la MC sostenendo che "sembra ragionevole supporre che,
21Per eccezioni si veda Searle (1990), Gold & Sugden (2007), e Pacherie (2011)
33
nell'intenzione condivisa, il fatto che ciascuno abbia attitudini rilevanti, sia
qualcosa di pubblico." (1993, p.103; si veda anche 1992, pp.334-335). In modo
simile, Seamus Miller sostiene che la "conoscenza comune è ciò che distingue
l'azione congiunta da un'azione interdipendente, che congiunta non è" ma non
spiega mai cosa sia la conoscenza comune, come caratteristica distintiva (Miller
2001, p.60). P. Pettit e D. Schweikard (2006), nel loro resoconto delle condizioni
da rispettare perché due agenti possano genuinamente dirsi impegnati nell'azione
congiunta, enunciano (al quinto punto) la condizione della conoscenza comune:
1. ognuno di loro intende agire congiuntamente
2. ognuno di loro intende fare la sua parte
3. ognuno crede che l'altro intenda far la sua parte e
4. ognuno intende fare la propria parte a causa di questa credenza
5. ognuno ha una conoscenza comune che le precedenti affermazioni siano
mantenute salde nel tempo
Si noti che la conoscenza comune è, tipicamente, una condizione perché si abbia
un'intenzione condivisa ma, poiché un'azione congiunta è il risultato di
un'intenzione condivisa, si deve verificare anche questa condizione perché
un'attività, con agenti plurali, sia un'attività congiunta.
Ci sono almeno due ragioni perché essa è stata considerata essenziale per una
genuina attività congiunta. La prima ragione è cruciale: la MC ci permette di
coordinare le nostre azioni in modo non accidentale; la seconda ragione è di
carattere prudenziale: non sarebbe razionale, in termini di ragionamento pratico,
partecipare all'azione congiunta, se questa condizione non fosse soddisfatta. La
prima ragione è la più importante: la conoscenza comune ci permette di
coordinare le nostre attività congiunte in modo non accidentale.
Se qualcuno si impegna in un'azione congiunta, coordina le proprie azioni con un
altro agente in modo non accidentale. E' diverso il caso di chi percorre
parallelamente un tratto di strada e chi sta facendo una passeggiata. La
34
coordinazione, quindi, può dirsi non accidentale, quando risponde a una certa
interdipendenza tra gli attori, e quando questa è oggetto di una loro conoscenza
comune. Ma come avviene questa coordinazione? Lewis sostiene che due agenti
hanno un "problema di coordinazione" quando i risultati delle loro scelte (di
agire), sono chiari a ciascuno di loro ma dipendono, per l'uno, dall'azione
intrapresa dall'altro (Lewis 1969).
Cerchiamo di far chiarezza, attraverso la costruzione di un esempio tratto dalla
vita quotidiana. Si dia il caso che tu ed io vogliamo incontrarci all'una. A nessuno
dei due importa, dove ci si deve incontrare. La condizione, perché raggiungiamo
lo scopo di incontrarci, è che entrambi andiamo allo stesso posto, all'una. La
migliore scelta di dove andare, è determinata dalla scelta della destinazione da
parte dell'altro. Così, affinché si converga con successo alla stessa località,
ciascuno di noi, come partecipante, si aspetta di trovare l'altro nel luogo in cui si
sta dirigendo. Com'è possibile pervenire a questa aspettativa, a partire
dall'interdipendenza tra noi? Dove devo andare io, infatti, dipende da dove devi
andare tu, che dipende, a sua volta, da dove devo andare io e così via.
Si può risolvere questo tipo di problema di coordinazione, per esempio, con un
accordo esplicito sul luogo nel quale incontrarci. Decidiamo, con un accordo, di
incontrarci a Baker Street. Ora, consideriamo che tipo di conoscenza dell'altro
dobbiamo possedere, quando ci mettiamo d'accordo per incontrarci a Baker Street:
se io non credo che tu credi, che il luogo del nostro incontro sia Baker Street,
allora non è chiaro che io ti incontrerò, se andrò a Baker street. La mia unica
ragione per andare a Baker street è che tu creda che questo sia il punto di incontro.
Se io vado a Baker street, senza la credenza sulla tua credenza sul luogo del nostro
incontro, affiderei al fato e alla fortuna il fatto di incontrarci. Lo stesso si potrebbe
dire di te. Se tu non credessi che io credo, che ci incontreremo a Baker Street, non
potresti nemmeno muoverti. Sfortunatamente la situazione non migliora se
ciascuno di noi non solo crede che il luogo del nostro incontro sia Baker Street,
ma crede che anche l'altro creda ciò. Se io non credo che tu credi che io credo, che
il luogo d'incontro sia Baker Street, allora non è chiaro se ti incontrerò, andando a
35
Baker Street. Dopo tutto, noi abbiamo stabilito che se tu non credi che io credo
che il luogo di incontro sia Baker Street, allora incontrarsi sarebbe solo una
questione di fortuna. Si innesca un meccanismo di rispecchiamento delle credenze
e di ricorsività. Gilbert ha pensato (Gilbert 2003) di inserire un elemento che
possa fungere da spia: la sorpresa. Sembra che se io vado a Baker Street e ti
incontro, dovrei essere piacevolmente sorpreso e potrei in modo appropriato
esclamare: " Oh anche tu hai deciso di andare a Baker Street". Ma chiaramente, se
noi avevamo esplicitamente concordato di incontrarci a Baker street, allora
sarebbe inappropriato esprimersi in questo modo.
Quando noi ci accordiamo per incontrarci a Baker street, il fatto che il nostro
luogo di incontro sia Baker street, deve essere "manifesto completamente" o deve
essere una conoscenza comune tra noi. E' questo ciò che suggerisce il desideratum
che ogni resoconto della conoscenza comune debba raggiungere. Come sostiene
Gilbert:
Nel cercare un resoconto della conoscenza comune, si sta in parte cercando un
resoconto di un fenomeno tale che, per una data proposizione p, atti compiuti con
la premessa che p o nell'assunzione che p, non sorprendano nessuno se questo
fenomeno è presente (Gilbert 1989, p.194)
In un'azione congiunta, quando due attori hanno un'intenzione condivisa di fare
qualcosa, le azioni dell'altro, compiute perseguendo l'intenzione condivisa,
saranno caratterizzate da una mancanza di sorpresa. Il punto di Gilbert però è
puramente limitato al fatto che l'occorrenza della sorpresa indica l'assenza di
conoscenza comune; da questo non deriva che la mancanza di sorpresa sia una
condizione necessaria e sufficiente della conoscenza comune. Azioni, le cui
premesse si basano sulla credenza o l'assunzione che P, possono non sorprendere
per altre ragioni, diverse dal fatto che c'è conoscenza che P. L'indicatore della
mancanza di sorpresa ci indica che il nostro accordo è andato a buon fine e che la
36
ricorsività delle credenze è stata interrotta in un certo punto. Il vero indicatore di
una coordinazione andata a buon fine è un mutuo riconoscimento delle credenze.
Questa ricostruzione combina molte delle riflessioni che vengono fatte, in ambito
filosofico a proposito della MC. Sia Bratman, che Tuomela teorizzano un
momento nel quale, le intenzioni manifeste di fare qualcosa insieme,, si
intersecano alle credenze che queste siano patrimonio comune, aperto alla
conoscenza. Tuomela, a proposito, utilizza la metafora della lavagna. Se due o più
agenti vogliono pulire insieme il parco, affiggono un biglietto con la propria
disponibilità su una lavagna, in modo che gli altri lo possano vedere e le risposte
siano un patrimonio di conoscenza comune che farà superare i problemi di
coordinazione.
Affinché la coordinazione delle azioni non sia accidentale, sembra sia richiesta un
certo tipo di "conoscenza aperta alle parti" (qui nel senso che le cose sono attese,
piuttosto che sono non nascoste) e si è premesso che questo è parte della nostra
nozione intuitiva di un'azione, che viene portata a termine in modo non
accidentale. Dalla breve analisi condotta sembra che la condizione necessaria
perché vi sia questa conoscenza aperta alle parti sia il rispecchiamento delle
credenze.
1.5 Azione congiunta e sviluppo
Tutte le teorie filosofiche dell'azione congiunta si concentrano quasi interamente
su stati cognitivi di ordine superiore, come le intenzioni. Questo conduce a una
serie di problemi ( Tollefsen 2005; Pacherie 2007, p. 166; Pacherie e Dokic 2006,
p 110) soprattutto legati alla mancata ricostruzione dei meccanismi legati alla
cognizione che permettono le interazioni (Toellefsen & Dale 2012)
Dall'analisi svolta fino a questo punto, abbiamo guadagnato l'idea, infatti, che i
filosofi hanno utilizzato materiali a buon mercato, le intenzioni individuali ma il
modo nel quale li assemblano è molto dispendioso da un punto di vista cognitivo.
37
Avere intenzioni condivise richiede, infatti, avanzate abilità rappresentazionali,
concettuali e comunicative e sofisticate forme di ragionamento sulle complesse
relazioni tra le reciproche intenzioni e i fini condivisi, reali e potenziali che siano.
Questo è problematico date le molte scoperte nelle ricerche sullo sviluppo che
suggeriscono che, da un lato, bambini di due anni si impegnano in ciò che appare
come un'azione congiuntamente intenzionale e, dall'altro lato, che i bambini non
padroneggiano, a quell'età, il tipo di abilità di mentalizzazione che le teorie
richiedono come requisito per condividere le intenzioni.
Non si può discutere in questa sede l'enorme letteratura sullo sviluppo delle abilità
di mindreading dei bambini. Mi limiterò a tre osservazioni. Primo, c'è un largo
consenso sul fatto che i bambini non superano il test della falsa credenza prima
dei quattro anni di età (Wellman et al. 2001; Wimmer & Perner 1983) e che essi
abbiano difficoltà, prima di quell'età, a comprendere le intenzioni e distinguerle
dai desideri (Astington 1991, 1994; Perner 1991). E tuttavia, c'è una quota
minoritaria di studi sperimentali che suggeriscono che gli infanti umani preverbali
di 15 mesi (Onishi & Baillargeon 2005, oppure di 13 mesi (Surian, Caldi &
Sperber 2007) o addirittura di 7 mesi (Kovacs, Téglàs & Endress 2010) siano
capaci di registrare le false credenze degli altri agenti. Se l'interpretazione dei dati
è fonte di un intenso dibattito22, per i nostri scopi è necessario notare che nessuno
sostiene che ci sia prova che gli infanti formino rappresentazioni esplicite degli
stati mentali altrui, quel tipo di rappresentazioni che sono necessarie per una
"Teoria della mente" flessibile e per il ragionamento pratico. E tuttavia secondo
gli approcci filosofici tradizionali, una teoria della mente flessibile e il
ragionamento pratico sono necessari per coordinare piani e strutturare accordi. E
quindi, e questa è la seconda osservazione, anche se le conclusioni del dibattito
corrente dovessero portare a concludere che questi dati supportano l'attribuzione
ai bambini di alcune abilità di mentalizzazione, ciò non giustificherebbe
22 Si veda ad esempio, Apperly & Butterfill (2009); Baillargeon, Scott & He (2010), Perner e Ruffman (2005)
38
l'affermazione che questi bambini abbiano le abilità richieste per formare
intenzioni condivise, così come sono definite negli approcci filosofici tradizionali.
Infine, un numero crescente di ricercatori ha sostenuto che gli infanti sono
sensibili ad alcuni aspetti delle attività dirette ad un fine, possono attribuire fini
alle azioni e possono discriminare tra azioni intenzionali e azioni accidentali
(Gergely et al 1995; Csibra 2008 Tomasello e Rakoczy 2003; Woodward e
Sommerville 2000). E tuttavia e questa è la terza osservazione, le prove di una
precoce comprensione dell'attività diretta a uno scopo, non dimostrano la
comprensione delle intenzioni come stati mentali. Per esempio, Csibra e Gergely
(2007) propongono che l'interpretazione dei comportamenti degli altri come azioni
dirette ad uno scopo è garantito da meccanismi di ragionamento teleologico per i
quali, i risultati delle azioni sono valutati in relazione ad un principio di efficacia.
In altre parole, il risultato di un'azione può o non può essere visto come un fine,
secondo la valutazione della relativa efficacia dell'azione compiuta per
raggiungerlo, nel contesto dei vincoli che la situazione presenta. Mentre c'è una
prova che gli infanti si impegnano nel ragionamento teleologico quando osservano
le azioni e così in un certo senso comprendono i fini, è altresì chiaro che i fini che
sono compresi non sono entità mentali ma stati del mondo, esattamente nei
termini di relazioni tra azioni e esiti che rispondono a certi vincoli di efficacia
nella situazione nella quale l'azione è prodotta.
Il fatto che le abilità di mentalizzazione dei bambini siano limitate avrebbe
conseguenze limitate sulla questione che noi stiamo trattando, se questi infanti
non si impegnassero in attività cooperative intenzionali. Ci sono prove che essi lo
facciano?
Nella sua recensione della letteratura sullo sviluppo, Brownell (2011) descrive
diverse fasi dell'azione congiunta nelle prime fasi dello sviluppo. Durante il primo
anno di vita, gli infanti partecipano ad attività congiunte con partners adulti, che
strutturano l'interazione e regolano la partecipazione degli infanti. Questa avviene
da principio in un gioco diadico e nell'interazione faccia a faccia. Alla fine del
primo anno di vita, gli infanti possono dare avvio e gestire questa forma di azione
39
congiunta con gli adulti e contribuire attivamente alla creazione e al
mantenimento di attività coordinate. Come rileva Brownell, il fine di questi giochi
sociali tra bambini molto piccoli e i loro partners adulti, sembra essere
l'affiliazione piuttosto che il perseguimento di alcuni fini strumentali esterni. Alla
fine del primo anno di vita emerge un'interazione triadica, una forma di azione
congiunta nella quale i partners agiscono insieme su oggetti e eventi esterni alla
diade, che è inizialmente strutturata e condotta dall'adulto. Durante il secondo
anno di vita, i bambini diventano progressivamente partners più affidabili e attivi
nelle attività congiunte. Al compimento del secondo anno, mostrano piena e
abilissima coordinazione anche in situazioni nuove, senza il supporto di obiettivi
familiari o di routines, sia con i coetanei sia con gli adulti. Gli studi che
identificano principalmente questo schema generale di sviluppo sono basati su
esperimenti che seguono gli infanti da 6 fino a 18 mesi (Bakeman & Adamson
1984; 1988) o infanti tra 12 e 24 mesi (Hay 1979) e li osservano giocare con le
loro madri e un insieme di giochi. Sebbene questi studi siano in grado di misurare
la progressione di un gioco coordinato con giocattoli e altri oggetti, le
ambientazioni informali nelle quali si svolgono, e il carattere molto ripetitivo
dell'attività, rendono difficile valutare fino a che punto gli infanti contribuiscono
attivamente alla coordinazione.
Warneken, Chen e Tomasello (2006) hanno definito un protocollo di esperimenti
volto a misurare in modo più accurato le abilità di bambini dai 18 ai 24 mesi a
coordinare le loro azioni con quelle degli adulti in un compito cooperativo, inclusi
i loro tentativi di coinvolgere il partner dopo un'interruzione. Essi hanno
sviluppato quattro compiti, due basati sul problem-solving e due giochi con ruoli
complementari o paralleli. Il gioco con ruoli complementari, per esempio,
prevedeva che una persona introducesse un blocco di legno dentro l'estremità
superiore di uno di due tubi e un'altra persona lo afferrasse con una lattina che
produceva un suono metallico. Dapprima due sperimentatori mostravano il gioco,
in seguito il bambino eseguiva il compito con uno sperimentatore. Durante il terzo
e quarto tentativo, lo sperimentatore che fungeva da partner interrompeva il gioco
40
per 15 secondi prima di ricominciare. Gli sperimentatori misuravano il livello di
coordinazione spaziale e temporale del bambino con il partner e analizzavano il
loro comportamento durante l'interruzione. Questo studio ha condotto a tre
scoperte. Primo, i bambini a 18 e 24 mesi erano in grado di cooperare con un
partner adulto non familiare, in una varietà di compiti non conosciuti, che
richiedevano l'azione congiunta. Secondo, l'abilità a coordinarsi con un partner
migliorava sensibilmente nei bambini a 24 mesi di età, mentre il comportamento
dei bambini di 18 mesi è stato valutato, prevalentemente come non coordinato; i
bambini più grandi, infatti, operavano a livelli di coordinazione medi, in ruoli
complementari o subordinati. Il terzo risultato concerne il comportamento dei
bambini durante i periodi nei quali il partner interrompeva la sua attività: i
bambini di entrambi i gruppi di età comunicavano attivamente nel tentativo di far
tornare l'adulto alla sua attività, mentre la frequenza di atti comunicativi era simile
in entrambi i gruppi, la verbalizzazione lo era tra i bambini di età compresa tra 20
e 24 mesi. Questi risultati corroborano precedenti scoperte che rintracciavano una
decisa accelerazione nella capacità di coordinarsi appena prima il compimento del
secondo anno di età; essi estendono i precedenti risultati mostrando che queste
abilità a coordinarsi non sono ristrette ad attività familiari, compiute con partners
familiari. Essi suggeriscono, dunque, che la motivazione a impegnarsi in attivtà
cooperative, come si evince dal tentativo di richiamare il partner che aveva
interrotto l'interazione può essere presente in bambini prima che essi
padroneggino le abilità necessarie per la coordinazione attiva.
Così, come Brownell ci spiega, sembra ragionevole ritenere che gli infanti
inizialmente apprendano la cooperazione partecipando ad attività congiunte,
strutturate e guidate da adulti competenti e gradualmente acquisiscono un
controllo maggiore, fino a quando sono in grado di dar avvio e gestire i loro
contributi da soli e, attorno all'età di due anni, contribuiscono autonomamente e
attivamente alle attività. Prove di queste abilità sono state rinvenute anche nelle
interazioni con i coetanei, nelle quali le azioni coordinate non si verificano prima
41
del secondo anno di vita ma che presentano un incremento deciso tra il
ventiquattresimo e il ventottesimo mese (Holmberg 1980; Eckerman et al 1989).
C'è anche prova del fatto che tra due e tre anni di età, i bambini comprendano e
agiscano rispettando la dimensione normativa delle attività collaborative, inclusa
una comprensione di accordi espliciti, delle regole convenzionali del gioco e
dell'impegno verso altre attività congiunte (Gråfenhain et al 200; Hamann et al.
2012; Rakoczy et al 2008; Warneken et al. 2006; Warneken & Tomasello 2007).
Bambini di tre anni, per esempio, restano impegnati a perseguire l'attività
congiunta fino a quando entrambi i partners ottengono una ricompensa, anche se
uno dei due, per caso, riceve la ricompensa per primo (Hamann et al., 2012).
Inoltre, quando bimbi di tre anni esprimono espliciti impegni con un partner,
verbalmente, si aspettano che gli altri si attengano a questi e essi stessi
riconoscono di doversi scusare se rompono i patti con i partners ( Grafenheim et
al., 2009). Questo suggerisce che bambini di tre anni vedono le proprie azioni e le
altrui come parte di un'attività collaborativa con fini congiunti tali che le loro
azioni si possono dire vere e proprie azioni congiunte.
Ciò che è meno chiaro è se bambini di due anni vedono le loro azioni e le azioni
dei partners come parte di un'attività collaborativa con un fine congiunto piuttosto
che vedere i partners come strumenti sociali per raggiungere i propri scopi.
Ci sono prove che bambini molto piccoli non siano creature puramente egoiste e
che esibiscano comportamenti pro sociali. Gli infanti umani dai 14 ai 18 mesi
aiutano gli altri a ottenere i loro fini - per esempio, aiutandoli a raggiungere
oggetti fuori dalla loro portata o aprendo e chiudendo sportelli - e facendolo
indipendentemente da un compenso dato da un adulto (Warneken & Tomasello
2007). Essi si impegnano in altri tipi di comportamento pro sociale, incluso
condividere risorse con altri e fornire informazioni utili agli altri (Warneken &
Tomasello 2009). Oltre a ciò, ogni bambino molto piccolo mostra già di cooperare
con delle preferenze; per esempio bambini molto piccoli mostrano preferenze per
alcuni individui sulla base di un linguaggio comune (Kinzler, Dupoux & Spelke
42
2007) e di comportamenti precedenti (Hamlin, Wynn & Bloom, 2007; Dunfield &
Kulmeier 2010).
Il fatto che bambini molto piccoli si impegnino in comportamenti pro sociali non è
una garanzia in sé che, quando agiscono congiuntamente, essi vedano la propria
azione e quella del partner come parte di un'azione collaborativa; probabilmente
vedono il partner come uno strumento sociale per quello che vogliono ottenere.
In uno studio più recente con bambini di 27 mesi, Warneken, Grafenhain,
Tomasello (2012) hanno affrontato questo tema problematico analizzando le
risposte di bambini dai 21 ai 27 mesi all'interruzione dell'attività da parte del
partner in giochi nei quali a volte era fisicamente necessario il partner per
raggiungere lo scopo e a volte no e in situazioni nelle quali il partner
interrompeva l'attività o perché non voleva proseguire o perché non poteva
proseguire. Il loro ragionamento si basava sul fatto che, nell'ipotesi in cui il
partner fosse uno "strumento sociale", indipendentemente dal fatto che non
volesse o non potesse proseguire, i tentativi di supportare il partner avrebbero
dovuto essere più probabili nei compiti con azioni collegate causalmente, perché
solo in questi compiti, la partecipazione dell'altra persona è necessaria per il
raggiungimento del fine personale. Al contrario, nell'ipotesi del partner
collaborativo, si dovrebbe ottenere lo schema inverso: i bambini dovrebbero
essere sensibili alle intenzioni del partner e rispondere in maniera differente alle
interruzioni, secondo se il partner lo fa perché non vuole o perché non può
continuare. I ricercatori hanno scoperto che nell'ipotesi del partner collaborativo, i
bambini di tutte le età incoraggiavano il partner recalcitrante con la stessa
frequenza, sia nel caso in cui egli fosse fisicamente necessario per il
raggiungimento del fine, sia nel caso in cui non lo fosse, ma che questo avveniva
più spesso quando il partner era impossibilitato a continuare piuttosto che quando
non volesse continuare.
Nell'insieme, questi studi forniscono prove che i bambini sono non soltanto capaci
di impegnarsi in forme di agire congiunto con altri ma anche capaci di vedere
queste interazioni come attività genuinamente collaborative con fini congiunti. Lo
43
studio di Warneken, Grafenhain, e Tomasello (2012) suggerisce che questa abilità
è già presente nei bambini di due anni, prima che essi sviluppino una
comprensione degli aspetti normativi espliciti delle attività collaborative.
In sintesi, bambini di due anni sembrano impegnarsi in azioni congiunte che
presentano i requisiti di azioni congiunte vere e proprie, avere, cioè fini congiunti
e tuttavia mancano del tipo di sofisticatezza cognitiva che sarebbe richiesta perché
essi possano condividere le intenzioni, almeno nel modo in cui questo è concepito
dagli approcci filosofici prevalenti e in particolare dall'approccio di Bratman.
1.6. Coordinazione emergente e architettura minima dell’azione
congiunta.
Sul versante della psicologia cognitiva, si riconosce che i primi approcci al tema
dell'azione congiunta provengono dall'interesse dei filosofi per la natura
dell'intenzionalità condivisa e che questi approcci specificano i sistemi di
rappresentazione che consentono la pianificazione di azioni congiunte (Clark
1996; Brennan 2005). Allo stesso tempo, però, si sostiene che questi approcci
sono stati raramente oggetto di verifica empirica e ciò ha determinato grande
incertezza circa la valutazione di tali sistemi di rappresentazione. Non è mai stato,
considerato, ad esempio, il contributo dei processi cognitivi basilari, di basso
livello, che specifichino che cosa siano le intenzioni, da quali processi cognitivi
siano realizzati e come è possibile formarsi intenzioni interdipendenti.
La domanda di partenza quindi dovrebbe essere: Quali sono i processi percettivi,
cognitivi e motori che permettono alle persone di agire con gli altri, e come può
essere caratterizzata la componente apparentemente irriducibile delle azioni
congiunte (Hutchins, 1995) ?
I risultati di queste ricerche sembrano suggerire che i filosofi abbiano postulato
strutture intenzionali complesse, che spesso sembrano andare oltre la capacità
cognitiva umana di interagire in tempo reale, con il risultato di una sorta di
44
"inflazione intenzionale" (Knoblich & Sebanz 2006). Cerchiamo di capire su cosa
si fonda questa critica. La domanda che ha ispirato molte ricerche empiriche sul
fenomeno verte sulla possibilità di capire se le intenzioni come stati mentali di
alto livello siano veramente gli unici elementi necessari per spiegare il complesso
meccanismo che permette agli individui di agire in modo congiunto. Questa
visione, infatti, viene criticata dalle discipline interessate al problema delle
interazioni sociali. L'argomento consiste nel dire che gli individui non sembrano
dispiegare complessi sistemi di rappresentazione delle intenzioni altrui, perché
quando si interagisce, gli agenti sembrano avere accesso a più informazioni sul
comportamento dei loro partners di quante ne avrebbero, se essi fossero
osservatori in un contesto sociale disincarnato.
La fondamentale research question, conseguentemente, è stata: che cosa fanno,
minimamente, due o più attori quando agiscono insieme ? A quali risorse
cognitive minime si affidano ?
Ci sono due tipi di risposte che identificano due ipotesi esplicative per l'azione
congiunta: gli individui si coordinano secondo meccanismi automatici di
coordinazioe emergente e quindi possiamo fare a meno delle intenzioni e delle
rappresentazioni all’interno delle menti individuali oppure gli individui nel
rappresentare il contributo degli altri non devono far ricorso a complesse strutture
intenzionali interdipendenti ma a meccanismi cognitivi più semplici e basilari
(Sebanz et al 2011).
1.6.1 Coordinazione emergente
Nella coordinazione emergente, il comportamento collettivo occorre in virtù della
congiunzione tra percezione e azione, che fa si che più individui agiscano in modo
simile, ma è indipendente da eventuali piani congiunti o da conoscenza comune
(che può essere del tutto assente). Piuttosto, gli agenti sono in grado di trattare
segnali percettivi e motori allo stesso modo. Due agenti separati possono
cominciare ad agire come una singola entità (Marsh et al, 2009;. Spivey, 2007), in
45
virtù del fatto che processi comuni nei singoli agenti sono guidati dagli stessi
stimoli e dalle medesime routines motorie. Se io sono sul bus e vedo una mamma
con un passeggino che è in difficoltà a salire e la aiuto con un movimento del
braccio, non ho agito in base ad una intenzione congiunta, ho estratto dalla scena
percettiva elementi che mi suggeriscono alcune possibili azioni.
Comincerò ad analizzare brevemente la coordinazione emergente. Questo primo
scenario è di particolare interesse perché fornisce una giustificazione teorica a chi
voglia fare a meno delle intenzioni. In esso, infatti, gli attori influenzano il
reciproco comportamento "sintonizzandosi automaticamente" (entrainment) o si
impegnano in un'azione congiunta perché un oggetto dell'ambiente fornisce loro la
stessa opportunità di azione (affordances simultanee). Al fine di interpretare
correttamente concetti come affordances e entrainment, è importante tener
presente che la psicologia ecologica, dalla quale essi provengono, è probabilmente
la versione più radicale di embodiment, che rifiuta qualsiasi nozione di
rappresentazione che sia interna all'attore. In questa visione interazionista di come
gli attori e ambiente entrano in relazione (Gibson 1979; Turvey 1990; Shaw
2001), si assume che l'informazione emerga in una relazione invariante tra attori
che cambiano dinamicamente i propri movimenti e le loro percezioni. Come
conseguenza di questa interazione, percezione e movimenti si specificano gli uni
attraverso gli altri.
In contrasto con molti orientamenti della scienza cognitiva, in questi approcci le
intenzioni non sono considerate alla stregua di stati mentali, psicologici,
appartenenti a una persona ma proprietà di un ecosistema (Shaw 2001), che
emergono nell'interazione tra organismi e ambiente. Conseguentemente, le
intenzioni sono considerate un aspetto del mondo fisico piuttosto che di quello
mentale. Un'ulteriore implicazione consiste nel fatto che le relazioni attore-
oggetto e attore-attore sono governate dai medesimi principi dinamici. Il ruolo
centrale delle relazioni dinamiche nel framework ecologico ha condotto i
ricercatori a esplorare la sincronizzazione temporale durante l'interazione sociale.
Gli studi più recenti mostrano che effetti di sincronizzazione temporale spontanea
46
sono osservabili, anche se gli attori non sono istruiti a sincronizzare i loro
movimenti. (Schmidt & O'Brien 1997; Richardson et al 2005). Un famoso
esempio proviene da uno studio nel quale due partecipanti, che sedevano
affiancati su sedie a dondolo, che avevano una frequenza di oscillazione simile
(Richardson et al 2007;2008), convergevano automaticamente verso una
medesima frequenza di oscillazione. Nella condizione nella quale i partecipanti si
guardavano, essi tendevano a oscillare in sincronia, anche se le frequenze di
partenza erano differenti.
Accanto alla sincronizzazione spontanea, l'approccio ecologico teorizza un altro
comportamento coordinato che è mediato dalle affordances dell'oggetto (Gibson
1977). Quando due organismi hanno un repertorio di azioni simile e percepiscono
lo stesso oggetto, essi adottano lo stesso comportamento perché l'oggetto "invita"
alla stessa azione. A proposito dell'azione congiunta, alcuni ricercatori hanno
cominciato a esplorare come la presenza di un'altra persona fornisca affordances
per agire insieme (Richardson et al 2007). Forme di coordinazione spontanea,
emergente, quindi sono un fatto non trascurabile nell'interazione e sono
particolarmente adatti a descrivere fenomeni di interazione veloce in tempo reale.
.
1.7 Architettura minima dell’azione congiunta
La coordinazione emergente da sola non basta a spiegare il fenomeno dell'azione
congiunta; essa è limitata perché non permette di spiegare come le persone
distribuiscono differenti parti di un compito tra loro e nemmeno come esse
correggono le loro azioni rispetto agli altri o sono flessibili nel raggiungere fini
comuni. (Knoblich & Sebanz et al 2011)
Consapevoli di ciò sono i sostenitori di una teoria minimalista dell'azione
congiunta i quali, infatti, sostengono che i meccanismi di coordinazione
emergente sono reclutati in sinergia con meccanismi di coordinazione pianificata
47
(Knoblich, Sebanz, Butterfill 2012). Gli agenti pianificano le proprie azioni in
relazione ad azioni comuni o in relazione alle azioni degli altri (laddove nella
coordinazione emergente la pianificazione è assente o confinata alle proprie
azioni). La pianificazione coordinata si basa soprattutto su una operazione: la
rappresentazione dei compiti condivisi.
Sia nelle azioni individuali sia in quelle congiunte, gli individui rappresentano gli
obiettivi e le attività che devono essere eseguite per raggiungere questi obiettivi.
Ad esempio, si consideri una persona che deve sollevare un cestino da picnic a
due manici con qualcun altro. Il suo obiettivo è quello di mettere il cestino su
un'automobile. Quello che si deve fare - il proprio compito - è sollevare uno dei
due manici in modo tale che l'altro possa sincronizzarsi. La concezione
minimalista dell'azione congiunta suppone che si rappresenti la metà (spostare il
cestino da picnic) del proprio compito. In casi molto semplici, tuttavia, Vesper et
al (2010) propongono che non è necessario per l'individuo né rappresentare
l'incarico dell'altro né concepire l'altro come agente intenzionale. Come differisce
questa situazione dal caso di azione individuale, in cui una persona solleva un
cestino da solo? Dal punto di vista dell'agente, l'unica differenza è che l'agente si
rende conto che l'esecuzione del suo compito non è sufficiente per raggiungere il
suo obiettivo. In altre parole, dato il modo in cui l'agente rappresenta il suo
compito, l'obiettivo può essere raggiunto solo con il sostegno di X, sia esso un
altro agente o qualche altra forza. Questo viene reso dalla formula ME + X. Nei
casi più semplici, si suppone che l'agente rappresenti soltanto il suo compito. In
molti casi, però è necessario che l'agente rappresenti il compito dell'altro,
corrispondente a quello che X dovrebbe fare. Questo compito altrui può essere
rappresentato sia come qualcosa che l'altro non farà o come qualcosa che ci si
aspetta che faccia.
Secondo l'architettura minima dell'azione congiunta, un individuo deve
minimamente rappresentare il proprio obiettivo. Non è necessario, anche se in
genere molto utile, rappresentare pure il compito dell'altra persona. Per illustrare il
48
caso, consideriamo due persone che ballano il tango insieme. Il leader e il
follower devono coordinare i loro passi, l'uno con l'altro. In linea di principio, il
follower potrebbe rappresentare il compito del leader in un modo molto specifico,
che comprende per esempio il bisogno di fare un movimento in avanti con il piede
destro. Ciò implicherebbe che il follower potrebbe, in linea di principio, invertire
il ruolo con il leader. Ma è più probabile che il follower non rappresenti il compito
del leader in dettaglio, ed è plausibile che non rappresenti per niente il compito
del leader. Tutto quello che si richiede è una rappresentazione del proprio compito
e l'obiettivo di muoversi lungo una certa traiettoria, senza perdere il contatto con il
partner. Possono agenti che non rappresentano le rispettive mansioni, realmente
agire in modi che portano insieme a un obiettivo? La prova sarebbe fornita da
studi in cui un agente non ha accesso a informazioni relative ad un compito
cooperativo con un partner, ma è comunque in grado di raggiungere un obiettivo,
come un effetto comune dei propri sforzi e di quelli del partner. Ciò si collega alla
domanda se la collaborazione in animali non umani e bambini umani comporta il
rappresentare le attività altrui. Studi condotti sulla collaborazione in scimpanzé
potrebbero avere interpretazioni tali da non coinvolgere rappresentazioni. Ad
esempio, Melis, Hare, e Tomasello (2006 ) hanno presentato a degli scimpanzé un
ripiano con del cibo, al quale potevano accedere solo se due scimpanzé avessero
tirato entrambe le estremità di una corda, nello stesso momento. Gli scimpanzé
sono stati in grado di fare questo e anche di scegliere il miglior partner per il
coordinamento. Tuttavia, è possibile che uno scimpanzé non rappresentasse il
compito dell'altro e invece utilizzasse il partner come "strumento sociale'' (Moll &
Tomasello, 2007). In particolare, potrebbe aver capito che non doveva tirare la
corda, tranne quando era in tensione, effetto che si verificava quando l'altro stava
iniziando a tirare. In modo simile, è possibile che le prime azioni congiunte che i
bambini svolgono insieme agli adulti, non richiedano che il bambino rappresenti il
compito dell'altro. Per esempio, un bambino può avere l'obiettivo di recuperare un
giocattolo preferito da uno scaffale alto e rendersi conto che non può ottenere
questo fatto da solo. Il modo per ottenere il giocattolo può coinvolgere l'adulto che
49
solleva il bambino in modo che può raggiungere il giocattolo. In questo caso, il
bambino non ha bisogno di rappresentare ciò che l'adulto sta facendo al fine di
raggiungere l'obiettivo insieme. Tuttavia, abbiamo visto che ci sono prove che
suggeriscono che, fin dalla tenera età, i bambini sono sensibili alle parti degli altri
in un'azione comune (Moll & Tomasello, 2007). Essi protestano quando un agente
non agisce in conformità con le regole pre- specificate ( Rakoczy , Warneken, e
Tomasello, 2008), e sembrano avere una comprensione che agire insieme implica
impegno (Carpenter, 2009; Gräfenhain, Behne, Carpenter , & Tomasello, 2009).
Anche se un agente coinvolto in un'azione congiunta può rappresentare soltanto il
proprio compito e l'obiettivo comune, come nel caso minimo, è generalmente utile
rappresentare il compito altrui. Questo permette di prevedere ciò che l'altro farà
dopo. Infatti, è stato dimostrato che gli adulti sono inclini a rappresentare quello
che un altro sta facendo. Negli studi sulla co-rappresentazione ( Atmaca , Sebanz ,
Prinz , e Knoblich , 2008; Sebanz , Knoblich , e Prinz , 2003, 2005 , Tsai , Kuo,
Jing , Hung , eTzeng , 2006) una sequenza di stimoli appare sullo schermo del
computer a due partecipanti che siedono accanto. Un partecipante è istruito a
rispondere ad un tipo di stimolo, mentre il suo co-attore deve rispondere ad un
altro tipo di stimolo. Alcuni degli stimoli sono tali da produrre tra risposte che si
manifestano in termini di errori o ritardi nella risposta corretta nel caso in cui vi
sia un unico partecipante. I risultati hanno mostrato che le prestazioni del
partecipante sono state disturbate proprio come se stesse eseguendo entrambe le
attività solo. Questo suggerisce che una persona rappresenta il compito dell'altra
persona, anche quando agisce su un obiettivo al quale il co-attore non può
contribuire. Ulteriore sostegno a questa tesi viene da prove elettrofisiologiche che
dimostrano che le persone mentalmente svolgono il compito del co-attore
(Sebanz, Knoblich , Prinz , e Wascher 2006; Tsai , Kuo, Hung, e Tzeng , 2008).
In sintesi, gli agenti possono non rappresentare l'altrui compito (task x), né
l'esecutore di questo compito (X). Tuttavia, in molti casi, essi rappresentano il
compito (x). Questo compito potrebbe essere rappresentato in maniera neutrale
50
rispetto all'agente-, senza rappresentare X, o essere legato a una rappresentazione
di ( delle caratteristiche di) X.
Rappresentazioni del compito comune23 forniscono strutture di controllo che
consentono agli agenti di impegnarsi in modo flessibile in azioni congiunte. Esse
non solo servono a specificare in anticipo le singole parti che ogni agente (me e te
nel caso più semplice) sta per compiere, ma governano anche il monitoraggio e la
previsione, processi che consentono il coordinamento interpersonale in tempo
reale (Knoblich & Giordan, 2002; Pacherie & Dokic, 2006). Ad esempio, due
calciatori di una squadra, in cui un giocatore è specializzato nel cross e l'altro è
specializzato nei colpi di testa, sapranno monitorare e prevedere l'un l'altro le
rispettive mosse in vista di un fine, monitorando e prevedendo i comportamenti
reciproci.
Il grado con il quale il compito degli altri agenti, le loro percezioni, la loro
conoscenza e le loro intenzioni sono prese in considerazione, durante la
pianificazione di un'azione congiunta, può variare sensibilmente. Al grado
minimo, la pianificazione coordinata richiede un piano che specifica soltanto
l'esito comune dell'azione congiunta, la propria parte nella stessa e una qualche
consapevolezza che l'esito può essere raggiunto soltanto con il supporto di un altro
agente o di una forza (X). Per un piano minimamente congiunto, l'identità di X e
le sue parti, rimangono non specificate (Vesper et al 2010). Partendo con requisiti
di rappresentazioni minime (Clark, 1977), si può analizzare una grande varietà di
casi di azioni congiunte, che non implicano le rappresentazioni dettagliate degli
altri agenti o dei loro piani, che sono state postulate dagli approcci filosofici
massimalisti all'azione congiunta. Attraverso un'analisi dei meccanismi cognitivi
necessari per agire, i minimalisti ritengono restrittiva oltre il necessario,
l'assunzione delle rappresentazioni dettagliate delle intenzioni altrui, postulate dai
filosofi24. Gli approcci tradizionali sono criticati per aver prodotto delle strutture
23 Torneremo su questa operazione nel quarto capitolo: nella strategia di questo lavoro, infatti essa spiega bene come è possibile formarsi intenzioni che guidano l'azione congiunta.24 cfr il complesso meccanismo rappresentativo di Bratman e Tuomela.
51
troppo sofisticate, che non sono state in grado di descrivere come gli agenti
possono agire insieme. Il modo nel quale gli agenti di un'azione congiunta
pianificano la loro azione non è quello descritto dai massimalisti perché la
pianificazione non deve prevedere intenzioni che si interconnettono per aver
luogo. La coordinazione e la pianificazione possono avvenire a un livello
cognitivo di complessità inferiore che non prevede sofisticate abilità mentali
rappresentative.
Questo è il cuore dell'argomento minimalista.
Capitolo secondo.
Mind the Gap
Dismettere le intenzioni o ripensarle?
2.1 Il deflazionismo filosofico.
La rassegna comparata della letteratura filosofica e di quella psicologica produce
l'impressione che ci sia una grande divisione tra le ipotesi esplicative. Per
contribuire a gettare luce sul fenomeno dell'agire congiunto è necessario lavorare
nella direzione di una collaborazione tra i diversi filoni di ricerca. Se, infatti, i
filosofi sembrano concentrati soltanto sulle intenzioni condivise, la prospettiva di
52
un'architettura minima dell'azione congiunta non sembra esaustiva nel dar conto
della complessità del fenomeno e soprattutto del tipo di fenomeno al quale i
filosofi sono interessati.
I modi per uscire da questo gap potrebbero essere molteplici e in letteratura sono
riconducibili a due strategie. Ci si può porre in una posizione di rottura con il
pensiero dominante, essendo motivati dai recenti sviluppi della psicologia
cognitiva e dello sviluppo. In questa direzione, la strategia consiste nel fornire
strumenti concettuali per studiare forme di azione collettiva, che non comportano
intenzioni condivise da tutti (Seemann 2011, Michael 2011, Woodard 2011 e
soprattutto Butterfill 2010). Si può mantenere la centralità dell'intenzione
condivisa, offrendo un nuovo, e potenzialmente meno oneroso, approccio di ciò
che conta come intenzione condivisa (Pacherie 2009, Blomberg 2011). L'onere di
chi intraprende questa strada è spiegare quale natura hanno le intenzioni condivise
(tale che possano essere armonizzate con i meccanismi cognitivi che la psicologia
cognitiva e dello sviluppo riconosce come condizioni per agire in modo condiviso
e non escludere gli infanti dal fenomeno) e quali funzioni peculiari esse hanno,
affinché emerga che esse non possono essere escluse dalla spiegazione di come gli
individui si impegnano in forme di agire collettivo. La prima strategia è stata
messa in atto da Butterfill, alla seconda è dedicato il presente tentativo.
Mi confronterò con il tentativo di Butterfill (2010, 2012) che si può considerare il
più compiuto approccio filosofico riconducibile alla prima strategia. Egli sostiene
che ci può essere azione congiunta senza intenzioni condivise. In particolare,
Butterfill argomenta contro talune altre condizioni definite erroneamente
necessarie per un'azione congiunta. A suo parere, gli agenti che partecipano a
un'azione congiunta non devono essere a conoscenza del senso di congiunzione
nell'azione, non devono riconoscere gli altri agenti come intenzionali, non devono
quindi agire, in parte, a causa della loro consapevolezza della congiunzione e
dell'agire altrui, e, infine, non hanno bisogno di essere a conoscenza degli
atteggiamenti degli altri agenti verso l'azione comune. Possiamo definire questo
approccio la visione filosofica deflazionista dell'azione congiunta (Butterfill 2012
53
p 2). La domanda iniziale di Butterfill è se si possa definire l'azione congiunta
senza un elemento caratterizzante come l'intenzione, senza ricorrere, quindi, a
quello che negli altri approcci è un "ingrediente necessario"(Butterfill 2010 p 1).
La sua strategia è ribaltare le normali descrizioni di un'azione congiunta partendo
non dalla nozione di intenzione ma dalla nozione di fine condiviso.
Il passo preliminare per scindere intenzioni e individuazione dell'azione è
sostenere che l'azione congiunta non sia una azione ma un evento.25 L'evento
costituito dall''attività plurale degli agenti ha come esito quello di ottenere un fine
condiviso. L'errore, secondo Butterfill è stato associare l'idea di un fine con l'idea
di un'intenzione e pensare il fine come uno stato psicologico. Si può, invece nella
sua prospettiva, adottare una terminologia più neutra, da un punto di vista
psicologico e intendere il termine fine come il risultato di uno sforzo comune.
L'intenzione non è un fine ma uno stato, lo stato di un agente che rappresenta un
fine.Interpretando il fine, invece, come il semplice risultato di un evento (l'attività
plurale), è possibile descriverlo senza fare appello alle intenzioni dei partecipanti.
Bisogna, tuttavia, trovare una possibile alternativa, che svolga la funzione di
legame tra i partecipanti, la funzione, cioè, che negli approcci tradizionali è svolta
dalle intenzioni.
Per far questo, secondo Butterfill, bisogna approfondire la funzione di un fine
condiviso. Che funzione ha il fine condiviso? Secondo Butterfill, il fine condiviso
ha la funzione di coordinare l'attività plurale. Basandosi sui risultati empirici delle
scienze cognitive (Butterfill 2010), egli argomenta che la coordinazione può
25 In questo modo non si viola il principio si Davidson (1980). Naturalmente la mossa non è senza conseguenze. Il problema diventa ontologico e metafisico; Butterfill, infatti, suggerisce che non esiste nella realtà qualcosa che si chiami "azione congiunta". Tutto quello che conosciamo è "azione"/"azioni" alle quali è possibile applicare il principio di Davidson. Gli eventi non devono per forza essere descritti in termini intenzionali (a meno che non siano azioni). Il concetto e il fenomeno "agire insieme" è analizzato attraverso una serie di azioni individuali. L'intero processo è definito come un evento. Ecco perché la sua è una prospettiva deflazionista. In questo lavoro si cercherà di far emergere che non che sia possibile eliminare la realtà ontologica dell'azione congiunta e uno dei suoi scopi sarà proprio mostrare che le ricerche empiriche più avvedute sul tema suggeriscono che esista un fenomeno vero e proprio che si può chiamare azione congiunta e che poggi su certe capacità cognitive che sostengono processi intenzionali.
54
essere raggiunta in molti modi. Noi possiamo coordinarci con altri, anche se non
siamo consapevoli di come ci stiamo coordinando, in virtù di molti processi di
coordinazione emergente, che sono indipendenti dai fini delle azioni degli agenti e
che soprattutto spesso sono processi automatici e non controllabili. "La
coordinazione richiesta perché le azioni abbiano un fine comune spesso coinvolge
soltanto i sistemi motori piuttosto che il pensiero cosciente, così come fattori non
psicologici, come le proprietà dinamiche dei corpi". (Butterfill 2012). Non c'è la
necessità di rappresentare l'intenzione di un altro per spiegare come ci si impegna
in forme di agire congiunto. A questo punto, una possibile obiezione potrebbe
essere quella di avere una definizione troppo ampia che includerebbe fenomeni
che, intuitivamente, sono difficilmente definibili azioni collettive in senso pieno.
Butterfill è consapevole di dover delimitare metafisicamente la caratterizzazione
dell'evento per individuare una serie di azioni che siano legate verso un fine
condiviso Egli raffina la sua analisi distinguendo due tipologie di fini: fini
distributivi e fini collettivi. Se Tizio e Caio, da due angolazioni diverse e
all'insaputa l'uno dell'altro, sparano ad un uomo e questo muore, essi avevano un
fine condiviso ma non hanno agito congiuntamente; nella terminologia di
Butterfill, essi hanno un fine distributivo. Un fine si dice distributivo quando
occorrono due condizioni: primo, il risultato è un fine al quale gli agenti sono
individualmente intenzionalmente diretti, secondo, ogni agente di un gruppo è in
relazione ad un fine in modo tale che è possibile, per tutti gli agenti
singolarmente, pervenire al fine. "Tizio e Caio uccidono" può voler dire che
entrambi hanno un fine, che possono ottenere singolarmente. Questa nozione
spiega casi molto generali di jointness, essendo distributiva, ma non descrive la
relazione causale necessaria che si dà per individuare casi intuitivamente più
importanti di agire insieme. Accanto ai fini distributivi esistono fini collettivi.
Un risultato comune è il fine collettivo di un'azione quando a) è un fine
distributivo tra gli agenti, b) le azioni degli agenti sono coordinate c) la
coordinazione favorisce occorrenze di questo tipo in condizioni normali, d)essere
55
agenti di questo evento costituisce un contributo essenziale a raggiungere il fine
senza il quale il fine non potrebbe essere raggiunto.
Pervenuto a queste conclusioni, Butterfill tenta una definizione di azione
congiunta che non preveda le intenzioni: un'azione congiunta è un "evento causato
da due o più agenti dove tutte le azioni, prese nell'insieme (a) hanno un fine
collettivo (b) sono in relazione le une alle altre e a tutto l'evento in modo
sufficiente perché ogni agente sia un agente di questo evento"(Butterfill 2010). Il
risultato della deflazione sembra essere raggiunto, perché l'appello alle intenzioni
è scomparso. Alla rappresentazione delle intenzioni, Butterfil, sulla scia delle
analisi empiriche ha sostituito la coordinazione. La formulazione sembra
persuasiva e sembra fronteggiare bene il groviglio che i diversi indirizzi di ricerca
producono nel proporre azioni collettive di tipo paradigmatico26 e tuttavia vorrei
suggerire che non raggiunge il suo obiettivo. Non coniuga i diversi approcci e non
elimina le intenzioni dalla spiegazione dell'azione congiunta.
2.2. I limiti del deflazionismo filosofico
Ciò che Butterfill suggerisce è che bisogna mettere in risalto alcune forme di
coordinazione tra gli agenti di un'azione. La coordinazione può prendere molte
forme. Può essere raggiunta per via ormonale (nel caso delle formiche) o
attraverso meccanismi psicologici. Mentre alcune forme di coordinazione sono
sotto il controllo intenzionale, altre non lo sono. Varie forme di coordinazione
emergente, dove il comportamento coordinato avviene attraverso la
collaborazione tra la percezione e l'azione, che facciano agire molti individui in
modo simile, sarebbero annoverabili sotto la seconda categoria e per ricostruire il
26 A margine si potrebbe obiettare che l'ingrediente necessario che rappresenta una minaccia al tentativo di deflazionare la nozione di joint action è la coordinazione. Seguendo la stretta logica della metodologia adottata da Butterfill, per la quale nessun elemento deve essere irrinunciabile, la sua analisi non rispetta le premesse. La sua caratterizzazione di un fine collettivo richiede, infatti, la presenza della coordinazione che finisce per essere il vero elemento distintivo. Il punto, comunque non è centrale per la ricostruzione.
56
tipo di legame, che è possibile immaginare tra agenti, Butterfill fa riferimento alla
sola coordinazione emergente, la quale è, secondo gli approcci ecologici che
abbiamo ricostruito, "intenzionalmente cieca".27
Mentre l'aggiunta di un requisito di coordinazione emergente ci permette di
catturare una forma molto basilare di interazione, non è sufficiente per catturare il
fenomeno dell'agire congiunto a cui la maggior parte dei filosofi è interessata. i
filosofi, infatti, sono interessati ad azioni congiunte che siano intenzionali. Il
requisito della coordinazione dell'azione non ci fornisce spiegazioni per questa
tipologia perché ammette azioni congiunte che implichino soltanto forme di
coordinazione emergente.
Il tentativo di Butterfill contribuisce, per così dire, all'alleggerimento del carico
cognitivo, richiesto ai partecipanti ad un'azione congiunta ma taglia fuori una
parte consistente del fenomeno.
Il tentativo di Butterfill conserva tuttavia il vantaggio di proporre un approccio
poco oneroso dal punto di vista cognitivo, perché ha sostituito i fini condivisi alle
intenzioni condivise. Come abbiamo visto, approcci che fanno appello alle
intenzioni condivise tendono, infatti, ad essere cognitivamente più "costose"
rispetto al tipo di approccio di Butterfill. Condividere un'intenzione richiede la
conoscenza che l'intenzione è condivisa mentre questo requisito non è richiesto ai
fini condivisi. E' possibile avere fini condivisi senza sapere di averli. Questo li
renderebbe più adatti a spiegare le azioni congiunte tra gli infanti.
Proviamo a emendare, allora, il tentativo di Butterfill mantenendo l'idea dei fini
condivisi ma emendando il suo errore di considerare la sola coordinazione
emergente (intenzionalmente cieca) prendendo in considerazione una
coordinazione volontaria, Se si adotta una forma modificata del suo requisito di
coordinazione, si consente alle azioni congiunte di valere come intenzionalmente
congiunte, se ci sono in opera processi di coordinazione volontaria, verso un fine
condiviso. Per realizzare questo passo, si può mantenere la nozione di Butterfill di
fine condiviso, laddove i fini condivisi sono caratterizzati nei termini della loro
27 vedi capitolo I § 1.6.
57
funzione di "coordinare attività dirette ad un fine di molteplici agenti, affinché
esso sia ottenuto come effetto comune dei loro sforzi"(Butterfill 2012, 37). In
contrasto rispetto ad altre forme di coordinazione, la coordinazione verso i fini
condivisi è volontaria e dipende dai fini ai quali gli agenti sono diretti. Potremmo
chiamare questo nuovo requisito: il requisito della coordinazione dell'azione
intenzionale.
Secondo questa caratterizzazione dei fini condivisi, però, le azioni individuali
degli agenti che si trattano come strumenti sociali potrebbero costituire un'azione
congiunta intenzionale. Supponiamo che Marco abbia la seguente situazione: il
suo fine è ottenere l'effetto E; egli pensa che Valeria ha lo stesso fine; egli pensa
che potrebbe usarla come mezzo sociale per raggiungere il suo fine con maggiore
facilità e che per usarla come strumento sociale in maniera efficiente si deve
coordinare con lei; come risultato egli coordina la sua azione con lei. Supponiamo
che Valeria sia nella stessa situazione; supponiamo che nessuno dei due realizzi (o
a nessuno dei due importi) che l'altro è semplicemente usato come strumento
sociale. Il raggiungere il fine comune da parte di Marco e Valeria sarebbe
qualificabile, secondo questa versione modificata di Butterfill, come un'azione
intenzionalmente congiunta.
In contrasto a ciò, i filosofi che fanno appello alle intenzioni condivise stanno
cercando di catturare una nozione più forte di azione congiunta. Perché un'attività
sia un'azione congiunta intenzionale, l'individuo impegnato nell'attività non deve
soltanto pensare come raggiungere il suo fine ma come arrivare al fine insieme,
prendendo in considerazione il contributo dell'altro.
Il progetto di Butterfill quindi di dare un approccio semplice che ci può aiutare a
caratterizzare le azioni congiunte compiute dai bambini e che ci suggerisce la
necessità di catturare alcune azioni che siano cognitivamente meno "costose" dei
tradizionali approcci finisce per escludere la vera istanza di comprensione del
carattere cooperativo dell'azione congiunta. Io penso che ci sia spazio per un
approccio che sia più comprensivo di quello di Butterfill e che sia cognitivamente
meno dispendioso degli approcci tradizionali.
58
C'è anche una seconda ragione per la quale il tentativo di Butterfill non è efficace.
E' una ragione che guarda alle analisi di tipo empirico. E' interessante notare che
nel manifesto dell'architettura minimale (Vesper, 2010) dell'azione congiunta non
si affermi la necessità di eliminare le intenzioni dal modello esplicativo ma di
specificare come i meccanismi di basso livello possano implementare le intenzioni
(e non sostituirle). Knoblich e Sebanz (2006) sono molto chiari nel dire che la
coordinazione pianificata, ad esempio, ha luogo una volta che l'abilità di trattare
se stessi e gli altri come agenti indipendenti e intenzionali sia già operativa
(Sebanz Knoblich 2008). E conseguentemente, l'obiettivo dei minimalisti in
psicologia non è quello di abbandonare il livello intenzionale o escluderlo dalle
possibili spiegazioni ma di integrarlo con livelli, per così dire, più bassi. Il
problema teorico, infatti, è collegare i vari livelli e speculare e indagare le
connessioni che essi hanno.
Se è vero che la coordinazione può essere ottenuta attraverso meccanismi di basso
livello è pur vero, e anche Butterfill lo accetta, che nella maggior parte dei casi
proprio le intenzioni hanno la funzione di coordinare le azioni dei diversi agenti
coinvolti (Butterfill 2010 p. 32).
Sarebbe meglio dire, quindi, che le intenzioni non vengono esautorate nel loro
ruolo esplicatorio, ma relegate a spiegare i casi più sofisticati, laddove processi di
basso livello non consentono di dar conto del tutto della pianificazione.
Lo stesso Butterfill concorda nel dire che in casi molto semplificati, la
coordinazione avviene a livello automatico e senza un'intenzionalità cosciente ma
in altri casi sono proprio le intenzioni che svolgono una funzione di raccordo e
che permettono pianificazioni più sofisticate (Butterfill 2012).
In questo senso, il tentativo di Butterfill è incompleto. Esso è utile a segnalare
l'esigenza teorica che gli approcci filosofici trovino un terreno concettuale comune
con gli approcci psicologici e tuttavia è fallace nell'indicare la sola coordinazione
emergente come massimo comun denominatore. Esso lascia aperta la possibilità
che ci siano due possibili fonti di spiegazione di un fenomeno unico.
59
2.3. Bridging the gap.
Un altro modo di superare il gap tra ricerche empiriche e ricerche filosofiche, è
continuare a ritenere che l'intenzionalità abbia un ruolo centrale nella spiegazione
del fenomeno e allo stesso tempo darne una versione che sia cognitivamente meno
onerosa, tale che possa essere estesa anche agli infanti. Per far questo dobbiamo
proseguire con le due grandi esigenze che sono emerse dall'analisi comparativa
delle ricerche e dal contributo di Butterfill. La prima esigenza è comprendere che
cosa c'è di speciale nell'attività cooperativa degli infanti e fino a che punto e in che
modo può essere considerata intenzionalmente condivisa. La seconda questione ci
proviene dall'ultima critica che abbiamo mosso a Butterfill. E' possibile pensare
che per gli individui che si impegnano in forme di agire congiunto ci sia una via di
mezzo tra sviluppare quel tipo di conoscenza delle intenzioni altrui, ipotizzata
dagli approcci tradizionali e utilizzare gli altri come strumenti sociali senza tener
conto delle loro rappresentazioni?
Invece di avere una generica categoria di "azione plurale propositiva" (Butterfill
2010), nella quale le attività di uno sciame di api e le attività degli infanti, che
devono acquisire le abilità necessarie per l'azione pianificata collettiva, sono
accomunate, potrebbe essere interessante sviluppare un approccio "leggero" alle
intenzioni condivise, che consiste in una teoria dell'agire intenzionale condiviso
teso a catturare (tra le altre cose) che cosa c'è di speciale nelle attività condivise
degli infanti.
Il secondo requisito che una versione cognitivamente poco onerosa
dell'intenzionalità condivisa dovrebbe avere è contribuire a spiegare come
emergono le capacità di ottenere rappresentazioni dei fini comuni e come queste
rappresentazioni dei fini guidino l'azione. In questo senso si dovranno indagare
quali meccanismi cognitivi e quali operazioni permettono di monitorare, sostenere
e modificare la nostra parte in funzione del raggiungimento di un fine condiviso;
60
questi meccanismi dovranno metter capo ad un concetto di rappresentazione,
diverso da quel concetto forte di rappresentazione che gli approcci filosofici
propongono.
Questo è il contributo concettuale che un'analisi filosofica può dare ed è la
strategia che questo lavoro suggerisce per uscire dal gap esplicativo.
Il punto è che l'analisi logico-concettuale è insufficiente per affrontare questioni di
fatto sulla realtà dell'intenzionalità condivisa nell'ordine naturale, e allora è
necessario guardare al di fuori delle scienze umane e sociali, a un ambito in cui il
problema dell'intenzionalità condivisa è sottoposto a prove di laboratorio e viene
pertanto affrontato come empirico piuttosto che logico. Affinché si possa
verificarne la realtà ontologica, è necessario prendere in considerazione varie
branche di ricerca proveniente dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze e
trattarli come scenari dai quali emergono diverse abilità e operazioni cognitive che
permettono agli individui (infanti compresi) di impegnarsi in forme di agire
congiunto. Se i filosofi, infatti, hanno postulato strutture intenzionali, che vanno al
di là delle capacità degli individui di agire (inflazione intenzionale),
metodologicamente bisogna confrontarsi con le proposte della ricerca psicologica
Che cosa si chiede alla ricerca empirica? Si chiedono funzioni e meccanismi che
consentano di rispondere alle due questioni sollevate.
Per dispiegare concretamente la strategia, si indagheranno due scenari che
specificano come i meccanismi e le funzioni cognitive sostengono forme di
interazione nell'infanzia e spiegano cosa vuol dire rappresentare gli stati mentali
altrui. Poiché una delle grandi obiezioni agli approcci filosofici è non avere tenuto
conto delle attività congiunte degli infanti, l'attenzione sarà rivolta alle ricerche
che hanno individuato forme di intenzionalità condivisa nella prima infanzia. Il
primo scenario sarà, dunque, la prospettiva evoluzionista di Tomasello. Con
riferimento ad una nozione particolare di azione collettiva, secondo Tomasello
(Tomasello 2005), forme di attività cooperativa, che appaiono intorno al primo
anno di vita, sono "tutte le manifestazioni di un'unica sottostante abilità socio-
cognitiva". Egli chiama questa abilità "intenzionalità condivisa" e la caratterizza
61
come "la comprensione delle persone come agenti intenzionali, di chi ha una
prospettiva sul mondo che può essere seguita, diretta e condivisa " (Tomasello e
Rakoczy 2003:125). Questa abilità si manifesta nel meccanismo dell'attenzione
congiunta che sarà oggetto della nostra indagine.
Il secondo scenario cercherà di rispondere alla questione se si possa pensare ad
una forma di rappresentazione diversa da quella di Bratman. Nella psicologia
cognitiva, una questione importante è come estendere gli approcci alla
pianificazione delle azioni individuali e del controllo motorio, per tenere conto
delle prestazioni in un compito svolto congiuntamente ad altri; un altro punto di
interesse è indagare come agire insieme modula singoli processi cognitivi. C'è una
gran mole di dati che suggerisce che le persone formano rappresentazioni della
loro attività e di quella dei co-attori che sono, almeno in alcuni aspetti,
funzionalmente equivalenti a rappresentazioni che guidano le proprie azioni
(Knoblich et al. 2011). In particolare, si analizzerà la proposta avanzata dal
gruppo di ricerca SOMBY (The social mind and Body group) sul meccanismo
responsabile della rappresentazione dei compiti altrui in un'azione congiunta.
(Sebanz et al 2006). Tuttavia, è necessario un ulteriore lavoro per specificare in
che modo esattamente i compiti degli altri sono rappresentati, in quanto
rappresentazioni "condivise" e come queste rappresentazioni facilitino il
coordinamento in un'azione congiunta. Questi meccanismi di rappresentazione di
un compito in comune potrebbero essere ideali candidati per spiegare come le
persone, nell'interazione, sviluppino la capacità di rappresentare i compiti altrui.
Questi scenari, quindi dovranno fornire dei meccanismi e delle funzioni che
rappresentano la particolare modalità cognitiva di chi agisce insieme e attraverso
questi sarà possibile precisare la natura degli stati mentali intenzionali.
La risposta alla domanda sulla natura dell'intenzionalità, fornirà evidenze
empiriche per assolvere completamente il compito di ripensare le intenzioni in
un'azione congiunta.
62
2.4 L'evoluzione delle intenzioni: il rapporto tra coordinazione emergente
e intenzionalità
L'impostazione metodologica di questo lavoro si giustifica in virtù di suggerimenti
e sfide che provengono dalla psicologia cognitiva. Knoblich e Sebanz (2008)
hanno proposto, infatti che è possibile non pensare alle funzioni, ai meccanismi e
alle intenzioni come se fossero contenuti in moduli isolati ma in una rete
gerarchica molto interattiva, con i meccanismi sensoriali descritti nella
coordinazione emergente al livello più basso e in alto l'intenzionalità collettiva.
Questo è simile alle ipotesi fatte dai modelli gerarchici di controllo dell'azione
individuale. (Koechlin et al 2003; Pacherie 2005; Jordan &Ghin 2007).
Naturalmente, questo implica che il funzionamento dei livelli inferiori è
mantenuto, quando sorgono funzioni più complesse. Al tempo stesso si presume
che i meccanismi più semplici tendono a essere controllati da quelli più complessi.
Come conseguenza, il funzionamento dei livelli più bassi è incorporato in nuove
strutture di controllo e può essere utilizzata in modo più flessibile.
Propongo, quindi, di interpretare i risultati delle indagini empiriche alla luce di
un'integrazione tra i livelli necessari per impegnarsi all'azione congiunta, che si
rivela efficace se i diversi livelli e i diversi meccanismi lavorano di concerto.
Anche il livello più basso, infatti, che sembra quello più cieco dal punto di vista
intenzionale, potrà mettere le proprie funzionalità al servizio del meccanismo
intenzionale ipotizzato nel livello più in alto, e sarà in grado di supportare diverse
forme di un'azione congiunta. Incorporare i meccanismi di entrainment e
affordance all'interno dell'intenzionalità congiunta permette, ad esempio, di
comprendere una serie di azioni congiunte che richiedono azioni sincronizzate.
Esempi in cui un'azione comune dipende dall'entrainment si trovano facilmente in
domini come la musica, l'arte e lo sport. Pensiamo a due batteristi e alla creazione
di un ritmo particolare o ai ballerini che si muovono in sincronia.
63
A sostegno di questa ipotesi ci sono alcuni degli studi sulla sincronizzazione
interpersonale, i quali presuppongono questo tipo di interazione tra intenzionalità
congiunta e entrainment. Istruire i partecipanti, per sincronizzare le loro azioni
(ad es Schmidt et al. 1990) implica che ciascun di loro avrà l'intenzione di
eseguire la stessa azione dell'altro partecipante, allo stesso tempo. Questo di solito
non è discusso nei resoconti ecologici all'interazione sociale perché richiederebbe
di assumere qualche forma di rappresentazione interna delle intenzioni, che è
contraria al credo ecologico fondamentale (Marsh et al. 2006).
Combinare affordances simultanee con intenzionalità condivisa permette di
affrontare la questione di come i diversi attori eseguono azioni non identiche sullo
stesso oggetto. Per esempio, il modo che hanno le persone di sollevare una cesta a
due manici, dipende dal fatto se la sollevano da soli o insieme. Da solo, una
persona afferra ogni maniglia con una mano; insieme, una persona normalmente
afferra la sinistra con la sua mano destra e l'altra persona avrebbe afferra la destra
con la sua mano sinistra. Così, incorporando in un sistema di intenzionalità
condivisa, le simultanee modifiche delle affordances si trasformano in un
affordance comune, invitando a due azioni diverse i due co-attori. In altre
situazioni, affordances condivise possono aiutare i co-attori a determinare quando
uno ha bisogno dell'aiuto dell'altro. Questo è stato dimostrato in un esperimento
(Richardson et al 2007, 2008 esperimento 4) dove i partecipanti sollevavano
tavole di lunghezza diversa da un nastro trasportatore, prendendole dalle loro
estremità. Di notevole interesse era capire quando i partecipanti ritenevano la
dimensione tale da poter essere sollevata singolarmente e quando richiedevano
l'aiuto degli altri. Il risultato era che il cambio di prospettiva poteva essere messo
in relazione all'apertura combinata delle braccia dei partecipanti. Così, le
affordance della lastra dipendevano dalle capacità di intervento comuni del
gruppo
64
2.5. Una premessa storico-critica.
Prima di prendere in esame gli scenari bisogna inquadrare il ripensamento
dell'intenzionalità in una prospettiva storico-critica, per capire la direzione nella
quale una naturalizzazione dell'intenzionalità si colloca.
Se si riflette a fondo sul punto di attrito tra le prospettive filosofiche e quelle
empiriche, si noterà che l'inconciliabile rapporto tra intenzionale e non
intenzionale viene letto come un conflitto tra automatico/inconscio e
intenzionale/conscio.
In maniera molto generale si può dire che la distinzione tra processi controllati e
automatici (Schneider & Shiffrin 1977) ha dominato la ricerca psicologica sulla
cognizione sociale negli ultimi tre decenni (Bargh 1984; Wegner & Bargh 1997;
Greenwald et al. 2002) e continua ad essere forte (Dijksterhuis & Nordgren 2006).
In questa distinzione, coscienza e intenzionalità sono equiparati (controllato =
cosciente, automatico = inconscio), portando ad una distinzione categoriale tra
processi intenzionali e non intenzionali all'interno dei singoli sistemi cognitivi.
Pertanto, vi è stata una forte attenzione sull'elaborazione individuale delle
informazioni sociali, che è ancora attuale in molta ricerca sociale cognitiva
(Liebermann 2007; Occhsner 2007). Gli psicologi sociali cognitivi si sono
interessati a dimostrare come gli stimoli sociali avessero conseguenze sul
comportamento sociale, al di la della consapevolezza (Dijksterius & van
Knippenberg 1998) Le ricerche sull'intenzionalità e la reciprocità in psicologia,
invece, sono state confinate al livello conscio o controllato.
La cognizione individuale di alto livello è stata il fuoco di molte teorie e tendenze
nella scienza cognitiva (Fodor 1975). Molto rilevante, per esempio è stato il
lavoro della Teory of mind sulla nostra abilità ad attribuire stati mentali ad altri.
Questo lavoro ha guidato le ricerche sociali sullo sviluppo cognitivo, verso lo
studio della conoscenza esplicita degli altri e ha influenzato le ricerche sui
presupposti neurali del mindreading (Frith & Frith 2006).
65
Anche gli approcci filosofici, hanno basato le loro indagini sull'azione congiunta
su meccanismi cognitivi di alto livello e hanno trascurato il contributo dei processi
di basso livello, inconsci o automatici. Più in generale, essi non hanno sottoposto
le loro analisi ad una verifica empirica.
E tuttavia in letteratura, questa distinzione non è pacifica. In contrasto con gli
approcci sopra descritti, infatti, varie scuole di pensiero, in linea di massima
sostenitrici di una cognizione incarnata (cfr. Clark 1997; Barsalou 2008), hanno
sottolineato che la cognizione di livello superiore si fonda su processi di
percezione e azione di base oppure emerge dall'interazione dell'organismo con il
suo ambiente (Gibson 1979; Smith & Thelen 1994; Port & van Gelder 1995; Van
Orden et al. 2003).
Si è, poi, riconosciuto che tali ipotesi possono avere implicazioni fondamentali per
l'interazione sociale (Rizzolatti & Arbib 1998. Barsalou et al 2003; Gallese et al.
2004; Arbib 2005; Marsh et al. 2006; Sommerville & Decety 2006; Spivey 2007).
L'idea centrale è che i processi percettivi e motori basilari sono sufficienti a
consentire molte forme di base di interazione sociale ma che, allo stesso tempo
sono parte del meccanismo che rende possibili interazioni sociali più complesse.
L'approccio proposto in questo lavoro è in linea con questa impostazione e allo
stesso tempo cerca di far vedere quali siano i meccanismi cognitivi (Shaw 2001;
Jordan & Ghin 2007) che permettono di condividere le intenzioni; in questa
direzione sembra possibile che l'evoluzione dei meccanismi intenzionali (Barresi
& Moore 1996; Toellefsen 2005; Tomasello et al 2005; Pacherie & Dokic 2006)
insieme a meccanismi che specificano il tipo di cognizione sociale che si mette in
campo nell'interazione (Sebanz 2006), possano essere proprio la dimensione
chiave che permette interazioni sociali sempre più sofisticate.
66
Capitolo terzo.
L'evoluzione dei meccanismi intenzionali
3.1 La Shared intentionality Hypotesis di Tomasello.
Nelle scienze cognitive, che si occupano di azioni congiunte nell'infanzia, il
concetto di intenzioni condivise, figura in un diverso corpo di conoscenze rispetto
alla filosofia (Levinson 2009), che trova una sintesi potente nel lavoro dello
psicologo Tomasello.
Tomasello ha articolato una teoria dei fondamenti della socialità, shared
intentionality hypothesis - d'ora in poi SIH - secondo la quale certe abilità socio-
cognitive si sono evolute grazie a meccanismi unici per condividere gli stati
mentali intenzionali (Tomasello & Carpenter 2007).
In questo scenario emerge un'abilità in particolare, l'attenzione congiunta, che ha
suscitato molto interesse in filosofia e psicologia, per il suo ruolo nella fondazione
dello sviluppo della cognizione sociale umana. (Tomasello 2005; Tomasello et al.
2005, Tomasello & Carpenter 2007)
Molte ricerche hanno proposto che l'attenzione congiunta fornisca un
meccanismo basilare per condividere le rappresentazioni di oggetti e di eventi e
che essa serva a creare un "common ground percettivo" (Tomasello, 1995, 1999;
Tomasello & Carpenter, 2007, Tollefsen 2005, Sebanz et al 2006). Il fenomeno
dell'attenzione congiunta è più complesso del semplice fatto che due persone
osservino lo stesso oggetto. Ci deve essere almeno una connessione causale tra i
due atti di osservazione dei soggetti (la coordinazione causale) e secondariamente
ogni soggetto deve esser cosciente dell'oggetto come di un oggetto che è presente
a entrambi; in altre parole, ci deve essere una condizione di mutua disponibilità,
67
manifesta a entrambi. Evidenze empiriche dimostrano che sebbene la
coordinazione causale e una certa comprensione di cosa stia guardando l'altro
siano abilità comuni ad altri primati, la mutua apertura manifesta e la reale
attenzione condivisa sia una capacità riconducibile unicamente agli umani
(Tomasello & Carpenter, 2007).
Forme di proto-comunicazione, che implicano il seguire con lo sguardo, si
osservano molto presto nella vita di un infante, prima che raggiungano una
qualche costanza a circa sei mesi di età. Si può facilmente immaginare una scena
in cui un adulto introduce un oggetto vicino alla linea di reciproco sguardo e il
bambino guarda alternativamente o a lui o all'oggetto. Interazioni diadiche
diventano più complesse, fino a quando una serie di nuovi comportamenti emerge
all'età di 9 a 12 mesi circa. Gli infanti, in questa fase, si impegnano in una
relazione triadica con esseri inanimati e animati, in una condizione che coinvolge
una più ampia gamma di abilità di coordinamento e di capacità di attenzione
rispetto a quella osservata nei rapporti diadici. Tipicamente, bimbi di un anno
prendono oggetti per condividere l'attenzione con gli adulti e per controllare le
reazioni del corpo degli altri e il loro centro dell'attenzione.
Per gli scienziati dello sviluppo, è relativamente incontrovertibile che
comportamenti di attenzione congiunta sono episodi di coinvolgimento
intersoggettivo, dove l'entità esterna deve essere attivamente scelta non solo da
parte dei soggetti, ma anche essere vissuta come un'entità che è presente per
entrambi (Moore e Dunham 1995). Divergenze sorgono quando si tratta di
descrivere la natura dello speciale legame in base al quale i partecipanti al
triangolo percettivo di attenzione congiunta si rendono conto che stanno
guardando allo stesso oggetto insieme (Tomasello 1995). Infatti, questioni come il
modo di cogliere il senso pieno di "comunanza" tipico di relazioni triadiche e che
tipo di meccanismi lo realizzino sono oggetto di una controversia, alimentata da
due classi di spiegazioni, i cosiddetti approcci ricchi o deboli. La teoria di
Tomasello occupa un posto di rilievo nel campo degli approcci ricchi, (potremmo
68
chiederci perché egli sostiene tale approccio, ma questa domanda è secondaria per
la presente discussione).
La domanda interessante per i nostri scopi è perché, sottoscrivendo gli approcci
ricchi, Tomasello caratterizza l'attenzione congiunta come una possibile
manifestazione di intenzionalità collettiva (la prima nell'ontogenesi, in effetti).
Che particolare approccio all'intenzionalità collettiva meglio si adatta a
comportamenti di attenzione congiunta, se ve ne sono? E che cosa ci dice questa
strategia circa l'intenzionalità collettiva, nel contesto della ricerca scientifica ?
Le analisi filosofiche delle intenzioni condivise si concentrano sui casi di
comportamento intenzionale collettivo in cui gli individui deliberatamente si
impegnano in un percorso pianificato di azione, per raggiungere un obiettivo
specifico. Secondo questa concezione di azione congiunta, non solo le persone si
coordinano per raggiungere l'obiettivo, ma, perché l'obiettivo sia condiviso, ogni
soggetto deve essere a conoscenza di esso come reciprocamente presente a tutti
(Bratman 1992). Come abbiamo visto, profondi disaccordi sono sorti nel dibattito
sull'intenzionalità collettiva tra i filosofi sul modo migliore di catturare la
mutualità della consapevolezza, il senso di "we-ness", che sembra necessario
perché un'attività condivisa possa accadere. Abbiamo visto che gli approcci
filosofici rendono lo stato in cui due soggetti rivolgono l'attenzione alla stessa
entità e mostrano consapevolezza di questo fatto come uno stato di "conoscenza
mutua" (Pettit & D. Schweikard 2006). Il risultato è un insieme altamente
sofisticato di teorie di azione congiunta, che postulano rappresentazioni dettagliate
nella mente dei singoli agenti, specificando compiti e obiettivi condivisi. Queste
rappresentazioni sono presentate come il risultato di processi consci e riflessivi di
cognizione sociale e, di solito, sono descritte nel contesto di interazioni
paradigmatiche, come un'orchestra che esegue un pezzo o uno sport nel quale le
squadre giocano insieme.
Abbiamo anche visto che questo approccio lascia scoperta una buona dose di
interazione, come ad esempio i casi di (spontanea, non pianificata) coordinazione
"emergente", in cui l'interazione non richiede rappresentazioni dettagliate nella
69
mente degli agenti. Tali casi di socialità sono facilmente osservabili nel neonato e
nel comportamento sociale dei primati, dove non sono ancora pienamente
sviluppate o sono carenti le sofisticate capacità rappresentazionali del genere
postulato in resoconti filosofici di intenzioni condivise.
Evidentemente, l'attenzione congiunta appare come una forma di interazione
faccia a faccia. Così come Tollefsen (2005) ha osservato, è molto problematico
interpretare le prove che i bambini sono in grado di impegnarsi in comportamenti
di attenzione congiunta così presto nella prima infanzia, nei termini degli stati
intenzionali che vengono postulati nel contesto della mutua conoscenza. Ma,
allora, poiché Tomasello attinge esplicitamente alle risorse della teoria
dell'intenzionalità collettiva per dare un resoconto dell'attenzione congiunta, la
domanda diventa, dove si colloca rispetto al problema della conoscenza reciproca
e della intenzionalità collettiva più in generale.
Nella sua prima formulazione, la SIH è stata preceduta dalla constatazione che
comportamenti di attenzione congiunta hanno alla base una tendenza naturale e
unica per la specie di cogliere le ragioni altrui per l'azione come un prerequisito
per condividere la attenzione (Tomasello1999). L'idea è che il tipo di
compresenza percettiva, vissuta dal soggetto in attenzione congiunta, deriva da un
esercizio attivo di comprensione dell' intenzione, con il bambino che è in grado di
elaborare le informazioni sul pensiero e le motivazioni degli altri, oltre che di
rappresentare il centro dell'attenzione come reciprocamente presente sia a lui che
al genitore28. Alcune formulazioni suggeriscono quindi che Tomasello si orienti
verso una concezione della mutualità dell'attenzione congiunta in termini di
reciproca conoscenza, che sarebbe compatibile con gli approcci riduzionisti di
intenzionalità collettiva (Tomasello 1995). "Riduzionista" significa che se tutto
ciò che conta per i soggetti, per raggiungere il caratteristico we-ness
dell'attenzione congiunta, è la loro capacità di leggere nella mente degli altri,
allora non c'è ragione di postulare un modo irriducibile we-mode, per ragioni
esplicative.
28 Tomasello 1999, 102
70
Tuttavia, le parole di Tomasello non riflettono alcuna preferenza particolare per la
soluzione di conoscenza mutua; il suo approccio è piuttosto guidato da
considerazioni che indicano una notevole incertezza sul modo migliore per
specificare l'esatto significato di concetti come "mutualità" e "condivisione"
(Tomasello 2009, 69). La confusione nasce soprattutto dall'idea che se
mutualismo è il risultato del riconoscimento da parte dei soggetti che le loro
azioni sono dirette verso un obiettivo comune, che è realizzato tramite mind-
reading, allora la domanda è: quali risorse cognitive e concettuali sono necessarie
perché ci si renda conto di avere un obiettivo comune da cui partire.
A prima vista, quest'approccio corre lo stesso pericolo di circolarità esplicativa
che colpisce tutti i resoconti dell'intenzionalità collettiva che invocano la mutua
conoscenza.
L'argomento decisivo contro questa caratterizzazione viene da un'influente
scoperta nella cognizione dei primati. Tomasello e i suoi collaboratori hanno
eseguito una serie di studi comparativi che testano la capacità di sguardo
seguendo uno scimpanzé giovane, e, contrariamente all'ipotesi iniziale che postula
una teoria della mente come il tratto distintivo della cognizione umana, hanno
fornito la prova che gli scimpanzé sono animali altamente sociali, nel senso che
mostrano alcune propensioni rudimentali per la comprensione intenzionale
(Tomasello et al 2005; Tomasello 2008). Le prove, però, mostrano anche che le
grandi scimmie non hanno il caratteristico senso di comunanza osservato
nell'uomo, quando tutto è alla luce del sole e conosciuto reciprocamente. Nel "role
reversing task", per esempio, che verifica la capacità dei giocatori di cambiare i
loro ruoli al fine di raggiungere un obiettivo specifico in coordinazione, è stato
dimostrato che, a differenza degli infanti umani, gli scimpanzé giovani non
invertono i ruoli e svolgono la loro azione senza riferimento agli altri, cioè in un
modo strumentale piuttosto che mutualistico (Tomasello e Carpenter 2005).
I primati sanno cosa vedono i loro conspecifici, anche se da una prospettiva
individualistica. In altre parole, la loro comprensione della struttura intenzionale
di azione non sarebbe condivisa nello stesso modo in cui la comprensione dei
71
bambini del focus di attenzione è condivisa nell'attenzione congiunta. Se, quindi,
il riconoscimento della reciprocità di attenzione congiunta è specie specifico e
consente agli umani forme di interazione sociale sconosciute nel regno animale,
questo richiede più della comprensione dell'intenzione dal momento che questa
capacità viene mostrata anche dagli scimpanzé. La lezione di questi esperimenti è
che qualsiasi teoria della cognizione sociale che mira a cogliere il particolare
legame di attenzione congiunta deve trovare un equilibrio tra due desiderata che
tirano in due direzioni. Uno è quello di non razionalizzare eccessivamente la
mente del bambino, nonostante la sua presunta capacità di impegnarsi in azioni
comuni che richiamano alcune piuttosto complesse capacità per la condivisione di
intenzionalità. L'altro è quello di consentire alla cognizione infantile di essere
abbastanza ricca per dare un senso alle differenze osservate negli esseri umani e
scimpanzé, quando si tratta di rappresentare azione come condivise.
Questa tensione trova una soluzione nella versione più recente del SIH: non solo
sono i fini e le intenzioni ad essere colte in modo interpersonale, ma devono anche
essere condivisi nel senso pieno della joint attention29. Gli scimpanzé non
condividono stati mentali, perché incapaci di rappresentare la struttura
intenzionale dell'azione a "volo d'uccello", quella che rappresenta il proprio e
l'altrui obiettivo in un formato unico (Tomasello 2008, 179; 2009, 68). Gli esseri
umani, invece, inquadrano la scena interattiva in un'unica rappresentazione: ogni
individuo giunge alla comprensione del fine delle sue azioni come se dicesse:
"stiamo perseguendo il fine insieme". Si potrebbe sostenere che, perché gli agenti
possano rappresentare il "noi" in una lettura collettiva invece che distributiva,
devono essere in grado di sapere cosa vuol dire pensare e agire insieme piuttosto
che da soli. E questo potrebbe essere interpretato come una richiesta che i
29 Ecco come Tomasello coglie il punto: "Una ragione importante è che i primati non umani non partecipano alle attività di collaborazione in modi simili agli umani; anche se hanno competenze simili a quelle umane per comprendere l'intenzionalità individuale, non hanno competenze simili agli umani e motivazioni per intenzionalità condivisa "(2008, 180-81). Oltre alla mancanza di capacità di rappresentazione di un certo tipo, gli scimpanzé non hanno le motivazioni fondamentali di agire in modo che non serve solo ai fini strumentali. La base motivazionale di intenzionalità condivisa non è meno importante delle basi cognitive della SIH.
72
partecipanti a un'attività congiunta posseggano un concetto distintivo di "we-ness"
che non si risolve in rappresentazioni di livello individuale del fine condiviso. Ma
questa conclusione dovrebbe essere evitata perché implica abilità concettuale e
meta-rappresentazionale che difficilmente possono essere attribuiti a bambini di
un anno di età.
Una formulazione che si adatta meglio alla metafora della vista a volo d'uccello,
che si intreccia con le domande sui primi sviluppi cognitivi e concettuali è: la SIH
postula non una specifica rappresentazione "dell'essere insieme" ma distinte
attitudini di vedere insieme, di percepire insieme, pensare insieme (Gross 2010). Il
senso di congiunzione dell'attenzione congiunta sarebbe raggiunto dai soggetti che
rappresentano il fine rilevante, in modi differenti ma nello stesso modo
psicologico (we-mode) - che Tomasello indica come "il senso unicamente umano
del noi", il senso dell'intenzionalità condivisa (Tomasello 2009, 57 59). Diversi
passaggi degli scritti di Tomasello suggeriscono che questa potrebbe essere
considerata la sua posizione (Tomasello 2009). Se è così, allora ci sono buone
ragioni per argomentare che Tomasello sia incline a una visione dell'irriducibilità
delle intenzioni condivise.
Tuttavia, l'approccio scientifico-naturale di ricerca di Tomasello propone una
concezione dell'irriducibilità dell'intenzionalità collettiva che difficilmente trova il
suo posto nelle teorie filosofico-concettuali attualmente disponibili. Nel
successivo paragrafo, io sostengo che questa differenza metodologica è
fondamentale per comprendere perché le questioni di intenzionalità collettiva sono
empiriche e richiedono una combinazione di metodi concettuali e sperimentali.
3.2 Attenzione congiunta e priorità ontologica dell'intenzionalità
collettiva
Tomasello (2009) ipotizza che l'infrastruttura "biologicamente ereditata" che ci
rende inclini alla socialità e le abilità di lettura della mente che consentono
73
l'incontro di menti, necessarie per l'azione congiunta, sono capacità specie-
specifiche. Questa affermazione ha scatenato un intenso dibattito interdisciplinare
sulla presunta unicità della cognizione umana (Elian 2010). Ciò che sembra essere
particolarmente problematico, da un punto di vista filosofico, è che a dispetto di
un robusto corpus di dati, la SIH non comprende una risposta strutturata o anche
parzialmente elaborata per il problema della realtà biologica dell'intenzionalità
collettiva. Quindi, l'affermazione che la capacità di pensiero nella modalità del
noi, potrebbe derivare da una traiettoria evolutiva unica e seguire un percorso di
sviluppo distinto nei primi mesi di vita, è quanto abbiamo a disposizione e rimane
una speculazione che ha bisogno di ulteriore elaborazione. Tuttavia, sulla base dei
risultati di esperimenti di laboratorio ben controllati, Tomasello e i suoi
collaboratori, postulano un adattamento biologico per la condivisione di stati
intenzionali, nel quadro di una spiegazione naturale-scientifica dell'infrastruttura
dello sviluppo umano. Quindi, alla luce della distinzione tra interpretazioni
logico-concettuali o empiriche di intenzionalità collettiva, dove ci porta questa
conclusione per quanto riguarda la questione della sua natura?
Si potrebbe, naturalmente, leggere questa domanda come un'indicazione che le
prove scientifiche provenienti dagli esperimenti di Tomasello siano in qualche
modo decisive, per rivendicare ci sia un fondamento per l'abilità dell'intenzionalità
collettiva, nella biologia dell'organismo. Ma questa lettura solleverebbe un
insieme ancora più controverso di domande circa la legittimità di una qualche
versione di "naturalismo ontologico" - quella posizione per la quale, ciò che ci
dice la scienza, nella sua versione migliore, è vero rispetto ai costituenti del regno
naturale, non importa se animati o inanimati.
Abbiamo bisogno di spiegare perché affermazioni ontologiche possono essere
affrontate solo con una metodologia integrata di strumenti empirici e concettuali.
Mentre aspetti della SIH sono già stati discussi in dettaglio in relazione alle teorie
di intenzioni condivise (Tollefsen 2005), in questo scenario mi riferisco
all'approccio naturalistico che sostiene la SIH per sostenere che essa può
giustificare l'idea che le intenzioni collettive rappresentino un modo di pensare e
74
di guidare l'azione in una modalità cognitiva diversa da quella della razionalità
individuale. Si comincia a delineare un'idea di processi collettivi irriducibili che
sono propri dell'individuo nella modalità plurale (we mode) e che non sono
riducibili alle intenzioni individuali.
Vorrei suggerire che c'è un senso ontologico di irriducibile secondo il quale i
predicati intenzionali collettivi non possono essere ridotti alle operazioni parziali
che sono alla base dei singoli stati. L'approccio di Tomasello ci aiuta a capire in
che cosa può consistere questa irriducibilità. In filosofia, questa affermazione
rischia di essere modellata sulla competenza descritta dalla psicologia popolare e
giustificata attraverso intuizioni; il risultato è una crescente proliferazione di punti
di vista che, nonostante l'impegno dei loro autori al naturalismo, portano a trarre
conclusioni affrettate circa le presunte condizioni esistenziali naturali in cui gli
stati mentali contano come condivisi. Searle (1990, 1995), per esempio, sostiene
che il concetto di una primitiva capacità di pensare nella modalità della prima
persona plurale, sia uno strumento esplicativo che aiuta a descrivere il senso di
agire insieme, vissuto dai partecipanti alle attività congiunte e lo postula come un
processo dedicato di cognizione sociale, radicato nella biologia di cervelli umani.
Che cosa giustifica parlare di irriducibilità in quest'ultimo senso?
Searle offre un motivo importante per credere nell'irriducibilità ontologica
dell'intenzionalità collettiva: la continuità causale tra il modo del noi e la
comparsa di azione individuale.
Egli osserva che le persone, che si impegnano in azione congiunta, comprendono
il fine condiviso in prima persona singolare, il quale però è stato stabilito da
rappresentazioni che sono in modalità collettiva. "Intuitivamente, nel caso
collettivo, l'intenzionalità individuale, espressa da 'sto facendo A, è derivata dalla
intenzionalità collettiva' Stiamo facendo A" (Searle 1990, 92). L'intuizione della
"derivazione", tuttavia, è poco sviluppata nell'opera di Searle. Sarebbe meglio dire
che quando si fa riferimento a un obiettivo da perseguire con qualcun altro,
esprimerlo nella prima persona plurale, consentirebbe all'agente di "vedere" la
scena dell'azione in un modo che sarebbe semplicemente precluso se fosse stata
75
rappresentata in prima persona singolare. Il risultato sarebbe una nuova
comprensione del fine, che causerebbe poi un certo corso di azione da selezionare
a livello individuale. Quindi, l'intenzionalità collettiva è primitiva e l'individuale è
intenzionalità derivata, nel senso che la prima è precedente a quest'ultima in
situazioni di azione congiunta.
Eppure, in che senso rispetto al suo potere causale, l'intenzionalità collettiva
eserciterebbe un potere nel determinare il pensiero individuale e l'azione? Questa
è una domanda che è frequentemente, anche se implicitamente, posta da
discussioni sull'azione congiunta, che unisce intuizioni dalla teoria
dell'intenzionalità collettiva con la ricerca in psicologia dello sviluppo. Ma non ha
una risposta chiara nella letteratura filosofica, tantomeno in Searle. La ragione è
che si tratta di una questione che l'analisi dei concetti di collettività non è adatta a
soddisfare su basi puramente aprioristiche, a meno che non si aggiunge la ricerca
che indaga fino a che punto i fenomeni intenzionali collettivi producono effetti e
comportamenti nel mondo. Lo studio della causalità in genere comporta il
confronto e la variazione controllata per assicurarsi che la variabile indipendente
sia separata, in modi che sarebbe impossibile da raggiungere in circostanze non
sperimentali. In laboratorio, infatti, le spiegazioni del senso comune che chiamano
in causa correlazioni tra, diciamo, la capacità di intenzionalità collettiva e azione
individuale, sono sottoposte a test che hanno la pretesa di isolare i relativi fattori
causali, trasformando quelle associazioni in generalizzazioni causali affidabili.
E' quindi necessaria la ricerca scientifica, per precisare che cosa significa per un
meccanismo essere primario nel senso di causare un certo effetto.
Nella cognizione sociale, studiata dalla psicologia dello sviluppo, in particolare, è
progettando la migliore condizione possibile per testare la proto-communication
che è diventato possibile "osservare" l'emergere di comportamenti di attenzione
congiunta a una certa età, isolando le cause. Ed è nel contesto della ricerca
empirica, piuttosto che senza di essa, che si è rivelato che la capacità per la
condivisione di stati mentali è davvero elementare in situazioni di attenzione
congiunta, conferendo un particolare senso al termine "priorità", cioè un senso
76
ontogenetico. Questa è una scoperta cruciale per affrontare la questione
dell'irriducibilità della intenzionalità collettiva. Quindi, per illustrare il punto in
dettaglio, analizziamo come trattare la questione in termini empirici; questo ci
permette di affrontare il problema dell'ontologia (ontogenesi) dell' intenzionalità
collettiva in un modo che un'analisi logica da sola non permette.
Ricordiamo che la preoccupazione filosofica riguarda la formazione di stati
intenzionali condivisi, cioè, le condizioni alle quali due persone realizzano che
l'obiettivo delle loro azioni è condiviso per la buona riuscita dell'azione congiunta.
Sostenendo che il contenuto dei singoli stati intenzionali può derivare
dall'intenzionalità collettiva, suggerisco che la modalità del noi è causalmente
efficace nella misura in cui essa contribuisce a risolvere il problema di come due
persone arrivano a capire che essi intendono la stessa cosa in una interazione.
La letteratura filosofica sul riferimento ha riconosciuto che la reciproca
comprensione richiede una certa condivisione a livello mentale. Ma questo
problema è stato trattato come un problema logico, con poco lavoro fatto per
capire in che consiste il condividere che porta alla conoscenza del riferimento. Un
passo decisivo in questa direzione è stato fatto ampliando l'indagine alle
condizioni psicologiche che spostano la comprensione del riferimento in
ontogenesi, quando i bambini iniziano la comunicazione in un modo abile, prima
che il linguaggio sia acquisito del tutto. Che cosa significa essere "esperti
comunicatori" nello sviluppo?
Bambini prelinguistici non fanno discorsi, eppure essi mostrano competenze di
base per impegnarsi significativamente in atti referenziali. Sebbene questa
osservazione è interpretata in una varietà di modi differenti e spesso in
competizione in letteratura, vi è ampio consenso nel descrivere la socialità di
forme primitive di comunicazione, come il risultato di un attiva "trattativa" per
l'attenzione tra i piccoli e genitori (Brown 2012)
È interessante notare che per i nostri scopi, questa linea argomentativa in
psicologia è stata portata avanti da Tomasello, il quale indica il triangolo di
attenzione congiunta come la prima manifestazione di comprensione del
77
riferimento in ontogenesi (Tomasello 1998). Teorie dell'attenzione congiunta, tra
cui la SIH, possono così essere intese, in senso ampio, come teorie del
riferimento.
Specificamente, la SIH ha le sue radici teoriche nel paradigma di ricerca istituito
da Jerome Bruner nel 1970, quando le domande circa l'attenzione congiunta,
entrarono nell'agenda degli psicologi sotto forma di domande circa lo sviluppo del
linguaggio e l'evoluzione della comunicazione intenzionale, come la transizione
dal riferimento preverbale a forme di riferimento verbale (Scaini e Bruner 1975;
Bates, Camaioni, e Volterra 1975; per una panoramica, vedere Moore e Dunham
1995).
L'intuizione di Bruner è che, data la sua rilevanza come impalcatura per le forme
successive di cognizione sociale, l'attenzione congiunta può fornire il tipo di
formato che consente alle persone di stabilire la comprensione reciproca del
riferimento. In breve, il riferimento è "una forma di interazione sociale che ha a
che fare con la gestione dell'attenzione congiunta" (Bruner 1983, 68, corsivo
nell'originale).
Un esempio di comportamento di attenzione congiunta nella comunicazione
prelinguistica, e presumibilmente negli esseri umani prima del linguaggio, è il
vasto repertorio di gesti di attenzione-coordinamento per indirizzare e seguire lo
sguardo di qualcuno verso un determinato obiettivo. Tra questi, i gesti deittici
sono responsabili per il trasferimento di conoscenza del riferimento dal genitore al
bambino. Nella tipica scena di attenzione congiunta, per esempio, i neonati e i
genitori guardano qualcosa insieme e lo scambio avviene con un contatto degli
occhi, in un modo tale che sia chiaro che essi condividono la stessa attitudine.
Procedure di attenzione congiunta danno forma ad un orizzonte comune sul quale
innestare il riferimento, imponendo vincoli rilevanti a ciò cui si assiste
congiuntamente, introducendo il bambino "nel procedimento di capire che cosa si
stava intendendo con ciò che veniva detto - quali interpretanti sono stati necessari
per gettare un ponte tra un segno e il suo significante (s) " (Bruner 1998, 220-21;
enfasi in originale). Tuttavia, il riferimento ha bisogno di più di qualche indizio
78
contestualizzato da fissare. Bambini piccoli sono così abili nel comprendere e
produrre gli atti di riferimento che sembrano sapere quale oggetto specifico è
reciprocamente presentato a loro e ai loro genitori, nel triangolo di attenzione
congiunta. E tuttavia, come fanno a pervenire in questa forma di comprensione, se
non sanno che essi stanno condividono la loro attenzione (Bruner 1995, 2)?
Come ho indicato nel paragrafo precedente, Tomasello sostiene che rappresentare
i loro obiettivi e quelli degli altri come qualcosa che "noi vogliamo portare avanti
insieme", permette agli infanti di cogliere l'aspetto specifico del fine cui assistere
congiuntamente. Questo è il senso in cui intenzionalità condivisa in definitiva è
uno "spazio condiviso di un terreno psicologico comune" (Tomasello e Carpenter
2007, 121). Così, il we-mode è principalmente un mettere in rilievo certe
rappresentazioni dell'oggetto di riferimento invece di altre, proprio quelle davanti
alle quale il comunicatore e il destinatario interpretano i reciproci atti referenziali,
sulla base di esperienze e di attività fatte insieme (Moll 2008, Liebal et al 2009,
Tomasello 2008).
L'intenzionalità collettiva è quindi evolutivamente precedente alla conoscenza del
riferimento nel I-mode, in situazioni in cui gli obiettivi sono condivisi. Cioè, il
riconoscimento da parte degli individui che essi partecipano a qualcosa insieme
nella comunicazione, è il presupposto, piuttosto che la conseguenza, della lettura
della mente al singolare e in prima persona per "cercare" il riferimento esatto di
pensieri e gesti.
Vale la pena sottolineare che, mentre le implicazioni di questa teoria sono ancora
oggetto di dibattito e spunti di indirizzi futuri della ricerca, l'enfasi della mia
argomentazione è sul modo in cui viene reso il senso particolare di priorità
ontogenetica con metodi concettuali ed empirici. Ciò vuol dire che quando
l'indagine di questioni ontologiche si svolge in un modo naturalistico, l'indagine
non consiste solo nel tipo di pensiero concettuale che caratterizza la formazione
filosofica più tradizionale. Chiarificazioni concettuali emergono dal compito
sperimentale delle associazioni e della verifica tra cause ed effetti, mantenendo
fattori di sfondo sotto controllo. La morale è che quando il naturalismo è praticato,
79
il risultato è un approccio interdisciplinare dove concettuale ed empirico si
intrecciano in modo che realizza la contiguità tra la filosofia e la scienza in modo
fecondo. La SIH può quindi essere vista come un resoconto naturalistico della
mente, o almeno di una parte di essa, perché sfrutta gli strumenti e le tecniche
della psicologia scientifica per affrontare i problemi dell'ontologia sociale.
3.3 L'evoluzione della intenzionalità condivisa.
Il lavoro di Tomasello e colleghi suscita un grande interesse tra coloro che
vogliono dare un resoconto naturalistico delle radici della socialità, sulla base
della capacità di intenzionalità collettiva. Molto deve essere fatto per chiarire le
ipotesi di quello che ho chiamato il SIH, prima di valutare le sue implicazioni per
la naturalizzazione dell'intenzionalità collettiva. In questa sezione ho presentato la
SIH nel contesto del problema centrale della intenzionalità collettiva e ho
sostenuto che essa è uno scenario per giustificare la tesi della irriducibilità della
intenzionalità collettiva a intenzionalità individuale. Non avere riconosciuto che le
domande circa l'esistenza e l'identità di uno stato mentale condiviso non può
essere fissato dall'analisi dei soli concetti sociali ha provocato sfortunate
conseguenze per il dibattito sulla naturalizzazione dell'intenzionalità collettiva
La mia tesi si basa sulla ricerca sperimentale di Tomasello nell'ambito della
psicologia dello sviluppo che si occupa di cognizione sociale, mostrando che il
pensiero nella modalità del noi specifica le condizioni per la comprensione di
riferimento in I-mode. Questa interpretazione porta a compimento l'opera di
resoconti pragmatici del riferimento, da Bruner (1983) a Tomasello (1998),
secondo i quali la conoscenza del riferimento si basa su forme di intenzionalità
condivisa, come l'attenzione congiunta, nella misura in cui si richiede che i
soggetti sintonizzano, l'un l'altro, le menti attraverso una interpretazione congiunta
del campo referenziale. Integrando recenti successi dello studio dello sviluppo e
dell'evoluzione della "mente sociale ", nella filosofia dell'intenzionalità collettiva,
80
ho sostenuto che questo filone della ricerca scientifica in psicologia ci aiuta a
capire la natura empirica dell'intenzionalità collettiva.
81
Capitolo quarto.
Rappresentare con un codice comune.
4.1. Il common coding
Nel secondo scenario si descrive l'interazione sociale secondo un'attualizzazione
della teoria ideomotoria di James (James 1890, estensioni: Prinz 1997, Jeannerod
1999 Hommel et al.2001) sostenuta da risultati sul mirroring (Decety & Grezes
1999, 2006; Rizzolatti & Craighero 2004). L'approccio ideomotorio sostiene che
gli individui percepiscono le azioni degli altri alla luce del proprio repertorio di
azione. Percepire un attore che manipola un oggetto, attiva una corrispondente
rappresentazione dell'azione percepita nell'osservatore. In questo incontro,
l'osservatore simula l'esecuzione dell'azione percepita. Lo stesso vale per il
percepire un attore che compie le sue azioni verso un altro attore. Per esempio,
quando si vede qualcuno afferrare un bicchiere di birra, si attiva parzialmente il
proprio programma motorio di afferrare il bicchiere, che conduce a una
simulazione dell'azione osservata.
Contrariamente all'approccio ecologico della coordinazione emergente,
l'approccio ideomotorio sostiene che vi siano rappresentazioni intenzionali negli
organismi e postula un'interfaccia tra la percezione e l'azione che permette
all'osservatore di simulare azione intenzionale in altri. Si possono distinguere due
componenti centrali di questa interfaccia. La prima è "un comune dominio
rappresentazionale" (Prinz 1997) che cattura aspetti che restano invariati tra
situazioni in cui si agisce su oggetti o individui e situazioni in cui si percepisce
un'altra persona che agisce su oggetti o individui. Queste invarianti possono
trovarsi nell'effetto che l'azione ha sull'oggetto o nel movimento con cui l'azione è
82
portata a compimento. La seconda componente è costituita da meccanismi di
simulazione, che attingono al sistema motorio dell'osservatore (Blakemore &
Decety 2001; Grush 2004; Wilson & Knoblich 2005). Questi meccanismi possono
essere utilizzati non solo per derivare scopi di un'azione durante o dopo
l'osservazione di azioni (Bekkering et al 2000; Rizzolatti & Craighero 2004;
Hamilton & Grafton 2006), ma possono anche essere usati per predire i risultati
delle azioni (Knoblich & Flach 2001; Umiltà' et al 2001; Schubotz & von Cramon
2004; Wilson & Knoblich 2005). In poche parole, il presupposto è che quando si
osservano le azioni degli altri, si possono proiettare relazioni intenzionali che
guidano la propria azione diretta a un oggetto o diretta a un'azione osservata.
Vi sono molte prove empiriche a sostegno dei meccanismi descritti sopra (per una
recente rassegna si veda Keysers & Gazzola 2006), che vanno dagli studi sulla
singola cellula nelle scimmie agli studi di brain imaging o sul comportamento.
Per riassumere brevemente (un'ampia trattazione di questi temi va oltre gli scopi
di questo capitolo) i risultati, è stato mostrato che:
(a) percepire un'azione influenza lo svolgimento concorrente di un'azione correlata
(Stanley, Gowen & Miall, 2007);
(b) anche persone che non intendono eseguire una particolare azione, vedendo
altri che la compiono, sviluppano una tendenza a compiere la stessa azione (Lakin
& Chartrand, 2003);
(c) giudizi percettivi sulle azioni degli altri sono influenzati dallo stato corrente
del proprio sistema motorio. (Schutz, Bobasch & Prinz, 2007).
I meccanismi descritti dalla teoria si basano su un procedimento che si può
definire simulazione di azione.
L'approccio ideomotorio ha ricevuto ampia attenzione a seguito della scoperta di
neuroni specchio nella corteccia premotoria ventrale (Gallese et al. 1996) e
parietale inferiore (cfr. Fogassi et al . 2005) dei macachi (da qui il termine'
83
mirroring'). Questi neuroni si attivano non solo quando la scimmia esegue
un'azione diretta a un oggetto, ma anche quando la scimmia osserva un altro
individuo eseguire la stessa azione. Così, i neuroni specchio forniscono un
substrato neurale per l'incontro tra la percezione diretta e l'azione, descritto in
precedenza. Negli esseri umani, è stata osservata attività del cervello in aree
analoghe, non solo quando si osservano le azioni dirette a un oggetto ma anche
quando si osservano meri movimenti corporei (Decety et al. 1997; Buccino et al.
2001, 2004; Grezes et al. 2003), come la danza (Calvo - Merino et al 2005; .
Croce et al . 2006). Da un punto di vista comportamentale, lo stretto legame tra la
percezione e l'azione si manifesta sotto forma di effetti di interferenza e di
facilitazione, per i quali è più facile eseguire le azioni che si stanno osservando in
concomitanza (Sturmer et al. 2000; Ottone et al . 2001) e più difficile eseguire
azioni opposte a quelle simultaneamente osservate (Kilner et al. 2003).
Finora la nostra discussione si è concentrata su come la struttura ideomotoria
permette ad un osservatore di identificare relazioni attore-oggetto. Ai fini della
spiegazione di come si agisca in gruppo, è più importante la questione di come
sono percepite le relazioni attore-attore.
La simulazione dell'azione avviene anche quando si percepisce un organismo che
agisce su un altro? Ad esempio quando una scimmia percepisce una scimmia che
pulisce un altro della specie? Sarebbe sorprendente se questo non avvenisse
(Knoblich & Prinz 2003), in caso contrario si avrebbe bisogno di assumere che le
scimmie sono in grado di distinguere tra relazioni tra attore e oggetto e relazioni
attore-attore e che un match di percezione-azione si verifica solo per le prime
(Knoblich 2006). Un'altra questione che si pone è come il meccanismo di
simulazione affronta il caso nel quale due organismi interagiscono. Considerando
che le relazioni attore-oggetto sono asimmetriche per definizione (atti dell'attore
su di oggetto), le relazioni attore-attore sono spesso simmetriche, con due
organismi che agiscono l'uno sull'altro.
Che cosa possiamo ottenere dall'incorporare il commom coding nell' intenzionalità
collettiva ?
84
4.2. Common coding e intenzionalità collettiva
Uno dei risultati che provengono dall'integrare i risultati del common coding è la
possibilità di tenere insieme simulazioni che riguardano le proprie azioni e
simulazioni di azioni che riguardano le azioni degli altri (cf. Knoblich & Jordan
2002; Decety & Grezes 2006). L'idea è che codici comuni e i meccanismi di
simulazione che ne derivano, possono essere usati per programmare le proprie
azioni, e per prevedere le azioni degli altri e i loro risultati, in parallelo e in
relazione a un risultato inteso congiuntamente. Esempi in cui tali simulazioni
parallele possono tornare utili abbondano nella musica, l'arte e lo sport.
Consideriamo due musicisti jazz che improvvisano insieme. Ognuno di loro ha
bisogno di prevedere ciò che l'altro starà facendo allo scopo di mantenere
dissonanze all'interno di una gamma consentita da uno stile particolare. Allo
stesso modo, gli acrobati hanno bisogno non solo di gran tempismo ma di
prevedere come si evolvono i movimenti del partner. Essi saranno utili, ad
esempio, nel calcio quando il centrocampista di una squadra passa la palla in un
punto tale che solo l'attaccante sarà in grado raggiungere, prima che i difensori
della squadra avversaria possano raggiungere lui.
In virtù di queste caratteristiche, gli studiosi di questo scenario hanno cominciato
a sottoporre a prove empiriche l'ipotesi che vi sia un meccanismo cognitivo
dedicato che individua le rappresentazioni comuni quando gli individui agiscono
insieme.
Utilizzando un'attività di monitoraggio semplice che può essere eseguita da soli o
insieme, Knoblich e Jordan (2003) hanno studiato se due gruppi sono in grado di
coordinare le loro azioni in relazione a risultati futuri della loro attività congiunta,
così come un singolo attore esegue, da solo, con successo, un compito complesso.
I risultati hanno mostrato che i co-attori hanno preso le reciproche azioni in
considerazione e hanno imparato ad adeguare reciprocamente le loro azioni in
85
modo che il loro coordinamento era quasi indistinguibile dal coordinamento
individuale, che essi potevano realizzare da soli. In questo compito, il buon
coordinamento poteva essere raggiunto solo attraverso l'integrazione degli effetti
del proprio e dell'altrui agire in una previsione del risultato congiunto. I risultati,
quindi, hanno fornito prove comportamentali per l'assunzione della simulazione
parallela.
Uno studio di imaging cerebrale, dove le persone eseguivano azioni identiche o
complementari a quelle che avevano osservato, fornisce ulteriore supporto a
questa ipotesi (Newman-Norlund et al. 2007). L'attivazione nelle zone di
pertinenza del mirror system (corteccia pre-motoria e parietale) era più forte
quando i partecipanti eseguivano azioni complementari rispetto a quando
eseguivano la stessa azione osservata. Questo suggerisce che l'azione percepita e
un'azione propria sono simulate in parallelo.
Infine, in studi comportamentali utilizzando lo stesso paradigma sperimentale, si è
constatato che i partecipanti mostravano tempi di risposta uguali sia nel rispondere
alle immagini di azioni, che prevedevano l'esecuzione di azioni complementari sia
nell'eseguire azioni identiche (Van Schie et al ). Questo è stato considerato
sorprendente, dato che la percezione di un'azione dovrebbe attivare il programma
motorio corrispondente, facilitando prestazioni delle azioni identiche. Tuttavia, il
risultato può essere spiegato se si presume che un più alto livello intenzionale
controlla la simulazione di azione.
4.3 Predizione
Che cosa ci serve per agire con qualcun altro? In un certo senso ci serve l'abilità di
prevedere, in modo affidabile, come si svolgerà l'azione nell'immediato futuro.
Una delle abilità, quindi coinvolte nella spiegazione del fenomeno è la predizione.
Bisogna fare attenzione e distinguere. Quello di cui ci stiamo occupando è lo
svolgimento dell'azione congiunta, in una situazione di compresenza degli attori e
durante una esecuzione complementare di un compito. Contrariamente ad una
86
predizione che riguarda eventi a lungo termine (chi comprerà la vernice per
dipingere la casa tra due imbianchini) il processo che si vuole chiarire è la
generazione di aspettative sui risultati dell'azione in presa diretta (come quando il
partner di un duetto suonerà la prossima nota). Il common coding, in sé, postula
che osservare un'azione attiva una corrispondente rappresentazione di questa
nell'osservatore. Così c'è una saldatura a livello degli scopi dell'azione. Perché la
simulazione comprenda anche l'elemento temporale, si devono postulare
meccanismi che permettano di applicare predizioni temporali, generate nel nostro
sistema motorio.
Secondo le teorie correnti del controllo motorio, si generano precise predizioni
temporali sulle conseguenze sensoriali delle nostre azioni ogni volta che noi
pianifichiamo di muoverci. (Wolpert & Ghahramani, 2000, Wolpert et al 2003).
Se le nostre azioni si svolgono come pianificate, le conseguenze sensoriali reali e
quelle predette coincidono, sfociando nel fenomeno conosciuto come " sensory
cancellation" una neutralizzazione degli effetti attesi (Questo è il motivo per il
quale noi non possiamo farci il solletico da soli).
In uno studio di Sato (2008) che fornisce supporto alle tesi che sostengono che gli
individui siano capaci di anticipare il futuro corso delle azioni altrui (Graf et al.
2007;Wilson and Knoblich, 2005), i partecipanti percepiscono una nota in modo
meno intenso quando hanno premuto il tasto che la genera, piuttosto che quando
ascoltano la nota, improvvisamente suonata da altri. Questo effetto di sensory
cancellation, si ritrova anche quando i partecipanti osservavano un'altra persona
premere un tasto e suonare. Così le note sembrano meno intense quando gli
osservatori hanno la possibilità di premere un tasto dimostrando che la sensory
cancellation si basa su accurate predizioni temporali.
Il meccanismo della predizione temporale fa affidamento sulla simulazione di
azione, a partire dalla propria esperienza motoria; in particolare è stato dimostrato
che siamo molto affidabili nel riconoscimento di patterns temporali
nell'osservazione di azioni. Un risultato sorprendente è stato raggiunto, ad
esempio, in un esperimento nel quale ad alcuni pianisti è stato chiesto di
87
riconoscere tracce registrate in precedenza della loro performance, basandosi su
patterns temporali (Repp & Knoblich 2001; Keller, Knoblich & Repp 2007). Essi
erano capaci di riconoscere la propria performance con pochi margini di errore. In
questa direzione si specula per sostenere che i modelli predittivi interni basati sul
proprio repertorio di azione, servono a generare predizioni per le proprie azioni e
allo stesso modo potrebbero predire il timing di quelle altrui.
Questi risultati delle ricerche sulle predizioni temporali si possono poi estendere
agli effetti congiunti delle reciproche azioni (Knoblich & Jordan 2003). Piuttosto
che simulare esattamente la parte di qualcun altro, è possibile che si generino
predizioni, in relazione alla propria performance e al fine da raggiungere. Si fa
affidamento alla propria capacità di rappresentare un timing dell'azione e si
rapporta questa verso un fine. Un'analogia che rende in modo efficace questo
meccanismo è l'apprendimento del windsurf. Quando si impara ad andare su una
tavola, si impara a bilanciarsi su questa e a tenere la vela in modo da mettere in
conto possibili repentini cambi di vento. Non si deve imparare tutto su specifici
cambi di vento o di onde ma imparare a controllare il proprio corpo affinché si
raggiungano differenti scopi. Allo stesso modo, quando agiamo con un'altra
persona, si impara a predire e regolare il timing delle proprie azioni, cosicché esse
possano accordarsi con quelle di qualcun'altro e focalizzare le conseguenze degli
sforzi combinati. Così, piuttosto che acquisire uno specifico modello sull'azione
altrui, si acquisisce, forse, un modello per muoversi con gli altri. Nella linea di
ricerca che sto perseguendo, credo che l'acquisizione di un modello interno
predittivo che supporta l'azione congiunta potrebbe funzionare allo stesso modo
sfruttando la nostra capacità di utilizzare i pattern temporali per predire gli effetti
delle azioni. I meccanismi di predizione che la teoria fornisce, dimostrano come le
rappresentazioni e le predizioni non sono semplici simulazioni ma sono già
orientate verso un fine.
Ci sono molte prove che suggeriscono che le azioni sono predette in relazione
degli effetti che si vogliono ottenere (Prinz 1997) piuttosto che degli esatti
movimenti che bisogna fare. Gli effetti che si vogliono ottenere, attraverso la
88
coordinazione delle reciproche azioni probabilmente forniscono un "orizzonte di
pianificazione" sul quale sono comparati gli effetti delle azioni congiunte.
Questo rende molto importante il momento della ricognizione degli errori durante
la performance che deve essere eseguita. Gli errori si notano di più se accadono al
livello degli effetti intesi congiuntamente piuttosto che se occorrono a livello
dell'azione individuale. Per esempio, se un musicista in un gruppo suona una nota
sbagliata, potrebbe non esserne del tutto cosciente se la totalità della musica
prodotta è conforma a come doveva essere eseguita.30
Le azioni congiunte, poi, avvengono in uno spazio fisico e questo solleva molte
questioni su come i co-attori possano organizzare questo spazio comune. In linea
con il tema del common coding e quindi di un meccanismo di simulazione
d'azione sul proprio repertorio d'azione, si può speculare sulla predizione di
caratteristiche spaziali di altri (Erlhagen & Jancke, 2004; Jordan & Hunsiger,
2008). Condividere uno spazio vuol dire che un attore deve fare predizioni sia su
dove l'altro si sta muovendo sia su dove gli oggetti, sui quali si agisce, finiranno.
In termini concettuali, sembra che simulare l'azione di un altro possa aiutarci a
predire dove egli si muoverà. Se un ballerino vede il partner che compie un
particolare salto, egli sarà in grado di generare una predizione sul punto in cui
ricadrà basandosi sulla comprensione del tipo di salto. Così come le simulazioni in
tempo reale possono essere usate per predire la tempistica, allora forse è possibile
usarle per predire lo svolgimento del movimento degli altri nello spazio. Evidenze
empiriche in questo senso sono scarse e le speculazioni sono quindi molto aperte.
Abbiamo invece qualche evidenza da esperimenti, nei quali individui devono
predire la posizione di arrivo di oggetti lanciati; i risultati suggerirebbero l'idea
che la simulazione di azione supporti la predizione sul luogo di caduta degli
oggetti (Knoblich & Flach, 2001). E' stato mostrato che avendo visto soltanto la
parte iniziale del lancio, i partecipanti possono predire la posizione di atterraggio
30 Sfortunatamente non c'è sufficiente mole di lavoro che riguarda il ruolo delle simulazioni parallele e i modelli di azione congiunta; è possibile che questi processi abbiano luogo in situazioni differenti e a livelli differenti ma che lavorino insieme.
89
in maniera più accurata, quando vedono un video delle loro azioni precedenti
piuttosto che quando vedono un video che ritrae lanci effettuati da altri altre
persone. Questo dimostrerebbe che la predizione recluta il sistema motorio
dell'osservatore. Maggiore è il nesso tra il sistema che percepisce l'azione e il
sistema che la compie, maggiormente accurata sarà la predizione sulla
destinazione dell'oggetto.
4.4 Co-rappresentare
Nel presente scenario, tuttavia, l'acquisizione più importante riguarda l'idea che i
meccanismi che fondano un dominio rappresentazionale comune, possano
generare un modo proprio di rappresentare i movimenti e i compiti dei co-attori,
un modo specifico che avviene soltanto nell'interazione. Se è così, questo diventa
rilevante ai fini di comprendere il processo e i meccanismi che ci permettono di
condividere le intenzioni. Questi processi suggeriscono che ci sia una modalità di
cognizione dedicata, che si manifesta nell'interazione e ha radici in domini
rappresentazionali più profondi. E' questa ipotesi che deve essere ulteriormente
approfondita.
Abbiamo visto che la common coding theory (Prinz 1997) postula un'interfaccia
tra la percezione e l'azione, così che la percezione di un'azione porta
all'attivazione di una corrispondente rappresentazione d'azione nel sistema
dell'osservatore. Se applichiamo questo principio alle azioni congiunte, otteniamo
l'interessante ipotesi che le azioni degli altri vengono codificate a partire dal
repertorio d'azione dell'osservatore.
Nei casi molto semplici, è possibile che l'agente rappresenti solamente il proprio
compito. In molti altri casi, però, è necessario che l'agente rappresenti il compito
altrui (Sebanz et al 2006; Sebanz & Knoblich 2009; Vesper et al 2010, Sebanz &
Butterfill 2011). Uno dei modi più importanti in cui il "common coding"
contribuisce, quindi, alla spiegazione di come l'intenzionalità abbia un ruolo nella
spiegazione dell'azione congiunta è attraverso il meccanismo della
90
rappresentazione del compito condiviso, in un contesto di azione congiunta.
Questo è il meccanismo che intercetta il legame tra gli agenti che prendono parte
ad un'azione congiunta. Scienziati cognitivi hanno cominciato a distribuire
compiti tra co-attori per investigare se gli individui formano rappresentazioni
simili dei compiti, sia quando essi sono condivisi sia quando sono compiuti in
solitario (Atmaca, Sebanz, & Prinz, 2003, 2005; Tsai, Kuo, Jing, Hung & Tzeng,
2006). Ne è nata l'espressione "shared task representation" riferita all'idea che
durante la performance di un compito condiviso, ogni co-attore non soltanto
rappresenta la propria parte ma la parte che deve essere portata a termine dal suo
co-attore.
In uno studio (Sebanz, Knoblich & Prinz, 2003) è stato mostrato, attraverso una
variante di un compatibility task (Simon1990) che due partecipanti che
condividono l'esecuzione di un compito, mostrano gli stessi effetti di compatibilità
mostrati da un singolo partecipante che esegue lo stesso compito. Lo studio è stato
fatto con un singolo partecipante e con due partecipanti. Nella versione con un
solo partecipante si rispondeva al colore di un anello, che era mostrato sul dito
indice di una mano puntata verso il soggetto. Un colore richiedeva di premere un
tasto sinistro e un altro colore, il pulsante destro. In aggiunta a ciò, la mano
puntava o a destra o a sinistra. Sebbene la direzione nella quale la mano indicava
fosse irrilevante per il compito, i partecipanti hanno risposto più velocemente con
il tasto sinistro a stimoli che puntavano a sinistra piuttosto che a stimoli che
puntavano a destra e viceversa. Questo effetto di compatibilità spaziale avviene
perché lo "stimolo spaziale", attiva automaticamente l'azione corrispondente. Se lo
stimolo rilevante "colore" richiede l'azione opposta, allora si forma un'interferenza
tra due rappresentazioni d'azione concorrenti. Nella condizione sottoposta a
verifica e cioè nella condizione nella quale il compito era diviso tra co-attori, ogni
individuo rispondeva soltanto ad un colore tra due, usando soltanto un tasto.
Sebbene i partecipanti eseguissero soltanto la metà del compito, essi mostrarono
un effetto di compatibilità spaziale simile a quello registrato nell'azione compiuta
da un singolo individuo. Al contrario, non si è registrato un effetto di
91
compatibilità quando i partecipanti eseguivano metà del compito da soli (senza un
co-attore) Questo è sorprendente perché il compito era lo stesso sia nell'ultima
condizione sia in quella congiunta. Come è possibile spiegarlo? Nella condizione
individuale (un singolo che compie metà del compito) è stata rappresentata solo
un'azione e così non si è registrato conflitto. Nella condizione, invece, in cui due
individui hanno agito in maniera congiunta, l'azione alternativa sotto il controllo
dell'altro individuo è stata co-rappresentata come se fosse parte del proprio
compito.
Questi risultati sono stati replicati in uno studio in cui i partecipanti hanno risposto
a numeri pari e dispari con la pressione dei tasti destro o sinistro (Atmaca, Sebanz,
Prinz, e Knoblich, 2008). I numeri variavano da 2 a 9 e la grandezza del numero
era sempre irrilevante. E' ben noto che quando gli individui eseguono il compito
soli, come un compito a due scelte, la pressione dei tasti a sinistra è più veloce in
risposta a numeri piccoli e le pressioni dei tasti a destra è più veloce per i numero
più grandi. Questo effetto di grandezza del numero sui giudizi (il cosiddetta
Effetto "SNARC") è stato spiegato con l'ipotesi che la percezione di numeri attiva
automaticamente una rappresentazione della grandezza su una linea numerica
mentale che va da sinistra verso destra (Dehaene, 1997). Atmaca e colleghi hanno
dimostrato che lo stesso effetto si verifica quando due persone siedono una
accanto all'altra e eseguono il compito insieme, in modo tale che uno risponde
solo a numeri pari e l'altro soltanto a numeri dispari. Il partecipante seduto a
sinistra era più veloce nel rispondere a numeri di piccola entità, e il partecipante
seduto a destra era stato più veloce nel rispondere a grandi numeri. Questo
suggerisce che, come nel compito di compatibilità sopra descritto, i partecipanti
rappresentavano la propria azione alternativa in relazione alle azioni del co-attore.
Gli effetti della co-rappresentazione suggeriscono, quindi, che quando gli
individui compiono parti differenti di uno stesso compito, essi tendono a
rappresentare l'intero compito, anziché la propria parte. Le azioni del co-attore
sono rappresentate in modo simile al repertorio di azioni a propria disposizione.
92
Se le azioni che si eseguono e le azioni che si osservano in altri sono rappresentate
in un modo funzionalmente equivalente, ciò fornisce una piattaforma di
integrazione per l'esecuzione di attività congiunte.
Un'implicazione, che segue da questo punto di vista, è che condividere un compito
dovrebbe essere molto simile a eseguirlo in proprio, almeno quando azioni
complementari sono distribuite tra due persone. Simulare e rappresentare sono il
primo passo per diminuire i tempi di risposta.
Indagando sulla co-rappresentazione, tuttavia, si è visto che sapendo qual è il
compito di un altro, conoscendo, cioè, le circostanze dello stimolo-risposta di quel
compito si può predire che cosa, probabilmente, si farà. Evidenze empiriche
mostrano che quando il soggetto sa mappare gli stimoli-risposta propri e del co-
agente, genera una rappresentazione accurata della sequenza d'azione e di risposta
appropriata, prima dell'osservazione dell'azione (Kilner e al 2004; van Schie et al
2004).
Come si vede in uno studio di Hollander (Hollander et al 2011), si può rinvenire,
"un potenziale di prontezza lateralizzato", che riflette un'attivazione di aree
motorie contro-laterali che rispondono alla mano, non solo quando i partecipanti
si preparano ad agire, ma anche quando anticipano l'azione del partner. Questo
studio rivela che l'attivazione motoria, quando è il turno del co-agente, risponde
alla preparazione del partecipante ad agire e indica che il partecipante simula,
effettuando l'azione che dovrebbe essere fatta dal coattore. Le rappresentazioni
congiunte dei compiti, quindi, permettono di estendere l'orizzonte temporale della
pianificazione e rendono possibile anticipare le azioni future degli altri e
prepararsi per questo scopo.
(Sebanz & Milanese 2010).
La rappresentazione di compiti condivisi, infatti, ha effetti sul controllo
dell'azione. Un caso significativo e importante è il rinvenimento degli errori.
Effetti delle rappresentazioni di attività condivise sul controllo dell'azione sono
stati dimostrati da studi che hanno valutato l'osservazione di errori (Bates, Patel,&
Liddle, 2005; Schuch & Ribaltabile, 2007; van Schie, Marte, Coles, &Bekkering,
93
2004). Per studiare se processi inibitori simili si verificano nella persona che sta
cercando di fermare un'azione e in un osservatore, che guarda il suo co-attore
interrompere un'azione, Schuch e Tipper (2007) hanno chiesto ai partecipanti di
rispondere ai targets il più rapidamente possibile, ma di fermarsi se si fosse
presentato un segnale di arresto poco dopo il target. E' ben noto che i partecipanti
rispondono più lentamente nella prova a seguito di un segnale di arresto, sia se
hanno correttamente arrestato l'azione sia se hanno fatto un errore. I risultati
hanno mostrato che i partecipanti non erano solo più lenti dopo che l'azione si era
interrotta o avevano commesso un errore essi stessi, ma anche dopo che il loro co-
attore lo aveva fatto. Questo indica che i processi di controllo per governare le
proprie azioni sono attivi anche durante la prestazione di un coattore, anche se la
performance del co-attore è irrilevante per il proprio compito.
Evidenze elettrofisiologiche suggeriscono che agire insieme richiede l'assunzione
di processi di controllo per garantire che uno non agisca quando è il turno
dell'altro. Un potenziale positivo correlato all'evento che si verifica 300-500 ms
dopo lo stimolo è significativamente più pronunciato quando i partecipanti hanno
necessità di inibire la loro azione, perché è il turno del coattore rispetto a quando
avevano bisogno di inibire l'azione, perché nessuno doveva agire (De Bruijn,
Miedl, e Bekkering, 2008;. Sebanz, Knoblich, et al,2006; Tsai et al, 2006).
Nello studio sul joint flanker effect, riportato da Amaca, Knoblich, Sebanz, (2011)
si dimostra che la co-rappresentazione non è riferita soltanto ai compiti che
presuppongono una mappatura arbitraria dello stimolo risposta. Lo studio
suggerisce che la ToM gioca un ruolo nella co-rappresentazione. Affinché, infatti,
abbia luogo una co-rappresentazione è cruciale che gli individui percepiscano i
co-attori come agenti intenzionali. I partecipanti non mostrano un joint flanker
effect quando le azioni dei loro co-attori sono controllati da una macchina,
indicando che solo compiti di agenti intenzionali sono co-rappresentati.
Recentemente gli studi su questo meccanismo di condivisione hanno sottoposto ad
indagine il tipo di rappresentazione che si genera, cercando di comprendere se i
partecipanti che si impegnano nell'esecuzione di un compito comune possono
94
avere un senso della loro agency condivisa. Uno studio molto importante, in
questo senso è quello condotto nel 2013 da un gruppo di ricerca (Wenke, Atmaca,
Hollander Prinz, 2013) nel quale si sostiene che la co-rappresentazione, nella
condivisione un compito, così come avviene durante una joint action, deve essere
intesa come un meccanismo rivolto a identificare che vi sia un altro attore che
deve compiere un'azione e quando costui deve intervenire nell'azione. Lo studio
introduce una nuova componente molto interessante ai fini della nostra ricerca la
agent identification. Le interferenze registrate durante la condivisione di un
compito, sarebbero dovute al problema di un'identificazione dell'agente e del suo
tempo di azione. Dal punto di vista della presente ricerca, il punto importante è
che durante i compiti condivisi, non ci si focalizza soltanto su come il co-attore
risponderà ad alcuni stimoli ma sul riconoscimento del fatto che un altro attore è
responsabile per l'esecuzione della propria parte del compito.
Per riassumere, prove comportamentali, elettrofisiologiche e prove ottenute
attraverso Brain Imaging evidenziano che gli esseri umani rappresentano non solo
i propri compiti, ma anche quelli dei partners. Come abbiamo visto, se gli agenti
rappresentano compiti degli altri non dipende dal fatto che è necessario, per
svolgere i propri compiti in modo efficace, percepire sempre direttamente i co-
attori, ma dipende dal credere che l'altro compito è effettuato da un agente
piuttosto che da un algoritmo, e in alcuni casi, dipende dal fatto che gli agenti
agiscano in uno spazio peri-personale. Se è difficile, attualmente, specificare
completamente un modello dettagliato di come sorgono le rappresentazioni del
compito comune, ci sono molte prove, invece, sulla questione relativa ai loro
effetti . Rappresentare il compito del coattore significa inibire le proprie azioni
attraverso il proprio sistema motorio e diventare sensibili agli errori degli altri.
Così, le rappresentazioni di attività condivise realizzano il monitoraggio e la
pianificazione delle azioni comuni.
95
4.5 We representation e me- representation
Questi esperimenti suggeriscono che esiste un modo di rappresentare che è
specifico dell'interazione nella modalità del noi (una we-representation).
Rappresentando nella modalità del noi, la mia azione svolta come membro del
gruppo, mantengo distinto il mio contributo ma riesco a rappresentare il compito
comune e quello del co-attore. In altre parole in un'azione congiunta il contributo
individuale sarà guidato da una rappresentazione a livello individuale di ciò che
stiamo facendo insieme (un we-representation).
Infatti, secondo l'"effetto groop" descritto da Tsai, J.C. et al. (2011) la prestazione
individuale in un compito comune, varia a seconda che i partecipanti
rappresentano il loro compito come contributo a qualcosa che fa il gruppo
collettivamente o come qualcosa da eseguita dal singolo individuo ('me-
rappresentazione')
Il groop effect aggiunge qualcosa alla ricerca precedente (Sebanz, N. et al. 2003),
che sostiene che gli individui tendono a co- rappresentare l' azione degli altri
quando svolgono compiti con altri. L'esperimento sul Groop - effect esplora la
possibilità che il rapporto azione - percezione negli individui sia anche influenzato
dalla eventualità che essi si sentano parte di un gruppo. L'interpretazione
dell'esperimento sul groop effect ci dice che nella condizione congruente, il
partecipante e il coattore vedono due mani sinistre, che implicano due persone che
lavorano insieme, come loro. Nella condizione incongruente, vedono una mano
sinistra e una destra, che implica una persona che lavora da sola. Le prove che il
partecipante rappresenta l'attività come un contributo a qualcosa che il gruppo
svolge, o come qualcosa che deve essere eseguita dall'individuo da solo, vengono
dai risultati sul tempo di reazione del partecipante registrati in eventi congruenti e
incongruenti. I tempi di reazione sono più veloci nella condizione congruente
(senso di appartenenza al gruppo) " agire in gruppo", rispetto alla condizione
96
individuale incongruente, anche se, a livello individuale, il compito di rispondere
ai movimenti della mano destra sullo schermo è identico.
4.6 Sfondo e prospettiva del coattore
Affinché una persona capisca la sua parte come un contributo a qualcosa che
viene realizzato congiuntamente da tutti membri del gruppo, deve essere in grado
di co-rappresentare le azioni del proprio partner che interagisce, reale o potenziale
che sia, tenendo conto della sua prospettiva nella scena interattiva.
figura 1
In un esperimento sul background e la presa in considerazione della prospettiva
altrui, un attore è seduto a un tavolo con quattro tazze davanti a lui, due più vicine
e tre più lontane. Per lui, ogni tazza sul tavolo ha una affordance a essa associata
(Obhi, S.S. & Sebanz, N. 2011), che indica che è potenzialmente disponibile per
l'azione. Dal punto di vista dell'attore, le tazze 1 e 2 hanno un alta affordance,
perché sono alla sua portata, mentre la tazza 3 ha una bassa affordance, perché è
97
fuori portata. La presenza di un potenziale collaboratore, suscita co-
rappresentazioni, inducendo l'attore a prendere in considerazione la prospettiva
del coattore. La mappa per rappresentare le azioni a disposizione del 'gruppo' è
cambiata, in modo che la tazza 3 ora ha un alto affordance, perché è nella portata
del coattore (Costantini, M. et al. 2012) Per contro, tazza 2 ha ora una affordance
inferiore, dal momento che il coattore non può vederla. (Vedi figura 1)
3.7 La cognizione nel modo collettivo
Interpretando questi risultati, suggerisco che ci sia una modalità di cognizione
peculiare all'interazione di individui che si impegnano in un'azione congiunta.
L'idea centrale è che in questa modalità collettiva, gli agenti interagenti
condividono le loro menti per rappresentare il loro contributo all'azione congiunta
nei termini di contributi a qualcosa che essi hanno intenzione di perseguire
insieme, "come un 'noi'. Secondo tale punto di vista, la cognizione nella modalità
congiunta non implica che gli individui hanno rappresentazioni mentali del loro
compito con la stesso, o simile contenuto, o una specifica rappresentazione dello
'stare insieme', o del noi. Rappresentare le cose in una modalità collettiva significa
interagire con individui che a livello individuale specificano il contenuto delle
loro azioni rappresentando aspetti della scena interattiva in un atteggiamento
psicologico distinto di intendere-insieme, credere-insieme, desiderare-insieme.
Ciò equivale a dire che due agenti capiscono quello che fanno nei termini di fare
la propria parte, come contributo al loro fare insieme.
Tuttavia, affinché una persona capisca la sua parte come un contributo a qualcosa
che viene realizzato congiuntamente da tutti i membri del gruppo, deve essere in
grado di co-rappresentare le azioni dei partners che interagiscono reali o potenziali
che siano tenendo conto della loro prospettiva nella scena interattiva.
Questo rende più facile intendere, in termini generali, come le rappresentazioni
del compito comune possono facilitare l'azione congiunta. Rappresentando i
98
compiti dei coattori, gli agenti possono coordinare le loro azioni e prevedere il
loro esito congiunto perché hanno uno strumento per monitorare e pianificare.
I contorni della condivisione diventano più chiari, se consideriamo che c'è un
meccanismo che ci permette di regolare il senso di far la propria parte con
qualcuno in un'azione verso uno scopo. Tutti gli approcci filosofici, infatti, dai
riduzionisti ai non riduzionisti, si affidano a intuizioni per descrivere quel senso di
agire in comune che caratterizza le azioni congiunte. In questo senso, invece
ritroviamo un meccanismo concreto che potrebbe fungere da ipotesi esplicativa.
99
Capitolo quinto
Modi intenzionali collettivi irriducibiliUn nuovo approccio alle we-intention.
5.1 Noi ci riferiamo, noi rappresentiamo, noi agiamo. Modalità del we-
cognize
L'idea centrale che abbiamo guadagnato dall'analisi dei precedenti scenari,
soprattutto attraverso l'identificazione di meccanismi cognitivi specifici che
sostengono le azioni congiunte, è che gli individui rappresentano i propri
contributi all'azione congiunta come contributi a qualcosa che essi stanno
perseguendo insieme, in quanto gruppo, come un "noi". Rappresentare in questa
disposizione significa per gli agenti che interagiscono, guadagnare aspetti della
scena interattiva in una distinta attitudine psicologica a intendere insieme, a
credere insieme, a desiderare insieme e far di questi il contenuto dell'azione
singolare. (Tomasello 2009; Sebanz 2003 Sebanz et Tai 2006). Secondo i risultati
che abbiamo illustrato ciò non implica che gli individui abbiano le stesse
rappresentazioni mentali del compito, che abbiano un contenuto uguale oppure
che abbiano una specifica rappresentazione del loro essere insieme o del loro
essere "un noi", significa piuttosto che l'attitudine singolare proviene da una
rappresentazione che non potrebbe aver luogo se non si fosse coinvolti in
un'interazione. Questo ha delle conseguenze sul modo nel quale si concepisce la
cognizione sociale.31
31 Con cognizione sociale si intende l'insieme dei processi che sostengono la comprensione degli altri, e l'interazione con loro. Teorie della cognizione sociale riflettono modi diversi di pensare la natura della cognizione umana, in termini di processi individuali: come la simulazione o la teoria della teoria (o entrambi) e/o di processi relazionali tra organismo e il suo ambiente.
100
Nell'economia del presente lavoro, sono stati scelti e analizzati alcuni esempi, che
rappresentano una modalità di cognizione sociale che si manifesta nell'interazione
con altri individui, nella forma di un riferimento comune o nella forma di una co-
rappresentazione dei contributi altrui in un compito condiviso. In questa modalità,
l'azione singolare di un membro del gruppo è guidata da una rappresentazione di
livello individuale di ciò che noi stiamo facendo congiuntamente (una we-
representation). Per averne un'idea intuitiva, richiamiamo alla memoria
brevemente due meccanismi analizzati. Affinché gli agenti possano intendere la
propria parte come contributo a qualcosa che è ottenuto congiuntamente da tutti i
membri del gruppo, gli agenti sono in grado di co-rappresentare le azioni dei loro
reali o potenziali co-attori, tenendo in considerazione le loro prospettive della
scena interattiva (Sebanz, N. et al. 2003) Secondo il "GROOP effect" (Tsai, J.C. et
al. 2011), la prestazione individuale, in un compito congiunto varia in base al fatto
che i partecipanti rappresentano i loro compiti come contributi a qualcosa che
tutto il gruppo persegue o come qualcosa che è realizzato dal singolo agente (me-
representation). Come abbiamo ricostruito (Cap IV §), co-rappresentare svolge
varie funzioni nell'azione congiunta, ad esempio, fornisce strutture di controllo e
monitoraggio dello svolgimento delle azioni, durante episodi di coordinazione in
tempo reale. (Obhi, S.S. and Sebanz, N. 2011 Knoblich, G. et al. 2011). Oltretutto,
ci sono le prove che gli individui registrano ciò che gli altri stanno facendo anche
di fronte alla mera presenza di altre persone, anche quando non è sicuro che
l'interazione avverrà e addirittura quando è possibile che questa interazione
rallenti la prestazione individuale.
5.2 La natura dell'intenzionalità condivisa: modi intenzionali plurali (we-
mode intentionality)
A questo punto dobbiamo chiederci che foggia prende l'intenzionalità condivisa
alla luce di queste acquisizioni.
101
In generale, i filosofi sono concordi nel ritenere che gli agenti devono avere stati
mentali, qua "intenzioni condivise", perché le azioni siano congiunte (Roth, A.S.
2011) ma sono in forte disaccordo sulle condizioni che permettono alle menti di
essere condivise. La disputa filosofica sulla natura delle intenzioni condivise, ora,
può essere letta alla luce degli scenari che abbiamo tracciato e dei meccanismi che
abbiamo ricostruito.
Per gli approcci riduzionisti32, le intenzioni condivise sono le intenzioni singolari
di un individuo e non differiscono da quelle impegnate nella pianificazione
dell'agire individuale33. Il senso di condivisione è realizzato attraverso una
particolare natura della struttura interdipendente delle intenzioni (Bratman 2002)
oppure attraverso il coinvolgimento di altri stati mentali, quali credenza e
desiderio. Alla luce di quanto abbiamo ricostruito, l’impostazione riduzionista non
sembra essere teoricamente la più adatta a essere armonizzata con i risultati
acquisiti. E' una visione individualista, che avalla un'idea "spettatoriale" (Hutto et
al 2010) della cognizione sociale degli individui e che diventa inadeguata, se si
assumono i risultati dell'apporto alla cognizione sociale, dei meccanismi di we-
mode-cognize che abbiamo ricostruito. L'approccio riduzionista prevede, infatti,
che l'individuo debba rappresentare la propria intenzione e le intenzioni altrui,
prima di impegnarsi in un'azione congiunta e che la condivisione possa avvenire
in un esercizio ricorsivo di "lettura della mente"; se volessimo tradurre questa
attitudine nei termini di una teoria cognitiva della mente, potremmo dire
l'approccio riduzionista partendo dalle intenzioni singolari, interpreta l'agente
come un mindreader osservatore.
Suggerisco, allora, che il problema con gli approcci riduzionisti all'intenzionalità
condivisa nasce dal sottostante modello della cognizione sociale. La visione da
spettatore della cognizione sociale che essi presuppongono, interpreta il
32 Bratman (1992), Miller e Tuomela (1998) sono gli esponenti principali di questa tendenza che riduce le intenzioni condivise a intenzioni individuali associate ad altre condizioni.33 Chant 2008 ha chiarito bene come gli approcci filosofici classici (Bratman Tuomela Gilbert) partono sempre da un analogia tra azione individuale e azione collettiva/intenzione individuale intenzione collettiva
102
comportamento degli agenti interagenti dalla prospettiva di un osservatore teorico,
che rappresenta il problema di decisione affrontato da questi per impegnarsi in
forme di azione congiunta dal punto di vista del soggetto singolare34.
Ed è proprio nell'architettura della struttura intenzionale, che segue la scelta di
mettere al centro le intenzioni individuali, che si ritrova l'obiettivo delle critiche
dei minimalisti: l'idea di rappresentazione che la loro concezione
dell'intenzionalità comporta è onerosa dal punto di vista cognitivo perché non
rende conto del fatto che quando si interagisce, gli agenti sembrano avere accesso
a maggiori informazioni sul comportamento dei loro partner di quanti ne
avrebbero ottenute come semplici osservatori, in un contesto sociale senza
corpo.35
Impegnandosi in un'azione congiunta quello che cambia è il modo in cui gli agenti
interagenti concepiscono il contesto e il loro ruolo, poiché le caratteristiche
contestuali della scena interattiva innescano rappresentazioni che non sono
disponibili al "teorico" (Hindriks, F. 2012). La modalità cognitiva (we cognize),
che specifica come conosciamo gli altri e il mondo, suggerisce che la
consapevolezza interpersonale non si raggiunge attraverso una ricorsiva lettura
delle menti ma attraverso un "incontro di menti". E' il senso dell'essere congiunto,
allora, che diventa la caratteristica più importante della psicologia del
comportamento collettivo.
La proposta di questo lavoro è che i processi di cognizione sociale che formano e
sostengono le “menti condivise” suggeriscono una visione filosofica
dell'intenzionalità condivisa, per la quale questi processi sono atteggiamenti
psicologici o "modi" irriducibili collettivi (We-mode intentionality). Questo si
accorda maggiormente con una visione generale di intenzionalità collettiva
34 Richiamiamo alla memoria il modello paradigmatico di Bratman. Per agire insieme, io devo intendere che tu indendi J e io devo intendere che tu devi intendere che tu armonizzi con me i piani di azione subordinati. La traduzione in termini cognitivi di questo schema è la necessità che il soggetto sappia attribuire al partner stati mentali di ordine superiore e che abbia capacità rappresentative e meta-rappresentative. Non è casuale se sorge il problema della iper-intelletualizzazione e la conseguente esclusione degli infanti dal fenomeno.3537 In tutti gli episodi di coordinazione emergente e pianificata
103
irriducibile, laddove l'irriducibilità è relativa ai modi e alle attitudini posseduti dal
soggetto agente. Gli stati mentali nuovi, che prendono forma durante l’interazione
sono modi psicologici o attitudini. Che cosa è un modo nella teoria
dell’intenzionalità?
Gli stati mentali intenzionali sono rappresentazioni caratterizzate dall'oggetto che
rappresentano (su cui vertono o sono diretti) e dalla forma aspettuale in cui
l'oggetto intenzionale appare al soggetto. Un modo è una caratteristica della
rappresentazione mentale che coglie la prospettiva del soggetto o il suo
atteggiamento verso l'oggetto intenzionale. Il modo della rappresentazione
mentale è una funzione aggiuntiva del contenuto mentale, che specifica se l'azione
degli individui è rappresentata come qualcosa che ogni persona si propone di
compiere individualmente o come qualcosa da compiere insieme con gli altri
(azione congiunta)36. Le intenzioni condivise possono essere pensate quindi come
modi irriducibilmente collettivi, non ulteriormente riducibili a intenzioni che
presiedono al comportamento individuale (I intention).37
Riassumendo, l'idea centrale è che il modello di cognizione sociale che supporta le
intenzioni irriducibili collettive, porta gli agenti interagenti a rappresentare il loro
contributo all'azione comune come un contributo a qualcosa che essi hanno
intenzione di perseguire insieme, in una modalità quindi diversa da quella
individuale. Mi riferirò a questi processi come processi che, essendo
intrinsecamente plurali, sono parti del meccanismo responsabile dell' "incontro' di
menti" che è essenziale per un'azione congiunta. Gli stati intenzionali sono da
intendere come modi psicologici irriducibili, che si manifestano nell'interazione e
36 L'uso del termine 'modo' non ha lo scopo di catturare la differenza tra i tipi di stati mentali intenzionali, o 'modi intenzionali', come credere, desiderare, immaginare, etc ma la prospettiva del soggetto.37 In questa sede irriducibile si riferisce al dibattito filosofico e quindi si contrappone alle intenzioni condivise riducibili concepite come le intenzioni individuali variamente combinate; in un altro senso le intenzioni collettive sono riducibili a meccanismi più elementari, che sono esattamente quelli che abbiamo descritto quando abbiamo ricostruito l'intenzionalità nell'ordie naturale.
104
hanno luogo nella mente individuale ma rappresentano il contenuto dell'azione
individuale come un contributo al compito condiviso.
I modi collettivi irriducibili non richiedono quel dispendio cognitivo che è la
causa dell'accusa di "inflazione intenzionale". Essi, infatti, sono
ontogeneticamente, una delle prime manifestazioni di socialità e sostengono
l’azione congiunta degli infanti. Essi, poi non richiedono che l’individuo formi
rappresentazioni degli stati mentali altrui, perché si basano sulla co-
rappresentazione. La co-rappresentazione è un fenomeno che si verifica quando
gli individui devono portare a termine un compito condiviso.
Essi, quindi, costituiscono una versione più “leggera” delle intenzioni condivise
che la tradizione filosofica ha proposto come candidato per spiegare come gli
individui si impegnino in forme di azione congiunta.
5.3 Intenzioni individuali e intenzioni collettive: scomponibilità.
Giova aggiungere una piccola postilla per evitare equivoci, dettati da una
sovrapposizione terminologica. In questo scenario, ci muoviamo all'interno del
dibattito filosofico, illuminato dalla luce di una circostanziata ricostruzione dei
meccanismi che permettono le interazioni sofisticate, come le azioni congiunte.
Nel dibattito filosofico, i contendenti candidati a spiegare la condivisione, sono,
da un lato, i sostenitori di una versione riduzionista delle intenzioni condivise, per
i quali queste sono da ridurre alle stesse intenzioni individuali che riscontriamo
nella pianificazione dell'agire individuale e dall'altro i sostenitori di una peculiare
forma di intenzioni condivise, che sostengono che esse siano intenzioni di tipo
collettivo. Nel presente lavoro si è presa in esame questa controversia alla luce di
alcuni processi che sono stati ricostruiti per descrivere l'intenzionalità in un ordine
naturale, soprattutto a partire dai meccanismi di cognizione sociale che
sostengono e formano queste intenzioni. Conseguentemente a questa impostazione
sono state le intenzioni condivise a essere sottoposte a un processo di
105
scomposizione, per vedere come in altri scenari interpretativi delle azioni
congiunte, esse potessero avere una plausibilità e come differenti approcci
potessero gettare luce sulla loro natura38. Il risultato è stato che le intenzioni
condivise sono peculiari modi intenzionali che non sono riducibili alle intenzioni
individuali., ma sono riducibili a processi e meccanismi che ne specificano la
peculiare natura.
L'obiezione potrebbe essere: tanto le intenzioni individuali che quelle collettive
sono entità complesse e stratificate a vari livelli. Quindi, in un certo senso, se non
si può costruire la nozione di intenzione collettiva a partire da quelle individuali, è
perché innanzitutto la nozione stessa di intenzione individuale va scomposta.
L’argomento che questo lavoro cerca di dimostrare tuttavia è che anche
analizzando i lavori già svolti o facendone uno ex novo che avessero al centro la
scomponibilità delle intenzioni individuali non avremmo ancora risolto il
problema di spiegare come gli individui si impegnano in forme di agire collettivo.
Quando gli individui agiscono insieme utilizzano e condividono peculiari modi
intenzionali irriducibili. Diverso è l’argomento per il quale questi modi peculiari
possono essere ridotti ad altri meccanismi studiati da altri filoni di ricerca.
Nel presente lavoro rimango neutrale39 rispetto ad una scomponibilità delle
intenzioni individuali. Siano esse semplici o un'entità complessa, non possono
costituire l'explanans che ci conduce a una spiegazione del fenomeno dell'agire
condiviso.
38 Da un punto di vista teorico, all'inizio della trattazione, sebbene si avessero delle intuizioni provenienti dall'analisi della letteratura, il punto di osservazione di questo lavoro era neutrale rispetto alle due prospettive. Dopo l'analisi degli apporti di altri filoni di ricerca empirica, sembra che si diano argomenti in favore di una natura irriducibile delle intenzioni collettive. Il punto di partenza era in ogni caso una nozione neutra di intenzione condivisa, perché questa è al centro del dibattito filosofico e questo genere di intenzionalità andava sottoposta ad analisi. L'analisi delle intenzioni individuali prescinde dagli scopi di questo lavoro perché in nessun approccio (neppure in Bratman 2002) è data, pleno iure, come spiegazione dell'agire congiunto39 Esiste e l'autore di questo lavoro ne è al corrente una fiorente letteratura sulla natura delle intenzioni individuali. Essa non è stata presa in esame perché il lavoro prescinde dalla semplicità o dalla natira stratificata delle intenzioni individuali.
106
Nel presente lavoro, poi, si cerca di determinare in che senso le intenzioni
individuali e quelle condivise hanno due nature differenti.
5.4 L'intenzionalità collettiva irriducibile dal punto di vista filosofico: Il
caso di Searle
Le intenzioni condivise, concepite come collettive e irriducibili, non sono nuove
alla letteratura filosofica. I precedenti filosofici più importanti sono la teoria
dell'intenzionalità collettiva di Searle (Searle 1990, 1995, 2010) e il tem reasoning
di Bacharach. Vi sono tuttavia dei problemi di natura teorica che questi approcci
non hanno risolto e che questo lavoro vorrebbe contribuire a risolvere. Descriverò,
allora alcune caratteristiche filosofiche salienti di questi approcci per chiarire
similitudini e differenze con questo lavoro e per avanzare proposte in direzione
della soluzione di talune aporie.
Searle (Searle 1990, 1995, 2010) è stato motivato a credere nell'irriducibilità
dell'intenzionalità collettiva dalla presunta incapacità degli approcci riduzionisti di
restituire il senso di collettività (Searle 1990). Un individualista egli stesso,
argomenta che l'analisi del comportamento collettivo non può essere basata su una
più elementare unità, in particolare il singolo stato mentale intenzionale degli
agenti, anche se integrato con la reciproca conoscenza o credenza, perché non c’è
niente nella struttura e nella logica degli stati intenzionali singolari che esprime
quel particolare senso dell’essere insieme che si esperisce quando si agisce
insieme. L'unico modo, secondo lui per spiegare la specificità del comportamento
intenzionale collettivo è riconoscere che i singoli agenti possono avere intenzioni
collettive e in particolare intenzioni collettive irriducibili. Le intenzioni collettive
non riducibili non devono postulare nulla oltre a loro stesse. Questo è il principale
punto di concordanza con l’analisi serleana. E’ quella che lo stesso Searle (1990)
definisce un’intuizione fondamentale. E infatti si tratta di un’intuizione, che
107
Searle motiva attraverso il ricorso al caso della Business school, che abbiamo
ricostruito nel primo capitolo di questo lavoro. Quanto alla precisa natura di
queste intenzioni, Searle è molto parco nelle analisi e in più testi si esprime spesso
sostenendo che le intenzioni collettive le (we-intention) sono un primitivo. Tale
evidenza di tipo biologico non è stata molto analizzata da Searle, che si limita a
dire che essa è presente negli uomini e in molti animali ed è spiegabile in base alla
selezione naturale.
Nelle intenzioni collettive non c’è qualcosa di speciale rispetto al soggetto che ne
è portatore. L'intenzionalità collettiva non consiste in un pensiero di gruppo e non
esiste una mente di gruppo che è portatrice delle rilevante intenzione collettiva.
Secondo Searle non c’è nemmeno qualcosa di speciale nel contenuto delle
intenzioni collettive. Egli sostiene che il tratto distintivo delle intenzioni collettive
non consiste nel fatto che esse hanno lo stesso contenuto. Per esempio,
supponiamo che due agenti abbiano l'intenzione collettiva nella forma "noi faremo
X". Secondo Searle ciascuno ha un distinto token dell'intenzione collettiva: le
persone, che intendono suonare un duetto insieme, possono intendere l'obiettivo
delle loro azioni in diverso modo e agire, tuttavia, verso l'obiettivo generale di
suonare un duetto insieme (Searle 2010). Se non c’è niente di speciale nel
soggetto portatore né nel contenuto qual è la caratteristica saliente delle intenzioni
collettive? La caratteristica saliente è un tratto psicologico distintivo (Searle 1997)
per il quale esse sono stati mentali singolari espressi nella forma plurale. Per gli
individui, pensare e agire come un gruppo significa vedere insieme, pensare
insieme, percepire insieme, credere insieme, e così via, l'obiettivo dell'attività
condivisa.
Le analisi di Searle (Searle 1983 Searle 1990) supportano la visione che le
intenzioni che conosciamo sono stati mentali dell'individuo. Se tu ed io siamo
impegnati in un'attività congiunta, non diremo: io intendo che noi J, dando
l'impressione di determinare l'agire di qualcun altro ma diremo "noi intendiamo
che g" in una modalità psicologica che esprime il senso della congiunzione.
108
In questo lavoro concordo con Searle nel concepire le intenzioni collettive come
proprietà psicologiche che sono patrimonio del soggetto individuale ma che
esprimono una particolare attitudine plurale. Si può dire, quindi, che in questo
lavoro si condividono due intuizioni fondamentali dell’analisi serleana:
l’intuizione delle intenzioni collettive irriducibili, una particolare forma della
pretesa di individualità dell’intenzionalità. Quel che differenzia le analisi è la
mancanza nella struttura argomentativa di Searle di una qualche forma i
giustificazione o di argomentazione che non sia una petizione di principio in
favore della natura primitiva di queste intenzioni. Non si può, infatti, prescindere
da questo requisito, quando si analizza la posizione di Searle. Secondo il suo
approccio le intenzioni collettive sono un fatto primitivo della biologia che non
hanno necessità di un'ulteriore giustificazione.
C’è un altro tratto importante dell’analisi di Searle che lo avvicina al presente
lavoro e ha a che fare con la dimensione della cooperazione. La struttura delle
intenzioni collettive, così come sono concepite da Searle, deve catturare la
nozione di cooperazione. Secondo Searle, al fine di spiegare il carattere
cooperativo delle intenzioni collettive, dobbiamo fare appello alle capacità di
"Sfondo". Ciò che l'intenzionalità presuppone è "un senso dell'altro come un
candidato per l'agire cooperativo; cioè, presuppone un senso degli altri come più
di semplici agenti consapevoli, anzi come reali o potenziali membri di una attività
di cooperazione "(1990 : 414 ). Ora, le capacità di sfondo, secondo Searle, non
sono rappresentative. Piuttosto, sono un insieme di capacità pre-intenzionali che
permettono agli stati intenzionali di funzionare. In altre parole, essi sembrano
essere fenomeni biologici o fenomeni neurofisiologici piuttosto che fenomeni
intenzionali40. Serle, quindi, sembra essersi dotato di uno strumento, lo sfondo,
che gli consente di rendere bene il carattere di cooperazione che esiste tra il livello
intenzionale e il livello pre-intenzionale. Se abbiamo presente le dispute tra
40 Questa è in realtà una proposta di alcuni critici di Serle (Pacheri 2005; Tollefsen, 2005) perché in nessun luogo egli approfondisce la natura dello sfondo con argomenti tratti dalla biologia o dalle neuroscienze.
109
filosofi e psicologi e il gap delle loro spiegazioni, possiamo arguire che lo sfondo
costituisce un interessante caso di ammissione dell’importanza del livello non
intenzionale nella spiegazione dell’agire condiviso. Certo questo ha suscitato
qualche critica. Come Fisette ( Fisette 1997) sottolinea, tracciando una linea tra il
regno dell' intenzionale e lo sfondo e considerando la dimensione di fatto della
cooperazione come parte dello sfondo, Searle riconosce che non la si può spiegare
totalmente in termini intenzionali. E tuttavia secondo la nostra prospettiva questa
articolazione rende quindi molto bene l'alternanza tra fenomeni intenzionali e
fenomeni non intenzionali Secondo quello che stiamo sostenendo in questo
lavoro, la capacità di cooperazione può dipendere in parte da alcune capacità
biologiche non intenzionali, e per altri versi penso che possa essere interpretata in
termini intenzionali.
5.5 Irriducibilità epistemica o ontologica.
Fin qui abbiamo tracciato gli elementi che accomunano questo lavoro con la
proposta di Searle, ci concentreremo adesso su che cosa differenzia i due approcci.
Avversando i filosofi che sostengono che gli stati intenzionali collettivi possono
essere ridotti alle loro intenzioni singolari e alle loro interrelazioni, ho sostenuto
che abbiamo bisogno di postulare un concetto irriducibilmente collettivo per
catturare il senso di we-ness. Intendo argomentare che l'interpretazione serleana
della tesi di irriducibilità è stata epistemica, in altre parole Searle è partito dalla
domanda su come noi descriviamo, concettualizziamo, inferiamo
sull'intenzionalità collettiva. Ed è una domanda che egli ha per lo più affrontato
per mezzo di analisi del linguaggio ordinario, che mirano a stabilire le condizioni
a priori, prive di eccezioni e intuitivamente accettabili, per la riduzione dei
concetti di socialità alle loro componenti mentali. Nell'approccio di J. Searle
(1990, 1995, 2010), l'intenzionalità collettiva è intesa come un "fenomeno
biologico primitivo che non può essere eliminato o ridotto a qualcos'altro" (1995,
110
24) ma non troviamo nessun argomento per giustificare il fatto che l'intenzionalità
collettiva sia presa come un fenomeno biologico. Sebbene Searle si professi
naturalista, in linea di principio, non ha mai perseguito questa linea di ricerca in
pratica.
In questo lavoro, io argomento che la questione dell'irriducibilità non può essere
analizzata soltanto sulla base dell'analisi logica e dell'intuizione. Questa
impostazione chiama in causa questioni ontologiche per comprendere se
l'intenzionalità collettiva sia reale (appartenga alla realtà che noi abitiamo).
Determinare se l'intenzionalità collettiva abbia un referente nella realtà o sia
un'espressione metaforica, non è operazione da realizzare producendo nuovi
argomenti concettuali. Abbiamo dovuto interrogarci su cosa voglia dire
condivisione e abbiamo dovuto richiedere uno scrutinio scientifico.
Il punto di partenza è che e' difficile stabilire, infatti, se un resoconto filosofico
possa guadagnare sufficiente forza argomentativa, per aggiudicarsi il punto nel
dibattito sulle condizioni alle quali gli stati mentali possono dirsi condivisi, poiché
filosofi delle scuole avversarie, potrebbero coltivare autenticamente contrastanti
intuizioni sul concetto di intenzionalità collettiva.Si potrebbe sostenere che questo
è il motivo per cui il dibattito filosofico sulla struttura degli stati intenzionali
collettivi è in stallo. L'argomento proviene da quelli che di solito guardano con
sospetto a teorie che sono esplicitamente costruite su nozioni irriducibili o
primitive. In questo senso non è accettabile che si dica che l'intenzionalità
collettiva è un primitivo. Certo si potrebbero contrastare le critiche con una
considerazione sul significato di "primitivo". In generale, l'affermazione che una
caratteristica è un primitivo in un dominio, significa che non può essere spiegato
in termini di semplici costitutivi dello stesso dominio di definizione. Primitivo
non significa, tuttavia, che a un predicato intenzionale non possa essere data una
spiegazione riduttiva in un altro framework teorico Così, il punto che
l'intenzionalità collettiva è primitiva non equivarrebbe a dire che non è riducibile a
qualsiasi livello di spiegazione. Approcci che postulano un senso primitivo di we-
ness, nella mente dei soggetti coinvolti in un'azione congiunta, sono rilevanti per
111
l'analisi di concetti sociali ordinari dell'ontologia sociale, che sono
tradizionalmente formulati nello schema della folk-psychology. Al di fuori di
questo contesto, potrebbe anche essere plausibile che il senso di intenzionalità
collettiva ammetta una spiegazione riduttiva.
Esiste, tuttavia, una migliore risposta agli scettici sulla tesi dell'irriducibilità. Io
sostengo, che la posizione di Searle è limitata perché conduce a un'interpretazione
fuorviante della tesi di irriducibilità.
Concentrandosi principalmente sulla struttura logica degli stati intenzionali
collettivi - che cosa significa per le persone pensare e agire nella modalità del noi-
gli argomenti filosofici serleani spesso slittano nella descrizione della natura
dell'intenzionalità collettiva. Ma se il suo obiettivo era la natura dei predicati
intenzionali, la questione chiave avrebbe dovuto essere quali condizioni rendono
quei predicati veri, per il mondo in cui viviamo. Nel descrivere il pensiero nella
modalità del noi, come (epistemicamente) primitivo, Searle ha inteso abbastanza
pacificamente suggerire che esso potrebbe essere sostenuto da una capacità che
non è riducibile all'intenzionalità individuale.
Che cosa significa per una capacità, o meccanismo, essere irriducibile?
Per chiarire la questione, torniamo alla pretesa di irriducibilità di Searle.
Notoriamente, Searle non si riferisce solo ad una forma irriducibile e collettiva,
egli definisce anche l'intenzionalità collettiva come una forma di vita mentale
biologicamente primitiva. Ma questo presuppone un diverso senso di
irriducibilità: se "primitivo" e "irriducibile" vengono utilizzati con lo stesso
significato epistemico, intendendo che l'intenzionalità collettiva non può essere
scomposta nei concetti che usiamo per capire l'intenzionalità individuale, in
questo caso "primitivo" si presenta come attributo di una putativa capacità
biologica.
Secondo questa linea di argomentazione, la tesi dell'irriducibilità dovrebbe essere
ontologica e non epistemica, riguarda le condizioni di esistenza e di identità,
piuttosto che di conoscenza degli stati collettivi. Quindi, l'argomento che vi sia
una differenza nella modalità, tra predicati intenzionali alla prima persona plurale
112
e quelli alla prima persona singolare, si deve trasformare nell'idea che una tale
differenza ha le sue radici in meccanismi cognitivi reali.
La mancata esplicita distinzione tra irriducibilità epistemica e ontologica ha
portato una notevole confusione, circa il metodo migliore per affrontare le due
questioni. Questa confusione è ancora più chiara quando si tratta di valutare sia le
debolezze dell'approccio ontologico di Searle, sia l'inadeguatezza delle critiche al
suo modo sostenere l'irriducibilità ontologica dell'intenzionalità collettiva. In
realtà, da uno strenuo difensore del "naturalismo biologico" (Searle 1983, 2007) ci
si aspetterebbe l'argomento che soltanto una teoria scientifica e la sua pratica
possano fornire una risposta affidabile a quale sia la natura dell'intenzionalità
collettiva; ci si aspetterebbe che Searle si riferisse al linguaggio scientifico e alla
ricerca empirica ma egli ha optato, sorprendentemente, per un'altra strategia
argomentativa. La realtà biologica dell'intenzionalità collettiva è presentata
piuttosto come un fatto auto-evidente, che trova il suo posto accanto all'argomento
epistemico che gli stati intenzionali collettivi non possono essere ridotti o
eliminati in favore di qualcos'altro.
Tuttavia, il fatto che l'intenzionalità collettiva sia irriducibile a quella individuale
in termini epistemici non è una prova che si tratti di un primitivo, cioè un bruto
fatto della mente. In altre parole, quando diciamo che un'entità è ridotta a un altra,
la prima può essere spiegata nei termini di quest'ultima, proprio perché le due
sono ontologicamente la stessa cosa. Continuiamo a riferirci alle due entità come
se fossero distinte, quando in realtà sono una e una sola cosa. Ma rendere una cosa
più comprensibile, mostrando che in realtà è un'altra cosa, è una riduzione di tipo
epistemico, non è un fatto nuovo, in termini ontologici. Per essere accertato, tale
fatto ontologico richiede qualcosa di più di un'analisi degli usi di concetti di
collettività nel linguaggio ordinario e nella ricerca delle scienze sociali. E' allora
preferibile fare un'indagine su cosa esiste e cosa non esiste, il che implica la
volontà di disegnare una teoria confrontandosi con la pratica della scienza
naturale, per affrontare il puzzle filosofico (Papineau 2007). Poiché questa
indagine sulla natura biologica manca nelle affermazioni di Searle, sembra allora
113
che sia stato dato un ruolo preminente alle prove concettuali, nell'affrontare la
questione empirica del posto dell'intenzionalità collettiva nel regno naturale.
In effetti, questa è la strada che la maggior parte dei commentatori hanno preso
nell'indicare che qualsiasi ipotesi che colloca l'intenzionalità collettiva tra i fatti
bruti del cervello sarebbe "magica" in mancanza di un controllo scientifico
(Hornsby 1997, 432). Questa critica non è del tutto ingiustificata. La questione di
come catturare le condizioni alle quali gli atteggiamenti intenzionali contano come
irriducibilmente collettivi è una domanda logica. Quindi è separata dalla questione
se in realtà non vi è alcuna teoria scientifica valida che riesce a soddisfare i criteri
per l'esistenza di stati intenzionali collettivi. L'approccio di Searle fornisce
notevoli intuizioni nella questione, ma dice poco circa i fatti bruti, se ce ne sono,
che consentono di pensare e di agire nella modalità del noi. Così, mentre egli
sottolinea, giustamente, il ruolo della scienza per aiutare a illuminare enigmi
filosofici (e viceversa), in realtà non fa fare alla naturalizzazione
dell'intenzionalità collettiva un passo avanti. Tuttavia, se la strategia adottata dai
critici per attaccare l'idea che ci possa essere un fatto circa questione della
capacità di intenzionalità collettiva, è metodologica, allora è corretto concludere
che nessun argomento convincente è stato ancora fornito che faccia rigettare la
proposta di Searle su una base veramente naturalistica.
Il motivo è che la questione della realtà biologica dell'intenzionalità collettiva è
una questione scientifica. Pertanto, apre ad un insieme di questioni e
considerazioni che si coagulano in un altro dibattito sull'intenzionalità collettiva in
campo che ha una somiglianza terminologica con, anche se è sostanzialmente
distinto da, discussioni di irriducibilità epistemica. Se i due dibattiti sono confusi
in un'interpretazione unica di irriducibilità, allora è impossibile rendersi conto che
ogni domanda teorica individua un settore problematico a se stante e richiede
alcuni metodi per affrontarlo.
114
5.6. Il precedente del team reasoning di Bacharach
Per articolare l'intuizione che la modalità del noi possa essere irriducibile, si
prenda ad esempio in considerazione la capacità degli individui di team reasoning.
Molti episodi di socialità ammettono una spiegazione razionale basandosi sul
presupposto che gli agenti prendono decisioni qua membri di un gruppo di cui
sono pronti ad essere parte (il 'noi') (Bacharach, M. 2006; Tomasello, M. 2009
Gold, N. and Sugden, R. 2007). Per i teorici del team-reasoning, l'affermazione
che tu vedi o "inquadri" la tua azione come parte di uno sforzo che noi-come-
squadra stiamo perseguendo insieme, significa che si è in grado di capire quale
corso di azioni, intrapreso da parte di tutti i membri del gruppo, è più adatto per
perseguire il compito comune (Gold, N. 2012). In seguito a questo ragionamento
si agisce di conseguenza facendo la propria parte (Hakli, R. et al. 2010) Questo
suggerisce che rappresentando nel modo del noi, la mia azione, come membro del
gruppo, sarà guidato da una rappresentazione a livello individuale di ciò che
stiamo facendo insieme (in una 'noi-rappresentazione').
Per Bacharach, pensare a se stesso come membro di un gruppo è una questione di
"frame" adottato. Un "frame" è un insieme di concetti, di descrittori, utilizzati
quando si parla di una situazione. Secondo Bacharach, l'identificazione di un
agente con un gruppo riguarda quale frame si usa per rappresentare se stessi e gli
agenti con cui interagire, perché il frame che si usa determinerà la logica con la
quale ragionare su cosa fare. Bacharach tratta l'identificazione della persona con
un gruppo come una propensione umana di base. La sua argomentazione mira a
enunciare almeno alcune delle condizioni che producono questo fenomeno e a
caratterizzare i suoi effetti più importanti e i cambiamenti nella modalità di
ragionamento. Bacharach insiste che l'uso di un frame non è una questione di
scelta razionale. Di fronte ad un dilemma si assumono differenti prospettive che
sono differenti attitudini basilari. Di fronte al dilemma del prigioniero, ad esempio
in teoria dei giochi, si può assume la prospettiva individuale o si può assumere la
115
prospettiva collettiva. Con questo intendo che la scelta non è direttamente tra
cooperazione e defezione ma tra porsi la domanda "Che cosa dobbiamo fare?"
(prospettiva del noi) o la domanda "Cosa devo fare?" (prospettiva dell'io) al fine
di risolvere il problema. Se un giocatore decide per la prospettiva del noi,
selezionerà l'opzione (cooperare, collaborare) e farà la sua parte in essa, vale a
dire cooperare. Se un giocatore decide la prospettiva individuale, di conseguenza
non parteciperà. La scelta del frame cambia completamente il modo di ragionare.
Per Bacharach, l'agire condiviso non comporta il trasferimento dell'agency da
individui a soggetti plurali, ma piuttosto consiste in individui che concepiscono se
stessi come membri di un gruppo e che si impegnano nel team-reasoning.
Tuttavia, perché ci sia una reale intenzione condivisa, diversi agenti devono
impegnarsi in un ragionamento collettivo. Un vantaggio importante della teoria
del team reasoning è che permette alla cooperazione di emergere anche in
situazioni in cui gli agenti non possono comunicare o influenzarsi reciprocamente
in altri modi Questo è in contrasto sia con Bratman che con Gilbert. Come i teorici
del team reasoning hanno fatto notare (Bacharach 2006; Bardsley 2007; Oro e
Sugden 2007, 2008), nel resoconto di Bratman, le decisioni e le azioni degli agenti
sono regolate dal classico (cioè individualista) canone della razionalità. A meno
che non possano influenzare le intenzioni di tutti attraverso le proprie intenzioni o
azioni, essi non saranno in grado di generare aspettative razionalmente determinati
circa le azioni degli altri. Anche se questo è meno frequentemente osservato (ma
vedi Bardsley 2007: 154), la teoria di Gilbert affronta un problema simile. Una
volta che hanno formato un impegno comune, gli agenti possono, come un
soggetto plurale, razionalmente decidere a favore dell'opzione cooperativa.
Eppure, è attraverso accordi espliciti o taciti che formano impegni comuni, e
questi accordi richiedono una qualche forma di interazione precedente.
Pensare alle azioni comuni e alle intenzioni condivise in termini di team
reasoning, ci permette di ridurre considerevolmente il carico cognitivo che
imponiamo agli agenti per essere partecipanti ad azioni congiunte. Ricordiamo
che nelle analisi di Bratman, gli agenti devono avere capacità di mentalizzazione a
116
pieno titolo, al fine di formare intenzioni condivise: essi devono avere il concetto
di stati mentali, dal momento che ogni partecipante dovrebbe rappresentare che gli
altri partecipanti hanno intenzioni ed altri atteggiamenti importanti per l'attività
congiunta, e devono avere le capacità meta-rappresentative pienamente sviluppate,
in quanto i contenuti delle intenzioni di ogni partecipante fanno riferimento sia
alle proprie intenzioni sia alle intenzioni degli altri partecipanti.
Per Bacharach, l'identificazione col gruppo è un fenomeno indotto
automaticamente da meccanismi psicologici. Vedersi come parte del gruppo non è
frutto di scelta; un agente non sceglie di impegnarsi in team reasoning, piuttosto
che in un ragionamento individuale
Nella versione di Bacharach della teoria del team reasoning, i meccanismi
psicologici di identificazione del gruppo possono portare le persone
spontaneamente a ragionare come team, senza considerare preliminarmente se gli
altri saranno inclini a fare altrettanto. Adottare il team reasoning dipende da tali
meccanismi psicologici e rende l'impegno in un'azione congiunta molto meno
cognitivamente oneroso.
L'identificazione di gruppo coinvolge la sensibilità a determinate caratteristiche
delle situazioni, tra cui la presenza di interessi comuni e l'interdipendenza.
L'individuazione di interessi comuni e di interdipendenza presuppone una certa
capacità di rappresentare gli altri come agenti intenzionali, e diretti ad un fine .
Molti psicologi dello sviluppo sarebbero d'accordo che agency detection e goal
attribution sono precursori della lettura della mente e insieme all'attribuzione di
'intenzione e di desiderio - sono i primi componenti di mindreading41.
Eppure, chiedere che gli agenti abbiano queste competenze è ben lungi dal
chiedere che abbiano abilità di mindreading a pieno titolo, perché queste ultime
coinvolgerebbero la padronanza di una gamma più ampia di concetti mentali e
41Una schiera di ricercatori ha sostenuto che i bambini sono sensibili ad alcuni aspetti delle attività finalizzate e capaci di discriminare tra le azioni intenzionali e quelle accidentali ( Gergely , Nadasky , et al 1995; . Csibra 2008; Tomasello e Rakoczy 2003; Woodward 1998; Woodward e Sommerville 2000) Psicologi dello sviluppo sono anche ampiamente d'accordo sulla comprenssione del desiderio
117
ragionamenti sofisticati sulle intenzioni e gli atteggiamenti altrui. La modestia
delle richieste riguardanti le abilità di mindreading non è compensata da notevoli
esigenze in termini di capacità di ragionamento. I principi inferenziali di base
utilizzati nel team reasoning, sono perfettamente analoghi ai principi inferenziali
utilizzati nel ragionamento individuale. Questo non vuol dire che la teoria di team
agency non ha bisogno di postulare abilità di mindreading sofisticate o abilità di
ragionamento nel soggetto, solo che tali competenze non sono un prerequisito
dell'agire condiviso. In effetti, le capacità di mentalizzazione più robuste possono
essere necessarie quando le situazioni sono meno immediatamente trasparenti.
Sebbene secondo la versione di Bacharach della teoria del team agency, gli agenti
non hanno bisogno di aspettative circa le azioni degli altri, le intenzioni e le
credenze al fine di ragionare in team, il team reasoning può produrre tali
aspettative.
Dall'esame di questi due precedenti, si ricava l'argomento che le intenzioni
collettive possono essere modi psicologici collettivi, nei quali si manifesta una
diversa modalità di ragionamento, basata su una diversa modalità di cognizione.
Nell'interazione noi sviluppiamo un senso di appartenenza, un senso di "we-ness"
e ci pensiamo (frame) come parte di un gruppo che agisce in una modalità nuova
5.7 La struttura dei modi intenzionali collettivi: intenzionalità
precedente e intenzionalità collettiva in azione.
Fino a qui abbiamo enunciato una plausibilità teorica della concezione
dell'intenzionalità nei termini di modi o attitudini collettive. E tuttavia questa
plausibilità resterebbe una petizione di principio se non si persevera nel tentativo
di armonizzazione tra le prospettive.
Gli approcci minimalisti non hanno difficoltà con le intenzioni per se ma con la
necessità di postulare una complessa struttura per ascrivere stati mentali di ordine
superiore, che inficia la possibilità di agire in tempo reale; essi sono criticabili
118
perché hanno tralasciato di analizzare i meccanismi di basso livello che
permettono lo svolgimento dell'azione. Le intenzioni collettive irriducibili
potrebbero essere criticate se fossero soltanto processi di ordine superiore. Nel
nostro modello integrato, invece, l'intenzionalità pervade gli scenari; non si
sfuggirebbe alla critica minimalista, se essa non si presentasse in modo articolato.
Dalla critica ai modelli riduzionisti, ricaviamo l'idea che le intenzioni collettive
devono articolare meglio il rapporto tra pianificazione ed esecuzione. Le
intenzioni, infatti, non possono essere assunte soltanto come piani rivolti al futuro
ma devono articolare il rapporto tra ciò che intendiamo fare nel futuro e ciò che
stiamo facendo insieme (Toellefsen dale 2005); oltre a questa funzione esse
devono essere parte della spiegazione per le azioni congiunte che avvengono in
intervalli di tempi brevi e quelle che non sembrano essere innescate da
pianificazioni a lungo termine.
Vorrei sostenere che nell'approccio integrato, tutta la struttura che sostiene
l'azione congiunta è intenzionale e articolata e vorrei suggerire che l'articolazione
consiste in una versione aggiornata della distinzione serleana tra intenzionalità
precedente e intenzionalità in azione.
Searle introduce tre differenze tra intenzioni in azione e intenzioni precedenti. La
prima differenza concerne le condizioni di soddisfazione. Egli sostiene che se il
contenuto delle intenzioni in azione presenta movimenti fisici, il contenuto delle
intenzioni precedenti rappresenta tutta l'azione, che è non soltanto un movimento
fisico ma la sequenza causale che consiste di intenzioni in azione che causano il
movimento fisico. La seconda differenza tra le intenzioni precedenti e le
intenzioni in azione è che le prime rappresentano le loro condizioni di
soddisfazione, laddove le ultime le presentano. Searle introduce la distinzione tra
presentazione e rappresentazione nella discussione dell'intenzionalità percettiva al
fine di rimarcare il contrasto tra i modi nei quali le esperienze percettive e le
credenze sono in relazione ai loro oggetti. Le esperienze percettive sono definite
presentazioni, in quanto forniscono un accesso diretto agli oggetti. Come Searle
puntualizza, l'esperienza ha una sorta di immediatezza e involontarietà che non è
119
condivisa da una credenza (Searle 1983 p. 46). In seguito, egli stabilisce
un'analogia tra percezione e azione sostenendo che le relazioni formali tra la
memoria visiva di un fiore e l'esperienza visiva del fiore e il fiore sono immagini
che rispecchiano le relazioni tra l'intenzione precedente di alzare il braccio,
l'intenzione in azione dell'alzare il mio braccio e il mio braccio che va su. In
particolare l'intenzione precedente (rappresentazione) sta all'intenzione in azione
(presentazione) come la memoria percettiva (rappresentazione) sta all'esperienza
percettiva (presentazione).
Infine, Searle sostiene che il contenuto dell'intenzione in azione è più determinato
del contenuto di un'intenzione precedente, il che significa che la mia intenzione in
azione di alzare il braccio implicherà che il mio braccio vada su e che lo facci ad
una certa velocità etc etc.
Nel contesto dell'intenzionalità collettiva, è particolarmente importante il ruolo
delle intenzioni in azione perché specificano il momento esecutivo dell'azione
congiunta e infatti Searle introduce la nozione di “intenzione collettiva in-azione”.
La posizione di Searle, però, così come è espressa in Searle (1983), Searle (1990)
e Searle (199), è principalmente incentrata su quelle azioni guidate da intenzioni
collettive in-azione che sono interamente sotto il focus dell’attenzione, e che
vengono esplicitamente rappresentate nel momento dell’azione. Ciò si evidenzia
anche negli esempi da lui utilizzati, quali quello della preparazione della salsa
olandese42 o quello del corpo di ballo43. Nel capitolo precedente si è cercato di
mostrare che il intenzionale non riguarda soltanto ciò che è sotto il fuoco
dell'attenzione ma anche ciò che potenzialmente può esserlo (Jordan 2010)
L'approcccio serleano, quindi, ha bisogno di essere implementato e si cercherà di
rispondere a questa esigenza suggerendo che è necessario isolare due tipi
fondamentali di intenzioni collettive in azione: le intenzioni collettive non mediate
(ICNM ) e quelle mediate (ICM ).
Intuitivamente l’ICNM si ha quando un individuo prende parte ad un’azione
42 Searle 1990
43 Searle 1990
120
collettiva e la sua attenzione non è specificamente ed esplicitamente orientata al
contenuto intenzionale della parte di azione che sta svolgendo. Al tempo stesso il
focus dell’azione può essere spostato e le azioni in questione sono così portate al
centro dell’attenzione. La locuzione “non mediate” intende esprimere l’ipotesi che
il contenuto di tali intenzioni non sia esplicitamente rappresentato dai soggetti
cognitivi44.
Il mio assunto generale è che le intenzioni di questo tipo siano abitualmente
collegate a movimenti corporei, che implicano quindi la co-presenza degli
individui che partecipano all’azione considerata. Il fatto che queste intenzioni —
nel momento in cui sono presenti — non siano esplicitamente rappresentate,
tuttavia, non implica che non lo possano mai divenire: esse si collocano alla
periferia dell’attenzione, ma — qualora ne emerga la necessità — possono essere
portate nella zona focale45. Una possibile obiezione a questa formulazione è che,
dal momento che tali intenzioni non sono (in un certo senso) completamente
consapevoli, non dovrebbero neppure essere chiamate intenzioni.
Tuttavia, dal momento che: a) esse dirigono di fatto le nostre azioni verso
specifici fini; e b) a differenza dei meri riflessi, possono essere inibite, è nostra
convinzione che rientrino di diritto nel dominio dell’intenzionalità46 Ad esempio,
si consideri il caso (non collettivo) di una persona che si trova in viaggio su di un
treno sprovvisto di appositi sostegni per contenitori di liquidi; ad un certo punto, il
treno frena all’improvviso e la bottiglia d’acqua posizionata sul tavolino di costei
viene sbalzata in aria. Immediatamente, le braccia e le mani della viaggiatrice si
protendono in modo da afferrare la bottiglia prima che si rovesci a terra. In questo
caso, possiamo affermare con una certa sicurezza che la viaggiatrice avesse tutta
l’intenzione di afferrare la bottiglia, sebbene di certo non abbia avuto il tempo di
44 In un certo senso sono non-concettuali, o meglio potenzialmente concettuali. Si veda
Szabó (2008) e Roskies (2008).45 A tal proposito Searle parla di un “Principio di Connessione”, cioè che tutti gli stati
intenzionali non coscienti sono in principio accessibili alla coscienza (Searle, 1992).
46 Per una disamina di queste tematiche nell’ambito delle neuroscienze si veda Jeannerod (1997)
121
formulare alcun pensiero del tipo: “Intendo afferrare la bottiglia”. Si noti che
un’azione del medesimo tipo, avrebbe potuto essere interrotta (od inibita), ad
esempio, se la viaggiatrice avesse avuto con sé anche un qualche oggetto fragile di
valore e avesse scelto, di conseguenza, di afferrare quest’ultimo anziché la
bottiglia. Se ne deduce che azioni di questo tipo non sono meri riflessi e — in
diverse situazioni — possono essere guidate da intenzioni esplicitamente
rappresentate.
In un certo senso, il nostro contributo potrebbe essere interpretato come
un’estensione dell’analisi searliana: la nozione proposta di ICNM potrebbe
costituire un sottocaso della nozione di intenzioni collettive in-azione.
La mia analisi, tuttavia, non è sostanziata soltanto da riflessioni filosofiche47, ma
anche da considerazioni ed evidenze emerse da studi empirici. D. Tollefsen
(Tollefsen 2005), V. Gallese e Metzinger (Metzinger e Gallese (2003) hanno già
evidenziato le difficoltà che gli approcci fortemente rappresentazionali48
incontrano nel trattamento di una certa classe di azioni che possono essere
descritte sia come intenzionali — per via della loro peculiarità di essere dirette a
un fine — sia come collettive, dato il tipo di “consapevolezza del noi” (we-
awareness ), manifestata dagli agenti che vi partecipano49 . Tale difficoltà viene
illustrata tramite un elenco di attività cooperative che bambini molto piccoli ed
47Queste si riferiscono, è necessario precisarlo, soprattutto alla filosofia analitica. In ambito
fenomenologico vi sono stati dibattiti differenti che hanno portato a considerare qualcosa che
potrebbe essere accostabile alle ICNM, anche se la ricerca in merito è tutta da approfondire. Alfred
Schutz è forse a riguardo tra i primi e i più importanti filosofi ad essersi interessato alla
fenomenologia dell’intenzionalità collettiva (Finn, 1997). Nella sua analisi delle relazioni “in
modalità del noi” ha introdotto le relazioni “in modalità del noi pure” che emergono in situazioni
di contatto vis à vis fra individui, intendendole come una via immediata e intuitiva che permette
quella relazione empaticache qui cerchiamo di suggerire (Schutz, 1974).
48Come ad esempio Bratman (1999) e, per certi versi, Tuomela (1995)
49Per autori quali Bratman, Tuomela ed altri, l’intenzionalità collettiva è comunque frutto di una
complessa interconnessione di rappresentazioni esplicite delle intenzioni proprie e altrui. Questo è
il senso in cui è da intendersi l’attributo“rappresentazionalista” come usato nel mio lavoro.
122
animali sono perfettamente in grado di compiere, nonostante non possiedano una
capacità di rappresentazione degli stati mentali altrui pienamente sviluppata.
Fra gli esempi citati da Gallese (Gallese e Metzinger 2003), vi è quello
dell’imitazione precoce: i neonati di 18 ore sono già in grado di imitare i
movimenti facciali degli adulti, ovvero di riprodurre un comportamento osservato,
utilizzando una parte del proprio corpo alla quale non hanno accesso visivo. Un
altro esempio è fornito dai primati, che appaiono in grado di anticipare il
comportamento altrui. Un ultimo esempio viene invece fornito da Tollefsen
(Tollefsen 2005) : bambini di 18 mesi che giocano a “fare finta di preparare il tè”.
Questi studi empirici forniscono quindi una prima motivazione a favore delle
ICNM. Vi sono, tuttavia, ulteriori motivazioni.
Anche nel caso di adulti umani, infatti, ci sono molte situazioni nelle quali appare
improbabile il coinvolgimento di rappresentazioni mentali esplicite, come mostra
il seguente esperimento mentale. Si consideri il caso di due esperti ballerini di
tango. Siamo inclini a ritenere che essi eseguano una serie di particolari
movimenti coordinati che, a loro volta, implicano degli schemi precisi, dei quali,
tuttavia, i ballerini non sono pienamente consapevoli durante l’esecuzione della
danza; ovvero, ai quali non prestano necessariamente attenzione nel momento
dell’esecuzione (contrariamente a ciò che accadrebbe, invece, se si trattasse di
principianti). Potremmo — ad esempio — osservare il ballerino leader che muove
un passo avanti con il piede destro, mentre, contemporaneamente, il partner lo
segue facendo un passo indietro con il piede sinistro. Ora, supponiamo, a ballo
concluso, di chiedere ai ballerini quale tipo di ragionamento abbia accompagnato
quello specifico passo di danza. Ci aspetteremmo forse una risposta dettagliata del
tipo: “Poiché credevo che il mio partner stesse per muovere all’indietro il piede in
accordo con la sua volontà di ballare il tango con me, ed anch’io ero d’accordo a
ballare il tango con lui, ho deciso di muovere il mio piede in avanti”. È
ragionevole pensare che, rispetto a quello specifico movimento, la risposta
potrebbe consistere piuttosto in qualcosa come: "L’ho fatto automaticamente, non
ci ho pensato specificatamente" Si noti che, in questo caso, è ovvio come ciascun
123
ballerino — pur non essendo del tutto consapevole di ogni singolo movimento
eseguito — sia in grado di interrompere il ballo in qualsiasi momento lo ritenga
opportuno. Questa affermazione può essere ulteriormente avvalorata
dall’osservazione che molte azioni collettive di questo tipo richiedono
un’esecuzione molto veloce per poter essere compiute in maniera appropriata.
Appare quindi tanto più improbabile che in questi casi sia coinvolta una forma di
ragionamento di alto livello su contenuti rappresentazionali.
La tesi qui sostenuta è che le ICNM, per via del loro carattere non
rappresentazionale, non siano facilmente riducibili a combinazioni di intenzioni
individuali. Quindi tali intenzioni sono esattamente quelle che dovrebbero essere
definite “primitive” (nei termini enunciati da Searle). D’altra parte, in azioni più
complesse che coinvolgono pianificazione ed impegno (commitment), il
coinvolgimento di una forma di intenzionalità collettiva di più alto livello sembra
più che probabile.
5.8 L'interazionismo nella ricerca sulla cognizione sociale.
Fino qui abbiamo chiarito la natura dell'intenzionalità collettiva e tuttavia questo
approccio mira a dimostrare che la prospettiva intenzionale sia irrinunciabile
rispetto alla spiegazione di come gli individui agiscono isieme e intende formulare
pienamente una proposta alternativa di uscita dal gap tra approcci minimalisti di
tipo psicologico e approcci di tipo filosofico. Per far questo dobbiamo analizzare
in che modo la nostra proposta integra quella della psicologia e allo stesso tempo
cosa la prospettiva intenzionalista aggiunge. Anticipando in breve, la nostra
ipotesi è che individui impegnati in un'azione congiunta hanno una più ampia
comprensione del comportamento dei loro partners, e così maggiori opzioni
disponibili per l’azione, rappresentando gli aspetti della scena interattiva in una
modalità plurare; in altre parole la funzione dei modi intenzionali collettivi è
incrementare le potenzialità di agire degli individui nell'interazione
124
L'argomento del minimalismo psicologico, relativamente alla ricerca sociale
cognitiva è che, quando si interagisce, agenti sembrano avere accesso a ulteriori
informazioni sul comportamento dei loro co-attori di quanto non ne avrebbero
come meri osservatori senza corpo. Questa teoria si inscrive in una più generale
tendenza a considerare i risultati della cognizione incarnata e tuttavia, come
abbiamo visto nel caso della coordinazione emergente, porta a negligere ogni
forma di contributo dell’intenzione.
Per apprezzare, quindi, la proposta di questo lavoro bisogna ricostruire
brevemente le ragioni e le insidie teoriche dell'interazionismo.
Secondo gli interazionisti, la tradizione di ricerca in teoria della mente ha
affrontato il problema della cognizione sociale in un modo individualistico,
interessandosi soltanto alla questione di ciò che porta l'individuo all'interazione.
La comprensione sociale e l'azione sono, quindi, state caratteristicamente
raffigurate come il risultato di elaborazione cognitiva che ha luogo nella testa
degli individui (Hutto, D.D. et al. 2011). In contrasto con questa visione, molti
interazionisti abbracciano la posizione enattivista, per la quale la vita e la
cognizione degli agenti sono regolate dalla dinamica degli incontri con l'ambiente
fisico e sociale ( De Jaegher, H. and Di Paolo, E. 2007). Questi incontri non sono
riducibili ad attributi della mente individuale, perché è l'unità interattiva che si
comporta in un certo modo; la causa di questo comportamento è catturata dalla
dinamica degli stessi collettivi. L'interazione offre, quindi, non solo un ambiente
di cognizione sociale ma, più enfaticamente, può costituire le risorse cognitive
sociali degli individui, in un modo che non ha bisogno di essere mediato da
cambiamenti intrinseci all'individuo (De Jaegher, H. et al. 2010).
Rispetto a queste affermazioni bisogna, tuttavia, distinguere. Sebbene sia
fondamentale rilevare il ruolo dell'ambiente per la comprensione interpersonale in
generale, per i nostri scopi bisogna notare che l'enattivismo implica due
affermazioni circa la cognizione sociale.
La prima è che l'attività cognitiva è costituita prevalentemente nel dar senso alle
cose nel mondo, dove sense-making è il processo relazionale tra un organismo e il
125
suo ambiente, che trasforma il mondo in un luogo, fatto di senso e di valore
(Thompson, E. and Stapleton, M. 2009). Quando l'ambiente è sociale, il sense-
making occorre in un modo partecipativo (De Jaegher, H. and Di Paolo, E. 2007).
L'altra affermazione riguarda lo scopo del sense-making partecipativo. Dire che i
significati emergono e sono continuamente negoziati in virtù dell'incontro
interattivo degli individui con il mondo sociale, non significa altro che dire che le
dinamiche di interazione definiscono e vincolano il contenuto delle menti
individuali (Grammont, F. et al., eds 2010 Gallotti, M. 2012). Sebbene la prima
affermazione, e cioè che le caratteristiche del mondo fisico e sociale danno forma
alla cognizione, sia stata ampiamente esaminata, ad esempio, nell'ipotesi della
mente estesa (Menary, R. (ed.) 2010 Herschbach, M. 2012), minore attenzione è
stata dedicata alla valutazione della portata del sense-making partecipativo, cioè in
che misura l'enactivism riesce a catturare il ruolo dell'interazione, non solo per
processi cognitivi in generale, ma in senso un po' più ristretto per la cognizione
sociale. E' con questa seconda affermazione che bisogna confrontarsi per vedere
in che modo il ruolo dell'individuo ha ancora un senso.
L'idea del sense-making partecipativo è che gli aspetti centrali delle prestazioni
cognitive (individuali), in particolare la formazione del significato, sono
intrinsecamente relazionali. È interagendo con gli oggetti fisici e sociali, tra cui le
menti di altre persone, che il mondo diventa denso di significati per gli individui.
Cosa ci dice questa posizione sul ruolo dell'interazione per la cognizione sociale?
Una risposta è che la cognizione è necessariamente modulata dall'interazione con
altri, perché i significati sono acquisiti e condivisi attraverso pratiche interattive.
Bisogna interpretare bene questa risposta perché può dare esiti alternativi.
Alcuni degli interazionisti radicali sono anche radicali anti-individualisti,
sottovalutando l'importanza dei meccanismi individuali e intenzionali nella
cognizione sociale. Ad esempio, De Jaegher e colleghi (2010) sostengono che il
processo di interazione stesso può essere visto come un'abilitazione e un fattore
costitutivo per la cognizione sociale e gli dovrebbe quindi essere dato un ruolo
esplicativo principale in questa teoria. Essi si spingono fino ad affermare che " [ ...
126
] possiamo concepire le dinamiche di interazione in quanto, in alcuni casi, offrono
le prestazioni cognitive necessarie. Non vi è alcuna necessità di duplicare i loro
effetti in un meccanismo individuale." (De Jaegher et al., 2010).
Si può dar credito al fatto che le singole spiegazioni diventano superflue, una
volta che il processo di interazione è spiegato al livello sovra-individuale. E'
possibile che l'interazione sociale non sia riducibile ai singoli processi neurali e
cognitivi; tuttavia è così certo che i singoli processi non siano ancora una parte
della storia?
Un aspetto vulnerabile dell'interazionismo radicale, ad esempio, è la tendenza a
enfatizzare eccessivamente interazioni sociali che sono prive di conflitto, e
cooperative. Potrebbe anche essere il caso che, in situazioni in cui l'interazione
sociale evolve uniformemente nella direzione accettata da tutti i partecipanti, ci sia
poco bisogno per i partecipanti di preoccuparsi di attribuire stati mentali ad altri.
Ma è lecito chiedersi se questo è il caso in situazioni di competizione, disaccordo,
conflitto o evidenti incomprensioni (De Boas 2013). E' possibile che le persone a
volte osservino altre persone da un punto di vista in terza persona e, inoltre,
tengano conto degli stati mentali degli altri per ottenere una migliore
comprensione di ciò che stanno per fare. Inoltre, è dubbio che gli approcci
interazionisti siano in grado di spiegare molte forme di interazione linguistica50.
C'è da aggiungere che il problema del sense making partecipatorio e il problema
della cognizione sociale sono collegati ma non sono la stessa cosa. Come sostiene
Gallagher (2013) uno riguarda il modo in cui conosco il mondo con altri l'atro
riguarda il modo in cui capisco gli altri. Il primo può gettare luce sul secondo ma
non lo esaurisce.
Per questa ragione propongo di considerare forme meno radicali di
interazionismo. Per esempio, secondo la letteratura emergente sul ruolo della
'seconda persona' nella cognizione sociale, gli individui, impegnati nell'interazione
sociale in tempo reale, sono in grado di raggiungere una maggiore comprensione
50 ad esempio quelle che richiedono l'ipotesi griceana sulle intenzioni comunicative (Grice 1968,
1969)
127
degli obiettivi degli altri e possono utilizzare queste prove per attribuire stati
mentali di ordine superiore (Butterfill, 2012)51.
Mindreaders interagenti potrebbero conoscere cose che non sarebbero in grado di
conoscere, se fossero manifestamente osservatori passivi? La ricerca di Butterfill
sostiene di si. L'approccio ha conseguenze per la comprensione di come le
capacità di interagire in combinazione con forme relativamente semplici di
mindreding possono spiegare l'emergere, in evoluzione o nello sviluppo, di forme
sofisticate di cognizione sociale. Suggerisco pertanto di interpretare la svolta
interazionista con la sua idea del sense-making partecipatorio, nella misura in cui
essa può aiutare a spiegare come l'interazione faccia pervenire a un qualcosa di
unico nel modo in cui gli agenti conferiscono senso alle menti degli altri, che non
è riducibile al tipo di processi cognitivi utilizzati, per dare senso alle altre cose che
il mondo presenta.
5.9 La funzione dei modi intenzionali collettivi nell'agire condiviso.
La forza di un approccio alla cognizione sociale basato sull'interazione consiste
nel sostenere che gli individui interagenti guadagnano la loro comprensione
interpersonale attraverso un 'incontro' di menti piuttosto che attraverso un infinita
attribuzione di stati mentali di ordine superiore.
Nel presente lavoro siamo d'accordo nel sostenere che la tendenza della ricerca a
concentrarsi sull'osservatore isolato è insoddisfacente Questa tendenza implica
che il rapporto tra mente e società può essere semplicemente spiegato estendendo
affermazioni circa la cognizione all'interno dell'individuo alla cognizione
51 L'intenzione di Butterfill è mostrare che mindreaders interagenti potrebbe sfruttare rotte per la
conoscenza degli obiettivi delle azioni degli altri, che non sono a disposizione dei semplici
osservatori. In questo modo dimostra che mindreaders pronti a interagire con gli altri possono
sapere cose sulle loro menti, che altrimenti potrebbero non essere in grado di conoscere.
128
sociale52. Infatti, gli agenti impegnati in un'attività congiunta realizzano un
risultato che non è riducibile , ad un adeguato livello di descrizione , alla somma
dei loro singoli contributi, perché secondo il we-mode cognize, quando si agisce
insieme in gruppi, gli individui hanno accesso alle informazioni circa le
intenzioni, ragioni e le emozioni dei loro partner interagenti che aprono nuove
possibilità di azione non disponibili per osservatori isolati. E tuttavia proprio per
la stessa ragione che condividiamo con gli interazionisti, la nostra preoccupazione
non è rivolta all'irriducibilità del gruppo in quanto soggetto. Siamo piuttosto
interessati ai processi cognitivi alla base del comportamento di gruppo.
Questa motivazione diventa particolarmente evidente se richiamiamo gli approcci
filosofici del team reasoning di Bacharach che abbiamo ricostruito. Essi
riguardano episodi di socialità, nei quali gli agenti interagiscono in un modo che
sembra razionale per il gruppo, ma che non può essere interpretato come razionale
per i singoli sulla base delle ipotesi tradizionali di come gli individui ragionano
nelle interazioni sociali. Su questi presupposti, ci sono caratteristiche di
comportamento di gruppo che non possono essere pienamente spiegate con
riferimento ai meccanismi della cognizione e dell'azione individuale di intendere
dei singoli
La domanda però è: come, allora, può un approccio non- riduzionista alle
intenzioni che sostengono le azioni, essere complementare alle teorie
interazioniste evitandone gli aspetti più radicali?
La nostra proposta è che individui impegnati in un'azione comune hanno una più
ampia comprensione del comportamento dei loro partner, e così di fatto più
opzioni disponibili per l' azione, perché rappresentano gli aspetti del scena
interattiva in una modalità cognitiva peculiare.
Secondo la nostra proposta, quando l'azione viene eseguita da un gruppo gli
individui che pensano in modalità irriducibile e collettiva e agiscono secondo
modi intenzionali collettivi, si incrementa il potenziale degli agenti, avendo questi
52 Questo è il motivo per il quale avversiamo gli approcci filosofici riduzionisti all'intenzionalità collettiva.
129
una più ampia comprensione delle opzioni disponibili per la azione e nuove
soluzioni per azione. Co-rappresentare il punto di vista degli altri sulla scena
d'azione come condizione per l'azione modula congiuntamente lo spazio
dell'attività mentale e, di conseguenza, il comportamento, fornendo ad ogni agente
accesso ad una serie di descrizioni e concetti che di fatto sarebbero indisponibili
se si limitassero ad osservare nella prospettiva della prima persona singolare.
Agendo insieme la cognizione umana si arricchisce delle risorse della cognizione
in modo irriducibilmente collettivo, che rimangono latenti fino a quando le
persone non sono impegnate nel particolare contesto interattivo. A questo
riguardo, il we- mode è una proprietà di individui, ma, dal momento che si
manifesta durante l' attiva partecipazione a comportamenti di gruppo, essa non
può essere intesa puramente in termini individualistici
Con questa proposta, mi propongo di offrire una risposta equilibrata alla richiesta
di un approccio basato sull'interazione; condivido la preoccupazione dei
minimalisti riguardo il ruolo dell'interazione per contrastare la natura riduzionista
di teorie classiche dell'intenzionalità, e tuttavia abbiamo avanzato ipotesi
fondamentali circa il ruolo dell'individuo nell'affrontare le questioni della socialità
più in generale.
Concludiamo, chiarendo che questa teoria dell'azione è coerente con
individualismo, perché la we -mode intentionality non è altro che una serie di
meccanismi organizzati intorno a strutture cognitive e neurali che sono intrinseche
all'individuo e risultano da un apposita storia evolutiva e di sviluppo. Tuttavia,
non pensiamo che ci sia un 'contrasto' tra l'individuale e il sociale, che può essere
affrontato solo scegliendo una parte o l'altra. Piuttosto, in linea con la maggior
parte recenti discussioni in scienze cognitive si è cercato di integrare , tali livelli
in un approccio mechanism oriented alla cognizione sociale, pur restando
impegnati a una visione non-riduzionista della psicologia collettiva. Il nostro
suggerimento è che la cognizione sociale è incorporata nell'ambiente sociale, in
una estensione che dovrebbe essere più attentamente ponderata e teorizzata da
scienziati e filosofi.
130
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