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ISTITUTO T A I S R A Anno accademico 2013/2014 medievale ... · Corso di Storia della Chiesa 1:...

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ISTITUTO TEOLOGICO DI ASSISI E ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DI ASSISI Anno accademico 2013/2014 Corso di Storia della Chiesa 1: epoca antica e medievale. Modulo II: medievale. Appunti lezione 29 aprile 2014 I laici Fin dal tempo di Costantino, se non prima, in seno alla Ecclesia si è operata una distinzione tra una minoranza di chierici, chiamati da Dio e consacrati, attraverso il rito dell’ordinazione, ministri del culto, e le masse dei battezzati, il popolo (in greco, laios) dei fedeli, i laici: tutti, peraltro, membri della Chiesa, corpo mistico del Cristo. Questo schema teologico, che gode di una validità permanente nel cattolicesimo, non basta comunque a rendere conto della realtà effettivamente vissuta dai cristiani perché nelle diverse epoche si è posto l’accento vuoi sulla distinzione fra le due categorie di battezzati, vuoi, al contrario, sulla loro solidarietà nel contesto del corpo ecclesiale. Da questo punto di vista il Medioevo costituisce un periodo particolarmente importante per i notevoli spostamenti d’accento nell’ambito di questa relazione fondamentale tra chierici e laici. Nell’arco di tempo che corre dalla fine dell’Antichità all’età carolingia, l’Occidente europeo conosce un processo di cristianizzazione al termine del quale, attorno all’800, la totalità della popolazione, eccettuata una minoranza di ebrei, ha ricevuto il battesimo. Ma in questa società, ancora segnata dalle origini barbariche e dalla cultura germanica, la fede cristiana è penetrata solo superficialmente. A partire dal secolo VIII circa, una minoranza di prelati, di abati e di grandi dignitari laici, primi tra tutti i sovrani carolingi, tenta di farne davvero una Cristianità, esaltando anzitutto la funzione del re – e, dopo l’800, dell’imperatore –, considerato l’immagine visibile e il rappresentante del Cristo in terra per effetto del rito della consacrazione mediante l’unzione. La Chiesa, popolo di battezzati e di fedeli, è assimilata alla società cristiana governata dal sovrano, del quale i chierici sono i consiglieri e gli ispiratori. Come scriveva nell’841 il monaco Walfrido Strabone, «attraverso il connubio dei due ordini [chierici e laici] e il loro amore reciproco, un’unica casa di Dio si edifica, un unico corpo del Cristo si realizza». In questa prospettiva, la Chiesa e lo Stato non sono confusi, ma si vedono assegnare il medesimo obiettivo: condurre il popolo di Dio verso la salvezza. L’imperatore, novello Giosuè o Davide, guida la nuova Israele. Egli promulga i «capitolari» per riformare il clero e non esita a intervenire nei problemi liturgici o nelle dispute teologiche. I chierici, primo tra tutti il papa, pregano affinché per il re il buon esito delle sue iniziative. Questo equilibrato sistema di condominium o di codirezione della Cristianità a opera di un’élite di chierici e di laici con l’imperatore come guida non dura molto tempo e solamente nel
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ISTITUTO TEOLOGICO DI ASSISI E ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE DI ASSISI Anno accademico 2013/2014

Corso di Storia della Chiesa 1: epoca antica e medievale. Modulo II: medievale.

Appunti lezione 29 aprile 2014

I laici

Fin dal tempo di Costantino, se non prima, in seno alla Ecclesia si è operata una distinzione

tra una minoranza di chierici, chiamati da Dio e consacrati, attraverso il rito dell’ordinazione,

ministri del culto, e le masse dei battezzati, il popolo (in greco, laios) dei fedeli, i laici: tutti,

peraltro, membri della Chiesa, corpo mistico del Cristo. Questo schema teologico, che gode di una

validità permanente nel cattolicesimo, non basta comunque a rendere conto della realtà

effettivamente vissuta dai cristiani perché nelle diverse epoche si è posto l’accento vuoi sulla

distinzione fra le due categorie di battezzati, vuoi, al contrario, sulla loro solidarietà nel contesto del

corpo ecclesiale. Da questo punto di vista il Medioevo costituisce un periodo particolarmente

importante per i notevoli spostamenti d’accento nell’ambito di questa relazione fondamentale tra

chierici e laici.

Nell’arco di tempo che corre dalla fine dell’Antichità all’età carolingia, l’Occidente europeo

conosce un processo di cristianizzazione al termine del quale, attorno all’800, la totalità della

popolazione, eccettuata una minoranza di ebrei, ha ricevuto il battesimo. Ma in questa società,

ancora segnata dalle origini barbariche e dalla cultura germanica, la fede cristiana è penetrata solo

superficialmente. A partire dal secolo VIII circa, una minoranza di prelati, di abati e di grandi

dignitari laici, primi tra tutti i sovrani carolingi, tenta di farne davvero una Cristianità, esaltando

anzitutto la funzione del re – e, dopo l’800, dell’imperatore –, considerato l’immagine visibile e il

rappresentante del Cristo in terra per effetto del rito della consacrazione mediante l’unzione. La

Chiesa, popolo di battezzati e di fedeli, è assimilata alla società cristiana governata dal sovrano, del

quale i chierici sono i consiglieri e gli ispiratori. Come scriveva nell’841 il monaco Walfrido

Strabone, «attraverso il connubio dei due ordini [chierici e laici] e il loro amore reciproco, un’unica

casa di Dio si edifica, un unico corpo del Cristo si realizza».

In questa prospettiva, la Chiesa e lo Stato non sono confusi, ma si vedono assegnare il

medesimo obiettivo: condurre il popolo di Dio verso la salvezza. L’imperatore, novello Giosuè o

Davide, guida la nuova Israele. Egli promulga i «capitolari» per riformare il clero e non esita a

intervenire nei problemi liturgici o nelle dispute teologiche. I chierici, primo tra tutti il papa,

pregano affinché per il re il buon esito delle sue iniziative.

Questo equilibrato sistema di condominium o di codirezione della Cristianità a opera di

un’élite di chierici e di laici con l’imperatore come guida non dura molto tempo e solamente nel

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Corso di Storia della Chiesa 1: epoca antica e medievale. Modulo II: medievale.

mondo germanico sopravvive fino al secolo XII. In tutte le altre regioni, a partire dalla seconda

metà del secolo IX, l’episcopato e il papato cercano di riacquistare la propria libertà e la propria

autonomia. La preponderanza di un capo laico, ammissibile finché vi è un solo imperatore, appare

intollerabile ai chierici quando si trovano di fronte re deboli e, come ben presto accadde, signori

locali i cui interessi non superano i confini del loro angusto territorio.

La dissoluzione delle grandi entità politiche sorte dallo smembramento dell’impero

carolingio e la rifondazione dei poteri sulla base della signoria e del castello mettono la Chiesa in

una situazione radicalmente nuova: i signori laici, infatti, si considerano quasi i proprietari delle

chiese e delle abbazie che essi stessi, o i loro antenati, hanno fatto edificare sulle proprie terre.

Questo li porta a servirsi delle dignità ecclesiastiche senza rinunciare al diritto di designare i

sacerdoti della parrocchia, e addirittura i vescovi e gli abati, in funzione dei propri interessi

patrimoniali e delle proprie strategie politiche. Commenta André Vauchez: «Per mezzo

dell’investitura – una cerimonia feudale puramente laica – uomini che nulla destinava alla vita

religiosa si vedevano attribuire alte funzioni ecclesiastiche».

Come detto più volte, nemmeno il papato sfuggì a questa evoluzione: dalla tutela della

nobiltà romana passa sotto quella, più generosa ma pur sempre interessata, dei sovrani germanici.

Così la Chiesa intera, dalla base al vertice, corre il rischio di dissolversi nella società circostante, a

carattere feudale.

A partire dal secolo X, però, e soprattutto durante il secolo XI, pressoché dovunque in

Occidente si assiste alla formazione di correnti che tendono a reagire a tale situazione. È il caso, in

particolare, del monachesimo riformatore che, dapprima a Cluny, quindi in un numero crescente di

monasteri, cerca di superare questa confusione dei generi di vita e dei ruoli, nella quale veniva

individuata l’origine di ogni disordine. Pur se talvolta i loro sforzi trovano l’appoggio di laici come

l’imperatore Enrico III o la contessa Matilde in Italia, nei propri scritti i monaci tendono a ribadire

la superiorità dell’elemento spirituale rispetto a quello temporale per sostenere la rivendicazione di

piena libertà nei confronti dei poteri pubblici.

Nel tentativo di rigenerare la Chiesa, i riformatori furono indotti anche ad accentuare la

distinzione tra chierici e laici, assegnando a questi ultimi una posizione subordinata, mentre

esaltano la dignità eminente del sacerdozio. E, poiché in quell’epoca sempre più frequentemente i

monaci diventano sacerdoti e talvolta assurgono alla dignità di vescovi o di legati della Santa Sede,

il monachesimo, che in un primo tempo aveva costituito una sorta di territorio comune ai chierici e

ai laici, si orienta definitivamente verso il versante clericale. Fin dal 999, Abbone di Fleury, abate di

Saint-Benoit-sur-Loire, applica ai tre «ordini» che costituiscono la Chiesa (monaci, chierici e laici)

la parabola dei talenti, dando forma a una graduazione gerarchica:

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Corso di Storia della Chiesa 1: epoca antica e medievale. Modulo II: medievale.

Fra i cristiani dei due sessi, noi sappiamo che esistono tre ordini e per così dire tre gradi. Sebbene nessuno dei tre sia esente da peccato, il primo è buono, il secondo migliore, il terzo eccellente […]. Il primo è quello dei laici, il secondo quello dei chierici, il terzo quello dei monaci [...] Per quanto concerne lo stato coniugale (caratteristico dei laici), questo è consentito solo per indulgenza, onde evitare che l’uomo, nell’età in cui più forti sono le tentazioni dovute alla fragilità della carne, cada in una situazione ancora peggiore.

Come appare chiaro dall’ultima frase, presso gli autori monastici di questa tendenza la

perfezione cristiana si definisce in funzione del grado di distacco dalla vita materiale. Il

monachesimo riformatore parte dal presupposto che la carne è cattiva e che il matrimonio altro non

è se non una concessione alla debolezza umana. I monaci occupano il grado più alto della gerarchia,

anzitutto perché sono vergini. Questa visione, pur non essendo è unanimemente condivisa, è

prevalente in seno al clero; anche i laici si convincono della propria inferiorità sul piano religioso e

maturano l’idea che si possa pervenire alla salvezza solo dentro il chiostro e rivestiti dell’abito

monastico, anche se preso soltanto in punto di morte. Un atteggiamento, questo, che si manterrà a

lungo. Ancora alla fine del XIV secolo, ad esempio, il mercante Giubileo di Niccolò Carsidoni

termina la vita come monaco nell’abbazia camaldolese di Sansepolcro, in diocesi di Città di

Castello.

Ancora più gravida di conseguenze è la lotta combattuta dalla Chiesa romana, nella seconda

metà del secolo XI, al fine di recuperare la propria libertà e porre fine al commercio delle dignità

ecclesiastiche. Per reagire al rischio che i patrimoni parrocchiali vengano dispersi nelle mani di

famiglie di preti che si succedono di padre in figlio nell’esercizio delle funzioni, i riformatori si

oppongono con grande vigore al «nicolaismo», cioè a ogni forma di clerogamia, e alla simonia,

mercimonio dei poteri spirituali. Per conseguire questi nobili obiettivi, i riformatori «gregoriani»

tentano di sottomettere il mondo dei laici (nel quale è identificato il potere temporale) a quello dei

chierici (nel quale è identificato il potere spirituale). Tale è il programma definito, ad esempio, da

un monaco lorenese, Umberto di Moyenmoutier, divenuto cardinale nel 1049, che nel 1057 scrive

un trattato Adversus simoniacos:

Come le cure secolari sono precluse ai chierici, così i problemi ecclesiastici sono interdetti ai laici […]. Il clero è il primo ordine nella Chiesa, come gli occhi nella testa. Di esso parla il Signore quando dice: «Colui che vi tocca, tocca la pupilla del mio occhio» (Zaccaria 2, 8). Il potere laico è come il petto e le braccia, la cui potenza è abituata a obbedire alla Chiesa e a difenderla. Quanto alle masse, assimilate alle membra inferiori e alle estremità del corpo, pur sottomesse ai poteri ecclesiastici e secolari, sono loro indispensabili.

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Corso di Storia della Chiesa 1: epoca antica e medievale. Modulo II: medievale.

«Testo profetico quant’altri mai, che illustra bene le ambiguità della riforma gregoriana: da

un lato, la Chiesa rivendica la libertà e progressivamente la conquista affermando la propria

indipendenza dagli imperatori e dai re, dei quali desacralizza il potere. D’altro lato, però, essa

accentua la tendenza del clero a considerare la Chiesa come cosa propria e a identificarsi con essa. I

laici, relegati nei compiti temporali, sono ormai, in tale prospettiva, semplici oggetti sui quali si

esercita il ministero pastorale dei chierici. Tramontata l’idea di un popolo di Dio guidato dai suoi

pastori, si esalta piuttosto il ruolo del clero, organizzato gerarchicamente, con al vertice il papa, suo

capo supremo» (Vauchez).

La pretesa dei chierici di esercitare un’egemonia sui laici trova sostegno nella loro

superiorità culturale. In un’epoca durante la quale il latino è la sola lingua di cultura dell’Occidente,

quando i rari individui in grado di scrivere dispongono nella società di un potere e di un prestigio

straordinari, i chierici, detentori del monopolio della scienza e del pensiero astratto, sono padroni

del gioco. Essi soli possono accostarsi ai testi sacri, giacché la Bibbia non è stata ancora tradotta in

lingua volgare. Ciò è motivo di orgoglio per molti ecclesiastici, che provavano soltanto disprezzo

verso i laici ignoranti, incapaci di raggiungere la vera saggezza, appannaggio di quanti vivono nel

monastero o frequentano le scuole moltiplicatesi nel secolo XII intorno alle cattedrali.

Movimenti religiosi laicali nell’XI secolo

Si sviluppa una concezione «vicaria» della santificazione, in virtù della quale l’impegno ad

assicurare la salvezza del popolo cristiano è delegato a una minoranza di uomini spirituali,

specialisti della preghiera e conoscitori dei riti, sostenuti dalla generosità dei fedeli. Tale concezione

è rafforzata in un primo tempo dalla riforma gregoriana, che accresce il fossato tra i chierici e i laici,

cercando di relegare questi ultimi nell’ambito profano1.

Ciononostante, il periodo della riforma “gregoriana” non ha avuto solamente conseguenze

negative rispetto alla condizione dei laici nella Chiesa. Ma non mancarono conseguenze positive,

nella misura in cui la riforma si accompagnava ad una certa riabilitazione della vita attiva, che

rimise in questione il primato assoluto della contemplazione, finora universalmente riconosciuto.

Distinguendo la sfera spirituale da quella temporale, i chierici dell’età gregoriana avevano

paradossalmente permesso alla società civile di prendere coscienza della propria autonomia.

Richiamando tutti i cristiani alla partecipazione alla lotta per la riforma della chiesa e per la

dilatazione della Cristianità, si preoccuparono di assicurare ai laici un significato religioso della 1 A. VAUCHEZ, I laici e la vita religiosa, in Storia del Cristianesimo. Religione – politica – cultura, 5. Apogeo del papato ed espansione della cristianità (1054-1274), a cura di A. Vauchez, Roma 1997, p. 805.

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propria condizione, ormai definita in termini meno negativi. Così Graziano, nel Decreto, affermava

che esistono due specie di cristiani: i laici e i chierici, che si distinguevano dai primi per il fatto che,

non essendo né preti né monaci, potevano legittimamente avere proprietà e sposarsi3. I laici, inoltre,

non erano esclusi dalla salvezza nella misura in cui facevano buon uso dei beni temporali: il

matrimonio, nella prospettiva della prole, il lavoro e la ricchezza, per mostrarsi generosi verso le

chiese e i poveri. In effetti, dal XII secolo, alcuni chierici cominciarono a parlare dei laici in modo

nuovo, come Onorio Augustodunensis, che elogiava i contadini «che con il loro sudore nutrono il

popolo di Dio», ed esaltava i boni coniugati, che vivevano cristianamente il matrimonio4. Si

sviluppava dunque in quest’epoca (la tendenza si accentuò successivamente) una valorizzazione

degli ordines sociali, che esprimeva un nuovo atteggiamento verso le realtà profane che la chiesa

intendeva ormai santificare.

Le battaglie condotte per la riforma del clero non li lasciarono indifferenti e in alcune

regioni, come in Lombardia, si vedono anche fedeli – detti “patarini”, cioè straccioni, dagli

avversari – prendere l’iniziativa di impegnarsi nella lotta contro gli abusi e per ricondurre sulla retta

via i preti corrotti. Un po’ dovunque in Occidente, verso il 1090-1100, proliferarono i movimenti

religiosi di ispirazione popolare: talvolta guidati da eremiti o monaci, i laici vi rivestono comunque

un ruolo decisivo. Alcuni restarono nell’ambito dell’ortodossia: è il caso dei crociati che muovono

verso l’Oriente rispondendo all’appello prima di papa Urbano II (nel 1095/1096) e poi di san

Bernardo (1147), per andare a liberare il sepolcro di Cristo. È il caso dei conversi che si associarono

ai nuovi ordini monastici e canonicali – a quello cistercense, in particolare – per condividere i meriti

dei religiosi e beneficiare delle loro preghiere in cambio di controprestazioni d’opera.

Al contrario, altri movimenti laicali sfociano nell’eresia. Nel secolo XI, infatti, il movimento

riformatore dibatte sulla nullità dei sacramenti amministrati da chierici moralmente indegni. In

seguito questa posizione radicale è abbandonata dal papato, ma molti laici le restano fedeli e

pretendono di subordinare la propria obbedienza al clero alla qualità della testimonianza evangelica

offerta dai ministri del culto. Alcuni giungono ad affermare che i cristiani che vivono in conformità

alla Parola di Dio sono abilitati ad annunciare il Vangelo, e rivendicarono per questi il diritto di

predicare. Ne risulta, durante tutto il secolo XII, una serie di conflitti sempre più violenti:

l’arricchimento del clero – indiscutibile in quest’epoca in cui i signori cominciavano a restituire le

decime alla Chiesa – contribuisce ad alimentare un violento anticlericalismo tra i fedeli. Temi, tutti,

che dopo il 1170 sono fatti propri dalla predicazione dei valdesi e, soprattutto, dai catari il cui

spiritualismo esasperato li conduce a respingere tutte le istituzioni e i simboli esteriori del

cristianesimo.

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Così, dunque, nel corso dei secoli XI e XII, le masse escono dalla passività e aspirano a

svolgere una parte attiva nell’ambito religioso. Ma questa rivendicazione, che provoca un

irrigidimento dei chierici, finisce per indebolire la Chiesa, ben presto minacciata nella sua stessa

esistenza. Una volta di più nella sua storia, la salvezza le doveva venire non da riforme istituzionali

ma da un sussulto della coscienza cristiana che si espresse in esperienze spirituali originali e in una

fioritura di santità2.

LA CHRISTIANITAS RIPARTITA IN ORDINES

All’inizio dell’XI secolo appare per la prima volta in Occidente un modello di

organizzazione della società che riserva largo spazio al popolo, pur subordinandolo strettamente alle

classi dominanti. Si tratta della tripartizione funzionale – o schema delle tre funzioni – presentato ed

esposto negli anni dal 1027 al 1030 dall’arcivescovo Adalberone di Laon nel Carmen ad Rotbertum

regem. Questo testo, molto noto, descrive una società ripartita in tre grandi gruppi di persone

(ordines):

1) al vertice vi sono i chierici (oratores), la cui funzione consiste nel pregare;

2) vengono poi i guerrieri o nobili (bellatores), che devono combattere per l’affermazione

dell’ordine e della giustizia;

3) infine vi sono i lavoratori (laboratores), cioè i contadini e coloro che attraverso il lavoro

forniscono a tutti i mezzi di sussistenza;

4) al di sopra di questi gruppi si colloca il re, garante dell’armonioso funzionamento del

sistema.

Gli studiosi che hanno preso in esame questo documento non hanno mancato di sottolineare

la complementarità delle tre funzioni: ciascuno degli ordini, infatti, assolve una funzione essenziale

nella società, né alcuno di essi può fare a meno degli altri:

In generale, dunque, al popolo viene riconosciuta la stessa importanza attribuita a chierici e guerrieri. Ma la visione di Adalberone si inscrive in una prospettiva gerarchica. A voler insistere troppo sulla solidarietà fra gli uomini si rischia di perdere di vista il fatto che i laboratores occupano il gradino più basso della piramide sociale; d’altronde l’arcivescovo di Laon ne parla senza alcun riguardo. Il lavoratore, ai suoi occhi, altro non è che il servo, l’uomo di fatica della società. Il suo lavoro si ripete immutabile: il contadino che segue senza posa l’aratro, con in mano il pungolo, è escluso dalla storia e da ogni forma di mutamento; e, se ciò

2 A. VAUCHEZ, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose, Milano 1989, pp. 55-60.

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non bastasse, è laido e ignorante. Tutto concorre a situarlo dalla parte dell’animalità, non soltanto perché la sua attività si svolge a stretto contatto con le bestie, ma anche perché egli resta lontano dal mondo della parola. […] I chierici, viceversa, siano casti e parchi; immuni da ogni contatto con la terra e la carne, essi si dedichino esclusivamente al compito di far penetrare nelle menti la dottrina cristiana, che è purezza e grazia. Agli alimenti procurati dai servi si contrappone il nutrimento sacro che conduce alla salvezza: l’eucaristia. Il sacerdote, preposto ai compiti soprannaturali, deve sfuggire la contaminazione delle occupazioni servili. Quanto ai guerrieri, si distinguono dal popolo perché sono liberi e difendono militarmente la società: non praticano il lavoro manuale e loro si confà la bellezza, attributo della nobiltà3.

Il Vauchez ha richiamato l’opportunità di «ricondurre a una giusta prospettiva lo schema

trifunzionale quale compare in Adalberone di Laon: è il suo, infatti, un testo normativo e non già

una descrizione della struttura sociale esistente. Né, anzi, l’umano consorzio conoscerà requie

finché le regole che egli enuncia seguiteranno a essere disattese; di qui, pertanto, l’invito rivolto al

re ad agire opportunamente. Fra quanti ostacolano il buon funzionamento dell’ordine così

concepito, figurano i monaci cluniacensi e alcuni vescovi che nell’intento di ristabilire la pace non

esitano a cercare appoggio nei contadini. Alleanza contro natura giacché, nell’ottica marcatamente

“carolingia” di Adalberone, l’autorità in materia temporale appartiene in modo esclusivo al re,

dovendosi accontentare i chierici di pregare per il successo delle sue imprese»4.

In realtà, preso atto della crescente debolezza del potere regio, una parte del clero aveva

scelto, fin da allora, una diversa via: quella della collaborazione con il popolo per ripristinare un

minimo di ordine in una società che rischiava di disgregarsi a causa della violenza feudale. È

l’epoca delle assemblee e dei movimenti che, nell’arco di tempo che va dal 980 al 1040, si

propagano dalla Linguadoca e dal Sud-Ovest della Francia fino ai confini dell’impero. «Ma questo

movimento, peraltro assai interessante sotto diversi aspetti, era destinato a un’esistenza effimera;

l’ardore dei villani nel rendersi giustizia da sé ben presto preoccupò alcuni elementi del clero. […]

Dopo il 1050 progressivamente decadono le aspettative che la lotta antifeudale aveva aperto al

popolo. Arrestato nelle campagne, in certune regioni il processo proseguirà tuttavia in ambiente

urbano fino a sfociare, alcuni decenni dopo, nel movimento comunale»5.

Nel complesso, nell’XI secolo il popolo «esce dalla passività e comincia a svolgere un ruolo

attivo sulla scena della storia»6. Sia per l’Italia che per la Franca è stato notato come durante la crisi

che scosse l’istituzione ecclesiastica tra la fine del X secolo e l’inizio dell’XI in alcuni luoghi i laici

assumano l’iniziativa di una riforma del clero sostituendosi alle gerarchie, a volte distratte rispetto a

questo problema, oppure appoggiandole là dove esse avevano intrapreso un’azione riformatrice. 3 Ivi, pp. 46-47. 4 Ivi, pp. 47-48. 5 Ivi, p. 48. 6 Ibidem.

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Questi movimenti popolari, dei quali la pataria milanese è l’esempio più noto, almeno inizialmente

non assumono connotazione anticlericale. Anzi, si oppongono a qualunque forma di

secolarizzazione abbia colpito il clero – dal matrimonio o dal concubinaggio istituzionale dei preti

al commercio delle dignità ecclesiastiche assimilate a patrimoni personali – e si pongono per

obiettivo la restaurazione della purezza che si conviene ai chierici, condizione necessaria affinché il

sacrificio eucaristico da loro offerto sia fonte di salvezza e di grazia per l’intera comunità dei fedeli.

Dal 1070 circa, con il pontificato di Gregorio VII (1073-1085), il papato si pone alla guida

del movimento riformatore, talora – come a Milano – giovandosi del sostegno dei laici contro i

prelati indegni o troppo legati al sistema della Chiesa imperiale. L’azione riformatrice, tuttavia, è

condotta a esclusivo beneficio del clero. Per combattere più efficacemente il potere imperiale, che

ostacolava la libertà della Chiesa, questo Gregorio VII e i suoi successori si sforzano di esaltare la

superiorità dei chierici sui laici. Una polemica che, rivolta anzitutto contro i sovrani, finisce per

svilire la condizione laicale nel suo insieme. In seno alla Chiesa cresce la distanza tra l’élite

sacerdotale, chiamata a vivere in castità come i monaci, e il popolo dei fedeli, la cui stessa

condizione – matrimonio e lavoro – allontana dalla perfezione. Il popolo cristiano è ridotto a «una

massa alla quale ormai si domandava solamente di pagare la decima, di praticare l’elemosina e di

obbedire al curato»7. Non tutti i laici si adeguano a questa situazione, e alcuni affermano esigenze

morali e religiose sempre più spinte, confinanti talvolta con lo spiritualismo, allontanandosi però

dalla Chiesa e giungendo a rompere con l’istituzione e a formare gruppi ereticali8.

IL LAICO-RELIGIOSO

Nel corso dei secoli XI e XII la vita religiosa è essenzialmente riservata a una minoranza di

uomini (gli oratores dello schema di Adalberone di Laon) dediti al culto e alla preghiera,

considerata come una funzione sociale fondamentale. In questa prospettiva i chierici non sono solo

intermediari indispensabili per assicurare la comunicazione tra il mondo terreno e l’Aldilà, ma

anche detentori del monopolio del sacro. Tra di essi i monaci svolgono un ruolo più ampio, che

André Vauchez non esita a definire «egemonico»9:

del resto, non avevano rinunciato al mondo e ai suoi piaceri (ricchezza, sessualità e potere) per amore di Dio? Così si riteneva comunemente che l’esistenza austera e i meriti acquisiti dalla pratica della penitenza assicurassero alle loro preghiere una efficacia particolare. Del resto gli

7 Ivi, p. 49. 8 Per tutto il tema cfr. ivi, pp. 46-53. 9 VAUCHEZ, I laici e la vita religiosa cit., p. 804.

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stessi monaci non esitavano spesso a reclamare il primo posto nella chiesa e nella società, convinti della superiorità del proprio stato di vita, nella prospettiva della salvezza eterna rispetto ai semplici fedeli e ai chierici secolari, a cui rimproveravano la mondanità e la debolezza morale10.

Da parte loro i laici sono consapevoli di condurre una vita peccaminosa in un mondo

profondamente corrotto. La sola via d’uscita in cui sperare per sfuggire alla mediocrità spirituale o

alla perdizione è rappresentata dalla possibilità di associarsi ai monasteri attraverso le confraternite,

così da poter beneficiare dei suffragi dei religiosi per sé e per i propri defunti. Come detto, per

assicurarsi la salvezza eterna, alcuni rinunciano, in prossimità della morte, alla vita coniugale,

d’accordo con la propria moglie, e rivestono l’abito monastico allo scopo di «morire con il saio».

Accanto a questa conversio ad succurrendum si pone la pratica dell’oblazione, che consiste

nell’offerta di un figlio a un monastero, garantendogli un legato per facilitare il suo accesso nella

comunità. L’ingresso volontario alle dipendenze di un’abbazia o di un priorato è frequente

soprattutto negli ambienti modesti: alcuni contadini mettono le loro forze (conversi) e le loro

persone (oblati) a disposizione di una comunità religiosa e si raccomandano al santo patrono,

conservando talvolta l’usufrutto dei loro beni a titolo di vitalizio, mediante il pagamento di una

tassa di riconoscimento.

L’ideale monastico rimane il riferimento più alto, quello capace di esprimere meglio la

perfezione di vita cristiana. Nei secoli XI e XII molti religiosi hanno spesso sognato di trasformare

il mondo in un vasto monastero, ammettendo nei chiostri i migliori elementi del laicato, senza

riserve da parte della società feudale. In un’epoca in cui la religione si definisce prima di tutto come

un culto reso a Dio, i laici fortunati possono contribuire alla celebrazione del culto creando

fondazioni religiose o contribuendo al decoro delle chiese e della liturgia, attraverso la quale si

operava la salvezza del mondo. Da questa mentalità derivano le innumerevoli donazioni di denaro o

oggetti liturgici compiute non solo da sovrani o da ricchi, ma anche da persone di ceti medi e

talvolta bassi, alle chiese e alle comunità religiose. Le comunità religiose ricambiano l’aiuto con

l’inserimento del nome dei benefattori nel loro necrologio, considerato come una sorta di

anticipazione terrena del «Libro della Vita», di cui parla l’Apocalisse, su cui erano scritti i nomi

degli eletti. In questo modo i laici si assicurano la preghiera di suffragio dei monaci e dei canonici

prima, dei frati poi, e infine anche dei confratelli delle confraternite laicali.

Ma si deve distinguere tra la possibilità di ottenere la salvezza, effettivamente riconosciuta ai

laici rispettosi delle leggi della Chiesa e generosi verso quei «poveri di Cristo» che sono i religiosi,

e, d’altra parte, la perfezione cristiana, accessibile solo a coloro che avessero disprezzato e fuggito il

10 Ibidem.

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mondo per dedicarsi alla vita contemplativa nel silenzio del chiostro. Così la quasi totalità dei santi

dell’epoca sono monaci o eremiti o vescovi, con l’eccezione di alcuni santi sovrani o grandi signori.

Del resto, i regnanti non erano considerati semplici laici, ma membri dell’istituzione ecclesiastica11.

Sul piano delle canonizzazioni la posizione sfavorevole dei laici nell’ambito della

santificazione nel XII secolo è accentuata dalla rinascita della cultura dotta nelle scuole cattedrali,

alcune delle quali si qualificano come ambienti intellettuali particolarmente attivi. Una cultura,

questa, fondata essenzialmente sulla Bibbia, i padri della Chiesa e alcuni autori dell’antichità

classica come Cicerone, Virgilio e Seneca, per cui è indispensabile la conoscenza del latino. Gli

illitterati, vale a dire la maggior parte dei fedeli, sono di fatto esclusi dal mondo della scrittura e del

sapere e l’inferiorità culturale contribuisce a discreditare il loro stato, che alcuni chierici non

esitarono ad assimilare all’ignoranza, origine di sciocchezze e di errori. Così una etimologia

fantasiosa, chiaramente attestata nel XIII secolo, ma indubbiamente più antica, fa derivare il termine

laìcus dal latino lapis, ‘pietra’, «poiché il laico è rozzo ed estraneo alla conoscenza delle lettere».

Da ciò si capisce l’atteggiamento di ostilità nei confronti della predicazione laicale.

La maggior parte degli autori ecclesiastici dell’epoca afferma che tutti i battezzati sono

chiamati alla salvezza, ma che tra loro esistono molte differenze, secondo il genere di vita scelto.

Solo lo stato monastico e, in misura minore, quello clericale, possono essere considerati come stati

di perfezione.

A questo proposito già sant’Agostino aveva presentato tre figure bibliche emblematiche,

associate a luoghi simbolici, che incarnano i diversi modi di vivere la vocazione cristiana:

l’immagine di Noè nel suo campo (il clero secolare), di Daniele nel letto (i contemplativi) e Giobbe

al mulino (i laici). Queste distinzioni in seguito furono riprese da Gregorio Magno, che,

associandole alla parabola evangelica del seminatore (Mt, 13,8) stabilì una gerarchia che andava dai

contemplativi (continentes o virgines), sicuri di guadagnare il cento per uno nel regno dei cieli, ai

prelati e ai chierici in cura d’anime (praedicatores o doctores) che meritavano il sessanta per uno, e

ai laici coniugati, che dovevano accontentarsi del trenta per uno. Ripresa da Alcuino nell’epoca

carolingia, questa distinzione conosce una larga diffusione e si ritrova presso la maggior parte degli

autori dei secoli XII-XIII, tra cui papa Innocenzo III, e anche nell’iconografia. I laici, presi dalle

passioni terrene e dagli affari temporali, si trovano a un livello inferiore della gerarchia, o, per

riferirsi a un’altra immagine spesso utilizzata dagli autori spirituali dell’epoca riguardo alla Chiesa,

alla base di una piramide di cui i religiosi, già a contatto con il cielo, costituiscono il vertice. La loro

condizione li mantiene in una posizione subordinata di fronte ai chierici, da cui ricevono la Parola

11 Cfr. ivi, p. 806.

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di vita e i sacramenti. Alla fine del XIII secolo, il domenicano Umberto de Romans (1200 ca. -

1277), quinto maestro generale dell’Ordine dei frati Predicatori, scrive:

«I laici non devono elevarsi a contemplare i misteri della fede che sono custoditi dai chierici, ma aderire ad essi implicitamente, secondo il testo di Giobbe (1,14): “I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi”. Le asine sono le persone semplici, che devono accontentarsi dell’insegnamento dei majores» .

Non si poteva affermare più chiaramente che i laici potevano ottenere la salvezza solo

seguendo l’insegnamento dei chierici.

Vita religiosa laicale non istituzionale

Fino agli ultimi decenni del XIII secolo i laici che aspirano alla vita religiosa non

intravedono altra possibilità dall’entrare in monastero o dall’associarsi a una comunità religiosa per

beneficiare delle ricchezze spirituali e dei meriti acquisiti al riparo del chiostro dai servitori di Dio.

Le modalità di queste associazioni sono estremamente varie: i laici che rimangono nel mondo si

accontentano il più delle volte di concludere con un’abbazia o una collegiata un patto di fraternitas,

in virtù del quale divenivano consortes orationum dei monaci o dei canonici regolari. Talvolta si

pongono volontariamente sotto la protezione di un monastero interi gruppi familiari o comunità

rurali, che continuano a dedicarsi alle loro occupazioni temporali. Alcuni fedeli si mettono a

servizio di una comunità religiosa come conversi, lavoratori manuali integrati a un’abbazia o a un

priorato, dove condividono in parte la vita dei monaci, pur avendo un dormitorio e un refettorio

distinti e rimanendo esclusi dal coro. Così, all’inizio del XIII secolo, un devoto cavaliere del seguito

di Filippo Augusto, Giovanni di Montmirail (+ 1217) richiese, all’età di quarant’anni, di essere

ammesso come converso presso i cistercensi di Longpont: un gesto considerato come espressione di

grande umiltà, dal momento che i conversi provenivano generalmente dagli ambienti più modesti

del mondo rurale. Ma non si trattava di un caso isolato, dato che, poco tempo dopo, il signore

Gobert d’Aspremont, dopo aver partecipato alla crociata contro gli albigesi nel 1226, entrò nella

familia dell’abbazia Cistercense di Villers, nel Brabante, dove ebbe fama di santità.

Uno dei fenomeni più originali del XIII secolo è rappresentato dalla comparsa, tra i laici, di

un’élite di uomini e donne che cercano di condurre una vita autenticamente religiosa

indipendentemente da ogni relazione istituzionale con il monachesimo. Il fenomeno riguarda, prima

di tutto, l’aristocrazia cavalleresca che, dagli anni 1120/30, seguendo l’appello di San Bernardo,

aveva voluto aprirsi ad una vita di santificazione nel quadro degli ordini militari: Templari e

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Ospedalieri, presto seguiti dai Cavalieri Teutonici e dai Cavalieri della Spada, e numerosi ordini

dello stesso genere che si svilupparono in Spagna nel quadro della Riconquista. Ma si tratta ancora

di monaci-soldati, generalmente celibi; la loro forma di vita non poteva essere seguita dalla maggior

parte dei fedeli cristiani. Alcuni sovrani sposati, come Ludovico di Turingia, marito di santa

Elisabetta d’Ungheria, morto sulla via della Terra santa nel 1229, o anche san Luigi di Francia, non

appartengono a nessun Ordine del genere, ma ciò non impedisce loro di condurre un’intensa vita

religiosa nell’ambito della spiritualità della crociata. Infatti spesso si tende a considerare le crociate

solo come spedizioni militari, guerre sante simili alla Jihad islamica. Indubbiamente questa

dimensione non è secondaria, ma sarebbe necessario non dimenticare che «prendere la croce» era

ben altro che un semplice rito, dato che implicava per il crociato l’adesione, talvolta per molti anni,

a uno stile di vita ascetico e devoto che, prima di portare eventualmente al combattimento per la

fede, si traduceva, per quanti avevano compiuto questa scelta e per le loro spose, in esigenze

crescenti nell’ambito morale e religioso.

Tra l’inizio del XII e la metà del XIII secolo si assiste alla nascita spontanea di una serie di

forme di vita religiosa laicale, maschile e femminile. È il caso dei penitenti delle comunità rurali

dell’Italia settentrionale, ad esempio, che si riuniscono intorno a una chiesa o a un ospizio per

coltivare i campi e mettere in comune i beni e il lavoro, dopo aver fatto voto di penitenza nelle mani

di un vescovo o di un abate. Più originale è il terzo Ordine degli Umiliati, la cui regola è approvata

da Innocenzo III nel 1201, che riunisce laici, sposati o celibi, che vivono in città nelle proprie

abitazioni secondo un progetto di vita (propositum) che permette loro di associare il lavoro e la vita

familiare alla pratica dell’ideale evangelico. Tra il 1208 e il 1210 alcune costituzioni simili sono

concesse dallo stesso pontefice ai Poveri Cattolici di Durando di Osca – valdesi ritornati

all’ortodossia – e ai Poveri Lombardi di Bernardo Prim.

Nella stessa epoca nelle regioni tra la Fiandra e la Baviera si sviluppa il movimento

femminile delle Beghine, che vivono sole o in comunità le une sotto la direzione delle altre, senza

emettere voti perpetui, ma associando il lavoro manuale, l’assistenza ai poveri e la preghiera. Presso

alcune di loro, la meditazione assidua delle sofferenze di Cristo porta alla ricerca volontaria della

sofferenza e all’aspirazione all’abnegazione totale, come nel caso di Maria d’Oignies (+ 1213), ben

conosciuta attraverso la biografia, scritta nel 1215 dal suo direttore spirituale, Giacomo di Vitry,

futuro vescovo di San Giovanni d’Acri e cardinale, che ottiene da Onorio III l’approvazione orale

del genere di vita delle beghine, mai confermata da un documento solenne.

In Italia i gruppi di laici religiosi più importanti sono le confraternite di penitenti,

organizzate in un Ordo de poenitentia. La loro esistenza è attestata per la prima volta in un

documento pontificio del 1221, quando Onorio III prende sotto la sua protezione i Penitenti di

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Faenza, ma la loro comparsa è indubbiamente anteriore al 1215. Il propositum dei Penitenti, simile

per certi aspetti a quello del terzo ordine degli Umiliati, si presenta come una promessa pubblica di

consacrazione a Dio. I penitenti e le penitenti volontarie si impegnano a indossare abiti modesti: un

vestito di lana grigia, non tinta, di una sola pezza e di un unico colore. Il semplice fatto di rivestire

questa divisa caratteristica equivale a una professione religiosa. Coloro che lo indossano devono

astenersi dai banchetti, dagli spettacoli e dalle danze, e osservare digiuni più frequenti e rigorosi

degli altri laici. Durante alcuni periodi dell’anno liturgico, i coniugati sono tenuti ad astenersi dalle

relazioni sessuali. Da qui il nome di «continenti» talvolta attribuito a essi, che va interpretato nel

senso di una continenza periodica, non di una proibizione delle relazioni sessuali tra i coniugati.

Riguardo al culto, i penitenti si impegnano a recitare ogni giorno le ore canoniche, ma gli illetterati

possono sostituire ciascuna ora con sette Pater e dodici Ave a mezzogiorno, aggiungendo il Credo e

il Miserere alla prima ora e alla compieta. Devono inoltre confessarsi e comunicarsi almeno tre

volte l’anno (Natale, Pasqua, Pentecoste) e riunirsi una volta al mese nella chiesa indicata dai loro

«ministri» (responsabili laici della confraternita) per partecipare alla messa e ascoltare un sermone

tenuto da un religioso. Sul piano dei rapporti con la società il genere di vita dei penitenti è più

originale: i fratelli e le sorelle sono ammessi nella comunità solo dopo aver restituito i beni male

acquisiti e rinunciato alle attività disoneste eventualmente esercitate. Inoltre rifiutano di portare

armi e di prestare giuramento, in segno di fedeltà ai precetti evangelici. Per questo, in Italia, non

mancano serie difficoltà con le autorità comunali. I contrasti suscitano frequenti interventi di

vescovi e del papato in loro favore. Alla fine è raggiunto un compromesso: sulla base di una sorta di

«servizio civile», i penitenti compiono gratuitamente alcune funzioni a servizio della collettività,

dalla visita ai carcerati alla sorveglianza delle finanze municipali.

I movimenti laicali di nuovo genere sono animati da una spiritualità che si può considerare

«penitenziale». Per i cristiani devoti del tempo fare penitenza non consiste solo nel pentirsi dei

propri peccati e confessarsi una volta l’anno al parroco, secondo le prescrizioni del Lateranense IV.

È, in senso più ampio e profondo, prendere alla lettera la parola di Cristo (Mt 5,17: «Fate penitenza:

il regno di Dio è vicino»), e inoltrarsi in una esperienza di conversione che si manifesta nel

cambiamento di vita e nella rinuncia al peccato. Fino all’inizio del XIII secolo la forma più diffusa

dello stato penitenziale è il monachesimo. Ma lo sviluppo delle aspirazioni religiose negli ambienti

laici determina un’evoluzione della nozione di penitenza, assimilata ormai a uno stile di vita devoto

e relativamente ascetico, ma nondimeno praticabile dai fedeli vivendo nel mondo e nella vita

matrimoniale.

Nell’epoca in cui i monaci cadono spesso nella tentazione della ricchezza collettiva o si

lasciano coinvolgere nella gestione dei beni pubblici, molti laici, sensibilizzati dai predicatori che

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parlano della povertà di Cristo, divengono più attenti alla miseria dei diseredati e alle nuove forme

di marginalità che si sviluppano negli ambienti urbani. Ne deriva una straordinaria fioritura di

iniziative, particolarmente di fondazioni ospedaliere e caritative in tutto l’Occidente. Alcune

portano alla nascita di ordini religiosi, come gli Ospedalieri di Sant’Antonio (Antonini), l’Ordine

dello Spirito Santo creato all’inizio del XIII secolo da Guido di Montpellier, o gli Ospedalieri di

San Lazzaro che assistono i lebbrosi. Altri conservano la forma di confraternita o di associazione

laica, come quelli che, nella valle del Rodano, in Lombardia o in Toscana, si dedicano alla

costruzione di ponti per facilitare il transito dei viaggiatori e dei pellegrini Ma, accanto a queste

organizzazioni strutturate, vi sono numerose fondazioni isolate (case di Dio, ospizi o lebbrosari)

fondate da comunità locali o da borghesi agiati, dove i poveri e i malati vengono accolti e assistiti

da conversi e converse che si mettono volontariamente a servizio degli emarginati.

LE DONNE E LA VITA RELIGIOSA

Una delle novità più significative che caratterizzano l’Occidente medioevale è l’importante

ruolo svolto dalle donne, tra i secoli XII e XIII, nella vita religiosa, fino a quel momento quasi

esclusivamente aperta agli uomini, tra i quali si reclutavano i vescovi, i preti, i monaci e gli eremiti,

in breve tutte le figure rappresentative in questo ambito. Fin dall’Alto Medioevo esistono

certamente abbazie femminili, ma sono assai meno numerose e prestigiose dei monasteri maschili e,

a eccezione di alcune fondazioni signorili, hanno generalmente scarsa autonomia. Secondo le

statistiche meno del 10% dei santi venerati in Occidente tra il V e il XII secolo erano donne. Le

cifre più basse riguardano il periodo tra il IX secolo e la metà del XII, dopodiché si verifica un

incremento significativo fino al 1250. Queste cifre hanno sicuramente un valore relativo, ma sono

confortate da altri elementi, prima di tutto dall’assenza di un modello specificamente femminile di

santità nell’agiografia medievale fino all’inizio del XIII secolo. Prima di questo periodo una donna

poteva salire all’onore degli altari solo se la sua testimonianza fosse stata caratterizzata da virtù

maschili, dato che nella mentalità comune la femminilità era assimilata alla debolezza e

all’animalità. Così solo nella misura in cui era stata capace di vincere la propria natura e di

comportarsi come un uomo, in modo saggio e ragionevole, una donna poteva sfuggire al sospetto

che pesava a priori su di essa. Al riguardo il giudizio pessimista che i chierici avevano nei confronti

delle donne era in sintonia con la mentalità feudale, che generalmente accordava loro un posto

limitato e richiedeva un atteggiamento obbediente e sottomesso. In una condizione di costante

inferiorità, le donne passavano dall’ubbidienza al padre alla soggezione al marito; solo alcune figlie

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uniche o vedove con figli, appartenenti all’alta aristocrazia erano in condizione di prendere

liberamente alcune iniziative.

All’opposto di un quadro così fosco, si è spesso messa in evidenza una religiosità medievale

sempre più caratterizzata, soprattutto a partire dal XII secolo, dallo sviluppo della pietà mariana. Il

fenomeno è innegabile e non è certamente un caso se la maggior parte delle cattedrali gotiche

edificate tra il 1140 e il 1260 è dedicata alla Vergine Maria. Ma occorre precisarne la portata e i

limiti. Paradossalmente l’esaltazione della figura della Vergine ha un debole impatto sulla santità

femminile. La mariologia medievale, che conosce uno sviluppo straordinario da sant’Anselmo a san

Bernardo e alla scuola cistercense, costituisce un discorso destinato ai chierici e ai religiosi, che la

Chiesa esorta fermamente alla pratica della continenza. Maria, vergine e madre, non rappresenta per

le donne, sposate o religiose, un modello credibile e, del resto, gli autori ecclesiastici che ne

celebrano i meriti e i miracoli raramente la presentano come tale. Figlia e madre di Dio a un tempo,

Maria appare piuttosto come una figura inimitabile.

Comunque, il culto mariano ha indubbiamente contribuito a modificare la figura della donna

nell’immaginario collettivo, mettendo l’accento sul potere di Maria di vincere il demonio e di

venire in aiuto dei peccatori fino agli ultimi istanti della vita, grazie all’ascendente esercitato sul

Figlio, che, si diceva, non poteva rifiutare una grazia. A partire da san Bernardo inizia a diffondersi

presso gli autori spirituali il tema della doppia intercessione di Cristo e di Maria; la madre di Dio,

incarnazione di una femminilità riscattata dalla Grazia, ma anche figura della Chiesa docente e

trionfante, è collocata sui portali delle cattedrali, e finisce per essere rappresentata accanto a Cristo

nelle scene dell’incoronazione della Vergine, segno di una relazione di uguaglianza con il Figlio. In

questo nuovo contesto mentale e spirituale conviene situare una certa evoluzione dell’atteggiamento

della Chiesa nei confronti della donna e del suo posto nella vita religiosa. Nel 1173 Alessandro III

ricordava che «se Nostro Signore ha voluto nascere da una donna, questo fatto non riguardava solo

gli uomini, ma anche le donne», mentre, alcuni decenni dopo, il santo vescovo Ugo di Lincoln (+

1200), certosino, va più avanti, dichiarando che «se non era stato permesso ad alcun uomo di essere

chiamato padre di Dio, una donna aveva invece potuto diventare madre di Dio».

La riabilitazione della donna, da parte degli uomini di Chiesa più aperti, non approfondisce

invece la questione della sua santificazione. Affermare che la donna aveva un’anima e che poteva

salvarsi è un fatto; considerare che un essere che l’opinione comune ritiene incline al peccato e

soprattutto al peccato carnale, possa accedere alla perfezione cristiana ed eventualmente agli onori

della santità, è un’altra questione. Infatti, questo ostacolo, non solo psicologico, è superato dalle

donne stesse attraverso la spiritualità penitenziale, che le sollecita a condurre volontariamente, per

espiare i peccati e avvicinarsi a Dio, un’esistenza di rinuncia e di ascesi che la Chiesa, nei primi

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secoli, aveva imposto ai pubblici peccatori. L’incarnazione più celebre e influente di questo ideale,

nell’ambito agiografico e nell’iconografia, è santa Maria Maddalena, accompagnata da molte altre

figure di peccatrici pentite di origine orientale, come Pelagia o Maria d’Egitto. Con la diffusione di

questi modelli antichi che tornano di attualità, si fa strada una concezione della santità che si

definisce non tanto come un insieme di virtù private o sociali quanto come il punto d’arrivo di

un’esperienza di conversione, fondata sul pentimento e sulla mortificazione, che consiste nel vivere

nel mondo come monaci o eremiti. In questa prospettiva le donne sono meglio disposte, in quanto

vivono in una situazione di profonda umiliazione e, in generale, non avendo alcun potere o cultura,

possono offrire solo la loro capacità di amare12.

Questo nuovo clima spirituale, caratterizzato dalla riscoperta dei valori evangelici, favorisce

la penetrazione delle donne nell’universo religioso, soprattutto dopo il 1200. Accanto a quelle che,

insieme ai mariti, partecipano alla vita delle confraternite di penitenti o ad altre, cominciano a

moltiplicarsi, nel corso del XIII secolo, le mulieres religiosae, che individualmente o in gruppo,

sviluppano fuori dai chiostri esperienze di vita religiosa assai differenziate, ma ispirate, a titolo

diverso, all’ideale penitenziale. Si va dalla reclusione in una cella vicino a un cimitero o alle mura

di una città, solitamente entro il raggio di un miglio, fino a una sorta di eremitismo urbano, che

permette a donne vergini o vedove di associare una vita di preghiera ad attività caritative sotto il

controllo dei loro confessori. Questo stato semi-religioso, come lo definiscono alcuni storici,

assume talvolta la forma di un impegno a servizio dei poveri e dei malati, in un ospizio o in un

lebbrosario, o di una vita comunitaria senza voti permanenti, come nel caso delle beghine. Nelle

regioni mediterranee i papi si sforzano, con relativo successo, di regolarizzare le inclusae o le

incarceratae, imponendo loro regole stabili e sottoponendole al controllo degli Ordini mendicanti.

In effetti i chierici temono che queste donne infervorate divengano «girovaghe» e si votino

all’itineranza o all’apostolato come gli eretici. Del resto, se una certa promozione religiosa della

donne è incoraggiata, bisogna evitare che si rimetta in discussione il ruolo preponderante dei preti e

dei religiosi, che devono rimanere gli unici detentori dell’autorità nella chiesa. Così, quando alcune

laiche sono proposte come modelli di santità, come Maria d’Oignies (+ 1213) e soprattutto santa

Elisabetta d’Ungheria (+ 1231) – canonizzata da Gregorio IX nel 1235 –, si pone l’accento non solo

sulla loro carità e pietà, ma anche sulla sottomissione da esse testimoniata nei confronti del direttore

di coscienza.

Le donne, laiche o monache, avviatesi alla vita religiosa, non tardano a esplorare vie nuove,

lungo le quali erano precedute dagli uomini. Già nel XII secolo l’abbadessa benedettina Ildegarda di

12 Cfr. ivi p. 822.

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Bingen (+ 1179) era stata la prima a inaugurare la corrente del profetismo visionario, destinata ad

avere un grande sviluppo negli ultimi secoli del Medioevo.

Le stesse aspirazioni e un identico vocabolario si ritrovano anche nei Paesi Bassi, negli

scritti di beghine, e nei Sette gradi dell’Amore, autobiografia spirituale composta in fiammingo

dalla monaca cistercense Beatrice di Nazareth (+ 1268), che celebra la potenza del desiderio di Dio

da cui era animata. Il punto di partenza del loro itinerario mistico è la ricerca dell’unione alle

sofferenze di Cristo: un tema spirituale che non ha nulla di specificamente femminile. San

Francesco d’Assisi era stato il primo, in Occidente, a provare la compassione e il desiderio di

partecipazione attiva alla Passione, fino all’identificazione fisica nel Crocifisso con il dono delle

stimmate, ricevute nel settembre 1224 nell’eremo della Verna. Ma la sua esperienza trova

soprattutto un’eco nelle mulieres religiosae, che manifestano un’intensa devozione alle cinque

piaghe di Cristo. Nella loro spiritualità le ferite aperte e sanguinanti costituiscono altrettante vie

d’accesso al cuore stesso di Gesù. La donna, esclusa dal mondo della cultura dotta e dalla sfera del

potere, rivendica ormai il privilegio di vedere Gesù Cristo secondo la carne e di unirsi al Verbo

incarnato non solo nell’Eucarestia, ma anche attraverso la fusione amorosa delle volontà

nell’esperienza dell’estasi. Questa relazione intima con Dio attraverso la sua umanità conferisce a

queste donne una dignità e un’autorità che permettono loro di superare i limiti stretti nei quali la

società e la Chiesa intendevano mantenerle, come attestano i ragionamenti spirituali di santa Chiara

d’Assisi, fondatrice del primo Ordine religioso femminile autonomo, o di santa Margherita di

Cortona (+ 1297), una peccatrice convertita che i frati Minori scelgono come figura di punta del

terzo Ordine.

Nel corso del XIII secolo le donne non hanno solo acquisito all’interno della vita religiosa

un posto e una considerazione ben diversi dai secoli precedenti. Indifferenti alle distinzioni tra gli

stati di perfezione e alla loro gerarchia, esse le rimettono in discussione senza inutili polemiche, con

l’esempio della testimonianza, e aprono una via nuova alla spiritualità occidentale: l’esperienza

vissuta dell’incontro con Dio.

ESEMPI DI ESPERIENZE RELIGIOSE LAICALI:

Eremitismo (urbano e rurale)

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Un’altra scelta possibile per gli uomini è l’eremitismo. Non tutti gli eremiti o i reclusi sono

laici: alcuni provengono dal clero secolare. La gerarchia ecclesiastica si sforza di raggrupparli in

comunità e opera pressioni perché adottino forme di vita monastica o canonicale. Ma, soprattutto

nei paesi mediterranei e nelle regioni montuose o ricche di foreste, rimangono ancora nel XIII

secolo molti autentici solitari, che godono di un grande prestigio presso le popolazioni tra le quali

vivono, sia a motivo dell’estremo ascetismo che, talvolta, dei poteri taumaturgici.

Oblazione

Le prime testimonianze dell’oblazione degli adulti, cioè dell’offerta della propria persona a

Dio mettendo se stesso e i propri beni a servizio di un ente religioso, si hanno in ambito monastico a

partire dall’VIII secolo13, ma è dagli inizi del XIII che questa pratica conosce, pur nella varietà delle

modalità e della terminologia, grande diffusione. Attraverso l’atto di conversione il laico desideroso

di vivere una vita religiosa si avvicina al chierico (frate o monaco) molto di più di quanto non

faccia con l’adesione a una confraternita, dal momento che mediante la conversio assume gli

obblighi e l’abito dei frati e ne condivide pienamente i benefici spirituali, a cominciare dalla

preghiera di intercessione post mortem. In una società in cui il chierico occupa il primo posto nella

scala dei valori, il laico tende ad assimilarsi sempre di più allo stato di vita chiericale, specialmente

monastico: per tale motivo la devozione laicale assume forme che rendono la vita dei laici, comune

o individuale, il più simile possibile a quella dei frati (confraternite) o li mettono a diretto contatto

con essi (oblazione, conversione).

L’oblazione è indicata con i termini di oblatio, redditio, dedicatio, offersio, conversio,

devotio14. Così come per l’oblazione monastica degli adulti dei secoli XI e XII15, anche per quella

conventuale l’oblato e l’oblata «non si limitano a beneficiare materialmente una fondazione

religiosa, ma si dispongono a mutare il proprio modo di vita attraverso il legame di subordinazione

a un monastero: legame che comporta al tempo stesso una scelta pauperistica e un mutamento di

condizione istituzionalmente radicale»16. L’oblazione non è una semplice offerta, ma una sorta di

scambio, che Grado Giovanni Merlo ha definito «scambio tra ‘materiale’ e ‘immateriale’: da una

13 J. DUBOIS, Oblato, I. Nel monachesimo, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VI, Roma 1980, coll. 654-666; G. ROCCA, Oblazione, ivi, coll. 676-677; G. M. OURY, Oblature, in Dictionnaire de Spiritualité, XI, Paris 1982, in coll. 566-571. 14 Per la metà del XII secolo (1157) è noto anche il caso di alcune oblate del monastero piemontese di San Giovanni di Rivalta Scrivia qualificate come «sorores et converse et Deo dedite» (G. G. MERLO, Forme di religiosità nell’Italia occidentale dei secoli XII e XIII, Vercelli – Cuneo 1997, pp. 11-12). 15 G. PENCO, Storia del monachesimo in Italia. Dalle origini alla fine del medioevo, terza edizione, Milano 1995, pp. 346-355. 16 MERLO, Forme di religiosità cit., pp. 12-13.

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parte si donano beni fondiari e immobiliari (secondo modalità economiche e giuridiche non

univoche), e, dall’altra, si offrono in contraccambio, oltre che garanzie materiali di sopravvivenza

terrena, servizi religiosi in funzione della salvezza ultraterrena». In tal modo, scrive ancora il Merlo,

«la comunità ecclesiastica, monastica, canonicale, religiosa si allarga a ‘chi dona’, estendendosi

oltre i confini della chiesa, del chiostro, della canonica, della domus, della mansio della sua sede

fisica»17. «Redditiones, dedicationes, conversiones hanno sempre un duplice risvolto, uno religioso-

istituzionale e uno economico-patrimoniale, essendo un atto di rinuncia a sé e ai propri beni»18.

Attraverso l’oblazione il laico, in un momento in cui si percepisce la salvezza come un fatto

personale e si vive una religiosità che accentua il valore delle opere19, vuole partecipare alla

perfezione della vita religiosa imitando il frate attraverso l’impegno a vivere alcuni aspetti della vita

più propriamente conventuale quali la povertà, la castità, l’obbedienza e la preghiera20.

La conversio/oblatio degli adulti trova origine nei desideri dei laici devoti di vivere secondo

ideali di vita cristiana mutuati dal monachesimo e dalla tradizione canonicale (di regola agostiniana)

precedenti la diffusione degli Ordini mendicanti, e di assimilarsi ai chierici21. Pur senza raggiungere

le funzioni sacerdotali e liturgiche l’oblato, attraverso il legame di subordinazione a un ente

religioso (monastero, convento, ospedale) opera una scelta pauperistica che implica «un mutamento

di condizione istituzionale radicale»22.

Ormai da tempo è stato dimostrato come oblati e oblate non siano da confondersi con i frati

laici: l’impegno di vita religiosa che l’oblato assume prevede il mantenimento dello stato laicale e la

vita “nel mondo”. L’oblato rimane laico, ma è un laicus religiosus23.

Uomini, donne, coppie di coniugi, famiglie24 si consacrano a Dio vivendo in comunione –

ma non sempre in comune – con i frati secondo lo statuto proprio degli oblati.

17 Ivi, p. 36. 18 Ivi, p. 45. 19 O. CAPITANI, Introduzione, in M. MOLLAT, I poveri nel Medioevo, Roma-Bari 1993, pp. XX-XXI. 20 VAUCHEZ, La spiritualità dell’Occidente medievale cit., pp. 134-141; MERLO, Forme di religiosità cit., p. 15. 21 Fra XII e XIII secolo il sorgere di numerosi movimenti religiosi laicali pone in luce «un certo desiderio di autonomia dei laici sul piano religioso e la loro aspirazione a farsi emuli di monaci e canonici regolari in materia di perfezione cristiana» (A. VAUCHEZ, Ordini mendicanti e società italiana nel Medioevo. Secoli XIII e XIV, Milano 1990, p. 207). 22 MERLO, Forme di religiosità cit., p. 13. 23 Mutuo il termine da D. RANDO, “Laicus religiosus” tra strutture civili ed ecclesiastiche: l’ospedale di Ognissanti in Treviso (sec. XIII), in Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XII e XIII, Torino 1987, pp. 43-84 (saggio pubblicato per la prima volta in «Studi Medievali», s. III, XXIV, 1983, 617-656), che tuttavia non lo adopera specificamente per gli oblati. 24 Si vedano gli esempi riportati da G. CASAGRANDE, Forme di vita religiosa femminile nell’area di Città di Castello nel sec. XIII, in Il movimento religioso femminile in Umbria nei secoli XIII-XIV. Atti del convegno (Città di Castello 1982), seconda edizione, Spoleto 1991, p. 130 (monastero femminile camaldolese di San Basilio a Città di Castello) e G. CASAGRANDE, Presenze silvestrine in diocesi di Perugia nel secolo XIII. SS. Marco e Lucia di Sambuco, in Silvestro Guzzolini e la sua congregazione monastica. Atti del convegno (Fabriano 1998), a cura di U. Paoli, Fabriano 2001, pp. 157-159 (monastero maschile silvestrino dei Santi Marco e Lucia a Sambuco, in diocesi di Perugia).

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Le confraternite

L’aspetto indubbiamente più innovatore, spontaneamente assunto dall’aspirazione di alcuni

ambienti laici a una vita religiosa al di fuori del quadro istituzionale, è rappresentato dallo sviluppo

delle confraternite. Sul modello delle fraternità sacerdotali alcuni laici si raggruppano su base

territoriale (villaggio, quartiere) o socio-professionale al fine di praticare il mutuo soccorso e

occuparsi dei funerali e del suffragio dei morti. La dimensione comunitaria è essenziale in questi

gruppi che a volte, come ad esempio in Provenza, si pongono in modo significativo sotto la

protezione dello Spirito Santo. Da una regione all’altra le modalità di costituzione e gli obiettivi

delle confraternite variano considerevolmente: alcune di esse rimangono associate a un monastero o

a un convento; altre sono più autonome e si rivolgono a preti secolari o regolari solamente per la

celebrazione della messa o per la predicazione occasionale. Ma tutte hanno in comune l’autonomia

amministrativa e sono composte in maggioranza – talvolta esclusivamente – di laici di entrambi i

sessi che aderiscono volontariamente alla fraternità.

Nel XIII secolo, a eccezione dell’Italia, la gerarchia ecclesiastica considera spesso

negativamente queste associazioni su cui non può esercitare il controllo e che sono viste come

possibili focolai di anticlericalismo o di sovversione, soprattutto nelle città in cui più forte è

l’influenza di un vescovo o di un abate sul potere civile. Del resto i chierici si sentono talvolta

minacciati da queste associazioni, che si sviluppano ai margini delle strutture parrocchiali alle quali

fanno concorrenza assumendo l’incarico delle esequie dei membri defunti.

Alcuni fedeli, piuttosto numerosi nelle zone fortemente urbanizzate come i Paesi Bassi e le

regioni mediterranee, non accettano di limitarsi a compiti di gestione e cercano di creare gruppi

devoti all’interno dei quali possano progredire sul piano religioso senza rinunciare al loro stato. Il

principale ostacolo che si oppone all’accesso dei laici a una vita autenticamente religiosa è

rappresentato dal matrimonio: anche tra coniugi legittimi l’atto sessuale comporta, infatti, agli occhi

dei chierici, una sorta di contaminazione e la verginità è considerata come lo stato di perfezione per

eccellenza. Ma dalla fine del XII secolo si verifica un’evoluzione. In un’importante bolla del 1175

indirizzata ai cavalieri dell’Ordine militare di San Giacomo appena costituitosi in Castiglia per

favorire la riconquista, Alessandro III afferma che lo stato religioso non è legato alla verginità, ma

all’obbedienza a una regola. Sposati o meno, i cavalieri che entrano in quest’ordine possono a buon

diritto considerarsi religiosi nella misura in cui pronunciano i voti e mettevano la loro vita in

pericolo per le difesa della fede cristiana. L’importanza di questo testo, confermato da Innocenzo III

nel 1209, è considerevole, dal momento che si sviluppava una concezione interiorizzata della «fuga

dal mondo», che cessa di identificarsi necessariamente con un rifiuto della vita materiale per

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diventare una lotta contro il male in tutte le forme, un impegno dal quale nessuna categoria di

cristiani è esclusa a priori a motivo del proprio stato di vita.

Nel corso del XIII secolo la forma associativa laicale della confraternita si diffonde

largamente, sia nelle città che nei centri minori che nelle campagne. Rette da propri statuti e da

propri dirigenti (indicati come rector o prior), possono avere sedi proprie, oppure radunarsi in una

chiesa parrocchiale, o monastica o mendicante. In alcuni casi la loro attività caritativa ne fa dei veri

e propri enti a livello cittadino ai quali sono affidati compiti di assistenza ai malati, accoglienza dei

bambini abbandonati, redenzione delle prostitute, soccorsi agli indigenti. La confraternita svolge

anche una funzione “mutualistica” nei confronti dei propri ascritti, ai quali assicura un aiuto in caso

di necessità e i preziosi suffragi post mortem.

Nel 1260, a Perugia, si sviluppa la pratica penitenziale della disciplina, che attraverso la

forma della confraternita si diffonde su larga scala in tutta Italia e in gran parte d’Europa nel corso

del XIV secolo. Nel 1260 un penitente perugino, Raniero Fasani, legge agli abitanti della città una

lettera ricevuta dalla Madonna che gli ordina di dedicarsi pubblicamente alla penitenza e di invitare

i suoi concittadini a fare altrettanto per placare la collera divina. Angosciata dall’imminenza del

castigo divino, la popolazione risponde in massa all’appello e i penitenti cominciano a flagellarsi

reciprocamente durante processioni espiatorie per identificarsi a Cristo condividendone le

sofferenze. In tal modo i fedeli manifestano il desiderio di convertirsi, riconciliandosi con i nemici e

restituendo il maltolto, soprattutto con la pratica del prestito a interesse. Il movimento dei

Flagellanti non va considerato solo riguardo agli aspetti esagerati o macabri. All’interno di queste

confraternite, quando il movimento è canalizzato e istituzionalizzato dalla chiesa, inizia a

svilupparsi una poesia religiosa in volgare assolutamente innovativa e di grande spessore, letterario

e spirituale.

Un altro filone confraternale, infatti, è quello dei laudesi, al quale è riconducibile una

produzione letteraria di grande interesse25. In parte i laudesi sono anche disciplinati e in parte no.

Infine, va ricordato il filone dei Raccomandati, a prevalente carattere mariano.

IL LAICO DI FRONTE ALLA MORTE

Il culto dei morti

25 Ben noti, in tal senso, sono i laudari d’area tosco-umbra, provenienti da Assisi, Cortona, Orvieto e Sansepolcro.

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Il culto dei morti e la rappresentazione dell’Aldilà sono uno degli elementi cristiani più

profondamente penetrati nel tessuto religioso, sociale e culturale medievale.

Un processo storico, questo, iniziato nell’epoca carolingia, quando la preghiera per i defunti

diventa il punto centrale della relazione tra i laici e i chierici, in particolare i monaci, che sanno

rispondere più adeguatamente alle esigenze dei fedeli. Nei secoli XI e XII, con l’affermazione

dell’egemonia dell’aristocrazia feudale e la diffusione di una coscienza dinastica tra i membri dei

livelli più alti della società, si verifica un’osmosi tra la concezione profana, secondo la quale i vivi

dovevano cercare l’aiuto dei loro antenati, dei morti ai quali erano uniti da legami di parentela

carnale, e la pratica della preghiera (tradizionale all’interno del cristianesimo fin dall’Antichità) che

la Chiesa rivolgeva a Dio per tutti i fedeli defunti. A causa degli stretti legami tra i monasteri e il

mondo signorile, le grandi abbazie e presto le semplici collegiate dei castelli diventano altrettanti

«pantheon» dinastici e familiari, dove i religiosi rendono culto ai santi e, nello stesso tempo,

commemorano i loro fondatori e benefattori laici. La Chiesa tollera questa prassi a causa della

stretta solidarietà che la unisce all’alta aristocrazia e degli evidenti vantaggi che ne derivano. In

effetti, i nobili e presto i semplici cavalieri moltiplicano le donazioni in favore delle fondazioni

religiose sotto forma di legati pro anima, stabiliti prima o dopo la morte sotto forma di concessioni

definitive di terre, di diritti o di rendite, con l’incarico, per i chierici che ne sono beneficiati, di

celebrare messe nel giorno anniversario e di pregare in perpetuo per le anime dei fedeli trapassati

che si sono raccomandati ai loro suffragi, i cui nomi devono essere iscritti sui necrologi e gli

obituari della comunità.

Questo sistema permette alla Chiesa di spiritualizzare il culto degli antenati integrandolo in

una prospettiva cristiana in cui la preghiera, l’elemosina e l’offerta del sacrificio eucaristico

diventano gli strumenti obbligati dell’intercessione dei defunti. Attraverso queste pratiche la Chiesa

riesce a estendere il controllo sulla morte, spogliandola dei suoi aspetti profani, sia che si tratti di

veglie funebri, del rito della sepoltura o dei cimiteri che rimangono a lungo luogo di riunioni e di

feste. Inoltre i chierici, diffondendo presso i fedeli la credenza in un Aldilà concepito come un

insieme di luoghi in cui ciascuno sarebbe stato retribuito secondo le proprie azioni e invitandoli a

vivere nel mondo nella prospettiva della morte, contribuiscono a orientare i loro comportamenti in

un senso conforme alla pietà e alla morale cristiana.

Il XIII secolo segna il compimento di un questo lungo processo storico, conforme alla pietà

e alla morale cristiana. In questo periodo i legami assai stretti tra il monachesimo e la società laica

cominciano a dissolversi e i monaci, senza scomparire dall’orizzonte dei fedeli, non ritrovano più

l’influenza esercitata in passato dalle abbazie. Ma l’importanza del culto dei morti nella pietà e nella

devozione dei laici non cessa di crescere a causa della diffusione di comportamenti aristocratici nei

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nuovi ambienti, particolarmente nella società urbana. In un’epoca in cui i legami dinastici diventano

meno rigidi e gli individui, senza distaccarsi dalla loro realtà familiare, rivendicano una certa

autonomia, l’affinarsi della sensibilità e del diritto comporta la riscoperta del testamento, atto

personale e revocabile, a differenza della donazione o del legato. Il testamento, pur se mediato dal

notaio, è testimonianza diretta della religiosità del singolo individuo, dei suoi rapporti spirituali

(confessori, direttori spirituali), degli ambienti religiosi da esso frequentati (conventi, monasteri,

confraternite, ospedali). Il testamento resta un insostituibile documento della coscienza del testatore,

che in questo caso è il fedele laico: coscienza «della realtà della propria biografia innanzitutto, dei

legami parentali e di gruppo, della propria condizione economica, dei propri affetti, delle proprie

responsabilità di fronte a Dio e agli uomini, della propria morte». Così Antonio Rigon, che

evidenzia come il testamento si rivela espressione di religiosità, o atti di religiosità, «non soltanto

perché conserva memoria di fatti e di comportamenti, ma anche perché traduce in disposizioni

concrete affetti ed emozioni, atteggiamenti e orientamenti religiosi»26.

La diffusione di questo tipo di atto giuridico non è solo un fenomeno importante sul piano

culturale, ma rappresenta un momento importante nell’evoluzione degli atteggiamenti religiosi,

permettendo a ogni persona che disponeva di beni di stabilire in anticipo le proprie esequie e di

provvedere alla salvezza eterna riparando i torti verso il prossimo e stabilendo una distribuzione di

parte della propria fortuna ai poveri e alle istituzioni ecclesiastiche dopo la morte. Così nel XIII

secolo la Chiesa ha rivendicato e ottenuto che i testamenti fossero di competenza dei propri

tribunali e imposto progressivamente a tutti i cristiani l’obbligo di dettare le ultime volontà alla

presenza di un prete. In tal modo la Chiesa non si presentava solo come garante della libertà degli

individui di fronte alle consuete pressioni, ma intende sollecitare i fedeli a orientare la loro condotta

in funzione della considerazione della morte, così da essere irreprensibili e poter contare su un gran

numero di suffragi quando sarebbero comparsi davanti a Dio. Parallelamente, la crescente

valorizzazione della messa come strumento di intercessione in favore dei defunti comporta

l’affermazione della funzione funebre del sacerdote; alcuni cappellani o preti altaristi offrono ormai

tutti i giorni il sacrificio eucaristico per i morti e trovano nei servizi funebri e nelle rendite delle

cappellanie il mezzo per assicurarsi il sostentamento.

L’evoluzione dell’atteggiamento di fronte alla morte si può comprendere solo alla luce delle

trasformazioni della disciplina penitenziale e, parallelamente, delle rappresentazioni dell’Aldilà. Il

sistema ereditato dall’Antichità cristiana era fondato su due elementi centrali: la dilazione della

26 A. RIGON, I testamenti come atti di religiosità pauperistica, in La conversione alla povertà nell’Italia dei secoli XII-XIV. Atti del XXVII Convegno storico internazionale dell’Accademia Tudertina e del Centro di studi sulla spiritualità medievale dell’Università degli studi di Perugia (Todi 1990), Spoleto 1991, p. 398.

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retribuzione eterna, che doveva intervenire solo dopo il Giudizio finale, e la bipartizione dell’Aldilà,

secondo la quale gli eletti erano chiamati alla gloria del Paradiso e i reprobi condannati alle pene

eterne. Il sacramento della penitenza può essere ricevuto solo una volta, in generale nell’imminenza

della morte, in modo da permettere al defunto di presentarsi senza peccato al giudice eterno.

Sotto l’influsso dei penitenziali redatti e diffusi dai monaci irlandesi, si diffonde durante

l’alto medioevo una nuova concezione della penitenza, reiterabile e tariffata, in virtù della quale i

peccatori possono essere assolti in ogni momento, dopo essersi confessati a un prete, con il

compimento di opere soddisfatorie, consistenti in un insieme di esercizi ascetici estremamente

gravosi, che vanno dal digiuno prolungato ai pellegrinaggi espiatori. Ma questo sistema rigoroso

non garantisce la speranza nella salvezza se non a coloro che possono pagarne il prezzo, in

particolare con l’espediente di un sistema di commutazione che permette ai ricchi e ai potenti di far

compiere ad altri le penitenze inflitte loro e di sostituire le privazioni personali con generose

elemosine.

A partire dal XII secolo questa concezione si rivela inadeguata alla mentalità dei fedeli e più

ampiamente della società occidentale, dove, sotto l’effetto dell’elevazione del livello di vita e della

crescita della popolazione, si introducono nuove forme di governo e di organizzazione. La Chiesa

non dipende più unicamente dalla buona volontà dei sovrani e delle grandi famiglie dell’aristocrazia

militare, mentre i ceti popolari, soprattutto nelle città, cominciano a svolgere un ruolo preciso nella

vita economica. Infine, nelle scuole i chierici formulano una nuova etica, fondata sulla «conoscenza

di sé» e sulla nozione di responsabilità personale. Il sistema penitenziale antico, con le sue sanzioni

irrazionali e le esigenze impraticabili – a meno di appartenere ai ceti elevati o di rinunciare al

mondo per entrare in monastero – non può essere mantenuto e, di fatto, conosce tra l’inizio del XII

secolo e la metà del XIII un’evoluzione rapida e profonda.

Con l’allontanamento delle prospettive escatologiche, il Giudizio finale, pur continuando a

incutere timore, appare lontano. Così l’idea, già espressa da Gregorio Magno, secondo la quale le

anime dei defunti, subito dopo la morte, sono oggetto di un giudizio particolare, prende a

diffondersi sempre di più. Nel XII secolo i teologi esitano ancora su questo punto. Riccardo di San

Vittore sostiene che, se tutti gli uomini sono giudicati subito dopo la morte e se i malvagi vanno

subito all’Inferno, i giusti devono invece attendere il Giudizio finale per entrare nella gloria celeste,

mentre coloro che hanno commesso solo peccati veniali devono espiare con appropriate sofferenze

prima di salire in Paradiso. Ma questo suppone che esistesse non solo l’Inferno, ma anche un altro

luogo, dove i cristiani che hanno commesso solo peccati veniali possano purificarsi di ogni

macchia, subendo diversi tormenti e con l’aiuto delle preghiere dei vivi. In questa prospettiva

l’affermazione del Purgatorio, a partire dal XII secolo costituisce un momento importante, che si

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inscrive all’interno di un sistema perfettamente funzionale. In effetti è possibile incitare i fedeli, che

sanno di non essere perfetti, alla pratica della penitenza, delle devozioni e delle opere di carità solo

se le buone azioni hanno in qualche modo delle ripercussioni nell’altro mondo e se i meriti acquisiti

possono anche beneficiare i defunti. La comunione dei santi è un dogma al quale i laici aderiscono

spontaneamente, dato che risponde alle convinzioni e alle speranze più profonde dei fedeli. La

Chiesa lo comprende e offrì a essi, attraverso la nuova concezione della penitenza e del Purgatorio,

una visione più ottimistica dell’Aldilà e la possibilità per ciascun credente di contribuire alla

salvezza dei parenti e degli amici.


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