+ All Categories
Home > Documents > ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN

ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN

Date post: 23-Jan-2017
Category:
Upload: truongnhan
View: 215 times
Download: 3 times
Share this document with a friend
3
ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN Source: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 10, No. 5 (Maggio 1955), pp. 157-158 Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40761527 . Accessed: 14/06/2014 11:45 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.229.229.86 on Sat, 14 Jun 2014 11:45:14 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
Transcript
Page 1: ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN

ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUANSource: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africae l’Oriente, Anno 10, No. 5 (Maggio 1955), pp. 157-158Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO)Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40761527 .

Accessed: 14/06/2014 11:45

Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp

.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].

.

Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extendaccess to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente.

http://www.jstor.org

This content downloaded from 91.229.229.86 on Sat, 14 Jun 2014 11:45:14 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions

Page 2: ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN

AFFRICA 157

Africa trabaccante di colore, di mistero e di avventura appare falsa ed è scontata in partenza; anche lo spettatore più ingenuo intuisce il trucco o quanto meno lo sforzo per rendere drammatica una situazione che nella realtà non è tale. E* ben vero che nel cinema l'emozione è - ci si perdoni il bisticcio - vera soltanto se falsa, se arti- ficialmente immessa. Solo di rddo ed eccezionalmente la verità drammatica è capace di produrre emozione; l'emo- zione è il frutto di una tacita convenzione tra regista, at- tori e spettatori e in tanto è valida in quanto vengano ri- spettate le regole dello spettacolo.

Comunque, agli effetti di quanto andiamo dicendo gli elementi attivi del cinema ci interessano come mezzo e non come fine. I films che noi oggi auspichiamo debbono costituire un invito all'Africa, un invito non per gente as- setata di emozioni, di avventure e di esotismo; un invito a tutti coloro che intendono lavorare e vivere con una per- centuale di comodità e di rischi non tanto diversa da quella che incontra in patria.

E' un tema che forse non abbiamo sufficientemente chiarito, ma che si lascia perlomeno intuire. Non l'Africa di ieri ma quella di oggi e possibilmente quella di domani; non generica, superficiale, caotica, ma chiaramente indi- viduata e caratterizzata nelle sue diversissime situazioni ter- ritoriali. E soprattutto attenzione a non farsi prendere la mano dalla cornice esotica, che per quanto affascinante deve restare cornice e non assumere il ruolo di protagonista.

Questi films interesseranno gli italiani, li indirizzeranno ai nuovi compiti, segneranno nuove mète. Potrà essere pro- prio il cinema a riallacciare quei rapporti tra italiani e africani che sono stati bruscamenti troncati per servire in- teressi estranei e contrari ad entrambi.

COLLABORAZIONE E RAZZISMO

II senatore del Gabon, L. Durand-Réville, di cui sono ben note la coraggiosa libertà di pensiero e la competenza, scrive nella rivista bimestrale « L'Afrique Française », or- gano del Comité de l'Afrique Française di Parigi e del Comité du Maroc, parlando della necessità di formare dei tecnici in Africa:

« Sono convinto che la continuità della nostra presenza in Africa è in grande parte legata alla collaborazione de- gli africani alle nostre imprese. Se un certo numero di euro- pei non hanno ancora compreso la necessità di questa evo- luzione, molti sono tuttavia quelli che condividono la mia convinzione e che accetterebbero volentieri di ammettere degli africani nei quadri e addirittura negli Stati Maggiori delle loro imprese, per poco che potessero trovare candi- dati di valore e capaci di occupare con competenza i po- sti che verrebbero loro offerti.

« Credo d'altra parte di poter dire che una delle diffi- coltà che, a questo fine, debbono essere superate proviene proprio dall'atteggiamento dei lavoratori africani locali, i quali tuttora e fino a prova contraria preferiscono essere comandati da bianchi.

«Recentemente, in uno stabilimento industriale di Bouaké, che io diriga, avevamo pensato di affidare un po- sto direttivo ad un africano che aveva compiuto in Francia studi di elettricità molto avanzati, dimostrando di aver rag- giunta una buona preparazione tecnica: ebbene, gli ope- rai autoctoni sono venuti a dichiararci che se avessimo as- sunto quell'africano essi avrebbero abbandonato il lavoro.

« Occorre dire che quel tecnico africano era di razza diversa da quella degli operai, sebbene la sua famiglia residesse nel paese da oltre trentanni. E' un piccolo esem- pio, che illustra tuttavia uno degli scogli che dovremo evi- tare per assicurare il progresso sociale dell'Africa, così come noi io vediamo e desideriamo.

« Non mi sono certo lasciato scoraggiare dal caso che ho sopra riferito & ho preso ora l'iniziativa di far venire a Bouakê, a spese dell'impresa, gli allievi del corso di ma- tematica elementare del Liceo di Abidjan, nella speranza di stimolare qualcuno di loro a concorrere a una borsa di studio metropolitana per ingegneri tessili. Il guaio sa- rà che non potremo far cadere la scelta su di un africano di razza baoulé, se vorremo evitare che si verifichino da parte degli operai locali dei conflitti razziali, i quali, come abbiamo visto, non riguardano soltanto gli europei! ».

iimiimiii ili min MIE ÌIM

Initiai MIRI In quest'agile elzeviro, che da mesi e mesi ricorre or-

mai melle pagine di « Affrica » senza perdere il suo sapore, Mario Gazzini non ha certo voluto dare più che un fugge- vole cenno alla storia degli italiani in Africa prima del 1940. Un cenno, però, che ogni volta svela un dato, un epi- sodio, un nome ignorato: ed è il segreto del suo non per- der sapore. Ma arrivato all'ultimo capitolo del suo racconto, gii è sembrato che non fosse più possibile un semplice cenno, tanto è ricca e varia la storia degli italiani in Egit- to. Egli ha quindi diviso questo capitolo in tre parti: As- suan, Suez, il paese. E gli è sembrato anche che nulla di meglio e di più nuovo potesse dirsi di quello che con parole ancor oggi piene di freschezza narrò Orazio Pe- drazzi nei suoi « Racconti dell'Italia lontana », cosicché ci ha pregato di ripubblicare quel brano* (N.d.R.)-

Questa diga di Assuan, ideata dagli inglesi, pagata dagli inglesi e diretta dagli inglesi, è stata però costruita nella sua massima parte da operai italiani. Quegli italiani, che oramai avevano fatto dell'Egitto la loro seconda pa- tria e che affollavano le città e le campagne egiziane, appena seppero nel 1898 che cominciavano i lavori del ciclopico sbarramento si offrirono a migliaia, mentre altri ne arrivavano dall'Italia. Chi meglio di loro poteva lavo- rare laggiù? Duemila anni prima, ad Assuan, avevano la- vorato i romani, e sulle orme della loro attività potevano bene lavorare gli operai dell'Italia moderna. Era la storia millenaria della nostra gente italica che continuava: due mila anni prima Assuan aveva sentito il suono dei mar- telli romani, duemila anni dopo tornava a sentire il suono dei martelli italiani, segno del lavoro eterno di noi, so- lida e brava gente che non si stanca mai.

Ma a voler lavorare per la diga di Assuan gli italiani non erano i soli, perché i greci che abitano in gran nu- mero l'Egitto facevano un'accanita concorrenza e cerca- vano, naturalmente, di essere i preferiti e di essere asse- gnati ai lavori più importanti, lasciando agli italiani quel- li più umili e più faticosi. E siccome anche i greci erano bravi, laboriosi e forti, la concorrenza era diffìcile.

Vi furono giorni e settimane di grande tensione di ani- mi, nessuno voleva cedere, spesso correvano botte. Gl'in- glesi, però, che sono gente pratica, proposero un modo molto sbrigativo di risolvere la questione. - Formate - essi dissero - una squadra di cento italiani ed una squadra di cento greci; le due squadre la- voreranno al medesimo lavoro; chi in due settimane lavo- rerà di più avrà poi il lavoro più importante e gli altri si contenteranno del resto.

Italiani e greci accettarono. Le squadre furono formate coi più validi campioni delle due nazionalità. La nostra aveva alla direzione un vecchio e barbuto capomastro, che aveva lavorato allo scavo del canale di Suez, aveva lasciati i suoi anni migliori lungo il Nilo, sempre in faccende vi- cino al gran fiume, e che giurava di voler vincere a costo della morte. Era ormai ridotto di forze, ma possedeva una grande esperienza, e poi lo sorreggeva una volontà indo- mabile.

Per quindici giorni le acque del Nilo videro combatter- si sulle due rive del loro letto ìina specie di disfida di Barletta; sulla sponda di destra lavoravano gli italiani, su quella di sinistra i greci e non conoscevano riposo, ed il giorno era uguale alla notte... e lavoravano sotto il sole cocente ed al lume delle torce collo stesso fervore col quale avrebbero combattuta una battaglia.

Non era una battaglia anche quella? Non erano il la- voro greco e il lavoro italiano che si contendevano il pri- mato in un'opera secolare che avrebbe eternato il ricordo del vincitore? Battaglia che ebbe anche i suoi feriti ed i suoi morti. Pochi giorni dopo due greci e un italiano col- piti dalla implacabile insolazione africana passarono allo ospedale e poi al camposanto, alla fine della settimana i casi di insolazione erano saliti complessivamente a quin- dici. Non importa. Avanti. Mancano sei giorni ancora. Cia- scuno lavorava con una lena che pareva spasimo, e tra gli

This content downloaded from 91.229.229.86 on Sat, 14 Jun 2014 11:45:14 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions

Page 3: ITALIANI IN EGITTO ANTE 1940: ASSUAN

158 AFFRICA

italiani il più infervorato era ancora il vecchio capomastro che ai più sfiniti, ai più esitanti diceva:

- Niente paura, io sono stato quattro volte all'ospe- dale per questo maledetto sole d'Africa, ed eccomi qua più in gamba di prima!

Non era vero che fosse tanto in gamba; ridotto male, viveva di febbre e di voglia di vincere, aveva gli occhi infossati, se si fermava dal lavorare tremava. E che im- porta? Bisogna andare avanti; i greci non si danno tre- gua e lavorano come schiavi; si aiutano colle cantilene e le donne portano ai lavoranti il cibo sulla diga perché non perdano tempo, si ubbriacano quando sono stanchi per eccitarsi e continuare, nonostante che l'alcool, sotto il sole d'Africa, diventi spesso veleno. Mancano quattro giorni soli, avanti, o italiani, pensate allo scorno della sconfìtta di fronte agli inglesi. Mancamo tre giorni, due giorni, un giorno... Auff! se Dio vuole è finita. E' scoccata l'ora, sia- mo al mezzodì della quindicesima giornata, adesso si aspetta il giudizio. I superstiti, allora si contano; sono poco più della metà; gli altri sono all'oispedale in delirio; al camposanto ne hanno sepolti dodici.

Se almeno si fosse vinto! Che fanno gli inglesi? Gli inglesi misurano; hanno misurato il lavoro italiano;

adesso, vanno a misurare quello dei greci che si riposano anche loro dell'eroica fatica, ed anche loro contano gli assenti.

Che sarà? Che sarà? Chi avrà vinto? Quando gli inglesi tornano verso gli italiani facendo

larghi cenni con le braccia, tutti corrono loro incontro col presagio della vittoria; soltanto il vecchio capomastro re- sta a sedere sul lavoro, perché le forze non lo reggono e la testa gli gira come un arcolaio.

- Due metri. Due metri - gridano gli inglesi alla turba degli operai italiani, - avete fatto due metri di più.

Madonna santa che urlo. - Abbiamo vinto! Viva l'Ita- lia! Capomastro dove sei? Ascolta, abbiamo vinto.

No, il capomastro non ascolta più. E' là supino e con gli occhi chiusi sulla diga, come se dormisse affranto dalla fatica. E quando lo scuotono per svegliarlo e dargli la grande novella, si accorgono che l'insolazione questa volta l'ha ucciso per davvero.

Ma intanto gli operai italiani ebbero in appalto tutti i lavori di rivestimento della diga... ed i greci furono la- sciati negli scavi con gli egiziani. E quando, finita l'opera, gli inglesi vi murarono una lapide per ricordarla a tutti co- loro che la vedranno nei secoli, dovettero scrivere così:

QUESTA DIGA FU PROGETTATA E COSTRUITA DA INGEGNERI BRITANNICI. EGIZIANI AIUTATI DA GRECI

SCAVARONO LE FONDAZIONI NELLA ROCCIA E COSTRUIRONO LE OPERE IN CALCESTRUZZO.

ESPERTI OPERAI ITALIANI APPARECCHIARONO E FABBRICARONO IL RIVESTI-

[MENTO IN GRANITO

Esperti: un aggettivo solo, una sola parola, ma in quella parola era la superiorità, la vittoria, la gloria.

L'AFRICA PIÙ IMPORTANTE DELL'ASIA PER I TESSILI OLANDESI

L'industria tessile olandese, che era la più importante fornitrice dell'Indonesia per i tessuti di cotone stampati e in tinta unita, da quando quei tenitori sono stati sottratti alla sua sovranità va d'anno in anno perdendo la sua po- sizione di preminenza. Rispetto alle esportazioni com- plessive di tessili dell'Olanda (che rappresentano il 42% della produzione), l'esportazione verso l'Indonesia nel 1951 fu dèi 25%, nel 1952 del 17,7%, nel 1953 del 16,9%, fino a scendere nel 1954 ali' 11%. In Indonesia i tessili olandesi vengono soppiantati da quelli provenienti dall'India e dal Giappone.

Di contro, è notevolmente aumentata l'esportazione di tessili olandesi verso l'Africa. L'esportazione verso l'Afri- ca francese è salita da 1.935 tonnellate nel 1953 a 2.829 tonnellate nel 1954, pari al 9% dell'esportazione totale di tessili. L'esportazione nell'Unione del Sud Africa è au- mentata da 1.230 nel 1952 a 2.560 nel 1953 e a 3.192 nel 1954, pari ad oltre il 10% dell'esportazione totale di tessili.

MARTA FRANCESCHINI SULTANA DEL MAROCCO Di italiani intraprendenti e avventurosi la storia ci

offre moltissimi esempi, ma pressocché ignorate restano ta- lune figure che, pur non essendo di primissimo piano, me- ritano tuttavia di essere descritte e ricordate. Degna di tale ricordo ci sembra quella di Marta Franceschini: una gio- vane e nobile corsa che oltre un secolo e mezzo fa salì al rango di imperatrice del Marocco per un insieme di circo- stanze dovute in parte al caso e in parte alle sue doti fi- siche ed intellettuali.

Ecco la sua singolare avventura. Siamo nel 1751. Una nave di pirati tunisini è in vista della Corsica. Gli isolani sono colti alla sprovvista; l'azione dei barbareschi è, come sempre, rapida, travolgente, sicura. Ancora una notte di terrore, di violenze e di atrocità da aggiungere a tante altre notti. Il paesino colpito è Corbara, nella regione di Balagna. All'alba, tutto sembra tranquillo, ma le case sono semi-de- serte e molti cuori piangono.

La nave è rientrata intanto alla Goletta col suo dolente carico umano. Tra gli schiavi cristiani vi sono i nobili Giacomo Franceschini e sua moglie: entrambi sano venduti al Bey di Tunisi. La vita in cattività è dura, per quanto Giacomo si faccia apprezzare in tutti i pesanti lavori che gli vengono affidati. Vengono intanto al mondo due figli: Marta e Vincenzo. Trascorrono gli anni, finche arriva la sospirata libertà, e nel 1760 Giacomo si imbarca con la moglie e i figli su un veliero toscano. A bordo, la famigliola è già dimentica delle lunghe sofferenze e pregusta trepi- dante la gioia del ritorno. Ma ecco che dopo poche ore di navigazione accade qualcosa di assolutamente inatteso e che decide la sorte della piccola Marta: la nave è catturata da corsari marocchini e il Franceschini, insieme a tutti i suoi, è venduto in schiavitù ad un notabile musulmano. Gia- como, pur affranto dalla nuova sventura, non si da per vinto: perfettamente padrone della lingua araba, redige un lungo e circostanziato memoriale che invia all'impera- tore del Marocco, Sidi Mohammed. Il sultano gli concede la libertà, ma a patto che la piccola Marta resti a corte. La condizione è dura, ma Giacomo accetta e parte alla volta della patria, giurando a se stesso che, in un modo o nell'altro, avrebbe provveduto a riscattare la figlioletta.

A corte, la bambina si rivela ben presto donna d'ecce- zione: apprende con facilità la lingua aulica e con dignità ed acume discetta con gli ulema di teologia. La sua prepa- razione nelle cose islamiche diviene a poco a poco così profonda che viene nominata "tolbah", cioè dottoressa in diritto. L'interesse per la giovane - che ha intanto mutato il suo nome in quello di Dawiyah - è sempre maggiore da parte del Sultano. Egli la stima e la rispetta in misura notevole e conferma solennemente questi suoi sentimenti dichiarando Dawiyah sua sposa legittima.

Da questo momento Lolla Dawiyah - Lolla significa "Signora" nell'arabo maghrebino - vive da regina, condi- videndo onori ed affanni con il suo regale consorte.

Niente affatto dimentica dei suoi parenti lontani, Lolla Dawiyah chiama presso di sé la madre e il fratello Vin- cenzo. Le cronache raccontano che immensi e memorabili furono gli onori tributati alla famiglia della sultana. Si rac- conta, in particolare, che il sovrano fece riunire tutte le donne dell'harem in un magnifico salone, invitando poi la vecchia signora Silvia a riconoscere la propria figlia; ma fu per prima Dawiyah a precipitarsi fra le braccia materne.

Pare che il sultano si affezionasse anche a questi ina- spettati parenti e che affidasse, anzi, a Vincenzo una im- portante missione presso il Doge genevese Giovan Battista Cambiaso.

Lolla Dawiyah ebbe una soia figlia dal matrimonio con Sidi Mohammed, morta però in tenerissima età.

La sultana - che era odiata da tutte le altre donne dell'harem, essendo la prescélta del suo regale padrone - è descritta bellissima, modesta e dignitosa.

Fino ai primi anni del '900 visse a Corbara una pro- nipote di Marta; nella sua villetta essa conservava gelosa- mente cimeli e ricordi della illustre prozia.

Morto il sultano, Lolla Dawiyah si ritirò a Larache-, dove si spense nel 1812. Ma il suo ricordo rimase lunga- mente vivo in tutti quelli che la conobbero e la amarono.

This content downloaded from 91.229.229.86 on Sat, 14 Jun 2014 11:45:14 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions


Recommended