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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in
Istituzioni di Diritto Romano
Iustae nuptiae e famiglie di fatto:
l’affectio tra esperienza romana e diritto moderno
Laureando: Relatore:
Andrea Paglia Chiar.mo Prof.
Mario Fiorentini
Anno Accademico 2011-2012
Non esiste un modo di essere
e di vivere che sia il migliore per
tutti […] La famiglia di oggi non è
né più né meno perfetta di quella di
una volta: è diversa, perché le
circostanze sono diverse.
(E. Durkheim, 1888)
A tutte le persone che mi
stanno accompagnando in questo
«giro di giostra», perché senza
superstizioni e vani dogmi sociali,
possiamo vivere intensamente e con
più sentimento, perseverando in
momenti di leggiadra follia.
Indice
INTRODUZIONE ....................................................................................................... 9
Capitolo I
IUSTAE NUPTIAE
1. Fonti ................................................................................................................. 13
2. Conubium ........................................................................................................ 17
3. Pubertà ............................................................................................................. 22
4. Consensus. Auctoritas.................................................................................... 27
5. (Segue) Affectio maritalis .............................................................................. 31
6. Cessazione del matrimonio ........................................................................... 42
7. Bigamia ............................................................................................................ 53
8. Conventio in manum ..................................................................................... 54
9. La famiglia romana ........................................................................................ 63
10. Effetti giuridici del matrimonio e leges Augustae ...................................... 70
Capitolo II
PAELEX
1. Fonti ................................................................................................................. 81
2. La paelex nell’età arcaica ............................................................................... 84
3. La pallakè greca .............................................................................................. 88
4. La trasformazione del significato di paelex e l’amica ................................ 96
Capitolo III
CONCUBINATUS
1. La concubina nella società romana ............................................................. 103
2. Ingenua et honesta ........................................................................................ 108
3. Liberta ............................................................................................................ 114
4. Categorie prive di honestas ......................................................................... 123
Capitolo IV
CONTUBERNIUM
1. La schiavitù nell’antica Roma ..................................................................... 139
2. Unioni tra conservi ....................................................................................... 144
3. Unioni tra servi e liberi ................................................................................ 149
Capitolo V
MATRIMONIUM IURIS PEREGRINI
1. Matrimonium secondum leges moresque peregrinorum ........................ 159
2. Trasformazione del matrimonium iuris peregrini in iustae nuptiae ...... 165
3. Le unioni coniugali dei milites. L’esercito romano sotto Augusto. ........ 172
4. (Segue) Tipologie di unioni e le honestae missiones ................................ 179
5. (Segue) Quotidianità coniugale nelle canabae .......................................... 187
Capitolo VI
L’INFLUENZA CRISTIANA NEL MATRIMONIO CLASSICO
1. Matrimonio .................................................................................................... 197
2. Divorzio ......................................................................................................... 208
3. Bigamia .......................................................................................................... 213
4. Adulterio ....................................................................................................... 215
5. Unioni coniugali fra schiavi ........................................................................ 218
Capitolo VII
IL MATRIMONIO CIVILE MODERNO
1. Cenni storici sul matrimonio italiano ......................................................... 225
2. Teorie sulla natura del matrimonio ............................................................ 233
3. Il matrimonio nell’ordinamento italiano ................................................... 240
4. Disciplina codicistica e riforma del 1975.................................................... 247
Capitolo VIII
LA FAMIGLIA DI FATTO NEL DIRITTO MODERNO
1. La famiglia di fatto tra disvalore e nuove percezioni ............................... 257
2. Definizioni, statistiche ed analisi sociologica ............................................ 266
3. Il riconoscimento giuridico della famiglia di fatto ................................... 278
4. Lacune legislative e soluzioni giurisprudenziali ...................................... 291
5. La situazione negli ordinamenti europei e prospettive italiane ............. 297
CONCLUSIONI .................................................................................................305
Indice delle fonti ................................................................................................313
Bibliografia .........................................................................................................321
Indice delle Tavole.............................................................................................327
9
INTRODUZIONE
Il progetto di tesi è incentrato su un duplice livello di comparazione: da una
parte si sono esaminate analogie e differenze giuridiche tra unioni legittime e «di
fatto»; dall’altra, si è operato un confronto tra l’esperienza romana (concezione del
diritto come «esperienza fattuale e comune a ciascun individuo»1, nel caso in
questione dell’epoca romana appunto) e il diritto moderno.
Lo scenario della situazione proposta è pertanto caratterizzato da un’astratta
quadripartizione dove, volta per volta, trovano spazio le esposizioni dell’istituto
matrimoniale di diritto romano classico (raffrontato con quello iuris peregrini e
quello tardo-antico dalla precipua influenza cristiana); l’esame di forme relazionali
arcaiche e del periodo della Roma repubblicana ed imperiale; la presentazione del
vincolo coniugale legittimo vigente nell’ordinamento italiano; ed infine l’indagine
sulle «famiglie o coppie di fatto» moderne.
Il primo argomento affrontato risultano dunque le iustae nuptiae, ovvero il
matrimonio legittimo che l’ordinamento romano riconosce esistente sulla base di
determinati requisiti. Per sottrazione, nei capitoli II, III, IV, segue la trattazione di
quelle forme coniugali non aventi il crisma della legalità: la paelex, oscura figura
dell’epoca romana arcaica che potrebbe essere sintomatica di un’originaria bigamia;
il concubinatus, termine rivalutato positivamente, che identifica la relazione
duratura, ma non matrimoniale, tra un uomo e una donna; il contubernium, ad
indicare l’unione tra conservi o quella con un individuo schiavo.
Al capitolo V, la trattazione verte sopra l’annosa disputa sulla possibilità o meno
dei milites di sposarsi: l’argomentazione più accreditata trova soluzione includendo
l’analisi dei matrimoni di ordinamenti stranieri a quello romano. Nel complesso,
1 G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (ed. riveduta a cura di P. Piovani),
Giappichelli, Milano, 1962, p. 28 e ss.
10
questa sezione rappresenta anche un sunto delle precedenti forme coniugali,
individuate a seconda degli specifici status giuridici dei contraenti.
Il capitolo successivo presenta il matrimonio romano del periodo tardo-antico e
giustinianeo sulla base della marcata influenza cristiana: interessante la
constatazione del mutamento di istituti, terminologie e concezioni che saranno alla
base della disciplina canonistica e, in larga misura, anche di quella civile odierna.
Lo svolgimento, a questo punto, compie un balzo cronologico di quindici secoli:
il vincolo coniugale, diventato sacro, è istituto di esclusiva competenza del diritto
canonico (non oggetto della trattazione); con la Rivoluzione francese e la
conseguente emanazione codicistica il matrimonio abbandona la dimensione
religiosa e torna ad assumere quella prettamente civile. Nel capitolo VII vengono,
quindi, mostrate le differenze tra la disciplina antecedente e quella successiva ai
Patti Lateranensi e come il vincolo coniugale fatichi a scrollarsi di dosso le vecchie
impostazioni ideologiche.
L’ultimo capitolo è riservato alle famiglie di fatto moderne, nate e diffusesi
sull’onda della crisi dell’istituto matrimoniale, incapace di conformarsi alle nuove
esigenze della società. Sulla base di dati statistici e delle varie teorie sociologiche, si
è cercato di inquadrare la materia giuridica, focalizzando l’attenzione sia
sull’indiretto riconoscimento delle unioni di fatto nell’ordinamento italiano, sia sulle
pressanti problematiche derivanti dall’assenza di una normativa.
Intenzione primaria di questo elaborato è accompagnare il lettore in un excursus,
storico e giuridico, che affronti, senza pregiudizi ideologici, la tematica della
famiglia di fatto nell’epoca romana e in quella moderna. Parallelamente, si vuole
scalfire l’«aura sacrale» con cui il legislatore ha rivestito l’istituto matrimoniale ed
altresì denunciare la dogmaticità di certune opinioni: privilegiare irragionevolmente
le sole unioni di diritto, trascurando nel contempo quelle di fatto, non sembra essere
più un atteggiamento tollerabile soprattutto alla luce della nuova, e sempre più
emergente, sensibilità comune.
11
L’innesto di una disciplina è quanto mai auspicabile e, se lo studio del passato
serve a comprendere meglio il presente, forse l’esperienza romana potrebbe
agevolare non di poco la configurazione giuridica delle moderne famiglie di fatto.
Nella tesi si è fatto uso della locuzione era volgare (abbreviata in e.v.),
contrapposta a prima dell’era volgare (abbreviata in p.e.v.), così come usata per la
prima volta da Johannes Kepler nel 1615, volendo indicare il concetto di «era
popolare». Questa locuzione si è poi diffusa in ambiente accademico principalmente
per due motivi: da una parte la datazione convenzionale del Calendario Gregoriano
risente delle inesattezze, o quanto meno delle non certezze storiche, in ordine alla
determinazione dell’anno di nascita di Gesù effettuata da Dionigi il Piccolo nel V-VI
secolo; dall’altra, non utilizzando riferimenti cristiani, assume una valenza neutra,
scevra da connotazioni religiose. Poiché tale locuzione è ordinariamente adoperata
dalla comunità accademica inglese, usando Current Era (CE) e Before Current Era
(BCE), è sembrato naturale conformare la datazione presente nella tesi a questa
nuova consuetudine.
13
Capitolo I
IUSTAE NUPTIAE
1. Fonti
Il negozio giuridico più importante nel diritto romano di famiglia è il
matrimonio. Tale istituto assume una valenza giuridica rilevante non solo
all’interno della coppia, definendo in questo modo gli status personali
rispettivamente di marito e moglie, ma anche nei confronti della prole, idoneità a
fornire una discendenza legittima, e non ultimo determinando conseguenze
giuridiche nelle famiglie proprio iure dicta dalle quali provengono i due consorti.
È significativo notare come questo importante istituto non trovi una trattazione
sistematica all’interno delle fonti romane pervenuteci, a differenza delle
obbligazioni ad esempio; non esiste, infatti, alcuna monografia che illustri nella sua
interezza gli elementi giuridici del negozio e nemmeno una trattazione storica
dell’istituto. Le fonti presentano scarni estratti che affrontano singoli argomenti di
diritto familiare, ma anche in questi casi la presentazione del negozio matrimoniale
è piuttosto marginale e assolutamente incompleta.
Tra le opere di giuristi del I-II-III sec, Aulo Gellio ricorda in Noctes Atticae (4, 4)
un libro di Nerazio Prisco intitolato de nuptiis. Nelle Institutiones di Gaio non vi è
una trattazione del matrimonio, quanto piuttosto vengono presentate le unioni che
non possono avere il valore giuridico di matrimonio legittimo (nefariae et incestae
nuptiae, libro 1, 58-64). Restando sempre nella Institutiones gaiane, nella Epitome il
libro I titolo IV (estratto del V secolo) porta il nome de matrimoniis, ma l’esposizione
si limita a dare una definizione di matrimonio alla quale seguono, anche qui, i casi
14
di unioni non lecite2.
Nel Digesto vi sono numerosi frammenti delle due leggi imperiali più famose, la
lex Iulia de maritandis ordinibus e la lex Papia Poppaea, e un’opera su Ulpiano dal titolo
Tituli ex corpore Ulpiani dove viene esposta la definizione giuridica romana del
matrimonio. Nell’opera su Paolo Sententiarum libri, vi è un titolo de nuptiis che si
occupa di unioni illecite3.
Il materiale più copioso si rinviene nel Codice Teodosiano e nelle compilazioni
giustinianee. Il libro III ha vari titoli concernenti istituti matrimoniali, la trattazione,
però, raccogliendo esclusivamente costituzioni di imperatori cristiani, è sì preziosa
per conoscere la legislazione sul matrimonio tardo antico, fortemente influenzato
dalle autorità ecclesiastiche, ma non si occupa di quello romano di epoca pagana.
Nemmeno le Institutiones, compendio didattico giustinianeo dedicato agli studenti,
espongono dettagliatamente l’argomento: il libro I titolo 10 de nuptiis, dopo una
breve nozione sui requisiti del matrimonio legittimo, si dilunga solo nell’enunciare
le unioni che non possono essere qualificate iustae nuptiae4.
Altre fonti considerevoli sia nel numero che nel valore storico-giuridico sono
rappresentate dai diplomi militari di congedo e dalle iscrizioni funerarie: tali reperti
archeologici contribuiscono a delineare la spinosa questione della liceità o meno
dell’unione tra due persone; o meglio aiutano a capire se tale unione trovi nel diritto
romano un riconoscimento giuridico, e in questo caso si tratterà di iustum
matrimonium, oppure non goda di alcuna considerazione, e pertanto si tratterà di
concubinato, contubernio, amicizia a seconda dei casi.
Non v’è certezza se la povertà di fonti documentali relative al matrimonio
dipenda da una letteratura giuridica lacunosa. Si potrebbe supporre che il materiale
2E. VOLTERRA, v. Matrimonio (dir. rom.) in Enciclopedia del Diritto, Giuffré, Milano 1975, XXV
ed., p. 729. 3E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 730. 4E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 731.
15
pervenutoci sia solo in minima parte quello effettivamente prodotto all’epoca dai
giuristi romani. Ammettere questa seconda ipotesi, però, andrebbe a cozzare con
l’abbondanza di fonti di altri istituti giuridici romani e non spiegherebbe nemmeno
il motivo per cui il materiale relativo al matrimonio possa essere stato espunto dal
novero delle fonti o sia andato incredibilmente perduto (a meno di una volontà
diretta a tale scopo).
Forse la scarna documentazione, che nella maggioranza dei casi si limita a dare la
definizione di matrimonio incentrandosi maggiormente sui casi di unioni non
considerate tali, potrebbe indicare che, nella mentalità romana, il matrimonio
assumesse una dimensione totalmente privata: era interesse sia da parte dei giuristi,
sia dei cittadini romani fugare ogni dubbio sulla legittimità o meno dell’unione
contratta, procedendo per esclusione e definendo matrimonio ciò che matrimonio
non era. Una volta che si fosse chiarita questa situazione di fatto e rispettati i
requisiti matrimoniali per quanto riguarda lo status dei contraenti e la
legittimazione della prole, non vi era probabilmente un interesse pubblico
sovraordinato che attribuisse al matrimonio valore più alto e astratto che non la
semplice unione di due persone.
Non si era forse ancora sviluppata quell’attenzione a considerare il matrimonio
come lo strumento giuridico che crea una piccola cellula statale. Pensiero che invece
caratterizza gli ordinamenti occidentali moderni dove la famiglia viene considerata
come il nucleo fondante della società moderna. E’ importante specificare occidentali,
perché ad esempio il diritto di famiglia islamico considera il matrimonio come un
semplice contratto tra due persone di sesso opposto, un semplice negozio giuridico
come la compravendita o la locazione.
Forse si può supporre che i giuristi romani avessero esclusivo interesse a rendere
certa la legittimità delle unioni, senza fare alcuno tipo di attribuzione morale o
sociale aggiuntiva. Anzi, ci si può spingere nell’affermare che l’istituto matrimoniale
viene regolato più dal costume che dal diritto: i rapporti tra i coniugi vengono
16
regolati dal contesto sociale, mentre il diritto si occupa prevalentemente di
assicurare la legittimazione della prole. Redatte le linee guida sulle iustae nuptiae,
operando un metodo per esclusione, la letteratura giuridica romana avrebbe svolto
il proprio compito. Il giurista moderno, pertanto, potrebbe trovare lacunose tali
fonti documentali perché affronta la trattazione del negozio matrimoniale con una
mentalità moderna e diversa rispetto a quella dell’epoca, magari non senza qualche
pregiudizio o sfumatura negativa nella presentazione didattica.
In questo capitolo si cercherà di affrontare il matrimonio romano con il più alto
grado di obbiettività, in modo che la mentalità civilistica odierna non vada ad
influenzare la trattazione di un istituto antico, paragonabile a quello moderno forse
solo nel nome e in pochi altri elementi.
Una delle definizioni più autorevoli del matrimonio romano si riscontra in un
passo dei Tituli ex corpore Ulpiani:
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 2: Iustum matrimonium est, si inter eos nuptias
contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique
consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt.
Da queste poche righe si evincono gli elementi essenziali affinché un’unione
possa essere riconosciuta dal diritto romano come matrimonio, designato a seconda
degli autori con i termini di iustae o legitimae nuptiae e di iustum o legitimum
matrimonium.
Volterra presenta la questione affermando: «secondo i giuristi classici, si aveva
matrimonio quando un uomo e una donna puberi, muniti nei loro reciproci
confronti di conubium, stabilivano fra loro un rapporto coniugale con la volontà
reciproca, effettiva e continua di essere uniti durevolmente in matrimonio e, nel caso
17
che uno dei coniugi fosse alieni iuris, con l’auctoritas del titolare della patria potestas»5.
Il matrimonio romano classico era una mera situazione di fatto, rilevabile da
determinati elementi e comportante effetti giuridici a questi collegati. I presupposti
per i quali ad un rapporto coniugale viene attribuita la qualità di iustae nuptiae erano
pertanto: il conubium fra i due coniugati; la pubertà dei coniugati; il consenso.
2. Conubium
Il conubium si può definire come la capacità giuridica a contrarre matrimonio
legittimo. Rispetto alla concezione moderna, nella quale la capacità al contratto
matrimoniale è propria di chiunque abbia superato una determinata età, in diritto
romano dipendeva dallo status giuridico dell’uomo e della donna. Non esisteva al
tempo un diritto dell’individuo in quanto tale, bensì gli esseri umani godevano di
determinati diritti solo perché facenti parte di una certa categoria o classe sociale;
alcuni esseri umani non godevano nemmeno di personalità e capacità giuridica: lo
schiavo, ad esempio, era considerato res e non persona, ma la perdita di diritti
poteva riguardare anche uomini liberi, se subissero una capitis diminutio minima o
maxima, a causa di prigionia, infamia, ecc.
Il conubium si presentava ai giuristi romani come una condizione positiva: se
l’individuo presentava tutti gli elementi che lo abilitavano a contrarre matrimonio
legittimo, allora tale individuo era munito di conubium. All’uomo e alla donna si
richiedeva pertanto il possesso di quel particolare status giuridico al fine di porre in
essere un rapporto coniugale, considerato matrimonio legittimo dall’ordinamento
giuridico romano. Questa particolare capacità giuridica era significativa al punto
tale che gli effetti giuridici propri del matrimonio legittimo discendevano solamente
nelle unioni coniugali tra persone munite nei loro rispettivi confronti di conubium.
5 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 732.
18
Il più importante effetto giuridico è riscontrabile nella condizione giuridica che
avrebbe goduto il generato. In numerosi passi di Gaio si può rinvenire la questione;
ne presentiamo due:
Gai., 1, 67: Non aliter quisque ad patris condicionem accedit, quam si inter patrem et
matrem eius conubium sit.
Gai., 1, 78: Ex eis inter quos non est conubium, qui nascitur iure gentium matris
condicioni accedit.
Il principio generale è così ricavato: il generato da matrimonio legittimo seguiva
la condizione giuridica che il padre aveva al momento del concepimento e, se il
padre era cittadino romano, era sottoposto alla di lui patria potestas. Al generato da
persone fra le quali non esisteva il conubium era invece attribuito lo status giuridico
che la madre aveva al momento della nascita. Questo principio per altro non era
esclusivo del diritto romano, ma comune anche ad altri popoli6.
La concessione o meno del conubium, quale istituto di iuris gentium, era strumento
di politica internazionale largamente utilizzato da Roma nei suoi rapporti con le
città italiche e con altre popolazioni sottomesse: il foedus Cassianum (Dion. Hal., 7,
53) fu un trattato di pace tra Romani e i Latini con annessa possibilità di contrarre
matrimonio legittimo tra costoro. Altri esempi furono la concessione del conubium a
popolazioni germaniche (Tac., Histor., 4, 65) o l’abrogazione dello stesso nei
confronti dei Macedoni nel 167 (Liv., 45, 29)7.
Nel caso in questione, la lex Minicia, posteriore alla guerra sociale o, secondo altri
autori, dell’epoca di Augusto, introdusse un’eccezione alla norma generale che
regolava lo status dei figli nati da genitori privi di conubium. Nei Titulo ex corpore
Ulpiani viene affermato:
6 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 734. 7 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 734.
19
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 8: Conubium interveniente liberi sempre patrem
sequuntur: non interveniente conubio matris condicioni accedunt, excepto eo qui ex
peregrino et cive Romana peregrinus nascitur, quoniam lex Minicia ex alterutro
peregrino natum deterioris parentis condicionem sequi iubet»
La legge, della quale è discussa anche la data di promulgazione, stabiliva infatti
che il figlio nato da madre romana e da padre straniero sprovvisti di conubium fosse
straniero, in deroga alle regole di iuris gentium che, nei casi di unioni miste,
sancivano il conferimento al figlio dello status civitatis ac libertatis proprio della
madre8. Si può quindi capire che il peregrino fosse sprovvisto di conubium verso
cittadini romani e viceversa: il famoso detto «divide et impera» si attuava anche
attraverso la capacità giuridica matrimoniale con le popolazioni sottomesse o in
guerra con Roma.
Incapacità a contrarre matrimonio derivava anche da legami parentali fra
ascendenti e discendenti: mentre nel diritto moderno tale legame viene configurato
come un impedimento, nei Tituli ex corpore Ulpiani si legge:
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 6: Inter parente et liberos infinite cuiuscumque gradus
sint conubium non est.
Anche Gaio affronta la questione scrivendo:
Gai., 1, 59: Inter eas enim personas quae parentum liberorumve locum inter se optinent
nuptiae contrahi non possunt, nec inter eas conubium est.
Il passo è significativo perché l’autore precisa il nesso causale che il contrahi
nuptiae non possunt è diretta conseguenza della mancanza di conubium; anzi, l’unione
coniugale tra siffatte persone non può essere considerata iustae nuptiae proprio
perché:
8 C. FAYER, La Famiglia Romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia. Matrimonio. Dote, Parte
seconda, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005, p. 408.
20
Gai., 1, 60: Et si tales personae inter se coierint, nefarias et incestas nuptias contraxisse
dicuntur.
Fra cognati in linea collaterale un tempo era proibito sposarsi fino al sesto grado
incluso; poi furono permesse le nozze fra cugini di primo grado, cioè con i collaterali
di quarto grado e, successivamente nel I sec. e.v., fu permesso prendere in moglie
una parente di terzo grado, ma soltanto se questa fosse la figlia del fratello e non la
figlia della sorella, oppure fosse la zia materna, sebbene dello stesso grado di
parentela9. Nel 49 e.v. fu promulgato il senatoconsulto Claudiano, provvedimento
adottato ad personam per consentire le nozze tra l’imperatore Claudio e Agrippina,
col quale viene dichiarato lecito il matrimonio tra lo zio paterno e la nipote,
abrogato nel 342 e.v. ad opera di Costanzo.
L’assenza di determinati requisiti di capacità giuridica nei coniugi, in particolare
il godimento da parte loro dello status civitatis, comportava la nullità del
matrimonio. Prima della lex Canuleia de conubio patrum et plebis del 445 p.e.v., vigeva
inoltre il divieto di conubium tra patrizi e plebei. In Livio si trovano esempi di
motivazione addotte dal patriziato per ostacolare la rivendicazione della plebe: la
rogatio Canuleia, con cui si chiedeva l’abrogazione del divieto, «era vista come accusa
di contaminazione del sangue patrizio e di sovvertimento di ogni diritto gentilizio»
(Liv. 4, 1, 1); «di confusione delle genti, di sconvolgimento degli auspici pubblici e
privati» (Liv. 10, 8, 9) che spettavano ai soli patrizi, facendo venir meno
l’identificazione sociale di se stessi e della propria stirpe. Permettere i conubia
promiscua fra le due classi sociali «avrebbe portato alla diffusione di accoppiamenti a
guisa di bestie e i nati da tali unioni avrebbero ignorato il loro sangue, la loro
discendenza, i loro culti, essendo metà patrizi e metà plebei» (Liv. 4, 2, 5-6)10.
Mancanza di conubium, questa volta libertatis, vi era pure nelle unioni tra liberi e
9 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 393. 10 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 406.
21
schiavi e tra schiavi, considerate entrambe solamente contubernium:
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 5: Cum servis nullum est conubium.
Nel Digesto si trova il divieto per la liberta che divorzia dal proprio patrono di
contrarre senza la volontà di questo un matrimonio legittimo con altro uomo:
Ulpiano, libro 3 ad legem Iuliam et Papiam D. 24, 2, 11, pr.: […] Quamdiu patronus
eius eam uxorem suam esse vult cum nullo alio conubium si est. Nam quia intellexit
legis lator facto libertae quadi diremptum matrimonium, detraxit ei cum alio conubium.
Quare cuicumque nupserit, pro non nupta habebitur. […]
Al passo seguente si trova la specificazione che non appena possa desumersi la
volontà del patrono di non volere più essere unito in matrimonio con la liberta,
questa riacquista il conubium con altro uomo.
Ulpiano, libro 3 ad legem Iuliam et Papiam D. 24, 2, 11, 2: […] Etenim meminisse
oportet ideo adimi cum alio conubium, quia patronus sibi nuptam cupit. Ubicumque
igitur vel tenuis intellectus videri potest nolentis nuptam, dicendum est iam incipere
libertae cum alio esse conubium. […]
La conseguenza è tale per cui l’unione coniugale che la liberta avesse costituito
con altri sino a quel momento non ha valore sul piano giuridico, ma non appena la
donna acquista il conubium, diviene ipso iure matrimonio legittimo11.
In questa casistica, per altro non esaustiva, Volterra denota la differenza di
mentalità tra la concezione romana e quella moderna: «si comprende pertanto che
per indicare una situazione giuridica la quale impedisca di considerare matrimonio
legittimo una data unione coniugale si preferisca parlare di mancanza di conubium
fra l’uomo e la donna, cioè come l’assenza di un requisito positivo indispensabile,
anziché configurarla, secondo il linguaggio giuridico moderno, come impedimento
11 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 734.
22
assoluto e relativo».
3. Pubertà
Sebbene i giuristi classici non abbiano indicato l’ordine dei requisiti
matrimoniali, si può indicare come secondo necessario elemento per le iustae
nuptiae la pubertà dei coniugati. Poiché uno degli scopi del matrimonio dal punto di
vista sociale era la procreazione, il diritto romano ha individuato, nel
raggiungimento dell’età puberale dell’uomo e della donna, l’età minima consentita
per il contratto matrimoniale. Nella mentalità romana l’istituto matrimoniale è una
trasposizione delle regole naturali di procreazione: il requisito della pubertà dei
coniugi sembra di conseguenza logico, per non dire scontato.
Dalla definizione di Modestino conservata nel Digesto, in cui si afferma:
Modestino, libro 1 regularum D. 23, 2, 1: nuptiae sunt coniunctio maris et feminae
e alla quale corrisponde la definizione delle Institutiones giustinianee:
Inst. 1, 9, 1: nuptiae autem sive matrimonium est viri et mulieris coniunctio
si può desumere che il termine coniunctio abbia un significato naturalistico,
identificando la consequenzialità tra l’unione di due esseri viventi di sesso opposto
con la procreazione dei figli. Tale concetto è così vero per i giuristi romani che
Ulpiano, definendo il ius naturalis come quel diritto insegnato dalla natura a tutti gli
animali, aggiunge:
Ulpiano, libro 1 institutionum D. 1, 1, 1, 3: hinc descendit maris et feminae
coniunctio quam nos matrimonium appellamus.
Solazzi commenta la parola coniunctio nel significato di unione naturale dei
coniugi e conclude: «Essa non indica alcun elemento o requisito spirituale del
23
matrimonio, non accenna a diritti e doveri dei coniugi e non ne postula quindi la
bilateralità o reciprocità; coniunctio ha un significato materialistico, onde è possibile
adoperarla per gli animali come per gli uomini, per i servi come per i liberi, per le
relazioni sessuali illecite come per quelle lecite e legali»12.
Il diritto romano ha riscontrato qualche difficoltà nell’indicare l’età dell’uomo e
della donna abili a contrarre matrimonio: si trovano, quindi, vari esempi e diversi
metodi per indicare la pubertà maschile e femminile.
Per quanto riguarda i maschi, nel suddividere la vita in determinate fasi, non si
constata dapprincipio un’età certa ad indicare il passaggio tra puer e vir: si
procedeva, infatti, tramite l’inspectio corporis, ovvero un esame fisico che accertasse,
mediante diretta constatazione, l’effettiva acquisizione dei caratteri esteriori della
maturità (habitus corporis).
Il rito di passaggio veniva celebrato nella sollemnitas togae purae: nella prima
parte, svolta tra le mura domestiche, il ragazzo deponeva gli insignia pueritate, cioè
la toga praetexta e la bulla; il giorno successivo veniva condotto nel forum ed avvolto
nella toga virilis, rappresentante la formale dichiarazione di raggiunta pubertà. Il
giovane, detto da questo momento vesticeps, acquistava la capacità giuridica di
contrarre matrimonio. Non era, perciò, stabilità un’età per assumere la toga virile, in
quanto i Romani, per accertare la pubertà, si servirono per lungo tempo dell’esame
fisico individuale13.
Da un passo di Gaio si apprende della notissima divergenza di opinione tra
Sabiniani e Proculiani: i primi erano fermi nel mantenere, come unico metodo per
l’accertamento della pubertà, l’esame corporeo; i secondi, invece, erano del parere
che si dovesse stabilire un’età, fissando questa al compimento dei quattordici anni.
12 S. SOLAZZI, «Consortium omnis vitae» in Annali della R. Università di Macerata 5, 1929, pp. 27-
37 (= Scritti cit. 3, pp. 313-320), p. 315. 13 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 420.
24
Gai 1, 196: Masculi autem cum puberes esse coeperint, tutela liberantur: puberem
autem Sabinus quidem et Cassius ceterique nostri praeceptores eum esse putant, qui
habitu corporis pubertatem ostendit, id est eum, qui generare potest; sed in his, qui
pubescere non possunt, quales sunt spadones, eam aetatem esse spectandam, cuius
aetatis puberes fiunt; sed diversae scholae auctores annis putant pubertatem
aestimandam, id est eum puberem esse existimant, qui XIIII annos explevit.
Una terza tesi riscosse grande successo tanto che, ancora nel IV sec e.v., era
radicata la convinzione che, secondo il diritto, la pubertà venisse stabilità sia dagli
anni, sia dalla maturità fisiologica, tanto per i maschi che per le femmine. A tale
riguardo le fonti presentano l’opinione di Nerazio Prisco:
Nerazio, libro 2 membranarum D. 12, 4, 8: «Quod Servius in libro de dotibus scribit,
si inter eas personas, quarum altera nondum, iustam aetatem habeat, nuptiae factae
sint»
Queste tesi vengono esposte anche da Giustiniano che, contrapponendosi e
vietando il metodo sabiniano chiamato inhonesta indagatio, dichiara l’età della
pubertà in dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini:
C. 5, 60, 3 IUST. A. MENAE PP.: Indecoram observationem in examinanda marum
pubertate resecantes iubemus: quemadmodum feminae post impletos duodecim annos
omnimodo pubescere indicantur, ita et mares post excessum quattordecim annorum
puberes existimentus, indagatione corporis inhonesta cessante. D. VIII ID. APRIL.
CONSTANTINOPOLI DECIO VC. CONS. (A 529)
Per quanto riguarda la pubertà delle ragazze, a differenza che per i maschi,
l’esame corporeo non comportava un requisito necessario per la constatazione della
pubertà: il pater familias godeva in questo caso di amplissima discrezionalità nei
riguardi della filia, per la quale la pubertà non aveva apprezzabile rilevanza, poichè
25
le donne erano escluse dalla vita pubblica14. Il paterfamilias pertanto poteva dare in
sposa la propria figlia anche se questa non aveva raggiunto la maturità sessuale per
procreare. Giova precisare che il matrimonio diventava esistente solo al
compimento dei dodici anni; prima di quel momento, non sussistevano le iustae
nuptiae, ma un’unione non legale, quale il concubinatus (v. capitolo 3).
In un secondo momento, ma non si è in grado di dire quando, si delineò il
concetto di pubertà femminile legato alla maturità fisiologica: l’innovata
impostazione era importante soprattutto riguardo al matrimonio, arrivando a
stabilire che questo fosse valido solo laddove la donna fosse divenuta viripotens,
ossia in età da marito. Successivamente si fissò a dodici anni l’inizio della
viripotenza e i dodici anni divennero l’età legale perché la donna potesse contrarre
iustae nuptiae (si parla in proposito di una sancta constitutio15).
Sembra doveroso segnalare anche l’opinione di Sorano di Efeso (II sec e.v.), il più
celebre dei ginecologi dell’antichità. Egli affermava che lo sviluppo della donna
aveva inizio, generalmente, al compimento dei quattordici anni, ma che, secondo la
sua posizione, la ragazza doveva rimanere vergine fino alla sua completa
formazione, in modo che l’organo in cui si creava la vita fosse pronto a sopportare il
concepimento. L’affermazione di Sorano è importante perché discende da studi
anatomici condivisi non solo da altri medici del suo tempo, ma anche da Macrobio,
del V sec e.v.:
Macrob., Somn. Scip., 1, 6, 70-71: Post annos autem bis septem ipsa aetatis necessitate
pubescit. Tunc enim moveri incipit vis generationis in masculis et purgatio feminarum:
ideo et tutela puerili quasi virili iam robur absolvitur: de qua tamen feminae propter
votorum festinationem maturis biennio legibus liberantur.
Macrobio spiega che i quattordici anni costituiscono l’età minima per contrarre
14 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 435. 15 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 736.
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matrimonio, perché nei maschi «cominciano a destarsi la forza generatrice» e nelle
femmine iniziano le mestruazioni. Questi però per giustificare che le donne, anche
secondo diritto, possono andare in sposa due anni prima degli uomini, è costretto a
dare una spiegazione che sottolinea il carattere maschilista della mentalità romana16:
le ragazze avrebbero sentito prima dei ragazzi l’esigenza e la spinta dei desideri
carnali, “propter votorum festinationem”, e quindi l’urgenza di sposarsi.
Il requisito dell’età puberale è scriminante nel considerare iniustae nuptiae le
unioni coniugali con donne di età inferiore ai dodici anni:
Pomponio, libro 3 ad Sabinum D. 23, 2, 4: «Minorem annis duodecim nuptam tunc
legitimam uxorem fore, cum apud virum explesset duodecim annos»
Il rapporto coniugale giuridicamente inesistente e privo di effetti perché contratto
con donna senza l’età minima consentita, diveniva ipso iure matrimonio legittimo al
sorgere del requisito, ovvero il compimento dei dodici anni.
Come affermato in un altro passo del Digesto (D. 48, 5, 13, 18) alla donna
impubere, che non poteva quindi essere unita in matrimonio legittimo, anche
qualora avesse avuto relazioni sessuali con uomini prima del compimento dei
dodici anni, non si potrà muovere l’accusatio adulterii iure mariti, nemmeno quando
successivamente, per il complimento dei dodici anni, l’unione coniugale fosse
divenuta legittima.
Citando ancora il Digesto (D. 14, 1, 65 e 36, 2, 30) nel caso di unioni coniugali non
legittime, la donazione fatta dall’uomo alla donna è ritenuta valida, mentre le
donazioni tra coniugi in un legitimum matrimonium sono illegittime, e la condizione
apposta al legato quandoque nupserit non si considera verificata prima che la donna
compia dodici anni17.
16 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 428. 17 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 737.
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Lo scopo procreativo del matrimonio romano era però sentito solo dal punto di
vista sociale, come naturale scopo di unione tra uomo e donna, mentre non era un
elemento necessario nella componente giuridica del negozio. Diversamente da
quanto attestano altri diritti antichi, non sembra che il diritto classico abbia escluso
che eunuchi o incapaci a generare potessero porre in essere un valido matrimonio
legittimo.
4. Consensus. Auctoritas
Il ruolo del consenso a contrarre matrimonio è forse la differenza più marcata tra
la concezione di matrimonio romano classico e quello moderno, che ricalca gli
elementi costitutivi del matrimonio romano tardo-antico e canonico.
La citazione dei Tituli ex corpore Ulpiani è utile per fare un distinguo tra nubendi
sui iuris, dove il consenso è prestato esclusivamente dai futuri coniugi, e alieni iuris o
in potestate, dove il consenso, perché sia validamente espresso, deve essere integrato
dall’auctoritas dei rispettivi patres familias:
Titolo ex corpore Ulpiani 5, 2: Et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam
parentes eorum, si in potestate sunt.
In analogia al passo sopra menzionato, è un frammento di Paolo inserito nel
Digesto:
Paolo, libro 35 ad Sabinum D. 23, 2, 2: Nuptiae consistere non possunt nisi
consentiant omnes, id est qui coeunt, quorumve in potestate sunt.
Lo stesso verbo consentire assume nei due specifici versi valenze diverse: mentre
nel passo di Paolo il consenso degli sposi indica la volontà di considerarsi
reciprocamente marito e moglie, nel passo del Tituli ex corpore Ulpiani indica la
prestazione dell’auctoritas, l’approvazione al matrimonio di chi esercita la patria
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potestas. Mentre nel primo caso il consenso crea il matrimonio, nel secondo è
necessario affinché lo stesso produca effetti giuridici, sia cioè un matrimonium iure
contractum18.
Consensus come auctoritas. I due passi citati non lasciano dubbi sul fatto che al
consenso dei coniugi deve interporsi anche l’auctoritas del paterfamilias. Questo è
evidente citando le Institutiones dove si afferma che al matrimonio dei filiifamilias:
Inst. 1, 10: […] nam hoc fieri debere et civilis et naturalis ratio suadet in tantum ut
iussum parentis praecedere debeat. […].
L’auctoritas consiste in una manifestazione di volontà iniziale del paterfamilias,
precedente la formazione del matrimonio, che ha come scopo l’integrazione del
consenso dei nubendi al porre in essere un vincolo coniugale.
La natura di questo consenso è ricavabile da altre fonti, provenienti sempre dal
Digesto, ovvero Paolo:
Paolo, libro 35 ad Sabinum D. 23, 2, 16, 1: Nepote uxorem ducente et filius consentire
debet: neptis vero si nubat, voluntas et auctoritas avi sufficiet;
e Ulpiano:
Ulpiano, libro 26 ad Sabinum D. 23, 2, 9 pr.: Si nepos uxorem velit ducere avo
furente, omnimodo patris auctoritas erit necessaria: sed si pater furit, avus sapiat,
sufficit avi voluntas.
I passi sopra citati affermano l’esigenza che, accanto al consenso dell’avo, fosse
manifestato anche il consenso del morte avi, di colui che cioè avrebbe acquistato la
patria potestas sul filiusfamilias una volta morto lo stipite comune, in modo da evitare
che nascessero eredi sgraditi al genitore naturale.
18 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 456.
29
Non vi sono fonti per indicare quale fosse la modalità con cui l’auctoritas fosse
manifestata nel periodo classico, anzi la disciplina sul matrimonio non prescrive
alcun tipo di forma. La terminologia usata dai giuristi del II-III sec. e.v., soprattutto
in auctoritas, iussum, consensus, voluntas, evidenziano un’evoluzione dell’istituto.
Probabilmente in origine l’auctoritas era manifestata in forma solenne, per poi cadere
in desuetudine ed indicare una semplice autorizzazione alle nozze19.
La volontà del paterfamilias di acconsentire al matrimonio era elemento necessario
ed indispensabile in quanto conferiva all’affectio maritalis dei filiifamilias quel valore
giuridico per porre in essere un rapporto coniugale che avesse gli effetti giuridici
delle iustae nuptiae. Un altro passo delle Pauli Sententiae sancisce chiaramente
quanto affermato:
Pauli Sent. 2, 19, 2: Eorum qui in potestate patris sunt, sine voluntate eius matrimonia
iure non contrahuntur, sed contracta non solvuntur.
Senza il consenso del paterfamilias, il matrimonio dei filiifamilias non esisteva dal
punto di vista del diritto; una volta, però, che la volontà del paterfamilias era stata
manifestata, il vincolo coniugale fra i coniugi non poteva più mutare. Di
conseguenza, la persistenza del matrimonio legittimo non sarebbe dipesa dalla
persistenza dalla volontà del paterfamilias, manifestata incidenter tantum, bensì dalla
volontà effettiva e continua dei coniugi a mantenere in vita il rapporto coniugale,
requisito del matrimonio sui iuris. La voluntas del pater, cioè, non poteva sostituirsi
all’affectio maritalis. Si può escludere che il paterfamilias potesse sciogliere il
matrimonio della filiafamilias a suo mero arbitrio.
Vi sono, invece, fonti contrastanti sul potere del pater di costituire a piacimento il
matrimonio del filius o della filiafamilias. Da una parte nel frammento di Terenzio
Clemente:
19 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 745.
30
Clemente, libro 3 ad legem Iuliam et Papiam D. 23, 2, 21: Non cogitur filius familias
uxorem ducere.
e nella costituzione di Diocleziano si afferma che nessuno poteva essere costretto a
contrarre matrimonio:
C. 5, 4, 14 IMPP. DIOCLETIANUS ET MAXIMIANUS AA. ET CC. TITIO: Neque
ab initio matrimonium contrahere neque dissociatum reconciliare quisquam cogi potest
unde intellegis liberam facultatem contrahendi atque distrahendi matrimonii transferri
ad necessitatem non oportere.
Dall’altra in un passo di Celso:
Celso, libro 15 digestorum D. 23, 2, 22: Si patre cogente ducit uxorem, quam non
duceret, si sui arbitrii esset, contraxit tamen matrimonium, quod inter invitos non
contrahitur: maluisse hoc videtur.
Si configura la legittimità del matrimonio contratto dal figlio dietro costrizione
del padre. Il giurista, infatti, sembra affermare che il filiusfamilias, costretto
inizialmente a contrarre matrimonio per l’interposizione dell’auctoritas paterna,
abbia manifestato tacitamente la sua volontà di restare sposato non avendo questi
esercitato il divorzio. Il matrimonio romano per poter esistere necessitava di un
consenso perdurante dei coniugi: una volta che entrambi, o più frequentemente uno
dei due, non volesse più restare legato all’altro come marito o moglie di questo,
automaticamente il matrimonio veniva meno. La costrizione subita dal figlio nel
contrarre un matrimonio a lui non gradito, sembra per Celso del tutto ininfluente
perché il figlio stesso, se avesse voluto e terminata la minaccia iniziale, avrebbe
potuto esercitare il suo libero arbitrio, negare il proprio consenso ed estinguere il
negozio matrimoniale tramite il divorzio. L’imposizione paterna pertanto non
poteva che avere un effetto temporaneo.
Il potere del paterfamilias poteva forse esplicarsi nel negare l’auctoritas al filius che
31
avesse intenzione di contrarre matrimonio; nelle fonti, però, si prendono in esame
casi in cui l’autorità stessa era intervenuta per costringere il pater a dare il suo
assenso o darlo in sua vece: quando il paterfamilias si era rifiutato di costituire la dote
alle filiae familias; quando si era rifiutato a prestare l’assenso senza motivi plausibili;
quando per le sue condizioni non poteva dissentire; quando era demens o furiosus;
quando era prigioniero di guerra o assente.
5. (Segue) Affectio maritalis
Consensus come affectio maritalis. Come già precedentemente accennato, perché il
matrimonio romano classico esista, è necessario il consenso perdurante dei coniugi.
La volontà effettiva e continua di essere uniti in un rapporto coniugale e l’intenzione
di considerarsi reciprocamente marito e moglie si può intendere in diritto romano
con la locuzione affectio maritalis. Fino a che permaneva l’affectio maritalis tra i due
sposi, l’unione coniugale era considerata iustae nuptiae; qualora la volontà di essere
uniti in matrimonio cessava in uno dei due contraenti o in entrambi, cessava
giuridicamente e in modo automatico anche il matrimonio. Come il matrimonio
riconosceva una situazione di fatto per cui due persone si consideravano
vicendevolmente sposate, così il divorzio riconosceva la situazione di fatto che il
vincolo coniugale era sciolto.
L’istituto matrimoniale romano era diretto alla costituzione di una società
domestica volta alla procreazione e all’educazione dei figli, come astrazione
giuridica della realtà naturale. Secondo molte fonti, ciò che caratterizza il
matrimonio, rispetto ad altre unioni coniugali che non godevano di riconoscimento
e tutele giuridiche nell’ordinamento romano, era precisamente la procreandorum
liberorum causa. Lo scopo procreativo era visto socialmente come la causa principale
per l’instaurazione del matrimonio: il diritto romano non aveva interesse a
riconoscere altre unioni che non avessero il medesimo scopo, pertanto unioni
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occasionali o temporanee non avevano ragione di esistere giuridicamente.
Cicerone espone chiaramente la mentalità del tempo, inquadrando il matrimonio
come strumento di legame sociale e contenitore di valori morali e norme etiche:
Cic., De Off. 1, 54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant
libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una
domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei
publicae.
Dal momento che tutti gli esseri viventi tendono per naturale istinto alla
procreazione, l’oratore afferma che la prima forma di società si attua
nell’accoppiamento sessuale; la seconda, invece, si attua nella prole, arrivando di
conseguenza a considerare il matrimonio il semenzaio (seminarium) dello Stato.
L’argomentazione di Cicerone rispecchia in parte la concezione del matrimonio
moderno quale nucleo fondante della società: nel de officiis vengono presentate le
idee della dottrina stoica del greco Panezio, anche se la sovrastruttura proposta
nell’opera filosofica dell’estratto non era certamente recepita dall’ordinamento
romano.
Il porre in essere un’unione sottoposta a condizione o termine finale non era
considerata matrimonio legittimo secondo il diritto romano: a seconda dei casi si
configurava un adulterium, quando uomo o donna, ancora uniti in matrimonio,
avevano una relazione con terzi, oppure stuprum, nel caso di una unione
temporanea fra persone non unite in matrimonio con terzi. Affermare, però, che la
volontà coniugale era diretta alla costituzione di un’unione per tutta la durata
dell’esistenza dei coniugi non significa che il matrimonio romano fosse indissolubile
e perpetuo: la volontà di entrambi i coniugi era diretta alla produzione di
determinati effetti giuridici che derivavano dalle iustae nuptiae, ma l’unione
produceva tali effetti fino a che questa volontà fosse persistente.
Se la procreazione era lo scopo etico del matrimonio, tale finalità non era però
33
sentita dal diritto: sono numerose le fonti che attestano il principio del consenso
quale unico elemento costitutivo del matrimonio. Non era infatti necessario che il
matrimonio venisse consumato perché questo avesse esistenza giuridica. Il concetto
è chiaramente riportato da Ulpiano:
Ulpiano, libro 35 ad Sabinum D. 35, 1, 15: […] Nuptia enim non concubitus sed
consensus facit.
La consumazione del matrimonio non era quindi una prova per stabilire
l’esistenza o meno del matrimonio legittimo; tuttalpiù poteva costituire un valido
motivo di scioglimento dello stesso.
Ne è un esempio la cosiddetta Laudatio Turiae, celebre monumento funebre
databile tra l’8 e il 2 p.e.v. Il marito, rimasto vedovo, nel lodare la defunta moglie
attribuendole tutte le virtù muliebri proprie di una matrona romana (v. paragrafo
6), afferma che il loro unico dispiacere fu nella mancanza di figli, a lungo desiderati,
a causa della sterilità di lei. Sebbene il motivo potesse da solo giustificare il ripudio
della donna, il marito non intende rinunciare alla felicità coniugale che pone al di
sopra della necessità di assicurarsi una discendenza: «potevo forse io avere un
desiderio, una necessità così forte d’avere figli da deporre per questo la fede
coniugale e cambiare il certo per l’incerto? A che dilungarmi? Rimanesti al mio
fianco. Mai avrei potuto assecondarti senza mancare al mio onore, senza fare la mia
infelicià e la tua».
Laud. Tur. 2, 44-47: Quae tanta mihi fuerit cupiditas aut necessitas habendi liberos, ut
propterea fidem exuerem, mutarem certa dubiis? Sed quid plura? Permansisti apud me;
neque enim cedere tibi sine dedecore meo et communi infelicitate poteram.
Ripudiare una moglie esemplare come Turia, pur se sterile, lo avrebbe fatto
sicuramente incorrere nel biasimo dei suoi concittadini; «la frase certa dubiis,
cambiare il certo per l’incerto, fa pensare che il marito, oltre ad essere
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particolarmente legato alla moglie, fosse poco incline alle novità e non volesse
correre rischi con una sconosciuta che, in definitiva, doveva fungere da
generatrice»20. Da notare che in questo caso l’adozione non sia presa in
considerazione come mezzo idoneo per ovviare alla mancanza di figli.
Gellio, citando un passaggio del de dotibus di Servio Suplicio Rufo, narra di
Spurio Carvilio che, avendo giurando di aver preso moglie liberorum quaerendorum
causa ed avendo successivamente constatato la sterilità della stessa, ripudiò la donna
che pure amava moltissimo.
Gell., Ruf. 4, 3, 2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse
carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque
amori praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum
quaerundum gratia habiturum.
La testatio di fronte al censore, cioè il giuramento di contrarre matrimonio per
costituire una società domestica, non aveva valore giuridico e non era un atto
costitutivo del matrimonio, ma la costituzione di un’unione duratura era dimostrata
anticamente soprattutto con l’intenzione di avere dei figli proprio legittimi.
L’effettiva esistenza della volontà coniugale poteva essere provata con qualsiasi
mezzo, ma non erano previste forme speciali. Da un passo di Quintiliano si ricava
che anche le redazione delle tabulae nuptiales non costituiva fondamento del
matrimonio:
Quint., Decl., 12, 22: Nuptiae in aliis sint sane necessaria, quamquam ne id quidem
utique ius exigit, causam tamen nuptiae in domo hanc habent ostendendae voluntatis.
Le tabulae nuptiales costituivano una delle prove per l’esistenza del matrimonio,
20 C. FAYER, Concubinato cit., p. 104.
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ma non costituivano una prova legale e non si poteva desumere l’esistenza delle
iustae nuptiae esclusivamente dalla redazione di queste. Lo stesso principio viene
ricordato qualche secolo dopo da una costituzione dell’imperatore Probo:
C. 5, 4, 9 IMP. PROBUS A. FORTUNATO.: Si vicinis vel aliis scientibus uxorem
liberorum procreandorum causa domi habuisti et ex eo matrimonio filia suscepta est,
quamvis neque nuptiales tabuale neque ad natam filiam pertinentes factae sunt, non
ideo minus veritas matrimonii aut susceptae filiae suam habet potestatem.
Come si evince dal contenuto, non viene richiesto alcun atto formale per la
produzione degli effetti giuridici propri del matrimonio legittimo: nel caso in
questione la patria potestas nei confronti della figlia viene riconosciuta come effetto
giuridico automatico dell’affectio maritalis. L’incipit della pronuncia imperiale
evidenzia che, ai fini dell’instaurazione delle iustae nuptiae, era bastevole il
riconoscimento dell’unione matrimoniale da parte dei vicini di casa e altri
conoscenti: il comportamento pubblico dell’uomo e della donna nei confronti di
terzi qualificava la loro unione come matrimonio legittimo. Qualora infatti non
siano redatte le tabulae nuptiales nemmeno in occasione della nascita dei figli, il
matrimonio è valido e produce gli effetti giuridici ad esso collegati quando due
soggetti, in possesso degli altri requisiti di età e conubium, sono conviventi e si
comportano come marito e moglie pubblicamente.
L’espressione latina con cui si può definire il contegno esteriore fra sposi è l’honor
maritalis. Esso si concretizza nella reverentia tra i due soggetti coniugati, nel rispetto e
considerazione sociale e, non ultimo, nella partecipazione della donna al rango e
alla dignità sociale del marito. Alcuni esempi concreti della reverentia matrimoniale
si possono riscontrare nell’impossibilità di intentare azioni penali ed infamanti;
nell’impossibilità di citare in giudizio il coniuge senza il permesso del magistrato;
nell’impossibilità di farsi reciproche donazioni; nella dispensa dal far testimonianza
l’uno contro l’altro; o ancora nella impossibilità da parte del patrono di chiedere
opere alla liberta sposata.
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L’honor matrimonii è dunque la manifestazione dell’affectio maritalis e garanzia
della continuità nella stessa: un matrimonio privo di questa qualità era impensabile
per il diritto romano. Con una felice espressione, Nerazio Prisco lo definisce habitus
matrimonii (D. 12, 4, 8).
La partecipazione della donna al rango sociale del marito era tanto connaturata
alla struttura del matrimonio che senza di essa mancava l’honor matrimonii e di
conseguenza l’unione coniugale non era più iustae nuptiae, ma concubinato. La
donna, divenuta moglie, poteva acquistare una dignità superiore a quella originaria,
come attestato da Ulpiano:
Ulpiano, libro 62 ad edictum D. 1, 9, 1, 1 : Consulares autem feminas dicimus
consularium uxores.
Ulpiano, libro 6 fideicommissorum D. 1, 9, 8: Feminae nuptae clarissimis personis
clarissimarum personarum appellatione continentur.
Contrariamente, se di rango più elevato del marito, scendeva al rango sociale di
questi. Il matrimonio poteva quindi comportare un vantaggio o svantaggio sociale, a
seconda delle rispettive dignità dei coniugi. Paolo infatti attesta:
Pauli Sent., Fragm. Vat., 104: […] dignitatem mulierum ex honore matrimonii et
augeri et minui solere.
Per comprendere quanto l’honor matrimonii fosse elemento indispensabile alla
configurazione delle iustae nuptiae, si può fare riferimento ad un enunciato di
Ulpiano:
Ulpiano, libro 32 ad Sabinum D. 24, 1, 32, 13: Si mulier et maritus diu seorsum
quidem habitaverint, sed honorem invicem matrimonii habebant (quod scimus interdum
et inter consulares personas subsecutum), puto donationes non valere, quasi duraverint
nuptiae: non enim coitus matrimonium facit, sed maritalis affectio.
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La questione era relativa alla validità o meno di una donazione tra uomo e donna
che da lungo tempo non convivevano assieme. Era importante stabilire se al
momento della donazione il matrimonio legittimo fosse ancora esistente o se la
situazione di fatto configurasse un’unione coniugale diversa. L’insigne giurista del
III sec. desume la persistenza dell’affectio maritalis dal fatto che la donna era ancora
partecipe del rango e della condizione sociale del marito al momento della
donazione.
Al pari del matrimonio moderno, anche quello romano era solenne celebrazione
pubblica e momento di festa per i protagonisti, i familiari e gli amici di questi. Le
nozze prevedevano rituali e tradizioni, parte dei quali sono ravvisabili anche negli
usi delle nozze moderne. La deductio in domum mariti, qualificata come rito religioso
e sociale allo stesso tempo, era senz’altro la manifestazione più importante
dell’esistenza di un rapporto matrimoniale.
La cerimonia iniziava con una cena nuptialis nella casa del padre della sposa; al
calar delle tenebre gli invitati si alzavano e, dopo un simulato rapimento della sposa
dalle braccia della madre, aveva inizio la processione verso la casa del futuro
marito. Il corteo (pompa) a cui non partecipava il marito, composto da familiari ed
amici, ma molto spesso anche da una nutrita schiera di estranei, si snodava festante
con fiaccole tra le vie della città, unendo felicitazioni nei confronti dei novelli sposi a
canti licenziosi (famoso quello in onore di Hymenaeus), allusioni maliziose per non
dire oscene ed inneggiamenti alla virilità del marito. La sposa era accompagnata da
tre fanciulli, due dei quali la tenevano per mano, mentre il terzo reggeva la torcia
nuziale di biancospino, accesa nel focolare della casa paterna, che avrebbe difeso la
sposa da malocchio e altre stregonerie.
Arrivati a casa dello sposo, contesa la fiaccola che secondo alcune fonti garantiva
lunga vita, avvenuto il nuces dare, rituale dove lo sposo spargeva noci in segno di
fecondità o addio all’infanzia, la sposa ungeva con olio e lardo gli stipiti della nuova
dimora e li ornava con nastri di lana. A questo punto, dopo uno scambio rituale di
40
domande e risposte tra i due sposi, gli accompagnatori sollevavano la sposa per
portarla al di là della soglia: si doveva assolutamente evitare la pedis offensio, perché
se la sposa fosse inciampata sarebbe stato di cattivo auspicio. Nel varcare la soglia la
deductio in domum giungeva al termine, ma le nozze prevedevano ancora altri tipi di
rituali da compiersi21.
Per quanto questa cerimonia fosse complessa, non era necessaria ai fini del
riconoscimento giuridico delle iustae nuptiae: la deductio in domum è senza dubbio
uno degli indizi grazie al quale si può stabilire l’esistenza del matrimonio legittimo,
ma non ne è affatto un elemento costitutivo. Per usare le parole del Bonfante: «se
[…] celebrazione solenne v’è stata, nessun dubbio sull’esistenza del matrimonio; ma
una cosiffatta celebrazione giova come prova, non è forma legale»22. Del resto non vi
sarebbero numerose quaestiones, alcune delle quali precedentemente presentate,
sulla legittimità o meno del matrimonio e sull’inizio dello stesso, se la deductio in
domum costituisse elemento necessario.
Infatti, l’affectio maritalis poteva precedere la deductio in domum: in tal caso, il
matrimonio legittimo nasceva prima della celebrazione pubblica, con tutte le
conseguenze giuridiche collegate alla sua nascita. Un responso del giurista Scevola
chiarisce in modo netto la questione:
Scevola, libro 9 digestorum D. 24, 1, 66 pr.: Seia Sempronio cum certa die nuptura
esset, antequam domum deduceretur tabulaeque dotis signarentur, donavit tot ‘aureos’:
quaero, an ea donatio rara sit, non attinuisse tempus, an antequam domum
deduceretur, donatio facta esset, aut tabularum consignataram, quae plerumque et post
contractum matrimonium fierent, in quaerendo exprimi: itaque nisi ante matrimonium
contractum, quod consensu intellegitur, donatio facta esset, non valere.
Il giurista afferma che non giova soffermarsi se la donazione di Seia nei confronti
21 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 512-537. 22 P. BONFANTE, Corso di diritto romano. Diritto di famiglia, 1, 1963, p. 257.
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di Sempronio sia prestata prima che fosse condotta a casa del secondo o prima che
fossero redatte le tabulae nuptialis: la donazione ha valore solo se precendente il
sorgere del matrimonio, o meglio il sorgere dell’affectio maritalis.
Non mancano casi in cui la deductio in domum fosse del tutto assente come attesta
Pomponio:
Pomponio, libro 3 ad Sabinum D. 23, 2, 4: Minorem annis duodecim nuptam tunc
legitimam uxorem fore, cum apud virum explesset duodecim annos
nel caso, cioè, fosse già in atto una convivenza non riconosciuta dal diritto iustae
nuptiae, perché la donna non aveva ancora compiuto l’età legale, il matrimonio
sorge ipso iure al compimento dei dodici anni e la donna, prima concubina,
diventava di conseguenza legitima uxor.
Una regola contenuta nelle sentenze di Paolo afferma che l’assenza dell’uomo
non impedisce la deductio in domum, mentre non era possibile effettuare la
celebrazione senza la donna:
Pauli Sent. 2, 19, 8: Vir absens uxorem ducere potest: femina absens nubere non potest.
Nel Digesto si ravvisa che per il diritto romano era consentito anche il
matrimonio tra assenti:
Pomponio, libro 4 ad Sabinum D. 23, 2, 5: Mulierem absenti per litteras eius vel per
nuntium posse nubere placet, si in domum eius deduceretur: eam vero quae abesset ex
litteris vel nuntio suo duci a marito non posse, deductione enim opus esse in mariti, non
in uxoris domum, quasi in domicilium matrimonii.
La questione non è di poco conto perché il matrimonio contratto tra persone fra
loro lontane era valido e legittimo se l’affectio maritalis fosse determinabile da
dichiarazioni scritte o orali, anche attraverso rappresentanti, o dalla redazione di
documenti nuziali. Qualora mancassero gli accertamenti per determinare l’inizio
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della reciproca volontà di essere uniti in matrimonio, i giuristi non potevano far
altro che basarsi su fatti da cui desumersi con sicurezza le intenzioni dei coniugi.
Uno dei fatti era la deductio in domum mariti attraverso cui la donna manifestava
l’intenzione, prima solo supposta, di fare pubblico ingresso nella casa del marito
quasi domicilium matrimonii, iniziando così la partecipazione al rango e alla dignità
sociale di costui. Parallelamente l’uomo, magari ancora assente, accettava in modo
solenne che la propria casa sarebbe diventata l’abitazione comune per la
costituzione della società domestica propria del matrimonio23.
Le fonti giuridiche e letterarie forniscono vari esempi dai quali si desumeva la
volontà coniugale di contrarre legittimo matrimonio. La testatio di fronte al censore
di convivere con una donna liberorum procreandorum causa, le tabulae nuptialis, l’honor
maritalis e la deductio in domum sono meri indizi attraverso cui i coniugi
esplicitavano la convinzione di considerarsi vicendevolmente marito e moglie.
A differenza dell’istituto matrimoniale moderno, quello romano classico non
prevedeva determinate forme costitutive, né forme attraverso le quali debba
esprimersi la volontà dei coniugi, né elementi necessari all’esistenza del
matrimonio: i giuristi deducono la costituzione delle iustae nuptiae da fatti e
comportamenti propri dei coniugi, che determinano l’esistenza e la persistenza
dell’affectio maritalis.
6. Cessazione del matrimonio
Il matrimonio romano, essendo il riconoscimento di una situazione di fatto, si
configurava automaticamente qualora sussistessero determinati requisiti. A
differenza dell’ordinamento moderno, il diritto romano classico non disponeva
quali atti formali dovessero essere compiuti inizialmente per far sorgere un
23 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 742.
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matrimonio legittimo, ma determinava esclusivamente gli elementi che fossero
richiesti perché il matrimonium legitimum venisse ad esistenza. Ai giuristi romani
classici non si presentavano, infatti, questioni relative alla nullità o annullabilità del
vincolo coniugale, ma determinavano in senso positivo se un certo tipo di unione
coniugale avesse i requisiti o meno per configurarsi iustae nuptiae e producesse o
meno gli effetti giuridici ad essa collegati.
Da questa impostazione, come già precedentemente accennato, un rapporto
coniugale, mancante in quel preciso momento di uno dei requisiti di legittimità
matrimoniale, acquistava ipso iure la qualifica giuridica di iustae nuptiae per il fatto
stesso che il requisito mancante fosse sorto in un secondo tempo; al contrario, un
matrimonium legitimum perdeva gli effetti giuridici e si configurava come rapporto
coniugale di fatto per il venir meno di uno dei requisiti necessari. Conubium, età,
affectio maritalis e, nel caso uno dei contraenti fosse alieni iuris anche l’auctoritas,
erano i requisiti di esistenza del matrimonio: in mancanza anche solo di uno di
questi, l’ordinamento romano non considerava esistente e degno di riconoscimento
giuridico altri tipi di rapporto coniugale, che pure nella realtà sussistevano.
Da un passo di Paolo si ravvisa che il matrimonio poteva sciogliersi a causa di
divorzio, morte, prigionia o altra ipotesi di schiavitù di uno dei due coniugi:
Paolo, libro 35 ad edictum D. 24, 2, 1: Dirimitur matrimonium divortio morte
captivitate vel alia contingente servitute utrius eorum.
Un passo di Pomponio espone la questione del postliminium:
Pomponio, libro 3 ad Sabinum D. 49, 15, 14, 1: Non ut pater filium, ita uxorem
maritus iure postliminii recipit: sed consensus redintegratur matrimonium.
Il giurista afferma che non è possibile porre sullo stesso piano il postliminium del
pater con quello del marito: mentre il primo, salvatosi dalla prigionia, riacquista ipso
iure la patria potestas nei confronti del figlio, il coniuge captivus, considerato
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giuridicamente schiavo ed avendo perso il conubium, non ripristina in modo
automatico il proprio matrimonium legitimum. In questo caso, per stabilire se il
matrimonio si è ristabilito o meno, si dovrà accertare nuovamente la volontà dei
coniugi di considerarsi reciprocamente uniti in iustae nuptiae.
Altri casi di scioglimento o inesistenza matrimoniale si possono ravvisare nella
mancanza dell’età legale (della quale si è già menzionato al paragrafo 2), nei legami
con donne provinciali, nell’unione tra senatori e libertini e in casi particolari di
adozione.
In una decisione di Paolo viene esposto il caso di un’unione coniugale tra la
donna provinciale e il funzionario imperiale esercitante l’ufficio nei medesimi
territori:
Paolo, libro 7 responsorum D. 23, 2, 65, 1: Idem eodem. Respondit, mihi placere, etsi
contra mandata contractum sit matrimonium in provincia, tamen post depositum
officium, si in eadem voluntate perseverat, iustas nupias effici: et ideo postea liberos
natos ex iusto matimonio legitimos esse.
Se il funzionario provinciale, andando contro il divieto di disposizioni imperiali che
impedivano il conubium, avesse contratto un’unione coniugale con oriunda o donna
domiciliata nella provincia, il rapporto sorto non poteva avere valore di matrimonio
legittimo, sino a che il funzionario avesse gerito l’incarico. Se però, deposta o cessata
la carica e ripristinato di conseguenza il conubium, permaneva tra i due soggetti il
consenso reciproco di aver instaurato un’unione coniugale, allora ipso iure, senza
alcun tipo di formalità, la loro unione diventava matrimonio legittimo.
Per quanto riguarda l’inesistenza coniugale tra gli appartenenti al rango
senatorio e i libertini, si può richiamare un’altra sentenza di Paolo:
Paolo, libro 35 ad edictum D. 23, 2, 16 pr.: Oratione divi Marci cavetur, ut, si
senatoris filia libertino nupsisset, nec nuptiae essent: quam et senatus consultum
secutum est.
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Il divieto del senatoconsulto toglie il conubium alle persone aventi le rispettive
dignità sociali di senatore e liberto; pertanto, qualora vi fossero unioni contratte in
violazione della legge, tali unioni non avrebbero beneficiato della qualifica di iustae
nuptiae. Sulla stessa riga è una costituzione di Giustiniano che, citando la lex Papia
Poppaea, comportava la cessazione immediata del matrimonio legittimo tra libero e
liberta, una volta che il marito fosse stato nominato senatore:
C. 5, 4, 28 IUST. A. IOHANNI PP.: pr. Si libertam quis uxorem habeat, deinde inter
senatores scribatur dignitate illustratus, an solvatur matrimonium, apud Ulpianum
quaerebatur, quia lex Papia inter senatores et libertas stare conubia non patitur. (A 531
VEL 532)
Il Volterra chiarisce che l’inusuale dicitura stare conubia non patitur deriva dal fatto
che in epoca tardo-antica il termine conubium, che Ulpiano usa nell’originale
significato di capacità matrimoniale, viene riproposto come sinonimo di
matrimonio. La valenza di conubium del periodo post-classico verrà esposta in
seguito nella trattazione del matrimonio sotto l’influenza cristiana24.
Per quanto riguarda l’ultimo punto, l’adozione poteva far cessare ipso iure il
conubium, e quindi il legittimo matrimonio, se il suocero adottava il genero o se il
curatore del marito adottava la donna sottoposta a curatela. Il vincolo creato
dall’adozione viene considerato come un fatto che toglie il conubium fra i coniugi,
che siano figli legittimi e adottivi dell’adottante.
Nelle fonti Trifonino afferma:
Trifonino, libro 9 disputationum D. 23, 2, 67, 3: Sed videamus, si Titius filius duxerit
uxorem eam, quae tua pupilla fuit, deinde Titium vel filium eius adoptaveris, an
peremuntur nuptiae (ut in genero adoptato dictum est) an adoptio impeditur? Quod
magis dicendum est et si curator, dum gerit curam, adoptaverit maritum eius puellae,
24 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 752.
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cuis curator est. Nam finita iam tutela et nupta puella alii vereor, ne longum sit
adoptionem mariti eius impedire, quasi propter hoc interponatur, ut ratio tutelae
reddendae cohibeatur, quam causam prohibitionis nuptiarum contrahendarum oratio
divi Marci continent.
Ancora, la costituzione di Caracalla del 215, che richiama il senatoconsulto emanato
sotto Marco Aurelio sopra citato, rendeva nullo il matrimonio tra pupilla e il figlio
del tutore:
C. 5, 6, 1 SEVERUS ET ANTONINUS AA. MARIO. Senatus consulti auctoritatem,
quo inter pupillam et tutoris filium conubium saluberrime sublatum est. PP. VII ID.
FEBR. LAETO II ET CEREALE CONSS. (A 215).
Trifonino, nel rispondere alla domanda an peremuntur nuptiae, è esplicito
nell’affermare il mutamento dell’unione coniugale che prima era considerata
legittimo matrimonio e ora diviene inesistente dal punto di vista giuridico.
Oltre ai casi di morte, mancanza di conubium o età, la causa tipica di scioglimento
era il divorzio. La stessa etimologia del termine, divortere forma arcaica di divertere
cioè andare per strade separate, indicava il venir meno della volontà dei coniugi.
Paolo afferma che è assurdo un matrimonio stia saldo solo per mezzo di una penale
minacciata e non per libera disposizione d’animo:
Paolo, libro 15 responsorum D. 45, 1, 134: Inhonestum visum est vinculo poenae
matrimonia obstringi sive futura sive iam contracta.
Come per la costituzione del matrimonio non era necessario manifestare
pubblicamente il consenso iniziale, così nel divorzio non era necessaria alcuna
dichiarazione diretta alla cessazione delle iustae nuptiae: bastava una qualsivoglia
manifestazione, anche tacita, dalla quale risultasse il venir meno dell’affectio
maritalis, a far cessare il matrimonio legittimo, prima di allora esistente e produttivo
di effetti giuridici. Le espressioni più ricorrenti nelle fonti menzionano termini quali
47
divortium facere, repudium mittere, nuntiare, dicere, scribere: la mancanza di consenso
poteva essere manifestata in qualsivoglia forma.
La valenza moderna delle parole «ripudio», la manifestazione unilaterale del
marito che si separa dalla moglie, e del «divorzio», intesa in senso generico come
separazione dei coniugi anche consensuale, non è riscontrata nel diritto romano.
Non regge nemmeno la qualificazione di repudium come atto o causa con cui si
manifesta lo scioglimento del matrimonio e divortium come effetto o fine della
cessazione della volontà coniugale. Nelle fonti i due termini vengono usati per lo
più come sinonimi25.
Cicerone, nell’ironizzare con sarcasmo sulla cessazione del rapporto tra Marco
Antonio e la sua amante come se si trattasse di un vero e proprio divorzio, cita
parole e gesti simbolici presenti nelle XII Tavole
Cic, Phil., 2, 69: Illam suam res sibi habere iussit ex duodecim tabulis claves ademit
exegit.
Il farsi riconsegnare le chiavi e lo scacciare la moglie di casa, anche tramite un
nuntius repudiis, in genere il liberto del marito, erano evidenti manifestazioni che
l’affectio maritalis fosse giunta al termine.
Per quanto non fosse richiesta alcuna formalità, nelle fonti si trovano formule
ricorrenti usate dal coniuge, prevalentemente il marito, per divorziare dall’altro.
Gaio testimonia che tali formule erano conformi agli usi:
Gaio, libro 11 ad edictum provinciale D. 24, 2, 2, 1: In repudiis autem, ‘id est
renuntiatione’ comprobata sunt haec verba: ‘tuas res tibi habeto’, item haec: ‘tuas res
tibi agito’.
25 C. FAYER, La Famiglia Romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Concubinato. Divorzio. Adulterio,
Parte terza, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005, p. 60.
48
Il marito divorziante permetteva alla moglie di portar via le proprie cose, consistenti
in oggetti personali, vesti, gioielli anche donati dal marito se questi lo permetteva, e
utensili casalinghi. Altre formule che indicano l’espulsione della donna dalla casa
maritale sono «i foras» oppure «vade foras»26. Più tardo, invece, è l’uso della
dichiarazione scritta di divorzio, chiamato libellus divortii.
Che fossero soprattutto i mariti a divorziare dalla moglie, in parallelo con il
crimine di adulterio valevole per le sole donne, lo attesta anche un passo di Ulpiano,
dove il giurista coglie l’ipocrisia del marito che pretende dalla moglie
l’irreprensibilità morale cui egli stesso non corrisponde:
Ulpiano, libro 2 ad adulteriis D. 48, 5, 14 (13): 5. Iudex adulterii ante oculos habere
debet in inquirere, an maritus pudice vivens mulieri quoque bonos mores colendi auctor
fuerit: periniquum enim videtur esse, ut pudicitiam vir ab uxore exigat, quam ipse non
exhibeat
Si discute in dottrina se un secondo matrimonio attestasse la cessazione
dell’affectio maritalis del primo o se fosse necessario il divorzio dal precedente
coniuge per poter contrarre validamente nuove iustae nuptiae27. Negli Annales di
Tacito (Ann. 11, 26-38; cfr. anche Svet., Claud. 29, 3 e Dione Cassio 60, 31, 3-4) si
narra del matrimonio di Messalina, moglie di Claudio, con Caio Silio, di famiglia
consolare ed egli stesso consul suffectus designatus, avvenuto nel 48 e.v. Gli stessi
storici dell’epoca nutrirono dubbi sulla validità del susseguente matrimonio, perché
Messalina, approfittando di un viaggio di Claudio ad Ostia, avrebbe celebrato
pubblicamente le solennità delle nozze, senza appunto manifestare la fine
dell’affectio maritalis con il precedente marito. Le formule esposte precedentemente
da Gaio, infatti, pur non considerate giuridicamente necessarie, costituivano una
consuetudine diffusa.
26 C. FAYER, Concubinato cit., p. 61. 27 C. FAYER, Concubinato cit., p. 66.
49
Il divorzio era comunque una eventualità non infrequente nella società
dell’antica Roma. Dalla Laudatio Turiae sopra citata, si legge che sono rari i
matrimoni che durano tanto da finire con la morte e non essere infranti dal divorzio.
Il marito, infatti, si compiace di aver avuto in sorte un matrimonio così lungo con la
defunta moglie, senza che screzio alcuno turbasse la loro armonia.
Laud. Tur. 1, 27: Rara sunt tam diuturna matrimonia finita morte, non divertio
interrupt; nam contigit nobis ut ad annum XXXXI sine offensa perduceretur.
Le fonti letterarie testimoniano come fosse normale per la mentalità romana
sciogliere il matrimonio qualora tra marito e moglie fossero sorte sia incompatibilità
insanabili, sia anche solo piccoli ma frequenti attriti derivanti da diverse abitudini o
dal carattere dei due coniugi28.
Nel II sec p.e.v. Emilio Paolo ripudiò la moglie Papiria, dopo aver vissuto con lei
per lungo tempo e dalla quale ebbe pure dei figli. Sulle cause del divorzio non vi
sono notizie certe, ma Plutarco riferisce un aneddoto, forse riferito proprio a questo
avvenimento. Un romano aveva ripudiato la sua moglie; poiché i suoi amici lo
biasimavano dicendo «Non è saggia? Non è bella? Non è feconda?»; ma egli, mostrando
la scarpa (calceus) rispose: «Non è forse questa ben fatta? Non è nuova? Eppure nessuno
di voi può sapere in qual parte mi offende il piede!».
Plut., Biogr. et Phil., Aemilius Paullus, 5, 1-2: ãEghme de£ Papiri¢an, a¦ndro£j
u¥patikou¤ Ma¢swnoj qugate¢ra, kai£ xro¢non sunoikh¢saj polu¢n, a¦fh¤ke to£n
ga¢mon, kai¢per e¦c au¦th¤j kallitekno¢tatoj geno¢menoj: auàth ga£r hån h¥ to£n
kleino¢taton au¦t¤. Skipi¢wna tekou¤sa kai£ Ma¢cimon Fa¢bion. ai¦ti¢a de£
gegramme¢nh th¤j diasta¢sewj ou¦k hålqen ei¦j h¥ma¤j, a¦ll' eãoiken a¦lhqh¢j
tij eiånai lo¢goj peri£ ga¢mou lu¢sewj lego¢menoj, w¥j a¦nh£r ¥Rwmai¤oj
a¦pepe¢mpeto gunai¤ka, tw¤n de£ fi¢lwn nouqetou¢ntwn au¦to¢n, ou¦xi£ sw¢frwn;
ou¦k euãmorfoj; ou¦xi£ paidopoio¢j.
28 C. FAYER, Concubinato cit., p. 96.
50
Nell’Andria di Terenzio viene narrato di un padre che per distogliere il figlio da
una passione amorosa, chiede ad un amico la mano della figlia; la risposta
dell’amico, che la mentalità moderna potrebbe considerare alquanto immorale, si
limita a considerare il fatto che nella peggiore delle ipotesi i due avrebbero potuto
divorziare:
Ter., Andr., 533ss.: SI. Iubeo Chremetem. CH. o te ipsum quaerebam. SI. et ego te. CH.
optato advenis. / aliquot me adierunt, ex te auditum qui [ai] bant hodie filiam / meam
nubere tuo gnato; id viso tune an illi insaniant.
Ter., Andr., 567s.: SI. Nempe incommoditas denique huc omnis redit, / si eveniat, quod
di prohibeant, discessio.
Molto scalpore destò il divorzio, i motivi del quale non sono noti con certezza, tra
Cicerone e Terenzia, donna dal carattere dispotico ed irascibile, ma dall’uomo
sempre amata. Dopo trent’anni di onorato matrimonio, purché egli stesso affermi di
averlo contratto per interesse, all’età di cinquantasette anni l’oratore sposa Publilia,
giovane avvenente e molto ricca. Anche questo matrimonio fallisce dopo poco
tempo a causa del comportamento della donna che sembrò rallegrarsi della morte di
Tullia, l’amatissima figlia di Cicerone29.
Il divorzio consensuale o unilaterale era decisione che nasceva all’interno della
coppia di coniugi entrambi con pieno status libertatis, cioè quando fossero sui iuris. Il
divorzio poteva, invece, essere imposto dal pater familias, prevalentemente nei
confronti della filia, nel caso di persone in potestate. Il matrimonio della filia cessava
per mero arbitrio del padre, purché questi non l’avesse precedentemente
emancipata, come emerge da una costituzione imperiale di Diocleziano, poiché
ovviamente la patria potestas sarebbe venuta meno:
C. 5, 17, 5: DIOCL. ET MAXIM. AA. ET CC. SCYRIONI. 2. Emancipatae vero filiae
29 C. FAYER, Concubinato cit., p. 102.
51
pater divortium in arbitrio suo non habet. D. V K. SEPT. NICOMEDIAE CC.
CONSS. (A 294).
Successivamente, in epoca classica, il potere del padre sulla figlia venne
probabilmente mitigato sia dalla mutata mentalità sociale, sia da alcune costituzioni;
una di Antonino Pio riferita da Paolo con cui fu inibito il potere del padre di
costringere la figlia a lasciare contro sua voglia la casa maritale30:
Pauli Sent. 5, 6, 15: Bene concordans matrimonium separari a patre divus Pius
prohibiut;
una di Marco Aurelio, quando c’era accordo tra marito e moglie:
C. 5, 17, 5, DIOCL. ET MAXIM. AA. ET CC. SCYRIONI pr.: Dissentientis patris,
qui initio consensit matrimonio, cum marito concordante uxore filia familias, ratam non
haberi voluntatem divus Marcus pater noster religiosissimus imperator constituit, nisi
magna et iusta causa interveniente hoc pater fecerit» D. V K. SEPT. NICOMEDIAE
CC. CONSS. (A 294);
ed un rescritto di Caracalla, firmato da Ulpiano, aggiunge che la sussistenza del
matrimonio è valido anche se il suocero abbia inviato il ripudio alla nuora:
Ulpiano, libro 33 ad Sabinum D. 24, 1, 32, 19: Si socer nurui nuptium miserit,
donatio erit irrita, quamvis matrimonium concordantibus viro et uxore secundum
rescriptum imperatoris nostri cum patre comprobatum est.
Il fatto che il potere del pater di sciogliere il matrimonio dei figli sia stato mitigato
con numerose costituzioni imperiali, fino ad essere annullato definitivamente, come
attesta il commento di Ulpiano:
Ulpiano, libro 71 ad edictum D. 43, 30, 1, 5: Et certo iure utimur, ne bene
30 C. FAYER, Concubinato cit., p. 88.
52
concordantia matrimonia iure patrie potestatis turbentur
potrebbe indicare che questa regola andasse contro ad una tradizione antica ed
abbia incontrato resistenza nell’affermarsi31: è stato quindi necessario ribadirla più
volte prima che questa venisse comunemente accettata32. Altra dottrina, però,
suggerisce l’ipotesi che le costituzioni imperiali riguardassero solo casi isolati e che
la giurisprudenza romana abbia estrapolato i principi delle singole questiones per
generalizzarne l’applicazione33.
Ulpiano, riportando il quesito posto da Giuliano, attesta che non poteva
divorziare chi non aveva la capacità di intendere e volere:
Ulpiano, libro 26 ad Sabinum D. 24, 2, 4: Iulianus libro octavo decimo difestorum
querit, an furiosa repudium mittere vel repudiari possit. Et scribit furiosam repudiari
posse, quia ignorantis loco habetur: repudiare autem non posse neque ipsam propter
dementiam neque curatorem eius, patrem tamen eius nuntium mittere posse. Quod non
tractaret de repudio, nisi constaret retineri matrimonium: quae sententia mihi videtur
vera.
Il caso in questione riguarda l’impossibilità della donna di poter ripudiare il marito,
benché riservi al secondo la possibilità di divorziare senza alcun impedimento. Se la
uxor furiosa era una figlia in potestà, il paterfamilias di questa poteva inviare il
ripudio al genero, sostituendo la sua volontà a quella della figli; se invece la figlia
era sui iuris, non si prevedeva la sostituzione del curatore.
31 G. LONGO, Sullo scioglimento del matrimonio per volontà del ‘paterfamilias’, in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano 40, 1932, pp. 201-224 (= Ricerche romanistiche, Milano, 1966, pp.
281-299). 32 S. D. MARZIO, Lezioni sul matrimonio romano, Palermo, 1919 (rist. Roma 1972), p. 76. 33 O. ROBLEDA, Il divorzio a Roma prima di Costantino, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt 2.14 (1982), pp. 424-430.
53
7. Bigamia
Il matrimonio romano era in via assoluta rigorosamente monogamico, come
attestato da Gaio:
Gai 1, 63: neque eadem duobus nupta esse potest, neque idem duas uxores habere
tant’è vero che fino al IV sec e.v. era sconosciuto nel diritto romano il crimine di
bigamia. Il carattere monogamico, del resto, era anch’esso automatico: quando uno
dei due coniugi, nella maggior parte dei casi il marito, sospendeva il consensus nei
confronti dell’altro, il matrimonio cessava e questi poteva legittimamente contrarre
nuovo matrimonio con altra persona. Era impensabile per i giuristi romani che un
uomo potesse prestare più di una affectio maritalis e fosse perciò unito
contemporaneamente in più matrimoni legittimi.
Se un individuo conserva la volontà coniugale rispetto al coniuge con il quale a
posto in essere iustae nuptiae, tale matrimonio persiste e continua rispetto al secondo
rapporto coniugale, che per il diritto romano non può essere considerato anch’esso
iustum matrimonium. Una sola unione è considerata matrimonio legittimo, mentre
l’altra viene considerata giuridicamente come un concubinato. Se invece il
medesimo coniuge aveva intenzione di formare un’unione stabile con altra persona,
allora l’affectio maritalis si intendeva cessata e con essa anche il primo matrimonio.
Sembra opportuno richiamare una questione accademica presentata da Cicerone
nel de oratore:
Cic., De orat., 1, 40, 183: Quod usu memoria patrum venit, ut paterfamilias, qui ex
Hispania Romam venisset, cum uxorem praegnantem in provincia reliquisset, Romae
alteram duxisset neque nuntium priori remisisset, mortuusque esset intestato et ex
utraque filius natus esset, mediocrisne res in contentionem adducta est, cum
quaererentur de duobus civium capitibus, et de puero, que ex posteriore natus erat, et de
eius matre, quae, si iudicaretus certis quibusdam verbis, non novis nuptiis fieri cum
54
superiore divortium, in concubinae locum duceretur?.
Cic., De orat., 1, 56, 238: […] Quibus quidem in causis omnibus, sicut, in ipsa M.
Curii, quae abs te nuper est dicta, et in C. Hostilii Mancini controversia atque in eo
puero, qui ex altera natus erat, uxore, non remisso nuntio superiori, fuit inter
peritissimos homines summa de iure dissensio.
Per sintetizzare, un paterfamilias, lasciata la propria moglie incinta in Spagna, si
trasferisce a Roma e pone in essere un nuovo rapporto matrimoniale con altra
donna, senza preventivamente divorziare dalla prima. Alla sua morte sorgono
problemi di tipo successorio nel determinare quale delle due unioni fosse
matrimonio legittimo in quel momento e quali fossero di conseguenza i legittimi
eredi. Il caso, afferma l’autore, aveva fatto sorgere una disputa inter peritissimos
homines. È significativo notare che, nell’esposizione della questione, i giuristi romani
non si siano minimamente preoccupati di prospettare un caso di bigamia e risolvere
la questione dichiarando nullo il secondo matrimonio, perché contrario al principio
monogamico: la problematica che emerge si incentra nel comportamento dell’uomo,
il cui mancato espresso ripudio della prima moglie lascia aperta la questione se la
seconda unione possa definirsi matrimonio legittimo oppure semplice concubinato.
8. Conventio in manum
Dopo la scoperta del manoscritto veronese delle Institutiones gaiane agli inizi del
XIX sec, si radicò negli studiosi la convinzione che esistessero due tipi di
matrimonio romano: uno cum manu e l’altro sine manu. Il primo di questi avrebbe
comportato l’acquisto della manus della donna, la quale avrebbe interrotto ogni tipo
di legame giuridico con la propria famiglia e si sarebbe sottoposta alla patria potestas
del marito o, se questi alieni iuris, del di lui paterfamilias.
In un’epoca più recente, secondo questi studiosi, sarebbe sorto il matrimonium
sine manu, diverso dal precedente perché compiuto senza forme determinate che dal
55
III sec p.e.v. si sarebbe diffuso rapidamente fino a sostituire il matrimonio cum
manu, scomparso di conseguenza per desuetudine34.
L’opinione di Volterra, accolta dall’odierna dottrina maggioritaria, mette in
evidenza che la suddetta teoria sia stata influenzata «dal valore assoluto ed
universale anche sul piano storico della nozione giuridica del matrimonio
moderno», inducendo gli studiosi a ritenere erroneamente che anche «l’antico
matrimonio romano si costituisse attraverso un’espressione iniziale di volontà dei
coniugi, manifestata attraverso forme determinate».
Nelle Institutiones gaiane, in effetti, sono presenti tre modalità con cui ab origine
avveniva l’acquisto della manus dal parte del marito: la confarreatio, cerimonia
religiosa riservata ai patrizi, la coemptio, forma laica più recente che configurava una
compravendita fittizia della moglie, e l’usus, l’acquisto automatico della manus della
donna dopo un anno di coabitazione nella casa del marito.
1) Confarreatio. La confarreatio viene illustrata nel paragrafo 112 delle Institutiones:
Gai., 1, 112: Farreo in manum conveniunt per quoddam genus sacrificii, quod Iovi
Farreo fit: in quo farreus panis adhibetur, unde etiam confarreatio dicitur; conplura
praeterea huius iuris ordinandi gratia cum certis et sollemnibus verbis, praesentibus
decem testibus, aguntur et fiunt. Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam
flamines maiores, id est Diales Martiales Quirinales, item reges sacrorum, nisi ex
farreatis nati non leguntur; ac ne ipsi quidem sine confarreatione sacerdotium habere
possunt».
La celebrazione religiosa si celebrava mediante il sacrificio di un pane di farro a
Giove, con la pronuncia di parole solenni e sacramentali, alla presenza di dieci
testimoni. La confarreatio conferiva la qualità di «farreato» necessaria per l’accesso ai
sacerdozi dei flamini maggiori, ovvero Diali, Marziali e Quirinali, e la nomina a
34 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 755.
56
reges sacrorum.
Secondo la teoria del matrimonio cum manu, l’atto di volontà iniziale manifestato
solennemente avrebbe costituito il vincolo coniugale con le conseguenze giuridiche
ad esso inerenti, indipendentemente dal perdurare o meno della reciproca volontà
dei coniugi. È significativo notare, però, che Gaio usa l’espressione in manum
conveniunt senza alcun cenno alle iustae nuptiae. La stessa evidenza si può notare
nella dicitura ex farreatis nati, invece che ex nuptiis confarreatis: la prima espressione
ben evidenzia che, secondo la concezione giuridica romana, non è la confarreatio a
costituire il matrimonio legittimo ma che, anzi, nell’indicare chi poteva accedere a
determinate cariche sacerdotali, fosse indispensabile la nascita da persone con la
qualità di «farreato» e l’aver partecipato al medesimo sacrificio, piuttosto che il
matrimonio celebrato col rito del farro. Pertanto, la manifestazione del consenso
nella confarreatio non costituiva le iustae nuptiae, per le quali erano invece necessari i
requisiti di conubium, età e affectio maritalis, ma permetteva esclusivamente l’acquisto
della manus della donna35.
Se secondo Gaio la confarreatio è costitutiva della conventio in manum e non del
matrimonio, ciò è testimoniato anche dal Titulo ex corpore Ulpiani, dove al titolo IX
de his qui in manu sunt si legge:
Tituli ex corpore Ulpiani, 9, 1: Farreo convenitur in manum certis verbis et testibus x
praesentibus et sollemni sacrificio facto, in quo panis quoque farreus adhibetur..
Sia Gaio, sia Ulpiano menzionano la conventio in manum nella trattazione delle tre
potestà che individui liberi possono avere su altri individui liberi, ovvero la patria
potestas, la manus e il manicipium. In entrambe le fonti, il matrimonio non viene
messo in relazione all’acquisto della manus e la conventio non viene mai menzionata
35 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 764.
57
quale elemento costitutivo del primo36.
Da rilevare, infine, che l’effetto giuridico della confarreatio, cioè della manus sulla
donna, può essere sciolta solo tramite diffareatio, rito religioso e contrario di natura a
noi ignota, mentre le iustae nuptiae si sciolgono per il cessare dell’affectio maritalis tra
coniugi e del conubium tra essi. Poteva darsi il caso di matrimonio già contratto, ma
senza la manus della donna e al contrario di un matrimonio già sciolto, ma in cui la
donna era ancora sotto la potestà del marito. Iustae nuptiae e conventio in manum
erano istituti diversi, regolanti materie giuridiche diverse, ma nell’antica Roma, e
soprattutto nel patriziato, spesso coesistenti.
2) Coemptio. Un’altra forma di conventio in manum era la coempio, esposta da Gaio
nei paragrafi 113 e 114:
Gai., 1, 113-114: Coemptione vero in manum conveniunt per mancipationem, id est per
quandam imaginariam venditionem; nam adhibitis non minus quam quinque testibus
civibus Romanis puberibus, item libripende emit is mulierem, cuius in manum
convenit. Potest autem coemptionem facere mulier non solum cum marito suo, sed
etiam cum extraneo; scilicet aut matrimonii causa facta coemptio dicitur, aut fiduciae;
quae enim cum marito suo facit coemptionem ut apud eum filiae loco sit, dicitur
matrimonii causa fecisse coemptionem; quae vero alterius rei causa facit coemptionem
aut cum viro suo aut cum extraneo, veluti tutelae evitandae causa, dicitur fiduciae
causa fecisse coemptionem.
La coemptio consisteva nell’acquisto della manus della donna eseguita tramite
mancipatio con la presenza di cinque testimoni, cittadini romani puberi, e del
libripens, ovvero colui che reggeva la bilancia.
Poiché la mancipatio è istituto applicato nel trasferimento di proprietà, Gaio
afferma con chiarezza che non si tratta di vera compera effettiva della donna, ma di
imaginaria venditio: la donna non perde il proprio status giuridico diventando
36 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 764.
58
schiava, ma, compiendo la coemptio con l’uomo con il quale è unita in matrimonio,
acquista la condizione giuridica di filiafamilias del marito o di colui che sul marito
possiede la patria potestas, recidendo quindi ogni legame giuridico con la famiglia di
origine.
Il passaggio della donna dalla propria famiglia a quella del marito fa emergere in
modo netto che lo scopo dell’istituto non è quello di rendere la donna moglie di
qualcuno, bensì quello di creare un nuovo rapporto di parentela: la donna diveniva
fittiziamente figlia legittima del proprio marito, e quindi sorella dei figli di questo,
entrando nella successione ab intestato al pari degli altri figli legittimi.
Sempre in Gaio si trovano i casi di rottura del testamento per sopravvenienza di
persone libere in potestà del testatore:
Gai., 2, 139: Idem iuris est, si cui post factum testamentum uxor in manum conveniat,
vel quae in manu fuit nubat; nam eo modo filiae loco esse incipit et quasi sua.
Il testamento già effettuato si rompe necessariamente per sopravvenienza di un
suus, come nel caso di nascita di figli o di adozione. Nel caso in questione, Gaio
richiede due requisiti perché la donna possa trovarsi filiae loco dell’uomo, il
matrimonio e la conventio in manum, ma ipotizza che siano compiuti in due tempi
distinti, senza rilevare l’importanza di quale avvenga per primo. L’autore non
constata la sussistenza reciproca, né che vi siano due distinte forme matrimoniali,
ma semplicemente considera i due istituti distinti e diversi l’uno dall’altro, ognuno
coi propri modi costitutivi ed effetti giuridici ad esso collegati37.
Come nella confarreatio, così nella coemptio è importante sottolineare che la donna
partecipa attivamente al rito: il fatto che il paterfamilias debba prestare la sua
auctoritas alla conventio in manum della propria figlia o che i tutori debbano prestarla
se la donna è sui iuris, conferma che era necessaria una manifestazione volontaria
37 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 767.
59
della donna per compiere l’atto38.
Proprio quest’ultimo caso è presentato da Cicerone:
Cic., Pro Flacc. 34, 84: In manum, inquit, convenerat. Nunc audio; sed quaero, usu an
coemptione? Usu non potuit; nihil enim potest de tutela legitima nisi omnium tutorum
auctoritate deminui. Coemptione? Omnibus ergo auctoribus; in quibus certe Flaccum
fuisse non dices.
L’insigne oratore sta difendendo il proprio cliente L. Valerio Flacco dall’accusa
di essersi appropriato indebitamente dell’eredità di Valeria, moglie di Andro
Sextilius e sua agnata, morta intestata. Alle pretese di Andro Sextilius, il quale
sosteneva che la moglie avesse con lui compiuto la conventio in manum, Cicerone
risponde ironicamente che ciò non è possibile perché per la coemptio era necessaria
l’auctoritas di tutti i tutori, tra i quali era escluso proprio l’assistito Flacco.
Di conseguenza, la possibilità per la donna di compiere personalmente la
conventio in manum con il proprio marito è prova che le iustae nuptiae sorgono in base
ad elementi diversi dalla coemptio.
Che il matrimonio di per sé stesso non faccia sorgere alcuna manus sulla donna e
la conventio in manum non fa sorgere le iustae nuptiae è affermato anche in un altro
passo di Gaio: mentre la moglie in manu non può costringere il marito a
remanciparla, poiché è sotto la sua patria potestas, una volta sciolto il matrimonio,
può invece obbligarlo a compiere tale atto:
Gai 1, 137: Sed filia quidem nullo modo patrem potest cogere, etiamsi adoptiva sit; haec
autem [virum] repudio misso proinde conpellere potest, atque si ei numquam nupta
fuisset.
Il ripudio della donna, infatti, scioglie il matrimonio perché è venuta meno l’affectio
38 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 766.
60
maritalis, ma non scioglie conseguentemente anche la manus, come effetto della
conventio in manum, per la quale invece è necessaria la remancipatio.
Un’altro elemento che corrobora l’impossibilità di configurare la coemptio quale
matrimonio laico si ravvisa nell’eventualità di compiere la conventio in manum anche
con un estraneo per fini del tutto diversi all’unione matrimoniale.
3) Usus. L’usus è il primo istituto menzionato nell’opera di Gaio
Gai., 1, 111: Usu in manum conveniebat quae anno continuo nupta perseverabat;
[nam] veluti annua possessione usucapiebatur, in familiam viri transibat filiaeque
locum optinebat. Itaque lege XII tabularum cautum est ut si qua nollet eo modo in
manum mariti convenire, ea quotannis trinoctio abesset atque eo modo [usum] cuiusque
anni interrumperet. Sed hoc totum ius partim legibum sublatum est, partim ipsa
desuetudine obliteratum est.
Esso prevedeva la caduta della donna sotto la potestà del marito dopo un anno di
coabitazione ininterrotta. La donna avrebbe avuto, però, la possibilità di evitare
l’acquisto della manus esercitando l’usurpatio trinoctiis, allontanandosi cioè dalla casa
del marito per tre notti consecutive; al suo rientro il computo del tempo si azzerava
e l’usucapione della donna era sventata. L’usucapione in questo caso non implica
che la donna sia considerata res, ma è un rimedio giuridico che, nato
originariamente per sanare una mancipatio invalida o assente, sarebbe stato destinato
a sanare vizi di forma della coemptio o della confarreatio39.
Della stessa opinione non è Volterra che ritiene inconcepibile un errore di fatto o
un vizio di forma nei due istituti solenni che oltre all’usus permettevano l’acquisto
della manus40. Se la confarreatio era presieduta dal flamen dialis e la coemptio utilizza la
mancipatio quale imaginaria venditio, sembra quantomeno improbabile che potessero
esserci vizi di forma. Ammettere che l’usus sia una sanatoria di un istituto vorrebbe
39 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 273. 40 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 758.
61
dire, nella terminologia giuridica romana, che tale istituto è suscettibile di
annullabilità. Ma se la confarreatio e la coemptio erano istituti solenni, un vizio di
forma avrebbe comportato l’inesistenza giuridica di quell’atto, piuttosto che il suo
annullamento. L’argomentazione di Volterra sembra più condivisibile in quanto
logicamente segue la teoria generale dei negozi giuridici romani.
Nella seconda parte del passo Gaio afferma che la legislazione decemvirale
offriva la possibilità di evitare la manus ricorrendo al trinoctium, ma avverte che ai
tempi del giurista non era più in vigore, poiché in parte abrogato dalle leggi, delle
quali però non abbiamo conoscenza, in parte per desuetudine41.
Dalle parole di Gaio la dottrina previgente configurava l’usus come un
matrimonio sine manu che, al compimento dell’anno di coabitazione, si trasformava
in modo automatico in uno cum manu. Questa teoria, afferma ancora Volterra, è
sicuramente da scartare perché «l’usus avrebbe dovuto far sparire tutti i matrimoni
sine manu e renderli tutti matrimoni cum manu, a meno che non si voglia pensare che
in tutti i matrimoni romani intervenisse periodicamente ogni anno, per tutta la vita
degli sposi, il trinoctium»42. Ma se le fonti testimoniano l’esatto contrario, ovvero che
il matrimonio sine manu si sostituisce a quello cum manu, il trinoctium non poteva
essere diventato un elemento proprio del matrimonio romano: l’usus quindi faceva
solo cadere la donna nella manus del marito, non originava iustae nuptiae e sarebbe
caduto in desuetudine, senza necessità di abrogazione legislativa, perché strutturato
in maniera assurdamente ripetitiva.
Volterra esclude, infine, anche la teoria di coloro che qualificano l’usus come un
concubinato, ipotizzando la nascita del matrimonio legittimo proprio allo scadere
dell’anno di coabitazione. Giova ripetere che il matrimonio romano classico si
costitutiva esclusivamente attraverso i requisiti di conubium, età e consenso e che la
41 L. FRANCHINI, La desuetudine delle XII tavole nell'età arcaica, Vita e Pensiero, 2005. 42 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 758.
62
conventio in manum poteva nascere in un secondo tempo rispetto alle iustae nuptiae43.
Per concludere, la confarreatio, la coemptio e l’usus non possono essere considerate
forme di matrimonio, ma strettamente forme di acquisto della manus della donna da
parte del marito, o del di lui paterfamilias. La distinzione che viene fatta dagli
studiosi moderni del matrimonio cum manu e sine manu è ignota agli stessi giuristi
romani, perché matrimonio e manus sono due istituti differenti nella loro struttura,
nella loro formazione e nei loro effetti. Nell’epoca antica era però assai frequente che
i due istituti si accompagnassero, ma il venir meno delle iustae nuptiae non influiva
sull’esistenza della manus sulla donna, così come la cessazione della manus non
influiva sull’esistenza del matrimonio legittimo.
Secondo l’opinione del Volterra, il matrimonio avrebbe mantenuto sempre la
stessa fisionomia sotto l’aspetto giuridico, basato quindi sull’affectio maritalis, pur
potendo questo essere accompagnato dalla conventio in manum. A supporto di
questa visione si constata che nelle fonti non emerge una distinzione tra
matrimonium cum manu e sine manu, ad eccezione del solo Quintiliano che parla di
«duae formae matrimoniorum» (Quint., De orat., 5, 10, 62), parafrasando un passo di
Cicerone, testo che non parla affatto di due forme matrimoniali, ma di due formae
uxorum:
Cic., Top. 3, 14: Si ita Fabiae pecunia legata est a viro, si ei viro materfamilias esset, si
ea in manum non convenerat, nihil debetur. Genus enim est uxor; eius duae formae:
una matrumfamilias (eae sunt, quae in manum convenerunt); altera earum, quae
tantummodo uxores habentur. Qua in parte cum fuerit Fabia, legatum ei non videtur.
L’oratore affronta la questione di un legato disposto a favore di Fabia purché
questa fosse materfamilias rispetto al marito, individua due distinte condizioni
giuridiche della donna maritata: quella in manu mariti e quella non sottoposta alla
43 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 758.
63
manus. Per Cicerone la conventio in manum ha effetto solo sullo status giuridico della
donna, non anche sul matrimonio che questa ha contratto. La distinzione tra
matrimonio cum manu e sine manu è irrilevante, anzi del tutto assente44.
9. La famiglia romana
La società romana non fu mai favorevole all’idea che una donna libera avesse
una relazione con un uomo di categoria sociale inferiore, anzi l’insinuazione di
essere la consorte di uno schiavo o di un uomo di umili origini era la calunnia
preferita dei poeti satirici romani contro donne rispettabili45.
In un’opera di Seneca il vecchio, un tiranno incoraggia gli schiavi a rapire le
proprie padrone ed unirsi con loro in matrimonio. Uno schiavo rifiuta di violentare
la figlia del suo padrone. In seguito il tiranno fu detronizzato dal padre di questa e
come ricompensa verso lo schiavo fedele, gli rese la libertà e gli concesse la mano
della figlia alla quale aveva salvato l’onore. Il fratello della ragazza accusa il padre
di demenza per aver convenuto un matrimonio disonorevole per la sorella.
I retori della controversia competono l’un l’altro in un lancio di ingiurie al liberto
per il matrimonio con la sua ormai ex-padrona e pensano una fantasiosa espressione
per la sordida natura di questa unione: «il matrimonio è più vergognoso di qualsiasi
adulterio!» esclama uno.
Sen., Controversia 7, 6, 3: BLANDI. Fecit etiam servo iniuriam, cui detraxit
abstinentiae gloriam. Nuptiis suis manu missus est; o matrimonium omni adulterio
turpius!
44 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 761. 45 J. EVANS-GRUBBS, “Marriage More Shameful Than Adultery”: Slave-Mistress Relationship,
“Mixed Marriages”, and Late Roman Law, Classical Association of Canada, Phoenix, Vol. 47,
No. 2 (Summer, 1993), p. 125.
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Anche coloro che erano dalla parte del padre contro i figli, non possono far altro
che offrire deboli giustificazioni riguardo al diritto del padre di scegliere il marito
della propria figlia. Entrambe le parti concordano che le motivazioni dello schiavo
nel salvare la sua padrona erano solamente egoistiche e in alcun modo meritevoli di
un matrimonio con una figlia di un uomo non soltanto nato libero (ingenuus), ma
anche nato da genitori rispettabili (honestis parentibus natus).
Per Seneca e il suo pubblico aristocratico, anche un matrimonio legittimo tra un
liberto e la figlia del suo ex padrone era ritenuto riprovevole, poiché avrebbe
minacciato lo status dell’uomo sulla donna e portato disonore sulla sposa e la sua
famiglia46. Agli occhi di un giurista, appartenente all’elitè romana dell’epoca, il
matrimonio legittimo era un’unione tra persone della stessa classe sociale e un patto
di alleanza, non solo tra due persone ma anche tra le loro rispettive famiglie,
finalizzato alla procreazione di figli: questi avrebbero avuto la legittimazione ed uno
status sociale certo e sarebbero opportunamente succeduti nelle proprietà e nella
stessa dignità dei genitori.
Sebbene il modello del matrimonio classico romano non presenti l’idea della
moglie sottomessa, come si riscontra in altri diritti dell’area mediterranea, risultano
disapprovate le unioni in cui la moglie è significativativamente più benestante del
marito e con un rango più alto di questo, dato che il maschio era il capo riconosciuto
della famiglia (paterfamilias) e la sua superiore autorità doveva essere indiscussa.
Il ruolo sociale e morale del matrimonio appare decisamente marcato nella
mentalità romana dell’epoca, soprattutto nei tempi antichi. Subito dopo l’infanzia e
sotto il severo controllo del padre o del tutore, che le avevano impartito una
condotta irreprensibile , la virgo si preparava a varcare la soglia del matrimonio, cui
era disponibile già in età giovanissima: come si è visto, dodici anni era il limite
46 J. EVANS-GRUBBS, Slave-Mistress Relationship cit., p. 126.
65
minimo stabilito per le donne47. Era necessario che rimanessero «inviolate» e «caste»
sino al momento delle nozze, requisiti moralmente rilevanti, attestati anche da
Catullo: «come un fiore che germoglia rigoglioso e desiderato, finché non è violato,
altrimenti sfiorisce e non è più oggetto di cure e attenzioni, stesso destino subisce
ogni fanciulla»
Cat., Carme LXII, 45-47: sic virgo, dum intacta manet, dum cara suis est; / cum
castum amisit polluto corpore florem, / nec pueris iucunda manet, nec cara puellis.
Durante la sera precedente alle nozze, la giovane compiva alcuni gesti
sicuramente emozionanti: ella deponeva il suo abito infantile (toga praetexta) ed
offriva in sacrificio alla divinità i suoi giocattoli (Pers., Sat., 2, 70 «nempe hoc quod
Veneri donatae a virgine pupae»), ad identificare il passaggio dall’età della fanciullezza
a quella adulta.
La mattina successiva, di buon ora, veniva vestita con una tunica bianca, sopra la
quale si indossava un lungo abito color giallo pane (palla galbeata). I capelli erano
suddivisi in sei trecce (sex crines), avvolte intorno a fili di lana e acconciate poi sulla
sommità del capo, coperto a sua volta con un velo rosso (flammeus). Questa usanza
divenne talmente importante da diventare una metonimia: le nuptiae trovano la loro
etimologia da nubere, «rivestirsi», proprio perché le spose si coprivano con un velo48;
curiosamente la stessa radice si riscontra in nuvola, nubes, cioè ‘che vela il cielo’, e
nel termine greco ninfa, «velata», «sposa».
Spesso il matrimonio era preceduto da un fidanzamento, sponsalia49, vero e
proprio contratto prematrimoniale in forma di sponsio, successivamente tramite
stipulatio, con donazione dell’anello, l’anulus pronubus, da parte del futuro marito
47 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio. Sulla condizione femminile nel mondo romano, Sellerio
editore, Palermo 1989, p. 71. 48 K. W. WEEBER, v. Nozze in Vita quotidiana nell’antica Roma, Il giornale, Roma 2003. 49 P. FERRETTI, Le donazioni tra fidanzati nel diritto romano, Giuffré, 2000.
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alla futura sposa. Pare che non costituisse un semplice regalo, al pari di arredi ed
abbigliamenti che costituivano il pegno per le nozze, ma svolgesse una funzione
simbolica ben precisa: esso era una sorta di catena, allegoria con cui lo sposo legava
a sé la sposa, rivendicandone il pieno possesso.
Una volta infilato l’anulus, la ragazza manifestava concretamente il suo impegno
a rispettare il patto di fedeltà nei confronti del fidanzato. Non è un caso che l’anello
fosse infilato al penultimo dito della mano sinistra, detto appunto anularius, poiché
si credeva partisse una vena che giungeva dritta al cuore. Plinio il vecchio ricorda
che l’anulus, dapprima un semplice cerchietto di ferro, in seguito fu realizzato in
oro. Firmato il contratto nuziale, dove erano stabiliti la natura e l’ammontare della
dote della sposa e fissata la data delle nozze, la cerimonia degli sponsalia si
concludeva con un banchetto al quale partecipavano tutti i presenti.
Essendo la famiglia il veicolo dell’istruzione primaria e fucina di formazione dei
fanciulli, la madre era tenuta ad impartirne l’educazione ed avere cura di loro fino al
compimento del settimo anno, di solito con l’ausilio di nutrici o assumento privati
precettori per materie quali le scienze agrarie, l’amministrazione e la conduzione
della proprietà e, nelle famiglie pià agiate, rudimenti delle attività equestri, natatorie
e dell’uso delle armi50.
Significativo è che Plinio il giovane, sollecitato dalle preoccupazioni di Correlia
Ispulla, individui nella donna la naturale destinataria dei consigli sull’educazione
da impartire al figlio e le suggerisca un precettore di assoluta fiducia e
irreprensibilità morale (Plin., Ep. 3, 3, 3).
Tacito (Tac., Dial. De oratoribus, 28, 4-29, 2), invece, si lamenta della superficialità
e delle storture del vivere contemporaneo, dove è ormai consuetudine che non sia
più la casta madre a curare la formazione dei figli, ma un’empta nutrix o peggio
ancora un’ancilla graecula. Questa deviazione culturale, secondo l’oratore ravvisata
50 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 97.
67
nel venir meno al compito istituzionale formativo da parte di molte madri,
porterebbe allo sgretolamento di quei principii più saldi che nei tempi addietro
prepararono il trionfo di Roma.
Orazio loda infatti l’austerità con cui la matrona severamente controllava il
trascorrere dell’infanzia della prole: di fronte a tale rigore, esercitato come un
dovere imprenscindibile, il fanciullo diveniva impaziente di superare la condizione
della minore età:
Hor., Ep., 1, 1, 21-22: ut piger annus / pupillis, quos dura premit custodia matrum.
Il ruolo della materfamilias non si esauriva attorno ai figli, ma si estendeva alla
sovraintendenza della gestione domestica, alla distribuzione del lavoro alle ancelle,
dedicandovisi essa stessa. Questa suddivisione dei ruoli all’interno del matrimonio
si denota da numerose testimonianze, da cui si evince che l’uomo doveva
guadagnare per mantenere la famiglia, la donna era invece custode della casa. In
un’iscrizione tombale la defunta viene così ricordata:
CIL I 2, 1007: casta fuit, domum servavit, lanam fecit
Un altro epitaffio (ILS, 8403), risalente al II secolo p.e.v., è in onore di Claudia,
presentata come sposa e madre esemplare, sostanziando le sue attività e qualità:
«Straniero, ho poco da dire: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello d’una
donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il
cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto
terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho
finito. Va’ pure»
ILS, 8403: Hospes, quod deico, paullum est, asta ac pellege. / Heic est sepulcrum hau
pulcrum pulcrai feminae. / Nomen parentes nominarunt Claudiam. / Suom mareitum
corde deilexit sono. / Gnatos duos creauit. Horunc alterum / In terra linquit, alium sub
terra locat. / Sermone lepido, tum autem incessu commodo. / Domum servavit. Lanam
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fecit. Dixi. Abei.
Livio mostra l’esempio muliebre per antonomasia, Lucrezia, intenta a filare al
calare delle tenebre, piuttosto che partecipare a banchetti o divertimenti, come le
nuore del re:
Liv., Ab urbe.,1, 57: Quo cum primis se intendentibus tenebris pervenissent, pergunt
inde Collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam ut regias nurus, quas in conviuio luxuque
cum aequalibus viderant tempus terentes sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes
ancillas in medio aedium sedentem inveniunt.
Ancora nel IV secolo, un’altra immagine idealizzata viene richiamata da Arnobio,
retore ed apologista cristiano, che si pone degli interrogativi sullo stato dei costumi:
Arn., Adv. Nat., 2, 67: […] matres familias vestrae in atriis operantur domorum
industrias testificantes suas?
Nel cuore dell’abitazione v’era il telaio dove la matrona, assistita dalle ancelle,
avrebbe dovuto esplicare le attività canoniche e sorvegliare il nucleo famigliare,
quasi come se la «dislocazione fisica rispondesse ad una precisa impostazione
ideologica»51.
L’usanza del filare la lana, rimpiazzata successivamente dall’arte più raffinata del
ricamo, era un dovere quasi sacro per una moglie degna di rispetto, tanto da
diventare elemento topico della tradizione letteraria, richiamato da Tibullo, Ovidio,
Plutarco52. Virgilio (in Aen., VIII, 408-413) descrive la scena in cui viene evocata
Minerva, dea protettrice dei lavori femminili, in particolare della filatura e tessitura.
E che la tessitura fosse un’attività non disdicevole anche per le famiglie più nobili
(si ricordi la Penelope omerica delle epoche più antiche) lo dimostra Svetonio,
51 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 99. 52 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 99.
69
narrando di Augusto che soleva indossare vesti confezionategli dalle sue donne di
casa:
Svet., Div. Aug., 73: […] veste non temere alia quam domestica usus est, ab sorore et
uxore et filia neptibusque confecta.
Infatti, oltre alle donne della famiglia imperiale, abbiamo un’ulteriore esempio in
Berenice, l’amante dell’imperatore Tito. La leggenda vuole che ad importare la
lavorazione del bisso a Sant’Antioco sia stata proprio tale principessa che, osteggiata
dai romani perché di stirpe ebraica, avesse trovato rifugio (o fosse stata costretta
all’esilio) nell’isola sarda e sepolta nel luogo dove oggi si trova la chiesa. Vera o
meno che sia la leggenda, di certo è interessante l’accostamento tra il bisso e il
potere regale. Infatti, questa fibra tessile di origine animale, una sorta di seta
naturale marina ottenuta dai filamenti secreta da alcuni molluschi (Pinna nobilis), è
stata usata in ogni epoca per tessere preziose vesti e decorare manufati nobiliari: si
può ipotizzare che il famoso Vello d’oro fosse intessuto di bisso, così come le vesti
del re Salomone e della regina Ecuba, i bracciali di Nerfertari e il copricapo di
Keope. La regalità della seta è data dal suo colore, che al buio appare bruno, mentre
alla luce si trasforma in oro. Oltre al bisso, l’altro colore imperiale per antonomasia è
il rosso porpora, pigmento ricavato dal liquito vischioso del murice comune, un
mollusco gasteropode.
Lasciando la digressione sui colori imperiali e le raffinate vesti e ritornando alla
matrona romana, si può di certo affermare che la filatura non era solo un’attività
lecita ed onesta, ma «diviene un elemento rivelatore della castità della sposa e del
suo attaccamento alla casa, che conviene non solo alle giovani, ma anche e forse
soprattutto alle mogli mature»53.
Orazio rimprovera una certa Clori, moglie di Ibico, per la sua dissolutezza e la
53 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 101.
70
invita a non perseverare nei turpi traffici, lasciando alla giovane figlia l’arte di
insidiare i giovani; che lei ritorni a filare le lane pregiate di Lucera, lasciando cetre,
fiori e soprattutto il vino di cui, nonostante l’età, è indecentemente avida:
Hor., Carm., 3, 15, 13-16: te lanae prope nobilem / tonsae Luceriam, non citharae
decent / nec flos purpureum rosae / nec nec poti vetulam faece tenus cadi.
Dalle fonti epigrafiche è possibile fare un catalogo delle virtù della moglie: le
qualità che più frequentemente erano apprezzate dal marito si riscontrano in
aggettivi quali modesta, proba (onesta), frugalis (incline al risparmio), quieta,
obsequentissima, pia, piissima, fidelissima, casta, pudens (pudica), officiosa (dedita al
dovere). Il matrimonio doveva essere sine querella (senza litigi), concorditer
(improntato alla concordia), sine offensa, sine fraude (senza inganno), sine iracundia. La
moglie ideale possedeva le caratteristiche di univira, uno viro contenta (che si
accontenta di un solo uomo nella vita), domiseda (casalinga, ‘colei che siede a casa’),
pulcherrima (bellissima), prudentissima (molto saggia), rarissima, incomparabilis54.
Tutte queste testimonianze contribuiscono a scolpire i tratti ideali cui doveva
ispirarsi nella vita la matrona romana: citando Petrocelli, «ella doveva sentirsi
realizzata non per la valorizzazione di proprie intrinseche qualità da sviluppare in
attività autonome e dignitose, ma nella misura di adattamenteo delle sue capacità
alla piena soddisfazione delle esigenze coniugali, alla riuscita educazione dei figli,
all’armonico fluire delle attività domestiche»55.
10. Effetti giuridici del matrimonio e leges Augustae
Se dal punto di vista della mentalità romana il matrimonio legittimo era inteso
54 B. V. HESBERG-TONN, Coniunx carissima, Untersuchungen zum Normcharakter im Erscheinungs-
bild der romischen Frau, Stuttgart 1983, pp. 213 sgg. 55 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 101.
71
come un mantenimento o innalzamento del rango sociale della donna e della
famiglia di questa, da quello squisitamente giuridico, le iustae nuptiae producevano
determinati effetti giuridici previsti dall’ordinamento romano, ovviamente solo se
sussistevano i requisiti essenziali sopra menzionati: legittimazione dei figli,
attribuzione del vincolo dell’adfinitas, applicazione di certe disposizioni di legge in
materia matrimoniale e familiare.
a) Legittimazione dei figli. I figli nati da iustae nuptiae sono legittimi, cittadini
romani e sottoposti alla patria potestas del genitore o, se questi è filiusfamilias, a quella
del di lui paterfamilias. L’effetto si produce indipendentemente dallo status civitatis
della madre.
b) Adfinitas. Fra un coniuge e gli ascendenti e i discendenti immediati dell’altro
sorge, e perdura finché esiste il matrimonio, il vincolo dell’adfinitas, a cui si
riconnettono determinate conseguenze giuridiche, anche in ordine a taluni divieti
matrimoniali, configurati nel diritto classico come mancanza di conubium fra l’uomo
e la donna e, in epoca più tarda, come impedimento a costituire fra determinate
persone un matrimonio legittimo (per quest’ultimo punto si rinvia al capitolo VI).
c) Disposizioni di legge. Si applicano ai coniugi una serie di disposizioni quali i
reciproci diritti successori, i diritti sulla dote e sulle varie donazioni nuziali, i diritti
e le limitazioni stabilite dalle leggi augustee in ordine alle successioni e le sanzioni
penali per l’adulterium, comminate dalla lex Iulia de adulteriis, ed infine il divieto di
donazioni fra loro.
Tuttavia, verso l’inizio del I secolo, l’istituto delle iustae nuptiae, che era stato per
secoli il modello familiare per eccellenza, subì una battuta di arresto. Già nel III
secolo le numerose guerre combattute da Roma comportarono un mutamento non
indifferente nella società romana: la decimazione della popolazione maschile aveva
concentrato grandi ricchezze nelle mani delle donne, concedendo a queste ampia
72
libertà e una nuova consapevolezza del proprio ruolo indipendente dal marito56.
La riluttanza delle donne a sottomettersi alla manus, soprattutto di quelle
appartenenti ai ceti abbienti, avrebbe comportato un rapido decadimento del
matrimonium cum manu, cioè accompagnato dalla trasmissione della patria potestas
della donna dalla famiglia di origine in capo al marito. La manus infatti avrebbe
reciso la parentela giuridica con la propria famiglia, impedendo alle donne di
partecipare alle aspettative successorie di questa o, se erano sui iuris, privandole
della capacità di essere titolari di un proprio patrimonio. Allo stesso modo, la Roma
del I secolo p.e.v. dovette sopportare un altro notevole cambiamento sociale che si
ripercosse in misura non indifferente anche nella formazione del legame coniugale e
nelle leggi che governavano i matrimoni legittimi.
I mutamenti politici avvenuti in seguito alle guerre civili, di Mario contro Silla e
di Pompeo contro Cesare, produssero un clima di inquietudine e di incertezza. I
tentativi di sovvertire con poteri personali l’antico assetto repubblicano scatenarono,
all’interno della comunità romana, un’aspirazione all’elevamento sociale ad ogni
costo, smania di ricchezza e corruzione dilagante (nei governatori provinciali per
fare solo un esempio), compravendita di cariche pubbliche senza alcuna
meritocrazia.
Lo scenario sociale vide minacciati i valori dell’onore e del prestigio propri della
nobiltà di nascità (decus e dignitas) e dell’onesta carriera politica (cursus honorum) che
tanto decantavano i letterati dell’epoca: famosissima è la citazione di Cicerone, nel
discorso contro Catilina, nel deplorare la perfidia e la corruzione dei suoi tempi.
Cic., Cat. Orationes, 1, 2: O tempora, o mores! Senatus haec intellegit. Consul videt;
hic tamen vivit. Vivit? immo vero etiam in senatum venit, fit publici consilii particeps,
notat et designat oculis ad caedem unum quemque nostrum. Nos autem fortes viri
satisfacere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitemus. Ad mortem te,
56 C. FAYER, Matrimonio cit., p. 285.
73
Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in
nos [omnes iam diu] machinaris.
La fortunata esclamazione, che rispecchia l’animo umano di tutte le epoche di
rimpiangere sempre ciò che è stato, oggi è spesso usata in tono scherzoso o
bonariamente polemico per criticare gli usi e costumi del presente, denotando
comunque una visione tradizionalistica e conservativa della società.
La società romana diventa eterogenea, composta da nobili decaduti, senatori non
più influenti, cavalieri facoltosi, piccola borghesia a salvaguardia dei proprio
interessi, clienti, peregrini immigrati dalle province, liberti spesso arricchiti e
schiavi. Un simile corpo sociale rappresentava una instabile situazione per
qualunque tipo di governo fosse presente a Roma: era necessario controllarlo ed
integrarlo in un programma di riorganizzazione politica ed economica.
L’intelligenza di Ottaviano fu proprio quella di riformare la società romana in ogni
suo aspetto e fin dalle sue fondamenta. Tra le pragmatiche ed oculate innovazioni
del primo princeps romano si ravvisano:
a) riforma del cursus honorum di tutte le principali magistrature romane,
ricostruendo la nuova classe politica ed aristocratica;
b) riordino del sistema amministrativo provinciale con la creazione di coloniae e
municipia, favorendo la romanizzazione degli stessi;
c) riorganizzazione delle forze armate di mare e di terra, con l’introduzione di
milizie specializzate per la difesa e la sicurezza dell’Urbe;
d) ristrutturazione dei sistemi difensivi dei confini imperiali, acquartierando in
modo permanente legioni e auxilia in fortezze lungo il limes;
e) costruzione di nuovi edifici pubblici facendo di Roma una città
monumentale;
f) rinascita economica e del commercio grazie alla pacificazione dell’intera area
74
mediterranea e la costruzione di nuovi porti, strade, ponti, finanziati con un
piano di conquiste territoriali senza precedenti (grano egiziano, miniere d’oro
cantabriche e d’argento illiriche);
g) promozione di una politica sociale più equa verso e classi meno abbienti, con
continuative elargizioni di grano e costruzione di nuove opere di pubblica
utilità come terme, acquedotti e fori;
h) riordino del sistema monetario, rimasto immutato per secoli;
i) impulso alla cultura, grazie anche all’aiuto di Mecenate.
Questa notevole opera riformatrice, che mirava a raggiungere la pacificazione e
la sicurezza delle popolazioni, soprattutto quella italica, nel vastissimo dominio
romano, contribuì alla formazione di un ampio consenso attorno al programma di
Ottaviano: egli si presentò come difensore dell’Italia e delle sue tradizioni, come
garante del ripristino dell’antica moralità, come pacificatore dell’Impero e liberatore
dell’Urbe. È in questo contesto che si inseriscono una serie di leggi a protezione
della famiglia e del mos maiorum, chiamate leges Iuliae.
Le parole di Petrocelli analizzano bene la scena storico-sociologica dell’epoca: «il
nuovo quadro legislativo recepiva, sia pur faticosamente, alcuni elementi di novità
dovuti all’evolversi dei tempi e al maturarsi oggettivo di determinate condizioni,
ma nell’intento complessivo della restaurazione moralizzatrice, riportava
inesorabilmente la donna al ruolo canonico che la società patriarcale le aveva
destinato ed era, per certi versi, un argine contro quelle improvvise esplosioni di
autonomia, considerazione, indipendenza, verificatesi negli ultimi due secoli della
repubblica. Lo stato ribadiva i contenuti dell’ideologia portante della famiglia
ridefinendone perentoriamente i contorni, riaffermando la funzionalità a questa
concezione della condizione femminile e in questa veste, soprattutto
75
legittimandola»57.
Ottaviano, già diventato Augusto, emanò la lex Iulia de maritandis ordinibus nel 18
p.e.v.; la lex Iulia de adulteriis coercendis, successiva alla precedente, ma dello stesso
anno; la lex Papia Poppaea nuptialis del 9 e.v., che integra disposizioni della prima. La
prima e la terza sono costantemente citate sotto il nome di lex Iulia et Papia Poppaea
ed a questa, come attesta Volterra, «vengono unitariamente riferite le varie norme,
rendendo perciò impossibile ai moderni la ricostruzione separata del contenuto
dell’uno e dell’altra»58.
a) Lex Iulia de adulteriis coercendis. La normativa introdotta dalla lex Iulia de adulteriis,
emanata con finalità moralizzante della società romana, risponde alla nozione
giuridica di matrimonio classico. Il principio di fondo che regola la neodisciplina
augustea si può così riassumere: qualsiasi unione sessuale fra un uomo ed una
donna che non abbia i requisiti per poter costituire iustae nuptiae è considerata
adulterium, se uno dei due è ancora unito in matrimonio legittimo con persona di
sesso diverso, stuprum in tutti gli altri casi (anche se dai testi giuridici e letterari i
due termini diventano spesso sinonimi). Pesanti pene afflittive sono comminate
tanto all’uomo che alla donna colpevoli59.
La legge prevede l’eccezione per determinate categorie di donne che non
possiedono il conubium necessario a porre in essere iustae nuptiae, definite in quas
stuprum non committitur, con cui un cittadino romano era libero di intraprendere
relazioni sessuali senza il pericolo di subire la sanzione.
Qualsiasi cittadino romano, anche l’incapace a stare in giudizio, può muovere
accusa pubblica contro l’uomo e la donna colpevoli di stuprum. Per quanto riguarda
l’adulterium, invece, la denuncia pubblica viene posticipata dopo sessanta giorni dal
57 C. PETROCELLI, La stola e il silenzio cit., p. 78. 58 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 769. 59 G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Del
Grifo, Bari, 1997.
76
ripudio operato dal marito ed effettuata tramite accusatio adulterii iure extranei,
aperta ad ogni cittadino romano. Un passo del Digesto precisa che il repudium deve
essere compiuto inviando il libello a mezzo di un liberto avanti sette cittadini
romani puberi:
Paolo, libro 2 de adulteriis D. 24, 2, 9: Nullum divortium ratum est nisi septem
civibus Romanis puberibus adhibitis praeter libertum eius qui divortium faciet.
Libertum accipiemus etiam eum, qui a patre avo proavo et ceteris susum versum
manumissus sit.
Varie disposizioni della legge riconoscono al paterfamilias il diritto di uccidere
impunemente l’uomo sorpreso in flagrante adulterio con la donna nella casa
dell’uccisore o in quello del genero, ma deve uccidere in continenti anche la
complice. Al marito è concesso il medesimo diritto nei confronti alternativamente
del lenone, di colui che esercita l’arte ludicra, del condannato in pubblico giudizio,
del proprio liberto o quello della moglie o del padre o della madre o dei figli, nei
confronti dello schiavo sorpreso in flagrante adulterio con la moglie nella propria
casa, ma deve immediatamente uccidere anche la donna. Se non vuole uccidere
l’adultero, può trattenerlo impunemente presso di sé per non oltre venti ore e al solo
scopo di far constatare il reato. Se non ripudia la moglie, può essere sottoposto alla
pubblica accusatio lenocinii.
Contro il marito che non effettua il ripudio, qualsiasi cittadino romano può
muovere la pubblica accusatio lenocinii, ma, anche senza accusatio, può essere
condannato per lenocinio dal magistrato adito nel giudizio di adulterio contro la
moglie:
Ulpiano, libro 2 de adulteriis D. 48, 5, 3: Nisi igitur pater maritum infamem aut
arguat aut doceat colludere magis cum uxore quam ex animo accusare, postponetur
marito.
Entro sessanta giorni dall’effettuato ripudio, al paterfamilias della donna e
77
all’uomo che al momento del reato era unito in iustae nuptiae con la donna adultera è
concessa l’accusatio adulteriis iure mariti vel patris che è privilegiata rispetto a quella
iure extranei. Se non viene intentata entro sessanta giorni l’accusatio privilegiata, è
esperibile quella iure extranei60.
Le pene per gli aduteri sono distinte tra uomo e donna: per il primo è prevista la
confisca di metà dei beni e l’esilio in un’isola; per la seconda, la confisca di metà
della dote e la relegazione in un’isola diversa da quella del suo complice. Con la
medesima legge, nonché medesime sanzioni, si punivano anche l’incesto e altre
tipologie di reati sessuali.
b) Lex Iulia et Papia Poppaea. La prima e la terza legge sopra menzionate, riunite
come precedentemente spiegato in un’unica soluzione legislativa, erano di ampia
portata e contenevano numerosi disposizioni; tuttavia, sebbene le leggi
riguardassero differenti materie, erano sufficientemente coordinate tra loro da
riuscire ad cogliere la finalità per cui erano state emanate.
Come meglio sarà spiegato nel capitolo III a proposito delle categorie prive di
honestas, la legge sopprimeva il conubium per particolari tipi di persone, in modo tale
che le unioni coniugali con queste non potessero essere riconosciute iustae nuptiae. In
coerenza con le norme della lex Iulia de adulteriis coercendis, le unioni coniugali dei
senatori e dei loro discendenti e degli ingenui con talune categorie di donne non
vengono considerate stupra.
Altre disposizioni concernono la nullità delle condizioni di non effettuare
matrimoni, di non avere figli o di conservare lo stato di vedovanza. Viene anche
dichiarato nullo il giuramento prestato da liberti di non contrarre matrimonio.
Un altro gruppo di disposizioni mirano all’aumento delle nascite di determinate
classi di cittadini romani. Tali disposizioni prevedono la sussistenza di due elementi
60 F. BOTTA, Legittimazione, interesse ed incapacità all'accusa nei 'publica iudicia', Biblioteca di
studi e ricerche di diritto romano e di storia del diritto, 3, Cagliari, Edizioni AV, 1996.
78
coesistenti: il primo individua i cittadini romani con un certo patrimonio economico
Tituli ex corpore Ulpiani 16, 1: Aliquando vir et uxor inter se solidum capere
possunt, velut si uterque vel alteruter eorum nondum eius aetatis sint, a qua lex liberos
exigit, id est si vir minor annorum XXV sit, aut uxor annorum XX minor ; item si
utrique lege Papia finitos annos in matrimonio excesserint, id est vir LX annos, uxor L ;
item si cognati inter se coierint usque ad sextum gradum, aut si vir absit et donec
abest et intra annum, postquam abesse desierit.
Il secondo elemento prevede che gli individui sopra indicati fossero diventati
anche eredi testamentari o ad intestato. Se entrambe le circostanze erano verificate,
tali persone non avevano la capacità di acquistare l’eredità se si trovavano nelle
seguenti condizioni:
1) Fossero caelibes. Ciò valeva per gli uomini dai venticinque ai sessant’anni e
per le donne dai venti ai cinquanta, non uniti in iustae nuptiae. Essi
conseguivano la qualità di eredi, ma non potevano acquistare i beni ereditari
se entro cento giorni dalla delazione ereditaria, non avessero contratto
matrimonio.
Per le vedove e le divorziate la lex Iulia de maritandis ordinibus concedeva il
termine rispettivamente di un anno e di sei mesi, portato successivamente
dalla lex Papia Poppaea a due anni dalla morte del marito e a diciotto mesi dal
divorzio.
Per il fidanzato con una donna minore di dodici anni, si sospendeva
l’applicazione della disposizione in attesa che la donna raggiunga l’età
prescritta.
2) Fossero orbi, cioè uomini senza prole e donne che avessero meno di tre figli,
se ingenue, e meno di quattro, se liberte. Essi conseguivano la qualità di
erede, ma potevanp acquistare non oltre la metà di quanto lasciato in eredità.
3) Fossero patres solitarii, cioè uomini con prole ma non uniti in iustae nuptiae. La
79
loro condizione era simile agli orbi.
4) Ciascun coniuge non poteva conseguire a titolo ereditario più di un decimo
del patrimonio dell’altro; per legato poteva conseguire l’usufrutto di un terzo
del patrimonio dell’altro.
I beni che tali persone non potevano conseguire, definiti con il termine caduca,
erano devoluti agli eredi legittimi più prossimi che avessero figli; in mancanza di
questi, a coloro che fossero nominati legatari dal medesimo testatore e che avessero
prole; in mancanza di questi all’aerarium populi Romani (tesoro del Senato) e più tardi
al fiscus (tesoro dell’imperatore). Stessa situazione riguardava i legati caduchi,
attribuiti prima agli eredi con prole, poi ai legatari con prole ed infine all’aerarium e
più tardi al fiscus.
Le limitazioni appena riportate non includevano coloro a cui era riconosciuto il
ius liberorum, cioè agli uomini con tre figli, alle donne ingenue con tre figli e alle
liberte con quattro. Tale diritto poteva essere accordato singolarmente
dall’imperatore ad individui che non si trovassero nelle situazioni appena elencate.
I liberti con prole, il liberto maggiore di sessant’anni e la liberta maggiore di
cinquanta erano esentati dalla prestazione di operae al patrono.
Il ritorno agli antichi ideali, da sempre presenti nell’ordinamento giuridico e nelle
letteratura romana, risulta essere la finalità su cui si basava la repressione penale di
relazioni coniugali fuori dalle iustae nuptiae, unioni che non avevano i requisiti
precedentemente individuati.
Discusso è però quale sia stato il reale effetto pratico delle leggi augustee. Alcuni
autori affermano che non è certamente possibile parlare di un successo completo, sia
perché osteggiate dalla classe equestre (Svet., Vitae Cesarum, 2, 34), sia perché la
riforma del matrimonio e della famiglia dovevano passare anche da un ritorno ai
vecchi costumi, ciò che non sembra essere accaduto nel primo secolo dell’Impero.
Alcune modifiche sono state apportate più tardi, relativamente a disposizioni
80
successorie, abolite da Caracalla, e per mitigare la repressione di talune relazioni
extraconiugali, che furono applicate con intransigenza anche ai congiunti di
Augusto (si ricordi la figlia Giulia, condannata all’esilio per aver condotto una vita
lussuriosa e complottato contro l’imperatore). Risulta pur vero, però, che le norme
ricordate rimasero in vigore nel II e ancora in pieno III secolo, come dimostrano i
commenti sulle leggi augustee di Gaio, Mauriciano, Marcello, Paolo, Ulpiano,
Papiniano. Le abrogazioni iniziarono con gli imperatori del IV secolo.
81
Capitolo II
PAELEX
1. Fonti
Se l’excursus giuridico sul matrimonio è compito non facile sia per la vastità del
periodo storico in esame, sia per i mutamenti della società romana, più difficile
risulta l’illustrazione di quelle unioni non considerate iustae nuptiae
dall’ordinamento romano.
Tra le fonti, il documento più antico che tratti di unioni extramatrimoniali
riguarda una disposizione delle leges regiae attribuite dalla tradizione a Numa
Pompilio. Nell’epitome festina del De verborum significatu di Verrio Flacco viene
presentata la voce ‘pelices’:
Fest. (Paul.) s.v. pelices (p. 248, ed LINDSAY): Pelicem nunc quidem appellantur
alienis succumbentes non solum feminae, sed etiam mares. Antiqui proprie eam pelicem
nominabant, quae uxorem habenti nubebat. Cui generi mulierum etiam poena
constituta est a Numa Pompilio hac lege: ‘Pelex aram Iunonis ne tangito; si tanget,
Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito’.
Lo stesso disposto normativo viene indicato anche da Gellio:
Gell., Noct. Att., 4, 3, 3: "Paelicem" autem appellatam probrosamque habitam, quae
iuncta consuetaque esset cum eo, in cuius manu mancipioque alia matrimonii causa
foret, hac antiquissima lege ostenditur, quam Numae regis fuisse accepimus: “Paelex
aedem Iunonis ne tangito; si tangit, Iunoni crinibus demissis agnum feminam caedito."
"Paelex" autem quasi pallax, id est quasi pallakis. Ut pleraque alia, ita hoc quoque
vocabulum de Graeco flexum est.
L’omogeneità di entrambi i passi nel presentare la disposizione numana, non
82
inficiata dalla variante omofona ae/e di paelex61, mette innanzitutto in evidenza che
l’antico legislatore non si sia preoccupato di definire il termine paelex, perché, come
afferma Castello, «la definizione spetta agli interpreti»62. Ecco quindi che non è
possibile risalire immediatamente all’esatta valenza terminologica della parola
paelex, così come usata nelle leges regiae, ed è per questo che gli stessi studiosi romani
si sono preoccupati di darne una definizione ed, in alcuni casi, anche di risalire
all’origine della stessa.
Per quanto riguarda l’origine del termine ci viene in soccorso lo stesso Gellio
appena citato che, sempre nell’opera Noctes Atticae, afferma:
Gell., Noct. Att., 4, 3, 3: ‘Paelex’ autem quasi πάλλαξ, id est quasi παλλακίς. Ut
pleraque alia, ita hoc quoque vocabulum de Graeco flexum est.
In un passo del Digesto, Paolo attesta:
Paolo, libro 10, ad legem Iuliam et Papiam D. 50, 16, 144: […] quosdam eam, quae
uxoris loco sine nuptiis in domo sit, quam παλλακήν Graeci vocant.
Sembra che gli scrittori antichi concordino nel ritenere che la parola paelex abbia
un’origine greca e, benché presentino diverse traslitterazioni, il segno grafico è
sostanzialmente omofono63. Altri studiosi ravvisano invece una mediazione etrusca
del termine oppure una radice comune, propria forse della lingua indoeuropea, da
cui deriva la parola paelex arcaica latina e la παλλαϰή greca.
Castello aggiunge anche le opinioni contrastanti di Meyer, il quale fa derivare la
parola dall’ebraica pîlegesh ילגש e di Gesenius che propone la sua introduzione ,פ
presso gli ebrei dai persiani. A proposito della seconda opinione, Castello precisa
che, nell’Lexicon Homericon di Ebeling, παλλαϰή deriva dal sanscrito bàlaka; lo stesso
61 P. GIUNTI, Adulterio e leggi regie. Un reato tra storia e propaganda, Giuffré, Milano, 1990, p. 143. 62 C. CASTELLO, In tema di matrimonio e concubinato nel mondo romano, Milano, 1940, p. 9. 63 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 144.
83
autore avverte, però, che l’origine della parola è oscura64.
Fermarsi troppo sul problema dell’origine della parola risulta inutile
all’economia del discorso perché tutte le varianti proposte, che siano greche o
ebraiche, non specificano il significato del termine; inoltre, non sembra neppure che
l’antica paelex romana trovi corrispondenza nella παλλαϰή greca o nella pîlegesh
ebraica65.
Il problema più grande, infatti, è proprio stabilire il significato del termine paelex,
del quale non vi è una definizione univoca. Recuperando i passi citati
precedentemente, Festo e Gellio affermano:
Fest. (Paul.) s.v. pelices (p. 248, ed LINDSAY): Pelicem nunc quidem appellantur
alienis succumbentes non solum feminae, sed etiam mares. Antiqui proprie eam pelicem
nominabant, quae uxorem habenti nubebat.
Gell., Noct. Att., 4, 3, 3: ’Paelicem’ autem appellatam probrosamque habitam, quae
consuetaque esset cum eo, in cuius manu manipioque alia matrimonii causa foret, hac
antiquissima lege ostenditur…
Per completare la rassegna delle fonti antiche, Paolo riporta tre definizioni: la
prima è tratta dai memorialium libri di Masurio Sabino, giurista del I sec e.v.; la
seconda dal libro de iure Papiriano di Granio Flacco; mentre la terza è di alcuni autori
non precisati.
Paolo, libro 10, ad legem Iuliam et Papiam D. 50, 16, 144: Libro memorialium
Massurius scribit ‘pellicem’ apud antiquos eam habitam, quae, cum uxor non esset,
cum aliquo tamen vivebat: quam nunc vero nomine amicam, paulo honestiore
cuncubinam appellari. Granius Flaccus in libro de iure Papiriano scribit pellicem nunc
volgo vocari, quae cum eo, cui uxor sit, corpus misceat: quosdam eam, quae uxoris loco
64 C. CASTELLO, In tema cit., p. 10 nt. 4. 65 C. CASTELLO, In tema cit., p. 11.
84
sine nuptiis in domo sit, quam παλλακήν Graeci vocant.
Nella versione greca del passo di Paolo (Basilici 2, 11, 144) viene omesso del tutto
il passo di Granio Flacco, ma, riprendendo la definizione dei quidam (quae uxoris loco
sine nuptiis in domo sit), si nota una preziosa e significativa aggiunta: la permanenza
della donna nella casa dell’uomo è definita νομίμως, conforme al diritto66. La paelex
è, quindi, una figura giuridicamente lecita.
Si può comporre un quadro riassuntivo delle varie definizioni di paelex,
disponendole in modo cronologico per evidenziarne la progressiva involuzione di
valore subita dalla parola67:
a) Antiqui, Verrio Flacco – «si sposava ad un uomo che aveva una moglie»;
e Masurio Sabino – «pur non essendo moglie, viveva tuttavia con un uomo»;
b) Granio Flacco – «mescola il proprio corpo con un uomo che ha già una moglie»;
c) ‘Quidam’ (contemporanei di Flacco) – «vive con un uomo nella casa di lui come se
fosse moglie, al di fuori del matrimonio»;
d) Gellio – «ritenuta disonorata, colei che fosse accoppiata e avesse una relazione intima
con un uomo sotto la cui potestà maritale e sotto il cui potere un’altra donna fosse
congiunta a scopo di matrimonio».
2. La paelex nell’età arcaica
Dai passi relativi ai tempi più antichi («nunc… antiqui», «antiquissima lege», «apud
antiquos… nunc»), sembra che gli autori non riescano a risalire ad un significato
preciso e determinato della parola paelex. Se confrontato, però, con i paradigmi
ellenici («quam παλλακήν Graeci vocant», «ita hoc quoque vocabulum de Graeco flexum
66 M. FIORENTINI, La città i re e il diritto in A. Carandini (cur), La leggenda di Roma III. La
Costituzione, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 2011, p. 337. 67 M. FIORENTINI, Città cit., p. 338.
85
est») si può individuare nel termine romano la compagna stabile dell’uomo, unita a
lui in un rapporto durevole68.
La disposizione contenuta nella lex Numae ben chiarisce che la paelex non potesse
essere parificata giuridicamente alla uxor: solo la moglie unita in manu mancipioque
poteva partecipare ai riti della dea custode delle iustae nuptiae e della filiazione
legittima. Se la paelex si fosse avvicinata all’altare di Giunone (la versione di Festo
sembra più antica dell’aedes Iunonis di Gellio), avrebbe violato il divieto numano,
per altro più di carattere rituale che giuridico69.
Giunone è «divinità pronuba per antonomasia, nume tutelare delle nozze, del
parto (Iuno Lucina) e, più in generale della dignitas e dello statuto matrimoniale (Iuno
Regina)»70: potremmo dire, usando una mentalità moderna, che Iuno rappresenta
l’astrazione divina del concetto di uxor. L’avvicinarsi incautamente all’altare della
dea si può metaforicamente interpretare come la parificazione sul piano giuridico
dei due soggetti femminili, concetto inviso alla maggioranza della comunità
romana arcaica, quanto meno dell’età del re sabino.
La preoccupazione di tener distinte queste figure si può ravvisare anche in un
passo di Ovidio che, presentando in modo teatrale la cosmogonia del calendario
romano, mette in scena la rivalità tra giugno (che deriva proprio da Iuno) e maggio
(che deriva da Maia, dea della fecondità e del risveglio della natura in primavera):
Ovid., Fasti, 6, 26, 33-37: «Iunius a nostro nomine nomen habet… / si torus in pretio
est, dicor matrona Tonantis, / iunctaque Tarpeio sunt mea templa Iovi. / an potuit Maio
paelex dare nomina mensi, / hic honor in nobis invidiosus erit? / cur igitur regina vocor
princepsque dearum… ».
La scelta lessicale del poeta, che definisce giugno quale matrona Tonantis e
68 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 148. 69 M. FIORENTINI, Città cit., p. 339. 70 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 152
86
maggio come paelex, non sembra affatto casuale: l’antitesi mitologica rispecchia nella
realtà la disposizione numana, volta a formalizzare in senso negativo il ruolo
domestico della paelex, distinto e subalterno rispetto alla uxor.
La sanzione comminata alla paelex inottemperante consisteva in un piaculum, un
sacrificio riparatore di una trasgressione di natura religiosa: «se lo tocchi, coi crini
sciolti sacrifichi un’agnella a Giunone». L’acconciatura, che costei doveva tenere
durante il piaculum, era parte della sanzione imposta.
Astolfi considera i capelli sciolti, crines demissis, come chiaro atto contrario ai sex
crines, le sei treccie delle «donne che vanno a sposa», simboleggiando la sua volontà
nel considerare non valido il matrimonio contratto con l’uomo sposato. Questa
opinione non sembra essere così convincente, visto che i sex crines sono propri della
nubenda, non dell’uxor. Sembra più plausibile che, come la barba non rasata o le
vesti trasandate per gli uomini, anche i capelli sciolti costituissero «un codice sociale
di abbigliamento di lutto e umiliazione, ben intonati ad una persona in procinto di
compiere un sacrificio riparatore per la trasgressione di un precetto rituale»71.
La sanzione sembra dunque manifestare un sfaccettatura penale oltre che
religiosa: l’offesa al culto della dea Giunone costituiva attentato alla certezza del
diritto sui rapporti familiari che certificavano le iustae nuptie, la legittima filiazione e
le aspettative successorie72. Ma, come da sempre attesta il diritto penale, se è
necessaria una legge che imponga un divieto, tale legge è testimonianza che
determinati fatti abbiano sconvolto l’equilibrio sociale della comunità, tanto da
indurre il legislatore a legiferare e minacciare una sanzione al perpetuarsi di quel
comportamento ritenuto dai più scorretto.
La paelex godeva, quindi, di uno status diverso da quello di concubina, quasi
parificato a quella dell’uxor, ma assestandosi a metà strada tra le due figure: ella è la
71 M. FIORENTINI, Città cit., p. 339. 72 M. FIORENTINI, Città cit., p. 340.
87
donna che, pur non potendo essere moglie, viveva nella stessa casa di questa («cum
uxor non esset, cum aliquo tamen vivebat»); è colei che può lecitamente unirsi all’uomo
sposato, in pacifica coesistenza con la nupta («quae uxorem habenti nubebat»).
La dottrina moderna è arrivata a configurare il rapporto tra l’uomo sposato e la
paelex come un matrimonio, seppur sempre di rango inferiore rispetto a quello
contratto con la uxor. Gli stessi autori romani, non riuscendo a comprendere fino in
fondo il ruolo sociale che la paelex aveva rivestito nel periodo arcaico, l’hanno
relegata al rango di concubina («paulo honestiore cuncubinam appellari»). Si potrebbe
quindi avanzare l’ipotesi che nella Roma primitiva vigesse, o fosse comunque
ammesso, un regime di «bigamia imperfetta» con due mogli di rango diseguale
rispetto al marito: la uxor, moglie legittima in manu mancipioque, cioè colei che ha
contratto matrimonium cum manu secondo le regole del matrimonio arcaico, e la
paelex «iuncta consuetaque», accoppiata al marito di questa ed avente con lui una
relazione intima, come se avesse posto in essere un matrimonio in senso lato, senza
l’acquisto della manus73.
Pugliese si spinge a ipotizzare un precedente regime di poligamia, nel quale
l’uomo potesse avere due mogli, entrambe qualificate come uxores, che fu sostituito
successivamente da una situazione di poligamia diseguale, introducendo il termine
paelex, mutuato direttamente dal greco secondo l’autore, per indicare la moglie con
status giuridico inferiore. La figura della paelex si inserirebbe così in un contesto di
accesi contrasti etici tra coloro che rimasero fedeli al regime di poligamia e coloro
che, sostenendo rigidamente il matrimonio monogamico, dovettero
temporaneamente accontentarsi del divieto religioso numano74.
Circoscrivendo l’area delle relazioni sessuali legittime, il primo intento del
sovrano sabino farebbe emergere, in negativo, il ruolo di colei che si unisca
73 M. FIORENTINI, Città cit., p. 340. 74 G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Torino, 1990, p. 103.
88
sessualmente ad un uomo, senza essergli né moglie, né concubina. La paelex risulta
così appartenere ad una sorta di categoria residuale, subalterna rispetto alla figura
preminente della uxor, ma pur sempre lecita75.
Per usare le parole di Patrizia Giunti, «la paelex si affianca dunque alla sposa
legittima in un ruolo gerarchico e pertanto non conflittuale: sicché ne scaturisce un
quadro vario e dialettizzato delle relazioni sessuali domestiche, a stregua di un
regime poligamico nella sostanza ma la cui formale monogamia sopravvive grazie
alla rigorosa distinzione fra lo status di uxor e quello di concubina»76.
3. La pallakè greca
Nella ricerca della paelex latina non si può non ravvisare, come lo stesso Gellio ci
indirizza, una somiglianza sia linguistica che sociale con la παλλακή greca.
Malgrado si possa fare un paragone lessicale, è importante sottolineare che non
risulta scontata la corrispondenza semantica tra un termine greco e l’equivalente
latino. Se, infatti, anche la παλλακή greca può essere tradotta con la parola
concubina, è doveroso fare due specificazioni: la prima riguarda la questione
pregiudiziale che tende ad attribuire a «concubina» quel disvalore morale insito
nell’accezione moderna del termine; la seconda è volta alla ricerca comparatistica tra
la figura della concubina romana e quella greca.
Negli anni diversi studiosi si sono approcciati alla questione, soprattutto grazie
alla scoperta di due iscrizioni provenienti da Tralles in Caria, regione dell’odierna
Turchia, datate tra il II e il III sec e.v. I testi delle due iscrizioni sono i seguenti:
Poljakov, n. 6: 'A)gaqh=i Tu¢xhi / L. Au¦reli¢a Ai¦ / mili¢a, e¦k pro / go¢nwn palla
/ ki¢dwn kai£ a¦ni / ptopo¢dwn, qu / ga¢thr L. Au¦r. Se / kou¢ndou Se[…] / ou,
75 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 154. 76 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 149.
89
pallakeu¢sa / sa kai£ kata£ xrh / smo¢n / Dii¢.
La seconda iscrizione è la seguente:
Poljakov, n. 7: Melti¢ne Mosxa= / pallakh¢, mhtro£j / de£ Paulei¢nhj th=j /
Ou¦alerianou= Fil / ta¢thj, e¦pi£ to£ e¥ch=j / pentaethri¢si b`, / a¦po£ ge¢nouj
tw=n / pallaki¢dwn. Dii¢.
Le parole πάλλαξ e παλλακή sono state alternativamente tradotte con prostituta
sacra, profetessa, concubina ed ancella del tempio77.
a) Prostituta sacra. Il primo ad affrontare la questione fu Sir William Ramsey che,
nel 1883, identificò Meltine, Paulina e Aurelia, come prostitute sacre, perché
appartenevano ad una famiglia nella quale esisteva l’antico costume di considerare
le giovani donne come hetairai al servizio del tempio. Le protagoniste delle due
iscrizioni non erano però prostitute di professione, ma è lecito supporre che
avessero rapporti sessuali solo saltuariamente, in corrispondenza di singole
celebrazioni religiose78.
L’argomentazione di Ramsey si ricollega a due passaggi di Strabone. Nel primo
passo vengono indicate le ragazze egizie di alto lignaggio, consacrate a Zeus, che
giacevano con chiunque volessero fin dalla tenera età.
Strabo, Geogr., 17, 1, 46: t¤ de£ Dii£ oán ma¢lista timw¤sin, eu¦eidesta¢th kai£
ge¢nouj lamprota¢tou parqe¢noj i¥era¤tai, aáj kalou¤sin oi¥ àEllhnej
palla¢daj: auàth de£ kai£ pallakeu¢ei kai£ su¢nestin oiâj bou¢letai me¢xri
aän h¥ fusikh£ ge¢nhtai ka¢qarsij tou¤ sw¢matoj: meta£ de£ th£n ka¢qarsin
di¢dotai pro£j aãndra, pri£n de£ doqh¤nai pe¢nqoj au¦th¤j aãgetai meta£ to£n th¤j
pallakei¢aj kairo¢n.
La parola πάλλαξ non essendo però una forma alternativa di παλλακή, presenta il
77 S. L. BUDIN, Pallakai, prostitutes and prophetess, Classical Philology, Vol. 8, n. 2, 2003, p. 148. 78 W. M. RAMSEY, Unedited Inscriptions of Asia Minor, BCH 1883, 7.
90
significato di «giovane sacerdotessa» o «giovane ancella», senza quindi alcuna
valenza sessuale del termine, come invece vorrebbe far intendere l’autore greco79.
Secondo Budin, infatti, il sacerdozio che Strabone sta descrivendo potrebbe
riferirsi alla «Divina Adoratrice» del dio Amun oppure alle heneret, danzatrici e
musiciste del tempio che, pur non pronunciando alcun voto di castità, non
prendevano marito e non generavano: esse si consacravano al servizio di Amun,
accrescendo con musiche e danze il potere di sensualità e fertilità residente nel dio,
raffigurato in forma itifallica in questa particolare manifestazione80. Oppure ancora
alla «Sposa di Amun», titolo tradizionalmente assunto dalla sorella o dalla figlia del
faraone, come testimoniano le iscrizioni in alcuni sepolcri, che veniva identificata
nella lingua e cultura greca come «Concubina di Zeus»81.
Benché spesso gli autori classici si riferivano ai membri femminili delle famiglie
reali egizie con l’espressione «concubine del dio», certamente le sacerdotesse non
avevavo rapporti sessuali promiscui: esse dovevano mantenere una condotta
incontaminata ed irreprensibile per essere degne della santità del luogo e dei servigi
riservati alla divinità e al faraone, loro sposo. Non ci sono pertanto ragioni per
paragonare le παλλάδας greche alle prostitute sacre82.
Il secondo passaggio di Strabone concerne un’iscrizione della città di Comana sul
Mar Nero, famosa per la prostituzione sacra, e non lontana da Tralles.
Strabo, Geogr., 12, 3, 36: kai¢ ei¦sin a¥brodi¢aitoi oi¥ e¦noikou¤ntej, kai£
oi¦no¢futa ta£ kth¢mata au¦tw¤n e¦sti pa¢nta, kai£ plh¤qoj gunaikw¤n tw¤n
e¦rgazome¢nwn a¦po£ tou¤ sw¢matoj, wân ai¥ plei¢ouj ei¦si£n i¥erai¢. tro¢pon ga£r
dh¢ tina mikra£ Ko¢rinqo¢j e¦stin h¥ po¢lij
79 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 151. 80 B. LESKO, Women and Religion in Ancient Egypt, in Diotima (http://www.stoa.org/diotima/)
2002. 81 B. LESKO, Women and Religion cit. 82 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 151.
91
La comparazione con Corinto, dove v’era un santuario dedicato alla dea
Afrodite, farebbe supporre l’uso del termine hetaira o hierodoulos, per indicare le
prostitute sacre, piuttosto che παλλακή, neppure menzionato nel passo. Per di più, le
donne di Tralles sono consacrate a Zeus e non ad Afrodite.
Anche da quest’ultimo passo non emergono chiare evidenze che il termine
pallakai delle iscrizioni in esame assuma il significato di prostitute sacre. La teoria di
Ramsey risulta quindi da scartare83.
b) Profetessa. Kurt Latte nel 1940 suggerì che il termine παλλακή si riferisse una
forma di divinazione, quasi fosse una relazione sessuale con la divinità. Il supposto
ruolo della concubina delle due iscrizioni viene comparato con la figura della
promantis descritta in un passaggio di Erodoto (1, 181-182)84. Questa teoria viene
appoggiata anche da Alfred Laumonier e Fjodor Poljakov.
Sia il culto di Zeus Larasios, sia quello di Apollo Pythios erano importanti a
Tralles e ad avvalorare l’ipotesi che le donne fossero profetesse è l’uso della parola
aniptopodon, letteralmente «con piedi sporchi», che è presente sia nell’iscrizione di
Aurelia, sia nell’Iliade:
Iliade 16, 233-235: Zeu¤ aãna Dwdwnai¤e Pelasgike£ thlo¢qi nai¢wn / Dwdw¢nhj
mede¢wn dusxeime¢rou, a¦mfi£ de£ Selloi£ / soi£ nai¢ous' u¥pofh¤tai a¦nipto¢podej
xamaieu¤nai
Poiché la parola aniptopodon è utilizzata per indicare sacerdoti famosi per i loro
poteri oracolari, si può supporre che anche le pallakai discendano da profeti e siano
esse stesse profetesse. È doveroso, però, prestare attenzione al fatto che il significato
di una parola non resta sempre immutato nel tempo, soprattutto se la distanza tra
l’opera omerica e le iscrizioni di Tralles è superiore ai mille anni. Infatti, se l’origine
83 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 152. 84 K. LATTE, The Coming of the Pythia, HThR 1940, 33, p. 9-18.
92
del cognome Seius è etrusca, come afferma Wilhelm Schulze85, si deve tener conto
del fatto che una famiglia etrusca del II sec e.v. dichiara una parentela con sacerdoti
della Grecia settentrionale della prima età arcaica. Sembra quindi che l’aggettivo
«scalzo» suggerisca una qualità sacerdotale degli avi di Aurelia, piuttosto che un
epiteto personale.
Un secondo argomento contro l’identificazione della parola pallakai con le
profetesse è di ordine linguistico. Il termine di uso comune per indicare una
profetessa in Grecia è promantis, che infatti è presente nella citazione di Erodoto
sopra riportata; mentre è del tutto sconosciuto l’uso della parola pallakè/pallakai in
riferimento agli oracoli nella letteratura greca.
Infine, come attesta Poljakov86, un’altra iscrizione a Tralles informa che il culto di
Zeus è stato importato da quello della Pythia: benché non sia specificato se l’origine
provenga dall’Apollo di Delfi o da un culto più locale, si fa un inequivocabile
riferimento alla mediazione di un hiereus, invece che di una promantis. Gli abitanti di
Tralles si rivolgevano ad una figura maschile e non femminile, cioè le promantides,
pertanto anche la teoria di Latte non risulta convincente.
c) Concubina. Come accennato nell’introduzione del paragrafo, la comparazione
tra la concubina latina e quella greca è terreno alquanto accidentato. Se infatti la
concubina a Roma godeva di un rispetto e una dignità inferiore solo alla uxor, tanto
da portare il titolo di matrona87, la stessa situazione non si riscontra in Grecia: le
concubine appartenevano alle classi sociali più abiette e pertanto, nessuna donna
avrebbe desiderato una lapide funeraria che evidenziasse tale status88. Infatti, nel
mondo omerico il reclutamento delle concubine coinvolgeva prevalentemente le
schiave prigioniere di guerra, anche se tale rapporto poteva instaurarsi con donne
85 W. SCHULZE, Geschichte lateinischer Eigennamen, Berlin, 1904. 86 F. B. POLJAKOV, Die Inschriften von Tralles und Nysa. Teil 1, Bonn, 1989. 87 S. TREGGIARI, Concubinae, The Papers of the British School at Rome, 1981, 49, p. 72 nt. 62. 88 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 155.
93
libere, straniere, ma anche ateniesi, senza riprovazione etica o giuridica89.
L’uso del matronimico, presente nella prima iscrizione in esame, testimonierebbe
l’assenza di un matrimonio legittimo: Meltine si definisce pallake tanto quanto lo era
sua madre, pertanto sembra logico pensare che ella sia figlia illegittima ed abbia di
conseguenza preso il cognome della madre, piuttosto che quello del padre. Tuttavia,
il fatto che Aurelia, definendosi pallakai tanto quanto lo erano i suoi avi, assuma il
patronimico è indizio che l’uso del nomen materno venisse usato per sopperire
mancanza del padre (o più spesso quando la madre fosse una prostituta). Ma sia
Aurelia, sia Meltina usano il loro nome di famiglia (Seius, Valerianus) mostrando
quindi una connessione con entrambe le linea di discendenza90.
Una seconda questione riguarda la localizzazione delle iscrizioni: in epoca
romana la Caria era territorio provinciale ed era proibito ai funzionari
amministrativi porre in essere un matrimonio legittimo con donne abitanti nella
territorio in cui era sede il proprio ufficio. Nel caso di Aurelia, il cognome etrusco
potrebbe far pensare proprio a questa eventualità, ovvero ad una unione coniugale
ma non matrimoniale, in cui il termine pallakè/concubina indicasse potenzialmente
una relazione formalizzata con un ufficiale romano, sicuramente appartenente
all’alta classe sociale91.
Si può menzionare anche la compagna di Pericle, Aspasia, con cui lo stratega
instaurò un legame così consolidato che sembra inverosimile reputarla una semplice
etera: probabilmente la sua figura sembra più accostabile alla concubina latina, cioè
una donna quasi moglie, che non ad una sofisticata prostituta greca. La donna ebbe
un figlio, Pericle il giovane, che eccezionalmente fu iscritto nelle liste dei cittadini: la
legge non concedeva lo status di ateniese a chi fosse nato da donne straniere ed
Aspasia, essendo originaria di Mileto, città della Ionia, era appunto straniera. Fu
89 P. GIUNTI, Adulterio cit., p. 150 nt. 177. 90 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 156. 91 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 156.
94
proprio il compagno nel 451 a statuire che non avessero valore giuridico i
matrimoni contratti tra persone che non fossero entrambe ateniesi. L'eccezione fu
fatta per richiesta esplicita di Pericle al popolo ateniese, dopo che questi aveva visto
morire di peste i due figli legittimi Santippo e Paralo: per non morire senza
discendenti, lo stratega implorò il popolo di concedere la cittadinanza al figlio
bastardo.
Se dal punto di vista linguistico e giuridico è possibile fare questo tipo di
accostamento, è importante anche sottolineare un passo di Demostene che
testimonia la morale sessuale della mentalità greca:
Dem., Contro Neaira, 59, 122: ta£j me£n ga£r e¥tai¢raj h¥donh¤j eànek' eãxomen, ta£j
de£ pallaka£j th¤j kaq' h¥me¢ran qerapei¢aj tou¤ sw¢matoj, ta£j de£ gunai¤kaj
tou¤ paidopoiei¤sqai gnhsi¢wj kai£ tw¤n eãndon fu¢laka pisth£n eãxein.
L’autore greco afferma che i greci hanno le cortigiane (hetairai) per il piacere, le
concubine (pallakai) per le cure quotidiane e le mogli per dare loro dei figli legittimi
ed essere le custodi fedeli delle loro case.
Inoltre, nel passo citato il termine pallake non assume una valenza sessuale, ma si
riferisce, al pari di pallas/pallax, a giovani sacerdotesse o a guardie del tempio, come
testimonia il verbo pallo, colui che brandisce un’arma. Se poi facciamo riferimento
anche al culto di Pallade Atena, notiamo che le terminologie utilizzate suggeriscano
un significano desessualizzato.
È quindi possibile immaginare che originariamente il termine pallaké fosse riferito
alle ancelle o guardie del tempio e che «concubina» fosse solamente una sotto-
sezione dell’intero insieme semantico della parola. Risulta pertanto ragionevole non
far confluire in modo automatico la connotazione latina di concubina al termine
greco pallake e di conseguenza ravvisare lo stesso ruolo sociale nelle donne delle
95
iscrizioni di Tralles92.
d) Ancella. Ci sono due aspetti che fanno propendere per l’identificazione di
queste donne come ancelle religiose. Uno è riferito al fatto che la madre di Meltina è
stata pallake per due periodi di cinque anni ciascuno: la presenza di questa
informazione fa pensare più ad un impiego presso il tempio che uno status della
donna, indicando così per quanto tempo ella ha svolto le funzioni di culto. Questa
ipotesi è avvalorata anche dal fatto che molti funzioni di culto erano temporanee,
come ad esempio le Arrhephoroi ad Atene93.
L’altro punto degno di nota si ravvisa nel fatto che sia Aurelia, sia Meltina,
mettendo in una posizione rilevante la loro discendenza da pallakidon, attestino di
possedere una dignità sociale onorata tale da essere ereditata entro ristretti nuclei
familiari, come era per diverse cariche sacerdotali in Grecia94.
Anche alla luce della citazione del Pseudo-Demostene citato sopra, sembra
plausibile che le pallakai fossero responsabili del decoro giornaliero della statua di
Zeus e degli affari quotidiani del suo santuario, accostando così la figura femminile
all’equivalente maschile di pallax, giovane uomo. Da questo punto di vista, quindi,
la parola pallakè potrebbe spingersi a ricomprendere anche un’accezione religiosa
del termine, portando a considerare le fanciulle o giovani donne nubili, magari
anche vergini, che erano a servizio temporaneo della divinità, come le «figlie di
Zeus»95.
Infine, è curioso notare la logica armonica che unisce il significato del verbo pallo,
brandire, e quello di pallakai, ad indentificare una sorta di ancella porta-lancia, con la
figura della dea Atena, il cui epiteto è appunto Pallas, rappresentata nell’arte
brandendo una lancia. Ed essendo Atena figlia del sovrano dell’Olimpo, a maggior
92 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 156. 93 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 157. 94 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 157. 95 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 158.
96
ragione anche la nozione del termine può riferirsi ad un astratto e temporaneo
legame divino e le pallakai essere considerate, come la dea della sapienza, «figlie di
Zeus»96.
Per concludere, il termine pallake/pallakis può assumere una duplice valenza
semantica: mentre da una parte si può riferire ad una donna coinvolta in una lunga,
spesso sessuale, relazione non maritale con un uomo, ovvero una concubina,
dall’altra vi sono molti indizi che escludono l’accezione sessuale dal contenuto della
parola. Di conseguenza potrebbe acquistare maggior rilevanza la connessione con le
ancelle del culto di Zeus dell’Impero Romano d’oriente e il ruolo non sessuale e non
maritale di queste nel mondo greco antico97.
4. La trasformazione del significato di paelex e l’amica
Se nell’età arcaica romana la parola paelex identificava una donna rispettata,
percorrendo le fonti e di conseguenza spostando l’attenzione verso tempi più
recenti, essa acquisì sempre più un disvalore semantico, come possiamo notare sia
dalle affermazioni dei giuristi, sia ancor maggiormente dalle letteratura del tempo.
Benché i contemporanei dell’età di Cesare ravvisino ancora un valore tutto
sommato simile agli antiqui, Granio Flacco descrive la paelex con un’affermazione
molto colorita, si potrebbe dire offensiva, ad indicare un’unione di carattere
esclusivamente sessuale:
Paulo, libro 10 ad legem Iuliam et Papiam D. 50, 16, 144: […] Granio Flaccus […]
scribit pellicem nunc volgo vocari, quae cum eo, cui uxor sit, corpus misceat.
Quel corpus misceat, letteralmente «colei che mescola i propri fluidi corporei», è
un’espressione rozza, volgo vocari come attesta lo stesso Flacco, con cui il popolo
96 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 158. 97 S. L. BUDIN, Pallakai cit., p. 158.
97
apostrofava le donne che si intrattenevano in atteggiamenti lascivi con un uomo
sposato. Anche se tale espressione risulta manifestare un’eccessiva riprovazione
sociale, Gellio attesta ormai che nella mentalità del tempo la paelex ha perso ogni
tipo di considerazione, acquistando una connotazione turpe e presentandola come
una figura disonorata:
Gell., Noct. Att., 4, 3, 3: ’Paelicem’ autem appellatam probrosamque
La stessa accezione negativa del termine si riscontra in letteratura. Nel Rudens di
Plauto il vecchio Daemones, che protegge due ragazze ateniesi che erano state
imbarcate a forza e con inganno per essere vendute in Sicilia, dice di non poter
essere loro d’aiuto, temendo che la moglie possa rinfacciargli di aver portato delle
amanti sotto i suoi occhi e rischiare di essere cacciato di casa:
Plaut., Rudens, 4, 1045ss.: DAEMONES Serio edepol, quamquam vobis [volo] quae
voltis, mulieres, / metuo, propter vos ne uxor mea med extrudat aedibus, / quae me
paelices adduxe dicet ante oculos suos. / Vos confugite in aram potius quam ego.
Sempre in Plauto, stavolta nel Mercator, una donna sposata, credendo di avere
scoperto in flagrante il marito, avvicina l’avventura di lui a quella di Giove con
Alcmena:
Plaut., Merc., 4, 688-691 : DOR. Credo mecastor. SYR. Ei hac mecum, ut videas semul
/ tuam Alcumenam paelicem, Iuno mea. / DOR. Ecastor vero istuc eo quantum potest.
Nel primo libro delle Metamorfosi, Ovidio descrive la trasformazione di Io in
giovenca. La fanciulla è fuggita all’udire le profferte di amore del dio, questi
l’afferra e le fa violenza e la muta in giovenca per celare la sua colpa alla moglie, alla
quale è costretto a donarla. Il poeta così prosegue la descrizione:
Ovid., Metamorfosi, 1, 622ss.: Paelice donata, non protinus exuit omnem / Diva
metum, timuitque Iovem, et fuit anxia furti […]
98
In un altro brano delle Metamorfosi, il tracio Tereo che è sposo di Progne, figlia
di Pandione, fa violenza a sua cognata Filomena, che disperata esclama:
Ovid., Metamorfosi, 6, 533ss.: … pro divis, barbare, factis! / o crudelis!» ait «nec te
mandata parentis / suae lacrimi smovere piis nec cura sororis / nec mea virginitas sua
coniugalia iura? / Omnia turbasti: paelex ego sum facta sororis, / tu geminus coniunx,
hostis mihi debita poena. Quin perfide, restet animam hanc, ne quod facinus tibi, /
eripis? Atque utinam fecisses ante nefandos concubitus! …
Paelex sembra essere non solo colei che convive col marito di un’altra donna, ma
anche quella che è violentata da un uomo sposato o che comunque si dona
occasionalmente a lui.
Un’altra descrizione letteraria della rivalità tra le due figure è fornita da Seneca in
una delle scene dell’Hercules Oeteus, con il conflitto tra Deianira, l’uxor, e l’Iole, la
paelex.
Anche quella sfumatura che caratterizzata la paelex arcaica quale rivale della
moglie, in epoca repubblicana e ancor più in quella imperiale, viene a perdere di
significato, per acquistarne uno più generico e indeterminato98.
Negli Annales di Tacito viene designata in tal modo la cortigiana Calpurnia, che
svela all’imperatore Claudio le turpitudini commesse a Roma da Messalina: è
plausibile che la donna fosse in una certa intimità con l’imperatore per poter fare
questo tipo di confidenze ed appartarsi con lui in privato:
Tac., Ann., 11, 30: Exim Calpurnia (id paelici nomen), ubi datum secretum, genibus
Caesaris provoluta nupsisse Messalinam Silio exclamat; simul Cleopatram, quae id
opperiens adstabat, an comperisset interrogat, […]
Ritornando alla citazione del Digesto, il giureconsulto Paolo, riferendosi all’uso
98 C. CASTELLO, In tema cit., p. 21
99
corrente della parola ai suoi tempi, ritiene che paelex abbia avuto una trasformazione
di significato: quella che oggi viene chiama amica, ai tempi di Masurio Sabino è
preferibile indicarla come concubina, a sottolineare una minor dignità sociale della
prima rispetto alla seconda e di conseguenza un mutamento semantico tra i due
periodi storici.
Paulo, libro 10 ad legem Iuliam et Papiam D. 50, 16, 144: quam nunc vero nomine
amicam, paulo honestiore cuncubinam appellari.
In età del principato, quindi, paelex diventa presumibilmente un sinonimo di
amica. Come la concubina greca non godeva normalmente di una dignità sociale
rispettabile, così era l’amica romana.
Tra gli epitaffi analizzati da Beryl Rawson, il termine in esame è infrequente e
solo un quarto delle iscrizioni possono essere riferite a coniugi. Amica, nell’accezione
latina della parola, non significa solo amicizia, ma indica una relazione sessuale
senza la presenza di figli. Delle diciassette testimonianze analizzate, cinque persone
riguardano liberti, sette schiavi, ventuno incerti, nel senso che viene indicato il nome
ma non lo status, e solo una donna risulta nata libera. La scarsità di dati potrebbe
consigliare una certa ponderatezza nel comprendere la natura di queste relazioni,
ma l’esiguo numero delle iscrizioni, unito all’assenza di figli, suggerisce che le
amicae erano usualmente delle compagne transitorie99.
Dello stesso parere è Watson che, attraverso una ricognizione del lessico
plautino, ha constatato un uso molto più frequente di amica rispetto a concubina,
evidenziando che concubina / concubinatus riflettono relazioni uomo-donna stabili e
con duratura convivenza, mentre amica sottintende incontri occasionali e
superficiali100. Emblematico è il brano del Miles Gloriosus di Plauto dove
99 B. RAWSON, Roman Concubinage and Other De Facto Marriages, Transactions of the American
Philological Association (1974-), 104, 1974, p. 299. 100 A. WATSON, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford, 1967, p. 1 ss.
100
Philocomasium vive con un soldato come sua concubina, ma in segreto è l’amica del
giovane Pleusicles.
Che le amicae, sulla falsariga del disvalore sociale attribuito alle pelices, fossero
delle prostitute, magari anche di alto bordo, è testimoniato da numerosi
componimenti poetici. Queste donne, diventando quasi una sorta di topos ricorrente
nell’elegia d’amore latina, sono oggetto di ardente venerazione e passione da parte
di famosi poeti quali Gallo, Catullo, Properzio, Tibullo e Ovidio, affascinati da
queste colte bellezze della società mondana.
Un carme di Catullo mostra chiaramente il rapporto instaurato con queste donne
licenziose, fatto sicuramente di affetti, passioni, persino amori, ma privo della
stabilità che caratterizza il legame con la uxor o la concubina.
Il poeta rimpiange il tempo in cui pensava di essere l’unico amante di Lesbia,
tanto da nutrire nei suoi confronti un sentimento quasi paterno; ben presto, però, si
accorge di non avere l’esclusiva: l’offesa accresce la sua passione, ma ha diminuito il
suo affetto per lei.
Cat., Carme LXXII: Dicebas quondam solum te nosse Catullum, / Lesbia, nec prae me
velle tenere Iovem. / dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam, / sed pater ut gnatos
diligit et generos. / nunc te cognovi: quare etsi impensius uror, / multo mi tamen es
vilior et levior. / qui potis est, inquis? quod amantem iniuria talis / cogit amare magis,
sed bene velle minus.
Che queste donne, per quanto nobili ed elitarie potessero essere, non si
accontentassero dell’attenzione e dei componimenti poetici, lo si può ravvisare
anche nel Carme XLI di Catullo: la traduzione di Ceronetti101 coglie al meglio il
disprezzo del poeta per questa «fanciulla strachiavata», «amanza del gran fallito di
Formia», che pretende «dieci mila sesterzi in cifra tonda» per la sua compagnia.
101 CATULLO, Carmi (a cura di GUIDO CERONETTI), Le poesie, Einaudi, Torino, 1983, p. 93.
101
Cat., Carme XLI: Ameana puella defututa / Tota milia me decem poposcit, / Ista
turpiculo puella naso, / Decoctoris amica Formiani. / Propinqui, quibus est puella
curae, / Amicos medicosque convocate; / Non est sana puella. Nec rogate / Qualis sit;
solet esse imaginosa.
Anche Properzio si lamenta quanto questi legami mancassero di stabilità: se un
altro pretendente era disposto a sborsare una cifra maggiore e le invitata a
trascorrere una vacanza di lusso nella mondata località termale di Baiae (vicino a
Pozzuoli), emergeva subito la loro debolezza102.
Prop., Elegie, 1, 11: Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Bais, / qua iacet Herculeis
semita litoribus, / et modo Thesproti mirantem subdita regno / proxima Misenis
aequora nobilibus, / nostri cura subit memores a! ducere noctes? / ecquis in extremo
restat amore locus?... / …tu modo quam primum corruptas desere Baias: / multis ista
dabunt litora discidium, / litora quae fuerant castis inimica puellis: / a pereant Baiae,
crimen amoris, aquae!
In questi circoli, per così dire, bohémien, l’amore poteva essere considerato anche
un gioco: la celebre Ars amandi di Ovidio esprime bene questo tipo di concezione,
introducendo il lettore in un ambiente divertente e leggero, dove il poeta è il
protagonista di infatuazioni, conquiste e tradimenti con queste giovani fanciulle,
amate ed odiate allo stesso tempo.
102 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 323.
103
Capitolo III
CONCUBINATUS
1. La concubina nella società romana
Con il termine concubinatus nella società romana del periodo classico si intende
una qualunque relazione a scopo sessuale tra un uomo e una donna, in cui non fosse
presente l’affectio maritalis, cioè la volontà dei coniugi, propria delle iustae nuptiae, di
considerarsi reciprocamente e pubblicamente come marito e moglie. Queste
relazioni non trovavano una disciplina all’interno dell’ordinamento romano, tant’è
vero che non esiste alcuna definizione all’interno del Digesto: non generavano alcun
tipo di rapporto giuridico fra le parti, ma avevano il carattere di mere unioni di
fatto.
Benché non fosse riconosciuto dal diritto, il concubinatus non era ritenuto affatto
riprovevole per la mentalità romana dell’epoca, anzi erano unioni che si
prolungavano per un tempo considerevole, a volte anche per tutta la vita.
Per quanto la concubina non godesse dell’honor maritalis, non partecipava cioè al
rango e alla dignità sociale del marito, era una figura rispettata e onorata
socialmente: il termine latino, infatti, non presenta l’accezione negativa che
caratterizza invece quello moderno. L’etimologia della parola, da cum-cùmbere
giacere a letto con qualcuno, non racchiude il valore semantico precipuo di quel
periodo storico: sebbene nella lingua italiana possa trovare corrispondenza con i
termini «cortigiana» o «amante», normalmente nell’antica Roma stava ad indicare la
compagna stabile di un uomo.
Curioso notare che il termine concubina descrive esclusivamente il lato femminile
104
della coppia, mentre non ne esiste uno equivalente per il compagno103. Poiché tali
unioni non erano riconosciute giuridicamente e poiché l’uomo ricopriva
sicuramente la posizione sociale più alta, probabilente la lingua latina non sentì la
necessità di introdurre un termine per indicare il partner maschile, ma introdusse la
parola concubina per riconoscere, dal punto di vista sociale e morale, la donna
mantenuta e convivente con un uomo, già esercitante un ruolo attivo ed autonomo
all’interno della comunità.
Le concubine, infatti, erano quasi sempre di origine umile e servile, mentre i loro
compagni ricoprivano generalmente una posizione sociale molto più alta. Questo
tipo di unione non era disapprovata dalla società romana, anzi in qualche caso
erano addirittura incentivate: era accettato che i giovani, prima dell’età da
matrimonio solitamente tarda, avessero schiave o liberte come proprie concubine;
era conveniente per vedovi anziani o divorziati con figli prendere una donna come
concubina, piuttosto che una moglie, la quale avrebbe potuto generare altri figli
legittimi e disperdere il patrimonio ereditario della famiglia tra numerosi soggetti
legittimati104. Il freddo calcolo giuridico era mitigato, però, da numerosi casi,
soprattutto tra i membri dell’aristocrazia, in cui il rispetto per la moglie defunta o
lasciata e il riguardo per i figli di primo letto spingevano vedovi e divorziati ad
intraprendere con la nuova compagna un rapporto di convivenza informale: la
susseguente relazione era influenzata dal precedente legittimo matrimonio a tal
punto che l’uomo preferisce il concubinatus a nuove iustae nuptiae; tale concezione è
ravvisabile anche sfera affettiva moderna.
Il fatto che questa convivenza, nulla sotto l’aspetto giuridico, fosse considerata
socialmente un matrimonio de facto, si evince dalla naturalezza con la quale in molte
iscrizioni il partner viene definito anche maritus, uxor o coniunx105. Questi termini,
103 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 59 104 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 59 105 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 283 nt 14.
105
mutuati probabilmente dal diritto, acquisirono una connotazione meno formale,
tanto che uxor e concubina, a volte, vengono posti sullo stesso piano.
In una iscrizione ad Asculum (odierna Ascoli Piceno) un uomo, erigendo una
tomba e non avendo ancora preso moglie o concubina, ha proclamato beatamente di
dedicarla ad entrambe:
CIL IX 5256: Viv(unt) / C(ai) Vibi Pet(ronis?) f(ilii) / Fab(ia) Balbi / sibi et
concub(inae) / sive ux{s}or(is) ei(us) [et] / T(iti) Loreni T(iti) l(iberti) / Amphionis
l(iberto) / praeterea uni / in fr(onte) p(edes) XX /
A Forum Sempronii (odierna Fossombrone) un’altra iscrizione ricorda la
donazione di un recinto sepolcrale da parte di Gaio Valgio Fusco al collegio dei
giumentari, che si occupavano dell’allevamento e della vendita di bestie da soma106.
Il donante incluse, tra i discendenti di tutti i membri della corporazione, anche le
loro mogli e concubine:
CIL XI 6136: Loc(um) sep(ulturae) don(avit) / C(aius) Valgius Fuscus con / legio
iumentarior(um) / Portae Gallicae / posterisque eor(um) omnium // et uxoribs
concubinisq(ue).
A Fanum Fortunae (odierna Fano) un uomo si è riservato un luogo di sepoltura
per se stesso, le proprie moglie e concubine, liberti e liberte:
CIL XI 6257: Loc(us) / sepulturae / C(ai) Divilieni Val/entis et ux{s}oribus /
concubinisque / et libertis libert[abusq(ue).
Queste iscrizioni suggeriscono che, tra i cittadini romani della classe artigiana, il
concubinato fosse ritenuto normalmente un’alternativa al matrimonio e che le
106 A. TREVISIOL, Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e
Urbino, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999, p. 120.
106
concubine fossero socialmente rispettate, quasi quanto le mogli legittime107.
Il paragone sociologico tra uxor e concubina è riscontrabile prevalentemente tra i
membri del ceto medio, anche se vi sono esempi di concubinato che riguardano i
componenti più alti della piramide sociale. Virgilio, nel suo capolavoro lirico,
evidenzia chiaramente che il rapporto tra Enea e Didone non sia un matrimonio
legittimo, ma nei fatti un concubinato:
Virg., Aen., 4, 124-126: […] speluncam Dido dux et Troianus eandem / devenient.
adero et, tua si mihi certa voluntas, / conubio iungam stabili propriamque dicabo.
Virg., Aen., 4, 314-316: […] mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te /
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), / per conubia nostra, per inceptos
hymenaeos, […]
Virg., Aen., 4, 338-339: […] speravi (ne finge) fugam, nec coniugis umquam /
praetendi taedas aut haec in foedera veni.
In questi tre brani, estrapolati da uno dei libri più famosi dell’Eneide, vengono
rispettate, nella finzione letteraria, le regole giuridiche per porre in essere delle
iustae nuptiae. Nel primo brano Enea ha promesso alla regina cartaginese una
relazione stabile e duratura «conubio iungam stabili propriamque dicabo»; nel secondo
Didone si lamenta con l’eroe troiano di non rispettare il vincolo matrimoniale e le
nozze già iniziate « per conubia nostra, per inceptos hymenaeos»; ma nel terzo la scena si
conclude con l’amara risposta del pio Enea che, pur riconoscendo i meriti della
regina, precisa che non era mai stata sua intenzione unirsi in matrimonio o venire a
tali patti «nec coniugis umquam praetendi taedas aut haec in foedera veni».
La mancanza dell’affectio maritalis da parte dell’eroe troiano, intenzionato a
salpare per l’Italia e fondare una nuova Troia, è evidenza che il rapporto posto in
107 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 61.
107
essere, anche per lunghi anni come narrato nel poema virgiliano, non possa avere i
crismi delle iustae nuptiae.
È significativo, comunque, che sia dalle iscrizioni funerarie, sia in letteratura, non
emerga affatto una posizione sociale riprovata o un disvalore morale del ruolo della
concubina rispetto a quello della moglie legittima: sembra che l’unica divergenza,
così come era per la paelex arcaica, si possa scorgere sul piano giuridico, almeno per
la classe medio-alta della popolazione.
A differenza delle iustae nuptiae, poste in essere prevalentemente da donne libere,
cittadine romane e con una certa reputazione sociale derivante dalla famiglia di
appartenenza, nel concubinatus accedevano variegate tipologie di donne che, per
impossibilità a contrarre matrimonio o l’estrazione sociale, trovavano in questo tipo
di unioni l’unica forma coniugale, benché non maritale, ammessa e tollerata.
Il concubinato era abbastanza frequente già all’epoca repubblicana, ma ebbe con
l’avvento di Augusto la sua massima diffusione in tutti gli strati sociali. Come già
spiegato nel paragrafo 1.8, Augusto emanò diverse leggi volte a moralizzare la
società romana, tra quelle più famose si può citare la lex Iulia et Papia. Vennero
minacciate gravi pene afflittive per coloro che si macchiavano del reato di adulterium
e di stuprum, ma v’erano alcune categorie di donne in quas stuprum non committitur,
con le quali un cittadino romano poteva impunemente avere rapporti sessuali,
essendo prive del conubium necessario per porre in essere valide iustae nuptiae.
Innanzitutto gli schiavi, essendo giuricamente appartenenti alle res, non
potevano sposarsi; tuttavia anche cittadini romani, sia liberi che liberti, avrebbero
potuto instaurare iustae nuptiae solo nel caso in cui non fossero violate determinate
regole. Non potevano infatti contrarre matrimonio108:
a) maschi e femmine privi dell’età legale, rispettivamente di quattordici e
dodici anni;
108 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 282.
108
b) persone di condizione sociale degradante come prostitute, attrici, locandiere
e donne condannate per adulterio (dopo che Augusto lo dichiarò reato
pubblico);
c) persone che avessero tra loro determinati legami di parentela;
d) i soldati durante il periodo di servizio militare (cfr. capitolo 5);
e) i governatori con donna residente nella provincia che amministravano,
durante il periodo della loro ufficio;
f) dal II sec. e.v., il tutore con il proprio pupillo;
g) membri delle famiglie senatorie con liberti.
Alcune di queste regole (lettere a, e, f) si possono ricavare in negativo dai
requisiti essenziali per il matrimonio legittimo, di cui si è già precedentemente
trattato; altre sono state poste da leggi imperiali o senatorie; altre ancora erano
regole consuetudinarie di carattere morale ed etico.
In tutti questi casi, non era proibito intrattersi in relazioni temporanee o stabili,
ma tali unioni non erano riconosciute giuridicamente quali iustae nuptiae e di
conseguenza, dal punto di vista sociale, venivano considerate nei fatti rapporti di
concubinato.
2. Ingenua et honesta
È alquanto fuorviante, per la mentalità moderna rispetto a quella romana del
tempo, ritenere che persone in possesso di conubium, ovvero la capacità giuridica a
contrarre matrimonio legittimo, scegliessero liberamente di porre in essere
un’unione di fatto, piuttosto che matrimonio legittimo109. Le teorie promosse da
Plassard e da Meyer sono fortemente contrastate dalla mancanza di documentazioni
109 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 280.
109
epigrafiche che attestino numerose unioni tra ingenui110. Evidentemente quando il
matrimonio era possibile, le persone si sposavano; quando invece differenze sociali
rendevano il matrimonio, se non impossibile, almeno sconveniente, si conviveva in
concubinato111.
Una questione rilevante riguarda la presenza o meno di figli all’interno della
coppia: Beryl Rawson ha evidenziato che lo status giuridico dei figli, derivante dalla
natura dell’unione dei genitori, è uno dei fattori principali per cui le iustae nuptiae
erano diffuse e desiderate per coloro che potevano accedervi. Infatti, il concubinato
era svantaggioso per i figli che non avrebbero acquistato lo status di filii iusti o
legitimi se nati da donne non unite in matrimonio e di conseguenza, non godevano
dei benefici giuridici soprattutto in materia di status giuridico ed eredità. I nati da
genitori uniti in concubinato o perché tra essi era vietato il matrimonio erano
considerati invece filii naturales: questi avevano limitate capacità successiorie nei
confronti del padre, alternativamente riconosciute e negate secondo le oscillazioni
della politica imperiale.
Tra le iscrizioni presenti a Roma non solo non esiste alcun concubinato tra
persone libere, ma nemmeno alcuna donna libera è registrata come concubina.
Inoltre, se una donna libera avesse preso un liberto o uno schiavo come proprio
marito, questa non risulta attestata quale concubina112, in forza del divieto previsto
dalla lex Claudia.
Che le donne ingenuae et honestae nella quasi totalità dei casi si sposassero, appare
evidente anche dalle fonti giuridiche. La convivenza con una donna libera si
presume matrimonio legittimo a meno che, per la condizione dei coniugi o di uno di
essi, non possano costituirsi iustae nuptiae per la mancanza di uno dei requisiti
110 J. PLASSARD, Le concubinat romain sous le haut empire, Sirey, Parigi, 1921. 111 H. HUMBERT, L’individu, l’État: quelle stratégie pour le mariage classic?, in Parenté et stratégie
familiales dans l’antiquité romaine, Collect. de l’École franç. de Rome 129 (1990), p. 189. 112 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 289.
110
essenziali. In un passo di Modestino si legge:
Modestino, libro 1 regularum D. 23, 2, 24: In liberae mulieris consuetudine, non
concubinatus sed nuptiae intelligendae sunt, si non corpore quaestum fecerit.
Marciano contempla il caso di chi preferisse instaurare un rapporto di
concubinato con una donna honestae vitae et ingenua:
Marciano, libro 12 institutionum, D. 25, 7, 3, pr.: In concubinatus potest esse et
aliena liberta et ingenua et maxime ea quae oscuro loco nata est vel quaestum corpore
fecit. Alioquin si e vitae et ingenuam mulierem in concubinatum habere maluerit sine
testatione hoc manifestum facientem non conceditur. Sed necesse est ei vel uxorem eam
habere vel hoc recusantem stuprum cum ea committere.
Il giurista afferma che, esclusi certe tipi di categorie femminili, l’unione coniugale
con una donna ingenua e di buoni costumi si presumeva essere matrimonio: per
evitare questa presunzione, era dunque onere dell’uomo manifestare apertamente
che prendeva quella donna come concubina e non come moglie. Nella seconda parte
del brano viene posta una particolare condizione: se l’uomo, che ha un rapporto
coniugale con una donna ingenua di buoni costumi, nega apertamente di volerla
come moglie, allora cade nel reato di stuprum previsto dalla lex Iulia de adulteriis per
le unioni coniugali fuori dal matrimonio.
Per Marciano si ammette già in epoca classica il concubinato non solo con donna
ingenua ma anche di honesta vita; la dottrina maggioritaria, però, ritiene interpolato
questo frammento, ritenendo che nell’epoca del principato anche il concubinato con
donna ingenua et honesta sarebbe stato colpito dalle pene previste dalla lex Iulia de
adulteriis per lo stuprum.
Di conseguenza l’espressione «sine testatione hoc manifestum facientem»
risulterebbe un’aggiunta postuma, comportando un mutamento di significato del
brano citato: nella versione non interpolata il giurista affermerebbe che non è
111
concesso tenere in concubinato una donna onesta e di liberi natali113. All’obbligo di
prendere tale donna come moglie, corrisponderebbe anche in questo caso la
sanzione per il reato di stupro114.
L’argomento principe di questa opinione è la contraddizione vista con un altro
testo che riporta un parere di Atilicino che dice esattamente il contrario:
Ulpiano, libro 2 ad legem Iuliam et Papiam D. 25, 7, 1, 1: Cum Atilicino Sentio et
puto solas eas in concubinatu habere posse sine metu criminis, in quas stuprum non
committitur.
Secondo i due giureconsulti, quindi, si potevano tenere come concubine, senza
timore di commetere reato, solo quelle donne con le quali non si commetteva
stupro. Pare ovvio allora che la richiesta della testatio non sia coerente con la rigida
previsione della lex Iulia de adulteriis.
Tuttavia forse la contraddizione è più apparente che reale e si potrebbe spiegare
osservando che Atilicino, vissuto nella prima metà del primo secolo e.v. e quindi
molto vicino all’età in cui furono emanate le leges Iuliae sul matrimonio, riporta una
disciplina ancora molto dipendente da queste leggi. Marciano, invece, vissuto nella
prima metà del terzo secolo, potrebbe aver fatto riferimento ad una prassi molto più
blanda di quella prevista dalle leges Iuliae, nelle quali era ormai ammesso che un
uomo potesse creare un rapporto stabile con una donna, anche se non civilmente
riconosciuto come matrimonio, a condizione, però, di provarlo con una testatio.
Lo stesso principio si ravvisa in un altro passo di Modestino
Modestinus, libro 1 regularum D. 48, 5, 35 (34) pr.: Stuprum committit, qui liberam
mulierem consuetudinis causa, non matrimonii continent, excepta videlicet concubina.
113 V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, I ed. 1921, Napoli, 1947. 114 E. VOLTERRA, s.v. Concubinato. Diritto romano, in Novissimo Digesto Italiano 3, 1959, pp. 1052.
112
dove si afferma che commette stupro chi tiene presso di sé una donna libera per
relazione amorosa e non a scopo di matrimonio, ad eccezione della concubina.
In un momento successivo, vicino al tempo in cui visse Marciano, e cioè quando
si ammise tenere come concubina la donna onesta e di liberi natali senza rischio di
incorrere in sanzioni penali, elemento scriminante tra concubinato e matrimonio
divenne la volontà di tenere la donna presso di sé come concubina, risultante dalla
testatio con cui si faceva pubblicamente conoscere la natura dell’unione115.
La differenza tra matrimonio e concubinato è esposta chiaramente e
sinteticamente in due passi di Paolo:
Paolo, libro 19 responsorum D. 25, 7, 4: Concubinam ex sola animi destinatione
aestimari oportet.
Pauli Sent. 2, 20, 1: Concubina igitur ab uxore solo dilectu separatur.
Per identificare la natura di un’unione che si confondeva socialmente con le iustae
nuptiae, nel caso in cui la donna fosse ingenua et honesta i giuristi richiedevano
pertanto che il dilectus o l’animi destinatio di chi voleva vivere in concubinato si
palesassero esteriormente. Giova ricordare che la moglie legittima godeva dell’honor
maritalis, ovvero partecipava al rango sociale del marito, che era invece negato alla
concubina. La dignitas pubblica era elemento scriminante tra le due figure femminili.
Riprendendo il passo di Marciano sopra citato,
Marciano, libro 12 institutionum D. 25, 7, 3, 1: Nec adulterium per concubinatum ab
ipso committitur. Nam quia concubinatus per leges nomen assumpsit, extra legis
poenam est, ut et Marcellus libro septimo digestorum scripsit.
il giurista afferma che non si commette adulterium nel concubinato perché, avendo il
115 C. FAYER, Concubinato cit., p. 26.
113
concubinato assunto il suo nome per opera delle leggi, è fuori dalla pena stabilita
dalla legge, come già scrisse Marcello.
Le leggi menzionate sono sicuramente le leges Iuliae; Marciano intende che il
termine adulterium è precisamente circoscritto dal punto di vista criminale nella lex
Iulia, pertanto tutto quello che sta al di fuori nel rapporto criminale non è coperto
dalla previsione sanzionatoria. Quindi, essendo il concubinato un rapporto di
convivenza si stabile, ma non qualificabile come matrimonio, è ovvio che non si può
commettere adulterio in questo tipo di rapporto.
Sulla base di questo testo alcuni studiosi hanno ipotizzato il riconoscimento da
parte di Augusto del concubinato come rapporto giuridico. Castelli argomenta: «Se
noi mettiamo il § 1 in bocca a Giustiniano, il suo significato si rischiara. Mentre, a
tenore della legislazione augustea e per tutto il diritto classico, si potevano avere
come concubine solo quelle donne, in quas stuprum non committitur, Giustiniano
ritiene che qualsiasi donna, previa dichiarazione, possa concedersi quale concubina:
si capisce quindi perché l’imperatore faccia dire a Modestino e a Marciano che il
concubinato sta fuori dal campo penale, in quanto è un istituto riconosciuto dalle
leggi. Leges, nel frammento di Marciano, non allude né alla lex Iulia et Papia Poppaea,
né a costituzioni imperiali, ma significa in genere diritto, norme giuridiche»116.
Questa di Castello che non è un’opinione isolata: la dottrina dominante sembra
non considerare l’esposizione di Marciano della definizione di adulterium propria
della norma incriminatrice, ovvero un rapporto sessuale al di fuori del matrimonio,
tanto che, con la locuzione nomen assumpsit si intende chiaramente che la lex Iulia ha
delineato i contorni della fattispecie penale.
Pertanto, poiché la legge ha definito adulterio il rapporto sessuale al di fuori del
matrimonio legittimo ed essendo appunto il concubinato un rapporto sì di
116 G. CASTELLI, Il concubinato e la legislazione augustea, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano
27 (1914), p. 67.
114
convivenza, ma non qualificabile come matrimonio extra penam legis, non può essere
ricompreso nella previsione penale e, conseguentemente, non risulta sanzionato.
La questione del riconoscere un’unione come concubinatus o come iustae nuptiae
non era esente da conseguenze giuridiche, anche piuttosto rilevanti, che
dipendevano o venivano escluse in base al tipo di rapporto posto in essere dalle due
parti. Uno dei casi più ricorrenti era la donazione tra coniugi, valida nel
concubinato, esclusa categoricamente nel matrimonio. Una decisione di Papiniano
enuncia il caso:
Papiniano, libro 12 responsorum D. 39, 5, 31 pr.: Donationes in concubinam collatas
non posse recovari convenit, nec, si matrimonium inter eosdem postea fuerit
contractum ad irritum reccidere quod ante iure valuit. An autem maritalis honor et
affectio pridem praecesserit, personis comparatis vitae coniuntione considerata
perpendendum esse respondi: neque enim tabulas facere matrimonium.
La questione verte sulla possibilità di revoca delle donazioni fatte alla propria
concubina con la quale si è successivamente contratto matrimonio. Il giurista nega
tale ipotesi affermando che il porre in essere iustae nuptiae in un momento
successivo non è causa di invalidità del negozio giuridico di donazione,
anteriormente valido ed efficace, poiché fatto nei confronti della donna-concubina e
non ancora moglie. Viene anche aggiunto che la donazione sarebbe stata nulla se
fatta successivamente al sorgere dei requisiti per il matrimonio legittimo, cioè
l’honor e l’affectio maritalis. Non si riscontrava alcun difficoltà ad ammettere
donazioni, anche di notevole entità, tra un uomo e la sua concubina.
3. Liberta
Dalle iscrizioni analizzate da Beryl Rawson risulta evidente che il concubinato
fosse maggiormente diffuso per le donne liberte, alternativamente con uomini liberi
di rango sociale elevato o con uomini della stessa condizione sociale.
115
a) Liberi e liberta. Per quanto riguarda il primo caso, vi sono testimonianze che anche
gli stessi imperatori contraessero, dopo la morte della prima moglie, un
concubinato, piuttosto che un nuovo matrimonio: ciò dimostra a maggior ragione
che questo tipo di relazioni erano pubbliche ed onorate.
Poiché le ingenuae nella stragrande maggioranza dei casi diventano legittime
uxorer, le concubine prevalentemente erano di basso stato sociale: le compagne di
Vespasiano e di Antonino Pio erano schiave manomesse, come attestano sia
iscrizioni che la letteratura latina.
Svet., Vesp. 3,3: Post uxoris excessum Caenidem, Antoniae libertam et a manu,
dilectam quondam sibi revocavit in contubernium, habuitque etiam imperator paene
iustae uxoris loco.
Svetonio usa impropriamente il termine contubernium, unione tra libero e schiava,
al posto di concubinatus: Caenide infatti era stata schiava di Antonia minore, la
madre dell'imperatore Claudio, per la quale svolgeva il compito di segretaria;
essendo stata affrancata dalla sua precedente padrona, non era sicuramente ancora
serva al momento del concubinato con Vespasiano, come attesta l’iscrizione dell’ara
funeriara dall’imperatore a lei dedicata:
CIL VI, 12037: Dis Manib(us) / Antoniae Aug(ustae) / l(ibertae) Caenidis /
opt(i)mae patron(ae) / Aglaus l(ibertus) cum Aglao / et Glene et Aglaide / filiis.
A proposito di Antonino Pio, viene menzionata la liberta Lysistrata, diventata
concubina dell’imperatore dopo esserlo stata di un prefetto:
SHA Ant. Pius 8, 9: In cuius demortui locum duos praefectos substituit Fabium
Repentinum et Cornelium Victorinum. Sed Repentinus [fabula] famosa percussus est,
quod per concubinam principis ad praefecturam venisset.
Un’iscrizione conferma il brano letterario appena riportato:
116
CIL VI 8972: ]s Aug(usti) lib(ertus) Narcissus / [3] natione Parthus paedagogus /
[puero]rum Imp(eratoris) et Papas Galeriae / [Aug(usti) liber]tae Lysistrates
concubinae / [3] divi Pii / [appari]torium(?) fundi Paeligniani / [vetu]state dilapsum a
solo impensa / [sua r]estituit / [m]aceriam a fundamentis exstru/[xit et] circumdedit.
Nelle iscrizioni sopra riportate si è riusciti a risalire allo status originario della
donna perché erano concubine di personaggi illutri, tanto che furono ricordare in
lapidi funerarie e citate nella letteratura. Per tutti gli altri casi, invece, risulta molto
difficile stabilire lo status che le defunte ebbero in vita solo attraverso gli epitaffi:
non era, infatti, una ipotesi remota che una donna schiava fosse manomessa dal
proprio padrone, e, diventata liberta, vivesse in concubinato con questo. Lo status
giuridico della donna poteva cambiare nel corso del tempo e con esso anche il tipo
di relazione che intratteneva con un uomo.
Le iscrizioni comunque non specificano se la liberta fosse stata manomessa dal
proprio patronus o da un altro oppure fosse figlia di una schiava liberata. In un solo
caso, nello studio di Beryl Rawson, viene espressamente menzionato il legame
patronus-liberta; in tutti gli altri, si può supporre che le liberte non fossero le schiave
dei propri patroni, ma plausibilmente quelle di altri117.
Se comunque era moralmente sgradito un matrimonio legittimo tra libero e
liberta, era addirittura proibito nel caso in cui l’uomo fosse di rango senatorio:
Paolo, libro 35 ad edicutum D. 23, 2, 16 pr.: Oratione divi Marci cavetur, ut, si
senatoris filia libertino nupsisset, nec nuptiae essent: quam et senatus consultum
secutum est.
La decisione di Paolo viene confermata anche da Ulpiano:
Ulpiano, libro 32 ad Sabinum D. 24, 1, 3, 1: […] divus tamen Severus in liberta
Pontii Paulini senatoris contra statuit, qua non erat affectione uxoris habita, sed magis
117 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 291.
117
concubinae.
Il divieto per i senatori di prendere una liberta come propria legittima moglie è
però sintomatico che questo tipo di matrimoni non fossero rare eccezioni o che
perlomeno anche pochi casi avessero suscitato un clamore sociale, tale da indurre il
Senato a legiferare per contrastare il fenomeno.
Molte iscrizioni funerarie confermano le fonti giuridiche, ad esempio:
CIL VI 13937: L(ucius) Caesennius / L(uci) f(ilius) Stel(latina) [3] / Maria |(mulieris)
l(iberta) Mu[3] con/cubina fecit sibi / et suis / in f(ronte) p(edes) XII in ag(ro) p(edes)
XII.
Molti Caesennii furono senatori, tra cui Lucio Caesennius Paetus console nel 61
e.v. In un’altra iscrizione Eon è una probabilmente una schiava e il suo compagno,
Cossus Gaetulicus, probabilmente un libero e senatore perché la figlia, Cornelia, alla
quale appartentemente appartiene la sepoltura, era una vestale118:
CIL VI 17170: Eoni / Cossi Gaetulici / concubinae / permissu Corneliae / Cossi
Gaetulici / fil(iae) v(irginis) V(estalis).
Il console del 26 e.v. si chiama Cn. Cornelius Lentulus Gaetulicus (PIR2 C 1392),
la cui figlia potrebbe essere la Cornelia ex familia Cossorum scelta come Vestale nel 62
e.v. secondo quanto narra Tacito:
Tac., Ann., 15, 22: Et motu terrae celebre Campaniae oppidum Pompei magna ex parte
proruit; defunctaque virgo Vestalis Laelia, in cuius locum Cornelia ex familia Cossorum
capta est.
In un altro passo del Vitae Caesarum, Svetonio narra dell’imperatore Domiziano
che, disprezzando la concubina del padre, le porse la mano da baciare:
118 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 292.
118
Svet., Dom., 12: Ab iuventa minime civilis animi, confidens etiam, et cum verbis tum
rebus immodicum, Caenidi patris concubinae, ex Histria reversae osculumque ut
assuerat offerenti, manum praebuit.
Con questo gesto, il giovane imperatore intendeva negare la dignità di quasi
moglie legittima, «paene iustae uxoris loco», che il padre Vespasiano le attribuiva.
Se, infatti, tra la classe elitaria era difficile distinguere la moglie da una concubina
ancora più difficile era farlo tra i cittadini più umili. La trasmutazione di un
concubinato in iustae nuptiae, attestato per la classe abbiente dal divieto sopra
esposto, era un fenomeno abbastanza frequente scendendo di classe sociale119.
Addirittura l’imperatore Zeno, nel 477, ha incoraggiato gli uomini a sposare le
proprie concubine dalle quali avevano avuto figli, legittimandone così la nascita a
prima del matrimonio:
C. 5, 27, 5, 1 ZENO A. SEBASTIANO PP: Hi vero, qui tempore huius sacratissimae
iussionis necdum prolem aliquam ex ingenuarum concubinarum consortio meruerunt,
minime huius legis beneficio perfruantur, cum liceat easdem mulieres sibi prius iure
matrimonii copulare non extantibus legitimis liberis aut uxoribus ac legitimos filios
utpote nuptiis procedentibus procreare, nec debeant, quos ex ingenua concubina dilato
post hanc legem matrimonio nasci voluerint, ut iusti ac legitimi postea videantur,
magnopere postulare. D. X K. MART. POST CONSULATUM ARMATI. (A 477)
Un misto tra affectio e honor maritalis è la posizione sociale, dignitas, che queste
donne possedevano nei confronti degli altri. Alla liberta che instauri un concubinato
con il proprio patrono era riservato il nomen di matrona e lei soltanto era resa
partecipe dell’honestas di una mater familias, cioè della dignità e del titolo di moglie.
Honestas che però perdeva se contraeva concubinato con uomo diverso dal patrono,
come attesta Marcello:
119 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 63.
119
Marcello, libro 26 digestorum D. 23, 2, 41, 1: Et si qua se in concubinatu alterius
quam patroni tradidisset, matris familias honestatem non habuisse dico.
Ulpiano afferma che la sua infedeltà era considerata adulterio perseguibile con
l’accusatio iure extranei, al pari di una moglie legittima:
Ulpiano, libro 2 de adulteriis D. 48, 5, 14 (13) pr.: Si uxor non fuerit in adulterio,
concubina tamen fuit, iure quidem mariti accusare eam non poterit, quae uxor non fuit,
iure tamen extranei accusationem instituere non prohibebitur, si modo ea sit, quae in
concubinatum se dando matronae nomen non amisit, ut puta quae patroni concubina
fuit.
Questa inoltre non poteva separarsi di sua volontà e sposarsi con altro uomo.
Ulpiano, al quesito se la liberta del proprio patrono possa invito patrono separarsi da
lui e divenire moglie o concubina di un altro, risponde che, secondo lui, alla liberta,
che abbia abbandonato il proprio patrono senza il suo consenso, debba essere tolto il
conubium, perché sarebbe più onesto per il patrono tenere presso di sé la liberta
come concubina che come moglie (nell’originale viene usato mater familias ma in
questo caso risulta un sinonimo di uxor):
Ulpiano, libro 2 ad legem Iuliam et Papiam D. 25, 7, 1, pr.: Quae in concubinatu est,
ab invito patrono poterit discedere et alteri se aut in matrimonium aut in concubinatum
dare? Ego quidem probo in concubina adimendum ei conubium, si patronum invitum
deserat, quippe cum honestius sit patrono libertam concubinam quam matrem familias
habere.
Il giurista prosegue considerando illecito e immorale il fatto che la liberta,
concubina del proprio patrono, diventi successivamente concubina del di lui figlio o
nipote:
Ulpiano, libro 2 ad legem Iuliam et Papiam D. 25, 7, 1, 3: Si qua in patroni fuit
concubinatu, deinde filii esse coepit vel in nepotis, vel contra, non puto eam recte facere,
120
quia prope nefaria est huiusmodi coniunctio, et ideo huiusmodi facinus prohibendum
est.
Nel Digesto sono presenti alcuni passaggi interessanti che riguardano legati di
vestiti, usati o comprati, in favore di concubine: questo secondo tipo di legato era
frequente, però, nei confronti delle sole mogli. Ulpiano espone la questione:
Labeo, libro 2 posteriorum a Iavoleno epitomatorum D. 32, 29 pr.: Qui concubinam
habebat, ei vestem prioris concubinae utendam dederat, deinde ita legavit: "Vestem,
quae eius causa empta parata esset". Cascellius Trebatius negant ei deberi prioris
concubinae causa parata, quia alia condicio esset in uxore. Labeo id non probat, quia in
eiusmodi legato non ius uxorium sequendum, sed verborum interpretatio esset facienda
idemque vel in filia vel in qualibet alia persona iuris esset. Labeonis sententia vera est.
Un uomo ha dato alla propria concubina vestiti che erano appartenuti ad un’altra
precendente; nelle sue volontà testamentarie, costituisce in favore della stessa donna
un legato sia sui vestiti usati, sia su quelli comprati esclusivamente per lei.
Un passo del Digesto chiarisce la differenza tra causa parata e causa empta:
Ulpiano, libro 22 ad Sabinum D. 32, 49, 3: Item interest, ipsius causa parata sint ei
legata an ipsius causa empta: paratis enim omnia continentur, quae ipsius usibus
fuerunt destinata, empta vero ea sola, quae propter eam empta fecit maritus.
Causa parata riguarda quei beni che furono comprati per l’uso proprio della loro
funzione, quali ad esempio gli utensili domestici o la veste di casa; mentre causa
empta riguarda quelli comprati appositamente dal marito per la moglie, in funzione
di ornamento o abbellimento.
La questione verte proprio sul fatto che mentre il primo tipo di legato era
normalmente destinato anche alla concubina, il secondo tipo riguardava
espressamente la moglie, che concubina ovviamente non era. Cascellio e Trebazio
affermarono, infatti, che questo secondo legato non poteva essere effettuato, perché
121
era diversa la causa, individuata nella condizione stessa di moglie.
Nel caso in questione Labeone, esprimendo la propria contrarietà
all’applicazione del diritto legatario delle mogli, propone semplicemente di
verificare l’interpretazione negoziale: le parole del testatore dovrebbero essere
interpretate allo stesso modo tanto per la figlia, quanto per ogni altra persona con
qualità di legatari; quindi è perfettamente valido il legato di beni in causa empta
anche in favore della concubina.
In un altro passo, Ulpiano è in accordo con Labeone: «fa poca differenza se è
moglie o concubina la donna a cui l’uomo lascia le cose usate o comprate
appositamente per lei: non c’è chiaramente distinzione tra loro due, se non per la
dignità».
Ulpiano, libro 22 ad Sabinum D. 32, 49, 4: Parvi autem refert, uxori an concubinae
quis leget, quae eius causa empta parata sunt: sane enim nisi dignitate nihil interest.
La distinzione tra uxor e concubina, come riportato nel precendete paragrafo, è
ravvisabile nella volontà del marito e nella dignità dello stato sociale. Inoltre,
sicuramente è lo status sociale stesso che determina per una donna l’essere moglie o
l’essere concubina. Un passo di Modestino enuncia questo principio:
Modestinus, libro singulari de ritu nuptiarum D. 23, 2, 42 pr.: Semper in
coniunctionibus non solum quid liceat considerandum est, sed et quid honestum sit.
La citazione introduce l’affermazione che la figlia, il nipote o il pronipote di un
senatore non potesse contrarre iustae nuptiae con un liberto o attore; questa frase
paradigmatica è generalizzabile a tutti i casi in cui un uomo decide di prendere una
donna quale sua compagna: che diventi moglie o concubina è una conseguenza
strettamente connessa alla sua honestas. Tale condizione sociale diventa anche
elemento giuridico imprescindibile per determinare la tipologia di relazione posta
122
in essere120.
b) Colliberti. Le unioni de facto tra uomini liberi e liberte erano tollerate, ma si è
visto che spesso tali unioni venivano legittimate con susseguente matrimonio: è
lecito pertanto supporre che il concubinato fosse più frequente tra uomini e donne
liberti. Questa supposta statistica è dimostrato dall’esiguo numero di iscrizioni che
concernono le unioni tra ingenuo e liberta, mentre si attestano molto più numerose
quelle tra liberti, specie se colliberti, ovvero schiavi manomessi dallo stesso padrone.
Beryl Rawson afferma che determinare lo status sociale delle persone unite in
concubinato solo grazie alle iscrizioni è compito arduo, o perché la parola concubina
è infrequeste o perché i tria nomina sono incompleti, rendendo impossibile
determinare l’origine ingenua o liberta dei defunti121. È però possibile risalire alla
condizione genitoriale dalla legittimità o meno dei figli: riproponendo il principio
generale di diritto romano esposto precedentemente, i figli mantenevano lo status
del padre, se questi era cittadino romano; contrariamente, prendevano lo status della
madre al momento della nascita.
Delle 959 iscrizioni analizzate, in 424 casi entrambi i genitori e i figli portano lo
stesso nomen, ma, anche se emergono dubbi sulla natura delle unioni, l’autore
ritiene che possano essere considerati colliberti122.
Molti termini ed espressioni proprie delle famiglie legittime vengono riscontrati
anche in queste unioni de facto: parole come uxor, maritus, coniunx sono molto
comuni, come lo sono altrettanto gli aggettivi piissimus, sanctissimus, bene merens che
le qualificano123.Curioso notare come genitori dal nome greco tendessero a dare ai
propri figli uno romano: ciò è abbastanza evidente per schiavi e liberti,
probabilmente molti di questi immigrati, preoccupati di assimilare forme e pratiche
120 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 64. 121 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 301. 122 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 301. 123 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 304.
123
romane quanto più velocemente possibile124.
Poiché il diritto romano permetteva il matrimonio legittimo per i liberti, una
delle cause per cui si riscontrano numerose relazioni concubinali, non trasformate in
iustae nuptiae, si ravvisa nella probabilità che queste unioni fossero sorte quando la
coppia era in schiavitù: le unioni con schiavi e tra schiavi identificavano un
contubernium, ma, se il patronus manometteva entrambi i servi facendo acquistare
loro la status libertatis, la loro unione automaticamente si modificava in concubinatus.
Tali unioni, però, erano prive dell’honestas essenziale per porre in essere le iustae
nuptiae.
4. Categorie prive di honestas
Tra le leggi emanate da Augusto a difesa del matrimonio, la lex Iulia et Papia
impediva che certi tipi di unioni coniugali con e fra talune persone fossero
considerate iustae nuptiae: nella sostanza, si sopprimeva il conubium per determinate
categorie di individui al fine di evitare che le classi patrizie, quella dei senatori
soprattutto, impoverissero la dignità e l’autoconsiderazione sociale che nutrivano
verso se stessi, a causa di matrimoni misti con appartenenti alle classi più umili e
disagiate. Si impediva cioè che tali unioni acquistassero i crismi delle iustae nuptiae
dalle quali derivavano effetti giuridici soprattutto nei confronti dei figli, che
avrebbero acquistato lo status del padre e sarebbero stati considerati di conseguenza
figli legittimi, con implicazioni considerevoli in materia di eredità, dignità sociale e
cittadinanza.
I nati da unioni che in nessun modo constituivano matrimonio o che ad esso
almeno nelle manifestazioni di vita potesse essere assimilato, erano detto vulgo
concepti o spurii, seguivano la condizione giuridica della madre al momento della
124 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 304.
124
nascita e solo nei riguardi di questa godevano del diritto agli alimenti e alla
successione. Volterra conferma che lo scopo non dichiarato era di queste leggi era
quello di «ostacolare l’ingresso alla cittadinanza romana di individui considerati
socialmente inferiori»125.
In coerenza con le norme della lex Iulia de adulteriis, le unioni coniugali dei
senatori e dei loro discendenti e degli ingenui con talune categorie di donne non
vengono considerate stupra. È quindi lecito avere rapporti sessuali con tali donne
perché la legge impediva la costituzione delle iustae nuptiae. Dalle fonti si può
ricostruire un elenco sicuramente apprezzabile, ma altrettando dubbio ed
incompleto: schiave, mezzane, meretrici, esercenti l’arte ludrica, adultere
condannate in giudizio pubblico, obscuro loco natae126.
Dal libro XIII delle Regulae di Ulpiano, denominato De caelibe, orbo et solitario patre
si legge:
Tituli ex corpore Ulpiani 13, 1-2: Lege Iulia prohibentur uxores ducere senatores
quidem liberique eorum libertinas et quae ipsae quarumve pater materve artem
ludicram fecerit, item corpore quaestum facientem. Ceteri autem ingenui prohibentur
ducere lenam, et a lenone lenave manumissam, et in adulterio deprehensam, et iudicio
publico damnatam, et quae artem ludicram fecerit; adicit Mauricianus et a senatu
damnatam.
Riprendendo Marciano già precedentemente riportata, si aggiungono altre
categorie:
Marcianus, libro 12 institutionum D. 25, 7, 3, pr.: In concubinatus potest esse et
aliena liberta et ingenua et maxime ea quae oscuro loco nata est vel quaestum corpore
fecit.
125 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 771. 126 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 770 nt. 100.
125
Dai passi dei giuristi non emerge chiaramente quali sono le obscurae loco natae, ma
è possibile spiegare meglio il significato di questa espressione facendo riferimento a
frammenti di argomenti diversi:
Ulpiano, libro 13 ad edictum D. 4, 8, 21, 11: Sed si in aliquem locum inhonestum
adesse iusserit, puta in popinam vel in lupanarium, ut Vivianus ait, sine dubio impune
ei non parebitur: quam sententiam et Celsus libro secundo digestorum probat. Unde
eleganter tractat, si is sit locus, in quem alter ex litigatoribus honeste venire non possit,
alter possit, et is non venerit, qui sine sua turpitudine eo venire possit, is venerit, qui
inhoneste venerat, an committatur poena compromissi an quasi opera non praebita.
Castello afferma che obscuro loco nata sia la donna «nata in luoghi non onesti»,
considerando loca inhonesta le taverne, i lupanari, i bordelli e ogni altro luogo, per
così dire, malfamato. In aggiunta l’autore ritiene che nella mentalità romana «si
teneva presente, non solo il comportamento e il genere di vita della persona, ma
anche la località in cui essa risiedeva o si recava»127.
Nel mondo romano esisteva anche una dignitas domicilii degna di grande
considerazione, come mostra chiaramente un testo di Paolo, confermato anche da
passi di Marciano (D. 48, 5, 9), Ulpiano (D. 48, 5, 10) e ancora Paolo (D. 14, 3, 4, 1):
Paolo, libro 41 ad edictum D. 1, 9, 11: Senatores licet in urbe domicilium habere
videantur, tamen et ibi, unde oriundi sunt, habere domicilium intelleguntur, quia
dignitas domicilii adiectionem potius dedisse quam permutasse videtur.
Usando nuovamente le parole di Castello, pare quindi evidente che «la nascita in un
luogo ritenuto non onesto, facesse presumere l’educazione della persona, tale da
non poterla porre nella stessa condizione di adempiere a quei compiti e a quelle
mansioni che erano proprie della matrona romana»128.
127 C. CASTELLO, In tema cit., p. 136. 128 C. CASTELLO, In tema cit., p. 136.
126
Questa mentalità si ripercuote anche nella letteratura classica e sembra utile
citare un episodio della commedia di Terenzio per meglio comprendere la posizione
giuridica della oscuro loco nata:
Ter., Eunuchus, 950ss: TH. adeamu'. bone vir Dore, salve: dic mihi, / aufugistin? CH.
era, factum. TH. satine id tibi placet? / CH. non. TH. credin te inpune habiturum? CH.
unam hanc noxiam / amitte: si aliam admisero umquam, occidito. / TH. num m<ea>m
saevitiam veritus es? CH. non. TH. quid igitur? / CH. hanc metui ne me criminaretur
tibi. / TH. quid feceras? CH. paullum quiddam. PY. eho "paullum", inpudens? / an
paullum hoc esse tibi videtur, virginem / vitiare civem? CH. conservam esse credidi. /
PY. conservam! vix me contineo quin involem in / capillum, monstrum: etiam ultro
derisum advenit. / TH. abin hinc, insana? PY. quid ita? vero debeam, / credo, isti
quicquam furcifero si id fecerim; / praesertim quom se servom fateatur tuom.
La commedia è incentrata sull’innamoramento di un giovane per una giovinetta,
ancora vergine sebbene allevata in domo meretricia. Egli, sostituendosi ad un eunuco
regalato alla prostituta, riesce a farsi introdurre a casa come guardia personale di
questa; riesce a violentare la ragazza, sicuro di non essere punito come moechus,
stupratore, proprio per il fatto di trovarsi in tale abitazione. Per inciso, il reato di
stupro viene ricordato in altre commedie, tra cui il Miles Gloriosus di Plauto che
ricorda un passo di Papiniano sulle pene comminate (D. 48, 5, 23 (22), 3).
Nell’epoca romana i bordelli (lupanarium, più raro fornix) erano molto diffusi ed
erano senza dubbio posti frequentatissimi, al pari del circo, terme e foro. Nella
metropoli di Roma ne sono attestati nel IV secolo e.v. per un numero di 45 (famoso
il quartiere Suburra) ma i registri regionali non tenevano conto di quelli mascherati
da osteria o locanda, come attesta un passo di Ulpiano129:
Ulpiano, libro 1 ad legem Iuliam et Papiam D. 23, 2, 43, 9: Si qua cauponam exercens
in ea corpora quaestuaria habeat (ut multae adsolent sub praetextu instrumenti
129 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 78.
127
cauponii prostitutas mulieres habere), dicendum hanc quoque lenae appellatione
contineri.
Persino in campagna i bordelli non erano rari: diversi rispettabili proprietari
terrieri diversificavano le fonti di reddito aprendo una pensione con annesso un
lupanare:
Ulpiano, libro 15 ad edictum D. 5, 3, 27, 1: Sed et pensiones, quae ex locationibus
praediorum urbanorum perceptae sunt, venient, licet a lupanario perceptae sint: nam et
in multorum honestorum virorum praediis lupanaria exercentur.
Si può quindi intuire che bordelli legali, o mascherati da tali quali locande,
osterie, pensioni, ecc., costituissero un unicum dove la prostituzione era largamente
praticata. Di conseguenza le donne che lavoravano sia pubblicamente come
prostitute, sia come locandiere, cameriere, inservienti, attrici, musiciste, ecc., erano
figure femminili disonorate, considerate dall’uomo medio del tempo come comune
e normale sfogo dei proprio appetiti sessuali.
Se solo alcune liberte potevano godere del titolo di matrona e se non tutte le
concubine erano equiparate alla uxor, ciò dipendeva in massima parte dall’honestas
della donna stessa. Per comprendere maggiormente il tipo di honestas e le categorie
disonorate ravvisabili dalle fonti giuridiche, sembra opportuno offrire un quadro
storico della società del tempo, presentando alcune figure della vita quotidiana
nell’antica Roma: a) prostitute, b) locandiere, c) esercenti l’arte ludicra.
a) Prostitute. La stessa etimologia della parola aiuta a capire chi fossero queste
donne: prostituere, letteralmente «mettere in mostra», termine entrato nei dizionari
di molte lingue, è riferito alle donne che mettevano in mostra il proprio corpo,
cercando di attirare l’attenzione dei passanti. Oltre all’esposizione delle donne,
esternamente i bordelli erano riconoscibili anche da insegne esplicite con
raffigurazioni oscene e scritte quali «Hic habitat felicitas» (Pompei, CIL IV 1454).
128
Le camere delle prostitute, cellae, erano spesso talmente piccole da contenere solo
un letto in muratura con un corto materasso; a volte l’unico lusso presente erano
pitture murali con motivi erotici. Alle cellae si poteva spesso accedere direttamente
dalla strada ed in genere erano separate dall’esterno con una porta, ma talvolta
anche solo da una tenda (Mart. 1, 34, 5), dove vi erano affissi cartelli che indicavano
il nome della donna, il tariffario e a volte una scritta “occupata” (Plaut., Asin., 760).
Numerose iscrizioni testimoniano il passaggio dei visitatori che, magari ingannando
il tempo in attesa del proprio turno, incisero graffiti decisamente in tono con
l’ambiente:
CIL IV 2175: Hic ego puellas multas futui
CIL IV 2246: Hic ego, cum veni, futui, deinde redei domum
CIL IV 1516: Hic ego futui formosam puellam laudatam a multis, sed lutus intus erat.
La prostituzione esercitata nei bordelli era allo stesso livello dell’odierna
prostituzione di strada. Chi era più esigente e facoltoso in genere si faceva venire in
casa una ragazza (Apul., Met., 7, 10) oppure si rivolgeva a bordelli di lusso, il più
famoso dei quali stava sul Palatino, costruito dall’imperatore Caligola (Svet., Cal. 41,
2). Qualche volta i patrizi si recavano in incognito, con parrucca e cappuccio (Svet.,
Cal., 11; Hist. Aug. Ver., 4, 6), ma non era motivo di imbarazzo farsi sorprendere
all’entrata o all’uscita di un bordello. Catone il Censore, vedendo un giovinetto
uscire da un bordello, si congratulò con lui perché dava soddisfazione ai suoi istinti
in maniera tanto innocua; accorgendosi però che la cosa si ripeteva tanto
assiduamente, Catone lo rimproverò dicendogli: «Ti ho elogiato perché sei venuto,
non perché ci abiti».
La maggior parte delle prostitute erano schiave o liberte che si prostituivano per
necessità (mulieres, quae palam corpore quaestum facit): la denominazione più comune
era infatti meretrix, ovvero «colei che guadagna», sottolineando che per le donne di
Roma era probabilmente una delle poche opportunità di guadagnarsi, mereri,
Tavola 2. CIL IV 1454, «Hic habitat felicitas», Pompei
Tavola 3. CIL IV 2175 «Hic ego puellas multas futui», Pompei
131
autonomamente da vivere130. Le donne romane ingenuae, invece, dovevano
registrarsi presso gli edili (Tac., Ann., 2, 85), ma ciò non servì ad attenuare il
fenomeno.
Come stigma sociale, le prostitute erano anche tenute ad indossare una vestis
meretricia, una sorta di abito professionale costituito da una tunica senza bordure
con una toga scura (Hor., Sat., 1, 2, 63): non è certo che lo facessero, ma erano tenute
sicuramente ad indossarla il 23 aprile (Ov., Fasti, 4, 863 ssg.) alla festa in onore di
Venere, loro nume tutelare, e durante i Floralia, lasciando cadere ogni velo su
richiesta e tra le grida di giubilo del pubblico (Val. Max. 2, 10, 8; Sen., Ep., 97, 8). Le
corrispondenti romane delle escort d’alta classe moderne preferivano tuttavia abiti
di seta trasparente, «se si può parlare di abiti, quando niente nasconde il corpo e le
pudenda», nota sarcasticamente Seneca (Sen., De benef., 7, 9).
Che le prostitute, almeno quelle dei bordelli, appartenessero alla classe umile
della popolazione lo dimostrano anche le tariffe economiche, accessibili a tutti: la
ricompensa base a Pompei era di due assi, ovvero pari a due fette di pane o mezzo
litro di vino di qualità scadente; a Roma si arrivava addirittura ad un solo asse.
Naturalmente il prezzo poteva variare nel caso di servizi particolari, età, aspetto e
fascino della prostituta131.
Molto più elevate erano invece le tariffe delle prostitute d’alto bordo, i cui servizi
non erano solo sessuali, ma anche culturali: potevano, infatti, essere cantanti,
ballerine, flautiste, suonatrici di cetra e attrici, figure che solitamente allietavano i
lauti banchetti di uomini benestanti. Non tutte erano ovviamente prostitute,
pertanto c’era una vasta gamma di sfumature nel mondo della prostituzione
romana: dalle cortigiane paragonabili alle etère greche132 (le amicae accennate nel
paragrafo 3.1), via via scendendo di classe sociale fino alle lupae, perché sempre a
130 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 324. 131 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 322. 132 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 323.
132
caccia di denaro (Tib., 2, 3, 51 ssg.) o scorta, cioè “pelli”, perché erano tanto logore e
consunte (Varr., De lingua latina, 7, 84).
b) Locandiere. Le locande erano tipici alberghi romani che si trovavano in genere
sulla strade di accesso alla città e nei punti nodali del traffico cittadino. Fungevano
spesso da bordelli mascherati: molte cameriere in sala e ai piani svolgevano con
naturale disinvoltura questo secondo mestiere, con l’approvazione o addirittura
l’incentivo del proprietario. Un esempio lampante è il celebre bassorilievo di
Aesernia che riporta un comune conto d’albergo, dove tra le varie prestazioni c’era
appunto il pagamento della giovane ragazza per 8 assi «puellam assibus VIII»:
CIL IX 2689: L(ucius) Calidius Eroticus / sibi et Fanniae Voluptati v(ivus) f(ecit) /
copo(!) computemus habes vini |(sextarium) I pane(m) / a(sse) I pulmentar(ium)
a(ssibus) II convenit puell(am) / a(ssibus) VIII et hoc convenit faenum / mulo a(ssibus)
II iste mulus me ad factum / dabit
Le ragazze erano disponibili in alcuni casi anche su prenotazione, anche se a
volte ciò era motivo di lamentele da parte dei clienti: Orazio narra che in un albergo
«fu abbastanza folle da attendere sino a mezzanotte la sua bella fedifraga» (Hor.,
Sat., 1, 82).
Nelle locande, affollate fino a notte fonda, oltre a ristorarsi e pernottare si poteva
giocare a dadi, conversare, assistere a spettacoli musicali; ma che fossero improntate
di un’atmosfera maschilista lo accenna ancora Orazio, il quale non era interessato
solamente alla musica della flautista, definita espressamente meretrix (Hor., Et., 1,
14, 25).
Anche i graffiti pompeiani dimostrano che cameriere, ostesse e bariste di osterie
o locande erano oggetto di attenzioni sessuali da parte degli avventori: alcune di
queste donne sono state apostrofate «Pamhira si[t]ifera»(CIL IV 8475) e «matrona
culibonia» (CIL IV 8473). Talvolta anche le stesse ostesse si appartavano con i clienti
in chambré separée, come taluni testimoniano orgogliosi su un muro e una botte:
135
«futui coponam» (CIL IV 8442) e «futui ospita(m)» (CIL XIII 10019, 95).
c) Esercenti le arti ludicre. Nelle professioni accademiche e artistiche le donne
erano assolutamente sottorappresentate, tanto che gli stessi termini latini per
indicare i mestieri sono prevalentemente in forma maschile (ad esempio poeta e
pictor). Dimetralmente opposta era invece la composizione che offriva il settore dei
divertimenti, dove le donne abbondavano come attrici (mimae, pantomimae),
musiciste (tibicinae, psaltriae, musicae), cantanti (cantrices, cantantrices) e ballerine
(saltatrices, Gaditanae)133.
A proposito delle puellae Gaditanae, Marziale loda in particolare Teletusa «brava a
prendere pose lascive al suono delle nacchere e a giocare nella danza del ventre,
capacissima di far drizzare il tremolante Pelia e di far arrapare Priamo davanti alla
pira di Ettore»:
Mart., 6, 71: Edere lascivos ad Baetica crusmata gestus / et Gaditanis ludere docta
modis, / tendere quae tremulum Pelian Hecubaeque maritum / posset ad Hectoreos
sollicitare rogos, / urit et excruciat dominum Telethusa priorem: vendidit ancillam,
nunc redimit dominam.
La reputazione sociale di queste professioni mondane era scarsa perché spesso
erano considerate un tutt’uno con la prostituzione, come confermato da Orazio
(Hor., Sat., 1, 55). Eccezioni come Arbuscola, circense romana lodata da Cicerone
(Cic., Att., 4, 15, 6), o la giovane Eucharis Licinia (CIL VI 10096) risultano rare
eccezioni alla regola.
CIL VI 10096: Eucharis Liciniae l(iberta) / docta erodita omnes artes virgo vixit
an(nos) XIIII / heus oculo errante quei aspicis leti domus / morare gressum et titulum
nostrum perlege / amor parenteis quem dedit natae suae / ubei se reliquiae conlocarent
corporis / heic viridis aetas cum floreret artibus / crescente et aevo gloriam conscenderet
133 K. W. WEEBER, Vita quotidiana cit., p. 221.
136
/ properavit hora tristis fatalis mea / et denegavit ultra veitae spiritum / docta erodita
paene Musarum manu / quae modo nobilium ludos decoravi choro / et Graeca in scaena
prima populo apparui / en hoc in tumulo cinerem nostri corporis / infestae Parcae
deposierunt carmine / studium patronae cura amor laudes decus / silent ambusto
corpore et leto tacent / reliqui fletum nata genitori meo / et antecessi genita post leti
diem / bis hic septeni mecum natales dies / tenebris tenentur Ditis aeterna domu / rogo
ut discedens terram mihi dicas levem.
Le donne partecipavano attivamente anche ai macabri spettacoli delle arene:
nell’anfiteatro si esibivano gladiatrici professioniste, fino a che Settimio Severo
nell’anno 200 e.v. vietò alle donne di esibirsi come atlete professioniste tanto
nell’arena, quanto nello stadio (Dione Cassio, 76, 16, 1). Ecco a proposito un
epigramma di Marziale:
Mart., Lib. Spect., 6b: Prostratum uasta Nemees in valle leonem / nobile et Herculeum
fama canebat opus. / Prisca fides taceat: nam post tua munera, Caesar, / hoc iam
femineo Marte fatemur agi.
Da tutti questi esempi si ricava che la prostituzione nel mondo romano aveva un
ruolo considerevole, tanto se praticata pubblicamente, quanto come secondo fine. Il
lavoro femminile, oltre a non essere sicuramente specializzato al pari di quello
maschile, generalmente era confuso ed accostato ad attività sessuali. Dagli epitaffi
tombali emerge che la maggior parte delle donne lavoratrici erano schiave e liberte,
mentre il numero delle ingenuae rimase relativamente esiguo, anche se molte
iscrizioni non fanno alcun riferimento allo status sociale. È dunque possibile che non
fossero poche le donne, liberte o nate libere, che per scelta o necessità contribuissero
alla formazione del reddito familiare malgrado la rigida suddivisione dei ruoli
sociali.
L’honestas di una donna era principalmente rilevabile dalle sue attività
quotidiane e dalla considerazione di queste presso la comunità. Le iustae nuptiae ed
137
il titolo di matrona erano conseguenze strettamente legate alla dignità della persona,
spesso determinata dalle possibilità economiche della famiglia di origine o di quella
formata con il proprio compagno. Le donne che non potevano permettersi il lusso di
badare esclusivamente all’educazione della prole e alle faccende domestiche
trovavano nella prostituzione l’unica fonte di guadagno sicura per il proprio
autosostentamento o per la famiglia. Se da una parte la prostituzione costituiva
elemento di riprovazione morale, dall’altra era esercitata pubblicamente, senza
alcun tipo di maschera sociale.
Il quadro storico e morale dell’epoca può essere riassunto da una citazione di
Seneca che suddivide la società romana in classi in base alla morigeratezza dei
costumi:
Sen., Contr., 4, 10: 'impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto
officium.'
che parafrasando diventa: la mancanza di castità è un reato per le donne nate libere,
una coercizione per le schiave e un dovere per le liberte.
139
Capitolo IV
CONTUBERNIUM
1. La schiavitù nell’antica Roma
Nella mentalità romana lo schiavo è un bene patrimoniale, di cui il dominus può
disporre incondizionatamente, secondo il diritto di vita e di morte (ius vitae ac necis).
La condizione dello schiavo era piuttosto variabile: i servi rustici erano considerati
strumenti di lavoro dotato di voce, instrumentum vocale li chiama Varrone, valutati
in termini di resa economica da alcuni grandi latifondisti:
Varr., De re rustica, 1, 17, 1: Nunc dicam, aqui quibus rebus colantur. Quas res alii
dividunt in duas partes, in homines et adminicula hominum, sine quibus rebus colere
non possunt; alii in tres partes, instrumenti genus vocale et semivocale et mutum,
vocale in quo sunt servi, semivocale, in quo sunt boves, mutum, in quo sunt plaustra.
Lo scrittore latino tratta dei mezzi con cui si coltivano i campi, mezzi che alcuni
distinguono in due specie: uomini e attrezzi per gli uomini. Altri autori, invece, li
distinguono in vocale, semivocale e muto: al primo appartengono i servi, al secondo
i buoi, al terzo appartengono i carri.
Quelli urbani godevano di un tenore di vita sicuramente più elevato, a volte
superiore agli stessi uomini liberi, perché impiegati in servizi domestici o lavori
artigianali e, se provvisti di una buona istruzione, potevano essere anche precettori,
medici, imprenditori per conto del padrone, amministratori pubblici e, in qualche
caso, anche colti letterati.
Significativo è un passo di Epitteto, che in greco significa «schiavo» e che
probabilmente era un soprannome, nel biasimare le misere condizioni di certi plebei
liberi in confronto ad un ceto privilegiato di schiavi (IV, 1, 36): «Vi è chi desidera
ardentemente di tornare schiavo: cosa mi mancava? Mi vestivano, mi curavano
140
quand’ero malato, bastava che rendessi qualche piccolo servizio. Adesso, invece,
nella mia sofferenza, cosa non devo patire come schiavo di parecchi padroni, e non
più di uno solo?»
Tuttavia la maggior parte degli schiavi era impiegata nell’agricoltura: i servi
erano un bene prezioso per il dominus; lavoravano incessantemente la terra ed erano
controllati a vista dai vilici, spesso schiavi essi stessi, che facevano rispettare una
disciplina ferrea ed erano responsabili della tenuta agricola. Gli schiavi indolenti,
renitenti o fuggiaschi (fugitivarius) erano incatenati quando non lavoravano; i più
pericolosi o presunti tali abitavano in «case di lavoro», denominate ergastula.
Le unioni coniugali tra schiavi nascevano spontaneamente, ma potevano essere
anche promosse dallo stesso dominus, nel suo interesse personale: i legami familiari
esercitavano un’influenza positiva su lealtà, disponibilità all’adattamento e voglia di
lavorare. Gli scrittori che si occupavano di agricoltura consigliavano espressamente
di assegnare agli schiavi, soprattutto a coloro che ricoprivano mansioni di
responsabilità, una compagna «che sia adatta a loro e possa dare anche una mano»:
Colum. 1, 8, 5: Sed qualicumque villico contubernalis mulier assignanda est, quae
contineat eum, et in quibusdam rebus tamen adiuvet.
Lo schiavo comunque è considerato un individuo assolutamente inferiore al
libero, sebbene, come abbiamo già menzionato, sopra possa rivestire incarichi di
fiducia in attività commerciali e artigianali, sia all’interno della familia rustica, sia in
quella urbana. I retori del I sec. e.v. nelle loro declamationes sottolineano la
disuguaglianza e il divario esistente tra chi è libero e chi è schiavo. D’altra parte
verso il II sec. p.e.v. sotto l’influsso della filosofia stoica, si diffuse a Roma la
concezione che gli schiavi fossero, dal punto di vista etico, uguali ai loro padroni.
Questo principio di uguaglianza etica tra servi e domini ebbe qualche risonanza nelle
opere letterarie dell’epoca: la VII Satira del II libro di Orazio è un esempio
sintomatico.
141
Davo, lo schiavo urbano di Orazio, approfittando della libertà di parola
concessagli impunemente durante i Saturnalia, festività ‘carnevalesche’ tra il 17 e il
23 dicembre, rimprovera al proprio padrone di essere dominato dai vizi e
dall’irrequietezza del proprio animo come un qualsiasi servus. Il dialogo assume un
valore simbolico: si contrappongono i servi, rappresentati da Davo, e i domini,
rappresentati da Orazio, per giungere alla conclusione stoica che solo il saggio è
libero. L’autore protagonista, però, non si considera eticamente simile a Davo e non
denuncia neppure l’illegittimità della schiavitù. Lo schiavo rimane un subalterno a
cui si può concedere, durante i Saturnalia, una serie di rivalse nei confronti del
dominus, senza che incorra nel pericolo di punizioni crudeli.
Negata l’uguaglianza etica tra schiavo e padrone, Orazio riflette sulle qualità
umane del servus, lasciando trapelare una vaga essenza di humanitas, tanto da
esortare Xantia, uomo libero, a non vergognarsi dell’amore per una schiava. Usando
il termine amor, non solo supera la semplice attrazione fisica nei confronti della
ragazza, ma coinvolge il sentimento e quindi il carattere, le doti, i valori
dell’individuo, qualità che, secondo l’autore, possono essere possedute anche da
una persona in schiavitù.
Questa constatazione tuttavia non muove il poeta a condannare la diffusa pratica
delle punizioni corporali per i servi: la schiava che è stata complice della padrona
adultera, teme di essere punita con la frattura delle gambe (crurifragium). La pena
corporale viene usata dai domini romani per degradare l’umanità degli schiavi: allo
schiavo bisogna togliere l’anima che possedeva in quanto creatura vivente, in modo
da considerarlo una semplice res.
Malgrado il silenzio, che rivela la sua mancata denuncia per tali pratiche, talvolta
Orazio sembra intuire un senso di pietà per la vita misera e sventurata degli schiavi,
che concludono la loro esistenza in un’anonima sepoltura, insieme alla plebe povera
e nullatenente. Tale commiserazione non oltrepassa la barriera sociale, dal momento
che per il poeta gli schiavi rimangono sempre esseri inferiori e subalterni. La sorte di
142
uno schiavo dipende dalla buona o cattiva disposizione d’animo del suo padrone:
l’unica forma di humanitas concessa per la mentalità romana non consiste
nell’abolizione della schiavitù, ma nel magnanimo e tollerante comportamento del
«padrone buono».
Nell’ottica dei padroni, lo schiavo è incapace di amare e creare una famiglia: il
contubernium è l’unica forma di unione concessa ai servi, per i quali il matrimonio
rimarrà un’istituzione vietata fino al III sec. e.v. Il padrone giustifica e accetta dello
schiavo solo la sua sessualità, come garanzia per la produzione di altri schiavi. Non
solo, spesso il poeta in veste di amante ambiguo, normalità per quel tempo, ritiene
di poter soddisfare in caso di necessità il proprio istinto sessuale servendosi delle
donne, a seconda dei casi libere, liberte e schiave, o dello schiavetto:
Hor., Sat., 1, 2, 116-118: pavonem rhombumque? tument tibi cum inguina, num, si /
ancilla aut verna est praesto puer, impetus in quem / continuo fiat. malis tentigine
rumpi?
che parafrasando significa: «e quando ti si gonfia l’inguine, se per caso ti si mette lì
davanti un’ancella o uno schiavetto dove tu possa subito fare impeto, preferisci
crepare di libidine?»
La schiavitù era quindi un fenomeno talmente diffuso e rilevante che è
impossibile immaginare la quotidianità dell’antica Roma escludendo questa
categoria di persone, senza libertà, alla base della piramide sociale.
Secondo il diritto romano si poteva diventare schiavi principalmente in due
modi: la nascita da madre schiava nella casa del dominus avrebbe comportato per i
figli, chiamati vernae, l’acquisto automatico dello status servile; la perdita della
libertà derivante da abbandono subito dopo il parto (azione contraria del liberos
tollere), prigionia (captivitas), condanna penale (capitis deminutio maxima), debiti
(nexum).
A differenza delle altre popolazioni antiche, gli antichi romani non tralasciarono
143
di formulare la posizione degli schiavi in ordine alla loro capacità giuridica: essi
vennero riconosciuti come essere umani incapaci di essere titolari di diritti; vennero
accostati alla disciplina delle res e pertanto considerati oggetto esclusivo di diritti
altrui. In questo capitolo l’oggetto della trattazione sarà limitato alle unioni
coniugali extramatrimoniali fra e con schiavi, senza coinvolgere l’intero ambito
giuridico e sociale propria della schiavitù romana.
La parola che identifica le unioni tra schiavi, il contubernium, ha una connotazione
di stampo militare, la cui radice etimologica si ricava da cum-taberna, dove per
taberna si intende la tenda o il padiglione in cui alloggiavano dieci soldati romani
con un caporale o un decurione. Contubernalis potrebbe indicare semplicemente
«compagni» e nel 7% delle iscrizioni analizzate da Beryl Rawson presenta senza
dubbio questo significato, solitamente riferito ai camerati134.
CIL VI 2483: D(is) M(anibus) / P(ublio) Aelio P(ubli) f(ilio) / Cl[au(dia)] Fusco /
Viruno / mil(itavit) in coh(orte) III / pr(aetoria) |(centuria) Ulpi / ann(os) V vix(it)
an(nos) / XXII M(arcus) Numi/cius Severus / heres posuit / contub(ernali) opt(imo) /
d(e) s(e) b(ene) m(erenti)
Il significato viene successivamente traslato nell’uso comune, che nel linguaggio
moderno può essere reso meglio con l’espressione “vivere sotto lo stesso tetto”.
Come la stessa parola potrebbe far supporre, il materiale epigrafico attesta un
ampio ventaglio di situazioni, in cui il contubernio risulta essere l’unione:
a) tra schiavi;
b) tra liberto e schiava e viceversa;
c) tra ingenuo e schiava e viceversa;
d) tra due liberti;
134 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 287.
144
e) tra un ingenuo e una liberta e viceversa.
Le ultime due ipotesi, però, fanno pensare ad unioni preesistenti alla concessione
della libertà allo schiavo135: queste supposizioni verranno vagliate nell’esposizione
dei due paragrafi seguenti.
Il contubernio, quindi, è la convivenza, senza alcun tipo di accezione giuridica, di
persone che non possono in alcun modo legittimare la propria unione nelle iustae
nuptiae. Questo tipo di legami non erano fugaci relazioni, ma in genere
evindenziavano una stabilità di coppia spesso con figli a carico: il contubernium può
quindi essere legittimamente considerato una moderna famiglia di fatto.
2. Unioni tra conservi
A differenza del concubinato in cui non era presente l’affectio maritalis, Susan
Treggiari ne teorizza la presenza in queste unioni servili: se solitamente la
concubina era rispetto al consorte in una disparità sociale più che giuridica, per gli
schiavi era proprio lo status giuridico che impediva loro di sposarsi, perché
mancava il conubium, requisito necessario alla formazione delle iustae nuptiae136.
Ulpiano infatti afferma esplicitamente:
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 5: Cum servis nullum est conubium.
Nell’epigrafia vi sono terminologie che fanno pensare più ad un matrimonio
legittimo che ad unioni con o fra schiavi: le dediche si rivolgono spesso al proprio
partner definito come coniux; la formula più comune è invece bene merens. Per le
donne è molto frequente uxor, carissimae, fidelissimae, piissima/pientissima, più raro
invece optima, incomparabili, rarissimae, sanctae e dulcissimae; per gli uomini viene
135 C. CASTELLO, In tema cit., p. 34. 136 S. TREGGIARI, Concubinae cit., p. 59.
145
usato spesso carissimo, optimo, vir, maritus. Tutti questi termini non sono utili per
distingere il matrimonio dal contubernium, ma poiché spesso i partner dei defunti si
definiscono contubernalis, indirettamente indicano che nella loro unione uno o
entrambi i consorti erano schiavi o lo erano stati in passato137.
Al pari tuttavia dei figli nati in concubinato, le unioni fra e con schiavi non
rilevavano giuridicamente la discendenza paterna, peculiarità delle iustae nuptiae.
Questo principio è attestato in un passo di Paolo:
Pauli Sent. 19, 6: Inter servos et liberos matrimonium contrahi non potest,
contubernium potest.
Una costituzione dell’imperatore Costantino recita ancora più precisamente:
C. 5, 5, 3 CONST. A. PATROCLO: pr. Cum ancillas non potest esse connubium: nam
ex huiusmodi contubernio servi nascuntur. D. K. IUL. AQUILEIAE CONSTANTINO
A. V ET LICINIO C. CONSS. (A 319)
I figli nati da schiavi, essendo filii spurii, seguivano il principio generale del partus
sequitur ventrem, ovvero prendevano la condizione giuridica della madre,
divenendo, se questa alla loro nascita e durante la gestazione era schiava, di
proprietà del di lei dominus.
In alcuni passi del Digesto si denota che le unioni di schiavi, se non dal punto di
vista giuridico, erano riconosciute da quello sociale, cercando di non separare tra
loro i coniugi: i contubernales che appartenevano alla stessa familia potevano contare
di mantenere i legami in caso di vendita o di eredità.
Emblematico è il responso di Ulpiano a proposito della questione se nel legato
dell’instrumentum di un fondo si dovessero comprendere anche gli schiavi addetti
alla lavorazione dei prodotti del gregge esistente sul fondo. Il giurista, includendo
137 S. TREGGIARI, Contubernales cit., p. 59
146
fra questi anche le lanificae, le lanae, i tonsores, i fullones, le focariae, aggiunge che la
volontà del testatore va interpretata nel senso che anche le donne e i figli di costoro
siano compresi nel legato in guisa da non separarli.
Ulpiano, libro 20 ad Sabinum D. 33, 7, 12, 7: Uxores quoque et infantes eorum, qui
supra enumerati sunt, credendum est in eadem villa agentes voluisse testatorem legato
contineri: neque enim duram separationem iniunxisse credendus est.
Si può affermare che i classici ricollegarono al contubernium almeno un effetto
giuridico, cioè quello di far sorgere la cognatio servilis ed impedire che gli schiavi
manomessi, uniti da questo vincolo di sangue, potessero costituire fra loro
matrimoni legittimi. In proposito si può richiamare un passo del Digesto:
Paolo, libro 35 ad edictum D. 23, 2, 14, 2: Serviles quoque cognationes in hoc iure
observandae sunt. Igitur suam matrem manumissus non ducet uxorem: tantundem
iuris est et in sorore et sororis filia. Idem e contrario dicendum est, ut pater filiam non
possit ducere, si ex servitute manumissi sint, etsi dubitetur patrem eum esse. Unde nec
volgo quaesitam filiam pater naturalis potest uxorem ducere, quoniam in contrahendis
matrimoniis naturale ius et pudor inspiciendus est: contra pudorem est autem filiam
uxorem suam ducere.
Volterra però ipotizza che l’accenno al ius naturale appaia più rispondente allo
spirito giustinianeo che a quello classico138. Le unioni nate durante la schiavitù, se
continuavano dopo la manomissione di entrambi i servi, rimanevano informalmente
contubernium, perché non era presente la dignitas necessaria alla costituzione di iustae
nuptiae. In genere poteva accadere che la manomissione di uno dei due comportasse
il desiderio di comprare la libertà anche per l’altro. Nel romanzo di Petronio un
ospite si vanta di aver comprato la libertà prima per se stesso e poi «per la mia
compagna (contubernalis), affinché nessuno si asciughi (più) le mani con i capelli di
138 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 805 nt. 186.
147
lei»:
Petr., Sat., 57, 6: Homo inter homines sum, capite aperto ambulo; assem aerarium
nemini debeo; constitutum habui nunquam; nemo mihi in foro dixit: 'Redde quod
debes'. Glebulas emi, lamellulas paravi; viginti ventres pasco et canem; contubernalem
meam redemi, ne qui in illius capillis manus tergeret; mille denarios pro capite solvi;
sevir gratis factus sum; spero, sic moriar, ut mortuus non erubescam.
Il termine conubernalis è frequente nell’epigrafia romana sia per i maschi, sia per
le femmine, anche se quest’ultime sono menzionate all’incirca due volte più spesso
dei primi139.
In contrasto con la teoria di Plassard140, il quale presume l’impossibilità di riferire
il termine alla moglie legittima, Beryl Rawson afferma che è possibile rivolgerlo
anche a persone libere (ingenue o liberte), poiché l’uso del termine si è conservato per
indicare la relazione o i coniugi, anche dopo il cambiamento di status giuridico141.
Ciò si nota in un’iscrizione di Roma, dove un uomo di nome Severus si riferisce a
L. Arruntius Dionysius come suo conservus. Similis è la ‘moglie’ di Dionysius e
dedica la tomba insieme a Severus, accomunati dalla stessa condizione sociale:
CIL VI 5935: D(is) M(anibus) / L(ucio) Arruntio / Dionysio / Similis contu/bernali
b(ene) m(erenti) et / Severus con/servo fecer(unt).
Dionysius dovrebbe essere stato un liberto al tempo della stesura dell’epitaffio,
ma Severus lo ricorda come il vecchio «compagno di schiavitù», quasi ad indicare
affettuosamente l’originario legame che li aveva uniti un tempo. È importante anche
sottolineare quanto fluidi fossero gli status a Roma, specialmente durante l’Impero, e
come frequentemente gli schiavi diventassero liberti. Non necessariamente
139 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 293. 140 J. PLASSARD, Le concubinat romain sous le haut empire, Sirey, Parigi, 1921. 141 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 293.
148
corrisponde un mutamento del vocabolario personale al variare dello status
giuridico dell’individuo, come succede, per fare un parallelismo moderno,
forsanche banalizzato, con l’uso parentale di termini quali «bambino» o «ragazzo»
ad indicare i figli ormai adulti142.
La distribuzione del termine contubernalis, tra tutte le iscrizioni analizzate, attesta
che queste unioni riguardano prevalentemente persone con status di servus e che il
numero di figli è esiguo se comparato con il concubinatus143. Per altro i figli nella
quasi totalità risultano essere illegittimi e di conseguenza presentano anch’essi lo
status di schiavo. Il quadro complessivo che emerge dalle unioni contubernali che
attestano figli è in larga parte quello di coppie formate da almeno un partner
schiavo.
Quando entrambi i genitori presentano un nomen nell’epitaffio, si possono a volte
ravvisare gli indizi di una manomissione per almeno uno di questi e constatare che
non avrebbero avuto lo status necessario per sposarsi al tempo in cui sono nati i figli.
Questa è la probabile situazione quando entrambi i genitori hanno lo stesso nomen
(CIL VI 6628, 10321, 10899, 20329):
CIL VI 6628: Ti(berio) Claudio / Agathopodi immuni / Claudiae Iliadi f(iliae) e(ius) /
Claudiae Xanthe l(ibertae) contubern(ali);
o quando il figlio non ha ereditato il nomen dai loro genitori144 (CIL VI 21815, 36475):
CIL VI 21815: D(is) M(anibus) / L(ucio) Mevio Clienti / Faltonia Ephyre /
contubernali suo / de se bene merenti / fec(it) et Successo filio / suo.
I contubernales che sono detti colliberti, con rare eccezioni, devono aver condiviso
la stessa condizione di schiavi: i colliberti infatti, dovrebbero essere stati liberati dallo
142 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 294. 143 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 294. 144 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 296.
149
stesso padrone o, nel caso abbiano avuto comuni domini, simultaneamente da più
padroni. In quest’ultimo caso il nomen dovrebbe derivare da entrambi i proprietari,
così da evidenziare variazioni di nomen tra collibertus e colliberta145.
3. Unioni tra servi e liberi
Su un totale di 270 iscrizioni presenti nel territorio italiano, la maggior parte di
queste a Roma, Beryl Rawson individua sette casi, tre per gli uomini, quattro per le
donne, in cui si attestano senza dubbi persone libere unite in contubernio: per i
primi non si attestano discendenti, per le seconde solo un figlio. In due iscrizioni si
evidenzia che ad essere attestato quale contubernalis è il partner libero (CIL VI 8833
per l’uomo, CIL VI 23015 per la donna).
Le compagne dei tre uomini liberi sono cittadine romane, ma probabilmente la
situazione contingente impediva all’uomo la costituzione di un matrimonio
legittimo: in un caso il compagno è un soldato (CIL VI 3532) la cui sposa è morta
all’età di venti anni presumibilmente prima del suo congedo; in un altro (CIL VI
25190) era apparentemente uno straniero (forse della Bitinia) senza cittadinanza
romana a causa del suo nome Diogenes Rhodonis f(ilius) Flaviopolitanus. Il terzo era un
figlio illegittimo (CIL VI 23015) di L. Nonius Sp. F. Cultianus, forse a causa
dell’unione di fatto, ma non di diritto, dei suoi stessi genitori146.
CIL VI 3532: Ti(berius) Quaestorius Ti(beri) f(ilius) Col(lina) Secundus /
pr(a)ef(ectus) fabr(um) II sibi et / Claudiae Anthemidi contubernali / optimae vix(it)
ann(os) XX.
CIL VI 25190: Dis Manibus / Publiliae Patiadis Dioge/nes Rhodonis f(ilius)
145 S. TREGGIARI, Contubernales in CIL 6, Association of Canada, Phoenix vol. 35, No. 1 (Spring,
1981), p. 48 nt. 14. pp 42-69. 146 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 296.
150
Flaviopo/[l]itanus contubernali / et N(umerius) Publilius Onesimus / patronae fecerunt
sibi et / suis posterisq(ue) eorum.
CIL IV 23015: Diis(!) M(anibus) s(acrum) / L(ucio) Nonio / Sp(uri) f(ilio) / Cultiano /
qui vixit / ann(os) XXII / et mens(es) II / fecit / Manilia / Faventina / contuber(nali) /
suo / carissimo / et b(ene) m(erenti).
A volte lo status di schiavo del padre risulta dalla nascita illegittima dei figli: ad
esempio in CIL VI 29513, Agrypnus Caes(aris) era il padre di L. Volusenus Sp. f. Victor
che ha preso il nome dalla madre Volusena Restituta.
CIL VI 29513: D(is) M(anibus) / L(ucio) Voluseno Sp(uri) f(ilio) / Victori / Volusena
Restit(uta) / et Agrypnus Caes(aris) / fil(io) piissimo vix(it) / ann(os) V m(enses) VI.
Posto che lo schiavo non poteva sposarsi per mancanza del conubium, è plausibile
che molti liberti fossero stati schiavi nel momento in cui ebbe inizio la loro unione
coniugale e pertanto fossero impossibilitati a dare valenza giuridica alla loro unione.
Nel periodo precedente alla manomissione, i consorti, ancora schiavi, potrebbero
aver generato dei figli che non sono attestati come legittimi, poiché nati al di fuori
delle iustae nuptiae.
L’iscrizione CIL VI 21756 testimonia la situazione appena descritta:
CIL VI 21756: D(is) M(anibus) / Macariae Heliodoro Heliodo/rae fili(i)s piissimis
fecerunt / M(arcus) Petronius Chresimus et Etete / parentes ex indulgentia domini / et
patroni Surae Mamertini / qui locum dedit et donavit / et sibi et libertis libertabus
poste/risque eorum h(oc) m(onumentum) h(eredem) n(on) s(equetur) / in fronte ped(es)
VIII in agr(o) ped(es) VIII.
Una moglie schiava ha generato tre figli, schiavi anch’essi e di proprietà del
patronus di questa. Infatti, il luogo sepolcrale per la famiglia è stato predisposto da
Sura Mamertinus (probabilmente M. Petronius Sura Mamertinus, console nel 182
e.v.) che è il patronus del padre di M. Petronius Chresimus, e dominus della madre
151
Etete e dei tre figli Macaria, Heliodorus e Heliodora147.
La situazione appena descritta non era infrequente poiché la lex Aelia Sentia,
emanata da Augusto nel 4 e.v., aveva proibito la legalità della manomissione per gli
schiavi di età inferiore ai trenta e per i proprietari di età inferiore ai venti.
Gai. 1, 18: Quod autem de aetate servi requiritur, lege Aelia Sentia introductum est.
Nam ea lex minores XXX annorum servos non aliter voluit manumissos cives Romanos
fieri, quam si vindicta, apud consilium iusta causa manumissionis adprobata, liberati
fuerint.
Gai. 1, 37: Item eadem lege minori XX annorum domino non aliter manumittere
permittitur, quam si [vindicta] apud consilium iusta causa manumissionis adprobata
fuerit.
Tuttavia, era fatta eccezione per l’uomo che avesse voluto liberare la propria
schiava al fine di contrarre matrimonio con essa (matrimonii causa).
Ulpiano, libro de officio proconsulis D. 40, 2, 13: Si collactaneus, si educator, si
paedagogus ipsius, si nutrix, vel filius filiave cuius eorum, vel alumnus, vel capsarius
(id est qui portat libros), vel si in hoc manumittatur, ut procurator sit, dummodo non
minor annis decem et octo sit, praeterea et illud exigitur, ut non utique unum servum
habeat, qui manumittit. Item si matrimonii causa virgo vel mulier manumittatur,
exacto prius iureiurando, ut intra sex menses uxorem eam duci oporteat: ita enim
senatus censuit.
Trent’anni comunque era l’età minima per la manumissione dello schiavo
imposta da Augusto, età legale che restò probabilmente la norma per la maggior
parte dei casi. Si ricorda, però, che tale disposizione non riguardava i membri della
classe senatoria e i loro discendenti fino alla terza generazione, impossibilitati a
contrarre iustum matrimonium con liberti secondo la lex Iulia de maritandibus
147 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 302.
152
ordinibus.
Un diverso discorso riguarda il caso opposto, quando cioè in un’unione mista ad
essere schiavo era l’uomo. In base al senatusconsultus Claudianus del 52 e.v. una
cittadina romana, che si fosse congiunta con un servo altrui con il consenso del
padrone, poteva, sulla base della stessa pattuizione, rimanere libera, ma procreare
un servo; se invece la donna si fosse congiunta con il servo senza il consenso del suo
padrone, avrebbe perso il proprio status libertatis e sarebbe diventata schiava del
padrone di questo. Viene posta un’eccezione al principio generale dello partus
sequitur ventrem, considerando schiavi i figli nati anche da madre libera che si unisca
con uno schiavo.
Gai. 1, 84: Ecce enim ex senatus consulto Claudiano poterat civis Romana, quae alieno
servo volente domino eius coiit, ipsa ex pactione libera permanere, sed servum
procreare; nam quod inter eam et dominum istius servi convenerit, ex senatus consulto
ratum esse iubetur.
Il senatoconsulto Claudiano, che è stato redatto da un liberto di Claudio di nome
Pallas, sembra essere stato emanato per regolamentare gli accordi matrimoniali
della famiglia imperiale. A causa dell’alto prestigio e delle inusuali opportunità che
godevano i membri della familia di servi dell’imperatore, il contubernio con uno di
questi schiavi poteva costituire una scelta attraente anche per una donna ingenua,
benché queste unioni non avrebbero potuto diventare matrimoni legittimi finché lo
schiavo non fosse stato manomesso. Il senatoconsulto Claudiano assicurò quindi che
gli schiavi imperiali avrebbero avuto figli della stessa condizione servile, i quali
sarebbero rimasti appartenenti alla famiglia imperiale.
Successivamente l’imperatore Adriano, mosso dall’iniquità della cosa e
dall’illogicità della norma, ristabilì la regola di ius gentium, affinché la donna che si
unisse con uno schiavo partorisse un libero.
Gai. 1, 84: […] Sed postea divus Hadrianus iniquitate rei et inelegantia iuris motus
153
restituit iuris gentium regulam, ut cum ipsa mulier libera permaneat, liberum pariat.
Interessante notare il riflesso del senatoconsulto nell’epigrafia presa in esame: tra
le donne libere presenti nelle iscrizioni, due hanno avuto una relazione con schiavi,
diventando schiave esse stesse. In un’altra iscrizione la donna, il cui consorte è uno
schiavo imperialie, risulta contuber anche se nata libera148:
CIL VI 20572: Iuliae Sp(uri) f(iliae) Mopsid[i] / Felix Caesaris contuber(nali)
Quanto fossero ricercati questi schiavi, potenziali liberti imperiali, viene attestato
anche nell’iscrizione
CIL VI 8833: Cineribus Atreiae / [L(uci)] f(iliae) Proculae contuber/nalis suae
sanctissumae(!) / bene de se meritae Hyginus / Haloti Aug(usti) l(iberti) proc(uratoris)
ser(vus) disp(ensator) fecit
Hyginus, lo sposo di Atreia L. f. Procula, era molto vicino alla famiglia imperiale:
egli apparteneva ad un liberto imperiale e ricoprì una posizione ufficiale
(dispensator) in un importante ufficio finanziario presso il suo patrono procurator. Il
patrono era Halotus Aug. l. proc. e potrebbe essere stato il procurator di Nerone e
Galba (PIR2 H 11)149.
Un’altra categoria di schiavi privilegiati erano i cosiddetti servi publici,
solitamente, anche se non nella totalità dei casi, sposati con donne libere150. Gli
schiavi degli uffici amministrativi imperiali avevano buone possibilità di ottenere la
libertà: l’83% delle compagne di schiavi della familia Caesaris a Roma hanno un
nome che indica con sicurezza lo status di persone libere. Di questi schiavi imperiali,
uno è un dispensator (come sopra menzionato), un altro è un vilicus di un cubiculo.
Del campione di sedici mogli con un marito schiavo, nove o dieci hanno un
148 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 296. 149 B. RAWSON, Roman Concubinage cit., p. 297. 150 S. TREGGIARI, Contubernales cit., p. 50.
154
gentilizio imperiale, suggerendo che queste siano liberte dell’imperatore o
discendenti di liberti Augusti151.
Gli schiavi che hanno ottenuto la possibilità di sposarsi con donne libere tendono
ad essere o impiegati civili imperiali o vicarii in impieghi di uffici civili o ancora
schiavi di donne imperiali o dell’aristocrazia. Le mogli sono solitamente libertae del
padrone del marito o di un suo predecessore o, probabilmente molto più spesso
perché magari il marito schiavo era normalmente più vecchio della propria
compagna, figlie di liberti o libertae della famiglia del dominus. Altre categorie di
schiavi privilegiati sono presenti come orafi, un uomo ex hortis Servilianis, un
specularius, un vilicus e un vilicus aquarius, uno a frumento e un topiarius152.
Tuttavia l’esiguo numero di persone ingenuae attestate nelle iscrizioni suggerisce
che questi matrimoni di fatto riguardino, nella stragrande maggioranza dei casi,
liberti e schiavi.
La disapprovazione per queste unioni tra donne ingenuae e uomini,
precedentemente loro schiavi, si può ravvisare nella prima legislazione imperiale.
La manumissione di uno schiavo da parte della sua padrona in matrimonii causa non
è mai apparsa decorosa, considerando oltrettutto che la donna ingenua non
beneficiava della dispensa dell’età richiesta per manomettere uno schiavo secondo
la lex Aelia Sentia, la stessa legge che invece permetteva all’uomo di sposare una
propria liberta anche prima dei trentanni disposti153.
Giuristi dell’inizio del III sec e.v. posero la questione se una donna debba
effettivamente incontrare il divieto matrimoniale nei confronti di un suo liberto.
Secondo Marciano, infatti, alcuni ritengono che anche una donna possa
manomettere per motivi matrimoniali, ma solo se occasionalmente il suo schiavo,
nonché compagno, le fosse stato lasciato come legato a tale scopo; cioè la
151 S. TREGGIARI, Contubernales cit., p. 50. 152 S. TREGGIARI, Contubernales cit., p. 52. 153 J. EVANS-GRUBBS, Slave-Mistress Relationship cit., p. 128.
155
manomissione era valida solo nel caso in cui un padrone avesse lasciato in eredità
ad una donna, schiava essa stessa precedentemente, l’uomo che era il suo
contubernalis durante la schiavitù. Ricevuto il compagno-schiavo quale legato
dell’eredità, avrebbe potuto manometterlo lecitamente, ma solo allo scopo di
instaurare un matrimonio legittimo.
Marciano, libro 4 regularum D. 40, 2, 14, 1: Sunt qui putant etiam feminas posse
matrimonii causa manumittere, sed ita, si forte conservus suus in hoc ei legatus est. Et
si spado velit matrimonii causa manumittere, potest: non idem est in castrato.
Ma se la donna fosse stata anteriormente la moglie del patronus, morto il marito,
questa non avrebbe potuto sposare uno dei suoi liberti, secondo quanto attesta
Papiniano, giureconsulto di Settimio Severo:
Papiniano, libro 4 responsorum D. 23, 2, 62, 1: Mulier liberto viri ac patroni sui mala
ratione coniungitur.
Un’opinione diversa è quella di Ulpiano, giureconsulto succeduto proprio a
Papiniano, che scrive:
Ulpiano, libro 33 ad Sabinum D. 23, 2, 13: Si patrona tam ignobilis sit, ut ei honestae
sint vel saltem liberti sui nuptiae, officio iudicis super hoc cognoscentis hae prohiberi
non debent.
Se la padrona è di bassa classe sociale (ignobilis), il matrimonio con il suo liberto
dovrebbe essere rispettabile per lei, anzi non dovrebbe esserle proibito dal giudice
che ha conoscenza del caso in questione.
L’atteggiamento tollerante di Ulpiano non sembra però essere condiviso dai suoi
stessi contemporanei. La menzione di un’inchiesta giudiziaria implica che queste
unioni potrebbero essere state portate davanti all’autorità, con la presunzione che
fossero illegali e che i soggetti dovessero essere puniti. Il giureconsulto romano
156
potrebbe riferirsi al rescritto spedito da Settimio Severo in risposta alla petizione di
una certa Valeria:
C. 5, 4, 3: IMPERATORES SEVERUS. ET ANTONINUS AA.
VALERIAE. Libertum, qui patronam seu patroni filiam vel coniugem vel neptem vel
proneptem uxorem ducere ausus est, apud competentem iudicem accusare poteris
moribus temporum meorum congruentem sententiam daturum, quae huiusmodi
coniunctiones odiosas esse merito duxerunt. ID. NOV. DEXTRO II ET PRISCO
CONSS. (A 196)
Non è chiaro quale fosse l’interesse di Valeria in questa circostanza, ma forse
potrebbe anche solo aver intrapreso un’azione legale in casi giuridici che
coinvolgevano direttamente lei o i suoi parenti stretti. Forse una consanguinea,
ignara della riprovazione sociale che contrassegnava il matrimonio con un soggetto
giuridicamente inferiore, sposò il suo liberto o quello di suo padre o del suo defunto
marito154. Valeria avrebbe scritto pertanto all’imperatore per accertarsi se queste
unioni fossero effettivamente legali e, in caso contrario, se questi schiavi liberati
potessero essere puniti per la loro audacia.
Analogamente, una donna chiamata Hygia consultò l’imperatore Filippo a
proposito di un liberto che concordò un matrimonio tra il proprio figlio illegittimo,
schiavo di nascita, e la figlia del suo padrone.
C. 5, 6, 4: IMP. PHILIPP. A. HYGIAE. Libertinum, qui filio suo naturali, quem in
servitute susceperat, postea manumisso pupillam suam eandemque patroni sui filiam in
matrimonio collocavit, ad sententiam amplissimi ordinis, qui huiusmodi nuptiis
interdicendum putavit, pertinere dubitari non oportet.
Il presuntuoso liberto era il tutore legale del figlio del defunto patrono, e il
matrimonio della pupilla con il suo tutore o il figlio di questi era in ogni caso illegale
154 J. EVANS-GRUBBS, Slave-Mistress Relationship cit., p. 129.
157
secondo il diritto romano. Filippo assicura Hygia che tale unione è proibita. La
ragazza in questione deve essere stata una parente di Hygia, forse sua figlia155.
Le Pauli Sententiae, datate verso la fine del III o inizio del IV sec e.v., riportano che
la sanzione per i matrimoni tra liberti e i propri padroni, o mogli o figlie di questi,
era la condanna alle miniere o all’opus publicum, lavori forzati statali.
Paul. Sent. 2, 19, 9: Libertum, qui ad nuptias patronae vel uxoris filiaeque patroni
adfectaverit, pro dignitate personae metalli poena vel operis publici coerceri placuit.
La pena dipendeva dalla dignità della persona, ma non è chiaro se ciò si riferisca
al rango sociale della patrona o del liberto.
155 J. EVANS-GRUBBS, Slave-Mistress Relationship cit., p. 130.
159
Capitolo V
MATRIMONIUM IURIS PEREGRINI
1. Matrimonium secondum leges moresque peregrinorum
Finora la trattazione ha riguardato le unioni coniugali costituite da almeno una
persona con cittadinanza romana, escluso il caso del contubernium fra conservi.
Le unioni coniugali tra peregrini, invece, cioè tra persone non aventi cittadinanza
romana, non sarebbero state ovviamente considerate iustae nuptiae, ma venivano
considerate matrimonio legittimo secondo la propria legge nazionale: i giuristi
romani consideravano tali unioni come matrimonio peregrino, cioè secundum leges
moresque peregrinorum.
I figli che nascono da un matrimonio iuris peregrini sono, dal punto di vista del
diritto nazionale dei coniugi, figli legittimi: ad essi si applicano pertanto tutti gli
effetti giuridici nell’ambito del territorio sottoposto alla sovranità romana e tutte le
norme di diritto familiare e successorio vigenti in quel diritto peregrino156. I romani,
infatti, erano intransigenti nell’imporre tributi fiscali, ma alle popolazioni
conquistate lasciavano ampie autonomia in ambito religioso e famigliare: il diritto,
gli usi e le consuetudini dei provinciali restavano immutate, pertanto anche l’unione
coniugale era considerata legittima secondum leges moresque peregrinorum proprie di
ogni popolo sottomesso.
Questo pluralismo giuridico non è estraneo agli ordinamenti moderni: tale
situazione si riscontra in Sudafrica, Libia, Israele, Kenya, Nigeria, Senegal e nello
stato canadese dell’Ontario157. Un esempio emblematico è rappresentato dal Libano,
156 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 773. 157 D. DESIDERIO, La giurisdizione dei Tribunali religiosi islamici, Articolo Altalex 10 maggio 2005
http://www.altalex.com/index.php?idnot=9566, consultato il 15 febbraio 2013.
160
in cui i diritti e doveri personali sono regolati dal diritto religioso proprio di ogni
individuo: così ad esempio, musulmani e cristiani si sposano secondo il rispettivi
diritti, ma, mentre i musulmani possono divorziare, ciò non è possibile per i
cristiani, che sono costretti ad emigrare per la cessazione degli effetti civili158. Poiché
lo stato libanese riconosce i matrimoni dei propri cittadini contratti all’estero, negli
anni si è sviluppato il cosiddetto turismo giuridico, spesso a Cipro, per scegliere
quel matrimonio civile che in Libano sarebbe incondizionatamente religioso.
Ritornando indietro di venti secoli e seguendo nuovamente Volterra, le fonti
giuridiche e letterarie menzionano matrimoni legittimi costituiti su basi diverse da
quelle delle iustae nuptiae romane, ma che nell’ordinamento romano sono
considerate giuridicamente valide: ad esse si ricollegano, infatti, gli effetti propri del
matrimonio, primo fra tutti che i figli seguono la condizione che ha il padre al
momento del loro concepimento o, se si tratta di unione illegittima nel ius peregrinus,
quella che ha la madre al momento della nascita. Si tratta del principio di ius
gentium riscontrabile in Gaio, già precedentemente riportato. Nella letteratura si
parla, ad esempio, del matrimonio delle popolazioni germaniche:
Tac., Germania, 18: Quamquam severa illic matrimonia, nec ullam morum partem
magis laudaveris. Nam prope soli barbarorum singulis uxoribus contenti sunt, exceptis
admodum paucis, qui non libidine, sed ob nobilitatem plurimis nuptiis ambiuntur.
Dotem non uxor marito, sed uxori maritus offert. Intersunt parentes et propinqui ac
munera probant, munera non ad delicias muliebres quaesita nec quibus nova nupta
comatur, sed boves et frenatum equum et scutum cum framea gladioque. In haec
munera uxor accipitur, atque in vicem ipsa armorum aliquid viro adfert: hoc maximum
vinculum, haec arcana sacra, hos coniugales deos arbitrantur. Ne se mulier extra
virtutum cogitationes extraque bellorum casus putet, ipsis incipientis matrimonii
auspiciis admonetur venire se laborum periculorumque sociam, idem in pace, idem in
158 N. COLAIANNI, Tutela della personalità e diritti della coscienza, Cacucci editore, Roma-Bari
2000, p. 256.
161
proelio passuram ausuramque. Hoc iuncti boves, hoc paratus equus, hoc data arma
denuntiant. Sic vivendum, sic pereundum: accipere se, quae liberis inviolata ac digna
reddat, quae nurus accipiant, rursusque ad nepotes referantur.
Tacito loda la purezza di costumi dei Germani, soprattutto riguardo al
matrimonio, ritenuto un’unione monogamica per la vita. Vengono esposti elementi
e simbologie delle nozze: contrariamente al diritto romano, la dote è conferita
dall’uomo e consiste in una coppia di buoi, un cavallo bardato e uno scudo con
lancia e spada. Con tali doni si acquista la sposa, che a sua volta dona al marito altre
armi. Durante la cerimonia viene ricordato alla donna che dovrà essere compagna
fedele, «nelle fatiche come nei pericoli, per subire e affrontare la stessa sorte, in pace
come in guerra», metafore rispettivamente dei buoi, del cavallo e delle armi.
In un brano di Livio viene accennato un diritto matrimoniale non romano,
vigente nel V sec p.e.v. ad Ardea, città della lega latina:
Liv., Ab urbe., 4, 9: […] Virginem plebeii generis maxime forma notam duo petiere
iuvenes, alter virgini genere par, tutoribus fretus, qui et ipsi eiusdem corporis erant,
nobilis alter, nulla re praeterquam forma captus. Adiuuabant eum optumatium studia,
per quae in domum quoque puellae certamen partium penetravit. Nobilis superior
iudicio matris esse, quae quam splendidissimis nuptiis iungi puellam volebat: tutores in
ea quoque re partium memores ad suum tendere. Cum res peragi intra parietes
nequisset, ventum in ius est. Postulatu audito matris tutorumque, magistratus
secundum parentis arbitrium dant ius nuptiarum. […].
Lo storico patavino narra di una singolare usanza vigente ad Ardea. Una giovane
ragazza di origini plebee, famosa per la sua bellezza, aveva due pretendenti: uno era
della stessa condizione e contava sull’appoggio dei tutori di lei, anch’essi della
stessa classe; l’altro nobile era attratto esclusivamente dalla sua bellezza. La madre
preferiva il nobile «perché voleva per la figlia il più sontuoso dei matrimoni». Nella
disputa si intromisero anche le opposte fazioni a sostegno dei rispettivi pretendenti:
tutori plebei da una parte, patrizi dall’altra. Poiché la questione non potè risolversi
162
tra le mura domestiche, si ricorse al tribunale: i magistrati, dopo aver ascoltato le
ragioni della madre e dei tutori, stabilirono che spettasse alla madre decidere ciò che
riteneva più giusto riguardo alle nozze.
Sembra quindi che ad Ardea, città che con Roma aveva «un’antichissima alleanza
e un trattato rinnovato di recente», vigesse un diritto di famiglia totalmente diverso
da quello romano: dagli elementi presenti nel brano si potrebbe ipotizzare, almeno
limitatamente alla conduzione della vita familiare, la natura matriarcale della
comunità ardeatina159.
Altri cenni circa vaghi costumi matrimoniali di popolazioni non romane si
riscontrano in Valerio Massimo (Val. Max., 2, 16, 14) per Indi, Cimbri, Celtiberi,
Traci, Punici, Persiani; in Pomponio Mela relativamente agli Angili (Chorographia 1,
8, 46), alle popolazioni della regione del bosforo, Thatae, Sirachi, Phicores, Ixamatae
(Chorografia 1, 19, 144), alle popolazioni della Cirenaica, Carabathni (Chorografia 1, 8,
42); in Ammiano Marcellino per dettagli maggiori circa le popolazioni orientali
(Amm. Marcell., 14, 4, 4). Ancora nel VI sec. e.v., tra le Novellae giustinianee, nella
numero XXI si parla di un matrimonio per compera vigente allora in Armenia.
L’amplissima documentazione dei papiri greco-egizi fornisce la prova
dell’esistenza di matrimoni contratti secondo norme ed istituti non romani presso le
varie popolazioni sottomesse dell’impero. Ancora più significativo è il fatto che le
autorità romane, in processi svolti nelle province nei confronti di soggetti greci,
egizi, ebrei, ecc., determinino l’esistenza di un matrimonio legittimo dal
compimento di atti prescritti dal diritto locale, attribuendo ai nati da quelle unioni la
qualità di figli legittimi e i diritti a questi riconosciuti.
Il papiro CPR I 18 contiene un verbale di un processo svoltosi il 13 aprile 124 e.v.
avanti un ufficiale romano delegato dal prefetto. La questione del giudizio verte
159 E. VOLTERRA, Sul diritto familiare di Ardea nel V secolo a.C., in Studi in onore di A. Segni, IV,
Milano, 1968, pp. 659-667.
163
sull’applicazione di una norma di diritto locale riguardante il diritto di successione
del padre sul patrimonio dei figli premorti e la validità del testamento fatto dal
figlio a favore di altre persone. Nella norma del diritto greco vengono distinti i figli
nati da un matrimonio ἂγραφος da quelli nati da un matrimonio ἒγγραφος, ed
essendo appunto controversa la natura del matrimonio del caso in questione, il
giudice romano emette una sentenza interlocutoria con cui dà ordine alla parte
convenuta di provare che il de cuius sia nato da un matrimonio ἒγγραφος.
Nel verbale non emerge alcun tipo di dubbio circa la legittimità del matrimonio
contratto conformemente al diritto locale, anche se in modi del tutto diversi da
quelli romani; anzi, il giudice dispone l’onere della prova a carico di una delle parti
proprio per verificare l’esistenza o meno del matrimonio legittimo e la conseguente
applicazione o meno delle leggi matrimoniali e successorie, proprie di quella legge
straniera, in favore dei coniugi e dei figli da questi nati160.
Altro documento significativo è la famosa petizione di Dionisia del 186 e.v.
contenuta in P. Oxy., 237161 dove sono riportati numerosi atti matrimoniali, contratti
secondo il diritto locale egiziano, che venivano pacificamente considerati dalle
autorità romane matrimoni legittimi. Parafrasando le parole di Calderini, infatti, la
composizione della famiglia romana, secondo le schede di censimento dell’Egitto
del II sec e.v., mostra senza ombra di dubbio come sotto il dominio romano si
riconoscesse pienamente che il matrimonio contratto nel rispetto delle norme locali
creava, agli effetti dei vari diritti vigenti in Egitto, una famiglia legittima dalla quale
nascevano figli legittimi162.
La medesima situazione si riscontra anche nella documentazione attinente alla
Palestina, dalla quale si constata che «gli ebrei non cittadini romani, uniti in
160 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 775. 161 Oxyrhynchus Papyri, http://papyri.info/ddbdp/p.oxy;2;237, consultato il 20 febbraio 2013. 162 A. CALDERINI, La composizione della famiglia secondo le schede di censimento dell’Egitto romano,
in Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sez. III: Scienze Sociali, vol. 1,
fasc. 1, Società editrice Vita e pensiero , Milano 192?.
164
matrimonio secondo la legge mosaica, fanno sorgere un’unione riconosciuta dalle
autorità romane come matrimonio legittimo, dalla quale nascono figli legittimi ai
quali sono riconosciuti i diritti ad esse attribuiti dalla legge nazionale»163.
Il quadro giuridico si ricava da fonti greche e dalle fonti talmudiche dell’epoca
romana, anche se Volterra non sempre è in accordo con le impostazioni date da
Juster nel suo Le Juifs dans l’empire romain. Da quest’ultime si ricava che il
matrimonio ebraico non era costituito sulla base del consenso reciproco degli sposi,
ma mediante una dichiarazione unilaterale dell’uomo di prendere in moglie quella
data donna, preceduta o seguita dalla dazione del mohar, consistente in una somma
di denaro o di un oggetto da parte dell’uomo come pagamento per l’acquisto della
sposa. Numerosi documenti dell’epoca romana in lingua ebraica e aramaica,
rinvenuti nell’ultimo secondo in Israele, forniscono una decisiva conferma che i
matrimoni del I e II secolo venivano conchiusi secondo il diritto ebraico. Questi atti
matrimoniali presentano la formula tipica del vincolo coniugale, a cui seguono le
clausole proprie dei contratti matrimoniali ebraici, corrispondenti a quelle di altre
fonti, in particolare ai trattati talmudici redatti in epoca romana.
In uno di questi, scritto in aramaico e datato al 117 e.v., si legge la formula
nuziale pronunciata dall’uomo e rivolta alla donna: «Tu divieni mia moglie secondo la
legge di Mosè (forse più tarda l’aggiunta «e d’Israel») e io ti nutrirò e ti vestirò da oggi
per sempre con i miei beni». Il documento sembra corrispondere ad una khethubbah
tradizionale; le clausole presenti in aggiunta sono indicate nei trattati talmudici
palestinesi Yebamoth (15, 3), Khethubboth (4, 8, 4; 2, 4, 12), Gittin (5, 3, 6)164.
Come si è visto, quindi, il diritto romano riconosce il matrimonio legittimo
secundum leges moresque peregrinorum, ma perché vi siano anche iustae nuptiae,
devono essere rispettati i tre requisiti necessari alla loro costituzione: età, conubium e
163 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 775. 164 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 775 nt. 118 e Iura, 1963, XIV, 29-70.
165
consenso perdurante.
Poiché il conubium era concesso anche a particolari tipi di peregrini, che con Roma
erano in rapporto di alleanza, potevano verificarsi anche unioni miste tra cittadini
romani e stranieri provvisti di conubium. L’adempimento di una determinata forma
matrimoniale non comportava anche l’automatica formazione delle iustae nuptiae,
poiché l’atto costitutivo di matrimonio secondo il diritto straniero era considerato
per il diritto romano solo manifestazione dell’inizio della volontà coniugale:
l’esistenza e la persistenza delle iustae nuptiae dipendevano esclusivamente
dall’esistenza e dalla persistenza della volontà reciproca dei coniugi, volontà che
poteva essere manifestata e constatata con qualsiasi mezzo.
Il compimento di una determinata forma straniera, che sarebbe di per sé
sufficiente a costituire in quel dato ordinamento un matrimonio legittimo, non avrà,
d’altra parte, l’efficacia di formare iustae nuptiae, se fatto da un cittadino romano nei
confronti di una persona di sesso opposto con la quale non esiste il conubium.
2. Trasformazione del matrimonium iuris peregrini in iustae nuptiae
Per quanto invece riguarda la trasformazione del matrimonium iuris peregrini
contratto fra peregrini, valido agli effetti del diritto nazionale dei coniugi e
pienamente riconosciuto come tale nell’ordinamento romano, bisogna distingere il
caso in cui entrambi i coniugi acquistano la cittadinanza romana, da quello in cui ad
acquistarla è uno solo di essi. Nel primo caso, il matrimonium iuris peregrini si
trasformerà automaticamente in iustae nuptiae qualora vengano rispettati i requisiti
di età, conubium (che si ha sempre per i cittadini romani, salvo vincoli parentali) e
consenso perdurante.
Nel secondo caso, il coniuge, diventato cittadino romano, sarà sottoposto
esclusivamente al diritto romano e pertanto la sua unione non verrà più considerata
matrimonium iuris peregrini, ma verrà riconosciuta quale matrimonio legittimo solo
166
se avrà i requisiti delle iustae nuptiae. Il problema su cui si fonda la questione non è
tanto capire se il matrimonium iuris peregrini si sciolga o meno all’acquisto della
cittadinanza romana per uno dei coniugi, ma se, dal punto di vista romano, possano
sussistere le iustae nuptiae, e quindi ricollegare gli effetti giuridici ad esse collegate,
oppure considerare quell’unione coniugale priva di valore giuridico, inesistente
secondo l’ordinamento romano al pari del concubinato165.
Bisogna fare un’ulteriore distinzione rispetto al requisito del conubium. La prima
questione concerne il coniuge rimasto peregrino che appartiene ad una popolazione
avente già il conubium con Roma o che abbia individualmente ottenuto il ius conubii
rispetto al coniuge che ha acquistato la cittadinanza romana.
Se nella fattispecie è l’uomo a diventare cittadino romano, il matrimonium iuris
peregrini si trasformerà automaticamente in matrimonio legittimo romano al
momento della concessione della stessa, purché ovviamente sussistano oltre al
conubium anche i requisiti di età e persistenza del consenso. I figli concepiti da padre
civis romanus dopo la concessione della cittadinanza e da madre peregrina cum
conubio saranno figli legittimi, cittadini romani e sotto la patria potestas del padre, in
forza del principio dichiarato da Gaio:
Gai. 1, 56: […] si cives Romanas uxores duxerint vel etiam Latinas peregrinasve, cum
quibus conubium habeant: cum enim conubium id efficiat, ut liberi patris condicionem
sequantur, evenit, ut non [solum] cives Romani fiant, sed et in potestate patris sint.
Gai. 1, 76: […] nam alioquin si civis Romanus peregrinam, cum qua ei conubium est,
uxorem duxerit, sicut supra quoque diximus, iustum matrimonium contrahitur, et tunc
ex iis qui nascitur, civis Romanus est et in potestate patris erit.
Se invece è la donna ad acquistare la cittadinanza romana, il matrimonio sarà
considerato iustum se l’uomo ha il conubium rispetto alla donna cittadina romana e i
165 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 776.
167
figli che nasceranno seguiranno la condizione che il padre aveva al momento del
loro concepimento, cioè rispetto all’ordinamento romano saranno legittimi,
peregrini e non cadranno sotto la patria potestas del genitore.
Gai. 1, 67: […] non aliter quisque ad patris condicionem accedit, quam si inter patrem
et matrem eius conubium sit […].
Gai. 1, 68: Item si civis Romana per errorem nupta sit peregrino tamquam civi
Romano, permittitur ei causam erroris probare, et ita filius quoque eius et maritus ad
civitatem Romanam perveniunt, et aeque simul incipit filius in potestate patris esse.
Volterra afferma che è facile dedurre che il figlio segua la condizione paterna nel
caso in cui la donna formi un’unione coniugale con un peregrino166. Infatti Gaio
chiarisce:
Gai. 1, 77: Item si civis Romana peregrino, cum quo ei conubium est, nupserit,
peregrinus sane procreatur et is iustus patris filius est, tamquam si ex peregrina eum
procreasset. […]
Non doveva essere una circostanza insolita se Cicerone ricorda in Pro Balbo un
fatto analogo avvenuto nel 98 p.e.v. Nel brano si parla della concessione di
cittadinanza romana a stranieri:
Cic., Pro Balbo, 24: […] Nam stipendiarios ex Africa, Sicilia, Sardinia, ceteris
provinciis multos civitate donatos videmus, et, qui hostes ad nostros imperatores
perfugissent et magno usui rei publicae nostrae fuissent, scimus civitate esse donatos;
servos denique, quorum ius, fortuna, condicio infima est, bene de re publica meritos
persaepe libertate, id est civitate, publice donari videmus.
La seconda questione riguarda, invece, l’assenza di conubium nel coniuge rimasto
peregrino rispetto al coniuge diventato cittadino romano. Per effetto del
166 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 777 nt. 124.
168
conseguimento della cittadinanza romana da parte di uno dei coniugi, il
matrimonium iuris peregrini non può diventare matrimonio legittimo romano e
pertanto l’unione coniugale sarà considerata inesistente dal punto di vista giuridico.
I figli che nasceranno dopo la concessione della cittadinanza romana ad uno dei
coniugi saranno spurii e seguirano la condizione che ha la madre al momento della
loro nascita, secondo il principio generale. Se la donna prima di questo momento
acquista la cittadinanza romana, i figli nasceranno romani; se è invece l’uomo ad
acquistare la cittadinanza romana, rimanendo la donna peregrina, i figli nasceranno
peregrini.
Gai. 1, 92: Peregrina quoque si volgo conceperit, deinde civis Romana [fiat et] tunc
pariat, civem Romanum parit; si vero ex peregrino secundum leges moresque
peregrinorum conceperit, ita videtur ex senatus consulto, quod auctore divo Hadriano
factum est, civem Romanum parere, si et patri eius civitas Romana donetur.
Gai. 1, 77: […] Hoc tamen tempore e senatus consulto, quod auctore diuo Hadriano
sacratissimo factum est, etiamsi non fuerit conubium inter civem Romanam et
peregrinum, qui nascitur, iustus patris filius est.
Si era fatta menzione della lex Minicia al capitolo I, paragrafo 2 del Conubium con
cui si fa eccezione al principio generale, disponendo che il figlio venga considerato
peregrino, quindi privo della legittimazione, anche quando ad acquistare la
cittadinanza romana è la madre.
Un senatoconsulto di Adriano stabilì più tardi che, anche se non esisteva il
conubium fra il peregrino e la cittadina romana, il matrimonio era ugualmente
considerato iustum ed il figlio che nasceva era considerato legittimo.
Gaio non dice se il figlio era peregrino o cittadino romano; nemmeno il passo
seguente aiuta a risolvere il dubbio perché risulta lacunoso nella prima parte.
Volterra afferma che un indizio può essere tratto dal De beneficiis di Seneca, che
espone, tra altri, un esempio di una promessa di beneficio, che non può eseguirsi
169
perché giuridicamente impossibile167:
Sen., De benef. 4, 35: Promisi tibi in matrimonium filiam; postea peregrinus
adparuisti; non est mihi cum externo conubium; eadem res me defendit, quae vetat.
Anche secondo Seneca non può costituirsi un matrimonio legittimo fra una
cittadina romana e un peregrino sine conubio.
Alcune disposizioni della lex Aelia Sentia rendevano possibile l’estensione della
cittadinanza anche all’altro coniuge in modo tale che, senza sciogliere l’unione
coniugale contratta fra peregrini, questa si trasformasse in iustae nuptiae romane;
oltre al conubium appena acquistato, ovviamente dovevano essere rispettati gli altri
due requisiti necessari alla legittimazione, cioè età e consenso reciproco perdurante
(Gai, 1, 65; 67-74).
In vari documenti di concessione di cittadinanza fatta ad un peregrino vi è
l’estensione del beneficio alla donna che si trova unita in matrimonio iuris peregrini
con il beneficiario della concessione sia al momento in cui questa viene elargita, sia
alla prima donna con la quale il nuovo cittadino si unirà in matrimonio.
Nell’iscrizione di Rhosos, città situata nel golfo di Isso all’estremità orientale del
Mar Mediterraneo (oggi golfo di Alessandretta, in Turchia), contenente anche un
editto di Ottaviano del 42 p.e.v., si concede la cittadinanza al navarca Seleucos di
Rhosos come riconoscimento dei servizi resi in guerra al popolo romano (FIRA, I2,
308-315, n.55, lin. 19-23).
Pur se il passo risulta lacunoso, è chiaro che Seleuco, secondo il diritto di Rhosos,
sia già unito in matrimonio legittimo con una donna, alla quale viene elargita la
cittadinanza romana, anche perché nell’iscrizione si parla di figli già nati e viventi.
Volterra rileva che nella formula, con la quale si conferisce anche alla donna il
beneficio, si usa il tempo futuro ad indicare colei che sarà con Seleuco dopo la
167 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 778 nt. 127.
170
concessione a costui della cittadinanza romana168.
La formula conferma ancora una volta la concezione del matrimonio dei giuristi
romani. Volterra, infatti, precisa che «per indicare colei che sarà moglie legittima di
Seleuco dopo che questo è divenuto cittadino romano, non si fa riferimento ad una
manifestazione iniziale di volontà compiuta attraverso forme o solennità
determinate, ma si richiama il fatto della vita coniugale di essere reciprocamente
marito e moglie. Può anzi dubitarsi, data la formula usata, se la concessione della
cittadinanza romana alla donna debba intendersi durare sino a quando sussista il
matrimonio con l’uomo e debba essere revocata alla cessazione di questa»169.
In BGU 2, 628 verso 2 (in FIRA, I2, 424-427, n.76) che contiene un editto dello
stesso Ottaviano concedente privilegi ai veterani, viene usata una formula analoga:
BGU 2, 628, 2: ipsis parentibus liberisque eorum et uxoribus qui secum erunt
immunitatem onium rerum dare utique optimo iure optimamque legis cives Romani
sint […]
In un’altra iscrizione, contenente un editto di Domiziano concendente privilegi a
veterani, si legge:
CIL XVI, 146 n. 12 (FIRA, I2, 424-427, n.76): Visum est mihi edicto significare
universorum vestrorumque veterani milites omnibus vectigalibus portitoribus publicis
liberati immunes esse debent ipsi coniuges liberique eorum parentes qui conubia eorum
sument omni optumo iure c(ives) R(omani) esse possint et omni immunitate liberati
apsolutique sint […].
E nella scriptura interior si ripete:
[…] veteranorum cum uxoribus et liberis s(upra) s(criptis) in aere incisi aut si qui
caelibes sint cum iis quas postea duzissent dumtaxat singuli singulas […]
168 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779 nt. 129. 169 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779 nt. 129.
171
In questo caso, il privilegio viene esteso alle donne già unite in matrimono iuris
peregrini con il veterano, matrimonio che si trasformerà in iustae nuptiae romane in
modo automatico, al continuare della vita coniugale e al persistere della volontà
reciproca dei coniugi di essere uniti; il privilegio viene altresì esteso alla donna che
il veterano celibe condurrà in matrimonio dopo l’acquisto della cittadinanza, ma tale
concessione è da considerarsi una tantum170.
Volterra, analizzando la terminologia presente nell’iscrizione, spiega che le
espressioni coniunx, coniugium, e caelibes mostrino la legittimità del matrimonio tanto
per quello esistente prima della concessione della cittadinanza, quanto per quello
formato dopo la concessione. Una ulteriore conferma è data dal fatto che le mogli
dei veterani non caelibes ricevono la cittadinanza nel momento in cui l’ottengono i
loro mariti, mentre nel caso di veterani caelibes la cittadinanza è concessa alle mogli
di questi al momento in cui si forma il matrimonio171.
La Tabula Banasitana è un’epigrafe datata al 177 e.v. rinvenuta nel 1957 nella città
di Banasa, oggi in Marocco. Il testo è la copia conforme di documenti in forma di
lettera, alcuni dei quali particolarmente utili alla questione:
a) un’epistula di Marco Aurelio e Lucio Vero al governatore della Mauritania
Tingitana, con la quale si comunica la decisione degli imperatori di concedere la
cittadinanza ad un notabile della provincia, a sua moglie Ziddina e a tre suoi figli
nominativamente indicati;
b) una seconda epistula di Marco Aurelio e Commodo al governatore della
medesima provincia, con la quale si chiede un supplemento d’istruttoria per
decidere sulla richiesta di un princeps gentium Zengresium per la concessione della
cittadinanza romana a se stesso, alla moglie e ai figli;
c) infine un estratto del commentarius civitate romana donatorum, nel quale è scritta
170 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779 nt. 129 171 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779 nt. 129
172
la concessione di cittadinanza romana ad una donna, moglie di un princeps gentium
Zengresium e di quattro figli.
La tribù dei Zengreses è una popolazione indigena della provincia della
Mauritania Tingitana.
L’epigrafe è rilevante non solo sotto l’aspetto archeologico, ma anche giuridico,
poiché chiarisce la procedura amministrativa della concessione della cittadinanza
viritim, concessa a titolo personale, e le conseguenze di tale concessione. La
cittadinanza è concessa, infatti, salvo iure gentis, ovvero preservando il diritto locale,
in modo che il neocittadino potesse continuare a condurre la propria vita come in
precedenza, senza squilibri in ordine a capacità giuridica e status. Tuttavia, i
beneficiari dell’iscrizione mantengono tutti i propri doveri nei confronti del fisco.
Quest’ultimo dato contribuisce a chiarire anche la concessione della cittadinanza
a tutti gli abitanti liberi dell’impero, ad eccezione dei dediticii, ad opera di Caracalla.
La famosa Constitutio Antoniniana del 212 e.v. (P. Giss. 40, c. I) aveva lo scopo di
incrementare le entrate delle casse imperiali, tramite l’imposizione di gravose tasse
di successione ai neocittadini e, dal punto di vista statale, costituisce anche l’estremo
tentativo di mantenere salda la coesione sociale (Dione Cassio 77, 9, 5).
Ritornando al tema della discussione, anche in questo documento epigrafico si
constata come le autorità romane concedono la cittadinanza alla moglie del
peregrini in modo tale da trasformare il suo matrimonio secundum leges moresque
peregrinorum nelle iustae nuptiae romane. Tuttavia, nonostante il materiale epigrafico
e le fonti giuridiche, problemi non indifferenti sono sorti in dottrina circa le unioni
coniugali di coloro che facevano parte dell’esercito romano.
3. Le unioni coniugali dei milites. L’esercito romano sotto Augusto.
Esporre una trattazione completa delle varie posizioni sulle unioni dei soldati
romani risulta alquanto difficile perché, in primis, le fonti romane non individuano
173
nettamente la questione; poi perché i giuristi non argomentano tesi diametralmente
opposte tra loro, ma forniscono molteplici interpretazioni in merito; infine perché gli
storici, spesso lavorando indipendentemente l’uno dall’altro, ignorano le
conclusioni cui erano giunti i precedenti studiosi e in questo modo non
contribuiscono a delineare un quadro storico preciso e limpido.
Scialoja riteneva che i soldati nel primo secolo dell’impero e verso la fine del
secondo avrebbero potuto aver moglie, ma non coabitare con esse: la violazione
della disposizione disciplinare avrebbe comportanto l’illegittimità dei figli generati
durante il periodo di leva militare. Successivamente il matrimonio sarebbe stato
vietato, fino al III sec e.v. quando Settimio Severo riconcesse ai soldati la possibilità
di abitare con le loro donne, mogli o concubine172.
Altri studiosi (Volterra cita Tassistro, Stella Maranca, Castello), negano
l’esistenza di un divieto generale nell’epoca imperiale, ritenendo invece che i soldati
militanti fuori dalla loro patria sarebbero incorsi, come i funzionari civili,
nell’impossibilità di sposare donne provinciali per mancanza di conubium.
Altri studiosi ancora sostengono invece l’esistenza di questo divieto generale di
sposarsi, attribuito talvolta a Claudio, talvolta ai Severi, e cercano di distinguere
caso per caso, partendo dalla considerazione che non tutti gli appartenenti agli
eserciti romani si trovavano nella stessa condizione giuridica.
Il pensiero di Volterra è mirato ad escludere le teorie non sufficientemente
argomentate di parte della dottrina, per focalizzare l’attenzione solamente su
elementi certi: «allo stato attuale delle nostre conoscenze, pur essendo difficile
risolvere in modo definitivo il problema, sembra però di poter escludere che lo stato
giuridico di militare romano rendesse impossibile la costituzione di un matrimonio
legittimo. Per l’antica epoca repubblicana, data la costituzione dell’esercito romano,
ciò sarebbe inconcepibile in quanto significherebbe una limitazione della capacità
172 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 781 nt. 132.
174
giuridica dei cittadini romani che compiono il servizio militare»173.
Varie fonti corroborano la visione di Volterra: nella letteratura classica, Livio
riporta il discorso di Scipione diretto ai soldati, invitandoli a pensare di difendere
con le armi non solo il proprio corpo, ma anche la moglie e i figlioletti;
Liv. 21, 41, 15: Unusquisque se non corpus suum, sed coniugem ac liberos parvos
armis protegere putet; nec domesticas solum agitet curas, sed identidem hoc animo
reputet, nostras nunc intueri manus Senatum populumque romanum; qualis nostra vis
virtusque fuerit, talem deinde fortunam illius urbis ac romani imperii fore.
In un altro passo di Livio, Spurio Ligustinus afferma di aver preso moglie e di
aver avuto due figlie e sei figli, di cui quattro vestono la toga virilis e due ancora
quella praetexta, in un periodo plausibilmente contestuale, quanto meno in parte, al
servizio militare intrapreso.
Liv. 42, 34: Sp. Ligustinus [tribus] Crustumina ex Sabinis sum oriundus,
Quirites. Pater mihi iugerum agri reliquit et parvom tugurium, in quo natus
educatusque sum, hodieque ibi habito. cum primum in aetatem veni, pater mihi uxorem
fratris sui filiam dedit, quae secum nihil adtulit praeter libertatem pudicitiamque, et
cum his fecunditatem, quanta vel in diti domo satis esset. Sex filii nobis, duae filiae
sunt, utraeque iam nuptae. Filii quattuor togas viriles habent, duo praetextati sunt.
Miles sum factus P. Sulpicio C. Aurelio consulibus.
Interessante nel brano proposto la frase «pater mihi uxorem fratris sui filiam
dedit» a denotare come il padre di Ligustinus lo faccia sposare con la cugina:
si evidenzia una pratica di matrimonio tra cugini (o zio-nipote) antecedente
al senatoconsulto Claudiano. Si potrebbe ipotizzare che il matrimonio tra parenti,
inizialmente riprovato dal diritto e dalla società, progressivamente sia stato
accettato al fine di non disperdere il patrimonio della famiglia, tanto che la dote
173 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 781 nt. 132.
175
della moglie, faceva comunque parte dello stesso asse ereditario. La nuova regola di
Claudio, allora, potrebbe essere solo la conferma giuridica di una prassi già comune.
In Tacito si narra della proposta di Severo Cecina, presentata avanti il senato il 21
e.v., sul divieto ai governatori delle province di portare seco le proprie mogli,
proposta che, sollevando scalpore in senato, venne respinta.
Tac., Ann., 3, 33: Inter quae Severus Caecina censuit ne quem magistratum cui
provincia obvenisset uxor comitaretur, multum ante repetito concordem sibi coniugem
et sex partus enixam, seque quae in publicum statueret domi servavisse, cohibita intra
Italiam, quamquam ipse pluris per provincias quadraginta stipendia explevisset.
Tac., Ann., 3, 34: Paucorum haec adsensu audita: plures obturbabant neque relatum de
negotio neque Caecinam dignum tantae rei censorem. mox Valerius Messalinus, cui
parens Messala ineratque imago paternae facundiae, respondit multa duritiae veterum
[IN] melius et laetius mutata; neque enim, ut olim, obsideri urbem bellis aut provincias
hostilis esse. et pauca feminarum necessitatibus concidi quae ne coniugum quidem
penatis, adeo socios non onerent; cetera promisca cum marito nec ullum in eo pacis
impedimentum. bella plane accinctis obeunda: sed revertentibus post laborem quod
honestius quam uxorium levamentum? at quasdam in ambitionem aut avaritiam
prolapsas. quid? ipsorum magistratuum nonne plerosque variis libidinibus obnoxios?
non tamen ideo neminem in provinciam mitti. corruptos saepe pravitatibus uxorum
maritos: num ergo omnis caelibes integros? […] Addidit pauca Drusus de matrimonio
suo; nam principibus adeunda saepius longinqua imperii. quoties divum Augustum in
Occidentem atque Orientem meavisse comite Livia! se quoque in Illyricum profectum
et, si ita conducat, alias ad gentis iturum, haud semper aeque animo si ab uxore
carissima et tot communium liberorum parente divelleretur. sic Caecinae sententia
elusa.
Dalle opinioni espresse da Valerio Messalino e Druso, risulta che nell’anno 21 e.v.
non vi era né vi era stato anteriormente alcun divieto di matrimonio per i soldati
romani, parallelamente ai funzionari amministrativi, magistrati e governatori.
176
A supporto della propria tesi, Volterra afferma che l’esistenza del divieto fosse
smentita dall’organizzazione militare dell’Africa romana. Dopo la distruzione di
Cartagine, infatti, i romani intuirono la necessità di creare una forte armata
territoriale, appoggiata da una potente flotta, per gestire l’immenso territorio
occupato e garantire la sicurezza di città e stanziamenti importanti. Questa armata,
divisa in tre corpi, Africa e Numidia, Mauritania Cesarea e Mauritania Tintitana, era
reclutata quasi esclusivamente fra i giovani originari d’Africa. Seguendo un sistema
in vigore in Egitto per le truppe mercenarie al servizio dei Faraoni e continuato
anche dagli Achemenidi e dai Tolomei, la quasi totalità dei soldati che
componevano queste armate permanenti erano nati nei campi delle legioni o erano
figli di veterani174.
Lo stabilimento di una legione a Lambesa e il permesso dato da Settimio Severo
ai soldati di abitare con le loro mogli in quelle che sarebbero diventate città militari,
favorì ancora maggiormente questa forma di reclutamento, fornendo all’esercito
valenti coscritti, già iniziati alla disciplina militare per tradizione di famiglia. Erano
pertanto le famiglie dei militari viventi nella regione che fornivano all’impero i
soldati necessari per la difesa dell’Africa175.
La teoria di Volterra sembra supportata anche da studi demografici della
popolazione dell’impero nel I sec p.e.v. Al tempo di Augusto l’impero romano
dominava su una popolazione di circa 55 milioni di persone (delle quali 8 su 10
residenti in Italia) su una superficie di circa 3,3 milioni kmq. La densità era di circa
17 abitanti per kilometro quadrato, notevolmente più bassa rispetto all’attuale. I
tassi di natalità e mortalità erano piuttosto alti in entrambi i casi, ma la vita media
non andava oltre i 20 anni. Solo un decimo della popolazione viveva nelle circa 3
mila città dell’impero, tra queste le quattro città più importanti, Roma, Cartagine,
Antiochia e Alessandria, contavano sommate 3 milioni di persone, 1 milione delle
174 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 781 nt. 132. 175 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 781 nt. 132.
177
quali residenti nella sola Urbe176.
L’insieme delle forze armate al tempo di Augusto dovevano ammontare a circa
125 mila – 140 mila legionari, suddivisi in 25 legioni, e di altrettanti soldati
costituenti le truppe ausiliarie, per un totale di 250 mila – 280 mila unità, di cui circa
30 mila cavalieri177. A queste forze andavano poi sommati 10 mila soldati presenti a
Roma, milizie specializzate per la difesa e la sicurezza dell'Urbe suddivise in
Guardia Pretoriana, coorti urbane, vigili ed equites singulares Augusti, e altri 40 mila
– 45 mila marinai, classarii178, impiegati nelle flotte pretorie e provinciali con sede a
Ravenna, Miseno (vicino Pozzuoli), Forum Iulii (odierna Frejus), Siria, Egitto, e nelle
flotte fluviali sul Reno, Danubio e Sava179.
L’immensa potenza militare romana incontrò però, già al tempo di Augusto, una
difficoltà di reclutamento fra i cittadini romani, riflettendo un non trascurabile
problema demografico: il numero complessivo degli uomini in età di leva in Italia
ammontava, probabilmente, a meno di un milione180.
L’organizzazione dell’esercito, infatti, subì un profondo rinnovamento nel I sec
p.e.v. proprio con il primo imperatore romano, rinnovamento necessario per gestire
e controllare il vastissimo territorio della dominazione romana. L’intento di
Augusto era quello di creare un esercito permanente di volontari, disposti a servire
come legionari all’inizio per sedici anni, poi aumentati a 20 dal 6 e.v.; gli ausiliari
invece, prevalentemente provinciali, furono considerati volontari non cittadini, con
un fermo militare della durata di 20-25 anni.
Alla riforma dell’esercito si accompagnò anche il riordino dell’intero sistema di
176 G. RUFFOLO, Quando l'Italia era una superpotenza. Il ferro di Roma e l'oro dei mercanti, Einaudi
editore, Torino 2004. 177 Y. LE BOHEC, L'esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci
editore, Roma 1992, pp. 44-46. 178 Y. LE BOHEC, L'esercito romano cit., p. 39. 179 Y. LE BOHEC, L'esercito romano cit., p. 33. 180 G. FORNI, Il reclutamento delle legioni da Augusto a Diocleziano, Vol. V di Pubblicazioni della
Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Pavia, Bocca editore, Milano, 1953.
178
difese dei confini imperiali, acquartierando in modo permanente legioni o auxilia in
fortezze e forti lungo il limes. Si crearono così nuove città con funzioni
prevalentemente militari, ma che diventarono veri e proprio esempi di
urbanizzazione premeditata e strategica: per fare alcuni esempi si possono
menzionare Asturica Augusta (odierna Astorga), Legio (odierna Léon), Eburacum
(odierna York), Deva (odierna Chester), Colonia Agrippina (odierna Colonia), Bonna
(odierna Bonn), Mogontiacum (odierna Magonza), Argentoratae (odierna
Strasburgo), Castra Regina (odierna Ratisbona), Aquincum (odierna Budapest),
Aemona (odierna Lubjana), Singidunum (odierna Belgrado), Scupi (odierna Skopje),
Samosata (odierna Samsat), Aelia Capitolina (odierna Gerusalemme) e anche la
Lambaesis di Tunisia, citata precedentemente da Volterra.
Fu pertanto fondamentale coinvolgere i peregrini delle province, anzi si può dire
che tra tutte le riforme operate da Augusto, questa è stata una delle più efficaci e
vantaggiose intuizioni: affidando la difesa delle frontiere imperiali anche ai
provinciali, questi si sentirono coinvolti direttamente nell’ampio progetto di difesa
dell’impero dalle incursioni delle popolazioni nemiche, generando un sentimento
comune di appartenenza alla stessa civiltà, che potè svilupparsi profondamente e in
breve tempo. Infatti, già a partire dalla fine del I sec. e.v., il ruolo sempre più
preminente dell’esercito e il carisma di alcuni generali, videro l’ascesa a Roma di
imperatori romani di origine provinciale, come Traiano, l’Optimus Princeps.
In più Augusto, come premio finale per il servizio militare reso e la fedeltà
dimostrata, dispose il conferimento della cittadinanza romana, assieme ad altre
onoreficenze, in favore dei provinciali che avessero raggiunto l’età del congedo.
Questi riconoscimenti ufficiali, chiamati honestae missiones, sono stati rinvenuti a
centinaia, soprattutto nelle città di confine sopra indicate, in forma di tavolette
bronzee, attestando in modo inequivocabile che il titolare era stato congedato con
onore dalle forze armate romane e, nel caso fosse provinciale perché i legionari già
la possedevano, che aveva ricevuto la concessione della cittadinanza romana da
179
parte dell'Imperatore181.
I veterani in congedo, diventati cittadini romani a tutti gli effetti, avrebbero
legittimato i figli già nati o avrebbero garantito la legitimazione a quelli nascituri, in
modo che questi, diventati di diritto cittadini romani, sarebbero stati arruolabili a
loro volta nelle stesse legioni dove già avevano servito i padri.
4. (Segue) Tipologie di unioni e le honestae missiones
Dai reperti archeologici emerge che esistevano vari tipi di honestae missiones: ai
legionari, già cittadini romani, veniva consegnata un’indennità in denaro (nummaria
missio) o in beni, solitamente un appezzamento di terra delle colonie romane (agraria
missio)182; beneficiavano di questi premi anche i legionari congedati anzitempo per
ferite o malattie (causaria missio) o i congedati per volere del comandante (gratiosa
missio). La perdita dei benefici avveniva, invece, con il congedo disonorevole
(ignominiosa missio).
Il diploma era una copia autentica di un originale (contitutio), rilasciato
dall’imperatore, che a sua volta era registrata su una grande tavola di bronzo affissa
sul muro del tempio di Augusto, verso il tempio di Minerva (CIL XVI 83; CIL XVI
173), e depositata nell’archivio militare di Roma. Malauguratamente nessuno di
queste constitutiones bronzee è stata ritrovate, probabilmente perché furono tutte
fuse in epoche successive alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Il documento ufficiale era costituito da due tavole di bronzo incernierate tra loro
ed incise su entrambi i lati delle piastre. Sul lato esterno della prima tavola era inciso
il testo completo, mentre sul lato esterno della seconda erano presenti i nomi dei
sette testimoni che partecipavano alla cerimonia coi rispettivi sigilli. Sul lato interno
181 G. L. CHEESMAN, The Auxilia during the first two century A.D., Oxford, 1914, p.31-34. 182 S. CASCARINO, L'esercito romano. Armamento e organizzazione, Vol. II, Da Augusto ai Severi,
Il Cerchio, Rimini, 2007, p.56.
180
di entrambe le piastre veniva riprodotto il testo del lato esterno; le piastre sarebbero
poi state ripiegate, chiuse e sigillate, in modo che l’iscrizione esterna risultasse
leggibile senza rompere i sigilli. L’iscrizione interna era la copia ufficiale della
constitutio presente a Roma: la doppia iscrizione e i sigilli servivano
presumibilmente ad impedire la falsificazione o l’alterazione.
Come attestato in CIL XVI 69, il testo conteneva una serie di informazioni relative
al beneficiario: reggimento di appartenenza, nome del comandante del reggimento,
grado militare del beneficiario, nome del beneficiario, nome del padre di
beneficiario ed origine (nazione, tribù o città), nome della moglie del beneficiario (e
nome di suo padre ed origine) e dei figli a cui era concessa la cittadinanza.
Citando Volterra183, «l’indirizzo politico e sociale seguito dagli imperatori romani
nella concessione della cittadinanza romana a singoli peregrini, mantenendo nello
stesso tempo l’unità dei gruppi familiari domestici e trasformando i matrimoni,
legittimi secondo i vari diritti peregrini, in iustae nuptiae, appare chiaramente
dall’imponente documentazione fornita dai diplomi militari, le cui clausole sono
dirette al conseguimento di tali scopi».
Le numerose iscrizioni provenienti da Lambesa e da altre località dell’Africa
settentrionale, confermano che le unioni coniugali dei soldati ivi stanziati erano
quasi sempre matrimoni legittimi: i figli nati da tali unioni erano legittimi e, se il
padre era cittadino romano, erano anch’essi cittadini romani. Essi non assumevano
il gentilizio imperiale, ma quello del loro padre, fatto che conferma la loro qualità di
figli legittimi. Per quanto riguarda le figlie nate dalle medesime unioni, queste si
univano in matrimonio con legionari romani e ciò mostra la loro qualità di figlie
legittime e cittadine romane184.
183 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779. 184 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 782 nt. 132.
183
Anche dalle fonti epigrafiche militari risulta che il matrimonio dei soldati facenti
parte dell’esercito romano in Africa o in altre regioni dell’impero non differiva da
quello dei non militari. Possiamo pertanto distinguere varie situazioni:
a) Iustae nuptiae. Il soldato cittadino romano poteva unirsi in matrimonio
legittimo con una donna con la quale esisteva il conubium, cioè doveva essere
alternativamente cittadina romana, latina o peregrina cum conubio. I figli nati
sarebbero stati legittimi, cittadini romani e sottoposti alla sua patria potestas o, se il
militare era filiusfamilias, a quella del suo paterfamilias.
b) Matrimonium iuris peregrini. I soldati peregrini potevano unirsi in matrimonio
giuridicamente valido secundum leges moresque peregrinorum con una donna
peregrina, latina o cittadina romana avente il conubium nei suoi confronti. I figli che
nascevano da queste unioni erano peregrini.
c) Concubinatus. Il soldato romano, latino o peregrino che prendeva in moglie una
donna priva nei suoi confronti del conubium, non costituiva un matrimonio
giuridicamente valido. I figli erano spurii e seguivano la condizione della madre al
momento della nascita. I soldati, così come i funzionari civili, che prestavano
servizio nelle province, non potevano costituire matrimonio legittimo con donne
provinciali, a meno che non fossero anche essi originari della medesima provincia o
non fossero fidanzati con la provinciale prima del servizio.
Come esposto nel paragrafo 2 di questo capitolo, la concessione della
cittadinanza romana ad un peregrino congedato, tramite honesta missio, poteva
comportare lo scioglimento dell’unione coniugale, contratta secondo il diritto locale,
qualora la donna non avesse nei confronti del marito il conubium necessario a porre
in essere le iustae nuptiae romane.
Le autorità romane cercarono di impedire la cessazione del previgente
matrimonio concedendo alle moglie dei congedati la cittadinanza romana o il
conubium, in modo tale da trasformare l’unione coniugale del soldato cittadino
184
romano con donne peregrine in matrimonio legittimo romano. I figli nati da tali
unioni sarebbero stati sottoposti alla patria potestas del padre.
Nel caso in cui il veterano in congedo fosse celibe, la concessione del conubium
veniva fatta alla donna che questi avrebbe preso in moglie per la prima volta dopo
l’honesta missio in modo tale che l’unione coniugale formata susseguentemente con
donne peregrine avesse i crismi delle iustae nuptiae.
I diplomi militari possono, infatti, essere divisi in: honestae missione a soldati
peregrini e a soldati aventi cittadinanza romana185.
a) Honestae missiones a soldati peregrini. La formula è la seguente:
Ipsis liberis posterisque eorum civitatem dedit et conubium cum uxoribus quas tunc
habuissent cum est civitas iis data aut, siqui caelibes essent, cum iis quas postea
duxerint dumtaxat singuli singulas.
È evidente che i soldati considerati non caelibes ed aventi uxores sono uniti in
matrimonio con le loro donne. La differenza consta nel fatto che ai veterani non
caelibes si concede il ius conubii solo con la donna che già è uxor secundum leges
moresque peregrinorum, mentre ai veterani caelibes si concede il ius conubii con la
prima donna che in seguito essi volessero condurre in matrimonio.
Le uxores dei non caelibes sono già mogli legittime secondo il diritto nazionale dei
coniugi prima della concessione della cittadinanza. È interessante notare che vari
papiri in lingua greca (BGU 113 del 140 e.v.; 265 del 148 e.v.; 780 del 154-156 e.v.; P.
Hamb. 1, 31 del 103 e.v.; 31a del 125-133 e.v.) dichiarano che la cittadinanza viene
conferita anche ai figli e nipoti dei veterani. La presenza dei nipoti, che in alcuni
diplomi latini viene reso con il termine posteri, conferma l’esistenza di un vincolo
coniugale legittimo i cui effetti si estendono anche a successive generazioni di
discendenti.
185 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 779 nt. 130.
185
Le honestae missiones riguardanti soldati peregrini di marinai delle flotte pretorie
datate al 214-217, 247 e 249 recano, invece, la formula:
Ipsis filiisque eorum quos susceperint ex mulieribus, quas secum concessa consuetudine
vixisse probaverint, civitatem Romanam dedit et conubium cum isdem quas tunc secum
habuissent cum est civitas iis data aut, si qui tunc non habuissent, cum iis quas postea
duxissent dumtaxat singuli singulas.
In questo tipo di diplomi il conubium viene dato ai congedati solo con le donne
«quas tunc secum habuissent cum est civitas iis data», oppure, nel caso che tunc non
«habuissent, coloro quas postea duxissent singuli singulas». Secondo Volterra, pertanto,
esiste «una corrispondenza perfetta con la situazione oggetto dei diplomi della
precedente formula ed un’equiparazione giuridica tra l’habere uxores e il postea ducere
uxores».
L’espressione concessa consuetudine potrebbe essere messa in relazione con il
passo di Erodiano (3, 8, 5), il quale, parlando delle riforme di Settimio Severo,
afferma che questo imperatore avrebbe nel 197 consentito ai soldati di coabitare con
le loro mogli, ipotesi questa che potrebbe essere avvalorata dalla considerazione che
i tre diplomi aventi la formula in questione sono posteriori al 197 e.v.
b) Honestae missiones a soldati aventi cittadinanza romana. Numerosi diplomi che
vanno dall’epoca di Vespasiano a quella di Costanzo Cloro e Galerio e Massimiano
recano questa formula:
Quibus fortiter et pie militia functis ius tribuo [o tribuimus] conubi dumtaxat cum
singulis et primis uxoribus, ut etiam si peregrini iuris feminas matrimonio suo
iunxerint, perinde liberos tollant, ac si ex duobus civibus Romanis natos.
Un diploma di Diocleziano reca una formula leggermente diversa:
Qui uxores non habent, si qui eorum feminam peregrinam duxerit dumtaxat singuli
singulas, quas primo duxerint, cum iis habeant conubium.
186
La formula usata si accorda pienamente con quanto affermato da Gaio:
Gai. 1, 57: Unde [et] veteranis quibusdam concedi solet principalibus constitutionibus
conubium cum his Latinis peregrinisve, quas primas post missionem uxores duxerint;
et qui ex eo matrimonio nascuntur, et cives Romani et in potestatem parentum fiunt.
Volterra giustamente fa notare che, a differenza dei diplomi dei soldati peregrini,
il ius conubii è concesso solo alle donne con le quali il veterano romano si unisce in
matrimonio per la prima volta dopo la missio, non invece a quelle con le quali il
medesimo aveva anteriormente una relazione. L’antecedente unione coniugale non
avrebbe potuto essere in nessun modo un matrimonio legittimo, proprio perché
mancava l’elemento essenziale del conubium: infatti, nei diplomi dei soldati cittadini
romani si parla di foeminae e non di uxores186.
Per il medesimo motivo, in questi diplomi non si parla dei figli che fossero nati
prima della missio, in quanto generati all’interno di un’unione giuridicamente
inesistente per il diritto romano, quindi considerati illegittimi e spurii. Riguardo
invece la formula «perinde liberos tollant ac si ex duobus civibus Romani natos» e che
concerne i figli nati dopo la missio e dal matrimonium (termine presente nei diplomi)
formato con la donna peregrina cui è stato concesso il conubium, Volterra avanza
l’ipotesi che l’espressione abbia il medesimo significato giuridico indicato da Gaio
«et qui ex eo matrimonio nascuntur, et cives Romani et in potestatem parentum fiunt».
Questo indicherebbe che gli imperatori romani concedono ai veterani, già
cittadini romani prima della missio, la patria potestas sui figli che nasceranno dal loro
matrimonio con feminae iuris peregrini cui viene dato il conubium. Si tratta cioè di una
fictio iuris, come se fossero nati da due cittadini romani (ac si ex duobus civibus Romani
natos), ponendo i figli nati dopo la missio nella stessa condizione dei figli nati da
186 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 780 nt. 130.
187
padre e madre romani uniti in iustae nuptiae187.
5. (Segue) Quotidianità coniugale nelle canabae
Nelle fonti epigrafiche, la compagna di un soldato romano con cittadinanza era
chiamata concubina, amica, hospita, focaria. Dei primi due termini si è già ampiamente
parlato in precedenza; per quanto riguarda hospita letteralmente significa «colei che
è ospitata» o anche «straniera», ad indicare quindi una persona non sicuramente di
origini romane188; focaria, letteralmente «colei che sta al focolare», cioè «cuoca», è un
termine ancora più significativo, perché sta ad indicare precisamente la «donna che
viveva in concubinato monogamico con un soldato romano»189.
Attorno ai castra stativa, le fortezze militari permanenti dislocate soprattutto
lungo il limes, si erano sviluppati già dal tempo di Augusto degli agglomerati civili,
chiamate canabae, abitati da individui, cittadini romani e non, che svolgevano quelle
attività necessarie a rifornire l’esercito romano. Erano artigiani e fabbri per la
realizzazione delle armi, mercanti per l’approvigionamento alimentare e non
mancavano ovviamente le prostitute per allietare il tempo libero dei soldati. Tutte
queste persone avevano iniziato ad affluire ed a stabilirsi attorno ai maggiori centri
militari, sia delle legioni, sia degli auxilia, dapprima in modo precario, poi
costruendo fucine, fornaci, abitazioni, horrea (granai), lupanaria, e formando così
conglomerati urbani stabili.
A testimonianza della quotidianità nelle canabae, sembra opportuno menzionare
le Vindolanda Tablets190, tavolette di corteccia rinvenute presso il castrum di
Vindolanda, situato non lontano dal Vallo di Adriano in Scozia. Datate tra il I e il II
187 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 781 nt. 130. 188 C. CASTELLO, In tema cit., p. 23 189 C. CASTELLO, In tema cit., p. 24. 190 Sito internet vindolanda.csad.ox.ac.uk consultato 11 marzo 2013
188
secolo e.v., sono i più antichi documenti scritti a mano della Gran Bretagna e
rappresentano una risorsa inestimabile di informazioni sulla vita di militari e civili
nei territori di confine: vi sono liste della spesa, inviti a compleanno, lettere a parenti
ed amici, inventari di beni, verbali amministrativi ed ovviamente rapporti militari.
Originariamente il termine canabae indicava le bancarelle dei fruttivendoli e dei
commercianti di vino, per poi passare ad indicare un insediamento civile attorno ai
forti ausiliari principali. Erano nuclei di fondamentale importanza non solo per
creare o sviluppare il commercio tra le diverse province romane e le popolazioni
barbare, ma anche e forse soprattutto per romanizzare le popolazioni sottomesse e
nel contempo anche quelle vicine oltre il limes. Questo fenomeno non è legato solo al
mondo antico, basti pensare alle zone di guerra in Iraq o Afghanistan, o alla basa
militare di Okinawa.
Tipici esempi di canabae legionis, che oggi sono zone archeologiche, sono
Carnuntum (oggi Petronell-Carnuntum in Austria) e Mogontiacum. Alcuni di questi
insediamenti si ingrandirono a tal punto da essere riconosciuti prima come
municipia (comunità cittadine legati a Roma ma privi dei diritti politici propri
dei cittadini romani), e poi come coloniae (comunità autonoma di cittadini romani
legate da vincoli di eterna alleanza con la madrepatria), come Apulum in Dacia
(odierna Alba Iulia in Romania) e Castra Vetera nella Germania inferiore (odierna
Xanten), tanto che, in alcuni casi, divennero città e furono dotati di impianti termali
ed anfiteatri.
Emblematico l’esempio di Augusta Treverorum (odierna Treviri), fondata nel 16
p.e.v. nei pressi di un castrum risalente al 30 p.e.v., che a partire dalla seconda metà
del III secolo fu sede vescovile; distrutta dagli Alemanni nel 275, dal 293 al 395 fu
una delle capitali dell’imperatore romano d’occidente. Sotto il regno di Costantino
(306-324) la città fu ampliata, furono costruite la basilica di Costantino e le terme
imperiali. Dal 318 fu sede della Prefettura del pretorio delle Gallie e residenza degli
imperatori Costantino II e, in seguito, Valentiniano I.
189
Ritornando alle unioni coniugali dei soldati, si può affermare con una certa
sicurezza che il divieto del matrimonio per militari in servizio, come molti moderni
studiosi hanno affermato, non trova alcun riscontro nelle fonti giuridiche, ma
potrebbe essere semplicemente il retaggio di una regola disciplinare, risalente
all’epoca repubblicana, che vietava la presenza delle donne nel campo. Fino a che
l’esercito era una militia, i cui componenti ritornavano a casa alla fine di ogni
campagna, questa regola non avrebbe avuto conseguenze riguardo alla vita privata.
Ma con la creazione da parte di Augusto di un esercito stanziale, che prevedeva il
servizio continuo per dodici mesi consecutivi, comportò il verificarsi di circostanze
differenti, con nuove deduzioni ed applicazioni giuridiche191.
Ai soldati era generalmente vietato, quindi, solamente portare le loro donne, fossero
essere legittime o meno, negli accampamenti o nelle spedizioni belliche e di
coabitare con esse. In numerosi passi del Digesto, infatti, si mostra chiaramente che
il soldato durante il servizio poteva contrarre liberamente un matrimonio legittimo.
Si può richiamare in proposito il testo di Papiniano, dove si afferma che il militare
filiusfamilias non può contrarre matrimonio senza la volontà del paterfamilias (il tema
è stato approfondito supra al cap. I, p. 4).
Papiniano, libro 6 responsorum D. 23, 2, 35: Filius familias miles matrimonium sine
patris voluntate non contrahit.
In altri brani si asserisce che la dote della moglia di un soldato non fa parte del
peculim castrense:
Papiniano, libro 19 responsorum D. 49, 17, 16, pr.: Dotem filio familias datam vel
promissam in peculio castrensi non esse respondi. Nec ea res contraria videbitur ei,
quod divi Hadriani temporibus filium familias militem uxori heredem extitisse placuit
et hereditatem in castrense peculium habuisse. Nam hereditas adventicio iure quaeritur,
191 R. O. FINK, The sponsalia of a Classarius: A reinterpretation of P. Mich. Inv. 4703, Transactions
and Proceeding of the American Philological Association, 72, 1941, p. 119.
190
dos autem matrimonio cohaerens oneribus eius ac liberis communibus, qui sunt in avi
familia, confertur.
Marcello, libro 2 militarium D. 29, 1, 16: Dotalem fundum si legaverit miles, non erit
ratum legatum propter legem Iuliam.
Ancora, una costituzione di Gordiano, che si riferisce al lutto delle vedove,
conferma che il soldato poteva sposarsi:
C. 2, 11, 15 IMP. GORDIANUS. A. SULPICIAE: Decreto amplissimi ordinis luctu
feminarum deminuto tristior habitus ceteraque hoc genus insignia mulieribus
remittuntur, non etiam intra tempus, quo lugere maritum moris est, matrimonium
contrahere permittitur, cum etiam, si nuptias alias intra hoc tempus secuta est, tam ea
quam is, qui sciens eam duxit uxorem, etiam si miles sit, perpetuo edicto labem pudoris
contrahit. PP. XVII K. IUL. GORDIANO A. ET AVIOLA CONSS. (A 239)
Un testo di Ulpiano parla del diritto del soldato sulla schiava che ha manomesso
a scopo di matrimonio:
Ulpiano, libro 3 ad legem Iuliam et Papiam D. 23, 2, 45, 3: Plane si filius familias
miles esse proponatur, non dubitamus, si castrensis peculii ancillam manumiserit,
competere ei hoc ius: est enim patronus secundum constitutiones nec patri eius hoc ius
competit.
Altri passi del Digesto si occupano della nullità delle donazioni fra il soldato e la
moglie, ad esempio:
Ulpiano, libro 33 ad Sabinum D. 24, 1, 32, 8: Si miles uxori donaverit de castrensibus
bonis et fuerit damnatus, quia permissum est ei de his testari (si modo impetravit ut
testetur cum damnaretur), donatio valebit: nam et mortis causa donare poterit, cui
testari permissum est.
In questa specifica citazione, viene presentato il caso di un soldato che,
191
condannato a morte, nel fare testamento lascia una donazione alla moglie di un bene
del peculio castrense: la donazione risulta valida. Altro esempio di testamenti o
legati fatti da soldati a favore dei propri figli legittimi, si legge in:
Ulpiano, libro 9 ad Sabinum D. 29, 1, 7: Qui iure militari testatur etsi ignoraverit
praegnatem uxorem vel non fuit praegnas, hoc tamen animo fuit, ut vellet quisquis sibi
nascetur exheredem esse, testamentum non rumpitur.
Una costituzione di Costantino concede alla moglie del soldati di passare a
seconde nozze se è rimasta quattro anni senza aver avuto notizie del marito,
evidenziando di conseguenza che si tratta di una donna unita al soldato in
matrimonio legittimo:
C. 5, 17, 7 CONSTANT. A. AD DELMATIUM. pr.:.Uxor, quae in militiam profecto
marito post interventum annorum quattuor nullum sospitatis eius potuit habere
indicium atque ideo de nuptiis alterius cogitavit nec tamen ante nupsit, quam libello
ducem super hoc suo voto convenit, non videtur nuptias inisse furtivas nec dotis
amissionem sustinere nec capitali poenae esse obnoxia, quae post tam magni temporis
iugitatem non temere nec clanculo, sed publice contestatione deposita nupsisse
firmatur. D...NAISSO FELICIANO ET TITIANO CONSS. (A 337)
Nel trattare il concubinatus si è menzionato il divieto per tutti coloro che
esercitavano una funzione in una provincia, fossero civili o militari, di costituire
iustae nuptiae con una donna nata o domiciliata nella stessa provincia, ma ciò non
esclude che fosse pacificamente concesso il matrimonio legittimo ai soldati originari
della provincia dove militavano con donne della stessa provenienza.
Paolo, libro 1 responsorum D. 23, 2, 65: Eos, qui in patria sua militant, non videri
contra mandata ex eadem provincia uxorem ducere idque etiam quibusdam mandatis
contineri.
1. Idem eodem. Respondit mihi placere, etsi contra mandata contractum sit
matrimonium in provincia, tamen post depositum officium, si in eadem voluntate
192
perseverat, iustas nuptias effici: et ideo postea liberos natos ex iusto matrimonio
legitimos esse
Le fonti sulle quali si appoggiano gli studiosi che sostengono invece il generale
divieto si rifanno a Svetonio, Dione Cassio e Tacito.
Svetonio parla di una disposizione di Augusto con la quale l’imperatore
permetteva raramente e soltanto durante l’inverno agli ufficiali superiori di
incontrarsi con la propria moglie:
Svet., Divus Augustus, 24: Disciplinam severissime rexit: ne legatorum quidem
cuiquam, nisi gravate hibernisque demum mensibus, permisit uxorem intervisere.
Questa particolare concessione dimostra però che questi militari potevano sposarsi
liberamente.
Il passo di Dione Cassio, molto importante per questa frangia della dottrina, si
limita a menzionare una disposizione di Claudio:
Dion. Cass., Historiae Romanae, 62, 24: o¥ de£ dh£ Sene¢kaj kai£ o¥ ¥Rou¤foj o¥
eãparxoj aãlloi te¢ tinej tw¤n e¦pifanw¤n e¦pebou¢leusan t¤ Ne¢rwni: ouãte ga£r
th£n a¦sxhmosu¢nhn ouãte th£n a¦se¢lgeian ouãte th£n w¦mo¢thta au¦tou¤ eãti
fe¢rein e¦du¢nanto. au¦toi¢ te ouån aàma tw¤n kakw¤n tou¢twn a¦pallagh¤nai
ka¦kei¤non e¦leuqerw¤sai h¦qe¢lhsan, wàsper aãntikruj Soulpi¢kio¢j
te ãAsproj e¥kato¢ntarxoj kai£ Sou¢brioj Fla¢ouioj xili¢arxoj, e¦k tw¤n
wmatofula¢kwn oãntej, kai£ pro£j au¦to£n to£n Ne¢rwna w¥molo¢ghsan. e¦kei¤no¢j
te ga£r e¦rwthqei£j u¥p' au¦tou¤ th£n ai¦ti¢an th¤j e¦piqe¢sewj eiåpen oàti “aãllwj
soi bohqh¤sai ou¦k e¦duna¢mhn”, kai£ o¥ Fla¢ouioj “kai£ e¦fi¢lhsa¢ se” eiåpe
“panto£j ma¤llon kai£ e¦mi¢shsa. e¦fi¢lhsa me£n e¦lpi¢saj a¦gaqo£n
au¦tokra¢tora eãsesqai, e¦mi¢shsa de£ oàti ta£ kai£ ta£ poiei¤j: ouãte ga£r
a¥rmathla¢t$ ouãte kiqa¤r douleu¢ein du¢namai”. mhnu¢sewj ouån genome¢nhj
ouâtoi¢ te e¦kola¢sqhsan kai£ aãlloi di' au¦tou£j (3.)polloi¢. pa¤n ga£r oà ti tij
e¦gkale¢sai te¦k perixarei¢aj kai£ lu¢phj r¥hma¢twn te kai£ neuma¢twn oiâo¢j
193
te hån, kai£ e¦pefe¢reto kai£ e¦pisteu¢eto: ou¦d' eãstin oà ti tw¤n e¦gklhma¢twn, ei¦
kai£ e¦pe¢plasto, a¦pistei¤sqai dia£ th£n a¦lh¢qeian tw¤n tou¤ Ne¢rwnoj eãrgwn
e¦du¢nato. (4.)kai£ dia£ tou¤t' e¦j ta£ ma¢lista oià te fi¢loi oi¥ ponhroi£ kai£
oi¦ke¢tai tinw¤n hãnqhsan: tou£j me£n ga£r a¦llotri¢ouj tou¢j te e¦xqrou£j
u¥popteu¢ontej e¦fula¢ssonto, pro£j de£ dh£ tou£j suno¢ntaj kai£ aãkontej
e¦gumnou¤nto.
Volterra afferma che tali parole devono essere interpretate secondo il loro
significato letterale, cioè che l’imperatore accordò ai soldati, dato che le leggi non
permettevano loro di avere mogli, i diritti degli uomini sposati. Tali leggi, sempre
secondo Volterra, erano presumibilmente le norme che proibivano ai soldati di
coabitare con le loro mogli o concubine o che, comunque, rendevano difficile il
matrimonio. Per quanto concerne i diritti sopra menzionati, erano senza dubbio le
esenzioni dalle limitazioni disposte dalle leggi maritali di Augusto nei confronti dei
celibi, rispondendo alla situazione di fatto nella quale si trovavano i soldati e
tenendo anche conto che buona parte di essi, in servizio nelle province, non
potevano sposarsi192.
Poca importanza ha il testo di Tacito, dal quale non si evince l’esclusione per i
soldati di compiere un valido matrimonio:
Tac., Ann., 14, 27: Eodem anno ex inlustribus Asia urbibus Laodicea tremore terrae
prolapsa nullo [a] nobis remedio propriis opibus revaluit. at in Italia vetus oppidum
Puteoli ius coloniae et cognomentum a Nerone apiscuntur. veterani Tarentum et
Antium adscripti non tamen infrequentiae locorum subvenere, dilapsis pluribus in
provincias, in quibus stipendia expleverant; neque coniugiis suscipiendis neque alendis
liberis sueti orbas sine posteris domos relinquebant. non enim, ut olim, universae
legiones deducebantur cum tribunis et centurionibus et sui cuiusque ordinis militibus,
ut consensu et caritate rem publicam efficerent, sed ignoti inter se, diversis manipulis,
sine rectore, sine adfectibus mutuis, quasi ex alio genere mortalium repente in unum
192 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 783 nt. 132.
194
collecti, numerus magis quam colonia.
Il testo di Erodiano, il quale parla del permesso accordato da Settimio Severo di
coabitare con le loro donne, costituisce una conferma dell’esistenza per i militari di
porre in essere valide iustae nuptiae.
L’impossibilità per i militari cittadini romani di porre in essere un matrimonio
con donne provinciali permette di spiegare alcuni documenti papirologici che sono
emersi nella trattazione della materia. Il BGU, 140 contiene una epistula di Traiano al
prefetto di Egitto, Ramnius, riguardante i soldati della legione III Cirenaica e XXII
Deiotariana. L’imperatore concede ai figli dei militari nati durante il servizio
militare del padre, i quali non sono legittimi, la bonorum possessio unde cognati. I
militari sono sicuramente cittadini romani, come dimostra la concessione di un
istituto prettamente romano e, se Traiano denota la violazione delle regole della
disciplina militare, si può ipotizzare che l’imperatore si riferisca ai divieti di
prendere in moglie donne provinciali durante il servizio oppure il divieto di
condurre seco le mogli durante le spedizioni militari.
Il famoso papiro Cattaoui, del II secolo e.v., contiene un protocollo giudiziario
con varie decisioni concernentei donne e figli di soldati. Una di queste riguarda tale
Lucia Macrina la quale chiede la restituzione di beni che essa ha dato al soldato
Antonius Germanus. Il magistrato, Lupus, risponde che i depositi sono in realtà delle
doti e che per questo motivo non può giudicare perché non è possibile che il soldato
si sposi. Probabilmente si tratta di un soldato romano e di una donna, forse
anche’essa romana, ma originaria della provincia.
La facoltà per i soldati di costituire un matrimonio in Egitto è dimostrato dal
paragrafo 62 del Gnomon dell’Idios Logos, il quale prescrive che coloro che prestano il
servizio militare, se non s’iscrivono nelle liste di censimeno, sono colpiti da pene
afflittive assieme alle loro mogli e i figli, ritenuti ugualmente responsabili. I termini
greci utilizzati non lasciano dubbi che si tratti di mogli e figli legittimi.
195
Da tutte queste fonti, può pertanto escludersi, malgrado l’opinione di autorevoli
studiosi, che nell’impero romano vi fosse un divieto generale al matrimonio per i
soldati durante il servizio di leva militare.
197
Capitolo VI
L’INFLUENZA CRISTIANA NEL MATRIMONIO CLASSICO
1. Matrimonio
Nei trattati moderni di diritto romano vengono spesso riportate due definizioni
del matrimonio prese dal Digesto. La prima è tratta dall’opera di Modestino:
Modestino, libro 1 regularum D. 23, 2, 1: Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et
consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio.
L’altra è presa dalle Institutiones, anche se non si conosce con certezza se appartenga
a Fiorentino o ad Ulpiano:
Inst. 1, 9, 1: Nuptiae autem sive matrimonium est viri et mulieris coniunctio,
individuam consuetudinem vitae continens
È facilmente rilevabile che le due definizioni appena riportate pongano l’accento
più sull’aspetto sociale del matrimonio, che non su quello giuridico: a differenza
della nozione presente nei Tituli ex corpore Ulpiani, qui non si richiamano i requisiti
essenziali alla costituzione del matrimonio legittimo. Per un confronto più diretto,
sembra utile citare il passo della raccolta ulpianea:
Tituli ex corpore Ulpiani 5, 2: Iustum matrimonium est, si inter eos nuptias
contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique
consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt.
Si nota, infatti, che già l’incipit delle prime due definizioni, dove si parla di
generiche nuptiae e non di iustae nuptiae o iustum matrimonium, non ha la stessa
autorevolezza giuridica dei Tituli ex corpore Ulpiani. Si fa riferimento,
successivamente, a un consortium o ad una intederminata coniunctio tra uomo e
198
donna; non si accenna minimamente al conubium e al consenso reciproco dei
coniugi, o a quello del rispettivi paterfamilias. Al contrario, si fa riferimento ad un
legame «per tutta la vita», espressione mancante nel passo di Ulpiano, oltre che del
tutto insignificante per i giuristi romani classici.
Secondo l’opinione di Volterra, pare che queste due definizioni siano state scelte
dai compilatori giustinianei allo scopo di «non far risaltare la profonda differenza
fra la nozione giuridica dell’istituto dell’epoca pagana e quella più tarda,
influenzata dalle concezioni religiose cristiane». L’insigne giurista italiano corrobora
questa affermazione, specificando: «Queste due frasi, ponendo l’accento sull’intima
comunanza di vita dei coniugi, sulla reciproca partecipazione di ciascuno di essi ad
ogni elemento morale, religioso e materiale dell’esistenza dell’altro, sulla loro
uguaglianza sociale, […] più che specificare gli elementi giuridici sui quali si fonda
il matrimonio legittimo, esprimono l’aspetto etico della vita coniugale»193.
In accordo con gli scopi storici e legislativi della compilazione giustiniane, si
evita ogni tipo di contrasto tra la concezione antica e quella del tempo. È necessario
sottolineare la difficoltà che dovevano fronteggiare i giuristi del IV secolo, tra
incertezze e discussioni sulla regolamentazione del matrimonio, in un’epoca di
continue modifiche su singoli punti dell’istituto e la contemporeanea elaborazione
di nuove norme non ancora accolte nelle Novelle giustinianee. E perché la
definizione non riuscisse sgradita agli ambiti ecclesiastici, si dovette trovare un
compromesso, precisando comunque che la rielaborazione operata esprime concetti
riscontrabili anche in opere letterarie di autori quali Cicerone, Seneca, Quintiliano, e
in alcune costituzioni imperiali.
Cic., Laelius, 6, 20: Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum
humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio.
193 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 754.
199
Sen., Ep. 48: consortium rerum omnium inter nos facit amicitia.
Quint., Decl., 376: Matrimonium vero tum perpetuum est, si mutua voluntate
iungitur. Cum ergo quaeratur mihi uxor, socia tori, vitae consors, in omne saeculum
mihi eligenda est.
Gordiano a proposito della moglie enuncia:
C. 9, 32, 4 GORD. A. BASSO pr.: Adversus uxorem, quae socia rei humanae atque
divinae domus suscipitur, mariti diem suum functi successores expilatae hereditatis
crimen intendere non possunt. PP. VI K. MART. ATTICO ET PRAETEXTATO
CONSS. (A 242)
Paolo giustifica l’impossibilità di esperire l’actio furti contro la moglie perché:
Paolo, libro 7, ad Sabinum D. 25, 2, 1: societas vitae quodammodo dominam eam
faceret.
Se poi l’esistenza e la persistenza della volontà dei coniugi, forniti di conubium e
puberi, di constituire il vincolo matrimoniale sono desumibili dalla comunanza di
vita descritti nelle due frasi, allora si può affermare che queste non sono in contrasto
con la nozione giuridica del matrimonio dell’epoca di Ulpiano e Paolo. Anche se
appaiono più come una voce enciclopedica, che non quale norma giuridica.
Volterra respinge quindi i dubbi avanzati da taluni autori sull’interpolazione di
queste due definizioni in epoca bizantina194.
Dall’esame delle costituzioni imperiali a partire dal IV secolo, si denota un
profondo mutamento, per quanto attuatosi gradualmente, nella configurazione
giuridica e nella normativa del matrimonio. Le fonti classiche accolte dai
compilatori bizantini nel Digesto, nelle Institutiones e nel Codex, mostrano il nuovo
194 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 754.
200
significato assunto dalle parole nel VI secolo: termini come adfectus o espressioni
quali consensus facit nuptias, attraverso cui è espresso il principio delle iustae nuptiae,
cambiano la nozione giuridica e il valore semantico propri del periodo classico, in
accordo con la trasformazione dell’istituto matrimoniale195.
Il matrimonio, infatti, è comunque fondato sulla reciproca volontà dei contraenti,
ma l’elemento della persistenza di questa viene a mancare: l’esistenza del
matrimonio non dipende più dal consenso e dal conubium dei coniugi. Nel diritto
tardo-antico, «la volontà dei contraenti, una volta inizialmente manifestata, fa
sorgere il matrimonio che continua ad esistere come rapporto giuridico con gli
effetti ad esso collegati, indipendentemente dalla persistenza di questa reciproca
volontà»196.
Mentre il matrimonio classico è basato sulla volontà continua dei coniugi e sulla
persistenza del conubium, quello postclassico si fonda esclusivamente sulla volontà
iniziale reciproca dell’uomo e della donna. Sebbene in apparenza Giustiniano
conservi il principio del consensus facit nuptias, le medesime parole esprimono nel VI
secolo un principio giuridico diverso: il matrimonio inizia a delinearsi quale negozio
giuridico bilaterale, che sorge in base ad un rapporto convenzionale tra due persone
di sesso opposto197.
La cessazione della volontà reciproca di entrambi o anche uno solo dei coniugi
non scioglie più automaticamente il vincolo giuridico coniugale, ma occorre una
manifestazione di volontà contraria alla prima ed avente come oggetto lo
scioglimento del matrimonio.
Il nuovo concetto applicato nella legislazione imperiale è chiaramente espresso in
una costituzione di Teodosio II del 449 e.v.:
195 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 785. 196 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 785. 197 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 785.
201
C. 5, 17, 8: THEODOS. ET VALENTIN. AA. HORMISDAE PP. Consensu licita
matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio solvi praecipimus. D.V
ID.IAN.PROTOGENE ET ASTERIO CONSS. (A 449)
È evidente che il rapporto matrimoniale risulta ormai indipendente dalla
persistenza del consenso dei coniugi. Da questa concezione, il divorzio unilaterale,
al di fuori di cause tassativamente previste, è punito come un reato penale.
I motivi di questa radicata trasformazione sono sicuramente riscontrabili
nell’azione esercitata dalla Chiesa sugli imperatori, a partire dal IV secolo. Anzi,
proprio l’ambito matrimoniale rappresenta l’esempio emblematico dell’influenza
del Cristianesimo nel diritto romano198. Tertulliano, Agostino, Gerolamo e
Ambrogio sono forse gli autori che, più di ogni altro, hanno contribuito a fondare gli
elementi della dottrina canonistica sul matrimonio.
Essi partono dal presupposto che il vincolo coniugale, una volta formato, sia
indissolubile e permanga anche se sia cessata la volontà reciproca degli sposi, anche
se entrambi di questi o uno di loro esprima la volontà di sciogliere il matrimonio ed
anche se la condizione giuridica di uno dei coniugi o di entrambi sia mutata in
modo da far cessare il conubium tra essi. Un passo di Gerolamo descrive la rigidità
della concezione matrimoniale cristiana:
Gerolamo, Epist., 123, 5 (P.L., XXII, 1040): Vivente viro, mulier alligata est, et
mortuo soluta. Ergo matrimonium vinculum est et viduitas solutio. Uxor allligata est
viro et vir uxori alligatus est: in tantum ut sui corporis non habeant potestatem et
alterutrum debitum reddant. Nec possint habere pudicitiae libertatem, qui serviunt
dominatui nuptiarum.
Agostino, pur affermando la superiorità della condizione dei celibi su quella dei
coniugati, enuncia la teoria dei tria bona del matrimonio: proles, fides, sacramentum.
198 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 785.
202
Tra i passi più significativi si può citare:
Agostino, De bono coniug., 7 (ivi, XL, 378-379): Siquidem interveniente divortio non
aboletur illa confederatio nuptialis: ita ut sibi coniuges sint, etiam separati; cum illis
autem adulterium commitant, quibus fuerint etiam post suum repudium copulati, vel
illa viro vel ille mulieri.
Ambrogio, oltre a rivendicare i principi della Chiesa di fronte al diritto imperiale,
afferma che il consenso degli sposi è irrevocabile e comporta l’indissolubilità del
vincolo matrimoniale una volta inizialmente formato. Interessante come la
definizione data da Ambrogio ricordi quella di Modestino:
Ambrogio, psalm., 118, 16 (P.L., XV, 1489): Quid uxor charissima, quaedam vitae
cohaeres et consortium communae naturae.
Ancora:
Ambrogio, De inst. virg., 6, 41 (P.L., XVI, 316): Cum enim initiatur coniugium, tunc
coniugium nomen adsciscitur. Non enim defloratio virginitatis coniugium facit, sed
pactio coniugalis. Denique cum iungitur puella coniugium est, non cum viri
admixtione cognoscitur.
Questo passo richiama quello di Ulpiano:
Ulpiano, libro 33 ad Sabinum D. 24, 1, 32, 13: non enim coitus matrimonium facit,
sed maritalis affectio.
A differenza della concezione classica del matrimonio, nel pensiero degli scrittori
cristiani il matrimonio appare formato in base all’esclusivo consenso iniziale
reciproco dell’uomo e della donna. Il matrimonio non può più desumersi da un
qualsiasi comportamento delle parti, ma occorre che la reciproca volontà sia
espressa esplicitamente: il rapporto coniugale passa, cioè, dal riconoscimento di una
situazione di fatto, dove le parti si considerano reciprocamente e pubblicamente
203
come marito e moglie, ad una situazione formale, in cui il consenso iniziale è
elemento necessario e sufficiente alla sua costituzione. Il passo in questione è
rilevante anche per la teologia cristiana, ma ha suscitato qualche dibattito sulla sua
contestualizzazione. Amarelli, infatti, afferma che pare altamente opinabile
l’ipotizzata derivazione dell’enunciato di Ulpiano con i dubbi dei teologi cristiani
«alle prese col delicato problema della compatibilità della natura veramente
matrimoniale dell’unione di Maria e Giuseppe con il dogma del concepimento
verginale di Gesù»199.
Negli scritti cristiani si avverte l’esigenza di individuare la forma attraverso la
quale debba compiersi la manifestazione del consenso, occorrente anche per
escludere le nozze furtive e per il distinguere il matrimonio dal concubinato:
Tertulliano, De pudic., 4 (P.L., II, 1038-1039): […] penes non occutae quoque
coniunctiones, id est non prius apud Ecclesiam professae, iuxta moechiam et
fornicationem iudicari periclitantur.
In proposito si possono richiamare anche altri passi di Ippolito da Roma (Epist., 1,
4, 5) e Ambrogio (Epist., 19, 7) dove si segnala l’esigenza che le nozze fra persone di
differenti classi sociali o quelle tra ingenui e liberti siano accompagnate dalla
confezione delle tabulae nuptiales e dalla costituzione dotale, per togliere ogni
dubbio che si tratti di matrimoni legittimi e non di concubinati. Ma soprattutto si
insiste sulla necessità che il matrimonio abbia luogo in chiesa, avanti il sacerdote e
con la benedizione di questo, per evitare le occultae coniunciones.
Concilio di Nicea, capo IV: Concubinam etiam ducere in uxorem nemini licet, nisi
prius dimissa publice fuerint et publico edito scripto quo assignetur dos et palam
appareat, et matrimonium iure contractum fuisse iuxta morem ingenuarum
199 F. AMARELLI, Spunti per uno studio della disciplina del matrimonio tardoantico, in C. Russo
Ruggeri (cur), Studi in onore di Antonino Metro, Giuffré, Milano, 2009, pp. 1-10.
204
nuptiarum.Et haec est lex ingenuitatis et probae religionis.
Si capisce bene che il concubinato era fortemente condannato, perché, qualora
non sussistessero impedimenti, i due contraenti avrebbero dovuto necessariamente
instaurare un vincolo coniugale formale, attestato dal sacerdote del luogo come
matrimonio legittimo.
Nella legislazione imperiale non viene mai proclamato che il matrimonio debba
essere necessariamente celebrato in una data forma, ma costituzioni anteriori e
posteriori a Costantino affermano che il semplice consenso (nel diritto giustinianeo è
da intendersi il consenso iniziale) fra l’uomo e la donna costituisce il matrimonio.
C. 5, 4, 2: SEVERUS. ET ANTONINUS. AA. TROPHIMAE. Si nuptiis pater tuus
consensit, nihil oberit, quod instrumento ad matrimonium pertinenti subscripsit.
C. 5, 4, 21: THEODOS. ET VALENTIN. AA. BASSO PP.. A caligato milite usque ad
protectoris personam et sine aliqua sollemnitate matrimoniorum liberam cum ingenuis
dumtaxat mulieribus contrahendi coniugii permittimus facultatem. (A 426)
Giustiniano stabilisce che taluni matrimoni, per essere considerati validi,
debbano essere necessariamente accompagnati dalla costituzione dotale. Tra le
diverse, si cita la famosa costitutio del 520-523 di Giustino, emanata per rendere
possibile giuridicamente il matrimonio fra Giustiniano e Teodora, donna di umili
origini, artista di teatro prima, cortigiana di corte dopo ed infine imperatrice:
C. 5, 4, 23, 7 IUSTINUS A. DEMOSTHENI P P.: Immo et illud removendum esse
censuimus, quod etiam in priscis legibus, licet obscurius, constitutum est, ut
matrimonia inter impares honestate contrahenda non aliter quidem valeant, nisi dotalia
instrumenta confecta fuerint, his vero intercedentibus omnimodo firma sint sine aliqua
distinctione personarum, si modo liberae sint et ingenuae mulieres, nullaque
nefariarum vel incestarum coniunctionum suberit suspicio. (A 520-523)
Procopio di Cesarea biasima fortemente il matrimonio tra Giustiniano e Teodora,
205
narrando senza alcun ritegno della scostumata giovinezza dell’imperatrice: «Pur
lavorando con ben tre orifizi, rimproverava stizzita la natura di non avere
provveduto il suo seno di buchi dei capezzoli più ampi, così da poter escogitare
anche in quella sede un’altra forma di copula» (Procop., Storie segrete, IX, 18).
Verosimilmente la biografia dello storico greco, di rango senatorio e caduto in
disgrazia presso Giustiniano, è volta ad infamare Teodora, la quale ha ambito, senza
complessi di inferiorità derivanti dalle sue origini, di sedere sul trono di Bisanzio.
Teodora si mostrò una donna astuta e di forte carattere, molto influente sulle
decisioni del marito tanto che spesso si è detto che Giustiniano e Teodora
costituissero una vera e propria diarchia.
Analogamente al requisito del consensus, anche il conubium subisce un
mutamento nel significato e nella portata giuridica. Con il principio
dell’indissolubilità del matrimonio non si può più concepire che l’esistenza del
matrimonio dipenda dall’esistenza e dalla persistenza del conubium: per
determinare la possibilità giuridica che fra uomo e donna cristiani si formi un
legame coniugale legittimo si dovrà verificare la loro condizione al momento
iniziale, cioè al momento della manifestazione del consenso.
È necessario sottolineare «uomo e donna cristiani» perché «la parità della fede
nei contraenti non è una conseguenza del matrimonio, né soltanto un impedimento
che si opponga alla validità o liceità, ma è invece una premessa, un elemento che
pervade la stessa essenza del matrimonio»200.
Alla graduale concezione tardo-antica in cui il consenso non può avere effetti
giuridici in determinati casi, si affianca anche la mutata configurazione del
conubium: da elemento positivo necessario all’esistenza e alla persistenza del
matrimonio secondo il diritto romano classico, diviene un impedimento. Nella
nuova concezione il conubium è un elemento negativo che esclude il matrimonio
200 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 790.
206
legittimo per l’uomo e per la donna solo in determinate condizioni: ciascun essere
umano, avente una determinata età e capacità di volere, può formare un’unione
legittima con persona di altro sesso, a meno che non sussistano nei loro confronti
degli impedimenti.
Si abbandona del tutto il concetto classico che configurava i divieti sotto l’aspetto
della mancanza di conubium, cioè l’assenza di un requisito indispensabile per la
costituzione delle iustae nuptiae. Le differenze si riscontrano comparando le
espressioni usate da Gaio e quelle presenti nelle Institutiones giustinianee.
Per esprimere l’impossibilità giuridica che un’unione tra ascendente e
discendente possa costituire matrimonio legittimo, Gaio inquadra la questione del
divieto, espresso nel contrahi nuptiae non posse, come una mancanza di conubium.
Nelle fonti giustinianee, invece, i compilatori, soppremendo le parole «nec inter eas
conubium est», mostrano di considerare il divieto non come la mancanza di un
elemento positivo necessario, ma come una proibizione a costituire quel
matrimonio, cioè appunto come un elemento negativo che esclude e impedisce la
sua formazione201.
Usando lo stesso metodo, vengono vietati i matrimoni tra: collaterali, parenti ed
affini entro determinati gradi, tra pupilla e tutore o curatore e i figli di questo, più
tutta un’altra serie di divieti introdotti dagli imperatori cristiani, quali le nozze tra
padrini e figliocci:
C. 5, 4, 26 IUST. A. IULIANO PP.: 2. Ea videlicet persona omnimodo ad nuptias
venire prohibenda, quam aliquis, sive alumna sit sive non, a sacrosancto suscepit
baptismate, cum nihil aliud sic inducere potest paternam adfectionem et iustam
nuptiarum prohibitionem, quam huiusmodi nexus, per quem deo mediante animae
eorum copulatae sunt. D. K. OCT. CONSTANTINOPOLI LAMPADIO ET ORESTE
VV. CC. CONSS. (A 530).
201 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 802.
207
Nella constitutio è presente un impedimento matrimoniale tra il padrino e
il bambino, o l’adulto, che si appresta a ricevere il battesimo, la cresima o la
confermazione: con il rituale viene a crearsi la cognatio spiritualis, parentela
spirituale, considerata dal diritto canonico impedimento dirimente alla formazione
del vincolo coniugale.
Le nozze tra cristiani ed ebrei (che già erano state escluse dai Padri della Chiesa)
vengono proibite da Costanzo nel 339 con la sanzione della pena capitale per l’ebreo
che sposa la donna cristiana,
CTh. 16, 8, 6: IMP. CONSTANTIUS A. AD EVAGRIUM. Post alia: quod ad
mulieres pertinet, quas iudaei in turpitudinis suae duxere consortium in gynaeceo
nostro ante versatas, placet easdem restitui gynaeceo idque in reliquum observari, ne
christianas mulieres suis iungant flagitiis vel, si hoc fecerint, capitali periculo
subiugentur. DAT. ID. AUG. CONSTANTIO A. II CONS. (339 aug. 13);
estesa poi da Teodosio anche al caso del cristiano che sposa la donna ebrea,
punendolo come adulterio e concedendo contro i colpevoli l’accusatio publica.
CTh. 3, 7, 2 IMPPP. VALENTINIANUS, THEODOSIUS ET ARCADIUS AAA.
CYNEGIO PF. P.: Ne quis Christianam mulierem in matrimonium Iudaeus accipiat,
neque Iudaeae Christianus coniugium sortiatur. Nam si quis aliquid huiusmodi
admiserit, adulterii vicem commissi huius crimen obtinebit, libertate in accusandum
publicis quoque vocibus relaxata. DAT. PRID. ID. MART. THESSALONICA,
THEODOSIUS A. II. ET CYNEGIO V. C. COSS.
Le nozze tra rapitore e rapita vengono vietate da Costanzo (Cth. 9, 24, 1) ; viene
vietato il matrimonio tra la donna libera e il colono adscripticius altrui (Nov. 22, cap.
17); allo stesso modo viene impedito il matrimonio di colui che è stato ordinato
diacono, già stabilito dai concili, ed accolto espressamente da Giustiniano (C. 1, 3, 44
(45)). Senza dichiararlo espressamente nullo, si rende però praticamente tale il
matrimonio della diaconessa, la quale è punita con la morte (Nov. 6, cap. 6): la Nov.
208
123, cap. 30 punisce con la reclusione a vita la diaconessa che conviva con un uomo,
rendendo così impossibile il suo matrimonio. Giustiniano (Nov. 117, cap. 6) abroga
la legge di Costantino che interdiceva i matrimoni tra senatori e donne di bassa
condizione.
La concezione del conubium come impedimentum del periodo postclassico e,
soprattutto giustinianeo, è ravvisabile nella stessa impostazione del diritto
matrimoniale moderno. Alle incertezze e discussioni degli inizi, la nuova
configurazione era già diffusa nel III secolo tra le comunità cristiane; tuttavia non
venne immediatamente accolta dagli imperatori cristiani, che si limitarono a
modificare istituti già esistenti o a crearne di nuovi, ma senza tradurla
completamente e uniformemente in diritto positivo. Si spiega così la mancanza di
una spiegazione teorica del nuovo concetto giuridico e della struttura del
matrimonio nelle compilazioni giustinianee202.
2. Divorzio
In netto contrasto con la concezione giuridica classica del matrimonio e con
l’indirizzo seguito da Augusto nella sua legislazione familiare e demografica (di
costringere il marito a ripudiare la moglie adultera per non incorrere nel crimen
lenocinii) le costituzioni imperiali a partire da Costantino seguono un indirizzo del
tutto diverso.
A differenza delle leggi augustee, ispirate al principio che un matrimonio
macchiato da adulterio è presunzione assoluta di lenocinio, dall’avvento di
Costantino si cerca di impedire lo scioglimento del matrimonio per divorzio
unilaterale: viene infatti concessa la cessazione del vincolo coniugale solo in
determinate fattispecie, chiamate iustae causae, e contemporaneamente vengono
202 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 791.
209
previste pesanti sanzioni per il coniuge il cui comportamento fa sorgere la iusta
causa. Lo scopo è quello di irrigidire il rapporto matrimoniale esistente, considerato
valido fino alla morte di uno dei contraenti, limitare fortemente i casi di divorzio ed
impedire il sorgere di seconde nozze in capo ai rispettivi coniugi203.
La nuova configurazione del matrimonio tardo-antico, che non prevede più un
consenso perdurante, ma esclusivamente un consenso iniziale, muta
conseguentemente anche il divortio unilaterale, non più concepito come la
cessazione della volontà coniugale, ma come l’effetto della manifestazione di una
volontà positiva di uno dei coniugi diretta allo scioglimento del vincolo. Se il
matrimonio si costituisce attraverso la manifestazione reciproca dei coniugi, perché
avvenga il divorzio è necessaria un’ulteriore manifestazione contraria al consenso
iniziale.
La prima costituzione imperiale sul divorzio è emanata da Costantino nel 331
e.v., diretta al prefetto del pretorio Ablabius:
CTh. 3, 16, 1 IMP. CONSTANTINUS A. AD ABLAVIUM PF. P.: Placet, mulieri
non licere propter suas pravas cupiditates marito repudium mittere exquisita causa,
velut ebrioso aut aleatori aut mulierculario, nec vero maritis per quascumque*
occasiones uxores suas dimittere, sed in repudio mittendo a femina haec sola crimina
inquiri, si homicidam vel medicamentarium vel sepulcrorum dissolutorem maritum
suum esse probaverit, ut ita demum laudata omnem suam dotem recipiat. Nam si
praeter haec tria crimina repudium marito miserit, oportet eam usque ad acuculam
capitis in domo mariti deponere, et pro tam magna sui confidentia in insulam deportari.
In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri conveniet, si moecham
vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerit. Nam si ab his criminibus
liberam eiecerit, omnem dotem restituere debet et aliam non ducere. Quod si fecerit,
priori coniugi facultas dabitur, domum eius invadere et omnem dotem posterioris uxoris
ad semet ipsam transferre pro iniuria sibi illata. DAT. III. NON. MAI. BASSO ET
203 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 791.
210
ABLAVIO COSS.
In questa costituzione le disposizioni presenti attuano velatamente le concezioni
espresse dagli scrittori cristiani e dai canoni conciliari (sui quali si è
precedentemente parlato), benché in modo ancora indiretto e parziale: non è
previsto lo scioglimento del matrimonio anche quando i coniugi non convivono più
assieme; anzi, è fatto divieto di contrarre nuove nozze prima della morte del
coniuge precedente.
La costituzione prevede che la donna che divorzia senza che sussista la iusta
causa di uno dei tria crimina individuati (medicamentarius, sepulchrorum dissolutor,
moecha) venga deportata, rendendo impossibile il suo secondo matrimonio.
Volterra precisa che il testo contenuto nel Codex Theodosianus, assente invece nella
compilazione giustinianea, «manca di nozioni precise di tecnica legislativa e non
conosceva né il diritto, né le espressioni giuridiche»204. Il linguaggio, infatti, non
sembra appartenere a quello di una cancelleria imperiale e, pur se l’autore dimostra
di conoscere la struttura giuridica delle iustae nuptiae romane, segue soprattutto il
pensiero degli scrittori cristiani. Volterra afferma che «il testo appare l’enunciazione
entusiasta di una riforma profondamente innovatrice, che intende attuare nuovi
principi morali nel campo familiare, comminando severissime sanzioni contro
coloro che si trovano in determinate situazioni sino allora giuridicamente lecite»205.
La formulazione enfatica di questa costituzione, oltre a non preoccuparsi
minimamente delle ripercussioni con altri istituti familiari, è in contrasto con quella
di Teodosio e Valentiniano, i quali giustificano le stesse disposizioni del testo
costantiniano, giustificando la limitazione del divorzio unitalerale con il favor
liberorum:
204 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 792. 205 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 792.
211
C. 5, 17, 8 THEODOS. ET VALENTIN. AA. HORMISDAE PP.: Consensu licita
matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio solvi praecipimus.
Solutionem etenim matrimonii difficiliorem debere esse favor imperat liberorum.
[…]D.V ID.IAN.PROTOGENE ET ASTERIO CONSS. (A 449)
Volterra si spinge ad asserire che «lo stile della costituzione, la normativa in essa
contenuta e il modo con cui è disposta mostrano che il testo di essa non è stato
elaborato e redatto dall’imperatore o da funzionari della sua cancelleria, ma che è
stato concepito ed espresso da appartenenti ad un ambiente ecclesiastico»206. Si può
supporre che il testo sia stato consigliato, se non addirittura imposto dai vescovi o,
al contrario, che sia stato l’imperatore ad aver affidato ad ecclesiastici il compito di
redarre norme in materia matrimoniale o ancora che si tratti di canoni espressi in
concilii convocati in nome dell’imperatore e successivamente emanati attraverso
edetti imperiali.
Per quanto riguarda il marito, invece, se divorzia da una donna che non sia
incorsa negli stessi crimina, perde la dote e gli è vietato prendere una seconda
moglie. Se non rispetta il divieto, la prima moglie avrà il diritto di invadere la casa e
di impadronirsi di quanto appartiene alla seconda moglie: sembra, quindi, che la
prima moglie possa vantare dei diritti sulla casa coniugale. La concezione che il
secondo matrimonio costituisce un’iniuria per la prima moglie denunzia anche
l’idea da cui sembra partire il redattore di questa costituzione, cioè che il vincolo
coniugale esiste, anche se non esiste più di fatto la società coniugale.
La stessa impostazione, seppur adoperando una tecnica legislativa più consona
ad una cancelleria imperiale e quindi una forma molto più giuridica, viene
confermata e meglio palesata in alcune disposizioni imperiali. Nel 421, Onorio e
Costanzo precisano in norme giuridiche le disposizioni emanate da Costantino, per
di più aggravando le pene di alcune fattispecie:
206 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 794.
212
CTh. 3, 16, 2 IMPPP. HONORIUS, THEODOSIUS ET CONSTANTIUS AAA.
PALLADIO PF. P.: Mulier, quae repudii a se dati oblatione discesserit, si nullas
probaverit divortii sui causas, abolitis donationibus, quas sponsa perceperat, etiam dote
privetur, deportationis addicenda suppliciis: cui non solum secundi viri copulam,
verum etiam postliminii ius negamus. Sin vero morum vitia ac mediocres culpas mulier
matrimonio reluctata convicerit, periura dotem donationemque viro refundat, nullius
umquam penitus socianda coniugio: quae ne viduitatem stupri procacitate commaculet,
accusationem repudiato marito iure deferimus. Restat, ut, si graves causas atque
involutam magnis criminibus conscientiam probaverit, quae recedit, dotis suae compos,
sponsalem quoque obtineat largitatem, atque a repudii die post quinquennium nubendi
recipiat potestatem; tunc enim videbitur sui magis viri id exsecratione quam alieni
appetitione fecisse. DAT. VI. ID. MART. RAVENNA, EUSTATHIO ET AGRICOLA
COSS.
La donna che ripudia senza causa, oltre a perdere la dote e le donazioni nuziali, è
deportata in perpetuo. Anche in questo caso, il fine è quello di impedire la
costituzione di un secondo matrimonio: benché non si giunga a proclamare nella
legislazione imperiale il principio dell’indissolubilità del vincolo coniugale, nei fatti
lo si rende impossibile.
Alcuni studiosi ritengono che le disposizioni della costituzione constantiniana
siano state abolite dall’imperatore Flavio Claudio Giuliano, meglio conosciuto dai
contemporanei come Giuliano l’Apostata (che, benché pagano, non fu un
persecutore dei cristiani, ma tollerante verso tutte le religioni), il quale ristabilì la
libertà del divorzio207.
Questa opinione si basa su due passi di un autore noto come Ambrosiaster, o
pseudo-Ambrogio, (Quaest. Vet. et Novi Test. 115, 12; 16), dove viene citato anche
l’edictum giulianeo con la restaurazione dei culti pagani e la riedificazione dei
templi. Volterra afferma che anche nel caso in cui i passi potrebbero essere
207 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 793 nt. 154.
213
interpretati come rimprovero all’imperatore di aver ristabilito la libertà di divorzio,
non si accenna minimamente all’abrogazione della legge costantiniana. Pertanto,
anche contro l’opinione dominante, si dovrebbe ammettere non l’espressa
abrogazione della costituzione, ma la sua portata cogente, considerando le
disposizioni contenute come prive di valore giuridico sostanziale208.
Le costituzioni successive seguono invece, con varie modifiche, il sistema
introdotto da Costantino, arrivando anche alla repressione del divorzio bilaterale,
cioè la cessazione consensuale del rapporto coniugale, con Giustiniano (Nov. 117).
Se la nozione del matrimonio basato sul consenso iniziale dei coniugi si è ormai
generalizzata e affermata nel VI secolo, pur non essendoci un’esplicita norma
giuridica in merito, nei fatti è diventata assodata anche la concezione
dell’indissolubilità del matrimonio.
3. Bigamia
Secondo la nozione classica del matrimonio, la persistenza della volontà
coniugale unitamente al carattere monogamico delle iustae nuptiae impediva la
costituzione di un matrimonio legittimo tra una persona coniugata e un terzo.
Questo secondo rapporto poteva essere considerato quale adulterio, secondo le leges
augustae, oppure un concubinatus nel caso in cui il legame avesse carattere
continuativo (in diritto classico un rapporto di concubinato non era incompatibile
con l’esistenza delle iustae nuptiae).
Qualora invece venisse considerato un secondo matrimonio, il primo era da
intendersi cessato: infatti, per quanto alcuni giuristi ravvisino certune problematiche
al riguardo, il matrimonio cessava con il semplice cessare della volontà di
considerarsi marito e moglie e pertanto il secondo vincolo coniugale estingueva il
208 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 793 nt. 154.
214
primo quale manifestazione della cessata volontà di essere uniti nel previgente
rapporto matrimoniale.
Nel diritto tardo-antico, la trasformazione del matrimonio che si considera basato
sulla manifestazione iniziale di volontà dell’uomo e della donna, il fatto di costituire
da parte di un coniuge un altro matrimonio con altra persona non scioglie affatto il
matrimonio precedente. Oltre tutto, le costituzioni imperiali cercano di impedire
con ogni mezzo il secondo matrimonio, colpendo con gravissime sanzioni chi lo
compie e rendendo praticamente impossibile la costituzione di un nuovo rapporto
matrimoniale con persona diversa dal primo coniuge.
C. 5, 17, 9 ANASTAS. A. THEODORO: Si constante matrimonio communi consensu
tam mariti quam mulieris repudium sit missum, quo nulla causa continetur, quae
consultissimae constitutioni divae memoriae Theodosii et Valentiniani inserta est,
licebit mulieri non quinquennium expectare, sed post annum ad secundas nuptias
convolare. D.XV K. MART. ANASTASIO A. II CONS. (A 497).
Nel diritto giustinianeo la costituzione di un doppio matrimonio non ha ancora
una particolare denominazione tecnica, ma è già considerato un reato distinto
dall’adulterium e dallo stuprum. La determinazione della pena è lasciata all’arbitrio
del giudice:
C. 5, 5, 2 DIOCL. ET MAXIM. AA. SEBASTIANAE: Neminem, qui sub dicione sit
Romani nominis, binas uxores habere posse vulgo patet, cum et in edicto praetoris
huiusmodi viri infamia notati sint. Quam rem competens iudex inultam esse non
patietur. PP. III ID. DEC. DIOCLETIANO A. II ET ARISTOBULO CONSS. (A 285)
In questo secondo caso, la bigamia è colpita dalle stesse pene previste per
l’adulterio e lo stupro.
C. 9, 9, 18 VALER. ET GALLIEN. AA. ET C. THEOD.: Eum qui duas simul habuit
uxores sine dubitatione comitatur infamia. In ea namque re non iuris effectus, quo cives
215
nostri matrimonia contrahere plura prohibentur, sed animi destinatio cogitatur
1 . Verumtamen ei, qui te ficto caelibatu, cum aliam matrem familias in provincia
reliquisset, sollicitavit ad nuptias, crimen etiam stupri, a quo tu remota es, quod
uxorem te esse credebas, ab accusatore legitimo sollemniter inferetur.
2 . Certe res tuas omnes, quas ab eo interceptas matrimonii simulatione deploras,
restitui tibi omni exactionis instantia impetrabis a rectore provinciae: nam ea quidem,
quae se tibi ut sponsae daturum promisit, quomodo repetere cum effectu potes quasi
sponsa? ACCEPTA ID. MAI. ANTIOCHIAE TUSCO ET BASSO CONSS. (A 258)
Per accorgersi della profonda mutazione della disciplina, basterebbe confrontare
il passo di Gaio con la parafrasi di Teofilo (1, 10, 6 pr): la stessa condotta che
secondo il giurista classico ha l’effetto di costituire un secondo matrimonio e di
rendere nullo il primo, è considerato un reato punito con la morte secondo il diritto
bizantino.
Gai. 1, 62-63: Fratris filiam uxorem ducere licet: idque primum in usum venit, cum
divus Claudius Agrippinam, fratris sui filiam, uxorem duxisset: sororis vero filiam
uxorem ducere non licet. Et haec ita principalibus constitutionibus significantur. Item
amitam et materteram uxorem ducere non licet. item eam, quae mihi quondam socrus
aut nurus aut privigna aut noverca fuit. Ideo autem diximus 'quondam', quia, si adhuc
constant eae nuptiae, per quas talis adfinitas quaesita est, alia ratione mihi nupta esse
non potest, quia neque eadem duobus nupta esse potest neque idem duas uxores habere.
4. Adulterio
Lo scopo per cui erano state emanate le leges Augustae era incentrato nel
contrastare il celibato e nell’instaurazione di un secondo matrimonio qualora il
primo risultasse sciolto. Questa finalità era oggettivamente distante dai concetti
cristiani che, al contrario, erano favorevoli al celibato e biasimano con forza le
seconde nozze.
Nel VI secolo quasi tutte le norme delle tre leggi più significative, la lex Iulia de
216
maritandis ordinibus e la lex Papia et Poppaea, non risultano più in vigore: molte sono
cadute in desuetudine, altre invece direttamente o indirettamente abrogate.
Costantino nel 320 abroga le conseguenze giuridiche della condizione degli orbi,
problamando la libertà della donna vedova di compiere o meno un secondo
matrimonio, ma non toglie l’incapacità successoria per i coniugi senza figli.
CTh. 8, 16, 1: IMP. CONSTANTINUS A. AD POPULUM. pr. Qui iure veteri
caelibes habebantur, inminentibus legum terroribus liberentur adque ita vivant, ac si
numero maritorum matrimonii foedere fulcirentur, sitque omnibus aequa condicio
capessendi quod quisque mereatur. Nec vero quisquam orbus habeatur: proposita huic
nomini damna non noceant.
1. Quam rem et circa feminas aestimamus earumque cervicibus imposita iuris imperia
velut quaedam iuga solvimus promiscue omnibus.
2. Verum huius beneficii maritis et uxoribus inter se usurpatio non patebit, quorum
fallaces plerumque blanditiae vix etiam opposito iuris rigore cohibentur, sed maneat
inter istas personas legum prisca auctoritas. DAT. PRID. KAL. FEB. SERDICAE,
PROPOSITA KAL. APRIL. ROMAE CONSTANTINO A. VI ET CONSTANTINO
C. CONSS. (320 IAN. 31).
Su questa precisa disposizione, Volterra è in accordo con Hombert209, il quale
mostra che la Chiesa ebbe il vantaggio più importante, «in quanto veniva a togliere
ai sacerdoti cristiani l’incapacità che li colpiva in quanto celibi, a ricevere legati pii e
successioni dei fedeli» fino a concludere che l’abrogazione delle leggi Augustee,
probabilmente ispirate dal vescovo spagnolo Ossio, eliminò un ostacolo
considerevole alla formazione del patrimonio della Chiesa210. Tale incapacità
successoria per i coniugi senza figli fu soppressa nel 410 da Teodosio con la CTh. 8,
17, 2.
Arcadio, Onorio e Teodosio stabiliscono che il ius liberorum potesse essere
209 M. HOMBERT, Le remariage à Rome, Milano, 1972, pp. 360-373. 210 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 798 nt. 167.
217
concesso a chiunque ne faccia richiesta (CTh. 8, 17, 3; C. 8, 58, 1).
Con la costituzione di Costantino del 326, l’imperatore cristiano sovverte
completamente il sistema della lex Iulia de adulteriis, introducendo una nuova
normativa ispirata al concetto cristiano dell’indissolubilità del matrimonio. A
differenza della legge emanata da Augusto, che concedeva a tutti l’accusatio publica
iure extranei al fine di costringere il marito a sciogliere il matrimonio sotto la
minaccia dell’accusatio lenocinii, la costituzione di Costantino abolisce
sostanzialmente la denuncia pubblica.
C. 9, 9, 29 (30) CONST. A. AD EUAGRIUM: Quamvis adulterii crimen inter publica
referatur, quorum delatio in commune omnibus sine aliqua legis interpretatione
conceditur, tamen ne volentibus temere liceat foedare conubia, proximis necessariisque
personis solummodo placet deferri copiam accusandi, hoc est patri fratri nec non patruo
et avunculo, quos verus dolor ad accusationem impellit.
1 . Sed et his personis legem imponimus, ut crimen abolitione, si voluerint, compescant.
2 . In primis maritum genialis tori vindicem esse oportet, cui quidem ex suspicione
ream coniugem facere licet, vel eam, si tantum suspiciatur, penes se detinere non
prohibetur: nec inscriptionis vinculo contineri, cum iure mariti accusaret, veteres retro
principes adnuerunt.
3 . Extraneos autem procul arceri ab accusatione censemus: nam etsi omne genus
accusationis necessitas inscriptionis adstringat, nonnulli tamen proterve id faciunt et
falsis contumeliis matrimonia deformant.
4 . Sacrilegos autem nuptiarum gladio puniri oportet. PP. NICOMEDIAE VII K. MAI.
CONSTANTINO A. VII ET CONSTANTIO C. CONSS. (A 326)
Egli, pur affermando che il reato di adulterio è di natura pubblica (quamvis
adulterii crimen inter publica referatur), stabilisce il principio che nessuno deve ai non
volenti rompere il vincolo matrimoniale (tamen ne volentibus temere liceat foedare
conubia), concedendo ai soli parenti prossimi (fratelli germani e consanguinei, cugini
figli degli zii paterni e materni) di esperire l’azione, trascorso il periodo di sessanta
giorni riservati al padre e al marito. Le due accusationes, poiché quella iure extranei
218
viene limitata a poche figure parentali, perdono il rispettivo valore giuridico e
confluiscono nella prassi nella medesima azione211.
Sembra sia abolita anche la accusatio lenocinii, pertanto la decisione
sull’opportunità o meno di accusare la donna di adulterio o mantenere il
matrimonio resta esclusivamente in ambito familiare. In diritto giustinianeo il
marito non è più obbligato al divorzio e, anche se intenta l’accusa di adulterio ex
suspicione, può continuare a mantenere in vita il vincolo coniugale (C. 9, 9, 29 (30)
sulla quale vi sono probabili interpolazioni giustinianee)212.
Nelle Novellae i principi appaiono opposti a quelli che emergono dalle
disposizioni di Augusto: durante il giudizio il matrimonio non si scioglie, perché il
marito può inviare il ripudio solo dopo la condanna della moglie (Nov. 117, cap 8,
§2); il marito che non riesca a provare l’accusa è sottoposto alle medesime pene
previste per l’adulterio della donna (Nov. 117, cap. 10, §1); la donna condannata
viene rinchiusa in un monastero, dando la facoltà al marito di riprendersela in
matrimonio entro due anni (Nov. 134, cap. 10, §1).
Anche nel caso dell’adulterio, quindi, le disposizioni imperiali attuano i principi
cristiani che connettono ad un consenso iniziale prestato l’indissolubilità del
matrimonio contratto.
5. Unioni coniugali fra schiavi
Mentre nel diritto romano le unioni tra schiavi erano irrilevanti dal punto di vista
giuridico, secondo la concezione cristiana lo schiavo doveva essere posto sullo
stesso piano di uguaglianza con l’uomo libero, pertanto non era più giustificabile
dal punto di vista etico la posizione dello schiavo solo come oggetto e non anche
211 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 797. 212 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 797.
219
come soggetto di diritti.
È doveroso precisare che l’uguaglianza formale tra il libero e lo schiavo era
limitata al diritto religioso, ovvero alla comunanza della fede cristiana, non sul
piano prettamente giuridico, volto cioè alla parificazione degli status personali.
Infatti Paolo tiene ben distinte le due situazioni:
Prima lettera a Timoteo 6:1-2: Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù,
trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio
e la dottrina. Quelli poi che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo
perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché sono credenti e amati
coloro che ricevono i loro servizi. Questo devi insegnare e raccomandare.
Il fatto che i medesimi riti religiosi erano compiuti tanto per le unioni tra schiavi,
quanto per quelle coniugali, faceva sorgere l’aspettativa di uguagliare queste a
quelle dal punto di vista giuridico o almeno dare alle prime taluni effetti legali. Per
quanto la Chiesa non negasse la schiavitù nella società antica, fin dai primi secoli si
poneva la questione del contubernium.
Nel III secolo un passo di Ippolito da Roma (217-222), avrebbe autorizzato le
donne cristiane a contrarre unioni coniugalli con uomini di bassa origine sociale e
anche con schiavi:
Ippolito, Philosophumena, 9, 12, 24-25 (P.L. XVI, 3385): Etenim et mulieribus
permisit, ut, si innuptae essent flagrerentque amore aetate indigna, vel dignitatem suam
perdere nollent legitimo matrimonio, haberent unum, quemcumque elegerint,
concubinum, sive servum sive liberum, eumque haberet pro marito non legitime nupta.
Volterra cita Gaudemet213, «secondo il quale Callisto, nella sua decisione,
probabilmente considerava l’unione fra liberi e schiavi come lecita dal punto di vista
213 J.GAUDEMET, L'Église et l'Empire romain (IVe-Ve siècles), Vol. III di Histoire du droit et des
institutions de l'Eglise en Occident, Sirey, Parigi, 1958, p. 529.
220
religioso nel senso di ammettere sia l’uomo che la donna al battesimo e di
considerarla come un concubinato dal punto di vista romano»214. Qualunque tipo di
ipotesi fosse farsi al riguardo, la decisione rimase isolata e non ebbe conseguenza
alcuna nella legislazione imperiale.
Dalle fonte successive, infatti, pur considerando le unioni tra schiavi
contubernium e non legittimo matrimonio e sotto l’influenza dei nuovi concetti
cristiani, si cerò di impedire lo scioglimento e parallelamente si cercò di trasformarle
in unioni legittime mediante la manumissione dei coniugi. I Padri della Chiesa
attribuivano valore giuridico alle unioni tra schiavi e si adoperarono perché i
padroni manomettessero più facilmente i propri servi.
La legislazione imperiale segue di pari passo la concezione cristiana. Costantino
vieta di separare le unioni tra schiavi posti in domini imperiali in Sardegna norma
che assume portata generale con Giustiniano che la estende anche a casi di divisione
di fonti pubblici e privati, prima in C. 3, 38, 11 e poi in Nov. 157:
CTh. 2, 25, 1 IMP. CONSTANTINUS A. GERULO RATIONALI TRIUM
PROVINCIARUM: In Sardinia fundis patrimonialibus vel emphyteuticariis per
diversos nunc dominos distributis, oportuit sic possessionum fieri divisiones, ut integra
apud possessorem unumquemque servorum agnatio permaneret. Quis enim ferat,
liberos a parentibus, a fratribus sorores, a viris coniuges segregari? Igitur qui dissociata
in ius diversum mancipia traxerunt, in unum redigere eadem cogantur: ac si cui
propter redintegrationem necessitudinum servi cesserunt, vicaria per eum, qui eosdem
susceperit, mancipia reddantur. Et invigilandum, ne per provinciam aliqua posthac
querela super divisis mancipiorum affectibus perseveret. DAT. III. KAL. MAI.
PROCULO ET PAULINO COSS.
Sempre Costantino nel 314 e nel 317 aggrava le disposizioni contenute nel
senatoconsulto Claudiano, con cui si disponeva che schiavi imperiali avrebbero
214 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 806 nt. 190.
221
avuto figli della medesima condizione servile anche se si univano a donne libere; il
sistema viene invece ripristinato da Giuliano l’Apostata, ma successivamente ancora
modificato da altri imperatori.
Nel 326 Costantino punisce la relazione sessuale di un’ingenua con il proprio
schiavo comminando le pene della relegatio per la donna e del rogo per il servus215;
viene inoltre concessa un’accusatio publica aperta anche agli schiavi:
CTh. 9, 9, 1: IMP. CONSTANTINUS A. AD POPULUM: pr. Si qua cum servo
occulte rem habere detegitur, capitali sententiae subiugetur, tradendo ignibus
verberone, sitque omnibus facultas crimen publicum arguendi, sit officio copia
nuntiandi, sit etiam servo licentia deferendi, cui probato crimine libertas dabitur, quum
falsae accusationi poena immineat. DAT. IV. KAL. IUN. SERDICAE,
CONSTANTINO A. VII. ET CONSTANTIO C. COSS.
Nel paragrafo 2 si afferma che i figli nati da questa unione sono liberi, ma esclusi
da ogni carica e non ammessi all’eredità materna:
CTh. 9, 9, 1: 2. Filii etiam, quos ex hac coniunctione habuerit, exuti omnibus dignitatis
insignibus, in nuda maneant libertate, neque per se neque per interpositam personam
quolibet titulo voluntatis accepturi aliquid ex facultatibus mulieris.
Nel 389 gli imperatori Valentiniano e Teodosio vietano ai servi publici addetti ad
opere pubbliche di formare unioni coniugali con schiave private:
C. 6, 1, 8 VALENTIN. THEODOS. ET ARCAD. AAA. ALBINO PU. ROMAE: Si
qui publicorum servorum fabricis seu aliis operibus deputati tamquam propriae
condicionis immemores domibus se alienis et privatarum ancillarum consortiis
adiunxerit, tam ipsi quam uxores eorum et liberi confestim condicioni pristinae
laborique restituantur. D. VIII K. AUG. TIMASIO ET PROMOTO CONSS. (A 389)
215 E. VOLTERRA, Matrimonio cit., p. 806.
222
In questo caso il divieto si spiega col conflitto che si verrebbe a creare tra il loro
pubblico e il rapporto privato: i servi publici infatti, impiegati presso fabbriche di
armi, zecche ed altri luoghi dove si lavoravano metalli, potevano commette furti in
favore dei domini privati.
Nel 468 Antemio con la Nov. 1 conferma le norme di Costantino sulle unioni
coniugali fra donne ingenue e i loro schiavi, ma dichiara validi i matrimoni fra tali
donne e i propri liberti.
Giustiniano nel 530 statuisce la liceità del matrimonio di colui che ha raccolto una
schiava esposta, dopo averla manomessa e presa in moglie (C. 4, 4, 26).
Viene disposto sempre dallo stesso imperatore che la schiava concubina del
proprio padrone , alla morte di questo, se lo stesso non ha disposto altrimenti nel
proprio testamento, acquisti la libertà insieme con i figli nati da tale unione. Alla
relazione coniugale stabile viene attribuita l’efficacia di mutare lo status della donna:
C. 7, 15, 3 IUST. A. IOHANNI PP.: Si quis sine uxore constitutus ancillam suam
nomine habeat concubinae et in eadem usque ad mortem consuetudine permanserit et
forsitan liberos ex ea sustulerit, sancimus omnimodo non concedi heredibus defuncti
eandem vel liberos eius, si etiam liberos habuerit, in servitutem deducere, sed post
mortem domini sub certo modo eripiatur in libertatem una cum subole sua, si etiam eam
forsitan habuerit.
1 . Ipse etenim domino, dum superest, damus licentiam quomodo voluerit uti tam
ancilla sua quam etiam ex ea progenita subole et in suo ultimo elogio quidquid voluerit
contra eos disponere, id est sive quasi servos eos aliis legare sive in servitute heredum
nominatim relinquere. Sin autem taciturnitate eos praeterierit, tunc post mortem eius
ad libertatem eripiantur, ut sit domini mors libertatis eorum exordium
2 . Omnibus etenim uxores habentibus concubinas vel liberas vel ancillas habere nec
antiqua iure nec nostra concedunt. D. K. NOV. CONSTANTINOPOLI POST
CONSULATUM LAMPADII ET ORESTIS VV. CC. (A 531)
Alla stessa concezione risponde un’altra disposizione di Giustiniano (Nov. 22).,
223
con cui si concede la libertà e la legittimità del matrimonio contratto con una
schiava, se questa viene data in moglie ad un uomo libero, affermando che la donna
è libera. Allo stesso modo avviene se la schiava si fa passare per libera e si unisce in
matrimonio con un uomo libero, senza che il padrone della donna avverta
quest’ultimo.
Come si può vedere da tutti questi esempi, la legislazione imperiale, senza
abrogare del tutto i principi giuridici romani, cerca di attuare i dettami ecclesiastici.
225
Capitolo VII
IL MATRIMONIO CIVILE MODERNO
1. Cenni storici sul matrimonio italiano
In diritto romano classico, si è visto, il matrimonio non necessitava sotto l’aspetto
giuridico di una solenne cerimonia iniziale o di alcuna specifica dichiarazione di
volontà; gli elementi costitutivi delle iustae nuptiae si fondavano su un fattore
materiale, la convivenza, e su un fattore morale, l’affectio maritalis, cioè l’intenzione
di considerarsi reciprocamente e pubblicamente come marito e moglie. Sino a che
l’affectio maritalis persisteva tra i due coniugi, il matrimonio era esistente; il suo venir
meno, invece, comportava automaticamente anche la cessazione del rapporto,
situazione che configurava appunto un divortium.
Con l’avvento del Cristianesimo la concezione del matrimonio cambia
radicalmente. Il matrimonio è istituzione divina (Matteo 19:6, Quod deus coniunxit
homo non separet) e pertanto i contraenti non sono più arbitri dell’esistenza del
vincolo coniugale posto in essere ed eventualmente del suo scioglimento. In un
passo di Paolo lo si definisce come un sacramento grande (Efesini 5:32, Sacramentum
magnum hoc est): si intuisce chiaramente che il matrimonio, da negozio prettamente
privatistico, diviene istituto di natura pubblicistica e vincolo divino.
La Chiesa progressivamente attrasse il matrimonio nella sua sfera di competenza,
legiferando in ambito matrimoniale, fino a divenire parte integrante del diritto
canonico, e facendo giudicare le controversie dai propri tribunali religiosi. Questo
orientamento venne ulteriomente rafforzato dal Concilio di Trento, chiusosi nel
1563, che ufficializzò il diritto matrimoniale canonico, sostanziale e processuale,
quale unico sistema giuridico vigente in tale materia.
In opposizione all’ordinamento della Chiesa e grazie agli ideali illuministici, si
226
era sviluppata la rivendicazione che il potere civile dovesse tornare ad essere
competente anche in materia matrimoniale. Da alcuni deboli e parziali tentativi per
affermare la giurisdizione civile, si arrivò al principio proclamato nella Costituzione
francese del 1791: «la loi ne considère le mariage que comme un contrat civil». La
tendenza laica per l’affermazione della competenza civile in materia matrimoniale
sopravvisse alla Rivoluzione Francese, influenzando la promulgazione di codici
civili in tutti gli stati europei.
Anche gli Stati dell’Italia pre-unificata furono persuasi dal prestigio delle
codificazioni europee, soprattutto austriaco e napoleonico, tanto da promulgare essi
stessi propri codici, naturalmente diversi tra stato e stato, che tuttavia già
presentavano le stesse aspirazioni illuministiche di stampo civilistico: la tradizionale
divisione tra aspetti personali e patrimoniali del matrimonio venne meno a causa
della legiferazione su diverse materie prima riservate esclusivamente all’autorità
della Chiesa, secondo appunto l’impostazione tridentina216.
A seguito dell’unificazione italiana, il codice del 1865, entrato in vigore il 1°
gennaio 1866, stabilì il diritto dello Stato di disciplinare il matrimonio. Come
osserva Colella, «il testo del codice civile italiano del 1865 si fondò sulla distinzione
tra contratto e sacramento, per legittimare la competenza statale a regolare la
materia matrimoniale e conseguentemente ad introdurre il matrimonio civile nella
legislazione dello stato unitario»217.
L’unica forma di matrimonio con effetti civili che il primo codice italiano
riconobbe fu il matrimonio celebrato dinanzi all’ufficiale di stato civile; al contrario,
il matrimonio religioso fu considerato dalla legge come una vicenda privata che
riguardava esclusivamente l’ambito personale e la sensibilità individuale degli
sposi. Per fare un parallellismo con il diritto romano classico, la celebrazione
216 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia. Legge, prassi e giurisprudenza, Cedam, Milano, 2011, p. 43 217 P. COLELLA, Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Persone e famiglia, tomo I,
Torino, 1982, p. 537.
227
religiosa era intesa come il momento della solennità e della festa, il momento della
partecipazione da parte di amici e parenti, il momento della pubblicità della scelta
matrimoniale nei confronti dell’intera comunità.
Anche adottando la nuova disciplina matrimoniale, la funzione religiosa non
venne mai abbandonata dalla tradizione, ma non comportava la produzione di
quegli specifici effetti giuridici previsti dall’ordinamento: questi discendevano in
diritto romano grazie al riconoscimento di determinati requisiti sussistenti nelle
iustae nuptiae; nel diritto italiano post-unitario, invece, erano garantiti solo attraverso
il formalismo del matrimonio civile.
Si usava quindi celebrare due matrimoni distinti, dove quello civile, valido ai fini
di legge, solitamente precedeva quello religioso218. Questo sistema suscitò
approvazioni e critiche a seconda delle diverse posizioni. Trabucchi valutò
negativamente questa impostazione in base a fattori sociali: poiché la coscienza
cattolica riconosceva come vero matrimonio solo quello religioso, dalla duplice
celebrazione derivavano inconvenienti, non così rari, di individui legati
contemporaneamente dal vincolo civile con una persona e dal vincolo religioso con
un’altra219. Secondo Colella, invece, questo «sistema fece buona prova di sé per oltre
sessant’anni, tanto è vero che la secolarizzazione del matrimonio venne accettata
pacificamente»220.
A supporto di quest’ultima visione, De Filippis afferma che «il sistema ebbe il
pregio di realizzare un’unità di disciplina giuridica, prescindendo dalle differenze
di credo religiose tra i cittadini, di attuare il principio di separazione tra Stato e
Chiesa e di valorizzare la differenza tra momento legale e scelte di coscienza, tra
fatto religioso e vicenda civile, ponendo ciascun individuo, separatamente, di fronte
218 A. C. JEMOLO, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, 1979, p. 536. 219 A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1971, p. 267, in nota. 220 P. COLELLA, Trattato di diritto privato cit., p. 538.
228
alle conseguenze di ciascuna scelta»221.
La materia subì una profonda trasformazione in forza del Concordato del 1929
tra l’Italia di Mussolini e la Santa Sede. Le disposizioni dettate dal codice del 1865
furono modificate dai Patti Lateranensi, secondo i quali lo Stato rinunciò ad una
parte delle proprie competenze in ordine alla creazione del vincolo matrimoniale e
alla giurisdizione sulla validità di esso.
Nell’art. 34 della Legge 27 maggio 1929, n. 810 ad Esecuzione del Trattato, dei
quattro allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, tra la Santa Sede e
l'Italia, l'11 febbraio 1929 si leggeva:
L. 810/1929, art. 34: Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che
è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce
al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili.
Si assecondò pertanto la parificazione giuridica dei due tipi di matrimonio,
sollevando le parti dall’onere della doppia celebrazione. D’altra parte però, «la
cultura popolare fu privata di assimilare il valore della distinzione tra momento
civile e momento religioso»222. Mentre prima del Trattato con la Santa Sede il
matrimonio civile e religioso erano indipendenti l’uno dall’altro e posti sullo stesso
piano gerarchico, poiché ciascuno produceva gli effetti previsti del proprio ambito
di competenza e lasciando ampia libertà di scelta ai singoli, dopo i Patti il
matrimonio religioso raddoppiò il suo valore, assommando sia la funzione
spirituale, sia quella giuridica.
La scelta unicamente civile, divenuta riduttiva in un contesto a maggioranza
cattolica, venne considerata come rifiuto del valore religioso del matrimonio: Colella
afferma che «il rispetto delle convinzioni dei singoli e il desiderio di non interferire
221 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 45. 222 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 46.
229
in esse fece rigettare, nel periodo compreso tra il 1866 ed il 1929, varie proposte di
legge che tendevano ad abbinare obbligatoriamente matrimonio religioso e
matrimonio civile»223.
Dopo il Concordato, emersero nell’Italia repubblicana questioni di legittimità
legate alla disparità di trattamento tra cittadini cattolici e cittadini di altre
confessioni religiose: la Corte Costituzionale affermò che non vi era violazione del
principio di uguaglianza, poiché la discriminazione era consentita da altra norma
costituzionale, cioè l’art 7.
Cost., art. 7, c. 2: I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni
dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale.
Con l’emanazione del codice del 1942, la Chiesa ottenne competenza pressoché
esclusiva in ordine alla celebrazione ed al regime di nullità del vincolo, lasciando
alla legge il compito di determinare lo stato dei coniugi e gli effetti civili del
matrimonio che automaticamente ne derivavano.
In seguito agli “Accordi di Villa Madama” del 1984 in revisione del Concordato
Lateranense, siglati dal governo presieduto da Bettino Craxi, il sistema è stato
profondamente modificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121. Mentre l’art. 8 della
legge che dava esecuzione al primo Concordato, recitava:
L. 810/1929, art. 34: Le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal
matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei
dicasteri ecclesiastici.
Con l’art. 8 del nuovo Accordo, oltre a limitare la trascrivibilità per gli effetti
civili alle condizioni che siano rispettati i limiti d’età e che non esistano altri
223 P. COLELLA, Trattato di diritto privato cit., p. 538.
230
impedimenti civili inderogabili, al comma 2 si afferma che:
L. 121/1985, art. 8, c. 2,: Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali
ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo
ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate
efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d'appello competente, quando
questa accerti:
a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto
matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;
b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici é stato assicurato alle parti il
diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali
dell'ordinamento italiano;
c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la
dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. La Corte d'appello potrà, nella
sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti
economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato
nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia.
Si è attuato così il processo di evoluzione giurisprudenziale in ordine al principio
di riserva di giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio canonico trascritto.
Precedentemente, infatti, il processo, incentrato sull’automaticità della recezione da
parte delle Corti di Appello italiane delle pronunce dei tribunali ecclesiastici, era
incentrato sulla sentenza 2 febbraio 1982, n. 18, della Corte Costituzionale con cui
venne ribadita la non fondatezza della questione concernente la riserva di
giurisdizione dei tribunali ecclesiastici delle controversie in materia di nullità dei
matrimoni canonici trascritti agli effetti civili.
La sentenza, pur riconoscendo la riserva di giurisdizione ecclesiastica sul
matrimonio, aveva affermato che le corti non dovevano concedere in modo
automatico effetti civili alle sentenze ecclesiastiche, ma dovevano verificare il
rispetto del diritto delle parti di agire e resistere in giudizio ed il rispetto dei principi
dell’ordine pubblico italiano, soprattutto riguardo al provvedimento ecclesiastico
231
con cui, precedentemente e automaticamente, era accordata la dispensa dal
matrimonio rato e non consumato.
Nel 1993 la Corte di Cassazione ha affermato che l’accordo di revisione del
Concordato del 1984, pur confermando la giurisdizione ecclesiastica sulla
controversia in materia di nullità del matrimonio celebrato secondo le norme del
diritto canonico, non ripropone la riserva di tale giurisdizione, prevista dall’art. 34
del Concordato, né recepisce il matrimonio religioso nella sua sacramentalità e,
comunque, non gli accorda dignità superiore rispetto a quello civile. Secondo la
Corte la riserva di giuridiszione deve ritenersi abrogata224.
Anche se vi furono contrasti in giurisprudenza, De Filippis afferma che «le
affermazioni di logicità e di coerenza del sistema, le quali volevano sostenere la tesi
opposta, non consideravano il fatto che, con l’introduzione del divorzio nel 1970,
confermato dal referendum abrogativo del 1974, l’unità del sistema concordatario in
precedenza designata era stata irrimediabilmente compromessa»225.
Infatti, con le dichiarazioni di cessazione degli effetti civili del matrimonio non vi
era più l’assoluta conformità di stato coniugale ecclesiastico e civile e, pertanto, non
era più giustificata la sottomissione della giurisdizione civile a quella ecclesiastica,
teso a difendere le prescrizioni canonistiche.
Se quindi dal 1993 si poteva parlare di un sistema di concorrenza tra tribunali
dello Stato e tribunali ecclesiastici, in ordine alle cause concernenti la nullità del
vincolo matrimoniale, la situazione venne modificata nuovamente a seguito della
riforma del sistema del diritto privato internazionale, avvenuta per effetto della
legge 1° settembre 1995, n. 218: la derogabilità della giurisdizione italiana non è più
un’eccezione, ma la regola.
Vennero abrogati gli articoli 795 e seguenti del codice di procedura civile,
224 Cass., sez. unite, 13 febbraio 1993 n. 1824. 225 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 49.
232
affermando che le sentenze straniere possono essere riconosciute in Italia senza
necessità di un apposito procedimento, qualora non vi siano contestazioni.
A rigor di logica si sarebbe dovuti tornare al precedente sistema, ovvero
all’automaticità del riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche, riconosciute come
sentenze straniere, perché la riforma del 1995 ha inteso regolare in modo uniforme
la materia. La giurisprudenza di legittimità, invece, ha privilegiato la tesi opposta,
facendo leva sul principio di specialità della normativa pattizia e sulla vigente
applicabilità del procedimento di delibazione, previsto dall’Accordo del 1984, come
garantito dall’art. 2 della L. 218/1995 che fa salve le convenzioni internazionali cui la
legge italiana abbia riconosciuto valore226.
In ragione di ciò, il giudizio di delibazione, per le sentenze ecclesiastiche
dichiarative della nullità dei matrimoni concordatari, è tuttora necessario e continua
ad essere regolato dal già citato art. 8 dell’Accordo e dagli articoli 796 e seguenti del
codice di procedura civile che, pur se abrogati in via generale, sono espressamente
richiamati e sopravvivono in questa sede, in forza del richiamo pattizio.
Questo breve e sicuramente non esaustivo excursus storico è importante per
comprendere la questione matrimoniale nella contemporaneità, dove il contrasto tra
visione religiosa e laica del matrimonio risulta viva, così come è attuale la scelta tra
separazione o commistione tra le due sfere: se da una parte è pacificamente accettata
l’attribuzione all’autorità religiosa di facoltà e poteri che investano direttamente o
meno gli aspetti civili del matrimonio, dall’altra si auspica un ritorno al sistema
previgente ai Patti Lateranensi del 1929, dove la legge e il sentimento religioso erano
autonomi nel disciplinare il proprio ambito di competenza.
Rescigno propende per questa seconda ipotesi perché «la via d’uscita, l’unica
veramente rispettosa dell’uguaglianza dei cittadini nella materia che ci occupa, è il
ritorno alla forma unica del matrimonio civile, alla forma matrimoniale creata a
226 Cass., 8 giugno 2005, n. 12010.
233
garanzia della libertà religiosa e divenuta più tardi il simbolo della laicità
dell’istituto»227. Secondo Colella, inoltre, «il regime diarchico esistente in materia
matrimoniale può cessare senza rimpianti, tenendo conto che la riforma del diritto
di famiglia ha posto fine al tentativo, peraltro mai riuscito, di avvicinare il regime
del matrimonio civile a quello del matrimonio canonico»228.
La problematica non riguarda esclusivamente il dibattito tra due posizioni
diametralmente opposte, ma si sta spostando verso il concetto stesso di matrimonio:
si ravvisa una tendenza evolutiva, a partire dall’approvazione della legge sul
divorzio in poi, di un progressivo affievolimento della visione pubblicistica del
matrimonio e di un ampliamento della sfera di libertà dei singoli. Anche se non si
intende abbandonare i principi di responsabilità e solidarietà insiti nell’istituto
matrimoniale, emergono alcune importanti discussioni, come ad esempio «il
concetto di addebito della separazione, che alcuni vorrebbero manterene altri
abolire, che rispecchiano la dicotomia tra un matrimonio prevalentemente inteso
come assunzione di obblighi e matrimonio inteso come scelta funzionale rispetto ai
bisogni di vita della persona»229.
Lo scontro di queste antinomiche posizioni riporta all’attualità la concezione del
consenso perdurante delle iustae nuptiae romane rispetto al mero consenso iniziale,
con cui l’ordinamento italiano conferisce legittimità al matrimonio moderno230.
2. Teorie sulla natura del matrimonio
Nardi rileva che «tutte le società civili che raggiunsero un certo grado di civilità
227 P. RESCIGNO, Il matrimonio in generale ed i problemi di validità, in A.A.VV., La riforma del
diritto di famiglia, Padova, 1973, II, p. 18. 228 P. COLELLA, Il matrimonio davanti ai ministri del culto cattolico e dei culti ammessi, in Tratt. Dir.
Civ. diretto da Rescigno, II, 1, Torino, 1984, p. 572. 229 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 54. 230 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 54.
234
fecero del matrimonio il fondamento della famiglia e della società stessa»231: l’autore
si ricollega all’accezione romanistica sintentizzata dal noto adagio «matrimonium est
viri et mulieris coniunctio individuam vitae consuetudinem continens» (Inst. 1, 9, 1),
definizione che, come affrontato nel capitolo VI, denota una marcata influenza
cristiana o comunque rappresenta la funzione sociale del matrimonio, più che quella
genuinicamente riconducibile al diritto romano classico.
Nell’assenza di una regolamentazione da parte del diritto civile, il matrimonio fu
definito ed inquadrato sulla base dello schema giuridico proposto dal Concilio di
Trento, prendendo come riferimento il diritto canonico e modellando l’istituto
secondo l’idea sacramentale. Il matrimonio fu considerato ‘cosa sacra’ e ‘legame
consacrato alla e dalla divinità e da tale origine ha tratto una delle sue più precipue
caratteristiche: l’indissolubilità.
Anche la disciplina matrimoniale ottocentesca, in particolare in Italia, si modellò
sulle previsioni canonistiche: Franceschelli afferma che «il diritto civile trovò nel
principio di indissolubilità del vincolo il supporto dogmatico che giustificava la
rigidità del sistema, supporto che il diritto canonico poneva invece nella
sacralità»232.
Dall’altra parte, la Rivoluzione Francese considerò il matrimonio solo un
contratto e questa impostazione si riscontra nel codice napoleonico che, quanto
meno nella prima formulazione codicistica (art. 233), prevedeva il consenso degli
sposi come fondamento della creazione del vincolo coniugale e, allo stesso modo, ne
assicurava la sua dissoluzione, secondo il divorzio consensuale. Queste innovative
concezioni «celebravano i fasti della libertà individuale, il trionfo dell’uomo,
padrone della propria vita e del proprio destino»233, ma più semplicemente
231 F. NARDI, Diritto matrimoniale cattolico, Padova, 1857, p. 20. 232 V. FRANCESCHELLI, Il matrimonio civile: l’invalidità, in Trattato di diritto privato diretto da
Rescigno, Utet, Torino, 1982, p. 627. 233 F. FINOCCHIARO, v. Matrimonio in Comm. Cod. Civ. a cura di Scialoja e Branca, libro primo,
235
affermavano una visione contrattualistica e privatistica dell’istituto, basata su
principi di autonomia e libertà delle parti.
La concezione contrattualistica del matrimonio, parzialmente ravvisabile nel
codice del 1865, sottolinea la natura negoziale dell’atto matrimoniale e
l’identificazione della base di esso nel consenso dei nubendi234: esso trova
fondamento nelle dottrine filosofiche dell’illuminismo e del giusnaturalismo, che
valorizzano la libertà individuale, pur riconoscendone i limiti.
a) Illuminismo. Dalla prima deriva il concetto di uomo come arbitro del proprio
destino, come soggetto razionale, che rende possibile il funzionamento degli istituti
di rilevanza sociale, e come «essere autentico, che può realizzarsi nella società, senza
essere costretto ad accettare comportamenti e dogmi alienanti, che siano in contrasto
con il suo intimo o istintivo sentire»235.
Voltaire si rifiuta di ammettere un qualsiasi intervento di Dio nell’uomo nel
mondo umano («Dio ha messo gli uomini e gli animali sulla terra, ed essi devono
pensare a condursi del loro meglio») e sosteneva che «è interesse degli uomini
condursi in modo da rendere possibile la loro vita associata» senza che questo
richiedesse «il sacrificio delle loro passioni che sono indispensabili, come il sangue
che scorre nelle loro vene» (Trattato di Metafisica, 8).
b) Giusnaturalismo. Dalla seconda, invece, è possibile trarre l’idea di un
matrimonio svincolato da presupposti di ordine religioso, qualificandolo
esclusivamente come contratto consensuale. De Filippis afferma che «se corrisponde
alla natura umana l’unione stabile e totale con una persona dell’altro sesso, non
significa accettare un’immagine di provenienza religiosa, in quanto, pur potendo la
religione sostenere la stessa cosa, il concetto è autonomo e può vivere di vita
Bologna, Roma, 1971, p. 3. 234 A. C. JEMOLO, Il matrimonio, in Trattato di dir. civ., diretto da Vassalli, Torino, 1961, vol. III, p.
44 ss. 235 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 56.
236
propria»236.
Inoltre, Finocchiaro «sostiene che la dottrina contrattuale del matrimonio,
elaborata da Grozio a Pufendorf, da Thomasius a Wolff, mirava a salvaguardare gli
interessi dello Stato, che aveva iniziato l’opera di laicizzazione dell’istituto, e
l’interesse dei singoli a vedere tutelata la propria libertà individuale dall’invadenza
intollerante della varie chiese»237.
I contributi di queste due correnti filosofiche determinarono la concezione
contrattualistica del matrimonio, la quale non immagina, però, un uomo privo di
ogni senso di limite nell’espressione della propria volontà; anzi, proprio coloro che
hanno considerato il matrimonio un semplice negozio, negando quindi la natura
sacramentale, si sono preoccupati di fissare una serie di limiti tratti dalla ragione,
dagli interessi altrui, dall’idea di Stato o da concezioni ideali.
La visione di Kant, per quanto fosse riconducibile a quella contrattuale,
assumeva connotati che diminuivano notevolmente il valore effettivo della libertà
individuale nell’espressione del consenso. La libertà dei soggetti consiste
nell’adesione ai precetti della ragion pura e i diritti scaturenti dal matrimonio non
derivavano né da contratto, né da fatto arbitrario, ma dalla legge, la quale soltanto
poteva giustificare l’acquisto di diritti su di un’altra persona. Nella visione
dell’autore si fondono elementi statualistici, identificando la legge come momento
centrale e fondante, ed elementi canonistici, poiché il matrimonio viene identificato
principalmente come ius in corpus perpetuo: «il matrimonio è l’unione di due
persone di sesso diverso per il reciproco possesso delle loro qualità sessuali durante
la vita»238.
Hegel, invece, sostiene la teoria del matrimonio come istituzione, che comporta la
trasformazione di due soggetti in un’entità complessiva, la famiglia, che li trascende.
236 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 56. 237 F. FINOCCHIARO, Matrimonio cit., p. 5 nt. 2. 238 E. KANT, in Principi metafisici della dottrina del diritto, 1796, p. 107.
237
Esso doveva considerarsi vincolo etico ed era pertanto al di sopra del contratto. La
libertà si realizza in istituzioni storiche concrete, contrassegnate dall’unità del volere
razionale con il valore singolo. La sostanza etica si realizza nella famiglia, nella
società civile e nello Stato. Lo Stato è l’unità della famiglia e della società civile.
Fuori dello Stato, libertà, giustizia, eguaglianza, sono astrazioni: esse, solo in virtù
della legge, e come legge, trovano la loro realtà. Hegel afferma che «il matrimonio
non è un semplice rapporto naturale ai fini dell’unione sessuale, né un contratto
civile, ma è amore, trasformato dalla morale e dal diritto, liberato da tutto ciò che
può avere in sé di passeggero, capriccioso e soggettivo e divenuto perciò dovere
etico»239.
Le teorie contrattualistiche si sono spesso unite tra loro creando ibridi, a volte
pendendo verso la libera adesione dei singoli, capaci di dare luogo al matrimonio,
altre volte pendendo sul fatto che il matrimonio già costituito risponde a finalità ed
interessi pubblici e, pertanto, non può reggersi esclusivamente sulla volontà
individuale 240.
«Le mariage est la source des familles, or la société elle-même n’est que la réunion de
toutes les familles; le mariage est donc véritablement la base de tout ordre social et les lois qui
le régissent, exercent d’ailleurs, sous tous les rapports une influence profonde sur sel mœurs
publiques»241. Con questa rappresentazione della famiglia, il codice napoleonico
disciplina il matrimonio, indipendentemente da tutte le leggi civili e religiose, come
istituto ispirato, anzi voluto, dalla legge di natura, quale unione dell’uomo e della
donna che si uniscono insieme per l’oggetto di perpetuare la specie, prestarsi
vicendevole soccorso nei pesi della vita e dividere il loro comune destino242.
Il matrimonio, considerato il più antico ed eccellente dei contratti, nel contesto
239 G. W. F. HEGEL, in Filosofia del diritto (trad. Novelli), Napoli, 1893, p. 176. 240 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 57. 241 C. DAMOLOMBE, Traité du mariage, Bruxelles, 1847, p. 3. 242 J. E. M. PORTALIS, Motivi della sesta legge, in Motivi, rapporti e discorsi per la discussione del
codice civile di Napoleone il grande, I, Firenze, 1806, p. 80.
238
del codice Napoleone viene valutato come spartiacque tra i rapporti di famiglia ed
altre relazioni interpersonali che, insorte al di fuori del matrimonio, non solo non
appartenevano alla famiglia, ma del cui benevole trattamento non partecipavano243.
Le istanze egualitaristiche della Rivoluzione francese, in considerazione dei gravi
effetti, anche per l’ordine, che al matrimonio conseguono non solo per i coniugi, ma
anche per le loro famiglie e la società tutta, non penetrarono nella disciplina
codicistica: liberi ed eguali i coniugi nell’atto della celebrazione del matrimonio, tali
più non sono una volta che il rapporto si è instaurato, dall’eguale consenso
generandosi diseguaglianza di diritti e di poteri. Si pone in evidenza come sin
dall’impianto napoleonico, che pur esaltava il singolo, la famiglia si inserisce come
un microcosmo gerarchico244. Ed infatti, sostenere che la «Rivoluzione francese
rappresenti il punto di svolta nella disciplina del matrimonio è affermazione che
storicamente lascia perplessi, almeno di non circoscriverla all’introduzione del
matrimonio civile, della quale però il codice Napoleone non può vantare una
primogenitura e che […] fu meno rivoluzionaria di quanto potrebbe apparire»245.
Nell’Italia del primo Novecento si coglie l’influenza delle concezioni hegeliane
nell’accostamento tra Stato e famiglia, nella subordinazione dei membri della
famiglia ad un interesse sopraindividuale, nell’identificazione di fini etici nella
famiglia stessa: Cicu afferma che «la famiglia è, come lo Stato, un aggregato di
formazione naturale e necessaria»246. Da osservare che, comunque, già nel 1865
Cattaneo e Borda convennero che «ai principi di libertà ed eguaglianza si conformò
243 E. GIACOBBE, Il matrimonio, Tomo I, L’atto e il rapporto, in Trattato di diritto civile diretto da
Rodolfo Sacco, Vol. III, Utet, Torino, 2011, p. 8. 244 G. IUDICA – P. ZATTI, Linguaggio e regole del diritto privato, Cedam, Padova, 2009, p. 19. 245 G. CASSANO, Evoluzione sociale e regime normativo della famiglia. Brevi cenni sulle riforme del
terzo millennio, in Dir. fam., Celt, Piacenza, 2001, p. 1164. 246 A. CICU, Il diritto di famiglia. Teoria generale, Roma, 1914 rinvenibile in F. FINOCCHIARO,
Matrimonio cit., p. 12 ss.
239
maggiormente il codice italiano che il codice napoleonico»247.
Infatti, la preoccupazione maggiore incontrata dal legislatore italiano
nell’elaborazione del primo codice del Regno non fu certamente quella di
rimodellare la fisionomia interna e la struttura dei rapporti familiari, bensì quella,
tutta politica, di sottrarre alla Chiesa cattolica l’egemonia sulla celebrazione del
matrimonio, attraverso l’introduzione anche in Italia del matrimonio civile, dando
dignità e spessore al nuovo istituto sulla base delle teorie statalistiche hegeliane.
Vassalli nel 1932 affemava che «il matrimonio cambia d’abito, il ché,
naturalmente, trarrà seco non poche conseguenze, ma il suo essere la fonte esclusiva
della famiglia, e dunque valore portante dell’ordinamento, non subisce scosse»248.
Ciò probabilmente contribuisce a spiegare la scelta compiuta dal codice civile del
1865, in sé astrattamente contraddittoria rispetto all’introduzione de matrimonio
civile, a favore dell’indissolubilità del matrimonio, la quale veniva giustificata
proprio dal fatto che tale perpetuità del vincolo si considerava necessaria alla
morale come al bene stesso dello Stato249.
In questo contesto non fu neanche oggetto di discussione l’inscindibile nesso
esistente tra formazione della famiglia mediante matrimonio e costituzione dello
Stato, la prima continuando ad essere considerata principium urbis et quasi
seminarium rei publicae (Cic., De Off. 1, 54). Se quindi l’adagio ciceroniano non era
stato recepito dal diritto romano classico, fu fatto proprio senza dubbio dal diritto
canonistico, il quale influenzò a sua volta, e non di poco, la disciplina matrimoniale
nelle varie codificazioni e nelle riforme della materia fino ad oggi.
247 V. CATTANEO – C. BORDA, Il codice civile italiano, Torino, 1865, p. 68. 248 F. VASSALLI, Lezioni di diritto matrimoniale, I, Padova, 1932, p. 16 ss. 249 E. GIACOBBE, Il matrimonio cit., p. 8.
240
3. Il matrimonio nell’ordinamento italiano
Dopo aver esposto le diverse visioni ideologiche sul matrimonio, risulta
naturalemente logico verificare quali fra queste abbiano ammantato le disposizioni
italiane sulla famiglia e sul matrimonio.
«La Costituzione repubblicana approvata nel 1947 non ha apparentemente
compiuto alcuna scelta in ordine alla qualificazione ed alla natura del
matrimonio»250. Anche il concetto di famiglia, enunciato dalla formula prevista
all’art. 29 è stata variamente interpretata:
Art. 29 Cost.: La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio.
Secondo alcuni esprimirebbero tesi giusnaturalistiche riconoscendo l’autonomia
e la preesistenza della famiglia rispetto allo Stato. Secondo altri, la formula
indicherebbe la relatività e la storicità del concetto di famiglia, consentendo di
adeguare il dettato costituzionale alla concenzione vigente nel momento di
applicazione. Altri ancora hanno ritenuto che la mancata connessione a funzioni
pubbliche nella definizione propria di matrimonio sia essa stessa una scelta: coloro
che propendono per la visione privatistica negherebbero l’esistenza di tali fini
proprio perché non espressamente previsti, privilegiando quindi una concezione
dell’istituto matrimoniale che garantisca maggiora autonomia e libertà ai singoli.
L’unico contenuto concreto che la Costituzione attribuisce al matrimonio sembra
consistere nell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, indicata al comma 2 del
medesimo articolo:
Cost., art. 29, c. 2: Il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.
250 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 58.
241
Per quanto riguarda la responsabilità nei confronti della prole, essa non esprime
un valore legato al matrimonio in sè, quanto piuttosto all’esclusivo rapporto
parentale: l’art. 30 della Costituzione, infatti, disciplina che i doveri dei genitori
sussistono non solo in riguardo ai figli legittimi, ma anche rispetto a quelli naturali,
nati cioè al di fuori del vincolo coniugale.
Cost., art. 30, c. 1: E` dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori del matrimonio.
Se il legislatore costituente avesse voluto riconoscere alla famiglia i fini indicati
dalle concezioni ideologiche che sono state precedentemente richiamate,
verosimilmente l’avrebbe fatto. Ad ogni modo, il dibattito intorno alla visione
contrattuale o meno del matrimonio, unito consenguentemente alla natura civilistica
o pubblicistica dell’istituto, risulta ancora aperto ed attuale.
Abbandonando i disposti costituzionali e spostando l’attenzione verso fonti
giuridiche di livello inferiore, coloro che propendono per la natura pubblicistica
dell’istituto evidenziano che il matrimonio è totalmente disciplinato da norme
inderogabili, norme cioè che non lasciano alcuno spazio alla libera pattuizione ai
contraenti: per la celebrazione, infatti, è indispensabile l’intervento dell’ufficiale di
stato civile.
I sostenitori della posizione contraria sostengono che non vi è un intervento dello
Stato in favore della celebrazione del matrimonio e che l’ufficiale di stato civile, che
partecipa all’atto, ha solo una funzione ricognitiva della volontà delle parti. Senza
considerare il fatto che la celebrazione può essere officiata da qualunque cittadino
italiano eleggibile, secondo il disposto del Decreto del Presidente della Repubblica
n. 396 del 3 novembre 2000:
D.P.R. 396/2000, art. 1, c. 3: «Le funzioni di ufficiale dello stato civile possono essere
delegate ai dipendenti a tempo indeterminato del Comune, previo superamento di
apposito corso, o al presidente della Circoscrizione ovvero a un consigliere comunale che
242
esercita le funzioni nei quartieri o nelle frazioni, o al segretario comunale. Per il
ricevimento del giuramento di cui all’articolo 10 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, e per
la celebrazione del matrimonio, le funzioni di ufficiale dello stato civile possono essere
delegate anche a uno o più consiglieri o assessori comunali o a cittadini italiani che
hanno i requisiti per la elezione a consigliere comunale».
Alcuni autori hanno sostenuto una via intermedia, secondo cui il momento della
formazione del vincolo coniugale è determinata dalla volontà privata delle parti,
mentre dovrebbe sussistere l’interesse pubblico e la conseguente disciplina
inderogabile una volta che il matrimonio sia venuto ad esistenza. Secondo
Santosuosso questa soluzione merita particolare considerazione perché «da un lato
non si può negare la decisiva importanza del consenso degli sposi nella formazione
del vincolo, dall’altro non è possibile negare la prevalenza di caratteri pubblicistici
nella disciplina della società, sottratta alla disponibilità dei nubendi»251.
De Filippis eccepisce la contraddizione nel riconoscere l’importanza della volontà
delle parti solo nel momento iniziale, aggiungendo che se lo Stato non può
intervenire nella scelta matrimoniale, non si può successivamente ammettere la sua
presenza assoluta ed inderogabile una volta che la scelta è avvenuta: un regime
immodificabile e non contrattabile esclude, infatti, la libertà effettiva delle parti252.
Queste varie teorie avevano la medesima dignità giuridica almeno fino
all’approvazione della legge sul divorzio del 1970, confermata dal referendum
abrogativo del 1974: la legge sullo scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio ha sicuramente mutato la situazione, conferendo alla volontà delle parti
una rilevanza importante non limitata alla prestazione del consenso iniziale.
Con l’introduzione del divorzio, l’istituto matrimoniale può dirsi fondato
maggiormente sul consenso e sulla volontà delle parti, ma il problema non si è
251 F. SANTOSUOSSO, in Commentario del codice civile, libro I, Delle persone e della famiglia, il
Matrimonio, UTET, Torino, 1981, p. 13. 252 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 59.
243
risolto: qual è la natura del divorzio? Può il divorzio essere considerato una
concessione dello Stato o si tratta di un diritto del cittadino? È un rimedio a
situazioni patologiche a numero chiuso o una facoltà di recesso insita nel
matrimonio, conseguente ad una cessazione della comunione materiale e spirituale
dei coniugi, anche senza colpe?
Nel sistema vigente, il legislatore nel giustificare la separazione sembra riferirsi a
circostanze oggettive, sottratte alla mera volontà delle parti. Il codice civile viene
disciplinata all’art. 150:
Cod. Civ., art. 150. Separazione personale.
La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla
volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione
della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole.
Diversamente dal disposto normativo, la prassi applicativa e la logica affermano
il contrario: i tribunali difficilmente negano la separazione anche quando venga
reclamata da uno solo dei coniugi, in quanto deve considerarsi fatto che rende
intollerabile la convivenza la volontà di uno dei due coniugi di non vivere più con
l’altro.
Vi sono però decisioni della giurisprudenza che non sembrano adeguarsi a
queste moderne concezioni. De Filippis nota che «secondo la Cassazione l’art. 151
cod. civ., nel testo risultante dalla modifica apportata alla norma con l’art. 33 della
legge 19 maggio 1975, n. 151, pur svincolando la pronuncia della separazione
giudiziale dalle situazioni tipiche previste dal precedente testo dell’art. 151, non ha
inteso configurarla come un’automatica conseguenza di qualsiasi ragione di
contrasto nell’ambito del rapporto di coniugio, in quanto, anche nel nuovo sistema,
l’istituto conserva, sia pure in una sfera di situazioni e di valutazione più ampia
rispetto a quella consentita nel regime anteriore, il carattere di rimedio ad uno stato
di fatto di particolare gravità, nel senso di rendere intollerabile la convivenza, da
244
qualunque causa dipendente»253. La sentenza precisa infatti che «non è sufficiente, ai
fini della detta pronuncia, un mero atteggiamento soggettivo di rifiuto alla
convivenza, occorrendo anche che esso si rifletta in circostanze che rendano
oggettivamente apprezzabile (e quindi giudizialmente controllabile) la situazione di
intollerabilità nella sua essenza e nella sua dinamica causale»254.
Anche la legge sul divorzio presenta caratteri apparentemente oggettivi: il
giudice pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio
in base all’art. 1 della legge 1 dicembre 1970, n. 898.
L. 898/1970, art. 1: Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto a
norma del codice civile, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui
al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non
può essere mantenuta o ricostituita per l'esistenza di una delle cause previste dall'art. 3.
Ma se nell’assoluta maggioranza dei casi ciò avviene quando il giudice accerta
che è stato il prescritto periodo di separazione, allora si individua nella mancanza
del consenso perdurante, anche da parte di uno solo dei coniugi, la causa principale
per la cessazione del vincolo matrimoniale. De Filippis afferma che la formula di
legge non può essere esplicita, in quanto le concezioni ideologiche esistenti nella
società, che influenzano l’attività del legislatore, continuano a presentare
vicendevoli elementi di conflitto.
Se, infatti, «il matrimonio dovesse considerarsi interamente ed univocamente
fondato sul perdurare del consenso coniugale, istituti come l’addebito della
separazione non avrebbero ragione di esistere e non vi sarebbero remore ad
ammettere il divorzio consensuale»255. Nell’attuale ordinamento, invece, viene
negata la consensualità della rottura ed il divorzio è esperibile a domanda
253 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 59 nt. 35. 254 Cass., 10 gennaio, 1986, n. 67 (in Dir. Fam., 1986, p. 487). 255 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 60.
245
congiunta, soggetto a sentenza e non omologazione e, quindi, soggetto
all’intervento autoritativo e decisionale dello Stato.
Il punto centrale della questione torna ad essere la qualificazione del consenso
necessario per dare validità al perdurare del matrimonio:
a) Consenso iniziale;
b) Consenso perdurante;
c) Consenso iniziale privo di successivo dissenso o di consenso al divorzio.
L’alternativa fra le scelte proposte si innesta nella problematica relativa alla
responsabilità verso la prole (anche se da un’attenta analisi si rileva che i problemi
sono più specificamente connessi al tema della filiazione, che comunque garantisce
l’assoluta uguaglianza tra figli nati dentro o fuori il matrionio) e di solidarietà
sociale, concetto particolarmente delicato nel momento in cui si considera la
famiglia, tradizionale roccaforte della solidarietà interindividuale, come entità non
più indissolubile, avvertendo l’esigenza di arginare l’impoverimento umano e
sociale che ciò può comportare256.
Nel nostro ordinamento la solidarietà patrimoniale post-matrimoniale tra ex
coniugi è il risultato del bilanciamento tra la garanzia dei diritti del coniuge più
debole, in cui si ravvisa la responsabilità dettata dalla coscienza sociale, e la
considerazione dell’individuo come mero soggetto di diritti e obblighi. La visione
istituzionale del matrimonio è dunque collegata alla funzione sociale della famiglia,
in particolare nei confronti della filiazione, ma soprattutto è funzionale rispetto alla
difesa di un ordine sociale.
La teoria contrattualistica, invece, «prescinde da visioni finalistiche ed
ideologiche, dando principalmente rilievo all’individuo ed alla sua libertà. Essa si
presta a dare fondamento ad unioni che non rientrano nei modelli tradizionali e,
256 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 61.
246
quindi, anche ad unioni tra persone dello stesso sesso, poiché richiede unicamente
l’incontro di volontà di due soggetti, i quali desiderino realizzare se stessi attraverso
un legame stabile»257.
Si può affermare che il pensiero contrattualistico è sicuramente più vicino alle
esigenze della modernità, poiché presuppone l’adeguamento dell’istituto rispetto
alle necessità del singolo e non viceversa: questa impostazione parte da una visione
opposta a quella statalista, non prevede soltanto doveri, ma anche diritti; non
contempla l’annullamento del singolo nella formazione della famiglia, la quale
attualmente ha valore in funzione dello scopo che è destinata a svolgere nello Stato,
ma conserva diritti anche all’interno di essa, eventualmente anche in antitesi con gli
altri componenti della famiglia stessa.
La permanenza di visioni istituzionali nell’istituto matrimoniale è dipeso dalla
constatazione del fatto che esso non riguarda unicamente i soggetti che lo stipulano,
ma coinvolge l’intera collettività: è l’atto con il quale la coppia chiede ed ottiene un
riconoscimento da parte della collettività stessa, cui conseguono, oltre agli oneri,
vantaggi riconducibili al sistema di rapporti sociali che lo Stato gestisce.
Questi vantaggi giuridici e sociali sono, ad esempio: il diritto di trasferimento e
ricongiungimento familiare, diritto di permanere nell’immobile locato, diritto agli
alimenti, diritto alla pensione di reversibilità; diritti successori garantiti a
prescindere dall’esistenza di un testamento, diritto di assistere il partner in ospedale
o di visitarlo in carcere, diritto di veder riconosciuto il danno personale riportato in
casi di azioni di terzi che lo ledano, diritto di veder tutelata la propria prole dalle
disposizioni dettate in favore dei figli legittimi (l’equiparazione tra figli naturali e
legittimi è avvenuta recentemente con la Legge 10 dicembre 2012, n. 219).
Ma «se la coppia non desiderasse conseguire alcuno di questi vantaggi, anzi, non
desiderasse neppure dal punto di vista morale essere definita coppia sposata o
257 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 61.
247
coppia in regola con le usanze e le leggi dell’epoca, non solo l’adozione di un
modello contrattuale puro non troverebbe più ostacoli, ma non avrebbe più senso ed
utilità il concetto di matrimonio»258.
La visione istituzionale sembra destinata a persistere e a coesistere con la
modernità, anche qualora la famiglia non sia portatrice di scopi che la trascendano,
proprio perché il concetto di matrimonio resta principalmente legato all’idea, alla
cultura e alle opinioni dominanti della collettività. Se il singolo, nel momento in cui
realizza se stesso in un rapporto di coppia, si accorge, per fini materiali, psicologici o
morali, di aver bisogno del riconoscimento della comunità sociale, resta soggetto
alla definizione del modello che quest’ultima riconosce: il matrimonio, in sostanza,
non può essere immaginato unicamente in funzione della libertà e dei diritti
individuali, ma necessita di un contemperamento di interessi.
4. Disciplina codicistica e riforma del 1975
Se in diritto romano il matrimonio è il riconoscimento di una situazione di fatto
secondo cui due persone di sesso opposto si comportano pubblicamente come
marito e moglie, convivendo e condividendo la dignità sociale (del marito), nel
nostro ordinamento l’esistenza del matrimonio è collegata alla celebrazione.
L’odierna concezione del matrimonio configura questo istituto come atto
giuridico: nuptias, non concubitus, sed consensu facit (il termine consensus, si è visto, in
diritto romano tardo-antico significa consenso iniziale manifestato), è l’esistenza di
un atto giuridico valido alla base della vita del rapporto coniugale.
Occorre a questo punto, specificare che, nel sistema italiano, il matrimonio come
atto può essere disciplinato dalla legge civile, se celebrato dinanzi all’ufficiale di
stato civile o dinanzi ai ministri delle confessioni acattoliche, oppure dalla legge
258 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 62.
248
canonica, se celebrato in forma concordataria. Invece, il matrimonio come rapporto
giuridico, intenso come il complesso degli effetti che derivano dal matrimonio atto,
è disciplinato esclusivamente dalla legge dello stato. Per quanto riguarda invece la
forma, l’ordinamento prevede quella civile, quella concordataria e quella acattolica.
Per la celebrazione del matrimonio si presuppone la partecipazione di tre
soggetti, di cui uno è soggetto di diritto pubblico: si può quindi dire che l’atto è
complesso, in quanto non può ricondursi alla conformazione tipica dei negozi di
diritto privato, e solenne, perché la forma è necessaria e spesso sufficiente alla
costituzione del vincolo coniugale259. La celebrazione crea la famiglia legittima,
determina l’esistenza di un rapporto giuridico tra i coniugi ed attribuisce
automaticamente alla prole lo stato di legittimità.
Nella dottrina di derivazione canonistica, il matrimonio è societas permanens inter
virum et mulierem ad filios procreandos (Corpus Iuris Canonici 1917, can. 1082, § 1),
ovvero istituto finalizzato alla procreazione e all’educazione della prole, è proteso al
reciproco aiuto tra i coniugi e rappresenta il rimedium concupiscentiae, cioè rimedio
del desiderio carnale (Corpus Iuris Canonici 1917, can. 1013, § 1). Nel codice civile,
invece, il matrimonio non trova una definizione, probabilmente per non entrare nel
merito della distinzione tra visione civile e religiosa.
A differenza del matrimonio religioso, la mancanza del fine di procreazione, che
può realizzarsi nel matrimonio tra anziani o nel matrimonio in pericolo di vita, non
rendono nullo o inesistente l’atto di celebrazione. Da questo punto di vista, l’assenza
di una definizione e del fine procreativo influisce sul dibattito relativo alla
possibilità per le coppie omosessuali di contrarlo. Tuttavia, anche se la norma non
dice alcunché sulla diversità di sesso tra i coniugi, la dottrina tradizionale pone, tra
gli elementi indispensabili, oltre al consenso e alla forma prevista dalla legge, anche
la diversità di sesso.
259 A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile cit., p. 269.
249
Che il codice civile presupponga e dia per scontato tale requisito si può desumere
da articoli quali il 143, il 143-bis o il 156-bis, che adoperano termini quali «marito e
moglie», e dalla normativa dettata per lo scioglimento dell’unione, secondo cui il
cambio di sesso di uno degli sposi autorizza la richiesta immediata di divorzio. Su
quest’ultimo punto si è osservato che la disposizione prevede la richiesta e non
l’automaticità dello scioglimento, pertanto può essere letteralmente interpretata
come possibilità di permanenza di un matrimonio tra persone dello stesso sesso
anche nel nostro ordinamento260.
Se secondo Finocchiaro i matrimoni omosessuali integrano posizioni «lontane
dalla concezione cristiana del matrimonio e volte a rompere un costume giuridico
millenario, ancor precedente alla predicazione del Vangelo»261, non sembra
comunque giustificabile mantenere il dato giuridico necessariamente rigido soltanto
sulla base di mere concezioni arcaiche, tenuto conto che gli istituti cambiano nel
tempo adattandosi alle esigenze dei consociati e che sarebbe sufficiente legiferare in
materia per cambiare i termini che ravvisano una componente sessuale, con altre
espressioni dal valore neutro.
D’altra parte prima della riforma della Legge 19 maggio 1975, n. 151, l’impotentia
coeundi era causa di invalidità del matrimonio, tanto che si poteva tratte la
conclusione che elemento costitutivo del matrimonio, al pari della disciplina
canonistica, fosse la possibilità di compimento di atti sessuali. Il testo dell’art. 123
anteriore alla riforma recitava:
Cod. Civ., art. 123. L’impotenza perpetua, così assoluta come relativa, quando è
anteriore al matrimonio, può essere proposta come causa di nullità dall’uno e dall’altro
coniuge. L’impotenza di generare può essere proposta come causa di nullità del
matrimonio solo se uno dei coniugi manca di organi necessari per la generazione.
L’azione spetta all’altro coniuge, purché non abbia avuto conoscenza di questo difetto
260 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 63 nt. 38. 261 F. FINOCCHIARO, Matrimonio cit., p. 42.
250
prima del matrimonio e non può essere proposta trascorsi tre mesi da quando egli ne
abbia avuto conoscenza.
Dopo la riforma, l’impotenza ha rilievo solo se ignorata dall’altro coniuge, nei
limiti in cui ha rilievo l’errore sui motivi. Il riferimento ad atti coniugali non rientra
più nella definizione del matrimonio, pertanto l’intera tradizione canonistica, che su
di essa si fondava, deve ritenersi abbandonata. Ad onor del vero, secondo alcuni
interpreti, anche per il diritto canonico il matrimonio deve interdersi come fatto
globale: Giacchi ne identifica l’essenza, in tale ambito, «nella completa unione dei
due nubendi, in tutti gli aspetti della loro vita spirituale, intellettuale, sentimentale,
economica, fisica, sociale»262.
Per la definizione di matrimonio si devono pertanto vagliare le norme esistenti,
prendendo in considerazione i testi degli articoli 143 cod. civ., sui diritti e doveri dei
coniugi, o 177 e seguenti, sul regime di comunione legale.
Cod. Civ., art. 143. Diritti e doveri reciproci dei coniugi.
Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i
medesimi doveri.
Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale,
alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione.
Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria
capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
L’elecanzione dei doveri indicati dall’articolo in questione non deve interpretarsi
in modo restrittivo: non costituiscono cioè autonome parti del concetto di
matrimonio, ma tutti insieme ne esprimono il contenuto263. Fedeltà, assistenza
morale e materiale, coabitazione e collaborazione nell’interesse della famiglia non
fanno altro che esprimere il concetto di comunione materiale e spirituale, la cui
262 O. GIACCHI, Il consenso nel matrimonio canonico, Giuffré, Milano, 1968, p. 350. 263 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 64.
251
cessazione determina il divorzio.
Nella formulazione antecedente alla riforma del 1975 si parlava soltanto di
doveri dei coniugi, mentre in quella attuale, secondo cui con il matrimonio si
acquistano diritti e doveri, si individua il passaggio da una visione hegeliana ad una
concezione moderna, dove la famiglia non viene più immaginata come entità
sopraindividuale, ma come comunità di soggetti che conservano le loro
individualità e nei cui confronti conservano diritti individuali.
Anche l’art. 145 e l’art. 147 contenevano nel titolo unicamente la parola «doveri»:
la riforma ha conservato la dicitura solo per il secondo articolo, riferendosi ai doveri
verso i figli.
Cod. Civ., art. 147. Doveri verso i figli.
Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare
la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei
figli.
Grazie alla riforma, anche la famiglia viene valorizzata nel suddetto art. 143, con
la specifica previsione di una collaborazione e contribuzione, da parte di entrambi i
coniugi, nel suo interesse. Non viene più intesa come entità astratta, ma come
insieme (iniziale) di due persone e come società (tra uguali) cui queste persone
decidono di porre in essere e continuano a sostenere, con i loro sforzi e la loro
volontà, anche nel suo successivo perdurare.
Questa impostazione si può riscontranre anche nel regime patrimoniale della
famiglia, attualmente vigente, per effetto del quale, salvo diversa espressione di
volontà, i coniugi mettono insieme tutti i loro beni, realizzando un’assoluta unione.
Cod. Civ., art. 177. Oggetto della comunione.
Costituiscono oggetto della comunione:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio,
ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
252
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo
scioglimento della comunione;
c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della
comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al
matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli
incrementi.
Il regime patrimoniale secondo la disciplina codicistica è teso ad instaurare una
società domestica dove entrambi i coniugi costituiscano con i propri averi un
patrimonio comune a servizio della famiglia. Tale regime può essere derogato con
pattuizione privata dai contraenti.
Cod. Civ., art. 191, c. 2. Scioglimento della comunione.
Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell'articolo 177, lo scioglimento della
comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista
dall'articolo 162.
La scelta per la comunione dei beni è stata operata dal legislatore con la riforma
del diritto di famiglia del 1975 che ha mantenuto, per tutti i matrimoni contratti
dopo il 20 settembre 1975 l’applicabilità, in mancanza di contraria pattuizione, del
regime della comunione dei beni. Per tali matrimoni la legge di riforma del diritto di
famiglia ha disposto un periodo di tempo transitorio (fino al 15 gennaio 1978) entro
il quale ciascuno dei coniugi, anche con atto reso unilateralmente dinanzi al notaio
del luogo del contratto matrimonio, avrebbe potuto dichiarare di non voler aderire
al nuovo regime, rimanendo pertanto in regime di separazione dei beni.
Precedentemente alla riforma la separazione era il regime normale del codice
civile, scelta che però è assai frequente nei nuovi matrimoni: l’eccezione al regime di
comunione, che si può ritenere di applicazione pari alla regola, costituisce un rifiuto
del principio di solidarietà famigliare che ha ispirato la legge di riforma del diritto
253
di famiglia. Trabucchi precisa che gli interessati spesso ricorrono alla separazione
dei beni, sia contemporaneamente alla celebrazione, sia nel corso della vita
matrimoniale, allo scopo meno significativo di rendere più semplici gli atti relativi
al loro patrimonio264. È comunque significativo constatare che i contraenti deroghino
all’idea del matrimonio prevista dal legislatore, quale istituto di reciproca
solidarietà, in forza di una pattuizione privata che consenta loro maggior libertà e
più autonomia, a seconda delle esigenze e della sensibilità di ogni individuo.
Cod. Civ., art. 162. Forma delle convenzioni matrimoniali.
Le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico sotto pena di
nullità.
La scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione
del matrimonio.
Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni
dell'articolo 194.
Le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine
dell'atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e
le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al secondo comma.
Un altro aspetto rilevante della riforma concerne la realizzazione della parità tra i
coniugi. Il vecchio art. 144 indicava il marito quale «capo della famiglia», mentre la
moglie era obbligata ad accompagnarlo dovunque egli credesse oppportuno:
sembra evidente come tale formula, pur essendo in vigore soltanto qualche
decennio addietro, appaia lontana anni luce dalla sensibilità e dal costume odierni.
Prima della novella, la famiglia era intesa come una società gerarchicamente
organizzata. Il superamento di queste antiche concezioni non prevede più che il
marito deve «proteggere» la moglie, «tenerla presso di sé e somministrarle tutto ciò
che è necessario ai bisogni della sua vita», e non gli conferisce più il potere di
264 A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, 45a edizione, Cedam, Padova, 2012, p. 394.
254
stabilire, a suo arbitrio, l’indirizzo della vita familiare e la residenza della famiglia:
ai coniugi, infatti, sono stati riconosciuti uguali dignità e poteri, prendendo
finalmente atto di una realtà sociale nella quale la parità dei diritti e il concetto di
uguaglianza hanno preso il posto di privilegi, discriminazioni e pregiudizi.
Cod. Civ., art. 144. Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia.
I coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della
famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.
A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato.
Il sistema tradizionale, che venne trasfuso nel codice del 1942, era finalizzato alla
difesa della famiglia legittima da ogni attacco esterno. De Filippis afferma che «esso
ribadiva e fissava in termini giuridici l’antica supremazia dell’uomo sulla donna,
rinvenibile già nel diritto di famiglia dell’epoca romana, ove, per la donna, era
negata la soggettività giuridica ed era previsto il passaggio dalla sottomissione al
pater alla sottomissione al marito, in ragione dell’affermata levitas femminile»265.
Concetti che sono rinvenibili anche nella dottrina cattolica, fin dalle origini. Nella
lettera agli Efesini, Paolo afferma:
Efesini 5:22-24: Mogli, siate soggette ai vostri mariti, come al Signore; poiché il marito
è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, egli, che è il Salvatore del
corpo. Ma come la Chiesa è soggetta a Cristo, così debbono anche le mogli esser soggette
ai loro mariti in ogni cosa.
Tommaso d’Aquino (Somma contro i gentili, 3, 123) asserisce che «la femmina ha
bisogno del maschio non solo per la generazione, come negli altri animali, ma anche
come suo signore» perché è più intelligente e coraggioso.
L’inferiorità presunta della donna può essere rilevata in parecchi passi
del Decreto di Graziano, nome con cui è più comunemente conosciuta la celebre
265 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 66 nt. 44.
255
opera denominata Concordia discordantium canonum, una raccolta di fonti di diritto
canonico redatta da Graziano nella prima metà del secolo XII.
Decretum Gratiani, causa 33, questio 5:
C. XI. Vota abstinentiae, que mulier permittente viro promiserit. Illo prohibente servare
non cogitur.
C. XII. Mulieres viris suis debent subesse.
C. XIII. Vir est caput mulieris.
Il Codex Iuris Canonici, rimasto in vigore dal 1234 al 1916 (nel 1917 Benedetto XV
emana il nuovo Codex), si fonda in larga parte sui canoni e decretali dell’opera di
Graziano. Infatti, la sottomissione della donna all’uomo fu dottrina della Chiesa fino
al XX secolo: per Leone XIII «il marito è il principe della famiglia e il capo della
moglie» (Lettera Enciclica di Sua Santità Leone PP. XIII, Arcanum divinae, 1880); per Pio
XI «l’ordine dell’amore» richiede «da una parte la superiorità del marito sopra la
moglie ed i figli, e dall’altra la pronta sottomissione e ubbidienza della moglie»
(Lettera Enciclica di Sua Santità Pio PP. XI, Casti connubii, 1930).
Solo verso la fine del 1900 la Chiesa Cattolica afferma la parità dei sessi: «L’uomo
e la donna sono, con una identica dignità, “a immagine di Dio”» (Catechismo della
Chiesa cattolica, § 369, 1992), negando però l’originale pensiero paolino che solo
l’uomo sia “immagine di Dio”:
1 Corinzi 11: 7-9: L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di
Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la
donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo.
Ritornando al tema in questione, una defizione più precisa del matrimonio, non
riscontrabile nella normativa codicistica, si ricava specularmente dalla disciplina
sullo scioglimento dello stesso.
Secondo l’art.1 della legge 898/1970, se il giudice «accerta che la comunione
256
spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita»,
giustificando così la cessazione del matrimonio, ciò significa che, per il nostro
ordinamento, il matrimonio consiste nella costituzione e nella permanenza di tale
comunione: «Il vincolo coniugale risulta quindi fondato, sia per la costituzione che
per l’eventuale cessazione, sulla volontà dei coniugi, i quali, anche al di fuori di
ipotesi di simulazione, potrebbero volerlo costituire prescindendo da essa, o
mantenerlo anche quando essa non esista più»266.
L’elemento principale per l’esistenza del vincolo coniugale resta pertanto la
volontà dei coniugi. Costoro tuttavia, celebrando il matrimonio, accettano la
disciplina di un istituto configurato come una comunione totale di vita267.
266 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 65. 267 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 65.
257
Capitolo VIII
LA FAMIGLIA DI FATTO NEL DIRITTO MODERNO
1. La famiglia di fatto tra disvalore e nuove percezioni
Al pari delle unioni non matrimoniali di diritto romano, la famiglia, come
qualunque altra entità, è «di fatto» quando non è disciplinata dal diritto.
Se il diritto ha il compito di dare configurazione giuridica a tutto ciò che esiste ed
assume rilevanza nei rapporti sociali (condannando, vietando, disciplinando,
conformando, ecc.), sembra del tutto evidente che non può ignorare la realtà di certi
fenomeni, a meno che non si tratti di questioni del tutto marginali (e questo non è
sicuramente il caso delle famiglie non matrimoniali). Quando ciò accade, ci si trova
di fronte ad istituti «di fatto»268.
Già il termine «di fatto» racchiude un disvalore semantico, che si riscontra anche
nella coscienza popolare, per cui tutto ciò che non è disciplinato, e cioè non è «di
diritto», non dovrebbe assurgere a dignità giuridica per la propria inadeguatezza.
Pertanto, ogni entità non disciplinata dal diritto non solo è mancante, senza propria
colpa, di una regolamentazione che può generare incertezze e carenze di tutele, ma
assume un giudizio diminutivo sul proprio valore e sulla propria dignità.
Questo disvalore, indicato in passato con i termini di «concubinato» o
convivenza more uxorio, deriva, come si è visto al capitolo VI, dalla progressiva
influenza cristiana nel combattere questo fenomeno, che era largamente diffuso e
tollerato dal diritto romano classico e dalla società dell’epoca, se non addirittura
incentivato in certi casi. Esso fu considerato non come conseguenza di una possibile
scelta di libertà individuale, per quanto limitata dalla mentalità e soggetta al
268 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 341.
258
maschilismo romano, ma come «espressione di decadenza di costumi e di crisi di
valori tradizionali, nonché attentato alla solidità della famiglia e dello stato che su di
essa si basava»269.
Diversamente dalle leges Iuliae, che furono emanate principalmente per favorire
l’incremento demografico e che mai vietarono il concubinato, la Chiesa ravvisò nel
formalismo matrimoniale, attraverso la celebrazione avanti al sacerdote di culto,
uno dei metodi con cui controllare la popolazione e combattere la presunta
disgregazione sociale della comunità: celebrazione che per altro non trova riscontro
nei Vangeli, dove il matrimonio è menzionato solo marginalmente e non prevede
alcuna benedizione, mentre anche la Bibbia ne parla come di una pratica familiare,
dunque privata, non pubblica. In accordo con De Filippis, «la dottrina canonistica
non si limitò a dettare regole ed a stabilire principi che negassero cittadinanza
giuridica alle convivenze, ma diffuse la cultura del disvalore di essa, suscitandone la
condanna, se non il disprezzo, da parte della coscienza sociale»270.
Queste posizioni si riscontrano anche in autori recenti che, esaminando la
questione «dell’essenza» del vincolo coniugale e la distinzione tra le unioni legittime
e le convivenze, affermano che a caratterizzare intrinsecamente il matrimonio non è
né la capacità delle parti, né il consenso, né la forma, né il fatto della convivenza, ma
l’intento «di non incorrere nel biasimo, nell’infamia e nel disprezzo in cui la
coscienza sociale tiene le unioni illegittime, […] godere un certo grado e tipo di
decoro, di rispetto […], essere considerati e trattati come marito e moglie, e non
come amanti»271.
In un altro scritto si legge: «[…] da quando gli Stati e la Chiesa hanno negato
validità ai matrimoni clandestini, ha assunto importanza fondamentale la
269 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 342. 270 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 342. 271 V. CASTIGLIONE-HUMANI, Annuario di diritto comparato e studi legislativi, s. III, 1948, vol.
XXIII, p. 213.
259
celebrazione delle nozze, ossia la qualificazione formale del vincolo da parte
dell’autorità civile o di quella religiosa o dell’una e dell’altra insieme. Fuori di
questa qualificazione, nella mera realtà sociale, l’operatore del diritto, così come la
generalità dei soggetti, non avrebbe la possibilità di distinguere, come abbiamo
accennato, un’unione concubinaria, in cui le parti si comportino come marito e
moglie, da un’unione matrimoniale, tanto più se in questa gli obblighi inerenti allo
stato coniugale siano negletti dalle parti»272.
De Filippis afferma che «se si ritiene che, nell’epoca attuale, la coppia di fatto
stabile può godere di rispettabilità sociale analoga a quella della coppia
matrimoniale, da parte di una collettività che si è liberata da alcuni pregiudizi ed ha
imparato a guardare alla sostanza delle cose, il criterio discretivo proposto dal
primo frammento (v. nt. 272) citato diviene inapplicabile»273.
La progressiva erosione di tale cultura ha comportato, per coloro che si
rispecchiano nelle posizioni ideologico-religiose, uno spostamento di visuale verso
altri tipo di argomenti, come la «sacralità» del vincolo, che renderebbe la scelta
matrimoniale, se non l’unica possibile, certamente quella di maggior profilo morale.
Di riflesso, in ambito giuridico sono nate concezioni che affermano la
«superiorità» del modello matrimoniale in base a principi costituzionali. Secondo la
dottrina tradizionale, poiché l’art. 29 della Costituzione definisce la famiglia come
«società naturale fondata sul matrimonio», l’unica famiglia che l’ordinamento
riconosce è quella legittima, pertanto, in assenza del crisma sacramentale o di quello
legale, «non possono realizzarsi forme di società coniugale positivamente
apprezzabili»274. Decisioni della Corte Costituzionale confermano questa posizione.
Con l’ordinanza n. 481 del 25 ottobre 2000, la più alta magistratura dello Stato ha
272 F. FINOCCHIARO, Matrimonio cit., p. 48. 273 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 342. 274 F. SANTORNO PASSERELLI, Intervento in La riforma del diritto di famiglia (Atti del I Convegno
di Venezia, 30 aprile - 1 maggio 1967), Padova, 1967, p. 196.
260
dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità sollevata in
relazione all’art. 19, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
L’eccezione riguardava la differenza di trattamento tra il matrimonio dello
straniero coniugato in Italia, per cui è previsto il divieto di espulsione, e la
convivenza more uxorio dello stesso. Per il tribunale di Vibo Valentia ciò
integrerebbe una violazione dell’art. 3 della Costituzione, essenso uguali nella
sostanza, le due situazioni: veniva infatti sostenuto che «i legami di fatto devono
essere assimilati al matrimonio anche in base alla ratio della disposizione di legge,
identificabile nella necessità di evitare lo sradicamento dello straniero dal nucleo
familiare in cui vive nello Stato».
La Corte Costituzionale, invece, ha affermato che il divieto risponde all’esigenza
di tutelare l’unità della famiglia e riguarda persone che si trovano in una situazione
di certezza di rapporti giuridici, che è assente nella convivenza more uxorio. Il
commento specifica che «il sistema attuale non riconosce altra famiglia che non sia
quella legittima e che il sostanziale declino di tipo di unione, spesso portata a
dissolversi o a non costituirsi affatto, non può assurgere a criterio per il
riconoscimento statuale delle unioni di fatto, almeno fino a quando non verrà
modificato l’art. 29».
Altri Autori hanno affermato che, se la famiglia legittima gode di una posizione
privilegiata secondo la Costituzione, indicando nell’unione matrimoniale una
«forma giuridica della convivenza di coppia obiettivamente insuperabile per
garanzie di certezza, stabilità dei rapporti e serietà dell’impegno»275, ciò non
significa che le stesse garanzie offerte alla famiglia non possano essere estese ad
altre formazioni, ai sensi dell’art. 2 della medesima Carta.
Secondo questa recente sensibilità, sembra impossibile tracciare una linea di
demarcazione tra «ciò che è famiglia e ciò che non lo è», perché sarebbe opportuna
275 G. BRANCA- G. ALPA, Istituzioni di diritto privato, Bologna, VII ed, Zanichelli, 1992, p. 661.
261
una valutazione caso per caso al fine di appurare, ed eventualmente tutelare, i
medesimi valori e le medesime esigenze presenti anche nelle famiglie non
riconosciute giuridicamente. De Filippis dichiara che è «riduttivo e inaccettabile […]
sostenere: ubi commoda, ibi incommoda, senza analizzare il contenuto della
formazione alternativa e le esigenze di tutela che la stessa può meritare»276.
La dottrina più moderna, infatti, equipara la famiglia di fatto a quella legittima
sulla base del combinato disposto degli articoli 2 e 29 della Costituzione, tutte le
volte in cui l’unione libera dei genitori assicuri l’adempimento delle funzioni di
mantenimento, istruzione ed educazione della prole (ex art. 30 Cost.).
De Filippis afferma che la parola «famiglia» non può avere valenza
esclusivamente terminologica, anzi, sembra riduttiva anche un’interpretazione
legata unicamente all’art. 29 della Costituzione, ignorando il significato sostanziale
dell’identificazione di essa come comunità di vita e di affetti277. Oltretutto basterebbe
una interpretazione storica dell’art. 29, visto che nel 1948 non esisteva ancora il
fenomeno.
Il riconoscimento della famiglia di fatto è dunque legato all’art. 2 della
Costituzione:
Cost., art. 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Questa norma non dovrebbe avere valore inferiore rispetto all’art. 29,
specificamente dettato per l’unione familiare, ma dovrebbe essere alternativo ad
esso nel completare il quadro complessivo dei precetti costituzionali, anche alla luce
dell’evoluzione dei tempi e dei costumi. Adeguamento che già si riscontra nell’art.
276 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 349. 277 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 350.
262
30 a proposito dell’estensione ai figli nati fuori del matrimonio e garanzie ed i diritti
dei figli legittimi, in un contesto basato sui doveri genitoriali e riconducibili al
concetto di famiglia:
Cost., art. 30, c. 1 e 3: È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i
figli, anche se nati fuori del matrimonio.
La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale,
compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.
A questo punto si può dire che la costituzione di una famiglia legittima trova
riconoscimento e disciplina ai sensi dell’art. 29, mentre coloro che pongono in essere
una famiglia di fatto si pongono sul piano previsto dall’art. 2 e da tale norma
ricevono tutela, in modo alternativo e non subordinato rispetto all’altra possibilità.
Rescigno sostiene che «una lettura corretta della norma generale sulle formazioni
sociali intermedie tra l’individuo e lo Stato e della norma particolare relativa alla
famiglia (artt. 2 e 29) non può essere resa nei termini indicati dal tradizionale
insegnamento cattolico. […] Le affermazioni circa la priorità della famiglia ed il
carattere di «società naturale» hanno bisogno di un chiarimento. Anche del concetto
di famiglia, come di tutti i concetti della nostra cultura e dell’esperienza giuridica,
deve sottolinearsi la relatività e la storicità […]»278.
L’autore fa discendere la conseguenza che la famiglia legittima è riconosciuta
quale società naturale che gode di diritti propri, ma il privilegio riservato alle unioni
formalizzate non può tradursi in disinteresse o in negligenza nei confronti del
fenomeno sociale dela famiglia di fatto.
Infatti, «la convivenza realizzata nel ménage di fatto, o famiglia di fatto, presenta
nella sostanza lo stesso contenuto della convivenza che ha origine dal matrimonio:
tra i soggetti che vivono come coniugi (more uxorio, secondo il corrente modo di
278 P. RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, XI ed., Napoli, 1996, p. 380.
263
esprimersi), si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione, assistenza, e di reciproca
contribuzione agli oneri patrimoniali; tra genitori e figli procreati fuori del
matrimonio doveri di mantenimento, educazione ed istruzione a carico dei primi, di
devozione e rispetto da parte dei figli. Quando la convivenza si allarga ad altri
soggetti, solitamente si riproduce, sempre sul piano dei fatti, una serie di aspettative
e di apporti analoga a quella che nella famiglia legittima è imposta, oltre che dalla
solidarietà familiare, dalla legge»279.
Il monito della dottrina moderna affinché l’interpretazione costituzionale sia
attenta all’evoluzione dei tempi ed alle nuove esigenze che la società manifesta
presume una maggior considerazione delle statistiche e delle motivazioni della
famiglia di fatto, al fine di discernere la mera discussione accademica, slegata
dall’esperienza pratica, dal riscontro effettivo di un fenomeno sociale emergente.
Tuttavia, se la legislazione può prendersi la libertà di ignorare o rifiutare di
regolare un fenomeno di fatto, non altrettanto può avvenire per la giurisprudenza: il
giudice non può rifiutare di dirimere una controversia o di rispondere ad una
domanda per carenza di legislazione, ma è obbligato a dare una soluzione concreta
ai singoli casi sui quali viene adito dai cittadini, facendo ricorso agli strumenti di
legge utili a colmare le lacune legislative.
Nel caso in esame, le questioni relative alle «coppie o famiglie di fatto», anche a
causa della perdurante carenza di una disciplina in merito, vengono definite grazie
a soluzioni giurisprudenziali, anche con pronunciamenti della Corte Costituzionale,
che sono in grado di risolvere, almeno parzialmente, le molteplici dispute di un
fenomeno così diffuso nella realtà sociale.
L’impegno della giurisprudenza nel colmare la lacuna legislativa si è concentrato,
in passato, soprattutto in relazione alla situazione dei figli minori delle coppie non
matrimoniali, ai quali sono stati riconosciuti, in tutte le fattispecie in cui il sistema
279 P. RESCIGNO, Manuale cit., p. 381.
264
normativo lo consentiva, diritti analoghi a quelli dei figli nati all’interno di
un’unione matrimoniale. Negli anni pronunce anche di rilievo costituzionale hanno
avvicinato la posizione degli figli nati nella famiglia naturale a quelli nati nella
famiglia legittima, affermando che ad entrambi spettano diritti analoghi, non
potendo considerarsi discriminanti le circostanze relative alla loro nascita.
Per quanto riguarda i rapporti di coppia, si è invece fatto ricorso ad istituti già
esistenti ed applicabili per analogia o sulla base di sentenze di legittimità o di merito
che hanno concesso, limitatamente a certi ambiti, una sostanziale parificazione con
la famiglia legittima.
Nel 1988, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 6, comma 1,
della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva tra i successibili
nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il
convivente more uxorio di questi, nonché nella parte in cui non prevedeva la
successione nel contratto di locazione al conduttore che avesse cessato la
convivenza, a favore del già convivente, quando vi fosse prole naturale280.
In un’altra sentenza del 1993, la Corte Costituzionale ha rigettato la richiesta,
negando la sussistenza di tale illiceità, a proposito dell’annullamento di un contratto
di comodato perché contrario all’ordine pubblico ed al buon costume, in quanto
funzionalmente collegato ad una situazione di convivenza, nella quale trovava la
propria giustificazione causale281.
La liceità della convivenza è richiamata anche nella pronuncia con cui la
giurisprudenza ha riconosciuto la legittimazione ad agire per il risarcimento del
danno da parte di convivente della vittima di omicidio282; oppure nelle sentenze che
considerano la convivenza instaurata dopo il divorzio come comportamento lecito,
in grado di influire, comportandone la diminuzione, sulla misura dell’assegno da
280 Corte Cost., 7 aprile 1988, n. 404, in Dir. Fam., 1990, p. 766. 281 Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Corr. Giur., 1993, p. 947. 282 Cass., 4 febbraio 1994, n. 3790, in Riv. Dir. Proc. Pen., 1996, p. 375.
265
corrispondere all’ex coniuge283; oppure ancora nelle decisioni in materia di adozione
dove sono dichiarate idonee all’adozione le coppie sposate e quelle conviventi da
almeno tre anni, secondo l’art. 6, commi 1 e 4, della legge 28 marzo 2001, n. 149
dell’adozione internazionale.
E proprio mentre si sta ultimando questa tesi, con una sentenza storica e
destinata a fare certamente giurisprudenza, il Tribunale di Livorno ha finalmente
applicato la direttiva del 2011 della Suprema Corte di Cassazione, in ordine
all’assegno di divorzio. La causa riguarda un uomo ed una donna, rispettivamente
di sessantadue e cinquantasei anni, che dopo ventitré anni di matrimonio avevano
deciso di separarsi; trascorsi dieci anni di separazione legale, la donna chiede
l’assegno di mantenimento a carico del marito; l’uomo si oppone citando la sentenza
della Corte di Cassazione284 del 2011 che escludeva la corresponsione dell’assegno di
mantenimento allorquando sussiste il requisito di una nuova convivenza e di una
nuova relazione, da parte della donna, simile a quella che si costruisce con il
matrimonio.
Infatti, come afferma il giudice civile nella motivazione della sentenza, «se è pur
vero che la mera convivenza del coniuge con altra persona non incide di per sé
direttamente sull’assegno di mantenimento, qualora, tuttavia, tale convivenza
assuma, come nel caso in questione, i connotati di stabilità e continuità, tanto che i
conviventi instaurino tra di loro una relazione di vita analoga a quella che, di regola,
caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio, la mera convivenza si trasforma in
una famiglia di fatto. Ciò implica il venir meno del parametro dell’adeguatezza dei
mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno
dei partner, poiché viene a costituirsi una nuova famiglia, benché solo di fatto»285.
283 Cass., 29 novembre 1976, n. 4498, in Giur. It. Rep., 1976, v. Matrimonio, n. 63. 284 Cass., 11 ottobre 2011, n. 17195. 285 Trib. Livorno, 27 febbraio 2013, 215. Per la lettura integrale della sentenza:
http://www.avvocatosilviomonti.com/sentenza.htm, consultato l’11 marzo 2013.
266
Ancora una volta la giurisprudenza riconosce la famiglia di fatto come entità
lecita e produttiva di effetti giuridici, tanto da essere paragonata, nelle sentenze per
l’attribuzione dell’assegno di mantenimento, al pari della famiglia legittima.
Con l’emanazione della recentissima legge 10 dicembre 2012, n. 219, viene
unificata la disciplina dello stato di figlio, positivizzando finalmente le decisioni
giurisprudenziali, e riconoscendo la parentela del figlio non solo con i genitori, ma
anche con i rispettivi ascendenti ed affini.
Ma, dal momento che la legislazione non si è ancora espressa riguardo ai due
soggetti che costituiscono la «coppia di fatto», si è creata l’illogica situazione per cui
si riconosce valore giuridico ai legami parentali tra figli e genitori e parenti di questi,
ma non tra i genitori stessi: nell’ordinamento italiano, l’uomo e la donna non uniti in
matrimonio, non hanno tra loro alcun legame giuridico, pur avendolo nei confronti
dei figli che essi stessi hanno generato.
Nell’attesa che il legislatore colmi questa assurda lacuna, la giurisprudenza è
costretta ad applicare quell’assetto normativo, concepito autonomamente, per
regolamentare i rapporti delle famiglie o coppie «di fatto».
2. Definizioni, statistiche ed analisi sociologica
La famiglia di fatto non presenta una definizione univoca, ma tra le diverse
enunciazioni proposte si può intendere generalmente come «la situazione stabile di
convivenza tra un uomo ed una donna, i quali, pur non essendo sposati, formano un
nucleo affettivo, di comunione e di interessi, che spesso comprende i figli da essi
generati»286.
Descrizioni ancora più sintetiche ravvisano in essa «l’unione stabile di un uomo
286 V. VITALONE - C. ZAFFIRI, La famiglia di fatto, in Giust. civ., 1991, II, p. 303.
267
ed una donna non sposati tra loro, ed eventualmente dei loro figli»287; oppure,
proponendo una concezione di romanistica memoria, essa rappresenta la situazione
di coloro i quali «si comportano anche esternamente come coniugi, senza essere
sposati»288. Proponendo una defizione a contrario, si è detto che essa non costituisce
un «matrimonio di seconda categoria», in quanto è necessario tenere distinte le due
figure289.
Altri Autori si sono soffermati sul valore semantico, affermando che la locuzione
«famiglia di fatto» ha soppiantato termini quali concubinato, inteso quale una sorta
di adulterio continuato, o convivenza more uxorio, perché «questo tipo di unioni
possono essere portatrici di valori di stretta solidarietà, arricchimento e sviluppo
della personalità dei componenti ed educazione della prole, prima ritenuti propri
della sola famiglia legittima»290.
Altri ancora, portandosi più su un piano sociologico, hanno definito le famiglie di
fatto come unioni che, anziché fondarsi sul matrimonio, si basano «su di un affetto
atto ad alimentare una convivenza, abituale in un certo grado, ma mai forzata»291.
L’esigenza di trovare nuove definizioni, attesta che la famiglia di fatto non è
assolutamente più un fenomeno marginale o, per così dire, un caso giuridico
accademico. L’attenzione verso queste nuove formazioni sociali è principalmente
dovuta alla crisi dell’istituzione matrimoniale: dagli anni sessanta del XX secolo si è
andata manifestando una crescente dissaffezione nei confronti della famiglia
tradizionale, fondata sul matrimonio e su una discendenza numerosa292.
287 E. ROPPO, v. Convenzioni matrimoniali, in Enc. Giur. It., IX, Roma, 1988, p.1018. 288 F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, ESI, VI ed., 1996, p. 304. 289 G. OBERTO, La famiglia di fatto nel diritto comparato, in Giur. It., 1986, IV, p. 108. 290 M. DOGLIOTTI, v. Famiglia di fatto, in Digesto delle discipline privatistiche – sez. civile, IV ed.,
Torino,1992, p. 189-190. 291 A. DE CUPIS, Crisi della famiglia legittima e supplenza della famiglia di fatto, in Riv. dir.
civ.,1981,. II, p. 609. 292 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie. Felicità e rischi delle nuove scelte, Il Mulino, Bologna, 2008,
p. 8.
268
Secondo i sociologi, «il matrimonio non rappresenta più il passaggio simbolico
dall’adolescenza all’età adulta, com’è stato sino all’inizio degli anni sessanta, perché
non è più l’evento che legittima l’accesso alla vita sessuale, né il fondamento
necessario della famiglia e della procreazione»293.
La causa non è univoca, ma si possono rinvenire diversi elementi che, sommati
tra loro, possono aver determinato la situazione attuale delle famiglie di fatto:
a) il calo e la posticipazione dei matrimoni;
b) il calo complessivo delle nascite;
c) l’aumento delle convivenze e delle nascite fuori dal matrimonio;
d) l’aumento dell’instabilità coniugale (separazione e divorzi);
e) l’aumento delle famiglie con un solo genitore;
f) l’aumento delle famiglie ricomposte (in cui almeno uno dei coniugi o partner
proviene da una precedente unione);
g) l’aumento delle famiglie unipersonali.
A supporto di queste ipotetiche cause vi sono numerose indagini statistiche che
negli anni hanno evidenziato l’erosione dell’istituto matrimoniale. Una recentissima
pubblicazione ISTAT294 ha mostrato che nel 2011 sono stati celebrati in Italia 204.830
matrimoni, 12.870 in meno rispetto al 2010. Questo dato è significativo perché
mentre la tendenza negli ultimi venti anni è un calo delle celebrazioni del 1,2%,
negli ultimi quattro anni, tra il 2007 e il 2011, si è particolarmente accentuata con la
media del -4,5%.
Il contributo più importante nella diminuzione è dato dalle prime nozze tra
sposi: ci sono stati 37 mila matrimoni in meno negli ultimi quattro anni, visto che
incide per l’82% nella diminuzione osservata per il totale dei matrimoni nel periodo
293 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 8 294 http://www.istat.it/it/archivio/75517, consultato il 5 marzo 2013.
269
2008-2011. Diminuiscono anche i secondi matrimoni da 34.137 del 2008 a 31.048 del
2011, ma la loro quota sul totale è in crescita dal 13,8% del 2008 al 15,2% del 2011,
dato che forse è influenzato dalla maggior celerità dei processi di divorzio. Riguardo
alla forma matrimoniale, nel 2011 sono state celebrate con rito religioso 124.443
nozze, 39 mila in meno rispetto al 2008.
Una statistica interessante riguarda la diffusa scelta dei coniugi a favore del
regime di separazione dei beni: nel 2009 l’incidenza dei matrimoni in regime di
separazione dei beni è pari al 64,2% e supera la quota di quelli in regime di
comunione dei beni in tutte le ripartizioni, raggiungendo il 65,9% nel Nordovest.
Al calare del numero di celebrazioni si registra conseguentemente un aumento
dell’età delle nozze: l’età media al primo matrimonio degli uomini è pari a 34 anni,
per le donne a 31 anni. Sono in continuo aumento, infatti, le convivenze pre-
matrimoniali, che possono avere un effetto sulla posticipazione del primo
matrimonio, ritenute dalle generazioni più giovani come un matrimonio di prova o
una nuova forma di fidanzamento.
Queste convivenze giovanili non riguardano più solo le grandi aree urbane del
centro-nord, ma si stanno estendendo anche ad altre realtà territoriali, segno di una
maggior accettazione sociale e di una tendenza al radicamento nel costume. La
quasi totalità dei giovani italiani ritiene la convivenza una forma legittima di vita di
coppia e viene intesa come un utile periodo di prova finalizzato ad una maggior
conoscenza reciproca, in vista, eventualmente, di un futuro matrimonio295.
L’atteggiamento favorevole verso le convivenze, fino a pochi anni fa, era
ostacolato dalla mentalità della società adulta, genitori e parenti in primo luogo che
difficilmente accoglievano con favore una forma di vita a due non riconosciuta.
Oggi invece anche la maggioranza degli adulti accetta la convivenza come legittima
e normale, ma allo stesso tempo non considera il matrimonio come un’istituzione
295 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 29.
270
superata: sembra quindi accreditata nella coscienza comune l’esistenza di un
pluralismo familiare296.
La sempre più prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine, che
determina il rinvio delle prime nozze, è dovuta sicuramente all’aumento diffuso
della scolarizzazione e all’allungamento dei tempi formativi, ma anche alle difficoltà
che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e alla condizione di
precarietà del lavoro stesso, alle difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni,
condizioni queste prese in considerazione nella decisione di formare una famiglia e
considerate sempre più vincolanti sia per gli uomini sia per le donne.
La crisi economica di questi ultimi anni ha contribuito a diffondere un senso di
incertezza e di insicurezza dei giovani che ha avuto inevitabili ricadute sul
matrimonio. Ricerche recenti hanno messo in luce che la stabilità del lavoro è
conditio sine qua non per le nozze: le nuove forme di instabilità e flessibilità del
lavoro influiscono notevolmente nell’uscita dei giovani dalla casa dei genitori e,
pertanto, «le convivenze vengono percepite come strategie adattive di fronte alla
precarità delle condizioni di vita e come un impegno meno vincolante, anche sotto il
profilo economico, rispetto al matrimonio»297.
Al pari dei Paesi europei, anche in Italia aumenta la tendenza a prolungare la
convivenza anche in situazione di stabilità economica, tanto da configurarsi come
un modello di vita diverso ed alternativo rispetto al matrimonio. I sintomi di questa
concezione si ravvisano nel calo del numero di donne conviventi che si dichiarano
decise a sposarsi e l’aumento delle nascite fuori dal matrimonio: la percentuale di
nati da genitori non coniugati era appena l’8,1% nel 1995 e ha raggiunto il 20,4% sul
totale dei nati nel 2009, con proporzioni aumentate in media di 2,5 volte nell’intero
periodo298. L’incremento più consistente negli ultimi anni si è verificato proprio al
296 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 30. 297 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 30. 298 http://www.istat.it/it/files/2011/09/natalita-fecondita.pdf, consultato il 5 marzo 2013.
271
Centro-Nord, dove i nati da genitori non coniugati sono, mediamente, circa uno su
quattro. Il fenomeno suggerisce l’idea che la convivenza viene percepita da un certo
numero di coppie, come un’unione stabile e duratura, idonea alla crescita di un
bambino299.
Conseguentemente alla decrescita dei matrimoni, infatti, aumentano le famiglie
di fatto: alla minore propensione a sancire con il vincolo matrimoniale si
preferiscono le unioni di fatto, passate da circa mezzo milione nel 2007 a 972mila nel
biennio 2010-2011. La conferma di questo mutato atteggiamento perviene anche
dalle informazioni sulle coppie di fatto con figli: l’incidenza di bambini nati al di
fuori del matrimonio è in continuo aumento e raggiunge il 21,7% del totale dei nati
nel 2009.
D’altra parte è innegabile che le coppie non sposate abbiano statisticamente meno
figli rispetto a quelle coniugate: sembra che la minor propensione alla fecondità
delle prime dipenda dal fatto che, primariamente, spesso l’attesa di un figlio induce
la coppia a contrarre le nozze per suggellare legalmente l’unione; in secondo luogo,
la convivenza è caratterizzata da una forte enfasi tra i due soggetti della coppia e
dall’autorealizzazione individuale, piuttosto che essere rivolta alla procreazione.
Infatti, i soggetti che convivono, oltre ad essere più giovani e meno profilici dei
loro colleghi sposati, sono mediamente più istruiti e più inseriti nel mercato del
lavoro, con particolare attenzione nei confronti delle donne: mentre solo una quota
minoritaria delle donne coniugate lavorano, la grande maggioranza delle donne
conviventi svolte un’attività retribuita.
Le statistiche affermano che «queste differenze sono dovute in parte alla più
giovane età delle conviventi, ma suggeriscono anche che tra le donne lavoratrici,
con un titolo di studio medio-alto sia vi sia una maggior propensione verso l’unione
di fatto, vista come stile di vita che, più del matrimonio, consente loro di superare i
299 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 31.
272
ruoli tradizionali e di negoziare col partner una relazione più paritaria»300. Potrebbe
essere davvero interessante fare un confronto con diminuzione delle iustae nuptiae
nel periodo tardo repubblicano e l’aumento delle coppie di fatto nel periodo
contemporaneo: si può forse auspicare che all’aumentare dell’istruzione e
dell’indipendenza economica femminile sia corrisposto anche nell’epoca romana il
progressivo rifiuto di un’impostazione tradizionale della famiglia, incentrata sul
matrimonio e sull’accudimento della casa e dei figli. Forse non ci sono dati
sufficienti per dare certezza a queste considerazioni, anche se si potrebbe lasciare
aperta un’ipotesi di studio in proposito.
Negli ultimi anni, comunque, il fenomeno, che riguardava prevalentemente i ceti
sociali più abbienti, si sta diffondendo anche tra quelli meno elevati: le unioni di
fatto sono passate dall’essere adattamento dei conviventi in situazione economica
precaria, a vero e proprio costume sociale.
La questione quindi si sta spostando verso una dimensione prettamente
culturale: l’atteggiamento dei conviventi verso il matrimonio è il punto chiave per
cercare di comprendere il significato delle famiglie di fatto nella società odierna.
Alcuni sociologi hanno individuato tre forme di convivenza, individuata
alternativamente come matrimonio di prova, forma di organizzazione della vita
affettiva e sessuale o rifiuto del matrimonio come istituzione.
a) Matrimonio di prova. Negli anni settanta il demografo e sociologo francese
Louis Roussel dimostrò che «la maggioranza dei conviventi non aveva un
orientamento negativo preconcetto verso il matrimonio, ma concepiva la convivenza
come una sorta di fidanzamento o in ogni caso come un’esperienza di prova che
poteva anche concludersi con le nozze»301: la convivenza giovanile era dunque il
passaggio naturale che precedeva l’unione legale .
300 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 32. 301 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 32.
273
b) Forma di organizzazione della vita affettiva e sessuale. Singly ipotizza che la
convivenza sia un compromesso tra generazioni che riduce lo squilibrio tra la
maturità biologica e quella sociale dei giovani di oggi: «le relazioni sessuali sono
sempre più precoci, mentre l’inserimento stabile nel mondo del lavoro avviene
sempre più tardi»302. La convivenza è dunque accettata o tollerata dalle famiglie di
origine perché realizza il desiderio dei giovani di sperimentare una relazione più
condivisa, senza precludere la conclusione degli studi e l’inizio dell’attività
professionale che, secondo una consolidata tradizione dei ceto medio-alti, debbono
precedere il matrimonio. La convivenza non è necessariamente un preludio
all’unione legale, ma costituisce nei fatti una forma di organizzazione della vita
affettiva e sessuale, precedente al matrimonio.
c) Rifiuto del matrimonio come istituzione. Più recentemente, Roussel, a causa
dell’aumento delle coppie conviventi in età adulta e la tendenza al prolungamento
della durata della convivenza, ha espresso la convinzione che, nei vari modelli della
famiglia di fatto, si stia diffondendo un atteggiamento comune di rifiuto del
matrimonio come istituzione, cioè inteso come insieme di norme sociali e giuridiche
che regolano la vita privata degli individui. Si verificherebbe così un’opposizione,
da parte delle generazioni più giovani, ad un controllo legale e sociale dei loro
comportamenti più personali ed intimi.
La complessità dell’odierna società, in cui è sempre più difficile progettare il
futuro, può essere interpretata come il desiderio di focalizzarsi maggiormente sul
presente e come strategia adattiva che consenta di rimandare in un secondo
momento il matrimonio, visto come impegno più coercitivo, o addirittura non
precludersi altre possibili esperienze. «Non è un caso che nei sondaggi di opinione i
vantaggi della convivenza più frequentemente indicati sono la maggior libertà ed
302 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 34.
274
autonomia dei partner e la maggior facilità di sciogliere il legame»303.
Sebbene il fenomeno non sia chiaro e conforme nella sua rappresentazione, è
evidente che esiste una molteplicità di situazioni diverse non riconducibili ad un
unico modello. Un altro sociologo, Barbagli, ha individuato «quattro motivi per
convivere»304, quattro tipi principali di famiglia di fatto, in base agli orientamenti
prevalenti dei conviventi.
a) Prima categoria. Coloro che convivono per l’impossibilità a risposarsi rientrano
nella categoria che, più di ogni altra, presenta una maggiore continuità con il
passato e che ha ancora un certo peso nel nostro paese. Dopo il 1970, spartiacque del
sistema matrimoniale italiano, queste forme di convivenza hanno perso la loro
ragione di essere, ma sono state contemporaneamente sostituite da coloro che sono
in attesa del giudizio definitivo sul divorzio. Quest’ultimo poteva essere richiesto
solo trascorso un periodo di cinque anni dalla separazione, diminuito a tre con la
riforma del 1987.
In questa categoria sono ricompresi anche i soggetti che, pur risposandosi, non lo
fanno per continuare a godere di alcuni vantaggi economici, quali la pensione di
reversibilità per le vedove o i vedovi, l’assegno di mantenimento o ancora la
pensione per le donne divorziate che ne abbiano diritto. Barbagli fa notare che
«situazioni simili a queste si sono avute anche nel passato, dopo l’unità d’Italia,
quando per analoghi motivi di opportunità e di comodo si ricorreva al matrimonio
religioso senza effetti civili»305.
In questo modello, la convivenza non rappresenta una forma di famiglia
alternativa e contraria rispetto al matrimonio.
b) Seconda categoria. Rispetto alla precedente si posiziona in un piano
303 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 34. 304 M. BARBAGLI, Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia e in altri paesi
occidentali, Il Mulino, Bologna, 1990. 305 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 35.
275
diametralmente opposto, poiché caratterizzata da un «rifiuto ideologico del
matrimonio». «Vi rientrano non solo coloro che hanno scelto di convivere anziché di
sposarsi per motivi di principio, legati ad un’ideologia di stampo anarchico o
marxista (ormai molto pochi), ma molti giovani che oggi più frequentemente
rifiutano il matrimonio per timori dei danni che la regolamentazione sociale e
giuridica può arrecare alla spontaneità e all’autenticità della relazione di coppia»306.
Tale concezione richiama in sostanza l’opione di Roussel precendentemente esposta,
ma riguarda solo una realtà piuttosto esigua nell’ambito delle convivenze.
c) Terza categoria. Questo modello di famiglia di fatto «trae origine dalla messa in
discussione della concezione tradizionale dei ruoli maschili e femminili e della
divisione dei compiti fra coniugi»307. La diffusione di nuove forme familiari
potrebbe essere sorta per iniziativa di donne, istruite e con posizioni professionali
prestigiose, che considerano la convivenza come un modo di dichiararsi
indipendenti dalle aspettative tradizionali sul ruolo femminile nel matrimonio,
salvaguardando la propria carriera e autonomia, anche economica, impegnandosi in
un rapporto relazionale esclusivamente su basi paritarie.
Questa categoria dovrebbe comprendere il maggior numero di casi in cui la
coppia è posta al centro dell’attenzione, mentre l’avere o meno prole è secondario o
addirittura escluso. Dai dati italiani, infatti, seppur in contraddizione con quelli
statunitensi, risulta che le coppie non coniugate trascorrono molto più tempo fuori
casa e partecipano molto meno a funzioni religiose rispetto a quelle coniugate; ed
ancora, la quota di donne che possiedono un conto corrente personale, indice di
indipendenza economica, è molto superiore nelle prime rispetto alle seconde, così
come la quota di donne che prendono decisioni della vita quotidiana
congiuntamente al compagno, evidenziando la parità del rapporto.
306 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 36. 307 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 36.
276
La convivenza, secondo questa configurazione, non è antitetica al matrimonio in
quanto istituto in sé, ma contrasta in modo netto con la concezione tradizionale dei
ruoli, di cui il vincolo giuridico è portatore nell’ambito sociale e culturale.
d) Quarta categoria. L’ultima categoria individuata da Barbagli è quella di chi vuol
«provare per ridurre i rischi» di commettere errori nella scelta coniugale. Questa
versione di prova del matrimonio, o convivenza di prudenza, si è diffusa nelle
società occidentali a seguito della crescenti rotture coniugali. Secondo il sociologo,
queste convivenze sono «figlie dell’ansia, della paura condivisa da uomini e donne
che anche il proprio matrimonio finisca a pezzi come quello di genitori o amici»308.
La scelta di intraprendere una convivenza per mettersi al riparo da un eventuale
fallimento coniugale pare essere, però, alquanto vana: «numerose ricerche
dimostrano che la convivenza prematrimoniale non è garanzia di lunga durata
dell’unione, anzi essa sembra favorirne lo scioglimento»309. La convivenza intesa
come fase transitoria e gli orientamenti di valore dei contraenti, diversi da quelli di
coloro che si sposano senza prima aver convissuto, determinerebbe una sorta di
autoselezione di soggetti meno impegnati nei confronti dell’istituzione
matrimoniale e più propensi ad accettare l’eventuale divorzio, con una visione
dell’unione coniugale più individualistica, più paritaria, ma anche più conflittuale
nei rapporti di coppia, tanto da ammetterne la naturale separazione in caso di
conflitti insanabili, che si tratti di famiglie di fatto o famiglie legittime.
La maggior stabilità del matrimonio rispetto alla convivenza è favorita anche
dalla forza dell’istituzione, intesa come consenso normativo, sociale e giuridico,
intorno all’unione coniugale: in sostanza, il divorzio è in proporzione meno
frequente non solo perché i soggetti sono costretti a passare attraverso la macchina
giurisprudenziale, ma anche perché nella società viene considerato un fallimento di
308 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 37. 309 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 37.
277
misura oltremodo maggiore rispetto alla separazione di fatto, che del resto è
caratterizzata da una decisione strettamente interna alla coppia.
e) Quinta categoria (addenda). Alle quattro categorie proposte da Barbagli, Zanatta
ne aggiunte una quinta, che definisce postmoderno o ambivalente, probabilmente in
via di espansione anche nel nostro paese, in cui si scorge una tendenza a prolungare
l’unione di fatto oltre la misura comunemente praticata.
Questo modello di convivenza non è riconducibile né ad un matrimonio di
prova, né al timore di un suo possibile fallimento, anche se nei singoli possono di
volta in volta essere presenti l’una o l’altra, o entrambe le motivazioni. In questo
caso, non è nemmeno il rifiuto matrimoniale a caratterizzare queste unioni, quanto
piuttosto l’indifferenza nei confronti dell’istituzione: «manca nei partner un preciso
progetto matrimoniale, ma manca anche un’esplicita e precostituita ostilità nei
confronti delle nozze, che agli occhi di questi conviventi sono una formalità priva di
importanza»310.
Questo tipo di convivenze evidenzia «una tendenza a vivere nel presente, a non
fare progetti a lungo termine, a non compiere scelte percepite come irreversibili, a
dilazionare l’assunzione di responsabilità, che sono tratti tipici della cultura
contemporanea, in particolare di quella giovanile»311. Ciò non significa che la
relazione di coppia, che più risulta longeva e più vede la presenza di figli, sia
fondata su basi precarie: la speranza della maggioranza dei conviventi è rivolta
verso un legame duraturo, anche se non necessariamente destinato a sfociare nel
matrimonio.
Un dato essenziale di queste convivenze, rispetto al matrimonio, è costituito dal
fatto che permettano ad ognuno dei partner di non perdere la propria identità e la
propria autonomia individuale. Un giovane convivente, intervistato da Pocar e
310 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 38. 311 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 38.
278
Ronfani nella loro ricerca312, afferma: «C’è una cosa che secondo me è fondamentale,
che ognuno possa mantenere la propria individualità anche nell’agire sociale, che
sia riconosciuto come individuo e non come la moglie o il marito di Tizio o di Caio».
Zanatta osserva che questi modelli di unione di fatto, tranne il primo, hanno in
comune la concezione che Giddens definisce «relazione pura», che esiste e trova
senso solo in se stessa, al di fuori di criteri formali come quelli della parentela e
l’obbligo sociale o tradizionale e dura fintantoché dura la volontà dei partner di
stare assieme.
Essi tendono a sfumare l’uno nell’altro, senza considerare il fatto che gli stessi
soggetti posso avere opinioni diverse prima, durante e dopo le esperienze di
convivenza; l’autore afferma che «può essere più corretto non considerarli
imcompatibili tra loro, ma espressioni differenziate di un unico orientamento
culturale di fondo: la perdita dell’importanza primaria finora attribuita al
matrimonio»313.
3. Il riconoscimento giuridico della famiglia di fatto
La decadenza delle precedenti terminologie, concubinato e convivenza more
uxorio, è stata determinata principalmente da due cause. La prima è la sempre più
crescente abitudine dei giovani di costituire delle unioni, cosiddette di prova,
destinate a trasformarsi in unioni legittime e definitive solo qualora la convivenza
abbia dato un buon esito. Parte della società non ritiene più condannabile
aprioristicamente questa emergente usanza, la quale precede le nozze vere e proprie
solo sulla base di una consapevolezza esperenziale e, quindi, attraverso una scelta
convinta e matura.
312 V. POCAR – P. RONFANI, Coniugi senza matrimonio, Cortina editore, Milano, 1992. 313 A. L. ZANATTA, Le nuove famiglie cit., p. 39.
279
L’altra causa dipende dalla lunghezza dei processi per ottenere il divorzio. A
contribuire all’aumento delle famiglie di fatto sono le unioni di coloro che, pur
avendo in corso un rapporto stabile con un nuovo partner, non potevano dare ad
esso contenuto matrimoniale per la persistenza del precedente vincolo. Si osserva
che «in passato la più ricorrente motivazione del fenomeno era l’impossibilità di
sciogliersi da un vincolo matrimoniale avvertito ormai come privo di qualsiasi
valenza affettiva, ma pur sempre indissolubile. Se ciò è vero , si protrebbe pensare
che l’introduzione del divorzio avrebbe dovuto eliminare questa causa di nascita
della famiglia di fatto. Esso, invece, l’ha moltiplicata, perché la prospettiva che il
primo matrimonio possa sciogliersi ha socialmente incoraggiato la formazione di
nuove unioni, non più prive, come avveniva in passato, di ogni prospettiva di pieno
riconoscimento»314.
Questa situazione non era certo insolita considerando il fatto che, prima del 1987,
tra separazione e divorzio doveva decorrere il termine di cinque anni e non esisteva
la possibilità di una sentenza di divorzio parziale con riserva di successivo esame
delle questioni di merito, tanto che, l’eventuale proposizione di una richiesta di
addebito, unita all’opposizione dell’ex coniuge, potevano determinare cause di
durata pluridecennale.
Anche la giurisprudenza si è conformata alla moderna sensibilità sui valori
affettivi: con la sentenza del 1998, la Cassazione ha superato la precedente
concezione, secondo cui l’obbligo di fedeltà permane immutato per tutto il periodo
di separazione personale dei coniugi, affermando che l’obbligo si affievolisce fino a
scomparire e non può essere dichiarato l’addebito della separazione a carico del
coniuge che abbia iniziato un nuovo rapporto, che non si ponga come causa, ma
come conseguenza successiva della crisi matrimoniale315.
314 E. QUADRI, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione, in Dir. Fam.,
1994, p. 228. 315 Cass. pen., sez. VI, 26 gennaio 1998, n. 282, in Ced Cass., rv. 210838.
280
Attualmente, comunque, la situazione non è migliorata: sebbene la normativa
contenga strumenti per ridurre il tempo di durata dei processi di separazione e
divorzio, tali soggetti continuano ad alimentare la consistenza numerica delle
famiglie di fatto. Un’ulteriore agevolazione dovrebbe essere garantita dal disegno di
legge 29 marzo 2012, n. 749, sul cosiddetto «divorzio breve», approvato dalla
Commissione Giustizia della Camera ed passato alla fase di discussione in aula (che
probabilmente è stata sospesa o posticipata in seguito alle note vicissitudini
politiche). Il provvedimento prevede una sensibile riduzione dei tempi di durata
della separazione necessaria per ottenere il divorzio, che scende da tre anni ad un
solo anno, e a due anni nel caso di presenza di figli minorenni.
Paradossalmente, il divorzio, che avrebbe dovuto comportare una maggior
certezza delle situazioni giuridiche, ha determinato invece un aumento della
mobilità delle situazioni familiari. L’attuale contesto dovrebbe indurre il legislatore
ad «approntare strumenti giuridici idonei a disciplinare la situazione, così come
accade in tutti i casi in cui la legge si trova dinanzi a fenomeni nuovi oppure a
fenomeni antichi che assumano nuovi contenuti»316.
Per il momento le famiglie illegittime trovano, nella disciplina codicistica, penale
e in altre leggi speciali, qualche forma di tutela in quelle norme isolate che il
legislatore ha progressivamente aggiornato, ricomprendendo anche le situazioni di
fatto in esame.
a) Codice civile. Il dibattito relativo al riconoscimento delle famiglie di fatto
nell’ordinamento italiano non può che partire dall’esame del secondo comma
dell’art. 317-bis cod. civ.
Cod. Civ., art. 317-bis. Esercizio della potestà.
Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui.
Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l'esercizio della potestà spetta
316 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 354.
281
congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni
dell'articolo 316. Se i genitori non convivono l'esercizio della potestà spetta al genitore
col quale il figlio convive ovvero, se non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto
il riconoscimento. Il giudice, nell'esclusivo interesse del figlio, può disporre
diversamente; può anche escludere dall'esercizio della potestà entrambi i genitori,
provvedendo alla nomina di un tutore.
Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di vigilare sull'istruzione,
sull'educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore.
La norma, dettata allo scopo di disciplinare l’esercizio della potestà in tema di
filiazione naturale, afferma che, se il figlio è riconosciuto da entrambi i genitori, la
potestà spetta congiuntamente ad entrambi, qualora siano conviventi. In tal caso, la
legge stabilisce che si applichi quanto previsto dall’art. 316, vale a dire le
disposizioni relative all’esercizio della potestà sui figli in costanza di matrimonio.
La famiglia di fatto, dunque, non solo viene riconosciuta in sé come entità lecita
ed ammissibile, ma viene parificata alla famiglia fondata sul matrimonio dal punto
di vista dell’esercizio della potestà genitoriale. Sempre al secondo comma, l’articolo
prevede l’applicazione di regole diverse, relative al rapporto genitori-figli, nel caso
in cui «i genitori non convivono» e, quindi, se non si è stata posta in essere una
famiglia di fatto.
L’attuale posizione del diritto positivo sembra chiara: «non può dubitarsi della
liceità ed ammissibilità di un istituto, che la legge prevede esplicitamente e cui
dichiara applicabili, sia pure in relazione ad una specifica funzione, le disposizioni
previste per la famiglia legittima»317. D’altra parte si deve trarre la conclusione che
non è possibile estendere analogicamente la normativa dettata per la famiglia
fondata sul matrimonio se non vi è un’espressa previsione in tal senso.
Continuando a vagliare le norme codicistiche, non sembra possibile richiamare
317 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 366.
282
gli artt. 119 (Interdizione), 120 (Incapacità di intendere e volere), 122 (Violenza ed
errore) e 123 (Simulazione) cod. civ. che attribuiscono effetti al matrimonio invalido.
In questi articoli la convivenza assume rilievo come fonte di situazioni
giuridicamente rilevanti, ma lo scopo delle norme è diretto a tutelare il matrimonio
legittimo, non creare situazione differenti da esso. In un certo senso, queste
disposizioni sarebbero addirittura superflue nel regolamentare le famiglie di fatto,
proprio perché non si costituisce un atto giuridico e non sono necessari i formalismi
propri dell’ambito contrattuale.
Assume rilievo, invece, l’art. 74 cod. civ., sul quale è opportuno soffermarsi a
causa della recentissima modifica. Il vecchio testo identificava la parentela, senza
alcuna altra aggiunta qualificativa o riduttiva, come «il vincolo tra le persone che
discendono da uno stesso stipite»: i figli naturali trovavano un riconoscimento
giuridico in via retta, tanto da affermare che si «assegna alla parentela naturale la
medesima operatività di quella legittima»318. La modifica dell’articolo a seguito della
legge 10 dicembre 2012, n. 219, allarga le prospettive:
Cod. Civ., art. 74. Parentela.
La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso
in cui la filiazione è avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta
al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge
nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti.
Si estende così la parentela anche al resto del parentado e non solo ai genitori che
abbiano generato il figlio fuori dal matrimonio. Alcuni giuristi non sono soddisfatti
della nuova formulazione perché si sarebbe potuto puntualizzare che la parentela
non è solo un vincolo da cui scaturiscono diritti e doveri, perché così stabilito
giuridicamente, ma è un complesso di «rapporti personali e patrimoniali», locuzione
318 F. PROSPERI, L’incerto incedere della Corte Costituzionale nei confronti della parentela naturale, in
Rass. Dir. Civ., 1991, p. 447.
283
usata nell’art. 39, legge 31 maggio 1995, n. 218 sulla Riforma del sistema italiano di
diritto internazionale privato.
L. 218/1995, art. 39. Rapporti fra adottato e famiglia adottiva.
I rapporti personali e patrimoniali fra l'adottato e l'adottante o gli adottanti ed i parenti
di questi sono regolati dal diritto nazionale dell'adottante o degli adottanti se comune o,
in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti
ovvero da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente
localizzata.
Proseguendo, l’art. 148 del codice disciplina che, in caso di insufficienza
economica dei genitori, gli altri ascendenti sono tenuti a fornire mezzi adeguati:
nella norma viene specificato che gli ascendenti possono essere indistintamente
legittimi o naturali.
Cod. Civ., art. 148. Concorso negli oneri.
I coniugi devono adempiere l'obbligazione prevista nell'articolo precedente in
proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o
casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti legittimi o
naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari
affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
La legge 219/2012 ha modificato anche l’art. 258 in tema di filiazione naturale:
sostituendo il periodo «salvo i casi previsti dalla legge», che comunque lasciava la
possibilità al riconoscimento di creare rapporti più vasti che non quelli tra genitori e
figli, attualmente il legame di parentela, che è effetto del riconoscimento genitoriale,
viene esteso anche al resto del parentado, in accordo con l’art. 74 cod. civ.
Cod. Civ., art. 258. Effetti del riconoscimento
Il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai
parenti di esso.
284
Rimanendo nell’ambito della filiazione naturale, anche nell’art. 261 vi è traccia di
una implicita regolamentazione a favore delle famiglie di fatto
Cod. Civ., art. 261. Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento.
Il riconoscimento comporta da parte del genitore l'assunzione di tutti i doveri e di tutti i
diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi.
La norma, dichiarando che il riconoscimento dei figli naturali comporta da parte
dei genitori l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti esistenti per i figli
legittimi, non può non ricomprendere tra essi il diritto di crescere in una famiglia,
legittima o naturale che sia, in accordo con l’art. 1 della legge 184/1983.
L’articolo successivo, prevedendo che il figlio naturale riconosciuto da entrambi i
genitori assuma il cognome del padre, ulteriormente dimostra, per il significato che
l’assunzione del cognome ha nella coscienza sociale, di voler assicurare il suo
inserimento in una famiglia, sia pure intesa in senso ampio.
Cod. Civ., art. 262. Cognome del figlio.
Il figlio naturale assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il
riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio
naturale assume il cognome del padre.
Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente
al riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del
padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre.
Nel caso di minore età del figlio, il giudice decide circa l'assunzione del cognome del
padre.
Spostando l’attenzione al titolo XIII sugli alimenti, l’art. 433 ricalca l’art. 148
precedentemente richiamato.
Cod. Civ., art. 433. Persone obbligate.
All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine:
1) il coniuge;
285
2) i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti
prossimi anche naturali;
3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti;
4) i generi e le nuore;
5) il suocero e la suocera;
6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli
unilaterali.
I punti 2 e 3, obbligando i discendenti e gli ascendenti naturali a prestare gli
alimenti, riconoscono vincoli riconducibili ad una famiglia non legittima.
Una disciplina estesa alla famiglia di fatto si rinviene in tema successorio, dove
all’art. 467, si applica l’istituto della rappresentazione anche ai discendenti naturali,
Cod., Civ., art. 467. Nozione.
La rappresentazione fa subentrare i discendenti legittimi o naturali nel luogo e nel
grado del loro ascendente, in tutti i casi in cui questi non può o non vuole accettare
l'eredità o il legato
e sulla divisione ereditaria, si può citare l’art. 737 che obbliga i discendenti naturali
alla collazione.
Cod. Civ., art. 737. Soggetti tenuti alla collazione.
I figli legittimi e naturali e i loro discendenti legittimi e naturali ed il coniuge che
concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal
defunto per donazione direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia
da ciò dispensati.
b) Legge 219/2012. A seguito della recentissima legge 10 dicembre 2012, n. 219,
dopo un lungo e travagliato iter legislativo, viene positivizzato il principio
dell’unificazione dello stato di figlio, eliminando ogni riferimento all’aggettivo
«naturale» per i figli nati fuori dal matrimonio, che era in evidente contrasto col
dettato costituzionale che definisce «società naturale» la famiglia fondata sul
286
matrimonio (art. 29 Cost.).
La legge ha novellato alcuni articoli del codice civile, oltre a quelli già citati: si
elimina la sconveniente locuzione «figli incestuosi» (art. 251) permettendo il
riconoscimendo dei figli generati da parenti o affini è sempre possibile, previa
autorizzazione del giudice; la vecchia rubrica del Titolo IX del Libro primo «Della
postestà dei genitori» viene sostituita con «Della potestà dei genitori e dei diritti e
doveri del figlio»; il nuovo ed esplicativo testo dell’art. 315 rubricato «Stato
giuridico della filiazione» ora recita: «Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico»; è
stato introdotto l’art. 315-bis «Diritti e doveri del figlio» che, ricalcando l’art. 147
«Doveri verso i figli», antepone l’educazione all’istruzione, aggiunge l’assistenza
morale e parla di «inclinazioni naturali» al plurale.
Nelle disposizioni dell’art. 2 della medesima legge, fondamentale è la lettera p a
proposito della «previsione della legittimazione degli ascendenti a far valere il
diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minori», anche se forse risulta
contraddittorio parlare in maniera formale di ascendenti e non di nonni nel
rapporto con i nipoti. Marzario319 afferma che «questa previsione e le altre in cui si
tutelano i cosiddetti «rapporti significativi» confermano che «non di solo mamma e
papà vivono i figli» e che i cosiddetti genitori della «psycologic generation» (che
danno importanza quasi esclusivamente alla sfera affettiva) si devono liberare da
ansie e da paure che fanno scorgere il pedofilo dietro ogni angolo e far relazionare il
figlio con altre figure adulte» come afferma il pedagogista Marco Tuggia320».
La legge 219/2012 ha modificato anche l’art. 35, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 che
tutelano l’identità e il nome del fanciullo come stabilita nell’art. 8 della Convenzione
Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Non si dice più nome «composto» ma
«costituito», non più «elementi onomastici» ma «nomi» e si fissa che «nel caso siano
319 M. MARZARIO, Finalmente il diritto ad essere figli?, Articolo del 5 febbraio 2013, Altalex,
(http://www.altalex.com/index.php?idstr=39&idnot=61403#_ftn2) consultato il 4 marzo 2013. 320 M. TUGGIA, Non di solo mamma e papà vivono i figli, Armando Editore, Roma, 2009.
287
imposti due o più nomi separati da virgola» «deve essere riportato solo il primo dei
nomi». Tutto ciò si allinea alla locuzione «elementi costitutivi della sua identità» che
si legge nella Convenzione Internazionale e di cui dovrebbero tener conto i genitori
nella scelta del nome da attribuire al figlio321.
Marzario fa notare che nella legge si afferma per due volte il diritto alla propria
famiglia e ai rapporti significativi, nonché la locuzione «esercizio del diritto»,
rimarcato anche nella Convenzione Internazionale e nella Convenzione europea
sull’esercizio dei minori (n. 160, Strasburgo 25 gennaio 1996). «Proprio attraverso i
diritti relazionali e l’esercizio dei diritti, che rientrano nei cosiddetti nuovi diritti’, il
figlio sperimenta il suo ruolo e cresce come persona. «Occorre preparare appieno il
fanciullo ad avere una vita individuale nella società», «preparare il fanciullo ad
assumere le responsabilità della vita in una società libera» (dalla Premessa e dall’art.
29 lettera d della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia)»322.
Marzario afferma ancora che «per tre volte è affermato il principio di
unificazione (o unicità) dello stato di figlio, che oltre alla sua valenza giuridica vale
come monito ai genitori che devono considerare e trattare il figlio come tale, sempre
e comunque, anche nei casi di separazione/divorzio, senza incuria né ipercura».
Figlio, che etimologicamente, ha la stessa origine di «femmina» e «feto», significa
«l’allattato», quindi colui che ha bisogno di essere nutrito, degli strumenti per
crescere e vivere, ma questi strumenti gli devono essere forniti nella giusta
misura»323.
c) Legislazione anagrafica. Abbandonando il codice civile, anche in materia di
anagrafe si parla di famiglie di fatto. L’art. 2 d.p.r. 31 gennaio 1958, n. 136 recita:
D.p.r. 136/1958, art. 2. Famiglia anagrafica: Agli effetti anagrafici per famiglia
321 M. MARZARIO, Finalmente il diritto ad essere figli? cit. 322 M. MARZARIO, Finalmente il diritto ad essere figli? cit. 323 M. MARZARIO, Finalmente il diritto ad essere figli? cit.
288
s'intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela,
affinita', adozione, affiliazione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora
abituale nello stesso Comune, che normalmente provvedono al soddisfacimento dei
loro bisogno mediante la messa in comune di tutto o parte del reddito di lavoro o
patrimoniale da esse percepito.
L’art. 2 della legge 15 maggio 1997, n. 127, prevede invece, al comma 9, che nei
documenti di riconoscimento non è necessaria indicazione o attestazione dello stato
civile, salva specifica istanza del richiedente.
d) Leggi speciali. Spostando l’analisi verso le leggi speciali, un riconoscimento
delle convivenze, unito alla regolamentazione di un aspetto relativo alla patologia
di queste, si rinviene nella legge 4 aprile 2001, n. 154,
«Misure contro la violenza nelle relazioni familiare».
Il legislatore riconosce l’identità di situazione tra famiglia matrimoniali e non,
applicando ad entrambe il medesimo istituto disciplinato agli artt. 342-bis e ter. La
novella del 2001 ha inserito nel codice civile un nuovo titolo denominato «Ordini di
protezione contro gli abusi familiari», dove viene prevista la fattispecie al primo
articolo e la tutela al secondo.
Cod. civ., Art. 342-bis. Ordini di protezione contro gli abusi familiari
Quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio
all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, il giudice,
su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui
all'articolo 342-ter.
Il testo è chiaro nel riferirsi anche al convivente more uxorio, il quale raggiunge di
conseguenza la parificazione integrale con il coniuge anche in ambito civile,
parificazione è già prevista, sotto numerosi aspetti, nel diritto penale (282-bis c.p.,
291 comma 3 c.p.).
Come già precedentemente accennato, anche la legge sulle adozioni contiene
289
indiretti riconoscimenti delle unioni non matrimoniali e, a volte, attribuisce effetti
alla convivenza. La legge ha affermato che il minore ha diritto di crescere ed essere
educato nella propria famiglia, adottando questo concetto, senza discriminazioni,
sia per le famiglie matrimoniali, sia per quelle di fatto.
L’art. 1 della legge 4 marzo 1983, n. 184 (così come modificato dalla legge 28
marzo 2001, n. 149) recita:
L. 184/1993, art. 1.: Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito
della propria famiglia.
2. Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potesta' genitoriale
non possono essere di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia.
A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto.
La Cassazione, infatti, afferma che «l’art. 1 della legge 4 marzo 1983, n. 184, nello
stabilire che il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia,
individua, con il termine famiglia, qualsiasi formazione sociale, espressamente
tutelata dall’art. 2 Cost., tutte le volte che l’unione libera dei genitori assicuri
l’adempimento delle funzioni di mantenimento, educazione ed istruzione della
prole in forme più responsabili e più efficaci di quante ne potrebbe garantire un
adempimento dei doveri dei genitori fuori di qualsiasi struttura di tipo familiare»324.
Inoltre, la legge consente di computare anche un eventuale tempo di convivenza
pre-matrimoniale nel periodo di tre anni di coabitazione richiesto alle coppie che
desiderino adottare.
L. 149/2001, art. 6, c. 4,: Il requisito della stabilita' del rapporto di cui al comma 1 puo'
ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e
continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il
tribunale per i minorenni accerti la continuita' e la stabilita' della convivenza, avuto
324 Cass., 7 marzo 1992, n. 2766, in Giust. Civ., 1993, I, p. 209.
290
riguardo a tutte le circostanze del caso concreto.
Sebbene la legge 149 non abbia modificato il requisito dell’unione matrimoniale
valido ai fini dell’adozione, ha fornito un argomento contro la tesi dell’irrilevanza
giuridica della convivenza, considerata la pertinenza nel computo del triennio.
e) Diritto penale. Ai sensi dell’art. 199 del codice di procedura penale, i prossimi
congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre, a meno che non abbiano
presentato denuncia o querela o siano stati essi stessi o un loro prossimo congiunto
parte offesa dal reato.
Cod. Proc. Pen., art. 199. Facoltà di astensione dei prossimi congiunti
I prossimi congiunti dell'imputato non sono obbligati a deporre. Devono tuttavia
deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro
prossimo congiunto sono offesi dal reato.
Nel testo l’espressione «prossimi congiunti» ricorre sia per indicare le persone
che possono astenersi dal deporre, sia per stabilire, come eccezione al principio,
quando queste persone sono invece obbligate, perché il reato è stato commesso in
danno di un familiare. La norma nulla dice riguardo alla qualificazione dei prossimi
congiunti, ma, richiamando implicitamente altre disposizioni del codice, allarga
questo concetto anche all’adozione, separazione annullamento di matrimonio e
divorzio e ai casi di coniugio di fatto.
Ai sensi dell’art. 681 c.p.p., il convivente è tra le persone legittimate a presentare
domanda di grazia al Presidente della Repubblica:
Cod. Proc. Pen., art. 681. Provvedimenti relativi alla grazia
La domanda di grazia, diretta al presidente della Repubblica, è sottoscritta dal
condannato o da un suo prossimo congiunto o dal convivente o dal tutore o dal curatore
ovvero da un avvocato o procuratore legale ed è presentata al ministro di grazia e
giustizia.
291
4. Lacune legislative e soluzioni giurisprudenziali
Nella trattazione della legge 219/2012, Marzario conclude il proprio articolo
facendo notare che in tema di filiazione l’Italia non prevede uno statuto normativo
della persona minore d’età, come invece esiste in altri ordinamenti: in Brasile la
legge 13 luglio 1990, n. 8069 “Statuto del bambino e dell’adolescente” (Estatuto da
crianca e do adolescente) è definita un modello internazionale per la tutela dei diritti
dei minori. L’innovativa legge italiana, pertanto, contribuisce all’affermazione dello
«statuto ontologico» del minore, ma non si spinge a creare un regolamento
onnicomprensivo; guardando con ottimismo, la recente 219/2012 può essere
considerata un auspicio all’affermazione di una vera «cultura minorile»325.
In tema di rapporti patrimoniali nella famiglia di fatto, invece, la situazione è
enormemente più retrograda. Mancando una disciplina apposita, i due soggetti
conviventi non hanno alcun tipo di legame giuridico, pertanto dal punto di vista del
diritto sono considerati tra di loro dei perfetti estranei.
Mentre il matrimonio, in assenza di un’esplicita dichiarazione dei coniugi,
prevede automaticamente il regime di comunione dei beni tra gli stessi, ex art. 177 e
seguenti del codice civile, la convivenza non determina alcun effetto di tale tipo: i
conviventi restano padroni ciascuno dei propri beni e dei propri acquisti, in regime
di assoluta separazione. Tra le parti non si determina un diritto reciproco al
mantenimento o un obbligo a prestare alimenti né durante, né cessata la convivenza.
Se uno dei conviventi muore, l’altro non ha diritto alcuno in relazione all’eredità,
eccezion fatta per la successione nel contratto di locazione della casa.
Un’importante apertura si riscontra nella sentenza della Corte Costituzionale che
dichiarò l’illegittimità della normativa sul cumulo dei redditi familiari: questa
decisione viene considerata come una delle forme di riconoscimento, per lo meno
325 M. MARZARIO, Finalmente il diritto ad essere figli? cit.
292
indiretto, della famiglia di fatto «come realtà sociale dalle naturali implicazioni
patrimoniali»326.
Le attribuzioni spontanee di un convivente nei confronti dell’altro, in cui si
ricomprendono anche le elargizioni di denaro per il vivere comune delle rispettive
entrate, viene considerato dalla giurisprudenza come adempimento di un dovere
morale o sociale e, pertanto non ripetibile, in accordo con l’art. 2034 del codice civile.
Cod. Civ., art. 2034. Obbligazioni naturali:
Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione
di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace.
I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione
ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri
effetti.
Nel tema è intervenuta anche la Cassazione affermando che «la prestazione
patrimoniale diretta ad eliminare il danno economico risentito dalla donna per la
sua relazione more uxorio, si configura normalmente come l’adempimento di
un’obbligazione naturale piuttosto che come una donazione remuneratoria»327.
Attualmente, la giurisprudenza si conforma alla coscienza comune che
spontaneamente estende ai conviventi i doveri previsti dall’art. 143 cod. civ., che il
legislatore aveva contemplato esclusivamente per il matrimonio legittimo, ovvero,
relativamente all’ambito patrimoniale, «l’assistenza materiale e la contribuzione tra i
coniugi».
Nella prassi, il giudice dovrà accertare l’applicabilità dell’art. 2034 cod. civ.,
dovrà verficare cioè l’esistenza di un dovere morale o sociale «in relazione alla
valutazione corrente nella società attuale» e dovrà valutare se questo dovere sia
326 G. SERVETTI, Brevi appunti sullo stato della giurisprudenza in tema di c.d. famiglia di fatto, in
Dir. Fam. Pers., 1989, p. 877. 327 Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro It., 1969, I, p. 1512.
293
stato compiuto «con una prestazione che presenti un carattere di proporzionalità ed
adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso»328. Nelle decisioni il giudice
gode di un certo grado di discrezionalità, poiché il parametro di riferimento è
riferito a ciò che la coscienza comune, nel tempo e nel luogo considerati ed in
relazione alla situazione oggettiva delle parti, ritenga doveroso e conforme agli usi.
Nel caso di evidente sproporzione, non sembra escludersi l’esercizio dell’azione
di ingiustificato arricchimento, come afferma la Cassazione: «è […] possibile
configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio”
nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal
mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui
contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti
della famiglia di fatto – e travalicanti i limini di proporzionalità e di adeguatezza»329.
Secondo De Filippis, se si può escludere l’applicabilità automatica del regime di
comunione legale per le convivenze, non sembra che possano escludersi altrettanto
situazioni di comunione ordinaria, ad esempio in ordine ai mobili di casa, che
dovranno essere regolate dalle disposizioni del titolo VII del libro terzo del codice,
«Della comunione»330.
È evidente che, nell’ambito della convivenza, il ricorso preventivo a schemi
dell’autonomia privata deve considerarsi la miglior forma di tutela delle parti più
deboli, agevolando notevolmente l’attività dell’interprete che, in questo caso, dovrà
svolgersi all’interno della regolamentazione privata.
Dagli anni trenta, in cui qualunque contratto, la cui causa potesse essere
ricollegata ad unioni extramatrimoniali, era considerato nullo, si è passati
all’odierna giurisprudenza331 che nega qualsiasi illiceità alla convivenza, sia in
328 Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007, in Giur. It., 1981, I, 1, p. 1537. 329 Cass., 15 maggio 2009, n. 11330. 330 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 386. 331 Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Nuova Giur. civ. comm., 1994, I, p. 339.
294
relazione alla sfera del buon costume, sia a quella dell’ordine pubblico, permettendo
così la costituzione di convenzioni private sulla falsa riga di quelle pre-
matrimoniali, realizzando così un analogo regime.
La famiglia di fatto, così come la famiglia matrimoniale, può incontrare una crisi
irreversibile, comportando la cessazione di fatto dell’unione ed eventualmente la
necessità di risolvere problemi, in via consensuale o giudiziaria, a seconda della
struttura relazionale posta in essere.
Se l’unione non prevedeva la coabitazione, la condivisione di beni e la presenza
di figli, lo scioglimento è determinato da una mera decisione di fatto e non implica
alcuna questione giuridicamente apprezzabile. Diversamente avviene per la coppia
che aveva beni comuni, svolgeva un’attività lavorativa oppure abitava nel
medesimo immobile. Un elemento scriminante tra le varie situazioni è la presenza
di figli: ove vi sia la prole, le decisioni del giudice ricalcano la disciplina della
separazione coniugale, poiché le questioni da risolvere sono, in buona parte, le
medesime. Pur non essendoci una normativa in merito, il giudice in sostanza opera
una fictio iuris, una finzione giuridica al fine di risolvere la disputa secondo il diritto
matrimoniale, anche se le due parti non sono fra loro sposate.
Per quanto concerne i rapporti patrimoniali, la convivenza che non prevede
alcun tipo di accorto pattizio tra le parti segue la disciplina generale del codice
civile: i beni acquistati dai conviventi nel corso del periodo in cui hanno convissuto,
restano di proprietà dell’acquirente. Dove, però, non sia possibile provare chi dei
due si identifichi come tale, per la naturale commistione di atti e sfere di azione che
la convivenza determina, essi devono considerarsi comuni, con conseguente
applicazione delle regole della comunione ordinaria.
Non si applicano quindi le norme relative alla comunione legale dei beni tra
coniugi, ma solo di applicare le norme codicistiche ravvisabili nel caso in cui un
bene appartenga in comune a più persone.
295
Se la prova della proprietà dei beni appartiene alla disciplina matrimoniale, a
maggior ragione vale per le famiglie di fatto. In assenza di tale prova, i beni non
possono che considerarsi comuni.
Cod. Civ., art. 219. Prova della proprietà dei beni: Il coniuge può provare con ogni
mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene.
I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà
indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.
Sulle obbligazioni naturali tra conviventi risulta ormai assodato che non è
possibile la richiesta di rimborsi o restituzioni per gli incrementi patrimoniali
verificatesi in favore di una parte nel periodo in cui i due hanno convissuto332.
«Le obbligazioni naturali, infatti, si fondano sullo spontaneo adempimento di
doveri morali o sociali, i quali, nelle specie, trovano ragione nella reciprocità dei
comportamenti, nella solidarietà che lega i conviventi nel momento in cui, sia pure
senza regolamentazione giuridica o previsione di indissolubilità, condividono un
progetto di vita, e nella considerazione pubblica (non più negativa come in passato)
della loro unione»333.
Per quanto riguarda il conto corrente bancario intestato ai conviventi, un altro
aspetto patrimoniale piuttosto comune, si applica l’articolo 1854 del codice civile,
secondo il quale, nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, gli intestatari
sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto.
Cod. Civ., art. 1854. Conto corrente intestato a più persone
Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di
compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o
debitori in solido dei saldi del conto.
332 App. Firenze, 12 febbraio 1991, in Dir. Fam. e pers., 1992, p. 633. 333 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 407.
296
L’art. 1298 del medesimo codice precisa che, nei rapporti interni, le parti di ciascuno
si presumono uguali, se non risulta diversamente.
Cod. Civ., art. 1298. Rapporti interni tra debitori o creditori solidali
Nei rapporti interni l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi
creditori, salvo che sia stata contratta nell'interesse esclusivo di alcuno di essi.
Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente.
La stessa disciplina si applica anche in caso di una coppia di fatto in crisi che
possegga un conto bancario co-intestato. La presunzione di parità delle quote non è
comunque assoluta, poiché è possibile superarla fornendo prova contraria.
In materia è intervenuta anche la giurisprudenza di merito, affermando che la
prova non può consistere nel fatto che solo uno dei conviventi era percettore di
reddito: «nell’ipotesi di contestazione d’un conto bancario a due conviventi more
uxorio, alla cessazione della convivenza le somme a credito nel conto devono
considerarsi appartenenti in parti uguali a ciascuno dei conviventi, ancorché sia
pacifico in causa che soltanto l’uomo, col suo lavoro di pubblico dipendente, aveva
originariamente la proprietà delle somme via via depositate, mentre la donna,
durante la convivenza, s’era completamente dedicata alla famiglia di fatto, come
casalinga, giacché le somme risparmiate e come sopra depositate sul conto
contestato devono considerarsi destinate alle spese riguardanti la famiglia stessa,
secondo gli usi»334.
La giurisprudenza, al pari delle unioni matrimoniali, non intende svilire
l’importanza del lavoro casalingo e del contributo fornito all’andamento domestico
apportato da convivente non percepiente reddito proprio.
Se la soluzione risulta simile alla disciplina matrimoniale, in realtà si tratta di
conseguenze dei principi generali elaborati dalla giurisprudenza in materia di
334 Trib. Bolzano, 20 gennaio 2000, in Giur. Merito, 2000, p. 818.
297
famiglia: una volta individuata l’importanza e la rilevanza economica del lavoro
domestico, non è possibile ignorarle nelle fattispecie relative alla convivenza.
La giurisprudenza non sempre però riesce a sopperire alle lacune legislative
italiane. Allo stato attuale, la convivenza stabile tra due persone:
a) non determina alcun regime di comunione degli acquisti;
b) non dà alcun diritto reciproco al mantenimento;
c) non dà diritto alla pensione di reversibilità;
d) non determina alcun diritto ereditario;
e) può cessare in ogni momento, senza formalità e senza che sorgano diritti
patrimoniali;
f) non consente l’adozione di minori (il periodo di convivenza può essere
considerato, ai fini dell’adozione, solo se si trasforma in matrimonio);
g) non dà diritto di assistere il partner, qualora si trovi ricoverato in ospedale
(per tale adempimento, si richiede il consenso dei parenti prossimi).
La situazione italiana risulta anacronistica, non solo rispetto agli ordinamenti
europei che già da una decina d’anni si sono conformati alle nuove esigenze e
sensibilità dei cittadini, ma anche perché il fenomeno delle famiglie di fatto non
risulta assolutamente marginale.
5. La situazione negli ordinamenti europei e prospettive italiane
La famiglia di fatto, come si è visto, trova dunque un riconoscimento giuridico
nell’ordinamento italiano, ma l’intervento del legislatore, nell’ammodernare i dettati
normativi, si è attuato in modo eterogeneo: finora, non si è colta l’intenzione di
riformare l’intera materia familiare, prevedendo un istituto che disciplini
uniformemente tali situazioni coniugali di fatto. L’Italia, infatti, a differenza di altri
298
stati europei, non ha una regolamentazione delle convivenze non matrimoniali.
a) Francia. Dal 1999 esiste il PACS (Du pacte civil de solidarité et du concubinage),
nuovo istituto inserito nel codice civile. Il Patto viene stipulato mediante una
dichiarazione, con allegata convenzione, che entrambi i contraenti sottoscrivono e
presentano alla cancelleria del Tribunale del luogo di residenza. La convivenza
viene espressamente definita contratto: la legge afferma che può essere stipulata «da
due persone fisiche maggiorenni, di sesso diverso o del medesimo sesso», secondo
la Legge 99-994 del 15 novembre 1999.
De Filippis afferma che «il problema di cosa sia una coppia di fatto è stato risolto
nel modo più semplice, rinunciando a presunzioni, prove indirette, valorizzazioni di
situazioni anagrafiche ed interpretazioni di volontà. È coppia convivente quella che
dichiara formalmente, dinanzi all’autorità preposta, di voler essere tale, assumento i
relativi diritti ed accolandosi gli oneri consenguenti»335.
Il patto realizza una situazione di solidarietà esclusiva tra due persone, che si
assumono l’obbligo di prestarsi reciprocamente aiuto morale e materiale, potendo
scegliere anche un regime della comunione dei beni analogo a quello previsto per il
matrimonio. Lo scioglimento del patto non richiede alcuna formalità diversa da una
dichiarazione congiunta o unilaterale, ma anzi, può cessare tacitamente anche per
susseguente matrimonio di uno dei due contraenti con un terzo.
La regolamentazione dei Patti comprende norme di carattere fiscale, agevolazioni
per la previdenza sociale, sconti sulla tassa di successione, disposizioni per il
mantenimento dell’affitto in caso di morte di uno dei due partner e congedi
lavorativi. La legge francese prevede in un successivo capitolo del medesimo Titolo,
l’istituto del concubinato, definito come mera unione di fatto.
b) Germania. L’istituto della convivenza registrata è stato introdotto con la legge
del 16 febbraio 2001 (Gesetz über die Eingetragene Lebenspartnerschaft), dove essa, per
335 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 355.
299
molti aspetti, viene equiparata al matrimonio, tanto che i conviventi possono
scegliere anche un cognome comune. È necessaria una dichiarazione congiunta,
compiuta dinanzi all’autorità competente, che comporta l’obbligo di reciproca
assistenza e sostegno. Sebbene non trovi applicazione la disciplina matrimoniale in
tema di filiazione ed adozione, la convivenza attribuisce alle parti diritti successori,
diritti in tema di reversibilità della pensione ed applicazione agevolate per la
cittadinanza e la prosecuzione del contratto di affitto.
c) Regno Unito. Nel paese anglosassone, così come in negli altri paesi del
Common Law, da tempo sono riconosciute le coabitazioni non registrate, alle quali
sono assicurati diritti e facoltà, ad esempio in materia di assicurazione e
immigrazione. Dal 2005 è stata emanata un’apposita normativa per le unioni dello
stesso sesso: il Civil Parnership Act.
d) Belgio. Oltre al fatto che il matrimonio non richiede la diversità di sesso tra gli
sposi, la legge sulla convivenza, anch’essa applicabile sia a coppie eterosessuali, sia
omosessuali, è in vigore dal 2000. Le disposizioni normative richiamano alcuni
articoli del codice civile riguardanti il matrimonio, ad esempio in tema di
disponibilità dell’alloggio comune e di annullabilità degli atti. I conviventi possono
regolare le modalità della loro convivenza dinanzi ad un notaio.
e) Altri stati. Normative specifiche per le coppie di fatto, in varie forme ma
sostanzialmente simili le une alle altre, esistono anche in Spagna, Svezia, Olanda,
Portogallo, Repubblica Ceca e Ungheria. La Russia e i Paesi dell’est, quali Polonia,
Romania, Ucraina, Estonia, Lettonia e Lituania, non presentano alcun istituto che
regolamenti le famiglie non matrimoniali.
Il fatto che la famiglia di fatto sia ampiamente riconosciuta in ambito europeo,
non significa conseguentemente che essa sia stata parificata alla famiglia
matrimoniale. La legislazione comunitaria, nel rispetto delle posizioni dei singoli
Stati, propone o raccomanda, ma certamente non impone, l’equiparazione tra
coniuge e convivente, come emerge dal testo della Direttiva 2003/86/CE del 22
300
settembre 2003, relativa al ricongiungimento familiare (G.U.L. 251 del 3 ottobre
2003): «Gli stati membri possono, per via legislativa o regolamentare, autorizzare
l’ingresso e il soggiorno […] del partner non coniugato cittadino di un paese terzo
che abbia una relazione stabile duratura debitamente comprovata con il
soggiornante […]»; ancora «gli stati membri possono decidere, relativamente al
ricongiungimento familiare, di riservare ai partner legati da una relazione
formalmente registrata lo stesso trattamento previsto per i coniugi».
La normativa sovranazionale è ispirata al principio di libertà e non
discriminazione. L’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo afferma
che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare». La
giurisprudenza della Corte europea ha precisato che l’art. 8 non distingue tra
famiglia legittima e famiglia naturale ed anzi considera la vita familiare dell’una e
dell’altra, ai fini della tutela della persona, allo stesso modo»336.
Perché vi sia una famiglia tutelabile è pertanto necessario e sufficiente che i
rapporti affettivi tra le persone creino una stabile comunità di vita: appare dunque
condivisibile l’opinione che, come risulta dalla giurisprudenza degli organi della
Convenzione, «il matrimonio come atto giuridico non è il solo modo per creare una
vita familiare, meritevole della protezione accordata dall’art. 8»337.
Tuttavia, anche in ambito europeo viene esclusa l’assoluta parificazione tra le
due forme di famiglia, a meno che non siano in gioco, come nel caso della filiazione,
gli interessi delle parti più deboli. Ad ogni modo, la dinamica del rapporto tra
famiglia legittima e naturale sembra più influenzata dall’orientamento della
pubblica opinione, rispecchiando una tematica culturale piuttosto che normativo: «il
diritto finisce per dare rilievo e recepire ciò che si afferma nella realtà fattuale e nella
336 Publications de la Cour européenne des droits de l’homme, série A, vol. XXXI, Affarie
Marckx. 337 P. A. PILLITU, La tutela della famiglia naturale nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in
Riv. dir. internaz., 1989, p. 783.
301
mentalità delle persone che la vivono»338.
Problematica è la situazione del nostro Paese, in cui il legislatore non riesce o non
vuole recepire nel diritto positivo regolamentazione che è ormai necesssaria nella
moderna società italiana. Ma se il diritto positivo è strumento con cui regolare i
rapporti tra i consociati, il legislatore sta disattendendo da tempo le aspettative della
coscienza comune e, per quanto la giurisprudenza stia sopperendo parzialmente
alle lacune normative, alla lunga questa mancanza di disciplina, unita alla casistica
sempre più numerosa, comporterà incertezza ed insicurezza non solo tra coloro che
sceglieranno la convivenza, invece del matrimonio, ma nell’intero sistema familiare
e sociale italiano.
Sembra quindi evidente la necessità di una legislazione che riconosca il
fenomeno delle coppie di fatto, che almeno riguardi solo alcuni degli aspetti sopra
indicati, senza contenere un’estensione generalizzata della disciplina prevista per il
matrimonio. Tale disciplina, secondo De Filippis, «potrebbe affermare il principio
del riconoscimento della famiglia di fatto, come disposizione «quadro»,
prescindendo completamente dagli effetti e rimettendo gli stessi alla successiva
elaborazione legislativa. In tal modo, stabilito il principio in via generale, singole
disposizioni di legge, secondo la sensibilità del momento, potrebbero statuire se
alcuni effetti, ed in che modo, debbano essere conseguenza dell’esistenza della
famiglia»339.
Non sembra attuabile lasciare ai privati la stipula e la formalizzazione di accordi
per regolamentare, in via assolutamente autonoma, i rapporti durante la convivenza
o dopo la sua cessazione: pur apparendo ciò valido in via di principio,
l’immediatezza e la base affettiva del rapporto di convivenza mal si concilia con
preventive, per quanto lecite, disposizioni matrimoniali340. Gli spazi dell’autonomia
338 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 359. 339 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 410. 340 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 411.
302
privata, continua De Filippis, dovrebbero essere delineati all’interno di un modello
generale di convivenza, che «le parti possono scegliere senza ulteriori formalità e
senza necessità di autonomo sforzo per la costruzione di una disciplina giuridica.
Solo ulteriormente si darebbe la possibilità di autonome regolamentazioni, affinché
l’autonomia privata possa ulteriormente svilupparsi senza trovarsi nuovamente
imbrigliata in forme rigide, come quelle matrimoniali.
Seguendo la legislazione francese, la soluzione più auspicabile sarebbe quella di
far dichiarare alle coppie stesse la volontà di essere o divenire coppia di fatto,
tramite una dichiarazione resa dinanzi ad un’autorità idonea a certificarla, quale un
ufficiale di stato civile, un giudice di pace, un notaio, ecc. Questa soluzione, tuttavia,
è invisa a chi vuole evitare qualsiasi tipo di accostamento con la disciplina civilistica
del matrimonio, al fine di mantenere ben distinte la famiglia matrimoniale dalla
famiglia di fatto, disciplinando puntalmente la prima ed evitando di dare rilievo
giuridico alla seconda.
Come affermato in precedenza, se la famiglia di fatto viene riconosciuta in base
all’art. 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce al
cittadino il diritto di realizzarsi nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalità, sembra opportuno richiamare tale disposto in una futura legge, in
modo da destituire di fondamento qualsivoglia teoria che qualifichi la convivenza
come soluzione di livello inferiore o meramente tollerata dall’ordinamento. Il
principio di libertà del testo costituzionale conferirebbe pari dignità ad ogni scelta di
rapporto di coppia.
In secondo luogo, si dovrebbe trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di fornire
una disciplina alle famiglie di fatto, la necessità di tutelare le parti più deboli del
rapporto e l’esigenza di lasciare adeguati spazi alla volontà di autodeterminazione
delle parti, caratteristica principale del fenomeno in esame341. Una regolamentazione
341 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 415.
303
etero-diretta e un largo uso delle convenzioni private potrebbero essere l’elemento
attraverso cui raggiungere gli obiettivi appena esposti.
Come al momento della celebrazione matrimoniale, gli sposi hanno facoltà di
scelta tra un regime di comunione o separazione dei beni, così, al momento della
costituzione formale della coppia di fatto, «le coppie conviventi dovrebbero avere la
possibilità di scegliere tra più opzioni regolamentative», precisando o
personalizzando liberamente la propria scelta con convenzioni private, «ma
ricadendo in una disciplina comune solo in assenza di tali determinazioni»342. In
questo modo si contempererebbero gli interessi privatistici, lasciando la libertà
pattizia alle coppie, con quelli pubblicistici, tutelando i soggetti deboli delle famiglie
di fatto.
Se l’impostazione culturale che identifica la famiglia di fatto come una forma di
matrimonio minore, che nelle visioni meno repressive può essere oggetto di
riconoscimento purché non aspiri a porsi sullo stesso piano della famiglia legittima
e non insidi il ruolo privilegiato della stessa, vi è chi, rovesciando il discorso, ha
proposto di mettere in discussione l’intera disciplina della famiglia legittima: «Ma
allora perché non capovolgere la prospettiva e non riconsiderare, almeno per taluni
aspetti, la disciplina della famiglia legittima, ancora caratterizzata, seppur in misura
minore che in passato, da vincoli coercitivi e sanzioni (prima tra tutti l’addebito
nella separazione) alla luce del modello della famiglia di fatto?»343.
Secondo questa concenzione, «alcune regole valide per il matrimonio, come
l’impossibilità di modificare diritti e obblighi per convenzione, la possibilità di
determinare l’addebito in sede di separazione, la permanenza di doveri di carattere
patrimoniale anche dopo il divorzio, potrebbero essere riviste e modificate
prendendo spunto dal modello della famiglia di fatto, nel quale, grazie alla non
342 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 415. 343 M. DOGLIOTTI, v. Famiglia di fatto cit., p. 203.
304
rigidità, possono manifestarsi spinte alternative, tendenze ed esigenze esistenti nella
società»344.
344 B. DE FILIPPIS, Il diritto di famiglia cit., p. 415.
305
CONCLUSIONI
Giunti alla fine di questo excursus storico e giuridico sul matrimonio e sulle
famiglie di fatto, le conclusioni che si possono dedurre sono molteplici.
Si è visto che già nel diritto romano la differenza tra unioni legittime e non si
riscontra essenzialmente sul piano giuridico, dove il matrimonio legittimo era il solo
istituto riconosciuto dall’ordinamento romano e l’unico che garantisse la
legittimazione della prole, e sul piano sociale, perché l’honor maritalis era peculiarità
specifica delle iustae nuptiae.
Tuttavia, dall’analisi epigrafica latina questa distinzione sul piano squisitamente
affettivo non risulta così evidente: coniunx, maris, uxor e aggettivi a descrivere le
qualità del defunto partner sono ricorrenti e trasversali in tutte le forme relazionali
dell’antica Roma: non è pertanto così semplice distinguere iustae nuptiae,
concubinatus e contubernium senza considerare precise parole ad indicare lo status
giuridico dei due individui.
Un ulteriore elemento che accomuna il matrimonio classico romano a tutte le
altre forme extramatrimoniali è essenzialmente il riconoscimento di una situazione
di fatto, per cui due persone di sesso opposto, intraprendendo una relazione stabile
e duratura, pongono in essere un’unione legittima o meno solo sulla base dello
status giuridico delle due parti, che l’ordinamento ha sancito essere portatore di
determinati effetti giuridici. Una donna nata schiava e successivamente liberata,
nell’arco della sua vita poteva contrarre diverse forme relazionali: da un
contubernium iniziale, eventualmente si passava ad un concubinatus che avrebbe
potuto addirittura trasformarsi in iustae nuptiae se solo non fosse ostacolato dal
costume sociale, trasformazione che però è spesso attuata nel periodo tardo-antico a
seguito di numerose costituzioni imperiali a difesa del matrimonio legittimo e
contro il fenomeno delle convivenze non legalizzate.
La medesima situazione poteva capitare ad un uomo, soprattutto se
306
originariamente fosse stato uno schiavo istruito, un servo della famiglia imperiale o
ancora un soldato privo di cittadinanza.
Se l’analisi dello studioso ha mirato a considerare maggiormente le circostanze
favorevoli che si verificavano nel diritto romano, trascurando in parte la situazione
di coloro che, nati schiavi o, pur liberi, di estrazione sociale infima, vissero una vita
tormentata, colma di umiliazioni e stenti, fino alla naturale, quanto banale, morte e
all’anonima fossa comune a cui erano destinati, è innegabile che la società romana
fosse caratterizzata da una flessibilità e fluidità di mutamenti dello status giuridico
personale, che appare ancora oggi abbastanza inverosimile.
Nel corso dei secoli si sono susseguiti esempi di nobili decaduti, cavalieri
estremamente abbienti, liberti imperiali, imperatori provinciali, schiavi greci e latini
divenuti sommi letterati. Operando un’analisi concludente i due elementi, si
potrebbe ipotizzare che, a causa della stretta dipendenza tra lo status giuridico dei
contraenti e la formazione delle iustae nuptiae, al variare del primo elemento, variava
conseguentemente anche la qualità, giuridica o meno, delle relazioni poste in essere.
Con la crisi economica che ha caratterizzato l’Impero romano dal III secolo in poi
e l’avvento del cristianesimo, progressivamente la società romana si è irrigidita:
anche il matrimonio è diventato parallelamente un istituto formale, lasciando poca
libertà alle parti in causa e trasformandosi in strumento di controllo sociale da parte
delle autorità. Conseguentemente le convivenze furono ostracizzate perché
eludevano le nuove norme imperiali, abbandonando la mentalità più liberale degli
avi a favore del rigore della dottrina cristiana, emergente e sempre più pressante.
Dopo secoli di monopolio canonico sul diritto di famiglia, lo Stato a seguito della
Rivoluzione francese intraprese un allonatamento dai dogmi religiosi, creando
l’istituto matrimoniale civile. A dire il vero lo Stato, al pari della Chiesa in quindici
secoli di imposizione del diritto canonico, si servì del matrimonio come strumento
di controllo spiccatamente sociale, tant’è vero che solo ultimamente si è previsto una
maggiore libertà in capo ai singoli contraenti.
307
L’introduzione del divorzio nell’ordinamento italiano, e la susseguente conferma
referendaria, fu considerato evento addiritura impensabile in un’Italia ancora
fortemente cattolica. Non di pari passo, però, il legislatore si è conformato alla
mentalità moderna della società italiana: il matrimonio italiano, per come è al
momento configurato, risponde solo in parte alle esigenze dei consociati. Le
statistiche parlano chiaro: ci si sposa sempre meno, sempre più tardi e sempre più
con figli già procreati al momento delle prime nozze. Costruito per essere istituto
dell’incipit della vita relazionale di coppia, si sta trasformando in istituto di
conferma della medesima unione: in sostanza le statistiche denotano che ci si sposa
quando le situazioni economica, principalmente, ed affettiva sono ben salde e
spesso solo per dare la tutela legale alla prole.
Il legislatore italiano dovrebbe mettere mano alla disciplina matrimoniale,
eliminando in primo luogo quei retaggi culturali, oggi anacronistici, che
concepiscono il matrimonio quale nucleo fondante della società: l’addebito di
separazione, il divorzio non immediato, la sentenza di divorzio piuttosto che
l’omologazione, l’impossibilità di personalizzare il regime dei diritti e dei doveri
coniugali con convenzioni sono tutti elementi che palesano il potere autoritativo
statale. Per quanto è lecito riconoscere nel vincolo coniugale la stabilità e i valori
imperituri di fedeltà, solidarietà e indissolubilità (volontaria, non imposta) tra
coniugi, che il controllo governativo auspica, la realtà è ben diversa.
Sarebbe opportuna anche una maggior libertà relativamente alla celebrazione
nuziale: consentire la celebrazione del rito civile in luoghi altri rispetto alla casa
comunale e pubblicizzare la facoltà, già disciplinata, per parenti o amici di officiare
la cerimonia in prima persona, su delega dell’ufficiale di stato civile, consentirebbe
all’istituto matrimoniale di recuperare una dimensione maggiormente comunitaria
anche nella sua formazione, mantenendo comunque la solennità dell’atto.
La legislazione italiana, refrattaria ad accogliere nel diritto positivo la nuova
sensibilità della coscienza comune, ha determinato l’aumento esponenziale delle
308
cosiddette famiglie di fatto. Queste unioni si sono diffuse perché riescono facilmente
ad adattarsi sia alla precaria situazione economica, sia alla mutata concezione dei
rapporti relazionali. Il pregiudizio che ammanta le unioni di fatto, a vantaggio dei
privilegi giuridici concessi al matrimonio legittimo, non sembra più concepibile.
Le statistiche dimostrano che le famiglie di fatto non possono essere considerate
un mero caso accademico, ma sono un fenomeno consistente e sempre più in
aumento. L’atteggiamento tollerante non è più bastevole: è necessaria una disciplina
apposita, che regolamenti e dia certezza a queste famiglie non matrimoniali, come
già da oltre un decennio è prevista in numerosi ordinamenti europei. In caso
contrario, ci si potrebbe domandare quali conseguenze potrebbe portare tra dieci o
vent’anni una mancata normativa a fronte di una sostanziale parificazione numerica
tra le famiglie di fatto e quelle legittime.
Anche se, al pari delle evidenze antiche, non vi è sostanziale differenza tra
relazione legalizzata e non sul piano affettivo ed oggi anche su quello sociale, il
legislatore potrebbe iniziare con il riconoscere giuridicamente queste unioni,
attribuendo di volta in volta specifiche norme giuridiche che consentano di superare
la situazione di impasse che si è creata.
Pare assurdo che ai figli vengano riconosciuti i rapporti giuridici con i propri
genitori e i parenti di questi, ma agli stessi genitori, che hanno costituito la coppia
da cui il figlio è nato, venga negato quel legame giuridicamente rilevante. E
purtroppo queste lacune legislative non sono indolori.
A seguito dell’attentato del 12 novembre 2003 alla base italiana di Nasiriyya,
muore Stefano Rolla, regista italiano che si era recato in Iraq per un progetto
cinematografico. Lo stato italiano, nell’organizzare i funerali di stato per i
diciannove morti italiani (tra carabinieri, militari e civili) non invita Adele Parrillo,
309
in quanto non ufficialmente sposata. La compagna del regista ha scritto un libro345
sulla tragedia e sull’assurda vicenda, denunciando l’ipocrisia italiana nel non
riconoscere il loro legame sentimentale, situazione che, a cascata, ha visto la donna
essere privata dei diritti garantiti alle vedove degli altri defunti: è stata esclusa dai
programmi di assistenza psicologica offerti ai familiari delle vittime dell'attentato e
da ogni risarcimento economico; ha perso i diritti sul lungometraggio sulla missione
militare italiana in Iraq cui stava lavorando col compagno e ha chiesto invano di
essere invitata come familiare alla commemorazione ufficiale dei defunti ad un anno
dall'attentato.
L’ingiustizia civile di quanto accaduto avrebbe dovuto muovere la macchina
burocratica legislativa, sullo slancio emotivo che l’evento aveva creato, al fine di
emanare una normativa in tal senso. A distanza di dieci anni ancora in Italia non
esiste ancora una disciplina quadro, nemmeno essenziale, sulle famiglie di fatto.
Ma se una buona percentuale delle convivenze si trasforma in matrimonio per
dare le tutele giuridiche alla prole proprie della disciplina sulla filiazione legittima,
quali saranno le statistiche dei prossimi anni a seguito della recentissima legge
sull’unificazione dello stato di figlio, che ha abolito la discriminazione tra figli
naturali e legittimi? Forse sarebbe opportuno non solo appianare l’arretratezza
legislativa italiana sulle coppie di fatto, ma anche guardare al futuro dell’intera
disciplina civilistica in ambito familiare.
Una soluzione alternativa e più semplice, superando dogmi sociali derivanti da
concezioni familiari vetuste, sarebbe quella di parificare in tutto e per tutto la
famiglia di fatto a quella legittima. L’impostazione proposta abbisogna di alcune
precisazioni: se le famiglie di fatto sono nate in contrasto con il formalismo e la
stringente disciplina coniugale, sarebbe sciocco pensare di confezionare una
345 A. PARRILLO, Nemmeno il dolore. Storia di un amore ucciso a Nassiriya e negato in Italia,
Mondadori, Milano, 2006.
310
normativa onnicomprensiva sul medesimo rigido piano del matrimonio.
Si potrebbe invece operare uno deflazionamento legislativo del matrimonio,
eccezion fatta per la tutela dei soggetti deboli del rapporto e il principio di
solidarietà, garantendo una dimensione quasi privatistica dell’istituto. Su questa
base si potrebbe legiferare anche in ordine alle famiglie di fatto: si ritornerebbe quasi
ad una prospettiva di stampo romanistico classico, dove è la volontà reciproca di
stare assieme l’elemento fondante l’unione coniugale (in senso generico). In ambito
europeo questa situazione si è già attuata, tanto da considerare l’unione di fatto
come un «matrimonio informale» una vera e propria istituzione sociale e giuridica,
equiparata all’unione coniugale non solo nel campo fiscale e della sicurezza sociale,
ma anche in quello dei diritti patrimoniali dei partner.
Probabilmente risulta improponibile, in un sistema giuridico basato sull’atto
giuridico e sulla certezza del diritto, riconoscere l’unione sulla base della mera
situazione fattuale come accadeva in epoca romana. D’altra parte, però, si potrebbe
prospettare una facoltà di scelta in ordine alla forma: che sia una semplice
dichiarazione sottoscritta, un atto pubblico innanzi all’ufficiale di stato o al ministro
di culto, ciò che importa al legislatore sarebbe il riconoscimento e la tutela delle
medesime fattispecie presenti tanto nella famiglia di fatto, quanto in quella
legittima.
Seguendo questa prospettiva, non vi sarebbero ragioni di sorta anche nel
ricomprendere le coppie omosessuali nella stessa disciplina. Il matrimonio, o in
qualunque modo lo si voglia definire, sarebbe il risultato della volontà di due
persone che decidono, autonomamente e volontariamente, di porre in essere una
comunanza di vita.
Elemento fondante sarebbe dunque l’affectio, quel legame naturale che consente
al legislatore di riconoscere giuridicamente, disciplinare e tutelare le unioni che i
singoli liberamente pongono in essere.
313
Indice delle fonti
Fonti giuridiche
Gaio
Institutiones
1, 18 .......................................... 151
1, 37 .......................................... 151
1, 56 .......................................... 166
1, 59 ............................................ 20
1, 60 ............................................ 21
1, 62 .......................................... 215
1, 63 ..................................... 54, 215
1, 67 ............................................ 19
1, 68 .......................................... 167
1, 76 ................................... 166, 167
1, 77 ................................... 167, 168
1, 78 ............................................ 19
1, 84 .......................................... 152
1, 92 .......................................... 168
1, 111 .......................................... 61
1, 112 .......................................... 56
1, 113-114 ................................... 58
1, 137 .......................................... 60
1, 196 .......................................... 25
2, 139 .......................................... 59
Pauli Sententiae
2, 19, 2 ........................................ 30
2, 19, 8 ........................................ 42
2, 19, 9 ...................................... 157
2, 20, 1 ...................................... 112
5, 6, 15 ........................................ 52
Fragmenta Vaticana
104 .............................................. 39
Tituli ex corpore Ulpiani
5, 2 ................................. 16, 29, 197
5, 5 ....................................... 21, 144
5, 6 .............................................. 19
5, 8 .............................................. 19
9, 1 .............................................. 56
13, 1-2 ....................................... 124
16, 1 ............................................ 78
Codex Theodosianus
2, 25, 1 ...................................... 220
3, 7, 2 ........................................ 207
3, 16, 1 ...................................... 209
3, 16, 2 ...................................... 212
8, 16, 1 ...................................... 216
8, 17, 2 ...................................... 216
8, 17, 3 ...................................... 217
8, 58, 1 ...................................... 219
9, 9, 1, pr. .................................. 221
9, 9, 1, 2 .................................... 221
9, 24, 1 ...................................... 207
16, 8, 6 ...................................... 207
Corpus Iuris Civilis
Codex
1, 3, 44 (45) ............................... 207
2, 11, 15 .................................... 190
3, 28, 11 .................................... 220
4, 4, 26 ...................................... 222
5, 4, 2 ........................................ 204
5, 4, 3 ........................................ 156
5, 4, 9 .......................................... 37
5, 4, 14 ........................................ 31
5, 4, 21 ...................................... 204
5, 4, 23, 7................................... 204
5, 4, 26, 2................................... 206
5, 4, 28 ........................................ 46
5, 5, 2 ........................................ 214
5, 5, 3 ........................................ 145
5, 6, 1 .......................................... 47
5, 6, 4 ........................................ 156
5, 17, 5, pr. .................................. 52
5, 17, 5, ...................................... 51
5, 17, 7 ...................................... 191
5, 17, 8 .............................. 201, 211
5, 17, 9 ...................................... 214
5, 27, 5, 1................................... 118
5, 60, 3 ........................................ 25
6, 1, 8 ........................................ 221
7, 15, 3 ...................................... 222
314
9, 9, 18 ....................................... 215
9, 9, 29 (30) ....................... 217, 218
9, 32, 4 ....................................... 199
Digesto
1, 1, 1........................................... 23
1, 9, 1........................................... 39
1, 9, 11 ....................................... 125
1, 9, 8........................................... 39
4, 8, 21, 11 ................................. 125
5, 3, 27, 1 ................................... 127
12, 4, 8 ................................... 25, 39
14, 1, 65 ....................................... 26
14, 3, 4, 1 ................................... 125
23, 2, 1 ................................. 23, 197
23, 2, 2 ......................................... 28
23, 3, 4 ......................................... 42
23, 2, 5 ................................... 27, 42
23, 2, 9 ......................................... 29
23, 2, 13 ..................................... 155
23, 2, 14, 2 ................................. 146
23, 2, 16, pr. ........................ 45, 116
23, 2, 16, 1 ................................... 29
23, 2, 21 ....................................... 31
23, 2, 22 ....................................... 31
23, 2, 24 ..................................... 110
23, 2, 35 ..................................... 189
23, 2, 41, 1 ................................. 119
23, 2, 42, pr. .............................. 121
23, 2, 43, 9 ................................. 127
23, 2, 45, 3 ................................. 190
23, 2, 62, 1 ................................. 155
23, 2, 65, pr. .............................. 192
23, 2, 65, 1 ........................... 45, 192
23, 2, 67, 3 ................................... 46
24, 1, 3, 1 ................................... 116
24, 1, 32, 8 ................................. 191
24, 1, 32, 13 ......................... 39, 202
24, 1, 32, 19 ................................. 52
24, 1, 66, pr. ................................ 41
24, 2, 1 ......................................... 43
24, 2, 4 ......................................... 53
24, 2, 2, 1 ..................................... 48
24, 2, 9 ......................................... 76
24, 2, 11 ....................................... 22
25, 2, 1 ....................................... 199
25, 7, 1, pr. ................................ 119
25, 7, 1, 3 ................................... 119
25, 7, 3, pr. ................................ 124
25, 7, 4 ....................................... 112
25, 7, 3, pr. ................................ 110
25, 7, 3, 1 ................................... 112
25, 7, 1, 1 ................................... 111
29, 1, 7 ....................................... 191
29, 1, 16 ..................................... 190
32, 29, pr. .................................. 120
32, 29, 3 ..................................... 120
32, 49, 4 ..................................... 121
33, 7, 12, 7 ................................. 146
35, 1, 15 ....................................... 34
36, 2, 30 ....................................... 27
39, 5, 31, pr. .............................. 114
40, 2, 13 ..................................... 151
40, 2, 14, 1 ................................. 155
43, 30, 1, 5 ................................... 52
45, 1, 134 ..................................... 47
48, 5, 3 ......................................... 77
48, 5, 9 ....................................... 125
48, 5, 10 ..................................... 125
48, 5, 13 ....................................... 27
48, 5, 14 (13), pr. ....................... 119
48, 5, 14 (13), 5 ............................ 48
48, 5, 23 (22), 3 .......................... 126
48, 5, 35 (34), pr. ....................... 111
49, 7, 16, pr. .............................. 190
49, 15, 14, 1 ................................. 44
50, 16, 144 ................. 82, 83, 96, 99
Institutiones
1, 9, 1 ........................... 23, 197, 234
1, 10 ............................................. 29
Novellae
1 ................................................ 222
22............................................... 222
6, cap. 6 ..................................... 208
22, cap. 17 ................................. 207
103, cap. 30 ............................... 208
117, cap. 6 ......................... 208, 213
117, cap. 8, §2 ........................... 218
117, cap. 10, §1 ......................... 218
134, cap. 10, §1 ......................... 218
157 ............................................. 220
Basilici
2, 11, 144 ........................................ 84
315
Fonti cristiane ed ebraiche
Catechismo della Chiesa Cattolica
§ 369 ......................................... 255
Concilio di Nicea
Capo IV ..................................... 203
Corpus Iuris Canonici (1917)
Can. 1082, § 1 ........................... 248
Can. 1013, § 1 ........................... 248
Decretum Gratiani
C. 33, q. 55 ............................... 255
Gittin
5, 3, 6 ........................................ 164
Khethubboth
2, 4, 12 ...................................... 164
4, 8, 2 ........................................ 164
Lett. Enc.
Arcanum divinae ....................... 255
Casti Connubii .......................... 255
Paolo di Tarso
Efesini
5: 22-24 ..................................... 253
5:32 ........................................... 225
1 Corinzi
11: 7-9 ....................................... 255
1 Timoteo
6: 1-2 ......................................... 219
Vangelo di Matteo
19:6 ........................................... 225
Yebamoth
15, 3 .......................................... 164
Fonti letterarie
Agostino
Psalm.
118, 16 ...................................... 202
Ambrogio
De instituzione virginis
6, 41 .......................................... 202
Epistulae
19, 7 .......................................... 203
Ammiano Marcellino
14, 4, 4 ...................................... 162
Apuleio
Le Metamorfosi
7, 10 .......................................... 128
Arnobio
Adversus Nationes
2, 67 ............................................ 69
Catullo
Carme
XLI ............................................ 101
LXII, 45-47 ................................. 66
LXXII ........................................ 100
Cicerone
Epistulae ad Atticum
4, 15, 6 ...................................... 135
Orationes in Catilinam
1, 2 .............................................. 73
De Officiis
1, 54 .................................... 34, 239
De oratore
1, 40, 183 .................................... 54
1, 56, 238 .................................... 55
Laelius
6, 20 .......................................... 198
Philippicae orationes
2, 69 ............................................ 48
316
Pro Balbo
24 .............................................. 167
Pro Flacco
34, 84........................................... 60
Topica
3, 14 ............................................ 63
Columella
1, 8, 5......................................... 139
Democrito
Contro Neaira
59, 122 ......................................... 94
Dione Cassio
60, 31, 3-4 ................................... 49
62, 24......................................... 193
76, 16, 1 ..................................... 136
77, 9, 5 ....................................... 172
Dionigi di Alicarnasso
7, 53 ............................................ 19
Erodiano
3, 8, 5......................................... 185
Erodoto
1, 181-182 ................................... 92
Gellio
Noctes Atticae
4, 3, 2........................................... 37
4, 3, 3............................... 81, 82, 97
4, 4 .............................................. 14
Girolamo
Epistulae
123, 5......................................... 201
Ippolito
Epistulae
1, 4, 5......................................... 204
Philosophumena
9, 12, 24-25................................ 219
Livio
Ab urbe condita libri CXLII
1, 57 ............................................ 69
4, 1, 1........................................... 21
4, 2, 5-6 ....................................... 20
4, 9............................................. 161
10, 8, 9 ......................................... 20
21, 41, 15 ................................... 174
42, 34 ......................................... 174
45, 29 ........................................... 20
Macrobio
Somnium Scipionis
1, 6, 70-71 .................................... 26
Martiale
1, 34, 5 ....................................... 128
6, 71 ........................................... 135
Liber de spectaculis
6b .............................................. 136
Omero
Iliade
16, 233-235 .................................. 71
Orazio
Carme saeculare
3, 15, 13-16 .................................. 71
Epistole
1, 1, 21-22 .................................... 68
1, 14, 25 ..................................... 132
Satire
1, 55 ........................................... 135
1, 82 ........................................... 132
1, 2, 63 ....................................... 131
Ovidio
Fasti
4, 863ss. .................................... 131
6, 26, 33-37 .................................. 85
Metamorfosi
1, 622ss. ...................................... 97
6, 533ss. ...................................... 98
Persio
Satirae
2, 70 ............................................. 66
317
Petronio
Satirycon
57, 6 .......................................... 147
Plauto
Asinara
760ss. ........................................ 128
Mercator
4, 688-691 ................................... 97
Miles Gloriosus
1 .................................................. 99
Plinio il giovane
Epistulae
3, 3, 3 .......................................... 67
Pomponio Mela
Chorografia
1, 8, 42 ...................................... 162
1, 8, 46 ...................................... 162
1, 19, 144 .................................. 162
Plutarco
Biogr. et Phil. Aem. Paul.
5, 1-2 ........................................... 50
1, 2, 116-117 ............................. 142
Properzio
Elegie
1, 11 .......................................... 101
Pseudo-Ambrogio
Quaest. Vet. et Novi Test.
115, 12; 16 ................................ 213
Quintiliano
Declamationes
12, 22 .......................................... 37
376 ............................................ 198
Institutio oratoria
5, 10, 62 ...................................... 63
Seneca
Controversia
4, 10 .......................................... 137
7, 6, 3 .......................................... 64
Epistulae
48 .............................................. 199
97, 8 .......................................... 131
De beneficiis
4, 35 .......................................... 169
7, 9 ............................................ 131
Scriptores Historiae Augustae
Antoninus Pius
8, 9 ............................................ 115
Strabone
Geografia
12, 3, 36 ...................................... 90
17, 1, 46 ...................................... 89
Svetonio
Vita divi Augusti
24 .............................................. 192
73 ................................................ 70
Caligola
11 .............................................. 128
41, 2 .......................................... 128
Vita divi Claudi
29, 3 ............................................ 49
Vita Domitiani
12 .............................................. 118
Hist. Aug. Ver.
4, 6 ............................................ 128
Vita divi Vespasiani
3, 3 ............................................ 115
Tacito
Annales
2, 85 .......................................... 131
3, 33 .......................................... 175
3, 34 .......................................... 175
11, 26-38 ..................................... 49
11, 30 .......................................... 98
14, 27 ........................................ 193
15, 22 ........................................ 117
Dial. De oratoribus
28, 4-29, 2 ................................... 67
Germania
18 .............................................. 160
318
Historiae
4, 65 ............................................ 19
Teofilo
1, 10, 6 ....................................... 215
Terenzio
Andria
533ss. .......................................... 50
567ss. .......................................... 50
Eunucus
950ss. ........................................ 126
Tertulliano
De pudicitia
4 ................................................ 203
Tibullo
2, 3, 51ssg. ................................ 132
Tommaso d’Aquino
Summa contro i gentili
3, 123 ......................................... 254
Varrone
De lingua latina
7, 84 ........................................... 132
De re rustica
1, 17, 1 ....................................... 138
Valerio Massimo
2, 10, 8 ....................................... 131
2, 16, 14 ..................................... 162
Virgilio
Aeneide
4, 124-126 .................................. 106
4, 314-316 .................................. 106
4, 338-339 .................................. 106
Fonti epigrafiche
BGU
2, 628, 2 ..................................... 170
113 ............................................ 184
140 ............................................ 194
265 ............................................ 184
780 ............................................ 184
Corpus Inscriptionum Latinarum
I 2, 1007 ...................................... 68
IV 1454 ..................................... 128
IV 1516 ..................................... 128
IV 2175 ..................................... 128
IV 2246 ..................................... 128
IV 8442 ..................................... 135
IV 8473 ..................................... 132
IV 8475 ..................................... 132
VI 2483 ..................................... 143
VI 3532 ..................................... 149
VI 5935 ..................................... 147
VI 6628 ..................................... 148
VI 8833 ............................. 149, 153
VI 8972 ..................................... 115
VI 10096.................................... 135
VI 10321.................................... 148
VI 12037.................................... 115
VI 13937 .................................... 117
VI 17170 .................................... 117
VI 20329 .................................... 148
VI 20572 .................................... 153
VI 21756 .................................... 150
VI 21815 .................................... 148
VI 23015 .................................... 149
VI 25190 .................................... 149
VI 29513 .................................... 151
VI 36475 .................................... 148
IX 5256 ...................................... 105
IX 2689 ...................................... 132
XI 6163 ...................................... 105
XI 6257 ...................................... 105
XIII 10019, 95............................ 135
XVI 69 ....................................... 180
XVI 83 ....................................... 179
XVI 146, n.12 ............................ 170
XVI 173 ..................................... 179
FIRA
I2, 308-315, n. 55, lin. 19-23 ..... 169
Inscriptiones Latinae Selectae
8403 ............................................. 68
319
Altre fonti epigrafiche
CPR 118 ................................... 162
Laudatio Turiae ...................34, 50
PIR H 11................................... 153
P. Cattaoui ............................... 194
P. Hamb. 1, 31-32a .................. 182
P. Oxy 237 ................................ 163
P. Giss. 40, c.1 .......................... 172
Poljakov
n. 6 .............................................. 88
n. 7 .............................................. 89
Tabula Banasitana ................... 171
Fonti moderne
Giurisprudenza
Cass., 15 gennaio 1969, n. 60 ........... 292
Cass., 10 gennaio, 1986, n. 67 ......... 244
Cass., 26 gennaio 1998, n. 282 ......... 279
Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007 ....... 293
Cass., 13 febbraio 1993 n. 1824 ........ 231
Cass., 7 marzo 1992, n. 2766 ............ 289
Cass., 4 febbraio 1994, n. 3790 ......... 264
Cass., 29 novembre 1976, n. 4498 .... 265
Cass., 8 giugno 1993, n. 6381 ........... 293
Cass., 15 maggio 2009, n. 11330 ...... 293
Cass., 8 giugno 2005, n. 12010 ......... 232
Cass., 11 ottobre 2011, n. 17195 ....... 265
Corte Cost., 2 febbraio 1982, n. 18 .. 230
Corte Cost., 7 aprile 1988, n. 404 ..... 264
Ordinanza Corte Cost. 481/2000 ..... 259
Trib. Bolzano, 20 gennaio 2000 ...... 296
Trib. Livorno, 27 febbraio 2013, n. 215
........................................................... 265
App. Firenze, 12 febbraio 1991 ....... 295
Costituzione
2 ................................. 260, 261, 302
3 ................................................ 260
7 ................................................ 229
29 ....................... 240, 259, 260, 261
30 ............................... 241, 261, 262
Cod. Civ. 1942
123 ............................................ 249
Codice civile
39 .............................................. 283
74 .............................................. 282
119 ............................................ 282
120 ............................................ 282
122 ............................................ 282
123 ............................................ 282
143 ............................................ 250
143-bis ...................................... 249
144 ............................................ 253
145 ............................................ 251
147 .................................... 251, 286
148 ............................................ 283
150 ............................................ 243
156-bis ...................................... 249
162 ............................................ 253
177 ............................. 250, 251, 291
191 ............................................ 252
219 ............................................ 295
251 ............................................ 286
258 ............................................ 283
261 ............................................ 284
262 ............................................ 284
315 ............................................ 286
315-bis ...................................... 286
316 ............................................ 281
317-bis ...................................... 280
342-bis ...................................... 288
433 ............................................ 284
467 ............................................ 285
737 ............................................ 285
1298 .......................................... 296
1854 .......................................... 295
2034 .......................................... 292
320
Codice di Procedura Civile
795 ............................................ 231
796 ss. ....................................... 232
Codice Penale
282-bis ...................................... 288
291 ............................................ 288
Codice di Procedura Penale
199 ............................................ 290
681 ............................................ 290
Legislazione speciale
legge 810/1929 ..........228, 229, 244
legge 898/1970 ......................... 255
legge 151/1975 ......................... 249
legge 392/1978 ......................... 264
legge 184/1983 .................. 284, 289
legge 121/1985 .......................... 230
legge 218/1995 .................. 231, 283
legge 127/1997 .......................... 288
legge 149/2001 .................. 265, 289
legge 154/2001 .......................... 288
legge 219/2012 ...............................
....246, 266, 282, 283, 285, 286, 291
d.p.r. 136/1958 .......................... 287
d.p.r. 396/2000 .................. 232, 286
d.l. 286/1998 ............................. 260
d.d.l. 749/2012 .......................... 278
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http://www.altalex.com/index.php?idnot=61403 consultato il 2 marzo 2013.
www.istat.it: http://www.istat.it/it/archivio/75517 consultato il 5 marzo 2013
http://www.istat.it/it/files/2011/09/natalita-fecondita consultato il 5 marzo 2013
vindolanda.csad.ox.ac.uk consultato 11 marzo 2013 consultato il 10 marzo 2013
http://www.avvocatosilviomonti.com/sentenza.htm, consultato l’11 marzo 2013
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Indice delle Tavole
Tavola 1. Laudatio Turiae ........................................................................ 34-37
Tavola 2. CIL IV 1454, Pompei ................................................................ 128-131
Tavola 3. CIL IV 2175, Pompei ................................................................ 128-131
Tavola 4. Bassorilievo di Aesernia .................................................... 132-135
Tavola 5. Honesta missio ..................................................................... 180-183
Tavola 6. Honesta missio ..................................................................... 180-183
Ringraziamenti
Ringrazio il prof. Mario Fiorentini, non solo per la disponibilità nel seguirmi,
consigliarmi, correggermi durante il periodo di tesi, ma soprattutto per avermi
ridato fiducia e passione nell’università italiana. Le interminabili conversazioni sui
più disparati argomenti, intellettuali e politici, unite a chiacchere, barzellette ed
aneddoti, difficilmente si scorderanno. Non è un caso che il suo studio, sempre
aperto, sia diventato un piccolo ritrovo di liberi pensatori, dove professori e studenti
passano con piacere anche solo per un saluto. Ce ne fossero di professori così!
Relativamente alla stesura della tesi, ringrazio in modo sparso: Andrea D. G. per
l’assistenza tecnica pre e post produzione; Marco L. per l’aiuto con le citazioni
greche; Martina P. e Fabio F. per i libri padovani; Lodovico M. per i siti epigrafici;
Marco D., Serena F., Federica B., Marco T. per la consegna dei capitoli parziali;
Francesco M. P. per il supporto letterario; Giacomo D. per la disponibilità nella
stampa; Federica G. per il supporto psicologico; Andrea F. per il file introvabile
della Treggiari; Laura A. della biblioteca GIL di Treviso per i suggerimenti
bibliografici; la biblioteca di Resana e le biblioteche di Padova, Meneghelli e del Dip.
Storia e Dir. Romano, per la comprensione…
Ringrazio i miei genitori, Luciano e Loretta, i miei fratelli, Marta e Checco, e
nonna Pierina per avermi sostenuto moralmente ed economicamente in questi
lunghi anni universitari. Un ringraziamento anche ai cugini e agli zii Elia, Tina,
Emilio, Martina, Enrico, Lino, Renzo e Susy.
Ringrazio Dario C., Marco T., Serena F., Giulia B., per gli esami studiati assieme e
lo scambio proficuo di appunti, libri, e consigli. Pare siano serviti!
Ringrazio i miei admin e tutte le persone che hanno sostenuto in questi anni le
mie pagine e gruppi facebook e che mi hanno dato spunto per conoscere, capire,
riflettere, sorridere e discutere assieme.
Ringrazio tutte le persone che mi stanno vicino, pur non potendole frequentare, a
partire sicuramente da Katrine, poi Martina B., Alessandra G., Morgana M.,
Loredana C., Martina C., Giulia S., Anita M., Rosmarie M., Alexandra R…
Ringrazio i miei amici bibliotecari per le pause caffè, i pranzi al bar Giardino o
all’Osteria Canova, i «10 minuti e poi studiamo»: Emanuele S., Giulia T., Adriana P.,
Angie P., Chiara M., Linda P…
Ringrazio i miei amici di calcetto, calcio, fantacalcio, giochi, videogiochi ecc,:
Nicolas, Fabio, Enrico, Alberto, Roby, Fabio, Nicola, Gabriele…
Ringrazio i miei amici ed ex compagni di classe del liceo che magari vedo
raramente, ma che so essere sempre presenti, tra tutti: Elena, Dario, Andrea, Patty,
Eleo, Giova, Silvia…
Ringrazio i miei amici del c.d. circolo intellettuale: Lodovico, Franka, Bazza,
Marco, Valentina C., Daniel…
Ringrazio i miei amici delle serate, delle cene, dei giri per Treviso, dei concerti,
delle vacanze, ecc.: Giulia, Lorenzo, Marta, Bruno, Annalisa, Francesco, Giovanni,
Enrico, Fede, Matteo, Gloria, Fau, Giovanna, Greg, Frank, Fede, Marta, Aurelie,
Marcella, Davide, Erica, Davide, Giulio, Fede, Tommy, Giorgia, Fabio, Domiziana…
Ringrazio la famiglia Fiorin, Walter e Marina, per ospitarmi così frequentemente
e così ancora generosamente, e ringrazio specialmente Dario per tutto ciò che
abbiamo vissuto assieme in questi anni e per quanto ci spetterà ancora.
Ringrazio tutte le persone che ho dimenticato, ma che sono o sono state parte
della mia vita.
Ringrazio, infine, tutti coloro che avranno il coraggio e la pazienza di leggere
questa tesi, che ad inizio gennaio temevo non arrivasse alle 150 pagine minime e
che, dopo due mesi e mezzo, sono riuscito a fatica a finire in tempo per la stampa…
…forse…