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Kulturinfarkt...Nel 2006 ha realizzato il rapporto sull’economia della cultura per il Bundestag....

Date post: 13-Nov-2020
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Marsilio i Grilli Kulturinfarkt Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura dieter Haselbach armin Klein pius Knüsel stephan Opitz
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Page 1: Kulturinfarkt...Nel 2006 ha realizzato il rapporto sull’economia della cultura per il Bundestag. armin klein è stato direttore artistico ed esecutivo del Theater am Turm di Francoforte

Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel, Stephan Opitz K

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Marsilioi Grilli

KulturinfarktAzzerare i fondi pubblici

per far rinascere la cultura

dieter HaselbacharminKleinpius Knüsel

stephanOpitz

dieter haselbach è professore di sociologia alla Philipps-Universität di Marburgo e dirige la icg Culturplan Unternehmensberatung. Nel 2006 ha realizzato il rapporto sull’economia della cultura per il Bundestag.

armin klein è stato direttore artistico ed esecutivo del Theater am Turm di Francoforte e responsabile alla cultura della città di Marburgo. È docente dimanagement culturale al Ludwigsburg Polytechnic.

pius knüsel è stato redattore culturale per la televisione svizzera e responsabile per la sponsorizzazione culturale del Credit Suisse. Dal 2002 al 2012 ha diretto la fondazione culturale Pro Helvetia.

stephan opitz è responsabile del dipartimento Affari culturali al ministero dell’Istruzione del Land Schleswig-Holstein e professore di management culturale alla Christian-Albrechts-Universität di Kiel.

Il 24 febbraio 2009 Alessandro Baricco dalle pagine de «la Repubblica» invitava a riflettere su una di quelle crepe che inevitabilmente diventano enormi «sotto la lente della crisi economica»: le sovvenzioni pubbliche alla cultura, quel «fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo - scriveva Baricco - ci si interroga. Si protesta. Si dibatte». Questo libro, un caso senza precedenti in Germania, la cui eco è arrivata in tutti i paesi europei, prospetta un imminente «infarto della cultura». Gli autori innescano una sapiente, quanto spietata e lucida, polemica sulle politiche culturali, la cultura istituzionale, le sovvenzioni alla cultura. Vi si ritrovano in aperto conflitto tutte le idee, le visioni, i concetti che nel corso della storia hanno armato la benefica mano dello Stato come promotore della cultura, per scopi sempre diversi. La proposta shock di tagli consistenti alle istituzioni culturali per una redistribuzione delle risorse non è che l’inizio di una profonda ricognizione volta a smascherare storture e anacronismi, ideologie e scomode realtà: l’eccesso di offerta è un errore perché si fonda sul presupposto sbagliato che ogni prodotto possa generare da sé il proprio pubblico; la massiccia avanzata di consulenti e manager della cultura non produce innovazione, ma solo conformismo dal sapore burocratico; troppi sono oggi i compiti affidati alla cultura che - schiacciata dal dover favorire la democratizzazione, integrare gli stranieri, rendere le città più accoglienti, assicurare la pace, generare crescita economica - perde di vista la sua ragion d’essere e il confronto con il pubblico. Se è vero che non sono solo le istituzioni culturali tedesche a rischiare l’infarto, secondo l’icastica definizione che il libro suggerisce, le critiche e le proposte qui delineate sono una potente arma per avviare il confronto che, seppur diretto e spietato, è il solo modo per salvare il salvabile e spingere in direzione di un rinnovamento anche in Italia. Nella consapevolezza, però, sottolineano gli autori, che «l’arte non guarirà il mondo».

Un appassionante confronto con la realtà dell’arte

e della cultura. Un ritorno al passato e una proiezione

verso il futuro per smascherare i falsi m

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KulturinfarktAzzerare i fondi pubblici

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dieter haselbach è professore di sociologia alla Philipps-Universität di Marburgo e dirige la icg Culturplan Unternehmensberatung. Nel 2006 ha realizzato il rapporto sull’economia della cultura per il Bundestag.

armin klein è stato direttore artistico ed esecutivo del Theater am Turm di Francoforte e responsabile alla cultura della città di Marburgo. È docente dimanagement culturale al Ludwigsburg Polytechnic.

pius knüsel è stato redattore culturale per la televisione svizzera e responsabile per la sponsorizzazione culturale del Credit Suisse. Dal 2002 al 2012 ha diretto la fondazione culturale Pro Helvetia.

stephan opitz è responsabile del dipartimento Affari culturali al ministero dell’Istruzione del Land Schleswig-Holstein e professore di management culturale alla Christian-Albrechts-Universität di Kiel.

Il 24 febbraio 2009 Alessandro Baricco dalle pagine de «la Repubblica» invitava a riflettere su una di quelle crepe che inevitabilmente diventano enormi «sotto la lente della crisi economica»: le sovvenzioni pubbliche alla cultura, quel «fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo - scriveva Baricco - ci si interroga. Si protesta. Si dibatte». Questo libro, un caso senza precedenti in Germania, la cui eco è arrivata in tutti i paesi europei, prospetta un imminente «infarto della cultura». Gli autori innescano una sapiente, quanto spietata e lucida, polemica sulle politiche culturali, la cultura istituzionale, le sovvenzioni alla cultura. Vi si ritrovano in aperto conflitto tutte le idee, le visioni, i concetti che nel corso della storia hanno armato la benefica mano dello Stato come promotore della cultura, per scopi sempre diversi. La proposta shock di tagli consistenti alle istituzioni culturali per una redistribuzione delle risorse non è che l’inizio di una profonda ricognizione volta a smascherare storture e anacronismi, ideologie e scomode realtà: l’eccesso di offerta è un errore perché si fonda sul presupposto sbagliato che ogni prodotto possa generare da sé il proprio pubblico; la massiccia avanzata di consulenti e manager della cultura non produce innovazione, ma solo conformismo dal sapore burocratico; troppi sono oggi i compiti affidati alla cultura che - schiacciata dal dover favorire la democratizzazione, integrare gli stranieri, rendere le città più accoglienti, assicurare la pace, generare crescita economica - perde di vista la sua ragion d’essere e il confronto con il pubblico. Se è vero che non sono solo le istituzioni culturali tedesche a rischiare l’infarto, secondo l’icastica definizione che il libro suggerisce, le critiche e le proposte qui delineate sono una potente arma per avviare il confronto che, seppur diretto e spietato, è il solo modo per salvare il salvabile e spingere in direzione di un rinnovamento anche in Italia. Nella consapevolezza, però, sottolineano gli autori, che «l’arte non guarirà il mondo».

Un appassionante confronto con la realtà dell’arte

e della cultura. Un ritorno al passato e una proiezione

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KulturinfarktAzzerare i fondi pubblici

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dieter haselbach è professore di sociologia alla Philipps-Universität di Marburgo e dirige la icg Culturplan Unternehmensberatung. Nel 2006 ha realizzato il rapporto sull’economia della cultura per il Bundestag.

armin klein è stato direttore artistico ed esecutivo del Theater am Turm di Francoforte e responsabile alla cultura della città di Marburgo. È docente dimanagement culturale al Ludwigsburg Polytechnic.

pius knüsel è stato redattore culturale per la televisione svizzera e responsabile per la sponsorizzazione culturale del Credit Suisse. Dal 2002 al 2012 ha diretto la fondazione culturale Pro Helvetia.

stephan opitz è responsabile del dipartimento Affari culturali al ministero dell’Istruzione del Land Schleswig-Holstein e professore di management culturale alla Christian-Albrechts-Universität di Kiel.

Il 24 febbraio 2009 Alessandro Baricco dalle pagine de «la Repubblica» invitava a riflettere su una di quelle crepe che inevitabilmente diventano enormi «sotto la lente della crisi economica»: le sovvenzioni pubbliche alla cultura, quel «fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo - scriveva Baricco - ci si interroga. Si protesta. Si dibatte». Questo libro, un caso senza precedenti in Germania, la cui eco è arrivata in tutti i paesi europei, prospetta un imminente «infarto della cultura». Gli autori innescano una sapiente, quanto spietata e lucida, polemica sulle politiche culturali, la cultura istituzionale, le sovvenzioni alla cultura. Vi si ritrovano in aperto conflitto tutte le idee, le visioni, i concetti che nel corso della storia hanno armato la benefica mano dello Stato come promotore della cultura, per scopi sempre diversi. La proposta shock di tagli consistenti alle istituzioni culturali per una redistribuzione delle risorse non è che l’inizio di una profonda ricognizione volta a smascherare storture e anacronismi, ideologie e scomode realtà: l’eccesso di offerta è un errore perché si fonda sul presupposto sbagliato che ogni prodotto possa generare da sé il proprio pubblico; la massiccia avanzata di consulenti e manager della cultura non produce innovazione, ma solo conformismo dal sapore burocratico; troppi sono oggi i compiti affidati alla cultura che - schiacciata dal dover favorire la democratizzazione, integrare gli stranieri, rendere le città più accoglienti, assicurare la pace, generare crescita economica - perde di vista la sua ragion d’essere e il confronto con il pubblico. Se è vero che non sono solo le istituzioni culturali tedesche a rischiare l’infarto, secondo l’icastica definizione che il libro suggerisce, le critiche e le proposte qui delineate sono una potente arma per avviare il confronto che, seppur diretto e spietato, è il solo modo per salvare il salvabile e spingere in direzione di un rinnovamento anche in Italia. Nella consapevolezza, però, sottolineano gli autori, che «l’arte non guarirà il mondo».

Un appassionante confronto con la realtà dell’arte

e della cultura. Un ritorno al passato e una proiezione

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Titolo originale: Der Kulturinfarkt. Von allem zu viel und überall das Gleiche (L’infarto della cultura. Troppo di tutto e ovunque le stesse cose) Traduzione dal tedesco di Melissa Maggioni © 2012 by Albrecht Knaus Verlag, a division of Verlagsgruppe Random House GmbH, München, Germany © 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2012 ISBN 978-88-317-3439-4 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Gli autori ringraziano tutti gli artisti, i collaboratori e gli am­ministratori di istituzioni culturali, i ricercatori e i critici che, intenzionalmente o a loro insaputa, li hanno ispirati.

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Premessa all’edizione italiana

Il 24 febbraio 2009 apparve su «la Repubblica» un ar­ticolo di Alessandro Baricco inequivocabilmente intitola­to Basta soldi pubblici al teatro. Meglio puntare su scuola e tv. Sembrò una provocazione quasi futurista, come Chiu-diamo le scuole (1914) di Giovanni Papini, che risaliva quasi a un secolo prima, invece coglieva in anticipo una questione che ora viene riproposta con argomentazioni e una documentazione ben più ricche da quattro operatori culturali di formazione tedesca in un libro che abbiamo deciso di tradurre in italiano sfidando l’inevitabile speci­ficità del loro quadro di riferimento, perché ben più forte delle differenze ci è sembrata la somiglianza «europea» dei comportamenti degli Stati e comune è, senza incer­tezze, la tradizione ideologica che li ha orientati da oltre duecento anni.

La questione, semplificata, può essere così riassunta: che senso ha oggi, nel xxi secolo, proseguire lungo le stra­de della politica culturale iniziata dagli illuministi e dai giacobini, che consideravano necessario l’intervento del­lo Stato per avviare i processi di diffusione della cultura ben oltre i circuiti elitari dell’ançien régime, trasformando i teatri, prima di tutto, ma poi anche i musei e le bibliote­che, in altrettanti strumenti di acculturazione popolare, la quale, nel corso dell’Ottocento, diventerà anche lo strumento decisivo per affermare le identità nazionali, non per caso fondate sull’unità di lingua e di cultura.

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Questo secolare percorso trovò nella scuola obbliga­toria per tutti il suo più importante traguardo, dapprima accontentandosi di un’educazione «elementare» e, quin­di, negli ultimi decenni del Novecento, coinvolgendo anche le scuole superiori e l’università.

Contemporaneamente si venne sviluppando ovunque in Europa una cultura «di massa» che si avvalse dei nuo­vi mezzi di comunicazione – dalla fotografia al cinema, alla radio, alla televisione, a internet – per la loro capacità di coinvolgere i «consumatori» in una molteplicità di situazioni e di occasioni straordinaria.

Il ruolo educativo e pedagogico dello Stato ebbe dun­que modo di esprimersi attraverso una varietà di istitu­zioni che si moltiplicò smisuratamente negli anni, richie­dendo sempre più sostanziosi interventi di finanziamento pubblico, fino a perdere di vista l’obiettivo originario, in una sorta di crescita sempre più autoreferenziale e quindi sempre più distante dai bisogni del pubblico.

La crisi che stiamo attraversando in questi anni ha imposto un radicale ridimensionamento della spesa pub­blica e conseguentemente una consistente riduzione di sovvenzioni e contributi e ha costretto tutti a prendere coscienza di quanto nel frattempo era avvenuto, e cioè della diffusione di istituzioni culturali sempre meno funzionali rispetto alla domanda di informazione e for­mazione di una società sempre più articolata e divisa e quindi più difficile da interpretare nei suoi bisogni. Anzi, era accaduto che nel corso del tempo si capovolgesse lo stesso significato dell’iniziativa culturale pubblica, non più percepita e concepita come strumento di accultura­zione popolare, quanto invece come difesa della libertà creativa e intellettuale, con il risultato di trasformarsi in un eccezionale strumento di controllo della ricerca e della stessa espressione artistica.

Se nella prima metà del Novecento la cultura di massa, nelle mani dei regimi totalitari, era diventata un mezzo di propaganda di grande penetrazione, di fatto reprimendo qualsiasi libertà di scelta del pubblico, nella

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società postmoderna l’intervento pubblico nel sistema della produzione e della diffusione culturale ha agito soprattutto nei confronti delle scelte artistiche, favorendo un sostanziale «conformismo» delle stesse.

Se l’arte doveva essere sostenuta perché il pubblico non sembra disposto a valorizzare i suoi risultati più innovativi, poteva, al contrario, essere proprio il suo in­successo popolare a testimoniarne il merito e la qualità, cosicché allo Stato toccava la responsabilità di conser­vare, attraverso i suoi interventi, degli spazi di creatività e innovazione tanto più «liberi» quanto più sottratti al mercato e alla sua logica «consumista».

La pedagogia, inizialmente rivolta all’acculturazione degli esclusi, diventa in questo diverso contesto necessa­ria per correggere e rimproverare i nuovi «consumatori», incapaci di apprezzare le novità.

Ma davvero uno Stato democratico può ancora crede­re di educare quegli stessi cittadini dei quali vuole essere l’espressione? Davvero il mercato è solo uno strumento che confonde i valori e mistifica la verità e la qualità? E, se così fosse, perché questa regola varrebbe solo per l’arte e la cultura?

Le domande che gli autori di Kulturinfarkt ci propon­gono sollecitano una profonda correzione nei comporta­menti dello Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali, che può essere bene riassunta nell’invito ad «azzerare» i fondi pubblici per restituire al mercato la sua funzione regolatrice.

Se la modernità culturale è iniziata con la scoperta del «pubblico» che acquistava i giornali, andava a teatro, leggeva i romanzi e archiviava in questo modo la cultura accademica e classicista, non ci sarà nessuna moderniz­zazione difendendo il passato contro l’innovazione, tanto più che le iniziative che restano senza risposta da parte del pubblico, i musei non visitati, i teatri vuoti, i libri non letti, nei fatti saranno privi di qualsiasi efficacia, gesti esemplarmente velleitari e vani.

Riprendere a misurarsi con la «domanda» è il primo

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passo per restituire alla cultura un ruolo attivo nella società, e le nuove tecnologie offrono ora straordinarie e imprevedibili opportunità per restituire al pubblico, ai singoli utenti, la responsabilità di una scelta che non può che appartenergli.

Questo libro ci invita a riflettere prima e a cambiare strada poi; possa la sua traduzione italiana rivelarsi utile anche da noi almeno quanto è già stato utile nei paesi di lingua tedesca.

l’editore

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Anche la culturanon è altro che un’inutile bugia.peter rühmkorf

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Prefazione

troppo di tutto e ovunque le stesse cose. una polemica sulle politiche culturali, la cultura

istituzionale, le sovvenzioni alla cultura

Le istituzioni culturali in Germania rischiano l’infar­to. Ci sono troppe cose e sono quasi ovunque le stesse. Chi in questo marasma riesce ancora a distinguere ciò che è importante, recepirlo e goderne? Per non parlare, poi, di quello che la cultura deve fare, senza che sia compito suo: favorire la democratizzazione, integrare gli stranieri, rendere le città più accoglienti, ristabilire l’unità intellettuale della nazione, cacciare i neonazisti, assicurare la pace, generare crescita economica, creare equilibrio sociale.

Questa guaritrice della società è la prima a essere gravemente malata. Delira perché è attaccata a una flebo, quella degli incentivi pubblici, che gocciola sempre me­no – o almeno così pare. I sintomi della malattia aumenta­no, ma tutti scappano al momento di pronunciare la dia­gnosi. Il ritornello del Kulturstaat 1 non dà alcun sollievo.

1 La nozione di Kulturstaat (Stato di cultura) definisce il ruolo dello Stato come agente nella sfera della cultura. Lo Stato di diritto, sviluppatosi in Germania a partire dal xix secolo, si è sempre considerato un Kulturstaat. La definizione della Germania come Kulturstaat, inserita nel Trattato di uni­ficazione del 1990, ha svolto un ruolo anche nel processo di rinegoziazione

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Eurocrisi, globalizzazione, demografia, migrazione, digitalizzazione: smisurate sono le forze centrifughe che scaturiscono dai cambiamenti della società. Si chiudono le chiese perché i fedeli scarseggiano, le scuole perché i giovani sono sempre meno; da luoghi di cura gli ospedali si trasformano in officine di riparazione da cui i pazienti vanno dimessi il prima possibile; perfino le centrali ato­miche vengono chiuse perché la società desidera altre fonti di energia; solo nel campo dell’arte e della cultura tutto deve restare così come è stato disposto, fedeli al ­l’insegnamento del consigliere segreto Goethe 2 rivestito di pedagogia sociale borghese e strumentalizzato dai guru degli anni settanta?

Troppo di tutto: inventata dai socialdemocratici, la Nuova politica culturale degli ultimi decenni si basa sul teorema per cui ogni offerta, una volta creata, produce i propri consumatori. Questa ossessione dell’offerta ha moltiplicato le istituzioni e le possibilità di incentivazio­ne, ma non i consumatori. E se l’estetica ha pervaso la società, lo dobbiamo al settore commerciale.

Ovunque le stesse cose: l’avanzata della cultura sovvenzionata, delle giurie, degli esperti e dei manager culturali non produce innovazione, bensì conformità dal sapore burocratico, che si misura sulla base di tabelle di assegnazione, format di progetto e criteri. Certamente la grande arte esiste ancora. Ma chi la riconosce nella massa

dell’identità nazionale nel contesto federale. Il giurista e teorico del diritto Hans Kelsen lo pone in contrapposizione alla nozione di Stato liberale, in quanto esso svolgerebbe funzioni che travalicano l’ordinaria competenza statale. Il concetto di Kulturstaat caratterizza la normativa tedesca sul patri­monio culturale, che considera i beni culturali come oggettivizzazione del concetto del Kulturstaat, di derivazione prussiana, che si traduce in un rap­porto dialettico di interrelazioni reciproche tra lo Stato e la cultura. [N.d.T.]

2 Il Consiglio segreto era l’organo del quale in origine il principe elettore si serviva per discutere di affari più o meno segreti con un circolo ristretto di persone di fiducia; ne facevano parte alcuni consiglieri e alti funzionari di corte. Nominato consigliere segreto del duca di Weimar nel 1779, Goethe eb­be a dire: «Mi sembra meraviglioso raggiungere, come in sogno, a trent’anni, il più alto grado onorifico che un cittadino tedesco possa ottenere». [N.d.T.]

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indifferente e omogenea di semilavorati realizzati con buone intenzioni e buoni incentivi? Dov’è la discussione sulla vita che scaturisce dall’arte?

Una polemica: sì, siamo pronti a sferrare la critica. Di rado è rivolta alle persone, ma sempre al sistema, che si concentra esclusivamente sul versante della produzione e che, nel migliore dei casi, considera il singolo come un individuo che «non funziona» dal punto di vista cultura­le, e che va dunque «riparato»; cosa a cui, a buon diritto, quest’ultimo si oppone. Diamo lettura dei fatti, delle sta­tistiche e tiriamo le somme di conclusioni che qualcuno prima di noi – anche qui, troppo! – ha già tratto e che nessuno vuole ascoltare.

Scendiamo in campo contro lo scisma che la politica culturale moderna porta nella società: tra una cultura buona e una cattiva, tra cittadini interessati alla cultura e cittadini che se ne disinteressano. Solleviamo un’obiezio­ne contro la crescente influenza dello Stato sulla cultura. Deploriamo la vicinanza allo Stato, al potere e al denaro, che negli ambienti culturali è diventata così di moda. Ci costa fatica avere a che fare con l’irresponsabilità delle istituzioni culturali. Non siamo d’accordo con la loro indifferenza ai cambiamenti, il loro arroccarsi. E ancor meno siamo d’accordo con la politica che si esercita nei discorsi della domenica, per poi dimenticarli il lunedì. Infine, crediamo che manchino discussioni nella scena culturale, dove è saldo il principio di risparmiarsi a vicenda: nessuno critica nessuno; tutti hanno lo stesso diritto di esistere e di ricorrere agli incentivi. I grandi hanno bisogno dei piccoli a mo’ di foglia di fico; i piccoli amano stare al riparo dal vento.

Non ci fermiamo alla polemica. Vogliamo sottoporre il paziente a una terapia. La nostra riflessione è volta al futuro, a nuovi approcci e nuovi paradigmi: dire addio al giudizio di valore imposto, per esempio, smantellare le istituzioni, investire in attività indipendenti, passare a una distribuzione digitale, orientare l’offerta verso la creazione di valore aggiunto tenendo conto delle attese

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dei consumatori, costruire un’economia della cultura ad alto valore aggiunto. Non sviluppiamo una visione ristretta. Le visioni che si legano al potere della politica diventano presto camicie di forza, lo sappiamo fin troppo bene. È per questo che la nostra contraddizione rimane contraddittoria.

In tutti gli ambiti in cui agisce, la politica si occupa del futuro, nel migliore dei casi mostrando un occhio di riguardo per le fonti energetiche e la sanità. Solo per la cultura si parla sempre e soltanto del passato, del man­tenimento delle strutture e di autodifesa morale. Perfino l’innovazione estetica, la preferita dalle sovvenzioni, è storia vecchia. Eppure, nulla cambia più rapidamente dell’arte. Nel giro di vent’anni, la globalizzazione l’ha messa sottosopra. La politica è in grado di dare una ri­sposta? No. Ne sono capaci le organizzazioni culturali? No. Tutti invocano a gran voce: «Più denaro!».

Chi critica le istituzioni culturali e, in senso più am­pio, la politica culturale non è un nemico della cultura. Al contrario: ci preme liberarla dai suoi presunti difensori, che la abbracciano fino a farla soffocare. Le richieste non sono nuove, ma più che mai attuali: più spirito imprendi­toriale, maggiore confronto con le esigenze del pubblico, meno fantasie di onnipotenza. E la presa di coscienza che l’arte non guarirà il mondo. Altrimenti, paradossalmente, forse non ci sarebbe più alcun bisogno dell’arte!

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I sintomi di un crollo imminente

La politica culturale è bloccata in una crisi di immo­bilità, che però deve a se stessa. Le istituzioni culturali sono ancora segnate da una «mentalità autoconservatrice tipica delle corporazioni» 1: «Il teatro a tutti i costi!» 2. Evidentemente non servono altre motivazioni.

Per chi è dentro il sistema degli incentivi statali, la situazione diventa sempre più difficile ma, perlomeno, ha un tetto sulla testa. Si lamenta, ma dall’alto delle sue cer­tezze. Peggio per chi arriva tardi o deve ancora arrivare. Oggi conta solo l’«infrastruttura culturale» (ossia ciò che viene già incentivato), l’«assistenza culturale minima» (tutti devono essere «assistiti» con la stessa cultura di sempre). C’è mai stata innovazione? Non è poi tanto as­surdo concludere che con i finanziamenti statali abbiamo decretato la fine di una produzione artistica e culturale orientata al futuro.

1 La definizione è di Gerard Schulze, sociologo della cultura e professo­re all’Università di Bamberga. [N.d.T.]

2 Theater muss sein! è un’iniziativa promossa dal Deutscher Bühnenver­ein (Associazione tedesca dei gestori teatrali) prendendo spunto dal motto del regista e direttore teatrale tedesco August Everding. [N.d.T.]

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troppo di tutto e ovunque le stesse cose

C’è davvero motivo di andare fieri di quel che ab­biamo raggiunto? Dagli anni settanta i musei, i teatri, le biblioteche, le università popolari 3, le scuole di musica, le sale per concerti, i centri socioculturali, le scuole d’arte, i circoli letterari, le associazioni culturali, le spese per la cultura hanno registrato un aumento esponenziale. Il nobile obiettivo di far sì che tutti prendessero parte alla cultura e all’arte in maniera diffusa ha portato a un mas­siccio sviluppo di enti culturali.

Nel caso della Germania, le cifre contenute nel rap­porto Cultura nelle città del Deutscher Städtetag (Asso­ciazione tedesca delle città) 4, con dati del 1977, sono elo­quenti. Da allora le università popolari sono aumentate di 6 volte, le biblioteche di 7, le scuole di musica di 8. Riguardo ai musei non esistono statistiche complete, ma è plausibile ritenere che ce ne siano da 7 a 10 volte in più rispetto alla fine degli anni sessanta. E nel 1977 la socio­cultura 5 – per lo meno nella Germania dell’Ovest – non era ancora una realtà istituzionale. Oggi in Germania esi­ste un’ampia rete di enti socioculturali. Naturalmente, le cifre del 1977 riguardano la vecchia Repubblica federale tedesca (Drb); va tenuto conto del fatto che, con l’unifi­cazione, si sono aggiunti gli enti della Repubblica demo­cratica (Ddr). Dopo l’unificazione, il numero dei teatri è quasi raddoppiato. Tuttavia, questo certamente non basta a spiegare tutto. Sotto il dominio dell’iniziativa «Cultura

3 Volkshochschulen, le cosiddette università popolari. Si tratta di vere e proprie scuole che offrono corsi di ogni genere, rivolti a ogni fascia d’età e a ogni ceto sociale, permettendo così a tutti di accedere al sapere. [N.d.T.]

4 Riunisce città circondariali ed extracircondariali e le relative associa­zioni. Come una comunità di città attua il principio dell’autogoverno locale. Il lavoro e i servizi dell’associazione sono orientati principalmente ai bisogni e agli interessi delle città che ne fanno parte e dei loro cittadini. [N.d.T.]

5 Termine coniato negli anni settanta per indicare politiche e attività culturali specificamente finalizzate a conseguire obiettivi di crescita perso­nale e coesione sociale e, in quanto tali, nettamente distinte dall’ambito della cosiddetta «cultura alta». [N.d.T.]

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per tutti», in questo paese è avvenuto – si perdoni la me­tafora militare – un riarmo culturale sistematico.

L’ideale, radicato nella tradizione, del Kulturstaat si ri­vela in Germania in tutta la sua concretezza nell’infrastrut­tura culturale. Circa 9 miliardi di euro di sussidi pubblici ogni anno, quasi 5000 musei pubblici e oltre 140 teatri fra nazionali, civici e popolari; 8500 biblioteche pubbliche, quasi 1000 scuole di musica e altrettante università popola­ri amministrate dai comuni: ecco dove si perpetua l’ideale del Kulturstaat. Offrono la cosiddetta «assistenza minima», non sempre efficiente, ma organizzata in modo da essere accessibile a tutti coloro che ne vogliano trarre vantaggio.

Tutto ciò è stato possibile grazie alla crescita econo­mica degli anni settanta e ottanta. Alle conseguenze di medio e lungo periodo non ha pensato nessuno. Le con­tinue spese per la cultura sostenute dai comuni – che ne effettuavano la gran parte – tra il 1975 e il 1995 nell’Ovest della Germania sono aumentate più rapidamente dei bi­lanci comunali. Tassi di crescita a due cifre, fino al 26,5% (1979) non erano insoliti. Dopo il 1995 questa crescita ha cominciato ad arrestarsi. Poco dopo, l’espressione Kaputtsparen («risparmiare fino a ridursi al lumicino») è entrata nel lessico della politica culturale. Ma non è così dappertutto: in alcuni ambiti e zone si continuano a registrare tassi di crescita considerevoli.

Lo sviluppo dell’infrastruttura culturale non è un fenomeno solo tedesco. Anche in Svizzera si registrano dati simili. Dal 1970 il numero dei musei è passato da 300 a 1000 e quello delle biblioteche pubbliche da 900 a 1300. La popolazione, però, nello stesso periodo è aumen­tata solo del 15%. Anche l’Austria mostra un andamento analogo; qui, per di più, la spesa per la cultura è sempre stata maggiore rispetto a quella della Germania, segno del retaggio culturale dell’impero austro­ungarico. Così, stando alle statistiche 6, attualmente l’Austria conta oltre

6 Statistik Austria. [N.d.T.]

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812 musei ed enti museali. Oltre agli enti di Vienna, esistono 15 teatri pubblici, soprattutto teatri popolari nei singoli capoluoghi dei Länder. Nella stagione 2009/2010 gli spettatori sono stati circa 3.790.000 nei teatri pubblici e 1.570.000 in quelli privati. Inoltre, l’Austria è il paese dei Festspiele 7: oltre a quelli di Salisburgo e Bregenz, molti sono quelli minori, che nella stagione 2009­2010 hanno fatto registrare complessivamente 3106 spettacoli e 1.800.000 spettatori.

Prendiamo il caso dei festival. In Germania, secondo i dati del Deutscher Bühnenverein (Associazione tedesca dei gestori teatrali), il numero dei festival teatrali è più che raddoppiato: da 25 festival con 1324 rappresentazioni nella stagione 1991­1992 si è passati a 56 con le 3579 della stagione 2009­2010 e da 1.427.667 spettatori si è arrivati a registrar­ne non meno di 2.441.487. Tuttavia, il numero di spettatori per rappresentazione è sceso sensibilmente, da 1080 a 680. I festival sono diventati più di nicchia. Per quanto riguarda l’Europa, si stima che i festival musicali si siano decuplicati nel giro di trent’anni. La crescita continua im­perterrita: è evidente anche senza guardare le statistiche. Non stupisce che con un simile andamento l’esplosione della concorrenza abbia portato all’«eventizzazione» delle attività culturali che godono di incentivi pubblici.

Anche la televisione finanziata dal canone non vuole essere da meno. Se i telespettatori, fino a non molto tem­po fa, si riunivano davanti al talk show della domenica sera – che un noto politico ha definito più influente del parlamento –, nell’autunno del 2010 Ard 8 ha pensato be­ne di trasmettere tutte le sere un talk show con modera­tori famosi: sempre di più e sempre le stesse cose, appun­to. I temi sono intercambiabili, così come gli opinionisti che si pavoneggiano affogando nelle proprie chiacchiere autoreferenziali. I costi della televisione pubblica equi­

7 Festival teatrali e musicali. [N.d.T.]8 Il primo canale della tv pubblica tedesca. [N.d.T.]

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valgono quasi alla totalità della spesa per la cultura e, con l’adattamento del canone del 2013, le richieste degli enti ammontano a 9 miliardi di euro all’anno 9.

Tuttavia, tra i politici la posizione prevalente è: lascia­teci ampliare l’offerta! Vogliamo estenderla in tutte le direzioni, per sconfiggere la pericolosa paura delle novità in campo artistico e – udite udite! – raggiungere anche quei ceti che non si interessano alla cultura.

Eppure il sistema è sull’orlo del collasso. In Germania non è più possibile finanziare; in Austria e in Svizzera si arriverà presto al limite. Nel 2012 i musei pubblici in Ger­mania non dispongono praticamente più di budget per nuove acquisizioni. Si riescono a malapena a coprire le spese per il personale. Bisogna prendere in considerazio­ne l’idea di ridurre gli orari di apertura. Stessa situazione per le biblioteche: quelle regionali non hanno più i mezzi per mantenere aggiornate e rilegate le raccolte di riviste. Non si distingue l’offerta di quei centri socioculturali che ricevono denaro pubblico da quella dei centri che non ne ricevono. Questo vale anche per le sale da concerto e le gallerie. Il denaro scarseggia ovunque. Per trovare una soluzione, la formula magica proposta dalla politica è: procuratevi sponsor e sviluppate capacità imprenditoriali.

L’espansione della cultura è avvenuta senza un pro­getto. I politici della cultura e i beneficiari degli incentivi volevano fare un’opera buona, questo è sicuro. E un’ope­ra buona si può superare solo con altre opere buone. Chi oserebbe chiedere ancora più denaro? Messa da parte la crisi di bilancio degli Stati europei, il motto del 2011 è: «Promuovere bene la cultura».

Negli ultimi decenni nessuno ha trovato un’alternati­va alla «cultura per tutti». E quando, dal 1989, la faccen­da dei fondi di bilancio si è fatta più problematica, tutti

9 Il riferimento è al passaggio dall’attuale modalità di pagamento del canone – per cui si corrisponde una quota per ogni apparecchio che si pos­siede – al canone unico che entrerà in vigore nel 2013 e verrà pagato indistin­tamente da tutti i contribuenti. [N.d.T.]

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