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L’ economia Anno 0 - Gennaio 2012 - Numero Speciale dell ... · sieme alle slides di...

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Anno 0 - Gennaio 2012 - Numero Speciale Lo scorso novembre è stato presentato all’Uni- versità di Milano Bicocca il “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione 2011” realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e patrocina- to dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) e dal Ministero degli Affari Esteri. Il volume edito da Il Mulino, raccoglie i frutti del lavoro di studio e ricerca degli ultimi anni della Fondazione. L’analisi della dimensione economica dell’immi- grazione contenuta nel volume, completa di ap- profondimenti tematici e dati statistici di ultimo aggiornamento, contribuisce ad integrare la vasta letteratura sul fenomeno, fino ad oggi circoscritta quasi esclusivamente a discipline di ambito so- cio-culturale. Il risultato di questo lavoro si rivela un utile strumento per la pianificazione di politi- che pubbliche coerenti ad una realtà in continua evoluzione, rivolto a decisori politici e ammini- stratori locali impegnati nella gestione dei flussi migratori e delle implicazioni economiche ad essi connesse. Questo strumento si rivolge anche ad un pubblico più vasto, intervenendo a pieno titolo nel dibattito in tema di integrazione, sgomberando il campo da quei dubbi e quelle perplessità generati da una discussione controversa fondata più spes- so su percezioni alterate da ideologie, stereotipi e pregiudizi sociali, che su valutazioni di natura scientifica. Ancora poco considerato sembra so- prattutto il fatto che gli stranieri rappresentino ef- fettivamente un valore economico per la società in cui si trovano ad operare, e che non si possa riconoscere loro altro che il ruolo di veri e propri attori di sviluppo, prosperità e competitività per il sistema economico del paese ospitante. La Fondazione Leone Moressa ha però ritenuto che fosse opportuno affiancare alle informazioni contenute nel volume, un numero speciale della rivista “L’economia dell’Immigrazione” nella for- ma di un agile pamphlet di immediata e scorre- vole lettura, che raccogliesse le trascrizioni degli interventi e del dibattito tenutisi tra i partecipanti alla tavola rotonda dal titolo “Gli stranieri: quale valore economico per la società?”, seguita alla presentazione del volume. Le considerazioni esposte da esperti e studiosi dei fenomeni migratori durante il convegno, in- sieme alle slides di presentazione del Rapporto, guideranno il lettore nella scoperta di una realtà complessa e mutevole come quella dell’immigra- zione e dei processi economici e sociali da essa generati, svelandone aspetti spesso nascosti. Una realtà che necessita di una riflessione profonda e strutturata per poter essere correttamente inter- pretata e che, se affrontata unicamente tramite i risultati dello studio contenuti nel Rapporto, senza punti di riferimento concreti tratti dall’esperienza sul campo, rischia di non essere compresa e di trovarci passivi e inermi di fronte alle sue rapide trasformazioni. La tavola rotonda condotta da Francesca Padula, giornalista del Sole24Ore, ha visto susseguirsi trattazioni di taglio più strettamente scientifico che hanno disarticolato questa disciplina in for- mazione (l’economia dell’immigrazione) nelle sue diverse dimensioni. La Dott.ssa Valeria Benve- nuti della Fondazione Leone Moressa, il Prof. G. Micheli e il Prof. E. Reyneri, del Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università degli studi Milano Bicocca, hanno discusso dello stato attuale della ricerca in materia, dei suoi recenti progressi, dei limiti e del potenziale epistemolo- gico in essa ancora inespresso. Hanno poi fornito una lettura dei risultati contenuti nel Rapporto, considerandone le attuali implicazioni e le possi- bili ripercussioni per l’economia italiana. Ma non sono mancate le riflessioni di stampo più politico e sindacale, come quelle di C. Tajani, Assessore del Comune di Milano con delega al Lavoro, all’Università e alla Ricerca, di O. Bitjoka, Presidente della Fondazione Ethnoland, di J. Oro- peza, Direttore dell’Organizzazione Internazionale dell’Immigrazione, del Dott. A. Payar, dirigente na- zionale per l’immigrazione della Confartigianato e di M. Bove, responsabile immigrazione della Cisl di Milano. Da questi interventi emerge un appello rivolto in primis alle istituzioni, ma che si estende poi alla cittadinanza nel suo complesso: un appel- lo ad un cambiamento di approccio e di prospet- tiva che permetta di riconoscere nel migrante, l’uomo, il lavoratore e il cittadino. Un nuovo attore che esprime bisogni, progetti e diritti all’interno di contesti sociali che non possono che beneficiare della sua presenza e della sua partecipazione. Sommario Editoriale ATTI DEL CONVEGNO Giuseppe Micheli Docente di Demografia presso l’Università di Milano-Bicocca Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore Valeria Benvenuti Ricercatrice della Fondazione Leone Moressa Cristina Tajani Assessore al Lavoro del Comune di Milano Otto Bitjoka Presidente della Fondazione Ethnoland José Angel Oropeza Direttore Ufficio di Coordinamento OIM per il Mediterraneo Emilio Reyneri Docente di Sociologia del lavoro presso l’Università di Milano-Bicocca Antonio Payar Dirigente nazionale funzione “Immigrazione, sociale, persona” di Confartigianato Persone Maurizio Bove Responsabile immigrazione della Cisl di Milano GLI STRANIERI: QUALE VALORE ECONOMICO PER LA SOCIETA’? Martedì 8 novembre 2011 Università degli Studi di Milano - Bicocca Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1 – Milano DIPARTIMENTO DI DIRITTO PER L’ECONOMIA Università degli Studi di Milano – Bicocca economia dell’immigrazione L’ Studi e riflessioni sulla dimensione economica degli stranieri in Italia www.fondazioneleonemoressa.org - [email protected] Editore: Fondazione Leone Moressa, Direttore responsabile: Renato Mason, ISSN 2240-7529
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Page 1: L’ economia Anno 0 - Gennaio 2012 - Numero Speciale dell ... · sieme alle slides di presentazione del Rapporto, ... Giuseppe Micheli Docente di Demografia presso l’Università

Anno 0 - Gennaio 2012 - Numero Speciale

Lo scorso novembre è stato presentato all’Uni-versità di Milano Bicocca il “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione 2011” realizzato dalla Fondazione Leone Moressa e patrocina-to dall’OIM (Organizzazione Internazionale per le migrazioni) e dal Ministero degli Affari Esteri. Il volume edito da Il Mulino, raccoglie i frutti del lavoro di studio e ricerca degli ultimi anni della Fondazione.

L’analisi della dimensione economica dell’immi-grazione contenuta nel volume, completa di ap-profondimenti tematici e dati statistici di ultimo aggiornamento, contribuisce ad integrare la vasta letteratura sul fenomeno, fino ad oggi circoscritta quasi esclusivamente a discipline di ambito so-cio-culturale. Il risultato di questo lavoro si rivela un utile strumento per la pianificazione di politi-che pubbliche coerenti ad una realtà in continua evoluzione, rivolto a decisori politici e ammini-stratori locali impegnati nella gestione dei flussi migratori e delle implicazioni economiche ad essi connesse.

Questo strumento si rivolge anche ad un pubblico più vasto, intervenendo a pieno titolo nel dibattito in tema di integrazione, sgomberando il campo da quei dubbi e quelle perplessità generati da una discussione controversa fondata più spes-so su percezioni alterate da ideologie, stereotipi e pregiudizi sociali, che su valutazioni di natura scientifica. Ancora poco considerato sembra so-prattutto il fatto che gli stranieri rappresentino ef-fettivamente un valore economico per la società in cui si trovano ad operare, e che non si possa riconoscere loro altro che il ruolo di veri e propri attori di sviluppo, prosperità e competitività per il sistema economico del paese ospitante.

La Fondazione Leone Moressa ha però ritenuto che fosse opportuno affiancare alle informazioni contenute nel volume, un numero speciale della rivista “L’economia dell’Immigrazione” nella for-ma di un agile pamphlet di immediata e scorre-vole lettura, che raccogliesse le trascrizioni degli interventi e del dibattito tenutisi tra i partecipanti alla tavola rotonda dal titolo “Gli stranieri: quale valore economico per la società?”, seguita alla presentazione del volume.

Le considerazioni esposte da esperti e studiosi dei fenomeni migratori durante il convegno, in-

sieme alle slides di presentazione del Rapporto, guideranno il lettore nella scoperta di una realtà complessa e mutevole come quella dell’immigra-zione e dei processi economici e sociali da essa generati, svelandone aspetti spesso nascosti. Una realtà che necessita di una riflessione profonda e strutturata per poter essere correttamente inter-pretata e che, se affrontata unicamente tramite i risultati dello studio contenuti nel Rapporto, senza punti di riferimento concreti tratti dall’esperienza sul campo, rischia di non essere compresa e di trovarci passivi e inermi di fronte alle sue rapide trasformazioni.

La tavola rotonda condotta da Francesca Padula, giornalista del Sole24Ore, ha visto susseguirsi trattazioni di taglio più strettamente scientifico che hanno disarticolato questa disciplina in for-mazione (l’economia dell’immigrazione) nelle sue diverse dimensioni. La Dott.ssa Valeria Benve-nuti della Fondazione Leone Moressa, il Prof. G. Micheli e il Prof. E. Reyneri, del Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università degli studi Milano Bicocca, hanno discusso dello stato attuale della ricerca in materia, dei suoi recenti progressi, dei limiti e del potenziale epistemolo-gico in essa ancora inespresso. Hanno poi fornito una lettura dei risultati contenuti nel Rapporto, considerandone le attuali implicazioni e le possi-bili ripercussioni per l’economia italiana.

Ma non sono mancate le riflessioni di stampo più politico e sindacale, come quelle di C. Tajani, Assessore del Comune di Milano con delega al Lavoro, all’Università e alla Ricerca, di O. Bitjoka, Presidente della Fondazione Ethnoland, di J. Oro-peza, Direttore dell’Organizzazione Internazionale dell’Immigrazione, del Dott. A. Payar, dirigente na-zionale per l’immigrazione della Confartigianato e di M. Bove, responsabile immigrazione della Cisl di Milano. Da questi interventi emerge un appello rivolto in primis alle istituzioni, ma che si estende poi alla cittadinanza nel suo complesso: un appel-lo ad un cambiamento di approccio e di prospet-tiva che permetta di riconoscere nel migrante, l’uomo, il lavoratore e il cittadino. Un nuovo attore che esprime bisogni, progetti e diritti all’interno di contesti sociali che non possono che beneficiare della sua presenza e della sua partecipazione.

Sommario Editoriale

ATTI DEL CONVEGNOGiuseppe Micheli Docente di Demografia presso l’Università di Milano-Bicocca

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Valeria Benvenuti Ricercatrice della Fondazione Leone Moressa

Cristina Tajani Assessore al Lavoro del Comune di Milano

Otto Bitjoka Presidente della Fondazione Ethnoland

José Angel Oropeza Direttore Ufficio di Coordinamento OIM per il Mediterraneo

Emilio Reyneri Docente di Sociologia del lavoro presso l’Università di Milano-Bicocca

Antonio Payar Dirigente nazionale funzione “Immigrazione, sociale, persona” di Confartigianato Persone

Maurizio Bove Responsabile immigrazione della Cisl di Milano

GLI STRANIERI: QUALE VALOREECONOMICO PER LA SOCIETA’?Martedì 8 novembre 2011Università degli Studi di Milano - BicoccaPiazza dell’Ateneo Nuovo, 1 – Milano

DIPARTIMENTO DI DIRITTO PER L’ECONOMIAUniversità degli Studi di Milano – Bicocca

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Studi e riflessioni sulla dimensione economica degli stranieri in Italia

www.fondazioneleonemoressa.org - [email protected]

Editore: Fondazione Leone Moressa, Direttore responsabile: Renato Mason, ISSN 2240-7529

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GLI STRANIERI: QUALE VALORE ECONOMICO PER LA SOCIETA’? Atti del Convegno

Giuseppe Micheli Docente di Demografia presso l’Università di Milano-Bicocca

Buonasera. Sono qui, con la funzione di aprire le danze e fare gli onori di casa. Doveva essere il direttore di dipartimento Giorgio Grossi, precettato in Rettorato per una serie di riunioni in corso per capire qual è il destino dell’Università, e quindi, andando per l’IRA-MI, alla fine hanno chiesto a me, da una parte perché sono un vecchio docente dell’Università. Dall’altra perché sono un demografo e quindi il tema mi tocca perso-nalmente. Ieri ero al CNR. Si discuteva dei temi delle strategie migratorie e così via. Ho presente almeno tre punti che credo siano quei tre punti che voi tenete in considerazione. Il primo è che l’Italia è a crocicchio di uno scambio di flussi tra una proposta di alcune cen-tinaia di milioni di persone interessate a venire verso i mercati europei e una richiesta di mercato del lavoro minore, e che quindi siamo in presenza di un conflit-to tra domanda e offerta che può provocare tensioni. La seconda considerazione, che a volte non si tiene in conto, è che i flussi migratori che oggi passano per il vecchio continente, sono veramente la minima parte dei flussi migratori internazionali, il che serve anche per ridimensionare il problema. Il terzo punto. Ho aperto di corsa il volume e vedevo all’inizio alcune citazioni. Vorrei fare una citazione simile. Il punto è che molto spesso dobbiamo ricordarci di esser stati stranieri in Egitto e che il problema dei migranti non si traduce in un pro-blema di ospiti ingrati, ma in un problema di popolazio-ni sradicate che vivono anche di nostalgia e che sono soggetti deboli di un sistema. Questo è per dire che il problema dei flussi migratori è al centro di uno dei tanti nodi dicotomici formati da stereotipi contrapposti. Da una parte c’è lo stereotipo che vuole l’immigrato ospite sacro universalmente su tutto, dall’altra quello che vuo-le l’immigrato come ospite ostile e straniero da rifiutare. Per questo credo che leggerò molto volentieri questo volume. Ben vengano delle analisi che, sotto l’under-statement dell’analisi economica, vanno a vedere esat-tamente le dinamiche di quello che succede, al di là di queste contrapposizioni che sono assolutamente letali. Io quindi sono molto felice che ci sia una manifestazio-

ne, a cui purtroppo non ho contribuito assolutamente. Non ho nessuna responsabilità o onore in tutto ciò, ma mi sembra comunque molto bello che ci sia.

Apro quindi le danze e vi apro gli scrigni del no-stro dipartimento. Grazie a tutti

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie al professor Micheli e quindi, possiamo iniziare. In realtà abbiamo una tabella di marcia piutto-sto incalzante e orari che stringono. Abbiamo oggi la possibilità di discutere, aprendo il dibattito su dei nume-ri che illustrano uno spaccato dell’economia dell’immi-grazione che la Fondazione Leone Moressa ha raccolto in un rapporto annuale veramente molto interessante. L’immigrazione, come dicevamo prima col professor Reyneri, è sicuramente un fenomeno tanto strutturale quanto trascurato negli ultimi anni. Noi della stampa e noi del Sole24Ore in particolare, facciamo spesso rife-rimento alla Fondazione Leone Moressa che ci fornisce tanti spunti, studi e approfondimenti, ma devo confes-sare che ultimamente il tema dell’immigrazione, proprio per la crisi e per l’incalzare dei temi e per lo spazio che le manovre economiche hanno mantenuto sui giornali negli ultimi mesi, è stato un po’ trascurato. Devo dire che anche tutta l’estate e l’autunno sono passati con una minore attenzione, rispetto agli ultimi anni. Appro-fittiamo quindi di questo pomeriggio per ridare un po’ di spazio e di importanza a questo tema. Allora, devo dare la parola a Valeria Benvenuti della Fondazione Leone Moressa che ha il compito di parlarci di questo primo rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione.

Valeria Benvenuti Ricercatrice della Fondazione Leone Moressa

Buonasera. Grazie per essere qui presenti oggi, anche da parte del nostro direttore scientifico, il pro-fessor Solari che io sostituisco e che oggi purtroppo non è potuto essere qui. Vorrei ringraziare personal-

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mente innanzitutto chi questa iniziativa editoriale l’ha voluta patrocinare, l’organizzazione internazionale per l’immigrazione, in particolare il Dottor Oropeza e il Dot-tor Melchionda, e anche chi del Ministero per gli Affari Esteri, ha patrocinato il rapporto di ricerca della Fon-dazione. Grazie anche al Professor Reyneri, che oltre a essere qui oggi presente, ci ha dato la disponibilità di fare questa presentazione all’interno del suo Diparti-mento. Un ringraziamento speciale anche all’Assessore Tajani, che è qui in veste di Assessore al Lavoro del Co-mune di Milano, al Dottor Bitjoca, imprenditore e Pre-sidente della Fondazione Ethnoland e vice Presidente di Extrabanca, e al Dottor Payar, dirigente del settore Immigrazione della Confartigianato Nazionale Persone, che sostituisce oggi il Dottor Merletti. Grazie anche a Francesca Padula, una delle maggiori esperte di que-stioni migratorie sulla carta stampata, per essere qui. Di nuovo, grazie mille a tutti voi.

Oggi presentiamo il primo rapporto sull’eco-nomia dell’immigrazione realizzato dalla Fondazione Leone Moressa, Fondazione che nasce nel 2002 da un’iniziativa dell’associazione artigiani di Mestre (Cgia di Mestre), che da anni si occupa di questioni migrato-rie, in particolare di economia dell’immigrazione. Par-lare di migrazione non può prescindere da questioni strettamente economiche. Oggi ci troviamo a parlare del se e del come gli immigrati siano un valore per la nostra società, perché gli immigrati nel nostro paese lavorano, fanno impresa, pagano le tasse, mandano i

soldi all’estero e soffrono più degli italiani di un disagio economico e di vera e propria povertà. Gli addetti ai lavori sanno che estrapolare questi dati non è facile, perché molto spesso gli enti preposti alla raccolta dei dati non sempre trattano di immigrazione. D’altra parte quando questo viene fatto, spesso incontrano difficoltà a diffondere queste informazioni. Quindi in questo vo-lume abbiamo cercato proprio di raccogliere dati che mettano in risalto l’aspetto più prettamente economico dell’immigrazione, che comunque non può prescindere da ragionamenti di tipo sociologico e soprattutto demo-grafico, come veniva detto prima.

Voglio fare una premessa metodologica, perché chi leggerà questo libro si troverà di fronte a scritture tipo “attenzione leggiamo bene i dati perché per gli stra-nieri non c’è un identificazione univoca”. Alcuni istituti di ricerca identificano come straniero solamente chi è nato all’estero, ma tra questi vengono considerati an-che soggetti, tipo gli svizzeri e i tedeschi, come dopo vedremo, che in tutto e per tutto sono italiani ma che sulla carta sono nati all’estero, oppure solamente chi ha cittadinanza straniera, per cui non vengono considerati gli stranieri che hanno acquisito nel tempo la cittadinan-za italiana. Quindi sulla base delle informazioni statisti-che, si parla di stranieri in un modo piuttosto che in un altro. Quindi, se vi capita appunto di leggere il volume, fate attenzione a cosa si intende quando si utilizza il termine straniero.

Mercato del lavoro 2010Occupazione Disoccupazione

Numero di occupati2.074.246

Stranieri / totale9,2%

Tasso di occupazione63,1%

(italiani = 56,3%)

Differenza assoluta occupati 2008 - 2010

+ 331.377(italiani = - 845.441)

Numero di disoccupati274.121

Stranieri / totale13,0%

Tasso di disoccupazione11,6%

(italiani = 8,1%)

Differenza assoluta disoccupati 2008 - 2010

+ 112.430(italiani = + 298.046)

Partiamo con alcuni dati: si contano in Italia nel 2010 oltre 2 milioni di occupati stranieri che rappre-sentano il 9,2% del totale dell’occupazione, mostran-

do tassi di occupazione più elevati rispetto agli italia-ni. Parliamo del 63,1% a fronte del 56,3%. Nel biennio 2008-2010, l’aumento del numero di occupati stranieri

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è stato di quasi 330 mila unità, quando per gli italiani si è invece assistito ad una riduzione di 800 mila sogget-ti. Apparentemente, l’aumento degli occupati stranieri e il calo degli occupati italiani, sembrerebbe significare che la crisi non abbia toccato gli immigrati. Ma così non è, perché il mercato del lavoro mostra un’altra faccia della medaglia: la disoccupazione. In Italia nel 2010, si contano quasi 300 mila disoccupati stranieri che sono

il 13% del totale dei disoccupati, con proporzioni più elevate rispetto agli italiani. Gli stranieri mostrano tassi di disoccupazione più alti: l’11,6% contro l’8,1% degli italiani. Nel biennio considerato inoltre, l’aumento del numero di disoccupati è stato di 110 mila unità. Questo significa che un nuovo disoccupato su 4, creati dalla crisi, è straniero.

Mercato del lavoro 2010

Occupatistranieri

Dipendente86,0%

Operaio89,9%

Terziario51,3%

Maschi58,2%

25-34 anni32,6%

Skilled55,2%

Impresecon meno di10 persone

53,4%

il 20,1% degli occupati nell’edilizia è straniero

84,8% a tempo indeterminato

Il 9,4% delle donne occupate

è straniera

Il 33,3% degli occupati low

skilled è straniero

vs 41,7% italiani

L’occupato è prevalentemente un lavoratore di-pendente. La maggior parte dei lavoratori stranieri sono dipendenti a tempo indeterminato. Il 90% di essi è co-stituito da operai, quando per la popolazione italiana si parla di meno della metà, 41,7%. La metà di essi opera nel settore terziario, anche se nel settore dell’edilizia, si calcola il maggior peso di occupati stranieri sul totale

degli occupati del settore. Lavorano in aziende di picco-la piccolissima dimensione: meno di 10 persone. Rico-prono professioni dalla media bassa qualifica, conside-rando che, di tutti gli occupati della bassa qualifica, un terzo sono stranieri, sono giovani e, per il 60%, maschi, anche se in proporzione alla popolazione di riferimento, le donne sono più impiegate rispetto agli uomini.

Retribuzione dei dipendenti

987 €Rispetto agli italiani

- 22,9 %- 294 €

Uomini: 1.135 €Donne: 797 €

Romania 984 €Albania 1.004 €Marocco 1.046 €Ucraina 831 €Filippine 763 €

Licenza elementare: 963 €Laurea: 1.123 €

Trasporti: 1.348 €Servizi alle persone: 724 €

Meno di un anno: 873 €Oltre 10 anni: 1.136 €

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Gli stranieri ricevono una retribuzione, nella mag-gior parte dei casi da lavoro dipendente, di quasi 987 euro netti al mese - questi sono i dati ISTAT riferiti al quarto trimestre 2010 - quasi 300 euro in meno rispetto agli italiani, il che si traduce in un meno 23% e si vede come nelle aree del centro nord i differenziali con gli italiani sono più bassi, mentre nelle aree del sud i gap salariali sono più elevati. Gli uomini percepiscono un sa-lario più elevato delle donne, anche se non si vedono grosse differenze in merito al titolo di studio: 1100 euro, contro quasi 800 euro delle donne. Se uno straniero con licenza elementare guadagna mediamente 963 euro al mese, il laureato ne guadagna 1.123. Quindi un gap molto basso. Ciò significa che il possesso di un titolo di studio più elevato per gli stranieri non garanti-sce in automatico una retribuzione superiore, anzi, più andiamo avanti col titolo di studio, più il gap tra italiani e stranieri con il medesimo titolo di studio, aumenta. Chi lavora nei servizi dei trasporti ad esempio, ha delle retri-buzioni molto più elevate rispetto a chi lavora nei servizi alle persone, nei quali sono impiegate prevalentemente le donne, che guadagna poco più di 700 euro. Ovvia-mente, i livelli retributivi dipendono dalla continuatività del lavoro. Chi lavora da meno di 1 anno continuati-

vamente per lo stesso datore di lavoro acquisisce una retribuzione di 870 euro. Chi invece lavora continuativa-mente da oltre 10 anni per lo stesso lavoro, guadagna di più. Tutto è equiparato rispetto agli anni di lavoro, anche perché, gli scatti di anzianità valgono comunque per tutti. Prendendo solamente le prime 5 provenienze degli occupati per nazionalità, si osserva come albanesi e marocchini sono quelli che percepiscono una retribu-zione più elevata, seguiti ad esempio da rumeni, ucraini e filippini che invece acquisiscono delle retribuzioni più basse, 760 euro al mese.

Un dato molto importante da valutare è il con-tributo degli stranieri alla finanza italiana. Purtroppo le informazioni statistiche in merito, non sono ancora adeguatamente sviluppate e soprattutto non adegua-tamente diffuse. I dati che vi presento, provengono dal Ministero delle Finanze, che prende in considerazione il codice fiscale dei soggetti, e quindi il paese di nascita. Analizzando questi dati, rientrano tra i soggetti conside-rati anche tutti coloro che, pur essendo nati all’estero, come tedeschi, svizzeri e francesi, sono in tutto e per tutto italiani. Purtroppo questi sono gli unici dati che abbiamo a disposizione. Comunque su questi dati pos-siamo fare delle valutazioni.

Redditi dichiarati

Contribuenti

Redditidichiarati

3,2 milioni

7,9 % del totale dei contribuenti

41,7 % dei contrinuenti è donna

40,2 miliardi di €

5,1 % del totale dei redditi dichiarati

12.507 reddito medio dichiarato

-7.073 € rispetto ai nati in Italia

34,2 % è dichiarato da donne

Complessivamente i contribuenti nati all’estero sono oltre 3,2 milioni e dichiarano 40,2 miliardi di euro all’anno. Sono il 7,9% del totale dei contribuenti in Italia e dichiarano il 5,1% del totale dei contributi, dichiara-no mediamente 12.500 euro all’anno, 7.000 in meno rispetto ai nati in Italia. Le donne sono il 41% di tutti i

contribuenti stranieri, però dichiarano appena il 34% del totale dei redditi dichiarati dagli stranieri.

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Redditi dichiaratiVariazione % 2005 / 2009

Natiall’estero

Natiin Italia

Reddito medio

Contribuenti

Ammontare

Indice OROS

0,3 %

32,7 %

31,9 %

11,2 %

-0,9 %

10,7 %

12,5 %

Dal 2005 al 2009, il reddito medio dichiarato dai nati all’estero è rimasto più o meno invariato. E’ aumen-tato invece dell’11%, il reddito medio dichiarato dai nati in Italia. Questo, in linea con l’indice ORUS delle retri-buzioni. L’indice ORUS mostra le variazioni delle retri-buzioni di fatto. Quindi possiamo affermare che si tratta di percentuali molto simili e quindi anche veritiere. Ma perché il reddito medio degli immigrati rimane costante in questo arco di tempo, mentre quello dei nati in Italia aumenta? Perché si osserva, nello stesso arco tempo-rale, un aumento uguale sia del numero di contribuenti che del loro ammontare, mentre, per i nati in Italia, au-

menta l’ammontare del reddito dichiarato complessi-vo, ma addirittura diminuisce il numero di contribuenti. Questi dati vanno letti in questo modo: il costante flusso di mano d’opera straniera contribuisce ad aumentare il numero di contribuenti ma non ad aumentare i redditi medi, perché i nuovi stranieri che entrano nel mercato del lavoro solitamente sono impiegati in professioni dal-la bassa qualifica, che prevedono remunerazioni molto più basse. Quindi, la percentuale di nuovi assunti che non hanno accumulato sufficiente anzianità lavorativa, concorre a comprimere ulteriormente i redditi medi di-chiarati.

Redditi dichiaratiProvenienza dei contribuenti Fonti di reddito

Incidenza % Reddito medio (€)Romania 17,4 % 9.115Albania 7,2 % 11.855Marocco 6,5 % 10.847Cina 4,1 % 6.961Polonia 2,7 % 8.666

Nati all’estero Nati in Italia

86,6% 88,4%82,7%

15,0% 17,7%19,2%

Lavoro dipendente Terreni e fabbricati Altro

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La maggior parte dei contribuenti nati all’estero, è costituita da rumeni, che sono il 17,4% del totale, se-guiti da albanesi e marocchini. Prevalentemente, il loro è un reddito da lavoro dipendente o assimilato, che vuol dire anche pensioni. Anche la maggior parte dei redditi

provenienti dagli italiani, è costituita da redditi da lavoro dipendente. La grande differenza, è relativa ai redditi da terreni e fabbricati. Mentre l’82% degli italiani dichiara anche reddito proveniente da terreni fabbricati, per gli stranieri si parla di appena il 19,2%.

Pagamento dell’Irpef1. Lombardia: 1,6 miliardi di €

1. Friuli Venezia Giulia: 7,1%...

20. Puglia e Sardegna: 1,9%

1. Lombardia: 3.600 €...

20. Calabria: 1.870 €

1. Valle d’Aosta: 73,9%...

20. Calabria: 47,1%

Ammontare dell’Irpef pagata5,9 miliardi di €

4,1%

Irpef media per contribuente2.810 €

Chi paga l’imposta /totale dei contribuenti

64,9%

Un’informazione nuova nella panoramica della statistica sull’immigrazione è l’Irpef pagato dagli stra-nieri. Anche in questo caso, si fa riferimento ai nati all’estero. Complessivamente, essi pagano un’imposta netta di 6 miliardi di euro, che corrisponde al 4,1% del totale. La Lombardia, è la prima regione che accumula all’interno delle proprie casse la maggior quantità di Ir-pef pagata, anche se il Friuli Venezia Giulia è la regione nella quale si vede il maggior peso della contribuzione degli stranieri rispetto al totale dell’Irpef pagato in re-gione, mentre Puglia e Sardegna sono le ultime regio-ni. Mediamente, uno straniero paga 2800 euro di Irpef

all’anno. In Lombardia, gli stranieri pagano la maggior imposta netta: 3600 euro. La Calabria è l’ultima con 1800 euro. Un’altra cosa importante è il rapporto fra chi paga realmente l’imposta e chi presenta la dichiarazio-ne dei redditi. Gli stranieri beneficiano più degli italiani di detrazioni fiscali a causa principalmente del basso importo dei redditi stessi, quindi appena il 64,9% di co-loro i quali presentano i redditi, pagano anche l’imposta netta, quando per gli italiani è il 75,5%. La percentuale più elevata in questo senso si riscontra in regioni come Valle d’Aosta. L’ultima, nuovamente la Calabria.

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Composizione del reddito

Percettori di redditoper tipologia

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Stranieri Italiani

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73,2%

19,6% 17,8%

40,6%

23,8%

10,9%17,3% 15,9%

34,9%

47,9%

6,9%9,5%

9,4%

47,3%

Da lavoro

14,1 %1,7 %

Sussidi di integrazione al reddito

Un’altra indicazione per capire come è composto il reddito proviene dai dati dell’Istat sui redditi in con-dizioni di vita. Si vede come il reddito da lavoro è la principale fonte per gli immigrati. Per gli italiani la fonte principale è relativa alla pensione: 40,6% degli intervi-stati dall’Istat per questa rilevazione, dicono di ricevere redditi da pensione. Di tutti i pensionati residenti in Italia,

appena l’1,7% è straniero. Gli stranieri invece possono beneficiare di più dei sussidi di integrazione al reddito rispetto agli italiani, soprattutto sussidi alla disoccupa-zione o assegni famigliari. In questo caso, il 14,1% di tutti coloro che in Italia ricevono sussidio di integrazione al reddito relativo al sussidio di disoccupazione, è com-posto da stranieri.

Il disagio economico delle famiglie

Straniere Italiane

Fare un pasto adeguato ogni 2 giorni 12,1 % 7,5 %

Non riesce a sostenere spese di 750 € 58,8 % 30,2 %

E’ stato in arretrato con le bollette 24,0 % 11,2 %

Arriva con dif�coltà a �ne mese 24,8% 16,7 %

Non può permettersi una settimana di ferie 52,6 % 38,6 %

Giudica pesante il carico della casa 61,3 % 51,6 %

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Un’altra informazione che proviene dall’indagine sui redditi e le condizioni di vita, è il disagio economico delle famiglie. Anche in questo caso abbiamo compara-to le famiglie straniere con le famiglie italiane, e le diffe-renze sono molto marcate. Facciamo qualche esempio: il 12% delle famiglie intervistate dichiara di aver difficoltà a fare un pasto adeguato ogni 2 giorni, quando per le famiglie italiane si parla del 7,5. Quasi il 60% dice di non riuscire a sostenere spese impreviste di 750 euro, quando per le famiglie italiane si parla del 30%. Anche

per le famiglie italiane le percentuali sono comunque elevate. Un quarto delle famiglie straniere intervistate dice di essere stato in arretrato con le bollette almeno una volta negli ultimi 12 mesi, quando per gli italiani la percentuale è dimezzata. Più o meno la stessa cosa, quando si chiede se arriva o meno con difficoltà a fine mese: la metà non può permettersi una settimana di ferie, il 61% giudica pesante il carico della casa e quindi le spese relative alla gestione domestica.

La povertà economica delle famiglie

Straniere Italiane

Indice di povertà economica 37,9 % 12,1 %

Reddito familiare 17.409 €

Consumo familiare 17.772 €

Risparmio familiare -362 €

Propensione al consumo 102,1 %

32.947 €

24.083 €

8.865 €

73,1 %

Infine, il calcolo sulla povertà economica della famiglia. E’ stato realizzato elaborando i dati della Ban-ca d’Italia sui bilanci delle famiglie. Abbiamo calcolato come, la percentuale di persone straniere che vive al di sotto della soglia di povertà, è quasi del 38%, quando per le famiglie italiane la percentuale diventa più bassa di un terzo. Si parla del 12%. Attraverso questa banca dati si perviene anche a capire redditi, consumi e rispar-

mi famigliari: facendo riferimento a dati di un’indagine 2009, per le famiglie italiane si evidenzia un risparmio famigliare di quasi 9.000 euro all’anno, mentre per le fa-miglie straniere si osserva un consumo famigliare mag-giore del reddito, quindi una propensione al consumo superiore al 100%. Vuol dire che le famiglie straniere hanno difficoltà a risparmiare. Questo non è l’unico pa-rametro.

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La povertà economica delle famiglie

Straniere Italiane

Proprietà 11,3 %

Af�tto 79,1 %

Altro titolo

Famiglie che non possiedonoalcunaproprietà

9,6 %

71,8 %

18,3 %

9,9 %

75,2 % 25,4 %

Titolo di godimentodell'abitazione

di residenza

Però, attraverso questa indagine, si capisce che le famiglie straniere destinano parte delle entrate al pa-gamento dell’affitto, dal momento che appena l’11,3% delle famiglie straniere è proprietaria dell’abitazione nel-la quale risiede, quando la percentuale degli italiani è

del 71,8%. Quindi, una buona parte del reddito, va a coprire le spese per l’affitto. Abbiamo calcolato come le famiglie che non possiedono alcuna proprietà im-mobiliare, sono il 75% delle famiglie straniere, contro il 25,4% di quelle italiane.

Indice di attrattività occupazionale

Italia = 1001. Lombardia = 123,1

...20. Calabria = 20,9

10 indicatori- effetto crisi- qualità del lavoro- effetto demogra�co- redditi e ricchezza- capacità imprenditoriale

Come ultima informazione, presento un indice che ha creato ad hoc la Fondazione Leone Moressa: l’indice di attrattività occupazionale. Quest’indice fonde una decina di indicatori che comprendono l’effetto crisi, le dinamiche occupazionali, la qualità del lavoro, inte-

sa come tipologie contrattuali, l’effetto demografico, le differenze di età tra popolazione italiana e popolazione straniera, i redditi da ricchezza percepita e la capacità imprenditoriale. Combinando adeguatamente questi in-dicatori, si arriva alla creazione di una classifica regionale

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che vede come le regioni siano più o meno attrattive per gli immigrati, dal punto di vista occupazionale. Il nord Italia, sebbene più colpito dalla crisi, si dimostra essere ancora il territorio più favorevole per l’insediamento e l’inserimento occupazionale degli stranieri: fatto 100 il dato Italia, la Lombardia è la prima regione attrattiva per la popolazione straniera, ultima la Calabria.

Questi sono alcuni dati. Non mi sono sofferma-ta su tante cose presenti all’interno di questo volume. Ho cercato di presentare i dati più significativi relativi a quella che abbiamo voluto chiamare l’economia dell’im-migrazione. Questi dati permettono comunque di dare una chiave di lettura anche per la realizzazione di poli-tiche pubbliche capaci di avviare efficienti processi di integrazione economica e sociale degli stranieri, a mag-gior ragione in un periodo di crisi come quello attuale. Questo affinché, l’immigrazione non debba far parte esclusivamente delle politiche sulla sicurezza, ma affin-ché sia riconosciuta come vero e proprio strumento di sviluppo economico, prosperità e competitività, in so-stanza un valore economico per la nostra società.

Vi ringrazio per l’attenzione, e grazie ancora per essere venuti qui oggi.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie Valeria e complimenti perché questo vo-lume contiene davvero uno spaccato e un’approfondita analisi dei dati principali sull’economia dell’immigrazio-ne. L’ultima parte, quella appunto sui redditi che ho po-tuto approfondire nei giorni scorsi, dice appunto cose interessanti. Quello che le medie non dicono. Quin-di, se l’Irpef media è di 2800 euro pro-capite, quella dell’operaio specializzato, come diceva prima Valeria, che vive in Lombardia è di 3600 euro all’anno. Più di quanto dichiara e paga di imposta netta all’Irpef un con-tribuente italiano che vive nelle regioni del sud, come Molise e Calabria. E’ il sorpasso dell’immigrato contri-buente sull’italiano. Condivido la difficoltà nel reperire questi dati. Trattare di immigrazione in Italia è molto difficile, specie per i dati economici. Non parliamo poi dell’aspetto normativo, quello che noi abbiamo cercato di scardinare dal Ministero dell’Interno in questi anni. Facciamo sempre più fatica. I dati dei decreti flussi in questo settore sono molto eloquenti e molto emblema-tici. Voi sapete che per entrare in Italia si può soltanto utilizzare questo meccanismo molto particolare e molto strano, della chiamata diretta all’estero che si trasforma in realtà in tante sanatorie mascherate. L’ultimo dato

sul decreto flussi è molto eloquente perché la metà dei datori di lavoro che hanno chiamato immigrati sono di origine straniera. Quindi è un altro dato che dimostra che gli immigrati hanno le carte in regola. Hanno il red-dito, i 20.000 euro di reddito minimo richiesto. Hanno una casa di proprietà. Insomma hanno tutti i requisiti per essere dei datori di lavoro e lo sono, e fanno que-ste chiamate che poi magari sono dei ricongiungimenti mascherati.

Altro dato che appunto richiamava Valeria, è que-sto indice di attrattività. La Lombardia, e qui l’assessore Tajani, l’assessore al lavoro del comune di Milano, che interviene subito adesso, ci potrà raccontare meglio Mi-lano. Una città che ha 250.000 stranieri, il 19% della popolazione residente, e che quindi è davvero la capi-tale per l’immigrazione. Prego assessore.

Cristina Tajani Assessore al Lavoro del Comune di Milano

Anch’io mi associo ai ringraziamenti alla Fonda-zione Moressa perché so, da ricercatrice, quanto sia difficile mettere insieme questi dati. Qualche settimana fa, insieme al dottor Bitjoca, in un’iniziativa di Ethno-land, commentavamo che l’Istat inserisce gli stranieri nella rilevazione delle forze di lavoro soltanto dal 2006. In questo caso particolare, per il rapporto che presen-tiamo oggi, c’è un’integrazione tra più fonti di dati che non è usuale trovare nelle nostre statistiche. Per cui il lavoro è pregevole. Spero che abbia altre edizioni, che questa sia soltanto la prima di una lunga sequenza, perché il dato, in termini conoscitivi, può aiutare anche a ribaltare una serie di luoghi comuni in tema di immi-grazione che attraversano il dibattito pubblico, spesso anche il dibattito colto, perché non si basa su evidenze che corrispondono poi alle opinioni. In particolare, mi ri-ferisco al fatto che spesso si tende a sottolineare in ter-mini di debolezza il fenomeno migratorio. Invece questi dati, e altri che mi è capitato di commentare nel corso degli ultimi anni, ci dicono di una forza delle migrazioni nel nostro paese ed altrove, che è anche economica. Il semplice fatto che, confrontando i tassi di occupazio-ne degli stranieri con quelli degli italiani, scopriamo che ovviamente gli occupati stranieri sono mediamente di più nel loro universo di riferimento rispetto agli italiani. Scopriamo che abbiamo alti tassi di educazione rispet-to a quelli degli italiani, anche se a questi non corrispon-de un’adeguata collocazione nel mercato del lavoro e un’adeguata retribuzione. Per cui, scopriamo un poten-

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ziale che è anche un potenziale economico. Un poten-ziale che spesso viene trascurato. E questo rapporto ci illustra bene anche il dato dello straniero come contri-buente: ci parla di redditi e di Irpef. Sottolineo soltanto la questione contributiva, cioè il contributo sostanziale che gli stranieri che pagano i contributi, e essendo prin-cipalmente occupati come lavoratori dipendenti ne pa-gano anche di più, danno al nostro sistema pensionisti-co. Per cui abbiamo una serie di elementi che indicano la forza di questo fenomeno. Una forza che ovviamente è anche una forza economica. Il rapporto, anche se non lo dice in questi termini, sottolinea, soprattutto nell’ul-tima parte, questo confronto tra le regioni. Come con-trariamente avviene spesso nel dibattito comune, pub-blico, sono molto più forti i fattori attrattivi piuttosto che i fattori espulsivi, cioè quello che spinge la migrazione verso un territorio piuttosto che un altro, è l’attrattività rispetto ad alcuni flussi dei territori. Noi spesso ci con-centriamo invece sui fattori espulsivi rispetto ai paesi di origine dei flussi migratori. Invece, anche per inquadrare correttamente il fenomeno e costruire adeguate politi-che pubbliche, bisognerebbe considerare cosa attrae gli stranieri nei nostri territori e considerare la forza di questi fattori attrattivi.

Lo dico perché, avendo a che fare poi con la costruzione di politiche pubbliche - sebbene a un li-vello di municipalità, e quindi non avendo la possibilità di influenzare o modificare le grandi variabili, che sono quelle legislative, che venivano citate prima e su cui poi tornerò brevemente - mi capita spesso, imbattendomi nel linguaggio burocratico della pubblica amministrazio-ne, di trovare la categoria dell’immigrato associata alla categoria dei soggetti deboli. Per cui si dice le donne, i giovani, gli affetti da disabilità e gli immigrati. In realtà questo è un approccio tutto sbagliato di fare politiche pubbliche sull’immigrazione, perché gli immigrati non sono di per sé un soggetto debole. Anzi. Sono por-tatori di potenzialità, anche economiche, ben superiori anche a quelle degli italiani. Lo dimostrano i tassi di oc-cupazione maggiori di queste persone rispetto a quelli degli italiani. Quindi, anche nell’ottica del policy-maker, è molto opportuno avere a disposizione evidenze empi-riche che ci dicono che non si tratta di soggetti deboli, ma si tratta di soggetti che hanno potenzialità econo-miche e potenzialità motivazionali, se posso usare una categoria non strettamente economica, molto superiori a quelli degli italiani. Purtroppo noi agiamo in un conte-sto che ha legiferato non in base alle evidenze empiri-che e non in base ad un discorso razionale, ma in base, in alcuni casi, anche a pregiudizi e a vizi ideologici. Mi riferisco alla nostra legislazione nazionale sull’immigra-

zione, che è la principale causa dell’irregolarità e della clandestinità, perché è essa stessa generatrice di irre-golarità, dato che lega così strettamente l’ottenimento del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro. In una fase di crisi economica, è evidente che, per i lavoratori immigrati che perdono il posto di lavoro, c’è un doppio ricatto, una doppia difficoltà. Quella già tragica della perdita del posto di lavoro e quella subito conseguente della perdita del permesso di soggiorno. Questa legislazione va anche spesso in contrasto con le esigenze del sistema imprenditoriale.

Io ne approfitto per dire che trovo molto giusto il modo di approcciare il fenomeno che per esempio, un quotidiano come il Sole24Ore, ha portato in tutti questi anni. Non sempre è facile orientarsi in questo dibatti-to e fare delle campagne o delle operazioni di verità. Il Sole24Ore è l’unico giornale che dedica così tanta attenzione per esempio all’uscita dei decreti flussi, alle sanatorie, ai dettagli, e che ci ha aiutato, ha orientato un po’ meglio l’opinione pubblica su questo dibattito, spesso viziato da argomenti di ordine extra-economico e se vogliamo più ideologico. Una città come Milano, si trova ad agire in un contesto che è appunto costitu-ito anche da vincoli normativi. Una città con un grande tasso di attrattività, come tutta la Lombardia rispetto al lavoro immigrato, come si diceva prima, e un problema di diventare ancora più attrattiva verso gli stranieri di tutto il mondo. Avendo la delega al Lavoro ma anche all’Università e alla Ricerca, mi trovo spesso a confron-tarmi con i rettori delle università. Questi mi segnalano come uno dei problemi principali che hanno nei proces-si di internazionalizzazione, sia la normativa che rende difficile il mantenimento del permesso di soggiorno, non dico per gli studenti, ma anche per i giovani ricercatori e per i dottorandi. Allora evidentemente, noi abbiamo po-chi margini di manovra sulla legislazione nazionale, però abbiamo possibilità di lavorare per rendere più facile la permanenza e favorire l’attrattività di lavoratori, studenti o ricercatori stranieri che siamo consapevoli essere una ricchezza.

Milano, tra le città del nord, è anche quella che ha il tasso maggiore di stranieri occupati in posizioni diciamo più elevate, con alte qualifiche, e deve conti-nuare a lavorare perché questo avvenga, affinché le no-stre università ospitino sempre di più studenti stranieri o ricercatori stranieri. Ci confrontiamo però con una normativa che non ci agevola. Stiamo però provando a operare come facilitatori di alcuni processi. In partico-lare, il mio assessorato sta lavorando con le università, Questura e Prefettura per snellire le procedure ammini-strative per l’ottenimento dei permessi di soggiorno per

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studenti e ricercatori delle università milanesi. Evidente-mente, è solo un tassello in un processo più ampio. Ma credo che, anche attraverso un cambio di orientamento e di sensibilità, si possa approcciare un tema così im-portante per una città che è candidata a essere città internazionale per i prossimi 4 o 5 anni, anche in vista di Expo, e che non può rimanere vincolata a schemi e normative che non la liberano in un panorama di inter-nazionalizzazione. Cosa invece che sarebbe assoluta-mente necessaria, perché corriamo il rischio di vivere un doppio fenomeno, cioè la difficoltà di mantenere in casa i nostri giovani lavoratori o ricercatori che vanno verso l’estero, e nemmeno di riuscire a comprendere e decifrare le istanze di chi arriva. Sprechiamo cervelli degli stranieri che vengono in Italia e non riusciamo a collocarli nei posti adeguati, rispetto alle loro qualifiche. Lasciamo andar via i cervelli degli italiani che scelgono di andare all’estero. Questo evidentemente è un bel pa-radosso su cui è necessario lavorare.

Noi stiamo provando, considerate le dimensioni di azione che abbiamo, a lavorare in questa direzione, a invertire anche un’opinione, un senso comune che purtroppo ha visto in passato questa città come una delle città più securitarie, o almeno che faceva del tema dell’immigrazione l’associazione immediata con il tema della sicurezza. Sappiamo assolutamente che non è così. E’ una montatura. Stiamo provando ad agire sul lato della formazione, in accordo con le università, e sul lato del lavoro. I rappresentanti dell’associazione Ethnoland, che sono qui presenti, sanno che stiamo agendo anche con politiche di sensibilizzazione verso le nostre stesse partecipate, cioè le aziende partecipate o controllate dal Comune di Milano, affinché imparino a prendere in considerazione anche i curricula degli stranieri nei loro processi di reclutamento. Penso che un’amministrazione, come quella comunale, che tra gli impiegati diretti e gli impiegati delle partecipate, occupa diverse centinaia di migliaia di persone, debba partire da sé per dare il buon esempio, e dare il senso di un investimento anche economico e non soltanto appunto per una questione di equità. Perché, su questo tema, va ribadito che l’immigrato non è un soggetto debole a cui guardare attraverso le politiche sociali o le politiche di equità sociale, ma è un soggetto forte a cui guardare in termini di sviluppo e di promozione economica del territorio.

Io mi scuso perché purtroppo tra pochi minuti dovrò andar via, perché siamo stati convocati in comu-ne per un’altra vicenda, ma ci tenevo comunque a par-

tecipare a questa discussione. Mi scuso con i relatori successivi, se non potrò ascoltare tutti. Grazie.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie assessore. Grazie per essere stata qui. L’augurio è che questo compito di facilitatore istituzio-nale, che il Comune di Milano attribuisce ai giovani, si realizzi. Purtroppo, il permesso di soggiorno per studio ha comunque un’abilità piuttosto limitata. Mi ricordo che una volta ci siamo occupati di questo problema anche nella questura di Milan. Spesso gli studenti rice-vono il permesso di soggiorno già scaduto, rinnovato e già di nuovo scaduto. Comunque, affinché dai giovani questo compito si trasferisca a tutti gli stranieri che vi-vono a Milano, chiederei ora al Presidente della Fonda-zione Ethnoland e vice Presidente di ExtraBanca, Otto Bitjoka. Prego.

Otto Bitjoka Presidente della Fondazione Ethnoland

Buongiorno a tutti, ringrazio tutti per l’invito e na-turalmente la Fondazione Leone Moressa. Vorrei partire con un video che avevo preparato a suo tempo.

Ho voluto dare un libero contributo attraver-so questo video. Le idee sono chiare, quelle che noi pensiamo. Vogliamo tenere in considerazione il nuovo concetto di mobilità globale. Non in termini di mobi-lità verticale, perché la mobilità verticale si tiene fissa sulla localizzazione, sulla località, sulla cultura, quella che viene chiamata nel video l’apologia della cultura identitaria, quando noi invece abbiamo un identità in continua formazione. Ma tenendo in considerazione la mobilità globale orizzontale. Allora abbiamo il fenomeno della migrazione. Sappiamo oggi che la crescita globa-le tende ad essere in percentuale inferiore alla mobilità globale. Gli spostamenti degli immigrati nelle varie aree geo-politiche e geo-economiche di provenienza, si fan-no sentire a seconda di dove si focalizzano le grandi ricchezze. Parliamo solo dell’Italia. Uso spesso pensare che gli immigrati in Italia non sono figli dell’impero, come invece ad esempio l’immigrazione in Francia, l’immigra-zione in Inghilterra e magari anche in Spagna. In Fran-cia c’è la francofonia e la presenza dei cittadini di molti paesi africani di area sub-sahariana e di molti altri paesi magrebini, in cui la lingua francese è la lingua ufficiale, è diversa, quando la Francia ha assunto la responsabi-

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lità post-coloniale di gestire i conflitti attraverso i figli di questi paesi. La stessa cosa per il Commonwealth. La stessa cosa per la Spagna. Ma non la stessa cosa per l’Italia. In Francia c’è l’assimilazionismo, in Inghilterra forse, il multi-culturalismo che in Italia ha dichiarato la sua morte. In Italia dobbiamo avere il coraggio di ela-borare un nuovo percorso che potrebbe essere la terza via utile per il nostro paese, ma forse utile anche per la prospettiva storica dell’imprescindibile fondersi di civiltà

Questo è lo scenario evolutivo verso il quale noi andiamo e in questo scenario evolutivo c’è l’immigrato. Ancora mi chiedo se la categoria dell’immigrato sia una categoria esistenziale della nostra contemporaneità. In tal caso, allora dobbiamo imparare a fare un’elaborazio-ne teorico-culturale su questo argomento e darne una lettura paradigmatica; non più la vecchia retorica da po-litica. Ma dare un altro tipo di lettura. Se noi saremo in grado di leggerlo diversamente allora potremo sapere come saranno gli scenari futuri. Credo che ci siamo già dentro, perché questo fenomeno, come il fiume carsi-co, c’è, invisibile ma prima o poi viene fuori. Ora impa-riamo a governarlo. Non mi soffermo sui numeri, penso che la Fondazione abbia detto abbastanza, penso che anche il professore ne sappia molto di più.

Andiamo ad analizzare l’aspetto umano di que-sto fenomeno. Io ho sempre pensato che l’immigrazio-ne abbia una sua grammatica. E’ già una cosa mol-to importante ma comincio a pensare che forse serva anche una semantica sull’immigrazione, dove le parole abbiano un significato. Non il significato etimologico che noi vogliamo dargli, ma un significato molto più semiologico, che tiene conto del contesto storico dove viviamo. Ultimamente sono molto contrario quando si parla di integrazione. Io parlo sempre della contami-nazione e credo che questo sia molto più importante. Contaminazione perché interagiamo con gli altri. Per-ché parliamo. Ogni tanto vado dal mio barbiere, è un italiano, il barista sotto casa mia, è un cinese. Il sarto, è un italiano. E così via. Perciò c’è questo rapporto che è continuativo e questo rapporto porta dei cambiamen-ti a prescindere. Va a cambiare la nostra antropologia di fondo. Dobbiamo tenere in considerazione questo e far prevalere le ragioni del cuore, far pensare il cuore e riflettere la ragione, non possiamo delegare alla dia-lettica la ragion pura, con tutte le prospettive che noi pensiamo. Dobbiamo pensare altrimenti. Insomma, pensare come uomini. Quanti tra gli immigrati fanno l’imprenditore. Quanto sia conveniente l’economia degli immigrati. Quanto sia conveniente una lettura economi-ca dell’immigrazione. Su questo, siamo tutti d’accordo. La domanda che io mi pongo, che pongo anche agli

altri, è perché in cambio non abbiamo niente, se oggi gli immigrati fanno il 12% del prodotto interno lordo e tendenzialmente siamo all’8% della popolazione. Inoltre si crea una sudditanza. Ci viene chiesto di fare cose che noi non vorremmo far. Intrinsicamente siamo capaci di farne altre, ma siamo obbligati a farle, dovendo anche dire grazie. E’ come se non potessimo correre, ma do-vessimo solo stare al traguardo, magari pulire le scarpe e massaggiare i piedi di chi ha corso, perché a noi è escluso correre anche se ne siamo capaci e determi-nati. Se questa opportunità fosse data agli immigrati, credo che darebbe un grandissimo valore aggiunto per il paese e gioverebbe all’economia nella sua interezza. Gioverebbe alla cultura nella sua completezza e ne gio-verebbero tutti. Questo è il vero appello, questa è la vera sfida che noi abbiamo di fronte. Serve allora una contaminazione. Serve una divulgazione. Io uso dire che noi abbiamo bisogno di evangelizzatori, gente che va in giro a dire come stanno le cose e come dovreb-bero stare le cose, in maniera da far si che la coscienza collettiva cominci a essere plasmata da quella buona notizia e che questo possa illuminare questa coscienza collettiva. Ma credo che l’operazione sia un po’ difficile. Dico spesso che una persona illuminata è la persona che riconosce nell’immigrato proprio il valore intrinseco, che crede che la meritocrazia non sia una lesa maestà e che crede che ciò non sia solamente il filo della discus-sione. Se fosse altrimenti, l’immigrato non potrebbe fare nessun passo perché ha un retroterra abbastanza ostile. Io lo dico spesso - forse sbaglio, ma credo che sia così – ma so che non è facile.

Noi abbiamo deciso, come Ethnoland, di pro-muovere quella che chiamo la migrazione qualificata, attraverso una serie di eventi, promuovendo anche una giornata di carriera per gli immigrati. Con il contributo del Comune, li abbiamo sfidati a contingentare la presenza della seconda generazione all’interno dell’assetto orga-nizzativo per quanto riguarda il personale municipale. Aspettiamo ancora quello che verrà fatto. Però le sfide sono queste. Se noi siamo tagliati fuori da queste sfide sarà molto difficile trovare una convergenza nella convi-venza pacifica, perché si rischia di elaborare la rabbia e quando si elabora la rabbia non si sa che risultati ven-gono. Credo quindi che questo genere di appuntamenti e di riflessioni siano molto importanti, ma devono anche andare oltre, cercando di incidere, cercando di imple-mentare le nostre idee attraverso progetti concreti, di trasformare questi momenti attraverso implementazioni di cose che possono incidere nella storia e cioè riscri-vere la storia, perché la storia la dobbiamo fare noi. La storia non la scrive il vincitore, la scrive la storia stes-

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sa. Non possiamo aver la pretesa che la storia debba essere scritta dal determinismo storico stesso, cioè gli eventi che ci impongano un agenda. Non penso che possa essere così, ma penso che la buona volontà, la lungimiranza, il fatto di sapere che la prospettiva po-trebbe cambiare, possano aiutarci a modificare il no-stro modo di approcciarci alle cose per vederle. Forse però gli scenari evolutivi di prospettiva ci ostacolano, ma lo dobbiamo fare perché ne siamo convinti. Ora in questo caso dobbiamo restituire all’immigrato la sua di-gnità, chiedendo allo stesso di non essere vittima del paternalismo, del pietismo, di essere protagonista nella gestione del proprio destino, magari anche del destino comune. E allora questa attività ci consente di riflettere molto più a fondo, di incidere anche con la politica, di lavorare sulle nuove frontiere, di far si che attraverso le nuove frontiere possiamo fare della pre-politica che potrebbe dettare l’agenda alla politica, perché è mol-to difficile mediare ciò che è già mediato dalla politica. Allora il mio appello, in questo genere di occasioni, è che si possa andare avanti, che si possa svolgere mag-gior sforzi, da far si che ognuno di noi possa interrogare la sua coscienza e che nasca qualcosa di diverso che possa, implementandolo nella società, produrre cam-biamenti. Certo spesso i cambiamenti vengono dalle cose stesse, non sempre dalla mente degli altri. Gli altri spesso possono interpretarlo al meglio perché in quel momento storico magari hanno avuto la possibilità di veder passare il cavallo bianco e di cavalcarlo meglio.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie. Possiamo riflettere su questo appello e sul concetto di contaminazione. In realtà, Milano sicu-ramente è una realtà multi-etnica, dove ci sono tanti stranieri, dove c’è il barista cinese sotto casa di molti di noi e il barbiere di un’altra nazionalità. Mi ha colpito. di recente sono stata a Rodi ad un incontro sul multilingui-smo dove ho conosciuto il sindaco di Carfizi, che è un paese in provincia di Crotone, dove la lingua della mag-gioranza è l’albanese antico ed è un laboratorio bellissi-mo. Penso davvero che sarebbe bello andarci perché si imparano molte cose, perché in realtà gli albanesi sono arrivati lì. Poi è terra di emigrazione. Da li sono andati in Germania e adesso ospitano gli afgani rifugiati, cioè l’immigrato che va dove c’è stato l’emigrato. Ed è un laboratorio appunto molto bello. Credo che sia uno dei posti più contaminati, da questo punto di vista. Bene, andiamo avanti, chiedo al professor Reyneri di aspetta-re un attimo ancora, cedo la parola a Oropeza dell’Or-

ganizzazione Internazionale delle Migrazioni a cui lascio il microfono.

José Angel Oropeza Direttore Ufficio di Coordinamento OIM per il Mediterraneo

Grazie a tutti e buon pomeriggio. Ringrazio l’u-niversità Bicocca per l’accoglienza, credo che eventi come questo che si tiene qui oggi, siano occasioni di conoscenza molto importanti. Quelli che hanno parla-to prima di me hanno parlato dell’importanza dell’im-migrazione, delle sfide dell’immigrazione e della forza positiva che rappresenta. Mi hanno anche detto che è molto importante capire il fenomeno, riflettere su chi sono gli immigrati, da dove vengono e cosa fanno qui, qual è il loro contributo allo sviluppo del paese. Oggi abbiamo nel mondo 240 milioni di migranti. Fra 30 anni credo che ne avremo 400 milioni. Abbiamo nel mon-do 750 milioni di migranti interni, abbiamo 43 milioni di rifugiati o persone con la condizione di protezione umanitaria. Nel mondo, siamo approssimativamente un miliardo di migranti. Una persoan ogni sette è migrante, interno o esterno che sia. Credo che oggi abbiamo un mondo che è in movimento per cause politiche, per-secuzioni religiose e conflitti. Tutto ciò spinge la gente ad andar via e muoversi. La fame, i cambiamenti cli-matici, i conflitti armati come quello in Libia. Credo che tutti noi abbiamo sentito dai media la fuga di uomini a causa del conflitto libico. La cifra approssimativa di persone che sono morte nel mediterraneo è di 1200. Altre cifre dicono 3000. Erano persone che non aveva-no niente e hanno perduto tutto. Io ho incontrato una donna che ha perso suo figlio nel Mediterraneo e l’ho rincontrata a Malta 2 settimane dopo questa perdita. Lei portava dolore e mi ha detto: “il dolore lo sopporto perché adesso ho un futuro” e questo, è molto impor-tante. Dalla Libia sono scappate 1 milione di persone, di cui 350 mila da paesi terzi: egiziani e tunisini, nigeriani, sudanesi, maliani, algerini, ... di tutta questa gente, il 5% è arrivato in Italia. Rifletto su questa cifra perché abbiamo avuto un intenso fenomeno migratorio dello sbarco a Lampedusa, per l’emergenza; abbiamo visto che un paese come la Tunisia, che ha avuto una rivol-ta sociale, con un regime che è caduto, con la prima industria e il turismo collassati, e che in 3 settimane ha ricevuto 250 mila persone in frontiera. E lo ha fat-to con solidarietà. Credo che oggi dobbiamo gestire la migrazione, ma dobbiamo gestirla con politica creativa, innovativa e anche con solidarietà. Abbiamo visto che le cifre sono evidenti nel dossier statistico di Caritas e

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oggi, con il rapporto della fondazione Leone Moressa, il contributo del migrante alla prosperità della società italiana. Sappiamo che questi 240 milioni di migranti al mondo, inviano a casa circa 400 miliardi di dollari, e ogni dollaro ha una fascia di dolore, di difficoltà e di incertezza. Questo è importante pensare: dei migranti che vengono qui, che si muovono per il mondo, e la cui maggioranza lascia la sua famiglia, figli e figlie, creando un problema sociale. Loro hanno una sola scelta, che è l’emigrazione. Credo che dobbiamo pensare in questa relazione di migrazione e sviluppo al contributo che i migranti danno al paese in cui vengono e al contributo che si deve dare al paese di origine per migliorare le condizioni. La migrazione per loro infatti è un bisogno, non una scelta. Migrazione e sviluppo, lo hanno detto quelli che hanno parlato prima di me, è una relazione in cui la società beneficia di questo contributo. Dobbiamo pensare al valore strategico che tutti questi immigrati comportano per il paese. Loro prendono in Italia e in altri paesi, un’abilitazione, una formazione e una visione del mondo che possono trasferire al loro paese per un migliore sviluppo. Per questo dobbiamo insistere e cre-are delle politiche. Certamente la politica è importante: la normativa e il dialogo tra eguali, tra paese di arrivo e paese di provenienza, un dialogo franco e onesto.

Quando è avvenuta la rivolta sociale in Tunisia, credo che non era difficile capire che questo paese avrebbe avuto un problema. Un problema di mancanza di lavoro, perché la prima industria ha collassato e que-sto ha favorito la formazione dell’immaginario di perso-ne che sono libere da un reggimento e che sognano un lavoro, una macchina e una casa, e sperano che que-sto si trovi qui in Italia e in Europa. Tantissimi che sono venuti qui, adesso sanno che non era così e, al primo momento di rivolta sociale in Tunisia, nessuno della co-operazione internazionale ha pensato di fare qualcosa, di fare un programma di protezione umanitaria per la Tunisia, per aiutare e risolvere il problema della man-canza di lavoro, aiutare a stabilizzare l’economia e la democrazia. Abbiamo conosciuto questi imbarchi tanto difficili verso l’isola di Lampedusa. Credo che, il feno-meno migratorio sia oggi uno dei più importanti di que-sto secolo. La migrazione è venuta e resta con noi. Se pensiamo di parlare in termini economici di un mondo in sviluppo, tra 40 anni, loro avranno bisogno di creare 2,3 miliardi di posti di lavoro per assorbire la loro forza locale. D’accordo con il tasso di accrescimento attuale, saranno assolutamente impossibilitati ad estromettere delle persone che avranno bisogno di un lavoro. Ades-so sono 1,2 miliardi le persone. L’Europa nel frattempo crescerà e avrà bisogno di 600milioni di lavoratori, la-

voratori che non si trovano qui per il fatto che la forza lavoro locale è composta da una popolazione vecchia. Ma avranno possibilità per tutti anche gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada e altri paesi del primo mondo. E qui che cosa facciamo per un 1,2 miliardi di persone che hanno bisogno di un lavoro? Loro sicuramente, o almeno una parte importante, andranno in giro cercan-do un lavoro, cercando un miglior futuro per loro e per la loro famiglia.

Dobbiamo cominciare adesso. Siamo un po’ in ritardo in questo dialogo con altri paesi per trovare so-luzioni creative affinché la migrazione sia per tutti una forza di benessere, una forza di sviluppo. Ma soprat-tutto deve essere per tutti gli immigrati un processo da realizzare e non un sogno, affinché abbiamo un futuro e felicità.

Grazie a tutti.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie al prof. Oropeza. Diceva appunto del-la politica innovativa. Di sicuro una politica serve ed è quello che è mancato in questo momento. C’è stato uno sforzo nella gestione della crisi del Nord Africa, pro-babilmente travolto dalla crisi economica dell’occiden-te. Ma sicuramente questo dialogo tra paesi non c’è stato neanche in questo momento. Lascio il microfono al prof. Reyneri.

Emilio Reyneri Docente di Sociologia del lavoro presso l’Università di Milano-Bicocca

Ringrazio innanzitutto la fondazione Moressa di avermi chiesto di presentare il suo rapporto qui, in una sede in cui di fenomeni migratori e di problemi del lavo-ro ci si occupa ormai storicamente. Quindi, sono mol-to grato di questa presentazione, anche perché molti studiosi di questo dipartimento che, come sociologi e come economisti, si occupano di problemi dei movi-menti migratori, sotto diversi aspetti culturali ed eco-nomici.

Vorrei fare una piccola premessa su quello che ha detto la dott.ssa Benvenuti, sulla difficoltà di fare questi rapporti. Io ho molto apprezzato questo rappor-to, anche perché capisco, da ricercatore, la difficoltà di misurarsi sulla costruzione di informazioni che sono spesso mancanti. Da questo punto di vista, io pos-

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so dire che forse il futuro sta migliorando. Cito alcune cose. Per esempio, finalmente l’Istat ha in corso una grande indagine sulla popolazione straniera in Italia e le interviste stanno finendo in queste settimane, e fra due anni probabilmente avremo un quadro su cui i ri-cercatori si butteranno a studiare. Nel secondo aspetto, più politico, l’Istat e Cnel hanno fatto partire un’inizia-tiva sulla misura del benessere al di là del PIL - quello dell’approccio Stiglitz - e debbo dire che molti di noi, io in particolare, che fanno parte di questa commissione, inseriranno l’origine nazionale delle persone come cri-terio per vedere le differenze di benessere, all’interno di tutti gli indicatori che saranno costruiti, insieme a quelli di genere, di età e di regione; le differenze di nazionalità dovrebbero essere uno di quei criteri per vedere le dise-guaglianze all’interno dell’Italia.

Aggiungo un’ultima cosa, che potrebbe essere più interessante per il panorama dei movimenti migra-tori che ci hanno descritto. Noi siamo in un mondo di flussi migratori enormi, da cui l’Italia è solo in parte sfio-rata dopo tutto, perché le migrazioni maggiori avvengo-no anche tra paesi sottosviluppati. C’è un’iniziativa di alcuni studiosi dell’immigrazione, di costruire una se-rie di indicatori a livello internazionale sull’impatto delle migrazioni sul paese di arrivo, sul paese di partenza e sugli immigrati stessi. Ovviamente è un’iniziativa per co-struire indicatori di tipo conoscitivo. Si sono già riuniti la settimana scorsa a Bellagio, alla villa Serbelloni della fondazione Rockfeller, e hanno fatto una seconda riu-nione di questa iniziativa. Quindi siamo in azione, ma certamente le difficoltà sono grosse. Ho molto apprez-zato in particolare la parte sulle dichiarazioni dei redditi, perché credo sia una cosa totalmente originale. Siamo in un campo in cui le conoscenze e le informazioni fino ad hanno scarseggiatto e sono tutt’ora scarse. Que-ste sono le prime esplorazioni, e il quadro che ne viene fuori è certamente molto interessante, perché fa capire la presenza ormai strutturale degli stranieri nel mercato del lavoro italiano, e che lascia aperte una serie di pro-blemi immensi. Io vorrei toccare solo alcuni punti.

Un primo punto che emerge sia dall’intervista che dall’analisi dei dati Excel. Da qui emerge un dato che viene fuori anche da altre parti: il forte ingresso di immigrati nella forza lavoro operaia specializzata e il crescente ingresso in questa fascia nelle piccole impre-se. Le piccole imprese manifatturiere e il lavoro operaio specializzato delle piccole imprese manifatturiere sono, nel bene o nel male, con i suoi aspetti positivi e i suoi versanti critici, il cuore del sistema manifatturiero ita-liano. Quindi, l’ingresso di lavoratori istruiti, per lo più con una forte selezione positiva - perché non dobbia-

mo sempre dimenticare che chi emigra è più intrapren-dente, più disponibile all’innovazione, e perché c’è una forte selezione positiva nell’emigrazione per chi entra in queste posizioni - può contribuire molto a rinnovare una figura che chi lavora nell’artigianato conosce benissimo dalle generazioni precedenti. E’ infatti sul lavoratore che entra in lavori manuali con forti doti personali, che sono nate le piccole imprese italiane. Cosa che, per gli italia-ni, si sta un po’ riducendo, perché la scolarità di massa fa sì che, chi ha queste doti, continui gli studi. Gli im-migrati non sono deboli, ma sono spesso inferiorizzati naturalmente nella situazione italiana, e quindi finisco-no, anche se hanno una laurea in tasca, a fare l’operaio specializzato nelle piccole imprese. Però questo può essere, se lo si saprà sfruttare, se le politiche saranno in grado di sfruttare, un potente fattore di innovazione di cui abbiamo molto bisogno, dati i bassi livelli di produt-tività dell’industria italiana degli ultimi anni. Certamente questo processo va accompagnato da tante cose. Va accompagnato soprattutto da una politica che guardi alle seconde generazioni.

Quindi, quello dell’acceso al lavoro manuale spe-cializzato degli stranieri è uno dei nodi centrali del siste-ma produttivo italiano. Ormai ha una presenza consi-stente e, da questo punto di vista, anche più forte che in altri paesi. Certamente c’è ancora un blocco forte al lavoro non manuale, e questo, direi che emerge da tutti i dati confortati dal rapporto, che si pone la domanda giusta: “l’accesso al lavoro indipendente, scelta obbli-gata?”. Purtroppo la risposta è sì, perché è il modo per l’immigrato, con grande potenzialità e anche con un buon livello d’istruzione, di riuscire ad uscire, se vuo-le, dal lavoro manuale specializzato, e riuscire quindi a fare questo passaggio, in un contesto in cui l’acces-so al lavoro indipendente da parte degli italiani c’è; nel senso che si pongono spesso ostacoli, problemi, etc., nell’accesso al lavoro autonomo tipici del sistema italia-no: captazione, conoscenze personali e altri meccani-smi di varia natura. Questo è comunque un problema: il problema cioè del far sì che il lavoro indipendente pos-sa svilupparsi e non diventare solo una fuga da scelte obbligate.

C’è un altro punto cruciale per cui gli immigra-ti sono una componente strutturale. Non tanto della struttura produttiva, ma del nostro sistema di welfare. L’impatto della crisi ha determinato un aumento della disoccupazione degli immigrati, ma per le donne po-chissimo. Il tasso di disoccupazione delle donne immi-grate è cresciuto di pochissimo. La domanda di lavo-ro domestico per le immigrate è rimasto praticamente costante con la crisi. Ciò vuol dire che, nonostante la

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crisi e tranne tracolli economici di cui dobbiamo evi-dentemente temere ma speriamo non accadano mai, le famiglie hanno continuato a esprimere una capacità di domanda e di pagamento del lavoro domestico e di cura famigliare cospicua. Noi abbiamo circa un 60% di donne immigrate occupate che lavora presso le fami-glie. Tra l’altro, da questo punto di vista, penso che il contributo ai redditi e al fisco sia sottostimato, perché questi redditi è difficile che entrino; c’è un po’ di sotto-stima perché questa componente qui non è considera-ta. Questo è un problema fondamentale, naturalmente, perché anche questo, è un pezzo essenziale del nostro sistema sociale. Da questo punto di vista, noi abbiamo ovviamente un problema: il problema della disoccupa-zione. È aumentata, ma dobbiamo ricordare, nel bene e nel male, che gli immigrati perdono più spesso il lavoro nelle piccole imprese dove c’è un alto turn-over, più che in aziende dove il lavoro è a tempo indeterminato. Que-sto significa maggiore flessibilità del mercato del lavo-ro. Il mercato del lavoro italiano spesso viene descritto come molto rigido, ma sappiamo che non lo è. “E pur si muove” scrivevano dieci anni fa i colleghi Ugo Trivellato e Contini, per citare due studiosi del mercato del lavoro. Però certamente gli immigrati sono una componente di grandissima flessibilità, sia territoriale sia di movimento del lavoro. Perdono il lavoro e lo ritrovano più spesso. Certamente per i motivi detti, anche negativi, perché se stanno troppo a lungo disoccupati, rischiano il permes-so di soggiorno. Sta di fatto che i dati di transizione e di flusso, ci dicono che lo ritrovano più spesso degli italia-ni, spesso accontentandosi di lavori più scadenti ovvia-mente, perché questo è il contrappasso. Il che vuol dire che, una potente iniezione di flessibilità del mercato del lavoro, gli immigrati la danno. La flessibilità territoriale poi, è molto forte. Sono tutti elementi che contribuisco-no al miglioramento di un sistema abbastanza statico e invecchiato come quello italiano.

C’è un problema. Il più grosso. Il problema, già detto, dello sfasamento tra il livello d’istruzione degli immigrati e i lavori che si svolgono, che ovviamente è compensato dall’aspetto economico. Il problema però sarà per le seconde generazioni, e diventerà un pro-blema serio, cosa che noi non vediamo ancora perché sono a scuola, quando sarà un punto dì ingresso im-portante da guardare. Si presenterà quando i giovani figli degli immigrati entreranno nel mercato del lavoro italiano. Quello sarà un punto cruciale. L’insegnamento è ormai in atto, ormai le scuole elementari hanno tas-si di presenza di immigrati vertiginosi. Nel centro nord le medie stanno investendo in questo momento e, fra poco, l’investimento sarà delle medie superiori. Sarà un

fenomeno di grande attenzione. Qui rientra il problema, che è centrale nel volume, del riconoscimento. Il con-tributo economico e lavorativo che gli immigrati danno al sistema italiano merita un riconoscimento. Un ricono-scimento simbolico che spesso non viene dato. Quello economico c’è, perché in realtà le forze economiche, sui luoghi di lavoro delle imprese, lo fanno. Il problema è il resto: il sistema politico nazionale e quello che av-viene fuori dai luoghi di lavoro. C’è una discrasia molto forte tra quello che avviene nei luoghi di lavoro e fuori dai luoghi di lavoro. Il riconoscimento che c’è dentro i luoghi di lavoro non è accompagnato, salvo eccezioni, da un eguale riconoscimento fuori dal luogo di lavoro, e questo è un problema serio, perché può provocare fenomeni di chiusura e di etnicizzazione, vale a dire che noi provochiamo la differenza impedendo il dialogo, l’in-contro etc. e li rinchiudiamo. In fondo chi emigra è uno comunque in fuga, alla ricerca di qualcosa di nuovo. Se lo richiudiamo, evidentemente torna indietro. Non cerca più un luogo dì innovazione ma si rifugia in miti difen-sivi che ovviamente dobbiamo assolutamente evitare. Questo è un problema serio. I modi di riconoscimento passano per il voto amministrativo, per esempio. Que-sto è ovviamente un problema centrale che il mondo economico dovrebbe riaffrontare. Pago le tasse, pago i contributi e a questo punto vorrei anche che io decidere come vengono spesi.

Qui chiudo, perché non sono un esperto di citta-dinanza. Mi dicono comunque che l’accesso alla citta-dinanza non è facile. Non è un percorso facile. Anche chi vuole accedere a prendere la cittadinanza italiana ha un percorso irto di difficoltà. Non vorrei sostituirmi al collega che non vedo presente, però lui mi spiega que-sto: siamo il paese europeo in cui avvengono meno ac-quisizioni di cittadinanza da parte di immigrati. Va detto inoltre che, ricordando il problema dei libici - io tento a distinguere l’immigrazione dai rifugiati - l’Italia è il paese che accoglie di gran lunga il minor numero di rifugiati dei paesi europei. La percentuale di rifugiati è di gran lunga la più bassa rispetto alla popolazione italiana negli ultimi anni. Quindi, se vogliamo pochi libici che sono arrivati a Lampedusa, e quindi bisogna ridistribuire le risposte da parte dei paesi europei, ho pensato: “ok, li ridistribu-iamo e ve li mandiamo, perché noi ne abbiamo accolti molti di più”. Quindi vuol dire che l’aspetto conoscitivo è decisivo.

Questi rapporti sono di enorme utilità, perché conoscere è essenziale per smitizzare, per far vedere quali sono i problemi reali, etc. Questi due ultimi dati sui rifugiati, quelli sui redditi e tutti gli altri aspetti conosci-tivi, sono decisivi per orientare le politiche pubbliche e

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l’opinione pubblica, in modo diverso da come spesso sta avvenendo.

Grazie

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie prof. Reyneri. Il voto amministrativo. An-che noi ieri, commentando i dati di questo rapporto, abbiamo scritto che gli stranieri stanno rispettando il dovere di pagare le tasse, ma il voto amministrativo, tra tutti i diritti promessi è mancato insieme alla cittadi-nanza breve per i ragazzi nati in Italia. Quindi, il voto è uno dei diritti mancati e una delle promesse mancate. Lascio la parola al dottor. Payar, dirigente nazionale per l’immigrazione della Confartigianato.

Antonio Payar Dirigente nazionale funzione “Immigrazione, sociale, persona” di Confartigianato Persone

Grazie dell’invito. Io intervengo a nome del Pre-sidente di Confartigianato Lombardia, il Dottor Merletti, che ha avuto impegni improrogabili questa sera e quindi lo sostituisco. Dovrei evidenziare in qualche maniera, visto il mio ruolo, il punto di vista delle imprese o delle piccole imprese o delle imprese artigiane o comunque di quella forma d’impresa che in italiana va per la mag-giore e costituisce l’ossatura del sistema produttivo del paese. Quindi, voi stessi avrete sentito in varie trasmis-sioni tv decantare più o meno le solite cifre sulle piccole imprese: siamo il 99,9%, il 96,4%, il 95,2 %, magari il fatto abbiamo tot assunzione, etc. Però sta di fatto che questo è il modello. Un modello che si è creato nel cor-so del tempo del fare impresa in Italia.

Presso il CNEL, faccio parte del Comitato di Pre-sidenza dell’ONC, Organismo Nazionale di Coordina-mento per le politiche d’integrazione, e dei tre organi-smi nati ai tempi della legge Turco-Napolitano. Questo è il primo dei tre organismi che allora erano previsti dalla legge. Il secondo era la Consulta Nazionale per l’Immi-grazione, dove partecipavano tutti gli organismi, tutte le associazioni e tutte le rappresentanze possibili e imma-ginabili, formate dai soggetti coinvolti nel fenomeno in Italia, associazioni, fondazioni, gruppi, etc. L’ultima riu-nione della consulta è stata convocata dal ministro Fer-rero, quindi si parla ormai di anni fa. Da allora, la con-sulta di fatto non esiste più. Alla fine dei conti, l’ONC,

l’Organismo Nazionale del Coordinamento presso il CNEL, è l’unico dei tre rimasto. Poi c’è in verità un quar-to ente, formato dai Tavoli Prefettizi, i consigli territoriali convocati dai prefetti. Questi esistono ancora, anche se alcuni prefetti li riuniscono, altri meno. Insomma, dove esistono, esistono, e dove non esistono, pazienza. Ma non è tanto questa la questione, ma piuttosto che presso questi organismi si riusciva in qualche maniera, interpolando il rapporto fra di noi le attività che svolge-vamo, a mettere insieme più dati, più valutazioni e più considerazioni possibili, che intercettavano meglio di quanto si faccia oggi, le trasformazioni in corso. Perché quello che ha detto Reyneri è giustissimo. Il problema è in qualche maniera, dimensionare gli aspetti opachi di questo fenomeno in corso in Italia. e quindi riuscivamo forse meglio di oggi. Come dicevo, faccio parte di que-sto organismo presso il CNEL, e lì avviene forse l’unico dibattito istituzionale permanente sull’immigrazione a li-vello istituzionale. Parlo perché il CNEL è un organismo costituzionale, non è volontariato. Sul fenomeno della piccola impresa e sul suo rapporto con l’immigrazione da un punto di vista economico, i dati sono già stati detti. Ho qui delle tabelle ma non mi metterò a ripre-sentarle. Se volete poi le lascio qui all’Università. Questi dati naturalmente, vincono nella quotidianità una serie di situazioni un po’ più vischiose, dove i fenomeni posi-tivi e negativi tendono a stare insieme e sono di diffici-le separazione, come mi sembra sia stato detto molto bene nell’ultimo intervento. Nei convegni si separano, perché nei convegni il ragionamento funziona e lo si può chiudere in maniera perfetta. Nella realtà, i ragionamenti non si chiudono, restano aperti, però con delle belle possibilità. Immaginate se chiudessimo tutto in maniera perfetta. La sera ammazzeremmo il mondo. In realtà certi aspetti sono meno drammatici, altri aspetti, non considerati o non percepiti nella valutazione dell’immi-grazione, sono invece molto drammatici. Allora ne dico solo uno. Un aspetto un po’ meno drammatico di quelli che possono apparire o essere descritti in parecchie iniziative, è legato all’integrazione. Un’integrazione che è in via di costruzione, anche se incontra resistenza. Evito di catalogare questa resistenza, perché mi inseri-rei in una discussione etica. In questo momento non la affrontiamo, anche se discussioni di questo tipo sono già state fatte e sono discussioni giuste e condivisibili. Ma adesso, come proiezione, dobbiamo lavorare con il materiale culturale che abbiamo. C’è già una resistenza all’interazione, figuriamoci all’integrazione. E’ comun-que un percorso in divenire, perché è pressoché for-zato dagli eventi. Gli italiani sono sempre stati persone che alla fine le cose preferiscono farle, più che dirle. Insomma, se gliele spieghi fuggono ma se poi si ritro-

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vano a farle, fanno. Anche se poi le devono smentire. La mattina le fanno e la sera, al bar, le smentiscono. Quindi prendiamo le cose così come vengono. Quindi alla fine, come diceva recentemente Forlani, che dirige l’immigrazione presso il Ministero del Lavoro, in una re-cente riunione dell’ONC, in realtà i territori, le comunità locali e le piccole imprese, vanno a operare in territori locali. In realtà integrano più di quello che non si pensi. Il fenomeno avrebbe queste proporzioni e avremmo del-le mezze Lampedusa. Quindi, innanzitutto la situazione dello sbarco, che piace molto ai media, non dice nulla dell’immigrazione regolare, o accettata o funzionante - che lo si voglia o no, comunque poi la sera nel talk show si dicono cose diverse per partito preso - che ha una sua dignità ed è anche gradatamente sempre più riconosciuta. Dico gradatamente, ma è sempre più riconosciuta. Quindi gli sbarchi servono solo a fare i ti-toli dei telegiornali, a costruire dibattiti, etc., ma poi, in realtà, le piccole imprese si rivolgono alle nostre asso-ciazioni e chiedono sistemi per avere immigrati. Sistemi regolari per integrarli, per assumerli, per regolarizzarli, per pagare loro i contributi e per tutto quello che volete voi. Poi, se gli accordi si trovano sotto forme diverse con modalità diverse, questo dipende dalle situazioni contingenti, dalle crisi economiche ma anche dalle cul-ture locali che in Italia sono dominanti. Quindi in Italia, si fanno i discorsi centrali a Roma, poi bisogna andare a Vigevano o a Caltanisetta per vedere lì che cosa si rimedia di tutto quello che si è detto a Roma.

Se non si capisce questo, vuol dire parlare a van-vera. Non siamo la Danimarca. Non siamo la Germania. Le cose sono sempre frutto di tavole, di controversie e di situazioni contingenti, dove i soggetti e le diverse realtà locali sono insuperabili. Quando qui parlo di pic-cole imprese o di artigianato vorrei far partire una sfida e capire di cosa stiamo parlando. Si può parlare di 5 milioni d’imprese oppure è meglio parlare delle 300mila, regolarmente definibili imprese, secondo l’addizione dell’Istat. Tra migliaia e milioni di imprese ci passano valutazioni diverse. Io ricordo che con il prof. Reyneri in commissione, discutevamo sempre di cos’è industria e di cos’è artigianato. Dovevamo dimensionare questo fenomeno. Se si parla di artigianato, l’artigianato sono i vetrai di Murano, ma anche gli auto-carrozziere o le lavanderia. Anche un edile con i suoi muratori romeni è un artigiano. Un camionista è un artigiano. Anche uno che guida un tir, infatti è una artigiano. Questi sono ar-tigiani per legge, e non perché lo dicono le associazioni di categoria. Secondo la legge 445 dell’85 queste cate-gorie sono artigiane a tutti gli effetti. Quando si parla di artigianato, si parla di tutto. Quando si parla di piccole

imprese invece, di che cosa si parla? Quando si par-la di micro-imprese, di che cosa si parla? Quando si parla di medie imprese, di che cosa si parla? E quindi, parlare del rapporto tra l’impresa italiana e l’immigra-zione, vuol dire parlare di due fenomeni che sono in fase di continuo mutamento già separatamente e che poi s’incontrano, come a Prato, Motta di Livenza e a Isernia, generando soluzioni diverse, spesso momen-tanee e contingenti. Ed è proprio sulla contingenza che gli imprenditori accettano di arrendersi al fatto di averne bisogno.

Do solo due parametri, che non sono statistici, ma sono indicatori della cultura in atto in questo mo-mento, circa la lettura di questo fenomeno, del rapporto tra l’immigrazione e l’economia. In un talk show televi-sivo, qualche sera fa, un ministro del governo citava la mancanza di mano d’opera delle piccole imprese. Non si trovano più tot tornitori, non si trovano più tot sarti, etc. In parte aveva ragione. Un rappresentate dell’op-posizione invece, che aveva fatto anche l’imprenditore fino a poco tempo fa, con molta meraviglia, non da un punto di vista ideologico o partitico ma con sua perso-nale meraviglia, osservava come a lui risultassero cose diverse, e cioè che la mano d’opera di basso valore fosse molto disponibile ma che mancavano manager, quadri etc. Quindi è vero che mancano tot tornitori, tot elettricisti, tot carpentieri, etc., ma non sono solo que-ste le figure che mancano alle piccole imprese, altri-menti non ci sarebbero tutti questi immigrati. Non sono solo questi che mancano. Però, è anche vero d’altra parte quello che diceva il rappresentate dell’opposizio-ne quando diceva che alle nostre imprese mancano i quadri, i direttori, i manager, etc., e che invece c’è ab-bondanza d’offerta per le figure di basso livello, poco skillate. Anzi per queste addirittura non ci sarebbe biso-gno. Ma di quale impresa stiamo parlando? Il ministro parla di alcune, quello parla di altre. Nessuno sapeva di quali imprese si parlasse. Queste sono le imprese in un talk show televisivo. Ognuno sceglie le tipologie di imprese che ha in testa lui. Questo meccanismo funzio-na perché in Italia c’è di tutto da questo punto di vista. Perché se si va in un punto o in un altro si assiste ad ogni fenomeno d’imprenditorialità.

Un’altra situazione in cui mi sono imbattuto ve-nerdì 4 novembre, alla trasmissione Uno Mattina. Un rappresentante di una grande organizzazione nell’area pratese, chiamato apposta per parlare dei cinesi di Pra-to, alla domanda: “ma secondo lei gli immigrati in Italia (lasciando perdere Prato) hanno più tolto o più dato?”, ha detto: “devo dire che hanno più tolto che dato”. Altro siparietto: interviene una signora immigrata latino ame-

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ricana che spiega come mai fa gli orli. Quindi piccola impresa. Fa gli orli dei pantaloni a 5 euro, a Roma li fanno a 6 euro. E il pubblico insorge, nel senso che il pubblico dice: “non farei mai un orlo di pantaloni a 6 euro, ma lo farei a 15, a 18... voi ci rubate il lavoro per-ché fate concorrenza sleale”. In quel dibattito, la con-correnza sleale sta nel fatto che con 6 euro non si va al cinema, non si ha un tenore di vita, non si possono fare le vacanze, non si fa nulla. Di nuovo, il pubblico: “Se voi volete solo lavorare, fate voi. Non è giusto però che non questa idea del lavoro, con questa fissa di dover essere competitivi, ci togliete lavoro a noi perché. Noi con 6 euro non possiamo avere quel tenore di vita che ci vo-gliamo permettere. Perché voi non avete cultura, lavo-rereste anche la domenica e non va bene. Dovete stare alle nostre regole”, etc. Successivamente, un intervento di un imprenditore immigrato di colore che faceva tre mestieri, perché quando non ne funzionava uno funzio-navano gli altri due. Faceva il ballerino, il produttore di vestiario, confezionava vestiti, etc.: “Signori, io i pan-taloni li vendo a 15 euro. Il prezzo a cui voi fareste un orlo”. Silenzio di tomba. Naturalmente è stato preso per un altro usurpatore di lavoro. Capite però che, se que-ste sono le scene che la tv manda in onda, sono uno spaccato di una realtà che esiste. Questo non è tanto razzismo. E’ inutile stracciarsi le vesti o indignarsi con tutto questo, perché poi nella realtà, quando poi a Prato abbiamo 40mila cinesi tra regolari e irregolari su 175mila abitanti - sto parlando di 40, non di 10, 8, 6mila, ma di 40mila soggetti su 175mila abitanti - sto considerando una realtà che ormai potrebbe fare comune per conto proprio. Questi soggetti avrebbero forza di usufruire di regole diverse. Sul ritiro rifiuti per esempio, laddove si fa la raccolta differenziata, nelle aree cinesi non funziona, perché comunque non si riesce ad ottenere da loro una raccolta differenziata, gettano qualunque rifiuto alimen-tare insieme ai cascami tessili e insieme alle bottiglie. In sostanza, il comune ha obbligato i pratesi, con appositi contenitori, alla raccolta differenziata, mentre ai cine-si ha lasciato i cassonetti. Quindi, nella zona cinese ci sono i cassonetti perché non si ritira. Per cui c’è poco da fare, o così o niente. Loro non si adattano. Queste realtà, non sono tanto fenomeni bui, ma piuttosto situa-zioni di chiaroscuro, che il paese deve, in ciascun terri-torio - le piccole imprese lo sanno - abituarsi a gestire. Non abituarsi a tollerare, ma abituarsi a gestire. Devono essere prese una per una e portate in divenire.

Nella piccola impresa locale, che cosa serve ri-spetto alla mano d’opera immigrata? Lo ha detto bene Bitjoka, Servirebbe sicuramente dare una nuova let-tura paradigmatica. Non più la vecchia lettura, ma un

cambio di paradigma. I cambi di paradigma però non si possono introdurre così. Richiedono una maturazione che soltanto le aree locali, con le risorse umane che hanno, posso fare. Noi possiamo indurre, suscitare, ac-compagnare, stimolare, supportare, consigliare, indur-re, ma non possiamo più di tanto affrettarli. Come per esempio non possiamo più di tanto affrettare la ripresa della natalità tra gli italiani e non possiamo contenere il rallentamento della crescita della natalità che c’è tra le donne immigrate. Prendete l’ultima ricerca del Censis della dott.ssa Vaccaro, e vedrete che nelle donne immi-grate è in corso un rallenatamento della crescita della natalità, che porterà nel corso dei prossimi 15 anni a un contenimento consistente della prole, come è in cor-so nel continente africano. I 9 miliardi di persone che raggiungeremo nel 2050, saranno 9 e lì si fermeranno. Dobbiamo però considerare che da qui al 2050 avremo 2.800.000 di persone in più nel terzo e nel quarto mon-do, e circa 300 milioni in più in tutto. Saranno 2 miliardi e ottocentomila che guarderanno chissà dove, sicura-mente anche a noi, quindi dobbiamo prepararci a qual-che risposta in questo senso. Queste sono macchine in moto. In 100 anni ci sono 3 generazioni e, quando si mette in moto una persona dopo 20 anni, questa arriva a destinazione con gli studi, con la richiesta di lavo-ro. Quando arriva, arriva, e se non c’è, non c’è. Ma se c’è... Quindi, dato che nella popolazione mondia-le ci sarà qualche miliardo di persone in più, e molte di queste non avranno risorse e non avranno mercato quando noi avremmo bisogno di loro, bisognerà trovare un’intensa. Si tratta di un fenomeno che dovrà essere gestito.

In questo senso voglio dire che, mentre l’integra-zione locale avviene molto più spesso di quello che non si pensi e avviene per contatto, per contaminazione, per imitazione su consiglio del vicino, per mezzo del-le associazioni del volontariato, per mezzo di istituzioni sensibili, per una ripresa della mediazione culturale, che tende a passare dal fai-da-te a una forma più strutturata etc., sul piano della trasformazione strutturale del pa-ese siamo veramente in difficoltà. Come dicevo prima al mio collega Sandro Corti, se dovessi descrivere la situazione, direi che è bloccata, nel senso che dopo il fordismo è subentrato il post-fordismo, e, attraverso la piccola impresa, ha fatto grande l’Italia e ha fatto gran-de a classe media. De Rita ne è sicuramente un cantore delle virtù. Però il post-fordismo ha anch’esso avuto un termine e, quando si parla di distretti, si parla di un epo-ca che non c’è più. Non ci sono più i distretti, dove le aziende delle aree comunità prendevano la cittadinanza industriale prima di quella civile e politica. L’immigrato

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del sud a Prato di bovino o di Ariano Irpino, prima si prendeva una cittadinanza industriale e quindi veniva accolto. Sul piano del lavoro, questo ora non c’è e quin-di. Ci sono residui di quell’area distrettuale tessile, che Prato era, che il distretto della maiolica era, che il di-stretto della sciarpa era o che il distretto dell’occhialeria era. Insomma le imprese di quelle aree, di quelle filiere, che sono sopravvissute, tendono a tessere lunghe reti con la conoscenza, anche verso aree estere, attraverso tecnologie estremamente adeguate a questa ricerca di reti lunghe. Tecnologie che valicano la località e il loca-lismo, che operano senza piattaforme locali di suppor-to. Queste imprese adoperano mano d’opera straniera. Non hanno capitale intellettuale sufficiente e lo cercano. Quindi, c’è un paradigma da ridefinire. Noi siamo orfa-ni del precedente paradigma imprenditoriale che a sua volta era orfano del fordismo e del post-fordismo. Noi siamo orfani di un post-fordismo che ha fatto forte l’Ita-lia, ma che adesso ha bisogno di una nuova declinazio-ne; Piccole imprese che diventano sempre più “medie”, anche se è un termine improprio dire medie, perché uno pensa ad un aumento dei volumi e non è esattamente così. Medie anche per quanta rete possiede di collabo-razioni e di interazioni con altre imprese che fanno parte di un possibile distretto virtuale. Un distretto che può anche essere da qui ad Amburgo a New York. Questa è la media impresa. Quante imprese avevano bisogno delle piattaforme delle aree locali e le aree locali biso-gno delle comunità locali e le comunità delle famiglie, etc. Le imprese non hanno più il loro bacino industriale con il quale ci si alimentava. Più ci si chiudeva nel ba-cino più era sicuro che il benessere era certo, per cui a Prato, più si sapeva nel tessile meno se ne sapeva a Biella. Questa era la storia. Ma questa storia è finita. Paradossalmente, più ci copiano meglio è. Più ci co-piano il basso valore e meglio è. Ossia, lo facciamo fare agli altri e noi ci teniamo la vendita dei significati. Però i significati vanno prodotti. Chi li produce? Ci vogliono delle competenze. Ma noi continuiamo ad assumere soltanto immigrati che hanno un titolo di studio alto e poi non li impieghiamo per i titoli di studio che hanno. Non possiamo dire che da noi vengono i peones. Siamo noi che abbiamo un mercato interno che ha un tasso di mansioni dequalificate superiore a quello di tutti i paesi OCSE, e quindi li impieghiamo li. Intanto gli immigrati coprono le falle.

C’è una parte delle piccole imprese che è dedita alla sopravvivenza, che sono i residui del post-fordismo, i residui del distretto, i residui delle aree comunità dove il benessere era molto vissuto a livello locale. Queste imprese continuano ad esserci. Poi ci sono piccole im-

prese che oramai fanno a meno di tutto quello che c’è nel territorio italiano, che usano mano d’opera stranie-ra. Poi ci sono medie imprese che ormai hanno fatto il salto. Ecco. Il nostro territorio è fatto di tutto questo ed è in fase di un cambio grosso di paradigma. Il fenome-no migratorio andrebbe letto anche rispetto alla piccola impresa e non tanto rispetto alla provenienza degli stra-nieri, alle professioni che svolgono, perché la piccola impresa non è così semplicemente piccola come uno dice. Perché ripeto, tra territorio e territorio c’è diffe-renza, tra storia e storia c’è differenza. Bisognerebbe soprattutto mettere sotto osservazione l’evoluzione della piccola impresa in Italia. Oltretutto, come giusta-mente ha detto il prof. Reyneri, questa è la struttura del paese, questa è l’ossatura. Se cade questa, ditemi voi che cosa sta su. Quindi noi ci dobbiamo preoccupare, volenti o nolenti, delle nostre piccole imprese, perché fanno parte delle storie e fanno parte anche del futuro. Probabilmente sono anche il capitale che abbiamo a disposizione per competere. Questo paese non com-peterà mai come gli altri. Gli altri faranno altre cose ma noi vinciamo per varietà di territori. Queste realtà, assumono immigrati. Queste realtà purtroppo sono in difficoltà. Ma sono anche in fase di cambiamento e di ripensamento. Quindi non sono solo i cinesi che hanno sottratto il tessile. I cinesi non stanno sottraendo più nulla. hanno un distretto loro. Importano ed esporta-no e faranno made in Italy per conto loro. I pratesi si devono domandare cosa vogliono fare da grandi, e i loro figli, pochi, bisogna che si domandino cosa faran-no delle imprese dei padri, se le finiscono nel borgo, se le dismettono o se le continuano. Per rispondere a queste domande bisogna tenere in conto il rapporto tra imprenditori immigrati e piccole imprese, due fenomeni in fase di trasformazione. Ripeto, gli aspetti più dram-matici probabilmente lo sono un po’ meno dei temi del razzismo perché poi alla fine un piccolo imprenditore straniero trova il modo di ottenere casa, salute e asilo per i figli e che un lavoratore immigrato che perde il la-voro, il lavoro lo ritrova, perché dell’italiano. Guardate che tra il 2005 e il 2010, 34 immigrati su 100 hanno ritrovato il lavoro. Capite che ce li teniamo abbastanza stretti. D’altra parte è diminuito il fabbisogno, un po’ di giovani italiani sono arrivati. Il fabbisogno riprenderà intorno al 2014/2015, perché si estinguerà la genera-zione di giovani italiani che sono disposti ad andare alle piccole. Dietro, non ci sono più di nuovo figli e ripartirà il bisogno. Però questo è un rapporto che in qualche maniera è standard. Quello che dobbiamo mettere sot-to osservazione, è che questo fenomeno delle piccole imprese, è un fenomeno che di per sé è in fase di tran-sizione. La grande transizione del paese non è tanto la

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finanza. Che cosa ce ne facciamo della piccola impresa locale? di quale piattaforme ha bisogno? di quale tec-nologia ha bisogno e conseguentemente di che tipo di mano d’opera immigrata ha bisogno? A questo punto, se la qualifichiamo, la richiesta cresce diversamente. Tra peones, si fa un discorso di peones. Grazie.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Grazie al dott. Payar. Qualche esempio di rispo-sta paradigmatica c’è. Nel bresciano le imprese fanno i turni rispettando il ramadan. Nelle imprese che produ-cono il vino Barolo, secondo il presidente, con cui ho parlato, il Barolo ora si produce solo ed esclusivamente grazie ai macedoni, stabilitisi nella colonia di macedoni che hanno preso di tutto, anche la chiesa. Quindi in molte produzioni dell’agroalimentare, il contributo dei lavoratori stranieri risulta determinante anche nella zona del reggiano. Così comunque è proprio un approccio diverso. So che Maurizio Bove della CISL, voleva in-tervenire a proposito della campagna “l’Italia sono an-che io”. Cedo il microfono. Mi ricollego solo un attimo a quello che diceva il prof. Reyneri. E’ complicato avere la cittadinanza italiana, si fa domanda dopo 10 anni di re-sidenza continuata e senza interruzioni. Una cosa molto interessante e che pochi sanno, è che al compimento dei 18 anni gli stranieri nati in Italia possono chiedere e ottenere la cittadinanza automaticamente.

Maurizio Bove Responsabile immigrazione della Cisl di Milano

Non è scontato che un bambino nato in Italia da genitori regolari, al 18esimo anno di età possa chiedere la cittadinanza e che diventi cittadino italiano. La deve chiedere, questa cittadinanza, e ha soltanto un anno di tempo per chiederla dal compimento del diciottesi-mo anno. Il senso della campagna, trovate un volantino all’interno della cartelletta, è proprio quello di modificare la norma sulla cittadinanza italiana e quindi fare in modo che i bimbi dei cittadini regolari che nascono qui in Italia siano italiani. Si diceva, durante il dibattito, che c’è un problema di riconoscimento. Un riconoscimento di per-sone che nascono e vivono nel nostro paese e si sento-no a tutti gli effetti italiani. Ed è soltanto una normativa che non li riconosce come tali. E un altro riconoscimen-to alle persone, e qui siamo alla seconda proposta di legge, che lavorano e pagano le tasse in Italia, è che

possono anche avere un diritto di voto, quantomeno alle amministrative. Stiamo quindi raccogliendo e dob-biamo raccogliere 50mila firme per ogni proposta di leg-ge a livello nazionale. A Milano, presso tutti i Consigli di Zona e presso il comune di Milano, è possibile andare a firmare, affinché questa proposta arrivi al vaglio del Par-lamento, e speriamo che una volta per tutte l’Italia rico-nosca di essere già un paese multietnico. Grazie a tutti

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

Abbiamo ancora un po’ di tempo per il dibatto. Quindi, chi vuol fare domande alla dott.ssa Benvenuti o al prof. Reyneri, abbiamo un po’ di tempo. Apriamo il dibattito. Inizio io e mi rivolgo alla Dott.ssa Benvenuti. Vuole aggiungere qualcosa? C’è qualcosa che ha tra-lasciato?

Valeria Benvenuti Ricercatrice della Fondazione Leone Moressa

Alcuni argomenti che non ho trattato nella pre-sentazione, ma che comunque si possono trovare nel volume, nell’interessante capitolo sulle rimesse. Quanti soldi sostanzialmente gli stranieri mandano a casa nel proprio paese? La rimessa è un valore da poco rico-nosciuto come strumento di sviluppo economico nel paese di destinazione. Quindi, viene fatto a livello inter-nazionale un grande sforzo che per riconoscere la ri-messa come elemento di eco sviluppo e molti paesi, tra i quali l’Italia, si sono presi l’impegno di gestire al meglio questo tipo di fenomeno, creando competizione all’in-terno delle istituzioni che operano nel settore, come le aziende di intermediazione monetaria, le poste e le ban-che, affinché il costo della transizione della rimessa sia competitiva. Questo è un elemento importante. Un’altra cosa che appunto non ho trattato, riprende il discorso che faceva prima il prof Reyner sulle professioni occu-pazionali. Ci sono poi molti dati sugli imprenditori stra-nieri, quanti sono dove sono, che non ho presentato. Questo è un tentativo di riunire dati e statistiche in un certo senso inedito. Io comunque vi ringrazio di aver

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partecipato a questo convegno e vi invito a prendere lettura di questo rapporto.

Grazie ancora.

Domanda rivolta al Dott. Payar: Riguardo alla consapevolezza politica, volevo sapere come ci si sta muovendo adesso a livello politico.

Antonio Payar Dirigente nazionale funzione “Immigrazione, sociale, persona” di Confartigianato Persone

L’aspetto politico va vissuto come qualcosa da gestire in base alle situazioni contingenti. Da una par-te, non a caso, si parlava prima del decreto flussi, che è lo strumento in Italia per eccellenza su cui, quando viene impostato, si accapigliano sindaci, imprenditori, associazioni etc. E’ l’argomento più dibattuto. Quindi situazioni contingenti e problemi strutturali. La politica è legata alla grande direttrice dell’integrazione come fe-nomeno fondamentale di creazione di valore e quindi di possibilità ad acquisire il valore dalla presenza del-la risorsa immigrazione in Italia. Quindi, primo fonda-mentale sbocco naturale e processo da accelerare in questo senso, è la politica dell’integrazione. E’ quella perseguita, il driver numero uno.

Insieme a questa, c’è da tenere conto che tut-te le organizzazioni di rappresentanza del commercio e delle piccole imprese in generale sono costituite da rappresentanze territoriali, quindi centralmente si fan-no delle scelte che, salvo i principali driver, poi devo-no rispecchiare le richieste della diversità territoriale. E quindi la diversità territoriale dipende da vari fattori di maturazione di un’area, dalla consapevolezza del grado di difficoltà. E se parlo con i pratesi, sembra che in Italia ci siano solo cinesi. Vogliono solo parlare di situazioni connesse alla loro situazione e pensano che il fattore d’immigrazione consista sostanzialmente nell’invasione imprenditoriale. Non a caso è stato detto, con questo richiamo all’imprenditoria immigrata e imprenditoria lo-cale, delle due impreditorie in contrapposizione. Altrove per esempio, se parlo del distretto del Porfido a Trento, o parlo di mano d’opera o scalpellini o parlo di estrat-tori, parlo di cave, parlo di manovalanza immigrata, di lavoro e di fatica, ma anche di manodopera qualificata, sempre più qualificata; però qui siamo passati dalla di-

sponibilità di un cavatore, all’incarico di dirigere un can-tiere per l’immigrato rumeno.

E quindi diciamo che le politiche vengono fatte su due binari: uno, il principale, è quello della scelta dell’integrazione, l’altro, è quello di rispondere ai biso-gni locali che sono dettati dalla contingenza del mo-mento, dalle economie che il territorio sta attraversando e, come è stato detto, i territori attraversano situazioni e tempi molto diversi, come a riguardo dell’imprenditoria immigrata. Voi se prendete degli imprenditori immigra-ti, li trovate più qualificati da una parte e più qualificati dall’altra. Nell’indotto della metal-meccanica modene-se e Milano romagnola - un indotto fortissimo, come voi sapete, dove operano la Ferrari e la Ducati, citando le imprese che vanno in televisione - noi troviamo pic-cole imprese immigrate estremamente qualificate. Una piccola impresa immigrata assume linguaggi formali in un batter d’occhio, cosa che l’impresa italiana non fa ancora, perché l’impresa italiana viene da una storia sua, mentre l’impresa immigrata, quando viene fonda-ta, è tendenzialmente condotta da un imprenditore che sa anche l’inglese, che usa normalmente il pc. Lo usa nella piccola impresa, quindi è collegato con casa sua. Quindi non deve introdurre la tecnologia come una sor-ta di magia o di cabala. Pensate anche a questi fattori Spesso tante immigrate nascono potenzialmente più preparate e più attrezzate di una piccola impresa lo-cale italiana che sta raggiungendo quella attrezzatura lì. Però, non tutti i territori sono uguali. Dipende quanto sono stimolate. Dove la qualificazione è alta, la picco-la impresa immigrata si qualifica anche lei prontamen-te e assume italiani; parlo dell’edilizia bergamasca, per esempio. Molti giovani bergamaschi sono assunti da imprese immigrate egiziane. Gli egiziani a Milano non fanno alimentare, fanno edilizia, non sono ristoratori, sono nell’edilizia, con personale italiano di Bergamo estremamente qualificato. Pensiamo solo a tutta una serie di imprenditori bergamaschi che non hanno avu-to il figlio che entrava nell’azienda. Quindi le situazioni dipendono da territorio e territorio. Le nostre politiche tengono conto della diversità territoriale, della matura-zione, dell’integrazione di questi territori e naturalmente del driver dell’integrazione a livello internazionale. Cre-do che anche Confcommercio sia così e che Cna sia su questa strada. Quando ci troviamo abbiamo lo stesso linguaggio, da questo punto di vista.

Domanda rivolta al Dott. Payar: La domanda che volevo fare ad un imprenditore così a contatto con le problematiche che riguardano l’economia e il lavoro,

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non può prescindere dalla scuola. L’impresa assiste, nel campo della scuola, a dei problemi enormi. Una scuola non attrezzata per formare gli immigrati, specialmente quelli che arrivano già un po’ adulti, perché da bam-bini fanno presto. Abbandono scolastico, tendenza ad andare nelle scuole meno parificate, meno attrezzate e così via. Cosa ci si può aspettare dall’imprenditoria rispetto alla scuola, in riferimento alla formazione dei giovani e alle energie che vengono dall’esterno proprio per i bisogni che lei ha enunciato. Cosa potrebbe sug-gerire, affinché l’amministrazione centrale, il governo, il ministero diano, visto che sembra che siano glie enti lo-cali a doversene occupare, senza che questi forniscano niente all’ambiente scolastico, e che gli insegnanti e i dirigenti siano completamente spaesati?

Antonio Payar Dirigente nazionale funzione “Immigrazione, sociale, persona” di Confartigianato Persone

Non ho gradi competenze sul sistema scolastico. D’altronde, è un punto di cui non mi sono mai occupa-to. Io posso aggiungere solo questo: toccando questo punto, veramente si tocca il tema di quel paradigma che dicevo prima. Un paradigma che è da cambiare e che riguarda sia questo annoso problema fra qualifica-zione culturale e scolastica del giovane, che il bisogno del sistema produttivo. Questo è un tema infinito, è un tema che vede soggetti di tutti i tipi intervenire a più riprese, con soluzioni proposte in varie versioni. Quindi, inscriverei l’immigrazione dentro il problema tra il reali-smo e il sapere. Questa è una tematica enorme, dove anche all’interno delle nostre organizzazioni assistiamo, per parlare delle politiche a cui si riferiva prima l’ami-co, a richieste di tutti i tipi. Formateci questi. Prepara-teci questi altri. La scuola deve. La scuola non deve. Quindi quando ci occupiamo della scuola e dovrem-mo portare richieste, le pressioni arrivano da tutte le parti. Quello che è certo, è che la scuola è da tempo che non può pensare di essere il soggetto che copre la differenza tecnologica e di preparazione professionale che un tempo coprivano gli istituti tecnici, quando le competenze erano prefissate da situazioni di mercato ferme e sicure e la scuola poteva coprire il gap di com-petenza che si andavano naturalmente a creare. Alla

scuola si chiede una professionalizzazione dell’immi-grato o dell’italiano che sia. Chi segue il bambino di 12 anni al pomeriggio? Questo ragazzo lascerà la scuola e cosa farà dopo? Non si sa. In azienda non va, perché è troppo piccolo e che cosa farà quindi? Bho. Allora se non curiamo le seconde generazioni che sono qui, im-maginate allora cosa dobbiamo pensare degli sbarchi. Il problema è che non ce ne stiamo occupando come bisognerebbe, anche perché la questione a che serva un titolo di studio rispetto alle piccole imprese è anco-ra una questione aperta. L’immigrato risente di questo problema, ma non è un problema dell’immigrato, è un problema della formazione professionale, della qualifi-cazione e dell’utilizzo della scuola per quanto riguarda l’istruzione e la professionalizzazione. Tenete presente che l’ultimo rapporto riguardante la regione Lazio su-gli istituti professionalizzanti, ci dice che su 1000 posti, le richieste delle famiglie italiane sono di 296 ragazzi. Quindi vuol dire che la taratura che gli abbiamo dato è giusta. Possiamo immaginare tutto quello che vogliamo ma le famiglie non ce li mandano, ma li orientano verso un percorso scolastico medio-lungo. Se questo è così, la qualificazione dell’immigrato è lasciata ai centri di formazione professionale del terzo settore più che alla scuola in senso lato. E’ una questione che si affianca al dibattito che riguarda le generazioni italiane. C’è una questione che tocca noi imprenditori su che cosa deb-ba intendersi per cultura oggi di un giovane, soprattutto rispetto alle esigenze del sistema produttivo.

Francesca Padula Giornalista de Il Sole 24 Ore

E comunque questa della seconda generazione è veramente una questione significativa ed esplosiva, legata anche alla questione della cittadinanza dei diciot-tenni. Se mai dovessero passare le proposte di legge di iniziativa popolare per la modifica della normativa, allora si aprirebbero sbocchi d’impiego diversi. E’ chiaro che, se un giovane di 18 anni diventa un cittadino italiano, ha le stesse chance dell’italiano anche nel pubblico impie-go. Su questo, il prof. Reyneri diceva che quella delle seconde generazioni è sicuramente una delle questio-ni più importanti. Bene, se non ci sono altri interventi, ringrazio anche io Valeria Benvenuti della Fondazione Leone Moressa e tutti i relatori.

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L’economia dell’immigrazioneStudi e riflessioni sulla dimensione economica degli stranieri in ItaliaAnno 0 - Gennaio 2012 - Numero SpecialeDirettore responsabile: Renato MasonEditore: Fondazione Leone MoressaRedazione: Fondazione Leone MoressaDirezione, redazione, amministrazione: Mestre, Via Torre Belfredo 81/etel. 041 23.86.700 fax 041 98.45.01

ISSN 2240-7529 E-mail: [email protected] Sito web: www.fondazioneleonemoressa.orgFacebook: www.facebook.com/pages/Fondazione-Leone-Moressa/59124627242Youtube: www.youtube.com/user/FondazioneMoressaTwitter: twitter.com/#!/FondazMoressaSkype: Fondazione Leone Moressa

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