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n.9 – settembre 2013 la Biblioteca di via Senato Milano mensile, anno v LO STUDIO La scrittura del fantastico in Italia di gianfranco de turris IL FONDO Vigorelli e la letteratura italiana di gianluca montinaro LIBRO DEL MESE Adolf Hitler. Una emozione incarnata di ernst nolte e massimo de angelis L’ALTRO SCAFFALE Il disegno e la morsura: Spadini e Sartorio di alberto cesare ambesi BvS: BIBLIOFILIA Lamberto Donati e il «Maso Finiguerra» di giancarlo petrella
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n.9 – settembre 2013

la Biblioteca di via SenatoMilanomensile, anno v

LO STUDIOLa scrittura del fantastico in Italiadi gianfranco de turris

IL FONDO Vigorelli e la letteraturaitalianadi gianluca montinaro

LIBRO DEL MESEAdolf Hitler. Una emozioneincarnatadi ernst nolte e massimo de angelis

L’ALTRO SCAFFALEIl disegno e la morsura: Spadini e Sartoriodi alberto cesare ambesi

BvS: BIBLIOFILIALamberto Donatie il «MasoFiniguerra»di giancarlo petrella

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Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione

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Sommario6

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Lo StudioLA SCRITTURA DEL FANTASTICO IN ITALIAdi Gianfranco de Turris

BvS: il Fondo VigorelliVIGORELLI E LA LETTERATURA ITALIANAdi Gianluca Montinaro

BvS: BibliofiliaLAMBERTO DONATI E IL «MASO FINIGUERRA»di Giancarlo Petrella

IN SEDICESIMO - Le rubricheLE MOSTRE – LO SCAFFALE –L’ARTISTA DEL MESEa cura di Luca Pietro Nicoletti e Sandro Giovannini

Il libro del meseADOLF HITLER. UNA EMOZIONE INCARNATAdi Ernst Nolte e Massimo De Angelis

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L’altro scaffaleIL DISEGNO E LA MORSURA: SPADINI E SARTORIOdi Alberto Cesare Ambesi

Filosofia delle parole e delle coseIL DILEMMA DELL’UOMO, FRA POTERE E ARBITRIOdi Daniele Gigli

Il SaggioLA POETICA DI EZRA POUND E LE “ACQUE DI VITA”seconda e ultima partedi Sandro Giovannini

BvS: il ristoro del buon lettoreIL MOSCHETTIERE DELLA CUCINAdi Gianluca Montinaro

MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO V – N.9/43 – MILANO, SETTEMBRE 2013

la Biblioteca di via Senato – Milano

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Fondazione Biblioteca di via Senato

PresidenteMarcello Dell’Utri

Consiglio di AmministrazioneMarcello Dell’UtriGiuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli

Segretario GeneraleAngelo de Tomasi

Collegio dei Revisori dei contiPresidenteAchille FrattiniRevisoriGianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo

Biblioteca di via Senato – Mostre

- Mostra del Libro Antico- Salone del Libro Usato

OrganizzazioneInes LattuadaMargherita Savarese

Ufficio StampaEx Libris Comunicazione

Biblioteca di via Senato – Edizioni

RedazioneVia Senato 14 - 20122 MilanoTel. 02 76215318 - Fax 02 [email protected]@bibliotecadiviasenato.itwww.bibliotecadiviasenato.it

Direttore responsabileGianluca Montinaro

Servizi GeneraliGaudio Saracino

Coordinamento pubblicitàMargherita Savarese

Progetto graficoElena Buffa

Fotolito e stampaGalli Thierry, Milano

Referenze fotograficheSaporetti Immagine d’Arte - Milano

Immagine di copertinaSilografia raffigurante pene infernalitratta da Historia di Santo Grisedio, L’Aquila, Eusanius de Stella, 23 dicembre 1493

L’Editore si dichiara disponibile a regolareeventuali diritti per immagini o testi di cuinon sia stato possibile reperire la fonte

Stampato in Italia© 2013 – Biblioteca di via SenatoEdizioni – Tutti i diritti riservati

Reg. Trib. di Milano n. 104 del11/03/2009

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Settimane, queste di inizio settembre, dense – a tratti quasi “cruciali” – perbuona parte dell’italico mondo della

cultura. Settimane durante le quali i soliti notinomi – scrittori, pensatori, professori (detentoripresunti di un verbo tanto importante quantoevanescente e ineffabile) – saltano da una parteall’altra della Penisola, passando attraverso i tanti festival letterari e rassegne filosofiche che costellano lo Stivale. Seguiti da una follaadorante (vasta ma sempre quella), intervengonosu tutto. Sul problema ontologico nella Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino

e sulla fame nel mondo così come sullaRecherche proustiana e sui venti di guerra che soffiano in Medio Oriente. Su tuttoesprimono giudizi. Su tutto, come sibille cumane,lasciano cadere i «semi del loro melagrano», in una ripetitiva e stucchevole fiera dellebanalità. E in questo spettacolo quelli che dovrebbero essere i veri protagonisti sono gli unici assenti: i libri. Non sufficientementemeditati dagli oratori. Non abbastanza conosciutidagli organizzatori. Non letti dal pubblico. E tutto si riduce a mera e inutile chiacchiera.

Gianluca Montinaro

Editoriale

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Lo Studio

rire fatti di cui esistono soltantofonti orali e non scritte. Infine,ultimo balzo a ritroso: il verbotradere a sua volta - e così arrivia-mo alle origini - nasce dalla fu-sone di trans e dare: “dare oltre”ovvero “trasmettere al di là”. Èquesto il punto di partenza.

Quindi si ha una “tradizio-ne” quando c’è il passaggio inin-terrotto di un testimone, qual-cosa - insegnamento, usanza,valore, ricordo, narrazione - at-traverso il tempo, da una perso-na all’altra, da una generazioneall’altra, senza soluzione di con-tinuità, senza una interruzione,

uno iato, significativi ed evidenti, in modo da crea-re un che di duraturo e acquisito nel tempo. Unatradizione letteraria è la stessa cosa, soltanto che cisi riferisce a sensi, valori, riferimenti culturali.

Dopo questo sintetico excursus filologico,chiediamoci in base ai precedenti dati: esiste o nonesiste, allora, una tradizione fantastica italiana che,partita da un certo momento della nostra storia let-teraria sia alla fine giunta, anche se in forme diversee adeguate ai tempi, sino ai nostri giorni? Dilemmanon da poco e su cui si è dibattuto soprattutto neglianni Ottanta e Novanta e che attualmente nonsembra essere di moda. Il che è strano consideran-

LA SCRITTURA DEL FANTASTICO IN ITALIA

Alla scoperta di una letteratura negletta

Ricorriamo, come ormainon si usa quasi più fare,al vocabolario. Quello

italiano ci dice che “tradizione”vuol dire: «trasmissione neltempo di notizie e consuetudiniattraverso l’esempio o medianteammaestramenti; consuetudi-ne». La parola italiana deriva daquella latina traditio, che a suavolta deriva dal verbo tradere.Ricorriamo adesso al vocabola-rio latino, il vetusto Calonghi,che pur scassato assolve egregia-mente alle sue funzioni. Qui leg-giamo che traditio vuol dire:«consegna (Cicerone, Livio);insegnamento, lezione (Quintiliano); relazione,racconto (Tacito); tradizione (Aulo Gellio)». Ilverbo tradere vuol dire: «dare, consegnare, rimet-tere, trasmettere (in senso largo o stretto, generaleo particolare); riferire, raccontare, tramandare(Livio, Cicerone); insegnare». Qualcuno ricorde-rà che in Tito Livio e Tacito spesso si usa tradunt(vale a dire “si dice, si narra, si racconta”) per rife-

Sopra: John Giles Eccardt (1720–1779), Ritratto di Horace

Walpole, 1754 circa, Londra, National Portrait Gallery.

Nella pagina a lato: Henry William Pickersgill (1782-1875),

Matthew Gregory Lewis, Londra, National Gallery

GIANFRANCO DE TURRIS*

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do che quella fatta è una domanda che ancoraaspetta una risposta definitiva e più o meno accet-tata dagli “addetti ai lavori”. Risposta che in basealle indagini effettuate finora non sembra esserepositiva. Una vera e propria tradizione fantastica inItalia non c’è, anche se si può parlare d’altro comesi vedrà. Evidentemente è esistita una tradizionefavolistica, e pure di altissimo livello, che ha attra-versato i secoli, mentre di una che sia fantastica toutcourt purtroppo non si può parlare.

Il “fantastico” così come noi lo conosciamooggi, con i suoi temi, le sue figure emblematiche,le sue atmosfere tipiche, tutti i suoi simbolismi, ènato a partire dalla fine del Settecento per poi con-

figurarsi e precisarsi nell’Ottocento romantico inEuropa (ma senza dimenticare gli Stati Uniti). Ilcampo di battaglia è dunque questo, una battagliache in Italia è stata persa dal fantastico, ove il “fan-tastico” è stato sconfitto dal “politico”, in tal mo-do condizionando - ahimè - tutta la nostra succes-siva letteratura. Talché, a bilancio di questa scon-fitta Benedetto Croce poteva scrivere in un saggiosu Arrigo Boito del 1904 (ora in La letteratura dellanuova Italia, Laterza, 1956): «L’anima italiana,tende, naturalmente, al definito e all’armonico.Bene invase e corse l’Italia, dopo il 1815, una nor-dica cavalcata di spettri, di vergini morenti, di an-geli-demoni, di disperati e cupi bestemmiatori, e

Da sinistra: Antonino Gandolfo (1841-1910), Giovanni Verga (1888), Catania, collezione Frontini; Antonino Gandolfo

(1841-1910), Luigi Capuana, collezione privata

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si udirono scricchiolii di scheletri, e sospiri e pian-ti e sghignazzate di folli e deliri di febbricitanti.Ma tutto ciò fu moda e non poesia, agitò la superfi-cie e non la profondità e lasciò sgombre le menti evigorosi gli animi, che si rivolgevano, allora, allalotta politica e nazionale. Questa moda non in-contrò nessuna tempra originale di poeta prontoad accoglierla e a farla propria, mutandola da at-teggiamento a sentimento, da reminiscenza lette-raria ad effettiva opera di fantasia».

Il riferimento, mi pare evidente,è soprattuttoal gotico inglese: da Walpole, a Lewis alla Radcliff,i quali, paradossalmente e soprattutto l’ultima,per i loro sfondi e protagonisti utilizzavano l’Italia

e gli italiani! L’autorità di Croce e della sua “teoriadella poesia”, ma in precedenza anche quella delleteorie estetiche di Francesco De Sanctis (che fupure ministro della pubblica istruzione nel 1878),pone così una specie di pietra tombale sulla pro-pensione degli scrittori romantici italiani verso ilfantastico asserendo che nessuno di essi si elevòoltre una «moda effimera», che nessuno di loro fuvero “poeta”. Per De Sanctis e Croce valeva l’e-quivalenza Realtà = Verità, e il luogo comune cheda noi, per mentalità e carattere, non potesseroprender piede le «brume del Nord». In realtà, co-me altri hanno dimostrato (ad esempio, l’Enciclo-pedia fantastica italiana curata da Lucio D’Arcan-

Da sinistra: Arrigo Boito in una foto del 1885; Frontespizio de Il castello di Otranto di Horace Walpole (Londra,

Lownds, 1765)

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gelo e Fausto Gianfranceschi, Mondadori, 1993,il cui emblematico titolo iniziale era Spettro solare)anche una civiltà “solare” («il definito e l’armoni-co» di Croce) come la nostra può ospitare spettri efantasmi… Se quindi all’inizio del Novecento ilprolifico e poliedrico filosofo abruzzese avessepuntato il suo interesse critico positivo su qualcheautore fantastico italiano dell’Ottocento (di meri-tevoli ce ne furono parecchi), avrebbe - come sisuol dire oggi - “sdoganato” il genere a livello dicritica letteraria (non di lettori) e propiziato ilcampo nel nuovo secolo che si apriva. Non fu così,purtroppo. Un’occasione perduta e un bello spun-to per un saggio di storia letteraria alternativa.

�Quindi, da un lato il nostro Romanticismo che

essenzialmente si «volse alla lotta politica e nazio-nale» e dall’altro lo scetticismo dei nostri maggioricritici letterari fecero sì che il “fantastico” restasseuna corrente minoritaria dell’Ottocento e, proprioperché tale, non potesse mai diventare una vera e

propria tradizione. Concordano in questo due im-portanti studiosi della seconda metà del Novecentoche hanno invece rivalutato proprio il nostro ne-gletto fantastico: Sergio Solmi nella introduzione -assolutamente da rivalutare - a Le meraviglie del pos-sibile (Einaudi, 1959) e venticinque anni dopo Enri-co Ghidetti (verso il quale non si sarà mai troppo ri-conoscenti) che pubblicò pioneristicamente Not-turno italiano (Editori Riuniti, 1985): due volumidedicati ai racconti fantastici di ‘800 e ‘900, con unaimportante introduzione sistematica poi ampliatacol titolo Premesse ottocentesche ad una storia del rac-conto fantastico in Italia e riunita con altri saggi ne Ilsogno della ragione (Editori Riuniti, 1987). Qui Ghi-detti scrive: «La vitalità di una veneranda tradizio-ne classica e umanistica e la vicenda storica del Ri-sorgimento nazionale hanno finito per costituireun argine pressoché insormontabile al diffondersidi quel genere tipicamente ottocentesco che è lanarrazione fantastica».

Troncata sul nascere una tradizione fantasti-ca rimase allora una tentazione fantastica, che fece

Da sinistra: Johann Heinrich Fussli (1741-1825), Le tre streghe (1782), Zurigo, Kunsthaus; Francesco de Sanctis in una

incisione d’epoca (1870 circa)

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cadere molti autori italiani, magari per una voltasola, «in flagrante peccato di letteratura fantasti-ca», come ben scrive Monica Farnetti nella intro-duzione alla sua antologia Racconti fantastici discrittori veristi (Mursia, 1990), un titolo che è tuttoun programma per intendere quel che qui si va di-cendo. I fondatori del Verismo italiano, da Verga aCapuana, proprio per il loro essere realisti e scien-tisti “caddero in tentazione” e scrissero storie incui erano presenti spettri e vampiri, lupi mannari eresurgenti, che poi confluirono anche in Pirandel-lo (tutti siciliani: sarà un caso?). Capuana, soprat-tutto, è una miniera inesplorata e uno dei progettiche non riuscirò mai a realizzare è riunire in ununico volume tutte le sue storie fantastiche e diprotofantascienza… Certo ci fu la parentesi dellaScapigliatura lombarda e piemontese (1860-1890circa), ma non fu sufficiente. Gli scapigliati era pursempre eccentrici e marginali nella loro provoca-toria estrosità, però è possibile dire insieme a En-rico Ghidetti, che «non ci fu scrittore italiano im-

mune dalla tentazione, sia pure episodica, dellosconfinamento nella narrazione fantastica».

�Anche il Novecento tarperà le ali (critica-

mente parlando) al “fantastico”, tanto nell’ambitodella letteratura “alta”, mainstream (dal futurismo,al simbolismo, al realismo magico), che soprattut-to nella letteratura “bassa”, pulp. Qui peraltro, es-sendo quasi inesistenti canoni critici da seguire eai quali conformarsi, fu assai più facile svincolarsie magari sotto l’influsso della narrativa popolareanglosassone, francese e tedesca, seguire la pro-pria tendenza e il proprio estro, come ormai è di-mostrato dalle indagini e dalle antologie pubbli-cate negli ultimi tempi con riguardo a particolariautori o testate popolari: dagli scrittori di avven-tura seguiti a Salgari agli autori de «Il Giornale il-lustrato dei viaggi» e altre riviste consimili.

*Scrittore e saggista, collaboratore de il Giornale

Da sinistra: Busto di Marco Tullio Cicerone (I sec. d.C.), Roma, Musei Capitolini; Benedetto Croce (1866-1952), in una

foto del 1921

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Fra i “gioielli” conservatipresso la Biblioteca di viaSenato spicca, per im-

portanza e ampiezza, una cospi-cua raccolta di prime edizionidel ’900 letterario italiano. Talefondo, che comprende circa 14mila titoli, costituisce un pano-rama pressoché completo dellediverse scritture italiane del se-colo scorso, dal futurismo sinoalle prove dei narratori “canni-bali”. In realtà questo vasto fon-do (denominato Fondo del ‘900)ne contiene al suo interno, comenucleo centrale, un altro: il Fondo Giancarlo Vi-gorelli.

Il grande intellettuale milanese (nato giustocento anni fa, e deceduto nel 2005 in Versilia, a

Marina di Pietrasanta) aveva neidecenni, parallelamente ai suoistudi, messo insieme una granderaccolta libraria. Parte di questivolumi, dopo la sua morte, sonostati acquisiti dalla Biblioteca divia Senato: viva testimonianzadel lavoro di un grande criticoletterario ma anche prezioso“reliquario”. Il fondo, infatti,documenta le amicizie e le pas-sioni di Vigorelli, attraverso lapresenza dell’intera produzionedi molti importanti autori. DaMalaparte a Pasolini, da Longa-

nesi a Moravia, le frequentazioni, i rapporti e gliscambi culturali vengono così messi in luce dai li-bri che il grande intellettuale aveva collezionatodurante la propria vita. Molti di questi tomi sono

BvS: il Fondo Vigorelli

VIGORELLI E LA LETTERATURA ITALIANALa Biblioteca di via Senato e il centenario del grande critico

GIANLUCA MONTINARO

• Matteo Bandello (1942)

• Eloquenza dei sentimenti (1943)

• Un omaggio a Prezzolini (1954)

• Manzoni e il silenzio dell’amore(1954)

• Gronchi: battaglie d’oggi e di ieri(1956)

• Domande e risposte per la nuovaCina (1958)

• Carte francesi (1959)

• Il gesuita proibito (1963, primapresentazione in Italia della vita edelle idee di Pierre Teilhard deChardin)

• La terrazza dei pensieri (1967)

• Apollinaire oggi (1972)

• Manzoni pro e contro (1976)

• Il mestiere guastato delle lettere(1985)

• Carte d’identità (1989)

BIBLIOGRAFIA MINIMA

Giancarlo Vigorelli (1913-2005)

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inoltre prime edizioni e, per la maggior parte, so-no impreziositi da dediche autografe e curiose.

�In occasione del centenario della nascita è in-

teressante ripercorrere, brevemente, alcune delletappe salienti della vita di Vigorelli, e quindi com-prendere le ragioni della sua straordinaria biblio-teca. Fieramente lombardo, Vigorelli rimase pertutta l’esistenza legato a Milano e alla sua temperie

culturale, alla tradizione dell’illuminismo e delcattolicesimo ambrosiano, aperta ed europea, nu-trendosi degli autori e dei filosofi (come Verri,Beccaria e Cattaneo) che hanno reso celebre la“capitale” del nord Italia. E forse, proprio parten-do da questo tratto, si può comprendere il fastidionutrito da Vigorelli nei confronti di certi atteggia-menti provinciali (e deteriori) propri della culturaitaliana (di ieri come dei nostri giorni).

Vigorelli iniziò la sua carriera come assisten-

Sopra: Pier Paolo Pasolini; a destra dall’alto: Yukio Mishima e Anna Achmatova in un ritratto di Nikolai Tyrsa, 1928

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te di Filologia romanza nel 1938alla Cattolica ove si era laureatocon una tesi su André Gide.Contemporaneamente prese ascrivere sulle più importanti ri-viste di quegli anni (fondandoanche il «Corriere Lombar-do»), occupandosi in particolaredi letteratura francese e italiana(già recensendo gli allora scono-sciuti Anna Maria Ortese e Car-lo Emilio Gadda) e avvicinando-si, da posizioni cattoliche, allacorrente dell’Ermetismo. «Di-venta poi Preside di Liceo a Lecco - come ricordaSimone Gambacorta - e ben presto fu mandato acasa per via del suo antifascismo. Ma dopo la guer-ra, che fra l’altro lo portò ad aderire alla Resistenza

e a riparare in Svizzera, avrebbeavuto agio nel dedicarsi a lezio-ni, esami e tesi. Non lo fece. Lasua vocazione di uomo di lette-re, per trovare compimento, do-veva esprimersi fuori da un’aula,a contatto con la gente e colmondo, in un combaciare di let-teratura e vita».

A conflitto concluso co-minciò a collaborare, nelle vestidi giornalista culturale, a svaria-

te testate nazionali (fra cui anche il quotidiano«La Stampa», i settimanali «Tempo» e «Oggi», dicui diviene anche direttore) collezionando neglianni, in seguito a questa attività, molti riconosci-

LE CITAZIONI • Nella figura di Celestino V, il papa

del “gran rifiuto”, Silone ha risca-tenato e rappresentato, l’eternodramma del cristiano, che è nelmondo ma non deve essere delmondo. (da Qualche giudizio criti-co, Ignazio Silone. L’avventura diun povero cristiano, Mondadori,2006).

• Il vero scrittore passa al di là dellaLetteratura, si affaccia semprenella Verità. (da Carte d’identita,Camunia, 1989).

• A differenza di tutti i letterati dellasua generazione, Emilio Cecchinon è mai stato un provinciale, e fuil contrario del sedentario. (da Laterrazza dei pensieri, Immordino,1967).

• Emilio Cecchi era amico di Joyce,di Thomas Mann, scoprì Faulkner,tradusse Chesterton, cavalcò le ti-gri del romanzo americano, eppu-re non amava il romanzo, e ne dif-fidava almeno sul terreno italiano,pur adorando Nievo. (da La terraz-za dei pensieri, Immordino, 1967).

• Se c’è scrittore che scatena tutti isensi senza però mai inquinare isentimenti, ed anzi ricomponen-do alla fine gli uni con gli altri inun’unica integrità, questi è Tani-zaki, e senz’altro La madre del ge-nerale Shigemoto è il suo libro cheva più lontano in questo itinerarioparallelo di tenebre e di luce, dionore e di grazia, di perdizione e disalvezza: benché queste siano, leultime soprattutto, parole più no-

stre che sue. (da La terrazza deipensieri, Immordino, 1967).

• Chi ha letto Musil, andrà senz’altroa leggere Heimito von Doderer, delquale Einaudi ha pubblicato il libroforse più tipico, se non il più im-portante, Le finestre illuminate;una di quelle operette che sem-brano dapprima minori, ma che alungo andare sono il più bel fioredi campo, o di serra in questo caso,di un autore: si pensi al Tonio Krö-ger di Thomas Mann, come all’e-sempio più alto; o, per restare aMusil, Tre donne è pur sempre laprima stella che annuncia la gran-de cometa dell’Uomo senza quali-tà. (da La terrazza dei pensieri,Immordino, 1967).

SPIGOLATURE LETTERARIE

Alessandro Manzoni

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menti fra i quali il Premio SaintVincent per il giornalismo e ilPremio Nazionale LetterarioPisa alla carriera.

�Negli anni si allontanò dal-

l’Ermetismo, promuovendo ildialogo tra cattolici e marxisti.La dimensione “europea” del-l’esperienza intellettuale di Vigorelli lo portò apensare che solo un’Europa della cultura avrebbesconfitto l’Europa delle ideologie. Da qui la fon-dazione, nel 1958, della Comunità Europea degliscrittori (di cui ricoprì, per dieci anni, la carica disegretario generale), e quindi la nascita della rivi-sta «L’Europa letteraria» (poi «Nuova RivistaEuropea»).

La sua azione di critico lo portò a conoscere epromuovere autori ancora ignoti non solo al pub-blico ma anche agli editori italiani (per lo più pro-

vincialmente legati all’egemo-nia culturale del partito comu-nista). Vigorelli fece pubblicareIl male oscuro di Berto da Rizzoli,“indirizzò” Sartre da Mondado-ri, fece tradurre i giapponesiMishima e Tanizachi e fu tra iprimi a valorizzare Pasolini.Portò in Italia anche la dissiden-te Anna Akmatova, da vent’anniprivata del passaporto e “dete-nuta” in patria.

�Nel frattempo diventò vi-

cepresidente dell’Istituto Luce, giungendo infinealla presidenza del Centro nazionale di studi man-zoniani e della Casa del Manzoni. Fu durante ilsuo mandato che venne è varata la monumentaleedizione nazionale delle opere manzoniane. Nellacasa del Manzoni Vigorelli raccolse oltre 30.000volumi, di cui 4.000 sull’ autore dei Promessi sposi.Proprio al gran Lombardo, Vigorelli dedicò deci-ne di studi e un’opera in tre volumi Manzoni pro econtro (1975-1976), divenendo uno dei principaliconoscitori dei suoi scritti.

Sopra: Jean-Paul Sartre; a destra

dall’alto: André Gide e Malaparte

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Nella seconda metà de-gli anni Trenta del No-vecento Lamberto

Donati (1890-1982), noto bi-bliologo e studioso di storia dellibro e dell’illustrazione, all’e-poca curatore della collezione distampe della Biblioteca Aposto-lica Vaticana,1 fondò e diresse,come recita il titolo ufficiale alfrontespizio, una raffinata rivi-sta che ebbe purtroppo vita assaibreve (1936-1940): «Maso Fini-guerra. Rivista della stampa in-cisa e del libro illustrato fondata e diretta da Lam-berto Donati». Tre fascicoli all’anno, ognuno diun centinaio di pagine circa, pubblicati dapprimaa Roma, poi, a partire dal terzo anno, dall’editoreHoepli di Milano, come Donati si affretta a recla-mizzare in apertura del I fascicolo del 1938: «En-trando nel III anno di vita ‘Maso Finiguerra’ iniziauna serie nuova sotto l’editoria della Casa Hoeplidi Milano. Con quest’avvenimento, che contri-buirà certamente a dare alla nostra Rivista una

Bv : Bibliofilia

LAMBERTO DONATI E IL «MASO FINIGUERRA»Una raffinata rivista d’antan fra bibliofilia e storia dell’arte

maggiore diffusione nel mondo,noi abbiam voluto migliorarnela veste tipografica. Similmente,poiché tante ricerche e tanti stu-di confinanti col campo dellastoria dell’incisione e del libroillustrato non avrebbero potutotrovarvi posto, abbiamo decisodi aggiungere ad ogni fascicoloun’Appendice di erudizione va-ria, della quale ci saranno grati inostri apprezzati collaboratorinonché i nostri fedeli abbonati».Oggi il «Maso Finiguerra» è

un’autentica rarità da collezionisti per la sua ve-ste grafica assai curata e la ricchezza di illustra-zioni in bianco e nero (in media una decina ad ar-ticolo, ma in alcuni casi anche più di trenta); pergli studiosi una riserva di ghiotti saggi sulla sto-ria dell’incisione e l’illustrazione libraria dalQuattrocento all’Ottocento a firma di impor-tanti studiosi italiani e stranieri (la serie presso-chè completa della rivista «Maso Finiguerra» èpresente e accessibile al pubblico nelle vaste col-lezioni della Biblioteca di via Senato). Donativolle chiamarla Maso Finiguerra, come l’orafo eincisore fiorentino che per primo sperimentòl’incisione su metallo secondo la testimonianzadi Vasari.

GIANCARLO PETRELLA

Nella pagina accanto: la famosa incisione cosiddetta

del “fallo” nell’Hypnerotomachia Poliphili, Venezia,

Aldo Manuzio il Vecchio, 1499.

Sopra: Paul Kristeller (1905-1999)

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�Non è perciò casuale che a inaugurare la rivi-

sta nel 1936 fosse un articolo di Wolfgang F. Vol-bach, studioso di arte paleocristiana e medievale,all’epoca direttore del Museo Cristiano Vaticano,nonché autore del volume L’arte bizantina nel Me-dioevo (1935), sul tema assai delicato dell’attribu-zione al «misterioso Maso Finiguerra» di «unaplacca niellata rappresentante la Deposizionedalla Croce» proveniente dalla Collezione Se-roux d’Agincourt al Vaticano. Donati, con sapien-te regia, vi accostava un articolo dello storico del-l’arte André Blum, già autore de Les origines de lagravure en France (1927), dedicato a La gravure surmétal dans l’Italie du Quattrocento.2Se la rivista èuna creatura di Donati, è naturale che questi vi re-citasse la parte del protagonista, pubblicandovialmeno un contributo a fascicolo (ma all’occor-renza addirittura tre!), a cominciare dall’Iter ico-nographicum, censimento e descrizione a puntatedelle stampe sciolte sconosciute avviato sul primofascicolo del 1936, fino alle Aggiunte e correzioni aPaul Kristeller Early Florentine woodcuts (1897),apparse nell’ultimo fascicolo del 1940.3

Tra i due estremi cronologici, una nutrita se-rie di interventi, prevalentemente inerenti l’illu-strazione libraria nei primi due secoli della stampatipografica, come il pionieristico saggio Diciamoqualche cosa del Polifilo! nel quale Donati dà contodelle varianti nel testo e nella disposizione delle fi-gure riscontrate nei sei esemplari dell’Hypneroto-machia Poliphili conservati alla Vaticana («il lavorod’indagine nel mistero forse del più stupefacentelibro che sia apparso non accenna a terminare, an-zi sembra appassionare sempre più gli studiosi»).4

Poche pagine prima, peraltro, Donati aveva giàfirmato una sorta di appendice al saggio di MaxSander Copertine illustrate del Rinascimento, che asua volta aggiungeva un certo numero di esempla-ri sconosciuti non inclusi nel più ampio volume diSander Copertine italiane illustrate del Rinascimento

Sopra dall’alto: Libro chiamato Troiano, Venezia,

Luca Dominici, 14 agosto 1483: colophon originale

con data 1483.

Historia di Santo Grisedio, L’Aquila, Eusanius de Stella,

23 dicembre 1493: silografie raffiguranti pene infernali.

Entrambi tratti dai fascicoli della rivista Maso Finiguerra

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da poco pubblicato (Milano, Hoepli, 1936). MaxSander, all’epoca impegnato nella compilazionedel monumentale Le livre illustré italien, depuis1467 jusqu’à 1530 che sarebbe apparso nel 1942ancora per Hoepli, fu un valido collaboratore del«Maso Finiguerra». In Tre incunabuli illustrati sco-nosciuti («Maso Finiguerra», a. II, 1937, I, pp. 5-14) portava alla luce alcuni rarissimi incunaboli il-lustrati della Trivulziana di Milano («recente-mente passata in proprietà del Comune di Mila-no»). Il primo è l’opuscoletto di otto carte sine no-tis che tramanda il cantare di Piramo e Tisbe consilografia raffigurante la scena del suicidio dei dueamanti al verso della prima carta. L’edizioncina, dicui non sono noti altri esemplari, all’epoca era at-tribuita alla tipografia romana del Besicken circa1498-1500 (oggi invece [Napoli, F. del Tuppo, c.1485]: ISTC ip00649700), ma Sander supponeche la silografia sia «indubbiamente anteriore allapresunta data del libro» e vada piuttosto ricondot-

ta all’officina napoletana di Sixtus Riessinger an-che alla luce del fatto che «le silografie che hannoservito nel 1478 al Riessinger per illustrare unaedizione del Philocolo del Boccaccio trovaronopoi la strada per Roma e furono usate dal Besickenper illustrare una sua edizione della Storia di Flo-rio e Biancofiore». Ciò vorrebbe però dire che de-ve essere esistita un’edizione del Riessinger di Pi-ramo e Tisbe oggi non conosciuta, «fatto tutt’al-tro che inverosimile – risponde Sander alla possi-bile obiezione – dato che le poche edizioni illu-strate del Riessinger sono tutte di estrema rarità».Diverso era invece il caso del secondo incunabolo,dietro il quale intravedeva un intrigante caso «edi-toriale-affaristico». Sander per primo portava allaribalta e risolveva correttamente la vicenda oggiben nota dell’unico esemplare del Libro chiamatoTroiano della Trivulziana che recita al colophon«stampato per mi lucha de’ domendgo (sic) da Ve-nezia ne gli ani del signor MCCCCLXXXIII»(ISTC it00459800), ma al frontespizio palesa in-vece la data 1528 e sei piccole vignette silografichedi soggetto bellico. Il registro assicura però delfatto che la prima carta doveva essere bianca inorigine.

�Si tratta di un caso evidente di quella che oggi

chiameremmo ‘rinfrescatura’, ossia, come Sanderaveva ricostruito, «un editore veneziano è venutoin possesso di un certo numero di esemplari inven-duti e mezzo secolo dopo la prima uscita del librol’ha munito di un nuovo titolo e di illustrazioni» edella nuova data 1528 così da rimmettere sul mer-cato un prodotto impresso invece nel 1483. Rima-neva irrisolto il dilemma del «libro dal quale que-

Maso Finiguerra, frontespizio della rivista, tratto dai

fascicoli della rivista Maso Finiguerra. A destra: Libro

chiamato Troiano, Venezia, Luca Dominici, 14 agosto

1483, esemplare unico presso la biblioteca Trivulziana:

frontespizio rifatto con data 1528. Entrambi tratti dai

fascicoli della rivista Maso Finiguerra

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ste sei piccole vignette provengono e stabilire cosìil suo editore».5 Sander tornava sul fascicolo suc-cessivo con un bellissimo articolo dedicato a unodei primi libri stampati a L’Aquila: La storia diSancto Grisedio, licenziato il 23 dicembre 1493 daEusanius de Stella (ISTC ig00489600)6. L’incuna-bolo non era ignoto, sebbene ne sopravviva un so-lo esemplare (figurava infatti nel IV volume delcatalogo della Colombina di Siviglia), ma nessunofino ad allora aveva attirato l’attenzione sull’appa-rato iconografico composto di 57 silografie, alcu-ne delle quali probabilmente incise ad hoc e raffi-guranti le pene infernali che formano «un vero eproprio accompagnamento figurato» alla storia diGrisedio, altre invece discese da edizioni prece-denti e riusate spesso a sproposito. Tra queste l’in-trigante silografia a c. f4r: il tipografo aquilanoimpiegò qui una vignetta con una nave nella qualetrovano posto un re, la Madonna e Cristo che nonpuò che rimandare a un’edizione quattrocentescaoggi sconosciuta dell’Historia del re Vespasiano dicui ho discusso nel mio contributo apparso sul fa-scicolo precedente di questa rivista. Sander avevadunque intravisto il vero supponendo che la silo-grafia, tràdita solo da edizioni cinquecenteschedell’Historia del re Vespasiano, dovesse derivare daun relitto della tradizione a stampa quattrocente-sca di cui si sono perse le tracce.

�La presenza costante di studiosi, bibliotecari

o esperti europei (anche dell’Europa dell’Est e diorigine ebraica fino a quando le leggi razziali lopermisero) e di articoli in tedesco, francese e in-glese contribuiva a conferire alla rivista un’aura diraffinata internazionalità: a esempio, l’archeologoe collezionista Robert Forrer; Arthur E. Pophame Campbell Dodgson, entrambi «keeper of theDepartment of Prints and Drawings» del BritishMuseum; il già citato André Blum; l’illustratore li-tuano Meãislovas Bulaka (L’art graphique lithua-nien); Elena Blum e Wiktorya J. Goryƒska (rispet-

tivamente autrici degli articoli Gli elementi ed il ca-rattere della zilografia moderna in Polonia e Polish po-pular woodcuts of the XVIIth to XIXth century); lastorica della miniatura Zofia Ameisenowa (1897-1967), curatrice della Biblioteca Jagellonica e do-cente presso l’Università Jagellonica di Cracovia,ebrea fuggita dalla Polonia; Angelo Lipinsky (au-tore del corposo contributo sulla produzione gra-fica del padre Sigmund Lipinsky, pittore e incisoreanch’egli di origini ebraiche);7 o ancora la celebrecodicologa e storica della miniatura Erla Rodakie-wicz, autrice di un ricchissimo saggio sui rapportifra la princpes veronese del Valturio e due codiciminiati del Valturio conservati a Dresda e a Mona-co di Baviera.8Donati riuscì negli anni a coinvol-gere parecchi importanti studiosi italiani, non tut-ti arruolati nella schiera degli storici dell’arte o dellibro. Nel 1937 Roberto Almagià (1884-1962), ilben noto geografo e storico della cartografia, of-

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friva ai lettori un contributo sul celebre isolario il-lustrato di Benedetto Bordon (Intorno alle carte efigurazioni annesse all’Isolario di Benedetto Bordone)e tre anni più tardi, quando le leggi razziali fascistegià lo avevano estromesso dall’Università, repli-cava con un saggio di argomento squisitamentecartografico, tema inconsueto per la rivista (Alcu-ne stampe geografiche italiane dei secoli XVI e XVIIoggi perdute).9 Sullo stesso fascicolo Costantino

Baroni (1905-1956), futuro direttore dei MuseiCivici di Milano, firmava un diligente contributosu Cesare Cesariano e l’edizione illustrata di Vi-truvio del 1521 (Osservazioni su Cesare Cesariano).10

Il primo fascicolo del 1937 ospitò un ricco articolosul calcografo Paolo Fumagalli, dalla formazionemilanese all’attività editoriale a Firenze sino aiviaggi in Oriente, a firma del figlio Giuseppe(1863-1939), l’assai più noto bibliografo e biblio-tecario autore del Lexicon typographicum Italiae(Firenze, Olschki, 1905), fondamentale reperto-rio, redatto in lingua francese, per la storia della ti-pografia italiana.11 Il Fumagalli junior replicò sulfascicolo successivo con un documentato saggioriguardante l’introduzione della litografia in Italiaad opera dei trentini Giuseppe de Werz e Giovan-ni Dall’Armi (Incunaboli della litografia in Italia.Milano o Roma?).12 In ragione di questa collabora-zione, nel 1940, sulle pagine del «Maso Finiguer-ra», all’indomani dell’improvvisa scomparsa delFumagalli, sarebbe apparsa, come esplicito«omaggio a Giuseppe Fumagalli», la Nuova giuntaal Lexicon Typographicum Italiae compilata da Ma-rino Parenti, preceduta dal seguente avvertimen-to: «quando Fumagalli pubblicò la Giunta al Lexi-con, mi ricordai di un blocchetto di schede che ave-vo accumulato in qualche anno, senza il preciso in-tento di aggiornare o correggere l’opera sua, maper inveterata consuetudine di non sciupare alcu-na notizia che interessi il libro e la stampa. E me nericordai, rammaricandomi di non aver fatto intempo a darne comunicazione al Fumagalli. Ave-vo quindi deciso di riassumere i dati contenuti nel-le schede in sede di recensione alla Giunta; e giàl’articolo era pronto, quando giunse la triste noti-zia della morte. Alla recensione credo ora più op-portuno sostituire la pubblicazione integrale dellemie schede, come omaggio alla memoria di Giu-

Historia di Santo Grisedio, L’Aquila, Eusanius de Stella,

dicembre 1493: silografie raffiguranti pene infernali.

Tratto dai fascicoli della rivista Maso Finiguerra

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seppe Fumagalli».13

Ospite d’onore di quello che sarebbe rimastol’ultimo fascicolo della rivista (a. V, 1940, III, pp.211-222) è un poco più che trentenne AugustoCampana (1906-1995) che dedica un ampio con-tributo a Felice Feliciano e la prima edizione del Val-turio. Tutto era nato dall’individuazione presso laBiblioteca Vaticana di un esemplare del celebreValturio veronese stampato da Giovanni da Vero-na nel 1472 (Rossiano 1335) nel quale buona partedegli interventi manoscritti finalizzati a comple-tare il testo a stampa «erano dovuti a una mano chemi era famigliare, quella di un copista famoso perla sua caratteristica personalità», ossia il veroneseFelice Feliciano che dovette eseguire il lavoro,ipotizza Campana, in due o più tempi, prima che illibro passasse nelle mani di un tedesco «poco cu-rante della bellezza dei libri, ma molto probabil-mente uno studioso o un tecnico», perché lesse in-

teramente il testo affollando i margini di notabiliarossi e neri e aggiungendovi una perizia tecnica suun ponte di barche.

Campana andava oltre e in un finale in cre-scendo ipotizza che il Valturio ultimato dal copistaFeliciano celi in realtà una più ampia collabora-zione del Feliciano con il mondo dell’editoria ve-ronese se non addirittura «una sua partecipazioneall’esecuzione dei legni» del Valturio del 1472.Campana non era peraltro all’esordio su «MasoFiniguerra», avendo già pubblicato un paio dicontributi, tra cui Intorno all’incisore Gian BattistaPalumba e al pittore Jacopo Rimpacta (Ripanda)(«Maso Finiguerra», a. I, 1936, 2-3, pp. 164-181)nel quale si era occupato di storia dell’incisione edi illustrazione libraria proponendo una brillantesoluzione all’enigmatico monogrammista I.B.,conosciuto come il ‘Maestro I.B. con l’uccello’ pervia dell’abitudine di «segnare le sue stampe con le

Sopra da sinistra: Piramo e Tisbe [Napoli, Francesco del Tuppo, c. 1485]: silografia che Sander riconduceva all’officina

napoletana di Sixtus Riessinger; pagina tratta dalle Aggiunte e correzioni di Lamberto Donati a Paul Kristeller, Early

Florentine woodcuts, apparse nell’ultimo fascicolo della rivista del 1940

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settembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano 27

NOTE1Si veda qui almeno, oltre al ricordo di

R. RIDOLFI, Lamberto Donati, «La Bibliofi-

lia», 84 (1982), pp. 97-98 (con l’Aggiuntaalla bibliografia di Lamberto Donati, pp.

98-101), la scheda a lui dedicata in Dizio-nario bio-bibliografico dei bibliotecariitaliani del XX secolo, a cura di S. Buttò e A.

Petrucciani all’indirizzo http://www.aib.it

/aib/editoria /dbbi20/donati.htm. 2 W. F. VOLBACH, Un niello con la deposi-

zione di Cristo nel Museo Sacro della Bi-blioteca Apostolica Vaticana, «Maso Fini-

guerra», a. I, 1936, I, pp. 5-8; A. BLUM, Lagravure sur métal dans l’Italie du Quat-trocento, ivi, pp. 9-13.

3 «Maso Finiguerra», a. V, 1940, III, pp.

239-260.

4 «Maso Finiguerra», a. III, 1938, I, pp.

70-96.5 Su questo incunabolo trivulziano si

veda ora E. BARBIERI, «Libri e Documenti»,

17, 1992, pp. 68-69.6 M. SANDER, Un incunabulo illustrato

di Aquila, «Maso Finiguerra», a. II, 1937, II,

pp. 81-89.7 Il contributo appare però dopo la

promulgazione delle leggi razziali: A. LI-

PINSKY, Sigmund Lipinsky und sein graphi-sches Werk, «Maso Finiguerra», a. V, 1940,

I-II, pp. 105-166.8 The editio princeps of Roberto Valtu-

rio’s «De re militari» in relation to the Dre-sden and Munich manuscripts, «Maso Fi-

niguerra», a. V, 1940, I-II, pp. 15-82 (addi-

rittura con 49 tavole in bianco e nero!).

9 «Maso Finiguerra», a. II, 1937, III, pp.

170-186; a. V, 1940, I-II, pp. 97-103.10 «Maso Finiguerra», a. V, 1940, I-II,

pp. 83-96.11Paolo Fumagalli, calcografo, tipo-

grafo, editore a Firenze nell’Ottocento,

«Maso Finiguerra», a. II, 1937, I, pp. 27-56.

Su Giuseppe Fumagalli si veda E. BOTTASSO,

Dizionario dei bibliotecari e bibliografiitaliani dal XVI al XX secolo, San Giovanni

Valdarno, Accademia Valdarnese del Pog-

gio, 2009, pp. 208-210.12 «Maso Finiguerra», a. II, 1937, II, pp.

99-127.13 «Maso Finiguerra», a. V, 1940, I-II,

pp. 183-206.

lettere I.B. seguite dalla figura di un uccello».Campana portava «un elemento nuovo», ancorauna volta cavato dall’inesauribile raccolta Vatica-na dove era di casa. Nella miscellanea poetica del-

l’umanista romano Evangelista Maddaleni tràditadal codice Vat. Lat. 3351 lo studioso individua uncomponimento in lode di un’opera d’arte figurati-va in cui era rappresentata Leda congiunta a Gioveil cui artefice è nascosto dietro il nome letterariodi Darete la cui identità il Maddaleni svela con unapostilla marginale che Campana gioca come lacarta vincente: «Ioanne Baptista Palumba». Il ve-ro nome e cognome dell’enigmatico monogram-mista I.B. di cui sono note proprio due rappresen-tazioni di Leda, sarebbe dunque Gian Battista Pa-lumba, al cui esile catalogo Campana aggiunge al-cune silografie che «furono usate quali illustrazio-ni di libri». Ancora una volta un artista di cui si in-travedeva la contiguità con gli uomini del libro,esattamente come avrebbe voluto Donati sulle pa-gine della sua rivista, palestra e luogo di incontrofra storici dell’arte e storici del libro.

Una delle miniature del codice di Dresda del Valturio

presentato da Erla Rodakiewicz nel suo celebre studio

pubblicato nel 1940

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LE MOSTRE – LO SCAFFALE – L’ARTISTA DEL MESE

inSEDICESIMOLA MOSTRA/1LA “GUARDABILITÀ DEL NULLA”Claudio Olivieri a Riva del Gardaa cura di luca pietro nicoletti

A una sua mostra bolognese del2000, Claudio Olivieri avevadato il titolo di Discorso

all’interno delle palpebre. Un’immaginesuggestiva, che indirizzava il visitatoresul problema nevralgico della suaricerca intorno alla dissoluzionedell’immagine e alla sua percezione,come si evince anche dai numerosiscritti, appunti e aforismi con cuil’artista stesso ha riflettuto a più ripresesullo statuto ontologico della suapittura e, soprattutto, su come questafosse tutt’uno con l’esperienza della

CLAUDIO OLIVIERI. IL COLORE DISVELATO

a cura di Daniela Ferrari

RIVA DEL GARDA,MUSEO ALTO GARDA

9 giugno - 3 novembre 2013

Claudio Olivieri, Interregno, 2003 olio su tela,

Museo di arte moderna e contemporanea

di Trento e Rovereto Collezione VAF-Stiftung

fruizione (molti in Claudio Olivieri, Delresto, Conegliano, Linea d’Ombra, 2001).Non si può fare a meno, anzi, diricorrere agli aforismi di Olivieri permetterne a fuoco i tratti essenziali. «La

pittura», scriveva a questo proposito sudi lui Giovanni Maria Accame nel 1991,«è sedimentazione, approdo di unpensiero non progettuale, ma riflessivo,che continuamente cerca e su questaricerca si costruisce».

In una conversazione con ClaudioCerritelli del 1984, infatti, Olivieriaffermava che «la contemplazione delmio lavoro comporta l’atto diprolungare la tua presenza davanti alsuo corpo, nel momento in cui osservi ilquadro il guardare diventa prolungato,si sospende in una specie di attenzione.I momenti si sovrappongono: ilmomento dell’aver guardato è ilmomento in cui guarderai e in cui staiguardando, una persistenza delguardare che diventa una conseguenzadell’esserci, dell’essere presente».

È un concetto portante, sviluppatoanche da Daniela Ferrarinell’introduzione al catalogo dellamostra di Riva del Garda Il coloredisvelato, che propone una rapsodicaantologia del suo percorso espressivo:«I quadri di Olivieri richiedono unosguardo meditativo, una propensioneall’atto del contemplare, nonostanterifuggano, sempre, da una inclinazionesensibilistica inane: solo con questadisposizione l’osservatore potrà entrarenell’opera e percepire autenticamente

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l’ansimare cromatico, il pulsareluminoso». Infatti «di fronte ai suoiquadri è necessario sostare e saperattendere che l’immagine appaia. Non èconcessa la visione fugace. Occorrelasciare che il tempo contribuisca alfarsi dell’immagine, che si compial’apparire dell’opera e il suodissolvimento. Il colore conquistagradatamente corporeità: affiora

lentamente e non appena lo sguardoindividua in esso un punto d’appoggioe si fissa sulla tela, ipnotizzato daun’idea di densità cromatica e visiva, ilcolore sembra sfuggire, in un sospiro,riaffondando nella sua stessaprofondità, come se il quadro fossevittima di un incantesimo, unincantesimo della visione che conduceprogressivamente lo spettatore a

un’intensa allucinazione cromatica».L’indagine pittorica di Olivieri,

infatti, ha sondato lo specifico caratteredella pittura in quanto colore esuperficie, cercando una impressionespaziale attraverso la sola cromia. Linea,punto e superficie, insomma, sono statiaboliti in favore del solo colore e delsuo variare di tono e intensità didissolvenza. In questo modo,l’osservatore si troverà di fronte a uneffetto di espansione dello spazio: latela diventa una superficie mobilenell’atto di contrarsi e dilatarsi, ditrascolorare per avvolgere in unadimensione altra, estranea allecoordinate prospettiche, verso unchiarore sempre più intenso. Il colore,annotava l’artista stesso, Olivieri, è lasola materia che possa operare iltraslato tra spazio e tempo, esprimendol’indicibilità del non visto: si tratta,insomma, di «dipingere la guardabilitàdel nulla». Esso infatti disarticola leconnessioni dal momento in cui non èpiù rivestimento di una forma, dalmomento in cui non deve raccontarenulla e non è nemmeno segno maevocazione. Il colore diventa quindi, perlui, “suono” della spazialità: «Il colore,nel suo fluire, disarticola le connessioniche lo vorrebbero rivestimento di unsupporto formale, evocazione d’altro,pertinenza a una gerarchia delriconoscibile; esso è il suono dellaspazialità, la parola sospesa ma capacedi rivelarci che ciò che vediamo èperché è quello che sarà». In fondo,prosegue in un altro aforisma, «ilfondamento del colore è nel suo potere

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Claudio Olivieri, Declinato, 2004 olio su

tela, Collezione privata, Milano

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di saturazione irradiante […] Il colore cidà, con la forza saturante, un mezzo dicostruzione che non si misura insottomultipli, in quantità convenzionali.Questa misura, infatti, sa essere solocolma; la sua pregnanza è il segno dellaunità-continuità che, grazie al colorevince l’insidia della separazione. Iconfini del nostro corpo coincidonocosì con i confini del mondo, e nondella letteratura e della storia. Il colorenon ha luogo perché è lo spazio stesso;il colore non subisce la successionetemporale perché nel suo “ulteriore”,smargina su passato e futuro, detiene ilpresente, il cui infinitamente piccolodiventa incolmabile. Il colore è il vederestesso reso visibile».

La partenza si questo percorso erastata caratterizzata da dipinti moltoscuri, in cui l’occhio penetrava in unacupa profondità appena rischiarata daun bagliore improvviso di rosso o di unaltro colore a contrasto.Progressivamente, poi, ha cominciatoad organizzare la tela secondo criteri disimmetria, creando un vuoto al centrodel quadro: l’azione, il movimento deltono scuro che si fa da parte perlasciare spazio alla luce, con il ritmopulsante del respiro, sposta l’attenzioneverso i margini del campo: è lì, delresto, che avviene l’azione che mette inmoto il meccanismo percettivo. I tonidel blu, «colore antinaturalistico, cheperciò coabita col pensiero», comescrisse nel 1990, e le sue declinazionipiù chiare, diventano preponderanti,procedendo verso una cromia slegatada eventuali referenti oggettivi.Indubbiamente si tratta di un’indaginesulla luce concettualmente diversa daquella di un suo coetaneo, attivo

anch’egli in Lombardia, come ValentinoVago. Se l’evocazione luminosa di Vagoè spirituale in accezione mistica, quelladi Claudio Olivieri è sublime in sensoromantico, perché la sua dissoluzione èun’espansione che punta allamonumentalità. Non verrebbe mai inmente, nel suo caso, di scambiare iltrascolorare tonale con un cielo, siaesso reale o interiore: con la luceOlivieri segna un varco, un punto dipassaggio, crea una dimensione

atmosferica che invita il fruitore adaddentrarsi virtualmente nel quadro.

Entrambi, però, avevano avuto unacomune partenza di una poetica delsegno. Quando aveva esposto allaGalleria del Milione, alla fine del 1969(15 novembre-4 dicembre), presentatoda Vittorio Fagone, Olivieri era unpittore pienamente informale. In quellamostra, e ancora prima alla galleriaMosaico di Chiasso nel 1968,presentato da Marisa Dalai Emiliani,

Claudio Olivieri, Matrici, 1976 olio su tela, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento

e Rovereto Collezione VAF-Stiftung

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aveva persino ideato delle installazionidi strisce colorate ondeggianti su filiinvisibili, le Nuove comete, come sequel segno fosse diventato una tracciagalleggiante interna allo spazio.

A partire dagli anni Settanta, poi,aveva imboccato la strada che loavrebbe condotto ai lavori odierni. Ilsegno, però, non è stato annullato, matrasformato, come si era trasformatoper molti pittori a lui vicini: per Vago ilsegno era diventato una notazioneminimale come un’apparizione nellospazio spirituale; Enrico Della Torre,invece, raffreddati gli impeti gestuali,era approdato a un segno onirico, nonesente da automatismi.

Olivieri, invece, ha smaterializzatoquella notazione segnica tramite lamessa a punto di un diversoprocedimento operativo. A Marina DeStasio, che lo aveva intervistato per“l’Unità” (13 marzo 1988) in occasionedi una nuova mostra al Milione,confidava che la sua scelta della pitturaa spruzzo come strumento di lavoro eragiustificata dalla possibilità di avereuna stesura del colore senza contattocon la tela: «è un agire sul colore comese fosse sospeso tra la natura delpigmento e la natura della luce». Èquesto aspetto, a parer mio, chegarantisce al suo lavoro quel lirismo dimarca prettamente lombarda che rendeil suo lavoro, in ultima istanza, menocerebrale della maggior parte dellaPittura Analitica, nelle cui file èstabilmente arruolato da tempo: al di làdella riflessione –scritta e dipinta-intorno allo statuto ontologico dellapittura, infatti, permane un cogentecoinvolgimento emotivo che affonda lesue radici in una situazione milanese

più ampia e problematica, qui appenaaccennata.

Tutto questo, però, aveva unrisvolto non privo di interesse nellafenomenologia del dipinto stesso. Nona caso, Accame, nel testo già ricordato,per il decennio 1971-1981 parlava di“azione riflessiva” del suo lavoro: «lapittura di Olivieri si presenta di fronte anoi nel suo accadere. Accade facendosiluogo e sostanza. Nasce come evento edall’evento non si discosta». È questoapproccio, infatti, che prendendo unaposizione in merito a una certa idea dipittura, qualificava la sua ricerca nellevicinanze delle istanze analitiche inquanto analisi degli strumenti operatividel fare pittura. Questo, tuttavia, nonbasta, poiché quest’operazione nonrimane esclusivamente concettuale, masi amplifica in una ricerca di vibrazioniluminose, «dall’inseguimento di uncolore nelle sue vibrazioni, nelle sueombre, in quell’intimità che non è maiin superficie, ma nel fondo»,coinvolgendo lo spettatore nell’azionedi disvelamento: non si tratta di uneffetto momentaneo, ma di unprocesso percettivo che si chiarificaprogressivamente durante l’esperienzadella visione, provocando in quellostesso momento una spinta emotivaintrospettiva.

«È con la pittura», dichiara Olivieri,«che le apparenze si mutano inapparizioni: ciò che è mostrato non è laverosimiglianza ma la nascita. È cosìche ci viene restituito il nostropresente, l’assolutamente unico maimprevedibile presente, somma di tutti itempi, raduno degli attimi che ci fannoviventi, atto sempre inauguralidell’esistere».

Si è portati a pensare al 1963come a un anno a ridosso di ungrande evento periodizzante per

la storia dell’arte contemporanea,come un anno di attesa primadell’irruzione in Europa della Pop Artamericana alla XXXII Biennale diVenezia del 1964.

Eppure il 1963 è stato un anno dieventi epocali (l’uccisione di Kennedy aDallas, la dipartita di Giovanni XXIIIpochi mesi dopo l’inizio del Concilio) edi questioni aperte che si sarebberosviluppate in seguito. Era anche unanno in cui si chiudevano alcune

“partite” con l’arte, come quelle diPiero Manzoni e Francesco Lo Savio,che avevano aperto nuove vie versoscenari del tutto imprevedibili. Ne offreuna panoramica rapsodica edevocativa 1963 e dintorni, la secondamostra dossier curata da FrancescoTedeschi per le Gallerie d’Italia diMilano. Attingendo alla cospicuacollezione di Banca Intesa San Paolo, lamostra propone una selezione di opereche hanno visto la luce in quell’anno oa ridosso di questo, mostrando per

Mario Schifano, Con anima, 1963

smalto su carta, Collezione Intesa Sanpaolo

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Tedeschi mette in evidenza laconvivenza di generazioni diverse ediversi stadi della ricerca,sottolineando che le ricercheconsiderate più avanzate non rendonomeno interessanti certi percorsiindividuali anche se collocati al di fuoridi certi temi portanti. È il caso dellericerche sul colore di Dorazio eSanfilippo, ma anche dellerielaborazioni del segno da parte diGio Pomodoro e Sergio Dangelo: «il

recupero di valenze rappresentativeinterne all’opera rispetto a possibiliinferenze informali, riguarda anche leopere di Gio’ Pomodoro o di SergioDangelo, diversamente svolte attornoa soggetti che combinano aspettiimprovvisati, automatici, fondati sullalibera disposizione delle linee, con uncontrollo del motivo d’origine e delsuo sviluppo». La ricerca di unaspazialità interna della superficie, cioèun modo di strutturare il quadrocircoscrivendo l’azione del segno, è untratto significativo delle ricerche delGruppo Uno. Non è senza interesse,però, osservare il grande Ovale nero diNato Frascà esposto in mostrapensando alla grande Notte a Veneziadi Lucio Fontana che si trova pochesale più in là nell’esposizionepermanente: non si può non rilevarel’affinità fra le due tele. L’immaginariocosmico dell’italo-argentino, però, èdiventata qui una dimensioneinteriore, come un rivolgimento di unnucleo.

Allo stesso tempo, però, «altreetichette valgono a definire le forme diricorso all’immagine presenti in unpanorama aperto a diverse vie diricerca. Una di queste è la “NuovaFigurazione”, definizione già in uso daqualche anno e che in questomomento viene adottata in untentativo di raccogliere le più diverseesperienze europee, scaturite daldesiderio di allontanarsi dall’Informalee dagli “accademismi” dell’astrazione.Meno efficace di Pop Art e menocaratterizzata di Nouveau Réalisme,

1963 E DINTORNI

a cura di Francesco Tedeschi

MILANO, GALLERIE D’ITALIACatalogo Skira

4 giugno - 27 ottobre 2013

giustapposizione la ricchezza e varietàdi vie che si erano aperte e di problemimessi in campo, che spetta poi alcatalogo dipanare in un sintetico maefficace quadro d’insieme.

Fra messa in discussione dellepoetiche del segno e nuove vie,domina la posizione critica di GiulioCarlo Argan, voce quasi egemone nellacultura storico-artistica italiana di quelmomento, e impegnato con autoritànel dibattito sulla fine e ilsuperamento dell’Informale. Su questoproblema, infatti, si era divisa sia lacritica sia il lavoro degli artisti: taluniintesero questo superamento delleistanze gestuali in senso dialettico,altri (fra cui Argan) come un definitivoaccantonamento di quelle istanze infavore di una nuova poetica

Antonio Sanfilippo, Superficie 45/C/63, 1963,

acrilico su tela, Collezione Intesa Sanpaolo,

LA MOSTRA/2UN ANNO DEL NOVECENTO:1963 E OLTRESegni e immagini prima della Pop Art

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L a mitologia antica rinascesempre: è una chiave, spesso,per recuperare una dimensione

archetipica della forma. La scultura moderna, in particolare,aiuta a ricordare quel ruvido arcaismodei tempi mitologici e la vicinanza diquesti a uno stato primitivo eincontaminato dell’umanità. Per questo il mito, depurato dasovrastrutture neoclassiche, ècongeniale alla ricerca artistica diNada Pivetta e alla sua «unanarrazione schiva, perfino risentita»,come l’ha efficacemente definitaAlberto Pellegatta nel bel testointroduttivo al catalogo della mostrapresso il milanese Studio d’arte delLauro. «Il materiale», scrive sempre

Pellegatta, «contiene il tono dellascena, il colore, mentre il contrastotra due elementi o superfici si risolvecome in un incontro tra personaggi.Innesca riflessioni atletiche».

Il sentimento della materia è unacostante del suo lavoro, sia chel’artista si conceda a inflessionibarocche (ma nell’accezione del“barocco” di Lucio Fontana) e alleseduzioni degli smalti sia nella piùruvida superficie della terracotta

tale connotazione vale in questomomento a proporre un’esplorazionedelle diverse possibilità di recuperodell’immagine all’interno di forme dipittura ancora fortemente gestuale esoggettiva, o di composizioni fondatesul ricorso a reperti provenientidall’ambiente esterno». Va in questosenso anche il lavoro di GastoneNovelli, sospeso fra notazione eracconto figurato. In altri casi, invece,il recupero di un’immagine e

dell’oggetto di consumo, primaancora che gli fosse assegnatal’etichetta di Pop Art Italiana, segnavail lavoro di Mario Schifano, RenatoMambor e degli artisti di Piazza delPopolo a Roma.

Accanto alle solitudini degli artisti,però, la mostra non dimentica igruppi, dal già ricordato Gruppo Unoal Gruppo 70 e al Gruppo Cenobio:tutte realtà di durata più o menobreve e incentrate su un altrosviluppo del segno, che da tracciadiventa scrittura. Comincia qui,insomma, l’avventura dialettica fraimmagine e parola.

LA MOSTRA/3NADA PIVETTA ALLO STUDIOD'ARTE DEL LAURONostalgie della forma e memorie del mito

NADA PIVETTA. NOSTALGIA DELLA FORMA

Milano, Studio d’arte del Lauro

19 settembre - 31 ottobre

Gastone Novelli, Mood, 1963, tecnica mista

su tela, Collezione Intesa Sanpaolo

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grezza o del legno, che trattengono laluce. Sono questi, in estrema sintesi, idue filoni paralleli e comunicanti dellaricerca di Nada Pivetta, fra la“scultura vuota” e la “materia aperta”,come le ha definite l’artista stessa. Lascultura, infatti, non è più un volumeimpenetrabile, ma una struttura chepuò essere attraversata dallo sguardo,accostante nei confronti di unaesperienza tattile ma da perlustrare,come un labirinto, da dentro e dafuori, per scoprire l’intima architetturageometrica all’interno della forma. Inquesto senso, seguendo la traccia diPellegatta, «il duro monolite si svelaattraverso l’impronta nello spazio, chel’artista può riplasmare in nuove

allusioni»: è questo, infatti, il verocarattere “primitivo” di questascultura, nel suo procedere verso unaforma compatta ed essenziale, diquella solidità di tradizionenovecentesca, da Arturo Martini aMario Sironi, per risalire, comesuggerisce Pellegatta, a Sangregorio eCascella. A monte, naturalmente, c’èla grande lezione di Moore e dellascultura di pieni e di vuoti, pensatacome una cavità pronta ad accoglierelo sguardo e, metaforicamente, ilfruitore. Al tempo stesso, però, risuona inquesta struttura cava anche quell’ideaarchitettonica della scultura comedelimitatore di uno spazio costruito,

potenzialmente monumentale, chenon dimentica però la dimensioneumana: le sue, talvolta, sono corazze,o figure che mantengono ereinventano il corpo come un edificiofatto di mura spesse e impenetrabili:sono pozzi e finestre che ci offronouno sguardo sull’interno, definendocon esattezza il pieno e il vuoto delvolume, come una muratura di legnoo terracotta.

Ne sono uno sviluppo i bassorilieviin calco, in cui quel repertorio divolumi rientra nella materia comeun’impronta, impressa nella materia aevocare una presenza solida inassenza del suo stesso volume. In questo modo la scultura di Nada

A sinistra in basso: Icaro, bronzo, 2010,

cm 22x13x5.

Sopra: Natura bianca, 2009, ceramica,

composizione.

A destra: Sottorilievo-T2, 2011, ceramica,

cm 34x29x0,5; Odoacre, 2003, legno

policromo, cm 103-x-47-x25

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partenza per una metafora plastica.L’oracolo di Dodona, quello di Delfi egli altri, infatti, non sono figure, maforme astratte che ne reinterpretanola vicenda traendone degli spunti dasviluppare poi secondo il linguaggio diquesto artista. Una serie di note dicommento, che accompagnano ilcatalogo, aiutano a cogliere questinessi. L’oracolo di Oropo, ad esempio,scomparso in una voragine aperta dauna folgore di Zeus, riemerseimmortale da una fonte di acquapurissima; nella traduzione astratta,

Pivetta, che non ha mai dimenticatogli spazi urbani come luogo di vitadella scultura, entra nel quotidiano. Il suo rilievo, anzi, non è soltanto unquadro da parete, ma può abitare lospazio piano della superficie terrestre,come le centosessantacinque piastredi terracotta che formano unquadrato di un metro per un metro e mezzo circa in Nulli certa domus, lagrande installazione pavimentaleinstallata nel parco dell’Idroscalo diMilano.

Ma questo guscio depurato dadettagli esornativi, semplificato finoalla sua forma essenziale eimmutabile, ha come lasciato da parteuna “pelle” leggera e grinzosa, in cui al contrario la materia si esponenella sua natura esuberante: è la “materia aperta”, manipolata in modo da rappresentare se stessa e la propria origine naturale. Le sue sculture, infatti, «della naturahanno creste, curve, strati e intrecci.L’artista può riformulare l’immagineaffrancandola dal peso e dagli spigoli,spingendo all’estremo la propriaricerca sul vuoto, mostrando il lato segreto e impenetrabile».

Disossata del suo strato temporaleapparentemente più effimero e transitorio, Nada Pivetta toglie la “pelle” alla scultura e la leviga come un nocciolo duro ed essenziale,pronto ad attraversare imperturbabileil tempo. Ma non getta via quella“pelle” che ha metaforicamenteeliminato dalla forma: ne fa scultura a sé, costruendo anche con questa, un nuovo, paralleloracconto.

LA MOSTRA/4ORACOLI E SIBILLE DI ENZO MARAZZI A BERGAMOAntico e moderno al museo archeologico

ENZO MARAZZI. ORACOLI E SIBILLE

BERGAMO, CIVICO MUSEO ARCHEOLOGICO

28 giugno - 22 settembre

F ra le molteplici vie diavvicinamento al mito, non c’èsolo l’illustrazione narrativa dei

racconti mitologici, ma c’è anche, senon soprattutto, una via metaforica,cioè una reinvenzione ereinterpretazione dei temidell’immaginario antico in formemoderne. È la via scelta da EnzoMarazzi per i suoi Oracoli e le sueSibille in mostra presso il CivicoMuseo Archeologico di Bergamo: inun dialogo diretto con i repertiantichi, le sue sculture cercano unarelazione dialettica con quelletestimonianze e con lo spaziocircostante. Non è possibile,naturalmente, un confrontoimmediato, poiché la via scelta dalloscultore non procede verso lacitazione archeologica: al contrario, ilmito è assunto come punto di

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diventa una forma sinuosa, scrivel’artista, «come un’aurora boreale». Èevidente dunque un traslatometaforico: il mito diventa unconcetto astratto, pur mantenendoun’impressione di arcaismocongeniale a questo genere disoggetto, pur senza ricorrere aformule primitiviste. È la semplicitàdella forma, piuttosto, a ricondurreverso una dimensione primordiale.

La scultura non è fatta solo divolumi pieni, bensì può trovareinnumerevoli vie per articolarsi nellospazio. Talvolta, come nel caso diMarazzi, diventa un nastro avvolgenteche prende possesso della terzadimensione come un abbraccio, comeuna forma accogliente pronta adospitare lo spettatore. Fin da subito,già dalla sua prima fusione nel 1969,il suo era stato un profondo amoreper la scultura, non segreto, maprivato, tenuto un po’ sopito ma maiaccantonato fino ad anni recenti.

Questa aspirazione a diventarepunto di aggregazione e momentod’incontro trova dunque ragione nellasua vocazione agli spazi

monumentali: la sua dimensioneideale, infatti, è quella dell’arredourbano, sebbene non si trovi a disagionemmeno dentro interni privati.

Erano nati con questo scopo, inpassato, i grandi progetti per fontane,come la Megattera , una serie di ali asemi arco a formare la spina dorsaledel cetaceo, da integrarsi con unplastico getto d’acqua.

In tutte le sue declinazioni, però,quella di Marazzi rimane un’ideaarchitettonica di scultura, costruitamodellando il gesso su un’armaturametallica, prima della traduzione inbronzo, levigando incessantemente laforma, come un’amorosa carezza chetrae dalla materia grezza una formapiacevole al tatto, un andamentofluido e ritornante, come se un

movimento continuo la avvolgesse susé stessa. La scultura è, in ultimaanalisi, un motivo strutturale, fattoper dolci andamenti ma senza rimandidi memoria organica che spesso siincontrano in questo tipo di ricerche:la scultura di Marazzi è pienamenteastratta, in dialogo con l’architetturae lo spazio costruito, più che con lanatura. Per questa ragione, il suolavoro getta piuttosto un ponte versoil design, verso quegli oggetti che, coni loro valori formali, portanol’esperienza estetica nella vitaquotidiana. Come il design, la sculturavuole diventare un oggetto con cuisia piacevole convivere, per la sualevità di contenuti e una certa ironia.Marazzi, infatti, ha scantonato quellagreve austerità della forma plasticaattraverso i Colori del bronzo. Conquesta dizione, infatti, aveva intitolatola sua prima mostra personale, nel2011, presso il Castello di SommaLombardo. Fra le intuizioni del nostroscultore, infatti, vi è anche un efficaceespediente tecnico. Egli si è resoconto, infatti, che la fusione inbronzo, oltre che lucidato o patinato,può essere anche verniciato a fornocome una carrozzeria, portando nellascultura una gamma di colorisquillanti, di ascendenza Pop, checambia profondamente la percezionedella materia.

La brillantezza dello smalto, poi,accentua quella vocazione tattile dellascultura, ne ammorbidisce le superficicon un effetto piacevole al tatto:perché la scultura, ricorda Marazzi,non è solo oggetto da vedere, ma èoggetto per cui, per una volta, è“vietato non toccare”.

A sinistra in basso: Pizia. Sopra: Oracolo di

Oropo, dettaglio. A destra: Dodona, 1598

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col diritto alla cura, la libertà col dovereterapeutico. Su questi temi cosìcontroversi si confrontano in questolibro due voci diverse: quella di un laico- Umberto Veronesi - e quella di uncredente - Giovanni Reale -, quella diun medico, impegnato nella cura delcorpo, e quella di un filosofo,preoccupato per definizione dellospirito. A unirli, nel confronto delleragioni dell’uno e dell’altro, laconvinzione che la moderna medicinadebba recuperare il fattore umano,come avveniva nella medicina antica,debba tenere in debito conto lesofferenze psicologiche prodotte daimali fisici e, soprattutto, debbarispettare la libertà della scelta.Nessuno può decidere sulla vita di unuomo, e meno che mai può decidere loStato, per legge. L’autodecisione, perquanto riguarda la vita, è irrinunciabile.Togliere all’uomo l’autodecisionesignifica negargli la libertà, ossia il benepiù grande che Dio gli ha dato. E perquesto laici e credenti possonoconcordare.

Giuseppe Marcenaro, “Una sconosciuta moralità. QuandoVerlaine sparò a Rimbaud,” Milano,Bompiani, 2013, pp. 150, 12 euro

«Hôtel à la Ville de Courtrai, neipressi della Grand Place a Bruxelles.Ore 14.30 del 10 luglio 1873. Due colpidi pistola in una camera al primo

LO SCAFFALEPubblicazioni recenti, fra libri, tomi e volumi di piccoli e grandi editori

piano». Nel 1871, quando il sedicenneArthur Rimbaud, da Charleville, invia ipropri versi a Paul Verlaine, che di annine ha ventisette ed è già uno stimatopoeta, non può immaginare che quellalettera cambierà per sempre il lorodestino. Verlaine, entusiasta, invitasubito Arthur a Parigi, dove i due siamano, si ubriacano, litigano, scrivonoversi. Suscitando ovviamente le furiedella moglie di Verlaine che da pochimesi gli ha dato anche un figlio. Paul eArthur fuggono a Londra dovesopravvivono tra baruffe e sbronze,passione e poesia. Fin quando,diventato insostenibile ogni rapporto,abbandonato Rimbaud, Verlaine, nel1873, approda a Bruxelles. Tra litigi erecriminazioni si respingono e siattraggono. Arthur raggiunge Paulnella capitale dei belgi dove, a seguitodell’ennesima lite, un Verlainecompletamente ubriaco spara duecolpi di pistola contro l’amico,ferendolo al polso. Verlaine ècondannato a due anni di carcere.Rimbaud scompare dalla sua vita. Ciònon impedirà a Verlaine di contribuire,in maniera decisiva, alla fama diRimbaud, pubblicando nel 1884 le suepoesie nella celebre antologia I poetimaledetti. Rimbaud e Verlaine nonpotevano certo immaginare che la lorostoria, mentre la vivevano, li avrebbeuniti per sempre. O forse, sperandolo,lo sapevano.

Gino Tellini, “Svevo”, Roma, SalernoEditrice, 2013, pp. 288, 15.50 euro

Ad oggi resta ancora indistintol’intreccio tra la vita opaca di EttoreSchmitz e l’arte straordinaria di ItaloSvevo, tra la vita dell’impiegato e la vitadell’artista. Rimane quasi un segretoquel sottilissimo impasto di biografia earte, che è l’esito artistico d’un acutoconflitto, tra l’esperienza inerte delborghese, immerso nella ritualità delbenessere mercantile, e l’occhiosovversivo d’uno scrittoreimpietosamente (e umoristicamente)dissacrante. Sui modi, sulle forme, sullefinalità di questo nesso arte e vitas’addentra il ritratto monograficodisegnato da Gino Tellini (docente diLetteratura Italiana presso l’universitàdi Firenze), che ricostruisce la biografiasveviana, sullo sfondo dell’ambienteculturale triestino, italiano,mitteleuropeo, e ripercorre, conanalitica curiosità, tutte le tappesignificative dell’intricata carriera delloscrittore.

Giovanni Reale e Umberto Veronesi,“Responsabilità della vita. Un confronto fra un credente e un non credente”, Milano,Bompiani, 2013, pp. 272, 13 euro

Sono ancora nella mente di tuttialcuni casi che hanno turbato l’Italia: ilcaso Englaro, il caso Welby: casi in cui ildiritto alla vita è sembrato scontrarsi

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dalla trama della nostra texture, ogninodo della tela, ogni snodo sullanostra via («non dice, non occulta, madà segno»). Alessandro Guzzi, è unintero telaio a mano fabbricantequesta texture, simile nella sua sceltadi spessore (organicamente urtante),alla scommessa girardiana che fa delteologico evangelico l’invenzionedell’uguaglianza inaudita, che infattichiama identità=identità dell’umanocon l’umano (tramite l’evenienza da

L’ARTISTA DEL MESEVisione ultima e verità primarie. La ricercadell’identità nell’opera di Alessandro Guzzi

fuoriuscita lineare dell’identità deldivino con l’umano) ed ancora noncapìta (non capìta da sempre e persempre…). Non capìta da sempre e persempre dato che conflitto, violenza edominio sono tra le più acute qualitàdell’uomo, con la sua vista binoculare,stereoscopica, predatoria. Chepotenzia insuperabilmenteun’intrinseca complessione di perfettafragilità. La visione, appunto. Non neesiste solo la diffusa versionepacificatoria, ma anche unaproblematica. Guzzi ne è addiritturaun compendio per quadri, persuadenti trabocchetti falsanti i falsi, icretini, gli interessati, i furbi, gliammiccanti, che poi siamo spessotutti noi, quando non sappiamoprocedere filosofando con ilmartello… strumento più di sottilitàforte che di grosseria scontata… masorridendo e facendo spallucce…Certo anch’io mi sono svelato dicendo«non capìta da sempre e per sempre»,la differenza… Ci sarà un motivo?Teologico? Ontologico, ancor prima?Non ne ho contezza, ma dubbio certoe quindi trovo i quadri di Guzziqualcosa di assurdo, quia, e recuperoallora un barlume appena, forse, dellasua volontà di dire, tramite lafigurazione, il suo orgoglio e la suarabbia. Ma «una generazione valida epiena di speranze illimitate verrà asapere tempestivamente che una

P roprio negli anni decisivi, sipuò credere non in una veritàunica nella sua ultimità (come

una riversata computistica dacancelleria) ma in una verità unicaverso una suprema finzione, ovvero inquella consapevolezza diffusa ma nonlacerata che sa di noi intuitivi eassieme ragionanti, e quindipresuntuosamente incapaci dicontrollare (possedere, guidare…hybris) ogni passo, ma atti a capire,

di sandro giovannini

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parte di tali speranze sono vane», diceSpengler… e dice Guzzi di aver intuitoda subito, appunto, che a speranzaillimitata può ben corrisponderevanità e dolore… sicuramente perònon umiliazione e vergogna, se noi siopera impeccabilmente… Diciamo che pare io mi esprima conmolta decisione, ma non è così,brancolo, in realtà, tra il lampeggiaredi un’intuizione e le oscurità protrattee confuse del dire, che però, qui,conta più sinceramente, perché i suoiquadri m’inquietano e allo stessotempo pacificano, sono un coacervodi loci communes, di sberleffiall’intelligenza cosiddetta, di richiamisottotraccia alle ipostasiapparentemente più lontane daldiscorso razionale, quali i raccontimitici e le apocalissi reali o potenziali.Il nostro processo coscienziale puòanche consistere, al meglio, nellacompresenza-comprensione di vacuitàe destino, sia a livello di comunità chedi singoli, in buona sostanza storico,sia pur interpretabile in una letturache della determinante causa-effettoconsideri prevalentemente lacomponente tecnico-karmica e in un orizzonte di sostanzialecurvatura, di svolta, che salvaguardi la possibilità del cambiamento, anche conflittualmente inteso, mentre riesca a tenere anche inun’evidenza significante, (e“riequilibrante”, e «inattesa», comesostiene Girard) proprio quelleipostasi. Anche nell’universosuperficialmente globalizzato,nevrotizzato e medicalizzato di oggi,le paure e speranze sono «d’evidenzanascosta», diceva “l’oscuro”, ma di

valenza inaudita e superiore… Proprioquell’evidenza che Guzzi vuole portarealla luce del sole, ma che - di suo - sa ben occultarsi. Una splendidaintelligenza provocante tramite il contrario dell’apparenza, nellafigurazione… Quasi una cartella interad’ossimoro, per parlare del primoimpatto… ma se poi andiamo alla suainterpretazione, che avviene tramite il quadro ma anche tramite la parola

critica, allora restiamo veramentesbalorditi… perché lui ci sbatte control’impossibilità del procedere nellamodernità, con decisione oltre unalinea (non ancora problematicamentesulla o dalla linea) e di quella linea,una volta per proiezione forse piùastrale, e ora forse più terrestre, (ma è - contro lui medesimo -dialettica) ci fa un crinale, più che unclinamen… personalmente sono stato

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A lessandro Guzzi è nato a Ro-ma. Dopo la laurea in giuri-sprudenza ed una breve espe-

rienza come procuratore legale, lasciala professione per dedicarsi intera-mente alla pittura, ma la sua primamostra personale si era tenuta già pri-ma della laurea per l’incoraggiamentodello zio Virgilio Guzzi. Negli anni Ot-tanta la pittura di Alessandro Guzzi èstata seguita da Filiberto Menna, che loha presentato a molte mostre perso-nali e collettive (Palazzo Forti, Verona,nel 1983; Galleria Ferrari, Verona, nel1984; Studio Cavalieri, Bologna nel1985; Studio Bocchi, Roma, nel 1987),ma anche Italo Mussa dimostrò inte-

resse per la sua pittura, invitandolo nel1989 a esporre al Centro di Cultura Au-soni di Roma.

In questi ultimi anni, la sua parti-colarissima e raffinata pittura d’im-magine ha interessato Paolo Balmas(testo introduttivo alla mostra perso-nale presso il Circolo Fantoni, La Spe-zia, 1999), Marco Di Capua (testo in-troduttivo alla mostra personale pres-so la Galleria Lombardi, Roma, Novem-bre 2003), Carlo Fabrizio Carli (testo in-troduttivo alla mostra personale pres-so la Galleria Il Narvalo di Velletri nelFebbraio 2004, ed al Museo Crocetti diRoma nel Febbraio 2006) e Lorenzo Ca-nova (testo introduttivo alla mostra

personale presso la Galleria Lombardi,Roma, Marzo 2005; al Museo Crocettidi Roma nel Febbraio 2006; alla Galle-ria Berman di Torino nel Maggio 2008).Marisa Vescovo ha scritto il testo in-troduttivo alla mostra dell’artistapresso la Galleria Berman di Torino nelMaggio 2008. Le ultime mostre collet-tive a cui l’artista ha partecipato sono:la Prima, la Seconda e la Terza Edizionedel Premio di Pittura Ferruccio Ferraz-zi, Sabaudia, del 2001, 2003 e 2005, e laXXIX e la XXXVI Edizione del PremioSulmona del 2002 e del 2009, tutte suinvito di Carlo Fabrizio Carli. Nel Di-cembre 2005 ha partecipato alla rasse-gna “Figure” presso l’Archivio Centraledello Stato, sempre a cura di Carlo Fa-brizio Carli. Nel 2002 Alessandro Guzziha partecipato su invito di Carmine Si-niscalco alla Mostra: “Cleopatra nelmito e nella storia” tenutasi a Romapresso l’Istituto di Cultura Egiziano epresso la Galleria Studio S di Roma,mostra che nel 2003 è stata allestitaanche nei Musei di Alessandria e delCairo in Egitto. Nel Luglio 2003 ha par-tecipato alla mostra “Fine Novecento”,allestita presso il Palazzo Tiranni-Ca-stracane a Cagli a cura di Arnaldo Ro-mani Brizzi. Nel Luglio 2004 Alessan-dro Guzzi ha partecipato alla 55° Edi-

BIOGRAFIA

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zione del Premio Michetti “Mito e Real-tà”, a cura di Stefano Zecchi, risultandotra i quattro finalisti. Nel Luglio 2007ha inoltre partecipato alla 58° Edizionedel premio Michetti “Nuovi Realismi, lacentralità dei linguaggi tradizionali” acura di Maurizio Sciaccaluga e VittorioSgarbi, e nell’ottobre 2007 ha parteci-pato alla rassegna “Nuovi pittori dellarealtà”, tenutasi al PAC di Milano, sem-pre a cura di Vittorio Sgarbi.

Su segnalazione di Lorenzo Cano-va, dal 31 Luglio al 24 Ottobre 2010Alessandro Guzzi ha partecipato conun’opera (Marthe e Jochen, olio su telacm 90x80) alla XIV Edizione della Bien-nale d’Arte Sacra “Le beatitudini evan-geliche”, organizzata dalla FondazioneStauròs Italiana, presso il Museo dellaFondazione a S. Gabriele, Isola del GranSasso (Teramo). Dal 17 Dicembre 2011al 31 Gennaio 2012, su invito di VittorioSgarbi, Alessandro Guzzi ha partecipa-to alla 54ma Edizione della Biennale diVenezia, Padiglione Italia, Palazzo delleEsposizioni, Torino. Per molti anniAlessandro Guzzi si è occupato diastrologia, intesa come un raffinato si-stema di interpretazione della realtà.Negli anni 90 ha pubblicato due libri aMilano, il primo sui temi di Ritorno So-lare ed il secondo sull’Oroscopo di Con-cepimento (Trutina Hermetis). Un ter-zo suo volume: “L’Equivalente Lunare”è edito in formato elettronico. NelMaggio 2004 la storica Casa EditriceFederico Capone di Torino ha pubblica-to il suo ultimo volume I Ritorni Solariin Astrologia. Alessandro Guzzi hainoltre curato le prime traduzioni ita-

liane di tre capolavori del grande AlanLeo, l’astrologo ed occultista inglesedella fine dell’800, vicino agli ambientiteosofici e amico di Annie Besant.

Per alcuni anni Alessandro Guzzi èstato redattore di Letteratura-Tradi-zione, la rivista fondata da Sandro Gio-vannini. I suoi scritti per quella Rivistahanno indagato il lato misterico dellapoesia e dell’arte. Gli ultimi suoi studisono invece dedicati alla drammaticariforma voluta da Paolo VI nel 1969 inseguito al Concilio Vaticano II, che hadi fatto distrutto la millenaria LiturgiaCattolica dando luogo ad un ibrido li-turgico totalmente assimilabile ad unrito protestante. Gli ultimi suoi lavori

in questo ambito sono: La liturgia del-l’assenza reale, dedicato a uno scrittodi Cristina Campo, Eyes Wide Shut: oc-chi spalancati sul segreto satanico delfilm», San Girolamo e l’Oscuro Distrettodegli Uomini. Quest’ultimo, (dedicato aun quadro di Joachim Patinir, Panora-ma con San Girolamo, opera del 1516,attualmente al Museo del Prado), è l’oc-casione per parlare della “cospirazione”e dell’inganno satanico che agiscono inmodo sempre più spudorato nelle so-cietà di oggi (hidden in plain sight), e perdelineare il panorama attuale che ci ve-de apparentemente sull’orlo di un pre-cipizio, sebbene si sappia, da parte no-stra, che il male non può sorreggersi esia destinato al crollo. Tutti gli scritti diAlessandro Guzzi sono a disposizionedei visitatori del suo sito web www.ales-sandroguzzi.com.

Hanno scritto del suo lavoro di pit-tore: Mariano Apa, Vito Apuleo, PaoloBalmas, Ferruccio Battolini, ArnaldoRomani Brizzi, Lorenzo Canova, CarloFabrizio Carli, Luisa Chiumenti, LauraCherubini, Marcella Cossu, CostanzoCostantini, Renato Civello, Valerio Cre-molini, Mario de Candia, Marco Di Ca-pua, Laura Gigliotti, Sandro Giovanni-ni, Marco Guzzi, Sarah Law, CaterinaLelj, Luciano Lepri, Elverio Maurizi, Lui-gi Meneghelli, Filiberto Menna, Ida Mi-trano, Italo Mussa, Marinella Paderni,Roberta Perfetti, Cinzia Piccioni, Ales-sandro Riva, Arnaldo Romani Brizzi,Stefania Scateni, Stefania Severi, CarloSini, Luigi Tallarico, Alberto Toni, Mari-sa Vescovo, Francesco Vincitorio, Giu-ditta Villa.

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sempre affascinato più dal clinamen,perché caratterialmente mi hacrismato il passaggio, la correlazione(tradizionale), dall’Uno la Dualitàproduttrice del Terzo e poi deidiecimila esseri… ma riconosco che se

non si sa vedere anche il crinalenell’orizzonte, tutto sfumanell’indifferenziato… (quello negativo).Infatti a lui (e a me, ma forse indiverso modo) sono maestri gli occhiinterroganti o penetranti di Friedrich,

che ti guardano addosso o che,preferibilmente e diffusivamente,guardano ben lontano. Vorrei fare unomaggio a Guzzi, raccontargli qui unpiccolo aneddoto che non ho avuto ilcoraggio di dirgli a voce: in una miarecente riflessione a scritto aperto,rivolta a vari corrispondenti, della cuidifferente e amicale intelligenza sonoconsapevolmente e commossamentefiero, ho citato nascostamente ledivise di Baj, difficilmenteraggiungibili - anche se facilmentedecodificabili - se non per pleonasmoe caricatura, grottesco e tragicaorpellanza (la tragica orpellanza delletteralismo…).

Ora in realtà pensavo Baj mavedevo Guzzi, era l’immagine di Guzzi,molto più raffinata ancora, molto piùimplicante ancora, molto più svelanteancora la sua velatura dell’ex-sistere…che mi muoveva e sono riuscito adire, qualcosa, che, forse, solo perquesto, era buona e giusta.

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epistolare con François Furet, in-sieme al quale poi presi parte algrande convegno di Napoli del1997, cui seguì immediatamente,e del tutto inaspettata, la mortedel mio collega e amico.

Dall’atmosfera di quegli an-ni sortì anche il colloquio conMassimo De Angelis su I totalita-rismi, che venne pubblicato nel1999 da «liberal» nel quadro del-le Interviste dal XX secolo. Metto inevidenza ciò, perché si potrebbeavere l’impressione che il presen-te libro sia scaturito da un collo-quio continuativo tra noi due. Male cose non stanno così. Già pri-ma che Massimo De Angelis sitrasferisse da «liberal» alla Rai,

Il libro del mese

PREFAZIONEdi Ernst Nolte

Massimo De Angelis e iosiamo stati per diversianni in frequente con-

tatto; di preciso nel periodo in cuisono stato un collaboratore della«Fondazione liberal», apparen-do spesso come autore nelle suepubblicazioni. Se il mio ricordo èesatto, allora ignoravo quale fos-se l’interessante passato di quel-l’uomo dall’aspetto così giovani-le. Dal 1987 sino al 1994 egli erastato consigliere politico dell’al-lora segretario generale del Par-tito comunista italiano, AchilleOcchetto, e dal 1992 era stato an-

che capo dell’Ufficio stampa delpartito. Di tale passato era davve-ro difficile percepire qualcosa al-lorché io lo conobbi, nel 1995, ecioè allorquando il mensile «li-beral» pubblicò un mio scambio

Adolf Hitler. Una emozione incarnata

Per una interpretazione filosofica del nazionalsocialismo

MASSIMO DE ANGELIS, “ADOLF HITLER. UNA EMOZIONEINCARNATA.PER UNAINTERPRETAZIONE FILOSOFICA DEL NAZIONALSOCIALISMO”,prefazione di Ernst Nolte, SoveriaMannelli, Rubbettino, 2013, pp.184, 16 euro.

Massimo De Angelis è direttoreeditoriale di «Nuova civiltà dellemacchine», rivista trimestrale cheapprofondisce in particolare leimplicazioni antropologiche dellosviluppo scientifico e del nostrotempo tecnologico. Scrittore egiornalista, ha un passato di

dirigente politico. Ha scritto il libro «“Post”.Confessioni di un ex comunista»(Guerini, 2003) ed è autore dinumerosi saggi, i più recenti deiquali sul revisionismo storico, sulpensiero neoconservatoreamericano e sull’Europa.

DI ERNST NOLTE E MASSIMO DE ANGELIS

Sopra: Ernst Nolte (1923).

A sinistra: Adolf Hitler (1889-1945)

in una foto degli anni Venti

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infatti, i nostri contatti si eranomolto diradati, e perciò fui moltosorpreso allorché egli, nel 2012,mi spedì il manoscritto finale delsuo libro con la richiesta di leg-gerlo e, se possibile, di scrivereuna prefazione ad esso. Sottoli-neo quindi il fatto, che già talipremesse inducono a supporre,che Massimo De Angelis non si èaccontentato di svolgere una in-terpretazione a ridosso del miopensiero sul significato in essodelle emozioni e dell’emoziona-lità, ma che invece egli, dalla di-stanza nel frattempo maturata,ha tratto un’opera originale.Questa originalità consiste in-nanzitutto nel fatto che egli si

sofferma in misura notevole suHeidegger e sulla sua concezionedelle emozioni. Che vi fosse quiun nesso con quanto da me elabo-rato era sin dall’inizio assai vero-simile visto che, durante la guerra-e poi nelle circostanze del dopo-guerra - uno studio con Heideg-ger, purtroppo discontinuo e in-completo, era stato l’esperienzadecisiva della mia giovinezza, e ioavevo conosciuto accuratamenteEssere e Tempo e quel che ruotavaintorno a esso, senza peraltro maicessare di avere l’impressione diaverne avuto una comprensioneinsufficiente.

Assai più importanti di unimmediato riferimento a Essere e

Tempo furono per la genesi de Ilfascismo nella sua epoca, pubblicatonel 1963, le letture, assai appro-fondite e articolate per quei tem-pi, dei testi di Hitler e, su un piùalto in quanto più astratto livello,quelle degli scritti di CharlesMaurras, la guida spirituale, già apartire dal passaggio di secolo,dell’«Action francaise», nei qualiio vedevo una prima forma del fa-scismo nascente. Nel pensiero enella sensibilità di Maurras eraevidente, già in seguito alla visio-ne dei giochi olimpici del 1898,quale paura di nuovo tipo e meta-politica (ueberpolitische), poteva edoveva sorgere, allorché divenivariconoscibile «l’altro lato» del

Adolf Hitler e Benito Mussolini, in una foto del giugno 1940

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tradizionale ottimismo progres-sista, e cioè la possibilità che la fi-sionomia dei «francesi» o degli«italiani» potesse scomparirenell’uniformità dell’incombentecivilizzazione mondiale. In que-sta stessa direzione venne fatto,dal giovane Hitler, un passo ulte-riore verso una piena concretez-za, e cioè verso la paura per la so-pravvivenza dell’etnìa tedesca inAustria, la quale era minacciatadal sopraggiungere di popolazio-ni sempre nuove e sempre piùestranee nella capitale dell’Impe-ro, nonché già dal carattere nonnazionale della dinastia asburgi-ca. Da questa paura poté scaturireuna volontà di difesa: in Maurrascontro gli «ebrei, protestanti,massoni e meticci», in Hitler

contro gli slavi e (in modo peral-tro impercettibile sino alla scon-fitta nella Prima guerra mondia-le) contro gli ebrei. Entrambe lepaure ebbero la possibilità, nelcorso dei conflitti del primo do-poguerra, di consolidarsi in com-piute ideologie difensive-aggres-sive, e allorché esse si fissarono in

una avversione politica quotidia-na contro determinati partiti, fi-nirono con lo scontrarsi semprecon la concezione del «sociali-smo», con la sua visione di unacomunità mondiale non più poli-tica, senza più Stati né classi, for-mata da una umanità non sempli-cemente unita ma fusa insieme. Sipoteva provare paura per la vo-lontà espropriatrice dei partitisocialisti, ma di fronte alla «situa-zione finale» prospettata dai so-

Sopra da sinistra: Georg W.F. Hegel

(1770-1831) in un'incisione d'epoca;

Max Weber (1864-1920) in una foto

degli inizi del Novecento.

Qui accanto: Otto von Bismarck

(1815-1898) ritratto in una fotografia

da Franz Lenbach (1836-1904)

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cialisti si doveva (inquanto «cittadini»)sprofondare in unapaura (angoscia)insieme politica emetapolitica. Vi fuun filosofo che po-se in effetti a temaun tipo di paura, chenon aveva nulla a che ve-dere con la politica e che si po-trebbe indicare come meta politicapura, e cioè la paura dell’uomocome tale, e come paura provatain tutti i tempi davanti all’essereuomo e per l’essere uomo: quel fi-losofo è Martin Heidegger. Talepaura va insieme all’«apertura»dell’Esserci come sua «radura»(Lichtung) e precede ogni pensie-ro teoretico, cosicché senza di es-sa un pensiero teoretico non sipuò dare. Ma Heidegger in Esseree Tempo, diversamente da Maur-ras e da Hitler, non presenta maiquesta «emozionalità diradata»in relazione a concrete situazionio circostanze storiche, tranne che

in una sorta di ap-pendice nel quinto

capitolo della se-conda sezione su

Temporalità e storicità e dipreciso al § 74 su La costituzionefondamentale della storicità. Qui siparla dell’«avvenire della comu-nità, del popolo» e degli «eroi»che «l’Esserci», e quindi il singo-lo uomo o un gruppo «si sceglie»(cfr. pp. 461-462 di Essere e Tempo,Longanesi & C, 1976). Ci si po-trebbe qui attendere che si parlianche del popolo «tedesco» o«francese», di Napoleone o diBismarck, come accade pressotutti i «filosofi della storia», pres-so Wilhelm Dilthey così comepresso Oswald Spengler, pressoMax Weber tanto quanto pressoBenedetto Croce. Ma è proprioquesto passo che Heidegger non

compie, evidentemente perchéegli intende mantenere le sue ri-flessioni a un più alto grado diastrazione. E tuttavia, Heideggernon viveva nella «torre d’avorio»di un’astrazione autosufficiente.Nel suo scambio epistolare conElisabeth Blochmann e anche al-trove si ritrovano valutazioni as-sai concrete del «comunismo»;inoltre, come è noto, suscitògrande stupore, molta indigna-zione e viceversa pochi consensiil fatto che quel filosofo di famamondiale desse l’impressione diidentificarsi con il fenomeno po-litico emergente e per lo più te-nuto in scarsa considerazione delnazionalsocialismo, allorchéegli, nel 1933, si fece eleggere co-me «guida» di una università te-desca e si pronunciò non solo sul«popolo tedesco» ma anche e in

Sopra da sinistra: Adolf Hitler, qui insieme a Galeazzo Ciano,

mentre saluta dal balcone della Cancelleria (1935); Martin

Heidegger (1889-1976), in una foto del 1949.

Qui a sinistra: Charles Maurras (1868-1952), intorno al 1908

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maniera assai concreta sulla«Montagna della Foresta nera».Invero tale engagement giunse aesaurimento già dopo un anno; eHeidegger tuttavia non lo rinne-gò mai sino al termine della guer-ra e in certo modo sino alla finedella sua vita, e anche perciò eglisuscitò emozioni che hanno po-sto sino a oggi la sua figura al cen-tro di appassionate controversie.

L’originale contributo diMassimo De Angelis consisteprincipalmente in questo: cheegli intende connettere la com-prensione politico-metapoliticadelle emozioni, che fu un diffusofenomeno del tempo e che è statada me elaborata soprattutto in ri-ferimento alle caratteristiche«infantili», «monomaniacali» e«medianiche» della sensibilità diHitler, con l’interpretazione me-tapolitica di Heidegger. E questa èuna cosa che io ne Il fascismo nellasua epoca effettivamente non ave-vo fatto, giacché lì Heidegger ve-niva menzionato in una sola notaa margine. Certamente in ciò DeAngelis non è del tutto isolato, maanche nel mio libro su Heideggerdel 1992, l’accento cade, come giàil sottotitolo Politica e storia nellavita e nel pensiero lascia intendere,esclusivamente sulla prima e me-no ardua prospettiva. MassimoDe Angelis ha perciò mostrato suquesto punto maggiore coraggiofilosofico di me e dell’esito di talesua originale riflessione spetta alui solo la responsabilità. Ma è unulteriore e notevole suo merito

che egli, nel suo libro, si sia soffer-mato non poco sulle prese di posi-zione e le interpretazioni del piùrecente passato. A queste appar-tengono non da ultimi i giudizi diFrançois Furet articolati nel suolibro La fine di una illusione. Il co-munismo nel Ventesimo secolo (Ori-ginal Paris 1995) e soprattutto nelsuo scambio di lettere con me(«Feindliche Naehe». Kommuni-smus und Faschismus im 20. Jahr-

hundert. Ein Briefwechsel, Monaco1998), dove nello stesso tempoviene sottolineata e insieme re-spinta la possibilità che la mia in-terpretazione potesse essere inte-sa come una «apologia di Hitler»,o meglio: che l’esito del comuni-smo sovietico e l’interpretazionein linea di principio positiva dellare-azione fascista così come latrasformazione degli antirivolu-zionari in rivoluzionari attraverso

Sopra: Adolf Hitler in un ritratto d’epoca. Nella pagina accanto: Andrea Appiani

(1754-1817), Napoleone Bonaparte, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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un finale «scambio delle caratte-ristiche» erano assai lontani dal-l’interpretazione prevalente. Maproprio qui De Angelis concordacon me, e simile è anche, tenden-zialmente, la considerazione cir-ca una possibile «conciliazione»tra i nemici dell’epoca trascorsa.Un allargamento assai positivodella ricerca è inoltre rappresen-tato dai continui e lodevoli ri-chiami al libro di Joachim Fest suHitler, che risultano persino pre-ponderanti rispetto a quelli rivol-ti al metodo interpretativo politi-co-metapolitico.

Lo stesso vale a propositodell’analisi condotta a propositodell’interpretazione di SergioRomano, il quale prende moltosul serio l’«alternativa anglo-te-desca», lasciando tuttavia senzarisposta l’interrogativo su qualiconseguenze una intesa del bloc-co anticomunista avrebbe potutopresumibilmente avere nei ri-guardi dell’Unione sovietica. Perme personalmente è risultato il-luminante e sorprendente il ri-chiamo a un libro italiano che miera sconosciuto. Si tratta del li-bro, pubblicato nel 2001 pressoEinaudi, di Marco Revelli Oltre ilNovecento, che da De Angelis vie-ne definito come uno dei pochiesempi di «revisionismo» da par-te della cultura della sinistra co-munista, alla quale quell’autoreintende continuare ad apparte-nere. Perciò egli ha potuto soste-nere la tesi che i partiti comunistisi consideravano nella loro ideo-

logia come «i demiurghi di unasanguinosa redenzione dell’u-manità». Ma nonostante ciò essirimanevano solo un mezzo chenon era identico al fine. Ma perquesta via «è divenuto possibile»che nella più recente epoca dellastoria mondiale, «il mezzo, e cioèil partito, si è sovrapposto al fine,quello del comunismo» (cfr. p.133) e con ciò, si potrebbe ag-giungere, è caduto vittima di unerrore di portata storico-mon-diale, sia pure in modo totalmen-te diverso da Hitler. Ma che infi-ne per De Angelis il modo di ve-dere metapolitico di Heideggerrimanga quello ultimo e decisivo,lo rende visibile una frase come laseguente: «un giorno la trascen-denza pratica potrebbe determi-nare una così profonda trasfor-mazione di tutte le condizioni divita umane che si potrebbe effet-tivamente parlare di una “dis-umanizzazione” dell’uomo in unsenso puramente negativo» (cfr.p. 144). La trascendenza potreb-be far fuoriuscire l’uomo da sestesso, e la sua paura metapoliticanon sarebbe nient’altro che lapaura di fronte a un tramontoconnesso alla radice stessa dellapropria esistenza. Se così Massi-mo De Angelis può non offrire aisuoi contemporanei alcuna co-noscenza pratica, probabilmenteperò può fornire loro preziosi sti-moli alla riflessione. Di non esse-re stato del tutto estraneo a que-sto è per me un forte motivo disoddisfazione.

PROLOGOdi Massimo De Angelis

Nelle prime pagine dellasua Scienza della logica,Georg W.F. Hegel af-

ferma che l’essere, il puro essere,escludendo ogni determinazio-ne, «è la pura indeterminazione,il puro vuoto» e che quindi esso«è ne più né meno che nulla»L’essere e il nulla - sostiene il filo-sofo tedesco - sono due astrazionidel pensiero «che cessano di essertali solo quando acquistano uncontenuto determinato». In altritermini, soltanto l’esserci, il finito,contenendo l’essere e il nulla, èreale. Ma - prosegue Hegel - lasostanza dell’esserci, in quantounità di essere e nulla, è il divenire,il nascere e il morire; e il divenire,perciò, include e «toglie» ognisingolo esserci con le sue determi-nazioni.

Nell’altro suo scritto fonda-mentale, la Fenomenologia dellospirito, il filosofo afferma, a pro-posito della Rivoluzione francesee del suo momento culminante, ilTerrore, che quest’ultimo, inquanto «libertà assoluta» «togliele distinte masse e la vita limitatadegli individui». In quanto «co-scienza universale» essa non puòfissarsi in alcunché di determina-to», «l’unica opera della libertàuniversale è perciò la morte […]la più fredda e la più piatta mortesenz’altro significato che quellodi tagliare una testa di cavolo o diprendere un sorso d’acqua». Qui

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la libertà è la negazione della dif-ferenza, della determinazione, e lalibertà assoluta è la negazione diogni differenza. Perciò è il terroredella morte e l’annullamento diogni determinazione. Vale la penadi notare che si viene qui a stabilireuna connessione assai stretta tra ildivenire come negazione di ognideterminazione da una parte e lalibertà assoluta, la rivoluzione e ilTerrore dall’altra. In altre parole ilTerrore, come elemento culmi-nante della rivoluzione, in quantopura «coscienza universale», po-tremmo dire, tende a convergerecon il divenire nella sua essenzapura, e a coincidere col far storia.

Si può concepire, al pari diquella francese, anche la fonda-mentale rivoluzione del Nove-cento, quella bolscevica, come sif-fatta libertà assoluta all’opera,quale momento di negazione, apartire dall’esserci, di ogni deter-minazione degli esserci singoli. Es-sa può apparire allora come terro-re, morte, sistema del Gulag e co-me storicità in atto, per così direallo stato puro, sotto un unico emedesimo riguardo. Va allora in-fine notato, che quel che accomu-na le due esperienze rivoluziona-rie, è proprio il cortocircuito travolontà particolare e universale,come tragicamente percepì SaintJust. E si può d’altra parte, e pro-prio in virtù di ciò, concepire lacontrorivoluzione fondamentaledel Novecento, quella messa in at-to dai fascismi, alla stregua di unacontrapposizione radicale e sim-

metrica a quell’azione di annien-tamento, che nasce a difesa del-l’esserci singolo e della sua sussi-stenza. Una contrapposizione al-l’azione di annientamento che daun lato tende a coincidere con lanegazione della storia e del suofarsi; mentre dall’altro, così si puòancora sostenere, dovendo essafronteggiare quella negazione as-soluta, ed essendo appunto ad essasimmetrica, quasi specchiandosinel suo opposto, la controrivolu-zione tende a divenire altrettantoassoluta e assolutamente annien-tante nella figura radicalfascistadel nazionalsocialismo.

L’essere e il nulla, si è primavisto, sono, nel pensiero di Hegel,due astrazioni del pensiero, solol’esserci è la realtà. Ma l’essercinon può essere difeso strappando-lo al divenire e quindi al suo stessoperire: questa è la verità della posi-zione rivoluzionaria che vuole to-gliere le determinazioni dell’es-serci stesso; posizione contro laquale si erge la posizione contro-rivoluzionaria con la sua verità:quella per cui solo l’esserci singo-lo, con le sue determinazioni, èreale. Il dramma storico del No-vecento può allora essere ancheinterpretato come dramma radi-calmente filosofico, come il risul-tato di una sorta di processo dielettrolisi dell’esserci storico cheha portato le due posizioni oppo-ste, quella della pura conservazio-ne e quella della trasformazionerivoluzionaria, a una radicalizza-zione inaudita, comprensibile alla

stregua di un’astrazione assoluta,di una doppia astrazione assolutain cui alla fine l’una posizione si èdi necessità specchiata nell’altracoincidendo l’una e l’altra con ilpuro nulla o meglio con la pura fu-ria del nullificare.

�Torniamo alla Fenomenologia

dello spirito. La libertà è per Hegel«il concetto», e - nel suo pensiero- «ciò che faceva del concetto unoggetto nell’elemento dell’essereera la sua distinzione in masse se-paratamente sussistenti; ma dac-ché l’oggetto diventa il concetto,in esso non c’è più nulla di sussi-stente». Ogni singola coscienzacessa perciò di essere particolare,«anzi - dice Hegel - apprende ilsuo Sé come il concetto della vo-lontà. In questa libertà assoluta sicancellano quindi tutti gli “statisociali”, che sono le essenze spiri-tuali nelle quali l’intiero si orga-nizza; la coscienza singola che ap-parteneva a un tale membro e inesso esplicava la sua volontà e lasua operosità, ha tolto le sue bar-riere; il suo fine è il fine universale;il suo linguaggio è la legge univer-sale, la sua opera l’opera universa-le». Qui si può notare come He-gel, descrivendo la rivoluzionefrancese, appaia prefigurare la so-stanza concettuale di quella mar-xista; infatti egli parla anche di«lavoro totale» in queste pagine,di superamento di tutti gli stati so-ciali, delle classi, attraverso l’azio-ne di questo spirito universale. Ed

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è qui significativo che tende a co-incidere l’azione volta a costitui-re la società nuova e il contenutodi questa stessa società: l’una el’altra, l’azione rivoluzionaria e il«paradiso» frutto della rivolu-zione sono infatti la libertà asso-luta. Oltre ogni contenuto e for-ma determinati. E non solo.Un’altra tendenza a coinciderebalza alla mente: quella tra pen-siero e rivoluzione. Per essere piùprecisi il pensiero che pone ilconcetto come proprio oggettoastraendolo da ogni contenutoreale è per l’appunto pensiero ri-voluzionario. Che ha per oggettola creazione dell’uomo nuovo co-me uomo rivoluzionario in quan-to in esso coincide particolare euniversale. È bensì insita e conna-turata al pensiero la possibilità diseparare il concetto dall’oggetto,diventando pensiero puro e per-ciò, se operante nella realtà, an-nientante. Vi è insomma una pre-disposizione del pensiero umanoa farsi astratto, rivoluzionario equindi annientante. Hegel diceancora che «la destinazione del-l’uomo è la ragione pensante […]ciò per cui l’uomo si distinguedall’animale». Vi è dunque unnesso (non necessario ma impel-lente) tra destinazione dell’uo-mo, pensiero, libertà, rivoluzio-ne e rischio della negatività asso-luta e del terrore. Ed è quindicomprensibile e inevitabile che sicrei una reazione da parte del-l’uomo reale (il quale non si esau-risce nell’universale) a tale pro-

cesso. Ma che cosa succede se lacontrapposizione si fa assoluta?Contrapporsi assolutamente allalibertà assoluta significa negare ilpensare e quindi, da parte del-l’uomo, la propria stessa «desti-nazione» e la propria stessa es-senza di essere che «trascendel’esistente».

Ebbene, come vedremo,questa dialettica è al centro, è an-zi il distillato filosofico dell’ope-ra di Ernst Nolte che verte fon-damentalmente proprio sul sen-so dell’esperienza bolscevica e diquella del nazionalsocialismo inquanto esse sono le figure di ri-voluzione e controrivoluzionenel Novecento. E le protagoni-ste della guerra civile europeache è, nel suo nocciolo, guerra ci-vile filosofica. La sua riflessione èquindi uno sguardo al fonda-mento filosofico di una contrap-posizione storica. E d’altra partequanto precede aiuta a percepirel’intima correlazione dialetticatra i due fenomeni storici - quelche viene definito anche da Nol-te «nesso causale» - e il suo fon-damento filosofico, prima diogni controprova fattuale. E aiu-ta a cogliere, bensì, la centralitàdella coppia ermeneuticaSchreckbild/Vorbild (modello/spauracchio) che porta i dueprincipali fenomeni storico poli-tici del Novecento a rincorrersiin un circolo di contrapposizionee somiglianza a partire propriodal nesso Terrore-Paura, concettiche giocano appunto un ruolo

fondamentale nella riflessionenoltiana. Infine, a questa stre-gua, si illumina il nocciolo dicomprensibilità della posizionenazionalsocialista. Questa puòessere interpretata come dispe-rata difesa dell’esserci dato con-tro l’azione «negativa» del dive-nire, quasi in una sorta di «fer-mati attimo» armato. Ma taleposizione, contrapponendosi as-solutamente, e quindi andandooltre ogni approccio politico e fi-losofico conservatore, giunge acompiere (non per accidente maper necessità) un crimine di por-tata metafisica maggiore di quel-lo del bolscevismo, trattandosi diun’aggressione alla natura piùpropria dell’uomo che, con tutti irischi, è quella volta a mettere inatto un divenire in quanto tra-sformazione o trascendenza at-traverso il pensiero. È a partire diqui che risulta pienamente com-prensibile un’altra affermazionefondamentale di Nolte, quellaper cui Auschwitz, essendo bensìconseguente al Gulag, è dal pun-to metafisico un crimine più ra-dicale, senza possibili compara-zioni. Tutto ciò costituisce comedetto il distillato di pensiero del-la riflessione noltiana su nazio-nalsocialismo e bolscevismo esull’epoca dei fascismi, fa di taleriflessione un lavoro da appro-fondire dal punto di vista filoso-fico, e rende la sua opera unesempio, senza visibili paragoni,del proprio tempo appreso colpensiero.

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L’altro scaffale

Il discorso è noto. Anzi risa-puto. Ma troppo spesso ina-scoltato. Eppure, è da più di

mezzo secolo che si raccomandaai collezionisti delle nuove gene-razioni di concedere maggioreattenzione alle ideazioni grafi-che, in genere, sulla base di tre,ottimi motivi: 1) avviene di fre-quente che l’artista riversi nel di-segno e/o nell’incisione le suepassioni e i suoi pensieri più inti-mi e segreti, magari inconsape-volmente; 2) perché, in genere, ildisegno e/o l’incisione, sotto ilprofilo economico, sono semprepiù accessibili, di un dipinto, odopera similare; 3) infine, perchélinea e tratteggio permettono unminor numero di astuzie esecu-tive, rispetto a quanto non con-sentano le macchie o le colaturedi colore. E quindi si dovrà rico-noscere che l’opera grafica risul-terà pur sempre rivelatrice dellastatura di un artista, sia quando sivoglia soppesare lo sviluppo (o lemutazioni) del suo stile sia nelcaso che si cerchi di comprende-re la di lui psicologia del profon-

le più prestigiose librerie di anti-quariato siano piuttosto attentenel promuovere la ricerca e lacircolazione di opere in grado didisseminare la conoscenza el’apprezzamento del disegno, insé e di per sé, o come principiofondante di ogni ideazione figu-rale. Chi oserebbe negare, peresempio, che l’acquaforte Nudodi donna che dorme (1921) di Ar-mando Spadini (1889-1925) po-ne non pochi problemi storico-critici? Il foglio, difatti, propostodi recente dalla “Taberna Libra-ria” di Pistoia al prezzo di 950euro, offre più di un motivo ri-flessione, sia nel caso che si fossetentati di anticipare una rivaluta-zione di questo artista di Poggioa Caiano, forse non lontana, siariguardando la cronistoria del-l’arte incisoria italiana degli inizidel XX secolo.

Prima e indispensabile os-servazione: quando si consultiuna qualunque monografia spe-cialistica, o di buona divulgazio-ne, non è raro che vi si trovi sot-tolineato che Armando Spadini

do. Dunque è certo, certissimo:il bianco-nero, o l’elemento cro-matico sottoposto alla disciplinadel torchio, possono e debbonodirsi di pari dignità strumentalequanto l’acquarello, la tempera,l’olio e tecniche similari.

Bene, se tale è la realtà deifatti, appare consequenziale che

ALBERTO CESARE AMBESI

Sopra: frontespizio della rivista

l'Eroica, diretta da Ettore Cozzani

(1884-1971). Nella pagina acanto:

una delle 135 incisioni che adornano

la Sibilla di Giulio Aristide Sartorio

Il disegno e la morsura:Spadini e Sartorio

Piccole ma preziose proposte di collezionismo

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fu pittore della quotidianità, tut-tavia affascinato dalla entità luce,ma senza essere del tutto subal-terno ai macchiaioli e agli im-pressionisti. Ma è proprio così ?Cioè a dire: un simile giudizio,per quanto possa apparire cor-retto, basta per incorniciare poe-tica ed estetica di questo Artista?Il dubbio è legittimo. Taluni stu-di o bozzetti pittorici e una buo-na parte delle xilografie e acque-forti lasciano intuire che su luiagirono pure altre suggestioni;preraffaelite e classiciste, perquanto concerne le soluzionicompositive, e letterarie, nell’al-veo dei presupposti e riferimenticulturali. Basti riandare aglistretti rapporti di amicizia che

ebbe con colleghi d’arte, qualiOppo, De Chirico e Savinio econ poeti e scrittori della com-plessità di Cardarelli, Ungarettie Papini, per averne prova e con-troprova.

Seconda considerazionenon meno obbligatoria: l’acqua-forte qui in esame è di piccole di-mensioni (mm.146x193 alla bat-tuta; superficie complessiva delfoglio mm. 227x283), ma ha unapeculiare, sottile eloquenza ero-tica. Ancora oggi potrebbe esse-re un’ideale illustrazione di co-pertina per la commedia La don-na nuda (1908) di Henry Bataille(1872-1922), tanto appaionosuggestivi i giochi di luci e om-bre che contornano la figura ri-

tratta, oltre che rappresentarnel’abbandono in una sorta di vigi-le sogno, come se la donna sapes-se inconsciamente che la sua vi-sione onirica poteva trarre forzae vigore dallo sguardo di Spadi-ni. Firmato a datato a inchiostro,in basso a destra, e intitolato al-l’altra estremità del lato, il fogliopresentato dalla “Taberna”, hatutta l’aria d’essere un perfettoesemplare di acquaforte.

�Giulio Aristide Sartorio

(1860-1932)? Un artista di gustodecadente e autore di operetroppo inclini a un decorativi-smo per lo più monumentale.Codesto, grosso modo, il giudi-

APPUNTI ELEMENTARI DI BIBLIOLOGIAseconda puntata

L’autore e/o il curatorevengono di solito elencati,nei seguenti modi:

cognome dell’autore, sempre peresteso, e prima lettera del nome,quando non sia indicato anch’essoper esteso. Nel caso che gli autorisiano più di due, quasi sempre siadopera la dicitura “Autori vari” (oAA.VV.). La dicitura a cura di segue ilnome del curatore (o editor).Il titolo di un libro viene sempreriportato integralmente, così comeappare nel frontespizio del libro, onella titolazione della prima pagina,

nel caso si tratti di un altro digenere di pubblicazione.Naturalmente, non manca mai lalegenda, più o meno estesa, chepermette d’individuare l’editore, illuogo e l’anno di edizione di untesto. Quando manchino codesteindicazioni, si è soliti apporre ladicitura abbreviata S.l. (senza luogodi stampa) e/o S.d. (senzaindicazione di data), fatta salva lapossibilità di formulare verosimiliipotesi alternative, sulla base diprecise ricerche cronistoriche.Lo stato di conservazione di unvolume o di altra pubblicazione astampa (cartella, quaderno,fascicolo, dispensa) tiene sempre

conto dell’anno di edizione.Comunque, in linea di principio, la classificazione è la seguente:Perfetto: libro come nuovo, in condizioni eccellenti.Ottimo: volume ben tenuto, privo di difetti.Fresco: libro di vecchia edizione,ma ben conservato.Buono: leggeri segni d’uso (spesso precisati) ma volume in buone condizioni.Lievemente usato: libro in condizioni discrete, con tracce d’uso.Usato: volume con evidenti tracce d’uso, ma testo comunque completo.

BLOCK NOTES

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zio, tuttora corrente, che vieneriservato al creatore del grandefregio a encausto dell’aula diMontecitorio a Roma. Il fatto èche una larga parte della criticaeuropea, ancora ammaliata datalune, disinvolte esperienze tar-do novecentesche, mal riesce acomprendere come si possa affi-dare al disegno il primato com-positivo, secondo i paralleli det-tami del classicismo e del roman-ticismo delle scuole nordiche.Fonti ben conosciute da Sarto-rio, in età giovanile, avendo svol-to appassionati studi sui preraf-faelliti inglesi e retto la cattedra

di disegno all’Accademia di Wei-mar dal 1895 al 1899. Un orien-tamento che, come è intuibile, èstato presto “storicizzato” in se-de museale (per esempio: la Gor-gone e gli eroi e la Diana di Efeso egli schiavi patrimonio della Gal-leria Nazionale d’Arte Modernadi Roma), ma che si vorrebbemaggiormene codificato edesteso. Così come si desidere-rebbe che qualcuno prendesseesempio da Bibiana Borzi, autri-ce di un approfondito studio suuna delle opere capitali dell’Ar-tista: «Sibilla» di Giulio AristideSartorio. Fra testo e immagini

(Napoli, Edizioni ScientificheItaliane, 2012; prezzo di coperti-na 22 euro), poiché anche la di luiproduzione scritta richiedereb-be un riesame senza pregiudizi.

Ma vi è dell’altro. Vi è laconstatazione che Sibilla è un’o-pera di singolare connotazione:un poema drammatico in quat-tro atti, concepito e realizzato af-finché la parola e l’immagine ri-sultassero come incastonate l’u-na nell’altra e con il compito dialludere in modo concorde amolteplici significati. Non a ca-so, la prima edizione del 1922 diquesto curioso “codice miniato”

Da sinistra: un’altra delle magnifiche 135 incisioni che Giulio Aristide Sartorio ha ideato per il volume Sibilla;

pagina finale della Sibilla di Giulio Aristide Sartorio (Milano, l’Eroica, 1922)

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comprende 135 incisioni a pie-na facciata (su un totale di 219pagine) e ha, fra i principali per-sonaggi emblematici, la Morte eil Cavaliere, la Strega e l’Angelodi Dio. Un insieme di figure,dunque, dai caratteri ermetici ecomunque svettanti sulla tema-tica dannunziana di sfondo e dicornice; elemento, quest’ulti-mo, comunque da non trascu-rarsi, per la scelta dei caratteri,dei fregi tipografici, oltre cheper il fascino di taluni nudi fem-minili. Per la precisione: ci si ri-ferisce qui all’edizione di 1333copie numerate e firmate (dal-

l’autore e dal fascistissimo edi-tore, Ettore Cozzani) uscita perl’appunto nel 1922 e contraddi-

stinta da codesti, ulteriori carat-teri: formato in 4° (cm.31,9 x25,8), spessa copertina rilegatadi colore avorio, rugosa e figu-rata. La copia proposta, dalla“Libreria Le Colonne” di Tori-no al prezzo di 1000 euro (esem-plare n° 535 dell’edizione cita-ta), è immacolata, cioè in statodi nuovo, e ha ancora il nastrosegnalibro originale; soltanto lacustodia illustrata editoriale, incartone, presenta qualche om-bra insignificante. Editrice uffi-ciale dell’opera, la rivista «l’E-roica», stampatori i magistralifratelli Magnani.

INDIRIZZO E RECAPITI

TABERNA LIBRARIAvia della Rosa, 3851100 PistoiaTel/Fax : 0573.99.45.62www.tabernalibraria.com

LIBRERIA LE COLONNEvia Mombasiglio, 20 b10136 TorinoTel. 011/19712921Fax. 011/19712922www.colonnelibri.it

Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), Gorgone e gli eroi, Roma, Galleria Nazionale d’Arte moderna

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Il dilemma dell’uomo, fra potere e arbitrio

«Signore, liberami da chi ha eccellenti intenzioni e cuore impuro»

Filosofia delle parole e delle cose

«Fare, poi disfare, questopensavo,/ è l’esercizio disperatodel potere inafferrabile./ Nonfece diverso Sansone a Gaza./Ma se io disfo, disfo me stesso»

(T.S. Eliot, Assassinio nella cattedrale, parte I).

Com’è spesso della gran-de letteratura, le parolecon cui il Tommaso

Beckett di Eliot congeda il Ter-

oltreché a subirlo – siamo più omeno chiamati, a diversi livelli,a esercitarne una parte.

È come sempre il nostroparlare comune a offrirci i segna-li di questa verità tanto evidentequanto usualmente lasciata inoblio. Se facciamo attenzione al-le parole che usiamo, infatti, sedantescamente vi poniamo mente,ci accorgiamo infatti come il so-stantivo potere si fondi astraendodal verbo la categoria della possi-bilità. In altre parole: per me, perme qui e ora, mentre esco di casaper andare al lavoro, come si de-clina il potere se non anzituttonella possibilità di fare o non farequalcosa? «Caro, tornandoprenderesti del pane per cena?»«Non posso, sono in riunione fi-no alle sette». Lo si vede conchiarezza ulteriore proprio sullavoro: pensiamo a quante fru-

zo Tentatore aprono uno squar-cio sulle nostre giornate, suipassi più o meno incespicati concui conduciamo le nostre viteincontro al proprio fine. Non ciinganni il ruolo, storico e di fic-tion, che Beckett occupa in sce-na. Benché normalmente ci ap-paia argomento da alte sfere, in-fatti, il tema del potere e del suoesercizio innerva come sappia-mo le vite di tutti noi, ché tutti –

DANIELE GIGLI

Michelangelo Buonarroti (1475-1564),

Peccato originale e cacciata dal

Paradiso terrestre (part.),1510, Roma,

Musei Vaticani, Cappella Sistina

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strazioni, quanta fatica, nasconodalla sensazione di non poter farequel che sembrerebbe meglio,perché il potere non è in manonostra. E quanta brama di au-mentarlo, allora, questo potereche si ha tra le mani e che non pa-re mai abbastanza.

Non abbastanza per noi,non abbastanza per chi ne hamolto più di noi, perché sempre– inesorabilmente – condiziona-to, determinato, limitato dallecircostanze. Ma se le circostan-ze sono date, e se il potere di cia-scuno si delinea nello spazio cheesse delineano, non sarà alloranecessario considerare il poterestesso come dato? E non sarà,per contro, la sua perversione –nel senso letterale di deviazionedal suo fine – proprio il tentativodi de-condizionarlo, di liberarlodai vincoli oggettivi che lo fon-dano? Senza queste condizionioriginanti, infatti, su quali basipotremo mai riconoscere loscopo e i mezzi che d’istante inistante la vita ci assegna? L’illu-sione che spesso ci preserva daquesta domanda è che si possaagire senza scopi ultimi. Mal’uomo è costituito di scopi ulti-mi, che nell’evidenza della vitadi tutti si mostrano imponentiben al di là delle nostre intenzio-ni o della nostra volontà di ac-cettarli. Per questo l’azione del-l’uomo, ogni azione, ha bisognodi uno scopo. E per questo, senon accettiamo la forma del po-tere in nostro possesso come un

dato di fronte al quale siamo re-sponsabili, finiamo per arrogarea noi il compito di fondare tantolo scopo, tanto i mezzi necessarial suo esercizio, spesse volte am-mantandoli delle migliori in-tenzioni. Le stesse intenzioni,per intenderci, con cui la storia –e il Novecento con particolarepervicacia – ha lastricato strademaestre verso i più cupi inferni.

È questa inattitudine a rece-pire il mondo come dato, quindipresupponente un dante, cheEliot sferza nel v Coro della Roc-ca: «O Signore, difendimi dal-l’uomo che ha eccellenti inten-zioni e cuore impuro: perché ilcuore è su tutte le cose fallace, edisperatamente malvagio». Ed èsu questo crinale, su questa lineasottile tra il nostro desiderio dicostruzione e la forma che questodesiderio è chiamato a prendereche si iscrive il discrimine tra ilpotere e l’arbitrio, tra un potereche serve e un potere che usa.Che sia il potere con cui tentiamodi usare il mondo, o quello concui tentiamo di usare noi stessi.

Sopra: Lucas Cranach il Vecchio

(1472-1553), Adamo ed Eva (part.),

1526, Londra, Courtauld Gallery.

A sinistra: particolare da uno dei

mosaici della basilica di San Marco,

Venezia (XI sec.)

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Viaggio, con infiniti ri-mandi ma senza faciliritorni, per mari e per

monti, mossi, difficili, aspri, ovele pianure sono solo attraversateper istinto di documentazione,per necessità umana, per doverefamiliare. Dai due canti italiani,ultimo grido di una maturatagiovinezza ancora inesausta,protratta oltre ogni umana spe-ranza, di una volontà gettata nel-le braccia della determinazione.«Già vecchio il mio corpo, To-maso» (C. LXXII), pur se quelcorpo si vorrebbe ancora offrirea garanzia di corpi giovani o ti-midi od incerti che si celano (aglialtri o a sé), o si nascondono, ecosì ci costringe a «sovra-volerproduce sovra-effetto» e «sottole interminate bombe, il sepol-cro di Gemisto, sarcofago spez-zato di Pletone, la splendenteIxotta e la Placidia fine, svegliatedalle loro tombe. E i cavalcantinon i postiglioni. Ma altre ragazzee altri ragazzi… e che giovani!»

(C. LXXIII). In nero, ma non dellutto, solo, ma della trabordatapiena o del tutto-colore.

E, qui, dopo un accoratoslancio, dove poteva iniziare avedersi il paradiso, si va, invece,oltrepassando ormai il Lete, aquell’inferno vero: la gabbia, latenda, la follia… Ove, però, lapiù bloccata, la più minerale, lapiù acuminata limatura del ferro,

può ancora, polvere secca, inuti-le e sprezzata, - suggestionata dalmagnete - liberare la rosa… «Larosa nella polvere d’acciaio» (C.LXXIV), l’insopprimibile for-ma, l’immortale concetto, la ten-sione giusta. Perché qui dovevavenire il paradiso, e giunge inve-ce l’inferno, come un’imbosca-ta…Ma Ezra sa sorridere, persi-no ai due ceffi che lo spingonovia, due ex fascisti voltagabbana,di cui, uno, dopo, persino fucila-to… Per i trenta denari. Usura.Fra Kung ed Eleusi, dentro unagabbia di ferro, la ragione vacilla.Ma non la nostra verità. La ragio-ne non può sempre corrisponde-re ai fatti, invece la nostra veritàpiù profonda («Ou Tis, Nessu-no... Ou tis àkronos» C. LXXX,«Tutti, ognuno secondo il suotemperamento», C. XIII) può ri-costruirsi un percorso, un pro-cesso verso l’honestum, ove larealtà dell’io annichilita, se èspezzata per troppa generosità,trova nel mondo minimo, mine-rale, biologico, attorniato dai ca-chinni e dalle urla, il sole impla-

Il Saggio

La poetica di Ezra Pound e le “Acque di vita”

Eroismo, etica ed estetica nella raccolta dei Cantos

Ezra Pound (1885-1972) in una

fotografia del 1920 di E.O. Hoppe

SANDRO GIOVANNINI

– seconda e ultima parte*

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cabile che muove lo scarabeo:«quando la mente s’appiglia a unfilo d’erba / la zampa d’una for-mica può salvarti», il «grillinoverde smeraldo» a cui manca lazampina destra, «o l’odore d’eu-calipto ed erba marina», la lucer-tola, «l’odore di menta sotto ilembi della tenda» (C. LXXIV) eil sorriso meravigliosamente im-prevedibile del mondo intero,colto senza prudenza, come l’as-setato beve dal palmo della ma-no, sua e altrui. «Il saggio traegaudio dall’acqua» (C.LXXXIII). La pioggia fa parte

del processo, come il vento: «an-che la pioggia sorella» (C.LXXIV). L’acqua dal palmo dellamano, ma la luce, oratagliente/accecante oradiffusa/palpitante, dalla filosofiadi Scoto Eriugena, venuto dalmare d’Irlanda, mezzo eretico inquanto mezzo platonico… «Cia-scuno nel nome del suo dio […]in coitu inluminatio» (C.LXXIV). Ora, Deista, vuole dire:osservanza senza confessione,precisione senza letteralismo,struttura senza sovrastrutture. Iltradizionalista conservatore è il

ribelle innovatore, e tutti e duedevono passare (assieme) sotto ilgiogo di Coltano. Nella gabbiada fiere. Il quia impossibile, divie-ne un fatto, ma allora, giunto al-l’estremo, diviene paradossal-mente reversibile («ciò che ab-bandoni non è la via»). Come pernoi, ora, tutti… Esposti a unafollia del sospeso senza fine e tut-ti ansiosi ormai di quest’arresto,ma anche consapevoli della no-stra storia, di quanto si è fatto, diquanto noi si è.

�Dall’inquietante scultura di

Epstein si deduce cosa si debbaperforare di roccia dentro lastruttura minerale dell’uomo.Quali e quante incrostazioni.Dominante è il susseguirsi degliideogrammi cinesi, come cippisu una via che diviene quasi ine-splicabile se non si conosce lastoria e il pensiero di quella gran-de, aliena, civiltà. Il primo e piùgrande ideogramma è Ling, ch’èuna sorta d’eupheméin, ma tuttointerno, tutto risolto in sé per lasua naturale proiezione… bontàirradiante, composto da: «cielo,nuvole, tre gocce di pioggia edanza propiziatoria», tutti se-gnacoli ancora in parte ricono-scibili, persino a uno sguardo oc-cidentale. Dal cielo piove acquasu danzatori… Danzatori festeg-giano l’acqua dal cielo. Magna-

John Singer Sargent, Henry James

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nimità, diffusione, riconosci-mento. Dare/ricevere. Una leg-ge senza tempo, degna, se c’è ri-spetto, se c’è corrispondenza, sec’è partecipazione. Ad esempio iprincipi fondamentali confuciani ele virtù cardinali occidentali, so-no segni ermeneuticamente di-versi, ma materialmente assimi-labili. Per questo può annettersila storia universale alla storia eu-ropea, e viceversa, anche se gliaccostamenti sono audaci, e fin-ché si rimanga sul piano, proble-maticamente icastico, del sovra-sensibile. Lentamente, dopo loschianto dei Pisani, ritorna il me-todo di un processo ininterrotto:«non un non-uomo, caro Estlin,ma ogni-uomo» (C.LXXXVIII);questa la chiave.Anche noi - senza pre/giudizi -potremmo capirlo: Non-uomo, èo può divenire, tutto: sottouo-mo, superuomo, cyborg, etc…Invece, ogni-uomo, è o può dive-nire, solo chi, per dirlo poetica-mente, non proietta troppa om-bra sulla terra, o, per dirlo piùsemplicemente, chi si fa onesto,cercando di superarsi solo one-stamente. «Nel tagliare il mani-co dell’accetta, il modello non stalontano». La parola si spegne

nell’ovvietà mistica della cosa.Della cosa da fare. Del cuore damutare. Della nostra vita da ri-prendere tra le nostre mani.

Oramai non sono che “ste-sure e frammenti”, il “tutto da di-re” si è già svolto ai nostri occhi esolo l’ordine immateriale ritornacon «Nettuno, la sua menteguizza come delfini»3 e c’inducea rivedere, a guardare dentro, anon tirare oltre. Noi che osser-viamo mille cose e non sappiamopiù seguire il filo d’oro in quellatrama attorta, nella texture liqui-

da e sconnessa dei nostri giorni.Ma per gettare un ponte tra i no-stri mondi di senso dobbiamo es-sere «attenti al respiro della far-falla», e quindi non possiamoconfonderci con simboli carta-cei, con paradisi di pietra, con il-lusioni di plastica, con quadricrostolosi ed esclusivamente for-mali, con mere ragioni geopoli-tiche o geostrategiche, di naturadiscutibili e di necessità cangian-ti, ma dentro e oltre tutto questo,dobbiamo interrogare dal nostroorgoglio e dalla nostra purezzaoriginari cosa ancora ci possonodonare di coraggio, di speranza,di grandezza.

Canaletto, Piazza San Marco con la Basilica, 1730. Cambridge, Fogg Art

Museum

NOTE3 Kung ed Eleusi, Iside e Kuanon, (e

tante altre divine ipostasi) non sono giu-

stapposti e neanche fusi. Sono solo letti

uno dentro l’altro, nello specchio dell’al-

tro, anche - a volte - nel senso della loro

necessità antitetica (cfr.: Boris de

Rachewiltz, L’elemento magico in E.

Pound, All’insegna del Pesce d’Oro, 1965,

p. 27). Il canto inizia immerso nelle

acque, piene di dei, della vita e della

morte «con l’oceano in moto contrario» e

si chiude con l’approdo, l’incontro, «all’i-

sola dei Re»

* La prima parte di questo saggioè stata pubblicata nel numero7/8, luglio-agosto 2013

settembre 2013 – la Biblioteca di via Senato Milano

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72 la Biblioteca di via Senato Milano – settembre 2013

Non sappiamo se, quasivent’anni fa, giungendonel paese del Papa, il

giovane Philippe Léveillé incede-va «con il cuore palpitante» comeil fiero d’Artagnan (protagonistadel romanzo I tre moschettieri diAlexandre Dumas padre, di cui laBiblioteca di via Senato conservanumerose edizioni) nel cortile delpalazzo del signor di Tréville. No,non a Roma, né ad Avignone: piùsemplicemente a Concesio, pic-cola cittadina bresciana che vantai natali di Paolo VI. Però, come ilgiovane d’Artagnan che andava aoffrire i suoi servigi al capo deiMoschettieri del re, anche il fieroPhilippe aveva in animo un’azio-ne quasi analoga. Schiatta breto-ne, audace temperamento, capa-cità innate: avrebbe vestito cononore la casacca del moschettie-re. Ma bianca era la casacca alquale mirava Philippe: la casaccadi cuoco del già famoso e blaso-nato Miramonti l’altro. Un risto-rante che è il coronamento dellasaga di una famiglia - i Piscini -che già leggenda sono nella storiadella cucina bresciana. Un risto-rante che, quasi spersosi nel suoproprio nitore neoclassico, neltratto liberty dell’arredamento e

za non bisogna credere»! Il risul-tato è un insieme armonioso cheammalia per gusto e consistenza.Dello storico e magistrale risottoai funghi e formaggi dolci dimontagna non si può dire altroche è uno dei migliori risotti chesi possano mangiare in tutto ilPaese. Mentre le rane saltate alburro, prezzemolo e aglio sonoun omaggio alla grande cucinafrancese. A governare la sala ladolce Daniela, «graziosa e miste-riosa» come Constance Bona-cieux, la giovane amata da d’Ar-tagnan. Col suo tocco femminile,Daniela sigilla, nell’equilibrioperfetto, la sosta al Miramontil’altro. In fatto di vino, a tantaopulenza di cucina si può rispon-dere solo con altrettanta. E quin-di con un Corton-Charlemagnedi Jean François Coche-Dury:uno dei più grandi Pinot noir delmondo. Buccia di cedro e pom-pelmo mischiata a piccoli fruttirossi al naso; soffusa mineralità,tannino levigato e perfetta acidi-tà in bocca, per un capolavoroenologico che non conosce fine.Solo una folle speranza di piace-re assoluto? No, perché «non cisono folli speranze se non per glisciocchi»!

BvS: il ristoro del buon lettore

delle grandi vetrate a bovindo,nella vaga perfezione del giardi-no che lo circonda, promana at-mosfere di quiete e rilassatezza.Tanto capace ai fornelli quantod’Artagnan nel maneggio dellaspada, Philippe affronta la sfidacon coraggio: perché «solo il co-raggio incute rispetto, anche fra inemici». Una sfida che, da quasivent’anni a questa parte, si rinno-va e viene vinta giorno dopogiorno. La terrina di fegato gras-so d’oca, cipolle, patate e sgom-bro affumicato può lasciare, sullacarta, perplessi: «ma all’apparen-

GIANLUCA MONTINARO

Ristorante Miramonti l’altroVia Crosette, 34Costorio di Concesio (Bs)Tel. 030/2751063

Il moschettiere della cucinaAl Miramonti l’altro, con Philippe Léveillé e i suoi grandi piatti

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Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione

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