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LA CITTÀ - ilsecondorinascimento.it · LA SCOMMESSA DELLA COMPLESSITÀ TRIMESTRALE - N. 40 -...

Date post: 02-Nov-2020
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LA SCOMMESSA DELLA COMPLESSITÀ TRIMESTRALE - N. 40 - Settembre 2010 - Spedizione in abb. post. 45% - Legge 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 Filiale di Modena - Tassa pagata - (Contiene 1 i. p.) - Euro 5,00 LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO LA CITTÀ DEL SECONDO RINASCIMENTO ALBERONI ASPIRO BALLOTTA BOFFELLI BRIGATO CANÈ COSMO DALLA VAL FERRARI GIANNELLI MÀJZOUB LONGATO QAJAR NORRIS PASSINI PILLITTERI POLI RIGHETTI SABA SARDI SEN SINI TIOZZO ZACCANTI
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  • LA SCOMMESSA DELLA COMPLESSITÀ

    TRIMESTRALE - N. 40 - Settembre 2010 - Spedizione in abb. post. 45% - Legge 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1Filiale di Modena - Tassa pagata - (Contiene 1 i. p.) - Euro 5,00

    LA CITTÀDEL SECONDO RINASCIMENTOLA CITTÀDEL SECONDO RINASCIMENTO

    ALBERONI

    ASPIRO

    BALLOTTA

    BOFFELLI

    BRIGATO

    CANÈ

    COSMO

    DALLA VAL

    FERRARI

    GIANNELLI

    MÀJZOUB LONGATO

    QAJAR

    NORRIS

    PASSINI

    PILLITTERI

    POLI

    RIGHETTI

    SABA SARDI

    SEN

    SINI

    TIOZZO

    ZACCANTI

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    Sergio Dalla Val

    Caterina Giannelli

    Marco Poli

    Gabriele Canè

    Paolo Pillitteri

    Amartya Sen

    Carlo Sini

    Francesco Saba Sardi

    Daniele Passini

    Giovanni Ferrari

    Giovanni Zaccanti

    Gianni Alberoni

    Antonio Brigato

    CiroLorenzo Màjzoub Longato Qajar

    Marco Ballotta

    Kate Norris

    Angelo Tiozzo

    Simone Cosmo

    Anna Aspiro

    Simone Boffelli

    Andrea Righetti

    La complessità del terzo millennio

    La novità assoluta viene dall’ascolto

    Non è vero e non ci credo

    Le falsità e le verità che stanno emergendo

    Immagini, simulacri e inganni nel cinema e nella comunicazione

    Complessità e identità

    La libertà, l’etica, la finanza nell’era della comunicazione

    Parola, parole, potere

    I risultati del modello cooperativo nella crisi

    Dal confronto nuove idee per il settore della plastica

    Proseguire con prodotti italiani di qualità

    Con la crisi occorre investire

    L’arte nelle nostre case con l’affresco digitale

    Una rivoluzione intellettuale nel campo immobiliare

    La geotermia: un’occasione per l’occupazione giovanile

    L’inglese per le aziende: formazione, non solo didattica

    Un viaggio, un’esperienza

    Integratori di qualità per la nostra salute

    Quando l’odontoiatria è arte del sorriso

    Aria pulita e sana in casa con le nanotecnologie

    La parafarmacia per una terapia personalizzata

    L A S C O M M E S S A D E L L A C O M P L E S S I T À

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    Questo giornale convoca intellettuali, scrittori, scienziati, psicanalisti, imprenditori sulle questioni nodali del nostro tempo epubblica gli esiti dei dibattiti a cui sono intervenuti in Emilia Romagna e altrove, per dare un apporto alla civiltà e al suo testo.

    Registrazione del Tribunale di Bologna n. 7056 dell’8 novembre 2000TRIMESTRALE, SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALEArt. 2 - comma 20/B - Legge 23/12/96 n. 662Pubblicità inferiore al 45%, a cura dell’Associazione Il secondo rinascimentoIscrizione al Registro Nazionale della Stampa n. 11021 e al ROC n. 6173Numero quaranta. Stampato nel mese di settembre 2010, presso Poligrafico Artioli S.p.A., via Emilia Ovest 669 - 41100 Modena

    EDITORE: Associazione Culturale Progetto Emilia RomagnaDIRETTORE RESPONSABILE: Sergio Dalla ValREDAZIONE E ABBONAMENTI:Bologna - via Galliera 62 - 40121, tel. 051 248787; fax 051 247243Modena - via Mascherella 23 - 41100, tel. e fax: 059 237697Sito Internet: www.ilsecondorinascimento.it - [email protected] Internet: www.ilsecondorinascimento.it - [email protected] DI REDAZIONE:Agnese Agrizzi, Francesca Baroni, Roberto F. da Celano, Ornella Cucumazzi, Caterina Giannelli, Carlo Marchetti, AnnaMaria Palazzolo, Silvia Pellegrino, Simone Serra, Anna Spadafora.EQUIPE ORGANIZZATIVA:Daniele Borin, Pasquale Petrocelli, Silvana Rubini, Panteha Shafiei, Mirella Sturaro.

    In copertina: Marco Castellucci, Lo studio, 1990, acquerello su carta, cm. 23x29. Opera pubblicata per gentile concessione del Museumof the Second Renaissance, Villa San Carlo Borromeo, Milano Senago.

  • Perché le cose si complicano? Tuttosembrava procedere in modo coeren-te, univoco, sistemico: una vita di calco-li a somma zero, di conti che tornano,ogni cosa poteva trovare una sistemazio-ne. Certo, ogni tanto qualche cedimento,qualche indizio di crisi, ma poi tutto siaggiustava, in modo organico, funzio-nale alla totalità. C’erano le equazioninon lineari per fronteggiare il caos, isistemi autorganizzantesi di Ilya Prigo -gine, la teoria morfologica per le cata-strofi di René Thom e anche il battito diuna farfalla in Brasile era preso nell’in-sieme, da quando Edward Lorenz loaveva reso responsabile di una trombad’aria nel Texas. Tutto è collegato, tuttofa sistema, tutto si tiene. Tao e fisica sipotevano convertire l’uno nell’altro el’economia, anche con la teoria dellaretroazione positiva di Brian Arthur,poteva avvalersi della biologia e dellescienze cognitive per spiegare l’impreve-dibilità degli eventi. O così molti crede-vano, prima della crisi planetaria.

    Interazioni, compatibilità emergenti,assemblaggi di elementi, facoltà diautor ganizzazione: ecco la complessitàdella fine del XX secolo, che mira a uni-ficare, a fare sistema. Complessità del-l’uno, in cerca di equazioni che, ancor-ché non lineari, pretendono di algebriz-zare la vita e la sua complessità. È undiscorso sulla complessità, che nega lacomplessità della parola, giungendo aun neodeterminismo. Come unificare glielementi della parola, la complessitàdella vita? La parola si staglia sul caosoriginario, che non è la complessità: èvirtù del principio della parola, che nonpuò essere sistematizzato, ma nemmenosottoposto a morfologia. Come il caos,anche l’aria, la libertà, l’integrità sonovirtù del principio della parola, senzapiù bisogno di sostanza o di soggettività

    su cui fondarsi. Queste virtù del princi-pio investono ciascun aspetto della paro-la.

    Secondo l’idea di unificazione, le coseprocedono da un’unità e devono ritorna-re, in modo circolare, all’unità. Magariaffastellando e collegando tutto contutto, come nella grottesca lapide citatain questo numero da Marco Poli, o addi-rittura con la manipolazione storica,come spiega Paolo Pillitteri. Solo sedevono essere unificate o sistematizzate,le cose risultano complicate e, dopo ilcrollo delle ideologie, hanno bisogno dimorfologia, semiologia, psicologiacognitiva per trovare un ordine comesintesi superiore o emergente. Così lacomplessità diverrebbe una sfida, diver-rebbe complessità sociale, ovvero compo-sizione di relazioni, di conflitti o di com-petizioni, all’interno e all’esterno dellafamiglia, dell’impresa, della società.

    La complessità avanzata dalla cifre-matica non sta nel principio dell’apertu-ra, procede dall’apertura, dal due origi-nario: è procedura per integrazione, nonper unificazione. Procede dall’equilibriocome modo dell’apertura, non devemantenerlo o dissiparlo. Già Freudandava verso questa accezione di com-plessità introducendo il termine “com-plesso”, che poi è stato inteso come pato-logia da riportare a sistema, con tantecomplicazioni sistemico-relazionali.

    Con la scienza della parola, il com-plesso dissipa l’idea di sistema, sottoli-nea l’esigenza di una clinica non patolo-gica, clinica come piega delle cose che sidicono e si fanno nella parola. Già l’eti-mo di complessità (dal greco plékein)marca la sua prossimità con il terminepiega. In che modo le cose che si fannotrovano una piega? In che modo giungo-no alla semplicità? La complessità assi-cura che le cose che si fanno non avran-

    no contrattempi, che riescono le cose chesi fanno secondo l’occorrenza. Nessundeterminismo, la complessità è pragma-tica, segue al tempo come taglio, comedivisione, che interviene nel fare: facen-do, le cose non si uniscono dunque nonsi complicano, bensì si dividono e, divi-dendosi, si piegano, fino alla moltepli-cità e alla semplicità. Togliendo il tempodal fare, il fare non incontra nessunapiega, non fa una piega: ma proprio allo-ra tutto si complica e occorrono moltecomplicità, algebriche e geometriche.

    La complessità esige l’aritmetica deltempo. Niente complessità senza iltempo, dunque senza il fare. Per questola complessità abita la scommessa, nonla sfida. Nulla è già dato, già scontato oacquisito: la scommessa pragmaticaesige dispositivi organizzativi, impren-ditoriali, finanziari, avanza una com-plessità che non si sottopone a cognizio-ne e sistematizzazione, perché è narrati-va, lungo l’ascolto con cui le cose proce-dono per integrazione. Una complessitàche non si limita alla non linearità maesige la spirale, promuove una rivolu-zione non circolare, il rivolgersi dellecose verso la qualità.

    Come constatiamo dalle interviste agliimprenditori pubblicate in questonumero, questa complessità del terzomillennio esige il racconto, la narrazio-ne, la scrittura dell’impresa, non la suavisibilità, magari attraverso i socialnetwork, lampade di Aladino per glisprovveduti. Nessun coach, nessuncounselor per questa complessità dainstaurare, con cui nulla è da eliminareo da assimilare, secondo l’idea di bene:ciascuna cosa entra nel viaggio dell’im-presa, nel suo testo, nel suo palinsesto distrati infiniti. La complessità assicura lamemoria e la scrittura dell’impresa, ècomplessità intellettuale: per l’impren-ditore la difficoltà e la complessità, quin-di anche la specificità dell’itinerario,dipendono dall’assenza di deroga allaquestione intellettuale. Come per cia-scuno. Così la farfalla può volare senzapiù paura di causare un tromba d’arianel Texas.

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    SERGIO DALLA VALpsicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

    LA COMPLESSITÀLA COMPLESSITÀDEL TERZO MILLENNIODEL TERZO MILLENNIO

  • Come si scrive la storia? Chi lascrive? E con quali strumenti?Ce lo racconta Paolo Pillitteri nel suobel libro, pubblicato da Spirali, Non èvero ma ci credo. Immagini, simulacri einganni, in cui illustra casi eclatantidi manipolazioni fotografiche ecinematografiche, talora note, spes-so mai raccontate, ma sempre tal-mente false da sembrare vere eentrare nei libri di scuola. Come, peresempio, la foto simbolo della rivo-luzione d’ottobre, l’Assalto alPalazzo d’Inverno nel 1917 o la fotosulla breccia di Porta Pia, fino allapropaganda cinematografica delventennio fascista e prim’ancoraquella dei filmati di Stalin e Lenin,esperto nell’arte della “smaterializ-zazione” dei suoi amici e oppositoriprima in foto e poi nella realtà. Perconcludere con la recente cinemato-grafia, che ha offerto letture ideolo-giche come il film Il divo di PaoloSorrentino o come la fiction sullafigura di Enrico Mattei. Per non par-lare dell’iconografia su Aldo Moro,che trova conferma in un falso stori-co perfino a Maglie, la sua città: quiMoro, in una scultura, è ritratto conuna copia dell’“Unità” sotto il brac-cio.

    Con questo libro, il contributo diPaolo Pillitteri non sta soltanto nelraccontare la verità storica deglieventi che hanno accompagnatol’Italia negli ultimi cinquant’anni,ma anche nella lealtà intellettualecon cui interroga la comunicazionecinematografica. Pillitteri distingueaccuratamente tra la manipolazioneartistica, che nell’opera è strutturale,e la manipolazione ideologica,tutt’altro che interessante.

    Attento sin da giovanissimo allacomunicazione, Paolo Pillitteri con-segna al lettore un testo con la legge-rezza della scrittura del giornalistaautentico, che non cerca la verità nelsenso comune e nell’ontologia, nénel probabile e nel dimostrabile. Giàdalla fine del ventesimo secolo, la

    democrazia del politically correct ètalmente corretta da operare vere eproprie correzioni, quando non sonoepurazioni, ideologiche. Correzionio manipolazioni?

    Se il ventesimo secolo passa allastoria come quello delle dittatureche hanno negato la libertà diespressione e di stampa, il ventune-simo sembra consegnarci il trionfodelle libertà. Ma di quali libertà sitratta? Troppo spesso è la libertàd’infangare, di esporre al pubblicoludibrio, fino alla messa all’angolodelle voci fuori dal coro, in modoche sia fatta giustizia: ovvero che ilcondannato mediaticamente, primache giudizialmente, sconti la suapena nel silenzio. Nell’as sordantepanorama mediatico assistiamo,quindi, a un nuovo regime, che miraa abolire la differenza e la varietà,segnatamente di pensiero, per esem-pio, negando o manipolando ildibattito, la riflessione critica e, peg-gio, demonizzando chi avvia un’im-presa. “È praticamente impossibiletrovare in un film italiano del dopo-guerra il ritratto del ricco italianoche non sia, al tempo stesso, corrot-to, corruttore, grande evasore,palazzinaro e pure faccendiere”,nota Pillitteri a proposito di un filmdi Dino Risi. Come non rilevare chenella cinematografia italiana, in par-ticolare, non c’è un solo film in cuisia valorizzata la figura dell’impren-ditore, costantemente descrittocome se il suo operare fosse finaliz-zato esclusivamente a un personaletornaconto. Tras curando che il pro-fitto delle imprese nulla toglie, masemmai aggiunge, al profitto dellacittà, che poggia sulla varietà e sulladifferenza. Non la differenza trasoggetti o dei sessi, ma la differenzache viene dalla struttura della paro-la originaria, della parola libera, chenon cerca coperture.

    Perché scommettere sulla parolain un mondo in cui regna l’egemo-nia dell’immagine? Niente di più

    falso della credenza che investirenella visibilità comporti investirenell’immagine. L’immagine non è lavisibilità. Visibile è ciò che è fisso,che esclude la novità perché nontiene conto della constatazione chele cose procedono dall’apertura ori-ginaria, dal due originario. Dal -l’apertura originaria procede ildispositivo di accoglienza, cheinstaura l’ascolto: dove le cose s’in-tendono, quindi si scrivono, giungo-no a riuscita.

    Il bello dell’immagine è che èsemovente e altra, mai fissa, maichiusa. L’inganno è costitutivo del-l’immagine proprio perché semo-vente e non univoca. L’immaginediviene acustica, si ode, quando pro-voca, questiona, quando cioè c’èparola. Nell’epoca della comunica-zione diretta è prassi omettere laprovocazione, la scommessa. Madove sta l’incontro se è evitata lascommessa? Come giungere allavendita se l’immagine è sorda? Lalezione della pubblicità, che scom-mette non sulla fine del tempo, masull’infinito dell’impresa, si enunciasempre per una scommessa sull’in-telligenza che poggia sull’ascoltonon sul luogo comune, sulla sordità.

    La memoria e il racconto consen-tono che le cose che si affrontanonella parola trovino una piega per-ché la complessità, propria del fare,risulti occasione per nuove combi-nazioni, per l’invenzione di nuovidispositivi. Se l’ascolto è negato,invece, le cose sono fisse, prese nellacomplicazione. L’impresa che fa leprevisioni, che procede dalla visioneanziché dall’ascolto, chiude. Lavisione si fonda sull’idea che le cosesiano stabili, elude quindi l’audaciae il rischio costitutivi di ciascunaimpresa che si attiene alla logicaparticolare.

    Scommettere sulla parola, sulragionamento, che non è la dimo-strazione o la visione, e procede perastrazione, comporta che la scom-messa non sia sull’alternativa, sullafine del tempo. La scommessa dellacomplessità: non c’è alternativa allariuscita. Pertanto, sponsor è chicoglie l’occasione per divenire inter-locutore di una scommessa giungen-do alla cifra della sua impresa, alvalore assoluto.

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    I testi di Caterina Giannelli e seguenti, fino a pag. 16, sono tratti dal dibattito Non è vero ma ci credo. Quando il cinema e i media mani-polano la nostra storia (Hotel Europa, Bologna, 29 aprile 2010).

    CATERINA GIANNELLIgiurista, cifrematico, presidente dell’Istituto culturale “Centro industria”

    LA NOVITÀ ASSOLUTALA NOVITÀ ASSOLUTAVIENE DALL’ASCOLTOVIENE DALL’ASCOLTO

  • Voltaire diceva che la storia è ilracconto di fatti ritenuti veri,mentre le fiabe sono il racconto difatti ritenuti falsi. Non è semprecosì, la storia è scritta almeno duevolte, la prima dai vincitori, laseconda da chi vuole fare luce suvicende più o meno oscure, masoprattutto deformate dalla propa-ganda. Purtroppo, ancora oggi nonmanca chi usa la storia come ancelladella propaganda a tempo pieno.

    Per esemplificare farò riferimentoa un recentissimo e poco noto “caso”bolognese. Si tratta di una lapide checiascuno può leggere alla “Bolo -gnina”, il cui testo è il seguente: “Il12 novembre 1989, tre giorni dopo lacaduta del muro di Berlino, nel 45°anniversario della battaglia quiavvenuta, Achille Occhetto annun-ciò il cambiamento politico cheprese il nome di Svolta della Bo -lognina. La Germania, sconfitta dagliAlleati contro il nazismo, smembra-ta dalla guerra fredda, si riunificavasenza ostacoli e in pace, anche gra-zie al rifiuto del presidente sovieticoMichail Gorbaciov di usare la forzacontro la volontà popolare. Gli 11partigiani della Bolognina, caduti inbattaglia o fucilati dai nazifascistinel 1944, non morirono invano. Illoro sacrificio ci ha lasciato unmondo migliore. Nel loro ricordosalutiamo la liberazione dal nazifa-scismo, la democrazia e la costitu-zione della Repubblica Italiana,sicuro baluardo di pace e di progres-so in Europa e nel mondo”.

    Molti potrebbero pensare che sitratti di una delle solite lapidi affisseanni fa, all’epoca, appunto, dellaSvolta della Bolognina e dettate dallacultura comunista più ortodossa egramsciana. Invece risale a pochimesi fa, al 15 novembre 2009, quan-do era sindaco di Bologna FlavioDelbono che mai è stato iscritto alPCI, al PDS o DS. Chi firma questalapide? L’ANPI di Bologna, ilComitato antifascista, il QuartiereNavile e il Comune di Bologna.

    Le lapidi sono importanti perricordare chi ha vissuto, chi è morto,chi ha abitato o ha lasciato un segno

    in un luogo della città. Questa lapi-de, invece, è anomala, è un minidocumento politico: apparentemen-te confusa e assurda, segue una logi-ca politica ben precisa. O meglio,lancia il solito messaggio: il filo chelega resistenza, liberazione, repub-blica, costituzione, democrazia, li -bertà e pace altro non è se non il PCI,le sue “svolte” e, addirittura, l’URSSdi Gorbaciov che, bontà sua, non haritenuto di dover usare “la forzacontro la volontà popolare”, secon-do le parole scolpite nella lapide.

    D’altronde, l’uso politico e propa-gandistico della storia è una prassinon nuova: il passato è spesso terri-torio di escursioni strumentali daparte di coloro che sono animati dauna volontà pregiudiziale e ideolo-gica e non dalla serena passione perla ricerca.

    Il libro di Paolo Pillitteri Non è veroma ci credo (Spirali) ci racconta diuna schiera di registi, attori, storici egiornalisti, che ha svolto una funzio-ne di copertura e avallo politico piùche di carattere culturale: quelli cheerano giustamente definiti “intellet-tuali organici”. Esistono ancora,eccome, e ad essi si sono aggiunti igiornalisti televisivi. Gli “intellettua-li” degli anni passati li paragono aDaniele da Volterra, noto come ilBraghettone, perché aveva messo lebraghe al Giudizio universale percoprire i nudi. Costoro hanno sem-pre voluto coprire le verità più sco-mode, addirittura falsificando docu-menti e fotografie; come è il caso delmassacro di Katyn, in Polonia.Ebbene, Pillitteri ne parla nel suolibro e proprio oggi, 29 aprile 2010, “Il Corriere della Sera” pubblica idocumenti che attestano che Beriaraccomandò di “applicare la massi-ma pena, la fucilazione, per 14.700ex-ufficiali polacchi, funzionari,latifondisti, poliziotti, spie e gendar-mi, e 11.000 membri di diverse orga-nizzazioni di spionaggio, latifondi-sti e dirigenti”. Le firme? A partiredal grande padre, Stalin, passandoper Molotov, Mikoyan, Beria e altri.Insomma, solo dopo sessantacinqueanni conosciamo la verità storica che

    smentisce il contenuto di quella lapi-de collocata dai sovietici che recita-va: “Qui giacciono i corpi martoria-ti, fucilati vigliaccamente dai soldatinazisti”. Se un giornalista comeGiampaolo Pansa avesse deciso discrivere un libro a partire da queidocumenti, tutti sarebbero statipronti a dargli dello “sporco revisio-nista”. Ma, siccome sono “Il Corrieredella Sera” e il sito del governorusso a riportare le fonti tra virgolet-te, l’opera di revisionismo l’ha fattala storia con la S maiuscola, che si èpersonificata improvvisamente inun ravvedimento del governo diMedvedev. Curiosa è la coincidenzache questa rivelazione abbia a chefare con la caduta dell’aereo su cuiviaggiava il presidente dellaPolonia. Speriamo che altri docu-menti si possano conoscere senzache cadano altri aerei.

    La mia preoccupazione è rivoltaalle nuove generazioni, che dovreb-bero apprendere da un corpo docen-te non sempre all’altezza della suadelicata funzione, e in alcuni casiapertamente orientato, con la com-plicità di libri di testo faziosi, a unaformazione di parte dal punto divista politico. A ciò si aggiunga ilfatto che i giovani non sono solleci-tati alla conoscenza, ma piuttostosono vittime dell’informazione, chesicuramente è importante ma nonsufficiente, perché attraverso l’infor-mazione non si può costruire lacapacità critica, che è la vera culturada trasmettere loro. Libri come quel-lo di Paolo Pillitteri sono una bocca-ta d’ossigeno perché ci consentonodi fermarci a riflettere. Io vi consi-glio di leggerlo con attenzione, disorridere per alcune cose e di ama-reggiarvi per altre, magari perché inalcune delle situazioni descritte nellibro anche noi eravamo caduti nellatrappola che ci era stata tesa: ci ave-vamo creduto. E non era vero.

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    MARCO POLIstorico, scrittore

    NON È VERO E NON CI CREDONON È VERO E NON CI CREDO

  • IL VALORE DELL’IMPRESA...

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  • Sono rimasto molto colpito dalladovizia di particolari con cuisulla lapide dedicata alla Svolta dellaBolognina, come ha sottolineatoMarco Poli, si ricorda come Occhettoabbia “liberato l’Italia e unito le dueGermanie”, tanto più se penso, percontrasto, a un’altra lapide: quelladedicata ad Aldo Moro in via Fani.Chi la legge, non capisce di cosa siamorto, per un raffreddore o perchétravolto da un’Ape che distribuiva ilpane; si sa solo che è morto, ma nonsi dice se ci sia stato qualcuno che hacausato la sua morte.

    La mistificazione e la falsificazio-ne non sono solo dell’immagine, maanche dei testi, e nella storia ci sonosempre state anche quando non esi-stevano il cinema e la televisione.Ma non rimpiango i tempi in cuic’era chi considerava alcuni stru-menti come portatori della verità,non credo che fosse un grandemondo quello in cui la verità visibi-le e sostanziale era quelladell’Istituto Luce o dei notiziari diregime. Dico questo perché oggi,pur nella superficialità che MarcoPoli denunciava, abbiamo l’oppor-tunità di vedere e di comprenderemolte cose, fra cui tante falsità mistea tante verità che stanno emergendo.Il mondo che sogno è il contrario diquello evocato dal titolo del libro diPaolo Pillitteri Non è vero ma ci credo:da informatore, sogno un mondo incui si possa dire “non ci credo, ma èvero”, in cui la gente possa leggere edubitare, ma quello che vede e leggeè frutto di un’informazione seria eresponsabile. I torinesi chiamano“La Stampa” “la bugiarda”, però lacomprano tutti i giorni, la leggono eassorbono la sua “verità”. Anche ibolognesi, per certificare che qualco-sa esiste, dicono che l’hanno letta sul“Resto del Carlino”. Viviamo in unmondo che ha bisogno di affermareassolutamente la verità di ciò cheemerge. Certo, questo è molto diffi-cile, anche perché gli strumenti

    odierni sono molto differenti daquelli del passato. Il libro di Pillitteriè straordinario per farci capire,senza generalizzare, la differenza trale precedenti generazioni politiche equelle attuali. Difficilmente un poli-tico oggi sarebbe in grado di scrive-re un libro come il suo, perché glimanca lo spessore culturale, quellacapacità di giocare continui rimanditra il cinema, la storia e la realtà cherende il libro molto gradevole, quel-la ricerca di contraddizioni, paralle-lismi e similitudini, che non possonoessere frutto soltanto di una culturaposticcia.

    L’analisi che compie Pillitteri nelsuo libro arriva fino alla nostraepoca, ma dovrebbe ricominciaredaccapo, perché c’è un mondo del-l’immagine, dell’informazione, dellaconoscenza e della misconoscenza,che ogni giorno alimenta un elencostraordinario di devianze, di devia-zioni e di falsità. È il caso dei socialnetwork, per esempio, dove qualsia-si cosa venga messa in rete diventala verità. Così accade di vedere lascena di un pestaggio che invece èun gioco tra ragazzi. Intanto, finiscesui telegiornali e suscita l’attenzionegenerale finché, dopo sei mesi o unanno, si scopre che era un falso.Oggi abbiamo strumenti straordina-ri per lavorare con le immagini, peresempio, possiamo scattare una fotodi questa sala, trasformarla come sefosse un’arena con ventimila perso-ne e pubblicarla sul giornale. AlloraPillitteri può continuare a scrivere ilsuo libro, aggiungendo che ilmondo va avanti in una condizionedi grande privilegio della conoscen-za e della diffusione delle notizie,ma presenta ancora i vecchi rischi e isoliti agguati alla storia che abbiamovisto nella lapide letta da MarcoPoli.

    Nel giornalismo, i falsi non si con-tano. I grandi reportage, che hannoraccontato il mondo quando nonc’era la televisione, erano veri o

    falsi? Io suppongo che fosse vero il30 per cento, il resto era immagina-zione. All’epoca in cui facevo l’in-viato c’era meno televisione di oggie non c’era internet, ma c’erano tantiinviati del giornale radio che riempi-vano la vasca da bagno del loroalbergo al Cairo, facevano un po’ disciabordio con una mano e poi con ilmicrofono facevano sentire il rumo-re dell’acqua “del canale di Suez”. Inbreve, se ne sono fatte e viste di tuttii colori in tempi diversi.

    Ma per fortuna alcune verità stan-no venendo a galla: è bellissima lapagina citata da Marco Poli a propo-sito del massacro di Katyn. E quantoabbiamo aspettato prima di parlaredelle foibe? In quale libro di storiaera comparsa la vicenda delle foibefino a qualche anno fa, ammesso cheadesso compaia, se non di sfuggita?Adesso alcuni archivi si aprono espesso sono quelli dell’est, in cui sinascondono le maggiori nefandezzedegli ultimi cinquanta-sessant’anni.Ma i documenti sono indiscutibili.

    Io sono ottimista, perché credo cheoggi abbiamo strumenti, come Skyper esempio, che ci consentono diricevere immagini senza commentoda ogni parte del mondo. Si trattad’informazione e non di conoscenza,poi occorre l’approfondimento ecredo che libri come questo debbanocontribuire in questo senso, maabbiamo l’enorme vantaggio, rispet-to alle generazioni che ci hanno pre-ceduto, di avere l’informazione.Certo, non si può trattare l’informa-zione con il metodo del “copia eincolla”, dove può accadere che, sequalcuno scrive su Wikipedia cheNapoleone è nato nel 1945, un milio-ne di temi nel mondo riproducaquesta castroneria.

    Ma intanto non possiamo negareche le informazioni sono disponibili.Poi, vanno approfondite e, cosìcome il cinema e la televisione sonostrumenti sia di conoscenza sia dimisconoscenza, i nuovi media devo-no servire più alla formazione chealla deformazione.

    La speranza è che la scuola e lefamiglie sappiano trasmettere ancheil gusto di approfondire e di verifi-care ciò che è vero e consentano aciascuno di giungere a poter dire:“Magari non ci credo, ma so chequello che vedo in questo caso èvero”.

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    GABRIELE CANÈcondirettore e editorialista del Gruppo “Quotidiano Nazionale” (“Il Resto del Carlino”,“La Nazione”, “Il Giorno”)

    LE FALSITÀ E LE VERITÀ CHELE FALSITÀ E LE VERITÀ CHESTANNO EMERGENDOSTANNO EMERGENDO

  • Dopo gli interventi dei relatoriche mi hanno preceduto in que-sto dibattito (Non è vero ma ci credo,Bologna, 29 aprile 2010), mi restasolo da aggiungere qualche nota amargine.

    Gabriele Canè ha ripreso il temadella lapide imbroglio, che in viaFani ricorda Aldo Moro, senza direda chi sia stato ucciso. Nel mio libroNon è vero ma ci credo (Spirali), parloanche della statua di Moro che vidi aMaglie e che mi colpì perché glispuntava dalla tasca “L’Unità”.Rimasi assolutamente senza parole:se c’è un uomo alternativo al mondocomunista è proprio Moro, e metter-gli “L’Unità” in tasca è una specie disfregio alla storia. Ma sono arrivatoalla conclusione che la storia in Italiaè stata scritta dalla sinistra, ancheattraverso il cinema, i talk-show equei grandi strumenti di comunica-zione di massa che sono le fictiontelevisive.

    La fiction intorno a Enrico Mattei,per esempio, che è stata vista dacirca dieci milioni di telespettatori,non è fatta male, ma non riporta l’a-

    spetto chiave: Mattei non era soltan-to l’uomo dell’industria statale cheusava i partiti come taxi; per capireMattei, occorre ricordare il suoincontro con De Gasperi, che lochiamò a Roma per chiedergli lascissione dell’ANPI, poiché siapprossimava il voto che avrebbevisto lo scontro tra democristiani ecomunisti. Dopo quella che fu unadelle più clamorose fratture delmovimento partigiano, fino alloraunitario, De Gasperi lo riconvocò aRoma quasi costringendolo a candi-darsi come deputato dellaDemocrazia Cristiana, nelle cui listefu eletto a Milano. Cito episodi chedenunciano il limite di molte fiction,sia di Rai sia di Mediaset, ossia l’as-senza di precisione che occorrequando si narra la storia di grandipersonaggi.

    Più volte mi sono battuto perchéin televisione si raccontassero anchevicende controverse. Per esempio,non siamo mai riusciti a vedere unfilm sul delitto di Giovanni Gentile.Eppure, è uno snodo cruciale,soprattutto per la sinistra, ciò che sta

    dietro all’omicidio di uno dei nostrimassimi filosofi.

    Ma anche il cinema oggi è in crisi,il cinema che ha narrato l’Italia deldopoguerra, soprattutto con la com-media all’italiana, seppure con illimite della satira che “castigatridendo mores”. Ormai ha smesso difare anche questo e resta soltantouna parodia della commedia all’ita-liana, un peggioramento il cuiemblema è il film Il divo, che giungealla macchietta. A me non interessase un regista è di sinistra o di destrae nemmeno se ha ricevuto finanzia-menti dallo Stato, ma ciò che dice,come lo dice e perché. Ora, trattarecosì un uomo che ha rappresentatoun segmento di vita del nostro paesesignifica non avere rispetto dellastoria. Andreotti è un personaggiotragico e non comico. A parte il fattoche è il rifondatore del cinema italia-no: come sottosegretario allaPresidenza del Consiglio, ha rimes-so in piedi Cinecittà di cui Mussoliniera stato il fondatore. Dico questoperché, pur non essendo mai statoandreottiano, avverto questoapproccio come offensivo e lesivodella nostra storia: si può essere con-tro Andreotti, però occorre motivarele proprie posizioni, non si può esse-re approssimativi.

    Caterina Giannelli ricordava chel’imprenditore nel nostro cinema èsempre stato presentato come uncapitalista corrotto, corruttore epalazzinaro, perché nel nostro paese

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    PAOLO PILLITTERIscrittore, giornalista, già sindaco di Milano

    IMMAGINI, SIMULACRI EIMMAGINI, SIMULACRI EINGANNI NEL CINEMAINGANNI NEL CINEMAE NELLA COMUNICAZIONEE NELLA COMUNICAZIONE

    Da sin.: Gabriele Canè, Sergio Dalla Val, Caterina Giannelli, Paolo Pillitteri, Marco Poli

  • non c’è la visione dell’imprenditoreche troviamo nel resto del mondooccidentale, come colui che crea eproduce, per sé ma anche per glialtri. L’archetipo l’ho ravvisato in unromanzo che ha fatto storia e da cuiè nato un film, Il Gattopardo: nelmomento in cui si narra il passaggiodelle consegne fra il principe diSalina e colui il quale diventerà suosuocero, l’uomo d’affari del paese lacui figlia sposerà il nipote.Leggendo il romanzo, ma anchevedendo il film di Visconti, si notacome la simpatia del regista sia tuttaper l’aristocratico, che non fa nientetutto il giorno, sta a guardare le stel-le e vive di rendita, mentre l’altro èattivissimo, si dà da fare per acqui-stare i beni di cui il principe non sioccupa e si apre la strada per la suc-cessione all’aristocrazia come classesociale decaduta.

    Ma non ci meraviglia questo debi-to del nostro cinema al marxismo, sepensiamo a chi sottoponeva tutte lesue sceneggiature Visconti: le conse-gnava ad Antonello Trombadori, chele leggeva e le portava a PalmiroTogliatti per il visto. Non dimenti-cherò mai quando un giorno all’uni-versità ci fu una lunga discussionesulla scena del ballo nel Gattopardo,che io reputavo troppo lunga, oltrecinquanta minuti. Si alzò un ragazzodicendo che la lunghezza della

    scena era stata calcolata e lesse adalta voce l’opinione di Togliatti pub-blicata su un giornale: “CaroVisconti, mi raccomando, non dareascolto ai critici che ti diranno diaccorciare la scena che mi hai fattovedere in anteprima, la scena delballo, perché è un autentico capola-voro”. Io fui tacciato di anticomuni-smo, ma non sapevo che Togliattiavesse espresso quel parere favore-vole.

    Sergio Dalla Val ha notato unaspetto che mi affascina particolar-mente, l’inganno strutturale dell’im-magine: ne parla tutto il mio libro ea questo proposito mi ha colpito unfilm molto complesso che piace aigiovani, Blade Runner, in cui l’imma-gine sfugge al suo creatore. Questo èil grande tema e la grande metafora:al creatore, al regista, allo scrittore,al narratore sfuggono spesso i pro-pri personaggi, vanno da soli, fino aucciderlo. Questo perché si sovrap-pongono alla realtà, la condiziona-no, diventano addirittura unaminaccia per la realtà stessa. È quel-lo che succede nel cinema.

    Ma vorrei concludere con unariflessione su una parola che sta vin-cendo faticosamente: il “revisioni-smo”. Marco Poli in questo dibattitoha rilevato che Giampaolo Pansaviene tacciato spesso di essere revi-sionista e viene accusato di avere

    stravolto la storia. Per fortuna abbia-mo un giornalista come Pansa, gra-zie al quale, dopo tanto tempo,abbiamo una lettura di un periododella nostra storia che prima venivatrattato assolutamente allo stessomodo della lapide di cui parlavaPoli, un esempio contorto ma anchelimpidissimo del modo di racconta-re la nostra storia, mettendo insiemecose che non possono stare insieme.Il revisionismo è qualcosa di cuiabbiamo bisogno e forse è iniziataquesta pagina nuova, a cui spero diavere dato un piccolissimo contribu-to. Voglio soltanto ricordare e fareun omaggio a un grande personag-gio della vostra terra emiliana,Giovannino Guareschi, l’unico chesi è occupato del massacro di Katyn,l’unico che ebbe il coraggio di dire,con le parole di Don Camillo aPeppone, durante la campagna elet-torale del ‘48: “Quando avrai unmomento di riflessione, pensa aKatyn, pensa a quello che avetefatto”. Ci furono moltissime accusecontro Guareschi – Katyn dovevaessere opera dei nazisti –, tanto chelo stesso Guareschi rimase preoccu-pato e cominciò persino a dubitare.Invece, il tempo gli ha dato ragione.Peccato che, come sempre, la storia èarrivata in ritardo, è arrivata in que-sti giorni. Tuttavia, meglio tardi chemai.

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  • Il debito pubblico elevato sembracostituire un onere gravoso per i paesioccidentali, risultando un freno per laripresa economica. In che misura il debi-to mina i rapporti di fiducia, essenzialiper l’esistenza stessa della finanza edello scambio internazionale?

    Uno degli elementi per cui è cosìimportante affrontare il problemadel debito pubblico elevato è che lafiducia diventa ancora più impor-tante delle considerazionieconomiche vere e pro-prie. L’abbiamo visto nelcaso della Grecia, la cuisituazione è peggiorataper la sfiducia che il setto-re finanziario ha dimostra-to nei confronti del paese.Questa sfiducia ha com-portato che le obbligazionidel paese fossero semprepiù difficili da vendere el’aumento dei tassi d’inte-resse ha aggravato ulte-riormente il problema. Sicrea una situazione in cuiil panico genera panico: acausa del panico e dellasfiducia del settore finan-ziario, i tassi d’interessesalgono, è sempre più dif-ficile ottenere prestiti ecosì chi si sentiva nel pani-co in un primo momentosi sente giustificato. Ineffetti, tutte le misure antideficit che vengono mette-re in pratica oggi sembra-no rivolte a gestire il panico più chela reale situazione della nostra eco-nomia. Di fatto in questo momentola situazione reale mi sembra menodrammatica del panico e dellapreoccupazione che la circondano.

    In una crisi finanziaria che sembraessersi trasformata a tutti gli effetti inuna crisi economica, molti economistitendono a focalizzare l’attenzione nonpiù solo sul PIL e sul deficit pubblico deipaesi, ma sul rapporto fra il deficit pub-

    blico e l’indebitamento delle famiglie edelle imprese, che risulta ancora basso.Qual è la sua opinione a questo proposi-to?

    Ritengo che spesso non si tenganella dovuta considerazione l’inde-bitamento, ma si prenda come riferi-mento unicamente il debito pubbli-co. A mio avviso, il debito pubbliconon tiene conto della situazione del-l’economia moderna in cui le atti-

    vità, commerciali o industriali chesiano, ottengono finanziamenti cherestituiscono nel medio-lungo perio-do, in una situazione che si rinnovaperiodicamente. Un’ondata di pani-co dovuta semplicemente al debitonazionale, se non lo paragona ancheall’indebitamento personale e delleimprese, non risponde a una valuta-zione precisa.

    Al debito pubblico viene attribuitaun’importanza esagerata: è diventa-

    to un problema così grave solo per-ché il mondo e la comunità finanzia-ria lo considerano tale. Dobbiamoricordare che il governo è l’unicaentità che ha il diritto sovrano dicreare fondi, le attività industriali ecommerciali non possono farlo e,quindi, forse dovremmo preoccu-parci meno dell’indebitamentonazionale. L’esperienza degli ultimitre anni ha mostrato come si com-portano le attività economiche, manon dobbiamo dare per scontato cheil loro comportamento sia razionalee sicuro, anzi il problema spesso èl’eccessiva fiducia nei loro confronti

    Quali sono le sue impressioni e previ-sioni sull’attuale crisi economica?Spesso lei ha espresso valutazioni otti-

    mistiche sulla ripresa a par-tire dal prossimo anno...

    Ha ragione nel dire cheho espresso un certo otti-mismo per la situazioneattuale. A mio avviso lacrisi presente è stata cau-sata, negli Stati Uniti, dapolitiche economichegoffe e miopi che hanno,per esempio, abolito moltistrumenti di regolamenta-zione e controllo cheerano sempre stati presen-ti all’interno della politicaeconomica – si pensi allasoppressione degli stru-menti precedentementeutilizzati per il controllodel settore assicurativo.L’ultima eliminazione dimisure di controllo e rego-lamentazione è intervenu-ta a opera dell’ammini-strazione democratica,non di quella repubblica-na, che nel 2000 ha porta-to alla liberalizzazione di

    un settore in cui la speculazione eragià molto presente e ha creato unasituazione d’instabilità. Quindi, èlogico pensare che esistano possibi-lità di ripresa legate a scelte più ocu-late in questa direzione, come staavvenendo nel mercato e nell’econo-mia statunitensi: il paese ha dovutoreagire e tentare di ricostruire lasituazione di fiducia che era andataormai distrutta, per cui c’è statobisogno di una grande dose di sti-

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    AMARTYA SENPremio Nobel per l’Economia 1998, Chair Adviser della Commission on the Measurementof Economic and Social Progress

    COMPLESSITÀ E IDENTITÀCOMPLESSITÀ E IDENTITÀ

    Questa intervista è tratta dalla conferenza stampa che ha preceduto la conferenza tenuta da Amartya Sen il 25 maggio 2010 a Bologna, nel-l’ambito del Programma Internazionale di Sviluppo delle Competenze Economiche e Manageriali, organizzato dal CTC, Centro di FormazioneManageriale e Gestione d’Impresa, e dalla Camera di Commercio di Bologna.

    Amartya Sen

  • moli, tuttora necessaria, per daremaggiore enfasi a tutte quelle misu-re che possono portare a un aumen-to dell’occupazione e alla creazionedi maggiori incentivi. Direi che cistiamo muovendo nella direzionegiusta.

    Cosa pensa della Carta di Lisbona, chepromuove gli investimenti nella forma-zione e nella ricerca? In particolare que-sta Carta insiste sul concetto d’identità,questione che lei ha trattato in modoimportante nel suo libro Identità e vio-lenza.

    Per quanto riguarda il concettod’identità, sono state dette moltesciocchezze. Se consideriamo l’il -luminismo, le istanze scientifichedell’illuminismo europeo hannoconsentito connessioni molto chiaretra paesi diversi come la Francia, laScozia e l’Italia. Ma se consideriamola ricerca scientifica, anche la Cinaha offerto contributi enormi e per lamatematica c’è stato l’apporto deter-minante dell’India e dei paesi arabi.È quindi difficile tracciare i limiti diqueste identità.

    A mio parere, è molto difficilemarcare una distinzione netta fra l’i-

    dentità occidentale e quella orienta-le. Se consideriamo la trigonometriae il concetto di seno da essa indivi-duato, l’origine può essere rintrac-ciata nell’opera di un matematicoindiano che ha coniato il concetto discienza, dandogli il nome di gya.Successivamente, il libro scritto daquesto matematico è stato tradottotre volte in arabo e, nell’800, questaparola indiana è stata trasformata, inarabo, in giva, termine che in quellalingua non ha un significato. Ma,poiché l’arabo non ha vocali, essaveniva scritta come j e v. Nel deci-mo-undicesimo secolo, questa jassunse il significato di cavo, sicchénel 1850 Gerardo da Cremona tra-dusse questo segno con seno, dallatino sinus che ha proprio il signifi-cato di lago, cava, grotta. Questo èsemplicemente l’esempio di una sin-gola parola, ma vale per dimostrareche il concetto di scienza affonda lesue radici sia nel mondo arabo, siain quello indiano, sia in quello italia-no, per cui è molto difficile distin-guere l’identità occidentale da quel-la orientale.

    Per offrire un altro esempio, ricor-

    do che molti indiani ritengono chel’identità occidentale sia materiali-stica e che quella indiana sia più spi-rituale. Però i primi documenti inlingua indiana, risalenti ad alcunemigliaia di anni fa, sono testi di tran-sazioni commerciali, per cui l’asso-ciazione dell’identità indiana con laspiritualità in realtà non è corretta.Dovremmo distinguere dall’identitàle identità “immaginate” di unaciviltà. È vero che, all’interno di unaciviltà, alcuni valori, come quellodella libertà, possono rivestire mag-giore importanza rispetto ad altri.Ad esempio, quando il governofrancese ha deciso di vietare l’usodel burqa in alcuni contesti, si èposto un problema di libertà, non diaccettabilità rispetto all’identitàoccidentale. Libertà è anche vestirecome si vuole, per cui se una donna,sulla base di questa libertà, vuoleindossare il burqa dovrebbe esserepoterlo fare.

    Ma allora dovremmo essere ingrado di capire se si tratti di unascelta libera della persona o di unascelta influenzata da condizionifamiliari e sociali.

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    w w w . s p i r a l i . c o m

  • Per parlare di uno dei punti noda-li della riflessione mondiale – ilrapporto tra scienza, finanza e mer-cato, da una parte, e quello tralibertà e etica, dall’altra – parto dauna citazione di Aristotele, uno deipassi iniziali della Politica: “Chi perle sue qualità intellettuali è in gradodi prevedere per natura comanda edè padrone, mentre chi ha doti ine-renti al corpo per natura deve esserecomandato ad esercitarle ed è natu-ralmente schiavo”. Poi Aristoteleprosegue: “L’uomo è animale piùsocievole di ogni ape o di ogni altroanimale che viva in greggi. Infatti, lanatura non fa nulla senza scopo el’uomo solo tra gli animali ha laparola: la voce è semplice segno delpiacere e del dolore, non a casoappartiene anche agli altri animali.Proprio qui, in effetti, termina la loronatura: avere la sensazione di ciòche è doloroso e gioioso e poterseloindicare a vicenda. Invece la parolaserve a indicare l’utile e il dannoso eperciò il giusto e l’ingiusto, e questoè proprio dell’uomo rispetto aglialtri animali, in quanto egli è l’unicoad avere nozione del bene e delmale, del giusto e dell’ingiusto edelle altre virtù: la comunità diuomini costituisce poi la famiglia ele città”. Ne deriva che: “chi nonpuò entrare a far parte di una comu-nità o non ha bisogno di nulla,bastando a se stesso, non è parte diuna città, ma o una belva o un dio.Per natura, dunque, c’è in tutti lo sti-molo a costituire una siffatta comu-nità: chi per primo l’ha fondata èstato la causa dei maggiori beni.Infatti l’uomo, che, se ha realizzato isuoi fini naturali, è il migliore deglianimali, quando non ha né leggi, négiustizia è il peggiore. La più danno-sa è l’ingiustizia armata e l’uomonasce con le armi necessarie per lasaggezza e la virtù, sebbene possa

    usarle per scopi contrari alla saggez-za e alla virtù. Perciò senza la virtùl’uomo è il più empio e il più ferocedegli esseri, dedito solo ai piacerid’amore e del ventre. Ma la giustiziaè virtù politica perché la sanzionedel diritto è l’ordine della comunitàpolitica; e la sanzione del diritto è ladeterminazione di ciò che è giusto”.

    È impressionante l’importanza diciò che afferma Aristotele, ma cer-chiamo di capire bene cosadice. Anzitutto fa una distin-zione tra la mente e il corpo,partendo, da uomo antico, dalrapporto tra il padrone e glischiavi. Noi non abbiamo piùquesto tipo di relazione socia-le, ma tra la mente e il corpo c’èpur sempre un rapporto. Lamente sa prevedere, il corpodeve eseguire, e questo giàserve a capire che cosa sono lascienza e l’epistemologia. Aris -totele ha già risposto: scienza èsaper prevedere con la mente,saper estendere la presenzaverso il futuro e verso il passa-to, memorizzare la nostra pro-venienza e anticipare il futuro. Ma lascienza è anche un lavoro che si facon il corpo, per cui c’è solidarietàtra il padrone e lo schiavo: entrambihanno lo stesso scopo. Noi abbiamolo stesso scopo: mettere insieme ciòche prevediamo con la mente e ciòche facciamo con le mani. Tutto l’o-rizzonte della scienza e della tecnica,della sapienza e della virtù politica ègià evocato. Ma in che modo il corposi mette al servizio della mente,ovvero in che modo la mente puòprevedere in maniera giusta, corret-ta, secondo il bene e il male dell’in-dividuo, della famiglia, della societàe dello stato? Aristotele fa una preci-sazione: anche gli animali in qualchemisura prevedono, sulla base dellasensazione. E alcuni animali hanno

    anche la voce, qualcosa di simile aquello che l’uomo ha in manieraunica e irripetibile e sovrana, laparola. Ma gli animali hanno soltan-to la voce per esprimere le loro emo-zioni, il dolore, il piacere, la rabbia,l’aggressività, la paura, mentre l’uo-mo fa molto di più: parla, sa dire.

    Dicendo che l’uomo è l’animaleche parla e quindi è l’animale politi-co per natura – perché questo parla-re fonda la famiglia, la società e lostato –, Aristotele ci sta dicendoanche che il corpo umano non è sol-tanto come quello degli animali. Lemani dell’uomo sono guidate dallamente, che s’incarna anzitutto nellavoce. Ma la voce è la prima estrofles-sione, il primo lancio fuori del corpoumano. Infatti, la voce risuona pertutti, torna indietro per me come per

    gli altri, è il primo strumento esoso-matico, come dicono gli antropologi:mentre l’animale è chiuso nella suasensorialità, percepisce, soffre, gode,insegue, ma è circoscritto intorno alcommercio del suo corpo, l’uomoincomincia a uscire dal propriocorpo. Dire che esce dal propriocorpo significa che usa uno stru-mento che gli torna indietro, come laparola, come ciò che non è detto soloa lui, ma è detto a lui perché è dettoa tutti: se io dico “Al fuoco!”, lo dicoper tutti e tutti ci alziamo in piedi. Inquesto caso non esprimo una miasensazione, ma una parola che con-dividiamo. È un primo capitale, unprimo strumento che capitalizziamoin maniera esosomatica; è qualcosache sta là, è il vocabolario mentale

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    CARLO SINIprofessore di Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano

    LA LIBERTÀ, L’ETICA,LA LIBERTÀ, L’ETICA,LA FINANZA NELL’ERALA FINANZA NELL’ERADELLA COMUNICAZIONEDELLA COMUNICAZIONE

    Il testo di Carlo Sini è tratto dalla sua conferenza La libertà, l’etica, la finanza nell’era della scienza e della comunicazione, tenuta alLyons Club Archiginnasio di Bologna il 27 aprile 2010.

    Carlo Sini

  • Le interviste sulla cucina di qualità del Progetto Pizzeria Tonino sono consultabili on lineal sito www.lacittaonline.com

  • che, da quando siamo infanti aquando diventiamo parlanti, sicostruisce nella nostra mente, checosì opera un lavoro attraverso ilcorpo e in particolare attraverso lavoce, un lavoro che è la conoscenza,la previsione. “Andiamo a casa chepioverà”: un animale può percepirloistintivamente, ma certo non puòdirlo, non può farne uno strumentodi vera e propria conoscenza.

    Se poi facciamo un altro piccolopasso, implicito in Aristotele, seimmaginiamo gli strumenti veri epropri (ma già la voce per l’uomo èstrumento, protesi, qualcosa che stafuori dal corpo), gli strumenti comecose costruite dalla voce, che hamodellato con lo sguardo e la manoi primi strumenti dell’uomo e che hacominciato a scrivere nella materiadelle cose le sue idee, le sue visioni,allora siamo di fronte a quella uma-nità che ha evocato Aristotele, che èpiena di virtù. Quando dice virtù,Aristotele non intende la distinzionetra buono e cattivo, ma l’aretè, che ingreco voleva dire “capacità”, la vir-tus latina: l’uomo è pieno di capacitàperché è pieno di strumenti, nascedotato di una strumentazione esoso-matica. E questa strumentazioneesosomatica, che lo potenzia enor-memente, si modella in due passisuccessivi: il primo è quello che noichiamiamo la scrittura del mondo,per cui costruiamo strumenti che cirappresentano collocandosi là dovenoi non siamo; questa è la funzioneuniversale della scrittura – fino allatomba, la scritta sulla tomba, che èper tutte le umanità future che pas-seranno lì davanti – e di qualunquealtro strumento che mi rappresenti emi rimandi, sia io assente o presen-te; poi consideriamo tutti gli altristrumenti che stanno al mio posto apercepire il mondo, dal cannocchia-le alla fotografia, strumenti esoso-matici, che è come se portassero ilmio corpo più in là a ricevere segna-li del mondo per potere interpretarlicon la mente. Questa è un’altragrande strada che apre la scienzamoderna: Galilei, con il cannocchia-le, è il primo a dire che è inutile fareragionamenti sulla luna, occorreguardarla, ma per guardarla occorreuno strumento che opera come se ioandassi più vicino, come se io fossistato trasferito là; noi oggi sappiamoche è vero, che la luna è così come

    Galilei l’aveva vista, anche se nonl’aveva vista con gli occhi, ma attra-verso uno strumento. Il passo suc-cessivo è compiuto non soltantodagli strumenti che si mettono alposto del mio corpo percettivo, per-cepiscono per me, mi trasmettono isegni che la mente interpreterà allar-gando le sue possibilità d’interpreta-zione, quindi di previsione, di scien-za, di conoscenza, ma anche daglistrumenti che sono in grado di rea-gire, che fanno qualcosa in risposta:quelli che noi oggi chiamiamo gliautomi, cioè quegli strumenti chesono modellati, costruiti, congegna-ti, programmati, non solo per riceve-re ma per rispondere, in modo davicariarmi in maniera molto ampia.Sempre di più, la vita vivente del-l’uomo, l’esperienza umana, cheparte dalla mera sensazione e perce-zione dell’animale – patire, soffrire,gioire, fuggire, aggredire –, si estrin-seca, crea nuovi corpi, crea nuoveprotesi della mente. Anzi, la mente èproprio questo creare protesi, legge-re segni, interpretare l’universo, pre-vedere che cosa accadrà in Borsadomattina. Sono le stesse operazioniinferenziali, come si dice nella logi-ca, che avvengono nel nostro estrin-secarci sempre di più in una materiache vorrei definire, all’antica, materiasignata dalla tecnica, signata dallascienza. Sempre di più noi estrinse-chiamo in questi strumenti la nostracapacità di previsione, di scienza, disignoria sul nostro mondo dell’espe-rienza. E questo c’introduce allanostra questione del rapporto trafinanza e libertà.

    Consideriamo le ultime conclusio-ni di Aristotele: la forza dell’uomosta nell’essere dotato di strumentiche l’animale non ha, ma questaforza è pericolosa perché può essereusata a fini differenti dalla giustizia.Questa scoperta di Aristotele puònon sembrare granché, ma è impor-tante che lui si riferisca allo stru-mento. E, a proposito del denaro,che è uno degli strumenti più straor-dinari, come la lingua o l’alfabeto,qual è il suo giusto uso? Mentrealcuni anni fa questa questione erariservata agli studiosi, oggi è diven-tata universale, perché tutti hanno ildito puntato su quello che si chiamail capitale finanziario.

    Prendiamo per esempio la mone-ta, poi torneremo a Aristotele. La

    moneta è un grande enigma, ancorairrisolto: da quando, nel 1972,Richard Nixon, presidente degliStati Uniti, dichiara universalmenteche non c’è nessun rapporto tra l’oroe il dollaro – evento epocale nellastoria dell’umanità occidentale –allora è sorta la domanda: qual è ilvalore del denaro? Finché potevamoriportarlo a qualcosa di materiale, aun bene – come dicevano gli econo-misti classici, come diceva giàAristotele – si rispondeva: il denaroè anzitutto un mezzo di circolazioneche sostituisce le merci favorendogli scambi, poi è un’unità di misurae, infine, è un deposito di valore chemetto da parte. Per questo il suofondamento doveva essere unmetallo nobile, raro, facilmente tra-sportabile e facilmente suddivisibi-le, come l’oro e la sua polvere. Maquale valore ha il denaro, e con essole cose, se togliamo l’oro? C’è chidice che il vero problema della crisistia nel fatto che noi non sappiamopiù che cosa ci garantisce, qual è ilfondamento della fiducia per cuidevo accettare come pagamento unbiglietto di banca, visto che nessunabanca mi darà qualcosa in cambio.E, allora, molti dicono che dobbiamocomprendere che il fondamento deldenaro in realtà non è mai statol’oro, che il vero fondamento è scrit-to in quel gesto nixoniano che glieconomisti sogliono ripetere così:fiat money, questa è moneta, “l’hodetto io”. Ma, allora, pensano costo-ro, ci vuole un’autorità, un’istituzio-ne, che in qualche modo possagarantire che la circolazione mone-taria, prima o poi, faccia quadrare iconti e la liquidità possa tornare inequilibrio. Vi ricordo che nelmedioevo c’erano le grandi fierenelle quali le varie monete doveva-no trovare una loro equiparazione, idebiti dovevano essere pagati e icreditori dovevano essere onorati.Se ciò non si poteva fare, intervenivala moneta del sovrano, la monetadel re, la moneta ideale che non erauna moneta reale, ma un processo disvalutazione: tu mi devi 500, ma seiin grado di pagare solo 400? Io fac-cio una svalutazione, il mio creditosi estingue, e siamo pari, altrimentila circolazione non può ottenere lafiducia di coloro che devono crederein questa moneta che circola. Così,alcuni sostengono che dobbiamo

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  • istituire un potere globale – sarà lasocietà globale, sarà la Banca delleNazioni Unite, sarà un’istituzionenuova – che deve, in qualche modo,garantire la giustezza dei conti e lagiustizia del reddito.

    Un’altra corrente, quella liberale, èostile a questa ipotesi, perché con-traria da sempre a ogni interventostatale o gerarchico sulla moneta esul mercato. Essa sostiene che nonbisogna avere paura, che ci sarannomolte crisi, ma che, prima o poi, ilmercato si aggiusterà da sé. Come?Attraverso l’informazione: se siamotutti correttamente informati sullerealtà economiche che costituisconola realtà finanziaria di ogni paese, diogni scambio, possiamo fare valuta-zioni esatte. Così l’equità monetariaè costituita non dalla sua realtàmateriale, ma dalla sua relazionalitàcon il lavoro umano. Anche questavia è interessante, seppure con i suoidifetti. Mentre la prima è idealistica,nel pensare che ci sia un’autoritàcosì forte da poter decidere comeequilibrare il mercato secondo giu-stizia, la seconda è ottimistica, nel-l’appellarsi alla possibilità di unatotale informazione, il mito tipicodella democrazia occidentale.

    Per mettere subito in luce comequesta ipotesi non funzioni, baste-rebbe fare due considerazioni. Laprima è che il denaro è una merce, lodicono gli stessi economisti liberali.Ma se il denaro è una merce, nonpuò essere anche il criterio attraver-so il quale valutare le merci.Altrimenti ci troviamo in una sortadi circolo vizioso, per cui il mercatooggi è totalmente dominato dallamerce: non importa cosa facciamo,facciamo ciò che rende più denaro.Ed ecco che siamo fuori dalla giusti-zia, tant’è che, riprendendo le anno-tazioni aristoteliche a propositodella voce, oggi non importa quelloche diciamo, basta che diciamo qual-cosa. Ma così non va: dobbiamo direil giusto, dobbiamo dire il vero, nonè possibile che la moneta impazziscanel suo significante vocale e che, peruna sorta di gemmazione, di malat-tia tumorale, produca di per sé ciòche non corrisponde a niente, se nona questa sua capacità di riprodursi.Se la moneta è una merce, attraversoil mercato non l’aggiusterete, masarà la moneta che vi trascinerà,come sta già succedendo.

    La seconda obiezione è ovvia: cosac’è di più mercificato dell’informa-zione? Anche se l’informazionefosse lo strumento attraverso ilquale sostituiamo il fondamentonaturale della moneta e lo aggancia-mo alla corretta comprensione delleinfinite relazioni che operano inogni transazione economica e anchese io fossi correttamente informato,l’informazione rimarrebbe a suavolta una merce. E se la stessa infor-mazione è comprata e venduta,anche fare informazione è mercifica-re il messaggio e dunque determina-re gli orientamenti del consumatore.Ma allora è evidente che non abbia-mo più un punto solido al qualeagganciarci e siamo allo sbando.

    Tra queste due ipotesi, non si trovauna via d’uscita. Possiamo direqualcosa attenendoci al nostroAristotele, che ha detto che gli stru-menti sono il luogo della virtù del-l’uomo, in quanto essere sociale, inquanto costitutivo di una vita dellospirito. Ma al tempo stesso proprionell’uomo questi strumenti si per-vertono. Ha nominato il sesso, i pia-ceri del ventre e l’avidità umana, chenon ci sono nella vita dell’animale.Nella descrizione di Aristotele lavera differenza tra l’essere umano egli animali, la vera virtù non sta nelfatto di avere costruito tante armi,tante parole, tanti strumenti esoso-matici, ma di avere costruito le armi,le parole, gli strumenti che lui defi-nisce giusti, cioè tali da discriminareil bene dal male, non in un sensomoralistico, ma nel senso di ciò cheè buono e ciò che è cattivo per la vitasociale dell’uomo. Lo strumento èpotente, ma solo per fare meglioquello che l’animale già fa, cioèvivere e riprodursi, visto che gliesseri viventi, non essendo divini,possono acquisire l’immortalità sologenerandola nei loro figli. Siamopartiti dall’animale che ha un corpopercettivo: l’uomo è migliore nellamisura in cui lo estende, lo espande,diventa un sapere, diventa un lavo-ro che produce i suoi capitali, manella generazione della vita, dellavita vivente, non in questa assurdagemmazione autonoma.

    Nell’uomo ci sono due stati benprecisi: la vita vivente eterna – vitaanimale, ignara di essere mortale – ela vita vivente sapiente – vita cheattraverso la parola avverte la morte

    e si riunisce in società per combatte-re la morte non della società, ma diogni singolo. Aristotele pone l’istan-za di questa vita, e in tal modo non èdistante dalla visione sociale diConfucio, tanto che c’è da aver fidu-cia che la Cina e gli Stati Uniti, l’o-riente e l’occidente possano capirsi,essendo politicamente simili, solo sesi affrancano da una sorta di aliena-zione del denaro per il denaro, dellaquantità degli strumenti per laquantità degli strumenti. C’è una viadi uscita possibile che stanno stu-diando in Francia, ma anche inItalia, alcuni economisti comeMassimo Amato alla Bocconi.

    A proposito d’immortalità, ildenaro è certamente una merce, maè una merce che, da quando è statotolto il divieto dell’usura, produceinteressi, potremmo dire che fa figli,per questo è sconvolgente. Allora,lancio una provocazione, appellan-domi a Aristotele: se fa figli, devemorire, altrimenti diventa il nostropadrone, diventa lui il dio. Se figlia,come noi siamo mortali, guadagnia-mo l’immortalità attraverso la gene-razione, come diceva Aristotele,anche il denaro deve morire. Nonvoglio dire che deve scomparire per-ché è uno strumento irrinunciabile,con una potenza e una virtù insosti-tuibili, sarebbe una perdita assoluta,regrediremmo in condizioni penose;voglio dire che dobbiamo agganciar-lo, come dovremmo fare con gli altrisegni, alla sensatezza della comuni-cazione, dobbiamo riportare lamateria dei segni nell’ambito dellasua accidentalità, senza continuarenella tentazione di fare della materiadei segni una specie di feticcio, unnuovo idolo. Queste cose vannodette, concordate, immaginate,strutturate, attraverso un lavoro digrande finezza intellettuale, che nonpuò essere fatto sotto la spinta con-tingente degli interessi locali, dellecatastrofi locali, anche se, come dice-va il grande filosofo e poeta tedescoSchiller, “la politica, lo stato è unanave che bisogna riparare mentreva”, non possiamo fermarla, perchésennò andiamo a fondo.

    Per riprendere Aristotele, c’è unpo’ di lavoro da fare perché “ilsignore” mente sia un buon padronedello “schiavo” corpo e lo facciavivere in maniera degna di un esse-re umano.

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  • Partiamo da lontano. L’uomo chedefiniamo civilizzato – abitantecioè, nella polis, la città, all’inizioscongiuro contro la sylva, la selvag-geria senza luoghi e senza dei: l’uo-mo inventore dell’agricoltura, delladomesticazione e dell’allevamentodegli animali, della divinità esoprattutto del potere e della sovra-nità – è rimasto neolitico, faticosa-mente intento a elaborare artifici, inprimo luogo macchine, per sottrarsiall’angoscia.

    Ma la suprema invenzione delneolitico è stata la favola che è l’af-fermazione della necessità del pote-re, lo strumento didattico che inse-gna l’impossibilità di muoversi nelmondo senza la bussola del dominioe delle sue metastasi, il potere politi-co, il potere religioso e la perennepreparazione e mobilitazione allaguerra.

    E tutto ciò che per noi modernineolitici è l’equivalente del la “real -

    tà” consiste nella congerie di favoleche fa da schermo semiopaco fra noie la visione poetica. È la nostraimpossibilità di pensare al di là delpensiero, questa “radiazione oscu-ra” (Shelling).

    L’esistenza umana che è la vitadell’intelletto – l’impossibilità, per-sino nel sonno di trattenere-esclude-re-il pensiero, l’impossibilità di acce-dere al vuoto, di andare nell’inesi-stente al-di-là – ci confina nelle paro-le come res, come oggetti fabbricantidi altrettanti oggetti, escludendocidalla rivelazione, che è il riconosci-mento della Parola che rampollaspontanea in noi: esclusione delmito, dunque, della sua duttilità, epertanto l’obbligatorietà del SistemaLetteratura che poi è il Sistema delPotere, della conoscenza tramite lagrammatica e la sintassi, l’estremadifficoltà e rarità di accedere allaScrittura, all’invenzione senza obbe-dienze, senza autocensure.

    Il Phanes, l’indefinito apparsoapportatore di luce, delle tradizioniorfiche, la Parola – che non ha origi-ne perché è originaria – è statainghiottita da Zeus, e ne è diventataZeus-Phanes, logos che contiene laParola originaria trasformandola inlinguaggio sistematico.

    Donde l’insufficienza del pensieroche si configura come la nostra tri-stezza, l’impossibilità di dare unsenso alla vita e all’universo, l’inca-pacità di dare risposte alle nostredomande.

    Neppure la schizofasia ci redimedall’impossibilità di abitare ilmondo attraverso il pensiero, diaccedere a un punto di immediatez-za non premeditata, rinunciandoall’illusione delle certezze metafisi-che e scientistiche, quelle che com-pongono il Discorso soprattuttonella sua ormai onnidominante ver-sione occidentale. Il rifugio nell’im-maginario, speranza rivoluzionariao fantascienza che sia, non scuote la“realtà” del sistema. Dalla profon-dità della piramide, il faraone-cada-vere, come ogni sovrano, continua adeterminare i nostri pensieri, e dun-que i nostri atti.

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    FRANCESCO SABA SARDIscrittore, traduttore, saggista

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  • All’assemblea provinciale di Federla -voro/Confcooperative (di cui lei è presi-dente per l’Emilia Romagna), tenutasilo scorso aprile, lei diceva che, nei perio-di di crisi, il modello cooperativo dàgaranzie. Quali sono le caratteristichedi tale modello e le leve che ha messo ingioco in questo momento?

    La coesione sociale, di cui tanto siparla nella nostra regione, è fruttoprincipalmente del sistema coopera-tivo, che rappresenta il 22 per centodel PIL: in Emilia Romagna, peresempio, le 462 imprese aderenti allanostra Federazione hanno 65000addetti, tra soci, dipendenti e colla-boratori, e un fatturato di oltre duemiliardi di euro. Coesione socialevuol dire anche maturità delle per-sone, che hanno imparato a convive-re fra loro, sanno gestire il propriospazio e rispettare quello degli altri.La cooperazione è un modo di lavo-rare e di fare impresa che, oltre aprodurre effetti economici, fa cultu-ra, quindi fa crescere le persone pro-prio in virtù del confronto costantefra i soci e coloro che operano all’in-terno di una vera cooperativa, ossiaquella in cui il socio partecipa alcapitale sociale, al rischio, alle deci-sioni strategiche e a tanti altri aspet-ti dell’impresa.

    In una società sempre più vocataall’autonomia e all’autoreferenzia-lità, noi abbiamo fatto scelte diverse,che hanno portato esiti straordinari.Nel 2009, abbiamo deciso di faremeno utili, pur di evitare licenzia-menti e cassa integrazione, se non inpochi casi, e gestire la crisi attraver-so contratti di solidarietà. Non è uncaso se in Emilia Romagna stiamoun po’ meglio tutti. È chiaro chebisogna continuare a creare valoreper l’impresa come accadeva fino atre anni fa, ma non possiamo fare ameno di riflettere sul modo in cui leimprese, di qualsiasi natura essesiano, ottengono i loro risultati. Inquesta fase di crisi e forte competiti-vità, è più conveniente dare conte-nuti qualitativi al nostro lavoro ocercare di recuperare i margini diutile persi chiedendo altissime pre-

    stazioni e sacrifici alle persone addi-rittura riformulando i loro contrattidi lavoro verso il basso? Anche inquesto caso, il modello cooperativoha una propria posizione: dimostrache una società non può svilupparsisenza il rispetto della dignità umanae che fare buona economia non puòvoler dire ridurre alla disperazione ipropri collaboratori. Anzi, se riusci-remo a recuperare la redditività per-duta a causa della crisi, sarà propriograzie alla loro fantasia, alla loro ealla nostra capacità di dirigenti ditrovare soluzioni nuove ai nuoviproblemi che si presentano con sem-pre maggior frequenza, non certoriducendo i loro stipendi e umilian-do le loro aspettative.

    Le grandi e medie aziende fannospesso della responsabilità socialed’impresa una bandiera, ma se i loromodelli economici impongono scel-te che vanno a scapito dell’avveniredei loro collaboratori, anziché indirezione della loro valorizzazione,non meravigliamoci se poi assistia-mo alla graduale scomparsa del cetomedio dalla nostra società, semprepiù divisa fra chi detiene la maggiorparte della ricchezza e chi vive allasoglia della povertà.

    Anche per questo è importante soste-nere le piccole e medie aziende, soprat-tutto del terziario, che rappresenta il 71per cento dell’economia italiana…

    È vero, però occorre un salto cul-turale forte, le società di servizimedio piccole devono costituire retiche consentano loro di coprire il ter-ritorio, condividendo innovazioni,esperienze e progetti, per stare alpasso con i tempi e dare risposterapide ed efficienti alla propriaclientela. L’innovazione deve dive-nire un obiettivo costante anche perle piccole e medie imprese, altrimen-ti vengono espulse da un mercatoche si modifica in continuazione.

    A proposito di reti fra medie aziende,abbiamo esempi come Saca e NuovaMobilità, di cui lei stesso è presidente,formato da quattro gruppi di cui tre inEmilia Romagna e uno in Toscana(Cosepuri, Modena Bus, Saca, Cap di

    Prato e Coerbus), che insieme rappre-sentano la quinta azienda del settore alivello nazionale e ci fanno intravedere ilfuturo del trasporto in una diminuzionedelle auto private in circolazione…

    Nuova Mobilità s’inserisce in unsegmento prettamente gestito dalpubblico, che oggi ha costi enormi.Se una parte delle risorse risparmia-te fossero impiegate in una manierapiù efficiente e efficace per il territo-rio, avremmo risultati estremamenteinteressanti sotto il profilo economi-co, che potremmo tradurre in serviziaggiuntivi per ridurre il numero diauto private sulla strada e darerisposte a fasce sociali, come quelladegli anziani – sempre più inaumento –, che in questo momentonon sono prese troppo in considera-zione dagli amministratori pubblici.

    A che punto si trova questo processodi privatizzazione?

    Il Consiglio dei Ministri ha appro-vato il regolamento attuativo previ-sto dalla riforma dei servizi pubblicilocali e le gare dovranno essereindette entro il 2010. Quindi, entro il2011, le amministrazioni pubblichedovranno esternalizzare i servizi,tranne nei casi in cui non sussistanoragioni particolari. Nuova Mobilitàs’inserisce in questo processo condue obiettivi: quello di parteciparealle gare, perché le nostre strutturecooperative sono molto flessibili –quindi in grado di dare risposteimmediate alle nuove richieste dimobilità dell’utenza – e quello diacquisire una parte del patrimonio edel servizio di trasporto pubblicolocale su gomma, per dare dignità intermini non solo economici, maanche di elevazione della qualità delservizio nell’ottica di abbattere glisprechi che ora sono veramentetanti. A questo proposito, per esem-pio, ricordo che oggi le aziende pub-bliche hanno parchi costituiti daautobus talmente vetusti da concor-rere in modo pesante ad inquinarel’ambiente. Noi sosteniamo che,attraverso gli ammortamenti dilegge, i nostri mezzi devono esseresostituiti al massimo ogni sette anni.Questo è uno degli obiettivi di cui lapolitica deve tenere conto, perchél’aria è di tutti. Ormai, prendere inconsiderazione le alternative alsistema attuale di operare e di gesti-re la mobilità pubblica è diventatoun compito civile, oltre che etico.

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    DANIELE PASSINIpresidente di SACA soc. coop. a r.l., Bologna, di Coop. E. R. Fidi e di Nuova Mobilità

    I RISULTATI DEL MODELLOI RISULTATI DEL MODELLOCOOPERATIVO NELLA CRISICOOPERATIVO NELLA CRISI

  • La pasticceria di Paola... da DaniloOggi è festa grande a casa di Marta, sono arrivati anche gli amici diMilano per questa giornata speciale: si brinda ai risultati ottenutinel primo anno di attività della catena di negozi di giocattoli da lei aper-ta in tutta l’Emilia Romagna. Oggi più che mai, Marta ha pensato a cia-scun dettaglio: dai fiori alle luci ai piatti, persino ai piccoli presenti concui accogliere gli ospiti al loro arrivo, mentre viene servito l’aperitivo ingiardino. Niente è stato lasciato al caso, tutti sanno che, nonostante isuoi impegni, non rinuncia alla sua passione per la cucina: ha preparatotutto con le sue mani, con grande soddisfazione dei palati che fannoesperienza di aromi e sapori della vera tradizione modenese. I compli-menti arrivano puntuali a ogni portata. “Eppure”, si confida sottovoceGraziella con un’amica di Roma, mentre la invita ad assaggiare unasublime zuppa inglese, “nessuno sa che questo dolce è il tallone diAchille della nostra cuoca”. “Non mi pare proprio. In che senso?”, sidomanda l’amica che intanto ha risposto all’invito e ha l’aria estasiata.“Nel senso che è l’unico dolce che non fa lei. Naturalmente è un segre-to, ma io l’ho scoperto perché sono un’assidua frequentatrice delRistorante Danilo, dove lavora Paola Caselli, una vera artista, i suoipiatti forti sono tanti, ma i dolci potresti distinguerli in mezzo a cento.Un giorno, dopo avere notato questa coincidenza di gusto troppo ecla-tante, ho avuto conferma da un colla-boratore di Danilo, che però mi haraccomandato di mantenere il segretonon solo del peccatore ma anche delpeccato: ‘Già siamo tempestati dirichieste di clienti che, dopo averligustati, vorrebbero acquistare i nostridolci per portarli a casa, se poi si spar-ge la notizia che facciamo qualcheeccezione, dobbiamo allestire un labo-ratorio di pasticceria’. Quel giorno neho approfittato per cercare di capireche cosa distingua così nettamente idolci di Paola e ho scoperto che allabase c’è la cura dei particolari, oltreche la giusta combinazione degliingredienti; per esempio, questa mera-vigliosa zuppa inglese deve molto delsuo successo al procedimento: ‘Moltipreparano la crema e poi ne utilizzanola metà per fare il cioccolato, invece –precisa l’artista – occorre utilizzare il tuorlo per la crema e l’albume per il cioccolato, crema e cioccolato vanno preparati separa-tamente fin dall’inizio’. E la differenza si sente. Oggi, soprattutto nei ristoranti, i dolci sono stomachevoli, ma anche a questo credodi avere trovato una risposta dalla mia chiecchierata con Paola: ‘Noi non usiamo la crema chantilly con la panna montata già pron-ta che si acquista al supermercato, usiamo solo prodotti naturali e la crema la prepariamo noi seguendo la ricetta della nonna, conuova freschissime, zucchero e farina’. Da Danilo puoi gustare persino la Bavarese, il Tiramisù e tutti i dolci con il mascarponesenza appesantirti, tanto è importante la qualità e la genuinità delle materie prime, non solo per il palato, ma anche per lo stoma-co. ‘A proposito di materie prime, ieri Paola è arrivata al ristorante con cinquanta chili di buonissime amarene, che aveva acqui-stato da uno dei nostri contadini di fiducia – aggiunge Danilo –, le ha snocciolate e ha fatto le confetture che utilizzerà per le suecrostate’. Ecco perché sono ineguagliabili, come possono essereparagonate con quelle preparate usando la marmellata di origineindustriale?”. Mentre Graziella continua così il suo raccontoall’amica di Roma, Roberto, che da un po’ stava ascoltando die-tro di lei in silenzio, la interrompe: “Se parliamo di tradizionemodenese, però, non possiamo dimenticare i tortelli fritti al savore alla crema. Sono irresistibili, ne rubo sempre uno o due all’u-scita del ristorante, anche se li ho presi come dessert a fine pasto.Comunque, se rimani a Modena, domani sera ti farò fare l’espe-rienza dal vivo! Peccato che una volta non basti per provare tuttele specialità: le frappe, la panna cotta con i frutti di bosco, ilcrème caramel, la torta al cioccolato con le noci...”.

    Paola e Danilo

  • In questo numero abbiamo avviato undibattito intorno alla scommessa dellacomplessità: un cavallo di battaglia peril Gruppo Lameplast, che dal 1976 è riu-

    scito a mantenere costante il suo trenddi crescita, aumentando la complessitàdella propria organizzazione, senza maicadere nelle trappole delle complicazio-ni, anzi, favorendo la semplicità e losnellimento dei processi, attraverso ilcoinvolgimento dei collaboratori al pro-getto e al programma dell’impresa.Nella precedente intervista, lei notavache il vostro Gruppo ha l’esigenza diassumere personale con esperienza nellemultinazionali. A che punto è questoprocesso?

    Di recente abbiamo inserito all’in-terno del Gruppo un consulenteesterno con esperienza in una multi-nazionale del settore oftalmico e irisultati sono già tangibili. Credoche per noi questo processo sia ine-vitabile ed estremamente vantaggio-so, considerando che molti deinostri clienti sono fra i più grandigruppi dei settori farmaceutico ecosmetico di tutto il mondo. Se le

    aziende italiane vogliono divenireglobali, devono incominciare adacquisire il metodo delle grandirealtà industriali: è ciò che noi stia-

    mo facendo, con l’inseri-mento di personale pro-veniente da queste stesserealtà. Lei prima accen-nava alla complessità:ebbene, per rapportarsi auna società complessacome una multinaziona-le, occorre parlare la sualingua, ossia usare il suometodo, le sue procedu-re, che non hanno nulla ache fare con le complica-zioni tipiche della nostraburocrazia, ma sononecessarie per raggiun-gere con efficacia e rapi-dità la massima qualità.A pochi mesi dall’arrivodel nuovo collaboratore,abbiamo constatato no -tevoli miglioramenti nelconfronto con i nostrigrandi clienti, che èdiventato più semplice e

    dà più soddisfazioni a noi e a loro. In effetti, anche Leonardo da Vinci

    definisce litiganti coloro che si ostinanoa parlare la propria lingua, anziché l’al-

    tra lingua, quella della comunicazio-ne…

    Oggi la trasformazione è talmenterapida che in un anno c’è il rischio dirimanere indietro di dieci. Ecco per-ché è importante circondarsi di gio-vani che hanno esperienza nellemultinazionali, ne hanno acquisitol’approccio, hanno la capacità dicogliere velocemente le novità delsettore di riferimento e riescono aprendere decisioni in tempi brevissi-mi. Per questo i fondatori di un’a-zienda devono avere l’intelligenzadi capire quando è il momento didelegare il potere e mantenere sol-tanto la proprietà, dando un appor-to di verifica e controllo, senza fre-nare lo sviluppo di nuove vie per farfronte ai continui stimoli provenien-ti dal mercato mondiale.

    I vostri prodotti sono sempre stati pio-nieristici forse anche perché si sonoavvalsi delle informazioni che emerge-vano nell’incontro con i clienti e i forni-tori…

    Noi abbiamo il grande vantaggiod’incontrare clienti di tre settoriimportanti come il farmaceutico, ilplastico e il cosmetico, che ci forni-scono quasi quotidianamente infor-mazioni sulle loro esigenze. Anche inostri consociati di Miami sono unafonte straordinaria a cui attingiamo.È chiaro che poi le notizie devonoessere trasmesse ai nostri collabora-tori che selezionano le più interes-santi per impostare un programmadi ricerca e sviluppo da cui nasceràun nuovo prodotto. È un dispositivoche, una volta instaurato, riesce a farfronte alle sempre nuove richieste

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    GIOVANNI FERRARIpresidente del Gruppo Lameplast

    DAL CONFRONTO NUOVE IDEEDAL CONFRONTO NUOVE IDEEPER IL SETTORE DELLA PLASTICAPER IL SETTORE DELLA PLASTICA

    Giovanni Ferrari

    Strip Lameplast da 5 contenitori monodose

  • che riceviamo. L’imprenditore attento deve impe-

    gnarsi costantemente e sentirsi sem-pre desideroso di novità, monitorarei mercati internazionali e mantener-si costantemente aggiornato. Questonon basta a impedire il verificarsi diavvenimenti che costringono e con-dizionano diversamente le scelte dafare, tuttavia, egli deve mantenere larotta, non distogliendo mai l’atten-zione dalle evoluzioni dei mercati.

    Qual è la situazione attuale delleindustrie della plastica per il settore far-maceutico?

    Anche se non abbiamo avutograndi cali di fatturato, in questomomento si può constatare lavolontà di crescere anche dal fattoche stanno ripartendo alcuni proget-ti che erano stati fermati. Il difettoche mi sembra accomunare gliimprenditori che lavorano in questosettore è la mancanza della volontàd’incontrarsi per discutere le proble-matiche che intervengono, per con-frontarsi e per capire quali migliora-menti si potrebbero attuare. C’è

    ancora molto individualismo chespesso rischia di portare al fallimen-to e alla chiusura delle aziende, per-ché da soli si rimane indietro piùfacilmente, non si seguono gliaggiornamenti e magari si è convin-ti che lavorare dodici ore al giornosia la soluzione migliore per la riu-scita dell’impresa. Al contrario, solol’incontro aiuta ad avere sempre ilpolso dei mercati e a capire comemodificare la propria azienda perottenere risultati sempre migliori.

    A proposito di esperienza associativa,di recente lei è stato eletto Capo sezionePlastica di Confindustria Modena. Hagià qualche idea sulle proposte che farà

    agli associati?No, l’elezione è così recente che

    non ho ancora avuto il tempo di farealcuna valutazione. Posso solo direche mi piacerebbe incontrare tutti gliassociati per analizzare e discuteredelle difficoltà e delle soluzioni chepotrebbero andare a nostro favore.

    Forse riuscirà anche a sfatare il vec-chio luogo comune che l’imprenditoredebba limitarsi a lavorare e non ci siabisogno d’intervenire alle riunioni e alleassemblee…

    Purtroppo, sono ancora molti gliimprenditori che considerano gliincontri e i meeting come una perdi-ta di tempo. Nella mia recente espe-rienza con il Gruppo ProduttoriConto-terzi di Farmindustria, che siriunisce mensilmente, invece, hoconstatato che la partecipazionedegli associati è quasi totale e cia-scuno trae notevoli vantaggi dalladiscussione, dal confronto e dalloscambio di notizie: chi, per esempio,si rivolgeva a for-nitori stranieriquando avevabisogno di lavora-zioni particolarioggi sa che puòavvalersi di unsuo stesso associa-to. Dal con frontonasce il migliora-mento continuo eanche la possibi-lità di acquisire ilpeso istituzionaledi cui abbiamobisogno per far

    crescere il settore. All’incontro fratutti i terzisti che abbiamo indettoper l’autunno parteciperà anche ilpresidente del Gruppo Dompè.

    Si parla tanto di reti, ma non è faciletrovare esempi come questo fra le medieimprese, mentre le grandi hanno ufficipreposti per le loro ricerche e hanno unpotere contrattuale dovuto alla lorodimensione...

    I vantaggi di una rete sono eviden-ti e non occorre elencarli: basti pen-sare che, per l’acquisizione dei pro-dotti di cui più o meno tutti abbia-mo bisogno, potremmo costituireuna sorta di cartello che consenta diacquistare a un prezzo decisamenteribassato grazie all’aumento espo-nenziale delle quantità di prodottorichieste.

    Collaborando, i vantaggi possonoessere tanti e per tutti, ma occorreincontrarsi e discutere delle soluzio-ni ai problemi che si presentano manmano.

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    Multidose Lameplast richiudibili a stelo con sezione ovale o tonda

    Flaconi Lameplast a soffietto con dispenser per erogazione di liquidi, creme e polveri

    Strip Lameplast da o,6 ml (particolare)

  • In questo numero affrontiamo il temadella scommessa della complessità dicui le imprese non possono non tenereconto anche considerando i nuovi sce-nari economici, politici e sociali in attonel pianeta. Quali sono le ipotesi che ègiunto a formulare lungo la sua espe-rienza di imprenditore nei settori mec-canico e alimentare per attraversare lacomplessità nell’impresa?

    La scommessa della complessità oggisi gioca in più ambiti, ma, per rimanereal passo con le sfide del mercato globa-le, l’investimento più importante è nellacompetitività. Nel mercato èprotagonista chi offre la miglio-re qualità al miglior prezzo enon risparmia nella formazionedel personale e nell’innovazio-ne. Per mantenere i più altilivelli nella qualità e nellagestione, lavoriamo sei ore algiorno per sei giorni. Il massi-mo sarebbe lavorare sette giornisu sette, però diventerebbe com-plicato gestire turni e riposi. Inalcuni casi, la crisi delle piccoleaziende è legata al fatto che,nonostante abbiano grandicapacità, tecnologia, innovazio-ne e prodotti eccellenti, spessonon hanno saputo investire nellapromozione dei prodotti collo-candoli nel posto giusto almomento giusto.

    L’impresa che vuole coglierela scommessa della complessitàper essere competitiva deveessere al top in tutti i suoi setto-ri, dal marketing all’ufficiocommerciale, all’automazione. Se èassente dal mercato per un solo mese,inevitabilmente perde le sue quote. Perquesto dico sempre che nell’impresavincono i migliori. Il prodotto deveessere continuamente rinnovato emigliorato, deve avere una posizione dieccellenza nel mercato e per questo tuttoil personale – dai centralinisti al diretto-re generale – deve avere una preparazio-ne ai massimi livelli. Se ci si limita arimanere nella media, si sopravvive perun po’, ma poi pian piano si è costretti achiudere. Occorre fare scelte che garan-tiscano all’azienda un futuro, rilancian-

    do ciascuna volta, con proposte innova-tive.

    Quale apporto può dare ai giovaniquesto modo di fare impresa?

    Occorre dissipare alcuni preconcettiancora diffusi, secondo cui i giovanivanno messi da parte. Ritengo, invece,che debbano assolutamente integrare ilperiodo che va dall’inizio alla fine dellascuola superiore con l’esperienza lavo-rativa. Nel percorso scolastico non puòpiù essere assente la collaborazione conle attività produttive, siano esse profes-sionali, artigianali o imprenditoriali.

    Recentemente ho accolto in aziendaalcuni giovani per stage trimestrali e horiscontrato che in molti casi, mentre ascuola non avevano grandi risultati, sullavoro erano bravissimi. Purtroppo, puòaccadere che i giovani non trovino sti-moli nella scuola perché, per tanteragioni, non pu


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