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La comunicazione empatica - biogestalt.it · La relazione tra il disagio emotivo e il problema...

Date post: 17-Feb-2019
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Lorenzo Galbiati Tesi di diploma Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®, riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012) La comunicazione empatica per la gestione nonviolenta dei conflitti relatori Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky Milano, 17 dicembre 2016 SIBiG Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Centro Miri Piri, Pigazzano di Travo (PC) E-mail: [email protected] - [email protected] - Sito web: www.biogestalt.it
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Lorenzo Galbiati

Tesi di diploma

Corso triennale di formazione in Counseling a indirizzo biogestaltico

della SIBiG, Scuola Italiana di BioGestalt®, riconosciuto da AssoCounseling (CERT- 0078-2012)

La comunicazione empatica

per la gestione nonviolenta dei conflitti

relatori Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky

Milano, 17 dicembre 2016

SIBiG – Scuola Italiana di BioGestalt®, di Brunella Di Giacinto - Via Fiamma 13, Milano - P. IVA 05228810965 Sedi didattiche: via Marcona 24, Milano; via Moroni 8, Sesto San Giovanni (MI); Centro Miri Piri, Pigazzano di Travo (PC)

E-mail: [email protected] - [email protected] - Sito web: www.biogestalt.it

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Indice Parte 1: La comunicazione empatica per la gestione nonviolenta dei conflitti…… p. 4 A) I termini di un conflitto……………………………………………………………………….p. 4

1. Il conflitto è un problema associato a un disagio 2. La relazione tra il disagio emotivo e il problema concreto 3. L’accettazione del conflitto e dell’Altro da sé 4. Gestire il disagio per gestire il problema 5. La rielaborazione intrapsichica del disagio 6. La risoluzione nonviolenta del conflitto

B) Le tecniche della comunicazione empatica per la gestione nonviolenta dei conflitti...p.12 7. Le 4 fasi della comunicazione empatica 8. Osservare senza giudizio 9. Individuare ed esprimere emozioni e sentimenti 10. Rabbia: significato, funzione, essenza, gestione energetica, rielaborazione

psichica 10A: Il significato e la funzione della rabbia 10B: L’essenza della rabbia 10C: La gestione energetica della rabbia e la sua rielaborazione psichica 10D: L’espressione di una sana collera

11. Prendersi cura dei propri bisogni 12. Le richieste per arricchire la vita 13. Ricevere con empatia

13A: Celebrare l’empatia Parte 2: Una vita di conflitti – I conflitti di una vita…………………………………….p. 29

A) I conflitti all’interno della mia famiglia B) I conflitti con gli amici e nell’ambiente di lavoro C) I conflitti intrapsichici esistenziali e nelle relazioni sentimentali D) I conflitti all’interno del setting di psicoterapia e di counseling

Conclusioni…………………………………………………………………………………....p. 49 Bibliografia………………………………………………………………………………..…..p. 52

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Ringraziamenti e dedica

Ringrazio Alessandra Callegari e Riccardo Sciaky per la dedizione, il coinvolgimento

personale e l’empatia mostrati nei tre anni di Corso di formazione in counseling

biogestaltico, e per il sostegno, la pazienza e la consulenza che mi hanno dato nella

preparazione di questa tesi di diploma. Ringrazio i tutor del mio corso Annalisa Barzi,

Damiano Contin, Patrizia Marforio e Fabio Pardini per la presenza attenta e per l’esempio

che mi hanno dato. Ringrazio i miei compagni di corso per i momenti intensi, divertenti o

tristi, comici o drammatici, in ogni caso autentici e nutritivi che abbiamo passato insieme e

condiviso con grande apertura e coraggio.

Ringrazio la mia famiglia, e tutte le persone che ho citato in questa tesi per essere state

presenti in una parte del cammino della mia vita.

Lorenzo Galbiati

Questa tesi è dedicata a Carlo e Donato

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Parte 1: LA COMUNICAZIONE EMPATICA PER LA GESTIONE NONVIOLENTA DEI

CONFLITTI

A) I termini di un conflitto

1. Il conflitto è un problema associato a un disagio

In questa tesi considero “Conflitto” uno stato della relazione tra due individui o gruppi

caratterizzato da un problema da risolvere a cui si associa un disagio emotivo, oppure uno

stato intrapsichico di disagio e indecisione interiori, dove due parti del proprio Sé non sono

integrate. Chiamo conflitto pertanto un problema che coinvolge la sfera emotiva, causando

disagio ossia emozioni collegabili a paura, tristezza, rabbia. Questa mia impostazione si

ispira in parte alla mia esperienza, in parte al lavoro del counselor Roberto Tecchio: “La

gestione nonviolenta dei conflitti”. Nella Parte 1 espongo molti esempi concreti di conflitti

intrapsichici o tra due persone (non tratto conflitti tra gruppi), gran parte dei quali riferiti a

episodi che ho realmente vissuto; a volte formulo ipotesi di comportamenti

immedesimandomi (usando l’”Io”) in colui che compie l’azione.

In ogni relazione umana i soggetti in gioco hanno dei bisogni: quando questi non possono

essere soddisfatti perché il bisogno di uno si scontra con la soddisfazione del bisogno

dell'altro, e questo crea malessere, siamo di fronte a un conflitto. In altre parole, i bisogni

con-fliggono, ossia “l’uno urta contro l’altro” (“cum-fligere”: urtare, percuotere insieme),

secondo l’etimologia della parola “conflitto”.

Se per esempio due persone discutono su come usare l'aria condizionata in auto perché

l'una ha freddo e l'altra ha caldo, siamo di fronte a due bisogni che confliggono. C'è

oggettivamente un problema da risolvere (come usare l’aria condizionata per soddisfare

entrambi?) e, se associato a questo problema c’è un disagio emotivo creato dalla

discussione in proposito o dalla difficoltà di trovare una soluzione, siamo di fronte a un

vero e proprio conflitto. Se, al contrario, le due persone trovano presto la soluzione, senza

sentire rabbia o tristezza o paura (o emozioni a esse associate), siamo di fronte a un

problema risolto senza generare un conflitto. Per problema (o contrasto) intendo dunque

uno scontro di opinioni, una incompatibilità di interessi o valori o bisogni, che rende difficile

trovare una soluzione condivisa.

All’interno di una relazione interpersonale durevole (e, va da sé, nella nostra vita

intrapsichica) siamo sempre di fronte a stati temporanei, più o meno duraturi, di conflitto, in

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cui emerge una dimensione conflittuale personale (intrapsichica), riferita ai due singoli

soggetti della relazione, e una dimensione conflittuale interpersonale (o sociale) riferita

all’interazione tra i due soggetti.

Il conflitto si caratterizza quindi dalla presenza di due elementi distinti: un “Problema

concreto” da risolvere, e il “Disagio emotivo” (emozioni spiacevoli) a esso correlato.

Questa definizione sgombera il campo da possibili equivoci: in questa tesi il termine

conflitto non equivale a litigare, “fare la guerra”, voler prevalere l’uno sull’altro ecc., perché,

come scrive Filliozat, psicoterapeuta esperta di analisi transazionale, nel 1998: “troppo

spesso confondiamo il conflitto con la guerra. Il primo è il confronto di due universi, la

seconda è un tentativo di presa di potere.” La tesi che intendo sostenere è che due

persone con la “Comunicazione empatica” possano “stare” nel conflitto gestendolo senza

volere dominare, cioè esercitando del potere per far prevalere il proprio punto di vista

(quello che Pat Patfoort chiama modello Maggiore – minore), bensì per uscirne entrambe

rispettate nella loro dignità e arricchite dal confronto con l’altro (Modello Equivalenza di Pat

Patfoort, 2002).

2. La relazione tra il disagio emotivo e il problema concreto

Per la gestione positiva di ogni conflitto è richiesta la capacità di “stare nel disagio”

(Tecchio). Questa considerazione è di grande importanza poiché evidenzia come la nostra

capacità di risolvere i conflitti dipenda in ultima analisi dalla nostra accettazione della

sofferenza ossia delle emozioni “negative”. In questa tesi distinguo la sofferenza dal dolore

attribuendo la prima allo stato psichico prodotto dal sentire emozioni negative, o

spiacevoli, come rabbia, paura e tristezza, e attribuendo il secondo alle sensazioni

corporee spiacevoli. In altre parole, la sofferenza è un disagio psichico di natura emotiva, il

dolore un disagio corporeo di natura sensoriale – chiaramente, sofferenza e dolore sono

correlati: la sofferenza può provocare malattie psicosomatiche, il dolore fisico può

influenzare il nostro stato emotivo.

Spesso si ha una paura profonda ad affrontare un conflitto proprio perché evoca lo “stare

male”, il soffrire e pertanto si tende a evitarlo il più possibile. Ma la cura di ogni disagio

passa dal saper contattare emozioni non desiderate. Come scrive Perls (1995), riferendosi

alla psicoterapia: “La consapevolezza delle emozioni non desiderate e l’abilità a tollerarle

sono la conditio sine qua non per una cura riuscita. […] Questo processo […] costituisce la

via regia alla salute.” Del resto, come evidenzia sempre Perls, applicando il suo concetto

di pensiero differenziale, “per una reale gratificazione è necessaria una certa quantità di

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tensione […] Quando la tensione è diminuita, allora ciò che era spiacevole diventa

piacevole”. La felicità esiste solo dialetticamente, in opposizione alla sofferenza: se non ci

fossero situazioni di disagio, non potremmo neanche provare gioia.

Per evitare il disagio emotivo associato a un conflitto, io posso disconoscere l’esistenza

del conflitto, in modo da non sentire, per esempio, la frustrazione di sopportare una

relazione lesiva della mia dignità; oppure, posso riconoscere il conflitto e agire per

affermare la mia dignità senza alcuna rabbia o paura per la reazione dell’Altro. Questi due

casi, molto diversi – nel primo si evita il conflitto, nel secondo lo si affronta – sono

accomunati dal non sentire il disagio interiore

Tra disagio e problema il rapporto è stretto: si potrebbe dire, come scrive Tecchio, che “il

Problema provoca il Disagio, ma non lo genera”. La rabbia che mi viene di fronte alla

persona con cui ho un problema non ha come causa diretta il problema, e quindi le

opinioni o le azioni dell’altra persona incompatibili con le mie. La rabbia, ossia il disagio, è

presente in me perché il problema non mi permette di soddisfare un mio bisogno. Da ciò

consegue che non posso attribuire all’Altro, o al problema, la colpa della mia rabbia, così

come non posso attribuirla a me stesso, in quanto soggetto con un bisogno legittimo

quanto quello dell’Altro. Pertanto, la responsabilità di un conflitto, e del disagio che

provoca (la rabbia), non può essere risolta con la colpevolizzazione individuale di uno o di

entrambi gli attori del conflitto.

3. L’accettazione del conflitto e dell’Altro da sé

Il conflitto, e in particolare il disagio a esso associato, si genera per la non accettazione di

un comportamento della persona con cui siamo in relazione (Tecchio). La non

accettazione a livello di comportamenti è legittima in quanto in sintonia con i nostri bisogni,

credenze, giudizi di valore. La violenza, per esempio, non è generalmente accettata, così

come una serie di comportamenti che, di solito, vengono sanzionati per legge. La non

accettazione di un comportamento, tuttavia, non porta (o non dovrebbe portare) a non

accettare la persona che lo compie. Il detto biblico “odia il peccato, non il peccatore”

prescrive di combattere il male, il comportamento che la società considera inaccettabile,

ma non di perseguitare chi l’ha compiuto. In termini di counseling, si può tradurre in:

“scindiamo i problemi dalle persone” e, parafrasando l’assunto di Carl Rogers (1971),

“accettiamo in modo incondizionato le persone nella loro essenza, dando comprensione

ed empatia per i loro problemi”. Questi assunti etici e inerenti la psicoterapia (Yalom,

2014) e la professione del counseling (Marchino e Mizrahil, 2007; Danon, 2009) sono alla

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base della comunicazione empatica (chiamata anche nonviolenta) all’interno delle

relazioni interpersonali, in particolare durante i conflitti, e richiedono coraggio e

benevolenza verso chi è Altro da noi, nella convinzione che si possa arrivare a instaurare

rapporti di arricchimento reciproco (approccio win-win).

Resta il fatto che, nel momento in cui vengo a contatto con un comportamento che non

accetto, prima di poter offrire empatia provo disagio, ossia rabbia, paura o tristezza. Il

discorso è biunivoco: ogni volta che provo disagio c’è qualcosa che non accetto in me

stesso o nell’Altro. Si evince che il disagio emotivo è un campanello d’allarme che suona

quando siamo in presenza di un conflitto, quindi riconoscere il disagio, ossia essere

connessi con le nostre emozioni, ci permette di riconoscere un conflitto, e questo è il primo

passo per poterlo gestire e cercare di risolvere.

In molti casi è il disconoscimento del conflitto personale che porta a evitare quello

interpersonale, oppure la paura stessa del conflitto, anche quando intravisto. Il

riconoscimento e l’accettazione del conflitto (ossia del fatto che non accettiamo un

determinato comportamento) sono due momenti indispensabili per gestire prima di tutto il

nostro disagio: evitare di vedere o affrontare il conflitto a livello interpersonale può essere

dal punto di vista energetico meno faticoso, sul momento, ma non porta all’eliminazione

del disagio e, in ultima analisi, può essere fonte di proiezione, retroflessione o

risentimento, provocando tensioni corporee (Kepner, 1997). Di fatto, come scrive Perls

(1995): “L’evitamento dei conflitti esterni […] ha come risultato la creazione di quelli interni.

[…] Un bambino desidera moltissimo un certo giocattolo. Non ce l’ha, ma sa che è

possibile comprarlo con i soldi che sono nella tasca di papà. Egli sa che prendere questo

denaro lo porterà a un serio conflitto con il padre, il quale dice che rubare è una colpa e

che sarà punito per questo. Per identificarsi con la norma del padre, deve alienare –

sopprimere – il suo desiderio. Può distruggerlo con la rassegnazione e col pianto, o

gettarlo fuori dai confini dell’Io – reprimendolo o proiettandolo. La repressione è fatta

retroflettendo l’aggressività che originariamente era diretta contro il suo frustrante padre

ed ora è diretta contro il suo desiderio. La proiezione – con un processo differente e più

complicato – ristabilisce l’armonia tra lui e suo padre, ma al costo di distruggere la

propria”. In generale, “più un desiderio è vicino ai bisogni dell’organismo, più è difficile la

sua alienazione quando la situazione sociale lo esige”, e quindi più è salutare stare nel

conflitto. Perls conclude che l’evitamento [del contatto, sia esso piacevole o spiacevole:

conflitto] è un fattore generale che si può trovare in ogni meccanismo nevrotico e,

raramente, solo in caso di vero pericolo, si guadagna qualcosa dall’evitamento.

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4. Gestire il disagio per gestire il problema

Una volta accettato il conflitto, ci si può preoccupare di gestire prima il disagio emotivo

oppure prima il problema concreto. Le persone evitanti le emozioni negative

(primariamente il “carattere rigido” e, secondo Palmer [1998] l’enneatipo 7) tendono a non

sentire consapevolmente il proprio disagio e a volere uscire dal conflitto con proposte

immediate per risolvere razionalmente il problema. La dissociazione dalle emozioni può

però causare uno stato di lucidità solo apparente, in cui è presente rabbia (emozione

associata alla spinta auto affermativa di voler risolvere il problema), che potrebbero

sfogare inconsapevolmente sull’altra persona, rendendo difficile la risoluzione del

problema. A meno che quest’ultima tenda a evitare o a non accettare i conflitti, nel qual

caso (primariamente il “carattere masochista” e l’enneatipo 9) potrebbe assecondare

passivamente le proposte arrivatele per risolvere il problema (probabilmente a proprio

svantaggio). In altre parole, quando si gestisce il problema per gestire il proprio disagio, si

rischia di risolvere il conflitto in modo poco lucido e poco appagante, trovando una

qualsiasi soluzione pur di non sentire consapevolmente le emozioni negative presenti. Due

persone in stretta relazione (amici intimi, partner), evitanti paura e tristezza (con

“attaccamento evitante” secondo Bowlby, 1989) potrebbero “risolvere” un conflitto, reso

grave della rabbia che vi hanno scaricato, rompendo la loro relazione pur di arrivare presto

a trovare una “soluzione”, quale che sia, al problema concreto. Separandosi, hanno

trovato la soluzione più semplice e immediata. In questo modo, hanno evitato di stare nel

disagio emotivo (la rabbia), o di contattare la sofferenza sottostante, con il risultato di

rendersi conto solo dopo avere rotto la relazione della tristezza che provano per aver

risolto il problema in un modo che non desideravano.

Del resto, in presenza di un forte disagio, consapevole o meno che sia, sono le emozioni

spiacevoli che lo caratterizzano a costituire il primo problema da risolvere. E a volte sono

un problema altamente drammatico.

Se non accetto la tristezza o un’altra emozione spiacevole associata a un conflitto - per

esempio perché veniva rifiutata nella mia famiglia - potrei nasconderla e rimanere a lungo

in preda di un’altra emozione (“emozione parassita”) dalla quale spero di ricavare un

vantaggio: nel caso della rabbia, sarò furioso e forse proverò odio per l’Altro, che

giudicherò reo di un grave misfatto; nel caso della paura, mi sentirò traumatizzato per quel

che è successo; nel caso della tristezza, mi sentirò depresso. Potrei evitare per lungo

tempo di rielaborare questa emozione non autentica: così facendo manifesto il mio rifiuto

9

per il conflitto, che di fatto è un rifiuto per l’Altro, dal quale mi aspetto un rimedio. L’Altro

potrebbe tentare di “fare la pace”, ma avrebbe fortuna solo se si assumesse tutta la

responsabilità del conflitto e si adoperasse per rimediare (prendersi la colpa se ho rabbia,

rassicurare se ho paura, consolare se ho tristezza), dichiarandomi infine che “non lo farà

più”. Infatti, se non tollero il conflitto non sono interessato tanto a vederlo come possibile

momento di crescita personale, quanto a evitarlo. Una volta accaduto, l’unica mia

preoccupazione sarà esprimere il mio rifiuto attuando una ritorsione – più o meno

consapevole – con la mia emozione parassita, che terminerà quando sentirò che l’Altro si

sarà presa la colpa del conflitto e avrà garantito che non si ripeterà. Potrebbe anche darsi

che quando sono “posseduto” da una di queste emozioni io sia davvero incapace di

uscirne per lungo tempo: in questo caso ciò che mi aspetto dall’Altro forse è che faccia da

argine al mio stato emotivo, ossia mi “sblocchi”. In entrambi i casi, comunque, se l’Altro

verrà incontro al mio stato emotivo, il mio comportamento diventerà ripetitivo; se non lo

asseconda, potrei rompere la relazione perché “si litigava troppo”.

Questo schema comportamentale ripetitivo e inconscio con il quale riversiamo senza freni

sull’Altro forti emozioni o sentimenti parassiti, sproporzionati in rapporto al conflitto,

nell’analisi transazionale (Berne, 1987; Filliozat, 1998; D’Addario) si chiama racket, ed è

una forma di controllo volta a manipolare l’Altro per fargli assecondare il nostro interesse:

evitare i conflitti ossia la sofferenza. Si tratta di una dinamica disfunzionale, perché

vorrebbe risolvere il conflitto in atto velocemente, provando poca sofferenza, ma di fatto lo

complica trasformandolo in un litigio, lo rende più drammatico e lo risolve colpevolizzando

di tutto l’Altro. Se questa dinamica viene accettata dall’Altro, il racket si consolida conflitto

dopo conflitto, la dinamica diventa sempre meno drammatica ma sempre più inautentica, e

a lungo andare può dar vita a stabili relazioni sado-masochiste.

In conclusione, solo accettando il conflitto, con la sofferenza che porta, posso gestire in

modo efficace il mio disagio personale e uscire dal conflitto con un una soluzione win-win.

Allo stesso modo, solo affrontando con razionalità e lucidità il problema concreto posso

gestirlo e sperare di risolverlo. Ma la razionalità, la visione oggettiva del problema, è

possibile solo quando non offuscata da forti emozioni: per questo motivo è molto più

efficace, per gestire un conflitto, gestire il disagio per gestire il problema, piuttosto che

gestire il problema per gestire il disagio.

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5. La rielaborazione intrapsichica del disagio

Poiché vi è una forte correlazione tra il disagio emotivo e il problema concreto, a volte per

gestire il disagio personale occorre occuparsi anche del problema interpersonale

(Tecchio). In altre parole, spesso è disfunzionale volere risolvere completamente il disagio

prima di affrontare il problema con l’Altro. Al contrario, è efficace agire per alleviare il

disagio, poi iniziare a occuparsi del problema, ed eventualmente del disagio dell’Altro, in

modo che passo a passo si renda sempre più lieve il disagio e si arrivi alla lucidità

necessaria per risolvere il problema.

Per rielaborare il mio disagio interiore (il caso specifico della rabbia lo esamino nel

sottoparagrafo 10D), innanzi tutto mi occorre del tempo, durante il quale osservare le mie

sensazioni fisiche, le emozioni presenti, i pensieri che si generano in me. È importante che

non mi identifichi con tutto quello che sento o penso, ma che lo osservi senza giudizio. In

seconda battuta, posso mettere in atto una strategia corporea per sciogliere le mie

tensioni muscolari, il mio disagio fisico. Infine, posso cercare di collegare il disagio emotivo

con i miei bisogni disattesi, in modo da prendermi la responsabilità delle mie emozioni e

non colpevolizzare l’Altro. Posso pertanto cominciare a provare empatia per l’Altro

pensando che alla base del suo comportamento, come del mio, ci sono suoi bisogni

disattesi. A questo punto, raggiunto un livello accettabile di disagio, e di consapevolezza

dei miei sentimenti e bisogni, posso affrontare il problema relazionandomi con l’Altro.

La risoluzione di un conflitto personale provocato da un comportamento esterno, come un

giudizio offensivo, una azione sgarbata o aggressiva, può essere intrapsichica se il

soggetto riesce a non essere toccato in profondità e a dare empatia alla sofferenza

sottesa al comportamento lesivo dell’Altro. Se, per esempio, una mia amica, alla guida di

un auto, mi zittisce quando le dico di stare attenta alle macchine che vengono da sinistra

mentre attraversa un incrocio che conosco bene, il problema sul da farsi è già stato risolto,

e resta solo il mio conflitto intrapsichico su come reagire alla sua aggressività. Dopo aver

ascoltato il mio disagio e il mio corpo, potrei affrontare il mio conflitto in questi modi:

1) chiedendo scusa, ossia assumendomi io la responsabilità della sua aggressività, dovuta

all’ansia della guida. In questo caso risolverei il mio disagio intrapsichico empatizzando

con lei ma colpevolizzando me di tutto;

2) empatizzando con la sua ansia e aggressività, capendone i motivi legati alla paura di

fare un incidente, ed empatizzando con il disagio emotivo di essermi sentito ingiustamente

aggredito quando cercavo di aiutarla. Potrei in questo caso scegliere di “passarci sopra”,

verificando se il mio corpo si libera presto dalla tensione e i miei pensieri non si

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soffermano sull’accaduto; in caso positivo, avrei risolto il conflitto personale in modo

soddisfacente a livello intrapsichico;

3) cercando di dare comprensione e confrontarmi con lei, dicendo (dopo aver passato

l’incrocio!): “eh sì, guidare a Milano mette molta ansia, bisogna sempre guardare da tutte

le parti”. Se lei si sente compresa, e risponde in modo accomodante, potrei aggiungere:

“ogni tanto mette ansia anche a chi non guida, come me, e può venirmi fuori qualche

parola”. A questo punto potrei vedere se la mia amica sarà in grado di darmi a sua volta

qualche parola di comprensione. In questo caso, il conflitto personale verrebbe gestito in

modo empatico a livello interpersonale;

4) arrabbiandomi con lei per la sua aggressività, giustificando il mio comportamento,

compiuto con le migliori intenzioni ecc: questo darebbe vita a un acceso conflitto.

6. La risoluzione nonviolenta del conflitto

Prendiamo due partner, Lorenzo e Tiziana, che hanno una discussione su come arredare

la loro nuova casa, fino ad arrabbiarsi e litigare, ossia fare una prova di forza esercitata

con toni, parole o comportamenti aggressivi, se non rabbiosi o violenti, al fine di prevalere

l’uno sull’altro. Di fronte a questo disagio, i due si allontanano momentaneamente.

Lorenzo rielabora la propria rabbia connettendosi ai sentimenti sottostanti, non ultimo

quello di recuperare vicinanza emotiva con Tiziana: ha risolto il suo conflitto personale.

Sussiste però il conflitto interpersonale (sociale). Tiziana è ancora risentita, pertanto se

Lorenzo vuole affrontare il problema, dovrà farsi carico del disagio emotivo di Tiziana. Per

gestirlo in modo nonviolento, dovrà mettere in atto la comunicazione empatica, basata

sull’espressione dei propri sentimenti, bisogni, richieste, e aiutare Tiziana a fare

altrettanto, cioè a risolvere il suo conflitto personale. Alla fine, risolti entrambi i conflitti

personali, rimane da trovare una soluzione soddisfacente per entrambi al problema

concreto, ma nemmeno una franca e rispettosa discussione può garantire che i due

partner la trovino. Tuttavia, l’avere risolto il disagio emotivo, e l’essersi riconnessi con i

propri bisogni, tra cui quello di avere una relazione basata sulla vicinanza emotiva, fa

aumentare le possibilità di risolvere il problema concreto relativo all’arredamento della

casa. In conclusione, la gestione nonviolenta dei conflitti porta ad alleviare o risolvere i

conflitti personali (intrapsichici) e aumenta le possibilità di risolvere il conflitto

interpersonale trovando una soluzione win-win al problema concreto, in modo che

entrambi i soggetti abbiano un arricchimento delle loro vite.

Ora descriverò nel dettaglio le tecniche della comunicazione empatica.

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B) Le tecniche della comunicazione empatica per la gestione nonviolenta del conflitto

7. Le 4 fasi della comunicazione empatica

Un modo per gestire i conflitti é la comunicazione empatica, che permette di rimanere

connessi con noi stessi e con gli altri in modo da arricchirci reciprocamente. In questa tesi,

nel formulare le tecniche della comunicazione empatica mi sono ispirato - modificando e

ampliando alcuni suoi concetti teorici - al processo della comunicazione nonviolenta così

come esposto da Marshall B. Rosenberg nel suo libro “Le parole sono finestre” (2003;

titolo originale Nonviolent Communication). Tale processo consta di 4 passi:

Osservazioni (che cosa vedo)

Emozioni/Sentimenti (che cosa sento)

Bisogni (di che cosa ho bisogno)

Richieste (che cosa ti chiedo per arricchire la mia vita).

Per esempio, una madre potrebbe dire al figlio adolescente: "Quando vedo le tue calze

sporche in sala davanti alla Tv [osservazione] mi sento irritata [emozione] perché ho

bisogno di maggiore ordine nelle stanze in comune [bisogno]. Potresti portare le calze in

camera tua oppure in lavatrice [richiesta]?" Nella comunicazione nonviolenta un soggetto

punta a esprimere con la maggiore chiarezza possibile, sia a livello verbale che corporeo,

queste quattro informazioni e il ricevente si concentra sull'ascoltare in modo empatico,

riformulando quanto gli viene comunicato, in modo da mostrare comprensione del vissuto

dell'altro e disponibilità a venirgli incontro. Il ricevente, poi, a sua volta può esprimere le

quattro informazioni che lo riguardano, e chiedere ascolto empatico. Alla fine, entrambi i

soggetti si impegnano a trovare una sintesi condivisa per risolvere il problema.

8. Osservare senza giudizio

L'arte di osservare presuppone il concentrarsi su quel che ci dicono i sensi, evitando ogni

tipo di giudizio. I giudizi possono essere di valore o moralistici (Rosenberg, 2003); quelli di

valore esprimono le mie convinzioni relative alle qualità che apprezzo nella vita, quelli

moralistici invece si riferiscono alle persone e ai comportamenti che non rispecchiano i

miei giudizi di valore. I giudizi moralistici possono essere sui comportamenti: “Quando vai

in auto a 180 km/h ti comporti da irresponsabile” oppure direttamente sulla persona: “Solo

un irresponsabile va così veloce in auto!”. Questi giudizi escludono l'empatia e vengono

vissuti da chi li riceve come una critica al proprio comportamento o, peggio ancora, come

una non accettazione della propria persona. In generale, è difficile non formulare mai

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giudizi in situazioni stressanti come i conflitti, pertanto ritengo siano da evitare soprattutto i

giudizi sulla persona. Vari studi hanno corroborato l’impressione che i giudizi moralistici

sulla persona sono spesso causa di litigi violenti, a volte fino allo scontro fisico.

Nel formulare osservazioni senza giudizi si tratta, come nel buon giornalismo, di

distinguere con precisione i fatti dalle opinioni. Ovviamente, poiché l'oggettività non esiste,

ogni racconto che formuliamo sarà “nostro” - ossia dovuto alla nostra percezione dei fatti,

pertanto soggettivo - se non altro nella sua impostazione; tuttavia, più ci sforziamo di non

filtrare l’osservazione con il nostro giudizio e più otterremo ascolto e accettazione da parte

dell’Altro.

La comunicazione verbale empatica per le osservazioni non usa verbi con una

connotazione valutativa, che implicano un giudizio, evita il linguaggio vago, senza

riferimenti specifici e senza che siano chiare le responsabilità di chi compie le azioni

descritte. Anche descrivere azioni usando avverbi come "mai" o "sempre", o altre parole

che danno un senso di staticità assoluta, incoraggia un giudizio generalizzato sui

comportamenti che può essere percepito come giudizio sulla persona (“Non ascolti mai

quello che dico” è simile a: “sei una persona incapace di ascoltarmi”). Le osservazioni

migliori sono quelle molto circostanziate nel tempo e nel contesto. Dire: "l'altra sera al

ristorante all'aperto ho sentito fastidio quando hai fumato" è una osservazione

circostanziata e non giudicante, associata a una propria emozione; dire: "ogni volta ti metti

a fumare quando ceniamo all'aperto, come ieri: ti dimostri del tutto incurante del fastidio

che mi dai" è una osservazione generalizzata ("ogni volta") che contiene una valutazione

implicita su un comportamento (fumi sempre), cui segue un giudizio esplicito sulla

persona, una colpevolizzazione ("sei incurante") dell'emozione negativa (il fastidio) che il

soggetto ha provato. Il verbo “sentire”, se usato per esprimere una osservazione mista a

una valutazione, nasconde un giudizio: “quando hai fumato ieri sera ti ho sentito incurante

di me”: infatti manifesta una osservazione, (“quando hai fumato ieri sera”) e un pensiero

(non un sentimento) di tipo valutativo, ossia giudicante, per quanto riferito al proprio

“sentire” (“ti ho sentito incurante di me”, che si potrebbe meglio riformulare con: “ho

pensato fossi incurante di me”).

Come in ogni comunicazione (Watzlawick, 1971), il linguaggio non verbale e corporeo

conta quanto il significato delle parole. Non basta infatti che le parole usate non siano

giudicanti, occorre che il tono di voce non sia rabbioso o risentito o accusatorio; anche un

tono di voce eccessivamente timoroso o triste potrebbe essere percepito come

accusatorio (cioè tendente a fare sentire in colpa) e contribuire a far scattare atteggiamenti

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difensivi. Il linguaggio corporeo comunica con le posizioni che assumiamo. Se per

esempio in un momento di tensione mi avvicino velocemente al mio interlocutore, posso

essere percepito come minaccioso. Allo stesso modo lo sguardo fisso, le sopracciglia

aggrottate, i gesti contratti e spigolosi comunicano ostilità mentre una postura frontale a

viso e braccia aperti assecondata da movimenti misurati e morbidi favorisce la percezione

di disponibilità.

9. Individuare ed esprimere emozioni e sentimenti

Per quanto Marshall B. Rosenberg parli di sentimenti (feelings) senza distinguerli dalle

emozioni (emotions), il conflitto, in quanto vissuto nel “qui e ora”, attiva innanzi tutto le

emozioni, che hanno durata più breve dei sentimenti, i quali possono essere considerati

una forma cognitivo-affettiva delle emozioni (Dal Cengio), e si esperiscono nel conflitto

solo dopo un certo tempo. In questa tesi, quando parlo dei sentimenti coinvolti in un

conflitto, mi riferisco sia alle emozioni (reazioni intense e immediate) sia ai sentimenti che

da esse scaturiscono con il tempo.

Nel momento del disagio emotivo, non è sempre facile connettersi ai sentimenti che

realmente proviamo. Alcune persone si “congelano” emotivamente, si anestetizzano per

non sentire nulla; altre provano sentimenti non autentici (parassiti) in sostituzione di

sentimenti che non si legittimano; altre ancora reagiscono al disagio lasciandosi travolgere

dalla rabbia. In tutti questi casi siamo di fronte a una alienazione dai propri sentimenti

profondi, al fine di non sentire la sofferenza. Per connettersi con i nostri sentimenti ed

emozioni, ed esprimerli, occorre sapersi mostrare vulnerabili. La fiduciosa manifestazione

della propria vulnerabilità è il principio di ogni tecnica nonviolenta (Lanza del Vasto, 1978).

“Porgi l’altra guancia” non è forse la massima esposizione della propria vulnerabilità? Chi

rifiuta la sofferenza, chi vuole proteggersi, rimanere nella propria “corazza” (Marchino,

1995), tenderà ad anestetizzarsi, a mascherare le proprie emozioni o a dar sfogo alla

rabbia; queste reazioni sono disfunzionali perché non aiutano a risolvere né il conflitto

personale intrapsichico né quello interpersonale, anzi li aggravano, allontanando la loro

soluzione. Ciò che rende il conflitto fonte di conoscenza e arricchimento personale è

invece mostrarsi vulnerabili per individuare i propri autentici sentimenti ed esprimerli.

Innanzi tutto, occorre distinguere i sentimenti veri dai pensieri (e dalle valutazioni) riferiti a

noi stessi o agli altri espressi con il verbo “sentire” (Rosenberg, 2003). “Mi sento triste” è

l’espressione di un sentimento mentre “mi sento inutile” esprime un pensiero e un giudizio

su ciò che credo di essere. Allo stesso modo, “sento paura” esprime un sentimento mentre

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“mi sento aggredito” esplicita un pensiero (al limite un “sentire cognitivizzato”) con il quale

valuto come aggressione il comportamento dell’Altro; infatti, “sentirmi aggredito” non

esprime in alcun modo l’emozione o il sentimento generati in me dall’aggressione: sono

rabbioso, pauroso o triste? In generale, quando i nostri bisogni vengono soddisfatti,

proveremo e ci esprimeremo con emozioni collegabili alla gioia o sentimenti legati

all’amore, mentre quando i nostri bisogni non sono soddisfatti, come nel mezzo di un

conflitto, individueremo ed esprimeremo emozioni attinenti a rabbia, tristezza o paura, o

sentimenti legati all’odio. Da ciò si evince che non sono i comportamenti degli altri a

essere la causa diretta dei nostri sentimenti, bensì la soddisfazione o meno dei nostri

bisogni. Le azioni dell’Altro che non accetto, che provocano il conflitto tra me e lui, posso

considerarle lo stimolo, ma non la causa (Rosenberg, 2003), delle mie emozioni

spiacevoli, nella misura in cui negano il soddisfacimento di un mio bisogno. Come insegna

la terapia della Gestalt (Perls, 1980; Naranjo, 1991; Ginger, 2004), prendersi la

responsabilità dei propri sentimenti è una delle tappe di ogni percorso verso

l’autosostegno e la maturità. Nel ricevere messaggi negativi, quindi, la reazione più sana

ed efficace non è quella di 1) incolpare l’altro o 2) incolpare noi stessi, quanto piuttosto 3)

individuare ed empatizzare con i nostri sentimenti, oppure 4) empatizzare con i bisogni e i

sentimenti dell’Altro. Solo quando siamo a un livello di autoregolazione molto elevato

possiamo permetterci la quarta via. Il lavoro da fare su di me, inizialmente, è mostrarmi

vulnerabile per collegarmi ai miei sentimenti, specialmente a quelli sottostanti la rabbia. La

rabbia è l’emozione che mi preme gestire in modo costruttivo, soprattutto se il conflitto è

diventato un litigio, perché più della tristezza e della paura può diventare distruttiva

facendo degenerare il conflitto in violenza o in rottura di una mia relazione interpersonale.

10. Rabbia: significato, funzione, essenza, gestione energetica, rielaborazione

psichica

Così come la nonviolenza gandhiana (Lanza del Vasto, 1978) non mira primariamente a

evitare la rabbia e la violenza (di fronte a un’ingiustizia, l’azione violenta è da preferirsi

all’inazione per viltà, secondo Gandhi), quanto piuttosto a trasformarne l’energia in

comportamenti nonviolenti eticamente accettabili e concretamente più efficaci, la

comunicazione nonviolenta non mira a sopprimere la rabbia quanto a trovarne il significato

e a esprimerne l'essenza in modo pieno ed efficace. Innanzi tutto, considerando il

comportamento dell'Altro lo stimolo, ma non la causa, della nostra rabbia, evitiamo di agire

sul suo senso di colpa, e ci prendiamo la responsabilità della nostra rabbia, che

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colleghiamo all’insoddisfazione di un nostro bisogno. In questo modo non giustifichiamo la

nostra rabbia con il comportamento dell’Altro, pertanto evitiamo di esprimerla in modo

distruttivo, senza badare alle sue conseguenze.

Per esprimere una sana collera, cioè una rabbia che ha una direzione e un contesto

precisi, e che si esaurisce quando ha svolto la sua funzione, i passi da fare secondo la

comunicazione empatica (Rosenberg, 2003), l’intelligenza emotiva (Goleman, 1996) e

l’analisi transazionale (Berne, 1987; Filliozat, 1998) sono i seguenti:

10A: Il significato e la funzione della rabbia

In preda alla rabbia, tanto più se è intensa (furia), tendiamo in modo consapevole o meno

a giudicare e incolpare l'altro di aver commesso un’ingiustizia verso di noi o verso altri.

Non è un caso che i caratteri con forte connotazione rabbiosa (temperamento collerico,

come si usa dire fin dall'antichità, o enneatipo 8) abbiano un forte senso della giustizia,

cioè di ciò che si ritiene giusto o sbagliato. La rabbia, nei conflitti interpersonali, sottende

sempre un giudizio negativo verso un'azione dell'Altro o di noi stessi, pertanto intende

incolpare e punire. In altre parole, il significato profondo della rabbia è la colpevolizzazione

di qualcuno per un comportamento giudicato lesivo nei nostri (o altrui) confronti. Per

questo motivo, Marshall B. Rosenberg ritiene che l'espressione della rabbia "sia il risultato

di un modo di pensare [il ritenere che ci siano azioni giuste o sbagliate] che aliena dalla

vita e che provoca violenza"; se la nostra rabbia, infatti, incolpa qualcuno, ci aliena dal

sentire i nostri bisogni non soddisfatti e, incolpando, rischia di provocare la reazione

violenta di chi si sente incolpato, cioè esposto a una condanna.

La mia opinione, in parte già espressa, concorda con Tecchio e con Filliozat nel ritenere

che vi siano azioni che legittimamente posso ritenere inaccettabili - ingiuste o sbagliate -

secondo il mio sistema di valori, specie se questo è condiviso dalla persona stessa che le

compie. È quindi, a mio parere, sana la rabbia usata come strumento di affermazione e di

riconoscimento della mia (o altrui) dignità violata a seguito di un’azione che considero

un’ingiustizia. Per alcune persone, come per chi si connette più facilmente alla tristezza e

alla paura che alla rabbia, concedersi la rabbia è un gesto salutare di affermazione di sé e

dei propri bisogni non accolti. Spesso, infatti, chi non esprime la rabbia è fin troppo attento

ai bisogni degli altri rispetto ai propri, che tende a non legittimarsi e valorizzare. La

funzione della rabbia è quella di affermare la nostra identità (venire riconosciuti per quel

che siamo) e di difendere la propria dignità, i nostri bisogni vitali, ossia di porre un rimedio

a una ferita o a una privazione subite, allo scopo di mantenere l'integrità psicofisica.

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Questo significa che vi sono casi in cui il comportamento dell’Altro può essere identificato

non solo come stimolo ma anche come causa della nostra rabbia, in quanto lesivo di un

bisogno essenziale per la nostra vita o per il mantenimento della relazione con l’Altro.

Parlo, per citare esempi estremi (ma ve ne sono moltissimi nella vita quotidiana di minore

gravità), del caso in cui subiamo un furto o una violenza da parte di un estraneo o, peggio

ancora, da parte di una persona con cui abbiamo un rapporto consolidato. Per esempio,

se un amico in seguito a una accesa discussione mi colpisce con un pugno, viola un mio

bisogno vitale: il rispetto della mia dignità e della mia incolumità fisica. Poiché il rispetto di

questo bisogno è una componente essenziale di ogni amicizia, il comportamento dell’Altro

che mi colpisce con un pugno (stimolo della mia rabbia) e la non soddisfazione del mio

bisogno di rispetto da parte di un amico (causa della rabbia) si identificano. La

responsabilità della mia rabbia cadrà sull’azione del mio amico più che su di me. E infatti

può succedere che l’amico che ha infranto un patto di rispetto e amicizia si prenda la

responsabilità della mia rabbia, esprimendo dispiacere per il suo comportamento. Questa

soluzione, non contemplata nella Nonviolent Communication di Marshall B. Rosenberg,

credo sia spesso soddisfacente nel vivere quotidiano e permetta di risolvere i conflitti

velocemente e con empatia, senza reale colpevolizzazione o ferita all'autostima dell’Altro,

nel caso in cui siano chiari i comportamenti reciproci che ci si aspetta da un amico o da un

partner. In questo modo, se ho infranto un patto con un mio comportamento me ne prendo

la responsabilità e, dispiacendomi, esprimo empatia verso la sofferenza che la mia azione

ha provocato all’Altro, infrangendo un suo bisogno legittimo. Nei rapporti intimi (con amici,

partner, familiari) ma anche entro certi limiti nei rapporti con conoscenti e colleghi di

lavoro, dopo un conflitto degenerato in litigio ritengo sano che due persone rielaborino la

rabbia in modo da darsi empatia, mettendosi nei panni dell’Altro ed esprimendo dispiacere

per le azioni irrispettose che hanno provocato disagio o sofferenza. In altri casi, come

quando un solo soggetto è stato aggressivo, per esempio perché era già in ansia per

motivi suoi e perciò ha scaricato sull’Altro il suo nervosismo, basterebbe per risolvere il

conflitto che il soggetto esprimesse empaticamente dispiacere per il proprio

comportamento, e che l’Altro ricevesse empaticamente, mostrando comprensione.

10B L’essenza della rabbia

L'essenza della rabbia è un bisogno non soddisfatto, che talvolta possiamo identificare

con un comportamento lesivo della nostra dignità. Per Lowen (2004) il bisogno più urgente

che abbiamo attiene alla libertà, pertanto “la rabbia è la reazione naturale alla restrizione

coatta e alla perdita della libertà”. Nel caso di un bisogno non soddisfatto, usare la rabbia

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come strumento di colpevolizzazione è disfunzionale mentre è efficace connettersi al

bisogno sottostante la rabbia per esprimerlo, e chiedere un impegno a soddisfarlo in

futuro. Nel caso di un comportamento lesivo, come descritto sopra, esprimere una sana

rabbia serve al ristabilimento dell’integrità personale e a ricevere dall'altro empatia per la

ferita subita.

Dal punto di vista bioenergetico (Lowen, 1984; Marchino, 1995), la rabbia non espressa

cronicizza nelle tensioni muscolari; ogni muscolo teso nel corpo riflette un conflitto interno

tra un sentimento e l’espressione di quel sentimento. Una gola tesa potrebbe trattenere

l’impulso a piangere, o a gridare, azioni correlate a emozioni quali la tristezza o la rabbia

(Botton, 2004). Il riconoscimento della rabbia, quando repressa, può passare

dall’interpretazione dei sintomi che ci mostra il nostro corpo. Le limitazioni dei movimenti

dovute a contrazioni croniche sono dovute a conflitti irrisolti, e intrappolano energia, che

può essere sbloccata con alcuni esercizi bioenergetici, al fine di lasciarla fluire e liberare le

nostre emozioni. Agendo sul corpo possiamo meglio far fluire l’energia e avere accesso a

emozioni che altrimenti rimarrebbero bloccate. Ricordo che la rabbia tende a farci

proteggere, chiudere, difendere per poi attaccare, il che equivale a livello fisico a contrarre

i muscoli; liberare la rabbia, avere accesso alla sua essenza, chiede di rilassarsi, lasciarsi

andare, aprirsi e quindi, a livello psichico, mostrarsi vulnerabili ossia “bisognosi” di

qualcosa dall’Altro. Un esercizio utile per fronteggiare le tensioni toraciche dovute a rabbia

e paura è quello di ripristinare un respiro profondo e regolare cercando di respirare con

l’addome, e via via aumentando il tempo di espirazione (scarica) rispetto a quello di

inspirazione (carica), al fine di rilassarsi.

10C La gestione energetica della rabbia e la sua rielaborazione psichica

L'energia presente nella mia rabbia, se la esprimo senza filtri, rischia di portarmi, in varia

misura, a giudizi, offese, toni aggressivi e al limite violenza verso oggetti o verso la

persona ricevente. Tutto questo rischia di pregiudicare l'ascolto e l'empatia che vorrei

avere per soddisfare il mio bisogno. È utile pertanto che io scarichi la tensione accumulata

con la rabbia, cioè che io gestisca la rabbia prima di affrontare l’Altro: siamo nella fase di

gestione del disagio emotivo, rielaborandolo psichicamente, per poi gestire il problema

concreto.

Uno dei metodi più frequenti per gestire la rabbia è quello di fare un break dalla relazione,

e quindi allontanarsi, stare soli per creare dentro di noi uno spazio per ascoltarci ed

empatizzare con quel che sentiamo (sensazioni corporee, sentimenti) e pensiamo, per poi

riflettere in modo lucido sui contenuti del conflitto, mettendoci anche nei panni dell’Altro. È

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richiesto in un certo senso un cambio di percezione, ossia dobbiamo relativizzare la

nostra, cercando di integrarla con quella che crediamo sia la percezione dell’Altro, in modo

da avere una comprensione più oggettiva del conflitto. Può essere utile per alcune

persone darsi tempo per riflettere, meditare, scrivere per chiarirsi le idee. Quando scopro

che nel conflitto anche l’Altro ha le sue buone ragioni, inerenti ai suoi bisogni, per essersi

comportato nel modo che ha stimolato la mia rabbia, posso iniziare a non colpevolizzarlo

troppo, e così facendo allevio il mio disagio (quando cessa ogni forma di

colpevolizzazione, finisce anche la rabbia). Non sempre però il break e il fermarmi a

riflettere può bastare per gestire la mia rabbia a livello psichico. Se ho accumulato molta

rabbia, e la esperisco in particolare a livello corporeo, mi occorre trovare una vera e

propria exit strategy psicofisica dalla rabbia, che mi permetta di scaricare prima la tensione

fisica e poi di rielaborare la rabbia a livello psichico. Ad alcuni basta camminare o fare dei

lavori domestici distraenti per scaricare la tensione e riconnettersi ai propri bisogni e

sentimenti sottostanti la rabbia. Ad altri può risultare necessario ricorrere a esercizi

specifici di cui hanno verificato l’efficacia personale.

Alexander Lowen, nel suo libro Espansione e integrazione del corpo in bioenergetica –

Manuale di esercizi pratici (2004), scrive che per scaricare la paura uno dei modi è

gridare, mentre per scaricare la rabbia uno dei metodi più efficaci è percuotere il letto con i

pugni. In particolare, secondo Lowen, scaricare la tensione dovuta alla rabbia colpendo un

letto con i pugni è un esercizio liberatorio: “Si dovrebbe essere abbastanza liberi da poter

esprimere la propria rabbia fisicamente, quando è opportuno. Ma i più hanno troppa paura

della violenza per essere in grado di esprimere la rabbia in modo fisico, a meno di aver

subito una estrema provocazione. Nella nostra cultura c'è un tabù che vieta di picchiare e

che si risolve in un danno perché ha come effetto soprattutto di disarmare completamente

le persone semplici di fronte ai prepotenti. […]. Si tratta di un esercizio indispensabile, se

soffrite di tensioni al cingolo scapolare, perché tali tensioni sono in larga misura collegate

alle inibizioni a usare il braccio per colpire. […] State in posizione eretta davanti al letto

con i piedi distanziati di circa 45 cm e piegate leggermente entrambe le ginocchia.

Stringete entrambe le mani a pugno e sollevatele al di sopra della testa. Sollevate i gomiti

e spingeteli più indietro che potete. Ora colpite il letto vigorosamente con entrambi i pugni,

ma in maniera rilassata e senza forzare il movimento. Pronunciate qualsiasi parola che

esprima uno stato d'animo di rabbia. Potete usare parole come "No!", "Non lo farò",

"Lasciami in pace", "Va' al diavolo" o "Ti odio". Vi rendete conto se i colpi che date sono

efficaci o vi sembrano senza forza? Sentite delle emozioni in concomitanza con

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l'esecuzione dell'esercizio? Non è necessario avere una forte emozione per dare un

significato a questo esercizio. Avete paura del vostro potenziale di violenza? In tal caso, a

forza di ripetere l'esercizio, ridurrete l'ansia e potrete controllare meglio la rabbia.” Lo

stesso esercizio può essere effettuato usando una racchetta da tennis al posto dei pugni,

se si ha bisogno di mostrare la propria forza e superare un senso di impotenza. Entrambi

gli esercizi possono essere ripetuti una ventina di volte ritmicamente per rafforzare le

braccia, sviluppare il coordinamento e allentare le tensioni del cingolo scapolare.

Le persone che in un conflitto tendono a non esprimere e valorizzare i loro bisogni,

possono aver beneficio dal rafforzare la propria aggressività anziché dallo scaricare la

propria (si presume non intensa) rabbia. Secondo Lowen (2004): “La parola stessa

[aggressività] significa 'muoversi verso'. Viene usata per significare "cercare di ottenere ciò

che si vuole". Una persona aggressiva è quella che si muove per ottenere ciò che vuole.

La mancanza di aggressività significa passività: attendere, non protendersi. Un buon

esercizio di aggressione consiste nel torcere un asciugamano. Prendete un asciugamano

di dimensioni medie e arrotolatelo. Quindi torcetelo con la massima energia, usando

entrambe le mani. Mentre torcete l'asciugamano, dite: "Dammelo". Continuate a torcere

l'asciugamano e a dire "Dammelo". Siete arrivati al punto di sentire che riuscite ad avere

ciò che volete? Avete lasciato andare la presa dopo ogni richiesta o siete stati in grado di

mantenerla? La vostra voce aveva un suono forte e sicuro? Avete la sensazione di

ottenere ciò che volete? E non è forse una sensazione simpatica?”

Questi due esercizi, percuotere il letto a pugni o a racchettate e torcere un asciugamano,

potrebbero essere molto efficaci rispettivamente per chi ha bisogno di scaricare la

tensione corporea dovuta alla rabbia, in quanto molto intensa e impedente un dialogo

lucido, e per chi ha bisogno di non accettare passivamente quanto emerso dal conflitto e

quindi di caricarsi di una sana aggressività. Una volta scaricata la tensione nel primo caso,

o rafforzata l’energia nel secondo, i due soggetti saranno più vibranti dal punto di vista

energetico, avranno visto emergere emozioni dai loro movimenti corporei, respireranno

meglio, e saranno più disponibili alla rielaborazione della rabbia e alla espressione sana

della collera o delle emozioni che sono emerse sotto la collera, quali la tristezza - la cui

espressione maestra è il pianto, in cerca di consolazione – o la paura – la cui espressione

maestra è il tremare o il raccogliersi, in cerca di protezione.

Quanto descritto finora è in linea anche con la terapia della Gestalt, come espresso da

Fritz Perls in L’Io, la fame, l’aggressività (1995). Secondo Perls, la rabbia è strettamente

correlata all’aggressività, la quale è principalmente una funzione dell’istinto della fame, e

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pertanto l’aggressività presente nella società contemporanea è il frutto della

trasformazione dell’aggressività dentale in personale. La soluzione al problema è il

ristabilimento della funzione biologica dell’aggressività dentale, non la repressione

dell’aggressività personale. Reprimere l’aggressività produce una carica di energia che in

qualche modo troverà una via di uscita. Lo sport potrebbe essere una via di uscita

soddisfacente, a volte; in altri casi, l’aggressività può essere sublimata. Più spesso, però,

reprimere l’aggressività creerà insofferenza e irritazione, oppure risentimento e vendetta.

L’aggressività può anche essere retroflessa se cambia direzione e viene rivolta non più

verso un oggetto esterno ma verso lo stesso soggetto che la origina. La retroflessione

corrisponde al sentirsi in colpa per i sentimenti altrui o per i propri, un atteggiamento che

come abbiamo visto può danneggiare la propria autostima fino a portare, alle estreme

conseguenze, alla depressione.

L’aggressività è un atteggiamento, una spinta all’autoaffermazione, a prendersi ciò ci si

vuole, che si manifesta, come descritto da Lowen (2004), andando verso l’altro, oppure

scontrandosi con l’altro. Secondo Pat Patfoort (2002) è semplicemente l’espressione

dell’istinto di autoconservazione. Di per sé l’aggressività non è né positiva né negativa,

anche se di solito la si identifica con l’andare contro l’altro. La rabbia è una emozione

primaria che può essere espressa verbalmente in modo più o meno aggressivo, o agita

con comportamenti aggressivi palesi come la collera, l’alzare la voce, l’agitarsi, il colpire

oggetti o persone. In alternativa, la rabbia può covare a lungo, e diventare risentimento: un

continuo ribollimento interno dovuto alla convinzione di aver subito un torto perché non è

stata riconosciuta la propria ragione. A volte, la rabbia non viene espressa ma retroflessa:

ciò è spesso visibile negli atteggiamenti di aggressività passiva. come certi silenzi o

allontanamenti. La rabbia potrebbe anche rimanere inconscia ed essere proiettata

sull’altro: in questo caso genera paura, angoscia, terrore in chi la proietta.

Perls (1995) non aveva ancora chiara la differenza tra aggressività come atteggiamento e

rabbia come emozione: infatti le associava strettamente, e comunque aveva trovato una

correlazione valida quando scriveva che la rabbia “trova il suo scarico nell’aggressività,

nell’innervazione del sistema motorio, come mezzi per conquistare l’oggetto voluto.” In

questa ottica, per Perls, l’obiettivo della rabbia, similmente a quello dell’aggressività

biologica, è quello di “uccidere” l’oggetto voluto (procurarsi il cibo), attaccarlo e

distruggerlo (digerirlo, ossia romperlo a pezzetti sempre più piccoli, a partire dal sistema

motorio, ossia dalla masticazione), e infine assimilarlo. Si noti la differenza tra

“distruggere”, che significa destrutturare (digerire), passo necessario per poi assimilare,

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rispetto ad “annientare” che significa rendere nulla, far scomparire. La funzione

dell’aggressività secondo Perls è distruggere per assimilare, far diventare parte integrante

del nostro organismo l’oggetto attaccato.

Se non si usa correttamente la masticazione dentale, ossia incisivi, canini e molari, ma ci

si ferma al succhiare o mordere, si inghiotte il cibo troppo velocemente, l’oggetto esterno

viene introiettato, diventa una parte estranea all’interno del nostro corpo. Non viene

metabolizzato. E quando si entra in contatto con il cibo introiettato, si produce una

aggressività impotente, un lamento, un transfert negativo. Lo stesso vale per il cibo

mentale: le persone che non masticano a sufficienza le situazioni che accadono loro

tendono a ingoiarle, ad accettarle senza spirito critico (per esempio a subire i conflitti

senza comprenderli, e quindi senza saperli risolvere in modo soddisfacente); in alternativa,

persone che hanno resistenze mentali (analoghe a quelle orali) tendono a rifiutare le

situazioni difficili (come i conflitti) opponendovisi, non riconoscendoli o evitandoli. Secondo

Perls (1995), chi ha sviluppato una sana aggressività orale tenderà a digerire e ad

assimilare facilmente le situazioni difficili, come le critiche, dato che sono situazioni

potenzialmente costruttive.

Se applichiamo la visione di Perls alla dinamica di un conflitto, si potrebbe dire che la

rabbia è un investimento energetico che trova il suo scarico nell’aggressività utile a

raggiungere il nostro scopo, ossia affermare il nostro bisogno all’interno del conflitto. Nello

stesso tempo, trovando nel bisogno dell’altro una resistenza al soddisfacimento di quello

nostro, la nostra aggressività dovrà fare i conti con la difficoltà di poter attaccare e

distruggere il cibo mentale costituito dall’incompatibilità dei due bisogni. Questa difficoltà

crea il disagio emotivo, che possiamo superare solo masticando bene questo cibo mentale

(rielaborazione della rabbia) per poterlo digerire, per spezzettarlo in tutte le sue

componenti. L’aggressività dentale equivale in questo caso all’aggressività volta ad

affrontare sia il disagio emotivo personale sia il problema concreto interpersonale, in modo

da risolverlo sostenendo il proprio bisogno, e nello stesso tempo andando incontro al

bisogno dell’altro. L’assimilazione del cibo mentale propostoci dal conflitto corrisponde alla

risoluzione del conflitto, che ha portato a un arricchimento personale (l’assimilazione) dei

due soggetti.

10D L’espressione di una sana collera

Una volta riconosciuti il significato, la funzione, l’essenza della rabbia, e dopo averla

gestita e rielaborata dal punto di vista energetico e psichico, posso esprimerla con parole,

toni e gesti rispettosi, secondo i quattro passi della comunicazione empatica. Per esempio:

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“Quando lei mi chiama ‘bellissima ragazza’ [osservazione], mi sento imbarazzata

[sentimento], perché è una considerazione su di me come donna e non come sua collega

di lavoro, e io ho bisogno di stima professionale [bisogno]. Preferirei che lei mi chiamasse

con il mio nome [richiesta].” Si potrebbe aggiungere come quinto step una motivazione

che rafforza la richiesta (Filliozat, 1998): “Avrei più piacere a lavorare con lei.”

11. Prendersi cura dei propri bisogni

Secondo la comunicazione nonviolenta (Rosenberg, 2003), i giudizi e le critiche sugli altri

sono espressioni alienate dei nostri bisogni. Personalmente credo che le critiche (giudizi)

sui comportamenti dell'Altro (al contrario di quelle sulla persona) possano essere espresse

e ricevute con empatia quando sono costruttive. È vero che ogni critica porterà almeno in

parte a una autodifesa in chi la riceve, ma in un rapporto di fiducia collaudato le critiche ai

comportamenti sono parti integranti del rapporto stesso e lo stare in relazione, nel

quotidiano, presuppone il lavoro di saper formulare e saper ricevere continuamente

feedback, tra cui le critiche: a volte in una relazione amicale o sentimentale le critiche, cosi

come i consigli, sono espressamente richieste.

Se io mi sento deluso e dico: "Non mi sento mai capito da te” o “Sento che non mi capisci

mai” o “Non mi capisci mai" sto esprimendo, con diverse sfumature (le prime legate in

qualche modo al “sentire”, benché sia un sentire cognitivizzato, cioè più legato al

pensare), un giudizio assoluto (“Mai”) su un comportamento dell’Altro, che somiglia molto

a un giudizio diretto alla persona (“Sei incapace di comprendermi”). Questo giudizio aliena

me stesso dal bisogno di essere compreso, che io sento insoddisfatto. Prendersi la

responsabilità dei propri sentimenti (“sentirsi deluso”) significa collegarli ai propri bisogni,

al posto di incolpare l'altro di averli causati. Un modo per collegare i sentimenti ai bisogni è

quello di usare frasi del tipo: "Mi sento [sentimento] Perché io [bisogno]". Per esempio: "Mi

sento arrabbiato quando non facciamo l'amore per una settimana perché io ho bisogno di

avere molto contatto fisico con te".

Come abbiamo visto, per alcune persone non è facile collegarsi ai propri bisogni e

legittimarseli: prendersi cura dei propri bisogni è un atto difficile per chi soffre di bassa

autostima e bassa spinta autoaffermativa (aggressività), come le persone depresse.

Inoltre, collegarsi con i propri bisogni non soddisfatti può far paura perché obbliga a sentire

la sofferenza che provoca. Succede quindi che molte persone non individuano i bisogni

sottostanti ai propri sentimenti sia perché nel disagio di un conflitto anestetizzano i

sentimenti, sia perché li subiscono senza riuscire a collegarli ai bisogni sottostanti, in

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modo da evitare di esprimerli. Il carattere orale (Johnson, 2004), per esempio, può avere

estrema difficoltà a legittimarsi il “bisogno di sentirsi in bisogno”. D'altro canto, se il caso

appena descritto riguarda persone con bassa autostima, può succedere anche che

l'individuazione e l'espressione dei propri bisogni di interdipendenza (riconoscimento,

comprensione, calore umano, sostegno) siano difficili in persone con alta considerazione

di sé, che tengono a sottolineare i propri bisogni di autonomia e integrità (autosufficienza,

autonomia delle scelte, autorealizzazione). Per queste persone collegarsi ed esprimere i

propri bisogni richiede di mostrarsi vulnerabili davanti all'Altro perché così facendo

dimostrano quanto, a dispetto del loro desiderio di piena autonomia affettiva, siano

sensibili e quindi in parte dipendenti emotivamente. Quest'ultimo caso potrebbe

corrispondere a persone con attaccamento evitante (Carli et al, 2009) e ai caratteri

psicopatico e rigido (Marchino e Mizrahil, 2007; Johnson, 2004). Vi sono infine persone

che esprimono a profusione i propri bisogni: è il caso di persone con attaccamento

ansioso, che spesso si lamentano di non ricevere le cure che esattamente vorrebbero e

questo è riscontrabile anche nel carattere “orale insoddisfatto” (Marchino e Mizrahil, 2007).

Nel complesso, saper riconoscere ed esprimere i propri bisogni all’interno di una relazione,

e saper far fronte a quelli dell’Altro, è un traguardo di maturità attinente al raggiungere un

attaccamento sicuro (Bowlby, 1989; Carli et al, 2009) ossia un buon equilibrio tra i bisogni

di autonomia e interdipendenza. Oltre a questi ultimi, fondamentali bisogni, vi sono quelli

relativi al divertirsi, al sentirsi in comunione spirituale con il mondo, al celebrare eventi

importanti e, last but not least, ci sono anche i più elementari bisogni fisiologici.

12. Le richieste per arricchire la vita

Nella comunicazione empatica le richieste vengono formulate con un linguaggio positivo

ossia esplicitando in modo chiaro e concreto che cosa vorremmo l'Altro facesse (e non

dicendo cosa vorremmo non facesse) per soddisfare il nostro bisogno e con ciò arricchire

la nostra vita. Lo stesso atteggiamento vale verso noi stessi. Quando ho un conflitto

interiore (intrapsichico), tipicamente sono indeciso su una scelta da compiere; nel chiarire

a me stesso i miei sentimenti e bisogni per capire cosa scegliere, mi è utile aggiungere in

positivo una richiesta verso me stesso relativa a un comportamento da tenere - non a un

comportamento da evitare - per essere coerente con la scelta che sto valutando. Il

processo di formulazione della richiesta ci impegna a compiere un lavoro su noi stessi

simile a quello (Naranjo, 1991) che si prefiggono le tecniche repressive della Gestalt (per

evitare intornismo, doverismo e manipolazione), al fine di raggiungere la consapevolezza

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di ciò che veramente siamo e vogliamo. La mancanza di consapevolezza genera

frustrazione e bisogni insoddisfatti (se non sappiamo i nostri bisogni, è difficile formulare

richieste per vederli soddisfatti), i quali a loro volta generano altra frustrazione; a lungo

andare il circolo vizioso che si può innescare dall'aver confusione sui propri bisogni o dal

non legittimarseli può portare alla depressione.

La fase della richiesta è il naturale compimento della comunicazione empatica. Se io

esprimessi solo il mio sentimento e ne fossi così pervaso da non aver chiaro qual è il mio

bisogno sottostante, non potrei formulare alcuna richiesta; se anche arrivassi a collegare il

sentimento a un mio bisogno, potrei non avere chiaro che cosa richiedere per soddisfarlo,

poiché potrei fermarmi alla consapevolezza di quale comportamento non lo soddisfa.

Sapere richiedere è quindi una funzione del nostro stato di consapevolezza e una attività

fondamentale dell'intelligenza emotiva che attiene a quello che Jung ha chiamato il

“processo di individuazione”.

Sussiste anche la possibilità che io non mi soffermi a esprimere i miei sentimenti e bisogni

e arrivi subito a fare una richiesta esplicita. È il caso di una persona che ha difficoltà a

contattare ed esprimere il disagio che sente nel “qui e ora”, e preferisce concentrarsi

sull’agire per risolvere il problema. In questo modo, però, le sue richieste possono

risuonare come comandi, o pretese, poiché il ricevente ha sentito solo le richieste, senza

aver visto alcuno stato di bisogno sottostante, e questo rende più difficile l’empatia. Ecco

perché, quando esprimo una richiesta, è utile verificare che il messaggio che ho inviato

coincida con quello ricevuto. A tal fine, potrei invitare l’Altro a ripetere, o meglio a

riformulare con parole sue quanto ha compreso, mostrando apprezzamento per il suo

sforzo anche qualora non avesse capito bene, poiché ciò costituisce un’occasione per

spiegarmi meglio. Stare nelle incomprensioni con empatia è già parte della risoluzione di

un conflitto, poiché l’empatia - così come la nonviolenza per Gandhi - è sia il mezzo sia il

fine cui giungere. Il principio cardine della nonviolenza, infatti, è che i mezzi e i fini sono

legati tra loro come il seme e l’albero e non è possibile raggiungere la pace con mezzi

violenti (Lanza del Vasto, 1978). Pertanto, l’ultimo passo che posso compiere nel

formulare richieste è dare empatia all’Altro chiedendo come si sente, che cosa pensa e se

ritiene di essere disposto a soddisfare la mia richiesta. Nella comunicazione empatica non

esistono obblighi, perciò la mia richiesta non vuole essere una pretesa che impedisca

all’Altro di scegliere liberamente se soddisfarla o meno. Di fronte a una pretesa, infatti,

tendiamo a reagire ribellandoci oppure acconsentendo per paura di ritorsioni, o senso di

colpa, o senso del dovere. In tutti questi casi vengono a mancare l’empatia e la

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responsabilità delle proprie azioni. L’essenza di ogni mia richiesta è un moto di empatia

verso i miei bisogni, ma anche verso la libertà dell’Altro di scegliere come rispondermi in

base ai suoi bisogni.

13. Ricevere con empatia

Per ricevere con empatia l'espressione di una collera, o di altre emozioni spiacevoli

connesse a un bisogno altrui non soddisfatto, occorre innanzi tutto accettare l’Altro

incondizionatamente. Se quando parla osservo che sono sulla difensiva, significa che non

ho ancora alleviato a sufficienza il mio disagio emotivo, pertanto non sono in grado di

ascoltarlo veramente e di occuparmi del problema. Il linguaggio corporeo mi indica

chiaramente quando non sono pronto a ricevere con empatia: se non riesco a stare fermo

di fronte all’Altro, mi distraggo facendo altro, non guardo il mio interlocutore, non rispondo

alle sue domande, ho le braccia conserte o comunque tendo a coprire il torace, sto

comunicando aggressività passiva. In questo caso conviene fare un break, empatizzare

con i nostri sentimenti, pensieri, bisogni; fermarsi a respirare o a fare un esercizio fisico

per gestire l’emozione in figura e tornare più rilassato. Poi, quando ci sentiamo pronti,

possiamo praticare l’arte di ascoltare, che richiede di svuotare la mente per non avere

preconcetti che possano alterare la comprensione di quanto l’Altro ci comunica. Con il

linguaggio corporeo posso comunicare la disponibilità all’ascolto ponendomi davanti a chi

mi parla con un atteggiamento aperto, guardandolo negli occhi e rispecchiando con il

corpo la sua postura: così facendo trasmetto disponibilità e accoglienza e facilito

l’instaurarsi della sintonia tra me e lui. Se lo ascolto con pazienza, senza interromperlo,

dandogli tutto il tempo per esprimersi, lo aiuto ad aprirsi e a sentirsi compreso. Prima di

dare rassicurazioni o consigli (Rosenberg, 2003), è meglio che io mi focalizzi sull'ascolto

attivo, interrompendo solo per fare domande quando mi sembra di non capire, e sul

riformulare quel che mi viene detto, in modo da verificare di aver compreso correttamente.

Peraltro, non voglio solo capire a livello cognitivo le osservazioni e le richieste dell'Altro,

ma mostrare comprensione empatica per i suoi sentimenti e bisogni. Si tratta di sentire

con il cuore ciò che sente l’Altro, e per far ciò mi è richiesto di essere autentico e

totalmente centrato sulla relazione. Non ho nessun dovere in proposito: l’empatia non

ammette il “doverismo” (Naranjo, 1991); anzi, ho la libertà di scegliere come relazionarmi,

perciò ho anche la responsabilità di ogni mio sentimento e comportamento. Dopo aver

ascoltato, posso decidere di accogliere la richiesta dell’Altro e di empatizzare con lui

dispiacendomi, se ritengo di essere responsabile della sua sofferenza; oppure posso

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empatizzare con i miei bisogni non soddisfatti, e comunicarli come l’Altro ha comunicato i

suoi a me, e in tal caso scelgo di stare nel conflitto per trovare una sintesi condivisa

rispetto ai suoi e miei bisogni; oppure posso scegliere di non soddisfare la richiesta

dell’Altro, non considerandola legittima e arricchente la mia vita, e in tal caso il conflitto

non verrà risolto, quanto meno per ciò che riguarda il trovare una soluzione al problema

concreto.

La comunicazione empatica mi permette di accettare il conflitto come uno stato

temporaneo dell’essere in relazione e di viverlo con empatia cioè prendendomi cura dei

sentimenti e bisogni miei e dell’Altro, Gli strumenti che usa la comunicazione empatica

sono quelli che si adottano nel setting del counseling (Rogers, 1971): espressione dei

propri sentimenti e bisogni nel qui e ora (senza intornismo, doverismo o manipolazione),

consapevolezza e responsabilità (cliente); accettazione incondizionata, ascolto empatico

con riformulazione, congruenza (counselor). La principale differenza consiste nel fatto che

nella comunicazione empatica gli attori ricoprono contemporaneamente i ruoli di cliente e

counselor.

13A Celebrare l’empatia

L’empatia (etimologicamente: “sentire dentro”) è la capacità di sentire le emozioni dell’Altro

in modo simile a come lui le prova. Grazie ai “neuroni specchio” siamo in grado di imitare,

nel nostro corpo, la persona con cui ci relazioniamo, fino a riprodurre le sensazioni e le

emozioni che sente. La nostra conoscenza dell’esperienza dell’Altro è, di fatto, una

embodied cognition, una conoscenza attraverso il corpo (“risonanza somatica”). Senza

questo meccanismo-specchio avremmo una percezione delle emozioni altrui solo

razionale (empatia cognitiva), senza calore emotivo (empatia emozionale). La Gestalt,

(Ginger, 2004) peraltro, ci mette in guardia dal confondere l’empatia con la confluenza,

ossia il non saper più distinguere ciò che è interno al Sé da ciò che è esterno, Altro da sé.

L’empatia non vuole annullare l’Alterità, bensì creare relazioni autentiche, in cui posso

esperire completamente me stesso e l’Altro senza difendermi o attaccare. Dare empatia

all’Altro è il modo migliore per sentirmi al sicuro, perché riconosco la nostra comune

umanità, gli stessi sentimenti e bisogni, e posso mostrarmi in tutta la mia vulnerabilità,

senza indossare la maschera di persona forte e sicura.

L’empatia che do all’Altro la posso celebrare con me stesso senza giudicarmi quando

sono stato meno che perfetto (Rosenberg, 2003). Lo stimolo a cambiare per arricchire la

mia vita può passare da una scelta consapevole collegata ai miei bisogni e desideri o dal

senso di colpa e dalla vergogna per non aver compiuto quello che ritengo essere il mio

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dovere. Nel primo caso sto celebrando l’empatia con me stesso, nel secondo sto

celebrando l’odio verso me stesso. Rimproverarmi per scelte passate, sentirmi in dovere

verso certi comportamenti, esercitare pretese di cambiamento sono atti retroflessi di

violenza e di odio che, anche se cambiano la mia vita, non la arricchiscono perché mi

alienano dai miei sentimenti e bisogni e mi impediscono di scegliere. Anziché

rimproverarmi per errori passati posso “celebrare la perdita”, la sconfitta delle mie azioni

con empatia, ascoltando i sentimenti e i bisogni non soddisfatti che si celano dietro la mia

severa autocritica. Collegandomi con i miei sentimenti e bisogni passati che mi hanno

portato ai comportamenti di cui ora mi dispiaccio, posso dare empatia a quella parte di me

che li ha intrapresi e “celebrare il perdono” di quella parte di me stesso. Celebrare

l’empatia significa accogliere ogni mia azione senza giudicarla, senza sentirmi in colpa o

provare vergogna se si è rivelata fallace, bensì riconoscendo e apprezzando i sentimenti, i

bisogni, i valori che la sottendevano. Celebrare l’empatia significa agire spinto dal

desiderio di arricchire la mia vita traducendo “devo” in “scelgo”, con la consapevolezza che

in ogni momento, anche nel conflitto più grave, nella più grande sofferenza, nella

situazione di massima restrizione della mia libertà, ho sempre la possibilità di scegliere

come gestire i miei sentimenti e come prendermi cura dei bisogni miei e dell’Altro.

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Parte 2: UNA VITA DI CONFLITTI – I CONFLITTI DI UNA VITA

A) I conflitti all’interno della mia famiglia

Nella mia famiglia, i conflitti tra i miei genitori erano scarsi, e quando presenti venivano

risolti dalla volontà di mia madre di andare incontro a quella del marito, che lei stimava

molto e riconosceva come il capofamiglia. Mia madre, per quanto avesse un

comportamento iperadattato e a volte in confluenza con le esigenze del marito e dei figli

(credo afferente a un enneatipo 9 e a una tipologia caratteriale orale-simbiotica), ritengo

fosse l’elemento forte e stabile della famiglia, perché di fatto era mio padre quello che

tollerava con meno flessibilità (e tendeva spesso a reagirvi cercando la solitudine) le

discussioni e i conflitti presenti in famiglia, inevitabili come in qualsiasi relazione

interpersonale.

Mio padre era poco portato a dedicare del tempo a parlare di un problema e mal

sopportava il contraddittorio a causa della sua impazienza e irascibilità, che lo portavano a

prendere decisioni in modo veloce e autoritario; tuttavia, non sempre agiva mettendo in

atto il suo volere, perché a volte esaudiva le richieste dell’Altro che pure, a parole, aveva

mal considerato. Per esempio, quando chiedevo un regalo, spesso reagiva male perché

non era di suo gusto e avrebbe preferito desiderassi altro, e la discussione finiva lì, con lui

arrabbiato o insofferente o sconsolato per il fatto di avere un figlio che non apprezzava ciò

che contava per lui e io che non parlavo più, impietrito, impaurito se lui si era arrabbiato e

con un vago senso di colpa per aver sbagliato qualcosa. Poi però, di solito, mio padre

andava a cercare da solo il regalo che gli avevo chiesto e all’improvviso me lo trovavo in

casa (anche se non sempre era esattamente quello che intendevo io). Il suo intento era in

parte quello di imporsi, in parte quello di velocizzare il processo decisionale di risoluzione

del conflitto, al fine di passare presto all’azione. In questo suo atteggiamento si riscontra,

io credo, il suo temperamento (probabilmente un enneatipo 8 o 1 e una tipologia

caratteriale rigida) di forte controllo delle emozioni, specialmente la paura e la tristezza,

che non venivano sentite ed espresse, a favore della rabbia, la quale usciva imperiosa

alzando la voce con una espressione minacciosa, imponendo il proprio volere e ponendo

fine alla discussione.

In sintesi, i conflitti tra i miei genitori si risolvevano con la confluenza di mia madre sulle

esigenze del marito, che veniva così sollevato dal peso di stare nell’incertezza e veniva

30

confermato nel suo ruolo di capofamiglia. Più tardi, dopo che a 23 anni avevo avviato il

mio percorso di psicoterapia, cambiarono le dinamiche all’interno della famiglia, e anche

mia madre iniziò a fare valere i suoi diritti nei confronti di mio padre che, da parte sua,

imparò l’arte di ascoltare, o quanto meno di rassegnarsi a non poter controllare tutto come

avrebbe voluto.

Nel conflitto con i figli, mio padre cercava di imporre i propri dettami, richiedendo

comportamenti altamente responsabili, ordinati e improntati al dovere; ovviamente, avendo

a che fare con due bambini, io e mia sorella, molto vivaci nei primi anni di vita, mio padre

ha dovuto affrontare la frustrazione che i bambini non si comandano come fa un generale

con dei soldati.

Ricordo che mio padre estendeva questa sua ansia di comando e di imposizione di

comportamenti rigidamente controllati e ordinati a qualsiasi soggetto potesse avere sotto il

proprio dominio - e non è un caso che fosse un uomo con un forte senso estetico, un

geometra, che avesse una grafia elegante, così come, pur essendo nato da famiglia

povera che non gli ha certo insegnato atteggiamenti di compostezza da “signori”, non è un

caso che avesse un corpo e dei movimenti piuttosto armoniosi sia nel semplice

camminare che nel praticare sport: ricordo l’eleganza dei suoi gesti tecnici giocando a

calcio o a tennis. Amante degli animali, ma più per un senso estetico che per l’interazione

che voleva instaurare con loro, così come amante del giardino di casa che coltivava

personalmente, provò più volte a portare dei cani nella nostra villa, con grande piacere

mio, di mia sorella e dei miei cugini (vivevamo in una villetta bifamiliare), salvo poi

accorgersi che i cani non avevano per il giardino il rispetto che lui avrebbe desiderato, con

il risultato che ci portò a casa almeno quattro cani, ai quali ci affezionammo, per poi

dovervi rinunciare.

Nei conflitti padre-figlio, ho sperimentato fin da piccolo il ruolo di mediatore di mia madre.

Tendenzialmente cercava di ammorbidire suo marito, ma senza insistere molto. Accettava

di buon grado di restare da sola con i figli durante le vacanze o in altre occasioni, quando

mio padre non riusciva a sopportare per troppo tempo le urla, il rumore, il disordine e le

intemperanze di due bambini piccoli. Nello stesso tempo, mia madre cercava di mediare

tra lui e noi quando mio padre reagiva con rabbia alle nostre richieste, così come cercava

di rabbonirlo e di fargli cambiare opinione e tornare sui suoi passi per accontentarci.

Svolgeva questa attività di mediazione a volte davanti a noi, a volte in privato con lui,

cercando il momento buono per farlo “ragionare”. In questo suo ruolo ritrovo l’ascolto

empatico della comunicazione nonviolenta, per quanto mia madre cercasse a parole non

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tanto di riformulare (non possedendo la preparazione necessaria) quel che avevamo detto,

ma di persuadere, intuendo spontaneamente il bisogno profondo dei figli e di mio padre.

I conflitti più profondi con i miei genitori, specialmente verso mia madre, si palesarono

nell’adolescenza, quando sviluppai, in concomitanza con lo sviluppo sessuale, un senso di

vergogna verso i miei genitori, unito al desiderio di autonomia e privacy. Cominciai a

sentire invasiva la presenza di mia madre, che non accettava facilmente le mie richieste e

i rimproveri che iniziavo a muoverle. Notai il suo sistema difensivo all’insegna del: “Ma

come, io faccio tutto questo per te e tu, anziché essere contento, reclami?”. Reclamavo

perché faceva per me cose che io non le chiedevo e di cui avrei fatto a meno. Cercando

sempre di accontentarmi, finiva per fare quel che lei credeva volessi, senza accorgersi che

io le chiedevo altro, forse perché questo “altro” andava nel senso di lasciarmi diventare

autonomo. Imparai ad ascoltare e a riconoscere con sempre maggiore precisione le parole

che usava, e quelle che non usava. Diceva spesso: “Ho fatto così perché tu…” oppure:

“Non è vero che ho fatto o detto questo…” per cercare giustificazioni al proprio operato:

non ammetteva quasi mai di aver fatto qualcosa che potesse avermi creato un dispiacere,

e piuttosto che ammetterlo negava di aver fatto questo o quello, o diceva che lo aveva

fatto perché ero stato io a dirle qualcosa tale per cui aveva creduto che… In pratica,

riversava su di me la responsabilità del comportamento che aveva messo in atto e che mi

aveva creato disagio. Tutto questo è stato spesso disorientante per me, perché mi creava

dei dubbi su quel che avevo comunicato – e questo mi ha portato, in seguito, a fare

sempre più attenzione alle parole che uso con le donne – e su quale fosse la mia reale

volontà. Di fatto, mia madre interpretava quel che dicevo, lo filtrava inconsapevolmente,

piuttosto che ascoltarlo, con quel che credeva lei fosse il mio bene, e in base a questa

sintesi agiva. C’era in lei il bisogno che venissero riconosciuti sempre la sua buona fede e

il suo proposito di farmi del bene, evidentemente era particolarmente sensibile a non voler

fare la parte dalla “bambina cattiva”. Questo negare la propria responsabilità –

riversandola su di me – per ciò che faceva mi procurava malessere e a lungo andare mi

portò all’esasperazione. Notai che non usava mai parole come: “Va bene”, “Hai ragione” e

“Mi spiace”. Cominciai a impuntarmi sul fatto che non volevo più ascoltare le sue

giustificazioni ma che mi dicesse: “Va bene” o “Mi spiace” o “D’accordo, ho sbagliato”.

Da allora, il riconoscimento della propria responsabilità (e quindi il rifiuto delle

giustificazioni, cioè il cercare di riversare la causa dei propri comportamenti

esclusivamente su fattori esterni, se non direttamente su di me), la disponibilità

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all’autocritica e al sapersi dispiacere hanno assunto una importanza decisiva nella mia vita

di relazione con mia madre e con una partner. Ho imparato anche quanto fosse importante

il linguaggio del corpo e il tono della voce nella comunicazione con le donne che ho

amato, dato che spesso il contenuto verbale esplicito del messaggio non veniva percepito

come prioritario. Mia madre, inoltre, aveva la tendenza ad ascoltare senza stare mai

ferma, cioè muovendosi, camminando, guardando altrove, sistemando cose, vuoi perché

era sempre indaffarata, vuoi come modalità di aggressività passiva. Questo suo

atteggiamento, unito alla ancora più grande difficoltà di ascoltare da parte di mio padre, mi

ha portato ad avere il bisogno di essere ascoltato con attenzione da parte delle mie

partner.

Il conflitto con mia madre è durato molti anni, durante i quali lei ha imparato a riconoscere

la propria invadenza e a prendersene la responsabilità, dispiacendosi; da parte mia, ci ho

messo più tempo del dovuto a riconoscerle questo cambiamento, e ancora adesso soffro

di eccessiva sensibilità nei confronti di come mi ascolta, di come mi risponde, e di quando

tende a fare cose per me che non le chiedo. Tuttavia tra noi si è stabilito un rapporto di

vicendevole chiarezza circa i propri bisogni e sentimenti, in cui entrambi possiamo

arrabbiarci ma poi cerchiamo di entrare in empatia con i bisogni dell’Altro, a partire dal

riconoscerli, cercare di esaudirli, e dispiacersi se non ce l’abbiamo fatta. A conti fatti, ora il

nostro modo di relazionarci è prossimo a quello della comunicazione empatica. Credo che

sia grazie all’esserci impegnati per una ventina di anni sulla risoluzione dei nostri conflitti

parlandone il più possibile, e facendo uscire le nostre emozioni, che mia madre da molti

anni è diventata per me, all’occorrenza, una amica che sa ascoltare le mie sofferenze,

anche le più intime come quelle con le partner, che io non ho difficoltà a raccontarle in

profondità.

L’altra donna della mia famiglia, mia sorella Silvia, minore di me di due anni, è sempre

stata più sorella che amica, mentre io come fratello maggiore mi sono spesso relazionato

da amico nei suoi confronti. Da piccoli avevamo un carattere molto irrequieto e litigavamo

spesso, ma eravamo molto affiatati. Crescendo, abbiamo mantenuto un ottimo rapporto,

fino a che lei si è sposata a 23 anni. Da allora, conduciamo due vite molto indipendenti ma

pur non vedendoci spesso è aumentata la nostra confidenza e amicizia. Intorno ai 20-25

anni, Silvia ha sempre saputo come “prendermi” quando in famiglia io andavo in crisi per i

conflitti con i miei genitori: stabile e pragmatica, sapeva darmi tempo senza farsi

sconvolgere dalle mie esplosioni emotive (gestione del disagio) e poi propormi una via

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d’uscita concreta (soluzione del problema). Negli anni a venire ho notato come queste

qualità siano state difficili, per me, da trovare nelle mie partner, che si “bloccavano” di

fronte ai miei stati emotivi rabbiosi o di intensa tristezza.

I conflitti con mio padre iniziarono dopo quelli con mia madre, ma si risolsero molto più

velocemente. Intorno ai 24 anni, sei mesi dopo l’inizio della psicoterapia, successe un fatto

che cambiò radicalmente i rapporti tra me e lui. Una sera che avevo invitato M., la mia

prima ragazza, a casa mia, mio padre scherzando provò, come spesso faceva davanti ad

amici o familiari, a svalutarmi, a farmi passare per incapace. Era la prima volta che subivo

questo suo comportamento davanti alla mia ragazza. In me la rabbia repressa per anni

contro di lui si alimentò lenta ma implacabile, fino a diventare incontenibile. Fino ad allora,

per tutti quegli anni, lui mi aveva terrorizzato con i suoi continui scoppi di ira cui non

sapevo oppormi né arrabbiandomi (rabbia) né piangendo (tristezza) né scappando

(paura); mi aveva umiliato e oppresso con i suoi giudizi severi o ironici che mi facevano

sentire un incapace, aveva talvolta anche minacciato di picchiarmi (mi aveva dato poche

sberle, l’ultima delle quali quando avevo 14 anni). La repressione della mia rabbia e della

mia capacità di andare verso l’Altro (aggressività), la mia timidezza eccessiva con le

donne, unita all’inibizione della mia sessualità per tutta l’età adolescenziale avevano come

radice il terrore verso mio padre e la sottomissione a quel terrore. Ormai per me, a 24

anni, era diventata una questione di sopravvivenza: o me o lui. O io diventavo uomo

opponendomi a lui, o io sentivo, nel profondo, che non sarei mai riuscito nella vita a

sapermi affermare, a farmi valere, a difendere la mia dignità, a essere uomo con una

donna. Finita la serata, quando restammo soli, gli dissi che volevo parlargli, e volevo mi

ascoltasse. Lui, che sapeva a cosa mi riferissi, cercò di zittirmi sostenendo che non c’era

nulla da dire. Ma io insistetti dicendo che ero suo figlio e volevo che iniziasse a fare il

padre, ascoltandomi. Stava evitando il conflitto, ma io ero deciso ad andare avanti a ogni

costo: ero letteralmente pronto a morire pur di affrontare fino a fondo quel conflitto. Così gli

tenni testa, con una determinazione che lui non si aspettava, tant’è che dovette avvicinarsi

a me e utilizzare la sua ultima arma - minacciare di darmi una sberla - se non fossi stato

zitto, ossia se non avessi obbedito al suo comando. Io reagii di istinto: mi avvicinai ancora

di più a lui con la faccia e gli urlai più volte di prendermi a sberle, se ne aveva il coraggio.

Mio padre ebbe un crollo. Quasi si accasciò, e poi a stento si ricompose, si mise a

piangere e a lamentarsi sconsolato che non sapeva più come fare. Solo a quel punto io mi

rilassai e iniziammo a parlare, come non avevamo mai fatto.

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Fu il conflitto di gran lunga più importante della mia vita, e dice molto di me (e di mio

padre). Fu il punto di svolta della mia crescita come uomo, una prova di forza che dimostra

come chi minaccia o usa violenza è in realtà la parte più debole del conflitto e se trova di

fronte chi sa opporgli una valida resistenza nonviolenta (come la mia) o empatica, può

crollare, mostrarsi vulnerabile e – finalmente! - ricevere comprensione. Nei mesi

successivi ci furono ancora dei litigi tra me e lui: delle scosse di assestamento durante le

quali tentò di alzare la voce con me; ma io la alzai ancora di più. Nel complesso, però, da

quella sera la sostanza del nostro rapporto cambiò in modo irreversibile: mio padre

cominciò a darmi, tra i 25-30 anni, l’affetto che non mi aveva dato da piccolo. Io e lui

cominciammo a parlare normalmente e mi accorsi, con stupore, che ci capivamo con

facilità. Mio padre cambiò molto anche nei confronti di mia madre e dei famigliari,

dimostrando di essere un uomo che sotto una spessa corazza nascondeva la propria

tenerezza, di cui si vergognava, preferendo fare uscire la rabbia. La risoluzione del nostro

conflitto fu una liberazione anche per lui, perché da allora ha iniziato a diventare più

sereno e in pace con il mondo.

Avere dei rapporti più rilassati con mio padre mi ha permesso di concentrarmi

maggiormente sui problemi con mia madre e sull’essere più disinvolto con le donne. Negli

anni a seguire sono cambiate totalmente le dinamiche famigliari, grazie a tantissime

discussioni relative a tutti i conflitti che prima non avevo la capacità di affrontare. Questo

processo fu lungo e doloroso perché la capacità di accettazione dei miei genitori nei miei

confronti, all’inizio, era ancora molto bassa e io dovetti arrivare, a furia di discutere, quasi

al limite di rottura dei rapporti, prima di ricevere da loro la massima disponibilità. Anche

grazie a questa esperienza, ora so quanto possano essere fertili i conflitti e le crisi

affrontate a viso aperto, senza cercare subito di ricomporle ma anzi, all’inizio, scavando e

guardando bene il fossato che separa i due interlocutori.

Uno dei risultati più belli della mia vita è avere fatto un lavoro, insieme a mio padre e a mia

madre, che ci ha portato alla destrutturazione dei nostri rapporti parentali, fino a ricostruirli

dalle fondamenta sulla base di un affetto del tutto nuovo, come nuove erano le nostre

identità. Da allora loro per me sono diventati Carlo e Felicita.

È indubbio che, a causa di questi miei conflitti familiari, che hanno portato a grandi

cambiamenti in positivo con i miei genitori, io abbia sviluppato forti aspettative verso il

potere di cambiamento che può scaturire dall’affrontare i conflitti con ascolto, empatia e

disponibilità. Sono pertanto portato nei conflitti intimi a esprimere con fiducia i miei bisogni,

primo fra tutti quello di essere ascoltato, e talvolta lo faccio, nella vita di coppia, in modo

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esigente o insistente, con eccessiva speranza che vengano accolti. Poiché questo non

può sempre avvenire, quando insisto a volte ottengo un rifiuto o tutt’al più la soddisfazione

del mio bisogno in modo non spontaneo, e in tal caso rischio di manifestare soddisfazione

mista a rimprovero. Sicuramente mi è utile un lavoro di accettazione dei miei e degli altrui

limiti, in modo da evitare di incolpare me o gli altri per il mancato raggiungimento di

obiettivi al di fuori della mia o loro portata. Il bisogno di essere ascoltato e riconosciuto per

quel che sono, e di essere compreso e apprezzato, credo siano rimasti prioritari per me

perché si sono sviluppati nella fase della costruzione della mia identità. Per affermare

questi bisogni nei conflitti interpersonali, il mio strumento principale è la parola, e quindi

l’affermazione della mia identità passa attraverso il dialogare, proprio perché la parola è

stata determinante nell’evoluzione del rapporto con mio padre. Ne risulta quindi che la

disponibilità e la qualità dell’ascolto e del dialogo che mi può dare una persona con cui ho

una relazione intima (amico confidente, partner) è fondamentale per il mio benessere.

B) I conflitti con gli amici e nell’ambiente di lavoro

Le mie relazioni amicali sono state quasi sempre prive di grandi conflitti. Da bambino ero

molto più timido e introverso rispetto a ora, e tendevo a circondarmi di amici fidati con cui

condividere i miei hobby. I conflitti li evitavo perché non mi ritenevo in grado di farmi

rispettare. Questo atteggiamento rinunciatario era determinato dalla percezione che avevo

del mio corpo. Rispetto alla maggior parte dei miei amici ero molto più rigido e impacciato

nei movimenti (e ho portato fino alla quinta elementare le scarpe ortopediche), pertanto

non ero competitivo nelle attività fisiche e negli sport, e ciò ha prodotto in me un senso di

inferiorità. Per esempio, non sono mai stato bravo in ginnastica e vivevo le ore di

educazione fisica con disagio, che diventava terrore quando occorreva fare il salto in lungo

e in alto, per non dire dei salti a ostacoli, o alla cavallina, o dall’alto in basso, o le capriole.

Negli sport di contatto fisico, come il calcio, ero capace di difendere e scardinare il gioco

altrui, ma non di costruirne uno: potevo essere discretamente bravo a tirare in porta, ma

ero incapace di “scartare” un avversario, quindi di affrontare l’uno contro uno, che

richiedeva di impormi fisicamente.

La mia rigidità e goffaggine, il mio camminare curvo dipendeva di certo dal sentirmi

oppresso dal peso della rabbia di mio padre, alla quale non ero in grado di reagire, così

come non reagivo agli scherzi e alle provocazioni di alcuni miei compagni di classe. Con

due dei miei amici più cari, però, ho saputo reagire e sono arrivato “alle mani”, una volta

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alle scuole elementari e un’altra alle medie. Con Fabio, non ricordo il motivo, ma so che mi

sentivo maltrattato, come se avessi subito un’ingiustizia, e allora è uscita la rabbia, l’ho

aggredito, e siamo ruzzolati per terra. Lui, molto più agile di me, ha avuto presto la meglio

e il litigio è finito lì, perché si è preoccupato più che altro di difendersi che di infierire o di

vendicarsi per l’attacco. Con Sergio eravamo alle medie, negli spogliatoi dopo una lezione

di educazione fisica; sentii che si burlava di me con un altro amico, e allora andai verso di

lui e senza rendermi conto lo spinsi contro il muro, che urtò con la tempia, provocando in

me una grande paura di avergli fatto molto male, fino a temere di averlo ucciso. Per

fortuna, Sergio fu lesto a riprendersi e riuscì anche a sdrammatizzare la cosa,

scherzandoci sopra. In entrambi i casi, il mio atteggiamento era stato di evitamento del

conflitto, fino a quando l’accumulo di non-detti si è trasformato in una rabbia incontenibile,

che ha superato il mio senso di inferiorità e si è espressa con la violenza, il naturale sfogo

del disagio emotivo. I litigi pertanto si sono risolti in modo fisico, senza affrontare il

problema concreto, che richiedeva una consapevolezza e una padronanza della

comunicazione verbale difficile da avere in età scolare.

Questi esempi infantili hanno due tratti che si sono rivelati tipici dei conflitti da adulti, non

solo con amici maschi, ma anche con conoscenti o colleghi di lavoro. Il primo è il non

esprimere fino in fondo il disagio emotivo, sia per imbarazzo personale, sia considerandolo

poco opportuno e troppo imbarazzante anche per l’amico. Il secondo tratto è il non

risolvere fino in fondo il problema pratico, lasciando che il tempo faccia il suo corso, quasi

confidando in una autoregolazione reciproca. Questi due tratti di un conflitto amicale li ho

rivissuti verso i 25 anni con due miei amici, durante dei viaggi, in vacanza, in cui

dovevamo decidere sulle attività da fare. I conflitti derivanti dalle decisioni da prendere

hanno generato insofferenza, irritazione e rabbia trattenuta, ma ci siamo autocontrollati e

non siamo andati oltre qualche provocazione. Il conflitto è stato superato risolvendo il

problema pratico e, come spesso avviene, andando incontro a chi poneva più limitazioni.

Verso i 28 anni, però, il conflitto con altri due miei amici è stato affrontato in modo più

empatico e profondo. Con G., le mie continue osservazioni nei suoi confronti lo hanno

esasperato al punto da indurlo a dire che voleva chiudere l’amicizia con me, in quanto gli

sembrava che fosse venuta meno la fiducia reciproca. Di fronte a questa sua

dichiarazione, la mia risposta è stata il pianto, con il quale ho espresso la mia tristezza ma

anche il bisogno di comprensione per il fatto che venivo da un periodo di grande

frustrazione per la fine della mia storia con A.L. Questa mia reazione, dopo un momento di

sua esitazione, ci ha riavvicinato e ha rafforzato la nostra amicizia. Con A., una

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discussione tra noi, lasciata cadere, lo ha portato a provare sentimenti di rabbia nei miei

confronti che mi ha espresso in un secondo momento, manifestando la voglia di regolare i

conti venendo alle mani. Il suo tono era freddo e distaccato e non mi aspettavo la volontà

di passare alle vie di fatto, denunciata invece dalla tensione del suo corpo. Tuttavia, riuscii

a non spaventarmi (e avrei potuto, vista la stazza e il fisico atletico di A.), a empatizzare

con la sua rabbia, addirittura a scherzare sul suo desiderio di picchiarci – gesti che credo

abbiano contribuito ad alleviare il suo disagio emotivo – e a continuare a dialogare

razionalmente con lui, finché risolvemmo il problema concreto all’origine del conflitto,

rafforzando anche la nostra amicizia. Questo litigio dimostra che, pur rimanendo molto

sensibile all’aggressività e alle minacce, da quando ho affrontato mio padre ho acquisito la

capacità di far fronte a ogni conflitto, anche quelli potenzialmente violenti, confidando non

tanto sulla possibilità di prevalere sul piano fisico, quanto sulla capacità di affermare la mia

dignità accettando lo scontro, anche nel caso in cui creda di soccombere.

La mia aggressività e la mia rabbia sono state più volte sollecitate anche durante il mio

lavoro di insegnante. Sia alle scuole superiori che alle medie, ho spesso dovuto affrontare

situazioni conflittuali cariche di rabbia con alcuni alunni maschi, due dei quali mi hanno

anche minacciato fisicamente. Con il primo mi sono limitato a osservarlo senza muovermi,

capendo che era uno sfogo e cercando poi di minimizzare. Con il secondo, che mi aveva

anche ripetutamente insultato, a un certo punto mi sono avvicinato io minacciosamente,

dicendogli che non avevo paura di lui. Ho rischiato lo scontro fisico, sapendo che mi sarei

solo difeso e che non lo avrei colpito in alcun modo e credo che per me sia stato un mezzo

per rifiutare e vincere la mia paura. In ogni caso, non ci sono state conseguenze, e il

rapporto con quel ragazzo è proseguito con vari tentativi da parte sua di prendere il potere

in classe, come fossimo due capi gang, e con la mia ferma opposizione quando c’era la

prova di forza, unita al mio tentare una via pacifica di collaborazione e complicità

attraverso il dialogo, nei momenti in cui me lo permetteva.

Per qualche anno mi sono capitate classi con ragazzi molto aggressivi, polemici,

provocatori, e il clima di tensione e adrenalina che si crea nel gestire un gruppo di questo

tipo mi riesce molto spiacevole e difficile da sopportare a lungo, anche a livello fisico,

motivo per cui cerco di trovare ogni soluzione possibile, e negli anni ho sviluppato una

grande creatività in tal senso. Nel complesso, cerco di avere rapporti distesi e rilassati con

gli alunni e di mantenere basso il livello di tensione cercando di risolvere al più presto i

conflitti. Questa mia propensione comporta che, quando sono scarico energeticamente

oppure ho poca pazienza, possa alzare la voce per risolvere la questione in un modo

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sbrigativo e “autoritario” non dissimile da quello che aveva mio padre. Dopo aver espresso

la collera in questo modo, però, già da molti anni aspetto di rilassarmi e poi spiego che la

mia rabbia è dovuta a qualcosa che è successo che mi ha deluso o reso triste, e noto che

l’espressione dei miei sentimenti di vulnerabilità trova sempre un grande ascolto da parte

degli alunni.

Con i presidi e con i colleghi insegnanti raramente mi sono arrabbiato durante i conflitti.

Tendo a essere molto accogliente e disponibile come collega, concentrato come sono su

altro nella mia vita, in particolare le questioni sentimentali. È capitato solo un caso in cui mi

sono realmente arrabbiato, in modo esplosivo, come mi succede quando mi trattengo a

lungo o non mi accorgo dell’ingiustizia che reputo stia avvenendo. In quell’occasione ho

alzato la voce davanti alle mie colleghe e ho espresso la mia opinione su un’ingiustizia

verso un alunno che secondo me stavano compiendo e che non intendevo tollerare; poi,

rendendomi conto del mio tono, ho detto che dovevo uscire un attimo dalla classe per

calmarmi, come ho fatto. Al ritorno, ho ricevuto dalle colleghe maggiore disponibilità per

quanto avevo detto e forse anche maggiore rispetto e considerazione. In questo caso,

come in altri che mi sono successi in un contesto di gruppo, tendo a non riconoscere e a

non contenere la collera come vorrei: la rielaboro poco, mi esprimo con aggressività e

impazienza, senza la necessaria determinazione per affermare me stesso empatizzando

con i miei bisogni e sentimenti. Credo che alla base di questo comportamento ci sia il

rifiuto per il conflitto negli ambienti che ritengo protetti, e quindi una poca accettazione del

disagio emotivo che mi porta; infatti vorrei indirizzare le mie energie emotive soprattutto

verso i rapporti intimi, sentimentali o di amicizia.

C) I conflitti intrapsichici esistenziali e nelle relazioni sentimentali

Le relazioni sentimentali sono state la mia principale palestra per sperimentarmi nei

conflitti intrapsichici e interpersonali. A 18 anni mi sono innamorato per la prima volta e

questo ha determinato in me un terremoto nella stabilità della mia vita, che fino ad allora si

era fondata sull’avere chiari i miei obiettivi (di solito dettati dal senso del dovere) e i

comportamenti da mettere in atto per raggiungerli. L’innamoramento si è palesato come

destrutturazione, instabilità interna, incapacità di concentrarmi e studiare, ossia fare il mio

dovere. In pratica: conflitto e crisi (secondo l’etimologia, dal greco “krisis”: scelta,

decisione). Fino al diploma sapevo cosa “dovevo” fare, e lo facevo, senza ammettere il

fallimento. Con l’esperienza dell’innamoramento e, poco dopo, dell’Università, cominciava

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per me l’età della scelta, e quindi della libertà e della possibilità di fallire, anche perché la

scoperta dell’amore aveva significato la sperimentazione della perdita del controllo, e

senza il controllo non c’è garanzia di raggiungere gli obiettivi fissati. L’innamoramento e la

mia prima storia sentimentale, a 23 anni, mi hanno portato a un grosso conflitto

intrapsichico dai connotati esistenziali, dato che mi sono chiesto quale fosse il mio ruolo

nel mondo, il senso della vita, la mia vocazione. Per l’educazione cattolica con cui ero

cresciuto, la scelta di una relazione sentimentale aveva a che fare con la vocazione al

matrimonio, era una scelta di vita di ordine trascendente. E fino a quando sono stato

cattolico impegnato, cioè fino ai 26 anni, non ho escluso nemmeno la scelta della vita

consacrata, per quanto la osteggiassi. Come scoprire con certezza la mia vocazione, il

disegno di Dio su di me? Non esisteva un modo sicuro per scoprirlo e questo mi

terrorizzava. Se avessi scoperto, in qualche modo, che la mia vocazione era di fare il

prete, avrei dovuto intraprendere la scelta religiosa per essere felice, visto che quella era il

disegno divino; ma come potevo essere felice facendo proprio ciò che non desideravo? Il

mio conflitto fu risolto al termine della prima relazione sentimentale, quando mi divenne

chiaro che la ricerca di una relazione amorosa non era sacrificabile in nome del rapporto

con Dio. Più avanti, del resto, si accentuò la mia presa di distanza dalla Chiesa cattolica,

che rese impraticabile la scelta della vocazione sacerdotale.

Questa evoluzione fu possibile grazie alla mia prima psicoterapia, intrapresa a 23 anni con

Elisabetta Tognacci, dopo che a 2l anni, per motivi psicosomatici e farmacologici, ebbi

un’ulcera con emorragia che mi portò vicino alla morte. Uno dei primi obiettivi della terapia

fu la capacità di stare dentro la perdita del controllo, come strumento necessario per

prendermi cura delle vere priorità della vita: le “urgenze emotive”, ossia vivere pienamente

le relazioni e i sentimenti, evitando il “doverismo”, il comportamento mirato a raggiungere

uno scopo senza tener conto delle emozioni e delle fragilità. A 23 anni, ciò che mi serviva

era meno controllo, lasciarmi andare, essere indulgente con me stesso quando non

riuscivo a fare tutto alla perfezione, nei tempi e nei modi che mi ero prefissato. In pratica,

la priorità era “sentire”, prima che “dover fare”. Elisabetta mi diceva: “prima impara a

mollare il controllo, senza preoccuparti di quello che potrebbe succedere, sennò non lo

farai mai; poi, dopo, penseremo a cosa fare se lo molli troppo”.

Da allora sono passati più di vent’anni e oggi posso dire che il mio senso del dovere è

soverchiato dall’esperire i miei sentimenti, e che il controllo, nella mia vita sentimentale, so

perderlo fin troppo facilmente. Tanto che negli ultimi dieci anni il mio impegno è stato

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soprattutto quello di arginare la mia emotività e di esercitare un maggior controllo sulle

emozioni in modo da occuparmi di più dei miei bisogni materiali e del mio lavoro.

La perdita del controllo innescata dalla psicoterapia ha avuto un riscontro anche a livello

etico e religioso: da cattolico praticante e impegnato, per quanto critico e di sinistra, sono

uscito dalla Chiesa cattolica e sono passato dal confessore (il padre spirituale) allo

psicoterapeuta. E ho ceduto al mio dovere di andare a messa, seppure non abbia mai

rinunciato alla spiritualità e a un tormentato rapporto con il senso della vita e l’esistenza di

Dio.

Grazie alla perdita del controllo a favore del “sentire”, tra i 23 e i 32 anni ho avuto tre

fidanzate, M., A.L. e T.. Con tutte loro, complici l’idea fissa, dura a morire, della

“vocazione” e il mio attaccamento ansioso-ambivalente (Carli et al, 2009), mi sono

relazionato fin dal primo giorno come se fossero ognuna la donna della mia vita, da cui

non mi sarei mai staccato e con cui avrei realizzato la mia vocazione matrimoniale. Per

questo, nonostante a un certo punto abbia messo in crisi con tutte e tre il nostro rapporto

tentando di risolvere i conflitti che lo condizionavano, non sono mai riuscito a chiuderlo

definitivamente, lasciando sempre a loro la scelta di allontanarsi in maniera definitiva. E

sempre in modo molto sofferto, dato che l’amore si è logorato per i molti litigi, non per

comportamenti gravi dell’uno o dell’altra, o per scelte di vita incompatibili. Con tutt’e tre,

inoltre, desideravo arrivare al matrimonio e avere un figlio, benché, col passare degli anni,

con urgenza doveristica sempre minore. Infatti all’inizio, dai 23 ai 25 anni, con M.,

matrimonio e figlio li davo per scontati; con A.L., dai 26 ai 28 anni, già mi interessavo più

all’idea di convivere prima di sposarci, anche se pensando di avere un figlio; infine, con T.,

dai 29 ai 32 anni, la convivenza è durata un anno e rimandavo il pensiero del matrimonio e

di un figlio a quando ci saremmo entrambi sentiti pronti. La convivenza con T. mi ha dato

l’occasione di verificare i progressi fatti con i miei genitori, dato che entrambi, fino a

qualche anno prima, per motivi religiosi erano contrarissimi a un rapporto di quel genere.

Mia madre mi ha dimostrato grande accettazione e comprensione sia per quella

convivenza sia per il mio allontanamento dalla Chiesa.

Nelle mie prime tre relazioni sentimentali ho sperimentato la difficoltà di esperire

l’aggressività e la rabbia con una donna. Mi sono reso conto che la gestione nonviolenta

dei conflitti era un’arte difficile nelle relazioni intime e che spesso, di fronte a un conflitto, le

mie partner sceglievano l’evitamento consapevole oppure, se non potevano evitarlo, il

rifiuto per ogni espressione di aggressività fino all’allontanamento. In entrambi i casi il

conflitto non veniva affrontato e si bloccava l’evoluzione del rapporto.

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Il tema della gestione dei conflitti e della rabbia divenne per me dirimente nel decidere se

una relazione sentimentale potesse funzionare o meno. Mi accorsi che, pur essendo di

base molto paziente e pur venendo percepito dalle mie partner come “dolce”, quando mi

arrabbiavo provocavo un effetto devastante. Per via delle mie positive esperienze

famigliari, e per il fatto che tendevo a spiegare bene i miei sentimenti e bisogni, avevo

anche grandi aspettative di essere compreso ed esaudito; ma probabilmente mi esprimevo

dando anche giudizi, e facendo richieste con un tono che le trasformava in pretese. In ogni

caso, la sola espressione della rabbia alzando la voce provocava nelle mie partner una

chiusura e un congelamento emotivo – cosa che a me è sempre stata estranea dopo

l’adolescenza – che impediva loro di ascoltarmi realmente: ciò che dicevo non veniva

trattenuto, come se non avessi parlato. In questa dinamica, oltre alla poca efficacia della

mia comunicazione empatica dovuta a giudizi, rabbia espressa in modo aggressivo,

richieste che somigliavano a pretese, si aggiungeva il fatto che tutte le mie partner

avevano poco esperito in prima persona la rabbia e l’aggressività. Ritengo infatti che chi

conosce poco la collera abbia poca capacità di “stare” con la collera dell’Altro.

Osservando prima me stesso, e poi le mie partner, ho notato che la padronanza della

rabbia segue essenzialmente tre fasi. La prima è il rifiuto: chi la conosce poco, nel senso

che la reprime, tende a non saperla accettare e pertanto a non sopportare neanche la

rabbia dell'Altro. Di fronte alla rabbia può congelarsi, anestetizzarsi, o avere paura e

pietrificarsi, oppure può apparentemente cercare di relazionarvisi razionalmente, ma non

ascolterà empaticamente la collera dell’Altro e non ne comprenderà il significato. Questo

atteggiamento potrebbe provocare un aumento della rabbia da parte di chi la esprime, che

spesso si attende una reazione, un argine, prima ancora di un feedback alla propria

collera. Nella seconda fase, chi sperimenta per la prima volta la rabbia la esprime in

genere senza contenimento, senza una direzione e un obiettivo chiari, ne è cioè

posseduto e pertanto tende a esaurirla solo quando è finita l'energia che l’alimenta. Non si

tratta perciò di una collera sana, poiché esprime il rifiuto verso il conflitto che l’ha stimolata

e non si placa con l’accoglimento da parte dell’Altro. Non ci sono richieste precise che

possano alleviarla, perché il conflitto, ossia ciò che la collera vorrebbe evitare, è già

avvenuto ed è un fatto irreversibile. Semmai l'Altro può solo rassicurare che non avverrà

più, colpevolizzandosi. Ma questo non consolerà più di tanto chi è in collera, che si sentirà

prima fuori dal controllo e poi esaurito. Nella terza fase, ossia la sana espressione della

collera, la rabbia ha obiettivi precisi: vuole che sia accolta la richiesta di ascolto e di

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rispetto della propria dignità violata; se ciò viene soddisfatto, la collera presto o tardi si

esaurisce e non restano rancori.

Per quanto mi riguarda, nella prima fase, durata fino ai 24-25 anni, io non esprimevo la

rabbia e tentavo di relazionarmi in modo razionale a quella dell’Altro. Poi, dai 25 ai 30

anni, ho iniziato a esprimere la rabbia con le mie partner, prima senza contenimento, e poi

in modo via via più vicino ai criteri di una sana collera. Quando ancora non mi contenevo,

potevo arrivare a tirare calci contro il muro o lanciare oggetti per terra, ma non posso dire

di aver mai perso davvero il controllo. Di certo pretendevo molta comprensione nell’ascolto

dei miei bisogni, e tante rassicurazioni sulla volontà di venirmi incontro, e se non avevo

ascolto, comprensione e rassicurazioni, mi arrabbiavo facilmente e non mi passava in

breve tempo. Oggi posso dire di arrabbiarmi, nei rapporti intimi, solo dopo aver spiegato a

lungo i miei sentimenti, bisogni e richieste; quando mi arrabbio, mi capita talvolta di alzare

la voce e di agitarmi, rischiando così di essere aggressivo. Se lo faccio, di solito tendo a

“staccare” per qualche minuto, facendo una camminata. Tuttavia, la rabbia mi passa

subito se sono ascoltato, e in ogni caso nel giro di 15-30 minuti, dopo i quali emerge in me

la tristezza e sono pronto a comunicare sentendomi nuovamente centrato sui miei

sentimenti e bisogni.

Ho potuto osservare alcune di queste fasi anche nelle mie partner, in particolare in T.,

quando abbiamo convissuto. Agli inizi (prima fase) non sopportava e non esprimeva

alcuna aggressività legata alla rabbia. Per tale motivo, io spesso cercavo di controllare la

rabbia e con lei, per la prima volta nella mia vita adulta, ho iniziato a piangere facilmente

quando ero arrabbiato, collegandomi alla tristezza sottostante. Poi T. ha cominciato ad

arrabbiarsi (seconda fase), in modo piuttosto violento, e quando succedeva si esauriva ed

era poi depressa. Il rapporto con lei è finito anche in seguito a questi litigi, che la

spossavano e scoraggiavano.

Dai 30 ai 40 anni ho conosciuto molte donne, ma ho avuto di fatto solo una relazione

duratura, benché a distanza, con E. Prima di lei, con un paio di donne ho avuto occasione

di “rivedermi” in loro quando erano arrabbiate, e di rendermi conto di quanto fosse pesante

avere a che fare con una persona che si arrabbia facilmente non appena non si sente

compresa, e che poi ci mette molto tempo a “farsela passare”. Con E., e successivamente,

negli ultimi cinque anni, con A., ho sperimentato quanto sia importante avere una exit

strategy dalla rabbia, quando si è nella fase della rabbia incontenibile. Sia E. che A. prima

di incontrarmi non avevano mai espresso o subito molta rabbia nelle loro relazioni

sentimentali, che si erano concluse senza veri litigi – cosa questa che mi ha sempre

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messo in guardia, proprio perché se una persona ha avuto storie finite senza veri litigi

significa che non ha ancora padronanza nel gestire la rabbia. Con entrambe ho potuto

notare che, agli inizi, spesso semplicemente fuggivano davanti ai litigi o al disagio emotivo.

Letteralmente non erano in grado di stare nel disagio, quindi si allontanavano senza dire

nulla, evitavano i conflitti; oppure cercavano di risolverli razionalmente, concentrandosi sul

problema concreto. Successivamente hanno iniziato, specialmente A., a sperimentare la

rabbia (seconda fase), e a riversarla su di me in modo incontenibile. Con lei ho avuto molti

momenti di grande tensione, nei quali ho faticato a contenermi perché mentre era rabbiosa

metteva in atto dei meccanismi che bloccavano il principale strumento con cui ho

affermato la mia identità: la parola. Rifiutando di ascoltarmi, interrompendomi di continuo e

dicendo cose svalutanti su di me o su quel che avevo detto, A. metteva in atto dinamiche

di sottomissione a me insopportabili, che per di più mi ricordavano quelle provate con mio

padre. La mia reazione più naturale era quella di ribellarmi a quella violenza psicologica

alzando la voce, ma quando mi impediva di parlare, e continuava a svalutarmi facendomi

sentire un incapace, ho rischiato di essere violento con lei pur di arrivare a farla smettere;

a volte, invece, restavo connesso all’amore che sentivo, e mi esprimevo disperandomi e

piangendo, cercando di aprire un varco nel suo arroccamento rabbioso.

Con il passare del tempo, ho imparato anche ad andarmene via, cosa che prima non

avevo mai fatto; oppure, in alcuni casi, ho saputo anche deflettere, cercare di cambiare

discorso, distrarci, interrompere quel flusso di adrenalina; in altri ancora ho cercato il

contatto fisico. A volte questi metodi hanno funzionato, certo è che sarebbe stato più

facile, per entrambi, se A. fosse riuscita a trovare una propria exit strategy dalla rabbia.

Tutte queste esperienze di litigi con A., per quanto eccessive e indesiderabili, hanno

rafforzato la flessibilità con cui ho imparato a reagire alla rabbia di una partner. E mi hanno

convinto di quanto sia difficile per tutti esprimere una sana collera, dato che sono poche le

persone che riescono a farlo senza aggressività secondo i quattro punti della

comunicazione empatica. Io stesso non mi considero tra queste persone, poiché spesso

eccedo in aggressività, anche se la mia rabbia si esaurisce al primo ascolto, e in ogni caso

si trasforma presto in tristezza, con la quale parlo in modo più connesso al mio bisogno.

D) I conflitti all’interno del setting di psicoterapia e di counseling

Quando ho iniziato la mia prima psicoterapia con Elisabetta Tognacci, il transfert è stato

positivo e molto forte. Con lei come alleata ho affrontato i conflitti con il mio corpo, con mio

padre, con le prime mie due fidanzate, e in parte con mia madre. Il nostro rapporto si è

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incrinato dopo cinque anni, quando ho sentito – a torto o a ragione – venire meno

l’alleanza con me a favore di un’alleanza tra lei e le donne della mia vita. Le ho espresso

in modo chiaro, contenendo la rabbia, che mi sentivo “tradito” ma, non riuscendo a trovare

una rassicurazione da parte sua, ho provato una grande tristezza e disperazione perché

sentivo inevitabile chiudere la relazione. Questo mi ha stimolato una forte paura che si è

somatizzata a livello intestinale con una forma di colite, che mi veniva soprattutto quando

avevo le sedute con lei. La rottura del nostro rapporto è stata dolorosa, come quando

finisce una storia d’amore senza che sia finito il sentimento, per motivi di forza maggiore.

Io mi sentivo costretto a rompere la relazione perché a un certo punto percepivo lei più

come donna, come alleata di mia madre e di A.L, che come la mia testa di ariete per far

valere i miei diritti con il sesso femminile. Forse Elisabetta ha preteso troppo da me in

termini di comprensione dei limiti altrui e di ridimensionamento dei miei bisogni. Allo stesso

tempo, io ero immerso nel tentativo di affermare me stesso come uomo e forse la rabbia e

l’impazienza che avevo all’epoca mi hanno portato a essere determinato e centrato su di

me, fino ad accettare di chiudere con lei pur di non venire a patti con ciò che mi richiedeva

una sforzo di consapevolezza e autolimitazione che a quel tempo era fuori dalla mia

portata. Probabilmente, il mio attaccamento ansioso-ambivalente si manifestava allora con

una eccessiva richiesta di attenzioni e rassicurazioni, che credevo mi spettassero di diritto,

e senza le quali non ero disposto ad andare avanti.

Il mio ricordo di Elisabetta, comunque, rimane legato ai progressi che ho fatto, grazie alla

psicoterapia con lei, nel relazionarmi con i miei genitori, il mio corpo e il femminile, e per

questo mi sentirò sempre grato nei suoi confronti. Anni dopo, quando mi accorsi di essere

l’insegnante di suo figlio, e la vidi a scuola ai colloqui con i genitori, fui molto felice di

poterla abbracciare e baciare – comportamento peraltro poco consono a un professore nei

riguardi della madre di un alunno.

Dopo un periodo di allontanamento dalla psicoterapia, che non saprei se considerare di

“vuoto” fertile, ho deciso di continuarla con Donato Ottolenghi, altro psicoterapeuta a

indirizzo psicosomatico-junghiano, con il quale sono andato avanti per circa otto anni, pur

con delle pause. Quell’esperienza ha significato per me il confronto con il maschile e con il

tema dell’ansia esistenziale, che mi portavano all’ipocondria. Il rapporto con Donato è

stato più diretto e facile di quello con Elisabetta, anche perché ero già esperto di

psicoterapia. Con Donato venivano saltati i preliminari e tutta una serie di precauzioni

verso il paziente, e si giocava a carte scoperte. Con lui ho affrontato la mia terza storia

sentimentale (con T.), con convivenza annessa, e il mio lungo periodo di vita da solo, nella

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mia casa in affitto, con tutti i problemi relativi al sentirmi “precario esistenziale”: precario

perché solo, senza supporto emotivo-sentimentale fisso, e senza lavoro fisso, in quanto

insegnante che ogni anno cambiava scuola. Più avanti ho provato con Donato una

psicoterapia di gruppo, che ha comportato qualche problema per la frequentazione di due

donne del gruppo al di fuori del setting. Con mio dispiacere, i conflitti avuti con loro sono

stati portati nel gruppo anziché affrontati e risolti personalmente. Questo ha suscitato in

me una reazione di rifiuto verso il gruppo, perché mi sembrava che in quel contesto

l’analisi fosse prioritaria rispetto alla vita, e ciò non mi stava bene. Ho sempre inteso

l’analisi come occasione di consapevolezza e di scelte di comportamenti da compiere

nella vita, e non volevo trasformare il setting in un momento di sostituzione della vita reale.

L’uscita dal gruppo di psicoterapia è coincisa con il mio unico conflitto con Donato, che ho

espresso arrabbiandomi molto con lui al telefono. Da parte sua, ho ricevuto un ascolto

rispettoso e senza rabbia, cui è seguito il silenzio. Temevo che questo volesse dire

semplicemente un rimando della mia rabbia, ma poi ho ricevuto una risposta per iscritto

nella quale ha manifestato comprensione verso le mie istanze, e questo gesto ha fatto

lievitare la considerazione, già alta, che avevo per lui. La mia relazione con Donato è

andata avanti fino alla sua morte, avvenuta in modo repentino e imprevisto, che mi ha

molto segnato.

Posso dire che con le mie due psicoterapie mi sono strutturato come uomo: nel rapporto

con il mio corpo, con mio padre e l’autorità, con mia madre e le donne, e con i temi

esistenziali. La morte di Donato, inoltre, ha significato per me la perdita del secondo uomo

più importante della mia vita.

La mia esperienza come paziente è proseguita andando per poco tempo da un ipnotista e

da un comportamentista, fino ad arrivare a Flavio Nascimbene, psicologo dinamico-

sistemico, e più avanti a O., uno psicanalista di coppia, cui ci siamo rivolti io e A.. Con

questo psicanalista ho affrontato i conflitti più dolorosi della mia vita all’interno del setting.

In almeno due sedute mi sono sentito a lungo svalutato da parte di A., e ho sentito lui

come solidale e complice con lei. La sua mancanza di cura per il lato emotivo, che pure

esprimevo chiaramente, cercando comprensione per il mio disagio; il suo insistere, di fatto

infierire, considerato che ero vicino al pianto, nel cercare di persuadermi razionalmente

che fossi io il responsabile dei comportamenti (a mio parere) ricattatori che A. metteva in

atto nei miei confronti, mi hanno fatto sentire con le spalle al muro, senza via di scampo.

Ho reagito manifestando la mia rabbia, alzando la voce e chiedendo che venisse

riconosciuto il mio impegno e il dispiacere per i miei sbagli, che avevo più volte espresso,

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senza però che questo giustificasse i comportamenti di A. verso di me. Ho vissuto come

una umiliazione dovermi ripetutamente colpevolizzare per alcuni miei comportamenti

passati mentre ne stavo subendo altri, nel setting, che ritenevo molto più ingiusti e gravi.

Ritengo che lo psicoterapeuta debba prima di tutto garantire accettazione ed empatia

verso i pazienti, e non mi era mai capitato di vivere una esperienza che contraddicesse in

modo così evidente questi principi base. Ho chiuso la psicoterapia di coppia proprio

perché, come ho comunicato a O., rifletteva la stessa mancanza di cura per gli aspetti

emotivi che io lamentavo come mio principale ostacolo al sentirmi felice all’interno della

mia relazione con A. Mi sono sentito rispondere che io non dovrei cercare all’esterno, in lui

o in A., le rassicurazioni di cui ho bisogno, bensì dentro di me, come se un terapeuta non

dovesse fornire nessun contesto protetto ed empatico, e nemmeno la relazione di coppia.

Questa sua risposta, a mio parere inqualificabile, era dovuta, credo, al suo cercare di

prendersi cura del mio attaccamento ansioso-ambivalente, in cerca di continue

rassicurazioni, ma non teneva conto del caso concreto che stavamo discutendo, nel quale

avevo ricevuto solo disconferme e nessuna rassicurazione; inoltre, con gli anni e con la

psicoterapia, credo di aver molto ridotto il mio atteggiamento ambivalente e le

rassicurazioni che chiedo, al punto da sapermi gestire il disagio quando non le ottengo.

Oggi, credo di poter dire che, sia nel setting sia nella relazione di coppia, io chiedo

rassicurazioni adeguate al contesto, e funzionali all’intimità e agli obiettivi che questi due

rapporti possono raggiungere.

Con Flavio, mio coetaneo, ho trovato subito molta empatia e molto cameratismo.

L’esperienza con lui, che dura da oltre sei anni, è coincisa con la mia quarta importante

relazione sentimentale, con E., e soprattutto con la quinta, A.. Con lei, nonostante i conflitti

logoranti e le difficoltà dovute alle grandi differenze caratteriali, ho costruito un rapporto

molto stimolante e ricco di progettualità, durante il quale, grazie alla sua pragmaticità ho

affrontato alcune paure legate al sentirmi autonomo e, nel contempo, mi sono sentito

pronto al ruolo di compagno all’interno di una famiglia. Questa maturazione è avvenuta

anche grazie alla psicoterapia con Flavio, nella quale sono stato riconosciuto e valorizzato

nei traguardi che ho raggiunto, e molto compreso per ciò che sono ancora i miei temi

sensibili, sui quali sto ancora lavorando. La psicoterapia con lui continua come

supervisione per la mia situazione sentimentale, unico vero centro della mia vita, mia

passione e mio eterno conflitto ancora irrisolto; ma la mia urgenza è di finirla al più presto

per instaurare con Flavio una amicizia reale.

47

Negli ultimi anni, durante la mia relazione sentimentale con A., ho sentito l’esigenza di

trovare un mio spazio personale di autonomia, e di riscoprire la complicità maschile, in

modo da far diminuire la mia dipendenza dalle storie sentimentali. Scegliere di frequentare

una scuola di counseling è stato un modo per crearmi un gruppo in cui sentire

l’appartenenza e una scelta di lavoro su di me da svolgere su un altro piano, quello

bioenergetico e gestaltico, in modo da acquisire delle tecniche psicocorporee per gestire i

momenti critici e conflittuali. Inoltre, il counseling mi ha permesso di mettere a frutto il

lavoro della mia vita, ossia il lavoro su di me, di individuazione e strutturazione della mia

identità, per relazionarmi con altre persone stando dalla parte di chi ascolta e aiuta l’Altro a

entrare in contatto con le parti meno integrate di sé. Durante i tre anni di scuola di

counseling non ho avuto conflitti con nessuno dei miei compagni, e di questo sono molto

felice perché mi ero posto come obiettivo quello di vivere senza risparmio ogni tipo di

relazione che trovavo, fosse stata facile e piacevole, o difficile e spiacevole. Con questa

apertura a dare e ricevere, a scambiare, non ho avuto alcuna difficoltà a prendere il meglio

che potevano darmi i miei compagni e a ricevere senza particolare disagio emotivo ciò che

mi era meno congeniale.

Mi sono arrabbiato due volte, ma con i miei maestri, in particolare con B. La prima volta,

durante una lezione, mi sono sentito “rimproverato” per non aver svolto bene le pratiche

per il tirocinio, con una escalation di domande inquisitorie che non mi aspettavo, e a cui ho

reagito dapprima con pazienza, cercando di spiegarmi e confidando nel ricevere

comprensione e poi, visto che non la ricevevo, arrabbiandomi tutt’a un tratto (la mia solita

esplosione rabbiosa), scaricando in parte la rabbia su un tutor che era intervenuto,

piuttosto che direttamente su B., che era la vera responsabile. Ho detto che mi sentivo

“sotto processo” per qualcosa che “non meritavo”, e che ciò mi faceva essere “arrabbiato”,

e dato che mi stavo esprimendo alzando la voce in modo accusatorio, sono uscito

dall’aula per andare a camminare e respirare per calmarmi. In questa circostanza, noto la

correlazione della rabbia con la rivendicazione di un’ingiustizia subita, e che il mio modo di

esprimerla è stato difensivo-aggressivo, senza esplicitare di che cosa avevo bisogno,

bensì di che cosa non avevo bisogno. Nel complesso, comunque, mi sono collegato alla

rabbia e l’ho espressa per difendere la mia dignità. A questo è seguito un break, che mi ha

dato modo di calmarmi, e quando sono rientrato ho potuto esprimere la tristezza e il

dispiacere per i miei toni, facilitato anche dal sentirmi riconosciuta, da parte di B.,

“l’ingiustizia” che avevo subito. Sempre con B., stavolta in modo diretto, ho avuto un

momento di irritazione durante l’ultimo residenziale, a seguito di un esercizio collettivo per

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il quale non ero preparato; in quel caso, l’irritazione l’ho espressa subito, ma dato che lei

mi ha risposto in modo sbrigativo e costrittivo, dicendomi di andare avanti insieme agli

altri, non me la sono sentita di abbandonare il gruppo e in quel caso ho cercato di

rielaborare la rabbia in modo intrapsichico (chiarendomi con B. più tardi).

Durante il tirocinio del corso di counseling, ho potuto sperimentare i conflitti relazionali nel

ruolo di counselor. In particolare, ho avuto con due clienti dei momenti altamente

conflittuali. Con G. ci sono state delle sedute in cui mi sono sentito giudicato e accusato

con una certa irritazione, mista a compiacimento, per non aver corrisposto alle sue attese,

e questo succedeva dopo che aveva manifestato, in modo provocatorio, aspettative che

esulavano dal mio ruolo di counselor. Verso di me si riversava una forte ambivalenza

amore/odio, che io coglievo come volontà manipolatoria, come gioco di potere. Da parte

mia, ho reagito a questa situazione di aggressività indiretta, in parte passiva e in parte

attiva/seduttiva, sentendomi nel bel mezzo di una sfida, che mi risultava anche piacevole,

in quanto occasione per mettermi alla prova. Ritengo di non aver prestato il fianco alla

manipolazione (di cui ho colto l’aspetto lusinghiero) e nemmeno di essermi irrigidito

(perché non l’ho considerata mancanza di rispetto): ci sono stato dentro, contenendo

l’esuberanza del cliente e mettendo in relazione la dinamica che aveva attuato con me con

quella che attuava con gli altri uomini che conosceva.

Con S., la situazione è stata molto diversa, dovendo far fronte a una aggressività diretta,

benché reazione a un sentimento di grande tristezza e disperazione. S. ha manifestato più

volte con rabbia richieste rispetto a suoi bisogni specifici, che sperava io potessi

soddisfare con urgenza. Ho risposto cercando di aiutarla a rielaborare la rabbia, capendo

verso chi era indirizzata, e quale bisogno nascondeva: più volte con il bisogno è emersa la

tristezza, che affiorava nel pianto. A volte, quando era meno collegata alle emozioni,

poteva essere aggressiva, indisponente e martellante senza accorgersi, perché alienata

da quel che provava e desiderava; in quel caso, essendo sensibile all’aggressività, sapevo

che oltre un certo limite di “botta e risposta”, se non fossi riuscito ad aiutarla a connettersi

con i suoi reali sentimenti e bisogni, avrei dovuto porre un argine, e infatti l’ho posto

facendole notare che la sentivo aggressiva o rabbiosa. Questo di solito portava a un

cambiamento di tono, ma in alcuni casi anche a un aumento dell’aggressività, e in questo

caso esplicitavo che cominciavo a sentirmi inquieto o ansioso, e le chiedevo se potevamo

comunicare in altro modo. Dicendo così, mi rendo conto ora che applicavo la

comunicazione empatica: osservazione del comportamento, mio sentimento, e richiesta,

collegata a un bisogno implicito.

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CONCLUSIONI

Nella mia vita ho cercato fino ai 24-25 anni di evitare i conflitti per un sentimento di

inadeguatezza, unito a un vago senso di colpa, che sentivo nel relazionarmi con gli altri

(soprattutto il genere maschile) ogni volta che sorgeva un problema. Tale sentimento era

dovuto in parte al mio temperamento e in parte alla mia educazione religiosa, ma

principalmente risiedeva nel terrore che provavo verso mio padre, che da un momento

all’altro poteva manifestare la rabbia in modo furioso, con il risultato di colpevolizzarmi e

farmi sentire incapace o “sbagliato”.

Non credo sia un caso, quindi, che nell’adolescenza mi sia interessato ai conflitti e al

modo di risolverli o prevenirli pacificamente, senza provare rabbia, paura o tristezza. La

massima evangelica “Porgi l’altra guancia” mi affascinava, ma non ne comprendevo i

presupposti etici e psicologici, perciò rimaneva soltanto un alto principio morale che non

veniva (quasi) mai messo in pratica da nessuno, nemmeno da chi lo predicava. Quando

però intorno ai 20 anni mi è capitato in mano il libro “Che cos’è la nonviolenza” di Lanza

del Vasto (1978), ho avuto una illuminazione, ho capito perché porgere l’altra guancia non

significava fare i santi o i masochisti, bensì risolvere i conflitti con coraggio. Da allora mi

sono interessato alla gestione nonviolenta dei conflitti leggendo la letteratura

sull’argomento, a partire dalle fondamenta, l’Autobiografia di Gandhi, fino ad arrivare alle

opere contemporanee che integrano l’aspetto etico con quello psicologico. Mi sono stupito

piacevolmente di trovare, in varie pubblicazioni, conferme sulla bontà dell’agire

nonviolento dal punto di vista del benessere psichico. La psicologia non contraddice la

nonviolenza.

Intanto però continuavo a evitare i conflitti, e l’evitamento ha provocato una retroflessione

della mia rabbia, che si è riversata sul mio stomaco, producendo iperacidità che,

associata all’uso di alcuni farmaci antinfiammatori, ha prodotto un’ulcera con

sanguinamento. Il mio corpo ha iniziato a parlarmi, dicendomi di ascoltare le mie emozioni.

“Noi decidiamo con la testa, ma se il cuore non viene ascoltato, è la pancia che prenderà

potere” (Filliozat, 1998).

Per ascoltare il mio cuore, e curare la mia pancia, ho intrapreso la psicoterapia, durante la

quale ho affrontato i conflitti della mia vita gestendo l’aspetto emotivo (il disagio) per

arrivare a una soluzione del problema concreto. Con i miei genitori ho messo in atto i

principi della comunicazione nonviolenta, per quanto a volte in modo aggressivo o

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provocatorio, come nell’occasione in cui ho affrontato mio padre. Lo sperimentarmi nei

conflitti ha permesso di riorganizzare con successo la mia identità e la mia relazione con

loro – passando però da lunghi periodi di disagio emotivo, nei quali ho capito quanto sia

importante sapere “stare” nella sofferenza per arrivare a raggiungere obiettivi elevati. La

risoluzione dei conflitti parentali non mi ha messo al riparo dall’avere gravi conflitti nelle

relazioni sentimentali, dove ho sperimentato quanto sia l’espressione incontrollata della

rabbia sia la non accettazione della rabbia possano essere distruttive per un rapporto

intimo. Come ho scritto sopra, il tema della gestione dei conflitti e della rabbia è per me

dirimente nel decidere se una relazione sentimentale può funzionare o meno. Gestire la

rabbia esprimendo e accettando una sana collera credo sia uno degli strumenti più

importanti per avere relazioni intime durature e felici. Questo richiede, a chi come me non

è naturalmente a suo agio con la rabbia, di saperla esperire e controllare con una exit

strategy solo così la si conosce e la si può anche accettare nell’Altro. Il piacere e la gioia

sono possibili solo conoscendo bene rabbia, tristezza e paura, e affrontando i conflitti che

le generano. Cercare la felicità evitando i conflitti e le emozioni spiacevoli a essi associate

non elimina i conflitti: li prolunga e in ultima analisi li aggrava, portando maggiore

sofferenza.

Manifestare le emozioni e i bisogni a esse sottesi significa esternare la nostra vulnerabilità,

che è la chiave per instaurare l’intimità nei rapporti amicali e sentimentali, ed è alla base di

ogni stile di vita nonviolento e psicologicamente sano e arricchente. Abbandonare la

corazza, le difese, porta a godere maggiormente dell’Altro, e a provare piacere. Meglio

rilassarsi ora che aspettare di morire per farlo, sostiene Lowen.

Ma per rilassarsi occorre la fiducia nell’Altro, occorre sentire l’umanità che lega ogni

essere umano. L’arte di “sentire dentro” di noi e dentro l’Altro si chiama empatia. Ecco

perché l’empatia è la principale motivazione psicologica dello stile di vita nonviolento, con

il quale si gestiscono i conflitti sulla base della comunicazione empatica. L'empatia è la

chiave di volta per capire i processi psicologici che avvengono durante un conflitto e

permettono di gestirlo in modo che io e l’Altro ne veniamo arricchiti. Il conflitto richiede

infatti di sentire e condividere le emozioni esperite dal Sé e dall'Altro da sé, in modo da

gestire il disagio emotivo e poi di trovare una soluzione al problema concreto a livello

cognitivo.

L’intelligenza emotiva, l’analisi transazionale e soprattutto la BioGestalt corroborano il

quadro teorico e pratico della comunicazione empatica, e lo ampliano. La BioGestalt

enfatizza il ruolo delle emozioni e del corpo nel processo della comunicazione empatica.

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La Gestalt vede il conflitto come una forma di contatto spiacevole, perché l'organismo non

può soddisfare immediatamente il bisogno in figura. Una sana aggressività permette però

di vedere nel conflitto, così come nelle critiche, un contatto potenzialmente arricchente, da

masticare a lungo in modo da assimilare il nutrimento che ci può fornire. La Bioenergetica

spiega come l'aggressività significa '”muoversi verso”, perciò la persona aggressiva è

quella che si muove per ottenere ciò che vuole. Per muoversi ci vuole energia, e l’energia

è intrappolata nelle contrazioni muscolari croniche, dovute a conflitti irrisolti. Gli esercizi

bioenergetici servono a sbloccare l’energia, lasciarla fluire e liberare le emozioni:

esprimere la rabbia con una sana collera, oppure esprimere la paura e la tristezza

mostrandosi vulnerabili, dando e chiedendo empatia.

L'empatia si esprime nelle quattro fasi della comunicazione empatica, dove io 1) osservo

senza giudizio, 2) esprimo emozioni o sentimenti, 3) esprimo il mio bisogno 4) formulo una

richiesta che arricchisce la mia vita. A queste fasi corrisponde, nell’Altro, il ricevere con

empatia, riformulando quanto ha ascoltato e, se il caso, comunicando a sua volta

empaticamente i suoi sentimenti, bisogni, richieste che arricchiscono la sua vita.

Con la comunicazione empatica, dall’Io e dal Tu si passa, attraverso un arricchimento

reciproco, al Noi, senza eliminare l’Alterità.

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