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LA COSCIENZA e le prospettive della ricerca nel campo ... · - la neurobiologia, la medicina...

Date post: 15-Feb-2019
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1 LA COSCIENZA e le prospettive della ricerca nel campo della Neurofilosofia Tesi per il Magistero in Scienze Religiose di: Enrico M. Vaglieri Relatore: prof. Claudio Freschi Anno Accademico 1999/2000 INDICE Presentazione - Abstract Introduzione Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza parte prima Definizioni e storia del concetto di coscienza I Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato Nel senso comune, * - Nella filosofia, * - Nella riflessione morale, * - Nella psicologia e psicoanalisi, * - Nella riflessione sociale, * - Nelle scienze mediche, * - Nella letteratura, * - Come disagio esistenziale, * - Nei linguaggi tecnici, * - Nelle altre lingue, * - Termini e significati correlati, * II La coscienza nella riflessione filosofica III La coscienza nella psicologia, nella psichiatria e nella neurologia La coscienza nella psichiatria, * IV La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico, nella teologia morale e nella mistica La coscienza nel pensiero biblico, * - La coscienza nell'evoluzione della teologia morale: dalla "sinderesi" alla "conscientia", * - La coscienza nella mistica, * V La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo, nella New Age e nell'indagine sul paranormale L'ipnosi regressiva e la metempsicosi, *
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LA COSCIENZA e le prospettive della ricerca

nel campo della Neurofilosofia

Tesi per il Magistero in Scienze Religiose di: Enrico M. Vaglieri Relatore: prof. Claudio Freschi Anno Accademico 1999/2000 INDICE Presentazione - Abstract Introduzione Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza parte prima Definizioni e storia del concetto di coscienza I Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato Nel senso comune, * - Nella filosofia, * - Nella riflessione morale, * - Nella

psicologia e psicoanalisi, * - Nella riflessione sociale, * - Nelle scienze mediche, * - Nella letteratura, * - Come disagio esistenziale, * - Nei linguaggi tecnici, * - Nelle altre lingue, * - Termini e significati correlati, *

II La coscienza nella riflessione filosofica III La coscienza nella psicologia, nella psichiatria e nella neurologia La coscienza nella psichiatria, * IV La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico, nella teologia morale e nella

mistica La coscienza nel pensiero biblico, * - La coscienza nell'evoluzione della

teologia morale: dalla "sinderesi" alla "conscientia", * - La coscienza nella mistica, *

V La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo, nella New Age e

nell'indagine sul paranormale L'ipnosi regressiva e la metempsicosi, *

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parte seconda Neuroscienze e neurofilosofia: le prospettive della ricerca VI La dimensione della coscienza nelle neuroscienze Rodolfo Llinas e il funzionamento della coscienza, * - Herber Simon: la

mente, la ricerca e il computer, * - Pierre Changeaux: infanzia e maturità del cervello, * - La psiconeuroimmunologia, * - È possibile definire l'intelligenza?, * - Coscienza, sonno e sogno, *

VII La neurofilosofia tra esplorazione e critica epsitemologica: limiti e

potenzialità del dialogo tra neuroscienze e filosofia Le teorie della coscienza tra concezioni naturalistiche, riduzionismo e

metafisica, * - I "qualia", * VIII Appunti su alcune teorie contemporanee della coscienza Ignacio Matte Blanco e la mente asimmetrica, * - Daniel C. Dennett e la visione cognitivista della coscienza, * - Karl R. Popper e il mondo delle idee, * - Fabrizio Desideri e lo sviluppo della coscienza tra l'io e l'altro, * IX Due tentativi discutibili di teorizzazioni psicologiche della coscienza e

altri assai pregevoli di matrice cristiana La "psicologia cristiana" di Giovanni Petrocchi, * - La "psicologia coscienziale" di Ermelindo Maimone e Fernando Ficoneri, * -

Una plausibile correlazione tra psicanalisi e verità di fede: alcuni esempi. Françoise Dolto e "La psicanalisi del Vangelo", * -

Giacomo Daquino, * - Victor Frankl, * parte terza Per una teoria spirituale della coscienza X La genesi della coscienza umana XI Dalla sundevresi§ al coscienzialismo: alcune questioni ancora aperte

sulla coscienza XII Una riflessione personale: la coscienza come "origine" e "unità"

dell'essere umano Conclusione Coscienza, salvezza e benessere Bibliografia

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Presentazione - Abstract Nell'introduzione dirò che il concetto di coscienza è presente in tutta la

storia della filosofia e della scienza, molto attuale e vastissimo; ma stanno cambiando e devono cambiare i paradigmi della ricerca. Più che la conscience (per dirla con gli inglesi) ora si indaga la consciousness . Quello su cui metterò l'accento è la necessità di recuperare la dimensione spirituale della coscienza, senza per questo cadere in anacronistiche nostalgie metafisiche.

Nella parte prima, quella più generale, esamino l'etimo di coscienza, l'uso

del concetto nelle espressioni comuni, che tuttavia contengono molti paradigmi del concetto filosofico, i termini corrispondenti nelle altre lingue, le espressioni idiomatiche e la presenza del concetto nella letteratura; poi le definizioni di coscienza in varie discipline, dalla filosofia (con brevi cenni storici), alla psicologia (e psicoanalisi), alla psichiatria (medicina, patologie ecc.), fino all'etica, alla teologia morale, alla mistica e all'esoterismo. Ne uscirà un inventario di significati del concetto.

Nella parte seconda parlo delle neuroscienze. La ricerca ferve ed è

affascinante. Il materiale più recente l'ho trovato grazie a Internet. Illustro le prospettive della neurofilosofia che da cinque o dieci anni al

massimo è la nuova frontiera della "scienza della mente". Esse in realtà sono limitate perché, volendo coniugare la rilfessione filosofica con i risultati delle ricerche nueroscientifiche, sono ancorate a queste ultime, che in questo momento non possono ancora dire nulla di definitivo, completo, organico e soddisfacente sulla coscienza. Nessuno può azzardare una teoria completa; quindi la neurofilosofia si limita a riflessioni metodologiche ed epistemologiche.

Esamino alcune teorie sulla coscienza - tra tutte quelle esistenti - che mi

hanno colpito: gli studi di Matte Blanco, Dennett, Popper e Desideri. Commento inoltre due libri anomali, che sono esempi di tentativi di teorizzazione molto discutibili: poca bibliografa, buone intuizioni di fondo, ma sviluppate in modo discutibile, percorsi metodologici inefficaci che mi servono per capire cosa evitare nel cercare una mia strada di indagine e riflessione.

Cito però anche altri studi molto acuti, di matrice cristiana (F. Dolto, V.

Frankl). lla parte terza, quella più personale, metto a confronto tutti gli stimoli

precedenti. Cito le ricerche neuropsicologiche sull'origine della coscienza nel bambino

(che unitamente alle indagini dei primi capitoli potebbe formare una sorta di "storia della coscienza"), perché l'aspetto che indico come "cifra" della

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coscienza è proprio il suo essere "origine" dell'uomo, inteso come totalità, di essere l'unità radicale, profonda e originante dell'uomo.

Ciò nel tentativo - se non di fondare una teoria della coscienza, cosa oggi

impossibile - di ridare vigore, nell'ambito della neurofilosofia, a una teoria spirituale della coscienza.

Recupero le riflessioni della filosofia antica (la sunevide§is) e di quella

scolastica (la sinderesi, parte perfetta dell'anima), concetti che appoggiano la mia tesi della coscienza come "luogo di incontro con l'assoluto". E accenno al movimento del coscienzialismo.

Nella conclusione dirò quanto la riflessione sulla coscienza possa servire per

migliorare la vita, essere più consapevoli, apprezzare le potenzialità non solo intellettive e morali, ma anche di esseri-che-si-sanno.

Procederò nell'indagine con andamento concentrico, a partire dalla parola

"coscienza" indagando tutto attorno verso l'universo di significati e di significato che le appartiene.

Ma, se si osserva da un altro punto di vista, sembrerà l'opposto: da una

quantità ampia di discipline, ambiti di significato e usi del termine, mi muoverò verso un'unità teorica, un tentativo di visione personale della coscienza, la coscienza come "origine" totale dell'uomo.

Introduzione Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza Che cos’è la coscienza? Nel 1866 Thomas Huxley ha scritto: "Come avvenga che qualcosa di così

notevole come uno stato di coscienza sia il risultato della stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del Genio nella favola, quando Aladino strofina la lampada" . Tale considerazione a distanza di oltre un secolo rimane ancora valida e lo rimarrà, con ogni probabilità, ancora per molto tempo.

Che cosa è la coscienza? Di fronte a questa domanda attualmente – e questo è l’assunto di base

della mia dissertazione – nessuno è in grado di fornire una teoria della coscienza che spieghi esaurientemente e definitivamente la sua natura e il suo funzionamento.

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L’unica cosa che si può fare oggi è esaminare i diversi tentativi di teorie che sono stati elaborati, analizzarne i limiti, elaborare riflessioni metodologiche ed epistemologiche – ed è tutto quello che finora riesce a fare la neurofilosofia.

Ecco spiegata la scelta del titolo della presente ricerca: "La coscienza e le

prospettive della ricerca nel campo della neurofilosofia". Tuttavia numerosi scienziati sostengono che arriverà il giorno in cui si potrà

descrivere in modo esauriente la natura e il funzionamento della coscienza. Decisamente quel giorno decreterà il più grande e straordinario passo in

avanti per l’umanità, perché tale scoperta rivoluzionaria – conoscere, interpretare, utilizzare la mente umana – permetterà interventi, miglioramenti, progressi attualmente inimmaginabili (se non nella letteratura fantascientifica). Tali saranno i progressi per l’umanità e le potenzialità di intervento e innovamento rese possibili, che una parte dell’umanità risulta già spaventata da questa prospettiva.

Le nuove tecnologie di indagine Perché si può affermare che si arriverà a conoscere il funzionamento della

mente e della coscienza? "Nel corso degli anni '80, sono diventate disponibili nella pratica clinica tecniche prive di rischio che permettono di ottenere immagini del cervello umano in vivo. Questa rivoluzione nella diagnostica per immagini cominciò con lo sviluppo della tomografia computerizzata (TAC) all'inizio degli anni '70 seguita dalla tomografia ad emissione di positroni (PET) e dalla risonanza magnetica nucleare (RMN). Ognuna di queste tecniche ha dato i suoi contributi specifici: la Tac e la RMN per la produzione di immagini sofisticate, in vivo, e la PET per le immagini della funzione cerebrale misurate in termini di attività chimica locale, del metabolismo (cioè l'utilizzazione dell'ossigeno e del glucosio) e del flusso sanguigno" [Gregory, EOM, 1991, p. 399] .

Attraverso le nuovissime tecnologie di indagine, in primis la Tomografia ad

Emissione di Positroni (PET), nei laboratori si stanno svolgendo studi molto importanti e si sta raccogliendo una mole ingentissima di osservazioni sul funzionamento del cervello, alla ricerca della definizione dell’intelligenza e della mente. È per questo che si intravedono già ora possibilità di teorizzazioni , e si giustifica la speranza di poter arrivare, prima o poi, a delle teorie efficaci ed esaurienti.

Ciò non significa necessariamente tornare a una mentalità scientistica e

positivistica. Esistono ormai decine di posizioni teoriche diverse, con molteplici sfumature, dal dualismo alla negazione della coscienza, dallo spiritualismo al materialismo puro con una gamma ampia di sfumature - come si vedrà nei

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capitoli dedicati al concetto di coscienza nella neurobiologia, nella medicina e nella storia delle teorie che hanno cercato di spiegarla.

I molti campi d'indagine sulla coscienza Della coscienza si occupano molte discipline, scientifiche e umanistiche: - la filosofia (in particolare la gnoseologia, la filosofia della scienza, la

filosofia morale) - il senso comune (coscienza come consapevolezza di sé e di ciò che sta

intorno), - l'etica (coscienza come capacità di valutazione delle azioni), - la teologia morale (coscienza come immaginaria sede del senso morale

dell'uomo, voce della coscienza, le coscienze illuminate non accettano di piegarsi), e la mistica

- la psicologia nella sue varie branche di applicazione e di studio, - la neurobiologia, la medicina (perdere coscienza), - la giurisprudenza (caso di coscienza, obiezione di coscienza), - la politica (coscienza civile), - la sociologia (coscienza di classe), - la letteratura (flusso di coscienza) , senza parlare del campo in continua crescita e così tanto ambiguo qual è

quello dell'esoterismo, la psicologia transpersonale, la New age e i "neoorientalismi" di vario genere.

Per alcuni di questi campi d'indagine - non certo tutti - vorrei esporre in

estrema sintesi i risultati attuali delle ricerche , per poi dedicarmi a un approfondimento secondo il punto di vista della filosofia e con un'attenzione particolare per la neurobiologia.

È evidente dunque come il tema della coscienza metta in gioco una

costellazione di altri temi e termini (tra gli altri mente, anima, intelligenza, cuore, io, eccetera) che non si possono trascurare, ma che complicano l’indagine .

Un inventario di significati e definizioni

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È interessante la possibilità di fare un inventario – senza pretesa di esaustività - delle definizioni di "coscienza", confrontarle e ottenere nuove indicazioni, almeno di tipo epistemologico o filosofico. E quello filosofico – o meglio neurofilosofico – sarà il taglio principale della dissertazione.

Non c'è filosofo che non abbia detto la sua sulla coscienza (di veda il

capitolo specifico in cui ne parlo), uniche eccezioni i primi filosofi greci . I pensatori e gli studiosi, quando si sono avvicinanti al tema della

coscienza, per prima cosa hanno chiarito e rigettato gli errori (atteggiamento basilare della riflessione filosofica) appartenenti alle epoche precedenti [si veda Dennett, 1993, Desideri, 1998, ecc.] e poi hanno formulato nuovi tentativi di teorizzazione della coscienza.

Possiamo però a ragione affermare che niente di ciò che è stato mai detto

sulla coscienza basti a descriverla e spiegarla. Ma proprio l’aver assunto questo punto di vista costituisce un ulteriore

problema. Perché oggi non è più possibile analizzare la mente prescindendo dalle neuroscienze.

Gerald Edelman ha dichiarato: "Sono convinto che non sia possibile

comprendere la mente, se non attraverso l’elaborazione di un modello neuroscientifico fondato su una teoria a base evoluzionistica" [Carli, 1997, p. 8].

La presente dissertazione indaga e appoggia l’approccio multidisciplinare al

problema della coscienza. Tale approccio appare ormai largamente condiviso ed è l’unica strada che possa portare a solidi risultati in questa indagine.

Ritengo che sia necessario oggi reinterpretare tutto ciò che è stato detto

sulla coscienza in base anche a questo importante criterio: verrà confermato dalle prossime indagini encefalografiche e neurobiologiche?

Buona parte delle antiche e moderne teorie sulla coscienza rimarranno utili

solo per la storia della filosofia, così che - come avviene per la scienza - anche le teorie filosofiche possano risultare una buona volta false e falsificabili, secondo l'insegnamento di K. Popper.

Si sta imponendo dunque una nuova disciplina al posto della filosofia della

coscienza: la neurofilosofia. Ad essa, ai suoi limiti, alle sue prospettive, dedicherò ampio spazio.

La scelta del tema di questa dissertazione risiede anche nell’importanza che

il concetto di coscienza ha nella riflessione spirituale, religiosa e morale. Come

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a dire che ha contribuito a sviluppare nei secoli la riflessione sulla dignità dell’essere umano.

La coscienza è un concetto presente in tutta la storia dell'uomo, se non

altro inteso come consapevolezza di sé, dalla riflessione veterotestamentaria alla religiosità dell'antico Egitto, dal greco "Conosci te stesso" al pensiero cristiano, dalle religioni orientali alla riflessione umanistica, su su, attraverso filosofi e pensatori e teologi fino a un emblematico personaggio dei nostri giorni, discusso ma affascinante, padre Antony De Mello, il cui libro più famoso (ma non l'ha scritto lui, è solo la redazione di appunti delle sue conferenze) si intitola originariamente "Awareness" ed è tutto dedicato al risveglio cioè al "divenire consapevoli di sé".

La coscienza nello sviluppo dell'umanità Il concetto di coscienza - ovvero la percezione di sé,

l'autorappresentazione, la riflessione su di sé o tutte le altre definizioni con le quali la si è descritta - è stato sempre al centro della riflessione umana. L'indagine su di esso ha attraversato epoche, teorie, con risultati tra i più diversi (dalla negazione della coscienza alla sua esaltazione metafisica o ideologica), ma non c'è dubbio che si siano registrati alcuni grandissimi salti di qualità.

La sua importanza affonda le radici nel concetto di "persona" creato e

sviluppato dal cristianesimo. Si è ingigantita soprattutto dalla fine del medioevo, con la Riforma e durante i secoli delle guerre di religione. Ha ricevuto dalla psicanalisi la conferma che prima di ricorrere alla teoria medioevale (e già platonica) e secentesca della mente che riflette il pensiero di Dio, vale la pena di indagare nel "profondo", dove si scopre una "vita" totalmente diversa da quella cosciente (da alcuni definita asimmetrica a differenza dell'altra che è simmetrica ) e di una natura che tende a riportarci alle origini e quindi tendenzialmente oltre la storia, oltre l'ambiente, verso l'istinto, verso il "gene", verso il "divino". Ha una grande rilevanza oggi quando dobbiamo affrontare scelte etiche e bioetiche complesse: dalla clonazione alla procreazione artificiale, dalle biotecnologie alle relazioni internazionali.

Il più grande salto di qualità nell'indagine sulla coscienza si registra proprio

oggi, negli ultimi venti anni del secolo XX (gli anni del crollo delle ideologie...), quando si è potuto iniziare a utilizzare apparecchiature sofisticatissime per esaminare l'attività cerebrale. Le neuroscienze hanno assunto in ogni direzione un peso enorme. Decine di laboratori nel mondo stanno utilizzando queste tecniche di indagine con le quali stanno raccogliendo informazioni abbondantissime ed estremamente specifiche.

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Ecco come si potrà in un tempo futuro (non occorreranno secoli, ma forse solo qualche decina d'anni, data l'accelerazione della ricerca scientifica dovuta ai calcolatori) perfezionare altissimamente la conoscenza, la teorizzazione e la definizione di coscienza.

Tuttavia la coscienza rimane un problema e quasi certamente sarà sempre

un problema: non riusciremo mai a capire completamente quel quid in più che caratterizza la mente.

Si pensi al fatto che si calcola che nel cervello risiedano 100 miliardi di

neuroni e ogni neurone è capace di 10.000 contatti con altre cellule nervose. Per quanto riguarda la densità, i contatti vengono stimati nell'ordine di 500

milioni per millimetro cubo di sostanza grigia. E si è calcolato che tutte le fibre di un solo cervello unite insieme, danno la lunghezza di 500.000 chilometri .

La corteccia cerebrale ricopre i due emisferi e ha uno spessore di tre

millimetri; se fosse distesa avrebbe la superficie di quattro fogli di carta da lettera.

Una finestra sull'anima Lo studioso francese Jean-Pierre Changeux, in una recente libro scritto a

quattro mani con Paul Ricoeur , afferma che i nuovi strumenti quali la tomografia a emissione di positroni, la risonanza magnetica e gli sviluppi dell’encefalografia hanno aperto una "finestra sull'anima" tale che "se si fosse messa la testa di santa Teresa d'Avila nell’apparecchio per la tomografia durante le sue estasi mistiche, si sarebbe capito se aveva, sì o no, delle allucinazioni o se era, più o meno, in preda a crisi epilettiche" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].

L’obiettivo delle ricerche di Changeaux potrebbe essere "andare alle radici

del pensiero al di fuori di ogni metafisica". Infatti, per esempio, per Changeux, il premio Nobel John Eccles è "uno degli ultimi neurobiologi a credere nella separazione tra mente e cervello (per Eccles mente era sinonimo di anima), mentre è necessario il massimo rigore critico verso qualsiasi segno dello Spirito, sia pure anche hegelianamente inteso.

Ricoeur obietta a Changeux che, utilizzando in modo così discriminato la

nozione di allucinazione, si ha un discorso neuronale ricco e un discorso psicologico povero.

Invece bisogna trovare le intersezioni tra il neuronale e lo psichico.

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Ma è possibile? Sì se le rispondenze sono semplici, se entra in campo la coscienza, quella che Ricoeur chiama "esperienza integrale", una esperienza psicologica talmente globale da risultare neurobiologicamente indecifrabile. Infatti la complessità entro cui ci si muove è "strabiliante".

Changeux ammette che il contributo delle neuroscienze è modesto se

riferito all'elaborazione di una morale. "Qualcuno potrebbe sostenere che, nonostante gli sviluppi [...] della nostra

capacità di ricostruire una mappa funzionale del cervello umano, è virtualmente impossibile che la PET riveli gli elementi neuronali coinvolti in questi cambiamenti e quindi essi contribuiscono poco alla nostra comprensione di come il cervello funziona. Sembra giusto presumere, tuttavia, che una volta che la PET ha identificato sicuramente una specifica area del cervello umano responsabile di un ben definito tipo di funzione, [...] si può ricorrere ad altre tecniche neurobiologiche per studiare l'esatta natura del processo. Sia i ricercatori clinici che gli studiosi del cervello si avvantaggeranno di un'interazione complementare di questo genere" [Gregory, EOM, 1991, pp. 403-404].

In questi anni sta avvenendo qualcosa di importante, sta iniziando

l'indagine neurologica che influenzerà e trasformerà completamente le ricerche dando enormi contributi per risolvere il mind-body problem .

In particolare gli ultimi dieci/venti anni del XX secolo hanno visto una

produzione enorme di (tentativi di) teorie unitarie della coscienza e del problema del rapporto mente-cervello.

Si è scoperto, per esempio, che l'ascolto di un racconto in una lingua

sconosciuta mostra attive solo le cortecce auditive mentre lo stesso racconto, ripetuto nella lingua nota, accende un gran numero di aree cerebrali.

Esiste nella nostra corteccia una "geografia della comprensione" vera e

propria. La coscienza tra ricerca scientifica e riflessione teologica Il tema della coscienza è il più attuale per le neuroscienze e la filosofia e

tante altre discipline correlate o conseguenti. Ian Barbour, docente di fisica e teologia del Carleton College, Minnesota,

erede forse del pensiero di Teillhard de Chardin, ha detto recentemente: "La scienza solleva questioni etiche alle quali da sola non è in grado di rispondere. Questo è vero sia per la fisica che per la biologia. Si pensi alle sfide della

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genetica o dell'intelligenza artificiale. Oggi le maggiori minacce alla dignità umana vengono da questi ambiti di ricerca, perché la clonazione, la manipolazione genetica e la robotica sfidano la nostra comprensione della natura umana. Ma l'essere umano è più del suo codice genetico. Siamo potentemente influenzati dai nostri geni, ma siamo anche persone responsabili. Il Dna non spiega ogni cosa, e il nostro cervello non è un computer" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].

Alla ricerca di creare una relazione e una collaborazione tra scienze e

teologia, Ian Barbour, impegnato in ciò da moltissimi anni, propone che il dialogo tra le due comunità, quella scientifica e quella religiosa, si basi su uno dei tanti modelli teologici che la cristianità ha offerto per pensare Dio e il mondo: la process theology, la teologia del processo. "Questa teologia parla di Dio come un partecipante attivo nella comunità cosmica. Creazione e redenzione sono due aspetti di una sola azione divina che non è ancora finita. Dunque possiamo parlare di una storia che, come un arco, include da una parte il pilastro della creazione del cosmo, dalle particelle elementari all'evoluzione degli esseri viventi, e dall'altra il pilastro dell'alleanza biblica e di Cristo, con un posto in esso per le storie delle altre tradizioni religiose" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].

E continua "La "teologia del processo" offre una comprensione ecologica ed

evolutiva della natura come sistema dinamico e aperto, caratterizzato da diversi livelli di organizzazione, attività ed esperienza. Evita ogni dualismo tra mente e corpo, tra umanità e natura, tra mascolinità e femminilità. E offre la più ampia base per una responsabilità verso il creato" [cfr ibidem].

Queste idee Barbour le ha elaborate soprattutto in due libri: La religione

nell'età della scienza (1990) e L'etica nell'età della tecnologia (1993). Il progresso medico ha permesso una rinnovata speranza nella ricerca sulla

natura della coscienza ma anche altri interessanti sviluppi, per esempio la definizione del problema spinoso di cosa sia e di quando avvenga precisamente la morte. Tale ricerca ha una rilevanza clinica urgentissima in tema di espianti di organi vitali.

Sarà anche molto importante conoscere i risultati del Progetto genoma, che

a detta dei più ottimisti, saranno forse disponibili già tra una decina d'anni e potranno essere utilizzati in ogni campo della medicina e delle scienze del corpo umano, compresa la neurologia. E proprio l’intescambio tra le acquisizioni dell’indagine sulla corteccia cerebrale e le conoscenza genetiche permetterà straordinari progressi alla cosiddetta scienza della mente.

L'argomento stesso di questa dissertazione costringe a non poter dire nulla

di nuovo, fintanto che le nuove apparecchiature e le ricerche già così numerose

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non forniranno dati e interpretazioni efficaci. Ma credo che i risultati non si faranno attendere molto. Bisognerà metterli insieme e interpretarli.

Secondo i ricercatori si potrebbe localizzare con precisione la sede

dell’intelligenza umana, senza ricadere nella pretesa di trovare un luogo nel cervello per ogni dimensione dell’intelligenza, dell’anima o della mente. E senza trascurare l’assunto universalmente accettato, secondo cui la mente è il risultato di un’attività integrata e associativa di moltissime parti della corteccia cerebrale .

È da auspicare dunque che la filosofia incontri di nuovo la scienza e sposi

un metodo empirico, senza tradire quanto appreso nei millenni sulla trascendenza dell’uomo. Era già successo molte volte, con Aristotele, alla fine del medioevo (R. Bacone), nell'illuminismo e ora, dopo la pausa dell'idealismo (Hegel), nel XX secolo.

Ma è necessario un nuovo paradigma di indagine. Proprio a illustrare

questa necessità è dedicata la presente ricerca. La difficoltà dell’indagine sulla coscienza Secondo R. L. Gregory [Gregory, 1991, pp. 181-186] la coscienza "è la

proprietà allo stesso tempo più ovvia e più misteriosa della nostra mente. Da un lato, che cosa potrebbe essere più certo o evidente per ciascuno di noi del fatto di essere un soggetto di esperienze, di godere di percezioni e sensazioni, di provare dolore, di avere idee e di decidere in maniera consapevole? D'altra parte, che cosa mai può essere la coscienza? Come possono i corpi fisici nel mondo fisico contenere un simile fenomeno? La scienza ha rivelato i segreti di molti fenomeni naturali inizialmente misteriosi - il magnetismo, la fotosintesi, la digestione, anche la riproduzione - ma la coscienza sembra profondamente differente da tutti questi … Qualsiasi caso particolare di coscienza sembra avere un osservatore favorito o privilegiato, il cui accesso al fenomeno è del tutto diverso, e migliore, rispetto a quello di qualsiasi altro, indipendentemente dagli strumenti che egli possiede.

Per questo e altri motivi, non solo fino a ora non abbiamo una valida teoria

della coscienza, ma anche manchiamo di una descrizione di base chiara e non controversa del fenomeno presunto" [Gregory, 1991, p. 181].

Alcuni sono arrivati al punto di negare che ci sia qualcosa defínibile con

questo termine. Evidentemente la concezione che noi abbiamo di essa è lacunosa e si devono riconsiderare le assunzioni che ci inducono a supporre che esista un fenomeno unico e familiare.

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Il problema principale dunque è quello epistemologico: qual è il modo giusto di indagare la coscienza?

Una teoria generale accettabile sulla posizione della mente nella gerarchia

naturale deve necessariamente e sistematicamente correlare tre fattori apparentementre disparati: l'organizzazione funzionale, la costituzione fisica e l'apparenza soggettiva. Al momento sappiamo qualcosa di come quersti tre fattori siano correlati nella percezione sensoriale dlel'uomo e, piuù in generale, nella percezione del dolore dei mammiferi. Abbiamo inoltre una visione parziale di altri aspetti dell'attività mentale, tanto nell'uomo che ina ltri animali. "Eppure non abbiamo ancora neanche un embrione di teoria generale che spieghi perché una determinata operazione fisica del sistema nervoso centrale umano produca un determinato tipo di vita cosciente. Fino a quando la teoria della mente non includerà una teoria della coscienza, saremo sprovvisti di basi per disquisire sulla possibilità o impossibilità di creare sostrati fisici della mente alternativi, diversi dai familiari esempi biologici. E attualmente non abbiamo idea di cosa sia in generale alla base del prodursi di processi coscienti" .

Un ambito molto interessante da indagare - lo farò nel primo capitolo - è

quello delle descrizioni implicite nel significato quotidiano del termine. Quando si prende in considerazione il problema della coscienza vengono

sollevate domande sconcertanti: gli altri animali sono dotati di coscienza? Essi sono coscienti nel nostro stesso modo? Un computer o un robot può essere cosciente? Una persona può avere pensieri inconsci, o dolori o sensazioni o percezioni inconsce? Un bambino è cosciente al momento della nascita o prima? Quando sogniamo siamo coscienti? Un essere umano può contenere in un solo cervello più di un soggetto o ego o agente cosciente?

Certamente, risposte valide a queste domande dipenderanno soprattutto

dalle scoperte sperimentali sulle abilità comportamentali e sulle circostanze interne delle varie entità che si propongono come ipotetici candidati per la coscienza, ma per ognuno di questi reperti sperimentali possiamo chiedere: qual è la sua importanza per il problema della coscienza e perché? Queste domande non sono direttamente empiriche, ma concettuali, e la risposta ad esse non si presenta in alternativa o in contrapposizione alla risposta a domande empiriche, ma come un loro presupposto essenziale, o almeno un loro accompagnamento.

Punto di vista "interno" ed "esterno" sulla coscienza

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"Il nostro comune concetto di coscienza sembra legato a due serie distinte di considerazioni che possono essere grossolanamente indicate con le espressioni "dall'interno" e "dall'esterno".

Dall'interno la nostra stessa coscienza sembra ovvia e consistente:

sappiamo che attorno a noi e anche all'interno del nostro corpo avvengono molti eventi di cui siamo del tutto inconsapevoli o incoscienti, ma nulla potrebbe essere conosciuto più intimamente da noi di quelle cose di cui siamo individualmente coscienti. Quelle cose di cui sono cosciente e il modo in cui ne sono cosciente determinano in che cosa consiste essere me stesso. Io so in un modo che nessun altro può provare che cosa significa essere me stesso. Dall'interno, la coscienza sembra essere un fenomeno tutto o nulla, una luce interna che è accesa o spenta. È vero che talvolta siamo assonnati o distratti o addormentati, e occasionalmente possiamo anche godere di una coscienza abnormemente aumentata, ma quando siamo coscienti, il fatto di essere coscienti non ammette gradazioni" [Gregory, 1991, p. 182].

Secondo una certa prospettiva la coscienza sembra essere una proprietà

che separa l'universo in due tipi di "cose" profondamente diverse: quelle che la possiedono e quelle che non la possiedono. Quelle che la possiedono sono soggetti, esseri per i quali le cose possono essere in un modo o in un altro, esseri che hanno un significato. Non ha nessun significato essere un mattone o un calcolatore tascabile o una mela; queste cose hanno un interno, ma non il tipo giusto di interno, nessuna vita interiore, nessun punto di vista.

"Quando si considerano questi altri (altre persone o altre creature), le si

considerano necessariamente dall'esterno, e allora varie loro proprietà osservabili e definibili ci colpiscono in quanto rilevanti per la questione della loro coscienza. Gli esseri reagiscono con discernimento agli eventi che cadono sotto i loro sensi: riconoscono oggetti, evitano circostanze dolorose, imparano, progettano, e risolvono problemi. Manifestano intelligenza". Ma mettere la questione in questo modo potrebbe essere considerato un modo di pregiudicare il problema. Parlare dei loro "sensi" o di circostanze "dolorose", ad esempio, suggerisce che abbiamo già risolto il problema della coscienza.

"L'ovvia supposizione è che i vari indici "esterni" siano segni o sintomi più o

meno affidabili della presenza di quel qualcosa che ogni soggetto cosciente conosce dal- l'interno. Ma come si potrebbe confermare questo? Si tratta del famoso "problema delle altre menti". Sembra che nel proprio caso personale si possa osservare direttamente la coincidenza della vita interna con i propri talenti, osservabili all'esterno, di discriminazione percettiva, di analisi introspettiva, di azione intelligente e così via. Ma se ognuno di noi vuole progredire rigorosamente oltre il solipsismo, dobbiamo riuscire a fare qualcosa che è apparentemente impossibile: confermare la coincidenza tra l'interno e l'esterno negli altri. Il fatto che essi ci dicano che anche nei loro casi personali questi aspetti coincidono, non serve, formalmente, poiché non ci dà altro che

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un'ulteriore prova della coincidenza dell'esterno con l'interno: le capacità percettive e così via vanno normalmente di pari passo con le capacità di analisi "introspettiva". Se un robot abilmente progettato potesse (apparentemente) parlarci della sua vita interiore (potesse cioè produrre tutti i suoni appropriati nei contesti appropriati), sarebbe corretto ammetterlo nel gruppo di privilegiati? Forse sì, ma come potremmo dire di non essere ingannati? In questo caso la domanda da porsi sembra: quella speciale luce interna è davvero accesa o all'interno non c'è altro che buio? E questa domanda sembra senza risposta. Quindi, forse abbiamo già fatto un passo falso" [Gregory, 1991, pp. 181-182].

L’uso dei pronomi "noi" e "nostro" e la tranquilla accettazione di essi, rivela

che noi non prendiamo sul serio il problema delle altre menti, per lo meno per noi stessi e per gli esseri umani a cui normalmente ci associamo.

Unica possibilità: l'indagine empirica Un recente tentativo di definire la coscienza in termini oggettivi è quello di

E.R. John (1997), secondo il quale la coscienza è "un processo in cui informazioni su singole modalità multiple di sensazione e percezione vengono combinate in una rappresentazione multidimensionale unificata dello stato del sistema e del suo ambiente, e integrate con informazioni sulle memorie e le necessità dell'organismo, generando reazioni emotive e programmi di comportamento per adattare l'organismo al suo ambiente".

Stabilire che questo processo interno ha luogo in un particolare organismo

è presumibilmente un compito difficile, ma chiaramente empirico. Supponiamo che sia completato con successo per qualche essere: tale essere è, secondo questa descrizione, cosciente. Qualsiasi appropriata spiegazione scientifica del fenomeno della coscienza deve inevitabilmente prendere questa decisione dottrinaria di pretendere che il fenomeno sia considerato come obiettivamente osservabile, ma ci si può ancora chiedere se, una volta fatto questo passo, il fenomeno veramente misterioso non sfugga.

Per John Locke, e per molti filosofi dopo di lui niente era più essenziale per

la mente della coscienza, e più in particolare dell'autocoscienza. La mente con tutte le sue attività e i suoi processi era considerata trasparente a se stessa; nulla era nascosto alla sua visione interna. Per vedere che cosa succedeva nella mente di una persona, bastava soltanto "guardare" - "guardare introspettivamente" - e i limiti di quello che si scopriva in questo modo erano rappresentati dai confini stessi della mente. La nozione di pensiero o percezione inconscia non era nemmeno presa in considerazione, oppure, se lo era, era scartata come una sciocchezza incoerente e contraddittoria.

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John Locke, l'incomprensibilità dell'inconscio… Per Locke, in realtà, restava un serio problema, quello di come descrivere

tutte le memorie di un individuo come presenti con continuità nella sua mente, anche quando non erano "presentate alla coscienza" con continuità.

L'influenza di questo punto di vista è stata così grande che quando

Sigmund Freud inizialmente ipotizzò l'esistenza di processi mentali inconsci, la sua proposta si scontrò generalmente con un atteggiamento di aspro rifiuto e incomprensione: non era soltanto un oltraggio al buon senso, ma anche una contraddizione, affermare che ci potessero essere idee e desideri inconsci, sentimenti inconsci di odio, schemi inconsci di autodifesa e vendetta. Ma Freud si guadagnò dei seguaci. Infatti, quando si vide che questo modo di pensare avrebbe permesso di spiegare psicopatologie altrimenti inesplicabili, questa "impossibilità concettuale diventò un punto di vista perfettamente accettabile per i teorici [Gregory, 1991, p. 183].

Il nuovo modo di pensare era anche rafforzato da un elemento a suo

sostegno: ci si potrebbe appellare a una variazione per lo meno blanda del credo di Locke immaginando che questi pensieri, desideri e schemi "inconsci" appartengano all'altro se stesso presente nella psiche. Proprio come io posso tenere segreti a te i miei schemi, così il mio es può avere dei segreti rispetto al mio io.

"Siamo arrivati ad accettare senza la minima traccia di incertezza una serie

di affermazioni riguardo al fatto che l'analisi delle informazioni avviene dentro di noi anche se è assolutamente inaccessibile all'introspezione. Non si tratta dell'attività inconscia repressa del tipo di quella scoperta da Freud, attività svolta al di fuori della "vista" della coscienza, ma semplicemente attività mentale che è in qualche modo sotto o al di là dell'ambito della coscienza.

Freud sostenne che le sue teorie e le sue osservazioni cliniche gli davano il

diritto di passare sopra alle sincere negazioni dei suoi pazienti riguardo a quello che stava succedendo nelle loro menti. Analogamente, lo psicologo cognitivo sfoggia prove sperimentali, modelli e teorie, per dimostrare che le persone sono coinvolte in processi sorprendentemente sofisticati di ragionamento, di cui non riescono a dare nessuna descrizione introspettiva. Non solo le menti sono inaccessibili a chi è all'esterno; certe attività mentali sono più accessibili a chi è all'esterno che non ai veri "proprietari" di quelle menti!" [Gregory, 1991, p. 184].

Nelle nuove teorizzazioni, tuttavia, gli elementi di sostegno sono stati

scartati. Benché le nuove teorie abbondino di metafore deliberatamente fantasiose - con sottosistemi che inviano messaggi avanti e indietro, chiedendo aiuto, obbedendo e offrendo informazioni - i veri sottosistemi sono considerati in modo non problematico come pezzi non consci del macchinario organico,

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assolutamente privi di un punto di vista o di una vita interna, come un rene o una rotula. Certamente l'avvento di computer "privi di mente" ma "intelligenti" ha svolto un ruolo fondamentale in questa ulteriore dissoluzione della visione di Locke.

… e l'incomprensibilità della coscienza Ma ora l'estremismo di Locke è stato rovesciato; se, prima, l'idea vera e

propria di un'attività mentale inconscia sembrava incomprensibile, ora stiamo perdendo le nostre certezze sull'idea vera e propria di attività mentale conscia. A che cosa serve la coscienza, se un’analisi delle informazioni assolutamente inconscia, in realtà priva di soggetto, è in linea di principio capace di raggiungere tutti gli obiettivi per i quali si suppone che esistano le menti coscienti?

Se le teorie della psicologia cognitiva possono essere vere per noi, esse

possono essere vere anche per degli zombie o per dei robot, e sembra che le teorie non riescano a distinguerci da essi. Come è possibile che una semplice analisi di informazioni priva di soggetto (del tipo di quella che, come si è recentemente scoperto, ha luogo in noi) si sommi o crei quella particolare proprietà a cui viene così vividamente contrapposta? Il contrasto, infatti, non è stato superato.

Karl Lashley ha provocatoriamente suggerito che "nessuna attività della

mente è mai conscia", affermazione con cui intendeva richiamare l’attenzione sull'impossibilità di accedere all'analisi che sappiamo deve necessariamente aver luogo quando pensiamo. Può sembrare a prima vista che l'osservazione di Lashley annunci l'abbandono della coscienza come fenomeno di interesse psicologico, ma il suo vero effetto è esattamente l'opposto. Richiama inevitabilmente la nostra attenzione sulla differenza tra tutta l'analisi inconscia delle informazioni - senza la quale indubbiamente non ci potrebbe essere esperienza cosciente - e il pensiero conscio in sé, che è in qualche modo direttamente accessibile.

Accessibile da parte di che cosa o da parte di chi? Dire che è accessibile da

parte di qualche sottosistema del cervello non equivale ancora a distinguerlo da attività ed eventi inconsci, che sono pure accessibili da parte di vari sottosistemi del cervello. Se qualche sottosistema particolare e speciale meriti di essere chiamato se stesso, è tutt'altro che ovvio. Qualche caratteristica dei suoi particolari scambi con il resto del sistema nervoso lo renderebbe degno di tale nome?

Questo problema è ancora il problema delle menti degli altri, riproposto

come problema serio ora che la psicologia ha cominciato ad analizzare la mente umana nelle sue componenti funzionali. Questo appare in modo

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eclatante nei famosi casi di cervello diviso (cfr per esempio Gazzaniga, 1998; Glickstein, 1992, Vallortigara, 1997).

"Le nostre uniche capacità mentali potrebbero essere ben prodotte da

minute e circoscritte reti neuronali; e tuttavia il nostro cervello altamente modularizzato genera in ognuno di noi la sensazione di integrazione e unità. Come può accadere, dal momento che siamo una collezione di moduli specializzati?

La risposta può essere questa: l'emisfero sinistro cerca spiegazioni del

perché gli eventi si verifichino. Il vantaggio di un tale sistema è ovvio. Andando oltre la semplice osservazione dei fatti e domandando perché si siano verificati, un cervello può affrontare meglio quegli stessi eventi, qualora dovessero riproporsi.

Riconoscere i punti di forza e di debolezza di ogni emisfero ci ha indotti a

riflettere sulle basi della mente. Dopo anni di affascinante ricerca sul cervello diviso, è evidente come l'inventivo cervello sinistro, incline all'interpretazione, abbai un'esperienza cosciente assai diversa dal veridico e "letterale" emisfero destra. Per questo entrambi gli emisferi possono essere visti come coscienti, la coscienza del cervello sinistro sorpassa di gran lunga quella del cervello destro. E ciò solleva un'altra serie di questioni che basterà a tenerci occupati per altri trent'anni" [Gazzaniga, 1998, p. 47].

Coscienza e cervelli divisi "Non c'è niente di veramente problematico nell'accettare il fatto che le

persone che hanno subito una sezione completa del corpo calloso abbiano due menti in un certo senso indipendenti. Non è problematico perché ci siamo abituati a pensare alla mente di una persona come un'organizzazione di sotto-menti comunicanti tra di loro. In questo caso, le linee di comunicazione sono state semplicemente interrotte, rendendo particolarmente saliente l'apparente ruolo di mente delle singole parti.

Ma ciò che resta del tutto problematico è se ambedue le sotto-menti

"hanno una vita interna". Secondo un punto di vista, non c'è motivo di accordare una coscienza (una "vita interna" piena) all'emisfero non dominante, poiché tutto ciò che è stato dimostrato si limita al fatto che quell'emisfero, come molti altri sottosistemi cognitivi inconsci, può analizzare un gran numero di informazioni e controllare in modo intelligente certi comportamenti.

Se accordiamo una coscienza di "vita interna" piena all'emisfero non

dominante (o, più propriamente, alla persona il cui cervello è l'emisfero non dominante), che cosa si potrà dire di tutti gli altri sottosistemi di analisi delle informazioni ipotizzati dalla teoria attuale? Deve essere di nuovo raccolto il

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suggerimento di Locke, a costo di popolare, in senso quasi letterale, le nostre teste di innumerevoli soggetti di esperienze?" [Gregory, 1991, p. 185].

Gregory cita gli esperimenti di J. R. Lackner e M. Garrett su "ciò che si

potrebbe chiamare un canale inconscio di comprensione delle frasi" per mezzo di test di ascolto dicotico (i soggetti prestano ascolto, per mezzo di cuffie, a due canali diversi).

L'influenza del canale trascurato sull'interpretazione del segnale a cui si era

prestato attenzione può essere spiegata soltanto in base all'ipotesi che il canale trascurato sia analizzato direttamente a un livello semantico - cioè che il segnale trascurato venga comunque compreso - ma questa è apparentemente una comprensione inconscia di frasi!

O si dovrebbe dire che è una prova della presenza nei soggetti di almeno

due coscienze diverse e solo parzialmente comunicanti? Se chiediamo ai soggetti in che cosa consisteva comprendere il canale trascurato, essi risponderanno, sinceramente, che per loro non significava niente, erano praticamente inconsapevoli di quella frase. Ma forse, come viene spesso suggerito dai pazienti con cervello diviso, c'è in effetti qualcun altro a cui dovrebbe essere rivolta la nostra domanda: il soggetto che ha compreso coscientemente la frase e ha trasmesso un segno del suo significato al soggetto che risponde alle nostre domande".

Sembra proprio che siamo tornati alla domanda senza risposta, il che

suggerisce che dovremmo trovare un modo diverso di considerare la situazione.

Gegory prende in esame l'ipotesi "per cui ciò che abbiamo ritenuto un unico

fenomeno consista in realtà di due fenomeni piuttosto diversi: il tipo di coscienza che è intrinsecamente legata alla capacità di esprimere nella propria lingua naturale che cosa sta succedendo; e il tipo di coscienza che consiste semplicemente in un'analisi intelligente delle informazioni.

In base a questa proposta, l'aggiunta della capacità di dare "deserizioni

introspettive" cambia il fenomeno, per cui quando ci chiediamo che cosa può dirci un delfino o un cane, o che cosa può dirci un emisfero non dominante, se solo potessero parlare, ci interroghiamo su un fenomeno radicalmente diverso dal fenomeno che esiste in assenza di tale capacità linguistica.

"La differenza tra mente e materia e le modalità di interpretazione tra le

due hanno sfidato e frustrato la comprensione umana fin da quando per la prima volta l'uomo ha incominciato a riflettere sulla propria natura e sul significato dell'esistenza.

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La comune, ingenua impressione che noi usiamo la mente per dare inizio alle nostre azioni fisiche e per controllarle, è stata da lungo tempo rifiutata pressoché universalmente dalla scienza, in base alla dottrina del materialismo scientifico, che afferma che è possibile spiegare esaurientemente il cervello, il comportamento e la realtà in termini esclusivamente fisici, senza alcun riferimento ad agenti mentali o soggettivi.

Quanto più le neuroscienze sono progredite nello spiegare l'elettrofisiologia,

la chimica e l'anatomia dell'attività cerebrale, tanto maggiore è diventata l'apparente dicotomia tra mente e cervello, e tanto più inconcepibile il fatto che lo svolgimento delle funzioni cerebrali possa essere influenzato in qualsiasi modo dalle qualità soggettive dell'esperienza interiore" [Gregory, 1991, p. 186].

Le principali posizioni teoriche negli ultimi 50 anni Negli anni '50 la filosofia materialistica fu portata a un nuovo estremo con

la cosiddetta "teoria di identità psicofisica (o tra mente e cervello)". Nella semantica corrispondente, si affermava che non esiste alcuna differenza tra mente e cervello, che essi sono un tutt'uno, e il fatto che sembrino due cose diverse è soltanto un'apparenza, perché abbiamo usato linguaggi e prospettive diverse nelle nostre descrizioni obiettive e soggettive. Secondo questa teoria dell'identità, non c'è nessun rapporto mente-cervello; esso si riduce semplicemente a uno psuedoproblema, che presumibilmente si può risolvere con un corretto approccio linguistico.

La posizione materialista, come si è sviluppata alla fine degli anni '60, fu

esposta da D.M. Armstrong, uno dei suoi principali sostenitori, come "l'idea che noi possiamo dare una spiegazione completa dell'uomo in termini puramente fisico-chimici", con una "descrizione puramente elettrochimica del funzionamento del cervello". "La mente non è altro che il cervello"; "La vita è un fenomeno puramente fisicochimico"; "Sembra che l'uomo non sia altro che un oggetto fisico, dotato di proprietà soltanto fisiche".

Il riconoscimento che per le neuroscienze la coscienza è superflua fu

espresso nel 1964 dal premio Nobel Sir John Eceles: "possiamo in linea di principio spiegare tutte le nostre attività di ricezione e di azione in termini di attività di circuiti neuronali; e di conseguenza la coscienza sembra assolutamente inutile! Come neurofisiologi, nei nostri tentativi di spiegare come funziona il sistema nervoso, semplicemente non sappiamo che fare della coscienza".

Come diretta reazione contro il punto di vista materialista, verso la metà

degli anni '60 emerse una versione modificata, mentalistica, del concetto di

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coscienza e del rapporto mente-cervello. Nei tentativi di spiegare l'unità e (oppure) la dualità dell'esperienza cosciente osservata dopo disconnessione chirurgica degli emisferi cerebrali, si favorisce un'interpretazione della mente cosciente secondo cui l'unità soggettiva e il significato soggettivo erano concepiti generalmente come derivati prima di tutto operativi o funzionali.

Si postulava che un processo cerebrale acquisisse un significato soggettivo

grazie alle modalità secondo cui agiva nel contesto della dinamica cerebrale, e non perché fosse una copia neurale, una trasformazione, o una rappresentazione isomorfica o topologica dell'oggetto immaginato. Questo concetto operativo del significato soggettivo necessariamente comportava un impatto funzionale, e perciò causale, dei fenomeni soggettivi nella dinamica del controllo cerebrale. I fenomeni coscienti erano interpretati come proprietà dinamiche emergenti dell'attività cerebrale stessa. Rispetto ai meccanismi neurali da cui erano costituiti, i fenomeni soggettivi erano per definizione "diversi, più numerosi, non equivalenti" ad essi.

L'infrastruttura neurale di qualsiasi processo cerebrale mediatore della

consapevolezza cosciente, consta di elementi all'interno di elementi e di forze all'interno di forze, che vanno da particelle subnucleari e subatomiche, ai livelli più bassi, sempre più in alto attraverso sistemi molecolari e cellulari fino ai sistemi neurali, dai più semplici ai più complessi. A ogni livello di questa gerarchia, gli elementi sono dipendenti e controllati dalle proprietà pervasive di organizzazione dei sistemi più ampi in cui sono incorporati.

L'interpretazione olistica Le proprietà olistiche del sistema a ogni livello di organizzazione hanno i

loro propri ruoli causali di regolazione, che interagiscono al loro rispettivo livello, ma esercitano anche un controllo sui loro componenti a valle, e nello stesso tempo determinano le proprietà del sistema di cui fanno parte. Viene postulato che ai livelli cerebrali superiori queste proprietà emergenti del sistema comprendono i fenomeni dell'esperienza interiore, come emergenti di ordine superiore nella gerarchia cerebrale degli elementi di controllo.

Interpretati come proprietà olistiche dinamiche di livello superiore, si

ritiene che i fenomeni mentali controllino i loro componenti biofisici, molecolari, atomici e altri sottoelementi nello stesso modo in cui l'intero organismo nel suo complesso controlla il corso e il destino dei suoi singoli organi e cellule, o esattamente come la molecola, in quanto entità, guida tutti gli atomi e gli elettroni che la compongono e altre parti subatomiche e subnucleari attraverso un preciso ordine spazio-temporale in una reazione chimica.

Come avviene di regola per i rapporti tra le parti e il tutto, si riconosce una

reciproca interazione tra gli elementi neurali e mentali: la fisiologia del cervello determina gli effetti mentali, come generalmente si conviene; ma anche la

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neurofisiologia, nello stesso tempo, è a sua volta governata dalle proprietà soggettive superiori degli eventi mentali che la pervadono. Questi interagiscono al loro proprio livello, e in conseguenza di ciò attivano i loro costituenti secondari nell'attività cerebrale. Benché in parte determinate dalle proprietà dei loro componenti neurali, le proprietà soggettive sono determinate anche dalla disposizione spaziale e temporale dei componenti stessi. Perciò, anche le proprietà spazio-temporali essenziali, nidificate l'una dentro l'altra, dell'infrastruttura neuronale, così come gli elementi di massa-energia, devono essere inclusi nella spiegazione causale.

Il risultante modello di mente-cervello, in cui la mente agisce sul cervello e

il cervello sulla mente, viene classificato come "interazionista", in contrasto con il "parallelismo" mente-cervello o l'identità mente-cervello. Il termine "interazione", tuttavia, non è ottimale per indicare il tipo di rapporto proposto, in cui i fenomeni mentali sono descritti principalmente come se sopravvivessero, anziché intervenissero, nel processo fisiologico. Si pensa che la mente muova la materia del cervello e governi, controlli e guidi gli eventi neurali e chimici senza interagire con i componenti a livello dei componenti stessi, proprio come un organismo può guidare e controllare il decorso temporo-spaziale dei suoi atomi e tessuti senza interagire direttamente con essi.

In questo modello modificato del rapporto mente-cervello, la coscienza

diventa una componente operativa integrante della funzione cerebrale, un fenomeno autonomo a pieno diritto, non riducibile a meccanismi elettrochimici. Esercitando un'influenza causale di livello elevato sulla direzione e il controllo del comportamento, la mente cosciente non è più qualcosa che possa essere ignorato dalle neuroscienze ogniqualvolta si richieda una spiegazione dell'attività cosciente. Si concede all'esperienza soggettiva un'utilità e un motivo d'essere per il fatto di avere un ruolo causale centrale, imprescindibile, nella funzione cerebrale. Si fornisce così un motivo razionale per l'evoluzione della mente in un mondo fisico.

Un nuovo paradigma di indagine sulla coscienza La nuova visione mentalistica della coscienza come elemento causale si

colloca in diretta contrapposizione ai principi fondamentali della filosofia comportamentistica-materialistica. Le due impostazioni esplicative sono diametralmente opposte e si escludono reciprocamente.

Negli anni '70, durante la cosiddetta rivoluzione della "coscienza" o

"mentalista" (indicata anche come la rivoluzione "cognitiva", "umanista" o la "terza" rivoluzione), la nuova interpretazione mentalista prevalse sul comportamentismo come paradigma dominante della psicologia.

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Il passaggio dal comportamentismo al mentalismo, o cognitivismo, consiste in un passaggio a una forma fondamentale diversa di determinismo causale. Il tradizionale microdeterminismo dell'era materialista-comportamentista che enfatizza il controllo causale dal basso verso l'alto, cedette il passo a un paradigma in cui si dà priorità a un controllo emergente dall'alto verso il basso, esercitato dalle forze superiori, più evolute, della natura sopra le meno evolute. Nel cervello, questo significa un controllo verso il basso dell'elemento mentale sul neuronale. Tuttavia, il principio del controllo emergente verso il basso (indicato anche come "interazione emergente" o "determinismo emergente") vale per tutti i sistemi gerarchici in ogni scienza.

Il nuovo mentalismo, combinando principi di due teorie precedentemente

contrastanti, tende a conciliare poli che in passato erano opposti, come mente e materia, fisico e metafìsico, determinismo e libera scelta, così come "è" e "dovrebbe", fatto e valore, in una visione unificata della mente, del cervello e dell'uomo nella natura. La nuova posizione sembra metafisica nel suo riconoscimento degli eventi neurali, nell'attribuire ai fenomeni soggettivi un'influenza causale e nel collocare la mente in una posizione di controllo al di sopra della materia del cervello.

Nello stesso tempo, l'interpretazione appare materialistica in quanto

definisce i fenomeni mentali come costituiti da elementi fisici e come inseparabili dai substrati neurali. Poiché non è né tradizionalmente dualistico né fisicalistico, il nuovo paradigma rnentalista viene considerato rappresentativo di una terza posizione filosofica distinta: è emergentista, funzionalista, interazionista e monista.

Nei nuovi termini mentalisti, la scienza non postula più che tutte le

operazioni del cervello e il comportamento siano determinate in modo meccanicistico o fisico-chimico, come nella tradizionale filosofia materialista. Benché i meccanismi neuro-elettro-chimici sostengano e aiutino a determinare un dato corso d'azione, la scelta dell'azione viene largamente determinata a livelli superiori, dagli eventi mentali coscienti. La scelta volontaria comporta l'influenza causale delle priorità dei valori soggettivi, mentre i desideri, i sentimenti e altri fattori mentali personali sopravanzano le forze supplementari della sottostruttura neurale. In altre parole, noi facciamo quello che soggettivamente desideriamo fare. In questo nuovo sistema, le decisioni liberamente prese sono tuttora causate o determinate, ma raggiungono gradi di libertà e di autocontrollo di gran lunga superiori a quelli del classico determiniamo meccanicistico.

Il cambiamento degli anni '70 nella condizione scientifica e nel trattamento

dell'esperienza cosciente ha implicazioni filosofiche e umanistiche, oltre che scientifiche, di vasta portata. Al cervello delle scienze sperimentali è stata restituita la mente. Il mondo qualitativo, colorito e ricco di valori, dell'esperienza interiore, escluso per lungo tempo dall'ambito della scienza dalla dottrina comportamentista-materialistica, è stato restaurato. Il soggettivo non è più al di fuori dell'attenzione della scienza obiettiva, né è più qualcosa

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tutto sommato irrducibile, in linea di principio, alla neurofisiologia. Viene proposta un'impostazione logico deterministica per quelle discipline che trattano direttamente l'esperienza soggettiva, come la psicologia cognitiva, clinica e umanistica.

La teoria scientifica si è finalmente adeguata alle impressioni

dell'esperienza comune: di fatto noi usiamo la mente per iniziare a controllare le nostre azioni fisiche.

Ricerche sull’uomo e sugli animali È in un certo senso paradossale che gli studi più produttivi sulle funzioni

cerebrali derivino probabilmente da ricerche sugli animali, il cui comportamento può essere studiato con una raffinatezza sempre maggiore, ma che non sono in grado di comunicare con noi in modo molto fluente. Al contrario, gli studi sulle funzioni cerebrali derivati dalla clinica dipendono spesso proprio da quei metodi di comunicazione che ci è impossibile usare con gli animali. Infatti, la maggior parte della valutazione clinica delle capacità psicologiche di pazienti umani implica un notevole scambio verbale tra il paziente e l'esaminatore, che si esprime spesso in una forma ideata appositamente per rilevare le alterazioni del paziente.

"Si possono citare vari esempi, nei quali le differenze tra i risultati delle

ricerche sull'uomo e sugli animali sono apparse così grandi da suggerire che i cervelli degli animali debbano essere organizzati in un modo qualitativamente diverso rispetto ai cervelli umani, nonostante la loro strettissima somiglianza anatomica" [Gregory, 1991, p. 187].

Studiando la visione e la memoria degli animali, si presume spesso che le

domande che vengono rivolte ai pazienti umani vengano semplicemente trasformate in una forma equivalente, per quanto un po' più complicata da trasmettere. Vista più da vicino, tuttavia, la somiglianza è tutt'altro che stretta. L'animale rivela le sue capacità dimostrando di saper fare delle discriminazioni tra stimoli o eventi, come di solito è stato addestrato a dimostrare seguendo qualche regola particolare, e per cui viene ricompensato. Anche il soggetto umano, naturalmente, discrimina tra stimoli o eventi; ma spesso il clinico non studia la discriminazione in quanto tale, ma piuttosto ciò che il soggetto dice a proposito di essa, come ad esempio: "Sì, ora vedo la luce" oppure: "Posso vedere la lettera A nell'ultima riga".

Anche quando la risposta verbale sembra essere soltanto qualcosa di

superfluo, o una facile soluzione per comunicare la risposta discriminativa, possono sorgere seri problemi se il paziente, pur non essendo in grado di fornire un suo commento, è tuttavia capace di fare la discriminazione rilevante.

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Se si trova insomma nelle stesse condizioni di limitazione in cui si trova un animale quando vogliamo studiare le sue capacità visive. Ci riferiamo qui non tanto alla difficoltà relativamente banale di un soggetto che ha, ad esempio, un'alterazione della meccanica o dell'organizzazione del linguaggio parlato. Anche se un soggetto umano è in grado di comunicare liberamente ed efficacemente, tuttavia egli può essere inconsapevole della sua stessa capacità di discriminazione e perciò può non aver nulla da comunicare come commento.

parte prima Definizioni e storia del concetto di coscienza I Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato "Prima quaestio fit de terminis" dicevano i medioevali. Dedico qualche

spazio al termine "coscienza", alla sua origine, definizione, al suo uso, ai suoi significati nei vari ambiti della cultura, della scienza, della vita. Come fonti ho utilizzato un'ampia serie di vocabolari, lessici specialistici ed enciclopedie di cui in bibliografia si trova un elenco completo .

Riporto anche alcuni aforismi celebri o meno celebri, ma comunque

stimolanti, sulla coscienza . Etimologia del termine Coscienza deriva dal latino conscientiam, astratto di conscire "essere

consapevole" [Devoto, 1968, p. 106] derivato di consciens coscientis, participio presente di conscire, "essere consapevole", composto da cum- rafforzativo e scire "sapere".

In italiano la parola ricorre dal XIII secolo [DISC, 1997]. È sostantivo

singolare femminile, ha le varianti antiche o letterarie "conscienza" e "conscienzia".

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Per inventariare i molteplici significati e usi del termine coscienza , nel linguaggio comune e in quelli specialistici, ho utilizzato alcuni, tra i moltissimi vocabolari dizionari e lessici esistenti, sia di tipo generale o enciclopedico, sia quelli dedicati a discipline specifiche. Senza nominarli tutti (ma solo dove sia il caso) rimando alla sezione della bibliografia di questa dissertazione dedicata appunto a "Vocabolari, Enciclopedie, Lessici, Dizionari, Manuali".

Ho distinto almeno nove ambiti di significato: uno del senso comune, uno

filosofico, uno morale, uno psicologico, uno sociale, uno neuroscientifico, uno letterario, uno esistenziale, infine i significati tecnici specifici.

PRIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEL SENSO COMUNE Per iniziare, secondo il vocabolario di G. Devoto e G. C. Oli [Devoto-Oli,

1992, p. 762] coscienza è "la facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell'esperienza individuale o si prospettano in un futuro più o meno vicino: aver piena coscienza della gravità del momento".

Un'altra definizione appartenente al senso comune: "Coscienza, termine

che indica la consapevolezza riflessiva che l'uomo ha di tutti i propri stati e attività mentali: sensazioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc.; spesso, però, il termine designa semplicemente il complesso degli stati e delle attività mentali di cui l'uomo è consapevole. In quest'ultima accezione è stata di volta in volta assimilata al "pensiero", allo "spirito", all'"interiorità", e così via" [EE, p. 809]. Qui si fa risaltare il "sapere di sé" e la complessità della struttura identitaria dell'uomo.

Più generalmente è la consapevolezza che l'uomo ha di se stesso, delle

proprie azioni: "il primo svegliarsi d'una coscienza dentro il torpore della natura " (E. Cecchi)

È sinonimo di conoscenza: perder la coscienza; fatto che è nella coscienza

di tutti; aver la vaga coscienza di qualcosa, averne qualche sentore o sospetto. Significa anche consapevolezza valutativa, capacità di rendersi conto:

prendere coscienza delle difficoltà, aver l’esatta c. dei propri limiti, delle proprie possibilità, dei propri limiti; e averne una vaga coscienza, un'impressione, una sensazione confusa

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SECONDO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA FILOSOFIA Il vocabolario on-line della Garzanti ricorda che coscienza ha un significato

generale legato alla riflessione filosofica e psicologica secondo il quale sta per "consapevolezza di sé e del mondo esterno; è la funzione psichica in cui si riassume ogni esperienza conoscitiva del soggetto"; in senso più generico, l'insieme delle facoltà e delle attività psicofisiche;

Sulla definizione di coscienza nella filosofia rimando al prossimo capitolo

della presente tesi, dove sintetizzo l'evoluzione del concetto nella storia della filosofia, dalle origini alle teorie contemporanee.

In breve, però, si potrebbe dire che coscienza nel linguaggio filosofico in

generale indica il rapporto dell'io interno con se stesso (autocoscienza) e per il quale egli può conoscersi e dare di sé un giudizio immediato e sicuro, scoprendovi nello stesso tempo il fondamento di ogni altra certezza.

Coscienza come nome e sostanza dell'originaria identità personale, fucina

della biografia di ciascuno, sede di rientro, ricreativa della consistenza personale.

Autocoscienza È interessante considerare anche il termine "autocoscienza" dal momento

che è considerato alla stregua di coscienza [cfr EFG2, 1997, p. 75] Autocoscienza è "la consapevolezza, sul piano teoretico e su quello pratico,

che il soggetto ha di se stesso" [cfr Devoto-Oli, 1992, p. 262] Autocoscienza è coscienza di sé; consapevolezza dei propri atti, dei propri

stati interiori da [http://www.garzanti.it]. Nella riflessione filosofia di Immanuel Kant "autocoscienza" assume un

significato particolare: è la coscienza logica che l'io ha di sé come soggetto di pensiero.

E nella filosofia idealistica viene intesa come un ente sostanziale che è a

fondamento sia del pensiero sia della realtà Nella psicologia autocoscienza è l'esperienza analitica o genericamente

psicologica del proprio io. Aforismi filosofici sulla coscienza La coscienza è fondamentalmente una successione di riconoscimenti di

forme (R. Thom).

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Coscienza: espressione tautologica di sensazione (J.S. Miti). La coscienza: il sentimento che l'io ha di se stesso (T. Jouffroy). Il campo delle nostre sensazioni e percezioni sensoriali, di cui non siamo

consci, anche se indubbiamente possiamo dedurre di possederle, vale a dire il campo delle idee oscure dell'uomo è immenso. Le idee chiare, al contrario, coprono un numero infinitamente limitato di punti aperti alla coscienza; di modo che in effetti sulla grande mappa del nostro spirito solo pochi punti sono illuminati (I. Kant).

La coscienza è l'ultimo e il più recente sviluppo dell'organico e, di

conseguenza, il meno finito e il meno potente di questi sviluppi. Ogni estensione del sapere nasce dalla trasformazione dell'inconscio in conscio. La grande attività fondamentale è inconscia. Perché è stretto lo spazio della coscienza umana (L.L. Whyte).

Identica è la coscienza con l'autocoscienza, cioè distinta e una insieme,

come la vita e il pensiero (B. Croce). L'autocoscienza e la coscienza degli altri sono inseparabili a priori (E.

Husserl). Se io rifletto su di me, nella mia autocoscienza mi ritrovo vivente nel

mondo (E. Husserl). Coscienza di sé: quella operazione delle spirito con cui distinguiamo il

nostro essere dalle idee che ci occupano, così sapendo con chiarezza quali cose stiamo facendo e che cosa ha luogo in noi (J.G. Sulzer).

Coscienza: intuizione per mezzo della quale l'uomo sente in una certa

maniera ed in modo immediato i propri stati e le proprie azioni via via che li vive (M. Leenhardt).

La coscienza è quella facoltà dell'uomo di contemplare ciò che passa in lui,

di assistere alla sua propria esistenza, di essere, per così dire, spettatore di se medesimo (F.P. Guizot).

Il tempo è il nome che date voi ai moti della coscienza. Ogni avvenimento

che potrebbe accadere nello spazio e nel tempo accade ora, subito, immediatamente. Non c’è passato, non c’è futuro. Solo il presente, anche se noi dobbiamo usare un linguaggio basato sul tempo quando parliamo (R. Bach, Uno).

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TERZO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE MORALE Nel Dizionario di scienze dell'educazione [DSE, 1997, p. 246] la coscienza

morale "comprende: i processi cognitivi, cioè il momento di valutazione delle proprie intenzioni e azioni (conoscenza dei principi e delle norme); l'aspetto comportamentale (agire moralmente o evitare i comportamenti proibiti); la risonanza emotiva che il soggetto sperimenta prima, durante e a seguito del proprio comportamento. Lo sviluppo della coscienza segue il processo di maturazione della persona".

Coscienza è la valutazione morale del proprio agire, spesso intesa come

criterio supremo della moralità nelle espressioni: agire con coscienza (o secondo coscienza); essere di c. elastica, venire a compromessi con la propria c.; avere, non avere c.; esame di c., in coscienza.

Si tratta dell'esame delle proprie azioni sotto il profilo morale e religioso

(specialmente come preparazione al sacramento della penitenza); Sentirsi, avere la c. tranquilla, pulita: non sentirsi colpevole di nulla; per

scarico, per sgravio di c., per evitare il benché minimo rimorso futuro; togliersi un peso dalla coscienza, mettersi la coscienza a posto, in pace, eliminare il senso di colpa, riparando a un errore o a un'omissione, liberarsi da un rimorso.

Avere qualcosa sulla c., sentirsi colpevole; Mettersi qualcosa sulla c., commettere un fallo più o meno grave (ma

mettersi qualcuno sulla c., addirittura ammazzarlo); Aver la c. sporca, essere colpevole; una cattiva coscienza, un peso sulla

coscienza, sentire la responsabilità di una qualche colpa; Si metta una mano sulla c., esortazione rispettosa a considerare le proprie

responsabilità o a riconoscere eventuali torti; Caso di c., quesito di ordine morale che un soggetto ponga a se stesso. Essere senza coscienza, privo di scrupoli Agire contro coscienza, contro le proprie convinzioni morali; venire a patti

con la (propria) coscienza, scendere a compromessi con i propri principi morali, un caso di coscienza, da giudicarsi in base al proprio senso morale.

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Sentimento, consapevolezza del bene e del male, conoscenza dei valori morali che ciascun individuo (in quanto capace di ripiegarsi su sé stesso e farsi consapevole di sé nei propri rapporti con gli altri) ha dei valori morali: coscienza limpida, retta; scrupolo, rimorso di coscienza; esame, obiezione di coscienza, agire secondo coscienza, fare come la coscienza detta, ascoltare la voce della coscienza, seguire un preciso dettato etico

Ancora il Devoto Oli ricorda che coscienza è la zona o contenuto spirituale

rispetto a cui fanno capo e sono valutate le opere individuali: la tranquillità della c. era l'elemento più importante per la felicità (Svevo); custodire qualcosa nell’intimo della propria c.

Coscienza è ogni individuo come entità morale: un'epoca di travaglio per le

coscienze più sensibili. E ancora probità, rettitudine, umanità: gente senza c.; oggi non c'è più la

c. di una volta. Coscienza si riferisce alla personalità morale, spirito, mente: educò la

coscienza di molti; un maestro, una guida delle coscienze. In tutta coscienza, sta per sinceramente, onestamente. Nella teologia morale In teologia morale, coscienza è il giudizio pratico e immediato che

l'intelletto, alla luce di principi morali generali, pronuncia sui singoli atti concreti.

Coscienza naturale è quella che si basa su norme di etica naturale;

soprannaturale quella che poggia sulla legge rivelata da Dio agli uomini. Il termine coscienza è comunemente usato per designare lo strato più

profondo della personalità dell'uomo da cui trae origine la moralità. Esso è poco presente nella Bibbia che privilegia altri termini come "cuore" e "spirito" [Piana, EC, 1997, p. 191].

San Paolo fa ripetutamente ricorso alla coscienza per sottolineare

l'esigenza di un principio interiore come criterio di discernimento dell'agire umano. Questa esigenza è peraltro al centro del messaggio della Rivelazione ed è fortemente ribadita da Gesù nella sua predicazione. I profeti richiamano spesso l'uomo all'importanza dell'atteggiamento interiore, mentre Gesù insiste sul fatto che a contaminare l'uomo non è ciò che entra in lui, ma ciò che esce dal profondo del suo essere (Mt 15,11).

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Rispetto ai principi morali cui s'ispira, si parla di coscienza vera, quando il suo giudizio coincide con i principi; coscienza falsa, se nel giudizio ne differisce e in questo caso sarà incolpevole o colpevole se il soggetto nel giudicare avrà messo o meno la necessaria diligenza.

Nei confronti dell'assenso ci può essere coscienza certa o coscienza dubbia:

solo la c. certa può costituire regola vera di moralità per gli atti umani [GE, 1973 p. 493].

Matrimonio di coscienza (detto anche matrimonio occulto), il matrimonio

canonico celebrato senza pubblicazioni e alla sola presenza del parroco (o sacerdote delegato dal vescovo) .

Aforismi sulla coscienza morale Si lavano, si grattano: tentano di raggiungere la propria coscienza. J. Joyce La coscienza: è la sostanza più elastica del mondo: oggi non copre la tana

di una talpa, domani copre una montagna. E. Bulwer-Lytton Taluni mandano la propria coscienza al bordello e conservano il proprio

contegno in regola. M. de Montaigne Coscienza morale: l'ideale misura del valore di ogni realtà empirica (W.

Windelband). Coscienza morale: ciò che si sa senza che si sia mai appreso o pensato

(Wang Yang-Ming). Il principio dell'autocoscienza: la scienza più profonda si apprende vivendo

(Sant'Agostino) Coscienza significa esitazione o scelta (H. Bergson). La coscienza può essere considerata come una specie di manifestazione

interna, di rivelazione divina; e la rivelazione o la parola di Dio può esprimersi nella voce stessa della coscienza (M.F.P. Maine de Biran).

Tutti i mortali fuggono dalla loro volontà e dal loro io verso gli inconsci, si

addossano la volgarità del vino e della buffoneria pur di liberarsi, per un poco almeno, dell'autocoscienza (Scelalledin Rumi).

La coscienza è la custode, nell'individuo, delle norme che la comunità ha

messo a punto per la propria conservazione (W.S. Maugham). QUARTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA PSICOLOGIA E PSICOANALISI

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Coscienza nella psicologia è l'insieme dei processi psichici attraverso cui

l'individuo riesce a organizzare il proprio comportamento intenzionale, mantenendo il controllo dei propri processi di pensiero e delle attività conoscitive sull'ambiente (attenzione, vigilanza, attività percettive ed esplorative).

Da un punto di vista neurofisiologico, lo stato di c. viene sostenuto da certe

strutture a livello del sistema nervoso centrale, quali soprattutto la sostanza reticolare e il sistema talamico di proiezione. All'attivazione derivata da tali strutture corrispondono precisi indici neurofisiologici (elettroencefalografici, riflesso psicogalvanico, ecc.), che consentono di determinare lo stato di c., nello stato di vigilanza, nel sonno, nel coma (in cui si ha abolizione della c.).

Anche per questi significati, relativi ai linguaggi della psicologia e

psicoanalisi si rimanda ad uno dei successivi capitoli dove si approfondirà il tema.

"Nell'ottica psicologica, con il termine coscienza si fa riferimento tanto al

fatto di essere consapevoli (aspetto psicologico) quanto al fatto di essere responsabili" [DSE, 1997, p. 246].

Il con-sapere o con-scire esprimono un sapere di sé molto profondo o certo

o riflettuto, d'altra parte la coscienza è legata anche a un rispondere, a un rimandare la consapevolezza di sé, capace di azione, di reazione. La coscienza dunque descrive la capacità umana di giudicare le azioni, di scavare dentro di sé e nei fatti. "In quest'ottica, la coscienza rappresenta il centro decisionale e dell'imputabilità delle azioni umane" [DSE, 1997, p. 247].

"La coscienza Psicologica ("rendersi conto") è una struttura organizzativa

che comprende, contemporaneamente, l'essere oggetto e l'essere soggetto del proprio vissuto" [DSE, 1997, p. 246]. Dove il riferimento per comprendere la coscienza è il vissuto personale.

Nella psicanalisi, il termine viene usato sia per designare il livello conscio

della vita psichica, in contrapposizione a preconscio e inconscio, sia soprattutto per designare l'insieme delle norme comportamentali acquisite dal bambino nella strutturazione della sua personalità.

Si usa anche l'espressione coscienza di donna, coscienza di uomo moderno. Aforismi sulla coscienza in psicologia Coscienza: è la vita psichica di un dato momento (K. Jaspers). Coscienza: l'organizzatore coerente dei processi psichici (S. Freud).

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QUINTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE SOCIALE Nel linguaggio istituzionale, dell’amministrazione pubblica si usano le

espressioni obiezione di coscienza e obiettore di coscienza, legate a libertà di coscienza, che è il diritto di sentire e professare opinioni o fedi religiose senza restrizione, impedimento o reazione da parte dell'autorità politica, ovvero la facoltà del pensare, dello scegliere, contro cui capita di opprimere le c., soffocarne la libertà di scelta.

Signfica anche impegno, senso di responsabilità, serietà, impegno nel

compiere il proprio dovere o nell'eseguire un lavoro: un lavoro condotto con c., un uomo di coscienza; lavorare, studiare con coscienza; coscienza professionale;

Coscienza significa sensibilità di fronte a un determinato problema:

coscienza civile, politica e coscienziosità sta scrupolosità nell'adempimento del dovere: un medico di coscienza, metter coscienza nel proprio lavoro.

Coscienza sta anche per competenza, capacità, consapevolezza fondata su

fattori educativi, tradizionali, storici e congiunta a un solido impegno: c. linguistica; manca ancora una vera e propria c. civile; c. operaia, c. politica, c. sportiva.

Si usa anche coscienza storica come memoria, responsabilità del passato e

del futuro. Sensibilità a certi fatti e certi problemi, alla nazionalità, identità culturale:

avere una c, nazionale, europea; c. di classe; c. collettiva; c. patriottica; c. linguistica.

Infiammare le coscienze, trasmettere entusiasmo, spingere all'azione. La coscienza di classe è la consapevolezza dell'appartenenza a una

determinata classe sociale. È anche la conoscenza delle condizioni politiche, economiche e sociali in cui

versa la classe alla quale si appartiene, e dei diritti e delle rivendicazioni che essa per conseguenza può o deve avanzare nei confronti dell'intera società.

È la determinazione a tutelare gli interessi della propria classe, anche in

contrasto o in lotta con gli interessi delle altre. Il concetto di coscienza di classe appartiene soprattutto alla tradizione socialista e al pensiero di ispirazione marxista, e in tale ambito ha trovato diverse elaborazioni

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successive; esso viene di preferenza riferito al prolet.ariato e alla sua necessità di organizzarsi coscientemente per il raggiungimento dei suoi obiettivi, ma viene anche usato in riferimento alle classi dominanti.

Aforismi sulla "coscienza di classe" Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al

contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza (K. Marx). La riforma della coscienza: consiste solo nel far sì che il mondo si renda

conto della sua stessa coscienza, nel risvegliarlo dal sogno che sogna su se stesso, nello spiegargli le sue proprie azioni (K. Marx).

Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali viene dalla società

(E. Durkheim). La coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del silenzio (M.

Heidegger). E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto gli altri dentro di

te? (L. Pirandello). La coscienza consiste nella "co-scienza", ma proprio nel senso che la

coscienza individuale può esistere soltanto in presenza della coscienza sociale e del linguaggio, che ne costituisce il reale sostrato (K.N. Leont'ev).

Sono più che mai dell'opinione che oggi ci si possa permettere un'esistenza

degna di un essere umano soltanto al margini della società (H. Arendt). SESTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLE SCIENZE MEDICHE La neurologia clinica definisce la coscienza come il complesso delle funzioni

cerebrali superiori consistenti, in ultima analisi, nella presa di significato dei messaggi afferenti al sistema nervoso centrale e nella concezione mentale di quelli efferenti da trasmettere alla perifieria [Mathe - Richet, 1983, p. 870].

Nel linguaggio medico coscienza significa senso, sensi, conoscenza:

perdere coscienza, svenire; riprendere, riacquistare coscienza, rinvenire, ritornare in sé.

Va notata però l'ambiguità dell'uso: in realtà quando si è svenuti, così

come quando si dorme la mente non è annullata ma continua a lavorare. Dovremmo parlare di un diverso "stato di coscienza".

Del concetto di coscienza nelle scienze mediche tratterò più ampiamente

nel capitolo III.

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SETTIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA LETTERATURA Il "flusso di coscienza" Il flusso di coscienza (stream of consciousness) è un modo di scrivere

moderno, basato sugli influssi che ha avuto in letteratura la teoria della psicanalisi di Sigmund Freud.

Caratteristica del flusso di coscienza è la sintassi libera, senza (o quasi)

punteggiatura, poiché tende a ricostruire fedelmente i processi logici che avvengono nella mente umana durante la formazione del pensiero .

Anche se i primi tentativi (prima di Freud) risalgono al Viaggio

Sentimentale di Lawrence Sterne, è solo con l'opera di James Joyce che questa tecnica conosce la propria maturità. Lo stile dello stream of conscousness è stato utilizzato anche da Wirginia Woolf, Henry James e William Faulkner. In Italia ha utilizzato questa tecnica Italo Svevo.

James Joyce Joyce è uno dei grandi inventori del romanzo moderno, tutto costruito sul

flusso di coscienza. Le sue opere segnano lo sviluppo del flusso di coscienza a partire da Gente di Dublino (The Dubliners), dove Joyce adotta uno pseudo-narratore in terza persona che serve solo per segnalare azioni e riferire fedelmente i pensieri del protagonista.

Nell’Ulisse (1922) che è l'Odissea del XX secolo, epos d'una giornata

qualunque delll'ebreo irlandese Leopold Bloom, agente di commercio, si realizza la "distruzione" del narratore: esistono solo i pensieri (in prima persona) dei protagonisti .

Altrettanto rivoluzionario la Veglia di Finnegan (1939), nella

sovrapposizione di lessici diversi e nella tecnica del monologo interiore, tesa a dimostrare la ciclicità della storia.

Italo Svevo Il romanzo più famoso di Svevo è del 1923, La coscienza di Zeno e con

esso Svevo raggiunge la notorietà. La storia di Zeno si identifica con la presa di coscienza che tutti gli uomini sono egoisti e meschini, che la vita è un assurdo e inutile gioco e che il mondo stesso è malato: forse solo un'esplosione enorme potrà rinnovarlo, liberandolo dagli esseri inutili e dalla malattia.

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Zeno, il protagonista, nega di essere mai stato malato e anzi, generalizza la malattia a tutto il mondo sostenendo che chi si sentiva sano era malato e viceversa: la salute è la condizione di chi possiede certezza, princìpi, quindi, constatata la vanità di questi, Zeno conclude che sarebbe stato meglio "guarire dalla salute". La sua quindi, non era una malattia, ma solo uno stato che gli ha permesso una visione più lucida della realtà. Il finale è apocalittico, infatti l’unico modo per guarire il mondo può essere soltanto una violenta esplosione che trasformi la terra in nebulosa.

La critica letteraria ha messo in risalto il valore del capolavoro di Svevo .

"Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani", si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo "cosiddetti" che sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent'anni dopo. La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai canoni della letteratura posteriore.

Ciò che unifica la meccanica sociale mercantile-borghese ed l'ambiguità

della psiche è l'ironia, la disincantata "scienza della vita", la coscienza. La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed il solo suo disperato ed inalienabile bene.

Il buonsenso laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non

possono essere confusi col decadentismo analitico che circola nelle pagine di Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là della letteratura.

Assai più letterato di loro risultava invece Joyce. Virginia Woolf Scrittrice inglese (Londra 1882- Ouse River 1941). Crebbe in mezzo alla

élite intellettuale dei Gruppo di Bloomsbury ed ebbe un'educazione raffinata e liberale. Con il marito, il saggista L. Woolf, fondò e diresse la Hogarth Press. Contro i canoni narrativi vittoriani, elaborò la teoria secondo cui tutto è materia adatta al racconto, compresi i sentimenti più complessi o i pensieri più reconditi.

Esordì con La crociera (1915) e con Notte e giorno (1919), concepiti ancora

secondo la tradizione realistica ottocentesca; ma con La camera di Giacobbe (1922) il suo lirismo introspettivo assume già le forti caratteristiche personali degli scritti posteriori.

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In La signora Dalloway (1925) e in Gita al faro (1927) il suo metodo di analisi sottile delle coscienze appare pienamente realizzato grazie alla conquistata armonia fra struttura narrativa e simbolismo poetico; in Orlando (1928), il suo libro di maggior successo, la narrazione risulta invece meno densa.

Le onde (1931) sviluppa all'estremo il monologo introspettivo della Woolf e

chiude anche la sua felice stagione narrativa aprendo un periodo di crisi e d'incertezza che la condurrà al suicidio nelle acque dei fiume Ouse.

Le migliori pagine critiche della Woolf sono state raccolte in Per le vie di

Londra (1963). Importante è anche il suo diario, pubblicato postumo nel 1953. Henry James James, scrittore statunitense (New York 1843 - Londra 1916), fratello di

William James. La sua opera narrativa, imperniata sul contrasto che scaturisce dall'incontro della mentalità americana con quella europea, è caratterizzata da una acutissima analisi psicologica, con una tecnica che, privilegiando gli avvenimenti interiori rispetto a quelli esterni, ha influenzato notevolmente la letteratura contemporanea.

Le sue opere: Rodrigo Hudson (1876), L'Americano (1877), Daisy Willer

(1879), Ritratto di signora (1871), Le Bostoniane (1886), La principessa Casamassima (1886), Il carteggio Aspern (1888), La musa tragica (1890), Le spoglie di Poynton (1897), Le ali della colomba (1 902), Gli ambasciatori (1903), La coppa dorata (1904).

William Faulkner I romanzi di Faulkner, anch'egli statunitense (New Albany, Mississippi,

1897 - Oxford, Mississippi, 1962), sono ambientati nel profondo Sud degli Stati Uniti, chiuso nel suo orgoglio e nella sua miseria, aggrappato allo schiavismo e ai ricordi d'un grande passato.

Premio Nobel nel 1949. Le sue opere principali sono: La paga del soldato

(1926), Sartoris (1929), L'urlo e il furore (1929), Santuario (1931), Luce d'agosto (1932), Assalonne, Assalonne! (1936), Il borgo (1940), Non si fruga nella polvere (1948), Requiem per una monaca (195 1), Una favola (1954), La città (1957), Il palazzo (1959), I saccheggiatori (1962).

Nel 1942 ha scritto la raccolta di racconti Scendi Mosé.

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OTTAVO AMBITO DI SIGNIFICATO: LA COSCIENZA COME DISAGIO

ESISTENZIALE Esiste un ambito del significato di coscienza che potremmo definire del

disagio esistenziale. Per esso ho reperito solo riflessioni e aforismi di autori celebri. C'è dunque

lo spazio per una riflessione, che però non voglio sviluppare in questa sede. Coscienza: è una parola che fa paura (H. Ey). Evita la troppa coscienza (M.L. Spaziani). Nella condizione d'essere coscienti c'è un continuo disagio (M. Merleau-

Ponty). La malafede è l'essenza stessa della coscienza (M. Merleau-Ponty). L'uomo per il semplice fatto di essere uomo, di avere cioè coscienza di sé

è, in confronto all'asino o al granchio, un animale malato. La coscienza è malattia (M. de Unamuno).

Così la coscienza ci rende tutti vili (W. Shakespeare) Sono già vent'anni che ho messo in dubbio l'esistenza di quel qualcosa

chiamata "co- scienza" [ …]. Mi sembra sia giunto per tutti il tempo di prescindere apertamente da essa (W. James).

Ciò che chiamiamo coscienza non è altro che vanità interiore (G. Flaubert). Mi sembra che ciò che chiamate "piena coscienza" è un caso limite che non

si raggiunge mai (A. Einstein). Interrogarsi - non è proprio conoscere e non è proprio non conoscere – È una condizione magnifica ma cupa Chi non l'ha esperimentata non ha vissuto (E. Dickinson). NONO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEI LINGUAGGI TECNICI Esiste un significato di coscienza che appartiene al linguaggio tipografico:

uomo di coscienza è l'operaio della tipografia al quale è affidata la cura del materiale di composizione.

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NELLE ALTRE LINGUE Specifico alcuni significati che i termini corrispondenti a "coscienza" hanno

nelle altre lingue europee. Si tratta di significati specifici, particolari e interessanti. Trascuro tutti significati uguali a quelli del concetto italiano. Inizio dalle lingue antiche.

"Coscienza" nel greco antico e nel latino, e il petto come sede della

coscienza Analizzerò il concetto di coscienza nella cultura greca più estesamente nel

capitolo II, riprendendo il tema negli ultimi capitoli (l'XI in particolare i termini sunevide§is e sunthvrh§is).

Qui cito solo uno studio molto interessante di R. B. Onians il cui titolo

originale era "The Origins of European Thought about the Body, The mind, The Soul, The World, Time, and Fate". Dall'analisi di moltissime opere classiche, liriche, tragiche, epiche, Onians ricava informazioni interessantissime sull'origine del concetto di coscienza in rapporto con il corpo, e precisamente con i polmoni, sede della respirazione. Anche in latino è interessante il raffronto tra sapere "aver linfa, succo innato", il petto a l'avere coscienza. La sede della coscienza dunque era, per gli antichi, il petto .

In latino conscientia ha diversi significati; ma in generale significa

coscienza, conoscenza, cognizione che si ha d'una cosa in comune con altri (cum-scire) [Castiglioni-Mariotti, 1979, p. 257].

Una piccola antologia di frasi: "riunioni tenute lontano dalla conoscenza di

troppi" (Livio); in Tacito: "hai la connivenza di Augusto", "la complicità della congiura"; "adsumptis in conscientiam", presi a confidenti; "il disegno e la conoscenza di delitti" (Cicerone).

Nel significato di coscienza, piena coscienza, convinzione, intimo senso;

coscienza (morale), consapevolezza: "dalla consapevolezza che hanno delle forze nostre e loro" e "per la coscienza della loro inferiorità" (Livio); "salva conscientia", salva la mia convinzione e "salva bona conscientia" (Seneca); "coscienza d'esser vissuto rettamente" e "conscientia scelerum, delictorum", coscienza dei propri delitti (Cicerone); "ex nulla conscientia de culpa" nella coscienza della mia innocenza (Sallustio).

Nel significato di coscienza, l'intimo giudizio del bene o del male compiuto,

onde conscientia = buona o cattiva coscienza: in Cicerone (e altri) "magna vis est consciientiae", grande è la forza della coscienza, "conscientiae fretus", fìdando nella buona coscienza e "conscientia morderi", sentire il rimorso della

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coscienza e anche "coscientia animi", la propria coscienza, il grido della coscienza, "animi conscientia excruciari" essere tormentato dal rimorso, "conscientiae melficiorum" i rimorsi dei delitti; "ne quis modestiam in coscienziata duceret" perché nessuno prendesse per colpa il mio riserbo, Sallustio; con agg. "bona, mala conscientia", buona, cattiva coscienza, Quintiliano e altri.

Infine, Cicerone ci ha lasciato un bellissimo aforisma sulla coscienza:

"Sublata conscientia, iacent omnia" (De natura deorum, 3, 85). I siginficati di coscienza nelle lingue Inglese, Tedesco e Francese È da notare che in inglese esistono due termini per "coscienza", solo che

uno indica quella morale, conscience, un senso interno che conosce la differenza tra il bene e il male, l'altro quella cognitiva, consciousness (sinonimo di awareness), essere consapevole, lucidità di mente conoscenza, la condizione di essere abile a pensare, sentire, capire quel che sta accadendo

Aware significa per informato, conscio, consapevole, anche prevenuto. Altro sinonimo di consciousness è knowledge. Significati specifici: conscience clause, nel linguaggio legale è una clausola

di riserva morale in un atto, per esempio per motivi religiosi; deroga prevista. Conscience money, restituzione anonima o oblazione di una somma dovuta

al fisco, per scaricare la coscienza, e anche for conscience' sake, per sgravio di coscienza.

Dello stream of consciousness (nel rapporto tra letteratura e psicologia) ho

già detto. Anche in tedesco esistono due termini: gewissen che sta per coscienza

morale e bewustsein che sta per consapevolezza, conoscenza. Il francese conscience oltre a significati simili a quelli dlel'italiano ha

interessanti usi del lessico tecnologico: conscience è la piastra di protezione del tornitore.

Inoltre - forse parallelamente al significato tecnico in italiano che ho citato

(uomo di coscienza) - ha un uso nel linguaggio della tipografia: mettre en conscience, far eseguire un lavoro alla giornata.

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TERMINI E CONCETTI CORRELATI È interessante - come ho anticipato nell'introduzione della presente

dissertazione - analizzare alcuni altri termini che sono strettamente correlati con quello di "coscienza". Essi sono molto numerosi.

Un possibile elenco potrebbe essere il seguente: autocoscienza , mente,

anima, spirito , cuore , pensiero, intelligenza, conoscenza, consapevolezza, io , idea, rappresentazione, identità, interiorità, personalità, vissuto, sensazione, emozione, sentimento, sonno, profondo, e anche morte, differenza tra uomo e animale, intelligenza artificiale, immaginario collettivo, e molti altri.

Non potendo sviluppare in questa sede un'indagine completa di tutti i

termini (nei vari capitoli ne tratto alcuni) mi limito a indagarne alcuni. Da ciò si vedrà quanto sia rivelatore il confronto e quanto si possa ricavare dalla sovrapposizione dei concetti, che è sempre avvenuta e di cui ora si può dare conto (lo farò negli ultimi capitoli).

Mente Deriva dal lat. mente(m), da una radice *men- indicante in generale

l'attività del pensiero. È l'insieme delle facoltà intellettive che permettono all'uomo di conoscere la

realtà, di pensare e di giudicare (spesso in contrapposizione a corpo o a cuore): affaticare, riposare la mente; mente sana in corpo sano; ragionare con la mente e non col cuore da [http://www.garzanti.it e Devoto-Oli, 1992, p. 1818]

A mente fresca, riposata, quando è pienamente efficiente, ricca di energie

dopo il riposo; a mente lucida, quando non è stanca ed è sgombra di pensieri e preoccupazioni; malato di mente, chi presenta alterazioni delle facoltà mentali.

Presunta sede o direzione dei principi e processi intellettivi e pratici in cui

l'attività del pensiero ha luogo; testa, capo: che cosa ti salta in mente?; non mi passa neppure per la mente, non ci penso affatto; far mente locale, concentrare il pensiero su un determinato argomento; applicare la mente a un problema;. Amor che ne la mente mi ragiona (Dante); Apri la mente a quel ch'io ti paleso (Dante).

È una particolare attitudine, inclinazione mentale: avere una mente

riflessiva, speculativa, calcolatrice.

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Sta per intelligenza, capacità intellettiva: mente acuta, ottusa; ristrettezza di mente; uscire di mente perdere la ragione, uscire di senno.

Il complesso delle possibilità e dei contenuti intellettuali e spirituali

dell'individuo: educazione della mente; mens sana in corpore sano; avere una mente fervida, illuminata, angusta, ottusa. "Le nate a vaneggiar menti mortali" (Foscolo).

Per metonimia, la persona in possesso della particolare capacità mentale

indicata dall'aggettivo: è una bella mente, una mente aperta, una mente bislacca.

Sta per pensiero, attenzione: essere altrove con la mente; applicare la

mente a qualcosa, rivolgerle l'attenzione; fare mente locale, accentrare il proprio pensiero intorno a un dato argomento, a una data cosa.

E anche per volontà, proposito, intenzione: avere in mente una cosa, avere

intenzione di farla; mettersi, ficcarsi in mente di fare qualcosa, ostinarsi nel volerla fare; levarsi qualcosa dalla mente, dissuadersi da un proposito.

Indica la capacità o l'ambito della memoria: imparare, sapere, dire a

mente; tenere a mente, ricordare; tornare alla mente, a mente, in mente, di cosa che si era dimenticata; mi è uscito, passato, scappato, di mente, non mi viene in mente (o alla m.), non ricordo, me ne sono dimenticato.

È il complesso delle idee, delle cognizioni di una persona; anche, la persona

stessa fornita di determinate qualità: educare la mente; le più belle menti del secolo; è una mente geniale, bislacca.

Infine si dice il braccio e la mente per indicare chi esegue materialmente

un'impresa e chi la organizza e dirige. Dunque anche in questo caso siamo di fronte a un termine che ha vasti

confini di signifcato e ampia possibilità sinonimica. Anima Etimologia: dal latino anima(m), affine al greco avnemo§, "soffio", "alito". Principio immateriale della vita nell'uomo, contrapposta al corpo e

tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino [Devoto-Oli, 1992, p. 139].

Ha molti significarti diversi: descrive il modo di dedicarsi a qualcosa

(intensamente), il morire o il tenersi in vita, sinonimo di vita stessa quindi; essenza o impulso fondamentale; sinonimo dei sentimenti e propositi più intimi

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di una persona (gli occhi sono lo specchio dell'anima, leggere in fondo all'anima, arrivare all'anima)

Anima sta per "persona" (non c'era anima viva), è il principio vitale che

sorregge in unità e armonia i corpi (e anche il mondo: anima del mondo). È la sede intima della sostanza vitale del corpo o semplicemente

dell'"intimo" o "interiore". Interessante il significato tecnico nella liuteria del legnetto cilindrico

all'interno della cassa dei violini che, nel punto su cui fa forza il ponticello, unisce il fondo al coperchio assicurando una efficace trasmissione delle vibrazioni a tutto lo strumento..

Spirito Termine con cui si traduce il greco pnéuma, che nella più antica accezione

significava "respiro", "aria", "soffio animatore" (in lat. spiritus). Gli stoici intesero lo pnéuma come energia che dà la vita a tutta la realtà,

principio vitale, "anima del mondo"; la medicina antica e medievale lo concepì come sostanza materiale mobile e sottilissima (lo spiritus corporeus o animalis), e ancora Cartesio, nel Trattato sulle passioni dell'anima, considerava gli "spiriti animali", prodotti dal sangue e inviati al cervello dalle arterie, il fondamento fisiologico dell'attività psichica.

Sin dalle origini, tuttavia, il pensiero cristiano intende lo pnéuma anche in

senso immateriale, come soffio divino animatore dell'universo (in questa accezione verrà ripreso da Bruno nel rinascimento) e infine come anima di Dio e poi dell'uomo (già in Filone l'Ebreo, quindi in Origene e in san Paolo, che contrappone lo "spirito" alla "carne").

La teologia e la filosofia cristiane parlano pertanto, oltre che dello Spirito

Santo, di "spiriti puri" (Dio e gli angeli) e di "spiriti infiniti", dai quali si distinguono gli "spiriti finiti", cioè le anime umane.

Quest'ultima contrapposizione si trova ancora teorizzata nella filosofia

moderna da Leibniz (Monadologia) e da Berkeley (Trattato sui principi della conoscenza umana), mentre Cartesio usa il termine "spirito" come sinonimo di sostanza pensante.

Nel pensiero illuministico, invece, lo spirito si distingue dall'anima:

quest'ultima, nella sua realtà psichica, deriva dalla natura, mentre il primo è inteso come prodotto dell'educazione e dei costumi sociali (Helvétius, Sullo spirito; ma si pensi anche allo "spirito delle leggi" indagato da Montesquieu) [EGF2, 1997, pp. 1098-1099].

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Nel contempo il termine, come oggetto di scienze occulte e cioè nel senso

del moderne "spiritismo", trova elaborazione in Swedenborg e in altri, suscitando la reazione critica di Kant nel saggio I sogni di un visionario (ovvero "di uno che vede spiriti") del 1766.

Per parte sua, Kant usa il termine "spirito" nella Critica del giudizio e nella

Antropologia per designare il potere produttivo e l'originalità creativa della ragione, e in questa accezione il termine ispirò la filosofia romantica (in particolare Schelling), che ne fece tuttavia un uso metafisico ben oltre i limiti formali dei criticismo kantiano.

Da qui (ma anche dalla tradizione illuministica di Montesquieu) deriva la

prima accezione hegeliana dei concetto di spirito (Geist) elaborata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito del 1807 e poi allargata a sistema complessivo nell'Enciclopedia, con le distinzioni tra spirito soggettivo, oggettivo e assoluto.

La straordinaria ampiezza e profondità speculativa che si accompagna alla

utilizzazione hegeliana del concetto si trasmise alle successive riprese dello hegelismo (in particolare alla "filosofia dello spirito" di B. Croce, con la quadripartizione dello spirito nelle categorie dei "distinti", e alla Teoria generale dello spirito come atto puro di G. Cyentile); ma tale influenza si esercitò, sebbene in forma più indiretta, anche sulla distinzione tra "scienze dello spirito" e "scienze della natura" proposta alla fine dell'Ottocento da W. Windelband, che riprendeva la problematico sviluppata da W. Dilthey nella Introduzione alle scienze dello spirito. Entro tale clima posthegeliano è da porsi anche lo spiritualismo di H. Lotze.

Altra natura e origine speculativa presentano invece sia la corrente dello

spiritualismo, che si rifà alla tradizione cristiano-medievale, a Cartesio, Pascal e Maine de Biran, sia la filosofia dei valori di M. Scheler e ll problema dell'essere spirituale di N. Hartmann, che si ispirano alla fenomenologia husserliana.

Lo spiritualismo Lo spiritualismo ha intenti polemici verso il positivismo, lo scientismo e il

materialismo, ai quali oppone un ritorno alla metafisica di ispirazione cristiano-agostiniana.

Nell'800 furono Rosmini e Gioberti a recuperare l'interiorità coscienziale

agostiniana e la trascendenza dell'essere divino e a rivendicare la verità del pensiero e del carattere complessivamente spirituale della realtà.

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Nel nostro secolo la tradizione spiritualistica si è precisata in due correnti, che ne hanno espressamente rivendicato il nome e la tematica essenziale.

La prima è sorta in Francia nel 1934 con la collane "Filosofia dello spirito"

fondata da L Levelle e R. Le Senne, nei quali il tradizionale intimismo spiritualistico si intreccia con le istanze del contemporaneo esistenzialismo, inteso però in accordo con i valori cristiani.

La seconda corrente è sorta, negli stessi anni, in Italia, sia come

opposizione all'idealismo neohegeliano e al suo immanentismo (ma anche come sviluppo originale di taluni aspetti dell'attualismo di Gentile), sia come differenziazione dalla neoscolastica. Con quest'ultima lo spiritualismo italiano (principalmente rappresentato da A. Carlini, il suo iniziatore, A. Guzzo, L. Stefanini, F. Battaglia, M. F. Sciacca e R. Lazzarini) ha in comune l'ispirazione cristiana e cattolica e la tesi della trascendenza di Dio, ma se ne distingue per il ricorso all'atto dello spirito soggettivo anziché alla nozione oggettiva dell'essere come punto di partenza del filosofare, e per il metodo dell'analisi dell'interiorità, preferito all'inferenza razionale (di tradizione tomistica) dei neoscolastici.

II La coscienza nella riflessione filosofica Propongo una rapida carrellata - non potrebbe essere altrimenti - come in

tutti questi primi capitoli della dissertazione, dello sviluppo del concetto di coscienza nella storia della filosofia.

Mi propongo di soffermarmi solo sugli autori che mi hanno colpito di più,

dal momento che non è lo scopo di questa dissertazione analizzare in modo approfondito ed esaustivo la presenza e l'evoluzione del concetto di coscienza nel pensiero filosofico. Al massimo posso inventariare una serie di posizioni teoriche, di riflessioni e proposizioni analitiche sulla coscienza.

Il concetto di coscienza nella filosofia antica: gli stoici e Plotino L'origine del concetto di coscienza, nell'ambito della storia della filosofia si

può far risalire alle correnti tardo-antiche dello stoicismo e del neoplatonismo,

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per le quali la coscienza coincide con l'interiorità, il colloquio dell'anima con se stessa, e quando questo avviene si ha l'uomo saggio, libero dalle passioni e dagli interessi mondani [EGF2, 1997, pp. 219-220].

Il concetto era invece pressoché assente in Platone a Aristotele [EE, p.

809]. Nell'antichità la parola coscienza (gr. sunevidesi§), era usata per designare

il contrasto tra interiorità ed esteriorità; apparve la prima volta con lo stoicismo, che stabilì il privilegio della sfera dell'anima nei confronti del mondo delle cose.

In una fondazione ontologica, il tema è al centro della speculazione neo-

platonica. Il rapporto privato dell'uomo con se stesso, il ritorno a se stesso, vale per Plotino a rappresentare il volgersi a quella unità da cui emerge il molteplice del mondo sensibile. Il raccogliersi in sé non è un ritiro dall'oggettività nella soggettività, ma anzi l'uscita dall'individualità frammentaria e il congiungimento dell'anima con la sua origine in Dio.

Il concetto di coscienza nel cristianesimo: Agostino d'Ippona e Tommaso

d'Aquino Nel cristianesimo l'opposizione tra lo spirito e la carne, nella misura in cui

la riduzione impersonale al centro del tutto propria del neo-platonismo è sostituita dall'affermazione del valore irriducibile dell'anima individuale, vale ancor più a indicare l'interiorità dell'uomo come luogo della Verità e della Vita. Dio è presente nell'uomo spirituale e a esso si rivela.

Il primato dello spirituale viene ripreso da Agostino e sviluppato

potentemente in molte opere, tanto che tutto il cristianesimo ne ha risentito e ne risente fino a oggi, basti pensare a espressioni tutt'ora dense di pregnanza come "voce della coscienza" (ogni buon vocabolario o lessico italiano contiene decine di espressioni comuni legate a "coscienza").

Per Agostino la verità esiste solo "in interiore". Ma il significato morale di

coscienza aveva prima di Agostino ben altri padri, come san Paolo, per il quale la coscienza è la fonte immediata di una conoscenza certa dei principi che definiscono la rettitudine del volere . Se poi il comportamento sarà diverso da quanto dettato dalla coscienza ciò dipenderà dalla debolezza dalla viziosità o da tentazioni del Maligno. S. Agostino è l'interprete del principio cristiano dell'"inabitare" della Verità nell'anima (immagine di essa).

Il cristianesimo ha pure elaborato il concetto generale di coscienza con S.

Tommaso.

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Egli intende per coscienza (con-scire) l'applicazione del sapere a un atto, per giudicare se c'è o non c'è, ma soprattutto se è retto o non lo è.

In tal modo la coscienza è ciò mediante cui, sapendo della rettitudine delle

azioni, si è spinti, anzi, obbligati, a compiere o non compiere un atto; oppure, esaminando un atto compiuto, si è scusati o accusati.

IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA RINASCIMENTALE E

MODERNA Il passaggio al concetto speculativo moderno vero e proprio di coscienza è

mediato dalla filosofia di Tommaso Campanella. Per quest'ultimo esiste una conoscenza innata di sé che tutte le persone hanno e che condiziona la conoscenza che acquisiscono delle altre cose.

R. Cartesio e il problema anima-corpo Ma è con Cartesio che la nozione di coscienza viene chiarita nei caratteri coi

quali sarà definitivamente accolta nella filosofia occidentale. Il "cogito ergo sum" è l'auto-evidenza esistenziale del pensiero; circa i fatti del corpo non si ha certezza, ma circa gli stati interni (intendere, volere, immaginare, sentire) espressi dal termine cogito si ha certezza assoluta.

Di vedere o camminare non si è sicuri di per sé (può trattarsi di qualcosa di

simile al sogno), ma perché la sicurezza è nella mente stessa che sente. La nozione di coscienza è qui definitivamente giunta a raccogliere tutta la

sfera dell'io e ne è l'auto-evidenza. L'io è ormai un'entità cui si contrappone il mondo esterno ed è un'entità assolutamente vera perché immediatamente presente a se stessa, a differenza del mondo che compare sempre nella sua mediazione.

"A ben guardare, sotto il cosiddetto problema anima-corpo si celano tre

diversi problemi, che riguardano: 1) il rapporto metafisico fra materia inorganica e vita; 2) il rapporto psicofisico fra processi fisiologici ed esperienze psichiche; 3) il rapporto psicologico fra comportamento istintivo e razionale.

I moderni tentativi di risolvere il problema anima-corpo fanno capo a

Cartesio (1596-1650) e alla sua teoria delle due "sostanze". Essi però riguardano quasi esclusivamente il rapporto psicofisico (punto 2), senza peraltro puntualizzarne a fondo la problematica e definirla nei confronti di quella relativa ai rapporto metafisico e psicologico (punti 1 e 2).

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In Cartesio c'è una contrapposizione netta tra il mondo della coscienza (res cogitans) ed il mondo del corpo (res extensa), soggetto come un automa a funzionare secondo leggi fisiche […]. Secondo questa concezione, nell'uomo l'anima e il corpo esercitano l'uno sull'altro un'influenza reciproca e la sede del loro incontro è rappresentata dall'unico organo impari dell'encefalo, ossia la ghiandola pineale (o epifisi, "conarium")" [Hofstätter, 1966, p. 187].

Scriveva infatti Cartesio: "Io accetto che esista un'influenza reciproca tra

coscienza e corpo, ma non di uguale qualità, nel senso che la coscienza essendo originante dell'uomo intero, compreso il corpo, imprime su di esso un'influenza ab origine non paragonabile a quella che il copro e le altre dimensioni dell'uomo possono esercitare sulla coscienza, che continua a esistere anche dopo la nascita dell'uomo e perciò può ricevere condizionamenti, ma similmente a come una madre che educa un figlio fino a portarlo alla maturità può da quello essere condizionata. Eppure lo ha generato e nutrito e allevato fino a renderlo autonomo da sé".

R. Cartesio e l'"io" È a partire da Cartesio che assume una rilevanza fondamentale in filosofia

un altro concetto, quello di "io" . La prima conoscenza sicura che si presenta a chi guidi ordinatamente i propri pensieri non concerne gli oggetti esterni, ma l'esistenza di un soggetto pensante, cioè di un "io" (è il noto cogito ergo sum).

Tutto il concetto di Io andrebbe sviluppato e analizzata, da Cartesio in poi,

parallelamente a questo della coscienza, su su fino a Nietzsche che lo ritiene una finzione e che come nozione non ha alcuna validità teorica o pratica.

Nella filosofia moderna, dal XVII secolo in poi, coscienza ha il significato di

"consapevolezza soggettiva", di sé e dei propri contenuti mentali. Per Cartesio di noi stessi, in quanto coscienza, siamo certi direttamente e indubitabilmente (cfr le Meditazioni metafisiche, I e II); similmente in tutto l'empirismo inglese fino a Hume che riteneva il solipsismo inconfutabile teoreticamente: anche se col mio pensiero mi spingo fino ai limiti dell'universo, non perciò esco dalla mia coscienza, avendo sempre a che fare o con "impressioni" sensibili o con "idee" della ragione (cfr Trattato sulla natura umana).

M. de Montaigne, J. Locke, D. Hume e G. W. Leibniz Per Montaigne la cosiddetta voce della coscienza non è nient'altro che

l'insieme dei principi o opinioni che nei diversi ambienti sociali vengono inculcati nelle menti ancora tenere dei fanciulli, come regola e norme di ciò che

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è retto e giusto. Ma dimenticando come li hanno appresi, gli uomini considerano tali principi come "naturali", non derivati dall'esterno quando li ritrovano dentro di sé.

Tale posizione viene ribadita con forza anche da Locke nella polemica

contro i platonici della scuola di Cambridge, che sostenevano il carattere innato e intuitivo dei principi morali [EGF2, 1997, p. 220].

Secondo Locke il rapporto del soggetto con l'oggetto esterno cade

interamente nella sfera della coscienza, la quale non attinge altro che idee; noi non conosciamo le cose, ma le loro idee, e la filosofia non fa un passo al di là della coscienza.

È "coscienza" l'espressione adoperata da Hume per negare ogni esistenza

esterna e ridurre la realtà a percezione. Parallelamente a tale dottrina empiristica della coscienza la filosofia di

Leibniz assume il concetto di coscienza (appercezione) in senso spiritualistico. L'intera vita della monade, che è sostanza spirituale, è interna a essa. È pensando a noi che pensiamo all'essere, alla sostanza, al semplice e al composto, all'immaterialità, a Dio stesso.

L'"idea" in François-Marie A. Voltaire Nel Dizionario filosofico di Voltarie alla voce Idée, troviamo spunti

interessanti. "Che cos'è un'idea? È un'immagine che si proietta nel mio cervello. Tutti i vostri pensieri sono dunque immagini? Certamente. Perché le idee

più astratte non sono altro che conseguenze di tutti gli oggetti che ho veduto. Pronuncio il nome di essere in generale, solo perché ho conosciuto esseri particolari. Pronuncio il nome di infinito solo perché, avendo visto i limiti degli oggetti finiti, allontano il più possibile questi limiti con la mia immaginazione. Insomma, ho idee, solo perché ho in testa immagini.

Qual è il pittore che ce le dipinge? Non sono io stesso, perché non sono un

buon pittore: colui che mi ha creato, è anche quello che fa le mie idee. Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva che noi vediamo

tutto in Dio? Son ben sicuro che, se non vediamo le cose propriamente nella Divinità, le

vediamo certo nella sua azione onnipotente.

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Ma come si manifesta questa azione? Vi ho già detto cento volte nelle nostre conversazioni che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha detto il suo segreto a nessuno. Ignoro quale forza fa battere il mio cuore e correre il mio sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti i miei movimenti; e vorreste che vi dicessi in qual modo posso sentire e pensare? Non è giusto.

Ma sapete almeno se la vostra facoltà di avere idee va unita all'estensione? Non so. È vero che Taziano, nel suo discorso ai Greci, dice che l'anima è

manifestamente corporea; e Ireneo (libro 11, 25) dice che il Signore ha insegnato che le anime conservano l'aspetto del corpo, per conservarne la memoria.

Tertulliano assicura, nel suo libro II sull'Anima, che è corpo; Arnobio,

Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio, non hanno diversa opinione. Oggi si afferma che altri Padri della chiesa pensano che l'anima non ha estensione e seguono in ciò la dottrina di Platone; ma è cosa assai dubbia . Quanto a me, non oso dare nessun parere: vedo difficoltà insuperabili nell'uno e nell’altro sistema; dopo averci pensato tutta la vita, mi trovo esattamente al punto di partenza.

Era meglio dunque non pensarci su tanto. È vero: colui che gode la vita è più saggio di quello che passa il tempo

riflettere, o almeno è più felice. Ma che volete? Non dipendeva da me ricevere né respingere tutte le idee che sono venute nel mio cervello per combattersi e contrastarsi e hanno scelto le mie cellule midollari come campo di battaglia. Quando si furono ben combattute, non ho raccolto dalle loro spoglie che incertezza.

È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione la natura delle

idee. È triste. Assai più triste, e molto più stupido, è credere di sapere ciò che

non si sa" . Immanuel Kant Kant, avvalendosi della sua distinzione fra trascendentale ed empirico, ha

cercato di superare il carattere puramente "interioristico" della coscienza, intendendo la coscienza di qualcosa come la presenza di un contenuto empirico. Avere coscienza di una rappresentazione è sempre aver coscienza empirica della propria esistenza, cioè essere determinati da qualcosa che non si identifica con noi.

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Kant distingue la "coscienza empirica", diversa, nei diversi uomini, dalla "coscienza in generale" o appercezioni pura, cioè l'"Io penso", pura funzione di conoscenza, universale.

"L'appercezione pura o trascendentale è la possibilità del rapporto fra

coscienza empirica (o l'io empirico) e l'oggetto. Tuttavia nella prima edizione della Critica della ragion pura (1781) l'io di cui si ha coscienza nell'appercezione pura viene qualificato come "io stabile e permanente che costituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni" ed è solo nella seconda edizione (1787) che a tale io spetterà una pura funzione formale, priva di realtà propria, rimanendo tuttavia la condizione di ogni conoscenza. In ogni caso in Kant risulta definitivamente invertito il rapporto di derivazione e fondazione tra coscienza riflessiva e autocoscienza, ma solo nella seconda definizione kantiana l'io autocosciente è un io infinito e privo di potere creativo, un io che ordina e organizza un materiale fenomenico dato. Nell'accettare o meno questa restrizione si dividono nettamente le strade della filosofia trascendentale e dell'idealismo, che, incentrandosi sulla immanenza totale della coscienza, tematizza l'autocoscienza propria di un principio infinito, condizione di ogni realtà.

Kant nella Critica della ragion pratica, pone al centro della sua etica la

coscienza intesa come voce interiore, in contrasto con le inclinazioni sensibili da cui siamo affetti. In accordo con Rousseau, Kant ritiene assoluto il valore della legge morale e accessibile a tutti gli uomini.

Tale concezione, così duratura nel tempo, è stata contestata da tutte le

forme di relativismo morale susseguitesi dal rinascimento ad oggi. Dalla concezione kantiana prende avvio il successivo idealismo tedesco,

con l'Io assoluto di Fichte e del primo Schelling; ma con differenze radicali rispetto a Kant: infatti per l'idealismo la coscienza è l'Io empirico che si ritrova limitato dal Non-Io, mentre l'Io assoluto, principio originario che "pone" il Non-Io al fine di potersi determinare per contrasto, è del tutto al di qua della coscienza e viene attinto solo dalla riflessione filosofica.

Così, Fichte si applica al tema dell'autocoscienza come coscienza immediata

(non riflessiva) dell'avere coscienza, in quanto atto di un io assoluto, e assume il concetto kantiano puramente funzionale come un concetto quasi sostanziale: l'io infinito, principio non solo della conoscenza ma anche della realtà, e principio non nel senso di condizione, ma di forza o attività produttiva che producendosi produce il non-io.

Georg W. F. Hegel Muovendo da tale elaborazione, Hegel nella Fenomenologia (1807) afferma

come compito ulteriore della filosofia l'elaborazione concettuale del contenuto

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della coscienza reale affinché acquisti verità e realtà portandosi all'altezza del soggetto assoluto: ogni coscienza, anche come autoconsapevolezza e autocertezza (riflessiva o immediata), implica infatti per Hegel il rapporto della coscienza con qualcosa che è sempre altro dalla coscienza stessa, mentre l'autocoscienza intesa come concetto o come spirito elimina tale relazione alienata.

La prima delle sei sezioni della Fenomenologia dello spirito è proprio

dedicata alla Coscienza. Hegel elenca varie forme di realismo più o meno ingenuo, rivendicando al funzione costitutiva del pensiero nei confronti dell'oggettività e quindi la funzione di mediazione di contro all'opinione che la verità sia data invece dall'immediatezza.

L'autocoscienza (ossia la coscienza si sé propria dell'uomo) si presenta

quale identità di opposti: l'Io-soggetto e l'Io-oggetto sono il medesimo Io che da se stesso si duplica; si ha quindi una differenza che insieme è identità

La risoluzione del rapporto fra coscienza e autocoscienza si pone come un

generale rimprovero mosso a tutta la filosofia precedente per avere elaborato mere filosofie della coscienza. Tuttavia in Hegel l'assolutizzazione dello spirito in quanto autofondato e libero da rapporti di alienazione propri della coscienza va di pari passo con una peculiare considerazione genetica di tale autofondazione: su ciò potranno lavorare le dottrine a vario titolo antimetafisiche che, operando dall'interno la dissoluzione del sistema hegeliano, riporteranno rapidamente la concezione del rapporto coscienza-autocoscienza al suo stadio preidealistico" [EGF2, 1981, p. 178].

Per Hegel il filosofare, come elaborazione concettuale di quel contenuto

iniziale che è la coscienza soggettiva - la quale in tale attività si fa verità assoluta, Spirito - è lo stesso processo della realtà che si fa realtà assoluta. E' questo il concetto dell'autocoscienza, cioè di un principio che autocreandosi crea tutta la realtà.

La "coscienza infelice" in Hegel La "coscienza infelice" è la figura che nella Fenomenologia dello spirito ha

per referente la religione ebraica e cristiana. L'infelicità di questa forma di coscienza deriva dal suo sentirsi come inessenziale di fronte all'Assoluto, cioè al Dio trascendente, senza tuttavia riuscire a negarsi in esso, come pur vorrebbe. Hegel presenta i tentativi tutti destinati al fallimento, che la coscienza infelice metterebbe in atto a questo scopo:la devozione sentimentale, una sorta di misticismo; l'operare nel mondo, inteso come dolore verso Dio; e infine la mortificazione di sé, nell'ascetismo inattivo. Non riuscendo però ad annullarsi, la coscienza continua a soffrire l'alterità che permane fra lei e il divino. Questa infelicità verrà superata solo allorché la

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coscienza ritroverà il divino nel mondo e in se stessa, ossia si scoprirà come ragione, realizzando quell'unità con l'Assoluto che fin allora le era mancata.

Questa interpretazione è dunque una interpretazione della fede in un Dio

personale e trascendente come una forma di "alienazione" dell'uomo da se stesso. Tale idea verrà poi sviluppata dalla cosiddetta sinistra hegeliana.

Se per gli empiristi la conoscenza non poteva uscire dalla sfera della

coscienza (le cose stesse perdono ogni realtà indipendente dalla percezione, il loro esse si riduce al loro percipi, Berkeley), tale concezione è criticata da Kant per il quale la conoscenza degli stati di coscienza si avvale delle stesse modalità della conoscenza degli oggetti sensibili, perciò vanno usati gli stessi metodi di indagine. È così che cade l'esito idealistico degli empiristi e non fornendo più conoscenze privilegiate, la coscienza, che s'è vista sottrarre il proprio carattere di sfera autonoma, si riduce a semplice consapevolezza e perde gran parte del suo interesse filosofico, a parte la parentesi idealistica tedesca (in Fichte la realtà esterna è interamente risolta in coscienza [EE, p. 809].

Il solipsismo tra il XVII e il XX secolo Il solipsismo, che sostiene l'evidenza assoluta, ma anche invalicabile, dell'io

singolo (solus ipse) o dei contenuti di coscienza, dando luogo a un idealismo soggettivo che nega la realtà (o la possibilità di dimostrare e attingere la realtà) del mondo esterno e degli altri soggetti, fu sostenuto da Malebranche e Berkeley, i quali consideravano indispensabile il ricorso a Dio come unico garante dell'oggettività del conoscere. Per Cartesio invece il solipsismo ha una funzione più propriamente metodologica: l'evidenza interiore è la base per la dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e del mondo.

In seguito il solipsismo fu giudicato teoreticamente inconfutabile ma

insostenibile in sede morale da Fichte e Schopenhauer. Ma ripreso da Husserl per il quale l'io, proprio tornando in sé, si scopre costituito dagli altri io, sicché intersoggettività sarebbe più originaria e fondante rispetto alla soggettività singola (cfr Meditazioni cartesiane, 5).

Il solipsismo ha continuato ad affascinare i filosofi fino al nostro secolo. Per

Wittgenstein (solipsismo linguistico) "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo", tesi fondamentale del Tractatus logico-philosophicus.

Per R. Carnap (in La struttura logica del mondo) il fondamento del

conoscere è il "flusso d'esperienza", anonima presenza che precede la distinzione dell'io e della cosa. Questo "puro c'è" dell'esperienza è pertanto un dato coscienziale originario, valicabile solo per analogia e somiglianza.

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Il tema è stato ripreso e ridiscusso dai neopositivisti e da B. Russell [EGF2,

1997, pp. 1085-1086]. IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA DEL '900 Friedrich W. Nietzsche Nel primo aforisma di Umano troppo umano Nietzsche sviluppo il suo

programma di critica della razionalità socratica della società occidentale: occorre una "chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici" che mostri come "i colori più magnifici" derivino da materiali bassi e spregiati, cioè impulsi ed interessi egoistici.

In questo Nietzsche assomiglia a Marx e Freud con i quali condivide la

volontà di mettere in luce le basi materiali (economiche o istintuali) di ogni produzione spirituale, ma "è erroneo ritenere che il suo discorso miri a indicare una verità elementare a cui debbano essere riportate (per demistificarle) le "menzogne" dell'ideologia e i prodotti della sublimazione. La "chimica" di Nietzsche scopre invece che non c'è alcuna verità base, giacché anche la credenza nel valore della verità è, appunto, una credenza storicamente condizionata; l'evidenza che ci fa ritenere vera una proposizione, del resto, non è segno di una sua verità, ma è solo segno che quella proposizione corrisponde meglio di altre ai condizionamenti psicologici e sociali che ci dominano.

La coscienza a cui l'evidenza si impone non è nulla di immediato, ma già il

risultato di un gioco di influenze e di un equilibrio gerarchico di forze contrastanti. Tutto ciò che di volta in volta si presenta come verità è solo il configurarsi, provvisoriamente stabile, di rapporti di forze, sia nella società, dove prevale un certo criterio del vero imposto da questo o quel gruppo, sia nel singolo, dove prevale l'uno o l'altro impulso, secondo una gerarchia che dipende anche dalle gerarchie sociali […]

I sensi (significati e direzioni) che vengono attribuiti alla storia sono

anch'essi prospettive interne al gioco di forze della "volontà di potenza". Questa però non si muove secondo un senso unitario.

Su questa base l'idea dell'eterno ritorno sembra avere, per Nietzsche, non

tanto la funzione di affermare la circolarità del tempo, quanto piuttosto quella di negarne la linearità; di negare, cioè, che il corso storico vada verso un fine che trascende i singoli momenti di esso, come ha sempre voluto la metafisica platonico-cristiana.

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Ogni momento del tempo, quindi ogni esistenza singola in ogni suo attimo, ha tutto il suo senso in sé. […] Occorre liberare il gioco delle forze, costruendo un'esistenza dove ogni momento possieda tutto intero il suo senso" [EGF2, 1997, pp. 795-796]. "Nel nostro secolo, la nozione di coscienza, nel senso di consapevolezza di sé e degli oggetti ai quali essa si rivolga, è importante soprattutto in Husserl e poi in alcune varianti dell'esistenzialismo, per esempio in K. Jaspers e J. P. Sartre.

L'aspetto per cui la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ossia ha

necessariamente un oggetto quale termine di riferimento, è definito da Husserl come la sua "intenzionalità" (termine di lontana derivazione scolastica), nelle Idee per una fenomenologia pura. Questa concezione con la relativa terminologia è penetrata largamente nel pensiero tedesco del nostro secolo.

Per Sartre (L'essere e il nulla) la coscienza è "essere per sé" o presenza a

sé (distinzione di sé da sé; è negatività e libertà, in quanto essenzialmente progettualità rivolta al futuro, di contro all'"essere in sé" delle cose. Tra l'essere e la coscienza c'è un'opposizione irresolubile. La coscienza si definisce come "non-essere"; ed è quindi "l'essere per cui il nulla viene al mondo", nel senso che ogni negazione che s'incontri nell'esperienza dipende dall'attività negatrice originaria della coscienza.

Alla certezza interiore come pretesa via d'accesso diretto alla verità

vengono oggi contrapposti i metodi propri delle scienze, teoriche o empiriche. La complessa problematica logica che ne deriva occupa una posizione

centrale nelle filosofie che, come l'empirismo logico, muovono appunto dal riconoscimento che nelle scienze esistenti e nei loro progressi è data l'unica possibilità di conoscenza affidabile.

Il punto estremo di questa critica è rappresentato dal comportamentismo, il

quale, proprio sul terreno dei fenomeni psichici, rifiuta le pretese conoscitive del ricorso all'interiorità e propone in alternativa una metodologia fondata sui dati oggettivamente osservabili, nella convinzione che l'introspezione sia una fonte di autoinganno.

L'introspezione quale modo di conoscenza dei fenomeni psichici è

contestata, su un altro versante, dalla psicanalisi, secondo la quale la genesi profonda di tali fenomeni sfugge alla normale consapevolezza del soggetto" [EGF2, 1997, p. 221].

La concezione della coscienza come rapporto con l'esterno è stata ripresa

su altre basi, in questo secolo, dalla fenomenologia. La fenomenologia ed Edmund Husserl

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Per Husserl la coscienza è intenzionalità, cioè trascendimento nei confronti dell'oggetto. Essa è costituita di esperienze vissute, che sono la sua sostanza e posizione assoluta. Invece la filosofia romantica aveva concepito la totale immanenza della realtà nella coscienza.

Nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica

(1913 1 1952) Husserl propone il metodo della "riduzione fenomenologica" ("sospensione del giudizio" o epoché) per attingere la dimensione in cui i fenomeni si manifestano in piena "evidenza" ("in carne ed ossa") e come "datità originarie". L'epoché pone tra parentesi sia i giudizi del senso comune (pregiudizi) sia le teorie scientifiche. Operata tale riduzione ciò che emerge come "residuo fenomenologico" è il campo trascendentale della coscienza pura (par. 49).

Le realtà psichiche (il terzo degli strati fondamentali della realtà, dopo le

cose materiali e le nature animali) non sono una molteplicità irrisolta di soggetti singoli, ma una intersoggettività originaria.

La sfera della coscienza trascendentale non è né il cogito solipsistico

cartesiano, né, dice Husserl, l'Io puro di Fichte; è piuttosto un Noi intersoggettivo che si dispiega in un operare comune di cui il linguaggio, la società e la storia sono le più dirette manifestazioni (Meditazioni cartesiane, parr. 55-60) [EGF2, 1997, p. 512].

Husserl nega la coscienza come cosa e la ribadisce come atto, un originario

fuori-di-sé o, come dice Merleau-Ponty, una trascendenza. Martin Heidegger e Karl Jaspers Lo spiritualismo del sec. XIX persegue dal canto suo l'ideale della coscienza

come manifestazione dell'infinito, sottolineando però il rapporto non necessario fra i due termini.

L'esistenzialismo rappresenta invece una svolta radicale. Esso fa

l'esperienza drammatica dell'impossibilità e pure della necessità del trascendimento della coscienza.

Questo modo di vedere è condiviso da Jaspers, Sartre, Heidegger. La filosofia, a differenza delle scienza, si rivolge all'esistenza in quanto

unità di soggetto e oggetto; ogni esistenza infatti è la sua stessa situazione nel mondo: "Il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo".

Ciò conduce ai temi di colpa (ogni esistenza sconta fatalmente la parzialità

ineliminabile che la caratterizza), libertà (ma di fatto io devo scegliere e sono già scelto dalla situazione storica, la libertà si riduce all'accettazione del proprio

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destino, secondo il motto nietzschiano "divieni ciò che sei") e comunicazione (che risulta in ultima analisi impossibile)

[EGF2, 1997, pp.575-6]. Sulla stessa linea si muovono Heidegger ("L'Esserci, in virtù del suo modo

fondamentale di essere, è già sempre "fuori", presso l'ente che incontra in un mondo già sempre scoperto") e Sartre ("L'essere della coscienza, in quanto coscienza, è di esistere a distanza da sé, come presenza a sé, e questo niente di distanza che l'essere porta nel suo essere è il nulla").

Per Heidegger la trascendenza verso il mondo è l'essenza della soggettività

stessa; trascendere è progettare un atteggiamento nel mondo. Ma il mondo ricomprende in sé il soggetto che si trova gettato così in esso e sottoposto alle sue condizioni. Di conseguenza la coscienza s'identificherà con il tentativo di mettersi in rapporto con qualcosa che è destinata allo scacco.

Il teorema dell'intenzionalità della coscienza che Husserl aveva preso da

Brentano è infine ripercorso da Jaspers per il quale "l'essere della coscienza non è come quello delle cose, ma la sua essenza è nell'essere diretto intenzionalmente agli oggetti", ma la coscienza riflette anche su di sé ponendosi come autocoscienza: "l'"io penso" e l'"io penso che penso" coincidono in modo da non poter esistere l'uno senza l'altro" [DPL, 1992, pp. 236-237].

Dunque questa ipotesi fenomenologico-esistenzialista rifiuta la riduzione

dell'uomo a coscienza e concepisce l'individuo come un essere-nel-mondo, dove il mondo è pensato come costitutivo dell'essenza umana.

Nella visione marxista la persona (e dunque la coscienza) è la risultante dei

rapporti che l'uomo ha con la natura e con i propri simili. Jean-Paul Sartre A partire dal concetto husserliano di intenzionalità della coscienza, Sartre

credeva in una trascendenza ineliminabile della coscienza verso il mondo e le cose. Al centro della psicologia fenomenologica egli voleva la funzione immaginativa (L'immaginario, 1940) perché ciò permette di evidenziare la proprietà della coscienza di distanziarsi dalle cose e dai fatti, annullando la totalità dell'esistente in vista di significati che la coscienza liberamente pone.

Con questi studi Sartre cominciò a fissare i capisaldi della sua ontologia

fenomenologica, fondata sulla complementarità contraddittoria dell'essere della coscienza (il "per-sé"), come libertà assoluta che dà significato globale ai dati della situazione, e dell'essere del mondo (l'"in-sé" o Essere per antonomasia),

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come realtà fattuale massiccia e opaca, che è il supporto e il residuo irriducibile dell'attività intenzionale della coscienza

In L'essere e il nulla il rapporto con l'altro si configura negativamente come

reciproca riduzione a oggetto (a "in-sé") fin dall'esperienza primaria dello sguardo, per cui "l'essenza del rapporto tra le coscienze è il conflitto".

La sintesi di in-sé e per-sé, che corrisponde all'idea di Dio, assoluta libertà

e insieme assoluta necessità, è impossibile. Esiste una equivalenza negativa delle scelte, ovvero uno scacco ontologico dell'esistenza [EGF2, 1997, p.1011].

Henri Bergson Di Bergson mi occupo più estesamente dato l'interesse della sua riflessione

filosofica. Egli è autore di una teoria dell'evoluzione fondata sulla dimensione spirituale della vita umana che esercitò una profonda influenza su molte discipline.

Oltre che alla filosofia si interessò alla matematica e alla fisica, che coniugò

con la filosofia della scienza e la riflessione sul problema del tempo. Insegnò nei licei, all'École Normale Supérieure e al Collège de France.

Nella sua tesi di dottorato Saggio sui dati immediati della coscienza (1889),

criticava l'applicazione alla coscienza di una concezione del tempo deterministica e positivistica. Solo la "durata" intesa come sequenza di momenti qualitativamente connessi tra loro e non quantificabili, è in grado di cogliere l'io nella sua interezza.

Nelle opere successive analizzò il rapporto tra mente e corpo (Materia e

memoria, 1896) e il problema dell'esistenza umana all'interno dell'evoluzione intesa come energia pura, élan vital, forza vitale libera da implicazioni finalistiche o deterministe (L'evoluzione creatrice, 1907).

Membro dell'Accademia di Francia si occupò di affari esteri, politica e

problemi morali e religiosi; si convertì al cattolicesimo ma rifiutò il battesimo per non tradire la sua origine ebraica al tempo della persecuzione.

Negli ultimi vent'anni della propria vita pubblicò unicamente Le due fonti

della morale e della religione (1932), in cui estese le sue concezioni alla morale, alla religione e alla società. Premio Nobel per la letteratura, morì a Parigi nel 1941.

Bergson contrappose alla concezione razionalistica del positivismo una

visione della conoscenza e della vita fondata su diversi livelli dello spirito e su

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diversi piani conoscitivi. All'apice di questi livelli non è l'intelligenza, che ci offre soltanto rappresentazioni superficiali, convenzionali, utili ma non corrispondenti alla realtà delle cose; la vera attività conoscitiva è l'intuizione, che ci permette di cogliere l'essenza del reale, della natura come del nostro Io. La vera realtà della natura e dello spirito non può essere colta attraverso le artificiose schematizzazioni delle scienze ma deve essere appresa intuitivamente nel suo divenire, nel suo flusso ininterrotto.

Al concetto di tempo "spazializzato" della scienza, artificialmente diviso in

momenti distinti, egli contrappose il tempo come durata, come flusso ininterrotto, come processo che non può essere quantificato ma soltanto vissuto dalla spirito. Così tutta la vita viene interpretata come evoluzione continua, come proiezione della realtà e dello spirito verso forme sempre nuove, in una perenne attività creativa.

E' la coscienza, attraverso la sua capacità di conservare nella memoria gli

oggetti e poi di giustapporli in una successione ordinata, che crea il tempo omogeneo. Ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità dell'oggetto esterno, l'altro specifico, perché l'addizione di questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell'insieme. Distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente l'uno netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso, infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel dominio comune.

Bergson in Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) si propone una

descrizione degli stati di coscienza in presa diretta, cioè mediante l'introspezione e in polemica con la psicologia sperimentale positivistica, che pretende di rapportare i dati interni della coscienza ai fatti fisici esterni. Ma i fatti psichici vivono in una dimensione qualitativa che non è rapportabile a quella quantitativa dei fatti fisici (si può misurare uno stimolo, ma non una sensazione).

Il tempo concretamente vissuto dalla coscienza, per esempio, è una

"durata" reale in cui lo stato psichico presente conserva il processo dal quale proviene ed è insieme qualcosa di nuovo.

Intuizione e stati della coscienza in Bergson Non c'è soluzione di continuità tra gli stati della coscienza: essi si

compenetrano dando vita a un amalgama in continua evoluzione. "Al di sotto […] vi è un flusso continuo, non comparabile a nulla di ciò che ho visto fluire. È

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una successione di stati, ciascuno dei quali preannunzia quello che lo segue e contiene quello che lo precede. In verità essi non costituiscono stati molteplici se non quando son già passato oltre ad essi, e mi rivolgo indietro per osservarne la traccia […]. In realtà, nessuno di essi comincia o finisce, tutti si prolungano gli uni negli altri. È, se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perché non c'è essere vivente che non si senta arrivare, a poco a poco, al termine della parte che deve recitare […]. Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi continuo, come quello d'un filo su un gomitolo, poiché il nostro passato ci segue, e s'ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino: coscienza significa memoria" [Bergson, 1971, p. 48].

Ed è questo movimento reale e vissuto che la scienza non può spiegare con

i suoi concetti astratti e rigidi. Lo scopo del filosofo è quello di aiutare l'uomo a scavare nella propria coscienza.

A causa poi di un analogo intellettualismo concettuale, la scienza (e anche

il senso comune) da sempre si imbatte in dualismi irresolubili: materia-spirito, estensione-pensiero, necessità-libertà. Bergson affronta tale problema in Materia e Memoria (1896). È la memoria pura e spirituale a caratterizzare la vita profonda della coscienza: essa raccoglie tutto il nostro passato e lo conserva nel fondo della psiche. Il corpo però, e in particolare il cervello, si incarica di limitare la memoria totale, imponendo la dimenticanza di taluni contenuti e l'oblio. Il cervello è dunque un organo di traduzione e di collegamento: da un lato esso traduce l'attività della coscienza in movimento (nel cervello non c'è il pensiero ma solo il "movimento esteriorizzato" del pensiero), dall'altro collega la coscienza con la realtà esterna, e anzitutto con quella prima cosa che per l'io è il corpo.

Spirito e corpo possono essere espressi dunque come memoria e

percezione. La prima raccoglie la totalità della vita vissuta nella sua spontaneità e creatività; la seconda si concentra sul presente, sulle necessità pratiche dell'azione.

Per quanto riguarda l'evoluzione, tema caro a Bergson, egli respinge sia il

modello evoluzionistico spenceriano (cioè il determinismo), sia l'evoluzionismo finalistico, perché entrambi negano la spontaneità e la novità del processo reale. Dopo la pianta viene l'animale che ha l'istinto, ma l'uomo lo sopravanza con l'intelligenza, che è la strada che avvia l'uomo verso la coscienza e il concetto. La scienza è il traguardo estremo di questo progressivo raffinamento.

Ma l'intelligenza può sempre tornare all'istinto, accompagnato dalla

coscienza. In Introduzione alla metafisica Bergson definisce così l'intuizione: "quella simpatia mediante la quale ci si inserisce nell'interiorità di un oggetto per coincidere con ciò che c'è in esso di unico".

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L'intuizione diviene così l'organo di una reale conoscenza partecipativa, che si esprime nell'arte se diretta all'individuale, e nella metafisica se rivolta alla totalità della vita presa nel suo slancio vitale, La metafisica è pertanto la "scienza che si propone di superare la barriera dei simboli" costruiti dal linguaggio comune e dall'intelletto scientifico.

Al rischio che il progresso tecnologico spinga l'uomo "verso la soddisfazione

dei desideri più grossolani" Bergson oppone la speranza in un nuovo salto evolutivo della specie, consistente in un nuovo misticismo, che facendo leva sulla forza dell'intuizione e della tecnica si traduca in un moderno "amore universale e attivo" [EGF2, 1997, pp. 105-106].

"Senza dubbio, nessuna immagine rende perfettamente il senso originale

che ho dello scorrere di me stesso. Ma neppure è necessario che cerchi di renderlo. A chi non sia capace di darsi da sé l'intuizione della durata che costituisce il suo essere, nulla la darà mai, non i concetti più che le immagini. L'unica mira del filosofo deve essere, qui, provocare un certo lavoro che, nella maggior parte degli uomini, le abitudini mentali più utili alla vita tendono a bloccare (Le esigenze vitali tendono a portare l'attenzione verso i livelli superficiali, spaziali, della coscienza, impedendole di concentrarsi in un una sensibilità profonda e simpatetica verso l'oggetto, nota del traduttore)" [Bergson, 1971, p. 50].

Fondamentale, e chiave di ogni altro, fu l'interesse per il problema della

coscienza, e per il ruolo dell'inconscio. Era il problema implicito nel titolo stesso del primo libro di Bergson, l'Essai sur les données immédiates de la conscience, in cui si tentava di distinguere tra una "vita psichica superficiale", a cui poteva essere applicata la logica scientifica dello spazio e del numero, e una vita della coscienza più profonda, in cui il vero io seguiva una sua propria logica" [Stuart Hughes, 1967, p. 68-9].

Bergson nel movimento intellettuale della fine del secolo scorso si collocava

all'ala estrema "intuizionista", aggressivamente antipositivista. Maurice Merleau-Ponty Anche per Merleau-Ponty l'essere-nel-mondo, costitutivo dell'esistenza, è

rapporto tra coscienza e mondo; ma a differenza di Sartre egli pensa che quel rapporto non è interpretato adeguatamente attraverso la contrapposizione tra per-sé e in-sé, che sembra riproporre il tradizionale dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e sopravvalutare soggettivisticamente la libertà di coscienza.

Soggetto e oggetto, io e mondo, libertà e necessità, non vanno visti nei

termini antitetici della filosofia classica e delle sue soluzioni unilaterali (materialismo e idealismo).

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"L’anima pensa secondo il corpo, non secondo se stessa" (in L’Occhio e lo

Spirito). Seguendo le indicazioni dell'ultimo Husserl, Merleau-Ponty identifica il

luogo fondamentale dell'esistenza nell'esperienza vissuta della percezione dove soggetto e oggetto, coscienza e mondo si costituiscono in un rapporto di implicazione reciproca, di scambio e interazione che la fenomenologia deve restituire nella sua ambiguità originaria (La struttura del comportamento, 1942) [EGF2, 1997, pp.575-6].

Pierre Teilhard de Chardin e F. Tipler Teilhard de Chardin definiva la comparsa della vita cosciente sul pianeta

come il processo tramite il quale il mondo estroflette un occhio per guardarsi, immagine che ricorda le visioni del cabalista rinascimentale ebreo Jizchad Lurja (1532-1575).

Formenti ricorda che secondo Lurja la creazione del mondo consiste nel

ritiro di Dio; ciò lascia un vuoto in cui si dispiega liberamente la storia del mondo; solo la comparsa dell'uomo consente di ristabilire una presenza divina [Formenti, 1999, pp. 186-187].

Con la comparsa della specie umana la Terra si risveglia, si fabbrica un

cervello rispetto al quale i singoli esseri umani svolgono la funzione di cellule nervose. La genesi di questa Mente collettiva (che anticipa il concetto di Mente che verrà elaborato anni dopo da Gregory Bateson) richiede tuttavia un passaggio ulteriore, vale a dire, che l'evoluzione culturale e lo sviluppo tecnologico diano vita alla "noosfera". Con questo termine, Teilhard de Chardin definisce quel complesso di energie biologiche spiritualizzate (potenziali intellettuali individuali e collettivi, sistemi e codici di comunicazione, conoscenze, linguaggi, tecnologie ecc.) che costituiscono una sorta di "superidentità" della specie, un sistema pensante composto da elementi sia biologici sia artificiali. Non appena tale "massa pensante" avrà raggiunto un punto critico, che Teilhard de Chardin chiamava punto Omega, la Creatura Planetaria avrà completato il suo processo di formazione, la Teogenesi sarà compiuta. A partire da quel momento, la Terrà non sarà più solo coperta da una miriade di granuli di pensiero: si sarà trasformata in un'unica sfera pensante.

La materia originaria, secondo Teilhard, contiene già in sé la "coscienza"

come elemento organizzativo, per cui l'evoluzione si configura come un processo non puramente deterministico, ma anche teologico.

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L'uomo non è ancora tuttavia il punto finale: l'universo, e in esso l'uomo e la sua storia, tendono a un "punto omega": il Cristo cosmico, punto di aggregazione di tutta l'umanità ("cristosfera").

Stato il fisico Frank Tipler ha riprendere recentemente il concetto di Punto

Omega, sostenendo che tutta la vita coscienze finirà per convergere in una supermente che assumerà il controllo del cosmo e annullerà la morte termica. Dio, con inversione temporale tipicamente gnostica, non sta all'inizio ma alla fine dei tempi. Si veda anche la concezione di Lurja"[Formenti, 1999, p. 187 n.].

ALCUNE VOCI DEL DIBATTITO ATTUALE IN ITALIA Gianni Vattimo e il pensiero debole Nietzsche, l'autore che insieme a Heidegger ha posto le basi

dell'ermeneutica filosofica contemporanea, vedeva nella dissoluzione dei fondamenti il principio di una duplice emancipazione: sia come liberazione dal simbolico, dalle credenze metafisiche, sia come liberazione del simbolico, cioè come possibilità di sperimentazione di nuove forme di vita e di pensiero.

Di qui la necessità per la filosofia di rinunciare a qualsiasi ruolo fondativo e

di configurarsi piuttosto come un "pensiero debole" e come una "ontologia dell'attualità", capace di accompagnare e di edificare l'umanità in un mondo che non ha ormai bisogno di assoluti.

La storia non porta verso il meglio, come nel perfettismo illuminista e

idealista, ma si allontana dal peggio; l'anamnesi storica di questo allontanamento ha il valore di una teodicea indebolita e di una terapia [EGF2, 1997, pp. 1189 ss.].

A mio parere la posizione di Vattimo è importante per la ricerca del nuovo

paradigma di teorizzazione; è una posizione da cui non si può prescindere. Romano Guardini Un intero saggio ha dedicato alla coscienza Romano Guardini, ma

intendendola quasi esclusivamente nell'ambito della religione, del rapporto dell'uomo con Dio.

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Secondo Guardini "coscienza è, anzitutto, quell'organo, per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: "Il bene esiste; ha un'importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato a esso […]. La coscienza è anche la porta, per la quale l'eterno entra nel tempo [la sottolineatura è mia, n.d.r.]. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga "storia", la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno si compie entro il tempo" [Guardini, 1997, p. 25-6].

Coscienza significa quindi "qualche cosa di grande; una realtà creativa,

capace di vedere e di attuare qualche cosa che prima non esisteva ancora; di dar forma al bene eterno nel corso del tempo; di generare in certo modo qualcosa di infinito e semplice insieme nella forma limitata dell'azione. E a ciò tutto si presta come materia: tutto il contenuto della vita, ogni cosa, ogni avvenimento […]. Questa coscienza è ciò che abbiamo di più nostro" [Guardini, 1997, p. 33].

E ancora la coscienza è "un atto vitale, in cui opera e influisce tutto quello

che io sono, anche il mio stesso desiderio" [Guardini, 1997, p. 36]. "Quello che alla superficie significa coscienza morale, nelle sue ultime radici

è il "fondo dell'anima", la "scintilla dell'anima". […] La coscienza è dunque l'organo per la realtà vivente e per il contatto con Dio; per ciò che Dio ci chiede" [Guardini, 1997, p. 38-9].

"Dio non è un concetto, un'idea, un sentimento, un'esigenza sociologica.

Dio è reale; è la realtà assoluta. […] Questo significa: Dio ci circonda, ci avvolge, ci penetra. Egli è presente nel più profondo del nostro intimo. Là, dove il nostro essere confina interiormente, quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. Là egli ci parla. […] Non come un alcunché di impersonale, ma con un "io", al quale è possibile rispondere con un "tu". Dio parla dunque dentro di noi" [Guardini, 1997, p. 40-1].

""Coscienza" non significa affatto soltanto un organo etico; a ciò l'ha ridotta

appena l'età moderna e più che altrove, a quanto sembra, stranamente nei paesi di lingua tedesca. In sé e per sé "coscienza" significa l'organo che coglie il dover essere in genere, ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza all'aspetto religioso. Si può dimostrare storicamente che parola e significato di "coscienza" sono in rapporto con gli ultimi strati della coscienza religiosa: col "fondo dell'anima" e con l'acies animae." [Guardini, 1997, p. 52].

"Ecco qui un compito da assolvere. Bisogna creare, ampliare, munire di

volta lo spazio interiore. Il mondo interiore deve venir dischiuso" [Guardini, 1997, p. 58].

Angelo Crescini

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Su che cosa sia la coscienza si è interrogato Angelo Crescini in una

conferenza del 1992. "In che cosa di distingue il riconoscimento che è proprio degli animali dal

riconoscimento che è tipico dell'uomo? Rispondere a questa domanda significa arrivare al concetto di soggetto alla seconda potenza, ossia al concetto di coscienza. Nell'uomo il soggetto alla prima persona, ossia la struttura da cui scaturisce il riconoscimento delle cose presenti viene a sua volta riconosciuto: si raggiunge allora il riconoscimento del fondamento dei riconoscimenti" [Crescini, 1992, p. 5].

"La spiegazione di che cosa è la coscienza è anche la spiegazione della sua

dinamicità. Riconoscere una cosa, infatti, come abbiamo visto, significa saperla

distinguere da tutte le altre cose: in questa diversa distinzione dalle altre cose sta la sua essenza, la sua sostanza. Ma allora significa che ogni cosa per essere se stessa deve uscire fuori di se stessa per trovare nella sua differenza dalle altre cose la sua identità, per diventare se stessa. […] Questa dinamicità dunque della coscienza costituisce la coscienza stessa" [Crescini, 1992, p. 7-8].

"La ricerca scientifica, che è parte importante della coscienza umana in

generale, è nella sua struttura di carattere evolutivo. Essa consiste infatti nel progressivo avvicinamento delle strutture immaginate alle strutture della realtà dalle quali quelle ricevono la loro ispirazione e la loro energia. Si tratta di un dinamismo che non è costitutivo della coscienza, ma soltanto del suo progresso, della sua evoluzione. […] Ogni essere vivente infatti si trova sempre in una fase di adattamento all'ambiente, un adattamento che non è mai completo" [Crescini, 1992, p. 12].

Vittorio Hoesle La filosofia non si è ancora svincolata dalla metafisica, mentre questo

passaggio è necessario per poter arrivare a un incontro tra le discipline delle scienze umane e quelle matematico-scientifiche.

Un esempio troviamo nelle tesi di Vittorio Hoesle [Hoesle, 1992], "Riuscire a comunicare con esseri dotati di ragione ma che magari hanno

una base biologica diversa dalla nostra sarebbe la più grande vittoria dello spirito sulla natura.

Esseri pensanti che vivono in qualche luogo lontano dell'universo,

avrebbero una ragione uguale alla nostra?

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"Sono convinto che esiste un'unica ragione - sostiene Hoesle - Credo che

esistano forti argomenti trascendentali per dimostrare che non possono esistere più ragioni e sono perfino convinto che questi esseri, magari dopo un certo tempo - anche noi abbiamo impiegato molto tempo - arriverebbero a una filosofia molto simile a quella dell'idealismo oggettivo.

Esiste un unico logos nell'universo al quale noi partecipiamo e se esistono

altri esseri razionali anche loro devono partecipare allo stesso logos e devono essere in grado di arrivare a delle conclusioni simili alle nostre nell'ambito della scienza e credo anche nell'ambito dell'etica e della filosofia.

Kant era convinto che l'imperativo categorico sia valido per ogni essere

razionale e dunque anche per possibili altri esseri razionali al di là dell'uomo, mentre credeva, e anche qui credo che abbia ragione, che l'estetica sia valida in verità solo per esseri appartenenti alla stessa specie … a causa della base biologica. … L'arte è basata non solo sulla ragione, ma anche sull'apparato sensitivo e perciò su qualcosa di più contingente, mentre credo che l'etica, la scienza e anche la filosofia siano basate sulla ragione pura [Hoesle, 1992].

Ma possiamo chiederci: cosa è la ragione pura kantiana agli occhi della

neurofilosofia? La difesa di tale concetto idealistico non è un ostacolo a una teorizzazione

multidisciplinare della mente in rapporto al cervello? Non esistono argomenti forti contro la possibilità che possano esistere

macchine autocoscienti create artificialmente dall'uomo, anche se ritengo siamo ancora lontanissimi dal poterlo fare.

Come i bambini si rendono indipendenti dagli adulti a una certa età - e se

non avviene è grave - così gli automi se avessero davvero un'autocoscienza dovrebbero lottare per ottenere il riconoscimento della loro autocoscienza. La grandezza del film di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello spazio, è stata proprio nel rappresentare il processo del computer Hal che vuole sia riconosciuta la sua autocoscienza.

Nel mondo inanimato incomincia a esserci un pensiero interiore (Hoesle) In principio dovrebbe essere possibile arrivare a un rapporto di uguaglianza

di diritto con questi esseri [Hoesle, 1992]. Delle tre grandi cesure che ci sono nell'essere, quella tra inorganico e organico, quella tra animale e uomo e quella tra inanimato e animato, la più misteriosa allo stato d'oggi è quella tra animato e inanimato. Noi siamo convinti che nel regno animale, non sappiamo bene dove, succede qualcosa di assolutamente strabiliante: si sviluppa una dimensione interiore [Hoesle, 1992].

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Hoesle ammette dunque che è impossibile spiegare la natura e l'origine

della dimensione interiore umana. È qualcosa che attualmente ancora dobbiamo definire "miracolo".

Nella storia della filosofia ci sono state posizioni estreme, specifica Hoesle,

rispetto a questa posizione media, che cioè nel mondo inanimato comincia a esserci un pensiero interiore.

Leibniz è convinto che tutto abbia un'anima, anche gli atomi hanno un

momento di interiorità, nell'uomo si raggiunge il massimo livello con l'autocoscienza.

Dall'altra parte Cartesio è convinto che solo gli uomini abbiano

l'autocoscienza. Gli animali non hanno neanche dimensione interiore. Sono solo macchine

che funzionano. Né la posizione di Leibniz né quella di Cartesio sono idealmente

inconsistenti né possono essere falsificate perché il problema della dimensione interiore non è un problema empirico come gli altri dove io posso misurare. La dimensione interna di un'altra persona per definizione non mi è accessibile in maniera immediata, io posso solo per analogia dedurre che lui abbia una dimensione interiore. Ma io non sento il dolore dell'altro [Hoesle, 1992].

Cartesio aveva una posizione che ormai quasi più nessuno sostiene.Per non

cadere nel dualismo, negava la dimensione interiore agli animali. Ci sono invece ancora pensatori Leibniziani, convinti che tutto abbia

un'anima, con argomenti non stupidi a favore. Noi non sappiamo esattamente cosa sente un'altra persona e perciò il

solipsismo che nega che esistano altre persone con soggettività, è una posizione che sembra in primo grado assurda - e lo è anche in ultimo grado - ma non è immediatamente inconsistente. Similmente come facciamo a sapere che i computer non sentono niente? Non c'è finora una risposta veramente assoluta a questa domanda [Hoesle, 1992].

Hoesle dice che Popper e Eccles nel libro che hanno scritto insieme

sostengono la tesi che la dimensione interiore, ciò che noi chiamiamo anima, non potrà mai essere spiegata in maniera naturalista, ma è ontologicamente irriducibile alle entità fisiche.

"Io non sono convinto che abbiano ragione. La cosa che mi irrita in questa

concezione è che in questa maniera la cesura essenziale dell'essere non è più quella tra uomo e animale, ma cade dentro al mondo animale; la cesura si troverebbe lì dove sono esistiti i primi esseri con una dimensione interiore.

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Konrad Lorenz ha scritto: "Gli animali hanno una dimensione interiore'", lui che ha vissuto tutta la vita con gli animali, inizia il libro scrivendo: "Non lo so, perché se lo sapessi avrei risolto il problema dell'anima e del corpo"" [Hoesle, 1992].

Nella tradizione spesso la parola coscienza è stata usata come sinonimo di

sensazione. L'io esiste solo se uno sa dire "io". All'io appartiene essenzialmente

l'autocoscienza dell'io. Se l'io non dice a se stesso "io" allora è un lui. Questa è la maggiore cesura tra uomini e animali. Perfino il bambino piccolo solo a tre anni riesce a dire "io". Questa capacità di tematizzare se stesso è il distintivo dell'uomo. Ciò è tipico della nostra cultura occidentale, l'io è la prima persona.

L'autocoscienza è una struttura riflessiva. Nell'autocoscienza c'è la capacità

di tematizzare ciò che sta succedendo. È una relazione autocritica su quello che si sta percependo; essere in grado di mettere in dubbio le proprie sensazioni. Essa ha un significato anche a livello sociale: autoconsapevolezza di me e del mio valore, del mio rapporto con gli altri uomini, i miei doveri, la dimensione etica: infatti l'uomo, a differenza degli animali può frenare i propri istinti.

SCHEMA DELLE TEORIE CONTEMPORANEE SULLA COSCIENZA Possiamo delineare in modo schematico le principali idee formulate

nell'ultimo decennio del secolo scorso, prima che esse fossero ulteriormente elaborate nei primi anni del Novecento.

E così come la letteratura (H. Hesse, A. Gide, M. Proust, T. Mann) e il

mondo della cultura di inizio secolo risentirono delle idee di "vedere attraverso", del "sondaggio in profondità" che venivano da Bergson e da Freud e Jung, ma anche dell'intuizione come unica possibilità di avvicinamento alla verità che altrimenti è contraddittoria, misteriosa e inspiegabile, sarebbe altrettanto bello poter fare ora e vedere quali idee stanno influenzando la cultura mondiale odierna nella riflessione sulla coscienza.

Nella filosofia contemporanea il rapporto tra il soggetto e i suoi stati di

coscienza, anziché costituire il presupposto della conoscenza, diventa un oggetto di indagine tra gli altri. In questa prospettiva, le "teorie della coscienza" che sono state proposte sono numerose; si ricordano qui le principali [EE, p. 810].

a) La teoria dell'intenzionalità Secondo questa teoria, formulata da

Brentano e successivamente ripresa e sviluppata da Husserl, i fenomeni mentali sono caratterizzati dalla loro "esistenza intenzionale", cioè dal loro riferirsi a un contenuto, dalla loro "direzione verso un oggetto". È però necessario definire i tratti distintivi dell'intenzionalità; la contemporanea analisi

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logica del linguaggio ha messo in luce la possibilità di reperire questi tratti tra le proprietà logiche degli enunciati che descrivono fenomeni mentali (enunciati del tipo "X crede che…", "X pensa che…" ecc.).

b) La teoria strumentalistica di Dewey concepisce la coscienza come "quella

fase di un sistema di significati che, in un dato momento, subisce un raddrizzamento di direzione"; se chiamiamo "spirito" il sistema di significati in questione, la coscienza ci rivela come la fase in cui il sistema dato, incontrando un ostacolo di qualsiasi natura, si ristruttura e si riorganizza, tramite l'insorgere di idee e direttive funzionali, in vista dell'adattamento dell'organismo cosciente all'ambiente cicostante.

c) La teoria comportamentista Si tratta della teoria più radicalmente

riduzionistica nei confronti della coscienza, che viene concepita come serie di disposizioni comportamentali, dove i comportamenti in questione vengono ridotti a risposte interamente determinate dalle caratteristiche fisiche dell'ambiente circostante. La coscienza come mondo dei "significati" e dei "valori" viene quindi globalmente negata: significati e valori vanno spiegati in termini meccanicistici.

d) La teoria neurofisiologica La coscienza è una successione di processi

cerebrali. Questa teoria, se da un lato pone numerose questioni di natura filosofica (soprattutto in relazione al problema dei rapporti mente-corpo), dall'altro va annoverata tra le risposte più specificamente psicologiche al problema della coscienza" [EE, p. 810].

La scienza può prescindere dalla metafisica? Si intende generalmente per metafisica la speculazione filosofica al di là dei

limiti attuali o anche solo apparentemente possibili della scienza, e l'elaborazione di sistemi più o meno astratti al fine di spiegare origini e scopi, fenomeni della mente e della materia e il posto dell'uomo nell'universo. Il termine "metafisica" ha la sua origine semplicemente da quei libri di Aristotele che venivano collocati in sequenza dopo la sua Fisica.

Il significato peggiorativo di "oscuro" e "esageratamente speculativo" è

recente, specialmente dopo i tentativi di A.J. Ayer e altri di dimostrare che la metafisica è assolutamente priva di senso.

Un punto controverso è in che misura la scienza è, o può essere, libera

dalla metafisica. Ci potrebbero sempre essere assunzioni teoriche non verificate, o addirittura mai verificabili, che sono necessarie per interpretare gli esperimenti. Queste assunzioni sono (per definizione) metafisiche, in quanto esse non sono verificabili attraverso l'osservazione o l'esperimento, e quindi sono essenzialmente speculative.

70

Kant sostenne, soprattutto nella sua opera Prolegomeni ad ogni futura metafisica (1783), che il tempo e lo spazio sono categorie della mente, e che è impossibile concepire il mondo fisico senza tali categorie a priori. Si pensa spesso, d'altra parte, che l'empirismo sia esente da assunzioni metafisiche, per lo meno per i filosofi operazionisti, che ritengono che tutta la conoscenza derivi dall'osservazione, e in particolare dall'accordo e il disaccordo osservato tra procedimenti sperimentali definiti formalmente e misure. Questo è essenzialmente l'obiettivo e l'asserzione di Karl Popper per una conoscenza obiettiva. Un punto di vista attuale molto diverso, sviluppato soprattutto dai filosofi americani Norwood Russell Hanson e Thomas Kuhn, è che non esiste nulla di simile a un linguaggio d'osservazione neutro, privo di teoria, che semplicemente registri "i fatti"; anche le osservazioni e gli esperimenti più semplici devono essere fatti nel contesto di assunzioni teoriche complesse.

Poiché queste assunzioni non possono essere obiettivamente verificate o

dimostrate operativamente, si potrebbe dire che sono metafisiche e questo porta a un relativismo più o meno estremo, che rifiuta la nozione di "fatti bruti" e dati di osservazione "obiettivi" [Gregory, EOM, 1991, p. 557].

III La coscienza nella psicologia, nella psichiatria e nella neurologia Anche in questo capitolo, dove analizzo la presenza del concetto di

coscienza nella psicologia e nelle scienze mediche (neurologia clinica), non ho la pretesa di svolgere un'analisi esaustiva e approfondita. Mi basta inquadrare l'importanza della "coscienza" in queste scienze, per poi spostare l'attenzione sulla neurofilosofia.

Ogni riconoscimento è sempre "presa di coscienza". Il problema di fondo è quello della coscienza, quest'oggetto dimenticato

dalla scienza, che a stento di osa definire, se non alludendo ad essa come proprietà stessa della vita e che quindi necessariamente si articola in vari livelli, dalla coscienza primaria o "coscienza-corpo" fino alla coscienza riflessiva o coscienza della coscienza.

Né tanto meno è definibile la coscienza di sé: "L'immagine di sé,

l'immagine nello specchio, io non so ancora esattamente cosa sia: è una

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manifestazione, è un esercizio? Per me la questione resta aperta" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 85-86].

Definizione di coscienza nella psicologia G. Benedetti ha riassunto in cinque punti fondamentali la struttura della

coscienza: a) la coscienza è il risultato di attività neuroniche complesse che debbono

svolgersi selettivamente per l'azione inibitrice contemporanea su altri sistemi neuronici che, funzionando, impedirebbero la selettività delle prime. La selettività si manifesta nell'elettroencefalogramma con i fatti di desincronizzazione;

b) gli impulsi che sfociano nel fatto percettivo cosciente si svolgono

attraverso circuiti centro-periferici che, attivando la periferia sensoriale, realizzano un feed-back centro-perifero-centrale;

c) per il riconoscimento, nel fatto percettivo entrano in attività zone

corticali che conservano la traccia degli avvenimenti passati; d) per giungere alla consapevolezza che quello che sta avvenendo si svolge

nella "propria" mente è necessaria l'acquisizione dell'Io, per la quale occorre che entrino in attività le zone encefaliche che assicurano il cosiddetto "schema corporeo";

e) l'attività dell'analisi percettiva di queste afferenze a livello corticale

presuppone la loro integrazione in schemi ideo-verbali che approdano al linguaggio.

A questa descrizione neurofisiologica, G. Benedetti aggiunge una

definizione fenomenologica della coscienza centrata su tre componenti fondamentali:

a) la consapevolezza della sensibilità;

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b) la consapevolezza di sé con percezione interna organizzata in un complesso stabile che è l'Io;

c) la capacità di questo io di estendersi mediante i processi mnemonici nel

passato, e mediante quelli di anticipazione nel futuro [DPL, 1992, p. 234]. Sigmund Freud La teoria psicanalitica si è costituita rifiutando di definire la psiche in

termini di coscienza, e a questo proposito S. Freud scrive: "Che parte rimane nella nostra esposizione alla coscienza? Nient'altro che quella di organo di senso per la percezione di qualità psichiche".

Ma anche se marginalizzata, la coscienza ha costituito anche per Freud il

punto di partenza per la giustificazione di un inconscio che è il risultato di un'inferenza a partire dalla lacunosità degli atti di coscienza "non danno luogo a serie in sé conchiuse e ininterrotte" [DPL, 1992, p. 237].

Per Freud la coscienza è lo strumento del dominio parentale poiché è

fornita dall'autorità ambientale e rappresenta un insieme di direttive mediante il quale il bambino viene "ammaestrato". Non è innata, ma conseguenza della formazione del Super-io dal quale ha origine anche la morale conscia. La morale, proprio perché corrisponde alla interiorizzazione dei principi e delle restrizioni ambientali, è quindi d'origine "esterna" e imposta all'individuo, almeno all'inizio della vita.

Nell'ottica freudiana, la maggior parte degli uomini non avrebbe una

capacità di autentica vita morale, poiché sarebbe patrimonio di pochi avere un Io forte, capace di sottrarsi al dominio delle pulsioni istintuali .

Carl Gustav Jung Per C. G. Jung lo psichico non coincide con la coscienza, che invece è

legata all'Io: "La coscienza è la funzione o attività che mantiene il rapporto di contenuti psichici con l'Io. La coscienza non è identica con la psiche". "Per "Io" intendo un complesso di rappresentazioni che per me costituisce il centro del campo della mia coscienza e che mi sembra possedere un alto grado di continuità e di identità con se stesso" [DPL, 1992, pp. 237-238].

Il pensiero di Jung appartiene a quel grande filone trasversale alla storia

del pensiero filosofico e psicologico, in base al quale la coscienza è uno strumento della persona, dell'uomo, dell'individuo, e non già un' "origine" .

73

La corrente fenomenologica qualitativa e quella dell'entità fisiologica Il concetto di coscienza si è evoluto parallelamente allo sviluppo della

filosofia, della psicologia e della neurofisiologia. Ciascuna di queste discipline ha di volta in volta messo l'accento sugli aspetti soggettivi, su quelli comportamentali, o su quelli fisiologici della coscienza.

In senso moderno, il termine è stato introdotto da G. W Leibniz che distinse

da un lato le petites perceptions, cioè la somma degli stimoli subliminali, e dall'altro l'apperception attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente. Questa distinzione contiene l'ipotesi di una soglia sensitiva suscettibile di sperimentazione psicofisica, e la separazione tra contenuti psichici avvertiti coscientemente e contenuti preconsci" [DPL, 1992, p. 234].

"Due posizioni" specificatesi nella seconda metà dell''800 sono esemplari

per le direzioni assunte dallo studio della coscienza: come fenomeno qualitativo della psiche, o come entità fisiologica neurofisiologicamente localizzabile.

E infatti i successivi studi precisano la descrizione neurofisiologica della

coscienza ma anche una descrizione fenomenologica. "Lo studio empirico della coscienza è centrato principalmente su due ordini

di problemi; gli uni attinenti alle caratteristiche dello stato in cui noi possediamo coscienza di noi stessi e del nostro ambiente, gli altri riguardanti il genere dei processi interni al nostro organismo dei quali possiamo acquistare coscienza. L'opposto di "coscienza" e "incoscienza" nel primo caso, "inconscio" nel secondo. Un terzo ordine di problemi si riferisce alla nozione che ognuno di noi ha del proprio essere ("autocoscienza" o coscienza di sé) a differenza di quella che se ne fanno le altre persone osservandolo dall'esterno" [Hofstätter, 1966, p. 49].

Sono dunque tre le prospettive pricipali da cui viene esaminato il problema

della coscienza dalla moderna ricerca neuropsicologica: a. la coscienza intesa come vigilanza (ecco perché l'opposto è

incoscienza); b. la coscienza degli eventi che si svolgono all'interno dell'organismo

(l'opposto è l'inconscio); c. l'autocoscienza o coscienza di sé.

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Non si discute più sulla "sede" della coscienza, che ormai appare un falso problema, piuttosto, in campo neurofisiologico, ci si chiede qual è la sede dei meccanismi regolatori dei livelli di coscienza.

Sperimentalmente si è potuto conoscere le sedi delle varie funzioni mentali

però si è sempre dovuto concludere che l'attività cosciente è una funzione complessiva, basata su associzioni.

Infatti la corteccia associativa costituisce una parte preponderante (lo si

osserva più evidentemente nell'uomo). Le aree associative sono estesissime nell'uomo, più degli altri animali. Così

alcuni studiosi sostengono che la quantità è tale che costituisce da sé una qualità differente; altri invece sostengono è una qualità intrinsecamente diversa che produce uno stato di coscienza diverso.

Infatti per abolire le facoltà coscienti devono esserci lesioni estese o

generali (come quelle metaboliche o tossiche) mentre una lesione parziale o locale non abolisce le funzioni associative. Base dell'attività e della "qualità associativa" è la grande presenza di materia bianca (fasci nervosi di collegamento) nel cervello.

Stimolo e reazione Da un punto di vista biologico l'intero fenomeno "coscienza" si svolge

completamente tra gli apparati recettori e quelli effettori dell'organismo. La conseguenza dell'attivazione di un effettore si chiama reazione, per quanto sarebbe più appropriato indicarla come azione, giacché il termine "reagire" presuppone che l'attività effettrice sia coordinata a quella recettrice da un rapporto sempre fisso e perfettamente conoscibile.

Gli schemi interpretativi con i quali si cerca di esprimere la relazione

esistente tra i processi a livello corporeo e quelli psichici costituiscono l'oggetto del cosiddetto problema anima-corpo, il quale, a dire il vero, rientra più nell'ambito della filosofia che in quello della psicologia empirica o della biologia. Queste ultime discipline, rinunciando alla pretesa di chiarire la vera essenza del fatto coscienza, si rivolgono semplicemente alle condizioni che ne permettono la comparsa [Hofstätter, 1966, p. 341-2].

Lo schema corporeo

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Lo schema corporeo, ritenuto necessario per un adeguata attività motoria nello spazio, per la definizione e l'organizzazione, oltre che per la interpretazione del mondo, fonda anche la distinzione di sé dall'altro, è il primo nucleo del processo di costituzione dell'identità personale.

In particolare, quando lo psicologo genetico si riferisce alle tappe

fondamentali di questa costruzione, poiché di costruzione si tratta e non certo di un semplice e gratuito dato originario, intende soprattutto sottolineare l'evoluzione che si verifica fra la nascita del bambino e il raggiungimento della coscienza di sé, ossia della capacità simbolica e dell'individuazione dell'altro quali si manifestano nel riconoscimento dell'immagine del proprio corpo nello specchio. Per quanto quest'ultimo processo non risulti di più facile definizione, tanto che alcuni (Zazzo) lo ritengono una semplice prova dell'esistenza della coscienza, mentre altri (Lacan) vi intravedono la condizione stessa attraverso cui la coscienza si costituisce, si è potuto tuttavia tentare una delineazione della genesi dello schema corporeo [Farneti - Carlini, 1981, pp. 83-84].

La specchio e la nascita della psicologia Sull'importanza dello specchio e su quanto incida profondamente nella

psiche ha scritto una bellissima pagina lo psichiatra Vittorino Andreoli: "Lo specchio è il confidente più segreto di ciascun giovane, maschio o femmina. Si tratta di una delle invenzioni che hanno cambiato la storia dell'umanità e dovrebbe essere ricordata tra le grandi tappe quali l'introduzione della ruota o del cannocchiale. Forse è allo specchio che si può far risalire la nascita della psicologia e naturalmente della psicopatologia. Alla mitologia non poteva sfuggire questo fenomeno e in Narciso ha disegnato uno dei primi drammi dell'umanità: il sentirsi bello. In Narciso questa presa di coscienza è stata fonte di morte. Altrettanto drammatica è la percezione opposta, mostruosa. Con lo specchio sono nati i complessi, i desideri e persino la chirurgia estetica. I giovani del tempo presente hanno specchi dappertutto e di dimensioni tali da riflettere tutto il corpo" [Giovani, pp. 106-107].

Cultura e cervello plastico "Insomma la biologia nella sua evoluzione segue una strada, descritta a

grandi linee da Darwin, che non ha nulla a che fare con l'evoluzione culturale. Ogni aspetto dell'attività umana si lega al cervello, ma mentre i comportamenti fissati sono regolati da un encefalo deterministico, la cultura è correlata all'encefalo plastico, che ha la capacità di strutturarsi e modificarsi sulla base di stimoli esterni e dunque sull'esperienza.

C'è quindi un'evoluzione che si lega alle mutazioni genetiche (evoluzione

biologica) e una che invece si lega alla plasticità cerebrale e all'esperienza

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(evoluzione culturale). I termini, biologia e cultura, sono antinomici, ma dentro al cervello rappresentano due modalità di organizzazione delle reti neuronali e non, come si ammette, essenze distinte: anima e copro, cervello e mente [qui cita V. Andreoli, La terza via della psichiatria, 1980, Mondadori, Milano. N.d.r.]. Le grandi trasformazioni culturali sono dovute ai processi di apprendimento che altro non sono se non strutturazioni del cervello plastico mosse da esperienze nuove. La cultura è precaria e si può persino perderla. I cambiamenti di ambiente comportano sempre un cambiamento culturale e comportamentale" [Andreoli, 1995, p. 216].

L'analisi transazionale di Berne (Stati dell’io) A mio parere esiste un interessantissimo spazio di ricerca a partire dalla

tripartizione degli stati dell'io che sta alla base del pensiero di E. Berne: Bambino Adulto e Genitore .

Dei tre stati quello meno riempito di contenuti, analizzato è quello

dell'Adulto, a cui si attribuisce un "potere" particolare, equilibrio, maturità, eccetera.

Non sarebbe difficile credo scoprire in tale visione agganci con una visione

metafisica dell'interiorità o anche la possibilità di un collegamento forte tra Adulto e "potere della coscienza". È una ricerca tutta da sviluppare.

Psicologia analitica e mitologia Il rapporto tra mitologia e analisi della coscienza è sempre stato importante

nella psicanalisi. Un lavoro importante legato proprio alla coscienza - e specificamente alla sua nascita, tema che mi è caro - è quello di Erich Neumann, filosofo, medico e allievo di C. G. Jung, Storia delle origini della coscienza . In esso l'autore offre uno studio sistematico della mitologia, con la finalità non secondaria di appoggio allo psicoterapeuta per una teoria evolutiva della coscienza in cui la storia dello sviluppo psichico individuale coincide con la storia dello sviluppo psichico collettivo dell'umanità, in quanto entrambi percorrono i medesimi stadi archetipici che Neumann descrive: dall'Uroboros, il grande rotondo, e la Grande Madre, alla separazione dai genitori, dall'eroe che combatte contro il drago all'uccisione di padre e madre, alla trasformazione (Osiride).

LA COSCIENZA NELLA PSICHIATRIA

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Il Dizionario di psichiatria della Oxford Univeristy Press precisa che coscienza è un termine impiegato in modi vari e controversi in filosofia, psicologia e psichiatria.

"È la presenza della mente a se stessa nell'atto di apprendere e di

giudicare, e la conseguente "conosciuta unità" di ciò che è "consaputo", ossia di ciò che è attualmente presente alla mente" (Centro di Studi Filosofici di Gallarate) [DPI, 1970, pp. 164-165].

La definizione riportata sottolinea soprattutto due aspetti del concetto di

coscienza: l'aspetto riflessivo ("presenza della mente a se stessa") e l'aspetto integrativo ("conosciuta unità di ciò che è consaputo": tutti i fatti psichici di cui il soggetto è consapevole in un certo momento - percezioni, affetti, pensieri, volizioni - sono vissuti come un insieme unitario, che è l'unità del soggetto stesso).

È difficile concepire la coscienza come una "funzione" distinta, secondo il

modello della psicologia atomistica; essa appare piuttosto come una caratteristica di base, modale, di tutti i processi psichici.

In psichiatria si parla soprattutto di stato di coscienza; è un concetto

descrittivo che si riferisce al complesso dei contenuti psichici presenti alla mente in un certo momento e al modo in cui vengono vissuti. Nella valutazione dello stato di coscienza si distinguono, classicamente, il "grado di lucidità" (chiarezza con cui i contenuti vengono esperiti) e la "estensione del campo di coscienza" (quantità complessiva dei contenuti coscienti).

Stati di coscienza I due stati di coscienza più nettamente differenziati nei soggetti normali

sono la veglia e il sonno. Lo studio delle alterazioni dello stato di coscienza si è rivelato prezioso per

comprendere la natura della coscienza normale. Quel che segue è detto da un punto di vista clinico. Lo stato di coscienza normale vien detto vigile, quando il soggetto è lucido,

presente a sé e all'ambiente e consapevole della distinzione di tre livelli di interazione: l'interazione fra l'Io (inteso come soggettività riflessiva) e il corpo; quella fra il corpo e il mondo esterno; e quella fra il mondo esterno (in particolare le persone, intese come soggetti altri) e il soggetto interessato.

Si ha assenza di stato di coscienza nel sonno (permanendo però un certo

grado di scambi con l'ambiente) nel coma anche nella forma più leggera (1°

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grado) in cui c'è risposta riflessa a stimoli dolorosi. Nel coma, anche la forma leggera, c'è abolizione della coscienza.

Nella psicosi i tre livelli di interazione non sono chiaramente distinti dalla

coscienza. Si parla di "alterazione lucida" della coscienza quando (come in alcune

psicosi o intossicazioni acute da allucinogeni) non c'è una diminuzione della vigilanza e il soggetto, pur essendo normalmente presente all'ambiente, non interpreta correttamente il rapporto fra Io, corpo, mondo esterno.

Si parla invece di torpore o letargia (come nella sonnolenza), confusione

(errori grossolani nella valutazione dei dati percettivi con disorientamento e falsi riconoscimenti) e crepuscolo (diminuzione selettiva, come nel sonnanbulismo) quando c'è una riduzione della vigilanza, che si traduce in una riduzione della quantità di scambi che avvengono fra il soggetto e l'ambiente.

Nello stupore vi è immobilità e apatia e il soggetto reagisce solo a stimoli

dolorosi. Si parla infine di onirismo o oniroidismo quando lo stato confusionale si

arricchisce di automatismi e fenomeni allucinatori (simili a quelli del sonno) e dello stato ipnoide [EE, p. 810].

Alterazioni patologiche degli stati di coscienza Più precisamente si descrivono quattro alterazioni patologiche principali

dello stato di coscienza: stato ipnoide o torpore, indicato anche come ottundimento, offuscamento,

obnubilamento, ecc., condizione in cui la coscienza è alterata in modo tale che solo stimoli molto forti possono provocare una reazione; si manifesta clinicamente nello stato di torpore e in condizioni normali nel dormiveglia; vi è un'alterazione puramente quantitativa con ideazione e reazioni torpide ma la distinzione tra realtà e fantasia è mantenuta;

stato crepuscolare: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare

orientato e, in condizioni paranormali, nel sonnabulismo; vi è un restringimento del campo di azione della coscienza che si esplica solo su un limitato ambito ideoaffettivo; il soggetto agisce come un automa, capace di eseguire solo funzioni in relazione a un determinato scopo; alcuni autori di lingua tedesca usano l'espressione "stato di coscienza ristretta";

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stato oniroide: si manifesta, clinicamente, nello stato oniroide; vi è un'alterazione della coscienza "qualitativa" più che "quantitativa"; lo stato di coscienza non è frammentato, come nell'amenza , né ristretto a pochi temi di esperienze come nel crpuscolo, ma mutato per la pressnza di una vivace produzione delirante fantastica e di alterazioni psicosensoriali, che si mescolano all'esperienza della realtà obiettiva esterna e interna; il malato ha buona o discreta possibilità di orientamento nel tempo, nello spazio e nelle persone, a eccezione degli elementi elaborati e strutturati dalle sue credenze fantastiche, rinforzate da allucinazioni, illusioni e interpretazioni morbose della realtà e dei ricordi;

stato onirico: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare onirico (o

stato crepuscolare disorientato) e nello stato amenziale, disturbo analogo al precedente ma assai più accentuato; il paziente è disorientato, l'ideazione parcellare, e non c'è nessuna distinzione fra realtà e fantasia.

Per alcuni autori l'espressione stato confusionale si riferisce solo a questi

ultimi casi (i più gravi); invece per altri autori indica, in generale, ogni stato di alterazione della coscienza.

Assenze epilettiche, sincopi, lipotimie, si configurano come sospensioni

perdite totali, ittali della coscienza, in genere fugaci. Una perdita completa e durevole della coscienza dalla quale il paziente non può essere risvegliato mediante stimoli, anche energici, si osserva nel coma.

Il termine stupore, indica un disturbo psicomotorio e non della coscienza. Il

concetto di coscienza non va confuso con quello di vigilanza che ha un significato più limitato, prevalentemente quantitativo, e si riferisce alle basi neurofisiologiche della coscienza stessa.

Coscienza dell'Io Concetto di K. Jaspers usato soprattutto nella psichiatria tedesca (ted.:

Ichbewusstsein). Indica "il modo" nel quale l'lo è consapevole di se stesso; Jaspers vi riconosce quattro caratteristiche formali:

a) attività dell'Io, in senso lato (ogni attività psichica cosciente ha un

"contenuto in Io", un "carattere personale", è riferita all'Io: Io percepisco, Io sento);

b) coscienza dell'unità: Io sono uno; c) coscienza dell'identità: Io sono sempre Io;

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d) sentimento dell'Io contrapposto al mondo esterno. Rientrano fra i disturbi della coscienza dell'Io, così intesa, i fenomeni di

deperso- nalizzazione. Coscienza morale (conscience) Quelle strutturazioni psichiche che si oppongono alla libera espressione

delle azioni istintuali. È collegata agli atteggiamenti morali, estetici ed etici dell'individuo. Secondo Freud quando gli atteggiamenti, i divieti e i comandi dei genitori prendono posto nell'inconscio per formare il Super-Io, quest'ultimo diventa la coscienza morale.

Più avanti nello sviluppo, quando il bambino comincia a emulare altre

persone, fuori della cerchia familiare e si forma un ideale dell'Io, acquista un'altra coscienza.

Tra le due, tuttavia, esiste continuità. La funzione della coscienza è di ammonire l'Io al fine di evitare le

sofferenze provocate da profondi sentimenti di colpa. "La coscienza diventa patologica quando (a) funziona in modo troppo rigido

o troppo automatico, sicché il giudizio realistico sul l'esito reale di azioni intese viene disturbato ("Super-Io arcaico'", oppure (b) quando avviene la disintegrazione verso il "panico" e si sperimenta un senso maggiore o minore di annichilimento totale invece di un segnale di avvertimento, cosa questa che accade nelle depressioni gravi" .

Coscienza e malattie mentali "La grande maggioranza delle malattie mentali, nella misura in cui queste

non sono di natura organica ben determinata, è dovuta a una disintegrazione della coscienza causata da un'invasione irresistibile di contenuti inconsci" (Jung).

Ciò significa che il materiale proveniente dall'inconscio causa più o meno

gradualmente la rottura e la disintegrazione dei contenuti della coscienza. Coscienza doppia [double, dual consciousness]: molti considerano questa

espressione sinonimo di "scissione della personalità": la scissione della coscienza implica che l'individuo viva, alternativamente, ora come una persona e ora come un'altra, ma mai come due persone simultaneamente [DPI, 1970, p. 541].

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Obnubilamento della coscienza: Quando una persona appare perfettamente

coscia di sé e di iò che la circonda, oritentata nel tempo e nello spazio si dice che ha il suo "sensorio" è integro.

Al contrario c'è Obnubilamento della coscienza quando appare disorientata

e confusa; si dice che ha sensorio alterato. Sensorium (dal lat.), indica la sede centrale delle sensazioni localizzata nella circonvoluzione parietale ascendente, ma occasionalmente l'intero apparato sensariale.

Coscienza di malattia è la consapevolezza del paziente di essere malato.

Sempre presente nelle nevrosi, manca spesso, invece, nelle psicosi. Coscienza primitiva: tipo di Super-Io derivato dal passato arcaico

dell'uomo. Scissione della coscienza: Quando un insieme di esperienze, una

rappresentazione mentale, esistono, come per esempio nell'isteria, essenzialmente isolate nella coscienza, senza associazioni con altri contenuti della coscienza stessa, si dice che vi è una scissione della coscienza. È una delle (tante) forme di "difesa" dell'"Io".

NEUROLOGIA, COSCIENZA, MALATTIA MENTALE, E FARMACOLOGIA Sarebbe molto interessante esaminare la dimensione della coscienza in

rapporto alla malattia mentale: coscienza e pazzia. Come anche gli effetti dei farmaci sulla coscienza.

Com'è la coscienza del pazzo? Perché arriviamo a pensare di essere tutti un

po' pazzi? E a dire che forse i pazzi vedono meglio dei sani? Infine per l'aspetto neurologico della coscienza, che strettamente inteso

esulerebbe dagli obiettivi della presente ricerca, rimando a un ottimo recentissimo e completo trattato di neurobiologia, quello di W. Nolte .

IV La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico nella teologia morale e nella mistica

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"Per coscienza morale si intende quell'insieme di processi cognitivi ed

emozionali che sono alla base della formazione di una guida interiore che regola la condotta individuale, in armonia con i valori riconosciuti dal gruppo sociale di appartenenza.

I processi cognitivi sono indispensabili per la conoscenza delle norme e per

la valutazione della conformità delle proprie azioni alle medesime; i processi emozionali, come la paura, la colpa e la vergogna, sembrano necessari, in una prima fase detta "eteronoma", alla promozione di comportamenti conformi" [DPL, 1992, p. 238].

Montaigne faceva osservare che "le leggi della coscienza, che noi pensiamo

traggano origine dalla natura, nascono, in effetti, dalla consuetudine: ogni uomo, onorando nel suo intimo le opinioni e i costumi sanzionati e recepiti nel proprio ambiente, non riesce a disfarsene senza rimorsi, né adeguarvisi senza compiacimento" (Essais, I, 23).

Della rilevanza che ha l'ambito di significato morale per il concetto di

coscienza ho già detto anche nel capitolo primo. Ne ho esaminato la pregnanza semantica nell'ambito morale.

Qui ora specificherò soprattutto l'importanza del concetto nella storia del

pensiero teologico morale cristiano. De esso emerge una fondamentale chiarificazione culturale: la distinzione

nel concetto di coscienza di due dimensioni: coscienza fondamentale e coscienza attuale - come le chiama A. Valsecchi [DETM, 1985, pp. 166-182] - l'una come nucleo originario della totalità della persona umana, l'altra come funzione derivata di discernimento morale.

Tale distinzione è di grande attualità e permette, a mio parere, la

possibilità di rifondare una riflessione spirituale della coscienza. Ma osserviamo da dove deriva tale distinzione.

La coscienza nella Gaudium et spes È molto interessante un passo di un fondamentale documento del Concilio

Vaticano II, Gaudium et spes dove leggiamo: "La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali. Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le

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persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità

"Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi,

ma alla quale invece deve obbedire. [...] La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali. Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità".

Il problema della coscienza è diventato dunque un fenomeno centrale dei

nostro tempo; e anche nella riflessione morale cristiana sta riscuotendo una singolarissima attenzione. Alla lunga, doveva essere questo lo sbocco di un processo di "coscientizzazione" che è rilevabile anche nell'ambito della nostra cultura occidentale.

Essa è passata da una esaltazione unilaterale della legge oggettiva (la

legge della polis o lo jus dello Stato romano, ma anche il logos universale della filosofia stoica, di cui la coscienza dovrebbe semplicemente essere un'eco e un riflesso, se non addirittura una "serva"), a fasi successive di sempre più netta responsabilizzazione della persona e di valorizzazione dei carattere originario della sua coscienza [DETM, 1985, p. 166].

Alcuni fattori sono intervenuti oggi ad acuire e accelerate i dibattiti sulla

coscienza, ad esempio, il diffondersi del pluralismo ideologico e la sensibilità sempre più vasta e profonda ai metodi democratici; il relativizzarsi delle norme oggettive e assolute, a vantaggio del contesto culturale in cui l'uomo vive (è questo il frutto della riflessione funzionalista e strutturalista) e della storia dinamica di questo contesto (apporto, tra i più cospicui, della riflessione marxista).

Un'analoga svalutazione dell'oggettività morale è venuta dallo studio (è

soprattutto la psicanalisi che l'ha condotto) dei processi e dinamismi psicologici che sorreggono e spiegano il formarsi delle nostre idealità morali, all'interno della storia concreta di ogni persona e dei rapporti affettivi più profondi e primari nei quali si è svolta.

Senza dire della rapidità di trasformazioni che caratterizza la vita del nostro

secolo, e fatalmente emargina i dettati giuridici e canonici, incapaci di adeguarsi altrettanto rapidamente alle mutazioni: non senza causa lo stesso Magistero della Chiesa ha cominciato ad affidare esplicitamente alla coscienza dei singoli fedeli la decisione del comportamento da assumere su problemi non piccoli, come quelli riguardanti l'impegno politico-sociale o certi aspetti della vita familiare.

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L'attualità e il fervore di tutti questi sviluppi impongono ai teologi moralisti

un accresciuto impegno di analisi e di costruzione teologica attorno al tema della coscienza; e in pari tempo indicano la difficoltà e spiegano il carattere provvisorio dei risultati a cui potrebbe giungere.

LA COSCIENZA NEL PENSIERO BIBLICO Il tema della coscienza costituisce un punto nodale dell'esperienza umana

quale si rileva nella parola biblica, anche se il termine "coscienza" si trova solo rarissime volte nell'AT (Ecl 10,20; Sp 17,10); e neppure una volta ricorre nei Vangeli.

Al contrario, 31 volte lo si ritrova negli scritti apostolici; più precisamente,

21 volte in S. Paolo, e le altre 10 volte in bocca a S. Paolo (come in At 23,1; 24,16), ovvero in scritti strettamente imparentati sotto il profilo dottrinale o lessicale con le lettere paoline (come nell'epistola agli Ebrei e nella prima di Pietro).

Si è dunque tentati di pensare che la dottrina della coscienza sia una novità

dell'Apostolo delle genti: una tra le non poche originalità del suo pensiero morale. Ciò è, per molti aspetti, vero. Fu S. Paolo a elaborare perfettamente la nozione di coscienza come regola di vita: utilizzando senz'altro certi concetti della filosofia ellenistica del suo tempo (quella "popolare" e moraleggiante soprattutto, ove confluiva in pratica l'insegnamento delle varie scuole); e arricchendoli dei numerosi apporti che gli provenivano dalla sua formazione giudaica (in particolare, la ricchissima nozione biblica di "cuore") e della sua teologia cristiana: qui, infatti, la dottrina della coscienza veniva a contatto con quelle del primato della carità, dell'inabitazione dello Spirito Santo, dell'attesa escatologica [DETM, 1985, p. 168].

Ma sarebbe sbagliato esasperare l'originalità paolina perché il messaggio di

Cristo appare, contro il conformismo tradizionale, come un perentorio appello alla coscienza.

Dunque, pur non trovando nella Bibbia prima di S. Paolo, il termine di

"coscienza", se ne trovano i contenuti, come del resto avviene anche per il pensiero ellenistico - ove il termine è rarissimo - ma vi si incontra, espressa in altri modi, una ricca tematica sulla coscienza.

La coscienza nell'Antico Testamento

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L'assenza del concetto di coscienza in senso preciso nell'Antico Terstamento "non è una lacuna in un contesto tanto esistenziale e concreto, dove l'uomo è visto sempre nella totalità del suo rapporto con Dio" . Chiamato all'alleanza con Dio, anzi costituito esistenzialmente da essa, l'uomo dell'AT è in continuo ascolto della divina Parola: Parola che gli si rivolge, lo penetra e lo investe, lo rende consapevole del significato di ogni sua attività; ascolto, nel quale l'uomo trova la sua sapienza e il discernimento tra il bene e il male: "custodisco nel cuore la tua Parola, per non peccare contro di te" (Sal 119,11). L'esigenza morale scaturisce essenzialmente da un tale incontro fra Parola di Dio e ascolto obbediente dell'uomo, e ogni giudizio etico appare il frutto della vitale percezione di valori che quell'incontro mette in movimento [DETM, 1985, p. 167].

Il "cuore" all'origine dell'uomo Il "cuore" è appunto questa costitutiva interiorità dell'uomo, ove la Parola

di Dio giunge come un giudizio (Gn 3,8ss; Gs 14,7; 1 Sm 24,6; 2 Sm 24,10; Ecl 7,22; Gb 27,6): cuore contrito, cuore "nuovo", cuore convertito, se accoglie quella Parola, divenendo la fonte intima di ogni risoluzione religiosa e d'ogni valutazione morale (cfr Dt 4,39; 30, 6-8; 1Re 3,9; 8,38; Is 51,7; 57,15), cuore indurito, sordo, ottenebrato, se la Parola non vi risuona più e i valori morali, di conseguenza, non vi sono più riconosciuti (Ez 2,3-4; Zc 7,12; Sal 95,8-10). Così, tutta la condotta dipende dalla decisione del cuore: Dio si ama con il cuore (Dt 6,5) e lo si tradisce con il cuore (Ez 6,9); e "il cuore vigile alla voce di Dio o convertito dal suo perdono è testimone del valore morale della condotta dell'uomo alla presenza di Dio".

È allora esatto concludere che, pur non trovando nell'AT un termine

specifico per indicare la coscienza, vi sono tuttavia riscontrabili e notevoli i fenomeni descrittivi di questo fatto originario. V'è poi da ricordare un dato rilevantissimo, anche se implicito, soprattutto in quei testi nei quali il "cuore nuovo" è un dono che appare fatto all'intero popolo d'Israele. Il singolo, cioè, non è in primo piano: sono in primo piano la comunità e gli eventi salutari che ne costituiscono la storia. E perciò, quel che il cuore suggerisce al pio israelita, non è un mistico dettame divino che vi risuoni; è invece una parola ascoltata dalla tradizione comunitaria a cui quell'uomo appartiene: e non come semplice richiamo di un precetto dato una volta per tutte (sarà questa l'interpretazione letteralistica e riduttiva dei farisei), ma come proposta raccolta dal vivo della storia salvifica di cui egli fa parte.

La coscienza nei Vangeli

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Ciò vale anche per i Vangeli. Basta pensare al profondo processo di interiorizzazione cui è sottoposta la vita morale nell'insegnamento di Gesù, e al ruolo che vi assume il cuore, come testimone del valore etico e luogo ove si intrinseca la volontà di Dio.

Il discorso della montagna richiede come fondamento dell'agire morale

un'interiore decisione che va ben oltre la semplice fedeltà a determinati precetti: povertà secondo lo spirito; purezza di cuore, poiché appunto da esso nasce il peccato e ogni attaccamento alle cose terrene; occhio semplice e luminoso che rischiari intimamente tutta la condotta (Mt 5,3.8.28; 6,19-23).

Questa insistenza a porre nel cuore il centro della vita morale, è cosa

caratteristica nelle parole del Maestro, egli stesso "dolce e umile di cuore" (Mt 11,28-30). Non devono essere in ordine le azioni, come era la preoccupazione dei Farisei, ma la sede più profonda della nuova giustizia, il cuore: lì vien seminata e deve fruttificare la Parola di Dio (Mt 13,19), e solo da un cuore puro si possono trarre le buone azioni, le parole buone, il perdono misericordioso e quanto più conta nella legge, la giustizia, la misericordia, la fedeltà (Mt 12,34, 18,35; 23,23-26); mentre a nulla varrebbe osservare la legge con la precisione più minuziosa, se poi il cuore è accecato e maligno: poiché da una simile fonte impura rigurgita ogni cattivo pensiero e ogni azione immonda che imbratta l'uomo e, buona solo all'apparenza, è abominevole a Dio (Mt 9,4; 15,18-20; Mr 7,18-23; Lc 16,15).

Da un tale messaggio balza chiaramente che il giudizio sulla bontà o meno

della nostra condotta è interiore, viene elaborato in quella profondità personale da cui essa procede, il cuore: ed è un giudizio a cui non si può sfuggire.

Ma risulta altresì chiaro che questa fonte interiore può inquinarsi, questo

intimo foro giudicante può lasciarsi corrompere, quest'occhio scrutatore può essere accecato (Mt 6,23ss; Lc 11,35: "Bada che la luce che è in te non si spenga: quanto sarebbe grande la tua tenebra!"). Tragica ambivalenza del cuore: dà il valore etico all'azione, e insieme può farsi complice dell'iniquità. È qui che comincia chiaramente a delinearsi l'esigenza di una continua conversione del cuore: di una educazione della coscienza (usiamo pure questo termine ignoto ai Vangeli) che avvenga sotto lo sguardo di Dio, e quindi nella verità.

E anche in Gesù il criterio per la purità del cuore non è un richiamarsi

astratto e quasi individuale all'originaria Parola di Dio: anche i farisei potevano richiamarsi a questa Parola e osservarla con scrupolosa sincerità, come senz'altro facevano per la legge del sabato. Ma è la fedeltà al rivelarsi di Dio nella storia viva della comunità che Egli chiama alla salvezza. Si onora Dio non semplicemente, in modo quasi ripetitivo, osservandone un precetto; ma secondo il senso che esso assume nella continua novità della storia (la novità, ora, è Cristo, signore anche del sabato: Mt 12,1-8 e par.). Il "giudizio su ciò che è giusto" non si elabora in un confronto estrinseco con la legge: bensì "da se stessi", e cercando di discernere l'"ora presente" (Lc 12, 54-57) attraverso i

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suoi "segni" (Mt 16,1-3). La coscienza, proprio perché si modella su un evento prima che su un precetto, non è una semplice memoria: è memoria e creatività. È un aspetto già in parte rilevato nell'AT, e che sarà ancora più preciso nell'insegnamento di S. Paolo [DETM, 1985, p. 173].

La coscienza nel pensiero paolino È con Paolo che il termine "coscienza" entra nel vocabolario cristiano: una

novità di grande rilevanza. Ma non era nuova l'antropologia soprannaturale nel cui ampio contesto la dottrina sulla sunevidesi§ riceveva tutta la sua originalità e ricchezza.

L'uomo "nuovo", di cui parla continuamente l'Apostolo, è l'uomo "in Cristo"

(formula carissima a S. Paolo): in un senso ben più alto di quello puramente psicologico, secondo una condizione che qualifica la nuova creatura all'incirca nel modo in cui ogni cosa non esiste che in dipendenza dal suo creatore. Ma ovviamente questa situazione esistenziale implica pure una percezione fondamentale di sé, che è anche intuizione di una nuova realtà morale: vale a dire, del vitale riferirsi di ogni nostra azione, proprio perché nuova, a Cristo, come a principio ontologico e a fine morale, al suo "pensiero" proprio, al suo più intimo "spirito", al suo "sentimento di carità". Termini tutti che, pur con una propria sfumatura, sono concretamente coincidenti e interscambiabíli: vivere "in Cristo", "secondo il suo Spirito", compresi del suo pensiero, chiamati alla sua carità, sono formule analoghe per esprimere l'accadimento fondamentale (la propria "reazione" in Cristo) in quanto comporta un'istanza morale radicalmente nuova.

È la fede che rivela quell'accadimento e questa istanza: o, che è lo stesso,

è la coscienza: una "buona coscienza" (2Co 1,12; 1Tm 1, 5,19; 1Pt 3,16; Eb 13,18), una "coscienza pura" (1Tm 3,9; 2Tm 1,3), una coscienza "emendata col sangue di Cristo" (Eb 9,12).

"Fede", "coscienza" e "cuore" La "fede" si identifica con una tale "coscienza": al punto che il ripudio della

buona coscienza è un naufragio nella fede (1Tm 1,5). Vediamo dunque che per Paolo (che per primo usa questo termine) la

"coscienza" ricopre il ruolo che era assegnato al "cuore" nella precedente riflessione biblica (anche se meno chiaramente): è l'intimo soggettivo esprimersi, al centro dell'io, della trasformazione salvifica operatasi in noi; è la profonda e sintetica presa di coscienza, possibile nella fede, del proprio esistere in Cristo e dell'istanza morale costitutivamente nuova che ne scaturisce.[DETM, 1985, p. 174].

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È un concetto globale di coscienza che la successiva riflessione cristiana ha

spesso lasciato cadere, come ha lasciato cadere la nozione biblica di "cuore": esso va premesso alla comune nozione di coscienza come funzione delle singole valutazioni etiche e come insieme di giudizi morali conseguenti.

Anche la nozione "popolare" di coscienza, come testimone o giudice

interiore delle proprie azioni personali, è esposta dall'Apostolo. In Romani 2,15 egli scrive che i pagani "mostrano scritta nei loro cuori la realtà della legge, poiché ad essa rendono concorde testimonianza la loro coscienza e quei pensieri che, succedendosi a vicenda, ora li accusano ora li difendono": l'immagine di un dibattimento nell'intimo tribunale della coscienza è molto eloquente.

La testimonianza interiore della coscienza si compie, secondo Rm 9,1,

"nello Spirito Santo": componente nuova dei giudizio di coscienza, che esprime a livello concreto e operativo l'originalità propria della coscienza cristiana come fondamentale percezione e assunzione della salvezza compiuta in ciascuno da Cristo.

È la stessa "testimonianza della nostra coscienza" che S. Paolo oppone ai

Corinti (2Co 1,12) per difendersi dalla loro accusa di incostanza: come opporrà la sua coscienza "perfetta" ed "intemerata" alle imputazioni processuali di Gerusalemme e di Cesarea (At 23,1; 24,16).

Le qualificazioni date alla coscienza in queste ultime citazioni, richiamano

quelle già note delle lettere pastorali di coscienza "buona" e "pura". E incontestabilmente, oltre al significato fondamentale già indicato, esse segnalano pure quella nota di rettitudine e verità che la coscienza, come funzione di discernimento morale, deve senz'altro possedere. È per questo che una "cattiva coscienza" (Eb 10,22), una "coscienza macchiata" e "segnata dal marchio (di Satana)" - sono espressioni anch'esse presenti nelle lettere pastorali (Tt 1,15; 2Tm 1,3) -, una coscienza cioè connivente col male, non potrebbe fungere da giudice e testimone veritiero: sarebbe semplicemente il segno e il frutto dell'incredulità o dell'apostasia dalla fede. La buona coscienza si costruisce nella fedeltà alla comunità e alla storia della salvezza, la quale è entrata oramai con la risurrezione di Cristo nel suo momento decisivo.

Ma che dire della coscienza che è fuori dalla verità, per debolezza o errore?

È un'ipotesi, per noi molto ovvia, ma che nel pensiero biblico appare solo con S. Paolo: e proprio qui, nell'affermare il diritto - come noi lo chiamiamo - della coscienza erronea, l'Apostolo ha lasciato l'impronta della sua forte personalità.

La prima occasione di affrontare il problema S. Paolo l'ebbe nella cosiddetta

questione degli "idolotiti" (1Co 8). Potevano mangiare carne sacrificata agli idoli, o non era partecipare a un culto idolatrico?

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La risposta di Paolo è perentoria: se ne può mangiare, perché gli idoli non

sono niente. Tuttavia, si deve badare a due cose: se qualcuno ritiene che quel mangiare sia un atto idolatrico, non lo deve fare; e anche i "forti" devono astenersene, se il loro esempio fosse di inciampo ai fratelli più "deboli" nel seguire la loro personale convinzione di coscienza.

Occorre perciò rispettare la coscienza altrui, quand'anche non sia nella

verità: la libertà che nasce da una coscienza convinta non è una libertà completa che non ammetta ingerenze. Se mai - ed è l'elemento che l'apostolo aggiunge nel risolvere la seconda questione: quella degli alimenti impuri (Rm 14) - occorre adoperarsi per avere una "convinzione sicura". Dalla "scienza" sappiamo che non vi sono cose impure; e tuttavia vi sono fedeli titubanti e incerti, ai quali anche la cosa più onesta può sembrare compromettente: sono bensì nel vero, ma senza convinzione interiore e maturata, avendo invece il dubbio di fare cosa disonesta: ebbene, "se colui che è nel dubbio, mangia, è condannato, non avendo agito con convinzione; tutto ciò che non è fatto con sicurezza di coscienza, è peccato".

La coscienza come primato, soggetto solo alla carità È quindi determinante la convinzione intima che si ha davanti a Dio: è un

diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto. Tale, almeno, se considerato come primato della persona.

Se Newman pone la coscienza al di sopra dell'autorità, non proclama nulla

di nuovo rispetto al permanente magistero della Chiesa. La coscienza, come insegna il Concilio, "è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria" [Piana, EC, 1997, p. 191].

Ma essa ha un'istanza superiore e universale, alla quale deve coordinarsi e

subordinarsi: la carità fraterna. In termini a noi più familiari, "l'affermazione può essere così espressa: l'istanza personale diviene assoluta nel momento in cui ha assunto l'istanza interpersonale": la libertà che la coscienza sommamente possiede in base alla sua "scienza", non può attuarsi "se non nel rispetto della coscienza altrui, sia pure debole, e nell'edificazione per mezzo della carità" [Molinaro, 1971, pp. 25-26].

"Il giudizio di coscienza si estende su tutto, guida la vita intera: non ci sono

scelte che sfuggono alla sua responsabilità. Però la buona coscienza non è quella uniforme, ugualmente puntigliosa su tutto, bensì quella che nasce da un centro da un criterio di fondo (i biblisti direbbero "il canone del canone") a cui sente il bisogno di continuamente riferirsi nelle sue valutazioni: la carità" (B. Maggioni).

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Resta comunque la forte affermazione di Paolo, che cioè la coscienza è obbligante anche se oggettivamente erronea: affermazione che ha anche il merito di togliere al discorso sulla coscienza ogni carattere mitico. "Se è vero che essa rivela la voce di Dio, è anche vero che potrebbe oggettivamente sbagliare: la voce di Dio non si affaccia alla coscienza in modo miracolistico; si affaccia nell'autenticità dell'uomo, nella normalità, e ne accetta il limite" (B. Maggioni).

La prima dimensione della coscienza morale: struttura "originaria"

dell'uomo Dal quadro biblico tracciato il dato più rilevante che emerge è la

considerazione della coscienza a un duplice livello di profondità. Anzitutto la coscienza appare come l'evento centrale dell'interiorità

cristiana, attraverso il quale l'intera persona si coglie come esistente in un nuovo rapporto ontologico (con Dio in Gesù Cristo) e di conseguenza intuisce e decide il nuovo ordine di valori etici che ne deriva. È il momento globale e fondamentale della coscienza come "struttura morale originaria": cuore pulsante da cui poi scaturisce ogni particolare esercizio di interiore valutazione etica.

La seconda dimensione della coscienza morale: "funzione" di discernimento

e giudizio L'altro piano, meno profondo, della coscienza è similmente presente in tutti

quei testi biblici nei quali è descritta come funzione specifica del discernimento e giudizio morale sulla propria condotta e vengono indicate le qualità per cui è autenticamente normativa (veridicità e fermo convincimento).

Questa duplice considerazione della coscienza (come elemento originario

dell'uomo o come funzione derivata di discernimento) è presente nella storia del pensiero cristiano, ma il secondo aspetto ha finito per prevalere fino a diventare l'unico nella teologia postridentina e nelle discussioni che hanno portato all'organizzazione dell'attuale trattato De conscientia.

Distinguere, nell'esposizione storica, i due aspetti della dottrina sulla

coscienza, equivale perciò grosso modo a dividere quella storia in due fasi: una più antica e una più recente.

LA COSCIENZA NELL'EVOLUZIONE DELLA TEOLOGIA MORALE:

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DALLA SINDERESI ALLA CONSCIENTIA Una storia dell'insegnamento tradizionale cristiano sulla coscienza è ancora

da scrivere. Esistono però numerosi studi monografici che illuminano l'uno o l'altro momento di quella storia [DETM, 1985, p. 181, n. 13].

Nella riflessione più antica la coscienza è ritenuta l'evento centrale della

soggettività cristiana. Ed è proprio questo aspetto che, secondo me, andrebbe recuperato oggi ed è ancora di grandissima attualità. Ma bisogna saper superare la visione funzionalistica della coscienza nella riflessione morale.

Origene Per Origene la coscienza emerge come interiorità da cui fiorisce tutta

l'attività religiosa e morale: "sede della coscienza funzionale, base degli affetti dell'anima, intimo testimonio dei fenomeni religiosi, centro della vita morale e quindi anche dei peccati, camera segreta delle più ascose emozioni". Si evidenzia in tal modo il carattere essenzialmente pneumatico della coscienza: la sunevidesi§, addirittura, si identifica con il pneuma: con la realtà che costituisce più autenticamente l'uomo salvato, nella quale egli si coglie come "vivente nello spirito" e ove si compie quell'interiorizzarsi del comprendere e dell'agire che costituisce la peculiare novità dell'esistenza cristiana.

In Girolamo (commento a Ez 1,1), ove la sunthvrh§is (termine da cui verrà

quell'altro di sinderesi) o "scintilla conscientiae" è presentata come la parte suprema dell'uomo, "spirito" che corregge e guida la ragione e l'appetito, interiorità specifica che conseguentemente è fonte di inestinguibili giudizi sul bene e sul male.

Agostino: l'uomo è la sua coscienza E soprattutto in Agostino: "se l'essenza dell'uomo è l'interiorità, la

coscienza come interiorità dell'uomo lo definisce nella sua qualità centrale: l'uomo è la sua coscienza, ritrova se stesso nella sua coscienza, che contiene e gli detta la norma del valore morale".

Nell'insegnamento agostiniano un testo fondamentale è quello

dell'Enarratio in Ps. CXLV (PL 37,1887): qui la coscienza appare la parte più riposta e più spirituale dell'anima, quella che si identifica con l'uomo interiore; la "mens superior" già sin d'ora "inhaerens Domino et suspirans in illum", aperta perciò a vedere quel che si deve temere, desiderare, cercare, lodare ed amare. Per questo, se molte volte coscienza e cuore si identificano, altre volte la coscienza appare il centro del cuore, "ventre dell'uomo interiore" (In Johan. 7,37-59.- PL 35,1643). Abisso "in cui abita Dio, di essa unico teste ("forte tu non invenis aliquid in conscientia tua, et invenit ille qui melius videt, cuius acies divina penetrat altiora", Sermo 93: PL 38,578), essa ha l'unica "sedes

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Dei": "qui nullo capitur loco, cui sedes est conscientia piorum" (Enar. in Ps. XLV: PL 36,520); e Dio vi irrompe come "testis, iudex, approbator, adiutor, coronator" (Enar. in Ps. CXXXIV: PL 37,1476) [DETM, 1985, p. 171].

In conclusione, una concezione globale e unitaria della coscienza, che

identifica la coscienza con l'"io" più delicato e più unificante, più consapevole e più essenziale, dell'uomo nuovo e non si sofferma sul frammentarismo delle distinzioni, che invece pulluleranno nei trattati degli ultimi secoli (tra i vari tipi di coscienza e le varie "doti" che la connotano).

In questa visione globale va posta la concezione che ne deriva della

coscienza come funzione di valutazione etica, educata a discernere e decidere il bene dal male. Si cercherebbero invano, negli scritti patristici, le nostre precise definizioni; ma è tuttavia presente in essi una chiara dottrina sull'educazione della coscienza.

Per Agostino, ad esempio, non una coscienza qualsiasi può guidarci; ma

solo quella illuminata dalla Scrittura, dalla fede, da Dio: solo la "bona conscientia": da cui proviene la "tranquillitas cordis" (Sermo 270: PL 31,1242), e che è "magnum gaudium piorum" (Enar. in Ps. LIII: PL 36,625) e rifugio rassicurante di ogni oppresso ("ubi est requies? saltem in cubiculo cordis ut tollas te ad interiora conscientiae tuae", Enar. in Ps. XXXV: PL 36,344).

Al contrario, l'oscurità amata rende gradatamente più languido l'occhio

dell'anima: e così illanguidito, l'uomo si trova non solo impigliato ma sepolto in quella coscienza cui ha rifiutato il compito di guida.

Ambrogio È, però, S. Ambrogio l'autore che si è più lungamente soffermato sugli

aspetti derivati della coscienza: almeno nella sua opera morale più rilevante, e cioè il De officiis ministrorum. Qui, compito della coscienza è discernere il merito del giusto e del peccatore (1,44); è un atto interno di ogni singolo uomo, così da potersi dire suo giudizio (1,45; 11,2), sua testimonianza (1,18) percepita dai sensi interni (11,2), per cui l'uomo è consapevole degli atti compiuti (1,18,21); ad essa soltanto è riservato il giudizio sul valore morale delle azioni eseguite, sicché l'uomo, indipendentemente dal giudizio altrui, è innocente o colpevole di fronte a se stesso (1,18,21,45-46,233,236). La tranquillità della coscienza è cibo che sazia veramente (1,163), è il vero bene (1,236), a confronto del quale la voluttà dei corpo e tutto ciò che è giudicato bene dal secolo scompare allo stesso modo della luce della luna e delle stesse stelle al sorger del sole (11,1); è una soavità interiore che vince ogni sofferenza (11,10,12, 19). Per il peccatore, invece, la ferita della coscienza è tormento (111,24), è tomba che esala cattivi odori (1, 45-46). Nel compiere il suo incarico di giudice, comunque, la coscienza non può essere né ingannata né corrotta (1, 44,233): a questa condizione, essa è vera legge e norma per il

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giusto, al quale non occorre più la promulgazione di una legge e la comminazione di una sanzione (III,31).

LA SCOLASTICA E LE DUE CONCEZIONI DELLA COSCIENZA La riflessione della Scolastica, e particolarmente quella della scuola

domenicana, cercherà di riunire le due concezioni (originaria e derivata) di coscienza nella dottrina, che distingue tra sinderesi e coscienza.

La sinderesi è la coscienza originaria, innata e sintetica percezione dei

valori morali dell'esistenza cristiana. Invece la conscientia è un atto che applica quella unitaria e dinamica

intuizione ai casi e alle azioni concrete. Ma già in questa teologia, come poi soprattutto nella riflessione posteriore, l'accento viene posto sempre più distintamente sulla conscientia: e cioè, sulla coscienza come funzione o come atto applicativo, ai singoli comportamenti, di quel dinamisrno vitale che si pone come radicale "presa di coscienza" del senso e dell'orientamento del proprio esistere cristiano.

A provocare questo spostamento di interesse era stata la controversia tra

Bernardo e Abelardo: testimone, il primo, della concezione più antica, globale e pneumatica, della coscienza; artefice, il secondo, di una considerazione innovata di essa, che ne metteva in luce il valore specifico di funzione etica mediatrice.

I punti da cui partono i due illustri avversari sono molto distanti; come, del

resto, è immensamente diverso l'ambiente culturale e spirituale al quale appartengono.

Bernardo di Chiaravalle Bernardo è monaco. La teologia monastica profondamente alimentata dalla

Scrittura, in stretta dipendenza dalla letteratura patristica, diffida di un impiego troppo esteso della dialettica, mentre vuole per l'approfondimento del messaggio rivelato disposizioni di umiltà e semplicità, di orante rispetto per il mistero: ed è con tale metodo che si accosta preferibilmente, tra i molti oggetti teologici, alla inesauribile problematica dell'unione dell'anima con Dio.

Proprio la coscienza - la coscienza umile e purificata, la coscienza devota e

sottomessa - è il luogo ove si svolge questo intimo dialogo dell'uomo con Dio, questo farsi presente di Dio e questo elevarsi dell'uomo all'unione con lui.

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Così il tema della coscienza diventa tra i più cari a questi uomini, attentissimi ai fatti interiori: è sintomatico che esistano due trattati pseudobernardini sulla coscienza, e un De conscientia di Pietro di Celle. Sono le prime opere nella letteratura cristiana che portino questo titolo. Una coscienza che sia specchio terso della luce di Dio, l'eco fedele della sua voce, il testi- mone veridico della sua presenza - ecco la coscienza cristiana. Una coscienza "vera", che sia la perfetta corrispondenza soggettiva dell'oggettiva volontà di Dio.

E questi uomini moltiplicano le immagini: S. Bruno, Pietro di Celle,

Guiberto, Tornmaso cistercense, Ruperto di Deutz, non si fermano neppure dinanzi a rappresentazioni ardite e peregrine, per "dipingere" questo segreto e puro recesso della coscienza, ove si consuma l'unione con Dio. E c'è un campo in particolare dal quale attingono le loro allegorie - quasi trasfigurando (o sublimando) in altri termini spirituali quel che la vocazione aveva loro imposto di lasciare: la vita nuziale.

E questo pure è sintomatico, per chi conosca con quanta profondità e

frequenza l'amore nuziale sia diventato, per i mistici, l'immagine, insieme più semplice e più alta, dell'unione nostra con Dio.

I mistici medievali e la coscienza come "sposa" Questa "buona coscienza" è dunque la più bella delle donne, la regina

preparata a ricevere il re; è sicura e irreprensibile come una sposa forte e fedele; "bona coniux in cubili": è l'inseparabile sposa che ti accoglie nel suo abbraccio pieno di pace (mentre "mala uxor" è la cattiva coscienza: donna insopportabile e iniqua): è la moglie gloriosa nel cui bacio lo sposo si allieta. La buona coscienza è la camera nuziale; o anche, è il talamo nuziale (invero, nella fantasia descrittiva di questi monaci austeri anche nel sonno, un giaciglio abbastanza povero e spoglio): il "talamus Dei", il "tectus Celestis sponsi" che ha per materasso la purità, per guanciale la tranquillità e per coperta (ecco tutto!) la sicurezza.

La coscienza retta è come la fanciulla ancora acerba ("quia ubera nondum

habet per- lectionis"), eppure già amata e in attesa di pervenire, in cielo, "ad contubernium Dei".

Si capisce, in questa concezione della coscienza, quanto appaia necessario

che essa sia in tutto monda e fedele a Dio, goda cioè di una verità completa: come vi si potrebbero compiere gli sponsali con Dio, se essa fosse difettosa e sordida? Ma non potrebbe accadere - dice Bernardo - che la coscienza, senza sua colpa si inganni? Che ritenga un bene ciò che in realtà non è bene? Sarebbe, essa, in tal caso, ugualmente retta, e quello ugualmente un bene?

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La questione a Bernardo era stata posta da alcuni monaci di Chartres: poiché - essi avevano scritto - quando si crede di far male, pur agendo bene, ci si dice che la nostra azione è cattiva, alla stessa maniera si dovrà dire che un'azione è buona quando è compiuta in buona fede, anche se fosse in se stessa cattiva.

Non è così, risponde Bernardo: non basta la buona fede; occorre la verità:

come potrebbe passare per vera agli occhi del Dio della verità, una coscienza falsa, sia pure in buona fede? È perciò ugualmente peccato, benché meno grave, anche il male compiuto in buona fede.

Tutta la tradizione monastica, con la suddetta concezione mistica della

coscienza, era lì a suggerire questa risposta per noi non più comprensibile - se è viziata da qualche male, lo sappia o non lo sappia, la coscienza non può più essere il trarnite d'una mistica unione con Dio. E possiamo anche capirlo. Ma non potremo mai capire l'oggettivismo di S. Bemardo, non appena il problema si ponga nei suoi termini più strettamente morali.

Abelardo Non lo comprese neppure Abelardo. In realtà, questo teologo

spregiudicato, che concluderà la sua tumultuosa giornata a Cluny, raddolcito dall'ineffabile bontà di Pietro il Venerabile, era vissuto spiritualmente sempre al di fuori dell'ambiente monastico, a contatto invece con le nuove correnti di pensiero che facevano il loro ingresso nelle scuole urbane. Ed era stato essenzialmente un "moralista", nel senso più moderno della parola: estraneo alle dottrine (come alle esperienze) mistiche, attento invece ai problemi etici nella loro accezione più precisa.

Uno di questi, molto antico, riguardava appunto il peccato di ignoranza: se

cioè l'ignoranza sia un peccato, e ancora, se essa scusi dal peccato. Già Gregorio Magno aveva parlato, molti secoli prima, di un peccato "quod ignorantia perpetratur", accanto a quelli che si commettono "aut infirmitate aut studio": peccato meno grave degli altri, ma pur esso peccato e bisognoso del perdono divino; e citava S. Paolo (1Tm 1,13): "prima bestemmiatore e persecutore e violento, ho ottenuto da Dio misericordia per aver agito per ignoranza, non avendo ancora la fede".

La questione si era poi complicata negli scrittori successivi, spostandoci su

altri tre casi a cui la Scrittura accennava: il peccato di Eva "sedotta dal serpente" (Gn 3,13); il peccato dei crocefissori di Cristo che, secondo le parole di Gesù in croce, non sapevano quel che facevano; e il peccato di tutti i persecutori dei cristiani, convinti, come aveva indicato il Maestro, "di fare con ciò cosa gradita a Dio" (Gv 16,2).

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Che pensare di questi, e in genere di tutti i peccati commessi ignorandone la malizia? Uno spirito critico come Abelardo non poteva non reagire ad ogni concezione puramente materiale del peccato: ciò che si commette per ignoranza non è peccato, essendo essenziale al peccato l'intenzione di peccare; e sono perciò irresponsabili gli uccisori di Cristo, e i lapidatori di Stefano e ogni altro persecutore dei cristiani che agisca in buona fede.

Furono certamente queste estensioni, senza delicatezza e sfumature (ma la

souplesse non era nello stile di Abelardo) a provocare l'accusa presso Bernardo, il riconosciuto custode dell'ortodossia dell'epoca.

Tommaso D'Aquino Ma, a parte le esagerazioni polemiche, Abelardo aveva visto giusto: e di lì a

un secolo Tornmaso d'Aquino gli darà sostanzialmente ragione, pur introducendo nella questione tutte le distinzioni richieste, tra buona fede e buona fede, più o meno colpevole e perciò più o meno scusante dal peccato.

Nella visione antropologica di S. Tommaso l'uomo, creato a immagine di

Dio di cui imita la libera creatività, si costruisce attivamente attraverso il suo potere di autodecisione: e così, la coscienza non si risolve ad essere una semplice applicazione meccanica di principi alle contingenze della vita, ma è un inventare di volta in volta il modo con cui l'uomo risponde alla sua qualità di immagine di Dio, realizzando se stesso nella verità.

Nel frattempo, tuttavia, quasi tutta la dottrina monastica sulla coscienza

era andata perdendosi: e ciò non fu totalmente positivo. La controversia tra Bernardo e Abelardo è senza dubbio tra i fatti culturali

più rilevanti, che abbiano provocato il passaggio da una considerazione fondamentale della coscienza a un'altra più articolata e specifica. Ed è quest'ultima che troviamo presente, non solo nella teologia scolastica in maniera sempre più significativa (come già si è accennato), ma soprattutto nelle elaborazioni successive e in particolare nella teologia post-tridentina.

LA TEOLOGIA POST-TRIDENTINA: LA COSCIENZA RIDOTTA A "FUNZIONE

DI DISCERNIMENTO" Nella teologia post-tridentina, la coscienza diviene un semplice organo di

risonanza di una legge morale concepita più come un dato che come un compito, organo chiamato a fungere da giudice nella controversia tra libertà e legge.

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Acquistano in tal modo importanza fondamentale le leggi procedurali che la

coscienza deve seguire per varare una sentenza giusta, e in particolare una sentenza certa.

È un dibattito che è opportuno sintetizzare: non solo per l'importanza che

assunse nel tempo coinvolgendo in una grave crisi per tutto il secolo XVII e la prima metà del XVIII, la teologia morale, e che non cessò di farsi sentire anche in seguito; ma soprattutto perché esso ha fissato a lungo l'attenzione dei moralisti sul solo senso derivato della coscienza, come insieme di singoli e distinti giudizi etici.

Il probabilismo Il punto di partenza era stato fornito dal domenicano Bartolomeo di

Medina, il quale nel 1577 aveva stabilito il principio del probabilismo: "si est opinio probabilis (quam scil. asserunt viri sapientes et confirmant optima argumenta), licitum est eam sequi, licet opposita probabilior sit". Il principio ebbe successo e fu accolto da altri grandi teologi che lo perfezionarono, precisarono e applicarono a molti casi discussi. Esso del resto era di grande utilità. Si trattava di offrire una regola che permettesse dì uscire dal dubbio e di agire in tutti quei casi nei quali esistevano delle soluzioni molto contrastanti.

In simili casi, si diceva, era lecito seguire quell'opinione che apparisse

veramente probabile, anche se la contraria era ugualmente probabile o addirittura più probabile. Non si trattava, in fondo, che di applicare un principio più generale e indiscusso: "lex dubia non obligat".

Fin qui non v'era motivo di allarmarsi e nessuno osò contraddire il

probabilismo, se non altro per il grande prestigio di cui godevano i teologi che lo avevano sostenuto.

Il lassismo Se non che col tempo, quel principio, già maneggiato con minore

circospezione da qualcuno dei noti autori di Institutiones della prima metà del secolo XVII, venne da altri tamente allargato e.finì per degenerare in un nuovo principio, che fu poi detto del lassismo: che cioè, come norma morale nelle questioni discusse poteva prendersi qualunque opinione la quale avesse anche una minima probabilità di essere nel vero, fosse pure questa probabilità soltanto estrinseca, fondata sul pensiero anche di un solo autore.

Responsabili principali di questo grave fraintendimento furono parecchi di

quei "casuisti" che, fin dalla metà del secolo XVII, compilarono numerosi

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manuali di resolutiones, in cui venivano allineate interminabili liste di "casi" (ingegnosi, talora, e persino bizzarri) e indicando per ciascuno di essi, senza molto discernimento, le sentenze proposte dagli autori, comprese le più spinte.

Non era rilassatezza morale a condurre questi uomini alle loro posizioni

(erano tutti personalmente molto austeri e pii), ma piuttosto, oltre al gusto della casistica, che trovava facile alimento nel confronto delle varie probabilità, una preoccupazione di indulgenza e di raddolcimento che servissero alla fine alla salvezza delle anime.

Il giansenismo La reazione, si sa, venne in gran parte dall'arnbiente giansenista. E fu

reazione per molti aspetti provvidenziale; ma anche poco onesta, perché sotto il pretesto di combattere il lassismo iniziò a colpire la compagnia di Gesù; e comunque eccessiva, sicché finì per sostituire al le- galismo dell'opinione il legalismo della legge.

Intervenne anche Pascal (con le sue Provinciali) che mise a nudo con la sua

satira tagliente il falso legalismo casuista, ove lo spirito era soffocato dalla lettera.

Si diede però avvio a una morale eccessivamente rigida, la cui regola fissa

è che il più sicuro (tutior) sia sempre obbligatorio, e quindi alla fine ugualmente esteriore e legalista. Ed è difficile dire se abbiano provocato maggiori danni, nella elaborazione successiva della nostra disciplina teologica, lo spirito casuista o quello tuziorista.

Intervennero le condanne. Ma la condanna degli errori non poteva bastare.

Occorreva sostituire ai principi del lassismo e del rigorismo un sistema che permettesse di risolvere il dubbio nei molti casi discussi.

Probabilioristi e probabilisti Il problema era sentito come urgente, lontani come si era da un ricupero

della dottrina tomista sulla virtù della prudenza; e del resto, la ricerca di un buon "sistema" poteva passare per una operazione di prudenza. Non fu così. La polemica, infatti, non ancora sedatasi tra lassisti e rigoristi, si riaccese più spregiudicatamente violenta (e raggiunse persino i toni dell'ingiuria, nel primo mezzo secolo XVIII, tra domenicani probabilioristi, accusati di rigorismo, e gesuiti probabilisti, accusati di lassismo

Fu in Italia che divampò più acre il dibattito. La teologia morale non

guadagnò nulla da simili polemiche; al contrario, esse incoraggiavano il

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pericolo della decadenza morale già favorita dal clima del secolo e del rigorismo giansenista.

S. Alfonso Fu S. Alfonso a ricondurre il problema della certezza della coscienza alla

sua sede vera, quella della interiore prudenzialità dei giudizio. Non fu infatti l'elaborazione di un nuovo sistema, l'equiprobabilismo, per quanta verità teoretica esso contenesse, a placare gli animi, ma fu la riflessione morale dell'intelligenza cristiana attenta al complesso dei valori in gioco, a definire la crisi. Infatti, i casi di coscienza risolti da S. Alfonso, col ricorso ai principi indiretti della probabilità vennero successivamente diminuendo nelle varie edizioni della sua Theologia Moralis e alla fine risultarono pochissimi.

Al contrario, per la grande parte di essi egli avanzò una sentenza

personale, impegnandosi in una ricerca interiore e persuasiva della verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, erudizione e prudenza, ben più che applicando il "sistema" da lui escogitato.

ALCUNE RIFLESSIONI TEOLOGICHE Dalla carrellata storica sullo sviluppo del concetto di coscienza nella storia

del pensiero cristiano, si può ricavare l'importanza che assumono nell'elaborazione di un corretto giudizio di coscienza le vie dell'interiorità e della prudenzialità.

Il risultato più cospicuo delle riflessioni di Abelardo è che la soggettività del

giudizio acquista valore determinante, poi il problema va risolto attraverso un prudente confronto dei valori in causa, che nessuna applicazione indiretta di "sistemi" può surrogare. È il dato che emerge nitidamente anche ripensando l'insegnamento biblico sulla coscienza come funzione del discernimento etico.

La complessità di una visione globale della coscienza Il concetto di "coscienza attuale e cioè funzione tipica di interiori giudizi

morali, anche ricuperato nella genuinità e ricchezza che l'estrinsecismo dei "sistemi" ha compromesso, non traduce ancora interamente la complessità dell'insegnamento biblico e di molta parte della riflessione patristica: qui infatti, sulla coscienza attuale, che ne deriva, prende rilievo una coscienza "fondamentale", la quale si presenta come il momento sintetico e risolutivo

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dell'esprimersi della storia della salvezza, per ciascuno, in esperienza soggettiva" [DETM, 1985, p. 180].

È una visione globale, come più volte si è detto, che va ricuperata; né

basta a esprimerla integralmente la dottrina pure importante (e anch'essa quasi dimenticata) della sinderesi, elaborata dalla teologia scolastica.

Forse un complemento verrebbe se si accostasse questo tema a quello

dell'opzione fondamentale. Coscienza e opzione fondamentale La coscienza fondamentale appare come la radicale presa di coscienza,

semplicissima e ricchissima, dell'orientamento e del contenuto dell'opzione fondamentale.

In questo senso si può dire che essa è il luogo essenziale ove si fa conscia,

come giudizio e come valore, la storia salvifica in cui dobbiamo dar prova di noi stessi; come giudizio, che fonda ogni altra conseguente valutazione etica; e come valore, che si pone come sorgente di ogni altra specifica obbligazione.

Ha ragione allora A. Molinaro che scrive che essa "si deve porre nel fondo

dell'anima, al centro dell'uomo, là dove l'uomo trova la sua natura autentica - essa lo abbraccia tutto intero, tendenza e realizzazione conscia del bene che in ultima analisi è il Bene assoluto".

Per un altro verso si può affermare che il giudizio "fondamentale" di

coscienza è compiuto in vista dell'opzione fondamentale: "l'ideale intuito diventa progetto di azione". In ogni caso, la coscienza fondamentale "è la luce nella quale noi elaboriamo i giudizi particolari di coscienza, ossia i dettami destinati a dirigere i singoli atti concreti in modo che questi rispondano e si conformino alle esigenze di ciò che abbiamo giudicato essere il senso o il fine totale della nostra vita", così come l'opzione fondamentale "è il criterio di valore che determina l'apprezzamento dei motivi che presiedono alla scelta degli atti particolari" [Molinaro, 1971, pp. 54-55].

Coscienza del singolo e coscienza comunitaria Su questo sfondo si collocano i problemi più particolari della coscienza

"attuale", primo tra tutti il problema del raffronto tra la coscienza individuale e la "coscienza della comunità", che serve a riconoscere e illuminare ogni altro.

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La riflessione della teologia morale insegna che la presa di coscienza, la decisione di coscienza, la testimonianza di coscienza sono momenti di una maturazione della responsabilità individuale, che emerge dal discorso cristiano sulla coscienza nel suo complesso: è un apporto che si reca dal singolo alla comunità; ma è anche un affrancamento e una maturazione del singolo, quando la comunità (che non sarebbe più tale) tendesse a inglobarlo in comportamenti stereotipi e convenzionali.

Il cristiano sta di fronte alle molteplici proposte che provengono dalla

comunità, ciascuna delle quali, sebbene in misura diversa, è tramite di valori. "Parole" trasmesse, gesti sacramentali, suggerimenti dell'amicizia, interventi dell'autorità, convenzioni sociali, rapporti di lavoro, leggi e direttive, e così via: la fitta rete, cioè, di segni, istituzioni, parole, da cui il cristiano è portato a discernere le pressioni del suo egoismo (la "carne", in gergo paolino) dagli impulsi dello Spirito ("la legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù", Rm 8,2).

La "capacità di rispondere" (responsabilità) alla multiformità dell'appello

morale non si improvvisa; e d'altra parte può e deve strutturarsi in disposizione permanente (è allora che nel vocabolario scolastico, si parla di prudenza), a condizione che il cristiano non rinunci mai a interpellarsi da capo nei momenti in cui nuove e più pressanti proposte morali si presentano alla sua coscienza. La riflessione personale è dunque costantemente necessaria per la formazione di prudenti giudizi di coscienza. Tale riflessione include anche il dovere di prestare attenzione all'autorità (secondo la misura e qualità del suo intervento); e include la possibilità di riferirsi, per raggiungere una provvisoria ma sufficiente sicurezza, all'"opinione probabile", quando il problema che si pone non abbia ancora raggiunto nella dottrina una luce definitiva.

La coscienza ispirata La coscienza personale dev'essere confrontata con la comunità, essa

consegue il suo pieno valore di norma quando il suo giudizio è accolto, ratificato, difeso, promosso dalla comunità gerarchicamente strutturata.

Ma il pensiero tradizionale cristiano non ha temuto di avanzare l'ipotesi

della "ispirazione profetica" per spiegare taluni comportamenti diversamente condannabili. Esistono casi così singolari o situazioni di coscienza talora così drammatiche, che la loro soluzione non possa trovarsi se non nell'immediata (e immancabile) illuminazione dello Spirito Santo.

Sempre tenendo conto che lo Spirito è superiore a qualunque lettera; che

non si può sistematicamente rifiutare il "profetismo" nella vita morale, che si deve dar spazio alla "coscienza ispirata".

È un discorso delicato, evidentemente; eppure ogni cristiano sa che nella

vita morale talvolta "è in gioco un agire insolito della coscienza che in tono

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imperioso reclama obbedienza a un appello divino": è quanto scrive Walter Nigg circa la decisione che portò S. Nicola di Flüe ad abbandonare la moglie e i dieci figli (l'ultimo era ancora atteso), il 16 ottobre 1467, per farsi randagio e pellegrino.

Decidere se in questi casi si tratti di "coscienza erronea" o di "coscienza

ispirata", non è possibile per noi al momento. S. Agostino, ad esempio, a proposito delle vergini cristiane che si diedero la morte, sembra partire dall'ipotesi che siano incorse in un abbaglio, del resto comprensibile e scusabile; ma subito si chiede se non vi fosse, invece, un'ispirazione divina: "Che dire se hanno compiuto quel gesto non per umano errore, ma per un comando divino; non già per essersi ingannate, ma per aver obbedito?" 24.

L'interrogativo non riceve risposta ed è il medesimo dinanzi al quale ci si

deve arrestare anche per altri casi, nei quali l'ipotesi di una ispirazione profetica è senza dubbio legittima, ma appartiene al segreto di Dio se si sia verificata di fatto.

La coscienza personale di fronte al diritto e alle ideologie Esigenze di confronto e ínterazione tra coscienza e comunità si rilevano

anche sul piano dell'azione e dei diritto. L'urgenza, ad esempio, dell'incontro sul piano operativo e della carità, nonostante la divergenza delle ideologie a cui ci si ispira, mette in luce quella altrettanto grave di una matura fedeltà alla propria coscienza, senza la quale non verrebbero evitati i rischi di quell'incontro. Ancor più complessa è la questione di come conciliare i "diritti della coscienza erronea" con il rispetto delle esigenze del bene comune.

Talune istituzioni infatti hanno una rilevanza sociale troppo grande per

poter essere affidate alle sole valutazioni soggettive della coscienza (ed è un limite doloroso per ogni legge quello di dover ridurre la libertà del singolo per un più alto interesse comune).

Sembra tuttavia che non si possa dare a priori una risposta assoluta per

l'uno o per l'altro dei due termini in conflitto (coscienza e bene comune). Essi in realtà sono tra loro complementari e in continua tensione. Si dovrà, volta per volta, ricercare quella soluzione che meglio assicuri il rispetto della coscienza e la prosecuzione del bene della comunità: e non stupisce il fatto che le soluzioni possano essere parzialmente diverse secondo le diversità dei problemi in causa, dei momenti storici e degli ambienti culturali nei quali essi si pongono.

L'attenzione del singolo alla coscienza comunitaria non può prescindere dal

fatto che questa è sottoposta a un divenire storico che va via via configurando l'ideale morale (in questo caso si parla dell'ideale cristiano) in senso sempre più esplicito e completo.

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La coscienza personale tra norme eterne e tempo storico La morale cristiana ha delle norme eterne, principi immutabili e sempre

uguali, validi in ogni caso, regole intemporali e in certo modo esteriori all'odierna economia di salvezza.

Ma nello stesso tempo, la morale cristiana ha pure, nelle sue stesse norme,

un aspetto profondamente temporale: essa infatti "si riferisce ad una storia già avvenuta, a quella ancora presente e a quella che avverrà nel futuro, dei rapporti tra Dio e l'uomo, e alla partecipazione attiva dell'uomo a questa storia".

Ed è dalla indagine sulla morale evangelica che si possono distinguere due

categorie di insegnamenti morali: nella predicazione di Gesù si incontrano norme intemporali che non sono essenzialmente legate alla presente economia e conserverebbero il loro significato fondamentale anche al di fuori di essa: tali sono le esortazioni a imitare la santità di Dio, ad obbedire alla sua volontà, a praticare le opere buone, e altre ancora.

Si incontrano però anche norme strettamente legate all'economia attuale

ed esse sono totalmente penetrate dalla coscienza che questo mondo "è invecchiato" e che gli ultimi fini sono ormai imminenti. Tali sono, ad esempio, le esortazioni alla rinuncia (le cui forme sono diverse, ma sempre radicali, ai beni terrestri, alla famiglia, ai propri diritti), e altre ancora. Tali norme, essendo dominate - quale più quale meno, ma tutte profondamente - dalla prospettiva escatologica, sono meno valide in vista di una morale concreta e specifica per la fase terrena del Regno di Dio, ma piuttosto rappresentano l'ideale morale di una umanità ormai prossima agli ultimi eventi.

Si direbbe che, nel dare queste norme, Gesù, per effetto di un

raccorciamento simile a quello di ogni profezia in genere, abbia provvisoriamente lasciato nell'ombra il periodo intermedio tra l'inaugurazione e la consumazione del Regno, per sottolinearne fortemente l'urgenza in vista e nell'imminenza dell'ultimo ritorno di Cristo giudice.

LA COSCIENZA NELLA MISTICA Secondo Stercal "Non vi è operazione mistica al di fuori di una

trasformazione vitale della coscienza". Così Ch. A. Bernard sintetizza lo stretto rapporto tra esperienza mistica e coscienza testimoniato dai mistici" [Stercal, DIM, 1998, p. 362].

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Dio nella sua realtà sostanziale è presente nel fondo dell'anima non meno di quanto essa sia presente a se stessa [A. Gardeil, citato in Stercal, DIM, 1998, p. 362].

La teologia manualistica parla di "dilatazione della coscienza", o, con

linguaggio più tecnico, "iperestesia dello spirito e del cuore" per definire gli effetti che l'esperienza mistica produce. Essi consistono in una consapevolezza "delle operazioni straordinarie, nuove, elevate" che accompagnano l'esperienza mistica, e dei "loro oggetti", cioè della "realtà soprannaturale percettibile in modo nuovo", anche nella forma della "sua privazione o carenza".

Le nuove acquisizioni della psicologia e della teologia richiedono, oggi, un

approfondimento e una riformulazione del complesso rapporto tra esperienza mistica e coscienza.

In questa prospettiva appare indispensabile un'attenta rilettura dei testi

mistici. Essi offrono alcuni punti di riferimento fondamentali [Stercal, DIM, 1998, p. 362-363]:

- L'inizio dell'esperienza mistica è comunemente caratterizzato da un

cammino di purificazione che sembra condurre a una perdita della coscienza di sé, ma che, in realtà - come afferma un testo anonimo del secolo XIV - sfocia nell'"essere rivestito della consapevolezza di Dio";

- Ciò non comporta il rifiuto di sé, ma il rifiuto o il superamento di ciò che

allontana da Dio. Ne La nube della non-conoscenza leggiamo: "cerca di sopprimere ogni conoscenza o coscienza di qualsiasi cosa che sta al di sotto di Dio";

- I mistici utilizzano spesso un linguaggio che sembra alludere a una

perdita o a un annullamento di sé di fronte alla trascendenza di Dio, ma, in realtà, quella esperienza conduce a una più profonda relazione con Dio;

- Questa nuova e più profonda relazione con Dio consente al mistico di

acquisire una più profonda coscienza, allo stesso tempo, di sé e di Dio. Come afferma sinteticamente anche l'Imitazione di Cristo: "Cercando soltanto te e con amore puro, ho trovato allo stesso tempo e me stesso e te";

- Per quanto riguarda la coscienza morale Tommaso d'Aquino chiarisce

come l'esperienza morale predisponga alla vita contemplativa, ma non ne costituisca l'elemento essenziale: "il fine della vita contemplativa è la considerazione della verità. [...] Le virtù morali, però, impediscono la violenza delle passioni e calmano il tumulto delle occupazioni esterne, perciò appartengono come predisposizioni alla vita contemplativa" (Summa Theologiae II-II, q. 180, a. 2).

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L'uomo è la coscienza del Dio alienato Gianni Baget Bozzo ha condotto una riflessione radicale sulla coscienza

mistica. "La coscienza dell'uomo vive la tensione tra l'essere eterno e l'essere

mortale, vive cioè i contrari che costituiscono l'alienazione divina. L'uomo è la coscienza del Dio alienato. Per questo la coscienza dell'uomo è essenzialmente una coscienza mistica, una coscienza protesa tra due termini assoluti: l'Eternità e il Nulla" [Baget Bozzo, 1984, pp. 27 ss.].

La mistica rende possibile l'esperienza di ciò che è l'uomo, nella sua

dimensione infinita, quella che emerge nella coscienza della solitudine, della finitezza incompiuta e aperta.

La coscienza mistica, in quanto coscienza della Risurrezione come

possibilità, è appunto esperienza di fede poiché essa vive il tempo quotidiano sotto la presenza contestuale dei due termini di riferimento ma senza poter mai possedere la necessità della loro fusione. La radice della coscienza mistica è il dolore di esistere: aver posto come proprio oggetto i due termini contrari la conduce alla lacerazione dolorosa tra di essi.

V La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo, nella New Age e nell'indagine sul paranormale Il presupposto dell'occultismo è che esista una natura nascosta, "al di là

della comune coscienza conoscitiva", un qualcosa di "essenziale-vitale che si vorrebbe vivo e invece sembra perduto" . Ecco come si arriva a teorizzare la coscienza occulta.

Guglielmo Marino nell'opera omonima raccoglie numerosissime riflessioni

sulla coscienza (di alterno valore e interesse), soprattutto nel "Quinto convegno: psicosintesi e coscienza", nel quale cita lo Zen e le teorie di Roberto Assagioli e molto altro, con uno stile a tratti oracolare, ermetico ed esotico. È impossibile dar conto compiutamente delle teorie di Marino. Cito solo alcuni spunti: "Quando la psichiatria sarà diventata psicologia applicata scopriremo con stupore un mondo che ora non possiamo neppure supporre o immaginare.

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Riusciremo a diventare talmente padroni di tutte le parti del nostro cervello che, praticamente, il novanta per cento delle invenzioni del progresso odierno resteranno (sic) inutilizzate, perché il pensiero telepatico è più rapido del telegramma. Il giorno in cui l'uomo potrà disintegrare il suo corpo, non avrà più bisogno di aerei a reazione" (p. 205-206).

Passa in rassegna alcuni autori (Freud non va bene, Jung sì, Adler poteva

fare meglio, Marx è una stortura mentale, eccetera) per arrivare - molte pagine dopo - a un "Colloquio con la propria coscienza" (Ottavo convegno, Commedia in un atto; personaggi: Ognuno; Personalità; e Coscienza, sorella di Personalità) nel complesso divertente per il suo valore scenico più che filosofico (pp. 259-271).

Nel libro può capitare di incontrare affermazioni interessanti come "Amore

è la più alta coscienza interiore cui l'uomo possa adire" (p. 207) sui cui in seguito però l'autore si sofferma a elucubrare.

In questo breve viaggio tra testi esoterici ho incontrato un altro testo che

dimostra l'importanza del concetto di coscienza nell'esoterismo: La coscienza parla di Ramesh S. Balsekar , già direttore generale della Bank of India, in seguito discepolo di un guru (Nisargadatta Maharaj) che lo ha portato "a sperimentare dopo pochi mesi la Grazie della comprensione intuitiva".

Il messaggio di base dell'opera (stesa sotto forma di dialogo, come nella

tradizione sapienziale), è che "Tutto ciò che c'è, è coscienza" con la postilla che "la comprensione intuitiva di queste poche parole è quel che segna la differenza tra il cercatore e il jnani , tra chi desidera raggiungere l'illuminazione e chi può arrendersi totalmente a Cio che È, al gioco (lila) dell'universo, avendo compreso che non esiste un 'io' che possa illuminarsi".

Un passo tra gli altri, dà l'idea del tono apodittico, del retroterra e della

direzione teorica: "Dio e la Coscienza sono la stessa cosa? Se non lo sono qual è la differenza?" domanda l'interlocutore di Balsekar. Risposta "Nessuna. Non c'è differenza. Sono solo nomi. Assoluto, Nirvana, Dio, Soggetto eterno, Consapevolezza… comunque tu voglia chiamarlo. Tutto ciò che c'è, è Quello. Il nome che gli dai è irrilevante " (p. 249).

Sul problema della natura della coscienza, del suo rapporto con Dio,

tornerò più avanti tentando ragionamenti con ben altri strumenti analitici e prudenza metodologica. Balsekar è uno dei tanti autori che più scrive (270 pagine) e meno convince.

È importante considerare le critiche che gli scienziati muovono agli

"indagatori del paranormale". Una bella sintesi di tali obiezioni, oltre al libro ben noto di Piero Angela, Viaggio nel paranormale, , è un sito del Comitato italiano per il Controllo delle Affermazioni nel Paranormale (CICAP) che mette a

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confronto i risultati della moderna scienza del cervello con le affermazioni del paranormale, tra cui le percezioni extra-sensoriali e la coscienza pre-natale e post-mortem. Mette in guardia cioè dal credere facilmente in "menti universali", reincarnazioni, al famoso "90 per cento inutilizzato della mente" che definisce "ruota di scorta cerebrale, che fa la fortuna di psicologi poco seri e dei loro corsi di auto-miglioramento; che va bene come metafora del fatto che pochi di noi sfruttano pienamente i propri talenti, ma non deve servire come rifugio per gli occultisti che cercano una base neurale per il miracoloso".

Contro il fraintendimento dell'occultismo si schiera V. Frankl. All'idea che

esista un sapere inconscio di Dio, che porterebbe a un inconscio onnisciente o perlomeno capace di conoscere più dell'Io stesso, egli oppone che in realtà non soltanto l'"inconscio non è divino, ma neppure gli appartiene alcun attributo divino" [Frankl, 1990, p. 74]. Tale fraintendimento si deve a una metafisica precipitosa e niente affatto ponderata.

La coscienza nell'esoterismo Il concetto di coscienza ha un grande spazio nell'esoterismo, che si basa

tutto sul tentativo si ampliare la conoscenza interiore. Cito uno solo tra gli innumerabili materiali che si possono reperire

sull'utilizzazione esoterica della coscienza. È un sito Internet: "Vita universale. La via interiore per adempiere passo dopo passo i (sic) Dieci Comandamenti e il Discorso della Montagna" .

"La via Interiore ci aiuta a riprendere coscienza del nostro vero essere,

dell'eredità divina insita in ognuno di noi. Possiamo così liberarci da aggressività, da odio, inimicizia, dall'abitudine di giudicare gli altri". Così appoggiandosi - in modo sfacciato e fondamentalista - al nome di Gesù Cristo viene proposto il "Il decorso della Via Interiore" che deve iniziare con "corso preparatorio per ampliare la coscienza secondo il cristianesimo delle origini, nella consapevolezza di Geù, il Cristo […] a questo corso seguono i i quattro livelli della scuola intensiva": il livello dell'Ordine, il livello della Volontà, il livello della Sapienza, il livello della Serietà. Segue la pubblicità al libro La vita Interiore ("pagg 1390"…), alle musi-cassette con esercizi di interiorizzazione e musica per il sottofondo e videocassetta con le spiegazioni per gli esercizi. Il tutto con prezzi per in vista e offerte (senza sconto)!

Tutto ciò ricorda molto il fenomeno della New Age, che ha attraversato non

solo la musica, le arti, la filosofia e la religione, ma anche il mondo dell'indagine scientifica (o parascientifica).

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Sullo sconfinato e indelimitabile mondo della New Age rimando direttamente allo studio recentissimo, completo e efficacissimo di M. Introvigne, il massimo studioso italiano di nuove religioni, New Age & Next Age .

La psicologia transpersonale "La psicologia transpersonale si è imposta come una "quarta forza", dopo la

psicanalisi freudiana, il comportamentismo e la psicologia dinamica. La prospettiva inaugurata da questa recente tendenza vuole ampliare gli orizzonti della ricerca psicologica, estendendo l'esperienza della vita interiore a nuove dimensioni di conoscenza, come la creatività, la saggezza orientale e occidentale e un benessere psicofisico e olistico". Così definisce la "psicologia transpersonale" un testo introduttivo di Arturo De Luca .

I nuovi modelli di conoscenza e di esperienza sono quelli del cosiddetto

"Potenziale umano" , una gamma assai vasta di capacità che normalmente noi non usiamo nella vita quotidiana.

"La psicologia transpersonale si è sviluppata sulla scia della psicologia

umanistica, una tendenza moderna che negli anno '60 aprì nuovi orizzonti della crescita personale, grazie all'opera di Abraham Maslow e Anthony J. Suitch" [De Luca, 1995, p. 3].

De Luca ricorda anche Ken Wilber e il suo "modello dello spettro", "un

tentativo ambizioso di unificare tutti gli stati di coscienza e i livelli di realtà in una concezione in cui i contrari coincidono" (p. 5).

Come lavora la psicologia transpersonale? "Affianca al lavora analitico e di

scandaglio della sfera inconscia personale un nuovo approccio alle cosiddette regioni transpersonali […] Sono utilizzate varie tecniche: la visualizzazione, il dialogo con le "maschere" dell'anima e con i nostri conflitti, l'immersione nei sogni e nelle fantasie, la drammatizzazione. Tutte queste procedure devono essere, tuttavia, unificate in vista del raggiungimento di una sintesi finale: l'espansione della consapevolezza" (p. 7).

Ciò fa pensare che in ciò vi sia un fondamento di pretesa neo-gnostica. Attualmente sono numerosissimi i siti web dedicati a questa disciplina,

alcuni con un'aura di serietà, altri molto meno credibili. Livelli di coscienza e "Human Consciousness Project"

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Uno interessante, giusto per fare un esempio, è quello dell'Associazione Italiana di Psicologia Transpersonale (Aipt) dove viene citato lo "Human Consciousness Project", "uno sforzo volto a realizzare una mappa dei vari stadi della coscienza umana, che testimoni come lo stato dell'io ordinario, considerato sano e normale, è in realtà distorto e illusorio, e come ogni essere umano possieda nel suo inconscio potenzialità di conoscenza e di virtù che, attualizzate nella coscienza, cambiano l'idea separata e limitata di sé, del mondo e del significato dell'esistenza, producendo benessere e azione retta" (si veda http://www.mclink.it/assoc/aipt/ page22.html).

Tale progetto viene detto - senza modestia - più importante dello "Human

Genome Project". Dico senza modestia, non perché non creda anch'io che l'analisi della psiche e dell'interiorità sia più importante dell'aspetto biologico dell'uomo (e forse in ciò sono inconsapevole erede della metafisica), ma perché gli strumenti di analisi e di studio proposti dalla psicologia transpersonale e tutto l'ambiente in cui pesca, a cui viene proposto e da cui viene propugnato, ha spesso poco di scientifico, razionale, sistematico.

"Lo stato di coscienza vigile o lucido è caratterizzato dalla consapevolezza

di sé e dall'attenzione all'ambiente, che sono le strutture fondamentali della vita psichica [...] qualsiasi disturbo [...] influisce su tali strutture, determinando un arretramento ai livelli inferiori della vita psichica con manifestazioni che vanno dal torpore allo stato crepuscolare, confusionale o comatoso" [DPL, 1992, p. 235].

Tali differenziazioni in livelli di vita psichica o stati di coscienza, sono alla

base delle discipline di meditazione di origine orientale e ad esse alle recenti ricerche neurologiche si riallaccia la psicologia transpersonale.

Nel libro di De Luca c'è un elenco esplicito degli stati di coscienza, che

sarebbero ventiquattro: fantasticherie (rêverie), meditazione, contemplazione, concentrazione, ispirazione, intuizione, attivazione, stato ipnagogico, stato ipnoide, ipnosi, sonnambulismo, assopimento, sonno, risveglio naturale, risveglio brusco, perdita della cognizione di spazio e tempo, scissione della coscienza, sub-personalità, distacco dal corpo, ansia e angoscia, stato di shock, regressione, estasi, esperienza mistica [De Luca, 1995, pp. 86-88].

Ciò è molto interessante ed è encomiabile lo sforzo di analizzare il più

precisamente possibile la vita della coscienza in tutte le sue fasi e dimensioni, purtroppo nell'opera in questione le definizioni sono vaghe, danno per acquisiti fenomeni che in realtà sono discussi e non si utilizza e indica bibliografia scientifica.

L'IPNOSI REGRESSIVA E LA METEMPSICOSI

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Siamo già vissuti nel passato? Vivremo ancora nel futuro? Da migliaia di anni gli uomini si pongono queste domande, senza però trovare una risposta sicura. Sottoposti a ipnosi, molti individui "regrediscono nel passato", ricordando - o credendo di ricordare - esperienze di vite precedenti, spesso appartenenti a epoche lontanissime. Chi rivista il proprio passato prova nostalgia e rimpianto, ma, tornato al presente, si scopre più incline ad accettarlo.

Raymond A. Moody jr., che ha insegnato etica, logica e filosofia del

linguaggio e si è poi laureato in medicina, dedicando anni di ricerca e indagine alle cosiddette "esperienze di pre-morte" (NDE, Near Death Experencies) , ammette che "non è facile trarre conclusioni scientifiche dalla mia ricerca, per sua stessa natura aneddotica, in quanto si basa sui racconti della gente. Spesso non c'è modo di verificare questi racconti … Così come, in definitiva, non c'è modo di spiegarsi tutti i fattori psicologici connessi: fino a che punto queste cognizioni sono "roba vecchia" relegata nel subcosciente? Fino a che punto si tratta di problemi reconditi che si manifestano come vite precedenti? Veramente non c'è modo di stabilirlo.

Non esistono prove per la reincarnazione Dopo tanto lavoro mi piacerebbe poter segnalare qualcosa che davvero

costituisse la prova della reincarnazione, ma non sono in grado di fare una simile istanza. Come sottolineano i filosofi del metodo scientifico: "le istanze straordinarie richiedono prove straordinarie". Per quanto riguarda la reincarnazione, nessuno finora ha fornito prove del genere.

La mente umana è allettata dall'idea della reincarnazione, perché questa

conferisce alla vita il senso di un processo conoscitivo" . "Tuttavia, proprio perché ci piacerebbe credere nella reincarnazione,

dobbiamo essere estremamente guardinghi di fronte alle osservazioni e ai dati che ci vengono riferiti e che apparentemente appoggiano questa fede" [Moody, 1990, p. 208].

"Come medico non posso né escludere né sostenere che le regressioni

siano la prova della reincarnazione. Ci sono psicologi e psichiatri convinti che si tratti di drammi creati dalla mente per affrontare meglio certe situazioni. A me piace definirlo il linguaggio dell'inconscio. Un linguaggio che tratta i problemi metaforicamente, invece che direttamente. Per creare queste metafore la mente attinge a tutte le risorse possibili" [Moody, 1990, p. 93].

Le spiegazioni possibili della regressione al passato

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"Secondo me, le esperienze regressive sono più comprensibili se viste nel contesto della realizzazione del processo storico da parte dell'umanità". Alla domanda: "Se si facesse un processo per stabilire se esista o meno la reincarnazione, cosa concluderebbe la giuria? Credo che il verdetto sarebbe a favore della reincarnazione: in fondo, queste esperienze regressive sono troppo stupefacenti per poter avere una spiegazione diversa. A livello personale, l'esperienza ha alterato il mio modo di pensare" [Moody, 1990, pp. 209-210].

Tra le possibili spiegazioni della regressione al passato Moody ricorda la

criptomesia: "il ricordo di qualcosa che era sepolto nei recessi della memoria - quando riaffiorano, questi dati emergono come prodotti creativi, i che significa che ci sembrano creati da noi, e non ripescati dalla memoria" (pp. 155 ss.); la xenoglossia: "ci sono persone che, sottoposte a ipnosi regressiva, cominciano a parlare una lingua "diversa", a volte si tratta di una lingua comprensibile, come il francese o il tedesco, altre volte è una lingua che non si capisce, anzi non è affatto una lingua ma soltanto un"farfugliamento"" (pp. 160 ss.); e anche il sonno ipnagogico: la condizione mentale a metà tra la veglia e il sonno, "noto come stato di dormiveglia, nel quale non si è né addormentati né del tutto svegli e nel quale si hanno allucinazioni che sono diverse dai sogni, l'individuo osserva ciò che il subconscio gli somministra, ma è tuttavia consapevole della realtà che lo circonda" (pp. 162 ss.), tale condizione viene detta anche dei cosiddetti "sogni lucidi" .

"Troviamo in questi tre fenomeni la spiegazione di tutte le regressioni al

passato? Credo di no. Per quanto contribuiscano a spiegare certe caratteristiche insite nella ricerca di una vita precedente, questi fenomeni sono presenti in minima percentuale, in tali esperienze" [Moody, 1990, p. 165].

"Oggi la comunità medica è pronta ad ammettere che c'è una gran parte

del rapporto mente/corpo che ci sfugge, e ad ammettere l'esistenza di una quantità di fenomeni affascinanti, dei quali solo alcuni possono essere riprodotti in laboratorio", quali, per esempio, le stimmate, la "morte da malocchio" e le ipnosi regressive [Moody, 1990, pp. 73 ss.].

Sul rapporto tra regressione e terapia mentale Moody specifica "I terapeuti

della regressione che credono nella reincarnazione hanno una visione metafisica della malattia", inoltre il fatto che "la regressione al passato riesca a curare certi malesseri fisici fa pensare che si tratti piuttosto di disturbi mentali del tipo delle fobie" [Moody, 1990, pp. 76-77].

Sul rapporto tra indagine sulla reincarnazione e pensiero cristiano Moody è

consapevole delle difficoltà, ma "la reincarnazione non intende affatto farsi beffe del pensiero cristiano che parla di ricompensa e castigo, di paradiso e d'inferno. Piuttosto, la reincarnazione offre la speranza del rinnovamento in una vita successiva imperniata sulla convinzione che ogni inizio venga da una fine, e così via. Tale convinzione è l'antitesi del pensiero cristiano [Moody, 1990, pp. 121-122].

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parte seconda Neuroscienze e neurofilosofia: le prospettive della ricerca VI La dimensione della coscienza nelle neuroscienze Che cosa significa essere dotati di una mente, essere consapevoli, avere

coscienza di sé? A tali questioni fino a poco tempo fa erano soliti rispondere i filosofi. Gli scienziati di fronte al problema della mente, si ritraevano timorosi. Ma l’avvento delle neuroscienze sembra aver capovolto tale prospettiva. Negli ultimi anni le conoscenze sul cervello hanno cominciato ad accumularsi a un ritmo esplosivo

Si sono moltiplicate ricerche - per citarne alcune - sul metabolismo del

cervello [cfr Pellegri, 1999]; sulla sindrome di Williams [cfr Lenhoff – Wang –Greenber – Bellugi, 1999] che sembrano poter aiutare a capire il modo in cui è organizzato il cervello ma permetteranno anche di vedere sotto una nuova luce i "ritardati mentali"; sulle sinapsi e i meccanismi della memoria (cfr D’Angelo – Rossi – Taglietti, 1999); sulla memoria e l’apprendimento delle lingue [cfr Aglioti – Fabbro, 1999]; sui disturbi del comportamento (attention-deficit hyperactivity disorder, ADHD) e le disfunzioni genetiche dello sviluppo di circuiti cerebrali [cfr Barkley, 1999].

Ed è tale oggi la mole di ricerche, pubblicazioni, teorie (più o meno

abbozzate), risultati sperimentali da mettere in difficoltà - anche se le propsettive di buona riuscita perciò stesso si fanno maggiori - chi voglia raccapezzarsi sulle direzioni che il mondo scinetifico sta prendendo nella sua ricerca di comprensione del funzionamentero del cervello e della mente umani. Un'idea delle varie posizioni, della ocmplessità degli studi e della inconciliabilità di alcune posizioni si può avere dalla lettura dell'antologia di brevi saggi sulla

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nerurobiologia, sull'intelligenza artificale e la scienza della mente L'automa spirituale. Menti cervelli e computer a cura di G. Giorello e P. Strata .

L’oggetto più complicato dell’universo, il nostro cervello, comincia a svelare

i propri segreti. Ma è scientificamente possibile comprendere la mente? Uno dei maggiori esperti al mondo è Geral Edelman, premio Nobel per la

fisiologia e la medicina (1972), direttore del Neurosciences Institute di San Diego, che propone un approccio pluridisciplinare al problema del mentale, che coinvolge la fisica, l’embriologia, la morfologia, la medicina, la psicologia.

L’epoca moderna ha rimosso la mente dalla natura "La biologia … rientra nel campo della ricerca quando vi rientrano le altre

scienze. Ma essa non può certo dispensarci da un approccio filosofico al problema del mentale.

Con Galileo, e poi con Cartesio, l’epoca moderna ha rimosso la mente dalla

natura. La fisica matematizzante di Galileo si è sviluppata dalla critica dell’eredità aristotelica e ha concepito l’universo come un oggetto descrivibile e osservabile. … Persino oggi, dopo la rivoluzione einsteiniana e l’avvento della meccanica quantistica, la procedura galileiana non è stata spazzata via. [Ma] per fare fisica non si deve tener conto della coscienza e delle motivazioni dell’osservatore. La mente resta ben lontana dalla natura. … È nel corso del XX secolo che la fisiologia e la psicologia hanno riportato la mente nella natura. E soltanto recentemente, con l’avvento delle neuroscienze, il cervello e la mente dell’uomo sembrano disvelarsi nella loro estrema complessità, biologica, psicologia e filosofica" [Carli, 1997, pp. 8-9].

La scienza del cervello, e della mente, deve necessariamente stabilire delle

relazioni con la filosofia. … [Ma] non tutte le teorie filosofiche riguardanti la mente sono condivisibili dalla prospettiva scientifica … ipotesi di tipo trascendentale o metafisico, poiché i fatti stessi della biologia ci portano a concludere che la mente non è trascendentale. E non sono condivisibili le teorie funzionaliste, che sostengono uno stretto parallelismo tra la mente e il programma di un calcolatore".

Osservando le ramificazioni dei neuroni e i loro collegamenti sinaptici "si

deve riconoscere che l’organizzazione e il funzionamento del cervello umano non hanno nulla a che vedere con una centrale telefonica, né con un calcolatore. … Il computer non è un modello del cervello. … Tuttavia il computer è senza dubbio uno strumento essenziale per fornire una modellizzazione del cervello. … Darwin 4, la versione più recente del nostro robot, … è in grado di compiere operazioni caratteristiche della coscienza

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primaria, e nulla ci impedisce di pensare che in futuro potremo produrre una coscienza superiore artificiale.

"Se consideriamo il nostro cervello secondo la teoria di Darwin lo possiamo

vedere come l’evoluzione di una popolazione di neuroni, nella quale sopravvivono quelli che sono in grado di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente esterno. … I fatti stanno oltre i modelli meccanici della mente, e la questione centrale della mente e della coscienza sta nell’individualità: ogni individuo ha una propria storia, unica e irripetibile, e questa non può essere simulata da un calcolatore" [Carli, 1997, p. 9].

"La nascita di nuove discipline scientifiche e lo sviluppo di nuove visioni del

mondo sono spesso dovuti e determinati dall’utilizzo di nuove tecniche sperimentali. Le concezioni del cervello e della mente dipendono dalle nostre capacità di esaminare sperimentalmente il sistema nervoso, e la neuroscienza è un ottimo esempio di questa dialettica tra esperimento e teoria. … Le tecniche tradizionali di elettrofisiologia permettono di studiare l’attività contemporanea solo di un numero molto limitato di neuroni. Per questa ragione, la messa a punto di tecniche sperimentali per l’analisi di reti nervose, note in letteratura come tecniche di multisite recording o registrazione simultanea, costituisce una delle frontiere più affascinanti nell’evoluzione delle neuroscienze. … Lo sviluppo di moderni fotosensori e di opportune sonde chimiche permette … di ottenere immagini che caratterizzano l’attività elettrica di molti neuroni simultaneamente e che consentono di studiare la dinamica di una rete nervosa" [Canepari – Torre, 1996, p. 82].

Tali tecniche sono note come tecniche di imaging, e l’idea di applicarle alle

dinamica dei processi biologici risale agli anni settanta. "Alla luce delle nuove prospettive di indagine sperimentale … si possono

prevedere, nel prossimo futuro, significativi progressi nella nostra comprensione di come il cervello funzioni e come nozioni astratte possano risultare rilevanti per le neuroscienze" [Canepari – Torre, 1996, p. 87].

Lo stesso ottimismo è condiviso da altri ricercatori "Non è eccessivamente

ottimistico ritenere che nei prossimi anni potremo chiarire del tutto uno tra gli enigmi più difficili e affascinanti della moderna scienza della mente e del cervello": il perché ci sia la lateralizzazione nei vertebrati, come si sia sviluppata, differenziata tra le varie razze animali e che funzioni abbia [Vallortigara – Bisazza, 1997, p. 63].

La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) Fornisco una breve descrizione delle tecniche diagnostiche e di ricerca

citate nell'introduzione: la PET, la RMN e gli sviluppi dell'elettroencefalografia (microelettrodi).

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Nella Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron emission tomography)

vengono somministrati al paziente dei composti fisiologici contenenti opportuni isotopi radioattivi, che non sono dannosi perché la loro radioattività è minima e di brevissima durata.

In questi composti alcuni atomi sono stati sostituiti ("marcatura") dai

corrispondenti isotopi radioattivi, dotati di molto breve emivita (periodo di dimezzamento della quantità nell'organismo e della durata dell'emissione radioattiva), di qualche minuto al massimo.

"Gli atomi radioattivi utilizzati nella PET decadono emettendo positroni ... [i

quali] perdono la loro energia cinetica dopo breve percorso e raggiunto lo stato di riposo interagiscono con gli elettroni. Le due particelle vengono annullate e la loro massa viene convertita in due fotoni" [Gregory, EOM, 1991, p. 400 ss.] che vengono rilevati da una apposita apparecchiatura (che registra solo i fotoni emessi contemporaneamente) e indicano la presenza della sostanza marcata radioattivamente.

Con una apparecchiatura computerizzata e tomografica - che produce

immagini del corpo per singoli strati o a tre dimensioni - si mette in evidenza la localizzazione esatta della porzione cerebrale in funzione dove la sostanza marcata è concentrata.

E ciò perché le aree attive consumano una maggiore quantità di sangue,

ossigeno e sostanze nutritive ed energetiche, tra le quali quelle marcate che emettono positroni.

Il risultato è che si ottiene una correlazione anatomo-funzionale tra una

determinata attività del soggetto e l'area cerebrale dove essa si svolge. La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) È chiamata anche Risonanza Magnetica Funzionale. Con essa, come con la

semplice TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) ma con migliore definizione, si ottengono solo immagini morfologiche e non dinamiche, ovvero senza informazioni sull'attività.

Solo con la PET, che si avvale delle nozioni anatomiche e radiologiche delle

altre tecniche di indagine cerebrale (TAC, RNM), si può oggi, avviare una efficace mappatura del cervello.

Un esempio, che pare scherzoso eppure è estremamente serio, è quello di

un'indagine recentemente conclusa sul solletico. Si voleva capire per capire come mai se veniamo solleticati nei punti sensibili (pianta dei piedi o ascelle), non riusciamo a trattenere le risate mentre l'autosolletico non fuinziona. Sara

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Jayne Blakemore, neuroscienziata dell'Università di Londra ha sottoposto al solletico di piume, dita meccaniche e altri strumenti per quattro giorni sei soggetti (volontari…) tenendoli collegati a una macchina per la Risonanza Magnetica. La conclusione è che il solletico autoinflitto non funziona perché manca l'elemento sorpresa: la parte del cervello che cura il coordinamento dei movimenti (il cervelletto) manda un messaggio a quella dove risiede la sensibilità al solletico (la corteccia frontale) chiedendo - in parole povere - di ignorare lo stimolo .

L'Elettroencefalogramma L'elettroencefalogramma invece registra l'attività elettrica cerebrale,

traducendola in onde su un grafico, che sono caratteristiche di attività spontanee o stimolate, di stati di coscienza, di certe condizioni patologiche, ma senza distinguere pensieri o emozioni, o aree interessate.

Si esegue appliacndo degli elettrodi sul cuoio capelluto e derivandone le

correnti cerebrali; oppure a cranio aperto, cogliendo l'opportunità di interventi neurochirurgici, inserendo dei microelettrodi nelle zone cerebrali delle quali si intende determinare la funzione. Stimolandole con opportune correnti se ne osserva l'effetto e si può anche lavorare con la collaborazione del paziente sveglio, sfruttando la insensibilità dolorifica - apparentemente paradossale - del tessuto cerebrale.

"Una gran parte delle nostre attività quotidiane viene svolta senza una

consapevolezza diretta: anzi, sarebbe poco economico dover riflettere su processi che possono essere trattati in modo automatico, una volta che sono diventati compiti di routine come, ad esempio la costrizione pupillare o l'accomodazione del cristallino dell'occhio. Il cervello può riservarsi soltanto una piccola parte delle sue capacità per quelle attività che costituiscono globalmente il materiale per l'analisi introspettiva dei processi mentali. Lo studio dei pazienti con "visione cieca", o della memoria inconscia, o dei pazienti con cervello diviso, non soltanto evidenzia quali aspetti della percezione, della memoria e di altre attività "cognitive" possono essere separate dalla coscienza, ma può anche permettere un'analisi empirica dei confini funzionali di queste aree" [Gregory, EOM, 1991, p. 330].

La corteccia cerebrale (3 millimetri di spessore) contiene almeno 100

miliardi di cellule nervose. Il resto dei due emisferi è composto da filamenti (assoni o cilindrassi) che si sviluppano tra la gestazione del feto e i primi due anni di vita.

La cosa interessante è che il 90% dei collegamenti tra le cellule si sviluppa

dopo la nascita, entro i primi due anni di vita, proprio nel periodo in cui si sviluppa, prende forma, si evidenzia la coscienza.

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Dunque ancora una volta appare l'inseparabile fondazione neuronale della coscienza.

Per il suo sviluppo concorre naturalmente il corredo genetico - e per questo

tutte le coscienze si assomigliano e tutti gli uomini ce l'hanno, intesa in senso etico o estetico o cognitivo - ma anche l'ambiente - e per questo ogni coscienza è infinitamente diversa dalle altre.

Un senso primordiale "Si comincia a capire che la metafora (inadeguata) del cervello come

elaboratore d'informazione dev'essere allargata a dismisura: è il corpo (anzi il corpo immerso nel suo più ampio contesto, anzi è l'universo stesso) a essere un elaboratore d'informazione. Non solo, ma è anche un produttore di senso, un senso primordiale, radicato nelle particelle e negli atomi della fisica, nelle pietre, nei pianeti, nelle molecole e negli organi della biologia; un senso che precedette di molto la coscienza, un senso che attendeva fin dall'inizio dei tempi di essere salutato dall'intelligenza del mondo quando fosse diventata consapevole, attraverso l'evoluzione, nell'uomo. Con l'uomo, il mondo estroflette un occhio e si guarda" [Longo, 1999, p. 33].

Ciò ricorda molto il pensiero di T. De Chardin, che ho citato

precedentemente. La storia della civiltà (in particolare della scienza) occidentale si può

interpretare come un lungo tentativo di tradurre l'intelligenza e il senso preconsci, primordiali e radicati nel corpo nelle forme e nel linguaggio dell'intelligenza e del senso riflessi, consapevoli e, da ultimo, razionali e distaccati. E ciò che accade a livello filogenetico e storico accade a livello ontogenetico: venuto al mondo con un corpo che sa adoperare, solo più tardi l'individuo ne comprende e ne regola l'uso in modo riflesso e cosciente; ma il corpo aveva il suo senso e uso prima che fosse avvertito. Lo stesso accade per la capacità linguistica: perché la grammatica segue l'uso della lingua; e via dicendo" [Longo, 1999, p. 33].

La corteccia cerebrale come costante biologica nei mammiferi La corteccia cerebrale umana è uno strato di cellule nervose e tessuti di

sostegno ripiegato in profonde circonvoluzioni. Insieme alle sue fibre di connessione, essa occupa buona parte del volume dell'encefalo umano. Tutti i mammiferi ne sono provvisti e il suo spessore è una delle grandi costanti biologiche. Per esempio, sebbene l'elefante abbia un cervello centinaia di volte più grande di quello di un topo, la sua corteccia è solo tre volte più spessa [Glickstein, 1992, p. 62].

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Oggi sappiamo che le diverse aree corticali differiscono per struttura e

funzione, ma per raggiungere l'attuale livello di conoscenze sono stati necessari secoli e secoli di ricerche, e molto è ancora da scoprire. Comprendere la storia di tale evoluzione può aiutare a trovare una soluzione ai problemi tuttora aperti.

"L'unità base, il neurone, non differisce nelle sue proprietà essenziali nelle

forme animali più semplici e nelle più complesse: è dotato della capacità di andare incontro a modifiche reversibili sotto la pressioni di fattori esterni" [Levi Montalcini, 1999, p. 45].

Però "Le specie inferiori possono imparare ad associare solo una ristretta

gamma di stimoli; gli esseri umani sono in grado di associare qualsiasi cosa percepiscano" [Levi Montalcini, 1999, p. 58].

Un esempio di pseudoscienza: la frenologia La storia della scienza e delle ricerche neurologiche ci insegna come sia

facile cadere nelle tentazione del riduzionismo, della semplificazione indebita e fuorviante. Per esempio la vicenda della frenologia, che fu fondata da Franz Gall e dai suoi discepoli, agli inizi del XIX secolo.

Gall riteneva che le differenze nello sviluppo della corteccia influissero sulla

conformazione del cranio. In altri termini era convinto che se a una certa regione del cervello corrispondeva una determinata facoltà, ne doveva conseguire un ampliamento dell’area corticale in questione nonché la formazione di una prominenza nella parte corrispondente del cranio.

La frenologia era una pseudoscienza che, per un primitivo grossolano

tentativo di localizzare delle funzioni cerebrali, dallo studio delle prominenze craniche pretendeva di risalire al carattere, alle capacità intellettive e alla personalità di un individuo [Glickstein, 1992, p. 64].

RODOLFO LLINAS E IL FUNZIONAMENTO DELLA COSCIENZA Rodolfo Llinas, neuroscienziato colombiano, che lavora nella New York

University, ha consacrato gran parte della propria vita alla comprensione del funzionamento del cervello.

Ha studiato le popolazioni neuronali, cioè i vari tipi di neuroni e i loro

raggruppamenti, e attualmente si interessa al funzionamento globale del cervello umano, studiando i meccanismi della coscienza e il modo in cui il

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cervello simula la realtà esterna. Ha collaborato con la filosofa Patricia Churchland.

In I segreti della mente ha sintetizzato il risultato delle sue ricerche sulla

natura neurobiologica e sul funzionamento della coscienza. Un evento cognitivo unico In assenza di attività cerebrale - esordisce Llinas - ciascuno di noi è morto.

Il cervello è, dunque, l'elemento essenziale della nostra esistenza, noi siamo il nostro cervello.

Ma qual è la storia naturale del cervello? Come è diventato ciò che è? La

biologia ci insegna che i soli organismi viventi che hanno sviluppato un cervello o comunque un sisterma nervoso, anche se rudimentale, sono quelli dotati di attività motoria. Perfino il verme più semplice, o l'invertebrato marino più primitivo, ha un sistema nervoso. D'altro canto, le piante non hanno sistema nervoso. E infatti le piante non hanno neppure attività di locomozione.

Ma perché c'è bisogno di un cervello per muoversi attivamente? Perché noi

siamo costretti a spostarci all'interno di una rappresentazione del mondo esteriore. Non possiamo andare alla cieca, sarebbe troppo pericoloso. Occorre avere un'idea di quello che c'è nell'ambiente. Il cervello si è sviluppato per consentire agli animali di muoversi.

La struttura del sistema nervoso dei vertebrati è lo stessa per tutti: un

cervello, un midollo spinale, dei nervi per attivare i muscoli e degli altri nervi per trasmettere le sensazioni. I vertebrati superiori hanno, oltre al tatto, il senso della vista, dell'udito, del gusto e dell'olfatto. Questi sistemi sono tutti molto simili.

Il problema centrale del funzionamento del cervello è come facciamo a

raccogliere tanti frammenti della realtà per generare un'unica immagine. Alcune parti del sistema analizzano il colore, altre analizzano il movimento, e altre ancora analizzano il peso o la sensazione tattile. Come sono integrate tutte queste sensazioni in un'unica immagine della realtà? Come facciamo a costruire un evento cognitivo unico?

E' un problema, perché quando si esamina il cervello si scopre che i diversi

sistemi sensoriali sono situati in aree differenti del cervello ed esiste una grande distanza che separa le diverse aree. Questa distanza è enorme, rispetto alle minuscole dimensioni di un neurone. Come fanno, quindi, questi neuroni a trovare questi altri neuroni, per costruire, a partire dalle varie percezioni sensoriali, un singolo evento?

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Le sensazioni e il dialogo fra talamo e corteccia Dall'occhio il nervo ottico si dirige per prima cosa verso un centro,

chiamato talamo; quindi, dal talamo, le fibre ottiche raggiungono la corteccia visiva. Analogamente per l'orecchio, il segnale uditivo passa per prima cosa attraverso il talamo e quindi raggiunge la corteccia uditiva.

Al problema di come facciano i neuroni della corteccia uditiva a collegarsi ai

neuroni della corteccia visiva, per informarmi, ad esempio, che ho un uccellino sulla mano? L'immagine è qui e il suono è lì. Come fanno il suono e l'immagine a trovarsi? Secondo Llinas ci sono solo due possibilità.

La prima possibilità è che il suono attraversi la corteccia per trovare

l'immagine, o viceversa, ma questo è molto difficile, perché fra due aree della corteccia ci sono delle connessioni che vanno in tutte le direzioni. Allora, qual è l'altra possibilità?

Se si cambia punto di vista si vede che il talamo si trova al centro e si può

disegnare la corteccia come un grande cerchio che gli gira attorno. Le proiezioni del talamo verso la corteccia sono, allora, come i raggi di una ruota di bicicletta. L'immagine e il suono sono entrambe sulla corteccia, si può andare direttamente dall'immagine al suono, o viceversa, e le due percezioni forse si incontreranno da qualche parte sulla corteccia. Questa era la nostra prima possibilità.

Oppure, se il talamo è al centro, come nel centro di una ruota, la

percezione del suono va verso la corteccia e così l'immagine e la corteccia rinvierà questi segnali al talamo. Quindi le sensazioni non sono collegate né a livello della corteccia, né a livello del talamo, bensì in questo dialogo fra il talamo e la corteccia: dal talamo alla corteccia, quindi di nuovo al talamo, e poi alla corteccia, e poi al talamo, e così via.

Una cosa interessante a questo proposito è che la distanza fra talamo e

corteccia visiva, fra talamo e corteccia uditiva, fra talamo e corteccia somato-sensoriale (quella responsabile della sensazione tattile sulla mia mano) è la stessa in tutti e tre i casi. Quindi è possibile che uno stesso evento attivi simultaneamente queste tre regioni corticali.

Ciò permette anche di immaginare un processo di collegamento delle

sensazioni che sia temporale piuttosto che spaziale, poiché le informazioni situate in diverse aree sensoriali della corteccia possono arrivare simultaneamente al talamo. Se si sente, ascolta e vede un oggetto simultaneamente, lo si percepisce come un unico oggetto.

La coscienza da 2 a 40 Hz

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Come può l'attività dei neuroni essere sincronizzata? I neuroni hanno un corpo cellulare, un assone e dei dendriti. Se con un

elettrodo si misura l'attività elettrica dei neuroni del talamo, si osserva che essi scaricano regolarmente a una frequenza variabile a seconda del nostro stato di coscienza. Ad esempio, quando questi neuroni scaricano a una frequenza di 2 Hz, ossia a 2 cicli al secondo, noi siamo addormentati, cioè non siamo coscienti.

Quando torniamo coscienti, la frequenza con cui i neuroni del talamo

scaricano aumenta fino a 40 Hz, cioè a un ritmo di 40 cicli al secondo. Ciò significa che questi neuroni scaricano tutti alla stessa frequenza e quindi in modo sincrono.

Se un neurone collegato a una regione corticale attiva alcuni neuroni a una

frequenza di 40 Hz e un altro neurone collegato a un'altra regione corticale e ne attiva alcuni neuroni alla stessa frequenza di 40 Hz, queste due regioni corticali diventano coordinate nel tempo, cioè i loro neuroni scaricano simultaneamente a una frequenza di 40 Hz.

In queste condizioni, collegare le diverse sensazioni consiste

nell'individuare i neuroni delle aree corticali che scaricano simultaneamente. E', quindi, molto facile per il nostro cervello riconoscere le aree corticali sincrone, ed è proprio questa sincronizzazione temporale a produrre la percezione. "E' la sincronizzazione a produrre la coerenza".

Un'altra nozione importante è che il talamo è composto da due parti. Oltre

a essere interessante, questa divisione rende le cose più facili da comprendere: c'è una regione centrale, detta "non-specifica", e una regione periferica, detta "specifica".

Sistema "specifico" e "non specifico" Il sistema non-specifico riceve gli stimoli provenienti dal tronco cerebrale,

che controlla il sonno, in generale le funzioni corporee, gli impulsi e probabilmente anche la capacità di attenzione. Il sistema non-specifico ha funzioni rivolte verso l'interno: è il "sentire" del corpo.

Il sistema specifico guarda, invece, al mondo esterno e riceve dei segnali

grezzi dall'occhio, dall'orecchio, dalla mano e dalle altre periferiche sensoriali. Ecco dunque - spiega Llinas - come funziona il sistema talamo-corticale:

ciascun neurone del talamo specifico si connette a un neurone corticale e scarica a 40 Hz. Però i potenziali d'azione sinaptici così trasmessi a questo dendrite non sono sufficienti per fare scaricare il neurone corticale. Ci vorrebbe

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un altro stimolo oltre al primo. Infatti anche nella regione del talamo non-specifico c'è un neurone che si connette allo stesso dendrite del neurone corticale e che scarica anch'esso a una frequenza di 40 Hz. Quando i segnali dei neuroni specifico e non-specifico si sommano, il neurone corticale viene attivato e può quindi scaricare,cioè rinviare il segnale verso il talamo. Il movimento di "avanti-e-indietro" tra il talamo e la corteccia è causato dalla combinazione delle attività specifiche e non-specifiche.

Se subiamo un danno a livello del talamo specifico coinvolto nella visione,

diventiamo ciechi, ma non sordi, perché solo una parte del cervello è danneggiata: quella che va dal talamo alla corteccia visiva. Analogamente, se abbiamo una lesione nella regione che collega il talamo alla corteccia uditiva, non possiamo più sentire, ma continuiamo a vedere. Vi è, dunque, una separazione tra le sensazioni.

Al contrario, se subiamo un danno nel sistema non-specifico, perdiamo in

un colpo solo la vista, l'udito e il tatto. Il sistema non-specifico è, quindi, indispensabile al buon funzionamento del sistema specifico.

Dunque: il sistema specifico rappresenta il contenuto del mondo, i colori, le

forme, i movimenti, i suoni, invece il sistema non-specifico rappresenta, invece, ciò che siamo, ciò che facciamo del contenuto, in altre parole è il contesto. L'uno osserva il mondo, l'altro osserva noi stessi. Il dialogo fra il contenuto e il contesto non è altro che la coscienza.

I quanti di coscienza Come può questo sistema collegare tutte le diverse sensazioni prodotte da

un oggetto, come per esempio un uccello? L'immagine dell'uccello, la sensazione tattile delle zampe sulla mano e il canto stanno in parti diverse della corteccia.

Le zampe producono uno stimolo da 40 Hz, il suono produce un altro

stimolo da 40 Hz e l'immagine produce un terzo stimolo da 40 Hz. Sono tre stimolazioni specifiche ma il cervello non vede ancora l'uccello perché manca la stimolazione non-specifica.

È la stimolazione non-specifica che produce un movimento a onda nella

corteccia. Se i neuroni delle tre parti, quella tattile, quella uditiva e quella visiva, scaricano insieme allora si combinano a significare "uccello"

Gli assoni del nucleo non-specifico, invece di andare verso punti specifici

della corteccia, si irradiano in tutte le direzioni. E i suoi neuroni sono organizzati in modo tale da formare un circuito. Esso funziona per 12,5 millisecondi, e poi ricomincia. L'onda si ripete regolarmente, e ogni volta tutto quello che nella corteccia oscilla a 40 Hz lo si ritrova lì. Ogni onda è un quanto di coscienza.

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L'informazione entra, in modo continuo, per esempio dalla retina, e viene subito suddivisa in pacchetti. Questi pacchetti sono quanti di coscienza.

È come quando si va al cinerma: si vede qualcuno a cavallo, o che spara

con una pistola, non lo si percepisce come un insieme di immagini, ma come un evento continuo. Ciò significa che il cervello non è in grado di distinguere tra una sequenza di immagini e un evento continuo.

Pertanto quando si innesca un'onda, si ottiene un'immagine, se ne innesca

un'altra e si ottiene un'altra immagine e così via.. La coscienza, la cognizione, è un insieme di immagini che si succedono le une alle altre come in un film. I sistemi specifico e non-specifico mettono in comunicazione tutte le parti del cervello: dal talamo alla corteccia, dalla corteccia al talamo, con un'onda ogni 12,5 millisecondi.

Il cervello è un emulatore della realtà All'interno del cervello ci sono molti miliardi di neuroni. E' un numero

enorme, eppure, il sistema funziona come un singolo evento funzionale: la coscienza.

Ed è interessante che in realtà sono molto pochi i neruoni dedicati alla

vista, all'udito o al tatto. La maggior parte dei neuroni del cervello non si occupa del mondo esterno. Queste e altre considerazioni ci fanno ritenere che il cervello sia, fondamentalmente, un sistema chiuso.

"I colori - spiega Llinas - in realtà non esistono indipendentemente da noi,

ma sono l'interpretazione che il nostro cervello fa di particolari informazioni provenienti dalla retina. Anche i suoni non esistono, ma sono la nostra interpretazione delle vibrazioni dell'aria. Analogamente, il tatto è qualcosa che noi produciamo in seguito alla deformazione della pelle.

Tutto questo ci dice che il nostro cervello è un emulatore della realtà,

qualcosa che si è evoluto nel tempo per "imitare" ciò che esiste al di fuori di noi, o, in altre parole, per costruire una storia. Ma gli elementi di questa storia esistono da prima della nostra nascita, poiché nessuno ci insegna a vedere i colori, né a sentire il dolore o le altre sensazioni. Queste facoltà nascono con noi, proprio come il naso, le orecchie e il corpo. Noi siamo come una coscienza equipaggiata con un sistema di sensazioni! Il nostro cervello è, dunque, un emulatore che genera una realtà e che ne verifica l'affidabilità servendosi delle sensazioni" [R. Llinas, I segreti della mente, 1998].

HERBERT SIMON: LA MENTE, LA RICERCA E IL COMPUTER

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Herbert Simon, oltre a essere un economista, è uno studioso di scienze politiche, un esperto di scienze dell'informazione e uno psicologo. Il filo di congiunzione tra tutte le sue ricerche è stato l'interesse per i processi decisionali e di risoluzione di problemi nell'uomo. Ha inventato e sviluppato la teoria della "razionalità limitata", che rimette in discussione la teoria economica tradizionale, secondo la quale i soggetti economici prendono decisioni in modo "ottimale". Per questo studio nel 1978 gli è stato conferito il premio Nobel l'economia. È stato tra i primi a comprendere che i computer possono essere utilizzati per simulare i processi di pensiero umano.

I suoi studi (dedicati, peraltro, a molti fenomeni cognitivi diversi, tra cui la

risoluzione di problemi, la memoria, l'apprendimento, il ragionamento dell'esperto e del principiante, e il ragionamento e la creatività scientifici) hanno rivoluzionato i fondamenti della psicologia cognitiva. Essi sono all'origine di un nuovo modo di simulare ciò che accade nella mente dell'uomo: la cosiddetta "rivoluzione cognitiva".

Si è occupato ampiamente dunque delle analogie e le differenze fra

intelligenza del computer e umana e della psicologia della risoluzione di problemi e natura dell'expertise.

"Il nostro cervello contiene miliardi di neuroni, e un numero ancora più

grande di connessioni tra neuroni. E' un oggetto molto complesso. Il nostro obiettivo è, in fondo, lo stesso di tutte le discipline scientifiche: prendere qualcosa che non capiamo e dirci: "Ci deve pur essere un ordine, un'organizzazione interna in assenza della quale questa cosa non potrebbe funzionare: cerchiamo di scoprirla". Quando scopriremo il suo ordine nascosto, allora questa cosa ci sembrerà più semplice; non meno stupefacente, né meno efficace di prima, ma semplicemente più comprensibile. Questo è lo scopo delle nostre ricerche sulla mente e sul cervello".

Mente e cervello Secondo Simon "i primi computer utilizzavano schede perforate come

supporto dell'informazione. Questo ci fornisce una metafora delle relazioni fra la mente e il cervello: il cervello è un oggetto fisico, come il cartone della scheda, la mente, invece, elabora delle forme, che sono dei simboli e che corrispondono alla configurazione dei fori sulla scheda. La mente è, dunque, rappresentata dalla configurazione dei fori, e non è possibile avere quella configurazione in assenza della scheda di cartone.

Llinas è di parere diverso: "Io sono il mio corpo, i miei pensieri, i miei

movimenti, i quali sono a loro volta il risultato del lavoro del mio cervello. Io sono il mio cervello al lavoro.

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Quando mi addormento, e non sto sognando, io scompaio, non esisto più. Il cervello sta facendo qualcos'altro. Non sta producendo me. Quando sogno, produce me usando una certa frequenza. Quando sono sveglio, utilizza un'altra frequenza".

Non vi è, dunque, dicotomia fra mente e cervello. "Non posso nemmeno

immaginare che cosa potrebbe significare la parola "mente" in assenza del cervello, poiché la mente è uno stato funzionale del cervello.

Credo che siccome la gente non vuole morire, perché la vita è

meravigliosa, perché essere coscienti è meraviglioso, si è davvero tentati di separare la mente dal corpo. Così si può negoziare: se saremo stati buoni, andremo là, se saremo stati cattivi, andremo da un'altra parte".

Ma c'è un problema più fondamentale: c'è relativamente poca differenza

tra un corpo vivo e un corpo morto. "Si può credere che ciò che noi siamo non si trovi all'interno del nostro

corpo, perché, vivo o morto, il nostro corpo resta lo stesso. Ma questa impressione denota, in realtà, solo l'incapacità degli esseri umani di distinguere fra un corpo morto e uno vivo. Storicamente questo senso di inadeguatezza ha impregnato la nostra cultura, la nostra religione e la nostra letteratura, e per questo motivo ragioniamo in questo modo" [H. Simon, I segreti della mente, 1998].

La mente e il computer Qualcuno come Herbert Simon (e tutti i cosiddettti "computazionisti")

ritiene che il computer rappresenti in modo abbastanza utile il funzionamento del cervello: "tutto mi porta a credere che la mente funzioni come un computer, che sia un tipo particolare di computer, fatto di materiali diversi dai computer che conosciamo". La maggior parte dei computer attuali ha un'architettura centralizzata, l'architettura di Von Neumann, che funziona in modo prevalentemente seriale. La maggior parte delle attività umane non può essere facilmente suddivisa in un'esecuzione parallela, poiché generalmente alcune cose devono essere fatte prima di altre, per cui l'esecuzione in serie è spesso più appropriata. Malgrado l'entusiasmo di molti per i computer altamente paralleli, la progettazione di queste macchine è stata molto lunga e ci sono molti esempi di computer paralleli che non funzionano per niente.

Perciò io credo (se non si tiene conto del parallelismo di funzionamento

della retina e degli organi di senso), che il computer di Von Neumann non sia, in prima battuta, una cattiva approssimazione dell'architettura complessiva del cervello umano".

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Ma molti altri studiosi sono di parere esattamente opposto. Secondo Rodney Brooks: "ci siamo lasciati fuorviare un po' troppo dalla

metafora del computer, che distingue tra software e hardware. I sistemi biologici non fanno questa distinzione: la funzione dipende fortemente dall'ambiente in cui essa ha luogo.

Questa metafora del cervello-macchina è davvero pericolosa. C'è stata

un'epoca in cui il cervello era considerato un sistema idrodinamico, poi è diventato una macchina a vapore. Quando ero bambino lo si paragonava a una centrale telefonica! Poi è diventato un computer, poi un computer che opera in parallelo. Tra un po' diventerà internet!

La tecnologia più complessa viene sempre presa in prestito per l'ultima

metafora del cervello, e non c'è mai fine. In futuro vedremo sorgere altre metafore in parallelo all'emergere di tecnologie sempre più complesse e affascinanti".

James McClelland ritiene che "il cervello è una macchina che non

assomiglia a nessun computer. Se è vero che un computer tradizionale può simulare i ragionamenti logici e algoritmici, io non credo che i processi di pensiero umani siano sempre logici e algoritmici. Penso, al contrario, che questi processi siano spesso paralleli, interattivi, sintetici e costruttivi. Tutto ciò fà sì che, anche se il cervello è una macchina, esso sia molto diverso da un computer qualunque". Della stessa opinione è Jean Pierre Changeux.

E Llinas aggiunge: "i computer non possiedono un'immagine di se stessi,

non sono concepiti per avere un'immagine di se stessi, sono fatti solo per elaborare i dati che noi diamo loro, per immagazzinarli e modificarli. Essi comprendono la sintassi, ma non la semantica, dal momento che non capiscono quello che fanno. E non comprendono quello che fanno, poiché la loro esistenza non dipende da ciò" [I segreti della mente, 1998].

Il pericolo del "riduzionismo" Un tema assai dibattuto è se la comprensione della mente e la descrizione

dei suoi meccanismi possano, in un modo o nell'altro, ridurre il valore dell'unicità della specie umana.

"Quando Darwin stabilì che tutti gli organismi avevano avuto origine da

un'unica forma di vita - ironizza Herbert Simon - molti hanno pensato che ciò avrebbe sminuito gli esseri umani. Negli Stati Uniti ci sono ancora persone che la pensano così, ma la maggior parte di noi non è angustiata dall'idea di avere un antenato in comune con le altre creature viventi di questo mondo. L'errore sta nel credere che l'unicità sia importante e che essa sia la fonte del valore

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dell'uomo. Dovremmo pensare meno alla nostra unicità e più al fatto che facciamo parte di un universo molto più grande, di un pianeta molto più vasto, che accoglie molte altre creature".

E aggiunge: "Credo che comprendere noi stessi, e apprezzare i meravigliosi

meccanismi che ci animano, non porti in alcun caso a sminuire la nostra umanità".

Sui rischi del "riduzionismo" Jean-Pierre Changeux: scrive che "la

conoscenza viene sempre acquisita eliminando e riducendo, in modo da isolare uno specifico oggetto di studio. In questo senso, ogni impresa scientifica è necessariamente "riduzionista". Ma non amo che la parola "riduzionismo" sia usata negativamente per descrivere gli studi sul cervello, poiché ogni tentativo di comprendere il mondo, ogni impresa scientifica, comporta l'eliminazione e la semplificazione di informazioni, al fine di scoprire nuove strutture"

Stephen Kosslyn si definisce "materialista non-riduzionista". "E' un po'

come in architettura: non si può parlare di archi, o confrontare lo stile georgiano con un altro stile parlando solamente di mattoni, pietre e malta. E non si può costruire un grattacielo solo con i mattoni. Non si potrà sostituire un discorso sulle rappresentazioni, sugli obiettivi, sui desideri eccetera, con un discorso sui neuroni, i flussi ionici eccetera. Non credo sia neppure possibile pensare che un giorno saremo in grado di sostituire un discorso sulla mente con un discorso sul cervello".

ALCUNE QUESTIONI APERTE Il mio cervello può comprendermi? Dalla bella opera multidmediale I segreti della mente traggo molto spunti

per considerare alcune questioni aperte. Secondo Herbert Simon comprendere il funzionamento teorico della mente,

come si fa in psicologia, ci consente di conoscere i meccanismi del sé. Però "per capire perché io faccio quello che faccio in ogni dato momento, avrei bisogno di avere molti più dati di quelli che possiedo sui contenuti esatti della mia mente, e supporre che essi possano essere completamente accessibili. Anche se avessi una buona teoria della mente, non credo che sarei in grado di comprendere il mio proprio comportamento, non più di quanto un fisico che possiede una buona teoria sui metalli possa prevedere se un pezzo d'acciaio sia sul punto di rompersi. Sono elaborazioni a livelli di precisione differenti, le quali richiedono insiemi di dati completamente diversi per funzionare".

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Esiste il libero arbitrio? Sempre secondo Herbert Simon l'esistenza del libero arbitrio dipende dal

modo in cui lo si definisce. "Certe persone lo spiegano con l'indeterminazione quantica, il fatto che le equazioni quantistiche di Heisenberg lascino un certo margine di incertezza. Io non vedo il rapporto con il libero arbitrio: libero arbitrio vorrebbe, dunque, dire che i miei atomi possono competere con me? Dov'è allora il mio libero arbitrio? Forse nel fatto che sono un prodotto del caso? Ma questo non è il libero arbitrio!

Il libero arbitrio è il fatto che "io" possiedo certe caratteristiche e un certo

numero di conoscenze che riflettono le esperienze della mia vita, io costituisco un "sistema" in grado di scegliere a ogni dato momento tra più soluzioni, come ad esempio parlare o tacere. Io trovo sempre più facile parlare che non starmene zitto! E' questo il mio libero arbitrio; il fatto che "io", ossia l'insieme degli elementi presenti nella mia testa, possa fare questa scelta. E questa scelta è il risultato dell'esecuzione di un certo numero di "regole" che non sono né dettate dal caso, né il prodotto dell'indeterminazione quantica. Ecco, questa è la mia idea del libero arbitrio".

Secondo Jean-Pierre Changeux: "il nostro cervello contiene una sorta di

spazio per la coscienza, nel quale vengono prese le decisioni. Queste decisioni derivano da una sintesi fra i segnali provenienti dal mondo esterno e dalla memoria, in relazione al "sé". Di conseguenza, vengono compiute delle scelte.

"Se è questo ciò che si dice libero arbitrio, allora sì, sono d'accordo che

esista. L'espressione "libero arbitrio" può avere diversi significati. Mi piace la definizione di Spinoza: "Gli esseri umani pensano di essere liberi fino a quando sono inconsapevoli delle cause che li determinano"".

Anche secondo James McClelland i comportamenti umani siano totalmente

non-deterministici e sono il risultato dell'incontro spontaneo di un gran numero di influenze esterne con le condizioni psicologiche del momento,e il risultato può essere un comportamento quasi completamente casuale. "Perciò, ci può venire un'idea in qualsiasi momento, per delle ragioni non determinate: era una delle tante idee possibili in quel momento, ma la sua gestazione non era preordinata, né completamente predeterminata a priori.

Ciò non implica tanto un libero arbitrio, quanto una mancanza di

determinismo". La mente è ben adattata all'ambiente esterno?

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Anche questo è un tema su cui attualmente si dibatte grandemente. Quanto è davvero evoluta e abile la mente umana?

Per alcuni la mente umana è straordinariamente ben adattata al suo

ambiente e in ogni momento trova il modo per avere a disposizione le informazioni più appropriate. "Quando si deve prendere una decisione, generalmente la scelta operata dalla mente è la più saggia possibile. I limiti che talvolta si osservano nel pensiero umano sono, di fatto, il risultato della concentrazione della mente sulle informazioni più rilevanti ai fini della decisione da prendere" (John Anderson).

Secondo Eric Kandel, "anche se i nostri processi mentali sono altamente

imperfetti, noi possediamo delle capacità straordinarie, che non possono che suscitare stupore e ammirazione. Sono convinto che queste capacità continueranno a stupirci per i prossimi cinquanta o cento anni".

Il cervello riesce a costruirsi una rappresentazione degli oggetti e della loro

posizione nello spazio visivo esterno a partire da segnali variabili e poco definiti, e lo fa in un modo al quale nessun sistema robotico attuale può nemmeno avvicinarsi. Inoltre, riesce a calcolare traiettorie nello spazio, che ci permettono di evitare di investire oggetti e di provocare catastrofi quando ci muoviamo nell'ambiente.

Noi risolviamo in continuazione problemi di equilibrio dinamico e di

interpretazione di segnali ambigui: problemi che ogni informatico ben conosce come quasi del tutto irrisolvibili con le tecnologie attuali.

"Perciò dobbiamo tenere bene a mente queste nostre capacità, che,

nonostante le molte imperfezioni, sarebbe utile considerare come delle procedure potenzialmente ottimali".

Fino a che punto quello che noi oggi chiediamo alla nostra mente

corrisponde a ciò per cui essa si è evoluta? Secondo David Servan-Schreiber è notevole che, dal punto di vista

mentale, cognitivo ed emozionale, i nostri antenati avessero una vita radicalmente diversa dalla nostra, ma che, ciò nondimeno, oggi l'uomo si trova a dover fare i conti con lo stesso bagaglio anatomico e biologico di cui disponevano loro.

"E' assolutamente improbabile che il nostro cervello si sia evoluto per

ricordare i numeri telefonici; esso non è mai stato sottoposto a pressioni evolutive per ottenere prestazioni di questo tipo. Questa necessità ha avuto inizio circa settant'anni fa, ed è davvero improbabile che abbia esercitato un impatto di alcun tipo sui nostri geni. E' chiaro che il nostro cervello, proprio come i ritmi e le modalità del nostro sonno, si è evoluto per far fronte a circostanze molto diverse da quelle a cui noi lo esponiamo oggi.

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Ma allora, il cervello è o non è un organo altamente adattato? Naturalmente lo è, ma non per il tipo di società in cui stiamo vivendo. Possiamo constatare questi difetti e le conseguenze di questa discrepanza nella nostra vita di tutti i giorni, dal jetlag all'insonnia cronica, all'iperstimolazione esercitata su di noi dalla televisione e dalla pubblicità, ai comportamenti sociali anormali derivanti dalla promiscuità delle interazioni umane e dalla rottura delle leggi tradizionali di organizzazione gerarchica e sociale".

Rodney Brooks, invece, pensa che l'intelligenza umana, essendo il prodotto

di un'evoluzione in un ambiente complesso, popolato di numerose altre specie e moltissimi esseri umani, non è assolutamente ottimale. Essa è semplicemente il risultato di adattamenti locali a condizioni specifiche, incontrate nel corso dell'evoluzione.

"Sono certo che esistono cose a cui l'uomo è completamente incapace di

pensare, su cui non sa ragionare e che non arriva a comprendere; cose che forse altre specie, da qualche parte dell'universo, sono in grado di fare e capire. Viceversa, queste creature potrebbero magari vivere in società tecnologiche, ma essere del tutto incapaci di pensare a certe cose su cui noi invece riflettiamo normalmente. Come potrebbe anche darsi che certe specie siano migliori di noi sotto tutti i punti di vista".

È comunque un problema difficile da affrontare perché "nulla è davvero

ottimale se si definiscono le alternative in modo sufficientemente ampio" (Herbert Simon). "Il nostro è un mondo molto complicato, di cui la nostra coscienza vede solo una minima parte. Perfino in questa stanza, per la maggior parte del tempo noi ignoriamo gran parte degli oggetti presenti.

Noi non ottimizziamo niente, semplicemente decidiamo cosa occorre fare e

troviamo il modo per farlo. A volte troviamo delle buone soluzioni, a volte delle soluzioni meno buone, e cerchiamo di adottare le migliori. Ma la parola "optimum" in questa nostra vita non ha molto senso.

Quel che possiamo dire, a proposito della mente, è che essa è ben adattata

nella misura in cui, finora, l'evoluzione è riuscita a renderla tale. E questo ha consentito, nel bene e nel male, a sei o sette miliardi di persone di vivere simultaneamente sulla faccia della Terra, almeno fino ad ora. Perciò, in questo senso, la storia della mente è la storia di un successo. D'altra parte, se si misura questo successo considerando la velocità alla quale gli esseri umani si uccidono fra loro, beh, allora si potrebbero trovare dei margini di miglioramento. In verità, non saprei proprio con quale criterio valutare questo successo".

JEAN-PIERRE CHANGEAUX: INFANZIA E MATURITÀ DEL CERVELLO

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Jean-Pierre Changeux ha compiuto i suoi studi in scienze naturali alla

Scuola Normale Superiore di Parigi e ha conseguito il dottorato di ricerca sotto la guida del premio Nobel Jacques Monod. Dal 1975 è titolare della cattedra di comunicazione cellulare presso il Collegio di Francia di Parigi e dirige il laboratorio di neurologia molecolare all'Istituto Pasteur. Ha scittto L'uomo neurone

Le sue ricerche stabiliscono un legame fra la scienza di base, la biologia e

la medicina, contribuendo alla comprensione dei meccanismi fondamentali della vita. Esse hanno, inoltre, importanti implicazioni per le applicazioni cliniche e la farmacologia. E' stato il primo scienziato a isolare il recettore di un neurotrasmettitore. Inoltre, in collaborazione con Antoine Dranchin, ha dimostrato come la rete di neuroni del cervello si sviluppi moltiplicando le connessioni tra le cellule nervose e successivamente eliminando, per "selezione selettiva", quelle ridondanti [I segreti della mente, 1998].

L'infanzia del cervello A uno stadio precoce dello sviluppo cerebrale appare una struttura

primitiva: la placca neurale. Essa si ripiega rapidamente su se stessa formando una sorta di tubo, che in seguito andrà a suddividersi in più vescicole. Durante questa fase, chiamata "neurulazione", le cellule che sono i precursori dei futuri neuroni si moltiplicano in modo estremamente veloce. Vi è, dunque, una prima fase, nella quale si assiste all'acquisizione della forma generale del cervello, e alla proliferazione e al differenziamento delle cellule nervose.

Aprendo un cranio, vi si trova dentro un cervello. Il cervello è un organo

che pesa circa 1,4 kg e che presenta molte circonvoluzioni, pressoché identiche in ogni essere umano. In tutti gli esseri umani il cervello ha una forma molto simile, caratteristica della nostra specie. È, invece, molto diverso da quello degli orangutan, degli scimpanzé e dei macachi.

Il cervello è una macchina estremamente complessa, di fronte alla quale

non possiamo che stupirci. Il nostro cervello non viene costruito, come un computer, assemblando circuiti prefissati. Piuttosto, si sviluppa progressivamente, passando attraverso diversi stadi. Durante questo processo di sviluppo, il cervello umano è in costante interazione con il mondo esterno e tale interazione consente l'imprinting culturale: l'acquisizione del linguaggio, l'apprendimento di regole di condotta e di sistemi morali e simbolici.

Lo sviluppo delle connessioni neuronali

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Una delle caratteristiche delle cellule nervose è che, una volta formate, non si dividono più. Non appena si differenziano, al termine della divisione cellulare, esse cominciano a sviluppare connessioni l'una con l'altra. Queste connessioni non sono lineari: somigliano piuttosto a piccoli alberi, i cui rami crescono progressivamente durante lo sviluppo del cervello. Di conseguenza, la rete delle connessioni diventa sempre più complessa nel corso dello sviluppo, in particolare dopo l'infanzia.

Lo sviluppo delle connessioni neurali è graduale. L'estremità distale di una

connessione in via di sviluppo ha forma conica. E' una sorta di ricognitore che consente alla connessione in crescita di trovare la propria strada. Questa struttura è chiamata "cono di crescita". Mentre si muove, il cono di crescita "tasta" le cellule in cui si imbatte, finché non raggiunge e riconosce le proprie cellule bersaglio. Dopo averle riconosciute, il cono si connette ad esse formando una sinapsi.

Le caratteristiche delle cellule bersaglio di un dato neurone sono in

prevalenza determinate a livello genetico. Ad esempio, i motoneuroni del midollo spinale si connettono sempre a specifici muscoli scheletrici. Può, tuttavia, succedere che un dato neurone riconosca più cellule bersaglio di uno stesso tipo. Vi è, dunque, un certo grado sulla destinazione finale di questo neurone.

Per risolvere questo problema, il neurone si connette a un numero di cellule

superiore rispetto a quello necessario nello stadio adulto. Esiste, pertanto, un primo stadio nel quale vengono stabilite troppe connessioni, seguito da uno stadio successivo nel quale le connessioni superflue vengono eliminate. In altre parole, la rete delle connessioni dell'adulto viene "stabilizzata" e le sinapsi che "sopravvivono" sono selezionate durante lo sviluppo.

L'esperienza seleziona le connessioni Una volta che il cono di crescita ha raggiunto la sua destinazione e che si

sono formate diverse connessioni sinaptiche funzionali, alcune di queste connessioni devono essere selettivamente eliminate.

Tale eliminazione è controllata dall'attività del sistema nervoso durante lo

sviluppo. Ad esempio, se si paralizza un muscolo, il numero di sinapsi stabilite sulle sue fibre non diminuisce. Se, però, si stimola il motoneurone di tale muscolo, alcune di quelle sinapsi scompaiono. Questo dimostra che l'eliminazione delle sinapsi è controllata dall'attività del sistema nervoso durante lo sviluppo del cervello.

Un fenomeno simile si verifica durante lo sviluppo del sistema visivo. Ogni

qualvolta viene alterata la competizione fra i due occhi, alcune sinapsi che nello sviluppo normale avrebbero dovuto essere eliminate sono, invece, mantenute.

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Questo accade soprattutto nel caso in cui uno dei due occhi è cieco. Pertanto, se l'occhio ha attività anormale o nulla la funzione dei neuroni visivi risulta alterata.

Anche dopo la nascita continuano a formarsi nuove connessioni sinaptiche.

In effetti, il 90% delle sinapsi della corteccia cerebrale si instaura tra la nascita e i due anni d'età.

Una conseguenza di questo sviluppo cerebrale prolungato dopo la nascita è

che il cervello di un bambino interagisce con il proprio ambiente sociale e culturale per un tempo straordinariamente lungo.

Ciò permette molti tipi di interazione. Alla nascita il bambino comincia a

mettersi in relazione con i propri genitori, poi l'interazione si estende gradualmente ad altri bambini, creando così le prime relazioni sociali. In questa fase il bambino impara anche a camminare, a riconoscere i genitori e il proprio ambiente sociale. Si trova immerso nel linguaggio, che a poco a poco impara a riprodurre egli stesso. Il suo cervello gradualmente apprende come assegnare simboli alle immagini presenti nell'ambiente. Impara, inoltre, regole di condotta morale, ed è possibile che anche il senso estetico si sviluppi in quest'età.

Lo sviluppo continua fino alla morte Changeaux sostiente che Il cervello non è una struttura stabile che resta

immutata dalla nascita alla morte. Al contrario, si evolve costantemente. Si forma in età prenatale. Dopo la nascita lo sviluppo continua con l'apprendimento delle capacità cognitive fondamentali, come il linguaggio e il senso morale.

Il cervello normale raggiunge la funzionalità ottimale nell'età adulta. Con

l'invecchiamento, tuttavia, alcune capacità, come la memoria per i nomi, si alterano. Probabilmente tali alterazioni aiutano le persone anziane a vedere il mondo in un modo più semplice e coerente. Un possibile beneficio di tale semplificazione nel cervello che invecchia è la migliore organizzazione di alcuni pensieri e azioni. Pertanto, il cervello possiede a ogni età capacità appropriate all'interazione con il proprio ambiente.

Tipi di memoria e acquisizione dei linguaggio "La memoria non è un sistema unitario, ma piuttosto un mosaico di

sistemi. Nell'ambito della memoria a lungo termine, per esempio, si distingue

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la memoria dichiarativa da quella procedurale. La memoria dichiarativa comprende informazioni riguardanti specifici fatti ed episodi (memoria episodica) e conoscenze enciclopediche (memoria semantica). Le informazioni contenute in questo tipo di memoria sono accessibili all'introspezione (memoria esplicita) e possono essere verbalizzate (recupero consapevole). L'acquisizione di nuove informazioni di tipo episodico e semantico sembra legata all'ippocampo e alle porzioni mediali del lobo temporale. Una volta fissate, queste informazioni vengono depositate nelle aree corticali associative temporo-parietali.

La capacità di apprendere procedure che richiedono contemporaneamente

un bagaglio di conoscenze e un'abilità motoria come, per esempio, il gioco del tennis, rappresenta un tipo di memoria che tipicamente si instaura tramite ripetizioni del compito e non richiede consapevolezza (memoria implicita). Questo meccanismo implicito è probabilmente anche alla base dell'apprendimento della lingua materna" [Aglioti – Fabbro, 1999, p. 58].

LA NEUROPSICOLOGIA Oggi esiste una branca che si avvale delle immense conoscenze della

biologia e soprattutto della neurobiologia mettendole in collegamento con la ricerca psicologica: si chiama neuropsicologia.

"La neurofisiologia e la psicologia sperimentale sono diverse per metodo e

per oggetto di studio. In comune hanno solo il carattere rigorosamente scientifico della ricerca che rinuncia a interpretazioni non verificabili. La neurofisiologia, infatti, è lo studio delle strutture nervose, mentre la psicologia sperimentale è lo studio del comportamento in condizioni rigorosamente definite. La loro sintesi è giustificata da due fatti: da un lato la neurofisiologia dei fenomeni psichici richiede la definizione di situazioni psicologiche sperimentali, senza le quali non è possibile studiare, da un punto di vista nerufisiologico, il comportamento; dall'altro la psicologia sperimentale, che formula leggi sul comportamento a partire dall'osservazione, trova nella neurofisiologia la possibilità di confrontare le sue ipotesi strutturali, di modificare i suoi assunti e di concepire nuovi esperimenti. [...]

Ponendosi ai confini tra il somatico e lo psichico, nel tentativo di superare

questo dualismo che non ha consentito una comprensione dell'uomo nella sua integrità, la neuropsicologia apre nuovi punti di vista che pongono alternative e problemi che passano trasversalmente rispetto a quelli che prima costituivano due settori nettamente separati.

Per questo le sue zone di confine sono anche zone di apertura verso la

medicina psicosomatica nel tentativo di chiarire quei meccanismi psicobiologici finora letti solo nelle coordinate della psicologia dinamica; [...] verso la filosofia

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a cui offre basi sperimentali per la soluzione di alcuni problemi connessi alle strutture causali, spaziali e temporali dell'esistenza umana.

Queste aperture sono legittimate dalla persuasione che l'attività mentale

non solo va sempre più studiata con metodi fisiologici simili a quelli della ricerca biologica, ma anche che essa, per la sua stessa complessità di sviluppo, impone un'evoluzione dei metodi di ricerca che tengano continuamente conto del fenomeno comunicativo e di integrazione individuale a cui i meccanismi fisiologici sottesi approdano. Non più dunque l'organo o l'organismo in isolamento, ma l'interazione dell'organismo con gli altri organismi e l'ambiente a partire dal quale si tenta di risalire ai meccanismi che sono alla base di questo rapporto" [DPL, 1992, pp. 607-608] .

A tale nuova prospettiva appartiene anche la psicobiologia (A. Meyer) che

punta all'"integrazione" dell'organismo, la psicofarmacologia (nata negli anni '50 ma che peraltro oggi non suscita più i grandi entusiasmi del primo ventennio di di studi), la psicofisica che studia il rapporto tra stimoli e risposte, la psicofisiologia che studia le realzioni tra processi mentali e sistema nervoso, e la psicosomatica.

RITA LEVI MONTALCINI Rita Levi Montalicini ritiene che "rimane tuttora insoluto quello che è stato

definito il problema numero uno che riguarda l'uomo: la comprensione delle modalità funzionali della mente .[...]La conoscenza della funzione del proprio cervello ha affascinato l'uomo sin da epoche remote della civilità". E, citando Francis Crick, aggiunge "per l'uomo non esiste ricerca scientifica più importante di quella che ha per oggetto il suo cervello. La nostra visione dell'universo è astrattamente legata ad essa. Ancora più che la conoscenza dell'universo è di fondamentale importanza pervenire alla conoscenza del nostro cervello, che non soltanto è la chiave di comprensione dell'universo stesso, ma è anche quella per poter penetrare e capire le modalità di funzione della mente umana".

È dunque necessario "capire il rapporto fra le basi morfologico-funzionali e

le attività mentali" [Levi Montalcini, 1999, p. 122-123]. "Negli ultimi decenni l'approccio al problema cervello-mente è diventato interdisciplinare e coinvolge la psicologia, l'informatica, la filosofia, la linguistica e le neuroscienze; esso è rappresentato dalle scienze cognitive che mirano a fornire un apporto decisivo alla filosofia della mente.

Ma contemporaneamente hanno assunto un ruolo decisivo nei settori

scientifici, tecnologici, economici e dei servizi in tutto i Paesi ad alto sviluppo culturale e tecnologico. Le loro applicazioni sono in crescita nel campo

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educativo, nell'interazione uomo-computer e in genere uomo-artefatti teconologici, nello sviluppo delle tecnologie dell'informazioone e della comunicazione, nel prendere decisioni, nel formulare e attuare scelte politiche e nel campo dei disturbi del comportamento.

L'interesse nei risultati conseguiti è legato sia dal loro apporto nella

conoscenza delle componenti e delle funzioni dei circuiti cerebrali, sia al fatto che tale conoscenza ha diretta attinenza all'affronto di grandi problematiche sociali quali la devianza, il disagio psichico diffuso, la convivenza multietnica, l'handicap, la formazione giovanile" [Levi Montalcini, 1999, p. 126-127].

LA PSICONEUROIMMUNOLOGIA Al Congresso "The early human life" organizzato dall'Istituto di ginecologia

e ostetricia dell'Università Cattolica di Roma, sono state divulgate delle stupefacenti scoperte che confermano l'importanza delle ricerche in quel terreno di incontro pluridisciplinare che è la psiconeuroimmunologia.

Gli scienziati hanno confermato che una madre viene modificata dalla

gravidanza in modo permanente dalla presenza del figlio, di cui "eredita" in certo qual modo alcune caratteristiche e, attraverso il figlio, anche dal padre del bambino. Che il figlio erediti il cinquanta per cento del suo patrimonio genetico dalla madre e che nella sua vita uterina "senta" il mondo esterno attraverso il corpo materno - che quindi condiziona in modo sostanziale la vita del feto - sono dati di fatto acquisiti. Sorprende invece apprendere che anche la madre subisce alcune modificazioni a lungo termine dalla gravidanza proprio dalla "persona" del figlio e, indirettamente, anche del marito.

"Abbiamo le prove - spiega il professor Salvatore Mancuso - che, sin dalla

quinta settimana di gestazione, vale a dire quando la donna si accorge di essere incinta, passano dall'embrione alla madre un'infinità di messaggi, attraverso sostanze chimiche quali ormoni, citochine, linfochine , neurotrasmettitori eccetera. Tali informazioni servono a far adattare l'organismo della madre alla presenza del nuovo essere. In più è stato riscontrato che l'embrione manda anche cellule staminali che, grazie alla tolleiranza inununitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il midollo materno, da cui non si separano più. Anzi, da qui nascono linfociti per tutto il resto della vita della donna".

Ma anche prima della quinta settimana, sin dal concepimento partono

messaggi e succede qualcosa di importante a livello psiconeuroimmunologico. "Anche durante la prima fase di suddivisione cellulare, quando l'embrione transita attraverso le tube, avvengono trasmissioni per contatto con i tessuti dove l'embrione si muove. Poi, dopo l'impianto in utero, il dialogo si fa più intenso per via ematica e cellule e sostanze chimiche entrano nel circolo sanguigno della madre.

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Infine cellule staminali del figlio passano alla madre in grande quantità sia

al momento del parto, naturale o cesareo, sia in caso di aborto. Queste cellule si impiantano nel midollo della madre e producono linfociti, che hanno un'origine comune con le cellule del sistema nervoso centrale, hanno recettori per i neurotrasmettitori e possono far passare messaggi che il sistema nervoso materno capta.

Si apre un territorio di ricerca stupefacente: sono informazioni di enorme

importanza sulle prime fasi della vita". Quando si fa distinzione tra embrione e pre-embrione si compie un errore

grossolano: in una fase così iniziale non si può certo parlare di sistema nervoso centrale, ma i messaggi che vengono mandati dall'embrione alla madre esprimono manifestazioni proprie della specie umana. E vengono usati strumenti che sono sostanze chimiche molto specializzate e cellule totipotenti come le staminali. Occorre ricordare che se mancasse la comunicazione, l'organismo materno rifiuterebbe l'embrione.

Il dialogo permette l'accoglienza perfetta di un organismo estraneo per il

50% dal patrimonio genetico della madre. Infatti queste sostanze chimiche esprimono le esigenze nutrizionali e metaboliche dell'embrione alla madre e ne provocano una depressione immunitaria e una tolleranza che permettono l'accoglienza del nuovo essere.

Le cellule staminali sono state trovate nella madre anche trenta anni dopo

il parto. Si può dire che, invece delle quaranta settimane canoniche, la gravidanza dura tutta la vita della donna.

E deve far riflettere anche circa le ipotesi di utero "in affítto": in questo

caso la madre che ospita l'embrione accoglie un essere che ha il patrimonio genetico estraneo per il 100% e che la "rnodifícherà" per il resto della vita. Non abbiamo idea delle conseguenze a distanza di tali operazioni. E nuove domande si pongono anche per le tecniche di fecondazione artificiale di tipo eterologo".

Un dialogo a distanza Stupisce anche l'idea che qualcosa del padre si trasferisca nella madre. "Sono territori ancora da esplorare nelle loro potenzialità. Certo si impone

una riflessione su un nuovo modo di intendere la gravidanza. Si crea indubbiamente un legame stretto anche tra donna e uomo, perché il figlio ha per un 50% le caratteristiche genetiche del padre. E le cellule staminali ematopoietiche (che sono state ritrovate anche nel fegato della madre come epatociti) vanno nel midollo e producono cellule figlie, linfociti, che sintetizzano

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citochine, e neurotrasmettitori con la capacità di dialogare con il sistema nervoso centrale materno.

È un po' come se i "pensieri" del figlio passassero alla madre persino tanti

anni dopo la sua nascita" . Questo è solo un esempio delle grandi possibilità di indagine che ha la

psiconeuroimmunologia , la scienza che studia i rapporti tra psiche, cervello e sistema immunitario e con quello ormonale. Tale disciplina, nata una quindicina di anni fa, ha procurato una grande rivoluzione che cambierà a fondo la medicina. Ma solo oggi è giunta a risultati davvero strabilianti.

Nei laboratori di ricerca e nelle università più avanzate del mondo si è

dimostrato in modo chiaro che il cervello è in grado di influenzare il sistema immunitario e che a sua volta, fatto ancor più sorprendente, quest'ultimo fa sentire i suoi effetti sul cervello. Sono state decifrate anche le "parole" di questo dialogo interno al nostro corpo: si tratta di piccole molecole, dette "neuropeptidi", che vengono rilasciate e captate sia dalle cellule nervose sia da quelle immunitarie ed endocrine.

La portata di questa rivoluzione non sta solo nel rappresentare un punto

d'incontro tra le ricerche della medicina organica e quelle della psicosomatica, ma nell'interpretare in modo nuovo vecchie malattie (infettive, cardiache, infiammatorie, metaboliche, tumorali) e nel suggerire più appropriate terapie.

"Il misterioso "salto dalla mente al corpo", come lo definiva la vecchia

psicoanalisi, e che è stato l’assillo dei filosofi per migliaia di anni; in seguito, della medicina psicosomatica e, in generale, di tutti coloro che si sono occupati dello studio dei rapporti tra mente, cervello e funzioni dell’organismo, sembra avviarsi a considerazioni sempre più stimolanti.

Negli ambienti in cui ci si occupa di "psiconeuroimmunologia", un nome

chilometrico per definire una disciplina che fa da "ponte" tra territori che apparivano separati, c’è aria di grande fermento. […] Tenuto conto che non è più possibile parlare di singola causa nello sviluppo di una malattia – fosse anche l’influenza – gli studi confermano sempre più il ruolo centrale dello stress emozionale nel determinare le modificazioni delle risposte immunitarie. […] Il sistema immunitario non sarà quindi un "secondo cervello", come qualcuno aveva azzardato, ma è legittimo considerarlo un ulteriore aspetto del sistema nervoso centrale "disperso" a livello viscerale e macromolecolare [Garzia, 1997, pp. 22-23].

Specificità e plasticità

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S. Rose si è occupato del problema se è la funzione che determina la via, cioè i collegamenti si sviluppano nel processo che il soggetto compie attraverso l'interazione con il mondo esterno, o se invece è la via che determina la funzione, cioè i collegamenti tra neuroni sono geneticamente determinati [Rose, 1976, p. 193].

Rose dice che sembrerebbe a propri più probabile la prima ipotesi. Invece

esperimenti condotti sugli anfibi, nei quali sono consentiti dalla capacità delle fibre nervose recise di rigenerarsi, dimostrano come valida la seconda ipotesi - la via determina la funzione - poiché le fibre recise ricrescono ritrovando con precisione le loro iniziali connessioni.

Nei mammiferi, le cui fibre nervose non hanno tale proprietà di ricrescita,

non è possibile verificare la determinazione genetica dello sviluppo delle connessioni. Tuttavia prove indirette e considerazioni sull'importanza di tali proprietà del sistema nervose, che certamente dovrebbero essersi conservate nell'evoluzione, fanno propendere per la seconda ipotesi anche nell'uomo.

Tuttavia secondo Rose la specificità va intesa meno rigidamente, nel senso

che alle vie geneticamente prestabilite può aggiungersi un enorme numero di ulteriori collegamenti determinatisi con la funzione.

La plasticità è più importante della specificità per il funzionamento del

cervello: permette l'apprendimento e la memoria e conferisce identità e unicità all'individuo (nei pensieri, nelle emozioni e nei comportamenti).

"La specificità determina la specie e la popolazione; la plasticità

l'insostituibilità e unicità dell'individuo e la capacità evolutiva sociale" [Rose, 1976, p. 201]. La specificità crea l'uguaglianza di due gemelli monoovulari, la plasticità li differenzia.

Plasticità e coscienza sono correlate e aumentano a mano a mano che si

sale nella scala evolutiva e si raggiunge l'uomo, la cui singolarità è maggiore di quelle del cane o della scimmia.

"Come a livello di comportamento così a livello neuronale la plasticità deve

modificare il cervello in termini di architettura, biochimismo e risposte elettriche", tutti verificati sperimentalmente con la registrazione di potenziali elettrici "d'azione", elettroencefalogramma, evoluzione della struttura microscopica con lo sviluppo dell'individuo.

Il difficile è determinare la misura dell'influenza dell'ambiente rispetto a

quella della determinazione genetica. E anche come grandi differenze individuali nel comportamento, intellettuali, morali o sociali, siano codificate nel cervello sulla base di differenze strutturali assai piccole da soggetto a soggetto (peso, volume, numero, tipi e disposizione dei neuroni, eccetera) praticamente identiche [Rose, 1976, p. 202].

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E tale problema rimarrà aperto ancora a lungo. Va però chiarito che polemica eredo-ambientale può essere superata dalla

considerazione che esiste una sorta di terzo elemento, ovvero che il fattore genetico (nonostante la sua fissità) è dotato anche di un potenziale di variabilità nella gamma di risposte ai diversi stimoli ambientali.

Alleanza delle aree cerebrali Su quale sia la sede della coscienza indagano un po' tutti. "I risultati di una recente ricerca pubblicata su Nature e svolta da un

gruppo di ricercatori francesi del Laboratorio di neuroscienze cognitive dell'ospedale Salpetrière di Parigi, suggeriscono che la coscienza potrebbe emergere dalla momentanea alleanza di un insieme di aree cerebrali coinvolte in un determinato compito, da una comune attenzione a un particolare aspetto della realtà. L'intreccio tra attenzione e coscienza risulta dai dati di numerose ricerche sull'attenzione selettiva".

In che modo la coscienza si focalizza su un particolare aspetto della realtà?

Secondo numerosi psicologi e scienziati cognitivi l'attenzione guiderebbe il contenuto della coscienza e la coscienza, a sua volta, guiderebbe l'attenzione in una sorta di moto circolare. La coscienza, anziché essere il frutto di un piano ordinato, ordito dalla corteccia frontale, emergerebbe dal caos, dalle configurazioni che derivano dalle momentanee alleanze delle parti del cervello coinvolte in una particolare funzione" .

La coscienza comanda il corpo "Analizzando la coscienza, essa si presenta come "continua", estesa a tutto

il periodo di veglia dell'uomo, "autoeccitantesi" perché possiede una costante eccitazione interna, quindi "autonoma" e "indipendente", e "non più evolvibile" perché più che coscienza di sé non può essere. Tutto ciò pone l'uomo, possessore di questa coscienza, in un punto (o posto) del suo corpo da cui vede il corpo come una realtà che gli è esterna anche se vi è dentro, perché lo usa come un oggetto qualunque della sua esperienza quotidiana e lo comanda come crede in rapporto a motivazioni sue che possono coincidere, ma il più delle volte non coincidono affatto, con le emozioni del corpo o le sono diametralmente opposte […] Il determinismo che domina il corpo le è completamente estraneo.

Se la coscienza è una realtà biologica cerebrale, la prima definizione da

accettare è che l'uomo non è più un animale; lo era fino alla scimmia, ma il salto dalla scimmia all'uomo non è più paragonabile ai passaggi precedenti

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perché l'uomo nella realtà cerebrale della sua coscienza ha raggiunto uno stadio evolutivo concettualmente e praticamente antitetico a quello della scimmia. L'uomo è un "individuo" e questa sua realtà, conclusa e definitiva, è tale da porlo "fuori" del concetto solito di specie" .

Il cervello è soggetto o oggetto? A proposito del dilemma se il cervello, in cui nasce e si sviluppa la

coscienza, debba essere considerato "oggetto" (come il corpo in cui è contenuto) o "soggetto" (come la sua funzione) Franco De Carli conclude che si deve "necessariamente" pensare "che l'evoluzione col cervello ha creato un "corpo" nel corpo in cui è contenuto. […] In realtà l'uomo è composto, indipendentemente da come appare, da due corpi, uno dentro l'altro, il primo e più importante formato dal cervello e dalla sua funzione della coscienza, il secondo da tutto il resto del corpo con i suoi organi […] L'evoluzione ha finalmente realizzato nell'uomo un "corpo" che realmente e funzionalmente si è separato dal corpo animale sia perché lo vede e lo domina, sia perché vive in sé una legge di libertà che il corpo ignora; è una libertà dal determinismo del corpo, anche se la coscienza non è libera dal determinismo delle sue motivazioni" .

È POSSIBILE DEFINIRE L'INTELLIGENZA? All'inizio del '900 si presupponeva che ci fosse un'intelligenza "generale"

riducibile a un solo fattore, il cosiddetto "fattore g". Il modello si rivelò subito un "abito" mentale troppo stretto. Negli anni '30 Luois Thurstone, della Chicago University, postulava un'intelligenza fatta di almeno sette "vettori" indipendenti (che negli anni '60 salirono a 150). Oggi Robert Sternberg, della Yale university, propone un'intelligenza triarchica: fatta di abilità di calcolo, sensibilità al contesto, reattività al nuovo.

Ma la teoria più popolare l'ha elaborata venti anni fa Howard Gardner,

docente di psicologia da Harvard, postulando otto intelligenze multiple, dalle tradizionali (linguistica, logico-matematica, spaziale) ad altre radicalmente nuove: cinestesica (eccellenza nella coordinazione dei movimenti, propria di atleti e danzatori), musicale, emozionale (di due tipi), naturalistica (un esempio Darwin).

E ora cerca di completare l'opera definendo una nona intelligenza: quella

"esistenziale", propria di filosofi e capi spirituali, da Kierkegaard al Dalai Lama .

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La mente divisa in due Ma anche se non possediamo una definizione esaustiva e onnicomprensiva

dell'intelligenza siamo ormai ben informati sulle specializzazioni dei due emisferi cerebrali (che comandano le metà opposte del corpo) e sulla distribuzione delle varie abilità cognitive.

Appartengono all'emisfero destro le abilità matematica, musicale e visivo-

spaziale (che alimenta il talento artistico) ; all'emisfero sinistro invece l'abilità razionale e linguistica. Per esempio è stato notato che, rispetto alla media della popolazione, ci sono più mancini tra i musicisti, gli artisti e i matematici.

La divisione dei compiti chiarisce pure il fenomeno dei savant, i ritardati

con formidabili abilità e di bambini prodigio con talenti sbilanciati: bravissimi in arte, calcolo o musica, molto indietro nell'espressione verbale, nella lettura e nella scrittura.

Una spiegazione che è stata fornita è che se si produce un danno cerebrale

nel periodo prenatale - per esempio per un eccesso di testosterone in circolo - e viene danneggiato l'emisfero sinistro, quello destro compensa con un ipersviluppo.

L'intelligenza emotiva Nel 1996 lo psicologo americano Daniel Goleman ha teorizzato l'intelligenza

emotiva e l'ha divulgato in un libro che è ormai divenuto un bestseller internazionale e capostipite di numerose pubblicazioni dello stesso filone, ma dedicate a situazioni concrete e particolari .

Goleman è arrivato alla sua formulazione (ispirato da un grande

ricercatore, Joseph LeDoux, autore di un libro dedicato alla neurobiologia delle emozioni, Il cervello emotivo ) innestando nel campo della psicometria classica alcune variabili legate allo studio della personalità. Anche se non esisterà mai un valido "quoziente d'intelligenza emotiva" perché gli studi sulla personalità eseguiti con l'analisi fattoriale non presuppongono criteri di uniformità scientifica, una delle analisi più interessanti di Goleman, su un gruppo di dipendenti della AT&T (compagnia dei telefoni americana) ha portato risultati sorprendenti. Anche se ciascun dipendente era stato assunto superando brillantemente i classici test del Quoziente Intellettivo (quindi il campione era omogeneo), le carriere si erano poi differenziate fortemente.Dunque il successo dipendeva, più che dal Q.I., da un'altra intelligenza, quella emotiva, ossia la capacità di rapporti interpersonali, empatia, resistenza allo stress che costituisce l'impasto da cui nasce la personalità.

L'intelligenza quindi sfuma nel carattere.

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E sembra che sia un fattore per buona parte (ma non del tutto)

ambientale: un bambino sottoposto a molti stimoli culturali potrà mostrare un incremento del Q.I., anche se lento.

E la costellazione di studi e ricerche si allarga, dall'Intelligenza matematica

al Codice dell'anima in un fioritura che fa ben sperare . Se fosse possibile, cosa dovremmo cambiare dell'intelligenza umana? A

questa domanda lo sicenziato Herbert Simon ha risposto: "Penso che aumenterei un poco la memoria a breve termine. Ampliarla in modo indefinito non sarebbe, però, una cosa buona, perché comunque non possiamo prestare attenzione a più di una piccola porzione per volta. Sì, potrei fare questo. Oppure potrebbe essere utile accelerare certe funzioni, perché no? Ciò potrebbe rendere più rapida la nostra intelligenza.

Non sono veramente entusiasta all'idea di accelerare l'intelligenza umana.

Ne abbiamo già abbastanza. Quando penso ai problemi che abbiamo in questo mondo, che ritengo siano già parecchi, non sono certo che essi possano essere risolti con più intelligenza. Sono sempre rimasto sorpreso dal peso che si dà ai test d'intelligenza. Forse dovremmo fare più test sul carattere, dare più importanza ai valori. Se io dovessi migliorare la specie umana, lavorerei prima di tutto in questa direzione" .

L'ABC dell'apprendimento e della memoria Da un recentissimo articolo di Le scienze possiamo ricavare informazione

sullo stato delle ricerche sull'intelligenza "Il cervello umano possiede approssimativamente cento miliardi di cellule nervose, o neuroni, collegati gli uni agli altri in una trama articolata che consente lo sviluppo di una notevole varietà di attributi mentali e cognitivi come la memoria, l'intelligenza, le emozioni e la personalità.

Le basi per la comprensione dei meccanismi molecolari e genetici

dell'apprendimento e della memoria furono poste nel 1949, quando lo psicologo canadese Donald O. Hebb elaborò un'idea semplice ma profonda per spiegare in che modo i ricordi vengono rappresentati e conservati nel cervello.

In quella che è oggi conosciuta come "regola dell'apprendimento di Hebb",

egli ipotizzò che un ricordo si produce quando due neuroni collegati fra loro sono attivi contemporaneamente in modo tale da rafforzare la sinapsi, cioè il sito di contatto fra le due cellule. Nella sinapsi l'informazione, sotto forma di molecole chiamate neurotrasmettitori, fluisce dalla cosiddetta cellula presinaptica verso la cellula postsinaptica.

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Nel 1973 Timothy V. P. Bliss e Terje Lomo, che lavoravano nel laboratorio

di Per Andersen all'Università di Oslo, scoprirono un modello sperimentale che sembrava confermare le caratteristiche salienti della teoria di Hebb. Essi notarono che le cellule nervose di una regione del cervello chiamata ippocampo stabilivano connessioni più forti quando erano stimolate da una serie di impulsi elettrici ad alta frequenza. Questo rafforzamento sinaptico - un fenomeno conosciuto come potenziamento a lungo termine (LTP) - può durare per ore, giorni o persino settimane. Il fatto che l'LTP si manifesti nell'ippocampo è particolarmente affascinante perché questa struttura cerebrale è cruciale per la formazione della memoria, sia nell'uomo sia negli animali.

Studi successivi compiuti da Mark F. Bear dello Howard Hughes Medical

Institute della Brown University e da altri scienziati dimostrarono che, applicando uno stimolo a bassa frequenza agli stessi circuiti nervosi dell'ippocampo, si induceva una riduzione prolungata della forza delle connessioni sinaptiche locali. Tale riduzione è a sua volta duratura ed è conosciuta come "depressione a lungo termine" (LTD), sebbene non abbia nulla a che vedere con la depressione clinica.

Il rafforzarsi e l'indebolirsi delle connessioni sinaptiche attraverso processi

simili all'LTP e all'LTD sono ora ritenuti i principali meccanismi responsabili della conservazione e dell'eliminazione delle informazioni acquisite nel cervello. Oggi sappiamo che l'LTP e l'LTD si presentano in molte forme diverse e che si verificano in altre regioni cerebrali oltre all'ippocampo, come la neocorteccia - o materia grigia - e l'amigdala, una struttura coinvolta nella formazione delle emozioni" [Tsien, 2000, p. 50].

"I nostri esperimenti con i topi Doogie hanno confermato chiaramente le

previsioni della teoria di Hebb, indicando anche che il recettore NMDA è un importante interruttore molecolare in molte forme di apprendimento e memoria. Ma nonostante il ruolo centrale dei recettori NMDA in un'ampia gamma di processi cognitivi e di memoria probabilmente queste molecole non sono le sole a essere coinvolte: nei prossimi anni ne saranno senza dubbio identificate molte altre, con specifiche funzioni" [Tsien, 2000, p. 53]

Alcuni si domandano se tali "scoperte implicano che presto potremo creare

con l'ingegneria genetica bambini più intelligenti o mettere a punto pillole che renderanno tutti geniali. La risposta pura e semplice è: no; e oltretutto, lo vorremmo veramente?" [Tsien, 2000, p. 54].

Tre nobel per la ricerca sul cervello È interessante che uno dei premi nobel del 2000, quello Per la fisiologia e la

medicina, sia andato a tre studiosi, A. Carlsson, P. Greengard e E. Kandel, autori di scoperte sul trasferimento dei segnali nel sistema nervoso, che sono

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definite "cruciali per una comprensione della funzione normale del cervello", ma anche delle malattie che i difetti di trasmissione dei segnali possono provocare.

Le loro ricerche sono un tipico esempio del materiale che i neurofisiologi e

neurobiologi riescono aprodurre oggi, accelerando di molto la costruzione dell'enorme palazzo che sarà la teoria completa della coscienza.

È necessario, dunque, che si osservi con attenzione lo sviluppo di tutte

queste ricerche. Eric Kandel per esempio ha spiegato il funzionamento della memoria a

breve e a lungo termine, arrivando alla conclusione che "si può dire che la nostra memoria sia basata sulle sinapsi" e sui loro cambiamenti di forma e funzione.

"Anche se la strada verso una comprensione delle funzioni complesse della

memoria è ancora lunga … ora è possibile studiare, per esmpio, come le immagini complesse di memoria sono immagazzinate nel nostro sistema nervoso e come è possibile ricreare la memoria degli eventi più in anticipo" .

COSCIENZA, SONNO E SOGNO Dal punto di vista neurofisiologico lo stato di veglia e di sonno sono

governati da due sistemi cerebrali fra di loro antagonisti (e che non costituiscono centri ben delimitati).

Capire il funzionamento del cervello è una delle sfide più difficili per la

scienza, ma negli ultimi decenni si sono scoperte parecchie cose. Lo studio del cervello avviene ormai a vari livelli: si cerca di capire più a fondo la struttura nervosa, il ruolo delle varie aree, il meccanismo dei neurotrasmettitori, le connessioni tra le zone diverse, le "gerarchie" dei sistemi, la biochimica che regola le varie interazioni, ecc.

Il sonno è una delle tante e complesse funzioni cerebrali, combinazione di

"interruttori" che stimolano, inibiscono, modulano il passaggio degli impulsi nervosi, senza che sia conivolto mai un solo centro .

I ricercatori non hanno ancora capito definitivamente perché sia necessario

dormire. "Nato forse nel corso dell'evoluzione come strategia di risparmio

energetico, poiché permette di abbassare nella notte il metabolismo e la temperatura, il sonno ha assunto un ruolo e ha quindi un significato più profondo, che ancora non si riesce a "leggere" ma che certemente esprime primarie esigenze del cervello, più che dell'organismo" [Angela, 1994, p. 52].

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Fra i vari centri cerebrali coinvolti nel sonno, uno è quello strategico,

l'ipotalamo, che è una parte del cervello che deriva da un lungo percorso evolutivo. È difficile conoscere i percorsi seguiti, all'interno del cervello, dai vari passaggi nervosi, chimici, ormonali. Tuttavia, si ritiene che dall'ipotalamo parta un flusso di segnali verso una delle parti più primitive del cervello: il tronco. Da qui come in un sistema a cascata sembrano partire altri due flussi, uno verso verso la vicina zona che presiede allo stato di veglia, l'altro a quella del talamo il quale, in ultima analisi, riduce il flusso di segnali tra la corteccia e il resto del cervello. Così si ottiene l'addormentamento.

Ma il sonno non è un fenomeno passivo: in realtà il cervello non "dorme"

mai, semplicemente, funzione in modo diverso, disattivando alcuni "interruttori" e attivandone altri.

Un tema molto interessante è la funzionalità del sonno nei neonati (ma

anche nei feti) e nei fanciulli . I meccanismi del sonno e del sogno saranno capiti meglio solo il giorno in

cui si conosceranno meglio anche i meccanismi del pensiero. Ecco come questi studi si aiutano e influenzano a vicenda.

La privazione di sonno Gli esperimenti nell'uomo di privazione del sonno hanno portato a

conoscenze molto interessanti: per esempio dopo cinque giorni di privazione del sonno la capacità di resistere al sonno migliora notevolmente (Fifth day turning point) per un adattamento ignoto. Nel corso della privazione si osserva sempre uno scadimento delle funzioni percettive, cognitive, psicomotorie, tremori delle mani, atassia della marcia, ecc.

Il fenomeno più caratteristico della privazione di sonno è rappresentato

dall'insorgenza di brevi (pochi secondi) attacchi di sonno leggero (lapses o micro-lapses). Dopo 100 ore circa di mancanza assoluta di sonno compare una grande sindrome psicotica acuta [DPI, 1970, pp. 729-730]

Il sonno paradosso (REM) La durata del sonno paradosso (sonno REM, rapido o desincronizzato) è

massima subito dopo la nascita, poi diminuisce gradatamente. La soppressione selettiva del sonno paradosso per alcune notti provoca, in

seguito, un suo aumento compensatorio, che è inquieto con sogni agitati.

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Le sostanze psicotrope riducono le fasi REM, la loro soppressione porta a un aumento compensatorio con disturbi del sonno e incubi.Nonostante si ritenga universalmente fondamentale per l'uomo il sonno REM, la cui perdita viene compensata, il suo ruolo fisiologico è ancora poco conosciuto, ma alcuni lo mettono in rapporto con la più intensa irrorazione cerebrale.

Tutti sognano: oggi è accertato che chiunque, svegliato al momento giusto,

riferirebbe un sogno. Non è stata ancora dimostrata, invece, sperimentalmente la necessità psicologica dei sogni [DPI, 1970, p. 723]

IL SOGNO Un recente articolo su Focus di R. Procenzano presenta gli ultimi risultati

della ricerca psicologica e neurologica sui sogni . Il sogno è la terza attività della mente; si è calcolato che una persona

mediamente trascorre 50 mila ore a dormire, pari a sei anni della vita. Il sognare è un'attività diversa dal ragionare coscientemente (veglia) o dormire un sonno profondo.

Nell'antichità il sonno era considerato fondamentale per comunicare con le

divinità, da cui si sviluppò l'arte dell'interpretazione dei sogni. Si riteneva che i sogni avessero il potere di scacciare le avversità, accrescere la fertilità, portare prede ai cacciatori e valore ai guerrieri; li si pensava capaci di predire il futuro, curare le malattie, veicolare rivelazioni spirituali. Gli antichi cercavano costantemente di "incubare" i sogni da cui si attendevano quei doni, e a tal fine dormivano in luoghi sacri e solitari (templi o recessi naturali) e seguivano appositi rituali.

Questa disciplina fisica e spirituale li predisponeva e rendeva specialmente

ricettivi alla vivida intensità dei sogni. Era una pratica comune in Grecia e in tutta l'Europa pagana ma anche presso i primi cristiani che dormivano vicino ai sepolcri dei santi e dei martiri sperando di ricevere guariginone e pacificazione. Nell'estremo oriente (la Cina del XIV secolo per esempio) c'erano templi per "sognatori".

Per i popoli nomadi il sogno ha effetti radicali sulla vita (nelle tradizioni dei

nomadi che vivono sul delta dei Nilo bisogna indossare un turbante prima di andare a dormire, per impedire che in sogno l'anima lasci il corpo, e i Masai del Kenya credono che non si debba svegliare una persona che sogna perché il suo spirito potrebbe non riuscire a tornare nel corpo). Fino al secolo scorso i membri di alcune tribù pellerossa, se sognavano di essere morsi da un serpente, al risveglio si curavano la ferita nel punto dove doveva trovarsi.

Il potere del sogno sta proprio nella sua somiglianza con la realtà: durante

il sonno l'inganno è così perfetto che la nostra coscienza scambia gli

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avvenimenti creati dal cervello "sognante" per realtà. Alcuni esperti parlano di cortocircuito mentale: la corteccia cerebrale è attiva (anche di più che durante la veglia ) ma non riesce a confrontare le immagini e gli stimoli che genera da sé con ciò che succede all'esterno. Si comporta cioè come se avesse le "allucinazioni". "In realtà il cervello non dorme mai. Durante tutte le fasi del sonno si svolge la cosiddetta attività pensiero-simile, più frequente dei sogni. La mente, insomma, continua a lavorare su fatti, considerazioni, avvenimenti delle giornate precedenti. Ma che legame ci sia tra questi pensieri inconsapevoli e i sogni, ancora non si sa" afferma Carlo Cipolli, docente di psicologia all'università di Bologna e studioso della vita onirica.

I sogni sono ancora una mistero Si è scoperto che i pensieri notturni sono spesso legati da un filo logico, e

che anche i sogni sono "coerenti" tra loro: ci sono similitudini sia tra le costruzioni oniriche di una stessa notte sia tra quelle di notti successive. Non ce ne rendiamo conto perché in genere ricordiamo solo l'ultimo sogno, quello che si verifica mezz'ora al massimo prima del risveglio. Ma durante le otto ore di sonno, il cervello genera almeno una decina di sogni. Eppure per la scienza i sogni sono ancora in gran parte un mistero.

"Fino a pochi anni fa si credeva che ognuno di noi sognasse solo durante i

cosiddetti periodi REM: fasi di sonno leggero caratterizzate da rapidi movimenti degli occhi (Rapid Eye Movement). Ce ne sono quattro o cinque ogni notte. Invece abbiamo verificato in laboratorio che spesso si sogna anche nelle fasi di sonno tra una REM e l'altra, e a volte si tratta di sogni molto movimentati, come quelli tipici della fase REM" racconta Vincenzo Natale, ricercatore all'università di Bologna, dove si eseguono esperimenti sistematici

I ricercatori possono svegliare i soggetti (volontari) a qualunque ora della

notte (in fase REM oppure no) e chiedere loro che cosa stavano sognando. Spesso raccolgono racconti pieni di particolari, che però il sognatore la mattina dopo non ricorda per nulla (l'unica eccezione è l'ultimo sogno della notte, che rimane nella memoria pochi minuti).

Il cervello ricorda tutti i sogni che ha fatto "In laboratorio si può verificare facilmente che il cervello ricorda tutti i

sogni che ha fatto: basta far riascoltare al volontario l'inizio del racconto registrato del suo sogno raccolto, poniamo, alle due di notte, per far sì che egli si ricordi tutto il sogno. Poi gli si fa riascoltare quello delle quattro di notte e si ottiene lo stesso risultato, poi quello delle cinque e così via" fa notare Cipolli . Insomma, possediamo la memoria di tutti nostri sogni (e sono milioni) ma non la chiave per accedervi.

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Negli ultimi anni alcuni scienziati hanno cominciato a guardare "dentro" il

cervello di chi sogna: Pierre Maquet, ricercatore all'università di Liegi, ha sottoposto a una PET (tomografia a emissione di positroni) alcuni volontari dormienti per verificare quali aree cerebrali fossero attive durante il sonno. "Abbiamo scoperto che durante le fasi REM molti impulsi nervosi partono dalla zona del ponte, in profondità nel cervello, e bombardano la corteccia e alcune zone limbiche, sedi delle emozioni. Nelle fasi intermedie invece sono più attive le zone associative frontali e parietali, sedi dei ragionamento" spiega lo scienziato belga.

Gli impulsi tipici della fase REM darebbero perciò luogo ai sogni più

"movimentati": la corteccia si trova a dover dar senso a una specie di tempesta elettrica, e lo fa creando un sogno, cioè assemblando nel modo più coerente possibile frammenti di immagini e di sensazioni che si trovano già nella memoria, prese dalla vita reale.

In altre fasi del sonno, invece, predominerebbero i pensieri. Ma questo non

spiega la presenza di sogni bizzarri o incubi movimentati anche in fasi diverse dalla REM.

Ora gli scienziati prevedono ricerche congiunte, da effettuare con la PET ma

svegliando il soggetto di tanto in tanto per chiedergli che cosa ha sognato, in modo da abbinare il tipo di attività cerebrale al tipo di sogno.

A cosa serve sognare? Una cosa è certa: sognare è necessario. Sono stati condotti esperimenti su

volontari che venivano svegliati non appena gli strumenti registravano i movimenti oculari tipici del sogno. Per impedire ai soggetti di sognare sono stati necessari fino a 20 risvegli all'ora, uno ogni tre minuti. E quando finalmente si permetteva loro di dormire, il cervello dei volontari sognava il triplo del solito, doveva recuperare.

La vita onirica, dunque, è un bisogno fisiologico, come mangiare. Ma a cosa

serve? Per il momento a questa domanda rispondono solo teorie. Secondo il neurobiologo M. Jouvet sognare servirebbe al cervello per fare il

"rodaggio" ad alcuni istinti prima di usarli nella vita reale. Il neonato passa molto del suo tempo a sognare: già a due giorni di vita il suo viso nel sonno ripete espressioni (disgusto, sorpresa, gioia) che il bebè è assolutamente incapace di fare da sveglio. E a mano a mano che il neonato apprende la mimica facciale, essa non compare più nel sonno. Quasi che il cervello dovesse prima ripassare la "lezione", per poi poterla utizzare davvero. Secondo altri, i sogni della fase REM sarebbero il risultato della trasformazione di un sonno frammentato (tipico di molti animali) in uno continuo: un residuo

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dell'evoluzione senza nessuno scopo particolare tranne quello di accorgersi più facilmente se ci sono predatori in giro (il sonno REM è leggero anche se pieno di sogni).

Altri studiosi ritengono che durante il sonno, e nel sogno in particolare, il

cervello faccia "manutenzione": elimini le informazioni inutili e ridondanti dalla memoria e registri invece quelle più necessarie, apprese da poco. Un gruppo di ricercatori americani di Harvard ha dimostrato che occorrono almeno sei ore di sonno per ricordare le nozioni appena apprese.

Qualcuno arriva ad affermare che ogni sogno abbia uno scopo particolare

(una volta archiviare dati, un'altra volta cancellare informazioni o riabbinarle ad altre già presenti) e che il cervello elabori una sceneggiatura adatta a quel fine prendendo dalla memoria i personaggi e gli scenari più appropriati. E quando il cervello non riesce a tessere una storia adatta allo scopo, si ha il risveglio improvviso. Teorie come questa sono affascinanti ma non dimostrabili.

I sogni sono prodotti (non del tutto casuali) dell'attività elettrica della

mente. E non sono privi di significato: gli psichiatri hanno stabilito che in alcune fasi della vita (quelle di passaggio) ci sono sogni tipici, che hanno lo scopo di aiutare la persona a "girare pagina" più facilmente. I maschi intorno agli otto anni sognano abbastanza spesso di fare la lotta con animali o con alcuni mostri fantastici. Sogni come questo rafforzano la fiducia in se stessi e li aiutano ad aumentare l'indipendenza: è emerso da un'indagine di F. Battisti (università di Cassino) sui sogni di mille bambini italiani. Un'analoga ricerca, condotta sulle donne in attesa del primo figlio, ha dimostrato che verso la fine della gravidanza sono comuni i sogni in cui il bambino ha già due o tre anni: corre e sa muoversi da solo. Servono a preparare la futura mamma alla "separazione" dal feto che avverrà con la nascita.

E i sogni ricorrenti come volare, cadere o non riuscire a scappare? Cadere è

un sogno tipico della fase di addormentamento: forse "si cade" perché la mente perde il controllo sul mondo esterno. Volare e non riuscire a muoversi sono invece sensazioni causate, dicono gli studiosi, dalla paralisi muscolare di tutto il corpo: fenomeno tipico della fase REM.

Sui sogni è molto interessante (e semplice, pur se completo: è un libro di

divulgazione scientifica) il libro di P. Angela I misteri del sonno (soprattutto i capitoli dal IV al IX) .

I "sogni lucidi"

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Esiste un sito molto interessante (http://www.lucidity.com) interamente dedicato ai sogni lucidi ("Che cosa sono e come imparare a farli") con una sezione sulle esperienze paranormali come l'OOBE (Out of body experencies) o le cosiddette "esperienze di pre-morte", NDE (Near death experencies) e altro.

Le esperienze di pre-morte vengono generalmente riferite da soggetti

risvegliati dal coma: essi testimoniano esperienze talmente ricche di sensazioni da essere "indicibili" con linguaggio umano; essi avrebbero provato l'esperienza - per riassumere in uno schema generale le innumerevoli testimonianze (ed è proprio questo aspetto, dell'essere così numerose eppure tutte simili, che dà loro una patente di serietà in quanto fenomeno antropologico) - di vedersi usciti dal proprio corpo, di galleggiare, di attraversare una sorta di "tunnel", ed entrare in un ambiente di "pace" e di luce, incontrare un "essere di luce", vedere gli episodi più importanti della vita "come in un film", incontrare una barriera oltre al quale non ci sarebbe ritorno e infine l'essersi risvegliati nel corpo .

Alcuni ricercatori oggi cercano di spingersi molto in là nella ricerca sul

sonno e sui sogni: tentano non solo di condizionare ma anche di "teleguidare" i sogni. È il campo dei cosiddetti sogni lucidi. Per sogno lucido si intende un sogno in cui il dormiente è consapevole che quello che sta vivendo è un sogno. Si sta cercando di capire se, con individui particolarmente soggetti a questo tipo di esperienza e ben allenati, sia possibile aumentare il grado di consapevolezza, in modo da poterli aiutare a "guidare" in una certa misura il sogno. Ma i risultati di queste ricerche, pur affascinanti, sono ancora lontani dall'essere convincenti .

D. Fontana ribadisce l'importanza dei sogni: "La comparsa nei sogni di

antiche memorie e il comprovato valore terapeutico dell'interpretazione dei sogni confermano il valore guida che può assumere per noi l'esperienza notturna" .

Sull'importanza dei sogni e in particolare sui "sogni ad occhi aperti" è

interessante il libro di Ethel S. Person - che ha uno stesso titolo . "Sogni a occhi aperti e fantasticherie sono virtualmente onnipresenti e fluttuano dentro e fuori dalla consapevolezza […] ma non sono mai lontane dal nostro Sé più intimo. Le fantasie ci dicono qualcosa su chi siamo veramente: è questa una delle ragioni per cui siamo riluttanti a condividerle con un estraneo" [Person, 1998, p. 4]. La Person ribadisce che proprio "tramite l'indagine di Freud sui sogni, la psicoanalisi si è evoluta da metodo di trattamento a teoria generale della mente, a psicologia del profondo che concepisce la mente come un continuum che si articola dall'inconscio al preconscio alla coscienza: e questa suddivisione della psiche corrisponde a ciò che percepiamo - e accettiamo - a livello di coscienza personale" [Person, 1998, p. 92].

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VII La neurofilosofia tra esplorazione e critica epistemologica: limiti e

potenzialità del dialogo tra neuroscienze e filosofia TRADIZIONE E INNOVAZIONE Tutto il pensiero filosofico è interessante e importante, ma inevitabilmente

fa parte della "tradizione" e rischia di far pesare il suo ipse dixit di fronte all'innovazione.

Noi oggi dobbiamo adeguare il pensiero filosofico alle ricerche scientifiche e

alla consapevolezza culturale di oggi. Ciò significa che tutti i pensatori fino al '600, grandi o piccoli, sono stati solo una sorta di "mitologia filosofica", essendo ancora al di fuori del pensiero scientifico.

Solo quelli che sono venuti dopo il '600 sono consapevoli di un certo modo

di indagare filosoficamente. Ma neanche essi possono costituire materia solida per una ricerca attuale di filosofia, sopratutto di "filosofia cognitiva" perché tutti hanno formulato ipotesi al di fuori del campo neurobiologico.

Quindi in sostanza, tutti i filosofi prima del '900 sono "tradizione" e devono

essere ascoltati solo come spunto, solo come passato storico della filosofia, come primordi, antesignani, creatori e scopritori di archetipi.

Solo nel '900 (un esempio per tutti, Popper) ci sono stati filosofi che hanno

cercato di coniugare l'indagine metafisica, con le ricerche neurologiche più avanzate, le conoscenze scientifiche con l'istanza teologica.

Ci può essere solo neurofilosofia Ritengo che nessuna filosofia, d'ora in poi, può prescindere dall'aspetto

neurobiologico e che il futuro della filosofia è unicamente quello della neurofilosofia.

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Con ciò non voglio restringere l'indagine filosofica al campo cognitivo, né intendo ridurre la filosofia alla neurobiologia, né intendo cancellare secoli di meravigliose costruzioni filosofiche.

Cerco invece una sintesi, sinergie, confronto e dialogo tra le varie discipline

(quello che ho cercato di fare con questa tesi). Penso che un'indagine filosofica deve assolutamente tener conto, in via

preliminare, di alcuni aspetti: il linguaggio (interpretazione), la coscienza, la conoscenza, la visione del mondo legata alla biografia di chi guarda al mondo (psicologia), la situazione sociale, culturale, internazionale del paese di chi pensa...

Così, forse, è possibile dare spazio all'innovazione, alla luce della (e senza

distruggerla) innovazione. La neurofilosofia ha una sua dignità riconosciuta, lo testimonia Dennett:

"Churchland rappresenta il primo esempio di "neurofilosofo" (si veda il suo libro del 1986 Neurophilosophy: Toward a Unified Science of Mind/Brain)" .

LE TEORIE DELLA COSCIENZA TRA CONCEZIONI NATURALISTICHE,

RIDUZIONISMO E METAFISICA Da un prezioso articolo di S. Nannini pubblicato su Internet, che dovrebbe

diventare presto un saggio pubblicato per i tipi della Laterza, traggo i seguenti interessantissimi spunti sulle concezioni oggi possibili a cavallo tra filosofia e scienze cognitive.

È un tratto comune a tutte le odierne concezioni naturalistiche della

conoscenza considerare quest'ultima come un fenomeno integralmente naturale che può essere spiegato senza residui dalla psicologia scientifica, dalla biologia, dalla chimica o dalla fisica: i processi cognitivi, possibili solo in animali dotati di un sistema nervoso centrale altamente sviluppato, sono il prodotto di una lunghissima evoluzione biologica che ha il proprio punto d'origine nella coordinazione senso-motoria; essi svolgono la funzione biologica di adattare il comportamento dell'organismo all'ambiente esterno al fine di aumentare le probabilità di sopravvivenza.

Tali concezioni naturalistiche della conoscenza trovano una delle loro

principali fonti nella filosofia di W. v. O. Quine . Secondo quest'ultimo l'epistemologia non può e non deve essere una disciplina normativa che autorizza il filosofo a chiarire a priori quale debba essere il corretto modo di

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procedere della scienza. L'epistemologia può essere solo una descrizione del modo nel quale gli uomini sono effettivamente capaci di conoscere la realtà.

L'epistemologia, da branca della filosofia, come sempre è stata considerata,

o anche da logica della scienza, come gli empiristi logici l'hanno intesa, deve divenire essa stessa una scienza empirica: la "scienza dei processi cognitivi", ramo della psicologia scientifica.

La psicologia scientifica alla quale Quine pensava, negli anni Sessanta, di

ridurre l'epistemologia era ancora il comportamentismo. A dire il vero ciò era abbastanza anacronistico, perché il comportamentismo era entrato in crisi profonda già verso la fine degli anni Cinquanta ad opera di linguisti come N. Chomsky e di psicologi come G. A. Miller. Ma, se al comportamentismo sostituiamo la "psicologia cognitiva" o qualsiasi altra scienza naturale (la neurobiologia, la chimica ecc.) e le affidiamo l'antico compito, un tempo filosofico, di chiarire che cosa sia la conoscenza, restiamo ancora fedeli all'essenziale della posizione di Quine: pensiamo ancora che l'epistemologia, in quanto disciplina filosofica, debba scomparire a vantaggio di una scienza naturale (o quanto meno empirica) dei processi cognitivi; ossia aderiamo ad una dottrina filosofica (più precisamente meta-epistemologica) che può essere chiamata "naturalismo epistemologico forte".

Tuttavia già l'accenno precedente al carattere meta-epistemologico della

dottrina di Quine fa comprendere come non sia facile per il naturalista liberarsi di ogni residuo filosofico-normativo non riducibile in termini empirici. Proprio perciò alcuni naturalisti, pur seguendo fino ad un certo punto Quine, preferiscono aderire ad una qualche forma di "naturalismo epistemologico debole" (o "naturalismo cooperativo"), secondo la quale occorre distinguere l'indagine scientifico-descrittiva intorno all'origine naturale dei processi cognitivi dalla ricostruzione filosofico-normativa sui loro titoli di validità, ma i due punti di vista, sebbene diversi, devono integrarsi e sorreggersi reciprocamente.

Naturalismo epistemologico e naturalismo ontologico Molti seguaci di Quine ritengono essenziale restare rigorosamente fedeli al

carattere unicamente epistemologico del naturalismo del maestro senza fare alcuna concessione ad un naturalismo ontologico, che inevitabilmente assumerebbe un carattere materialistico. Essi pretendono che la scienza debba essere assolutamente scevra di presupposti a priori su ciò che effettivamente esiste e sulla sua natura. Esiste tutto ciò che può essere oggetto d'indagine empirica; ed esso ha tutte e sole le caratteristiche che le teorie scientifiche stesse gli attribuiscono per poterlo spiegare e prevedere. Posizione questa che può ricongiungersi con il relativismo cognitivo di quei post-empiristi che pensano esistano tanti mondi reali diversi quante sono le teorie scientifiche.

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Per giustificare questa posizione assolutamente scevra di presupposti ontologici a priori (tutti egualmente sospetti, non importa se di carattere materialistico o spiritualistico), si fa spesso riferimento al saggio Relatività ontologica di Quine (1969). Se si legge, tuttavia, che cosa egli ha scritto ad es. in un saggio successivo, Il posto dei pragmatisti nell'empirismo (1981), in polemica con i pragmatisti stessi e gli idealisti, vediamo che egli non è affatto un relativista e non sembra rinunciare, quale presupposto necessario del fare scienza, ad un'ontologia filosofica di tipo realista: "Per James e gli idealisti europei ciò che ho chiamato realtà consisteva più che altro nella sensazione. Per i filosofi naturalisti come me, invece, gli oggetti fisici sono reali, fino alla più ipotetica delle particelle, sebbene il riconoscimento di essi sia soggetto, come tutta la scienza, a correzione. Posso sostenere questa linea ontologica di realismo un po' ingenuo e poco elaborato e allo stesso tempo posso salutare l'uomo come soprattutto l'autore, piuttosto che lo scopritore, della verità. Posso sostenere i due punti insieme perché la verità scientifica relativa agli oggetti fisici è ancora la verità, per tutti gli uomini che ne sono autori. Nel mio naturalismo, non riconosco verità più elevata di quella che la scienza fornisce o ricerca (…). Parliamo sempre all'interno del nostro sistema attuale quando attribuiamo la verità; e non possiamo fare altrimenti. Il nostro sistema cambia, certo, e quando ciò avviene noi non diciamo che la verità cambia con esso, ma che noi abbiamo prima erroneamente pensato che qualcosa fosse vero e che poi abbiamo migliorato le nostre conoscenze. Fallibilismo è la parola d'ordine, non relativismo. Fallibilismo e naturalismo".

Il naturalismo di Quine non è, dunque, affatto relativistico. Il titolo del suo

saggio Relatività ontologica non deve trarre in inganno. Nessuna teoria scientifica, certo, può descrivere il mondo "così com'è"; lo descriverà sempre e inevitabilmente entro una certa cornice teorica, compresa un'ontologia, che un domani dovrà forse essere rivista. Ma, se lo sarà, ciò non avverrà semplicemente perché gli uomini avranno arbitrariamente cambiato il loro modo di guardare al mondo, bensì perché si saranno accorti che il vecchio modo era inadeguato rispetto ad una mai conclusa ricerca della verità. Insomma, appena parlo del mondo non posso farlo che in un modo theory-laden, storicamente datato e soggetto a revisione; ma l'ideale (mai completamente raggiungibile e tuttavia progressivamente avvicinabile) che guida la mia ricerca continua ad essere quello di conoscere il mondo com'è e non come io me lo invento!

Ammettere l'inevitabilità di una qualche ontologia filosofica come

presupposto della ricerca scientifica non significa certo tornare automaticamente alla vecchia metafisica. Sebbene, come vedremo tra poco, le odierne teorie ontologiche riguardo al rapporto tra la mente ed il corpo riprendano più o meno consapevolmente (ma comunque con sorprendente fedeltà) le dottrine sull'anima già presenti nell'antichità, tuttavia esse, quando siano concepite come semplice cornice teorica di sfondo delle attuali scienze cognitive, cessano di essere delle verità a priori per divenire dei semplici

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presupposti teorici che i risultati sperimentali possono sempre, in linea di principio, costringerci a rivedere o abbandonare. Tali presupposti sono solo più generali e cruciali rispetto a teorie scientifiche più particolari. Non possono quindi essere smentiti facilmente, mediante singoli esperimenti. Nondimeno, poiché la loro funzione è quella di guidare la ricerca scientifica, essi devono essere abbandonati quando, alla lunga, risultino infruttuosi o ne esistano comunque di preferibili.

Livelli d'analisi e scienze cognitive Una qualche forma di ontologia filosofica è utile per le scienze cognitive?

Alcuni eminenti studiosi, che pur perseguono tenacemente e coerentemente un programma di "naturalizzazione della mente" (cioè di spiegazione dei fenomeni mentali mediante le neuroscienze e le simulazioni compiute con reti neurali artificiali), lo negano con forza. Penso che abbiano torto, perché, se non si presuppone la riducibilità ontologica degli stati mentali a stati cerebrali, diviene assolutamente ingiustificato spiegare i fenomeni mentali stessi in termini neurologici.

Inoltre le varie scienze cognitive individuano oggetti diversi. Costituiscono

essi altrettanti livelli di realtà reciprocamente irriducibili oppure tali oggetti sono soltanto ridescrizioni diverse, livelli d'analisi diversi, di un'unica e medesima realtà? E, in quest'ultima ipotesi, qual è la natura di tale realtà? Vediamo anzitutto quali siano questi livelli d'analisi delle scienze cognitive:

Fenomeni culturali, storici e sociali (antropologia cognitiva, scienze sociali,

storia, linguistica); Stati mentali individuali (folk psychology, behavioural sciences, psicologia

scientifica intelligenza artificiale e teoria computazionale della mente); Reti neurali artificiali (connessionismo); Fenomeni neurologici (neuroscienze); Basi fisiche e chimiche dei fenomeni neurologici (fisica e chimica). La relazione tra questi livelli d'analisi può essere considerata secondo un

approccio riduzionistico o antiriduzionistico. Inoltre il riduzionismo può essere ontologico o metodologico.

Pertanto si danno quattro approcci fondamentali al riduzionismo: * Riduzionismo ontologico e metodologico La sola vera realtà è quella fisica

e le sole vere spiegazioni di tutti i fenomeni sono quelle date in termini fisici. In altre parole, in primo luogo, i livelli superiori d'analisi sono solo differenti

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descrizioni di fenomeni che possono essere descritti anche in termini fisici (almeno in linea di principio); in secondo luogo, le spiegazioni date da scienze che siano differenti dalla fisica possono essere praticamente utili o addirittura indispensabili, ma esse sono valide solo se sono traducibili, almeno in linea di principio, in termini fisici.

* Riduzionismo ontologico e antiriduzionismo metodologico La sola vera

realtà è quella fisica, ma alcune proprietà funzionali di certi sistemi fisici possono essere descritte e spiegate solo da linguaggi che appartengono a livelli d'analisi più alti. Le teorie che sono formulate in linguaggi di livello più alto possono essere intraducibili in linguaggi di livello più basso.

* Antiriduzionismo ontologico e riduzionismo metodologico Questa teoria,

sebbene sembri prima facie piuttosto bizzarra, è stata sostenuta da taluni "emergentisti", secondo i quali, da un lato, la mente dopo il suo emergere dalla materia nel corso dell'evoluzione biologica non è più riducibile ad essa e costituisce un regno autonomo; e tuttavia, dall'altro lato, anche questo regno può essere studiato scientificamente con metodi analoghi a quelli adottati dalle scienze naturali.

* Antiriduzionismo ontologico e metodologico I livelli d'analisi rispecchiano

differenti livelli di realtà, che possono essere descritti e spiegati solo da linguaggi reciprocamente intraducibili. Inoltre un tale pluralismo ontologico si presenta in due differenti versioni:

Alcuni pluralisti ontologici ammettono livelli di realtà più alti la cui esistenza

è indipendente dall'esistenza di livelli di realtà più bassi (si pensi a tutti coloro che credono nell'immortalità dell'anima): pluralismo senza correlazione completa..

Altri pluralisti ontologici ritengono che i livelli di realtà più alti siano

ontologicamente irriducibili a quelli più bassi, ma emergano da questi ultimi e possano esistere solo se sono da essi "sostenuti": pluralismo con correlazione completa..

Il "problema mente-corpo" L'essere riduzionisti o antiriduzionisti tra una coppia di livelli non implica

l'esserlo anche riguardo a qualsiasi altra coppia. Ad esempio quasi nessuno oggigiorno nega la riducibilità ontologica (si noti, solo ontologica, non metodologica) dei fenomeni socio-culturali ad insiemi di azioni, atteggiamenti e stati mentali individuali (più i loro effetti nel mondo materiale): le guerre ad es. non ci sarebbero senza i soldati; esistono le persone in carne ed ossa, non la Società, la Cultura o lo Spirito. Molto più controverso è ancor oggi, invece, se gli stati mentali individuali siano a no, a loro volta, ontologicamente riducibili a processi fisico-chimici (prevalentemente localizzati nei cervelli).

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Riguardo a questo rapporto, che è noto come il "problema mente-corpo", sono state sostenute dall'antichità ad oggi, trascurando ovviamente ogni dettaglio e semplificando all'osso, le seguenti teorie:

- Dualismo o pluralismo (Platone, Agostino ed il pensiero cristiano in

genere, Descartes, F. Brentano, K.R. Popper, D. Chalmers ecc.): mente e corpo sono due "cose" distinte.

- Materialismo (gli atomisti, Gassendi, Hobbes, alcuni illuministi, i positivisti

tedeschi, il fisicalismo, la teoria dell'identità mente-corpo, il materialismo dello stato centrale): gli stati mentali sono ontologicamente riducibili a stati fisici (prevalentemente cerebrali).

- Funzionalismo e cognitivismo (l'ilomorfismo di Aristotele, varie forme del

funzionalismo contemporaneo, inclusa la cosiddetta "teoria computazionale della mente" o "analogia mente-computer"): l'anima è la forma del corpo; gli stati mentali sono stati funzionali implementati da stati cerebrali.

- Monismo neutrale e "teoria del doppio aspetto" (Spinoza, T.G. Fechner, E.

Mach, W. James, B. Russell, P.F. Strawson): alcune sostanze (o, in Spinoza, l'unica sostanza esistente) sono in se stesse né mentali né fisiche, ma possono avere proprietà o aspetti sia mentali che fisici.

- Eliminativismo (W.v.O. Quine, P. Feyerabend, R. Rorty, P.M. Stich, P.M.

Churchland e P.S. Churchland): il linguaggio della folk psychology deve essere abbandonato in favore di concetti tratti dalle neuroscienze. L'eliminativismo è una forma recente e radicale di naturalismo materialistico.

Queste prime cinque teorie compaiono nella filosofia antica, moderna e

contemporanea, inclusa la filosofia analitica e post-analitica, sebbene in forme molto varie e differenziate.

- Idealismo trascendentale fenomenologico (Husserl): il Soggetto

Trascendentale non è un oggetto tra gli altri: è "l'occhio" al quale gli oggetti appaiono e per il quale essi sono oggetti. Il mondo esiste solo in quanto è "visto" dal Soggetto Trascendentale.

- Analisi esistenziale ed ermeneutica (M. Heidegger, H. Gadamer ecc.): la

forma d'essere che è tipica dell'uomo (l'esistenza o Dasein propria di un ente "gettato" nel mondo) non può essere studiata empiricamente, ma solo analizzata da quei filosofi che sono capaci d'intendere (soprattutto nei poeti) la "Voce dell'Essere".

Queste due teorie contemporanee sono alternative alle teorie analitiche

della mente e anche alle ultime due posizioni classiche (in declino al giorno d'oggi) rappresentate da:

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- Idealismo (i neoplatonici, Leibniz, Berkeley, Fichte, Schelling, Hegel, ecc.): la materia non ha un'esistenza indipendente dalle menti; gli oggetti materiali esistono nella misura in cui sono pensati da una mente.

- Spiritualismo (F.P. Main de Biran, E. Boutroux, W. Wundt, H. Bergson

ecc.): un misto di dualismo e idealismo. Teorie che rifiutano il problema metafisico mente-corpo Tuttavia un nuovo approccio riguardo alla natura della mente fu introdotto

da Locke e Hume nella filosofia moderna. Questo approccio, basato sulla teoria generale che ogni sostanza possa essere intesa come una collezione delle idee delle proprietà che le appartengono, determinò il rifiuto del problema mente-corpo concepito come il problema metafisico della relazione fra due sostanze. Una mente, al pari di un corpo, è concepita solo come una collezione d'idee. Perciò i filosofi non sono interessati all'insolubile problema della natura della mente, ma al problema empirico della determinazione delle leggi di associazione fra le idee così come i fisici sono interessati alla gravitazione universale di Newton. Questo atteggiamento verso la metafisica, scaturente dall'empirismo classico, è stato sviluppato dai filosofi analitici nel Novecento ed è stato fatto proprio dagli empiristi logici e dai comportamentisti nell'ambito della filosofia della mente (dove esso è venuto a convergere con l'analogo punto di vista dei neokantiani, che ripetevano la famosa teoria di Kant secondo la quale l'anima non può essere conosciuta).

Pertanto si possono aggiungere alle nove soluzioni ontologiche del

problema mente-corpo summenzionate i seguenti quattro modi di rifiutarlo in quanto problema metafisico e quindi insolubile:

- Empirismo classico (Locke e Hume). - Idealismo trascendentale classico (Kant e i neokantiani). - Empirismo logico (M. Schlick, R. Carnap ecc.). - Comportamentismo analitico (L. Wittgenstein e G. Ryle). Il "comportamentismo logico" degli empiristi logici, pur avendo molti punti

di contatto con il comportamentismo analitico di Ryle, si fonde con il fisicalismo, cioè con una forma di materialismo che, ad avviso di Carnap e degli altri empiristi logici che l'hanno sostenuta negli anni Trenta, sarebbe completamente non metafisica.

Questo completo rifiuto della metafisica, o più precisamente dell'ontologia

filosofica, tuttavia, è divenuto sempre più contestato tra i filosofi analitici o postanalitici negli ultimi quarant'anni: per un verso Quine, come abbiamo

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visto, ha riabilitato, sia pur entro limiti precisi, l'ontologia; e per altro verso le scienze cognitive affermatesi a partire dagli anni Sessanta , sebbene fondino tutte le loro teorie sul comportamento osservabile, non pensano, come i comportamentisti, che sia non scientifico occuparsi di stati soggettivi e coscienti, ma credono al contrario che sia essenziale formulare ipotesi sui processi interni che avvengono nella mente. Pertanto il problema della natura degli stati mentali è tornato ad essere dibattuto.

Il "naturalismo cognitivo" Le scienze cognitive, che già sono inclini per la loro origine

anticomportamentistica a riflettere sulla natura degli stati mentali concepiti come stati interni e non direttamente osservabili degli esseri umani, trovano in tale riflessione il modo più semplice e conveniente per dare una base ontologica a quella interdisciplinarità che è la loro peculiare caratteristica metodologica. Se, in particolare, i differenti fenomeni che sono oggetto rispettivamente delle neuroscienze e della psicologia scientifica non sono che ridescrizioni, a vari livelli d'analisi, di una medesima realtà, allora la tendenza naturalistica a costruire un'unica scienza naturale della mente e dell'uomo trova un solido fondamento in un'ontologia fisicalistica. Buona parte delle odierne scienze cognitive presuppongono perciò, più o meno implicitamente, delle concezioni generali sul rapporto tra mente e corpo.

Muovendo dalla convinzione che tali concezioni generali riprendano, sia pur

in forme nuove, alcune delle soluzioni tradizionalmente date al "problema mente-corpo", possiamo formulare quattro principi accettati, anche se talvolta solo implicitamente, dalla maggior parte delle tendenze naturalistiche dominanti nelle scienze cognitive e chiameremo l'insieme di questi principi "naturalismo cognitivo".

Tutte le soluzioni intuitivamente non naturalistiche rifiutano (o comunque

violano) almeno uno dei quattro principi in questione, mentre tutte le soluzioni palesemente naturalistiche li rispettano

I quattro principi potrebbero dimostrare che cognitivisti e eliminativisti,

sebbene siano oggi in polemica tra loro, quando la loro disputa venga considerata in una prospettiva storica più ampia, risulterebbero difendere due teorie che, per quanto diverse, sono comunque entrambe naturalistiche. Per sottolineare questo punto parliamo di "naturalismo cognitivo debole" e "naturalismo cognitivo forte".

- Primo principio - La mente (così come la coscienza, lo spirito o la

soggettività) fa parte del mondo reale. - Secondo principio - La natura costituisce l'intero mondo reale. Pertanto

(da [1] e [2]) la mente, la coscienza e la soggettività fanno parte della natura.

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- Terzo principio - La natura può essere conosciuta solo dalle scienze

empiriche. Nessuna parte della natura può essere conosciuta a priori (o mediante metodi diversi da quelli delle scienze empiriche). Pertanto la mente, la coscienza e la soggettività, in quanto appartenenti alla natura, possono essere conosciute solo per mezzo di scienze empiriche.

- Quarto principio - L'universo fisico è un sistema "chiuso". Ogni evento

fisico può essere spiegato, deterministicamente (come nella meccanica classica) o probabilisticamente (come nella meccanica quantistica), in termini puramente fisici. In una prospettiva naturalistica i fenomeni descritti ai livelli d'analisi più alti sono ontologicamente riducibili ai fenomeni fisici e, perciò, non possono essere cause o effetti di questi ultimi (almeno se si accetta la tesi di Hume secondo la quale la causa e l'effetto devono essere logicamente indipendenti l'una dall'altro): altrimenti uno stato mentale, ad esempio, potrebbe essere la causa di quegli eventi cerebrali dei quali è una semplice ridescrizione.

Teorie non naturalistiche Alla luce dei quattro principi summenzionati Nannini elenca le più

importanti teorie non naturalistiche. Il dualismo o pluralismo è la più antica teoria alternativa al naturalismo (si

pensi a Platone). Ma, dal momento che non tutte le forme di dualismo sono incompatibili con il naturalismo, è necessaria una distinzione preliminare tra di esse:

Dualismo metodologico Il modo nel quale vengono conosciuti gli stati

mentali ed i fenomeni culturali è diverso dal modo nel quale vengono conosciuti gli eventi naturali. Questa forma di dualismo è rifiutata in linea di principio solo dai comportamentisti ed è compatibile con il naturalismo cognitivo.

Dualismo concettuale intensionale Pensiero e materia sono

fenomenologicamente distinti, ma può darsi che, per ogni predicato psicologico, vi sia un predicato fisico avente la stessa estensione. Questa forma di dualismo è perciò compatibile con la "teoria dell'identità tra mente e corpo" (vale a dire, con il materialismo).

Dualismo concettuale estensionale Nessun predicato psicologico può avere

la stessa estensione di un qualsiasi predicato fisico. Le descrizioni e spiegazioni psicologiche non sono traducibili in termini fisici o biologici. Sebbene ogni singolo stato o evento mentale possa essere identico ad un certo stato o evento fisico, non si dà nessuna identità permanente fra tipi di stati o eventi mentali e tipi di stati o eventi fisici. Questa forma di dualismo è compatibile

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con la "teoria dell'identità delle occorrenze", ma non lo è con la "teoria dell'identità dei tipi" e perciò è contraria a quella forma forte del naturalismo che, come vedremo, cerca di collegare la psicologia alle neuroscienze.

Il dualismo o pluralismo ontologico può essere suddiviso nel modo

seguente: Dualismo delle proprietà, Dualismo delle sostanze. Entrambe le forme di dualismo ontologico devono rendere conto di un certo

grado (almeno) di correlazione tra il mentale ed il fisico: se voglio alzare il braccio, esso di solito si solleva. Questa correlazione può essere spiegata dai dualisti in tre modi diversi:

Interazionismo Un evento fisico può essere la causa di un evento mentale e

viceversa (ad es. Descartes e K.R. Popper). Parallelismo Non c'è nessuna relazione di causa ed effetto tra il fisico ed il

mentale. La loro correlazione è dovuta ad una terza causa (si pensi, ad es., all'unicità della sostanza di Spinoza, all'occasionalismo di Malebranche o alla "armonia prestabilita" di Leibniz). Il parallelismo è una dottrina molto implausibile al giorno d'oggi, anche se potrebbe essere compatibile con certe forme di dualismo delle proprietà combinate con il monismo neutrale.

Epifenomenismo Un evento cerebrale può causare l'emergere di uno stato

mentale, ma quest'ultimo non può retroagire sul corpo. Sebbene negare un certo grado di correlazione tra la vita mentale ed i

movimenti corporei negli esseri umani sia impossibile, tuttavia alcuni dualisti ammettono solo una correlazione parziale fra il mentale ed il fisico, mentre altri pensano che questa correlazione sia completa, vale a dire senza eccezioni: ogni evento mentale è correlato ad un certo evento cerebrale. Tale correlazione può essere dovuta o ad una interazione causale in entrambe le direzioni (dal fisico al mentale e dal mentale al fisico) o ad un'azione del fisico sul mentale, ma non viceversa, oppure al parallelismo tra fisico e mentale. In base alle distinzioni precedenti si danno perciò due forme di dualismo ontologico (trasversali rispetto al dualismo delle sostanze e delle proprietà):

Dualismo ontologico senza correlazione completa Alcuni stati mentali

possono non avere alcun correlato cerebrale (Cartesio). Dualismo (o pluralismo) ontologico con correlazione completa e interazione

Mente e corpo sono irriducibili l'una all'altro. Nondimeno stati fisici identici sono necessariamente accompagnati da stati mentali identici. Questa correlazione è dovuta sia all'azione causale del fisico sul mentale sia viceversa all'azione del mentale sul fisico (interazionismo): alcuni stati mentali sono correlati ad eventi fisici perché sono essi che li producono nel cervello (il mio atto volontario è accompagnato dall'eccitazione di certi neuroni della corteccia cerebrale perché è il mio libero arbitrio che produce quell'eccitazione come effetto fisico di una causa mentale) .

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Dualismo ontologico con correlazione completa, ma senza interazione

bidirezionale La correlazione fra il mentale ed il fisico è dovuta a parallelismo o epifenomenismo. Non si dà nessuna causazione del mentale sul fisico: perciò la loro correlazione è compatibile con il concepire l'universo fisico come un sistema chiuso (ma l'esistenza del libero arbitrio, nel senso richiesto dai libertarians, non è più possibile). L'epifenomenismo è una teoria ancora presente, sebbene minoritaria, tra i filosofi contemporanei .

Il dualismo ontologico è contrario, in quasi tutte le sue forme, al

naturalismo cognitivo, poiché rifiuta tre dei suoi quattro principi fondamentali. Infatti è sì vero che i dualisti ontologici ammettono che il mentale e la soggettività fanno parte del mondo reale (primo principio del naturalismo cognitivo), ma negano per lo più che il mentale e la soggettività siano fenomeni naturali (secondo principio), a meno che non si sia disposti a definire la natura in un senso molto più lato di quello usuale. Questo è evidente almeno nel caso del dualismo ontologico senza correlazione completa: uno spirito che può esistere senza il corpo ed è immortale non fa sicuramente parte della natura! Inoltre chi pensa che il mentale sia fuori della natura è incline a rifiutare anche il terzo principio del naturalismo cognitivo: vale a dire, è incline a pensare che i fenomeni spirituali possono essere spiegati solo a priori, filosoficamente, non attraverso le scienze empiriche. Infine un dualista ontologico che sia interazionista, anche se accetta la correlazione completa tra fisico e mentale, necessariamente rifiuta il carattere chiuso del mondo fisico (quarto principio del naturalismo cognitivo), dal momento che ritiene che gli eventi mentali possano causare eventi fisici: ad esempio, pensa che i movimenti volontari del suo corpo annoverino almeno un evento mentale irriducibile fra le loro cause, vale a dire una sua "volizione" (Popper).

L'epifenomenismo ed il parallelismo, invece, sono forme di dualismo

ontologico compatibili con il naturalismo cognitivo (il problema qui è la loro plausibilità alla luce del "rasoio di Ockham").

Monismo anomalo Il monismo anomalo non è un'ipotesi scientifica (a

differenza di quanto pensano della teoria dell'identità dei tipi i suoi difensori), ma una verità filosofica che può essere provata mediante argomenti a priori. Di conseguenza il monismo anomalo sembra rifiutare il terzo principio del naturalismo cognitivo, il principio secondo il quale la psicologia, da un punto di vista metodologico, è una normale scienza empirica al pari della fisica. Per questa ragione il monismo anomalo, sebbene possa essere visto come una forma di materialismo (o di monismo neutrale), non è una forma di naturalismo cognitivo.

L'idealismo trascendentale fenomenologico vale a dire l'idealismo di

Husserl, è profondamente antinaturalistico. È evidente infatti che la fenomenologia di Husserl rifiuta sia il primo che il terzo principio del naturalismo cognitivo.

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Analisi esistenziale ed ermeneutica. Queste si teorie si contrappongono, nel complesso, all'idea che anche la mente, lo spirito e più in generale il mondo umano e storico-sociale possano (e, anzi, debbano) essere studiati con i metodi delle scienze empiriche. Pertanto esse rifiutano quanto meno il terzo principio del naturalismo cognitivo.

Idealismo e spiritualismo sono filosofie in declino al giorno d'oggi e non

sono molto importanti per la filosofia contemporanea della mente. Ad ogni modo sono decisamente antinaturalistiche. Nessun idealista potrebbe accettare l'idea che lo spirito faccia parte della natura (secondo principio del naturalismo cognitivo). L'idealismo ed il naturalismo sono reciprocamente in contrasto anche riguardo al terzo principio del naturalismo cognitivo stesso: nessun idealista ha mai affidato la conoscenza dello spirito alle scienze empiriche.

Teorie naturalistiche Veniamo alle teorie naturalistiche. Il naturalismo cognitivo implica, in tutte

le sue forme, il rifiuto del dualismo (o pluralismo) ontologico interazionistico. Inoltre, sebbene sia in linea di principio compatibile con forme deboli di dualismo ontologico come l'epifenomenismo o il parallelismo, implica di solito il riduzionismo ontologico: esso perciò è monistico e più precisamente materialistico in senso lato. Per i naturalisti l'unica vera realtà è la realtà fisica. Le istituzioni sociali e i fenomeni culturali (incluso il linguaggio) possono esistere solo nella misura in cui sono realizzati dai comportamenti e dagli stati mentali di persone in carne ed ossa. Gli stati mentali, a loro volta, possono esistere solo se sono implementati da stati cerebrali.

Il riduzionismo ontologico dei naturalisti è tuttavia difficilmente

accompagnato da un completo riduzionismo metodologico, perché quest'ultimo è praticamente impossibile. Ad esempio, chi può pretendere seriamente di spiegare l'andamento della borsa di Milano in un certo giorno ricostruendo i processi subatomici che sono avvenuti nel cervello di tutti gli esseri umani il cui comportamento in tutto il mondo ha contribuito a determinare un tale andamento?!

Il naturalismo cognitivo è definito non solo dal riduzionismo ontologico del

primo e secondo principio, ma anche da due principi chiaramente metodologici ed epistemologici come il terzo ed il quarto. Tuttavia il terzo principio del naturalismo cognitivo (secondo il quale ogni fatto, non importa se mentale, culturale, biologico o fisico, deve essere studiato da una scienza empirica), sebbene accettato da tutti i naturalisti, è da loro diversamente interpretato a seconda del differente livello d'analisi (e perciò della differente scienza empirica) che essi preferiscono per lo studio dei fenomeni psicologici (o sociali e culturali). Ricompare qui una tendenza più debole o più marcata verso il riduzionismo metodologico, che è qui da intendersi non come il progetto (impossibile a realizzarsi, abbiamo visto) di ridurre completamente ogni

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scienza alla fisica, ma, più semplicemente, come la tendenza a servirsi di teorie scientifiche che appartengono ad un basso livello d'analisi per spiegare fenomeni di livello più alto. Diviene cruciale perciò, per distinguere le differenti forme di naturalismo cognitivo, la relazione che la linguistica e la psicologia cognitiva intrattengono con le neuroscienze. È riguardo a questa relazione che si può distinguere il naturalismo cognitivo debole dal naturalismo cognitivo forte.

Naturalismo cognitivo debole e naturalismo cognitivo forte Il naturalismo cognitivo debole è una cornice teorica per le scienze

cognitive che, sebbene includa l'accettazione del riduzionismo ontologico e di tutti e quattro i principi del naturalismo cognitivo, non solo difende l'antiriduzionismo metodologico, ma sottolinea che lo studio del linguaggio e degli stati mentali è possibile anche qualora nulla si sappia degli stati cerebrali dai quali gli stati mentali stessi sono "implementati". Le teorie seguenti sono gli esempi più importanti di questa forma di naturalismo:

Linguistica trasformazionale e generativa (N. Chomsky) Funzionalismo (primo Putnam). Teoria computazionale della mente (J. Fodor) Il naturalismo cognitivo forte è una teoria secondo la quale le attività

mentali, in generale, e l'intelligenza, in particolare, sono abilità (o l'esercizio di abilità) che consentono ad un organismo di meglio adattarsi al suo ambiente. Esse si sono formate e mantenute per selezione naturale nel corso dell'evoluzione biologica per la ragione che incrementavano le probabilità di sopravvivenza degli individui che le possedevano. La loro base comune è la "coordinazione senso-motoria".

L'intelligenza umana, che dipende in alto grado dalla capacità di parlare, è

solo il prolungamento evolutivo di abilità che già erano presenti negli animali (fra queste abilità la vista ha un'importanza cruciale, perché permette il riconoscimento della preda o dei predatori con grande precisione e a distanza). Pertanto lo psicologo cognitivo non può spiegare il funzionamento della mente umana senza sfruttare il patrimonio via via crescente di conoscenze sul funzionamento del cervello offerto dai neuroscienziati.

Oltre che dalle neuroscienze un aiuto prezioso per lo psicologo può venire

anche dal "connessionismo" (reti neurali artificiali). Infatti i neuroscienziati possono sì chiarire per mezzo di "neuroimmagini" quali potenziali elettrici vengano evocati e quali aree della corteccia siano eccitate allorché vengono eseguite determinate attività linguistiche o motorie, ma conoscono molto poco riguardo al ruolo giuocato in tali prestazioni del cervello dal modo nel quale

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esso è "cablato", vale a dire dal modo nel quale un cervello, in quanto rete di neuroni, produce il giusto "pattern di attivazione" dei motoneuroni quando riceva un certo input sensoriale (in questo campo l'unica cosa chiara è che il cervello non può funzionare come un computer digitale). Le reti neurali artificiali, invece, consentono di formulare quanto meno una prima ipotesi riguardo al modo nel quale il cervello funziona in quanto sistema di neuroni e perciò riguardo al modo nel quale esso processa l'informazione sensoriale. Pertanto, secondo il naturalismo cognitivo forte, il legame della psicologia (e anche della filosofia) con le neuroscienze diviene sempre più stretto.

Questa forma di naturalismo si presenta oggi principalmente sotto le tre

forme seguenti: 1) La teoria dell'identità dei tipi (insieme alla sua variante nota come

materialismo dello stato centrale), a differenza della teoria dell'identità delle occorrenze, è una forma di naturalismo forte, dal momento che i suoi sostenitori considerano l'identità degli stati o eventi mentali con degli stati o eventi fisici come una ipotesi scientifica suggerita da una correlazione costante tra fenomeni ripetibili di un certo genere che ulteriori risultati sperimentali forniti dalla psicologia e dalle neuroscienze possono confermare o falsificare.

2) L'eliminativismo, sebbene appartenga insieme alla teoria dell'identità

alla grande corrente del materialismo in senso stretto e sottolinei il legame della psicologia e della filosofia con le neuroscienze, si contraddistingue però dalla teoria dell'identità, perché considera i concetti psicologici tratti dalla folk psychology come troppo rozzi e inadeguati, perciò, alla costruzione di una scienza della mente. E' impossibile scoprire il correlato cerebrale al quale un certo stato mentale dovrebbe essere identico, se lo stato cerebrale è descritto nel linguaggio sofisticato delle neuroscienze e lo stato mentale nel linguaggio approssimativo della folk psychology. Gli eliminativisti non negano l'esistenza della coscienza (come i loro oppositori quasi sempre ritengono, attribuendo loro una tesi ridicola); essi affermano piuttosto che, ad esempio, il concetto corrente di dolore è troppo vago e perciò non può essere correlato ad alcun concetto delle neuroscienze che abbia la medesima estensione. Più in generale la psicologia e la filosofia devono rivedere il loro linguaggio ed i loro concetti alla luce delle neuroscienze, se vogliono avere con esse un rapporto di coevoluzione .

3) Il "naturalismo biologico" di J. Searle. Questi concepisce la coscienza

come una proprietà biologica emergente, dovuta ai "poteri causali" del cervello, e pretende con ciò di avere mandato in soffitta la vecchia alternativa tra dualismo e materialismo: la coscienza è una proprietà naturale, ma al tempo stesso introduce nel mondo una dimensione soggettiva irriducibile in termini materialistici. È dubbio, tuttavia, che la posizione di Searle sia chiara e non oscilli incoerentemente tra monismo e dualismo delle proprietà.

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I "QUALIA" Dedico un po' di spazio a un tema molto caro alla neurofilosofia e sul quale

i neurofilosofi dibattono argutamente e aspramente: i "qualia" Il termine latino qualia (plurale di quale) è entrato nell'uso filosofico per

analogia con il termine quanta (singolare quantum). Un quantum è una quantità; specificare un quantum significa riferirsi a una quantità di energia, massa, velocità e via dicendo. L'idea di un quale, viceversa, è, come indica il nome, qualitativa, invece che quantitativa. Specificare un quale significa indicare come è una certa cosa, fare riferimento irriducibile al carattere fenomenologico della nostra esperienza, al modo in cui le cose appaiono al soggetto cosciente. Esempi di qualia sono il profumo del caffè appena macinato o il gusto dell’ananas; tali esperienze hanno un carattere spiccatamente fenomenologico di cui tutti abbiamo esperienza ma che è, sembra, molto difficile da descrivere. La ricerca sulla natura, fenomenologia e probabile origine causale dei qualia è diventato un importante terreno di indagine per la recente filosofia della mente [Gregory, EOM, 1991, p. 766].

Secondo i riduzionisti i qualia posono essere pienamente spiegati in termini

degli eventi neurofisiologici del cervello e delle sue interazioni con l’ambiente. Secondo la teoria che va sotto il nome di epifenomenalismo, i qualia sono

dipendenti per causalità o "susseguenti" a eventi cerebrali, ma non possono puramente e semplicemente essere identificati con tali eventi.

Secondo il punto di vista dualistico, i qualia sono indipendenti dalla fisica e

appartengono al regno autonomo, non fisico, della mente. L'universo, così come è descritto dalla scienza moderna, è concepito per lo

più in termini quantitativi, in risposta alla domanda quantum? cioè quanto? Ma è notevole il fatto che la maggior parte dei modi più comuni che usiamo per descrivere il nostro ambiente non sono quantitavi, ma qualitativi: le descrizioni relative rispondono alla domanda Quale?, Com'è?

C'è un antico dibattito filosofico sul problema se tali qualità siano

veramente inerenti agli oggetti o se siano semplicemente effetti soggettivi nella mente dell'osservatore.

John Locke sistematizzò (ma non l'aveva inventata) una distinzione fra

qualità primarie e secondarie [Gregory, EOM, 1991, pp. 766-767]. Le qualità primarie corrispondono grosso modo ai quanta scientificamente

misurabili, comprendono forma, grandezza e numero, e si suppongono inerenti agli oggetti.

Le qualità secondarie, come colore, dolcezza ecc., sono piuttosto differenti:

le idee che ne abbiamo noi, secondo Locke, non assomigliano direttamente ad

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alcunché negli oggetti stessi, ma sono solamente il risultato del modo in cui gli oggetti influiscono sui nostri sensi per mezzo delle loro qualità primarie.

Alcuni filosofi non si sono fidati della distinzione fra qualità primarie e

secondarie, osservando che le nostre attribuzioni di colore, non meno delle nostre attribuzioni di misura, sono una funzione di regole di linguaggio perfettamente lineari e obiettive, così che è giusto dire che il sole è "veramente" giallo, così come è giusto dire che è "veramente" sferico. Ma rimane alla nostra sensazione di qualità, come quella di "giallezza", un carattere speciale soggettivo o fenomenologico che sembra dipendere in parte dal particolare apparato sensorio del quale è provvista la nostra specie e che non è lo stesso per tutti gli individui.

Così è possibile immaginare che degli extraterrestri forniti di tipi di organi

differenti possano percepire la luce di una certa lunghezza d'onda in modi radicalmente differenti da noi, fino al punto che la nozione umana di "giallezza" sarebbe inaccessibile per loro. Questa linea di pensiero dà un sostegno all'idea che ci sia veramente qualcosa di "soggettivo" nelle qualità sensoriali, come l’essere rosso o dolce; le nozioni di quadrato o sferico, per contro, non sembrano analogamente legate al "modo" sensorio particolare nei cui termini sono sentite.

A parte le questioni di soggettività, c'è il problema se i quale come il color

rosso o la dolcezza possano utilmente figurare nelle spiegazioni scientifiche. Robertl Boil, che scriveva intorno al 1650, faceva osservare che se vuoi sapere perché la neve abbaglia, non serve che ti dicano che ha la "qualità del candore". Simili accuse di vacuità delle spiegazioni furono rivolte contro la teoria scolastica che i corpi cadono a causa di un'inerente qualità di gravitas o pesantezza. È per questo tipo di ragione che Cartesio insisteva che le spiegazioni scientifiche dovrebbero rifarsi a "null'altro che non sia ciò che gli studiosi di geometria chiamano quantità e prendono come oggetto delle loro dimostrazioni, cioè quello a cui si può applicare qualsiasi tipo di divisione, forma e moto" (I principi della filosofia, 1644). Tuttavia, mentre questo punto di vista quantitativo è senza dubbio stato frutturoso per la fisica, la sua applicazione alla psicologia è più discutiblie.

Le qualità sensibili sono una parte inevitabile del paesaggio psicologico;

qualsiasi comprensione della nostra vita mentale deve, sembra, comprendere qualche rapporto su che vuol dire per noi vedere i colori, annusare gli odori e così via [Gregory, EOM, 1991, p. 767].

VIII

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Appunti su alcune teorie contemporanee della coscienza IGNACIO MATTE BLANCO E LA MENTE ASIMMETRICA In questo capitolo e nei seguenti raccolgo riflessioni di e su quattro autori

contemporanei. Non ho assolutamente la pretesa di illustrare le loro opere e le loro teorie che in alcuni casi (come quello di Matte Blanco, sono interi universi…). Ma voglio solo indicare una serie di spunti tratti dalle loro indagini, che mi sono sembrati interessanti e che mi hanno portato - come farò negli ultimi capitoli - a elaborare alcune mie riflessioni.

Il primo autore di cui mi occupo è Ignacio Matte Blanco (Santiago del Cile

1908 - Roma 1995). Psichiatra e psicoanalista cileno, laureatosi in medicina in Cile, si è poi specializzato in psichiatria a Londra dove ha condotto il training psicoanalitico., ha operato anche in Italia.

Nella sua opera maggiore L'inconscio come insiemi infiniti (1975) Matte

Blanco ha proposto un ripensamento sistematico dell'epistemologia psicoanalitica attraverso i risultati della logica matematica.

In contrapposizione con le teorie della psicologia dell'Io di scuola

americana, che tendevano a isolare l'inconscio facendone un mero contenitore di elementi rimossi, Matte Bianco ritiene che ciascun atto psichico sia il frutto di entrambe le funzioni, conscia e inconscia, le quali mettono capo a strutture logiche differenti ma unite (tesi della "bi-logica") all'interno del medesimo apparato psichico.

Mentre la logica cosciente risponde ai principi noti della logica classica e

razionalistica che da Aristotele giunge alle procedure scientifiche, quella inconscia - da cui deriva la precedente - si definisce nei termini con cui Freud descrisse il processo primario.

Matte Blanco non condivide del tutto la posizione che potremmo definire

"pessimistica" di Freud che nel 1900 aveva scritto che "la vera realtà psichica nella sua più intima natura è altrettanto sconosciuta a noi come la realtà del mondo esterno ed è a noi presentata dai dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno dalle indicazioni dei nostri organi di senso" [p. 73].

"La riflessione di Matte Blanco si sviluppa come un portare alle loro naturali

(o estreme?) conseguenze le rivoluzionarie intuizioni di Freud sull'inconscio, il tutto alla luce dell'osservazione clinica sopratutto con riferimento alle manifestazioni schizofreniche" [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981].

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La logica inconscia è regolata da: a) il principio di generalizzazione, per cui l'inconscio tratta l'elemento

individuale come se esso fosse membro di un insieme che contiene altri elementi, e questo insieme, a sua volta, come sottoinsieme di un altro insieme e così via all'infinito;

b) il principio di simmetria, secondo il quale l'inconscio tratta le relazioni

asimmetriche come se fossero simmetriche, per cui per es. "x è padre di y" implica "y è padre di x".

Il risultato di questi due principi dà luogo all'abolizione della successione

spazio- temporale, alla negazione dei principio di non-contraddizione, all'identità tra la parte e il tutto.

Dato che la logica conscia e quella inconscia di fatto coesistono e solo la

prevalenza quantitativa della prima sulla seconda differenzia la normalità dalla follia, la terapia consiste nel ridistribuire più equilibratamente gli elementi tra conscio e inconscio e non nell'"eliminare" l'inconscio.

"Essere simmetrico" ed "essere asimmetrico" Per spiegare la natura dell'essere simmetrico e di quello asimmetrico Matte

Blanco chiarisce che "non avrei nulla da obiettare se qualcuno chiamasse l'essere simmetrico "inconscio per sua natura", "inconscio strutturale" o semplicemente "inconscio". Allo stesso modo, l'essere asimmetrico potrebbe esser chiamato "l'essere che si manifesta nella coscienza" o semplicemente "coscienza". Ritorneremmo, così, ai vecchi termini di Freud, "coscienza" e "inconscio", purché sia in ogni caso chiaro che quando adoperiamo questi termini ci stiamo riferendo ai due modi di essere, caratterizzati dall'uso rispettivo di relazioni asimmetriche e simmetriche e non stiamo indicando qualità coscienti o inconsce. In tutto il libro userò, in effetti, l'espressione "inconscio" estensivamente, nel senso di essere asimmetrico" [p. 108].

"Con le relazioni simmetriche non è possibile stabilire una differenza tra

cose individuali; quindi l'individuo è, in tal caso, identico alla classe. Il pensiero richiede relazioni asimmetriche. E così pure la coscienza. Le potenzialità della classe o, in altre parole, il numero di valori che la funzione proposizionale può assumere è infinito. Esse non possono, quindi, venir simultaneamente comprese nella coscienza umana.

"Il pensiero è un processo, qualcosa in cui una cosa segue l'altra. La

coscienza umana assume una cosa dopo l'altra. Nulla, tuttavia, ci impedisce di concepire una forma di coscienza che può cogliere simultaneamente un numero infinito di cose. Se così fosse, l'essere simmetrico potrebbe entrare ed

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essere colto in toto dalla coscienza. Per riprendere il paragone del bicchiere dipinto: perché ciò sia possibile la coscienza dovrebbe avere infinite dimensioni. In tal caso l'essere simmetrico riuscirebbe ad entrare in questa coscienza di infinite dimensioni. Ma ciò non rientra nella realtà umana ed è perciò estraneo ai fini della scienza. Forse potrebbe corrispondere alla coscienza di Dio. Pensiero ed essere verrebbero allora a coincidere" [pp. 109-110].

"Ogni fenomeno mentale è psico-fisico. [...] le dimensioni dello spazio-

tempo [...] sono in contatto immediato con il nostro intelletto che anche "si muove" in esse." [p. 215].

Misurare i fenomeni psichici Sulla possibilità di indagare, misurare i fenomeni psichici Matte Blanco

dichiara che "la stella più distante, la caverna più profonda della terra e la più sfuggente particella di un atomo sono più pubbliche, più vicine alla nostra osservazione di un pensiero o di un sentimento che non comunichiamo" [p. 216].

"Le conseguenze concettuali derivano dalla visione dei processi mentali qui

discussa sembrano significative [...]. Anche a prima vista si può constatare che le infinte possibilità di misurazione inerenti ai processi mentali portano ad una conseguenza piuttosto paradossale: è effettivamente impossibile, al presente, misurare processi così densi di possibilità interne. Se, però, ricordiamo che il concetto matematico di integrazione può essere concepito come la somma di un numero infinito di infinitesimi, non c'è bisogno di sentire la via sbarrata per sempre. [...] L'idea di attribuire ai processi psichici una intrinseca non misurabilità si è dimostrata, alla luce di quanto sopra, insoddisfacente. [...] l'alternativa degli psicologi sperimentali appare ugualmente insoddisfacente [...] Ambedue possono essere superate con l'introduzione del concetto di insiemi infiniti. [...] In alcuni dei suoi aspetti, molti dei quali sono esattamente quelli studiati dalla psicoanalisi, la mente può essere trattata come una collezione di insiemi infiniti" [p. 234].

"Un'altra osservazione che è alla portata di ogni persona che faccia

introspezione.Essa riguarda un caso che in alcuni casi di nevrosi ansiosa può manifestarsi in forma drammatica.

Quando pensiamo esercitiamo tutta la nostra attività cosciente. Quando,

però, ci soffermiamo a considerare il processo stesso del pensiero e pensiamo che siamo noi che stiamo pensando, quando in altre parole cerchiamo di cogliere questa importantissima caratteristica dell'essere cosciente nella sua interezza, nella sua pienezza, troviamo cha la nostra coscienza è qualcosa di fugace, di mai completamente afferrato. [...] quando vogliamo diventare pienamente consci del nostro essere consci, la nostra coscienza di essere

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consci si annebbia. Possiamo diventare consci di essere consci solo in un modo tangenziale, passeggero, fugace; non possiamo fermarci e restare a contemplare la piena estensione della nostra comprensione, almeno non possiamo farlo in condizioni normali, poiché per cogliere la nostra attenzione il pensiero deve muoversi da un punto all'altro.

È interessante paragonare queste osservazioni con quelle fatte dai

neurofisiologi. Quando vediamo, i nostri occhi non sono mai fermi [...] Se cerchiamo di osservare solo un punto e lo fissiamo la nostra visione diventa confusa: per vedere dobbiamo muovere gli occhi. Ci troviamo esattamente nella stessa situazione nel caso della "visione mentale" della coscienza. [...] alcune caratteristiche peculiari osservate nei nevrotici ossessivi che possono in verità essere chiamate disturbi del funzionamento della coscienza, per quanto non siano mai stati classificati tra i disturbi classici della coscienza.

Un nevrotico ossessivo chiude la porta di casa, fa alcuni passi e si chiede se

ha veramnte chiuso o meno la porta. [...] Fa ogni sforzo per fare appello alla sua introspezione (retrospettiva) con la massima chiarezza possibile. Cerca di fissare quel momento nella sua mente ma più cerca più fugace diventa il momento e più gli sfugge. [...]

Sembrerebbe che la certezza sia colta e sentita come tale solo se riusciamo

ad accettare la qualità fugace del momento in cui la stiamo cogliendo." [pp. 256-257].

"Per la nostra coscienza (umana) "essere" equivale ad "accadere". Eppure

abbiamo imparato a conoscere essere senza alcun avvenimento. Che cos'è questo essere immobile in noi? Non possiamo comprenderlo poiché comprendere è un avvenimento (asimmetrico). Lo "viviamo"? La difficoltà è che la vita è anche asimmetrica: il suo concetto presuppone avvenimento. L'unica risposta sembra essere che noi siamo (un) essere. Essere un essere è estremamente "oscuro" poiché la "luce", sia essa fisica o simbolica (propriamente "la luce dell'intelletto") appartiene al regno dell'avvenimento. Diciamo perciò: in qualche senso oscuro siamo. [...] Così essere un essere o "essere: 'essere' " è il massimo che possiamo dire, finora, di esso. Si rimane frustrati. Ma, forse, quando noi siamo, sperimentiamo che cosa è essere. Questa, però, dovrebbe essere "un'esperienza che non è un avvenimento"" [p. 354].

"La sensazione appare inizialmente nella coscienza maculare in uno stato

puro, nudo, per così dire. Ciò succede solo per un istante fugace; subito dopo viene rivestita o ricoperta dallo stabilimento di relazioni senza il quale non sembra essere in grado di rimanere nella coscienza maculare. [...] In sé la sensazione-sentimento è sperimentata come un'unità indivisibile non come una sequenza e come tale essa è al di fuori della successione o tempo e non si presta al lavoro della coscienza maculare, che si sposta nel tempo, con considerazioni successive prima di un aspetto poi di un altro. Il pensiero accade o si dispiega, la sensazione è" [pp. 260-261].

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"Se, però, consideriamo il tempo in cui si esercita l'introspezione, dobbiamo

concludere che l'introspezione è sempre un'attività retrospettiva. Queste due caratteristiche sono sempre indissolubilmente legate."

"Possiamo quindi concludere che pensiero ed emozione hanno qualcosa in

comune che possiamo descrivere approssimativamente dicendo che vi è pensiero nell'emozione ed emozione nel pensiero" [p. 316].

La natura della coscienza "Sebbene sia vero che la coscienza non si riveli che tramite un oggetto

della coscienza, un pensiero, questo non significa necessariamente che l'oggetto è la sola cosa che sia "lì". L'uomo invisibile della storia di Wells era "lì" eppure non si rendeva visibile se non coperto da qualche materiale opaco. La coscienza può essere paragonata all'uomo invisibile e gli oggetti della coscienza - pensieri - al materiale opaco che ne rivela l'esistenza. La forma del materiale opaco implica l'uomo invisibile e lo rivela; e l'uomo invisibile dà a questo materiale la sua forma. Qualcosa di simile è vero per la coscienza. Questa parola è un nome adoperato per designare un'astrazione costituita dall'insieme delle attività - pensieri - per mezzo delle quali e in cui allo stesso tempo gli oggetti della coscienza - anche pensieri - si rivelano. In questo senso James sembra essere nel giusto quando afferma che la coscienza rappresenta una funzione; forse, però, si potrebbe aggiungere qualcosa di più, sebbene bisogna riconoscere che la questione viene, in definitiva, a dipendere dal significato che si attribuisce alla parola "entità" e "funzione". [...] invece di argomentare a favore dell'uno o dell'altro termine (o di ambedue) cercherò di spiegare ciò che ho in mente. La coscienza può essere paragonata ad una coppia di specchi paralleli che stanno uno di fronte all'altro. Se nessun oggetto vi si riflette, allora uno specchio riflette l'altro e viceversa; il primo riflette il riflesso di se stesso nel secondo e il secondo riflette il riflesso di se stesso nel primo e così via all'infinito. Se, però, nessun oggetto si interpone tra gli specchi non si vede nessuno di questi riflessi, mentre quando fa la sua comparsa un oggetto ci rendiamo conto del numero infinito di riflessi.

La coscienza e i suoi oggetti sono della stessa natura, cioè pensieri ma

assolvono funzioni differenti; la prima quella di essere consapevole dei secondi e i secondi quella di essere consapevoli di qualche realtà esterna. Sono complementari: gli oggetti - pensieri - rivelano l'esistenza della coscienza e quest'ultima, a sua volta, dà forma a quegli oggetti cosituiti dai pensieri, poiché i pensieri sono pensieri in quanto la funzione della coscienza è strutturata in termini di pensieri.

In altre parole i pensieri non esisterebbero se, in qualche modo, essi non si

riflettessero nei pensieri della coscienza, che costituiscono la vera struttura della coscienza. Sembra una qualità essenziale al pensiero umano il fatto di

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essere riflesso nella coscienza. I pensieri non possono esistere senza il loro riflettersi nella coscienza, almeno come possibilità se non sempre come attualità.

La differenza tra i pensieri chiamati oggetti della coscienza e i pensieri

chiamati coscienza sta, probabilmente, nel loro orientamento: verso qualcosa di esterno nel caso dei pensieri "ordinari" e verso se stessi nel caso dei pensieri della coscienza.

Bisogna, tuttavia, riconoscere che non appena i pensieri si rivolgono verso

se stessi, cioè diventano "pensieri di coscienza", essi non possono evitare di trattare se stessi come esterni a se stessi.

L'attività asimmetrica (e l'attività della coscienza è attività asimmetrica)

non può evitare la separazione inerente alla contiguità e alla successione poiché queste due nozioni sono essenziali alla nozione di essere esterno.

Eppure questa "riflessività" dei pensieri, che stabilisce la differenza tra

pensieri come oggetti della coscienza e pensieri come coscienza, tende verso una misteriosa unità indivisibile di questi pensieri che noi vediamo come appartenenti a due categorie diverse.

Forse la nascita della coscienza è "situata" proprio al punto esatto di

incontro dei modi simmetrico e asimmetrico e sarebbe questa la ragione di questa strana elusività del fenomeno della coscienza: quando lo descriviamo lo impoveriamo poiché lasciamo fuori, nelle nostre descrizioni, gli aspetti simmetrici che sono essenziali alla coscienza stessa.

Ma forse, dopo tutto, l'aspetto simmetrico della coscienza si rivela nelle

nostre descrizioni attraverso il riferimento all'infinita riflessività della coscienza su se stessa, che ci appare così strana e misteriosa. Forse questo è un altro esempio del fatto che abbiamo già notato e vedremo ancora di nuovo: ogni qualvolta la ragione asimmetrica si trova di fronte all'essere simmetrico, la cosa migliore che può fare è descriverlo come un insieme infinito. L'infinita "riflessività" della coscienza su se stessa è un caso di insieme infinito.

Tutto ciò, credo, potrebbe essere oggetto di ulteriore ricerca. Forse se

riusciamo a sciogliere questo mistero, saremo molto più in grado di capire la capacità di coscienza che possiede l'essere simmetrico" [pp. 251-253].

Uomo e società "La nozione di conflitto intrapsichico, che è così centrale nella concezione

analitica, può essere vista sotto una nuova luce se esaminata dal punto di vista della bipolarità simmetrico-asimmetrico [...] In termini generali, il contrasto tra l'aspetto dell'uomo per cui egli è un solo essere con tutti gli altri esseri e l'altro

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aspetto, per cui egli è separato e indipendente dagli altri, è all'origine della patologia mentale. In termini biologici possiamo parlare del contrasto tra la tendenza ad essere un sincizio e la tendenza ad essere una cellula.

In questo senso è interessante considerare che il concetto di comunità e di

organismo sociale rappresenta il punto d'incontro tra ambedue gli aspetti, poiché da un certo punto di vista questo concetto comporta quello degli individui che formano il gruppo e da un altro indica la fondamentale unità di tutti gli esseri umani. Forse questa è la base dell'importanza fondamentale della visione dell'uomo come essere sociale: il punto di incontro tra individualità (asimmetria) e simmetria onniconclusiva" [pp. 352-354].

Insomma, quando e dove si applica il principio di simmetria scompaiono lo

spazio, il tempo, le distinzioni tra parte e tutto, tra individuo e classe, tra individui, tra cose singole; e scompare anche il principio di non-contraddizione [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981, p. XXXIV].

Ma "il solo spazio che ha qualche significato per i nostri sensi è lo spazio

tridimensionale o, più precisamente, gli oggetti tridimensionali" [p. 500]. Psicanalisi ed epistemologia Bria conclude l'introduzione al saggio di Matte Blanco citando la risposta

che quest'ultimo ha dato in un'intervista sul "futuro" della psicoanalisi e dell'epistemologia.

"Essa rappresenta - sostiene Bria - la sintesi più profonda ed efficace del

suo intero pensiero: D. Che cosa può offrire la psicoanalisi per una epistemologia del futuro? R. L'identità tra simbolo e cosa simbolizzata, profondamente inconscia,

suggerisce una visione dell'essere come unico, indivisibile, omogeneo (Parmenide), in contrasto e costante intreccio con quella del pensare, che fa distinzioni senza fine tra gli esseri e negli esseri; epistemologia bi-modale e bi-logica. Così, nel mezzo delle agitazioni dell'amore e dell'odio, sentite inconsciamente come infinite, l'uomo è anche abisso insondabile di pace totale. Tutto ciò porta all'infinito come struttura bi-logica, perciò ad una nuova fondazione della matematica, quindi della scienza, del mondo e della società: uomini diversi ed un solo essere.

Infine, tutti misteriosamente immersi in Dio invisibile, con diversi nomi

umani - Bellezza, Bontà, Scienza, Società politica ideale e Dio - ma, in fondo, Jahveh impensabile, essenzialmente inconoscibile, ineffabile" [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981, p. CVII].

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DANIEL C. DENNETT E LA VISIONE COGNITIVISTA DELLA COSCIENZA Daniel C. Dennett si è occupato ampiamente della coscienza pubblicando

numerosi saggi e articoli nei quali propone analisi sistematiche e stringenti ma esposte con uno stile gradevole e divertente. Per esempio è addirittura spassoso quando critica i trabocchetti filosofici ed epistemologici che il complesso tema della coscienza fornisce (si vedano per esempio le assurdità del "teatro cartesiano"), salvo però caderci lui stesso.

Infatti il suo indirizzo cognitivista lo porta a costruire una teoria

complessiva sulla coscienza esponendosi perciò stesso a numerose critiche, dal momento che attualmente nessuno è in grado di fornire una teoria soddisfacente che spieghi la natura e il funzionamento della coscienza.

L'obiettivo di Dennett è abbastanza chiaro: "Nei capitoli seguenti [...]

spiegherò i vari fenomeni che compongono ciò che chiamiamo coscienza, mostrando come essi siano tutti degli effetti fisici delle attività del cervello, come queste attività si siano evolute e come facciano sorgere le illusioni sui loro poteri e le loro proprietà" [Dennett, 1993, p. 25] .

Eppure ammetteva che "la coscienza umana è praticamente l'ultimo

mistero che ancora sopravvive. Un mistero è un fenomeno sul quale la gente non sa - ancora - come ragionare. Con la coscienza ci troviamo ancora nella confusione più completa [...] E, come con tutti i precedenti misteri, ci sono molti che insistono - e sperano - che non ci sarà mai una demistificazione della coscienza" [Dennett, 1993, p. 31-2].

Ma "c’è il vago sospetto che la caratteristica più attraente della sostanza

mentale sia la sua promessa di essere così misteriosa da tenere la scienza in scacco per sempre " [Dennett, 1993, p. 49d].

Egli sa che la sua spiegazione della coscienza è tutt’altro che completa. "Si

potrebbe perfino dire che è stata solo un inizio, ma è un inizio, perché rompe l’incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare impossibile una spiegazione della coscienza. Io non ho sostituito una teoria metaforica, il Teatro Cartesiano, con una teoria non metaforica (letterale, scientifica). Tutto quello che ho fatto, realmente, è stato di sostituire una famiglia di immagini e metafore con un’altra: ho rimpiazzato il Teatro, il Testimone, l’autore Centrale, il Figmento con un Software, le Macchine Virtuali, le Versioni Molteplici, un Pandemonio di Homunculi. È solo una guerra di metafore, potresti dire - ma le metafore non sono "solo" metafore; le metafore sono gli strumenti del pensiero. Nessuno può riflettere sulla coscienza senza di esse, così è importante equipaggiarsi con il migliore insieme disponibile di strumenti" [Dennett, 1993, p. 508].

Dennett critica l'atteggiamento di dire che la coscienza è ciò che conta, e

poi aggrapparsi a dottrine sulla coscienza che impediscono "sistematicamente"

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di ottenere qualsiasi ragguaglio sul perché essa conta" [Dennett, 1993, p. 502].

Ma ha fiducia, una genuina fiducia positivistica, perché "naturalmente ci

deve essere qualcosa che viene "lasciato fuori" - altrimenti non avremmo iniziato a spiegare". E "il fatto che qualcosa venga lasciato fuori non è una caratteristica delle spiegazioni mancate, ma delle spiegazioni riuscite" [Dennett, 1993, p. 507].

Per formulare la sua teoria Dennett utilizza il concetto di mema.

"Intuitivamente queste sono delle unità culturali più o meno identificabili: le unità sono gli elementi più piccoli che replicano se stessi con affidabilità e fecondità. Dawkins conia un termine per tali unità: memi - unità di trasmissione culturale o unità di imitazione" [Dennett, 1993, p. 227].

Sono tre i mezzi che hanno contribuito al progetto della coscienza umana -

l’evoluzione genetica, la plasticità fenotipica e l’evoluzione memetica - ognuno a suo tempo e a una velocità crescente [Dennett, 1993, p. 235].

Discipline a confronto Sulla necessità che una teoria della coscienza sia eclettica e su come i vari

addetti ai lavori facciano fatica ad accettare gli sconfinamenti ironizza Dennett raccontando un aneddoto. Quelli dell’Intelligenza Artificiale chiedono a Dan "Perché sprechi il tuo tempo a parlare con i neuroscienziati? Non danno importanza ai "processi informazionali" e si preoccupano solo di dove essi avvengano, e di quali neurotrasmettitori siano implicati [...], ma non hanno la minima idea sui requisiti computazionali delle funzioni cognitive superiori".

Ma "perché - domandano i neuroscienziati - sprechi il tuo tempo con le

fantasie dell’Intelligenza Artificiale? Quelli non fanno altro che inventare innumerevoli marchingegni e affermano cose di un’ignoranza imperdonabile sul cervello".

Gli psicologi cognitivi, nel frattempo, sono accusati di mettere assieme dei

modelli privi sia di plausibilità biologica sia di dimostrati poteri computazionali; gli antropologi non riconoscerebbero un modello anche se lo vedessero, e i filosofi, come tutti sanno, non fanno altro che riciclare i panni sporchi degli altri, mettendo in guardia da confusioni che essi stessi hanno creato, in un'arena priva sia di dati che di teorie empiricamente verificabili.

Con tutti questi idioti che lavorano al problema, non stupisce che la

coscienza sia ancora un mistero" [Dennett, 1993, p. 284-5].

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La coscienza come "macchina virtuale di memi che reimpiega il cervello" Ecco la teoria di Dennett: "L'ipotesi che difenderò è che la coscienza umana

è essa stessa un enorme complesso di memi (o più esattamente, di effetti provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale "neumanniana" implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato per attività del genere. I poteri di questa macchina virtuale accrescono notevolmente i sottostanti poteri dell’hardware su cui gira, ma nello stesso tempo molte delle sue caratteristiche più strane, e soprattutto delle sue limitazioni, possono essere spiegate come prodotti collaterali dei kludge che rendono possibile questa strana ma efficace riutilizzazione di un organo già esistente per nuovi scopi" [Dennett, 1993, p. 236-7].

I fenomeni della coscienza umana sono stati spiegati in termini di

operazioni di una "macchina virtuale", una sorta di programma informatico evoluto (e evolventesi) che plasma le attività del cervello. Non esiste un Teatro Cartesiano; esistono solo Molteplici Versioni composte da processi di fissazione di contenuti che giocano vari ruoli semi-indipendenti nella più vasta economia tramite la quale il cervello controlla il viaggio del corpo umano attraverso la vita. La convinzione straordinariamente persistente che ci sia un Teatro Cartesiano è il risultato di una varietà di illusioni cognitive che sono state ora esposte e spiegate. I "qualia" sono complessi stati disposizionali del cervello e il sé (altrimenti noto come il Pubblico del Teatro Cartesiano, l’Autore Centrale o il Testimone) si rivela essere una valida astrazione, una finzione teorica piuttosto che un osservatore interno o un boss.

Se il sé è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della

coscienza umano sono "soltanto" i prodotti delle attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni incredibilmente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente programmato, con un cervello costitutito da un calcolatore a base di silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé [Dennett, 1993, p. 480].

"Poiché ha trovato difficile - spiega Dennett - immaginare come un robot

possa essere cosciente, il mio amico è stato riluttante ad immaginare un robot che fosse cosciente [...] Ma è altrettanto difficile immaginare come un cervello umano organico possa sorreggere la coscienza. Come potrebbe un complicato ammasso di interazioni elettrochimiche tra miliardi di neuroni equivalere alle esperienze coscienti? Eppure noi immaginiamo facilmente che gli esseri umani siano coscienti.

Come è possibile che il cervello sia la sede della coscienza? Questa è stata

di solito considerata dai filosofi una domanda retorica, un invito a pensare che la sua risposta si collochi oltre la comprensione umana. Uno dei compiti principali di questo libro è stato quello di demolire tale presupposizione. Io ho

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sostenuto che puoi immaginare come tutto questo ammasso complicato di attività nel cervello equivalga all’esperienza cosciente" [1993, p. 482].

La coscienza è il prodotto delle nostre rappresentazioni Secondo Dennett noi siamo costantemente impegnati a presentare noi

stessi agli altri, e a noi stessi, e quindi a rappresentare noi stessi - tramite il linguaggio e i gesti, internamente ed esternamente. Quando diamo libero accesso a queste parole, questi veicoli di memi, esse tendono a prendere il sopravvento, a crearci, utilizzando il materiale grezzo che trovano nei nostri cervelli.

La nostra tattica fondamentale di auto-protezione, di auto-controllo e di

auto-definizione non è quella di tessere ragnatele o quella di costruire dighe, ma quella di raccontare storie, e più in particolare di architettare e controllare la storia che raccontiamo agli altri - e a noi stessi - su chi siamo. I nostri racconti vengono tessuti, ma per lo più noi non li tessiamo; essi ci tessono. La nostra coscienza umana - la nostra individualità narrativa - è un loro prodotto, non la loro fonte.

La coscienza e i sé "E dov’è la cosa a cui si riferisce la tua auto-rappresentazione? È ovunque

tu sia. E cos’è questa cosa? È nulla di più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa" [Dennett, 1993, p. 477].

Dennet giunge all'affermazione paradossale secondo cui due o tre o

diciassette sé per corpo non è davvero metafisicamente più stravagante di un sé per corpo. Anche uno è troppo!.

"I sé non sono anime-perle che esistono indipendentemente, ma risultati

dei processi sociali che ci creano e, come altri prodotti del genere, soggetti a improvvisi mutamenti di status.

"Se ciò che sei è questa organizzazione dell’informazione che ha strutturato

il sistema di controllo del tuo corpo (o, per dirlo nel modo più usuale e provocatorio, se ciò che sei è il programma che gira nel tuo calcolatore cerebrale), allora potresti in linea di principio sopravvivere alla morte del tuo corpo, così come un programma può conservarsi intatto anche dopo che sia stato distrutto il calcolatore sul quale è stato creato ed eseguito per la prima volta" [Dennett, 1993, p. 478-9].

L’idea di un sé (o di una persona o, anche, di un’anima) distinto dal

cervello o dal corpo è profondamente radicata nel nostro modo di parlare, e

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quindi nel nostro modo di pensare. "Io ho un cervello". Questo sembra un modo di esprimersi completamente accettabile. E non sembra significare semplicemente "Questo corpo ha un cervello" (e un cuore, e due polmoni, ecc.) o "Questo cervello ha se stesso". Ma "il guaio con i cervelli è che, quando ci guardi dentro, scopri che non c’è nessuno in casa. Nessuna parte del cervello è il pensatore che effettivamente o lo sventurato che sente il dolore, e il cervello nel suo insieme non sembra essere un candidato migliore per questo ruolo speciale" [Dennett, 1993, pp. 40-41].

"Nel cervello non esiste una cellula o un gruppo di cellule in una tale

preminenza anatomica o funzionale da poter sembrare la chiave di volta o il centro di gravità dell’intero sistema, (William James, 1890).

Non esiste un singolo punto nel cervello verso il quale tutte le informazioni

vengono incanalate" [1993, pp. 119-120]. "Poiché la cognizione e il controllo - e quindi la coscienza - è distribuita in

tutta l’area del cervello, non è possibile scegliere nessun momento preciso come quello in cui avviene l’evento cosciente" [1993, p. 193].

Coscienza e linguaggio "Il linguaggio gioca un ruolo enorme nella strutturazione di una mente

umana; quindi non dovremmo supporre che la mente di una creatura priva di linguaggio - e che non ha in realtà alcun bisogno di esso - sia strutturata nelle stesse maniere" [Dennett, 1993, p. 498].

"Il linguaggio infetta i nostri pensieri e ne altera la flessione a ogni livello.

Le parole nel nostro vocabolario sono dei catalizzatori che possono far precipitare contenuti specifici quando una parte del cervello prova a comunicare con un’altra. Nulla di tutto ciò ha il minimo senso se continuiamo a pensare alla mente come idealmente razionale e perfettamente unificata e trasparente a se stessa. A che cosa serve parlare a noi stessi, se si conosce già cosa si intende dire?" [Dennett, 1993, p. 335-6].

Se non potessi parlare a me stesso, non avrei modo di conoscere quello

che stavo pensando. E d'altronde, "come sappiamo, gran parte dell’elaborazione

dell’informazione nei sistemi nervosi è completamente inconscia " [Dennett, 1993, p. 495].

Cervelli e computer

181

I due registri, in cui possono comparire solo un’istruzione e un valore alla volta, costituiscono la celebre "strozzatura di Neumann", il luogo angusto in cui tutte le attività del sistema devono passare in fila indiana. In un calcolatore veloce, si possono svolgere milioni di operazioni al secondo che collegate insieme producono gli effetti apparentemente magici che l’utente osserva. Tutti i calcolatori numerici sono i diretti discendenti di questo schema progettuale. Queste nuove ed affascinanti macchine di von Neumann furono chiamate "giganteschi cervelli elettronici", ma esse erano in realtà gigantesche menti elettroniche, imitazioni elettroniche - decise semplificazioni - di quel che William James chiamò flusso di coscienza, la tortuosa sequenza di contenuti mentali coscienza meravigliosamente descritta da James Joyce nei suoi romanzi.

L’architettura del cervello, al contrario, è massicciamente parallela, con

milioni di canali operazionali simultaneamente attivi. "Ciò che dobbiamo capire è come un fenomeno seriale Joyceano (o come ho detto "neumanniano") possa esistere, con tutte le sua familiarità peculiarità, nel tumulto parallelo del cervello" [Dennett, 1993, p. 241].

L'eterofenomenologia "Possiamo paragonare il compito dell’eterofenomenologo di interpretare il

comportamento dei soggetti con quello del lettore di interpretare un’opera narrativa" [Dennett, 1993, p. 93]. Che non è un modo normale di trattare le persone, come produttori di finzioni narrative, ma questo è lo statuto dell’eterofenomenologia per Dennett.

"Ovunque esiste una mente cosciente, esiste un punto di vista. [...] Una

mente cosciente è un osservatore, che recepisce un sottoinsieme limitato di tutte le informazioni esistenti; un osservatore che recepisce le informazioni disponibili in una sequenza particolare (più o meno) continua di tempi e luoghi nell’universo" [Dennett, 1993, p. 119].

Secondo il modello delle Molteplici Versioni, ogni tipo di percezione - in

verità, ogni tipo di pensiero o attività mentale - è compiuto nel cervello da un processo parallelo e a piste multiple di interpretazione ed elaborazione dei dati sensoriali in ingresso. Le informazioni che entrano nel sistema nervoso sono sotto continua "revisione editoriale".

La revisione orwelliana "La possibilità di una revisione (orwelliana) post-esperienziale mette in luce

una delle nostre più fondamentali distinzioni: quella tra apparenza e realtà. [...] Una revisione orwelliana non è l’unico modo per ingannare i posteri. Un

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altro consiste nell’inscenare processi farseschi, presentando trascrizioni accurate di false testimonianze e finte confessioni, e integrandole con prove abilmente contraffatte. Un tale stratagemma si potrebbe chiamare staliniano" [Dennett, 1993, p. 135-6].

I cervelli più sosfisticati nel mondo animale, grazie alla loro plasticità, sono

capaci "non solo di anticipazioni stereotipate, ma anche di adattarsi a linee di tendenza. Ma per un controllo veramente potente, hai bisogno di una macchina anticipatrice che si riprogetta radicalmente in pochi millisecondi.

Secondo Edelman uno fra i caratteri più sorprendenti della coscienza è la

sua continuità. Ciò, per Dennett è completamente sbagliato. "Uno fra i caratteri più sorprendenti della coscienza è la sua discontinuità" [Dennett, 1993, p. 395]. "Stai negando allora che la coscienza sia un qualcosa di pieno? - hanno chiesto a Dennett. - Sì, infatti. La coscienza è lacunosa e sparsa, e non contiene neanche la metà delle cose che la gente pensa" [Dennett, 1993, p. 407].

KARL RAIMUND POPPER E IL MONDO DELLE IDEE Il filosofo austriaco Karl Raimund Popper (Vienna 1902 - Londra 1994), pur

essendosi formato a stretto contatto con il circolo di Vienna, non ne fece mai effettivamente parte e la sua prima opera, Logica della scoperta scientifica (1934), ne rappresenta una critica radicale.

Popper parte dalla critica bruniana del procedimento induttivo secondo la

quale è impossibile giungere logicamente a una conclusione universale partendo dall'analisi di una somma di casi particolari. Se nessun numero di esempi confermati può giustificare la verità di una proposizione universale, un solo esempio contrario consente invece di dimostrarne la falsità, cioè di procedere alla sua "falsificazione".

È quindi la falsificabilità e non la verificabilità che costituisce il tratto

caratteristico delle teorie scientifiche. È la direzione stessa dell'indagine che viene in tal modo invertita: non si muove dai fatti alla costruzione delle teorie, ma dalle teorie al loro controllo mediante i fatti.

E poiché questo controllo avviene traendo deduttivarnente dalle teorie le

loro conseguenze, Popper designa il metodo da lui proposto come "ipotetico-deduttivo"

Dunque una teoria, nella migliore delle ipotesi, può essere assunta soltanto

provvisoriamente come vera, poiché in realtà essa conserva sempre un carattere ipotetico e congetturale e può quindi sempre venir confutata da controlli futuri.

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Popper ha anche sostenuto l'esistenza di una verità assoluta che costituisce la meta (sia pure come ideale regolativo nel senso kantiano) del cammino della scienza (Congetture e confutazioni, 1962). Ha proposto perfino una teoria della conoscenza che ha parecchi punti di contatto con il platonismo tradizionale e cioè la teoria della conoscenza oggettiva o teoria del "mondo 3" (Conoscenza oggettiva, 1972) [EGF2, 1997, pp. 880-881].

Un'importanza che nella sua epistemologia riveste il principio di

contraddizione della logica classica ha condotto Popper a una presa di posizione polemica nei confronti del metodo dia- lettico. In Che cos'è la dialettica (1937) ha sostenuto che il rifiuto dei principio di contraddizione rende impossibile ogni indagine scientifica e razionale in genere, poiché è fa- cile mostrare che, da una coppia di asserzioni tra loro contraddittorie, è possibile dedurre lo- gicarnente qualsiasi asserzione.

Per il razionalismo critico popperiano non esistono contraddizioni nella

natura delle cose, ma soltanto nel pensiero, e la conoscenza scientifica deve evitare le contraddizioni proprio per poter cogliere l'oggetto, proponendo delle congetture e controllandole deduttivamente (presupponendo quindi la validità dei principio di contraddizione).

L'insieme di queste sue conlcusioni mi pare una piattaforma metodologica

imprescindibile per chi voglia perseguire lo studio della coscienza. Ecco perché, anche in questo caso mi soffermo un po' su questo autore e ne cito alcuni passi più utili alla mia ricerca.

Un programma di ricerca metafisico Nelle sue opere più recenti Popper ha sostenuto che l'impresa scientifica è

irrealizzabile se non si svolge sotto le direttive di un "programma di ricerca metafisico".

Tali programmi indicano alla scienza i problemi rilevanti, la direzione che la

ricerca deve assumere, il tipo di spiegazione soddisfacente, il grado di profondità raggiunto da una teoria. Essi si collocano così all'inizio e alla fine del processo scientifico, dapprima come selettori di problemi e poi come criteri di valutazione dei risultati conseguiti.

La stessa epistemologia di Popper è impensabile senza presupporre un

programma di ricerca metafisica: la fede speculativa professata è il realismo metafisico, che postula l'esistenza di leggi naturali, cioè regolarità strutturali che soggiacciono al mondo fenomenico.

Popper dichiara di non credere più alla demarcazione tra scienza e

metafisica, sia perché idee e problemi metafisici hanno determinato per secoli lo sviluppo della scienza assumendo la funzione di idee regolative, sia perché

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alcuni programmi di ricerca metafisici, come l'atomismo, si sono gradualmente trasformati in teorie scientifiche.

Non possiamo accettare indiscriminatamente ogni metafisica: si tratterà

piuttosto di valutarne la fecondità nei confronti della situazione problematica con cui la teoria interagisce e la capacità di promuovere lo sviluppo della scienza.

Della sua stessa teoria Popper è pronto a fare verifica.. In La conoscenza e

il problema corpo-mente, scrive: "Devo avvertire che la teoria provvisoria che intendo proporre non solo è provvisoria, ma non è nemmeno propriamente una teoria se confrontata, per esempio, con le teorie della fisica. È, in ogni caso, una teoria controllabile, e ha passato alcuni controlli in un modo che ha superato tutte le mie aspettative. Per coloro che hanno familiarità con la storia della filosofia, non devo nemmeno sottolineare quanto sia del tutto insoddisfacente ciò che sul nostro problema è stato detto finora. È soltanto in confronto a certi tentativi più primitivi che credo di aver qualcosa da offrire" [Popper, 1996, p. 141] .

Popper ironizza sulla pretesa di inconfutabilità di tante teorie moderne.

"Molte persone ritengono, erroneamente, che una teoria inconfutabile debba essere vera. […] Tutte queste teorie sono inconfutabili, e questa circostanza sembra aver fortemente impressionato alcuni filosofi - Wittgenstein, per esempio. Tuttavia, le teorie che asseriscono esattamente l'opposto sono altrettanto inconfutabili - un fatto che dovrebbe insospettirci. Come ho detto spesso, è un errore pensare che l'inconfutabilità sia una virtù per una teoria. L'inconfutabilità non è una virtù, ma un difetto" [1996, p. 144].

"È chiaro che sia il solipsismo sia la teoria di Berkeley - detta "idealismo" -

risolvono il problema corpo-mente, perché asseriscono che non esistono corpi. Anche il materialismo o il fisicalismo o il comportamentismo radicale risolvono il problema corpo-mente. Ma lo fanno utilizzando lo stratagemma opposto. Essi asseriscono che non esistono le menti, che non esistono né stati mentali né stati di coscienza. E sostengono che non vi è intelligenza, ma soltanto corpi che si comportano come se fossero intelligenti - per esempio, pronunciando emissioni verbali più o meno intelligenti […]" [1996, p. 145].

"Posso descrivermi come un dualista cartesiano. Di fatto sto addirittura

facendo più di Cartesio: sono un pluralista, poiché accetto la realtà anche di un terzo mondo […]. Con mondo 3 intendo, più o meno, il mondo dei prodotti delle menti umane" [1996, p. 15].

"Io sono in questo senso un pluralista, e non aprirei mai una controversia

in favore della teoria secondo cui vi sono soltanto tre mondi. Potete suddividerli quanto vi pare, e tali suddivisioni potrebbero rivelarsi importanti per certi problemi" [1996, pp. 158-159].

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Popper si schiera contro il solipsismo, all'interno del suo metodo di

indagine. "Un argomento analogamente non conclusivo contro il solipsismo - ma che a me è sufficiente - sarebbe il seguente. Quando leggo Shakespeare, o ascolto uno dei grandi compositori, o ammiro un'opera di Michelangelo, sono ben consapevole del fatto che queste cose vanno ben al di là di qualunque cosa io possa mai produrre. Secondo la teoria solipsistica, tuttavia, soltanto io esisto - cosicché nel sognare queste cose io ne sono, di fatto, il creatore. Ciò è per me del tutto inaccettabile. Pertanto, ne concludo, devono esistere altre menti, e il solipsismo deve essere falso. Naturalmente questo argomento non è conclusivo. Ma, come ho detto in precedenza, è sufficiente per me. Di fatto, per credere seriamente nel solipsismo dobbiamo essere megalomani. Un argomento non conclusivo di questo genere viene chiamato argomento ad hominem. Non un argomento conclusivo ma, in effetti, un appello da uomo a uomo." [1996, p. 143].

Il significato biologico della mente Secondo Popper, le varie correnti filosofiche e i loro discutibili risultati nel

teorizzare la coscienza suggeriscono che "per comprendere la mente o la coscienza, e la loro relazione con la fisiologia dell'organismo, dovremmo adottare un punto di vista biologico e chiedere: quel è il significato biologico della mente? Che cosa fa la mente per l'organismo?

Tutte queste teorie mi hanno portato a quella che potrei forse chiamare

una nuova teoria della mente e dell'io. Inizierò con l'osservare che il mondo della coscienza è tanto poco omogeneo quanto il mondo 1 o il mondo 3.

Vi è la differenza di genere nota a tutti noi fra stati di coscienza […] La mia prima e fondamentale congettura può, quindi, essere formulata

come segue. Parlare di corpo e di mente è fuorviante, poiché nel regno animale vi sono molti tipi e livelli di coscienza diversi. […] La mia seconda congettura è la seguente. Possiamo distinguere fra una piena coscienza - ossia la forma più alta della coscienza umana - e forme più basse, che possono differire in modo consistente.

Sorge adesso il problema del significato biologico di questi vari livelli di

coscienza. È un problema a cui è difficile rispondere. Qui tutto, più o meno, è speculativo - anche l'esistenza di una forma di coscienza più bassa, o animale. […]

Per rispondere mediante congetture alla domanda sul significato biologico

della coscienza introdurrò due idee: l'idea di gerarchia dei controlli e l'idea di controllo plastico. […]

186

In tutti gli animali che si muovono liberamente, vi è un controllo centrale dei movimenti. Quest'ultimo controllo, apparentemente, è il più alto della gerarchia. La mia congettura è che gli stati mentali sono connessi con questo sistema di controllo centrale più elevato, e che contribuiscono a rendere questo sistema più plastico" [1996, pp. 148 e ss.].

"Chiamiamo i pericoli e gli oggetti pericolosi "biologicamente negativi", e le

opportunità "biologicamente positive". Gli organi di molti animali sono costruiti in modo da distinguere fra queste due classi. Il che vuol dire che essi interpretano o decodificano gli stimoli che incontrano. […] Questo sistema - che ha una base anatomica - è in prima istanza rigido.

La mia congettura è che, attraverso l'evoluzione emergente, si presentano

in primo luogo sentimenti vaghi. per diventare, attraverso ulteriori passi dell'evoluzione emergente, sentimenti di dolore e di piacere. Essi hanno, in generale, un carattere anticipatorio. A loro volta, divengono la base di un sistema di interpretazione o di decodifica dei segnali di livello più alto. E da questi possono svilupparsi interpretazioni anticipatorie e provvisorie di una situazione. Significherebbe il provare in modo provvisorio movimenti possibili o reazioni possibili, senza dover effettuare subito realmente i movimenti. questo dovrebbe implicare un qualche tipo di immaginazione. […] Questo, dunque, è il modo in cui la coscienza interagisce con il corpo" [1996, p. 151].

"Quello che ho tratteggiato fino a questo punto è una sorta di sfondo

evoluzionistico generale della mia nuova teoria congetturale della mente umana o dell'ego umano. Prima però di passare a questa teoria, voglio sottolineare che la relazione fra stati mentali e stati fisici è […] fondamentalmente la stessa di quella fra sistemi di controllo e sistemi controllati - in particolare con il feedback dal sistema controllato al sistema di controllo. Si tratta cioè di un'interazione.

La coscienza contiene molti residui di forme più basse di coscienza è

pertanto qualcosa di estremamente complesso. La famosa idea del flusso di coscienza è tutto sommato troppo semplice" [1996, p. 152].

Popper cita le sperimentazioni eseguite su pazienti ai quali era stato

sezionato il corpo calloso, esse gli servono per confermare la localizzazione del controllo gerarchico superiore della coscienza: in quei pazienti se la parte destra non entrava in gioco non potevano dare nessuna spiegazione delle reazioni della parte sinistra. "Questi movimenti rimangono inconsci poiché non vengono riferiti al centro del linguaggio" [1996, p. 177].

La coscienza è nei centri di linguaggio "Vengo adesso alla formulazione della mia teoria della piena coscienza e

dell'ego o del sé. Ho cinque tesi principali.

187

1) La piena coscienza è ancorata nel mondo 3 - il mondo del linguaggio

umano e delle teorie. 2) Il sé, o l'ego, è impossibile senza la comprensione intuitiva di alcune

teorie del mondo 3, lo spazio, il tempo le persone e il loro corpi. 3) Il problema cartesiano della collocazione della piena coscienza o del sé

pensante è lontano dall'essere privo di senso. La mia congettura è che l'interazione del sé col cervello sia localizzata nei centri del linguaggio" [1996, p. 153].

"Nello sviluppo del bambino, l'ego o sé o autocoscienza si sviluppa con le

funzioni più alte del linguaggio" [1996, p. 174]. "Senza disposizioni innate - disposizioni ad imparare - non potremmo mai

imparare alcunché. Il punto decisivo è la disposizione innata ad imparare un linguaggio: questo ci fornisce la chiave per il terzo mondo" [1996, pp. 27-28].

"Il problema corpo-mente era infatti il problema della relazione tra i mondi

1 e 2" [1996, p. 18]. Intelligenza animale e artificiale Alla domanda che gli viene rivolta, citando la teoria di Lewis Mumford

secondo cui le macchine vengono prima del linguaggio, Popper risponde che "tutto depone a favore del fatto che le macchine vengono molto tardi, soprattutto del fatto che nemmeno la più semplice delle macchine mostra alcun segno di trinceramento genetico. E il linguaggio è geneticamente trincerato […] Così troviamo in primo luogo, probabilmente, il linguaggio. E troviamo un'incredibile evoluzione dell'immaginazione" [1996, p. 167].

"Gli animali possiedono un senso dello spazio altamente sviluppato […] e

un orologio interno. Essi sono, io sostengo, anche coscienti. Ma quel che manca loro - e tutto ciò è una congettura, naturalmente - è la capacità di vedere sé stessi come qualcosa che si estende nel tempo e nello spazio e che agisce nel tempo e nello spazio. […] la loro coscienza è diretta dai loro stati interiori verso eventi significativi al di fuori di loro […]. Al contrario, la piena coscienza di sé contiene, come una delle sue componenti, una conoscenza di noi stessi che va indietro nel tempo, almeno per un breve periodo" [1996, pp. 171-172].

FABRIZIO DESIDERI E LO SVILUPPO DELLA COSCIENZA TRA L'"IO" E

L'"ALTRO"

188

Molto interessante è la ricerca sulla coscienza condotta da Fabrizio Desideri

. Per lui "nessuna ambizione di offrire qualcosa come una teoria o un sistema

della coscienza, Porprio a tale proposito, come si vedrà, termini come teoria e sistema divengono alquanto problematici. Nessuna preoccupazione, d'altra parte, di fornire un'esauriente ricognizione storico-filosofica del problema o una descrizione del quadro attuale della discussione, tanto complicato quanto abbastanza noto nei suoi lineamenti essenziali" [Desideri, 1998, p. 9-10].

"È possibile interrogare la coscienza? Il mio punto di vista in quest’indagine

suona volutamente diverso da una domanda del tipo: "È possibile sapere che cos’è la coscienza?", con tutto quel che segue. Ciò per il motivo che quel che segue si muoverebbe, in questa seconda posizione del problema, obbligatoriamente già in una direzione: Toward a Science of Consciousness, per citare il titolo di un importante meeting di studiosi di ogni disciplina e indirizzo (anche se con una netta prevalenza di neurofisiologi, psicologi cognitivisti e ricercatori nel campo dell’Intelligenza Artificiale) che si è tenuto nel 1994 e nel 1996 a Tucson in Arizona . Rispetto a tale direzione, ci si può arrestare, si può proseguire in un senso o nell’altro (connessionismo, funzionalismo, eliminativismo, interazionismo e persino dualismo)" [Desideri, 1998, p. 11].

Egli, analizzando alcuni autori (Husserl, Wittgenstein, Derrida e altri) mette

l'accento sull'aspetto dell'ascolto, non tanto di tipo morale, quanto di relazione riflessiva tra io, sé e altri sé. "L’ascolto viene qui inteso sia come l'atteggiamento da assumere nella propria ricerca, sia come una proprietà essenziale della cosa stessa: quella proprietà senza la quale la coscienza non solo non sarebbe pensabile, ma non sarebbe nemmeno possibile" [Desideri, 1998, p. 10].

"Quella di interrogarsi non è forse una proprietà essenziale della coscienza?

[...] La possibilità per la coscienza di funzionare consisterebbe proprio nell'ignoranza rispetto a sé, e dunque nel dover sintonizzare il proprio canale introspettivo verso i fenomeni di superficie. È una questione, insomma, di rapporto tra efficienza ed economia" [Desideri, 1998, p. 26].

La coscienza = guardare l'atto del guardare "Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sembra sfiorare la medesima

questione rimasta insoluta nel Carmide platonico [...] e la sfiora, si potrebbe dire, dopo aver attraversato le aporie dell'introspezione. Il volgere l'attenzione alla coscienza non si presenta, insomma, come un guardarsi dentro, ma

189

piuttosto come un tentativo di guardare l'atto stesso del guardare: un tentativo veramente paradossale - contro ogni evidente apparenza - di considerare dall'esterno l'internità della coscienza a se stessa" [Desideri, 1998, p. 29].

"C'è coscienza in quanto c'è relazione a sé: autorelazione. Ma identificare

coscienza e autoreferenzialità sarebbe un passo affrettato [...] Il fatto è che con tale identificazione si tralascia di mettere in questione il senso stesso dell'autoriferirsi, o tutt'al più lo si identifica tacitamente con l'autoricorsività di un processo [...] con una tale domanda l'ente o il sistema mostra di potersi mettere in questione e quindi problematizza il senso stesso dell'autoriferimento" [Desideri, 1998, p. 13].

Desideri ricorda i diversi esiti possibili della teorizzazione della coscienza:

dal funzionalismo di Putnam ("il software del cervello può funzionare anche altrove"), che poi però ha smantellato la sua posizione, al connessionismo della Churchland ("la coscienza può essere riprodotta con calcoli in parallelo, rete di connessioni!) [Desideri, 1998, p. 13 in n.].

Poi c'è la proposta di soluzione agnostica del problema della coscienza di

Colin McGinn ("la mente non è trasparente a se stessa"). Desideri li definisce "neomisteriani" [1998, p. 20].

L'approccio wittgensteiniano porta invece a dissoluzione della coscienza,

disvelamento del carattere di illusione filosofica del problema tramite un terapeutico ricorso a un'analisi del nostro comportamento - non solo linguistico - in sitazioni ordinarie [cfr Desideri, 1998, p. 27].

Coscienza come factum e medium Il problema della coscienza come lo si intende oggi è un problema di

accesso epistemologico ai contenuti psichici oppure come il problema di un legame tra psichico e fisico [Desideri, 1998, p. 18]. "Il problema dell'interrogarsi sembra non potersi declinare altrimenti che nei termini di Agostino "quaestio mihi factus sum". Ma come sviluppare tale questione, come discorrerne se, ancor più radicalmente della prima persona singolare, del suo punto di vista privilegiato, coscienza qui significa innanzitutto il medium al cui interno ci troviamo già a pensare e a parlare? Il termine del discorso - ciò su cui esso verte - è nel contempo anche il territorio nel quale ci muoviamo. O, se si vuole, il factum nel quale non possiamo che disporci" [Desideri, 1998, p. 14].

"Nessun discorso sul metodo può in questo caso presentarsi come esterno

alla vera e propria indagine aperta dall'interrogativo iniziale ("è possibile interrogare la coscienza").

190

La questione della coscienza appare, così, come del tutto interna alla sua fattualità, come implicata in quello che abbiamo detto il suo carattere "mediale" [...]. E a tale fattualità, in certo modo, non potrà aggiungere nulla. Potrà tutt'al più chiarire quanto avviene e come può avvenire" [Desideri, 1998, p. 16].

Il lavoro della filosofia "non potrà mai significare l'aggiunta di una

dimensione ulteriore a questo fatto: una sorta di super-coscienza della coscienza comune. O l'indagine viene a chiarire quanto già si sapeva all'inizio, oppure deve riconoscere che si era sbagliata circa il suo oggetto. […] Quel che deve essere afferrato è l'atto stesso del guardarsi" [Desideri, 1998, pp. 16-17].

Altro tema che appassiona Desideri è "il rapporto tra la societas della

mente e l'unità della coscienza" [Desideri, 1998, p. 39-40]. IX Due tentativi discutibili di teorizzazioni psicologiche della coscienza e altri assai pregevoli di matrice cristiana In questo capitolo cito due ricerche che si presentano particolarmente

promettenti e ambiziose, eppure si rivelano ad una più attenta analisi assai incomplete, ossia dunque dei modelli in negativo molto istruttivi. Ma nella parte finale aggiungo anche una panoramica su altre ricerche molto interessanti e ormai classiche di matrice cristiana.

LA "PSICOLOGIA CRISTIANA" DI GIOVANNI PETROCCHI L'intento di G. Petrocchi, come egli stesso scrive nel titolo della prima parte

del suo libro , è di "fondare una psicologia scientifica cristiana". Esordisce scrivendo che "La Psicologia Scientifica Cristiana è la teoria

psicologica fondata da uno, della moltitudine di uomini che costituiscono il popolo di Dio, un cristiano, il quale, sia per l'iter di studi compiuti che per la professione che quotidianamente svolge , ha la peculiarità di occuparsi attivamente, da circa quindici anni, di psichiatria e psicologia.

Essa nasce, nell'intenzione del suo fondatore, dall'esigenza di colmare un

vuoto che, come psicoterapeuta e cristiano, egli stesso - non diversamente da

191

numerosi altri credenti - ha avvertito nel corso degli ultimi anni con particolare intensità.

Non è difatti disponibile nell'ambito della cultura contemporanea, per

quanti non si riconoscono nei modelli ideologici attuali e, in particolare per coloro che simpatizzano per gli ideali sanciti da Cristo nel Vangelo, un movimento psicologico di chiara ispirazione cristiana, a cui poter fare riferimento per tutte le questioni di natura psicologica e psicopatologica alle quali fossero a vario titolo interessati.

Effettivamente nel corso degli ultimi anni è sembrato sempre più

consistente il numero dei cristiani che avvertono l'esigenza di un movimento psicologico più vicino alla proprio sensibilità etica e spirituale; una scuola psicologica che consenta, cioè, al credente di conoscersi ed occuparsi attivamente del miglioramento della propria personalità senza dovere, per questo, vedere messa in discussione la propria fede" (p. 21).

Tale proposito ha una grande dignità ed è molto interessante. Tiene però

poco in considerazione il fatto che ormai da alcuni decenni si è stemperato ed è in pratica scomparso il vecchio e duro scontro tra psicanalisi e pensiero cristiano. Per fare solo un esempio, ormai non si contano più le esperienze terapeutiche che coniugano ricerca della fede e terapia.

Petrocchi denuncia i tempi difficili (stress, consumismo, materialismo, la

scristianizzazione) e la mancanza di un movimento psicologico di ispirazione cristiana che aiuti per esempio nell'educazione, fornendo un alternativa agli imperanti sistemi di valori sostenuti da psicanalisi e comportamentismo.

L'obiettivo ideale è di "ispirarsi fin dalle fondamenta alle verità affermate -

sulla personalità umana - dalla Religione Cristiana, in consonanza ai dati offerti dalla Rivelazione" (pp. 24-25) ma rimanendo un movimento scientifico autonomo.

Critica dei presupposti Un altro aspetto interessante è la premessa metodologica, la dichiarazione

del "credo" su cui si basa la teoria del Petrocchi. In questo egli si appoggia a riflessioni imperiture di F. Nietzsche: "Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti"" e "La disciplina dello spirito scientifico non comincerebbe forse qui, nel non concedersi più convinzione alcuna? … Probabilmente è così: resta soltanto da domandare se, affinché questa disciplina possa avere inizio, non debba esistere già una condizione, e invero così imperiosa e incondizionata da sacrificare a se stessa tutte le altre" .

192

"Non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza "priva di presupposti", il pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia, una "fede" deve sempre preesistere, affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all'esistenza. […] La scienza è ben lontana dal riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto innanzitutto bisogno di un ideale di valore, di una potenza creatrice di valori, al servizio della quale possa credere in se medesima - essa stessa non è creatrice di valori" ed "è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza" .

Petrocchi cita anche N. Hartmann secondo il quale "ogni teoria che vuole

essere più che semplice descrizione diventa necessariamente metafisica fin dai primi passi".

Petrocchi cita per alcune scuole filosofiche il credo di fondo. Si potrebbe aggiungere l'esempio di una scuola che si è affermata con

grande forza, l'Analisi transazionale , che poggia tutta su pochi postulati come "tutti gli uomini sono uguali", "Nessuno può farmi soffrire se non gliene do il potere", "Esiste un copione che definiamo all'età di 4 anni a cui obbediamo per tutta la vita". Il credo dunque indica i valori di fondo della scuola di pensiero e fornisce una visione del mondo speciale.

Il "credo" su cui la Psicologia Scientifica Cristiana fonda la propria dottrina

psicologica "si identifica nella piena fiducia nella veridicità dell'insegnamento annunziato sulla psiche dell'uomo da Cristo" e "la componente soggettiva che ne deriva, consiste nel fermo convincimento del fondamento morale della psichicità umana, cioè nell'affermazione che i processi posti alla base della salute tanto quanto della malattia mentale, sono sostanzialmente di natura etica (pp. 34-35).

Fino a qui, dunque, nelle premesse, tutto il discorso sembra interessante. È

stata posta una sfida attuale e coraggiosa, è stato preso in considerazione un grande sistema di valori.

Ma cosa ne consegue? Il fatto cristiano come ideologia È qui che il Petrocchi comincia a disperdersi, a rallentare l'analisi e al

contempo a sciogliere la briglia della teorizzazione non-scientifica. A pagina 35 paragona la religione cristiana a una ideologia, perdendo così

la dimensione più profonda del fatto cristiano che si basa su un evento, una persona, che si vuol credere ancora Viva. Quindi l'affermazione che la psicologia cristiana non differisce dalle altre psicologie è un tradimento della

193

sostanza dell'esperienza cristiana e viene persa in un colpo la sfida di mettere in contatto il paradosso salvifico della Risurrezione con gli strumenti analitici e terapeutici.

Nel primo capitolo della parte seconda Petrocchi comincia a fare uso - un

uso che diverrà sempre più ampio e indiscriminato - della Bibbia: "In nessun libro la psiche dell'uomo è scandagliata, sezionata, analizzata, attentamente descritta e soppesata in ogni suo più remoto aspetto come nella Bibbia" (p. 47).

Di essa tiene conto che "non usa un linguaggio sistematizzato", ma può

comunque essere utilizzato come materiale simile a quello che le scienze psicologiche studiano fin dai loro esordi.

Petrocchi ammette però che "la Bibbia non fornisce una definizione chiara e

sistematica dei costituenti la natura umana" (p. 50). E nonostante questo, da qui in poi, tutto il libro (oltre 300 pagine) è basato

su dati biblici da cui l'autore parte per costruire schemi, spiegazioni della mente, della coscienza, dei meccanismi della psiche. Ma non si tratta neppure di una "psicologizzazione del pensiero biblico", ciò che avrebbe una sua dignità, dal momento che non esistono analisi accurate dei libri sacri né citazioni di studi in proposito. Quindi tutto si riduce a una psicologizzazione del pensiero tradizionale cattolico… Nel complesso si ha l'idea di una teoria poco scientifica, molto schematica, spiritualista, tradizionale e poco significativamente psicologica.

Per esempio dal richiamo che Gesù fa della Legge ("Amerai il Signore Dio

tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" Mt 22,37) Petrocchi deduce una "tripartizione funzionale dell'anima in "cuore-mente-spirito"" (p. 57) da cui deduce costellazioni di dimensioni interiori e che infine usa come impostazione fondamentale per descrivere la struttura della psiche.

Una lettura moralistica e fondamentalista (ma senza bibliografia) La declinazione disinvolta di tali termini, senza validi sostegni storici,

teologici, psicologici diventa incontrollata. È allora che si incomincia a incontrare frasi come "legata a una concezione

fondamentalmente materiale e individualistica della realtà, la coscienza - "idea di sé" - se staccata dall'azione illuminante dello spirito è, tra l'altro, spontaneo motivo di rinforzo dell'egoismo dell'inconscio…", dove emergono il sostrato

194

moralistico (peraltro dichiarato nel suo "credo" di fondo) e il ripescaggio disinvolto di così tanti concetti antichi e tradizionali.

Sembra quasi che il dolore del mondo dipenda dal desiderio della "mente",

proprio della mente, di vedere soffrire gli altri uomini (p. 73). A p. 208 Petrocchi fornisce uno schema riassuntivo che sancisce

definitivamente l'astruseria della sua teorizzazione. Esso dovrebbe descrivere la "Psichizzazione del corpo + Somatizzazione dell'anima = unità pneumo-psico.somatica", tirando in ballo l'Animo (cuore), l'Io (coscienza = idea di essere sé), il Sé (spirito = sovraconscio = idea del bene e del male) e l'Inconscio (idea di poter essere) in varie sfere che si compenetrano.

Altro elemento debole è la bibliografia, ridotta a 28 titoli, di cui quasi metà

testi patristici, scritturistici o medievali, poi tanti di teologia, letteratura e filosofia e appena qualche grosso nome della storia della psicologia; nessuno studio clinico, ricerche aggiornate, confronti con altri movimenti o scuole di pensiero psicologico.

Dunque, questo lavoro di Petrocchi si rifà solo alla Bibbia cadendo in una

logica "fondamentalista" che inquina il metodo di indagine psicologico. Come si può sostenere che la Bibbia è un'opera di psicologia, quando la

psicologia è nata come scienza (e ancora qualcuno ne discute lo statuto di "scienza") da neanche due secoli? Come si può sostenere, in un lavoro che ha pretese scientifiche e addirittura diagnostiche e terapeutiche che Gesù era uno psicoterapeuta? Dio forse è uno psicologo?

Io mi sentirei di affermare al massimo che Dio non è uno psicologo, ma in

tutte le guarigioni, anche quelle psicanalitiche c'è Dio. Perché Dio è ovunque, vuole la salvezza, guarisce il sofferente. Ma questo è linguaggio biblico, è riflessione teologica, è esperienza di fede. Non può aver valore il passaggio disinvolto tra ambiti così diversi come la psicologia e la teologia.

Il libro è infarcito di moralismo (si veda la parte quarta, capitolo I, d:

"Desiderio e volontà, senso di colpa ed autocritica: una delicata questione diagnostica") e non offre uno strumento terapeutico valido e stimolante.

LA "PSICOLOGIA COSCIENZIALE" DI E. MAIMONE - F . FICONERI Per il lavoro di E. Maimone e F. Ficoneri si possono porre obiezioni simili a

quelle già elencate per il lavoro del Petrocchi. Gli autori - di cui si sa solo che hanno scritto anche il libro La donna fra

cultura e conoscenza - hanno l'ambizione, con gli "otto anni di ricerca

195

personale, tanto silenziosa quanto feconda" di aver realizzato la "nascita di un nuovo sistema psicologico".

Quella di Maimone e Ficoneri è una teoria complessa, a tratti innovativa, un

tentativo di fondare una psicologia coscienziale, che tiene conto di tanti risultati dell'indagine psicologica e delle neuroscienze, una psicologia "fondata sulla realtà informatica naturale".

Il libro nel complesso interessante e coraggioso, è critico verso il mondo

della ricerca, tanto spesso arroccato e poco disponibile al confronto, a battere strade nuove, ad appoggiare ricerche pionieristiche.

Ha però dei vizi di fondo e dei limiti che ne riducono considerevolmente il

valore, fino a mostrarlo come un lavoro a tratti da principianti, per quanto riguarda il peso innovativo teorico.

Per esempio la bibliografia è addirittura completamente assente. Sono però

presenti nel testo (252 pagine) o nelle note a piè di pagina citazioni di ricerche cliniche, rimandi a strumenti diagnostici e di indagine (sul cervello, per esempio), saggi di padri fondatori della psicologia e altri pensatori. Ai fini di questa dissertazione l'argomento e la teoria del libro sarebbero utilissimi, ma non se ne può ricavare molto.

Per gli autori "la coscienza dell'uomo è il collegamento dei collegamenti, un

anello di convergenza delle proiezioni istintuali di base (conservazione, sessualità, conoscenza), una sintesi cioè tra cognitiva [sic, n.d.r.] ed affettività. Perché in ultima analisi anche la coscienza è una struttura neurobiologica, dobbiamo individuare e descrivere un processo di maturazione coscienziale a cui possiamo utilmente riferire ogni programma comportamentale" (p. 149).

Nel "Protocollo esplicativo" gli autori citano con insistenza gli aspetti

genetici e neurologici della mente ("la mente genetica di un sistema vivente"), si definiscono appartenenti alla corrente del "dualismo interazionistico, interno all'uomo, di carattere dinamico evolutivo, tra mente genetica e area neuronale" (p. 16).

Molti cognitivisti dicono che "la personalità dell'uomo è "essenzialmente

appresa" e molti sociologi ed educatori che "si possono formare le coscienze". Ed è in effetti una tendenza preoccupante, la falsa problematica del cosa dare e cosa vietare ai cittadini di tutti gli stati. […] dunque noi contestiamo il contenuto di tali concetti, ribadendo che l'Io non è un pronome, ma un'area specializzata del cervello, a cui fanno capo tutte le canalizzazioni organiche, dirette e indirette, nonché genetiche dell'uomo" (p. 23).

"La vita non è comparsa per caso […]. Nell'universo, da noi ritenuto un

grande sistema aperto, scenario di libere aggregazioni, prendono origine i sistemi viventi, i sistemi chiusi, in cui le relazioni sono vincolate. […] La nostra

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filosofia della natura ci fa vedere la materia come informazione. […] La realtà naturale resta per noi una realtà informatica" (pp. 27-28).

Ciò che sorprende è l'uso di questi concetti, ormai classici (da Galileo a S.

Hawkins) come fossero inventati per la prima volta dai due emeriti studiosi. La "Teoria del sistema chiuso" è l'argomento della prima parte del libro, tra

programmazione evolutiva, mente genetica e pensiero istintivo. Cervello maschile e cervello femminile La seconda parte analizza la struttura psicologica dell'uomo, arrivando ad

un'affermazione sorprendente: il cervello delle donne è diverso dal cervello degli uomini ("Il diverso funzionamento del cervello nei due sessi", capitolo IV, parte seconda).

Concetto che gli autori ribadiscono nella terza e ultima parte del libro ("La

Psicologia coscienziale"), dove approfondiscono l'aspetto della formazione della coscienza e del pensiero, della crescita: il processo coscienziale, ovvero un nuovo concetto di età evolutiva globale.

Sulle differenze tra maschio e femmina insistono a partire dalle strutture

cromosomiche (p. 167 ss.) per arrivare a una distinzione del "processo di pensiero femminile" dal "processo di pensiero maschile"

È in questa sezione che si lasciano andare ad affermazioni come "Il

pensiero della donna è snello, non appesantito da preoccupazioni formali o morali…" (p. 195), "Non di rado la femmina diviene grottesca, quando la si scopre intenta a conciliare degli opposti valori…" (p. 196), "Mentre la giovinetta risponde sempre in qualche modo ai richiami, l'adolescente maschio spesso non risponde agli stessi, poiché nemmeno li sente…" (p. 199).

Ed è proprio questa parte, così delicata e che dovrebbe essere innovativa,

che ha la minor giustificazione clinica, scientifica o blibliografica. Gli autori distinguono varie tipologie di personalità ("prototipi umani") e

arrivano a una dichiarazione definitiva (nel capitolo VII, "Le età coscienziali", p. 210 ss.), riassunta in uno schema - sorprendente e inquietante - sulle fasi di crescita coscienziale (p.212):

FASI DI CRESCITA COSCIENZIALE Donna Uomo 3-8 Età magica della fabula sì sì

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8-10 Età dell'imitazione sì sì 10-12 Età della recitazione sì sì 12-16 Età delle opinioni sì sì 16-25 Età degli ideali sì sì 25-35 Età del senso critico sì sì 35-45 Età dell'analisi sì sì 45-55 Età dell'autonalisi no sì In base a cosa gli autori hanno suddiviso le età? E come possono

giustificare questa discriminazione tra i sessi? Ci sarebbe da sperare in un errore tipografico, ma agli autori sanno quello che scrivono: "L'uomo è potenzialmente in grado di raggiungere la maturità: quella di conservazione, quella sessuale e quella conoscitiva. Sembra inutile a questo punto ripeterne i motivi: essi sono stati già ampiamente illustrati nei capitoli sul processo di pensiero e coscienziale, maschile e femminile.

Per i medesimi motivi, la donna risulta potenzialmente in grado di

raggiunere la sola maturità sessuale; ciò la ancora irrimediabilmente (o fortunatamente) al partner o al figlio, per l'inserimento coscienziale nella realtà" (p. 232).

A titolo di informazione, un'altra ricerca, basata su una teoria del cervello,

sembra essere arrivata alla conclusione opposta: la superiorità della donna . Ciò a dimostrazione di quanta poca univocità, distinzione e chiarezza

sperimentale ci sia in questa materia… UNA PLAUSIBILE CORRELAZIONE TRA PSICANALISI E VERITÀ DI FEDE.

ALCUNI ESEMPI Françoise Dolto e "La psicanalisi del vangelo" Queste mie critiche al lavoro di Giovanni Petrocchi, che potrebbero

sembrare eccessive, trovano una conferma in un lavoro di tutt'altro genere che

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mostra come, al contrario, sia legittima la sfida di mettere il Vangelo sotto verifica da parte della psicanalisi e come se ne possa trarre spunti di grandissimo rilievo teologico, psicanalitico, antropologico e culturale.

È l'opera della psicanalista francese Françoise Dolto, che si presenta in

modo affascinante nel libro che in origine si intitolava appunto: L'évangile au risque de la psychanalyse .

In esso la Dolto, in dialogo con Gérardin Sévérin, utilizza le parabole dai

vangeli di Luca Marco e Giovanni scoprendo interessantissime notazioni psicanalitiche che evidenziano la capacità terapeutica di Gesù di Nazareth e i movimenti interiori e i significati delle relazioni che egli viveva con le persone, la folla, il Padre.

Toccanti in particolare gli episodi delle risurrezioni che, attraverso la lettura

psicanalitica acquistano significati nuovi, difficilmente udibili nelle tradizionali sedi di interpretazione della Parola, della figura di Maria, madre di Gesù, e la sua famiglia e della dimensione dell'amore altruistico (dal buon Samaritano).

Temi che la Dolto analizza acutamente: il desiderio profondo, la

maturazione della persona e il distacco dai genitori, malattia e guarigione, la società e l'individuo.

Giacomo Daquino Il libro dello psichiatra e neuropatologo Giacomo Daquino, Religiosità e

psicanalisi , è un buon manuale di psicologia e psicopatologia religiosa, basato sulla conoscenza della storia delle interpretazioni psicologiche e psicoanalitiche del fenomeno religioso. Oltre ad analizzare la genesi ed evoluzione della religiosità e la psicopatologia religiosa con la relativa psicoterapia, esplora il tema della maturità e immaturità morale (pp. 233 ss.) con ben altro metodo e senso critico rispetto a quello utilizzato da Petrocchi, Ficoneri e Maimone.

Senza tralasciare il dibattuto argomento del rapporto tra psicoanalisi e cura

spirituale (pp. 269 ss.) , psicanalisi e confessione (pp. 287 ss.). A proposito della genesi e strutturazione della religiosità Daquino illustra le

varie posizioni (innatista, derivazionista, bisogno di dipendenza, ecc.) a cui non può allearsi perché tutte "interpretazioni non sostenute da un convincente materiale scientifico che ne dimostri la validità" e dichiara la sua posizione: "Anche se la ricerca delle cause psicologiche della religiosità infantile può solo fornire ipotesi interpretative senza pretendere di poter spiegare perentoriamente la genesi del fenomeno, preferiamo pensare che la religiosità infantile derivi da una "disponibilità religiosa istintiva aspecifica" d'origine inconscia e quindi intrinseca allo psichismo umano. Infatti nei primi tre-quattro anni di vita, il bambino manifesta un atteggiamento religioso che ha

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dell'istintivo e non può essere soltanto dovuto a dei meccanismi di identificazione e di proiezione e nemmeno connesso all'apprendimento e all'imitazione" [Daquino, 1980, pp. 59-60]. Nei primi due anni di vita il bambino non manifesta ancora un sentimento o un pensiero religioso. Solo verso i tre anni presenta un crescente sviluppo della funzione simbolica che gli permette di avvicinarsi alla religiosità.

Victor Frankl Invece Dio nell'inconscio , il libro di Victor Frankl, il fondatore della terza

corrente viennese della psicoterapia, la "logoterapia" (che "per definizione è una psicoterapia che parte dallo spirituale") vuol mostrare che l'uomo non è soltanto dominato da un'istintività incosciente, come sostiene Freud, ma è caratterizzato anche da un inconscio spirituale. Perciò analizza i casi modello della coscienza morale e dell'interpretazione dei sogni per trovare la realtà di una religiosità e di un legame con Dio, inconscio dell'uomo, che egli rende con la formula del "Dio inconscio", da non fraintendere, come esplicitamente avverte, in senso panteistico.

Per introdurre il tema della trascendenza della coscienza, Frankl cita

un'espressione di Maria von Ebner-Eschenbach: "Sii padrone della tua volontà e schiavo della tua coscienza". "La coscienza, quale fatto psicologico immanente, richiama da se stessa la trascendenza: essa viene compresa solo partendo dalla trascendenza, solo in quanto è essa stessa in certo qual modo un fenomeno trascendente" (p. 61). "La coscienza diventa comprensibile solo partendo da una regione che sta al di là del piano umano: ultimamente, la si comprende solo se l'uomo è visto nella sua creaturalità, nel suo "essere-creato"" (p. 62). La coscienza dunque non è l'ultima (come pensa l'uomo irreligioso che la prende solo nella sua fatticità psicologica) ma la penultima istanza (p. 64).

A proposito della coscienza come organo di significato Frankl scrive che "Il

significato non solo deve, ma può essere trovato. La coscienza viene in aiuto per una tale ricerca. In una parola, la coscienza è un organo di significato. La coscienza si può definire come la capacità intuitiva di scoprire il significato univoco e singolare nascosto in ogni situazione. […] La coscienza può talvolta sviare l'uomo. Non solo: fino all'ultimo momento della sua vita, fino all'istante di esalare l'ultimo respiro, l'uomo non può mai sapere se effettivamente ha realizzato il significato della sua vita, oppure se non si è piuttosto ingannato: ignoramus et ignorabimus. Ciò non vuol dire che non esista la verità. Può esserci infatti solo una verità. Nessuno però può sapere se sia lui, oppure un altro, a possederla" (pp. 105-106)

"Mi sono permesso di introdurre una definizione operazionale di Dio ["Dio

nell'inconscio", n.d.r.] talmente neutrale da comprendere anche l'agnosticismo e l'ateismo. Ciò facendo sono rimasto psichiatra, e confrontandomi con la

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religione, l'ho considerata come un fenomeno umano, anzi espressione del più umano dei fenomeni umani, ossia la volontà di significato. La religione infatti può essere definita come realizzazione di una "volontà di significato ultimo"" (pp. 143-144). In altra pagina infatti Frankl dichiarava uno dei suoi assunti: che non esiste alcun ateo puro.

parte terza Per una teoria spirituale della coscienza X La genesi della coscienza umana Il dibattito sull'origine della coscienza nel bambino, sul significato profondo

e "coscienziale" del primo sviluppo neuronale è complesso e ricco di posizioni opposte.

In questo capitolo cerco di darne conto, mettendo a confronto le opposte

argomentazioni sull'"innatismo" della coscienza. Sulle potenzialità della mente infantile è appena uscito il libro di Gopnik,

Meltzoff, Kuhl, Tuo figlio è un genio Le straordinarie scoperte della mente infatile (soprattutto il capitolo 6 "Quel che gli scienziati hanno imparato sul cervello dei bambini", pp. 215 ss.) che è molto aggiornato e completo, eppure semplice e molto chiaro a proposito dello sviluppo del cervello e della mente nei bambini, con anche ottimi consigli su come educare e sviluppare le giovani menti.

Un'ampia indagine sulla genesi della coscienza umana nell'infanzia è stata

svolta da C. Trevarthen . Tale ricerca risulterà molto utile al mio tentativo personale di analisi della coscienza che proporrò negli ultimi capitoli di questa dissertazione.

Nei primi messi di vita le cellule cerebrali continuano a dividersi e

moltiplicarsi e i loro prolungamenti fibrosi stabiliscono i collegamenti: e qui succede qualcosa di singolare, che non si nota nelle altri parti del corpo umano: le cellule si sviluppano secondo le condizioni dell'ambiente esterno. È

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questo l'unico periodo nel quale influssi esterni come per esempio la percezione che arriva attraverso gli occhi, il naso, il gusto, l'udito e il tatto intervengono direttamente nella costruzione del cervello, provocando modificazioni anatomiche e stabilendo collegamenti durevoli fra le cellule che via via si sviluppano .

Secondo Sperry, la coscienza umana è il principio gerarchicamente più

elevato di organizzazione della mente, identificabile con l'intero ordinamento spazio-temporale dei cervello; essa è in grado di controllare i sistemi neurali che compongono la mente, compresi quelli preposti alla raccolta delle esperienze e all’orientamento finalistico delle azioni in rapporto al mondo. Tale teoria ha un riscontro pratico nell'osservazione di come funziona la mente di un bambino. Se, infatti, compito della coscienza è controllare in modo unitario e coerente tutti i processi cerebrali di livello inferiore, fisiologicamente automatici, nonché attribuire un valore e un senso alla realtà esperita dai sensi, allora l'organizzazione della coscienza - almeno nelle sue grandi linee - deve necessariamente precedere l'apprendimento acquisto attraverso l'esperienza, proprio come l'organizzazione degli organi embrionali precede l'emergere della loro funzionalità.

La coscienza esiste fin dalla nascita? "È mia convinzione che il sistema fondamentale della mente non possa

formarsi dall'apprendimento, a partire da un sistema sprovvisto all'origine di tale livello organizzativo, ma che piuttosto la coscienza sia presente e operante sin dalla nascita, quale principio di attività mentale e di motivazione all'apprendimento e allo sviluppo mentale stesso. A mio giudizio, inoltre, la coscienza del bambino attribuisce un valore del tutto particolare alla comunicazione umana, è cioè strutturata per interagire con la coscienza di altri essere umani. In questo sembra consistere quella particolare strategia secondo la quale le funzioni mentali umane crescono nel cervello attraverso l'apprendimento per imitazione, il gioco collettivo e lo svolgimento di compiti culturali, sotto la guida degli insegnanti" [Trevarthen, 1991, p. 120].

Nel corso degli ultimi vent'anni, mentre andava affermandosi la cosiddetta

rivoluzione della coscienza la psicologia evolutiva - che indaga ciò di cui è cosciente il bambino, e la finalità che egli attribuisce all'esperienza - ha ottenuto notevoli scoperte e ampliato enormemente il proprio campo di ricerca. Nuove intuizioni in materia di sviluppo comportamentale hanno condotto gli psicologi a rivedere molte delle assunzioni riduzionistiche circa la natura dei fenomeni mentali, del linguaggio e dei pensiero razionale.

Fin dagli inizi i pionieri di questa disciplina (Baldwin, Geseli, Wallon, Piaget)

e alcuni esponenti della tendenza psicoanalitica (Melanie, Fairbairn, Winnicott)

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aprirono la strada a questi sviluppi fornendo i primi dati su vari aspetti del comportamento infantile che ponevano in luce una notevole e precoce complessità mentale. Nessuno di loro, tuttavia, era pronto ad accettare che la coscienza umana avesse origine nella fase prenatale.

La tendenza dominante in psicologia fra gli anni '30 e gli anni '50

considerava il neonato com un insieme di riflessi ciechi, ciscuno dei quali provocava - come il petardo esplode all'accensione della miccia - un movimento indotto da un preciso evento fisico, designato come lo stimolo a una determinata risposta. La ricerca ha dimostrato. invece, che anche appena nato e con un'esperienza limitatissima del mondo esterno al corpo della madre il bambino possiede già una consapevolezza unitaria che lo motiva a ricercare attivamente esperienze conplesse di oggetti reali, a darne una prima interpretazione e ad apprendere.

La coscienza del neonato è essenzialmente tesa all'esplorazione degli altri

esseri umani, e della madre in particolare, e le reazioni a quest'ultima costituiscono terreno fertile di ricerca per lo studioso dei processi mentali nel bambino.

Molto probatori, in questo senso, si sono rivelati i test d'imitazione, molto

semplici ma raramente usati in passato perché ritenuti poco credibili. Verso gli inizi degli anni '80, alcuni ricercatori scoprivano che neonati di poche ore riuscivano a imparare per imitazione come mostrare la lingua, muovere le mani o produrre semplici vocalizzi. In nessun caso poteva trattarsi di un riflesso semplice o di un "modello fisso di azione": affinché il bambino colleghi l'esperienza visiva di qualcuno che mostra la lingua con il movimento della propria, deve associare la motivazione o la sensazione della protrusione linguale con l'immagine di un'altra persona intenta nello stesso gesto. Poiché il bambino non è in grado di vedere la propria lingua, bisogna presupporre che egli compia un'associazione mentale fra la sensazione del movimento della lingua e la vista dei medesimo movimento nel partner.

Il feto, il neonato e le prime relazioni Il neonato imita solo le espressioni potenzialmente utili alla comunicazione,

comprese alcune mimiche facciali atte a esprimere emozioni come la sorpresa, la tristezza o la felicità. Ricorre alle espressioni solo quando queste costituiscono una sorta di messaggio nella comunicazione. L'imitazione inoltre è biunivoca, giacché anche la madre imita il bambino, e nel farlo gli insegna a parlare, intuendo lo sforzo che egli sta sostenendo per dirle qualcosa.

Prima ancora di nascere, il feto riconosce il suono della voce materna ; ciò

fa sì che il neonato preferisca questa voce a quella di ogni altra donna (De Casper e Fifer). Quanto alla voce paterna, è sicuramente distinta dalle altre e tuttavia non ancora oggetto di preferenza. Se per la madre è importante

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sentirsi riconosciuta e ricercata con ogni mezzo, sembra che al bambino importi soprattutto riconoscerla immediatamente dall'odore e dal suono della voce. Ben presto, anche l'immagine del volto materno diviene fonte di piacere.

Le reazioni del bambino alla presenza delle persone e della madre in

particolare, sono molto complesse, e tuttavia la sua consapevolezza non si limita ai soli individui, ma si estende al mondo fisico visivo che egli comincia a esplorare con movimenti coordinati della testa, degli occhi e delle mani, anche se la muscolatura, molto immatura, non gli consente di mantenere la posizione eretta e la testa e le braccia sono ancora malsicure. Con movimenti mirati e coordinati egli riesce, inoltre, a raggiungere e afferrare un oggetto.

I processi interni al suo giovanissimo cervello, solo parzialmente

sviluppato, raggiungono un notevole livello organizzativo, tanto da consentirgli di assegnare un fine alle proprie azioni e da guidare i suoi movimenti in un campo percettivo unitario.

Le componenti principali del meccanismo uditivo sono in grado di informare

la coscienza del feto già un paio di mesi prima della nascita; quanto al sistema visivo, esso comincia la sua esplosiva differenziazione solo nel periodo postnatale.

Nel giro di poche settimane, a misura che la vista si acutizza, emerge

un'abilità fondamentale, una capacità tipicamente umana di condividere la coscienza, da cui dipendono tutte le altre qualità sociali e culturali (Braten, 1988). Si tratta della capacità di condividere con un'altra persona - preferibilmente conosciuta, per lo più la madre - un gioco che imita la conversazione, uno scambio di espressioni definito "protoconversazione", o conversaione primordiale (Bateson, 1979).

Le vocalizzazioní, ovvero quell'insieme di movimenti "prelinguistici" della

mascella, delle labbra e della lingua, sono in sincronia con movimenti gestuali delle mani e delle dita, che quasi sempre il bambino effettua con la destra leggermente più alzata della sinistra (Trevarthen 1986).

Tale comportamento giustifica, in un contesto di scambio interpersonale e

condivisione dei sentimenti, l'uso del termine "protoconversazione". Sembrerebbe, infatti, che il bambino voglia comunicare alla madre un messaggio, o una frase, su qualcosa che egli conosce e intende esprimere. La madre, dal canto suo risponde a tali scoppi espressivi come se il bambino dices se effettivamente qualcosa, interloquendo a sua volta con frasi tipo: "Oh, interessante!", "Ma che bella storiella!", "Dai, dammene ancora un'altra!", "Ma davvero?!". Va ammesso, comunque, che non esiste prova alcuna che il bambino esprima, nel suo "parlare", delle idee sulla realtà che lo circonda, anche se indubbiamente agisce come se avesse qualcosa da dire.

Rivolgendosi al bambino, la madre atteggia il volto a espressioni felici,

gioiose e amorevoli, parla con voce carezzevole e pacata, spesso sussurra, usa

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un tono più alto del normale e si esprime con frasi brevi e cantilenanti. Sono queste le caratteristiche del linguaggio infantile universale, oggi definito intuitive motherese ("madrese" intuitivo), che risulta essere lo stesso da cultura a cultura, da lingua a lingua. In esso vengono infatti stravolti i caratteri prosodici, tonali e sillabici propri della lingua materna, cosicché tutte le madri finiscono col parlare con la stessa cadenza e la medesima intonazione (Fernald, 1985).

Nel toccare e carezzare il bambino, le mani della madre si muovono

delicatamente, secondo un ritmo ripetitivo e periodico la cui frequenza comunica l'intensa carica di affetto che il neonato le ispira; i movimenti del volto e del capo, i vocalizzi e i movimenti delle mani sono coordinati o sincronizzati. Essi sono chiaramente regolati da un meccanismo che permette alla madre di comunicare al bambino gli stati motivazionali dinamici del suo Io già formato; essa lo aiuta così a modulare questo scambio, anima e sostiene la sua espressività.

Tuttavia, è il contributo attivo del bambino che determina la scansione e la

durata delle protoconversazioni, che generalmente hanno il ritmo di un adagio. Il bambino, da parte sua, tende ad avere cicli espressivi della durata di 3-5 secondi e non riesce a sostenere conversazioni vivaci per più di un minuto o due (Trevarthen e Marwick, 1986).

La descrizione dettagliata di tutte le espressioni di questa sorta di ballo

figurato che è la protoconversazione non lascia dubbi: il gioco è fonte di grande piacere per la madre come per il bambino (Wolff, 1963), che si trasmettono sentimenti usando un codice comune. Se al contrario il contatto si rompe, oppure la madre è nervosa o depressa, il bambino partecipa delle emozioni negative che minacciano il rapporto, mostrando paura e tristezza o, se frustrato, addirittura rabbia. Le valenze emotive universali, cui tutti e ovunque ricorriamo per esternare sensazioni di attrazione o repulsione, per indicare la gioia di un incontro, la rabbia dell'opposizione o la tristezza di una perdita, sono immediatamente recepite dal bambino e, come aveva già mostrato Darwin (1872), non sono quindi oggetto di apprendimento (Trevarthen, 1984, 1990a).

Le emozioni universali sono il ponte naturale fra le menti di qualsiasi età. Il

ruolo del bambino è tutt'altro che passivo. Cadenza e qualità della protoconversazione sembrano infatti imposte proprio dal suo bisogno di scoprire il gioco o un racconto, e la madre deve rispondere in un determinato modo, come il musicista che esegue uno spartito o improvvisa su di un tema conosciuto per accompagnare un altro musicista.

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Il fine ultimo della mente umana è la comunicazione I circuiti mentali e le funzioni cerebrali sono infatti organizzati in un sistema

integrato per esternare gli stati interiori di coscienza e motivazione a un partner attento, e per osservare e percepire la qualità emotiva delle sue risposte. Eccellenti studi condotti in vari paesi hanno dimostrato come, nel suo primo anno di vita, il bambino si dedichi attivamente alla ricerca di conoscenza, di persone innanzi tutto, quindi di oggetti che. possa manipolare e infilare in bocca.

I filosofi empiristi hanno a lungo sostenuto che il primato dei sensi spetta al

tatto e che il bambino, quasi fosse cieco, deve esperire per contatto diretto l'estensione fisica e la consistenza di un oggetto, misurarne la posizione e l'estensione, prima di poterlo vedere o sentire come separato dal proprio corpo. Deve cioè costruire il "concetto" degli oggetti e del mondo a partire dalle sensazioni elementari.

Oggi sappiamo che non è così (Bower, 1974; Spelke, 1985). A soli tre

mesi, quando ancora non è in grado di esplorare perfettamente un oggetto facendo uso delle mani, perché troppo debole per muovere in maniera coordinata le pesanti membra, il bambino è capace di collocare gli oggetti nello spazio e nel tempo e li vede muoversi e cambiare fisionomia senza peraltro mutare identità.

L'Io coerente e la continuità dell'esperienza nei neonati Il bambino, dunque, interpreta le informazioni mutevoli trasmessegli dai

sensi come parti di una realtà fenomeníca ad essi esterna, costituita di oggetti permanenti. Ciò significa che si comporta come se possedesse un Io coerente, ubicato al centro di tutte le esperienze della realtà sensibile, che segue contemporaneamente tutti i diversi eventi.

È indubbio che la memoria e la conoscenza di un bambino, al pari del suo

senso del futuro, siano alquanto limitate, eppure la sua vita mentale prevede già la continuità dell'esperienza, tanto che persino nei neonati si riscontra una tendenza significativa a verificare nella pratica l'idea che si sono fatti della struttura e della funzione di un oggetto. Al pari degli altri animali intelligenti, il bambino gioca con le proprie azioni ed esperienze, ripete con entusiasmo i movimenti che hanno appena prodotto effetti interessanti, si ferma ad osservare nuovi oggetti e a verificare con cautela ed attenzione gli effetti dei suoi movimenti in circostanze inconsuete.

Già a qualche mese, si applica con sforzo e sentimento alla soluzione di

problemi. Così, per esempio, quando è posto nelle condizioni di provocare uno sfavillio di luci o la rotazione di un oggetto sopra la culla con un movimento

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volontario - come girare la testa più volte nella stessa direzione, stendere il braccio fino a un certo punto, o assestare un calcio ben mirato - un bambino di tre mesi cerca il movimento più adatto perché lo spettacolo si riproduca, salutando con vocalizzi e risa il risultato atteso, o arrabbiandosi e rattristandosi se l'apparato non risponde "come dovrebbe" (Papousek, 1987; Watson, 1972). Persino il neonato, infatti, è in grado di controllare le conseguenze del suo debole agire, purché venga predisposto un apparato a sua misura, che egli possa controllare con facilità (De Casper e Carstens, 1981).

La "poppata comunicativa" Nel caso specifico del neonato, la tecnica più efficace sfrutta un tipo di

movimento che il lattante deve imparare prestissimo a fare: la poppata. I bambini nascono con la capacità di succhiare il latte in due modi, l'uno volto a trarre nutrimento dal seno - in cui la bocca del bambino funge da pompa aspirante del latte materno - e l'altro dedicato alla comunicazione - attraverso una sorta di codice Morse, trasmesso dalle labbra del bambino al capezzolo della madre (Wolff, 1966). In questo caso, il bambino esercita lievi pressioni con le labbra, senza aspirare, realizzando così una poppata di tipo comunicativo ed esplorativo. Gli esperimentí in cui il neonato poteva usare questa poppata comunicativa per dare il via (attraverso un interruttore) a un'esperienza interessante - quale un brano di musica registrata - hanno per- messo di dimostrare, per esempio, come il neonato preferisca ascoltare la registrazione della voce della madre piuttosto che la voce di un'altra donna (De Casper e Spence, 1986).

Per apprendere nuove modalità di controllo sul proprio comportamento è

indispensabile verificare gli effetti delle proprie azioni. Non sorprende dunque che una giovane coscienza sia dotata di una curiosità tanto vivace, degna di un piccolo artista, inventore, esploratore o scienziato. Tuttavia, lo sviluppo del comportamento ludico mette in luce come la coscienza umana sia dotata di una forma particolare di autoconsapevolezza che necessita di continuo incoraggiamento, partecipazione e di una certa dose di giocoso antagonismo da parte degli altri.

Tutti gli animali socialmente organizzati usano il gioco per provocarsi e

confrontarsi ed esercitano le capacità essenziali di sopravvivenza giocando alla lotta, a nascondino, a rincorrersi. Il cucciolo di cane e di gatto, l'agnello o il coniglio "simulano" il combattimento, la caccia e la fuga dal predatore, in una messa in scena il cui fine è ottenere una risposta dal loro compagno di giochi. Essi recitano per un pubblico, o per un avversario, anche quando sono soli.

La "coscienza cooperativa"

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Nel bambino, il gioco sociale è molto complesso e riveste un ruolo capitale nella formazione di quella "coscienza cooperativa" tipicamente umana, senza la quale non vi sarebbero apprendimento culturale e uso di simboli (Trevarthen e Logotheti, 1987). Già a qualche mese, nel gioco relazionale del bambino intervengono l'umorismo e una penetrante curiosità circa i sentimenti altrui (Reddy, 1990), aspetti che egli mostra di riservare ai rapporti per lui più significativi. Nei confronti degli estranei, infatti, si comporta in maniera del tutto diversa, guardandoli con sospetto e timore, e tentando un approccio ludico solo successivamente, ma sempre con fare vigile e "formale". In altri termini, il gioco del bambino, il suo apprendere giocando, è espressione dell'attaccamento ai familiari, tant'è vero che in un ambiente familiare poco sereno, in cui mancano amore e gioia, il gioco è raramente fonte d'apprendimento, il bambino non sviluppa una crescita cognitiva adeguata (Fraiberg, 1980; Murray, 1988) e, quel che è peggio, perde la sicurezza in se stesso.

Un esempio immediato di vivacità e creatività infantile è offerto dal

bambino di sei mesi quando interviene nelle filastrocche che la madre canta per lui. Si è osservato che tali canzoncine hanno una struttura che permane invariata da lingua a lingua e che il bambino ha tendenza a prediligere, e quindi a imparare, melodie semplici in cui l'elemento base è una strofa di quattro versi di movimento andante, e ogni verso ha quattro battute. Anche se, ovviamente, il bambino non può afferrare il senso delle parole, partecipa della vitalità e del sentimento narrativo (Stern; Trevarthen, 1987) e quanto prima impara a compiere qualche movimento d'accompagnamento, come battere le mani, con grande gioia dei familiari.

Due stati mentali distinti nel primo anno d'età Il senso di un Io esteriore e pubblico, di un Io sociale, comincia a

manifestarsi verso la fine del primo anno (Stern, 1985), quando il bambino diventa ogni giorno più abile nell'esplorare e usare gli oggetti e nel trovare soluzioni ai problemi posti dalla loro combinazione (Wishart e Bower, 1984). In un primo tempo, questo interesse per le proprietà e l'uso delle cose sembra rivaleggiare con la comunicazione, tanto che il bambino spesso rífiuta di giocare con qualcun altro mentre è intento a esplorare un oggetto. Sembra che esistano due stati mentali distinti, l'uno privato e "cognitivo", l'altro giocoso e sociale (Trevartììen e Hubley, 1978; Trevarthen, 1980).

In seguito, verso i nove mesi, il bambino smette di interessarsi alle proprie

azioni per concentrarsi preferibilmente su quelle degli altri (Hubley e Trevarthen, 1979). È una fase di cruciale importanza nello sviluppo della coscienza umana, che apre la strada alla capacità di condividere un'azione e allo svolgimento collettivo di un compito, consentendo al bambino di imparare dagli altri nuove proprietà, valori e usi delle cose. Da qui all'apprendimento culturale il passo è breve (Trevarthen, 1988).

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Il linguaggio: forma trasfigurata di coscienza collettiva Nel secondo anno di vita, il bambino esce dalla prima infanzia, da uno stato

"senza parole", e muove alla conquista di quella forma trasfigurata di coscienza collettiva che è il linguaggio (Bruner, 1975, 1983; Halliday, 1975). Indubbiamente, la coscienza non si identifica col linguaggio: chiunque può rendersi conto di come esista una consapevolezza che non è necessario descrivere a parole, e di quanto sia comunicativa ed efficace la coscienza muta del bambino. Nondimeno, l'acquisizione del linguaggio cambia l'oggetto della comunicazione e del ricordo, espande la coscienza nel tempo e unisce le menti nella comprensione di realtà lontane dal "qui ed ora".

A due anni, la compagnia dei coetanei è continua occasione di divertimento

perché il bambino, con entusiasmo e creatività, gioca con il significato delle sue azioni secondo modalità che gli altri possono facilmente interpretare. Negli anni che seguono, questo gioco si complica, il bambino comincia a "giocare a far finta che…", calandosi in un'infinità di ruoli e di contenuti immaginari, il cui sviluppo è strettamente legato alla crescita del lessico (Fein, 1981; Schwartzman, 1978).

È comunque importante sottolineare che la coscienza del significato

precede la parola. A diciotto mesi, quando ancora non è in grado di parlare in modo intelligibile, il bambino può prendere il thè con le bambole, o far finta di essere un cane o una macchina. Il linguaggio inter- viene essenzialmente per dare un nome a delle idee che hanno già preso forma nel gioco collettivo, con tutto quel che di comunicativo ha il suo aspetto teatrale (Trevarthen e Logotheti, 1987). A questa età gli adulti non sono l'unica fonte di apprendimento. A partire dai due anni, infatti, la trasmissione di idee culturali è straordinariamente attiva anche fra gli stessi bambini, che proprio attraverso il gioco stringono le prime amicizie.

E possibile ravvisare nel bambino motivazioni tipicamente umane che

promuovono l'apprendimento delle idee proprie di una società la cui storia e cosmologia si estendono su generazioni e generazioni e penetrano la profondità del mondo.

Che persino esseri tanto giovani si sforzino di comunicare valori e di

comprenderli, dimostra quanto la coscienza umana sia motivata a costruire una realtà culturale.

Se è vero che tali complesse attività psicologiche sono intrinseche alla

struttura e ai processi cerebrali umani, cosa possono dirci le recenti scoperte della ricerca sul cervello?

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È possibile, in altri termini, spiegare come il cervello in crescita del

bambino riesca a modulare il proprio sviluppo e capacità di apprendimento nell'interazione con l'attività mentale di altri cervelli (Trevarthen, 1990)?

Negli ultimi anni, nuovi dati hanno dimostrato quanto fossero sbagliate le

vecchie teorie che consideravano il cervello del bambino un sistema di riflessi automatici, privo di motivazioni psicologiche di ordine superiore.

L'asimmetria degli emisferi dal quinto mese di gravidanza Negli anni '70 è stato in primo luogo dimostrato che l'asimmetria propria

dei processi superiori di conoscenza e apprendimento che hanno luogo nei due emisferi del cervello adulto, soprattutto in quello umano, comincia a delinearsi già verso la metà della vita del feto (Trevarthen, 1987). Intorno al quinto mese di gravidanza, compaiono nell'emisfero sinistro i tessuti preposti all'ascolto dei linguaggio che giungono a piena maturità solo diversi anni dopo la nascita.

Lo studio delle vie neurali dei cervello, inoltre, ha rivelato che i sistemi

sensoriali e motori hanno fasi evolutive diverse, e che ciascuno è composto di un certo numero di sottosistemi con funzioni di vario tipo. Queste fasi evolutive potrebbero essere interpretate in termini di un programma di sviluppo del cervello corrispondente a una sequenza di stadi psicologici emergenti. Le vie uditive dei tronco cerebrale, per esempio, da cui dipenderebbe la percezione dell'emozione nella voce, si sviluppano interamente prima della nascita; il sistema uditivo che raggiunge la corteccia cerebrale, la cui importanza è massima durante l'apprendimento dei linguaggio, ha invece uno sviluppo lento che si protrae nella prima infanzia.

Al contrario, tutte le componenti del sistema visivo giungono a maturità più

o meno contemporaneamente durante il primo anno di vita. I sistemi sensoriali che informano il cervello sulla coordinazione dei movimenti e sulla posizione di testa, tronco e arti si sviluppano in fase prenatale, a eccezione di due componenti che maturano invece lentamente dopo la nascita: il cervelletto e le sue connessioni con la corteccia cerebrale - che si sviluppano durante l'infanzia parallelamente all'agilità locomotoria - e i sistemi neocorticali che governano il movimento delle dita e il tatto - i quali evolvono nei primi anni di vita man mano che il bambino perfeziona la sua capacità di manipolazione. Queste correlazioni fra elaborazione cerebrale e sviluppo comportamentale sono incoraggianti, ma le scoperte più sensazionali, e più interessanti in questa sede, sono quelle relative a determinate funzioni mentali quali la motivaizone, l'emozione e la generazione di capacità cognitive.

Fra le aree del cervello in cui hanno origine le emozioni figurano sia alcune

componenti delle zone profonde e primitive, sia estensioni più recenti situate nel proencefalo e soprattutto nei lobi frontale e temporale. I sistemi più antichi

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compaiono per primi nell'embrione umano, poche settimana dopo l'inizio dello sviluppo.

Le cellule fondamentali, raggruppate intorno ai nuclei della formazione

reticolare del tronco cerebrale, estendono i loro prolungamenti ai tessuti ancora indifferenziati delle altre aree. Tali cellule invadono, dunque, le sottili e rudimentali pareti degli emisferi cerebrali molto prima che si insedino i neuroni corticali. Le cosiddette aree limbiche o marginali della corteccia sono estremamente simili a questi sistemi profondi di coordinamento e più tardi, nel feto, la corteccia limbica si formerà prima della neocorteccia.

Questo significa che le aree del cervello che motiveranno l'azione e

l'apprendimento si sviluppano prima di quelle preposte all'analisi dell'esperienza e al controllo di azioni più sofisticate.

La coscienza e le emozioni Ciò suffraga la teoria secondo cui la consapevolezza cosciente e l'azione

volontaria hanno origine in quelle parti della mente preposte alla formazione degli stati emotivi e cognitivi.

Entusiasmanti conferme a quest'ipotesi vengono dalla ricerca sullo sviluppo

nei cuccioli di gatto dei meccanismi corticali da cui dipende la stereopsi binoculare, ovvero la capacità di misurare la profondità con entrambi gli occhi. Questa componente della corteccia visiva giunge a completo sviluppo nelle prime settimane di vita, ed è frutto di una selezione e stabilizzazione delle connessioni intercellulari temporanee prodotte in grande eccesso al momento della nascita. Era già noto che tale selezione richiede un'eccítazione di natura visiva, dal momento che essa non si verifica se il cucciolo è tenuto al buio o viene privato di esperienze visive adeguate. Di recente, tuttavia, si è scoperto che anche stimolando entrambi gli occhi con forme luminose le giuste connessioni non vengono selezionate se non si soddisfano due condizioni ulteriori.

In primo luogo, il buon funzionamento dei sistemi motori che sincronizzano

il movimento degli occhi e correggono il cristallino per la messa a fuoco dell'imrnagine sulle due retine richiede l'attività coordinata dei neuroni del tronco cerebrale. Inoltre, come hanno mostrato Singer e i suoi colleghi (1982), le cellule corticali cui spetta il compito cruciale di integrare le informazioni provenienti da entrambi gli occhi devono essere attivate dalle aree cerebrali profonde, oltre che dagli occhi stessi. Ciò significa che perché l'oggetto osservato possa aiutare la corteccia visiva a rifinire le sue connessioni il cucciolo deve avere il coordinamento necessario e al contempo la motivazione a vedere. Ovvero, deve provare interesse (per esempio giocando) per ciò che vede, altrimenti il suo sistema visivo non si svilupperà adeguatamente.

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Le motivazioni innate e l'apprendimento plasmano la corteccia cerebrale Tutti questi dati consentono di elaborare una teoria che integri le emozioni

e le motivazioni innate con l'apprendimento percettivo e cognitivo. Ulteriore conferma giunge dagli studi relativi agli effetti indotti dalla stimolazione materna sulla crescita cerebrale dei cuccioli di ratto e dei bambini prematuri (Schanberg e Field, 1987). I meccanismi ormonali essenziali per una crescita cerebrale normale sarebbero attivati dalla stimolazione tattile operata delle carezze materne.

Un'altra ricerca ha dimostrato che le aree limbiche del cervello di una

scimmia, le quali maturano prima della neocorteccia, hanno un ruolo importante nell'interazione sociale, tanto che se vengono danneggiate alla nascita ne risulta inibito lo sviluppo sociale e cognitivo dei cucciolo, che sarà affetto da una patologia simile all'autismo nei bambini, e rifuggirà dunque il contatto sociale chiudendosi in attività coatte ripetitive o in un'inattività totale (Merjanian, 1986).

Numerose ricerche mostrano quanto il cervello umano sia modificato

dall'esperienza e dall'apprendimento. Così, la corteccia cerebrale di un non udente è organizzata in maniera diversa da quella di un non vedente, ed entrambe differiscono dalla corteccia cerebrale di una persona con udito e vista normali. Il pianista ha sicuramente un sistema motorio diverso da quello di un suonatore di flauto e i sistemi di entrambi differiranno da quello di un atleta o di uno scrittore.

Tuttavia, esistono in tutti alcuni principi comuni di apprendimento, fra cui il

bisogno di sostegno emotivo, di insegnamento e di motivazione. Gli esperimenti sui bambini hanno messo in luce che l'apprendimento umano è aperto, sin dall'inizio, agli effetti emotivi della comunicazione, mentre le nostre conoscenze sull'evoluzione cerebrale lasciano supporre che l'influenza selettiva dell'ambiente sia coordinata e regolata da sistemi motivazionali innati.

"Personalmente - conclude Trevarthen - non ho dubbi sul fatto che la

coscienza umana si sia evoluta per essere condivisa, e che lo sviluppo cerebrale nel bambino si serva dei sentimenti e delle motivazioni comunicatigli dagli altri per migliorare quella coscienza che possiede in virtù della sua organizzazione prenatale. Tale convinzione è perfettamente compatibile con la teoria di Sperry, per cui la coscienza avrebbe un ruolo causale emergente "verso il basso" nel controllo del comportamento indotto dalla prassi e dall'esperienza, e orientato alla realtà. Non sembra quindi esservi ragione per pensare che le funzioni mentali siano di una natura diversa da quella delle funzioni del cervello, sistema unitario e unificante all'interno dell'organismo. Tali funzioni comunicano intensivamente ed estensivamente con le altre menti, gli altri corpi e gli altri cervelli, nello sforzo di condividere il significato del mondo" .

212

Immaturità fisiologica del neonato e l'Io corporeo Rimane vero, come ricordano Farneti e Carlini che "il bambino viene al

mondo in uno stato d'immaturità fisiologica che rende necessario il proseguimento della simbiosi già realizzata nell'utero; per sopravvivere egli ha bisogno del rapporto continuo con un altro essere che gli fornisca, oltre al contatto e al calore, anche il nutrimento e che lo protegga, contemporaneamente, dai pericoli esterni e da quelli che la sua stessa immaturità psicomotoria gli creano: è questo un rapporto specificamente corporeo nel quale il bambino, "massa che si agita", "è agito" dalla manipolazione degli altri. La sua vita si esprime essenzialmente attraverso profonde sensazioni interne legate al ritmo inesorabile de bisogni alimentari, alla necessità dell'equilibrio e di una postura confortevole.

Alcuni psicologi che si sono interessati alle fasi fetali della vita e ai rapporti

fra la vita psichica della madre e quella del bambino che porta in sé, ritengono - per quanto sia stato ormai appurato che le condizioni psicofisiologiche della madre esercitano una certa influenza sullo sviluppo del feto - che non si è ancora in grado di stabilire strette correlazioni fra la vita intrauterina e la futura evoluzione psichica del bambino, comprese le eventuali manifestazioni patologiche [Farneti - Carlini, 1981, pp. 17-18].

"Pensiamo ai processi mentali che caratterizzano la diffusione del senso di

Sé per tutto il corpo del bambino, in cui il Sé è alloggiato. Quando il bambino, una volta che la vista è abbastanza sviluppata, vede il proprio corpo, lo percepisce come qualunque altro oggetto che si presenti alla sua mente attraverso l'organo della visione.

Del tutto diverso è l'effetto dell'esperienza percettiva allorché il bambino

tocca il proprio corpo: qui l'esperienza è prodotta da due sensazioni contemporanee, fatto che può realizzarsi molto presto nella vita, forse già nello stato intrauterino. La nostra esperienza di adulti quando tocchiamo il nostro corpo ci fa pensare che una parte di esso, per esempio la mano, si accosta attivamente a un'altra parte, che prova l'esperienza passiva di essere toccata, ma questa non è affatto una giustificazione sufficiente per supporre che lo stesso avvenga nella prima infanzia: venire a contatto col proprio corpo suscita nel bambino piccolo due sensazioni della stessa qualità, che lo conducono a distinguere fra Sé e non-Sé, fra il corpo e quello che in seguito diventerà l'ambiente circostante. Ne deriva che questo fattore contribuisce al processo di differenziazione strutturale. Inizia così la delimitazione fra il Sé-corpo e il mondo esterno, il mondo dove si trovano gli oggetti." [Farneti - Carlini, 1981, p. 203].

213

Nascita biologica e nascita psicologica Dunque il tema - che a me interessa particolarmente - del momento della

nascita della coscienza (sempre che non sia un falso problema…) vede gli studiosi su posizioni opposte.

"La nascita biologica e la nascita psicologica non coincidono

temporalmente" sostengono Farneti Carlini, mentre Trevarthen, come abbiamo visto, era convinto che già nella vita intrauterina il feto mostrasse segnali di vita psichica.

Mentre la nascita biologica è un evento drammatico, osservabile e ben

circoscritto, la nascita psicologica è un processo intrapsichico che si svolge lentamente. Agenti principali di questa seconda nascita, di questo "emergere" dell'individuo come essere separato, provvisto di un proprio, seppur rudimentale, psichismo, possono senza dubbio considerarsi l'esperienza del proprio corpo e la figura materna "oggetto d'amore primario".

"Lungi dall'essere un sistema fuso, il bambino è da principio privo di intima

coesione e abbandonato senza il minimo controllo alle influenze più fortuite. Sotto l'influsso di questa sfera emotiva si stabiliranno molto velocemente delle connessioni fra le manifestazioni spontanee e le reazioni utili suscitate nell'ambiente" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 238-239].

A sostegno della loro teoria, Farneti Carlini riportano che è stato osservato

con quale precocità il sorriso del bambino risponde a quello della madre. "L'emozione genera gli impulsi collettivi, la fusione delle coscienze individuali in una sola anima comune e confusa. Uno scambio psichico più primitivo della presa di coscienza attraverso cui la persona afferma la sua autonomia. Proprio nei trasporti passionali, in cui ciascuno si distingue male dagli altri e dalla scena complessiva in cui si confondono i suoi appetiti, i suoi desideri e il suo timore, l'individuo percepisce se stesso immediatamente. L'emozione procede da una vita psichica ancora mal differenziata, e nello stesso tempo i centri nervosi che regolano le sue manifestazioni così viscerali come motorie appartengono alle regioni subcorticali del cervello, cioè a un insieme funzionale assai più anticamente evoluto nella specie che non le operazioni della rappresentazione e della decisione più esclusivamente imputabili alla corteccia.

Il periodo inziale dello psichismo sembra dunque essere stato di

indifferenziazione fra quello che dipende dalla situazione esterna e quello che dipende dal soggetto stesso" [Farneti - Carlini, 1981, p. 240].

"Io" e "altro" precoscienti "L'io di fronte all'altro non ha ancora assunto questa specie di stabilità e di

costanza che noi riteniamo elemento indispensabile della coscienza dell'io, che

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ci sembra costitutiva della persona. Si potrebbe paragonare il primo stato della coscienza ad una nebulosa in cui si diffonderebbero senza vera distinzione azioni sensitivo-motorie di origine endogena o esogena. Nella sua massa finirebbe col delinearsi un nucleo di condensazione, l'io, ma anche un satellite, il sub-io, l'altro.. Fra i due la divisione della materia psichica non è necessariamente costante. Può variare secondo gli individui, secondo l'età ed anche dinanzi a certe alternative della vita psichica" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 241-242].

"Tutte queste analisi concordano nell'ammettere che non si potrà spiegare

la percezione dell'altro se si presuppongono un io e un altro assolutamente coscienti di se stessi e che di conseguenza rivendichino una originalità assoluta in rapporto all'altro che è di fronte a loro. […] Inizialmente ci sarebbe uno stato di precomunicazione in cui le intenzioni dell'altro agiscono in qualche modo attraverso il mio corpo e le mie intenzioni agiscono attraverso il corpo dell'altro" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 245-246].

"Le aree del corpo più importanti al fine dell'istituzione di confronti e di

contrapposizioni e al fine della ricognizione individuale del proprio corpo e di quello degli altri sono il viso e i genitali. Nello stesso tempo, sono le aree più difficili da vedere per l'individuo stesso" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 157-158]. E un'importanza speciale ha la cavità orale, che incorpora gli organi sensoriali esterni e interni.

Anche L. Ancona sostiene la indistinzione iniziale della coscienza: "Per

interpretare gli inizi della vita mentale possiamo dire che il mondo del neonato è del tutto privo di oggetti e pertanto di relazioni oggettuali. Si tratta di un universo che è radicato in un quadro sensoriale, per usare l'espressione di Piaget (1954), ma nel quale il soggetto non può ancora disporre di coscienza, di percezioni, di sensazioni, o di qualsiasi altra funzione psichica. Egli è infatti ancora un'entità non differenziata, dalla quale emergeranno in seguito progressivamente strutture, funzioni, pulsioni" [Ancona, 1970, p. 132-3].

Le risposte a certe stimolazioni non sono "esperienze coscienti", nelle prime

settimane di vita, ma "semplici processi di recezione, che dimostrano di avere natura fisiologica piuttosto che psicologica. All'inizio, l'organismo umano non possiede altro che uno strumento congenito, e certe disposizioni che rimangono ancora allo stato potenziale; l'uno e le altre sono suscettibili di successivi processi di maturazione, propri della specie e innati, e di evoluzione, propri della cultura e dipendenti da uno scambio fra il soggetto e il suo ambiente. Soltanto la continua reciprocità di relazione con la madre, che rappresenta la sua prima cultura, e cioè il ciclo emotivo specifico che gli permetterà di trasformare stimoli senza significato in segnali significativi" [Ancona, 1970, p. 133].

Le "organizzazioni cenestesiche"

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"A causa dell'esistenza di una barriera protettiva dagli stimoli, il neonato

nelle sue prime settimane ignora praticamente il mondo esteriore ed è sensibile solo alle stimolazioni provenienti dai sistemi proprio- ed entero-cettivi. Si tratta di esperienze sensoriali che Spitz ha definito col nome di "organizzazioni cenestesiche"" [Ancona, 1970, p. 136].

"In tal modo si delinea la sequenza progressiva dello sviluppo percettivo,

dalla pura reazione cenestesica alla percezione per contatto, da questa alla percezione distale, basata sul riconoscimento del segnale gestaltico, semplice preoggetto e dal preoggetto all'oggetto individualizzato, investito d'amore, attraverso la percezione diacritica, ogni gradino precede e prepara il successivo, ne è una condizione ineliminabile, fino al raggiungimento di un processo percettivo completo, in grado di cogliere anche gli aspetti transfenomenici delle cose" [Ancona, 1970, p. 139].

Le "fantasie" del neonato Spitz si è opposto alle ipotesi secondo cui il lattante sarebbe capace, sin dal

primo giorno di vita di processi intrapsichici, di pensieri simbolici, di meccanismi di difesa e sarebbe già dotato di complesso di Edipo e di super-Io. Egli fa precisi riferimenti critici al pensiero della cosiddetta scuola di Londra, rappresentata e fondata da M. Klein, secondo il cui pensiero, le relazioni oggettuali che l'Io costituisce fin dall'inizio non riguardano solo i contenuti della realtà, ma anche quelli della fantasia, quindi i cosiddetti "oggetti interni". Gli oggetti interni sono le fantasie inconsce che si hanno di ciò che è contenuto coscientemente nella psiche, cioè dell'oggetto realistico; essi esistono sin dall'inizio, perché sono l'espressione mentale degli istinti [Ancona, 1970, pp. 139-140].

Una posizione rigida contro l'attribuzione di capacità cognitive e

motivazionali al feto si trova nel sito che ho già citato del Controllo delle Affermazioni nel Paranormale (CICAP) in cui Beyerstein ridicolizza le "farneticazioni Scientologiche di L. Ron Hubbard circa la vita nell'utero che iniziarono come fantascienza e sono oggi bollate, appropriatamente, come religione" .

In conclusione, vediamo dimostrato quanto detto in precedenza, a

proposito della possibilità attuale di formulare una completa teoria della coscienza, e segnatamente per quel che riguarda il suo sorgere, e cioè che non è possibile, perché la mole di dati - invero già notevolissima - fornisce indicazioni contrastanti e non esaustive. Si apre così lo spazio per la possibilità di accentuare questa o quella posizione. Basterà ricordare che negli anni

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prossimi venturi si dovranno sottoporre a verifica nuovamente e con accuratezza le teorie fino a qui formulate.

Le prime impressioni della vita: una programmazione sottovalutata La mia posizione coincide con quella di Vester che ha scritto: "La maggior

parte del cervello umano è già sviluppata prima della nascita e le cellule residue e le loro congiunzioni si formano nel breve periodo delle prime settimane o dei primi mesi di vita. Da quel momento l'accrescimento del cervello è quindi concluso. Questa fine sorprendentemente precoce della scissione delle cellule in confronto agli altri organi è però l'unica garanzia del fatto che un essere vivente possa apprendere qualcosa. Se le cellule del nostro cervello si moltiplicassero di continuo come per esempio le cellule della muscolatura o della pelle, allora ne morirebbero contemporaneamente altrettante e con loro andrebbe persa per sempre anche l'informazione che vi è immagazzinata, perché la scissione delle cellule implica sì la trasmissione dell'informazione genetica contenuta nell'acido deossiribonucleico (DNA), ma non quella delle informazioni acquisite. Naturalmente non ci ricordiamo più nulla di quei primissimi giorni; però queste prime informazioni ricevute mediante le sensazioni tattili, olfattive e gustative vengono immagazzinate come patrimonio durevole quasi come le informazioni genetiche e (ugualmente nel subconscio o inconscio) in maniera più stabile della maggior parte dei ricordi consci successivi. Così ognuno di noi lavora ancora oggi con le stesse cellule nervose che possedeva poco dopo la nascita" .

XI Dalla sinderesi al coscienzialismo: alcune questioni ancora aperte sulla coscienza In questi ultimi capitoli della dissertazione posso cominciare a trarre

qualche conclusione. Ho trovato molto interessante ricostruire, nel poco spazio qui a disposizione

e senza pretesa di completezza, la storia del concetto di coscienza ed è emerso un percorso abbastanza significativo.

217

"Sunevide§is " e "sunthvrh§is" dalla grecia classica al medioevo Nella Grecia classica c'era la dimensione della sunevide§is, intesa come

coscienza nel senso di consapevolezza, termine usato da Diodoro Siculo, e Menandro, ripreso dal lessico dei Settanta e da quello neotestamentario.

Derivato da sunoravw, "vedere insieme", "vedere contemporaneamente",

con Platone significa anche "comprendere" e, più tardi, "accorgersi". Nel medioevo invece si è ripreso un concetto greco, quello della

sunthvrh§is (lat. synteresis) ed ha ricevuto un grande sviluppo concettuale per opera della filosofia scolastica.

Il greco sunthvrh§is significava "vigilanza (della coscienza)" esame,

conservazione, nome d'azione di sunthrevw "vigilo", composto di sun "con" e threvw "osservo", ma anche "custodisco", "proteggo", "mantengo" (thvrh§is, "costodia", "conservazione") [Devoto, 1968, p. 394]. Sunthrevw significa dunque mantenere attentamente, [th;n gnwvmhn] par! eJauth'/ il proposito in segreto (Polibio) da [DIGI, 1975, p. 1241]. Nei Settanta significa preservare da (con l'infinito) e osservare attentamente; nel Nuovo Testamento invece conservare e conservarsi, in Plutarco, spiare l'occasione di (con l'infinito) [EGF1, 1981, p. 864].

La sinderesi è ricordata da san Gerolamo nel suo Commento a Ezechiele

come sinonimo di quella parte dell'anima abitualmente definita coscienza (I, c. I).

In san Tommaso essa mantiene il senso originario di tendenza verso il

bene e di fuga dal male (Summa theologiae, 1, 1 q. 94, art. I). Lo stesso significato di attitudine dell'anima a riconoscere i primi principi morali è attestato in tutta la scolastica, che sulla scorta dei testi precedentemente citati concepisce la sinderesi, o scintilla conscientiae, come la parte dell'anima non toccata dal peccato originale, l'attitudine dell'anima a riconoscere i principi morali fondamentali.

Nello stesso senso di funzione attiva della coscienza il termine si ritrova in

Bossuet (Trattato sulla conoscenza di Dio e di se stesso, cap. I par. 7), mentre in età contemporanea è caduto in disuso.

Ho trattato ampiamente nel capitolo IV di come il concetto di coscienza

avesse duplice valore nella scolastica: la sinderesi è la coscienza originaria,

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innata e sintetica percezione dei valori morali dell'esistenza cristiana; invece la conscientia è un atto che applica quella unitaria e dinamica intuizione ai casi e alle azioni concrete.

Quel che possiamo osservare è che sempre più nel pensiero medioevale e

moderno l'accento viene posto più distintamente sulla conscientia: e cioè sulla funzione o atto applicativo ai singoli comportamenti di quel dinamisrno vitale che si pone come radicale "presa di coscienza" del senso e dell'orientamento del proprio esistere cristiano.

La coscienza dunque è ridotta a "funzione di discernimento" per essere

infine relativizzata, rilegata alla sfera morale-religiosa dall'illuminismo e resa muta nell'epoca contemporanea dal positivismo e dallo scientismo materialista.

Anima e coscienza Quello che per secoli si è chiamato "anima" sembra essere la stessa

"sostanza" che ora viene chiamata "coscienza". Per la coscienza, come per l'anima si può dire quello che disse Eraclito di

Efeso (480 a.C. circa), nel frammento 45: "I confini dell'anima, per quanto tu vada e se anche percorressi tutte le strade, non riusciresti a trovare: così profondo è il Logos che essa porta in sé".

In questo frammento, come ha scritto Ravasi , l'anima è raffigurata come

una terra sterminata, come un oceano sconfinato che si percorre senza mai scoprirne le frontiere e senza mai ritornare nelle stesse acque ("non potrai bagnarti due volte nelle acque dello stesso fiume", ha scritto Eraclito). A distanza di secoli e soprattutto di visione delle cose, santa Teresa di Lisieux esclamava: "Come dev'essere grande un'anima per contenere Dio!".

Il filosofo efesino non parla di Dio ma usa il termine Logos, che per lui ha

vari significati: può essere la legge divina, universale che determina il divenire delle cose; oppure la ragione umana; oppure il discorso, il linguaggio, la parola che annuncia la verità e che non può essere separata dall'intelletto (nou§) . È comunque, il nodo d'oro che tiene insieme tutto il mistero dell'anima. Per Eraclito è dentro l'uomo che va cercata la verità e il solo modo per trovarla è prestare ascolto al Logos.

Secondo i cristiani quel Logos ha un nome e un volto preciso e nitido, che

va cercato navigando nel silenzio del mare dell'anima. Io rilevo dunque l'attualità di questo concetto, se non nel senso della

conscience, certamente invece in quello della consciousness.

219

È un percorso che è passato attraverso un momento teoretico specifico che è stato il coscienzialismo.

Alcuni esponenti del coscienzialismo Il coscienzialismo è un orientamento filosofico che pone la coscienza come

elemento originario e attivo nella formazione dell'esperienza. Al coscienzialismo si richiamano la dottrina immanentistica (come gnoseologia) e ogni forma d'idealismo da Berkeley al criticismo kantiano, all'idealismo ottocentesco, all'evoluzionismo bergsoniano, alla fenomenologia husserliana.

In particolare il coscienzialismo formò il nucleo centrale del pensiero

filosofico di Schuppe e dell'italiano Martinetti [GADA, 1973, p. 493]. Aggiungerò qualche nota su O. Külpe.

Piero Martinetti In opposizione all'"idealismo immanente". di Croce e Gentile, ispirato

all'hegelismo, Piero Martinetti (Torino, 1872 - 1943) ha sostenuto un "idealismo trascendente" di matrice kantiana e leibniziana. Le sue opere principali sono state: Il sistema Sankya (1897); Introduzione alla metafisica (1902-04); Il compito della filosofia nell'ora presente (1920); Breviario spirituale (1923); La libertà (1928); Gesù Cristo e il cristianesimo (1934); Ragione e fede (1942); Kant (1943).

Secondo Martinetti la filosofia non deve rifiutare il contributo della scienza,

ma deve anzi configurarsi come "metafisica empirica" volta per successive sintesi all'unità del sapere empirico stesso. In tal modo essa si pone come correttivo del dogmatismo positivistico, incapace di comprendere la funzione dell'unità dell'autocoscienza in quanto condizione di ogni esperienza.

L'autocoscienza umana è solo una "manifestazione empirica" del Soggetto

assoluto, cioè di quell'Unità trascendente alla quale la conoscenza e anzi l'intero universo si dirigono senza poterla mai adeguare. Dell'Unità non può darsi concetto speculativo; essa può venire solo intuita mediante "simboli" e "ideogrammi", in quanto "il sapere nostro è un atto di unione mistica col Logos eterno" (Introduzione alla metafisica).

L'idealismo martinettiano costituisce una forma di romanticismo, in cui forti

sono gli influssi della filosofia indiana. Religione e filosofia si identificano e si traducono in una vita etico-religiosa come superiore sintesi del diritto e della morale.

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La religione di Martinetti (in parte ispirata al Kant della Religione nei limiti della sola ragione) ripudia ogni "chiesa visibile" storicamente determinata. Buddha, Cristo, Giamblico, Marcione e altri personaggi sono visti da Martinetti come coloro che vollero riportare la religione alla sua pura spiritualità, liberandola dalla superstizione e dal dogmatismo, in vista di quella "chiesa invisibile" che si identifica con la ragione universale e con il kantiano "regno dei fini".

È proprio contro questa visione della religione che recentemente Francesco

Tomatis, recensendo una ristampa di un'opera di Martinetti , un'antologia evangelica, parla di "Cristo "razionale" di Martinetti". Martinetti con "una discutibile selezione di brani riduce il Vangelo a legge morale e il Salvatore a una figura profetica".

Ma "il merito di Martinetti non fu soltanto quello di rifiutare il giuramento di

fedeltà al regime fascista, lasciando nel 1931 la cattedra di filosofia teoretica presso l'Università di Milano" e ritirandosi a Castellamonte, dove continuò la sua azione culturale con gli scritti e sulle pagine della "Rivista del filosofo".

"In un clima culturale sempre più storicista e immanentista, Martinetti

richiamò la centralità filosofica della metafisica e il valore spirituale della vita. Il suo personale neokantismo, volto a cogliere e approfondire la religione e

la vita spirituale in genere come esigenza e frutto della stessa e semplice umana ragione, è impossibilitato a comprendere il fenomeno religioso nella sua profondità, trascendenza, libertà" [EGF2, 1997, pp. 693-694].

Wilhelm Schuppe e la "filosofia dell'immanenza" Wilhelm Schuppe (Brieg, Slesia, 1836 - Breslavia 1913), fu professore a

Greifswald e dal 1897 diresse la "Zeitschrift für immanente Philosophie", organo della "filosofia dell'immanenza" di cui Schuppe era l'esponente di maggior rilievo. Cultore di fìlosofia del diritto, dedicò a questi studi numerose pubblicazioni, oggi rivalutate in quanto anticipatrici della scienza del diritto inteso come "pura legalità", secondo criteri metodologici che rivelano in lui un pioniere della concezione neopositivistica dell'unità della scienza. Tra i suoi scritti filosofici, oltre all'opera principale Abbozzo di gnoseologia e logica (1894), si ricordano: Logica gnoseologica (1878); Fondamenti dell'etica e filosofia del diritto (1881); La filosofia dell'immanenza (1897); Il problema della responsabilità (1913) [EGF2, 1997, pp. 1028-1029].

Tesi di fondo della "filosofia dell'immanenza" è che l'oggetto, in quanto

contenuto di coscienza, è immanente alla coscienza stessa. Questa posizione intende rifiutare sia il "realismo trascendente" sia

l'idealismo, che misconoscono 1'essenziale coappartenenza di mondo e

221

pensiero, soggetto e oggetto, sulla quale da sempre si fonda giustamente il senso comune.

Nella coscienza vanno poi distinti gli aspetti individuali da quelle

caratteristiche comuni che costituiscono la coscienza, propria della specie umana o "coscienza generale" (Abbozzo, par. 45). Su di esse si fondano le verità della logica e della scienza.

Il realismo di Schuppe, affine per vari aspetti all'empiriocriticismo, venne

ulteriormente radicalizzato dallo psicologo tedesco Oswald Külpe (Landau, 1862 - Monaco di Baviaera 1915).

O. Külpe Distaccatosi dal suo maestro W. Wundt, Külpe fondò una propria scuola.

Egli riteneva - diversamente da Wundt - che i processi superiori di pensiero potessero essere studiati sperimentalmente con lo stesso rigore con cui venivano studiati i processi sensoriali e percettivi, ed elaborò in questa prospettiva il metodo dell'"introspezione sistematica", in base al quale al soggetto sperimentale veniva fra l'altro richiesto di stabilire connessioni logiche fra i concetti.

Fu egli a scoprire il "pensiero senza immagini", contro la tradizione

associazionistica fatta propria dalla psicologia wundtiana, la presenza nell'esperienza cosciente di elementi sensoriali.

ALCUNI PROBLEMI DI FONDO E NON RISOLTI SULLA COSCIENZA A questo punto, dopo aver esaminato i possibili significati del termine e lo

sviluppo del concetto di coscienza, dopo aver considerato gli usi che se ne fa in varie discipline e le prospettive della ricerca nel campo delle neuroscienze e della neurofilosofia, vorrei individuare, riassumere e - ove possibile - impostare una serie di problemi tuttora insoluti, problemi filosofici e non solo.

In realtà esistono moltissime risposte ad essi, ma, come si è potuto vedere

nei capitoli precedenti, sono incomplete e, con molta probabilità, sbagliate. La coscienza è un problema. Lo è oggi, lo sarà per molto ancora, lo sarà

forse per sempre.

222

Nel prossimo capitolo esporrò la mia posizione. Qui riassumo alcuni problemi, che - ciò che farò nel prossimo capitolo - mi hanno portato a voler dire qualcosa di personale sulla coscienza.

Che cos'è la coscienza? Il problema principale è e rimane capire che cos'è la coscienza. Ciò non può

essere solo trovare una definizione, ma implica lo spiegarne la sostanza, la natura, l'origine, il rapporto col corpo, con il resto della mente, con il mondo. Questo è "il problema". Ed è un problema che investe tutto l'uomo, la cui risoluzione sarebbe il traguardo più ambito da raggiungere, superiore a qualsiasi altro posto dall'uomo.

La soluzione di questo problema a mio giudizio sarebbe la tappa che lo

avvicinerebbe di più alla divinità. Nei secoli in molti - come si è visto - hanno "spiegato" cos'è la coscienza,

eppure col tempo le teorie cadono, si rigenerano, si trasformano - basti pensare al passo decisivo compiuto recentemente dalle neuroscienze. Così "il problema" della coscienza continua ad essere insoluto.

Urgono nuovi paradigmi di indagine. Potrebbe essere definita un "atto" o invece un processo (così la pensa

Bergson). Può essere definita uno stato (stato mentale o di un altro tipo) o altro

ancora. Senza dimenticare che ancora c'è chi nega tout court l'esistenza della coscienza.

La coscienza unisce o divide? La coscienza è un problema perché è l’aspetto più elevato, profondo e

complesso dell’uomo. Essa, al contempo, accomuna tutti gli uomini e li distingue tutti. Accettiamo che ogni uomo abbia la coscienza, e che tutti gli uomini siano

simili in quanto diversi da tutti gli altri esseri del creato. Ma al contempo ogni uomo è diverso soprattutto nella sua coscienza. Lo è

per tanti motivi biologici, genetici, morfologici, eccetera. Ma anche dove le differenze "esterne" sono minime, interviene la coscienza a sancire la separazione, la distanza, la differenza.

223

Alcuni "problemi" che la coscienza pone li ho affrontati nei precedenti

capitoli, altri li affronterò più esplicitamente in seguito. Ho già citato, per esempio, il "problema delle altre menti" : io so che i miei

caratteri esterni coincidono con quelli interni, ma come faccio ad accettarlo per gli altri uomini, non potendo esperirlo empiricamente? [cfr Gregory, EOM p. 182 ss.]

Quale rapporto c'è tra corpo e coscienza? Umberto Galimberti ha svolto una riflessione sulla radice corporea

dell'eccentricità e la coscienza come suo riflesso: "abbiamo introdotto la metafora della danza per volatilizzare il più possibile la sostanzialità della coscienza. La coscienza, infatti, non è una cosa, ma tensione verso le cose, quindi pura intenzionalità, tratto tipico del corpo umano che, a differenza di quello animale, è irrimediabilmente esposto al mondo" [Galimberti, 1999, p. 199]

"Dimentichi dell'esperienza del corpo, Cartesio, Malebranche, Leibniz hanno

dovuto inventare rispettivamente la ghiandola pineale, la coincidenza occasionale, l'armonia prestabilita per spiegare quell'operazione magica per cui la rappresentazione coscienziale di un movimento suscita nel corpo il movimento". L'autore aggiunge che "Riflettere non è rientrare in sé e scoprire l'"interiorità della coscienza", quella soggettività presunta che, al di qua dello spazio e del tempo, dovrebbe garantire quella prima equivalenza che è l'identità con se stessi. "Riflettere" è accogliere nel proprio sguardo quelle fugaci impressioni e quelle percezioni inavvertite con cui il mondo mi si offre e con cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restituisco, perché non le confondo con le mie fantasie e con l'ordine dell'immaginario dove, invece, non rendo quello che sottraggo." [Galimberti, 1999, p. 200].

Dunque le relazioni che il corpo, aperto al mondo, dispiega fanno del corpo

l'origine di tutte le trascendenze, e da questa origine scaturisce quel sapere che antecede e condiziona tutti i rapporti logico-oggettivi che un cogito astratto può dispiegare.

"L'io penso deve scoprirmi nel mio spessore corporeo perché questo vien

prima dell'a priori kantiano dell'unità dell'io penso" [Galimberti, 1999, p. 200-1]

Avere un mondo, infatti, è cosa diversa che essere al mondo. Tutti i viventi

sono al mondo, ma l'uomo è al mondo come colui che ha un mondo, come colui per il quale il mondo non è tanto la casa, il luogo che lo ospita, quanto il progetto per la sua costruzione.

224

"Essere al mondo significa allora per l'uomo sfuggire all'assedio del mondo per abitare il mondo, fuggire dal proprio essere in mezzo al mondo per averlo come luogo d'abitazione [...] Stante questo suo carattere ec-centrico [sic, n.d.r.] , la coscienza, lo ribadiamo, non è la duplicazione di quel centro che è il nostro corpo nel mondo, ma distacco, distanza, superamento di sé nelle cose verso cui si protende" [Galimberti, 1999, p. 202]. Già Platone parlava di una "lacerazione" inflitta dagli dei agli uomini, a causa della quale "ciascuno di noi è il simbolo di un uomo" (Simposio], la metà che cerca l'altra metà.

La coscienza è crisi? Nel corpo c'è qualcosa di incerto che rende titubante e precario il suo

rapporto con il mondo, "questa impercettibile crisi, che chiede al corpo una rielaborazione del messaggio del mondo e una modificazione del movimento successivo a partire dalla qualità del messaggio ricevuto, l'origine della coscienza, che dunque è già rintracciabile nella motricità come incrinatura del suo fluire spontaneo" [Galimberti, 1999, pp. 190-191].

Già tra gli ambiti di significato avevo mostrato come tra alcuni poeti,

scrittori e filosofi la coscienza sia il luogo del disagio esistenziale, dell'essere inadatti alla vita, verifica dell'imperfezione, fonte di paura, è malattia, viltà, dubbio, vanità, tristezza.

Ma si può ridurre la coscienza a una "crisi"? La coscienza è sostanza o strumento? F. Nietzsche scriveva "Ciò che noi chiamiamo "coscienza" e "spirito" è solo

un mezzo e strumento, con "cui" non un soggetto, ma una lotta vuole conservarsi" (Frammenti postumi).

Un problema forte è se la coscienza sia uno strumento (strumento di chi o

di che cosa?). O se invece non sia una sostanza e l'uomo, il corpo, il resto delle

dimensioni umane ne siano il suo strumento. Ho ripercorso la trasformazione del concetto, nell'ambito teologico e

morale, da "parte più intima dell'anima" a "strumento di valutazione e decisione".

Si deve concludere che questa oscillazione è radicale nella nostra cultura, a

differenza di altre, per esempio quella orientale (buddismo, induismo), nelle quali la coscienza coincide in ultima analisi con il divino, il Brahman, e tende a

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raggiungerlo, ad annullarcisi, terminando il ciclo delle reincarnazioni, o quelle animistiche dove l'"io" è asservito agli spiriti o al grande Spirito e ne sta a contatto fino a coincidere con esso (sciamanesimo).

L'oscillazione della concezione di coscienza tra sostanza interiore e

strumento morale tipica della cultura occidentale si fonda sulle origini da una parte ebraiche e cristiane, del giudaismo e del pensiero mistico dall'alto medioevo fino all'illuminismo, dall'altro sulla filosofia greca, l'aristotelismo, il moralismo platonico, gnostico, il naturalismo rinascimentale, fino all'illuminismo stesso, il positivismo dell''800 e lo scientismo dell'ultimo dopoguerra.

Come si uscirà da questa oscillazione? Se ne può uscire? Non si può

rinunciare alle proprie radici. Io credo che si possa sviluppare una ricerca non incoerente con i

presupposti culturali anzidetti, facendo interagire tutti gli elementi, dalle neuroscienze, alla istanza metafisica, dalla filosofia alla riflessione etica.

Bisogna chiedersi prima "cos'è la coscienza" o prima "come funziona"? Per sapere "che cos'è" la coscienza è necessario capire con completezza

"come funziona". Questa è la posizione di Dennett, per esempio. La sua posizione è rischiosa perché getta la ricerca nel rischio di rimanere invischiata nel meccanicismo materialistico e naturalistico.

Forse sarebbe meglio dire prima "che cos'è" e poi lasciar guidare la ricerca

sul "come funziona" dalle neuroscienze e dalle discipline cognitiviste. Avere cioè un paradigma di riferimento che è auspicabile e possibile vista la ricchissima tradizione di riflessione filosofica, religiosa e spirituale sulla coscienza.

Anche in questo caso si rischia di cadere in un tranello, quello della

metafisica ovvero del dualismo. Nasce prima il linguaggio o prima la coscienza? Nasce prima la coscienza e poi il linguaggio? O prima il linguaggio e poi la

coscienza? Gli studi sulle aree cerebrali coinvolte nell’apprendimento delle lingue da

parte di soggetti bilingui danno informazioni molto utili, non solo su come migliorare l’efficacia dell’apprendimento, ma anche sulla struttura del cervello, sul suo funzionamento e quindi sul funzionamento della mente. "È noto che

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nell'uomo alcune parti del lobo temporale (area di Wernicke) e frontale (area di Broca) dell'emisfero sinistro rivestono fondamentale importanza per la comprensione e la produzione del linguaggio. Va tuttavia precisato che il linguaggio - che è una funzione cognitiva tra le più complesse - non è legato a una singola struttura, ma si basa sull'integrità di una complessa rete nervosa con importanti nodi cortico-sottocorticali.

L'emisfero di destra, per esempio, è molto importante per gli aspetti

emozionali e pragmatici del linguaggio, e forse anche per alcuni aspetti squisitamente linguistici delle lingue apprese successivamente alla lingua madre.

Per chi studia le basi neurali dei bilinguismo è fondamentale conoscere se

la rappresentazione della lingua madre avviene tramite vie e processi che differiscono da quelli usati per la rappresentazione della seconda o di eventuali altre lingue.

Informazioni rilevanti a questo proposito sono state fornite dalla tecnica di

microstimolazione diretta del parenchima cerebrale nel corso di interventi neurochirurgici in cui l'apertura del cranio viene effettuata in anestesia locale" [Aglioti – Fabbro, 1999, p. 56]

Il mio linguaggio non è lo stesso del linguaggio degli altri (infatti si impara

con ritmi diversi, si pronunciano suoni e parole in modo diverso, con significati diversi, con associazioni emotive diverse (si pensi alla complessità dei problemi che hanno da affrontare e risolvere i programmatori di elaboratori vocali, considerate le sfumature nella dizione che differenziano ogni individuo).

Eppure si può anche dire che ci sono caratteristiche comuni. L'apparato

fonatorio è simile (anche se sono diverse le corde vocali in ciascun individuo). Io penso, sulla linea di alcuni autori che ho citato nel capitolo X (tra gli altri

Vester), che, ribadendo la modalità dello sviluppo della coscienza nell'infante nel primo anno di vita e solo successivamente del linguaggio (tra il primo e il secondo anno di vita), che la coscienza è appunto la prima a sorgere, sulla base del linguaggio di "altri" esseri umani. Solo dopo sorge l'abilità del linguaggio.

Quale è il linguaggio della mente? E il linguaggio della coscienza? Si è creduto negli anni '70 che la mente funzionasse con un linguaggio

simile a quello dei computer, il bit (cioè 1 o 0, circuito acceso o spento), ma si è presto capito che questo linguaggio non permette di comprendere la mente. Tuttavia oggi la corrente dei computazionisti (quelli che credono di poter

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spiegare il funzionamento del cervello e della mente utilizzando il paragone di hardware e software) è ancora in vita.

D'altronde anche la teoria che ogni idea abbia una localizzazione cerebrale,

e quindi le associaizioni d'idee non sarebbero altro che contatti tra aree diverse, è debole o falsa, perché ogni stimolo o attività cerebrale impegna sempre numerose parti del cervello in un'attività d'insieme, associativa.

Molta importanza - come mostrerò anche in seguito - si è attribuita al

linguaggio nell'origine della coscienza e nella possibilità di comprenderne la natura e il funzionamento.

Ma quello che ci manca è la conoscenza del "linguaggio" che la coscienza

utilizza per il suo funzionamento. Che tipo di linguaggio è? Matematico, per associazioni, un metalinguaggio

(che utilizza altri sottolinguaggi)? Nessuno attualmente ha risposte esaurienti e convincenti. Esiste un'unica coscienza per tutti gli uomini? Tutti sentiamo con evidenza di essere l'uno diverso dagli altri. Però - come

dice Matte Blanco - la coscienza, nel suo modo di essere simmetrico, si sente unita alle altre coscienze.

Se non fossi diverso dagli altri non comunicherei: non mi accorgerei della

differenza. Se non fossi uguale agli altri non comunicherei. Ogni essere umano è diverso dagli altri, non solo per il corredo genetico, le

impronte digitali, la mappa della retina, la dentatura. Tantissimi particolari ci rendono diversi, a livello biologico e fisiologico.

Però esistono anche meccanismi uguali in ogni uomo: il metabolismo, la

produzione di calore, il movimento, la riproduzione. Caratteristiche che ci accomunano agli altri animali e ci distinguono dagli esseri cosiddetti "inanimati".

Ora, tutti gli uomini hanno meccanismi fisiologici simili ma sono tutti

diversi. Anche per la dimensione psichica e mentale esistono caratteristiche simili?

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O la differenza del campo di indagine, dal fisico e biologico a quello psichico rende impossibile questo confronto?

La psicoterapia si basa proprio su questo paradosso: che si è uguali, quindi

ci si può capire, identificarsi, fino nelle dimensioni più "antiche" di noi e profonde, le emozioni; ma siamo anche diversi. Sulla somma di queste considerazioni si può fondare la possibilità della guarigione.

In che cosa sono diverse le coscienze? Le coscienze sono tutte - e completamente - diverse o invece uguali in

alcune parti? Quali sarebbero le dimensioni della coscienza comuni a tutti? Quali sono le caratteristiche della coscienza che appartengono solo a me? Io posso, al massimo, cercare di conoscere la mia coscienza, ascoltando,

attraverso l'uso dell'analogia e delle metafore, cosa gli altri sanno della loro coscienza.

Le differenze tra gli uomini e tra le cose dipendono dal range che intendo

usare nella misurazione. Dal punto di vista di una galassia, gli uomini sono tutti uguali, sono nullità. Dal punto di vista di un microbo, gli uomini sono tutti uguali, ne basta uno ed è tutto ciò che gli serve per sopravvivere, se l'uomo non ingerisce antibiotici.

Ma se usiamo il punto di vista umano, che ha la pretesa di sintetizzare tutti

i punti di vista, diciamo che ogni cosa è diversa e con la scienza schematizziamo, astraiamo, economizziamo la riflessione per trarre conseguenze e modificare ulteriormente noi stessi e il mondo.

Risolvere questo problema potrebbe spiegare anche perché si può

comunicare e capirsi tra uomini. Agostino d'Ippona aveva risolto il problema del fondamento del dialogo con la presenza nella mente di ogni uomo (in una concezione ispirata al platonismo) del medesimo Gesù Cristo che è la base unificante nella comunicazione. Questa è una soluzione molto lontana dalle istanze neurofilosofiche attuali, ma testimonia da quanto lontano venga questo problema.

Un esempio familiare: la gamba che non c'è Porto un esempio personale, banale eppure significativo, sul problema della

differenza tra le coscienze che tuttavia non impedisce la comunicazione.

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Nella stanza in cui sto lavorando ci sono dei calzoni appoggiati sullo schienale di una sedia, pendono dritti e rigidi quasi per intero verso il pavimento, spiegazzati dietro il ginocchio, gonfi dove la rotula preme sulla stoffa, ripiegati dove il piede si alza per camminare, frusti e usati, rigonfi dove c'è la tasca. Hanno conservato dunque la forma delle mie gambe. Ciò mi fa credere che dentro i calzoni ci siano ancora le gambe, le mie gambe.

Invece non c'è nulla dentro quei calzoni, anzi si tratta solo di stoffa

sgualcita e logora. Ma più ci penso e più li associo alle mie gambe. Sembrano contenere attualmente le gambe. Non importa se sono le mie, non dubito di averle io attaccate al corpo ora e coperte dalla tuta. Ma mi impressiona l'abitudine di associare agli oggetti personali emozioni, funzioni e addirittura parti del nostro corpo.

Se faccio entrare mia moglie nella stanza e le chiedo di guardare i calzoni e

di dirmi cosa vede e che associazioni mentali sente di compiere, mia moglie, dopo qualche istante di sbigottimento e preoccupazione, decidendo di stare al gioco, senza sforzo dichiara di vedere dei calzoni in disordine, sgualciti e che sarebbe ora di cambiare.

"Non ti sembra che ci sia dentro la gamba?", le chiedo. "No. Sono solo

molto sgualciti". Ecco un esempio "familiare" di come le coscienze siano tutte diverse. Per me quei calzoni sono importanti, li abbiamo comprati a New York in

viaggio di nozze, li ho usati spesso, sono leggeri e sportivi, troppo leggeri all'inizio della primavera e alla fine dell'autunno, ma utili nelle mezze stagioni e d'estate. So che sono vecchi, ma in questo momento ne ho pochi altri a disposizione.

Insomma tutte sensazioni, emozioni, ricordi, che rendono quei calzoni,

appoggiati in quel modo alla sedia, come vivi, legati e me, ancora indosso alle mie gambe.

La coscienza è assoluta o relativa? È "confine" con l'assoluto? La coscienza si dà da sé, ed ha perciò attributi divini, è immortale, si

autopone; o invece è creata (e da chi?) viene dal nulla? O addirittura avrà un termine?

La coscienza è confine con dio? Con l'Assoluto? Ma esiste un assoluto? Oppure la coscienza è il "limite meta-noetico e ontologico" con il nulla?

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Posizoni differenti possono dare risposte molto differenti a queste domande.

Esiste una coscienza dell'universo? Esiste una coscienza del mondo? E del cosmo? Siamo convinti che solo chi ha un sistema nervoso può avere una

coscienza. Ma sappiamo anche (ovvero molti scienziati sostengono) che la coscienza non è solo un meccanismo biologico. Perciò come possiamo negare che l'universo abbia una coscienza?

Questo porta alla posizione - difficile da sostenere - che tutto è coscienza?

Non credo necessariamente. Perché non tutto ha il sistema nervoso, con cervello quantitativamente

esteso e qualitativamente sviluppato Coscienza del mondo in senso oggettivo, sì. Io ho coscienza del mio mondo

interiore Quando "nasce" la coscienza? Esiste un momento in cui la coscienza nasce? E la nascita è una metafora appropriata per spiegarne l'origine? La coscienza è il primo stato mentale naturale che nasce nell'uomo, entro il

primo anno di vita, come è stato teorizzato ampiamente. Ma non è uno dei tanti stati mentali naturali. Essa ha uno statuto unico. L'uomo nasce molte volte. Simone Weil ha scritto: "la nascita dell'uomo

dura tutta la vita". Altri stati mentali, che riteniamo molto importanti, in realtà vengono in

seguito. Si nasce padri solo quando si ha un figlio e dopo alcuni mesi si scopre cos'è

l'orgoglio di un padre, l'emozione del sentirsi dire "il mio papà", il senso di colpa verso il figlio, il senso di inadeguatezza nell'educazione ecc. Prima non si poteva capire, immaginare al massimo, ma solo razionalmente. Ora, invece, nati come padri, lo viviamo.

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E così solo quando si è vicini alla morte, davvero, si prova il brivido della vita. Si ha piena coscienza della vita.

Solo quando ci si innamora si capisce il senso della comunità, del sociale,

della famiglia. L'educazione, a volte, rende gli uomini orribili. Ciò capita in sobborghi

violenti o in culture totalitarie, dove i ragazzi sono educati nell'odio, nel rancore, nella violenza totale. Si pensi a come avveniva l'educazione di certi indiani d'America, gli Chochones a cui le madri rifiutavano il latte per lunghi periodi, così da renderli più frustrati e aggressivi. Eppure può capitare a tali persone, per qualche circostanza, di capire che c'è una strada diversa dalla sopraffazione, magari si sono innamorati o sono stati salvati da qualcuno o hanno imparato che si può fidarsi.

Lì può dirsi che è nata una coscienza, che c'era già prima, ma bloccata allo

stadio embrionale e tenuta artificialmente nel liquido amniotico perché non desiderata dall'ambiente in cui doveva nascere e di conseguenza neanche da chi la possedeva. La coscienza come un figlio indesiderato, temuto, ma che poi porta gioia, porta vita a chi decide di partorirla…

Esiste prima la materia o prima la coscienza? Se la coscienza "nasce", allora viene prima la materia? È una domanda mal posta, perché si può benissimo immaginare cha la

coscienza, essendo uno stato costitutivo dell'uomo è in potenza nell'uomo fin dall'inizio o, meglio, "nasce" con l'uomo, perché l'uomo si compie come uomo solo dopo alcuni mesi dalla nascita, perché si relaziona con altri esseri umani, con i quali ha relazioni intime, manipola l'ambiente, sceglie, interagisce.

Ma anche prima era "uomo", anche se qualcuno ancora direbbe che, prima

dello sviluppo neuronale (il quattordicesimo giorno?, i primi mesi?, dopo la nascita?) era solo "materia", qualcosa di più di una scimmia e qualcosa di meno di un uomo.

Dagli studi "neuroevolutivi" si ricava che prima esiste la "materia" e poi la

"coscienza". Ma questa affermazione porta al dualismo materia - mente, che invece

deve essere superato, pena la non soluzione del problema della coscienza. Nei primi mesi di vita del feto e poi del neonato si sviluppano moltissime

connessioni (cfr gli studi di Rose e tanti altri). Perciò la "nascita" della coscienza è legata al diffondersi delle connessioni neuronali. La coscienza

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nasce con lo sviluppo rapidissimo delle connessioni neuronali e la loro ramificazione nei primi mesi di vita del bambino.

Ma se nasce significa che dipende solo dalla materia, dalla componente

neurobiologica? C'era già prima senza dipendere così strettamente dalla biologia neuronale

o invece si è sviluppata ex novo? Viene dal nulla? O invece è solo una qualità nuova del cervello?

Io penso che la sua "formazione" dopo alcuni mesi dal parto del bambino, è

un cambiamento talmente speciale da non somigliare a nessun altro cambiamento, né alla nascita né all'apprendimento del linguaggio o alla pubertà, alla menopausa, a un'amputazione o ad altri stati che ho ricordato più sopra.

Una coscienza nei bambini anencefali? I casi dei bambini anencefali (nati con assenza parziale o quasi totale del

cervello), una di quelle situazioni di confine che mettono in difficoltà la scienza e l'etica, farebbero pensare alla possibilità di esseri-umani-non-umani, privi cioè delle caratteristiche fondamentali dell'essere uomini, la funzionalità corticale. Come se il bambino prima di nascere fosse un non-uomo, un quasi-animale o un vero e proprio animale (le discussioni etiche sull'aborto non si estinguono mai)

Eppure è la constatazione che i bambini anencefali non sopravvivono mai

(per più di qualche giorno) che rilancia la discussione. Se, al contrario sopravvivessero, si potrebbe considerare la possibilità di esistenze quasi-umane (senza ricorrere agli zombi o a computer pensanti, come fanno i neurofilosofi).

Bisognerebbe dire non che prima dello sviluppo della coscienza i bambini

non sono uomini, ma che sono solo bambini , una verità che pare scontata e non significativa, e che invece dovrebbe essere il necessario tentativo di rendere conto del salto di qualità della vita umana, che nasce priva di coscienza eppure dotata, per universale ammissione, di qualità umane, e solo in seguito vede svilupparsi la coscienza.

E dovrebbe valere la tesi secondo cui non esiste alcun uomo senza

coscienza.

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Altri casi interessanti sono quelli di bambini che già molto presto (6, 8 anni) dimostrano una maturità religiosa talmente avanzata da essere poi riconosciuti come santi (non solo i casi dei bambini martirizzati, ma anche quello di Maria Goretti che aveva 12 anni, Domenico Savio che ne aveva 15, sant'Agnese 12 o 13 anni e altri ).

In essi ovviamente la coscienza è ben sviluppata, soprattutto quella morale

e quella che potremmo definire dell'"astrazione", o "trascendente". Esperimenti per l'indagine sulla coscienza Sarebbe interessante se non fosse immorale fare degli esperimenti su un

bambino Se isolassimo un bambino impedendogli di ricevere percezioni o stimoli

esterni di qualsiasi tipo (ma forse bisognerebbe impedirli proprio tutti altrimenti qualcosa succede lo stesso...) si svilupperebbe la coscienza?

È una variante dell'ipotesi del "cervello sospeso" tanto cara a filosofi e

neurologi e altrettanto impraticabile, ma per motivi etici, invece che per l'inadeguatezza tecnologica che non consente ancora il mantenimento in vita di un cervello separato dal corpo.

Il rispetto della coscienza personale nei bambini, che non dubitiamo esista,

non ci conscnte di fare esperimenti sui bambini per scoprire cos'è la coscienza. Come si può uscire da questo circolo vizioso (ma che per altri aspetti

sembra pienamente morale)? Che rapporto c'è tra la coscienza e l'intelletto? E tra la coscienza e la

sensibilità? Un problema su cui tutti gli studiosi dicono la loro (soprattuto i cognitivisti)

- eppure non è mai definitivo quel che dicono - è il rapporto tra coscienza e intelletto. In tante ricerche sulla coscienza questo aspetto sembra secondario e scontato. Ma il fatto che nessuna teoria abbia esaurito l'indagine sulla coscienza toglie definitività anche alle soluzioni di questo problema.

Qualcosa di simile accade con il rapporto tra coscienza e sensibilità. Questo

tema piace molto agli piscologi. Ed è chiaro perché tutti i ricercatori trattino di essi: perché sensibilità e

intelletto sono i due ceppi della conoscenza umana.

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La coscienza è razionale o irrazionale? Un problema invece che trovo poco affrontato (se non in Matte Blanco) è se

la coscienza sia razionale o invece non-razionale. Cercherò di mostrare nel prossimo capitolo in che senso si possa affermare

che essa sia in parte razionale e in parte non-razionale. La coscienza unitaria o molteplice? Possiamo chiederci se la coscienza risenta delle trasformazioni della

persona nel tempo. L'identità di una persona è legata strettissimamente alla sua coscienza. Si

potrebbe dire che la coscienza è l'identità di una persona. Ma la coscienza/identità rimane sempre uguale o cambia nella vita? Proprio la coscienza potrebbe essere la dimensione, il luogo dove

(incomprensibilmente per noi) si realizza la continuità e unità della persona e contemporaneamente la sua molteplicità, pluralità, divenire.

XII Una riflessione personale: la coscienza come "origine" e "unità" dell'essere

umano Ritengo di fondamentale importanza il concetto di coscienza nella filosofia,

nella scienza e nella vita. "Nell'interrogare la coscienza come tale, e dunque nell'interrogarsi, c'è

qualcosa che dà le vertigini al pensiero. Eppure non sembrerebbe esserci niente di più ragionevole e di più saggio di questo gesto" [Desideri, 1998, p. 17].

La mia posizione è che la coscienza sia il punto di verità e di unità per

l'uomo, sorgente di ogni aspetto dell'uomo, punto di nascita antropologico: in

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una parola origine dell'uomo. È proprio su questa dimensione della coscienza che insisterò in questo capitolo.

Fine del "percorso di indagine" Internet ha cambiato il modo di fare ricerche e lavori umanistici: la rete

virtuale è un'immensa biblioteca, è un dizionario sterminato, un'enciclopedia multimediale completa.

È una "biblioteca" dove si trova non solo titoli, recensioni e articoli, ma

intere ricerche già confezionate, opere complete, analisi specialistiche minuziose.

Dunque non ha più senso elaborare raccolte con pretesa di completezza su

di un certo argomento (se non per pubblicarle in rete). E non è il mio intento - per quanto sia inevitabile la tentazione, quando si affronta la ricerca su un tema, di accedere a tutte le informazioni bibliografiche possibili, per "possedere" la materia.

Quel che serve oggi è elaborare un "percorso di indagine". È quello che ho tentato di fare in questa dissertazione. E mi sono spostato

progressivamente verso una nuova dimensione di indagine: una riflessione del tutto personale sul tema che mi sono posto, la coscienza. Questa è la parte più personale della ricerca, la più intima, e la più difficile - una sfida - perché tra il dire una cosa personale e dirne una stupida il tratto è assai breve.

La sfida nasce dalla passione per il concetto di coscienza che mi anima da

tempo, si nutre del percorso di indagine che ho fatto tra così tanti e diversi riferimenti, di cui ho dato conto, e mira a costruire un "pensiero" sulla coscienza, se non una teoria.

Esiste uno spazio per una risposta personale proprio perché tanti problemi

legati alla coscienza (citati nel capitolo precedente) sono ancora insoluti. Uno dei rischi che non voglio correre è di assumere un tono simile a quello

degli esoteristi, dei guru, dei fondamentalisti, che sembrano possedere tutta la verità sulla coscienza, sull'universo e su tutto il resto…

Per essere più consapevole di questo tranello e non caderci mi sono

soffermato sull'esoterismo, l'occultismo e il paranormale in un capitolo specifico (il V) esaminando come viene considerato il concetto di coscienza. A me non interessa quello sfondo spiritistico, olistico, cosmico, magico, se non per qualche spunto che da quel mondo può derivare per accidens e per il fatto

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che dimostra l'interesse che c'è oggi intorno alla coscienza e l'attualità del tema.

Per motivi simili ho esaminato delle "discutibili" teorizzazioni della

coscienza, nel capitolo IX. Ed è stato per il motivo contrario - per trarre spunti e illuminazione - che ho indagato alcune teorie contemporanee (seconda parte della dissertazione) e tante ricerche neurologiche e neurofilosofiche.

Ma nessuna delle analisi neurbiologiche e filosofiche o spirituali mi è

sembrata del tutto convincente, esaustiva e in grado di dar conto dei problemi posti dalla vivacità e complessità che il tema della coscienza riveste oggi. Né quelle degli ormai classici ricercatori e neuroscienziati come Eccles, Searle, Edelman, né quelle dei più giovani Chandler, Dennett o Di Francesco (per citarne alcuni).

Sono molte le posizioni (filosofiche ed epistemologiche) in cui non mi

riconosco e da cui vorrei stare lontano (salvo caderci inconsapevolmente). Li cito più avanti (si veda la sezione "Prospettive di riferimento").

Noi siamo "nani sulle spalle di un gigante" e dunque è ben difficile non

essere condizionati da quanto detto nel passato. Eppure è impossibile venire a capo di una teoria completa sulla coscienza

se non verifichiamo tutte le teorie e le impostazioni epistemologiche di nuovo e alla luce delle ultime innovazioni tecnologiche nel campo dell'indagine neurofisiologica, che hanno assunto un ritmo di perfezionamento rapidissimo e sono in grado di raccogliere un'immensa mole di dati da analizzare e rielaborare in nuove teorie.

Illuminare il fondamento assoluto dell'uomo nella coscienza potrebbe

essere forse un retaggio illuministico, una pretesa di certezza che è irreale e impossibile da sempre e per sempre. Ma in realtà tale ricerca per me è una esigenza personale di individuare certezze, punti fermi.

É forse questa un'esigenza per soddisfare il super-io fatto ingigantire da

un'educazione troppo rigida? Anche se fosse, non riguarda la ricerca. Ciò non influisce metodologicamente, se rispetta il metodo filosofico della ricerca.

Si deve cercare ugualmente, perché è buona cosa che con la ricerca si

possa soddisfare quelle esigenze super-egoiche o addirittura circoscriverle e dominarle.

237

Piuttosto: è giusto che una esigenza personale di certezza promuova una ricerca che deve essere oggettiva? Ciò non è filosofico, ma è sempre stato così per i filosofi e per tutti: la vita personale condiziona le teorie.

Per una "neurospiritualità" Inoltre, nel panorama odierno della scienza della mente, mi pare che

manchi una seria "neurospiritualità", con riferimento a una "neuroteologia", un ascolto "forte" della spiritualità nella neurofilosofia. Sento che può sembrare fantascienza, fantaspiritualità. Ma sono sicuro che fra cento anni sembrerà scontato.

Io credo - lo ribadisco per l'ennesima volta - che l'indagine sulla mente sia

il nuovo paradigma di tutte le scienze e in tutte le discipline, compresa la teologia e la spiritualità.

Io non sono in grado di fare questa sintesi, tra le neuroscienze e la

riflessione spirituale; ma almeno posso mettere l'accento su un aspetto, quello dell'"origine unificante" della coscienza, ciò che può favorire l'incontro tra neuroscienze, filosofia e spiritualità.

Nella recentissima enciclica Fides e ratio di Giovanni Paolo II, troviamo un

invito a far dialogare tra loro scienza e riflessione umanistica. E il professor Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia Accademia delle

scienze e ordinario di Fisica delle particelle all'università La Sapienza ha dichiarato al convegno "Scienza e conoscenza: verso quale razionalità?" (Bologna, 5-8 settembre 2000, in occasione del giubileo dei docenti universitari): "Dobbiamo tornare a una cultura non più divisa in compartimenti stagni. Un incontro a tre, teologia-filosofia-scienza, è quanto mai urgente, visto che il mercato e la tecnologia stanno trasformando profondamente la vita umana" .

I filosofi hanno indagato la coscienza attratti soprattutto dal suo aspetto

cognitivo, che oggi è assolutamente predominante (si studia più la consciousness che la conscience). Ciò è avvenuto in particolare negli ultimi tre secoli, passando dall'idealismo al cognitivismo materialista, attraverso tante correnti (dal positivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo fino al nichilismo).

Più anticamente si privilegiava un punto di visto metafisico, dove la

coscienza non era ancora il centro dell'uomo, dimensione degnissima da indagare per identificare l'uomo, ma specchio di Altro ben superiore, oppure era solo strumento, caratteristica della creaturalità dell'uomo.

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Ma studiando la coscienza si conosce se stessi, la coscienza è unione tra il mondo e l'interiorità dell'uomo.

A queste impostazioni parziali vorrei reagire, tendendo a una concezione

sintetica e unitaria. E credo che il concetto di coscienza come "origine" lo permetta.

PROSPETTIVE DI RIFERIMENTO Prima di ampliare la mia teoria sulla coscienza, riaffermo alcuni presupposti

e prospettive di riferimento. Io voglio: recuperare il concetto di Dio, ma evitando il dogmatismo, il

tradizionalismo, l’assolutismo; eppure mantenere l'eredità cristiana, quella cattolica, ma non

necessariamente solo quella; l'ottica cristiana, che assumo, è quella secondo la quale lo "spirituale" ha sempre il primato;

evitare di cadere nella metafisica intesa come pretesa di spiegazione della

realtà attraverso categorie meta-materiali, o nel neotomismo, ancora in auge, che trovo inadeguati a rendere la complessità dei risultati ottenuti fino ad oggi dalle ricerche di così tante discipline che si trovano implicate e coinvolte nello studio della coscienza.

evitare tutte le correnti filosofiche non più adeguate come una neo-

metafisica, l'idealismo e il solipsismo, il dualismo, il materialismo, il positivismo e lo scientismo, il riduzionismo, il meccanicismo, il computazionismo, il determinismo, così come anche lo scetticismo, il relativismo, il puro comportamentismo e tutte le teorie unitarie e "totalitarie" che cercano di spiegare tutto l'universo mondo .

La riflessione sulla coscienza e la ricerca della scienza della mente

suggellano a mio giudizio la crisi di gran parte del pensiero filosofico, della metafisica (nel senso anzidetto) in primis, dell'idealismo, dei pensieri forti e anche di quelli deboli.

Voglio adottare il pensiero debole, non fino al nichilismo che facilmente

porta con sé , ma come metodo di indagine. Il pensiero debole è l'ultimo

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grande figlio della "vecchia filosofia". Ma proprio il pensiero debole è quello che ha meglio diagnosticato la morte della vecchia scienza e della vecchia filosofia, senza però saper fornire una epistemologia alternativa in grado di sostenere filosoficamente l'avanzare delle nuove ricerche tecnologiche.

Voglio verificare tutto ciò che dico alla luce delle neuroscienze, perché le

scoperte sul funzionamento della mente, non solo hanno rinnovato la scienza, la tecnologia, e la filosofia, ma anche la teologia, la morale.

Oggi le teorie della mente hanno poco valore, se non hanno fatto i conti

con la neurobiologia. Le nuove discipline che hanno saputo fare i conti con la biologia (quali la neuropsicologia, neuropsichiatria, neurofilosofia, neurosociologia, ecc.) evidenziano con chiarezza la cesura tra ogni indagine avvenuta nel passato e quanto si sta scoprendo oggi.

Secondo il filosofo Enrico Berti "oggi il filosofo non può più studiare solo la

storia della filosofia e le più recenti pubblicazioni filosofiche. Deve essere aggiornato anche sui progressi delle scienze, particolarmente quelle che hanno a che fare con la mente. Ed è uno sforzo quasi insostenibile, data l’accelerazione delle scoperte scientifiche" [Letture sulla persona, Centro Maritain di Treviso, 1999].

Dunque per indagare la coscienza è necessario che i filosofi imparino il

linguaggio della biologia. Vorrei usare come strumento di indagine principale l'esperienza: se un

fatto, un fenomeno non si riscontra nell'esperienza è inutile per la mia indagine.

Ecco il mio "rasoio di Ockham". Alcuni "postulati" Quello che presento qui di seguito non ha la pretesa di essere una teoria

della coscienza. Qui riporto innanzitutto alcune tesi che, a mio giudizio, si evincono da una

ricerca bibliografica sulla scienza della mente e paiono largamente condivise. * La coscienza ha una base biologica, ma anche una dimensione

"metabiologica". Questo è il principale problema, il problema del rapporto mente-corpo. La

difficoltà sta nel metodo di indagine attuale che è efficacissimo dal punto di

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vista quantitativo e biologico, ma debole dal punto di vista qualitativo, ontologico.

* La coscienza è in tutti gli uomini. non possono esserci due categorie

diverse di esseri umani, quelli con la coscienza e quelli senza. Se è così, molti ragionamenti non hanno bisogno di altra dimostrazione che

l'esperienza universale di ogni uomo (al di là di ogni ipse dixit). Ma quale concetto di coscienza hanno le altre civiltà, per esempio gli

aborigeni, i non "occidentali evoluti"? Sarebbe interessante indagarlo. * La coscienza accomuna tutti gli uomini, appunto in quanto distinti dal

resto del creato. Su questo punto si è realizzato un grande percorso: il dialogo, la

consocenza reciproca, la psicologia hanno investigato assi, come anche le filosofie e le religioni.

* La coscienza distingue l’uomo dall’animale e dagli altri esseri del creato. Problema: non si saprà che cos’è la coscienza finché non si sarà chiarito del

tutto la differenza tra uomini e animali (genoma, neurobiologia, etologia, ecc.) sia da un punto di vista biologico, sia metabiologico

* La coscienza distingue ogni uomo da ogni altro uomo. Problema: come fa la coscienza a unire e distinguere contemporaneamente

e in così tanti modi? Non si conoscerà la coscienza finché non si saranno chiarite completamente - vedi sopra - le differenze tra uomini e tra uomini e animali.

Non tenderò io, e forse tanti altri, a considerare la coscienza come qualcosa

di assoluto, un Dio nell’uomo o qualcosa del genere? * La coscienza non esiste alla nascita dell’uomo; si forma nei primi anni di

vita (tra il primo e il secondo). problema: come è possibile ciò? Come avviene? È certamente dovuto alla proliferazione dei neuroni e dei collegamenti tra

neuroni. Ma anche negli animali avvengono questi processi. Che cosa c’è di diverso nell’uomo?

* La coscienza ha a che fare con importanti dimensioni e argomenti: le

idee, la mente, il cervello, la conoscenza, la società, il senso religioso, la personalità, la memoria, la volontà, lo sviluppo, la storia individuale, la cultura, la morale, l’educazione

241

* La coscienza è un tema difficile, perché riguarda biologia e metafisica. È

delicato, decisivo, perché esige il metodo di indagine scientifico, per quanto riguarda il terreno biologico, ma anche la riflessione filosofica e umanistica per quel che riguarda l’aspetto metabiologico.

* Proprio per questo è un tema molto attuale. Dopo una parentesi

positivista –ateista tra seconda metà dell'‘800 e prima metà del ‘900, oggi c’è di nuovo sensibilità per l’incontro tra scienza e filosofia e religione.

* Attualmente non esiste una teoria sostenibile, chiara, adeguata, completa

della coscienza. Non è possibile formularla e difendersi dalla obiezioni che gli sarebbero

mosse. * I paradigmi della ricerca scientifica impediscono la formulazione di una

teoria accettabile sulla coscienza. * Qualcuno in verità tenta di formulare teorie, ma viene facilmente criticato

o si espone al ridicolo (vedi il capitolo IX). * La neurofilosofia lungi dal poter formulare teorie, per ora si occupa solo

dei problermi metodologici, potrebbe definirsi più propriamente neuroepistemologia. Vedi Churchland che si limita a criticare le teorie o discutere sulla probabilità di alcune ipotesi (per esempio la seguente: "è credibile che si giunga a una Intelligenza Artificiale autonoma?").

* La coscienza ha un valore "totale-diffusivo" nella vita dell’uomo: sociale,

relazionale, affettivo, ma anche morale, di autoperfezionamento, autotrascendimento, autocompimento, è origine della cultura, memoria, emozione e dell’amore, dell’arte ("Grazie Dio per avermi dato una buona musica!" dice Salieri in "Amadeus" di M. Forman; come dire che si crea perché è Dio a lasciarlo fare, a spingere l'uomo, a farlo creare - e ciò attraverso la coscienza).

La coscienza è un "luogo" perché non è un potere, non è assoluta; è

piuttosto uno strumento, ma è più di uno strumento, una voce, ma è perfettibile, eppure null’altro è così profondo, importante, lontano, vero in noi.

* La coscienza influenza tutte le attività dell’uomo, quelle consce, ma

anche quelle inconsce, creatrici, affettive ecc. Detto questo, specifico che a me interessa poco che cos'è la coscienza, di

ciò si occupa la filosofia; dove risieda nel cervello, di ciò si occupa la neuroscienza; come condizioni il comportamento dell'uomo, di ciò si occupa la psicologia; se sia "impeccabile", di ciò si occupa la teologia morale; da dove abbia avuto origine, né come si manifesti.

242

Piuttosto vorrei dimostrare che è l'"origine" dell'uomo, che è l'unità

(meglio, l'universo originario) da cui l'uomo ha attinto fin dall'inizio e attinge ancora continuamente.

LA COSCIENZA COME "ORIGINE" DELL'UOMO Per capire cosa sia la coscienza è fondamentale analizzare (lo abbiamo

visto) la sua formazione, la sua "nascita" nella persona, quello che potremmo chiamare la sua "genesi".

È importante chiedersi quando essa ha avuto origine (e l'ha avuta da Dio?). Per questo ho inserito nella terza parte della dissertazione il capitolo sugli

studi neurologici e psicologici sullo sviluppo della coscienza nell'infanzia. Ed è molto significativa anche l'evoluzione - precedentemente ricordata -

del concetto di coscienza dalla sineidesis greca alla sinteresis, alla conscientia della scolastica, con l'oscillazione tra l'essere considerata dimensione "la più profonda" dell'anima o solo strumento di decisione morale.

Questo sviluppo è parallelo a quanto accade nella persona e dunque è

significativo e da analizzare nell'indagine sulla natura della coscienza. Sento il rischio, in questa teorizzazione, di navigare alla cieca, verso

orizzonti che rischiano di essere immaginari. Però sento anche la necessità di cercare di esprimere la enormità della dimensione radicale, interiore, "originale" del concetto di coscienza per l'uomo.

Ecco perché continuo - un po' incoscientemente - in questa riflessione... Il primato della coscienza Per decidere cosa fare, quale azione intraprendere, che conseguenze

provocare, noi uomini potremmo ascoltare aspetti molto diversi e vari della nostra umanità: ascoltare gli istinti, oppure la fantasia, seguire l'orgoglio, o l'abitudine, la memoria del passato, o la pura razionalità, il consiglio di altri o l'affetto o l'amore, oppure la coscienza.

Perché dovremmo ascoltare proprio la coscienza? Abbiamo deciso, universalmente, da sempre, che la coscienza è ciò che

vale di più in noi, perché è formata di ragione, sentimenti, fantasia, di tante dimensioni.

243

Abbiamo intuito che è la parte che vale di più in noi? Se non l'abbiamo

intuito, di certo l'abbiamo deciso. Con le parole di G. Piana: "La coscienza è il centro di unificazione della

persona; è il luogo in cui l'uomo si autoconosce e decide di sé. Essa riflette la realtà complessa dell'uomo, costituita di corpo, anima e Spirito Santo (Ireneo), ed è l'ambito da cui partire per cogliere il senso ultimo dell'agire morale. La tradizione cristiana ha sempre riconosciuto il primato della coscienza, definendola come la norma "ultima" della moralità [o penultima perché "Ultimo" è solo Dio, n.d.r.] e difendendone i diritti inderogabili, anche nel caso di errore".

La centralità è oggi recuperata a partire da un'interpretazione dell'agire

umano che fa anzitutto riferimento alla persona e alla sua ricerca di autorealizzazione.

"La decisione morale, pur nel limite dei condizionamenti biopsichici e

socioculturali, è in ultima analisi espressione della realtà più profonda dell'uomo, del "mistero" che lo connota, e ha perciò la sua sede nella coscienza. Solo attraverso l'accesso ad essa è, infatti, possibile conoscere l'agire nel suo spessore più radicalmente umano, come frutto di una progettualità complessiva che si incarna negli atti concreti della vita quotidiana.

La coscienza, in quanto espressione della realtà della persona, ha un

carattere essenzialmente relazionale; essa è, in altre parole, costitutivamente aperta agli altri, al mondo, a Dio, e si autocostruisce solo nel corretto sviluppo di questi rapporti. Così la coscienza si apre alla pienezza della verità, che essa trova inscritta nel profondo di sé, ma la cui sorgente ultima deve essere ricercata nel progetto originario di Dio" [Piana, EC, 1997, p. 191].

La moralità, la coscienza morale, aiuta la coscienza (ora in senso generale,

filosofico): perché se fai il bene ti si spalanca la "comprensione" di te, ecc.; se fai il male ti si obnubila, si razionalizza, sclerotizza, maschera.

L'etica è necessaria all'uomo (per la sua vita sociale, per non sentirsi

abbandonato solo agli istinti, ecc.), perciò anche la coscienza è necessaria. La coscienza è madre e figlia dell'uomo Mi piace la metafora della madre e del figlio. La coscienza è figlia dell'uomo

che le è padre. Ma la metafora è ambivalente: l'uomo partorisce la coscienza eppure è la

coscienza che lo fa nascere di nuovo e veramente come uomo.

244

Un po' è "madre" perché ci critica, ci guida, ci origina; un po' è "figlia" (la

educhiamo, la correggiamo), ma un po' è anche "sposa": la amiamo, ci è connaturata, conviviamo con essa per tutta la vita, cresce con noi.

Potrei definire la coscienza come origine originata originante, ricorrendo al

concetto dell'origine e dell'originatore (Dio). Originatore a mio giudizio come termine è meglio che "creatore", che ha

sapore di potenza, poco attinente alla dimensione di Amore del Dio cristiano personale. È importante come concetto per non dimenticare la natura di alterità che ci connota rispetto a Dio (noi creati dal nulla, lui preesistente dall'eternità).

Ma, sempre rimanendo nella teologia cristiana, anche la nostra anima e la

nostra coscienza hanno caratteristiche di eternità, dal momento in cui sono state create (un altro dei tanti paradossi, anche epistemologici, proposti dal cristianesimo)

Il nostro Dio ("nostro"?) è amore e genera (ma "generatore" non sarebbe

una bella definizione, e "genitore" è riduttivo), è originatore. La coscienza è voce originante e rimane tale per tutta la vita, ma essa è

anche voce dell'Origine originante, ed è anche la voce "che dà origine" a una Voce Originante, ne rende possibile il pensiero in noi, crea la possibilità dell'amore di Dio (in senso oggettivo e soggettivo). È un ragionamento analogo alla considerazione che noi contribuiamo a creare il Paradiso o il Regno, siamo con-creatori.

Risalire all'"origine" Il problema allora è se la coscienza sia l'origine dell'uomo, o se invece ne

sia originata dal suo sviluppo corticale, come per ora afferma senza difficoltà la neuropsicologia

E se la coscienza è "origine" dell'uomo, chi ha creato la coscienza? Se si è creata da sé, è divina. Ma questo è un pericoloso passo metafisico,

che l'esoterismo compie imprudentemente arrivando a un inganno pericoloso, che aliena Dio all'uomo e l'uomo a se stesso - alla fine dei conti.

Alcuni autori intendono che la coscienza abbia avuto un'origine, per

esempio Galimberti: "La tecnica, che è alla base della costruzione del mondo, di quel "mondo costruito" che è poi l'unico che l'uomo può abitare, è dunque l'origine della "coscienza", termine con cui si designa l'ec-centricità [sic, n.d.r.] dell'uomo che muove da un centro non per ritornarvi come l'animale, ma per

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allontanarsi posizionando, in quella traiettoria che siamo soliti chiamare "progresso", ulteriori centri che poi lascia alle proprie spalle per effetto di quell'agire che fa dell'uomo un essere in situazione ma, come dice Jaspers, sempre desituato" [Galimberti, 1999, p. 197].

Il punto di partenza della teoria della coscienza è di considerarla come

"unità" originante dell'uomo. Si dovrebbe dunque indagare la coscienza singola, allo stato semplice, nel feto che si sviluppa. E questo perché la coscienza viene intesa come unità originante; dunque il luogo originatore è proprio il grembo. A quando straordinari strumenti di indagine che lo permettano?

La coscienza è "origine" "originata" Io invece intendo la coscienza come origine dell'uomo e quindi origine della

tecnica stessa. Secondo Galimberti "in quanto apprende dalla reazione ottenuta, la

coscienza è memoria; in quanto organizza la motricità successiva in vista del risultato atteso, la coscienza è futuro e, muovendo dal futuro, ridefinisce l'intenzionalità motoria. Prima di essere una prerogativa dell'apparato psichico, l'intenzionalità è già iscritta anche nel più elementare atto motorio, che è comunque sempre orientato, anche quando non è nota la sua attesa anticipatrice" [Galimberti, 1999, p. 191].

Se affermiamo che la coscienza è stata creata, dobbiamo supporre una

divinità, oppure un'origine naturale. Ritengo impossibile risolvere questo problema attualmente. Mi sono

soffermato sulle origini neurologiche della coscienza nel bambino proprio per assicurare una base neurofilosofica a questo problema e, posto che le posizioni tra gli scienziati sono così diverse, sarebbe bene schierarsi, ma impossibile ottenere risposte inappellabili.

È origine che fa esistere anche l'anima e la psiche, originata da Dio che è

l'Origine per eccellenza. Questa però della derivazione da Dio è solo una conclusione alla domanda: da dove viene questa "origine" che tutti gli uomini hanno?

Se si fosse creata autonomamente avrebbe le caratteristiche della divinità.

Essa non si è creata da sola, ma ugualmente ritengo di poter pensare che sia assoluta.

Ovviamente parto dall'assunto che la coscienza non sia solo un prodotto

dell'attività cerebrale.

246

La cultura orientale ci ha insegnato che infinitamente grande (fuori di me) e infinitamente piccolo (dentro di me) sono in rapporto.

Intendo riallacciarmi alla tradizione secondo cui la coscienza è il punto

fondamentale di incontro e coincidenza tra infinitamente grande (universo) e infinitamente piccolo (le idee e l'interiorità).

Essi coincidono nel senso che tutto, dentro e fuori, ha le stesse

caratteristiche della pienezza (nel senso biblico, in particolare nel libri sapienziali), dell'atemporalità, a-spazialità: caratteristiche di eternità (ma questo concetto è insostenibile, essendo già così difficile definire il tempo).

Il mio vuol essere un "pensiero religioso" sulla coscienza, ma tale è

definizione ambigua, perché potrebbe far pensare, il che non è, a una abdicazione nei confronti della riflessione filosofica e neuroscientifica.

Che cos'è la coscienza intesa come "origine" La domanda "cos'è la coscienza?" è una domanda mal posta. Se la coscienza è "origine" come si fa a chiedere all'uomo di spiegare

l'origine? Piuttosto sarà l'origine a poter dire qualcosa sull'uomo. L'origine di me, che è la coscienza, è fatta di una materia, è di una natura

molto particolare. Io posso rivisitare il luogo in cui sono nato, posso osservare gli oggetti

della mia infanzia, posso interrogare i miei genitori, la mia balia e mio fratello, ma la mia vera origine sta dentro di me, è qualcosa di più profondo e interiore e mentale, pre-mentale, ultra-razionale.

Sta oltre tutti i ricordi che si hanno degli oggetti della vita, soprattutto

dell'inizio, prima di compiere il primo anno di età (aggiungendo poi i nove mesi del rapporto parenterale con la madre), i ricordi delle emozioni, delle azioni, delle parole.

La coscienza è la prima cosa che viene originata nell’uomo (ma non è

l’anima, né lo spirito, o se è quelle dimensioni lo è in modo nuovo, globale). Così l’uomo deriva dalla coscienza. La coscienza assume un significato molto più grande di quello morale o

neurobiologico o filosofico. Significa il fondamento di tutto l’uomo, corpo e mente, di tutte le sue attività.

247

La coscienza è l'"origine" dell’uomo, sebbene si formi dopo la nascita dell’uomo, perché è il fondamento di tutte le sue dimensioni, compresa quella biologica (che è legata al cervello in quanto organo direzionale del corpo).

Conoscere la propria coscienza significa conoscere la propria origine,

dunque andare verso il creatore. Ma non si può mai conoscere definitivamente la propria origine.

L'origine, che è la coscienza, è legata, come punto estremo, al mio essere-

dal-nulla, per rimanere alla concezione cristiana. La coscienza come origine è nulla-che-è-diventato-io. È insieme coscienza del diventare io dal nulla, ora. Adesso la coscienza è coscienza di aver avuto origine; ma c'è stato un

"prima" della coscienza, prima quando essa era "pura" origine: per questo gli attribuisco caratteristiche di assolutezza, come ho detto sopra, senza però confonderla con la divinità.

Terminata l'originazione (così sono costretto a chiamarla), che è coscienza

anch'essa, siamo esistiti io, la mia coscienza (mia come potrei dire di una madre, non di un figlio), il fatto che sono stato originato, la coscienza di originatore-creatore, creatore di uomini, di coscienze, di oggetti, di mondi, di universi interiori e materiali.

La coscienza è un fondamento, ontologico e antropologico. Non solo, ma

anche dell'universo. Dio è nell'inconscio. O almeno lì vi troviamo, agostinianamente, la "traccia" di Dio, o, jaspersianamente, una "cifra" di Dio.

La coscienza come origine è "as-soluta" dall'uomo È rischioso affermare l'assolutezza della coscienza. Io ribadisco e voglio conservare la concezione dell'alterità della coscienza

rispetto a Dio (per questo è più corretto parlare di "norma penultima" in teologia).

Però potrei dire che la coscienza ha una carattertistica di assolutezza: è

assoluta in senso non assoluto. Ovvero è ab-soluta dall'uomo, sciolta da lui, perché viene prima di lui, è la prima cosa che nasce con l'"uomo".

La coscienza, nel seno dello strumento di giudizio morale può essere

modificata, sviluppata, può evolvere, essere accresciuta, ma non eliminata. L'uomo non può più prescindere dal momento che ce l'ha.

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Però la coscienza non è ab-soluta dall'originatore. Da qualcuno è nata, è stata creata.

Se anche non fosse qualcosa d'assoluto, la coscienza rimane un fenomeno

straordinario per l'uomo: è il più caratterizzante dell'uomo, e il più misterioro e difficile da penetrare e descrivere, il più affascinante in tutti i tempi (così vicino e parallelo ai concetti di "anima" o "spirito" o "io" o "mente").

Io non posso postulare una coscienza originaria, una origine assoluta, per il

rischio che ho indicato, del panteismo. Però posso analizzare i fenomeni della coscienza con l'obiettivo di verificare se esiste e se posso indagare una Origine anteriore all'uomo nella sua interezza, cioè a tutti i fenomeni umani.

Per esempio la coscienza mi aiuta a immaginare il futuro, ma non le azioni

reali, concrete, oggettive, fattuali nel mondo, quanto il futuro dei miei stati d'animo, delle mie emozioni, della mia evoluzione interiore.

In base alle esperienze che ho vissuto precedentemente posso sapere cosa

accadrà dentro di me la prossima volta che incontrerò quella situazione. Con l'educazione i bambini imparano ad aspettarsi gli avvenimenti. Se un

bambino lascia cadere un bicchiere e riceve uno schiaffo, rimane sorpreso, sente il dolore, si ribella alla sofferenza, ma non sa ancora cos'è successo. Poi di volta in volta impara che se lascia cadere e rompe oggetti "fragili", che "sporcano per terra", non facilmente ricostruibili, "necessari", che possono ferire i piedi, riceverà uno schiaffo. Allora comincia a non essere più sorpreso di quello che accade: la punizione, il dolore. È più debole dei genitori, che anzi sono il suo modello di vita, e cerca altre strategie per farseli amici.

Questo, che è un aspetto dell'evoluzione della coscienza morale, può

dimostrare molte cose. È ben risaputo che la coscienza sia la parte più intima e di valore dell'uomo

(Lutero tra gli altri l'ha rivalutata grandemente). Ma siccome tante categorie filosofiche e teologiche sono andate

(finalmente, giustamente o purtroppo?) in crisi, ora anche la riflessione sulla coscienza va rifatta.

Di esistenza di Dio non si può parlare (dal momento che non si può

dimostrare, e che, qualsiasi cosa diciamo, rischiamo di ridurlo o mistificarlo). Perciò la cosa più "assoluta" che possiamo conoscere è la coscienza ed è

una cosa che tutti hanno e tutti possono facilissimamente e quotidianamente sperimentare!

La coscienza è l'unico assoluto che l'uomo possiede, ma che è

misteriosamente anche "altro" all'uomo.

249

Io non voglio dimostrare, perché non lo credo, che la Coscienza sia Dio, né

che l'uomo sia divino, né che sia in nessun modo "autonomo" in senso pieno. Il nucleo del messaggio cristiano sta proprio nell'abbandonarsi a Dio, così come Gesù Cristo ha fatto e insegnato a fare.

Come fa l'uomo, dunque, a dipendere da Dio ed essere allo stesso tempo

responsabile di sé? Ritengo che ciò sia possibile nell'uomo, creatura permeata da una natura complessa (anticamente si diceva "carne e spirito", ora ritengo ambigua questa espressione, per il pericolo di cadere in un irrisolvibile dualismo), proprio grazie alla coscienza che è l'aspetto più duraturo dell'uomo, eterno, è il più importante. Avere quel luogo intimo, sacro, assoluto, se mai ci può essere qualcosa di assoluto al mondo, potente, dimensione di unità interna, memoria dell'origine, assicura all'uomo la possibilità del rapporto con la divinità.

La coscienza non è un istinto primordiale, che sarebbe come divinizzare la

materia, il corpo, gli istinti, la natura. La coscienza è il nostro stesso grembo, sopravvissuto in noi, interiorizzato, fattosi adulto e che ci accompagna.

La coscienza, la sofferenza e la morte La morte è l'antitesi della coscienza? La morte è solo una situazione, una percezione, forte (ma non l'unica forte,

né la più forte), che aggiungiamo alla coscienza. Anzi, per la coscienza la morte non è nulla (come nell'inconscio la morte non è nulla, tanto che potremmo affermare che "la morte non esiste" (stando ben lontano dal senso marxista dell'affermazione) .

La coscienza è un "universo" interiore che noi possiamo riempire di piccoli

particolari, ma mai distruggere. È in noi, e fuori di noi non c'è nulla di più potente dell'universo che ci portiamo dentro, che ci illumina da dentro, che è sorgente dell'etica, dell'amore, dell'arte, della conoscenza, di tutto nell'uomo.

In questa visione la coscienza non avrebbe antitesi perché è il fondamento

di ogni azione, pensiero, modo di esistere dell'uomo. Quindi è alla base di tutti i fenomeni umani.

Ivi compresa la morte. Perché si dovrebbe dedurre (sarebbe bello poter

dedurre...) che anche dopo la morte ci sia il divenire incessante e senza fine della coscienza. Come dimostrarlo? Non è possibile farlo. Però, se per millenni all'anima è stata attribuita questa caratteristicha - l'essere creata dal nulla ed esistere da quel momento in modo imperituro - possiamo utilizzare questo

250

Kant dice che il presupposto della morale è l'eternità dell'anima; infatti che

senso avrebbe il continuo autoperfezionamento se non si ha coscienza che esso possa continuare all'infinito?

Se alla base di quella meravigliosa attività che è il pensiero non c'è

l'immortalità dell'anima, è inutile continuare a logorarsi il cervello contro la finitudine, la limitatezza terrena.

Coscienza della morte è dimensione necessaria nell'uomo, è segno di

assoluto nell'uomo. La sofferenza è una dimensione dell'uomo che ha un ruolo fondamentale

nella strutturazione della coscienza. Come anche molto la gratificazione, l'autorealizzazione.

La responsabilità dell'uomo è totale per tutto ciò che lo riguarda, salvo il

fatto di esistere, che dipende solo dalla volontà del Creatore che dal nulla ci ha tratti: per questo stesso motivo noi siamo innegabilmente a lui subordinati e da lui dipendenti.

L'uomo è responsabile e corresponsabile a Dio in ogni cosa, delle azioni che

decide, delle idee, dei desideri, degli effetti causati sugli altri, e di ogni cosa, perfino della morte.

Non c'è nulla al mondo che non sia collegabile e spiegabile con la presenza

dell'uomo e della sua coscienza, che è una lettura etica e ontologica del "principio antropico" formulato dai cosmofisici. Esattamente in modo parallelo a come si può affermare che niente è estraneo a Dio.

Fine dell'anima e il rinnovamento dei concetti Il concetto di anima è decaduto (potremmo dire nietzschianamente:

l'anima è morta), si è svuotato. L'anima è ormai solo un mito arcaico, duro a morire a causa dell'importanza che l'uomo le attribuisce in fatto di religione, di fronte alla paura dell'annichilamento personale nella morte e per il peso che ha nella vita umana la dimensione morale. Ma appunto rimane solo come concetto funzionale.

Il fenomeno moderno dell'ateismo è un segnale di ciò, ma esso ha fallito

nel tentativo di sancire "scientificamente" la morte dell'anima. Essa è scomparsa per conto suo.

E anche l'ateismo è agonizzante, oggi.

251

Il mito dell'anima deriva dal fatto che nel momento della morte si espira

profondamente (in realtà non sempre accade). Il cadavere è quanto di più inconsapevole ci sia. É senza significato. Questo "significato" può sussistere a sé e il corpo è solo supporto, bello,

utile, che perfeziona, ma non necessario Il mondo trae significato dalla coscienza intesa come consapevolezza,

significato dell'uomo, non dall'anima. Io ritengo non essenziale, anzi ambiguo attualmente conservare il concetto

di anima, mentre attribuirei alla coscienza (evidentemente non si tratta solo di un cambio di etichetta) le caratteristiche o almeno le istanze ontologiche, gnoseologiche, antropologiche che avevano portato al concetto di anima.

Ciò perché - come cerco di dimostrare con tutta questa dissertazione - il

concetto di coscienza riesce a inglobare dimensioni diverse (morale, esistenziale, neurologica, cognitiva, eccetera) rimanendo l'unico dunque e il migliore per dare un nome alla teoria che spieghi la parte più importante, più difficile, più potente dell'uomo, quella mentale. Il concetto di "spirito" è inadatto altrettanto di quello di anima; anche "mente" appare troppo parziale, non ha cioè lo spessore morale, di sapienza che ha "coscienza".

Infatti nel concetto di coscienza, per esempio, si trova in posizione centrale

la dimensione della consapevolezza. Ed Essa è proprio una delle doti che elevano così tanto l'uomo all'interno della creazione.

Coscienza e anima Dunque ritengo che il concetto di anima sia sostituibile e di fatto sostituito

da quello di coscienza. Dalla storia della medicina possiamo imparare che fino a quando non si

fanno scoperte empiriche decisive, le teorizzazioni sconfinano naturalisticamente con la superstizione o la metafisica (nel suo significato deteriore).

Per esempio si esamini la vicenda delle definizioni di morte: anticamente

intesa come cessazione del respiro, poi come cessazione del battito cardiaco, ora come cessazione totale dell’attività cerebrale; ma quest’ultima è più un protocollo (molto utile per poter decidere un espianto), che una descrizione esauriente della morte (che rimane un mistero, dal punto di vista del cambiamento psichico e personale dell'individuo).

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Coscienza è il modo nuovo, più empirico, scientifico, ma senza tradire la trascendenza, di descrivere quella dimensione dell'uomo che per millenni è stata chiamata "anima" o "spirito".

Caduta la pregnanza del concetto di anima, oggi si usa piuttosto il concetto

di mente, perfino al posto di quello di coscienza. Ma, come ho detto, a me appare più adeguato quello di coscienza. Il mio concetto di coscienza la teorizza come "luogo", "unità", "origine",

caratteristiche che aveva il concetto di "anima", compresa quella di eternità, che sussista dunque anche dopo la morte.

Ma non sono la stessa cosa i due concetti, per quanto abbiano le stesse

caratteristiche: "coscienza" mette in risalto l'esperienza universale degli uomini della luce interiore che illumina sulla verità dell'individuo, fa capire che ognuno ha un'identità a cui essere fedele e rappresenta l'anelito alla perfezione: la coscienza ci fa sognare la perfezione. Senza coscienza non "sogneremmo" (in senso filosofico) né ci evolveremmo. Rimarremmo come gli animali.

Anima è concetto diverso e troppo legato al dualismo antropologico

corpo/anima, ormai inaccettabile. Bisogna recuperare una concezione il più possibile unitaria dell'uomo.

La coscienza ha alcune caratteristiche del vecchio concetto di "anima". Si

potrebbe dire - se non si rischiasse di accettare ancora una volta l'anima - che la coscienza è la qualità dell'anima.

Il concetto di coscienza, serve a esprimere l'universo interiore perché è

legato alla "conoscenza" e alla "consapevolezza", ed è legato all'"esperienza" della verità interiore, del riferimento radicale e trascendente che abbiamo dentro di noi.

Il concetto di "coscienza" ci parla di mente, sapere, razionalità, moralità,

responsabilità; categorie molto attuali, oltre che universali. Il concetto di "anima" invece chiamerebbe in causa una oggi inaccettabile

sostanzializzazione in senso dualistico. Le categorie di spirito, creazione dal nulla, oltre-vita, non si possono avvicinare a una fondazione neuroscientifica della teoresi filosofica sulla coscienza (salvo alcuni maldestri tentativi che ho citato) se non all'interno di una teoria coscienziale, che è ancora tutta da impostare.

Coscienza, conoscenza e verità

253

Poiché la coscienza è il fondamento dell'esistenza, il punto di contatto tra assoluto e immanente, tra uomo e Dio, la conoscenza è il mestiere dell'uomo, la vocazione, la sua anima, la sua funzione. Negli scienziati, negli studiosi, negli insegnanti, negli educatori è evidente. Ma anche negli altri: si viaggia per imparare, è divertente giocare fintanto che si impara, poi meno, un lavoro stufa se non ci sono situazioni nuove da imparare ad affrontare e lo stesso vale per un rapporto d'amore; i pettegolezzi si basano sulla conoscenza dei fatti altrui, e così via.

Ma tra tutte le cose straordinarie che si conoscono, quando ci si sforza

anche minimamente di aprire gli occhi, quella che vale veramente, l'unica importante è la verità, la verità sulla vita, sulla morte, sul senso dell'esistenza dell'universo. Per i cristiani il modo per trovarla è amare e conoscere e incontrare Gesù, ed è tale la infinità della verità di Gesù che lo incontriamo in ogni aspetto della vita, e tale è la nostra libertà che possiamo negare quella verità su ogni cosa, la più adatta a noi, quella che spiega tutto, in ogni momento.

La coscienza è fondamento della verità, essa spinge alla ricerca, con i

"dilemmi" te ne fa capire l'importanza. La coscienza è verità. La coscienza è fondamento della libertà (senti che puoi decidere), e della

responsabilità (non ogni decisione è uguale), Coscienza "luogo d'incontro" con l'assoluto Che ci sia una coscienza è evidente dal punto di vista biologico. Io vorrei dimostrare che ci sia il luogo d’origine attraverso gli studi

neurobiologici, che tuttavia non vogliono prestarsi a ragionamenti al di fuori della biologia.

La coscienza ha a che fare con Dio, ma né l’una né l’altro si possono

dimostrare, eppure il loro rapporto è evidente (in una visione cristiana, come quella che io ho adottato). La coscienza non è Dio. È il luogo privilegiato dove lo si possa incontrare. La coscienza è il luogo dell’incontro.

Nel pensiero biblico, Dio ci circonda ed è ovunque. Non occorre postulare le

categorie del tempo e dello spazio (e infatti nella storia della filosofia ritroviamo risultati assurdi nel senso di una assolutizzazione di tali categorie, poi necessariamente falsificata), ma solo Dio. Questo è il pensiero biblico, testimoniato da tutti i mistici e i santi della Chiesa e che sta alla base della dottrina cattolica e delle varie Chiese cristiane.

Dio è ovunque, ma nella coscienza l'uomo lo incontra in modo più

originario, genuino, diretto, più da vicino.

254

Coscienza è il luogo in cui ci siamo "separati" da Dio e quello in cui lo

reincontreremo , per questo possiamo pensare che la coscienza non avrà fine, proprio come l'"anima" per i medioevali o il "cuore" per gli scrittori sacri .

La coscienza è eterna. È stata creata, ma è stata creata per essere eterna. Coscienza come luogo di contatto tra assoluto e materiale è un tema

fondamentale comune a tutto il pensiero filosofico moderno. Non a quello contemporaneo che abolisce l'oggettività dell'idea di Dio.

Il mio considerarlo un "luogo" è impiego di una metafora. Se non fosse così

sarebbe un complicare le cose (dove sta questo luogo? cosa c'è in quel luogo? chi può rispondere?)

A me interessa evidenziare che nell'uomo mortale e materiale esiste

l'assoluto, forse non comprensibile né dimostrabile, a rigore (ciò che lo connota come assoluto, ossia inconoscibile), ma esistente oggettivamente perché ogni uomo lo sperimenta. È un punto di vista a metà tra filosofia e antropologia.

Ma se l'uomo ha l'assoluto in sé perché non può conoscere l'assoluto? Oppure la coscienza non è un assoluto e l'uomo non ha l'assoluto in sé. Ma

allora come può credere in un assoluto, come può averne l'idea? La coscienza può essere solo una metafora che noi raccontiamo prima di

tutto a noi stessi, e che rappresentiamo a noi stessi. Ma è una bellissima metafora della creazione, del nostro essere originati,

dell’essere "figli di Dio" (altra bella metafora...). Si potrebbe intendere la coscienza come un omuncolo dentro di noi un

"altro", da alcuni detto "il vero io", che governa il corpo - come in un romanzo di fantascienza - ma dipende da lui. Ma dove sta questo "altro"? È qualcosa come il ba della religione egiziana antica? Di cosa è fatto? Chi è veramente? È quello che trovano quelli che scavano dentro di sé (ed è sempre una sorpresa)?

Io non penso la coscienza come un "omuncolo", piuttosto come un punto di

nascita antropologico dell'uomo, il fondamento ontologico e della perfezione nell'uomo.

La coscienza "voce dell'ascolto"

255

Secondo Derrida "la voce è coscienza" (La voce e il fenomeno, 1968). Desideri precisa che "la differenza [tra intramondanità e trascendentalità,

n.d.r.], introdotta originariamente dal fenomeno della voce (dalla sua irriducibile sonorità), si presenta nella forma del rimando. La voce della coscienza (anzi: quella voce che è la coscienza) rinvia così l'origine oltre di sé. In questo rinvio essa rappresenta la traccia dell'Altro nel Sé: quella traccia che lo precede come lo "spazio" della non-identità da cui sgorga ogni presenza a sé" [Desideri, 1998, p. 62].

Desideri illustra l'importanza del rapporto tra coscienza e voce - la

coscienza è voce, la voce è l'origine della coscienza - e il rapporto tra coscienza e ascolto; la coscienza si deve ascoltare, ma l'ascolto è l'origine della coscienza.

Una proposizione acquista per noi significato "soltanto quando l'ascoltiamo

o la proferiamo: soltanto, insomma, nel momento in cui viene pronunciata [...] La stessa lettura, del resto, non è un cercare di risalire dal detto al dire da cui trae origine?" [Desideri, 1998, p. 38], così per me, analizzare la propria vita, significa voler risalire alla voce che ha originato la vita, e che a sua volta è originata.

Ciò dà una vertigine per il fatto che la coscienza è origine dell'uomo, quindi

caso mai è la coscienza che deve interrogare l'uomo (ciò che avviene infatti) non l'uomo che interroghi la coscienza. Intendo che sia necessario teorizzare la coscienza oltre la strettoia dell'essere essa solo individuale (perciò sarebbe una fatto soggettivo incapace di collegare il soggetto all'assoluto) o solo universale (rischio di ipostatizzazione).

Certamente la coscienza è sempre legata all'individuo, all'essere umano,

ma devo postulare che lo trascenda. Io auspico - come preciserò alla fine del capitolo - una teorizzazione forte e

creativamente capace di uscire da questo dilemma. Se la coscienza è la voce dell'ascolto, chi ascolta? Ascolta il divino, che ci è

padre, l'originatore. Coscienza come origine originata è il luogo interiore, ma anche esteriore,

dove parliamo a Dio, dove ascoltiamo Dio, inteso come l'originatore. In questo luogo privilegiato lo incontriamo emotivamente, razionalmente,

intuitivamente, figurativamente. La coscienza è come un "orecchio interno", è l'ascolto, piuttosto che o

prima che una voce. Certamente non è un semplice strumento.

256

Ogni monologo è anche dialogo Io mi oppongo alla tesi di Desideri secondo il quale una "conseguenza che

possiamo trarre dallo Husserl delle Ricerche Logiche consiste, nel ritenere del tutto insostenibile una dimensione comunicativa volta verso l'interno: un parlare puramente a sé. In questo caso, e cioè nel caso del monologo interiore, parlare di discorso risulta affatto improprio: "In certo senso si parla indubbiamente anche nel discorso isolato, ed è certo possibile in questo caso intendere se stessi come persone che parlano ed eventualmente anche che parlano a se stesse, così come quando, rivolgendoci a noi stessi, diciamo: Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così. Ma in senso proprio, in senso comunicativo, in questi casi non si parla, non ci si comunica nulla, non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e che comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi la funzione di segnali dell'esistenza di atti psichici, perché questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante" (Husserl, Ricerche logiche, I)" [Desideri, 1998, p. 64-5].

Per me invece ogni atto comunicativo è dialogo, perché sempre c'è

qualcuno che ascolta o legge. Se non altri, noi stessi (e come sta bene la prima persona plurale per ciascuno di noi) che curiamo l'esposizione e avvertiamo il flusso del pensiero (lo stream of consciousness) e reagiamo emotivamente. Non è una comunicazione senza significato.

Siccome c'è sempre un feed-back, tutte le comunicazioni sono dialoghi.

Cambia solo il numero di ascoltatori e le reazioni che si possono suscitare. Dentro di noi, dentro la sorgente dell'atto comunicativo, dentro "l'impianto

sonoro amplificato" che siamo ci sono molte voci, molti speaker. Coscienza come centro unificatore dell'uomo Coscienza come epicentro del pensiero razionale (perciò della scienza), del

pensiero intuitivo (più profondo) e del pensiero estetico (arte, ecc. legato ai sensi, unificazione di sensi più astrazione del bello verso l'assoluto).

Centro unificatore anche del pensiero riflesso (autocoscienza) e perciò del

pensiero morale (vero vertice, più vicino di tutti all'assoluto [comunque inattingibile]).

La coscienza è il legame tra fisicità e pensiero, perché, soprattutto quella

morale, come tutti sanno, è indefinibile, perché è un insieme di sensazioni fisiche, voci interiori, riflessione, memoria, intuizione, illuminazione dall'alto.

257

Coscienza quindi come punto di contatto con l'assoluto, che non conosciamo, ma possiamo tentare di immaginare proprio perché abbiamo la coscienza. Bisogna unificare tutti se stessi per rapportarsi e ricondursi interamente alla coscienza e per poter aderire all'assoluto.

Solo in quel punto, in quel "luogo" che è la coscienza ci può essere un

contatto con l'assoluto. Per questo è la coscienza che genera la verità, la giustizia, l'umanità, ma anche la scienza, la conoscenza, l'arte, l'amore più sublime, la fede. Genera nel senso, come detto sopra, di rendere possibile nell'uomo, concreare. Anche qui non intendo rinunciare alla natura creaturale dell'uomo e subordinata a Dio.

E quando qualcosa di ciò che ho detto si genera, non è ordinato

dall'esterno dell'uomo, ma si è generato nella parte più profonda, interiore e vera di ciascun uomo ed è costituito da una tensione del relativo dell'uomo che si unisce alla luce che deriva da quel punto, da quel luogo che è la coscienza, dunque un insieme di umano e di oltre-umano.

Coscienza come "universo interiore" Definizione di coscienza: è un universo, con caratteristiche di infinità ed

eternità (ma con un inizio preciso), è talmente grande che è lei a contenere noi e a generarci e ad alimentarci, non noi che la conteniamo; ha buchi neri dentro di sé, quelli che portano alla crisi (la morte in primis) ma anche intere galassie e pianeti (in senso metaforico e non solo) e forme di vita straordinarie.

Più si conosce la coscienza e più ci si accorge della sua vastità. Se la coscienza è quello che penso io, non esistono definizioni adatte o

sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per comprenderla e tutta la mia teorizzazione è solo un tentativo di rappresentarla, ben facilmente superabile e aumentabile.

C. Biscontin ha affermato che "non si può dare una definizione di

coscienza: è uno dei limiti umani. Essa è indefinibile. Così è meglio dedicarsi ai nostri doveri, alla ricerca dei valori".

La coscienza sarebbe un organo di comunicazione tra Dio e uomo. Ma

anche solo per questo sarebbe qualcosa di straordinario. Sarebbe non "la voce di Dio" (via del panteismo che porta all'Uomo -Dio),

né un organo corporeo, né una zona della psiche. Sarebbe un coordinamento delle funzioni spirituali per far agire la morale. Con tre compiti:

- custodire l'unità e integrità dell'individuo. É una difesa dalla spaccatura

che deriva dalla differenza tra scelte e convinzioni (schizofrenia morale).

258

- garantire l'integrazione sociale dell'individuo preservandolo dalla devianza

(bene individuale = bene sociale). Quando fai qualcosa di diverso alle persone essa ti avvisa, per farti adeguare. Ma anche ti porta a non seguire in questo senso la società perversa, quando essa intera sbaglia.

- guidare l'individuo nell'integrazione nella "totalità oggettiva" (o verità,

termine pericoloso e incompleto). Ti fa sentire disagio se si va contro la totalità oggettiva.

Così però si finisce per rimanere in una concezione strumentale e si

rinuncia alla sua definizione che invece può significare farla esistere, forgiarla come fondamento dell'uomo.

La coscienza come evento centrale dell'interiorità cristiana La riflessione cristiana fornisce interessanti spunti di riflessione sulla

coscienza intesa come "origine". Nel capitolo IV ho già sottolineato il contributo di San Paolo secondo il quale la testimonianza interiore della coscienza si compie nello Spirito Santo (Rm 9,1), componente nuova del giudizio di coscienza, che esprime a livello concreto e operativo l'originalità propria della coscienza cristiana come fondamentale percezione e assunzione della salvezza compiuta in ciascuno da Cristo .

La coscienza è l'evento centrale dell'interiorità cristiana, attraverso il quale

l'intera persona si coglie come esistente in un nuovo rapporto ontologico (con Dio in Gesù Cristo) e di conseguenza intuisce e decide il nuovo ordine di valori etici che ne deriva. È il momento globale e fondamentale della coscienza come "struttura morale originaria": cuore pulsante da cui poi scaturisce ogni particolare esercizio di interiore valutazione etica [DETM, 1985, p. 170].

Io voglio sostenere - filosoficamente - che la Verità c'è nel mondo: è Cristo

che si è manifestato nella storia, che è perfetto come uomo, e come Figlio di Dio e Dio, è stato tramandato in modo esemplare dagli evangelisti e ciascuno di noi lo trova nella coscienza, che non è altro che Cristo (o una traccia magnifica di Cristo) presente in noi in ogni momento della nostra vita. Essa è l'assoluto che possediamo.

Ne consegue che si deve cercare il bene con l'amore (tutti gli uomini

cercano il bene, ciò è innegabile) che è l'assoluto in noi e che proprio l'amore è il Vero Dio assoluto. Con ciò non divinizziamo l'uomo perché in esso c'è solo una traccia.

Dunque non "cogito ergo sum", ma "io sento Cristo in me, dunque esiste

l'assoluto sulla terra" (ed è solo un simbolo dei cieli). Sento di desiderare il bene, dunque sono nell'amore, sono in Dio, Dio esiste (anche) per me.

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La coscienza e Gesù Cristo Dentro di noi il luogo di ricerca della perfezione, per tutte le "vie" che

possiamo scegliere, è la coscienza. Ma esiste anche un punto esterno a noi, esterno al nostro corpo, e sta nella

storia, che è Gesù. Egli è stato un personaggio storico, ha dato insegnamenti ed esempi, ha fatto miracoli.

Non do per scontato che fosse Dio, cosa che non si può dimostrare

razionalmente (mentre il mio studio vuole rimanere entro ambiti razionali) ma solo credere.

Però è certo che Gesù fosse un personaggio storico e che abbia

rappresentato un esempio sublime (il migliore che si possa conoscere) di umanità, e che abbia fatto anche miracoli.

Alcuni testimoniano che sia risorto e viva: da ciò deriva la speranza che la

coscienza sia la porta per l'eternità, come Gesù e la croce sono la via per la salvezza e la rinascita nell'al di là).

Quello che la coscienza è dentro di noi (via, luce, fonte di potenza, strada

per l'eternità, ecc.) nella storia e nella vita è Gesù (esempio, maestro, amico ancora vivo, ancora creduto da tante persone, ma realmente ancora operante, strada di felicità, modello di comportamento interiore, affettivo ed esteriore).

È interessante considerare il caso degli atei. L'ateo ha una dignità pari al credente, perché siamo tutti liberi di credere o

non credere, ed egli realizza una delle possibilità. Ma un ateo che creda almeno nella propria coscienza, non si può a rigore

definire ateo. Torna ad essere un credente mascherato. Chi può non credere nemmeno nella propria interiorità? È una posizione

difficile da vivere e da sostenere, certo, ma non impossibile). Cosa cerca un uomo veramente? Di cosa ha bisogno?

Se potessimo definire "definitivamente" ciò di cui ha bisogno, seppure un

concetto minimo, come l'acqua e il cibo e il sonno e un affetto, un'appartenenza, ricadremmo in una visione deterministica dell'interiorità, o una visione sistematica, neotomistica dell'antropologia teologica.

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Il bisogno di cibo non ha niente a che fare con il bisogno di trascendenza (se c'è): sono due dimensioni non commensurabili.

In tutte le religioni è importante il concetto di coscienza. La Gnosi, giudaica e cristiana, pretendeva di trovare in essa la salvezza. Al

di là degli eccessi è evidente che la coscienza, come consapevolezza e conoscenza, è strumento privilegiato di perfezione e di salvezza.

Mircea Eliade è giunto alla conclusione che la religione è una struttura della

coscienza umana e l'uomo non può non essere religioso. Coscienza, Parola di Dio e libertà Ma come la Bibbia non è "Parola" di Dio, ma "parola" di uomini che

vivevano la "Parola" di Dio, e perciò contiene la "Parola", così la coscienza non è la verità di Dio, ma un sentiero umano, e il più profondo, il più intimo, il più individuale per ciascuno, il più perentorio, nei limiti della relatività della vita umana, seguendo il quale si intravede la Verità, che sta in fondo, lontana ma chiara.

La Bibbia è l'assoluto della scrittura perché è il mettere in pratica la

coscienza in modo assoluto, da parte di Cristo, di chi ha agito come lui e di coloro che hanno scritto su Cristo e i suoi seguaci. Cristo per esempio sentiva che odiare, anche i nemici, è male. Gli evangelisti lo sentivano anche loro in coscienza (che per loro era Cristo con loro là vivo!) e l'hanno messo in pratica prima e poi l'hanno scritto ascoltando questo loro comandamento interiore (ed esteriore poiché c'era Cristo là) in modo assoluto.

Noi dobbiamo obbedire non alla Scrittura in sé, ma al modo in cui è stata

vissuta e contemporaneamente stesa. Questo è il suo assoluto; altrimenti avremmo nei confronti della scrittura lo stesso atteggiamento, per esempio, dei musulmani nei confronti del Corano.

Il conflitto, che sembra inevitabile allora, tra la nostra coscienza e la

Scrittura (che è molte coscienze assolute redatte in modo assoluto) in realtà non è un conflitto di sostanza (due assoluti) ma solo nella forma. Se Cristo è in noi, non può dirci cose diverse da quelle che ha detto e vissuto al suo tempo e che gli evangelisti hanno scritto.

E' vero che siamo sottomessi a qualcosa: alla nostra coscienza che è

l'incontro del Cristo, dentro di noi. E' strano che dobbiamo essere sottomessi a qualcosa? Niente affatto; se

veniamo dal nulla, creati solo per un Amore assoluto, è evidente che gli

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dobbiamo qualcosa: esistenzialmente dipendiamo da Lui, dalle Tre persone divine, e questa dipendenza la sentiamo con la coscienza, non altro.

La coscienza di Gesù Cristo Per tentare di comprendere un po' di più Gesù si può utilizzare qualche

cognizione sul cervello. Posto che gli uomini usino solo una parte del potenziale intellettivo, si

spiega perché dimenticano, sono poco elastici, non capiscono quasi nulla della natura, che pure contiene leggi semplici e lineari, non capiscono se stessi, sono incoerenti e cattivi.

Potremmo dire - per usare un linguaggio psicologico di oggi - che Gesù

usava tutto il suo potenziale umano, perché con perfetta ascesi era riuscito a liberarlo tutto e in più forse aveva qualcos'altro. Qualcos'altro che deriva dall'aver realizzato se stessi: il vedere il senso delle altre cose, oltre che di sé, il senso del tutto.

L'uomo di oggi che ha più tecnologia non è più intelligente, né più santo.

Non è la tecnologia che dà intelligenza, ma la santità. San Francesco è stato molto più intelligente di qualsiasi grande scienziato.

Come si fa a misurare l'intelligenza se tra l'umanità di uno stupido e quella

di un genio c'è così poca differenza? L'etologo Giorgio Celli ha dichiarato che "tra un genio come Leonardo e uno

scimpanzé, a livello di DNA, c'è una differenza di solo un due per cento". Ma quel due per cento è quello che costituisce il salto qualitativo,

contrariamente a quanto dicevano gli antichi: Natura non facit saltus. Gesù, il santo dei santi, esempio supremo, che rivela l'uomo all'uomo,

capiva tutto, vedeva tutto perché aveva raggiunto la perfetta armonia interiore e la perfetta utilizzazione di ogni sua qualità.

Paolo scrive "Ora invece Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che

sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Cor 15,20 ss).

A causa di non è da intendere in senso causale, ché appoggerebbe una

concezione mistificante del peccato originale che spiega e perdona tutti i nostri limiti, ma in senso temporale: a partire da un uomo siamo mortali, e a partire

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da un uomo (Cristo) siamo immortali se lo vogliamo, tenendo presente però che Cristo è sempre stato, generato ab eterno dal Padre.

Perciò si deve pensare a come con il dono dell'intelligenza (con tutti gli

strumenti che comporta) Gesù abbia infuso la coscienza nell'uomo (nel senso filosofico che intendo io e morale e psicologico, e platonicamente, ecc.)

Ma Cristo è il riferimento e il termine della coscienza di ogni uomo: Cristo

presente nella coscienza di ogni uomo. La coscienza è legata alla presenza continua di Cristo con noi (e dell'Angelo personale che custodisce il nostro corpo).

Una teoria filosofica L'origine di tutto il mio filosofare sulla coscienza, è certamente il

cristianesimo, ma inteso come "incontro" con Cristo. E tuttavia la mia vuole essere una ricerca filosofica.

Coscienza per me è più della coscienza morale, o del conscio. È invece la "verità ontologica" dell'uomo, il codice di comprensione, il

manuale di vita, il premio già disponibile, l'accesso al creatore, al consolatore, al salvatore, la fusione di ogni potenza umana (conoscitrice, amatrice, creatrice, perfezionatrice, ecc.).

Nessuna disciplina da sola può studiare la coscienza (nel mio significato), al

contrario essa è il fondamento di tutte queste discipline di pensiero. La filosofia però, e la neurofilosofia in particolare, ha uno statuto speciale

per studiare la coscienza, sia perché offre i migliori strumenti di pensiero (verificati alla luce della neurobiologia) per comprendere l'importanza della coscienza nell'uomo, sia perché è proprio la filosofia che indaga il senso della vita umana (illuminata dalla religione), sia perché la coscienza è ritenuta comunemente la parte più profonda, difficilmente accessibile dell'animo umano, ma pur sempre la più vicina alla sfere della ragione e delle idee della persona.

Se la coscienza è l'assoluto nell'uomo, ciò che rende possibile agli uomini di

diventare "come dei" (come afferma la Scrittura), se la si sviluppa e non la si tarpa o ignora, allora la psicologia sbaglia a non concepire questo problema.

Conscio e inconscio sono collegati all'assoluto, se l'assoluto esiste. Cristo è coscienza storica dell'umanità, luogo d'incontro di immanente e

trascendente, punta del cono del tempo.

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Anche i filosofi (il "dio dei filosofi" non è poi così freddo e vuoto) che conoscono Gesù come maestro devono tenere conto di Lui come Risorto, in quanto coscienza storica dell'umanità.

Una coscienza del corpo Posso pensare che anche il corpo abbia una coscienza, un punto di vista

unificante. Esso è quella "sensazione" che possiamo scoprire, educare e impostare per

sempre e in continuazione, se vogliamo, che ci permette di vederci dall'esterno, di aprire altri due occhi sopra la testa, che ci permettono di vedere intorno e di vedere noi stessi in relazione con gli altri.

Non è lo stesso del capire cosa pensano gli altri di noi: ciò è sempre una

fantasia e quasi sempre deriva da una paura degli altri o da una presunzione e non arriva mai a uno stato di verità soddisfacente.

"Coscienza del corpo" invece è il punto di verità del corpo, la

consapevolezza dei limiti del nostro corpo, della caducità, ma anche delle potenzialità, è la tensione verso l'uso migliore possibile del nostro corpo, la ricerca del punto di contatto tra coscienza interna e corporeità, trovato il quale otteniamo un perfetto equilibrio tra corpo e mente nell'esprimere l'arte, la scienza, la moralità, così come ci suggerisce e ci illumina la coscienza.

Il tempo è il parametro della coscienza. La coscienza è il fondamento del pensiero filosofico occidentale: percepirsi

tra passato e futuro, tra Big bang e Apocalisse [Andreoli, 1995, p. 9]. Coscienza come percezione del limite La percezione del limite non è il "Dio in noi", né può essere solo materia. La

percezione è la misteriosa informazione intra-dimensionale della materia umana. Certamente nei prossimi decenni con gli studi sul cervello e sulla psiche e soprattutto quelli sul genoma si capirà ancora meglio l'essenza della coscienza.

Decifrare completamente l'apparato genetico sarà il punto di partenza per

scoperte, conoscenze e un'evoluzione che potrebbero non avere pari nella storia dell'umanità ed essere seconde solo all'evento della comparsa del primo uomo, dotato di conoscenza razionale e di coscienza morale (e della stessa "percezione del limite"), ma nato da "animali"!

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Se la coscienza è percezione del limite il peccato nasce proprio dalla mancata o errata percezione. L'uomo esercita la sua percezione del limite per pochi istanti ogni giorno, mentre potrebbe farlo continuamente: come sperano i filosofi, come fanno i santi.

La percezione del limite è contemporaneamente intuizione dell'assoluto che

sta al di là del "limite". L'una non esiste senza l'altra. "L'uomo non ha nulla da offrire che non sia terreno" ricorda Giovanni Paolo

II in Varcare la soglia della speranza. Tutto è limitato e mortale nell'uomo. Anche la coscienza. Non è divina la nostra coscienza, anche se ci pare con certezza (umana) la cosa più profonda, elevata, ultima e "assoluta" che abbiamo.

Però la coscienza è una porta. Una porta materiale, grezza, scura ma che si

può aprire sull'infinito. Dietro quella porta c'è l'infinito. O meglio di porte ce ne sono tante nella materia: l'universo, le distanze

stellari, l'infinitamente piccolo, la potenza del cervello, i sentimenti. Ancora: tutto nella vita è una porta per l'infinito. Ma la coscienza è una finestra che ci permette di guardarlo per bene, di gustarlo, di sentirsi per un poco al di là della finestra, nel giardino meraviglioso, beati.

Teologismi postmoderni La filosofia ora può trovare ugualmente accettabili (o ugualmente

inaccettabili), e lo deve fare, da una parte il pensiero debole: pessimismo, nichilismo e morte di Dio (derivanti dall'assolutizzazione dell'io, figlia del "cogito ergo sum" cartesiano); dall'altra il pensiero forte: metafisica, assoluti in Dio creatore, morale come senso dell'agire per l'eternità.

Ma considerando i limiti intrinseci della ragione, l'inconoscibilità del mondo,

del nostro corpo e della nostra stessa ragione, sembra il possesso della verità integrale sia a noi precluso senza mezzi termini e, di conseguenza, in modo tragico.

Trovo decisamente inadeguata allo sviluppo attuale delle conoscenze una

visione tomistica e anche neotomistica della coscienza, mentre purtroppo molti teologi sembrano adattarsi bene ad essa, ciò che li porta non accettare un confronto con le discipline neuroscientifiche, un po' come accadeva con l'aristotelismo al tempo di Galileo.

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Coscienza come punto di intersezione tra spirito e materia Credo che l'antico e terribile rovello della conciliazione tra spirito e materia

(ove non ci sia prospettiva divina, ma anche dove c'è) potrebbe trovare un contributo per la risoluzione con la mia concezione della coscienza: essa è contemporaneamente (oltre che strumento morale, stato psicologico, ecc.) il vero punto di contatto tra la materia e la dimensione mentale e psichica.

Io credo che la ricerca del fondamento biologico della coscienza porterà a

chiarire proprio quell'antico rovello e ogni risultato nuovo aggiungerà un tassello fino a una dimostrazione accettabile. Un po' come è accaduto per l'ultimo teorema di Fermat, ma dopo secoli e grandiosi progressi della matematica per opera di intere generazioni di studiosi.

Con la differenza che ora tutto è accelerato, soprattutto in questi ultimi

anni del XX secolo. Se la coscienza è quello che penso io, non esistono definizioni adatte o

sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per comprenderla e tutta la mia teorizzazione è solo l'ultimo tentativo storico di rappresentarla, che sarà ben presto superato...!

Coscienza del passato e senso del futuro Scopriremo molto probabilmente - già se ne sente parlare - un metodo

tecnologico per rivedere, attraverso le tracce dei fotoni, fatti accaduti nel passato, perché sempre rimane traccia dei fotoni appartenuta a ogni ambiente in ogni istante in quei paraggi. Si tratta solo di capire come fare.

Questa sarà una macchina del tempo non nel senso che piega il tempo per

trasportare persone in altre epoche permettendo loro magari di mutare gli avvenimenti, ma solo nel senso che recupera le tracce, le immagini del passato, rendendole fruibili agli uomini moderni resi spettatori degli avvenimenti.

Di questo si è sognato per secoli. E ogni buon pensatore sapeva secondo

buon senso e intuizione che non si sarebbe trattato di una modifica del tempo ma solo di uno spettacolo.

Ciò accadrà perché possiamo credere che l'uomo possiede al suo interno

così tante informazioni (vedi le ricerche sull'immagazzinamento di migliaia di sogni in ognuno di noi) e il senso di tutta la sua vita e di tutta la natura e la storia.

La coscienza è la sapienza sostanziale che intuisce la verità di ogni pensiero

sulla natura o sull'uomo, servendosi di ogni dimensione dell'uomo. Si

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tratterebbe di una conoscenza, che non va di moda tra gli scienziati, sarebbe piaciuta agli antichi e ai medievali, come anche ad autori quali Theilard de Chardin, piace ad altri come F. Capra, P. Davies, F.J. Tipler.

La filosofia, la matematica e le altre discipline non servono per raggiungere

la verità, che non è raggiungibile ed è già dentro di noi (è impossibile che la natura permetta di ricreare esattamente qualcosa che già esiste).

Nella morte di ogni uomo sta il senso della sua vita, così come per

l'umanità: il progetto universale ed eterno prevede il trapasso, la trasfigurazione, esattamente in un preciso momento e per precisi motivi. Noi non li conosciamo con certezza. Possiamo intuirli sapendo che possono essere falsi come possono essere veri altri che noi mai potremmo immaginare, mentre solo Dio sa. Potrebbe essere che ciascuno muore perché non poteva fare di più nella vita: ognuno ha il suo limite. O perché ha capito a sufficienza per meritarsi quel che si merita. Oppure perché ha compiuto la sua piccola parte nella storia della salvezza dell'umanità. O invece per impedirgli di fare altro male.

La scoperta della coscienza Secondo il racconto della Genesi possiamo ricavare che l'uomo è diventato

veramente uomo (ma anche prima c'era dolore, emozione…) quando grazie allo sviluppo intellettivo (e la grazia) ha cominciato a riflettere su se stesso (autocoscienza) - a differenza degli animali - e ha scoperto la propria relazione con Dio, l'Origine, la sfera morale, la religione, l'io. Ha scoperto la coscienza, l'ha creata perché l'ha scoperta, l'ha con-creata con Dio, come si con-crea il Paradiso con Dio.

Solo quando ebbe la coscienza fu uomo, prima era solo animale

intelligente. La grazia che ha fatto iniziare l'umanità coincide perciò all'inizio (e ora

quotidianamente) proprio con la coscienza (non l'intelligenza, che permea di sé anche la natura o i robot)

La coscienza è allora sintesi tra natura e divino, originante, provvidente,

che permette l'intuizione e la preparazione del paradiso. L'evoluzione delle specie è progressivamente un avvicinamento alla

Coscienza. PER IL RITORNO DI UN "PENSIERO FORTE" FILOSOFICO SULL'UOMO E

SULLA COSCIENZA

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La filosofia oggi sembra volersi limitare - e così anche la neurofilosofia che,

in un ambito specifico, ne è un chiaro esempio - a tentare di chiarire i limiti della ricerca scientifica e della teorizzazione, pretende di porsi come interlocutore di ogni disciplina di studio, in quanto fondata sull'istanza di interpretare l'uomo. La filosofia postula un al di là dell'uomo, che mostra la capacità di autotrascendenza dell'uomo, la sua capacità di riflettersi.

Eppure non è più in grado di "dimostrare" o anche argomentare in modo

forte tale "al di là", perché è giunta a un indebolimento degli strumenti linguistici, metafisici, logici, di cui orgogliosamente consapevole.

Quel che la fa da padrone, insomma, è il pensiero debole. Che è un

traguardo irrinunciabile - come ho detto - un caposaldo dello sviluppo filosofico occidentale, ma appunto deve essere una tappa, non la destinazione finale di tutta la teorizzazione sull'uomo e il creato.

Invece sembra che la filosofia oggi, tra i vari movimenti, si dibatta tra

impasse (nichilismo, scetticismo, agnosticismo, ateismo), teorizzazioni che hanno più dello scientifico che del filosofico (computazionisti, riduzionisti), teorizzazioni vaghe (ne ho indicate e criticate alcune).

Io auspico dunque il momento in cui si possa affermare di aver ricostituito,

senza realizzare un "ritorno al passato", un pensiero forte sull'uomo, ne sento il bisogno in questo passaggio di secolo.

Non so prevedere che strada dovrà percorrere la riflessione filosofica per

arrivarci. Credo però che il tema e il concetto della coscienza, con tutta la ricchezza

di specificazioni che ho illustrato sia un ottimo e privilegiato campo di ricerca per poter assicurare tale risultato. In primis grazie alla opportunità di convergenza su questo tema da una parte della riflessione umanistica, che può contare su una sterminata incalcolabile tradizione, dall'altra della ricerca scientifica che può contare su avveniristici strumenti di indagine e sulla speranza di accelerazione del progresso umano.

Voglio affermare che credo che la riflessione filosofica e antropologica

raggiungerà di nuovo un pensiero forte, deve essere così, è già accaduto molte volte, e tanti segnali, uno dei quali è l'interesse del tema della coscienza, lo suggeriscono.

Quel che non so è solo quando accadrà e chi e come riuscirà a ottenerlo. La fiducia nell'importanza del tema della coscienza sta nel fatto che "la

coscienza è dialogo con l'essere" (L. Lavelle) e perciò è il sentiero della verità: "Dove comincia e dove finisce la coscienza? Chi può fissarne i limiti? Chi può

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fissare un qualsiasi limite? Non sono forse le cose tutte intessute l'una nell'altra?" (S. Butler).

Conclusione Coscienza, salvezza e benessere La presente ricerca corre il rischio di essere astratta, poco utile all'uomo

comune, come tutte le speculazioni filosofiche e teologiche. Invece desidero che serva come contributo alla formazione di un metodo di

ricerca personale e utilizzazione della "coscienza" come risorsa di benessere, equilibrio, autoconsapevolezza.

È troppo pretendere che tutte le teorizzazioni abbiano "ricadute" pratiche.

Ma il tema della coscienza lo può permettere. Ed è anche facile cadere in uno di quei maldestri tentativi - come se ne

vedono e leggono a iosa, citati in vari punti di questa dissertazione - di ricavare l'elisir della lunga vita accostando con poca prudenza e senza metodo rigoroso scienze e discipline le più diverse.

Ma io credo che la riflessione sulla coscienza possa concretamente aiutare

l'uomo a dare spazio alla propria interiorità, intesa come un'armonia originante che può condurre ad aprirsi verso il trascendente, a recuperare un'armonia individuale.

È possibile recuperare l'"emozione" di avere la coscienza Il neuroscienziato Rodolfo Llinas ha detto: "La vita è meravigliosa, essere

coscienti è meraviglioso". Più conosciamo la coscienza, l'universo che c'è in noi che unifica e origina

tutte le dimensioni dell'uomo, conoscenza, affetti, morale, religione, vita, più ci accorgiamo di quanto "infinita", ovvero "piena" sia la coscienza e la vita.

Cerco dunque di collegare analisi scientifiche, filosofiche e spiritualità alla

ricerca di una "igiene coscienziale"

269

Viviamo in un'epoca che sarà fondamentale per l'umanità, un'epoca in cui

avviene una svolta decisiva. Essa deriva dall'avvicinarsi a grandi passi alla definizione scientifica della mente.

Tale definizione che oggi, nel 2000, non è ancora possibile - ma lo sarà

entro pochi anni o pochi decenni - avrà come paradigma fondamentale proprio la coscienza.

Non sarà dunque possibile più formulare e utilizzare alcuna teoria senza

considerare - non se ne potrà proprio prescindere - l'aspetto soggettivo, neurobiologico, personale.

Questo conduce a un rinnovamento della scienza. Credo senza esagerare

che si deve parlare di una scienza vecchia e una scienza nuova. Quella vecchia era quella straordinaria del XX secolo, la fisica quantistica, la relatività, l'energia nucleare, le telecomunicazioni. Quella nuova sarà, come detto, quella che riesce a tener conto della coscienza individuale, della mente, dell'uomo nella sua interezza.

Usare il potenziale della vita onirica Un aspetto interessante collegato alla coscienza è la vita onirica. Secondo alcuni studiosi bisognerebbe curare di più la propria vita onirica,

"allenare la mente a sognare in modo più vivido e più facile da ricordare", abituarsi a interpretare i sogni, arricchire le esperienze quotidiane con le tecniche di ricordo e di controllo dei sogni , tenere un diario dei sogni, usare positivamente i sogni per superare le ansie personali, con ciò migliorando le relazioni interpersonali.

I sogni sono un potenziale enorme in noi, ma decisamente trascurato e

sprecato. Sarebbe necessario che tutti potessero ogni mattina dedicare mezz'ora a

ricordare e analizzare i sogni fatti nella notte. Certo lo slogan di chi se ne occupa e un po' pretenzioso "Seguiamo le

lezioni dei sogni e non saremo più dominati dagli eventi del giorno: riguadagneremo la completezza che ci appartiene per nascita" .

Però è vero che "benché sogniamo ogni notte, l'insostituibile valore delle

nostre esperienze notturne ci sfugge: è grazie ai sogni che possiamo ascoltare, quasi origliando, il segreto colloquio che si svolge tra la coscienza e l'inconscio ricavandone un'opportunità per capire chi siamo e raggiungere una più completa armonia interiore" [Fontana, 1999, p. 8].

270

Counseling e tirocinio esistenziale Un altro aspetto collegato alla coscienza e all'ambito psicologico è la

considerazione che non si guadagna una maturità interiore, un equilibrio nell'armonizzare e utilizzare le risorse interiori per il benessere sociale ed esistenziale senza un tirocinio, un confronto educativo e formativo con un "maestro".

Dovrebbero essere, dunque, molto più diffuse e utilizzate quelle figure di

"counsellor", non veri terapeuti (non voglio certo arrivare a dire sbrigativamente che "siamo tutti malati"!) che in altre nazioni si stanno consolidando.

Forse un'indagine sulla coscienza aiuterebbe questa prospettiva sociale, di

aiuto, di interazione verso un perfezionamento spirituale. Sarebbe necessario per esempio un insegnamento psicologico di base nella

scuola dell'obbligo. Per fortuna nei licei la filosofia (soprattutto con in nuovi "programmi Brocca" eccetera) supplisce un poco a questa "debolezza coscienziale" della cultura educativa in Italia.

La scuola secondo il cervello In un interessante articolo, consultabile in Internet , G. Piangatello, un

ingegnere che insegna nelle scuole professionali, tenta di mettere a servizio della didattica (nelle scuole superiori italiane) le ricerche sul funzionamento della mente. Ne risulta una riflessione stimolante, provocatoria e accattivante, verso un rinnovamento della didattica, della valutazione, dell'organizzazione della scuola italiana, anche se tutto rischia di essere inficiato da una non comprovata teoria di base.

L'autore ammette all'inizio che il suo modello di funzionamento della mente

non è stato ancora esaminato dalla comunità scientifica, ma egli ne trae ugualmente delle conseguenze "a titolo di opinioni personali".

La principale è che "se è vero, come io credo, che ogni neurone [più avanti

specifica che intende "gruppo di neuroni"] delle cortecce associative sia legato a una parola, allora il compito principale della scuola, ossia far nascere cortecce associative, sarebbe descrivibile dicendo che essa deve fornire delle parole allo studente".

Altro riferimento neurobiologico è la differenza tra la funzione della

corteccia posteriore (che elabora le informazioni ricevute dall'esterno) e

271

corteccia frontale (che si occupa di inviare segnali all'esterno) e la loro parallela strutturazione gerarchica "su tre livelli". Ciò dà modo a Piangatello di riflettere sui cicli scolastici e sulla riforma della scuola pensata dal ministro L. Berlinguer, sui criteri di valutazione (ritmi dell'apprendimento) degli studenti e sull'autonomia didattica (una lingua o tante lingue?).

Per un approfondimento rimando al testo stesso. Invece uno studio molto serio eppure creativo e innovatore è quello del

neurofisiologo inglese Jan H. Robertson, contenuto in Il cervello plastico . La tesi è che il cervello sia un organo patisco che viene continuamente modificato dall’esperienza in un processo di scultura cerebrale nella quale variano le connessioni tra i neuroni. Si è scoperto infatti che il cervello è sempre plasmabile, anche in caso di gravi danni; la crescita e la riconnessone delle reti neuronali possono infatti avvenire a qualsiasi età.

Robertson ribadisce l’importanza della volontà nel riparare alcune funzioni

cerebrali: "Esistono prove del fatto che, anche se le persone non sono più in grado di muovere un braccio paralizzato, il semplice immaginare il movimento possa arrecare quel genere di miglioramenti che i miei studi hanno dimostrato essere una conseguenza dei movimenti reali. In altre parole, in futuro sarà possibile effettuare una terapia di riabilitazione in palestre interne al cervello".

L’autore si occupa approfonditamente della funzionalità cerebrale nei primi

anni di vita. Pur non negando una componente genetica nella capacità di elaborare il linguaggio e nell’intelligenza in genere, ritiene che le interazioni con il mondo siano fondamentali nel plasmare quello che definisce "l’io elettrico", alla cui formazione devono contribuire in modo favorevole altre menti nella società. L’autore esemplifica questo ragionamento con un consiglio pedagogico: poiché sembra che l’accelerazione dello sviluppo linguistico del bambino sia determinata più dall’instaurarsi di una relazione individuale con l’adulto che da rapporti collettivi, è consigliabile che siano i genitori stessi a occuparsi della "scultura del cervello" dei loro figli.

Posso aggiungere, a proposito di interazioni con il mondo, una mia

osservazione, a suffragio della tesi di Robertson: che un talento individuale trova quasi mai una realizzazione se non attraverso il riconoscimento, l’addestramento, perfino la sollecitazione violenta da parte di un "altro", specialmente un "maestro", quasi sempre un parente prossimo.

Nel paragrafo "Le chiavi per sbloccare il potenziale del cervello" Robertson

propone gli "ingredienti della ricetta dell’apprendimento", considerazioni per gli insegnanti al fine di mettere a punto una valida strategia per essere buoni maestri e compiere "prodigi sul cervello di un gran numero di studenti".

La materia e la sua presentazione

272

Infine un testo interessante è quello di Frederic Vester, Il pensiero,

l'apprendimento e la memoria , che soprattutto nella parte finale fornisce interessanti consigli didattici e pedagogici tutti basati su scrupolose osservazioni neurobiogiche, metodo sperimentale rigoroso e ragionamenti convincenti.

Riporto un interessante schema che Vester pubblica alla fine del libro. 1. Conoscere gli obbiettivi didattici L'allievo deve poter vedere in ogni

momento il motivo per cui gli si fa sentire, vedere, leggere o fare una certa cosa. Dovrebbe sempre sapere per quale scopo studia una determinata materia, che cosa ne potrà fare e come la potrà applicare nella pratica. Bisogna metterne in chiaro il senso. In tutti i nostri test uno dei fattori che inibivano l'apprendimento è risultato essere sempre la mancanza di precisione di questi obbiettivi.

2. Piani di studio intelligenti Si cerca di orientare la scelta delle materie,

l'organizzazione della materia e il piano di studi secondo obbiettivi didattici, basati sull'applicazione pratica nella vita tenendo conto degli aspetti fisici, psichici, mentali e sociali. Il curriculum scolastico non deve essere determinato dalla suddivisione rigida delle discipline, ma deve orientarsi in base alla nostra struttura biologica.

3. La curiosità compensa la paura del nuovo Materie sconosciute ed

estranee e termini nuovi provocano inizialmente ostilità, frustrazione e rifiuto. La curiosità è il più forte istinto naturale per superare questa resistenza interna. Se mancano la curiosità, l'entusiasmo e le aspettative non può esserci la necessaria disponibilità per l'apprendimento.

4. Informazioni nuove e presentazione familiare Far associare dettagli o

informazioni nuove a contenuti già noti. Presentare argomenti sconosciuti possibilmente in un contesto familiare.

5. Il generale prima del particolare Iniziare con il contesto generale e

conosciuto. Soltanto in un secondo momento presentare i particolari e le singole informazioni, affinché possano essere inquadrate efficacemente e correttamente (e quindi collegate a un'esperienza di successo). In questo modo si favoriscono anche la motivazione all'apprendimento, la possibilità di associazioni familiari e un sicuro ricordo della materia immagazzinata.

6. Evitare le interferenze Non ripetere l'informazione in varianti diverse

finché è ancora nella memoria immediata. Portare piuttosto esempi tratti dalla realtà, che impegnano canali sensoriali diversi.

273

7. Spiegazioni prima dei concetti Soprattutto non impaurire con termini nuovi. Prima basta nominare il fenomeno, descriverlo, dare esempi; dopo si possono anche fare astrazioni e nominare la nuova "parola in codice".

8. Associazioni supplementari Cercare possibilità di approccio più

complesse possibile tramite riferimenti a fatti interessanti, divertenti e curiosi. La presentazione operazionale stimola la risonanza di canali percettivi non utilizzati, assicurando quindi un più agevole passaggio alla memoria a breve termine e a quella a lungo termine.

9. Imparare con divertimento Per principio si deve garantire che gli alunni

provino piacere nella lettura dei testi, nell'ascolto e nell'elaborazione della materia. Il piacere, tramite la positiva disposizione ormonale, aumenta le capacità di apprendimento, di associazione e di rievocazione.

10. Fitti collegamenti Una stretta connessione di tutti i fatti in una lezione,

in un libro o in un compito rafforza i punti 4, 5 e 8, procura sensazioni di successo e favorisce la ritenzione e le combinazioni creative senza eccessivo dispendio di energie. Naturalmente anche questi dieci punti devono essere collegati e accordati nella prassi scolastica. In ogni singolo caso debbono essere combinati in modo da accordarli con il tipo di apprendimento degli allievi.

Ecco dunque che esistono già coraggiosi (e più o meno deboli) tentativi di

coniugare indagine neuroscientifica con vita pratica, ciò che sarà sempre più efficace e fecondo nel prossimo futuro.

La preghiera guarisce Infine, un ambito interessante ma assai scivoloso, è quello del rapporto tra

spiritualità e guarigione fisica. Oggi si vendono molto i libri che insegnano a "pregare per guarire", quasi

sempre basati più su fideismo e superstizione che su ricerche rigorose. Ed è molto di moda parlare di angeli, spiriti che parlano e magia, proprio oggi quando le neuroscienze sono così avanzate.

Libri come Guarire con la preghiera di K. McClellan , oppure La forza della

preghiera di P. Abozzi P. e M. Fiammetta sostengono proprio questo. E ne esistono infiniti altri quasi sempre poco seri (lo dico nel senso della ricerca filosofica e rigorosa, non dal punto di vista spirituale, che in fondo sposo senza difficoltà), che contengono preghiere e rituali e così sfiorano (o favoriscono) la superstizione.

Eppure sembra incontestabile, filosoficamente, spiritualmente, ma

soprattutto statisticamente, il benessere derivante dalla preghiera.

274

Sarebbe interessante analizzare questo fenomeno - il rapporto tra

spiritualità e benessere psico-fisico - a livello neurobiologico, producendo poi una teorizzazione interdisciplinare.

La coscienza, per me, è proprio il "luogo interiore di guarigione", origine

della "salvezza" di tipo anche corporeo (so che è un linguaggio di confine quello che sto usando).

Per concludere riporto l’opinione di G. Frey che faccio mia: "La coscienza tende sempre a manifestarsi al di fuori dell'individuo, e si realizza nell'interazione degli uomini". BIBLIOGRAFIA Saggi, Fonti Adler A., La psicologia individuale, 1970, Newton Compton, Roma Allègre C., Dio e l'impresa scientifica, 1999, Raffaello Cortina, Milano AA.VV., L’automa spirituale Menti, cervelli e computer, 1991, a cura di G.

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