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La costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Primo ... Voce/La Voce, XII,1.pdf · Periodico...

Date post: 15-Feb-2019
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Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine – Anno XII – Numero 1 – Luglio 2013 Periodicità quadrimestrale – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 DCB UDINE degli Stelliniani Una veduta aerea di piazza Primo Maggio. In primo piano, tra le pendici del colle e il giardino di palazzo Antonini, l’area nella quale verrà costruito il parcheggio P iazza Primo Maggio, nota pure come ‘Giar- din Grande’, è la più vasta di Udine e dell’intera Regione. Ed è anche uno spa- zio le cui forme non hanno probabilmente eguali nel no- stro Paese, con l’eccezione del padovano Prato della Valle che ne rappresenta il modello, oltre che un luogo alla costante ricerca della propria identità. Le cronache ne hanno parlato con insi- stenza in questi ultimi mesi per l’imminente costruzione di un parcheggio sotterra- neo, situato nell’area com- presa fra viale della Vittoria, via Portanuova e i giardini di palazzo Antonini. L’opera, appaltata e gestita dalla Società Sosta e Mobili- tà, sarà disposta su tre piani più quello a raso, dovrebbe avere una capienza di circa 400 posti, costerà 11 milioni di euro e sarà finanziata con il concorso della Regione, della Fondazione Crup, della Camera di Commercio e del Comune di Udine. Negli in- tenti dell’amministrazione comunale, i posti macchina ricavati all’interno del par- cheggio dovrebbero assorbi- re in buona parte quelli at- tualmente presenti nella piazza e ciò nella prospettiva di una generale riqualifica- zione del contesto. Di fronte ad un intervento di tale portata, abbiamo rite- nuto di aprire un confronto a più voci coinvolgendo nella discussione esperti, profes- sionisti e studiosi. Proprio al- cuni dei rilievi sollevati pri- ma dell’inizio dei lavori (da Italia Nostra, fra gli altri) sembrano aver portato, infat- ti, all’abbandono di soluzioni particolarmente invasive, co- me quelle della biglietteria dai volumi vermigli accanto ai giardini Antonini e della rotonda di smistamento a ri- dosso dei giardini Fortuna. L’augurio è che le proposte e le idee che usciranno da questo dibattito possano offri- re ulteriori contributi alla ri- flessione e confermare l’esi- genza di ripensare e valoriz- zare questa storica piazza, in- tesa come luogo unitario che può diventare strategico per la città di domani. Queste sono le domande che abbiamo posto agli intervistati. 1 - Il Giardin Grande non è mai stato, a dispetto del nome, un vero giardino. Cos’è necessa- rio perché lo diventi? 2 - La costruzione del parcheg- gio sotterraneo è stata motivo di ampia discussione. Qual è la sua opinione in merito? 3 - Unire l’ellisse ai giardini Fortuna, conservare l’attuale as- se di scorrimento solo per i mez- zi pubblici e l’accesso al parcheg- gio, spostare il traffico privato sulla direttrice via sant’Agosti- no, via Diaz – via Gorizia, piaz- zale Osoppo. Può essere un’idea percorribile? 4 - Piazza Primo Maggio è ba- ricentrica non solo rispetto a molte scuole (lo Stellini, il Con- servatorio, il Sello e l’Uccellis), ma anche rispetto alle facoltà universitarie di via Tomadini, al Castello, a palazzo Antonini, a piazza Libertà, all’Arcivescovado e al Teatro. E se ripartisse pro- prio da questa piazza il futuro della città? Andrea Purinan Adalberto Burelli architetto e studioso 1 - Che il Zardin Grant, co- me lo chiamavano gli udinesi, non sia mai stato un vero e proprio giardino non mi pare rappresenti un problema. Il Zardin Grant, infatti, oltre che sede della tradizionale Fiera di S. Caterina (concessa alla città dal Patriarca Marquardo nel 1380), è stato per secoli il luogo naturale in cui si svol- gevano fiere e manifestazioni civili, militari e patriottiche che coinvolgevano tutta la cit- tadinanza. Gustoso in propo- sito il ricordo consegnato in uno dei suoi elzeviri da Ren- zo Valente quando ricorda il rito della tombola che a Ferra- gosto si teneva proprio nel Zardin Grant: «in quell’occa- sione per me il Giardino era uno spettacolo magnifico, tut- to pieno di fette d’anguria pa- triottiche, bianche, rosse e verdi che si muovevano come bandiere brillando sotto le ri- ve del castello» (Udine, un pae- se col tram). E anche oggi, ve- dere – come capita in certe giornate di primavera – grup- pi di giovani sdraiati sull’erba dell’ellisse centrale, quasi una sorta di Central Park udinese, fa intuire quale sia la sua ef- fettiva potenzialità nei con- fronti del centro città. 2 - Chi conosce le vicende urbanistiche della nostra città, sa che i problemi per piazza Primo Maggio hanno avuto inizio nel 1924 con la malau- gurata apertura di viale della Vittoria a nord e successiva- mente sono stati amplificati nel 1958 con quella altrettanto nefasta di viale Ungheria a sud: la realizzazione dei due viali ha trasformato il Zardin Grant da luogo intimo e rac- colto, da ultimo forum della città, a cerniera dell’asse via- rio nord-sud e, di conseguen- za, nel più grande serbatoio di autovetture della città. Non va dimenticato che con il Zardin Grant è stata stravolta anche l’adiacente piazza Patriarcato (voluta nel XVIII secolo dal Patriarca Delfino come con- traltare alla veneziana piazza Contarena, ad esaltazione dei palazzi patriarcali che «in ma- gnificenza dovevano superare le dimore vescovili venezia- ne»), trasformata a sua volta in un viale di scorrimento. In ambedue i casi la piazza, intesa come parte essenziale della vi- ta di una comunità, luogo de- dicato alle relazioni tra i citta- dini «dove come scrive lo psicologo Luigi Zoia poter sperimentare la bellezza ed educare ad essa», è stata sna- turata. Non essendo ipotizza- bile un ritorno al passato con le due piazze chiuse al traffi- co, sono dell’opinione che la realizzazione di un’importan- te opera come il progettato parcheggio debba poter rap- presentare l’occasione per un ripensamento complessivo della piazza e della viabilità che l’attraversa. 3 - Penso che l’unione del- l’ellisse ottocentesca ai giardi- ni Fortuna rappresenti un aspetto marginale rispetto al possibile, futuro aspetto di piazza Primo Maggio. L’o- biettivo da perseguire do- Dal ‘Giardin Grande’ a un grande giardino (segue a pagina 2) La costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Primo Maggio dev’essere l’occasione per ripensare uno spazio strategico della città
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Page 1: La costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Primo ... Voce/La Voce, XII,1.pdf · Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine –

Periodico d’informazione culturale dell’Associazione “Gli Stelliniani” di Udine – Anno XII – Numero 1 – Luglio 2013Periodicità quadrimestrale – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 DCB UDINE

degli Stelliniani

Una veduta aerea di piazza Primo Maggio . In primo piano, tra le pendici del colle e il giardino di palazzo Antonini, l’area nella quale verrà costruito il parcheggio

Piazza Primo Maggio,nota pure come ‘Giar-din Grande’, è la più

vasta di Udine e dell’interaRegione. Ed è anche uno spa-zio le cui forme non hannoprobabilmente eguali nel no-stro Paese, con l’eccezionedel padovano Prato dellaValle che ne rappresenta ilmodello, oltre che un luogoalla costante ricerca dellapropria identità. Le cronachene hanno parlato con insi-stenza in questi ultimi mesiper l’imminente costruzionedi un parcheggio sotterra-neo, situato nell’area com-presa fra viale della Vittoria,via Portanuova e i giardini dipalazzo Antonini.

L’opera, appaltata e gestitadalla Società Sosta e Mobili-tà, sarà disposta su tre pianipiù quello a raso, dovrebbeavere una capienza di circa400 posti, costerà 11 milionidi euro e sarà finanziata conil concorso della Regione,della Fondazione Crup, dellaCamera di Commercio e delComune di Udine. Negli in-tenti dell’amministrazionecomunale, i posti macchinaricavati all’interno del par-cheggio dovrebbero assorbi-re in buona parte quelli at-tualmente presenti nellapiazza e ciò nella prospettivadi una generale riqualifica-zione del contesto.

Di fronte ad un interventodi tale portata, abbiamo rite-nuto di aprire un confronto apiù voci coinvolgendo nelladiscussione esperti, profes-sionisti e studiosi. Proprio al-cuni dei rilievi sollevati pri-ma dell’inizio dei lavori (daItalia Nostra, fra gli altri)sembrano aver portato, infat-ti, all’abbandono di soluzioniparticolarmente invasive, co-me quelle della biglietteriadai volumi vermigli accanto

ai giardini Antonini e dellarotonda di smistamento a ri-dosso dei giardini Fortuna.

L’augurio è che le propostee le idee che usciranno daquesto dibattito possano offri-re ulteriori contributi alla ri-flessione e confermare l’esi-genza di ripensare e valoriz-zare questa storica piazza, in-tesa come luogo unitario chepuò diventare strategico perla città di domani.

Queste sono le domande cheabbiamo posto agli intervistati.

1 - Il Giardin Grande non èmai stato, a dispetto del nome,un vero giardino. Cos’è necessa-rio perché lo diventi?

2 - La costruzione del parcheg-gio sotterraneo è stata motivo diampia discussione. Qual è la sua

opinione in merito?3 - Unire l’ellisse ai giardini

Fortuna, conservare l’attuale as-se di scorrimento solo per i mez-zi pubblici e l’accesso al parcheg-gio, spostare il traffico privatosulla direttrice via sant’Agosti-no, via Diaz – via Gorizia, piaz-zale Osoppo. Può essere un’ideapercorribile?

4 - Piazza Primo Maggio è ba-ricentrica non solo rispetto amolte scuole (lo Stellini, il Con-servatorio, il Sello e l’Uccellis),ma anche rispetto alle facoltàuniversitarie di via Tomadini, alCastello, a palazzo Antonini, apiazza Libertà, all’Arcivescovadoe al Teatro. E se ripartisse pro-prio da questa piazza il futurodella città?

Andrea Purinan

Adalberto Burelliarchitetto e studioso

1 - Che il Zardin Grant, co-me lo chiamavano gli udinesi,non sia mai stato un vero eproprio giardino non mi parerappresenti un problema. IlZardin Grant, infatti, oltre chesede della tradizionale Fieradi S. Caterina (concessa allacittà dal Patriarca Marquardonel 1380), è stato per secoli illuogo naturale in cui si svol-gevano fiere e manifestazionicivili, militari e patriotticheche coinvolgevano tutta la cit-tadinanza. Gustoso in propo-sito il ricordo consegnato inuno dei suoi elzeviri da Ren-zo Valente quando ricorda il

rito della tombola che a Ferra-gosto si teneva proprio nelZardin Grant: «in quell’occa-sione per me il Giardino erauno spettacolo magnifico, tut-to pieno di fette d’anguria pa-triottiche, bianche, rosse everdi che si muovevano comebandiere brillando sotto le ri-ve del castello» (Udine, un pae-se col tram). E anche oggi, ve-dere – come capita in certegiornate di primavera – grup-pi di giovani sdraiati sull’erbadell’ellisse centrale, quasi unasorta di Central Park udinese,fa intuire quale sia la sua ef-fettiva potenzialità nei con-fronti del centro città.

2 - Chi conosce le vicendeurbanistiche della nostra città,sa che i problemi per piazza

Primo Maggio hanno avutoinizio nel 1924 con la malau-gurata apertura di viale dellaVittoria a nord e successiva-mente sono stati amplificatinel 1958 con quella altrettantonefasta di viale Ungheria asud: la realizzazione dei dueviali ha trasformato il ZardinGrant da luogo intimo e rac-colto, da ultimo forum dellacittà, a cerniera dell’asse via-rio nord-sud e, di conseguen-za, nel più grande serbatoio diautovetture della città. Non vadimenticato che con il ZardinGrant è stata stravolta anchel’adiacente piazza Patriarcato(voluta nel XVIII secolo dalPatriarca Delfino come con-traltare alla veneziana piazzaContarena, ad esaltazione deipalazzi patriarcali che «in ma-gnificenza dovevano superarele dimore vescovili venezia-ne»), trasformata a sua voltain un viale di scorrimento. Inambedue i casi la piazza, intesacome parte essenziale della vi-ta di una comunità, luogo de-dicato alle relazioni tra i citta-dini «dove – come scrive lopsicologo Luigi Zoia – potersperimentare la bellezza ededucare ad essa», è stata sna-turata. Non essendo ipotizza-bile un ritorno al passato conle due piazze chiuse al traffi-co, sono dell’opinione che larealizzazione di un’importan-te opera come il progettatoparcheggio debba poter rap-presentare l’occasione per unripensamento complessivodella piazza e della viabilitàche l’attraversa.

3 - Penso che l’unione del-l’ellisse ottocentesca ai giardi-ni Fortuna rappresenti unaspetto marginale rispetto alpossibile, futuro aspetto dipiazza Primo Maggio. L’o-biettivo da perseguire do-

Dal ‘Giardin Grande’a un grande giardino

(segue a pagina 2)

La costruzione del parcheggio sotterraneo di piazza Primo Maggiodev’essere l’occasione per ripensare uno spazio strategico della città

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vrebbe essere piuttosto la ‘saldatura’tra l’ellisse e le pendici del colle chel’ha generata, così come peraltro ve-niva auspicato dal progetto vincitoredel concorso di idee per la riqualifi-cazione della piazza organizzato nel1983 dai Club Service di Udine in oc-casione del millenario della città. Ri-cordo anche il ‘monumento alla civil-tà contadina’ disegnato dallo sculto-re Luciano Ceschia nella stessa occa-sione, un gigantesco aratro piantatonel fianco del colle del Castello, unaproposta di grande forza evocativaed emotiva che, come ha scritto TitoManiacco, ricordava ai sorestans cheil loro potere si basava sull’umilequotidiana fatica dei contadini.Quanto alla regolamentazione deltraffico privato, penso che la rispostavada cercata nell’adeguamento dellacirconvallazione senza coinvolgereoltre il fragile tessuto del centro città,in passato troppo spesso sacrificatoalle esigenze della mobilità.

4 - Non c’è dubbio che piazza Pri-mo Maggio possa svolgere un ruolochiave nella auspicata saldatura tra il‘centro storico’ sviluppatosi a ovestdel colle e gli importanti poli cultu-rali insediatisi nella zona orientaleche risultano fisicamente separati daun fiume di autovetture che da nord eda sud alimenta il lago-parcheggio. Sipensi solo alle importantissime Gal-lerie del Tiepolo ‘separate’ a causadell’intenso traffico che le lambiscedagli altri poli museali del centro(Castello, Casa Cavazzini) con cuidovrebbero fare sistema. Non va di-menticato inoltre che proprio le vi-brazioni prodotte dal traffico sonoresponsabili delle micro lesioni nellemurature dei palazzi diocesani, che alungo andare producono ripercus-sioni negative sui preziosi affreschidi cui sono ricche. Restituire ‘funzio-ni centrali’ alla piazza scoraggiandol’attraversamento della città avrebberipercussioni positive anche su que-sto non marginale aspetto.

Gianfranco Ellerostorico

1 - Il colle e la conca formano il ge-noma naturale di Udine. La conca,ovvero piazza Primo Maggio, non fumai un giardino vero e proprio perragioni dapprima naturali e poi arti-ficiali. Si tratta, infatti, di un anticolago interrato, che poi accolse paratemilitari, la Fiera di Santa Caterina(fino a pochi anni fa), corse di caval-li, il mercato mensile dei bovini, eoggi si presenta come un enormeparcheggio per automobili, funzio-nale peraltro rispetto all’area pedo-nalizzata. Ma una città che ha can-cellato l’Arena Italia, sente davveroil bisogno di un giardino in un cen-tro che si va inesorabilmente spopo-lando? Se anche sentisse tale biso-gno, è chiaro che oggi la piazza nonè un giardino, nonostante l’impo-nente alberatura.

2 - Il parcheggio sotterraneo? Per-ché no? Dovrebbe però assorbire unaparte delle auto attualmente par-cheggiate e favorire, per esempio conuna teleferica, della quale già si par-lava nel tempo del sindaco Candoli-ni, la fruizione del Castello, delleCollezioni d’arte, di Santa Maria (au-tentico gioiello), della Casa dellaConfraternita e del Palazzo dellaContadinanza (straordinari monu-menti della nostra originalissima sto-ria, urbana e regionale). Anche piaz-za Primo Maggio potrebbe offrirequalche punto di attrazione. Uno deidue bunker costruiti dai tedeschi (inparticolare quello davanti alle Gra-zie) o una delle gallerie scavate sottoil colle nel 1944, potrebbero diventa-re un piccolo museo intitolato ‘Udinenella seconda guerra mondiale’ .

3 - Ritengo possibile e auspicabilecreare una verde continuità fra l’el-lisse e i giardini Fortuna, ma dovespostare il traffico di viale della Vit-toria, aperto nel 1924, che nelle in-tenzioni degli urbanisti doveva crea-re un asse con viale Ungheria, aper-

to nel 1958? Doveva trattarsi di unasse di scorrimento, ma data la folledensità abitativa consentita versopiazzale D’Annunzio, ci troviamo acontemplare un asse di rallentamen-to e parcheggio! Gli errori urbanisti-ci sono fattori (negativi) di lungo pe-riodo, come è noto.

4 - Il futuro della città passa a mioavviso per l’Università degli Studi(se riuscirà a sopravvivere alla gravecrisi economica in atto) e per l’Udi-nese Calcio (se riuscirà a rimanere inSerie A e, possibilmente, in Europa).Udine, infatti, non ha più industrie,come cinquant’anni fa, e anche il set-tore commerciale è ormai spostato inperiferia, nei grandi centri commer-ciali. Rimangono numerosi in centrosoltanto bar, pizzerie, fast food, fre-quentati soprattutto dagli studentidell’Università, che occupano anchenumerosi posti-letto in case private.Ma non possiamo certo costruire ilfuturo basandoci sulla ristorazione!Poteva tornare utile, per il futurodella città, la burocrazia regionale,ma, come sappiamo, la classe diri-gente udinese nel 1963 vendette laprimogenitura per un piatto di len-ticchie. Non occorre contemplare lerogge (dove sono ancora visibili!)per capire che l’acqua passata nonmacina più.

Sacha Fornaciariarchitetto

1 - Innanzitutto una precisa volon-tà, degli amministratori come dei cit-tadini; in seguito la coscienza cheper fare un giardino non basta un’or-dinanza, una targa o un retino verdesul piano regolatore. Per fare ungiardino urbano vero, che possarealmente essere vissuto e amato, èindispensabile uno spirito poetico ela capacità di sognare; l’umiltà diguardare al passato e l’audacia dipensare al futuro senza i legacci del-lo status quo.

2 - Non vorrei soffermarmi tantosull’opportunità o meno di realizza-re quel parcheggio in quel punto; en-trambe le opzioni possono infatti es-sere ben argomentate. Il grave erro-re, a mio avviso, è stato invece com-messo nel decidere ‘come’ farlo. Laconcezione di un’opera potenzial-mente così invasiva in un punto fo-cale della città avrebbe richiestoestrema cautela e un solido rapportofiduciario fra committente e proget-tista. L’incarico per la progettazionepreliminare è stato invece affidato –sia pure a un professionista di gran-de capacità ed esperienza – median-te lo strumento altamente casualedella gara al massimo ribasso, conuna percentuale di sconto del 70%sulla base d’asta. Come se non ba-stasse, si è optato in seguito per il co-siddetto ‘appalto integrato’, il qualeaffida la gestione della progettazio-ne esecutiva all’impresa aggiudica-taria. Ora, è evidente che, nel perse-guire legittimamente il proprio tor-naconto, l’impresa cercherà di opta-re per le soluzioni più convenientidal punto di vista economico. Talisoluzioni saranno chiaramente fun-zionali e ‘a norma’, perchè questoesigono la legge e i patti contrattua-li; nessuno strumento legale o ammi-nistrativo punisce però un’operabrutta. La concezione dell’indifendi-bile rotonda tangente all’ellisse na-poleonica e dei primi corpi esternipubblicati dai giornali denotanoun’aridità concettuale e una man-canza di sensibilità che la commit-tenza pubblica sin dall’inizio nonavrebbe dovuto permettere. Sonoabbastanza sicuro che un’eventualeprima risposta a queste mie osserva-zioni reciterebbe: «È la norma, èl’Europa, non si può fare altrimen-

ti...». Non è vero. La progettazionedi un’opera così importante avrebbepotuto e dovuto essere affidata conun concorso di idee (aperto o a invi-to, se ne può discutere) che contem-plasse un progetto unitario, suddivi-sibile in lotti ma comprendente an-che la sistemazione di tutta la piazzae della viabilità.

3 - Andando forse controcorrentenon ritengo indispensabile limitare iltraffico verso viale della Vittoria; ingenere tutti i parchi urbani di grandio piccole città sono lambiti da un’ar-teria di scorrimento. Credo inveceche il traffico dovrebbe essere elimi-nato sugli altri tre lati, unendo l’ellis-se ai giardini Fortuna ed estendendoil giardino a nordest fino al largo del-le Grazie e a sudest fino alla cortinaedilizia dal lato del Conservatorio.

4 - È un’idea stimolante, carica diquella tensione verso il futuro e diquello spirito visionario che dovreb-be essere fatto proprio da ogni am-ministrazione di questa città.

Francesca Venutodocente e studiosa

1 - L’ellisse del Giardin Grande èstata originata, dopo ampia e reitera-ta discussione, negli anni del Regnoitalico secondo i criteri ornamental-celebrativi tipici dell’età napoleonica(primo Ottocento). È nata come piaz-za-giardino ispirata a principi monu-mentali ma ha sempre avuto comepunto di riferimento l’esempio delpadovano Prato della Valle, impor-tante luogo della celebrazione e del-l’incontro. Tali premesse non hannoperò trovato nel tempo sviluppo ade-guato, anche perché lo spazio è statoripetutamente avvertito come perife-rico, non integrato al nucleo storicodi antico impianto. La marginalità(relativa) dell’area ha provocato que-sta impasse culturale: la piazza-giar-dino era sentita nel suo ruolo attivoin occasione della fiera di Santa Cate-rina, o di altri avvenimenti pubblici,molto meno nella quotidianità. Lepotenzialità del sito non sono stateadeguatamente recepite per cui, atutt’oggi, Giardin Grande è solol’embrione di quel che si sarebbe po-tuto e dovuto costituire, un incom-piuto in attesa di un vero progetto.

2 - Non ho consultato gli elaboratidi progetto ma semplicemente i ren-dering delle strutture di accesso pub-blicate sulla stampa locale. Mi sem-brano sbagliate sia per la collocazio-ne (davanti al giardino Antonini, co-prendo la visuale della fronte poste-riore del Palazzo palladiano) che perla forma. Infatti esse, pur dandol’impressione di strutture effimere,risultano impattanti e per nulla insintonia con il contesto di riferimen-to. Il particolare sito urbano in cui sipensa di collocarle è indubbiamente

problematico, come dimostra il di-battito che ha da sempre accompa-gnato il destino dell’area, ma certoad esse si deve prestare un’attenzio-ne particolare in vista di un inter-vento plausibile e adeguato. Impedi-re il godimento visivo del complessopalladiano e del suo giardino dicomplemento nega un’adeguata va-lorizzazione ad uno del principalielementi che dialogano, qualificanoe rendono unico l’insieme, in strettorapporto con l’ellisse alberata e lesue quinte. Si sarebbe potuta sfrutta-re meglio tale occasione progettuale,di cui uno dei presupposti dovrebbeessere che l’‘oggetto’ che si vuolerealizzare per ragioni di utilità do-vrebbe anche rappresentare un ele-mento di arricchimento della parti-colare situazione ambientale che loospita, quindi una soluzione mirata.Non sembra questo l’orientamentoseguito: le strutture proposte potreb-bero sorgere in qualunque anonimaperiferia. Se non vi è la capacità diperseguire la via creativa, si dovreb-be almeno cercare di mimetizzareforme e volumi in modo da rendere‘invisibile’ l’intervento.

3 - Una soluzione del genere puòessere considerata al fine di snellirel’impatto che l’attuale traffico veico-lare produce in questa parte dellacittà, da cui possono partire dei busnavetta per i collegamenti con learee urbane circostanti.

4 - È decisiva la funzione di questosito come connessione/raccordo coni percorsi che vi confluiscono. Il pro-blema sta nella capacità di definireoperativamente una simile prospet-tiva conferendo attrattività al grandeinvaso ora finalizzato quasi esclusi-vamente a parcheggio. Frutto del di-battito illuministico e primo-ottocen-tesco, che aveva già anticipato pro-blematiche come quelle ora scottanti,Giardin Grande potrebbe accordarsia quello che è stato il suo modello, ilPrato della Valle, riqualificato intempi recenti anche nella sua funzio-nalità. Il destino vincente di GiardinGrande dovrebbe essere quello diesercitare un influsso centripeto, percoinvolgere gli elementi significativisparsi ai margini, in modo da ren-derli organicamente coerenti. Biso-gnerebbe concepire un interventoprogettuale che dia soluzioni prati-che a beneficio dei collegamenti fun-zionali ma anche ad una valorizza-zione formale dei poli di interesseperimetrali o adiacenti in modo daconferire un senso di compiutezzaall’insieme. Si potrebbe trarre ispira-zione da certe progettazioni contem-poranee – attuate in Italia e soprat-tutto in alcune città estere – che of-frono risposta al problema di riquali-ficare attraverso il verde le preesi-stenze, rispondendo all’esigenza diconciliare le urgenze pratiche conquelle estetico-rappresentative.

Una foto dell’attuale giardino Loris Fortuna prima dell’apertura di viale della Vittoria, avvenutanel 1924. Si noti la biancheria stesa ad asciugare tra gli alberi

Una veduta dell’area del futuro parcheggio e dell’attuale giardino Fortuna nei primi anni ’50 In primo piano, al di qua di viale della Vittoria, il luogo dove verrà costruito il parcheggio

(continua da pagina 1)

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Èterminata il 12 maggio lanona edizione della mani-festazione Vicino/Lontano, il

cui tema è stato Dialoghi sul mon-do che cambia. L’evento che l’hacaratterizzata è stato il PremioTerzani consegnato a George So-ros per il libro La crisi globale el’instabilità finanziaria europea(Hoepli, 2012). Soros, nato a Bu-dapest nel 1930 e naturalizzatocittadino americano, è un finan-ziere internazionale che vede il

mercato solo come un termome-tro che segnala la febbre delle monete, mentre lui si immagina co-me medico e benefattore dell’umanità. Con una parte dei suoiproventi egli sostiene l’Institute for New Economic Thinking, da luistesso fondato nel 2009 e per cui lavorano, fra gli altri, l’economi-sta francese Jean Paul Fitoussi e due premi Nobel, lo statunitenseJoseph Stiglitz e il filantropo indiano Amartya Sen: il loro proget-to è finanziare un mercato ‘democratico’.

Siamo di fronte a un autentico capolavoro del post-moderno: ilfinanziere che predica ai post-moderni che lo adorano e lo pre-miano, il facoltoso straricco travestito da medico che con smorfiasarcastica, bonomia paciosa e sorridente improntitudine promet-te gli improbabili miracoli della ‘democrazia economica’. Soros

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TERZA PAGINA

Erano i primi anni Sessan-ta quando entrai allo“Stellini” e, nel luglio

1971 (con la mia laurea a Pado-va), si chiudeva non solo la miaesperienza studentesca in Ita-lia, ma anche la mia residenzanella penisola. La mia narrative,che in inglese-americano signi-fica più o meno la mia formamentis, era stata scolpita dallastoria familiare così come si erasvolta in quell’angolo di mondo che era il Friuli strizzato fra Italia,Austria e Jugoslavia. Ero cresciuto non solo fisicamente ma so-prattutto mentalmente all’ombra della ‘cortina di ferro’ e i fram-menti di un intero secolo avevano finito per essere gli ingredienticostitutivi di quello che sono ancora oggi. I confini di quei tre Pae-si erano cambiati tre volte nella vita della mia famiglia: quandomio nonno aveva vent’anni, quando mio padre era ventenne e poidi nuovo quando anch’io raggiunsi quell’età.

Gli anni Sessanta, poi, furono gli anni dei movimenti studente-schi in tutta Europa, la prima vera grande ribellione della genera-zione nata dopo la Seconda Guerra Mondiale: dal Vietnam alle in-vasioni sovietiche, prima dell’Ungheria nel ‘56 poi della Cecoslo-vacchia nel ‘68. Il fascino del cambiamento aveva attratto e sedot-to una nuova generazione, cioè la mia, e la reale possibilità di con-tribuire direttamente e personalmente a quel processo di trasfor-mazione radicale trovò in Gian Giacomo Menon, tra i primi, unavoce che pareva in sintonia con quel mondo che cercava faticosa-mente e con grandi difficoltà di cambiare. Non nel modo ideologi-co e banale che appariva dalle prime pagine dei giornali, ma inuno assai più profondo: lui non si stancava di ripeterci, con mono-tona convinzione, che tutti i grandi uomini il loro contributo almondo lo avevano dato prima di avere compiuto i ventinove anni.Oltre quell’età, sosteneva Menon, c’era ben poco che uno potesseaggiungere.

Provocatorio dunque, ma in modo anomalo, negli anni dellacontestazione, della prima scossa al mondo ‘bipolare’ di allora.Non faceva un discorso ideologico, buono per la piazza, ma moltopiù profondo e duraturo. In inglese c’è un detto: If not now when, ifnot me who? («se non ora, quando, se non io, chi?»). In altre parole:la responsabilità dell’individuo nel presente, nel costruire quelloche non esiste ancora, cioè il futuro. Nel messaggio anomalo e di-rompente di Menon trovai più tardi la mia interpretazione: la sto-

Lo scorso 5 giugno nel-la sala Corgnali dellaBiblioteca Civica di

Udine, davanti a un attentoe numeroso pubblico, ilprof. Rienzo Pellegrini del-l’Università di Trieste e ilgiornalista Cesare Sartorihanno presentato Poesie ine-dite 1968-1969, silloge diGian Giacomo Menon (Me-dea 1910 - Udine 2000) pub-blicata nell’aprile di que-st’anno dall’editore Aragnodi Torino. Per gentile con-cessione dei curatori dellaraccolta, pubblichiamo alcu-ni passaggi della presenta-zione che Cesare Sartori hadedicato al proprio maestro,e un ricordo scritto da Gian-domenico Picco, egli pureallievo del professor Menon.

Nella sua lunga vita, comelui stesso annotò quattro anniprima di morire, ha scritto piùdi centomila poesie, oltre unmilione di versi, di enigmatico,

ermetico splendore. Ma non hapubblicato niente o quasi, se siesclude un libro di versi editonel 1998 da Campanotto (I bi-nari del gallo, curati da CarloSgorlon e Maria Carminati).Gian Giacomo Menon non èstato soltanto uno storico, anzileggendario, professore del liceoclassico Stellini, dove ha inse-gnato filosofia e storia a due ge-nerazioni di studenti ininter-rottamente per trent’anni finoal 1968, per poi concludere lacarriera scolastica alle magi-strali «Percoto», ma anche esoprattutto un poeta.

Conversatore brillante e fre-quentatore di salotti e circoliculturali, dal 1957 Menon ab-bandonò ogni forma di vitamondana per una «decisione diassenza» che poi perseguiràcon determinazione trascor-rendo oltre metà della vita ‘na-scosto’ in casa «a consumareun’amara invenzione», evitan-do di lasciare tracce di sé e ogni

contatto pubblico o socialeescluso l’insegnamento. Perlui la poesia fu «ferita e farma-co insieme», baluardo e sollie-vo dal mondo; eppure, alla fi-ne, scacco e impotenza.

Attore consumato, istrione egran narciso, Menon amavastupire e sorprendere i suoi in-terlocutori con atteggiamentibizzarri e prese di posizioneprovocatorie (con cui sperava,

tra l’altro, di riuscire a cattu-rare l’attenzione dei suoi allie-vi). Il suo modo di fare lezioneera intrigante, suggestivo, af-fascinante. Beffardo, trasgres-sivo, controcorrente, mai bana-le, a volte feroce, elitario, fuuna figura controversa, sco-moda e ingombrante, ma unodei pochi «creatori di ponti»tra culture, discipline, «mon-di» diversi.

L’altro nelle frange del tempomargine di oggetti consumatiè solo la parola di tenon urto di avventuralegge dell’estroventaglio di condizionifoglie di pioggia e di ventoe alienarsi nella diversità delle oree chiedere il voltouna fuga di specchi imprevistie quelle mani che premonoindecisa creta dell’esserema tu mi rinunci amore che getta il dadoe non sai la figura

Presentata una raccolta di inediti dello storico docente dello Stellini

Gian Giacomo Menon: quell’‘enigmatico splendore’

Nichilismo, pensiero debole e ironia postmodernaha capito tutto. Se il PIL nel mondo è di circa 60.000 miliardi di dol-lari, i titoli che circolano sono quasi dieci volte tanto, poco sotto i 600mila miliardi di dollari. Nessuno è in grado di controllare una talequantità di finanza, anche perché il bellum omnium contra omnes diHobbes è in vigore tuttora.

Intanto, in ltalia, le banche sono considerate da certi intellettuali co-me opera del demonio, ma se le aziende falliscono è proprio perchéle banche non fanno più credito. E più le aziende falliscono, più lebanche hanno crediti in sofferenza e meno soldi prestano alle impre-se. Ma per gli ironici del post-moderno c’è sempre il capro espiatorio,qualcuno o qualcosa colpevole dei trent’anni in cui sono cresciute ledisuguaglianze e diminuiti gli investimenti, o dei quindici anni in cuisi sono ridotte le pensioni, o degli ultimi ventiquattro anni in cui si èperduta la produttività o dei quindici anni in cui è crollato il PIL. Co-me c’è sempre qualcuno colpevole dell’evasione fiscale, che pure esi-ste dai tempi di Romolo e Remo, o del problema del Sud, che conti-nua dai tempi del diluvio universale.

E intanto le cifre ci ricordano che un lavoratore su tre è precario,che il PIL è sceso in quattro anni di sette punti e che le imprese, se pa-gassero le tasse fino all’ultimo euro (oggi che la pressione fiscale rag-giunge anche il 68% sui profitti), sarebbero in buona parte costrette achiudere. Mentre succede questo, gli intellettuali del pensiero deboleci spiegano che il lavoro è una condanna inventata dai ricchi, che ilgioco è il bello della vita, che la follia è un’invenzione di cattivi psi-chiatri e che la felicità perfetta è quella del pensiero liberatore, a con-dizione però che sia pensiero debole, anzi flebile o quasi inesistente.

E ancora, mentre Platone ieri e Morin oggi ci ricordano che nonc’è politica senza competenza, i professori Ferraris e Rovatti si in-ventano una polemica di parole, anzi di semplici suoni, tra chi so-stiene – come Ferraris – che una ciabatta per terra è ‘reale’ perchéun bruco, un altro uomo, un cane, ma finanche l’edera e un’altraciabatta ‘la incontrano’ e chi – come Rovatti – considera tutto ciòuna mera ‘interpretazione’. Quest’ultimo intanto si lascia cullare,in un colloquio con un ex studente, dalla nostalgia del tempo incui da giovane amava Marx, ma non quello strutturalista e durodi Althusser, bensì quello giovanile o dei Grundrisse in cui si par-la di lavoro alienato, di valore d’uso etc. Anche lui, insomma, unantesignano dell’ironia post-moderna, della liberazione totale datutto e da tutti e per tutti. Da qui l’odio per il soggetto, per il giu-dizio, sinanche per l’atto mentale e la logica umana, compreso illinguaggio, che diventano ‘fascisti’, figli del mercato, e intaccanoogni principio e valore, eliminando tutto il reale, comprese le cia-batte di Ferraris...

Così tra un dialogo e l’altro, legando l’impossibile, e cioè Sorosa Marx, l’evento culturale si allontana e ci resta negli occhi e nel-la mente la cultura ridotta a spettacolo, mutata in una formapseudo popolare fatta di chiacchiere, equivoci e curiosità, comedirebbe senza incertezze Martin Heidegger. Ci viene da chiedere,allora, ai profeti del pensiero-debole: esistete veramente comereali o non siete anche voi un’‘interpretazione’ o addirittura la vo-stra interpretazione dell’interpretazione?

Daniele Picierno

Sala Corgnali della Biblioteca civica di Udine. Il professor Rienzo Pellegrini e ilgiornalista Cesare Sartori, che hanno presentato il libro di Menon

Il mio ricordodel professor

Menon

George Soros

Giandomenico Picco(segue a pagina 12)

Il professor Menon durante una lezione negli anni ’50

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PROGETTO DIRITTO E GIUSTIZIA

di saluto del preside dello Stel-lini, prof. Giuseppe Santoro,della presidente degli Stellinia-ni, prof.ssa Elettra Patti, e delpresidente della sezione di Udi-ne e Gorizia dei Giuristi cattoli-ci, notaio Paolo Alberto Amo-dio.

Il compito di analizzare l’ope-ra del filosofo campano e il pro-cesso da lui subito è stato inve-ce, rispettivamente, affidato alprof. Daniele Picierno, già do-cente di storia e filosofia del Li-ceo nonché presidente onorariodegli Stelliniani, e al prof. Dani-lo Castellano, docente di filoso-fia del diritto e preside della fa-coltà di Giurisprudenza dell’U-niversità di Udine.

Daniele Picierno

Giordano Bruno: filosofo eteologo tra vecchio e nuovo

Chi è stato davvero quell’uo-mo nato a Nola, dodici migliada Napoli, nel 1548, che di no-me faceva Filippo e appartene-va alla famiglia dei Bruni? Percercare una risposta all’interpre-tazione di un personaggio permolti aspetti ancora enigmatico,il prof. Picierno ha voluto in-nanzitutto ricordare quali fos-sero stati i primi maestri di Bru-no: Giovan Vincenzo del Colle,detto il Sarnese, che lo intro-dusse allo studio di Aristotele eAverroè, e Teofilo da Vairano,che lo avviò alla conoscenza diSant’Agostino. E ha voluto al-tresì ricordare come Bruno, en-trato a far parte dell’Ordine deiDomenicani ed assunto il nome

di Giordano, si fosse laureato inteologia con una tesi su SanTommaso d’Aquino. Proprio lostudio del filosofo aquinateavrebbe influito in misura de-terminante sulla personalità diBruno, il cui temperamento in-quieto e assetato di sapere tro-vò immediata corrispondenzanell’esaltazione che Tommasoaveva fatto della libertà, intesacome strumento che Dio offreall’uomo per procurarsi la sal-vezza.

Il tema della libertà e del me-rito sarebbe divenuto, così, laragione stessa della vita di Bru-no, e il relatore ha voluto sotto-lineare l’ulteriore contributoche in questa direzione egli ri-cevette dalla riflessione su Ago-stino. Contrariamente a quantosi ritiene, infatti, la concezioneagostiniana reputa che il donodella salvezza non dipenda sol-tanto dalla grazia divina, maanche dal modo con cui l’uomoesercita la propria libertà. Ritor-na, quindi, in Agostino il con-cetto della salvezza intesa comepremio, il cui postulato nonpuò che essere la libertà di au-todeterminarsi fra il bene e ilmale.

Divenuto nel frattempo atten-to lettore di Erasmo da Rotter-dam, Bruno cominciò non an-cora trentenne la sua peregrina-zione per varie città e nazionid’Europa. Da Napoli nel 1576egli si spostò a Roma, e poi inLiguria, a Torino e a Padova,finché nel 1579 raggiunse Gine-vra, la città di Calvino e unadelle culle dell’eresia protestan-te. Qui egli abbandonò il saio e

La figura e il processo diGiordano Bruno sono sta-ti il tema del Progetto Di-

ritto e Giustizia 2013, evento cul-turale che costituisce uno degliappuntamenti più attesi dell’at-tività degli Stelliniani. Le duefasi in cui si è svolta l’iniziativasono state il certamen filosoficodedicato alla memoria del prof.Sergio Sarti e vinto da GabrieleGiacomuzzi – allievo dello Stel-lini, il cui componimento vienepubblicato nella rubrica ‘crona-che stelliniane’ – ed il successi-vo seminario di studi pressol’aula magna del liceo.

Organizzato come di consue-to con la collaborazione dell’I-stituto e dell’Unione ItalianaGiuristi Cattolici, il Progetto Di-ritto e Giustizia si propone diesaminare attraverso un con-fronto dialettico, che cerca di ri-petere situazioni e dinamichedel dibattito processuale, argo-menti di spiccata valenza teore-tica e morale. Dopo i preceden-ti del processo a Socrate e diquello a Galileo, l’edizione del2013 ha avuto come protagoni-sta una delle personalità piùcontroverse del tardo Rinasci-mento italiano: quel GiordanoBruno (1548-1600) che fu dome-nicano e filosofo ma soprattuttoinesausto ricercatore della veri-tà e, per questo, assurto a sim-bolo dell’umana tensione, nonpriva di eroici furori quanto diirrisolte contraddizioni, versola libertà e la conoscenza.

I lavori, moderati dall’avv.Gabriele Damiani, vicepresi-dente dell’Associazione, sonostati introdotti dagli interventi

L’opera e la vita del filosofo al centro dell’annuale seminario di studi

Un visionario, un eretico oppure un martire:chi è stato veramente Giordano Bruno?

aderì al calvinismo salvo prestoallontanarsene, avendo scoper-to che il fondamentalismo deglieretici era ancora più esaspera-to dell’intransigenza dei cattoli-ci. Egli aveva compreso, infatti,che non può esistere vera liber-tà senza autentica tolleranza e ilsuo progetto era quello di vive-re in un mondo pacificato, incui la moderazione prevalessesui fanatismi ideologici e laprofessione del proprio credoreligioso o filosofico non diven-tasse pretesto per sanguinoserese di conto.

Purtroppo per Bruno, lo spiri-to dei tempi parlava un altrolinguaggio. Quando, dopo averlasciato Ginevra, si trasferì aTolosa e poi a Parigi, la Franciaera dilaniata dal conflitto fra icattolici e gli ugonotti. In quelloscenario turbolento, egli cercòdi spendersi per la causa dellariconciliazione fra i due partitied ebbe rapporti privilegiaticon il re Enrico III e soprattuttocon il suo successore: quell’En-rico di Navarra, esponente fra ipiù moderati della fazione ugo-notta, che si sarebbe convertitoal cattolicesimo e, assurto altrono con il titolo di Enrico IV,avrebbe promulgato nel 1598l’editto di Nantes sulla libertàreligiosa.

Dopo un breve soggiorno aLondra, Bruno pensò che ilvento della tolleranza avesse fi-nalmente ripreso a soffiare an-che in Italia e vi fece ritorno nel1592, scegliendo come meta Ve-nezia. I suoi calcoli erano pur-troppo sbagliati, perché proprioa Venezia venne giudicato insospetto d’eresia e gli furonomosse venti accuse, per le qualifu denunciato al tribunale del-l’Inquisizione. Cominciava così

l’ultima tappa del suo pellegri-naggio, quella che da Venezial’avrebbe portato a Roma, dovele accuse furono ridotte a ottoed ebbe come più implacabilecensore il cardinale Bellarmino.Molti dei capi d’accusa eranogenerici e lo stesso Bruno, pe-raltro, si era dichiarato prontoall’abiura. Su due punti, tutta-via, l’accusatore era riuscito adinchiodare l’accusato: essi ri-guardavano l’adesione di Bru-no all’eresia novaziana, secon-do la quale era incerto se Diostesso avrebbe potuto perdona-re agli uomini i loro peccati, el’affermazione che l’anima staal corpo come un nocchiero allanave. Entrambe quelle teorieerano in effetti incompatibilicon le sue premesse ideologichee contraddicevano sia la tesidella libertà di autodetermina-zione dell’uomo – che perciò,neppure qualora avesse scelto ilbene, sarebbe stato certo di me-ritare la salvezza – come pure ildogma dell’immortalità dell’a-nima.

Non può tuttavia dipendereda queste estreme contraddi-zioni – ha concluso il relatore –il giudizio che i posteri devonoesprimere su Bruno. Si dovrà,piuttosto, riconoscere che eglifu tutt’altro che un pensatoreconfuso, anche quando avevaprofessato l’idea che religione efilosofia fossero un’unica cosa.Coerente a questa regola, egliaveva preteso di essere, ad untempo, sia frate che filosofo.Soltanto la storia potrà dire seciò bastasse per farne un ereticoo se la testimonianza che di luiè destinata a sopravvivere nonsia invece il suo infinito amoreper la verità e per la conoscen-za.Il tavolo dei relatori. Da sinistra il professor Daniele Picierno, l’avvocato Gabriele Damiani, il professor Danilo Castellano e la professoressa Elettra Patti

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Danilo Castellano

Della legittimità del processoe di un processo: il caso Bruno

Il prof. Castellano ha premes-so come la memoria brunianasia stata spesso costruita in fun-zione dell’ideologia latu sensuliberale, secondo la quale Brunoviene considerato un martiredella libertà di pensiero, e hainvitato a una lettura oggettivae demitizzata del filosofo nola-no, ammesso che tale egli siastato. Il relatore ha avvertito,infatti, che la libertà del pensie-ro non va confusa con la libertàdi pensiero, né la filosofia conla biografia, la morale con il vi-talismo o la scienza con loscientismo. La sua relazionenon si proponeva, in ogni caso,di soffermarsi sull’opera e sullavita di Bruno, quanto invece diesaminare il processo istruitonei suoi confronti e di analizza-re, più in generale, quali sianole condizioni dalle quali dipen-de la legittimità di un processo,inteso come il luogo nel qualeogni ordinamento giuridicorealizza il proprio fine.

Il primo problema da affron-tare è dunque rappresentatodalla domanda: quale giustiziasi persegue con il processo? Al-cune scuole giuridiche ritengo-no che la giustizia attuata nelprocesso sia quella che lo stessoordinamento individua cometale. Si tratta di una concezioneformalistica, secondo la quale èlo stesso legislatore, obbedendoalle proprie inclinazioni politi-che e filosofiche, a stabilire ilconcetto del ‘giusto’. Questadottrina, anche oggi maggiori-taria nel campo del diritto pe-nale, considera il reato comequel comportamento umanoche, a giudizio del legislatore,contrasta con i fini dello Statoed esige come sanzione una pe-na. Una simile definizione, tut-tavia, finisce con l’abbandonareil reato e la conseguente penaall’arbitrio del detentore del po-tere di turno.

A giudizio di Castellano, i ter-mini della questione vanno ro-vesciati: non è l’ordinamento acostituire il fondamento dellagiustizia, ma è la giustizia a co-stituire il presupposto dell’or-dinamento. Il fine del processo,essenzialmente di quello pena-

le, dovrebbe essere pertantoquello di instaurare (o restaura-re) non un ordine qualsiasi, mal’‘ordine giusto’ cui è subordi-nato anche il legislatore. Soloquesta condizione consentireb-be di definire legittimo sia l’or-dinamento che il processo. Lalegge positiva, infatti, può esse-re ‘fonte’ esclusivamente for-male del diritto. La fonte so-stanziale di questo è, invece,l’‘ordine giusto’, per la cui indi-viduazione è indispensabile lafilosofia. Un’osservazione, que-sta, che vale per ogni processo,compreso quello subito daGiordano Bruno, e per ognisanzione, compresa quella chevenne inflitta al filosofo dal-l’autorità secolare, sulla basedel verdetto dell’Inquisizione.

Un’altra domanda che è do-veroso porsi, trattando del pro-cesso a Bruno, è se esso potesseessere considerato ‘legittimo’ ese fosse legittimo lo stesso tri-bunale dell’Inquisizione. Ca-stellano ha osservato come laChiesa, al pari delle altre istitu-zioni, abbia non solo il dirittoma il dovere di intervenire, atutela del bene delle anime deifedeli, sulle questioni di fede edi morale. A tal fine, essa devepronunciarsi sulle questionicontroverse e stabilire ciò che èconforme alla verità rivelata eciò che apertamente o virtual-mente la impegna. GiordanoBruno sollevò soprattutto que-stioni teologiche, impugnandoverità definite e contestando lalegittimità della stessa Chiesa;anzi, per essere più precisi, diogni chiesa. La gnosi che stavaal fondo del suo pensiero e del-la sua prassi non gli consentiva,perciò, di dirsi cristiano.

Castellano ha inoltre ricorda-to come l’Inquisizione fosseun’istituzione ecclesiastica, fon-data alla fine del XII secolo (an-che se quella romana venne co-stituita soltanto nel 1542) con loscopo di indagare circa even-tuali eresie anche al fine di evi-tare scismi e, comunque, disor-dini interni alla Chiesa ed eser-citò la propria giurisdizionesoltanto sui cristiani. L’Inquisi-zione si limitava ad emettere lasentenza, ad assolvere dall’ac-cusa di eresia o a riconoscerlafondata, senza andare oltre.

È per questo che la Chiesa nonha alcuna responsabilità per il

rogo, la cui introduzione si do-vette al laicissimo imperatoreFederico II, che nel 1231 stabilìche gli eretici fossero bruciati al-la presenza del popolo.

Era dunque davvero un ereti-co Giordano Bruno, questo sa-cerdote domenicano la cui ‘filo-sofia’ (che, proprio perché sua,autentica filosofia non era) tan-to contrastava con la sua prete-sa di essere cristiano e addirit-tura di mantenere lo status reli-gioso? Dopo che nella primaparte del processo, quella svol-tasi a Venezia, gli erano statemosse venti censure, con l’e-stradizione a Roma le accuseerano divenute otto e riguarda-vano i seguenti punti: 1) la ge-nerazione delle cose e i due

principi dell’esistenza; 2) l’af-fermazione secondo la quale auna causa infinita corrispondeun effetto infinito; 3) il proble-ma della creazione dell’animaumana; 4) il principio secondoil quale nulla si genera e nulla sicorrompe secondo la sostanza;5) il moto della Terra e l’adesio-ne di Bruno alla teoria coperni-cana; 6) la definizione degliastri come angeli, corpi animatirazionali che lodano Dio e an-nunciano la sua potenza e gran-dezza; 7) l’attribuzione alla Ter-ra di un’anima sensitiva e razio-nale; 8) l’affermazione che l’ani-ma sta nel corpo come un noc-chiero nella nave (negazionedel principio di forma, definitodal Concilio di Vienne). Furonoqueste le proposizioni che egli,dopo un’iniziale disponibilitàall’abiura, non volle ritrattare eper le quali l’Inquisizione gli ri-conobbe la colpa dell’eresia.

Questo, dunque, era stato ilprocesso a Bruno: un processoche aveva obbedito a delle re-gole, nel quale egli aveva avutola possibilità di difendersi eche, pertanto, doveva essereconsiderato legittimo. Il proces-so, assieme all’ordinamentogiuridico del quale è attuazio-

ne, costituisce del resto – haconcluso il relatore – una condi-zione ineliminabile di ogni so-cietà politica. Il vero problema èrappresentato, semmai, dal fon-damento dell’ordinamento giu-ridico che, se non poggia sullaverità del diritto, finisce peravere come fondamento il pote-re delle ideologie. Egli ha sotto-lineato, a questo riguardo, co-me anche la Chiesa, essendo es-sa stessa un’istituzione (pergiunta divina), non si sottraggaall’esperienza giuridica e cometutti i cattolici siano sottopostiall’ordinamento canonico.

Quanto all’Inquisizione, essafu soltanto uno dei modi attra-verso i quali si accertava la pro-fessione e la pratica di eresia, né

alla Chiesa era consentito di ri-nunciare a questo accertamen-to, posto a salvezza della salusanimarum. Il processo dell’In-quisizione, in ogni caso, eramolto più garantista e più ri-spettoso dei diritti individualidi quanto non lo fossero i coeviprocessi civili: la pena del rogonon rientrava nelle prerogativedella Chiesa, essendo compe-tenza dell’autorità civile, e fuproprio l’autorità civile a deci-dere che gli eretici dovesserosubire quella forma di condan-na. Il tribunale ecclesiastico cer-cò piuttosto di ritardare in tuttii modi il momento dell’esecu-

zione, anche per consentire aBruno di esercitare quell’estre-mo ravvedimento che gli avreb-be risparmiato la vita.

Nonostante il martirologioche gli è stato talvolta riservato,Bruno non può tuttavia essereconsiderato un martire del pen-siero e della libertà, essendo ne-cessario distinguere – ad avvisodi Castellano – tra autenticopensiero e teorie fantastiche, tralibertà e rivendicazione di unpresunto ‘diritto’ all’anarchia.La sola coerenza, infatti, (am-messo e non concesso che Bru-no sia stato sempre coerente)non è sufficiente per il martirio.Anche i delinquenti possonoessere coerenti, ma ad essi nonvengono dedicati altari e, nor-

malmente, non vengono erettimonumenti. Se talvolta vengo-no eretti loro monumenti, ciò èin funzione di un’ideologia,non del pensiero. Il martirio ri-chiede fedeltà, non solamentecoerenza: Socrate e i martiri cri-stiani, per esempio, non riven-dicarono il ‘diritto’ ad esserecoerenti con le proprie opinio-ni, bensì testimoniarono fedeltàalla verità e a Dio e, quindi, ri-vendicarono il diritto di adem-piere a un dovere cui eranosoggetti e di cui, quindi, nonerano signori.

(a cura di Andrea Purinan)

Il coro dello Stellini che ha introdotto il seminario di studi

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I SOCI ONORARI

IL POPOLARE TELECRONISTA SOCIO ONORARIO PER IL 2013

Bruno Pizzul: «mens sana in corpore sanoè tutt’altro che un modo di dire»

Quando concluse, in modi non propriamenteconsensuali, il suo rapporto con lo Stellini e sitrasferì per l’ultimo anno di liceo al Dante di

Gorizia, non avrebbe mai immaginato che un giornosarebbe avvenuta la riconciliazione. Questo finale,forse, l’aveva intuito soltanto sua madre, udinese diborgo Pracchiuso, nella cui casa era nato, l’8 marzo1938, e alla cui preveggenza si deve se quel figlio –dalla paterna Cormons, luogo indimenticato deglianni giovanili – era tornato a Udine per iscriversi alclassico. Correvano i primi anni Cinquanta e perquella madre cittadina, vissuta fino al matrimonio vi-cino alla chiesa della Grazie, l’unica scuola possibileper un figlio amante delle belle lettere era quella del-la porta accanto: quello Stellini che, dopo la buferadella guerra e l’esilio in sedi provvisorie, era stato dapoco restituito alla riva del Giardin Grande.

Incontriamo Bruno Pizzul – nominato socio onora-rio degli Stelliniani per la sua straordinaria carrieradi telecronista sportivo, nel quale ha dimostrato unaraffinata capacità di raccontare costantemente sorve-gliata da equilibrio e ironia – nella piazza principaledi Cormons, non lontano dal monumento all’impera-tore Massimiliano I che ci ricorda di essere in quelleex province asburgiche dove l’anima pensosa delFriuli si addolcisce al contatto con le più lievi atmo-sfere della Venezia Giulia.

Seduti al tavolo di un bar e con la complicità di duecalici di bianco, assolviamo in fretta le formalità del-la presentazione e chiediamo a Bruno Pizzul del suopassato stelliniano.

«Mio padre, che era di Cormons, non era moltoconvinto di quella scelta, mentre fu mia madre, nataa cresciuta vicino allo Stellini, a decidere che suo fi-glio avrebbe dovuto fare il classico. È curioso fra, l’al-tro, che i miei genitori parlassero fra loro usando cia-scuno il rispettivo dialetto (l’uno il goriziano; l’altral’udinese), mentre a me si rivolgevano sempre infriulano. Dunque, a casa nostra non si parlava italia-no. Nonostante questo, proprio la lingua italiana sa-rebbe diventata il mio strumento di lavoro».

Che studente era Bruno Pizzul?«Non compete a me dire se fossi un allievo brillan-

te, anche se devo presumere che fosse stato proprio ilmio discreto rendimento scolastico, soprattutto nellematerie umanistiche, a compensare una certa incom-patibilità verso forme troppo intransigenti di disci-plina e a consentirmi di proseguire indenne il miopercorso di studi, almeno sino al termine della se-conda liceo».

Stentiamo a credere che il compassato Bruno Piz-zul fosse addirittura, nello Stellini dell’epoca, unsorvegliato speciale.

«E invece era proprio così. Tutto avvenne a causa diquello che potrei definire, in gergo calcistico, un ‘fal-lo di mano’».

Ci spieghi…«Allora le lezioni terminavano all’una meno cin-

que, mentre il treno che mi avrebbe riportato a Cor-mons partiva all’una e cinque. Avevo dunque solodieci minuti per uscire da scuola e arrivare in stazio-ne. Quei dieci minuti mi sarebbero stati sufficientiper attraversare mezza città e salire in vettura, se non

fosse stato che noi ragazzi, prima di uscire dall’atriodello Stellini, dovevamo attendere che fossero primasfollate le nostre compagne di scuola. A quel tempo,andava così».

E dunque…?«Un giorno, mentre mi trovavo a sgomitare tra le

ragazze per guadagnare l’uscita (e può immaginarequanto lentamente uscissero, ‘babando’ placidamen-te fra loro), mi capitò di posare, forse troppo ruvida-mente, la mano sul braccio di un uomo che non co-noscevo. Avrei saputo molto presto che si trattava delvicepreside Nadalini, un professore di matematicanoto per essere un autentico ‘cerbero’. Da quella vol-ta, il professor Nadalini mi additò come ribelle e iomi portai sulle spalle il peso di quella scomunica, an-che se devo onestamente riconoscere di non aver maifatto abbastanza per meritare una riabilitazione…».

Un ambiente piuttosto formale, mi pare di capire.«In effetti lo Stellini di quegli anni era una scuola

che si prendeva parecchio sul serio. Era il luogo nelquale si sarebbe dovuta formare la nuova classe diri-gente e al quale veniva indirizzata la maggior partedei ragazzi di buona famiglia. Chi, come me, venivada fuori avvertiva talvolta l’imbarazzo di non appar-tenere a questo sodali-zio. Del resto, anche icormonesi, sia pure consignificato diverso, ripa-gavano di egual monetagli udinesi, chiamandoli‘taliàns’, parola con cuivenivano identificati tut-ti coloro che vivevano aldi là dello Judrio».

Cosa ricorda dei suoicompagni e professori?

«Con alcuni dei mieicompagni della sezioneC mi sono tenuto in con-tatto anche in seguito emi sento tuttora. Ricor-do, fra gli altri, AntonioBiancardi, oggi a capodella Procura della Re-pubblica di Udine, e An-tonio Pinto, poi diventa-to insegnante, che era

cieco e di cui fui compagno di banco durante le le-zioni di greco. Resta un esempio di come, grazie allaforza di volontà, si possano superare anche ostacoliapparentemente insormontabili: riuscì a frequentareregolarmente e poi a diplomarsi grazie all’alfabetoBraille. Tra gli amici delle altre classi c’era anche Mas-simo Giacomini, che era di un anno più giovane econ il quale, giocando io all’epoca nella Cormonese,ero stato selezionato nella squadra di calcio delloStellini. Tra i docenti, non posso dimenticare i profes-sori De Faccio, al ginnasio, e De Leidi, al liceo, en-trambi di lettere, Bencini di matematica, Bordignondi filosofia, Barattini e Rea di educazione fisica. Du-rante le lezioni di ginnastica, a volte, ci portavanopersino nel giardino di piazza Primo Maggio».

Come avvenne il suo trasferimento?«Alla fine della seconda liceo il preside mi convocò

per dirmi che sarei stato graziato nel voto in condot-ta solo se avessi promesso, per l’anno seguente, dicambiare scuola. Non ci detti troppo peso, ma quan-do, qualche mese dopo, ritornai a scuola per iscriver-mi in terza il segretario mi prese in disparte e mi dis-suase dal farlo. Finiva così la mia avventura udine-se».

E cominciava quella goriziana…«Al Liceo Dante trovai un ambiente più congeniale.

La città era ancora attraversata da una fresca vitalitàmitteleuropea e il clima scolastico era più tollerante.Le maggiori differenze le notai a proposito del rap-porto tra la scuola e lo sport: a Udine ogni forma diattività sportiva era più o meno apertamente osteg-giata, tanto che lo Stellini – con l’eccezione della pal-lavolo femminile – finiva regolarmente ultimo nelconfronto con le altre scuole. A Gorizia gli allievi go-devano, invece, di un trattamento addirittura privile-giato se partecipavano ai tornei interscolastici».

Avrebbe mai immaginato, allora, di diventaregiornalista?

«Assolutamente no. Dopo la maturità classica alDante, cominciò la mia peregrinazione in varie città e

Bruno Pizzul, con la maglia del Catania, in un contrasto di gioco con Omar Sivori

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università d’Italia, tra cui quelle di Catania e di Bari,in cui mi divisi fra il calcio e la giurisprudenza. Ap-pese le scarpe al chiodo per un infortunio al ginoc-chio, mi laureai a Trieste e cominciai a insegnare let-tere alle medie di Gorizia, avendo nel frattempo su-perato l’esame di procuratore legale. A trent’anni ri-cevetti una lettera: la Rai bandiva fra i laureati unconcorso nazionale per programmisti televisivi. Ri-sposi e andai a Roma per una selezione. Tra i com-missari c’era Paolo Valenti, che mi suggerì di parteci-pare ad un corso di formazione per radio e telecroni-sti dove avrei trovato, fra gli altri, Paolo Fraiese eBruno Vespa. Superai la prova e nel 1969 feci il primoservizio televisivo: un’intervista a Eddy Merckx du-rante il Giro d’Italia. Poi, nel 1970, la prima telecro-naca e, sempre in quell’anno, i mondiali di calcio inMessico. Ero il più giovane della squadra Rai, la cui‘seconda voce’ era Nando Martellini ed il cui capita-no era il leggendario Niccolò Carosio. A lui devo unsuggerimento di cui ho fatto tesoro: «davanti al mi-crofono, cerca di essere sempre te stesso».

Qual è stata la telecronaca che ricorda con mag-gior piacere?

«Tutte quelle del Messico 1970, perché sono stati imiei primi mondiali, e in particolare i quarti di finaletra Germania e Inghilterra. Era la rivincita della fina-le 1966 ed i tedeschi rimontarono da 0-2 a 3-2. Li in-contrammo noi in semifinale e fu il 4-3 che è passatoalla storia».

E quale la più difficile?«Certamente quella da Bruxelles, per la finale di

Coppa dei Campioni 1985 tra Juventus e Liverpool.Prima della gara morirono trentanove persone e sol-tanto nel corso della partita fummo informati, un po-co alla volta, di quanto stava accadendo».

I calciatori più grandi?«Tra gli stranieri Pelè e Maradona, anche se quasi

tutti i giocatori con cui ho parlato mi hanno fatto ilnome di Schiaffino, centrocampista uruguaiano deglianni Cinquanta. Tra gli italiani, Rivera e Baggio».

I goals più belli che ha raccontato.«A proposito, non tutti sanno che sono stato io fra i

primi a sdoganare l’anglismo goal, ricevendo perquesto l’affettuosa censura di Gianni Brera. Prima,sia Carosio che Martellini usavano soltanto la parola‘rete’. Comunque, ne ricordo due su tutti: quello diMaradona dopo un fantastico slalom in Argentina-Inghilterra ai mondiali 1986 e il tiro al volo di Van Ba-sten in Olanda-URSS, finale degli europei 1988».

Lei ha viaggiato molto e da tanti anni vive a Mi-

za delle gerarchie di valore. Il doping, di cui si è abu-sato a tutti i livelli e la cui pratica va estirpata, è la ne-gazione di questo principio».

Torniamo alla sua formazione umanistica. Qualecontributo ha dato alla sua professione?

«È stata essenziale, da un lato perché la lettura deiclassici consente di acquisire conoscenze che diven-tano regole di comportamento e dunque valori, dal-l’altro perché una padronanza della scrittura è deter-minante per la formazione di un giornalista, anche seradiofonico o televisivo. Scrivere bene aiuta a parlarebene, e la scuola può fare molto in questo senso, alle-nando gli studenti a usare al meglio la nostra linguae preservandoli da inutili neologismi o dall’altrettan-to inutile ricorso a vocaboli stranieri (goal a parte, ov-viamente... n.d.r.)».

Siamo ormai al novantesimo. Prima di passare lalinea allo studio, c’è il tempo di un messaggio fina-le.

«Vorrei richiamare l’attenzione dei ragazzi sull’im-portanza fondamentale che questo passaggio dellaloro vita avrà sul piano dei ricordi e delle relazionipersonali. Le letture che si fanno, in particolare quel-le dei classici, e i rapporti che si stabiliscono sui ban-chi di scuola sono un patrimonio che li accompagne-rà per sempre».

Ci siamo appena congedati, quando una persona siavvicina e, dopo aver preteso l’anonimato, ci rivela:«Ebbene sì, anche il signor Pizzul ha un segreto. Vuo-le sapere quale? Sua moglie. Una persona ecceziona-le e, soprattutto, simpatica! Per favore, lo scriva».

Andrea Purinan

Bruno Pizzul nel 1958

COME DIVENTARE SOCIQuote associative per l’anno sociale 2013socio sostenitore: ............................................................€ 40socio ordinario: ...............................................................€ 20socio simpatizzante:.......................................................€ 20socio studente universitario: ........................................€ 10

Possono iscriversi, in qualità di soci sostenitori o ordinari, gli ex allievi, i docenti ed il personale amministrativo e tec-nico dell’Istituto, anche se non più in servizio. Possono aderire come soci simpatizzanti tutti coloro che, pur non go-dendo dei requisiti per iscriversi come soci ordinari o sostenitori, condividano le finalità dell’Associazione. La duratadell’iscrizione è annuale. Lo statuto dell’Associazione e le altre notizie che la riguardano sono reperibili sul sito inter-net.

L’iscrizione avviene:– rivolgendosi alla segreteria dell’Associazione: cell. 388/6459511

– oppure compilando il modulo che si può scaricare dal sito internet dell’Associazione (www.stelliniani.it) ed invian-dolo a mezzo posta alla prof.ssa Elettra Patti, 33100 Udine, via Brazzacco n. 3, corredato della ricevuta di versamen-to sul c.c.b. n° 740/4341669 P, presso la Cassa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia - Codice IBAN IT80 V063 40123000 7404 3416 69P

L’indirizzo di posta elettronica e quello del sito internet dell’Associazione sono:

[email protected] – www.stelliniani.it

lano. Quanto ha contato in tutto questo l’esserefriulano?

«L’appartenenza a questa terra e ai suoi valori, chesono essenzialmente quelli della laboriosità e dell’af-fidabilità, la si apprezza soprattutto quando si è lon-tani. Nel mio caso, si è aggiunto il privilegio di par-lare in marilenghe con personaggi del calibro di Bear-zot e di Zoff, suscitando l’invidia dei colleghi i qualiimmaginavano che, parlando in quell’idioma a lorosconosciuto, mi stessero rivelando chissà quali segre-ti. Il friulano è la lingua che uso tuttora con mia mo-glie, cormonese anche lei, e trovo giusto che chi par-la in friulano si rivolga così anche ai propri figli. Nontrovo invece opportuno che questa lingua venga ado-perata a scuola, dov’è piuttosto necessario insisteresu un corretto esercizio dell’italiano».

Lei è una persona molto conosciuta. Qual è il suorapporto con la notorietà?

«Fare il telecronista garantisce sicuramente una note-vole visibilità e c’è anche il rischio di perdere la testa.Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto esistanomestieri molto più complicati che quello di raccontareun evento sportivo. E poi ci ha pensato mio figlio Fa-bio, molti anni fa, a togliermi ogni velleità divistica».

Cioè?«Era ancora all’asilo e un giorno tornò a casa con

una faccia avvilita. Interrogato da me e mia moglie,confessò. La maestra aveva chiesto ai bambini cosafacessero i loro padri. E ciascuno di loro aveva detto:“il mio fa l’impiegato, il mio il medico, il mio l’ope-raio, …”. “E tu?”, gli abbiamo chiesto. “E io non sa-pevo cosa fare. Non potevo mica dire che la domeni-ca vai a vedere le partite di calcio…”».

Bellissimo! A suo parere, qual è il rapporto tra lascuola e lo sport e quanto è importante per un gio-vane dedicarsi all’attività sportiva?

«A Udine e Gorizia mi sono toccate, come dicevo,esperienze molto diverse, ma dubito che la scuolaaiuti davvero gli allievi a svolgere un’attività sporti-va e ciò sia per il tempo ridotto che riserva all’educa-zione fisica, sia perché chi pratica uno sport fatica aconciliare questo impegno con quello che deve dedi-care allo studio. È evidente che tale sistema andrebbeprofondamente rivisto, perché lo sport può avere ungrande valore educativo, come io stesso posso testi-moniare e come sono solito ricordare ogni qual volta– e capita abbastanza spesso – mi invitano a parlarenelle scuole».

Anche lo sport, tuttavia, non propone sempreesempi positivi.

«Purtroppo è vero e questo vale sia per l’eccessivaingerenza dei fattori economici e commerciali, alpunto che molti atleti finiscono per diventare ostaggidel sistema mediatico a danno della loro dimensioneumana, sia per il ricorso al doping. Lo sport è forsel’unica attività umana in grado di garantire la certez-

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CRONACHE STELLINIANE

Il primo numero della collana «Quaderni stellinia-ni», curato dall’Associazione e costituito da unamonografia del professor Stefano Perini dedicata

alla storia del liceo classico udinese dal 1808, anno del-la fondazione, al 1866, anno nel quale la provincia diUdine fu annessa all’Italia, verrà presentato al pubbli-co dopo la fine dell’estate.

La pubblicazione, che sarebbe dovuta avvenire neimesi scorsi, è stata rinviata per completare l’acquisi-zione del vasto materiale documentario. Il volume,edito da Lithostampa di Pasian di Prato, si avvale inol-tre di un ricco apparato iconografico.

III ABAGNAROL DAVIDEBIANCHINI VALENTINACANTONI LUDOVICACOLMANO MARGHERITACOLOMBARO EDOARDODELLA ROSSA IRENEDEROUI YASMINEFANIN MIRIAMGERUSSI NICOLEGORIANI ISABELLAMAGNANI SOFIAMARTELLI ANNAMASAROTTI GIULIAMATELLON ENRICAMINISINI ALICEPICOTTI MARIALUISAPURINAN MASSIMOSANTANERA FRANCESCAVENTURINI JACOPOZULIANI MARTINA

III BBANCHERI BEATRICEBATTAINI GIACOMOBELLINA ALICEBULFONE ROSSANA

DEI GIULIAFABBRO CHIARAFORNASIN MATTEOIOAN GIULIALIZZIO CLAUDIAPAVAN RICCARDOPERIC ESTER CAMILLASGUAZZERO ALESSIAVARISCO ELEONORAVENTURINI ANNAZULIANI FRANCESCA

III CARMELLINI GIACOMOBARBIERA CAMILLABARBIERI LUCREZIABENEDETTI SOFIACANNELLOTTO CELINECIRIANI CATERINACLEMENTE ANNACOLLINO SAMUELDANIELIS BEATRICEFELICE GABRIELEGIORDANI MATTEOLIVON MARGHERITAMARCHESANO SARAMASTROMARINO LETIZIA

MOSANGHINI SERENAPELIZZO MARTINAPERGHER LAURAPEZZINI GIANLUIGIPIZZOLITTO FRANCESCARESTUCCIA LAURASANGOI SERENATOSATTO ALICETURCO FEDERICAVENDRUSCOLO SEBASTIANOZENAROLA MICHELAZUCCHIATTI SEDRIC

III DBASSO RICCARDOBASTIANUTTI RICCIONI CLEMENTINABELLO ARIANNACALLIGARIS GIULIACOSTANTINI GLORIADEMARCHI GIOVANNAELLERO IRENEFOLISI CAMILLAGATTESCO ELENAGHIRO MASSIMILIANOGREGUOL BRYANGRUDEN ALICEGUARNERI IRENE

MARINELLO CHANTALMUDEREVU JENNIFERSPECOGNA ELETTRATAVANO VALENTINATONINO CARLOTONIZZO ANNATOSOLINI ALESSANDROZARDO ELEONORA

III FARMANI VERONICABRUSCO VITTORIACIANCI VALERIOCLEMENTE PIERLUIGIDELENDI ROBERTODEL GIUDICE FILIPPODI GIORGIO FEDERICOLANGELLOTTI SIMONELUPIERI MATTEOMAGAGNIN ALICE LAURA MATILDEMARTINA MARIKAMOLINARO LUDOVICAPETRUCCO GIACOMOPIRANI GIACOMOPOSOCCO FRANCESCOSPIZZAMIGLIO FRANCESCOTONUTTO ERICA

VIRGILI OTTAVIAZANCANI ELEONORAZOPPAS CECCONI GAIA

III GASQUINI ENRICOCOSEANO GIULIADEOTTO MARIA LUDOVICADI BIASIO MARTADI NOIA MARTAD’ODORICO BORSONI GIOVANNIGAUDINO MASSIMOGRISOSTOLO ARIANNA MARIAMAGNIS ILARIAMASTRANGELO NICOLEMENEGON ROBIN MARTINAMICHELOTTI MATTIAMINISINI MARTINAPINOS LORENZOSACKEY PEARLSAVONITTO GILDATASSOTTI ELENAVALENTE ELISAVALLEFUOCO NICOLO’ZANCHETTA GIULIA

La traccia assegnata agliallievi per la stesura del-l’elaborato era tratta dal-

l’opera di Giordano Bruno, Del’Infinito, Universo e Mondi,Dialogo Primo – «Io dico l’uni-verso tutto infinito, perché nonha margine, termino, né super-ficie; dico l’universo non esse-re totalmente infinito, perchéciascuna parte che di quellopossiamo prendere, è finita, ede mondi innumerabili checontiene, ciascuno è finito. Iodico Dio tutto infinito, perchéda sé esclude ogni termine edogni suo attributo è uno ed in-finito; e dico Dio totalmenteinfinito, perché tutto lui è intutto il mondo, ed in ciascunasua parte infinitamente e total-mente: al contrario dell’infini-tà de l’universo, la quale è to-talmente in tutto, e non in que-ste parti (se pur, riferendosi al-l’infinito, possono essere chia-mate parti) che noi possiamocomprendere in quello».

Giordano Bruno, nato Filip-po, è stato uno fra i pensatoripiù ambigui ed enigmatici ditutta la storia della filosofiaoccidentale ed è stata una del-le menti più profonde e arditedell’ultimo Rinascimento ita-liano; la sua filosofia, dall’im-mane difficoltà e dall’irriduci-bile complessità, è ancor oggiforiera di molti dubbi e passi-bile di varie interpretazioni.

Egli nacque a Nola nel mag-gio del 1548, e da ragazzo en-trò in convento. Lì subito ebbeil primo dei numerosissimiscrezi che avrà con le autoritàecclesiastiche durante tutta lavita; fu rimproverato per avervenduto le immagini dei santie aver tenuto per sé solo uncrocifisso. In seguito ad altriincresciosi incidenti fuggì aRoma, dove si dice che abbiagettato nel Tevere un confra-tello che l’aveva riconosciuto.Fuggì di nuovo, e non cessòmai di girovagare, raggiun-gendo Parigi, Londra, Praga,Ginevra e passando da unacorte all’altra, da una confes-sione religiosa all’altra, sem-pre sul filo del rasoio e da unpericolo all’altro, fino all’ulti-mo, fatale: nel 1592 fu chiama-to a Venezia da Giovanni Mo-cenigo, interessato alla sua ar-te magico-mnemonica; delu-so, il Mocenigo lo denunciò

all’Inquisizione Veneziana,che nel 1593 lo consegnò aquella Romana; e lì, dopo an-ni di prigione e di processo,nel 1599 Bellarmino gli impo-se la scelta fra abiura e morte.Giordano Bruno, che primaaveva tentennato nel tentati-vo di salvare sia se stesso sia ilproprio pensiero, in quel mo-mento non ebbe dubbi, e scel-se la morte.

In tutta la sua vita, uno deitemi più esaminati e su cuiegli ha più esercitato il suo in-gegno è l’infinito, una temati-ca che percorre tutta la suaopera e tutto il suo pensiero esi manifesta in molteplici mo-di nella sua complessità e nelsuo essere intrinsecamente le-gata al concetto di Dio e alconcetto di sostanza. Infinitoè Dio, e infinito è anche l’uni-verso, ma differentemente,poiché Dio è infinito in ciascu-na delle sue infinite parti, e in-vece l’universo non è infinitoanche nelle sue seppur infini-te parti. Inoltre Dio è sia menssuper omnia totalmente all’e-sterno dell’universo sia unamens insita omnibus presentein tutta la materia e la sostan-za. Su questo concetto brunia-no i commentatori sono statiestremamente critici: alcuni vihanno ravvisato il principioaverroistico della doppia veri-tà, altri hanno visto nella menssuper omnia un semplice ‘con-tentino’ dato all’InquisizioneRomana; tesi, quest’ultima,difficile da sostenere, se nonaltro per le decine di afferma-zioni sull’estrema infinità diDio, che non può non richia-mare il concetto di trascen-denza.

É un problema interpretati-vo, poi, come Dio si leghi allamateria e alla natura, quale siala natura del concetto di mensinsita omnibus; la posizione delNolano su questo punto è va-riamente interpretata comepanteistica, o ilozoistica (ciò lorenderebbe affine ai filosofipreplatonici), o ilemorfistica(ciò lo paragonerebbe al filo-sofo ebraico Avicebron); tuttequeste posizioni illuminano inmodo differente il problemadell’infinito, che è collegato al-la mens insita omnibus.

Un infinito, comunque, chenon è assolutamente di carat-tere matematico, ma filosofico

e metafisico; Bruno difatti nonfu mai un matematico, né cre-dette mai che la matematicapotesse giovare all’uomo nelcomprendere qualitativamen-te il mondo, ma sempre cre-dette che questa fosse un mi-sero strumento di misura delquale l’uomo si può servireper comprendere il mondoquantitativamente, ed inoltreè risaputo che abbia tentato diottenere la cattedra di mate-matica all’università di Pado-va (quella che fu poi di Gali-leo Galilei) senza però riuscir-vi.

E benché l’infinito brunianofosse saldamente metafisico,egli vi credeva fermamente, esicuro era dell’infinità dell’u-niverso: egli fu uno dei più at-tivi promotori dell’idea radi-calmente innovativa di un co-smo illimitato, di una conce-zione che, anche se non scien-tificamente esatta, è molto at-tuale e moderna e sta alla ba-se della nostra idea di cosmo,che Giordano Bruno avevatrovato poiché nella sua visio-ne del cosmo non era concepi-bile la limitazione, il margine,il termine o la fine, ed essendoDio sia causa sia principio in-finiti il suo effetto, in alcunmodo può essere finito, e per-ciò anche la natura è infinita,anche se non della stessa tota-le infinità.

Il problema dell’infinito haun ruolo molto importantenella costruzione della suaconcezione del mondo; il No-lano credeva saldamente chequesto non fosse l’unico deimondi esistenti, che sono infi-niti nell’infinita materia, e chequindi il nostro pianeta nonpotesse essere più il centrodell’universo, che sarebbe di-ventato privo di centro, e so-prattutto, credeva che all’uo-mo non sarebbe rimasta alcu-na possibilità di ottenere lavera conoscenza del cosmo,ora infinito; la conoscenzamassima non passa attraversoil numero, ma attraverso ilsimbolo, l’allegoria ermetica,forieri di un sapere per defini-zione incompleto, essendo ilsimbolo ciò che ‘mette insie-me’, un surrogato della veraconoscenza, che è irraggiun-gibile ed inesprimibile.

Perciò, data l’infinità del co-smo, sono vane le pretese di

tutti i sistemi assolutistici cheriordinano tutto lo scibile conpretesa di completezza, e inquesto discorso si inserisce ildiscorso sulla pace (attualecome sempre), in special mo-do su quella religiosa, di Bru-no, che patì sulla sua pelle tut-te le sciagure della difficile si-tuazione politico-religiosa eu-ropea di quel periodo, ri-uscendo comunque ad eserci-tare la filosofia in modo alto eproficuo attraverso tutte leletture che ebbe modo di fare.Nella sua intensissima vita,Bruno lesse moltissimo, e libridi tutti i generi; da S. Tomma-so, lettura obbligata per undomenicano ma che comun-que egli apprezzava molto, aletture di magia, ermetismo ecabala, da testi sulla mnemo-tecnica lulliana (che fu per luicosì importante) a testi uma-nistici di Erasmo.

In questo vorace vortice diletture eterogenee e diversis-sime fra loro nasce il filosofa-re del Nolano, in cui è presen-te tutto ciò con cui egli è statoin grado, in un modo o nel-l’altro, di venire a contatto;questa è senza dubbio unadelle ragioni della difficoltàdel suo pensiero. Sembrereb-be che egli, nel forgiare la pro-pria filosofia, piuttosto cherammendare e cucire idee percostruire un sistema proprio,abbia preferito includerle tut-te, incurante delle contraddi-zioni, realizzando nel suopensiero una complessa edinestricabile summa dello sci-bile filosofico rinascimentale,tenendo come concetto fermoe ribadito solamente quelloche gli aveva permesso la rea-lizzazione di questa magmati-ca e totale visione filosofica:l’eroico furore, l’erotico slan-cio di passione verso la vita,verso il mondo, verso la cono-scenza, verso l’infinito cheegli amò tanto, verso Dio stes-so; in breve, l’aggressiva vora-cità di sapere che per tutta lavita ha caratterizzato il suoacuto e profondo intelletto,l’insaziabile sete di infinitoche non fu spenta nemmenodal fuoco nelle prime ore del-l’alba del 17 febbraio 1600.

Gabriele Giacomuzzi II C

Pubblichiamo il componimento di Ga-briele Giacomuzzi, studente dello Stelli-ni, classificatosi al primo posto dell’edi-zione 2013 del ‘Premio Sergio Sarti’. LaCommissione valutatrice ha espresso ilseguente giudizio: Il candidato ha eviden-ziato nella prova un ottimo livello di cono-scenze sul tema affrontato e il possesso di no-tevoli capacità logiche e argomentative. L’e-laborato mostra inoltre originalità d’impo-stazione e cura sotto il profilo formale. LaCommissione attribuisce pertanto all’allievoil punteggio di 95/100.

I maturi dello Stellini anno 2012-2013

La professoressa Patti premia i due vincitori del ‘Premio Sergio Sarti’: a destraè Gabriele Giacomuzzi, vincitore del primo premio, al centro Davide Quaglia,studente del Marinelli, classificatosi al secondo posto

STANNO PER ANDARE IN STAMPA I «QUADERNI STELLINIANI»

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CRONACHE STELLINIANE

Musica ed energia sul palco del-l’Auditorium Zanon in occasionedello spettacolo del 14 maggio,

dal titolo La musica nel sangue, promossodall’AFDS e organizzato dalle sezioni do-natori di sangue attive nei tre principali li-cei della città di Udine. Le formazioni mu-sicali di Stellini, Marinelli e Copernico sisono esibite con un programma vario e ric-co di spunti sia per un confronto artistico,

sia per una comune riflessione sull’importanza del dono.Come hanno evidenziato e ricordato i rappresentanti del-

l’amministrazione comunale e della stessa Associazione deiDonatori di Sangue (fra cui lo stelliniano Guglielmo DeMonte), la propensione al ‘dare’ e, più in particolare, al ge-sto stesso della donazione di sangue è tanto radicata nellanostra realtà regionale e nel nostro Paese da divenire quasiun vanto, rendendo possibile la totale autosufficienza del si-stema emo-trasfusionale grazie alla generosità dei volonta-ri. Un motivo di orgoglio, appunto, e una realtà su cui ri-flettere perché, in momenti di generalizzata difficoltà comequello attuale, sono gesti come questi a fare la differenza, so-prattutto nel mostrare una prospettiva di futuro diversa emigliore, nel regalare una speranza e attraversare con mag-giore serenità l’immediato futuro, su quel ‘ponte sopra ac-que agitate’ che possiamo creare tanto con la generosità diognuno di noi quanto, come in simili serate, con momentispeciali e di grande coinvolgimento emotivo.

L’invito al dono si è infatti concretizzato grazie alle varieesibizioni, in cui ogni gruppo ha potuto offrire e regalare i

Un gruppo di studenti delLiceo Classico J. Stellini,formato da Teresa Fogo-

lari, Francesca Giaiotti, MartaTrincardi, Irene Viscovich, Fran-cesco Tognato, Michele Banelli,Filippo Soramel e Giovanni So-ramel, ha partecipato al primoForum del Parlamento EuropeoGiovani, dopo essersi qualifica-to nella fase di preselezione.

In tale fase, ci è stato chiesto,come ad ogni altra scuola d’I-talia partecipante all’evento,di produrre una proposta dirisoluzione ad una problema-tica europea assegnata su baseregionale in tutta Italia. La no-stra tematica riguardava il

Gli studenti dello Stellini che hanno partecipato al Forum europeo dei giovani

risultati dell’impegno di questi mesi di preparazione. L’a-spetto forse più affascinante emerso dall’avvicendarsi sulpalco dei rappresentanti dei vari istituti è stata proprio la ca-pacità di ogni gruppo di esprimere, tramite la musica, la ca-ratterizzazione più profonda delle rispettive scuole. Si sonocosì esibiti i ragazzi del coro gospel del Liceo Scientifico Ma-rinelli, che hanno proposto numerosi brani di musica mo-derna, dal gospel al pop, dimostrando grande energia, soste-nuti anche dal suono della batteria, della chitarra e del bas-so della loro formazione musicale. Il Liceo Scientifico Co-pernico ha invece portato sul palco, grazie alla Jazz Band di-retta da Nevio Zaninotto, alcuni grandi classici del reperto-rio jazzistico più classico e coinvolgente.

Il coro e l’orchestra del nostro Istituto, diretti da AnnaMorsut e da Giacomo Pirani, hanno dato sfogo invece all’a-nima più profondamente tradizionalista e classica con l’in-terpretazione del Tourdion e del valzer di Sviridov, ma senzadisdegnare richiami più moderni come nell’esibizione delcoro in Happy ending di Mika o dell’intero organico nell’e-mozionante Only Time di Enya e nello spassoso sipariettomusicale dell’allegro brano irlandese The drunken sailor.

Il concerto si è quindi concluso con i due brani The Gods ofYouruma e What a wonderful world, eseguiti da tutti i membridelle varie formazioni, con un crescendo finale di energia ecollettiva partecipazione ad una manifestazione che anchequest’anno si è rivelata come un’occasione di confronto e ar-ricchimento per tutti e che ha entusiasmato il numerosopubblico presente.

Matteo Fornasin III B

Lo Stellini al Forum europeo dei giovani

maltrattamento degli animalie la crudeltà industrializzataall’interno degli allevamentiintensivi. Dopo una vasta ri-cerca di tutte le normative,leggi e notizie di tutta Europaa questo riguardo, siamo riu -sciti a comporre, non senza fa-tica, la nostra proposta di riso-luzione, che abbiamo poi in-viato agli organizzatori dell’e-vento.

Qualche tempo dopo abbia-mo ricevuto la piacevole noti-zia della nostra qualificazionealla fase finale del primo Fo-rum Nazionale del Parlamen-to Europeo Giovani, che si sa-rebbe tenuto a Lignano dal 22

al 24 aprile 2013.Così, nonostante il luogo an-

che troppo familiare e cono-sciuto, siamo partiti motivati epreparati alla volta della vicinaBassa Friulana!

Qui, dopo un pomeriggiodedicato alla conoscenza dellealtre delegazioni partecipanti,abbiamo sostenuto, nel secon-do e terzo giorno, i dibattiti as-sembleari riguardo le propostedi tutti i gruppi presenti, com-preso il nostro. A tal proposito,abbiamo minuziosamente ana-lizzato e studiato le altre pro-poste ed approfondito la no-stra stessa risoluzione per me-glio difenderla durante i lavori

dell’assemblea. I dibattiti sonostati accesi, costruttivi e impe-gnativi e, alla fine, la nostra de-legazione ha avuto il piacere divedersi riconosciuto il secondoposto tra le molte scuole parte-cipanti e provenienti da tuttaItalia.

Oltre alla grande soddisfa-zione per l’eccellente risultato,questa esperienza ci ha anchepermesso di capire il significa-to profondo che l’Europa e lesue problematiche hanno pernoi giovani. Questi temi com-portano sfide che dobbiamoraccogliere e risolvere assieme,con atteggiamento aperto, ap-passionato, razionale e analiti-co perché ne va del nostro fu-turo, come del resto ci ha inse-gnato nel presente questo pri-mo Forum del Parlamento Eu-ropeo Giovani.

Vogliamo cogliere in questasede l’occasione per esprimerela nostra gratitudine alla pro-fessoressa Giacomarra e al pro-fessor Angelo Viscovich, pertutti i preziosi consigli, la pa-zienza e il tempo che hannodedicato nell’accompagnarciin questa bell’avventura. E unringraziamento speciale va an-che alla nostra scuola, che, an-cora una volta, si è dimostrataattenta e disponibile verso pro-getti che riguardano argomen-ti così importanti per la forma-zione e il futuro di noi giovanistudenti.

Giovanni Soramel I F

BELLA ESIBIZIONE DEI GRUPPI MUSICALI DEI TRE LICEI CITTADINI NEL SEGNO DELLA SOLIDARIETÀ

Con la musica nel sangue

Ci fa piacere segnalare su queste pagineche due giovani attori della compagniateatrale ‘Gli Stelliniani’, entrambi diplo-

matisi nel nostro liceo, si sono fatti onore nel-l’ambito di un’iniziativa promossa il 16 luglioscorso dai Civici Musei e dall’Associazione Friu-lana Emilio Salgari, il noto sodalizio culturalefondato dall’indimenticabile professor SergioSarti, docente per lunghi anni nella nostra scuo-la. Si tratta di Cecilia Menossi, laureata in ar-cheologia, e di Enrico Cicuttin, che sta comple-tando gli studi di medicina.

Nell’ambito del secondo appuntamento del ci-clo estivo di conversazioni – inserite nel varie-gato palinsesto di Udinestate – intitolato, con unchiaro richiamo al notissimo testo di Ceram, Ci-viltà (dis)sepolte, si è offerta ai concittadini la pos-sibilità di visitare il nuovo museo archeologico,dove ha fatto da guida l’archeologa Sara Roma.Conclusa la visita, la dottoressa Silvia Mangia-capra, anch’ella archeologa, ha intrattenuto ipresenti, con rara capacità affabulatoria, conver-sando sul tema Fiamme e sangue, la storia rossa deiFenici, presentando aspetti della vita quotidianadi quel popolo.

I due attori hanno dato il loro apporto offren-do una lettura interpretativa di alcuni branidrammatici tratti dal romanzo di Salgari, Carta-gine in fiamme, scritto nel 1908 e da cui venne li-beramente tratto il noto film del regista Giovan-ni Pastrone (1914), romanzo che ha fatto da filoconduttore per una serata piacevole e diversadai soliti schemi. Gli attori hanno dato il megliodi sé, calandosi con rara maestria e apprezzabi-le, godibile vis drammatica nei panni di alcunidei protagonisti del romanzo.

Applausi prolungati e scroscianti hanno sotto-lineato la loro bravura.

Lucio Costantini

LE VOCI DI CECILIA MENOSSI

ED ENRICO CICUTTIN

PERCARTAGINE IN FIAMME

Enrico Cicuttin e Cecilia Menossi danno voce ad alcune pagine del ro-manzo di Emilio Salgari Cartagine in fiamme (Foto Godean-Dar)

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LA RUBRICA DELLA MEMORIA

Udine, anni ‘50. Roberto Gentilli, secondo da destra, con il personale della SAUTEC, la società che gestiva i cinema cit-tadini. Al centro, lo zio, dott. Nino Gentilli. La foto documenta quanto numeroso fosse il personale che, all’epoca, lavora-va nelle sale udinesi

Essendo nato nel 1923, ero fraquegli italiani che – come èstato ricordato anche recen-

temente nella stampa quotidiana– nel 1943 «avevano venti anni».Non è stato, per tutti i miei coeta-nei, un compleanno allegro. Perme, poi, nato il 17 settembre, eraappena passato quell’otto settem-bre che, credo, sia stata una delledate più nere della nostra storia.Io, inoltre, non soltanto avevovent’anni, ma ero anche ebreo.Peggio di così!

Nel periodo dal 25 luglio all’8settembre pochi – almeno fra igiovani – capivano qualcosa. Imiei famigliari più anziani aveva-no pensato che, essendo sbarcatinel sud gli alleati, la soluzionemeno pericolosa fosse trasferirsiappunto verso sud, dato che sem-brava prevedibile una rapidaavanzata lungo la penisola.

Dopo varie vicende, la mia fa-miglia trovò un alloggio a MonteSan Savino, un bel paese pressoArezzo. Non ricordo i motivi diquella scelta. Ricordo solo che,trovata nel luglio quella sistema-zione, tornammo a Udine in atte-sa di eventi; i quali eventi, appun-to, precipitarono l’8 settembre,con il comunicato di Badoglio, e letruppe tedesche che scendevanolungo il Fella.

Fu una fuga abbastanza im-provvisa, con la speranza che itreni funzionassero.

Ricordo un episodio che – oggi– può essere definito comico. Allastazione di Mestre (credo), in atte-sa della coincidenza, il gruppo de-cise di separarsi – provvisoria-mente – per non dare nell’occhio.Su un marciapiede passeggiavamio zio, che era un po’ zoppo; suun altro marciapiede passeggiavoio, che fingevo di essere zoppoper giustificare in qualche modo ilfatto di non essere sotto le armi.

A Monte San Savino quei tre-quattro mesi trascorsero in unacerta tranquillità agreste, sotto uncielo pieno di non ben definitepreoccupazioni.

In realtà, non si sapeva quasinulla di quello che stava succe-dendo: i partigiani, le SS, i campidi concentramento. Si sapeva soloche bisognava guardarsi dai tede-schi – che non tardarono ad arri-vare – e dai fascisti, che per la ve-rità non si vedevano.

Con un mio cugino più giovanedi me giravamo per la campagnain cerca di «una coppia d’ova», epoi aiutavamo anche – come ciera possibile – ai lavori della ven-demmia.

Il nostro padrone di casa, di no-me Beppe, era un brav’uomo, pic-colo proprietario terriero, che alle-vava galline in casa, dove c’eraanche una cantina molto profon-da, in cui credo facesse il vino.

In dicembre, il gruppo si sciol-se: avevamo la sensazione che ilsoggiorno a Monte San Savinofosse diventato pericoloso. La miamamma, le mie due sorelle ed ioandammo a Verona, dove l’indi-menticabile aiuto del Padre Supe-riore dell’Ordine degli Stimmatiniriuscì a sistemarci senza apparen-ti difficoltà.

L’anno e mezzo a Verona – finoal maggio 1945, quando un solda-to della Brigata Ebraica mi riportòa Udine in jeep – sono un quasi-vuoto nella mia memoria.

Ricordo soltanto che i bombar-damenti aerei erano quasi quoti-diani, verso mezzogiorno; e, nonpotendo ovviamente andare in unrifugio, mia mamma ed io ci met-tavamo sotto un materasso; per-ché io avevo pensato che la cosapiù probabile, nella casetta ad un

Il mio Stellini di Roberto Gentilli

Nato nel 1923, Roberto Gentilli, che non aveva potuto frequentare regolarmente il Li-ceo dopo le leggi razziali del 1938, si è diplomato come privatista allo Stellini nel 1941

e si è laureato in ingegneria civile edile a Padova nel 1950.Nel 1958 è entrato nei ruoli dirigenziali degli uffici amministrativi del Comune di Udi-

ne e nel 1962 in quelli del Comune di Gorizia, mentre dal 1966 ha svolto una serie di inca-richi di elevata responsabilità a livello regionale. Dopo il terremoto del 6 maggio 1976, hadiretto il Centro di coordinamento per la rilevazione e riparazione dei danni del sisma, enel 1977 gli è stato affidato l’incarico di direttore della Ripartizione Tecnica presso la Se-greteria generale straordinaria per la ricostruzione del Friuli.

Successivamente, si è dedicato alla libera professione impegnandosi prevalentementenel settore dell’urbanistica, redigendo piani regolatori comunali generali e particolareg-giati ed occupandosi di progetti edilizi, collaudi e consulenze.

Nel 1995-96, il sindaco di Udine Barazza lo ha nominato assessore all’Urbanistica e allaViabilità. Attualmente, si occupa soprattutto delle associazioni alle quali è vicino, in primisdell’Ordine degli Ingegneri. Due suoi nipoti, Luca e Sara Gransinigh, hanno seguito le or-me del nonno e frequentano lo Stellini.

piano dove eravamo, era chequalche tegola cadesse per lo spo-stamento d’aria.

Da una parte c’era una casermadi tedeschi, dall’altra di fascisti; ela sera si sentivano i cori dei sol-dati.

Io cercavo di studiare tedesco,sul Viaggio in Italia di Goethe, che,non so come, avevo con me. Cer-cavo di fare in qualche modo gin-nastica. E non sapevo quasi nien-te di che cosa succedesse in Italiae nel mondo.

A Udine trovai la nostra casabombardata, e fummo ospiti perparecchio tempo di famiglie ami-che, di cui ricordo la generosa, di-rei fraterna, accoglienza.

Poi, con l’aiuto dell’ing. Crespi,una figura indimenticabile di gen-tiluomo e di tecnico (che fu, credo,la vera fortuna dell’Impresa Riz-zani), la casa fu riparata, mi iscris-si all’Università (io non ne avevovoglia, ma la mamma me lo impo-se) e, lavorando nella ditta di miozio – che fu per me un secondo pa-dre – riuscii a conseguire una lau-rea (che io non esiterei a definire‘rubata’).

Ma veniamo, finalmente, alloStellini.

Come tutti sanno, allora c’era-no cinque anni di ginnasio e tre diliceo.

Io ero nella sezione C, che, aitempi, non era la più quotata (la Aera quella formata da allievi ‘diprima scelta’).

Dato che abitavo nei pressi del-la stazione, andavo a scuola conqualcuno che arrivava in treno.Ricordo Baldin, che veniva – cre-do – da Palmanova; era più gran-de di me, e diceva anche qualcheparolaccia. Non eravamo unaclasse modello: in ricreazione ciscatenavamo nei corridoi; ricordoche il vicepreside Bonetto, figuraimponente e temibile, una voltami bloccò dicendomi: «tu sei unodi quei caporioni».

In via Carducci c’era un albero(credo fosse un Gingko Biloba)che in autunno lasciava cadere sulmarciapiede dei piccoli frutti puz-zolenti. Noi li raccoglievamo e,prima dell’ingresso del professo-re, li strofinavamo sulla poltronci-

na e sulla cattedra; ansiosi di spia-re l’espressione di imbarazzatodisagio dell’insegnante quando sisedeva.

In terza avevamo anche fattoun giornalino: come titolo avevatre studenti curvi, che secondonoi volevano essere tre C, e cioè“terza C”; non so quanti avesserocapito questa trovata, che a noisembrava divertente.

Io – non so quando e non ricor-do come si chiamasse – mi inna-morai, ovviamente, di una com-pagna di classe, che durante le va-canze andai a trovare – in biciclet-ta – in un paese del Trentino. Era-no altri tempi: il traffico era scar-so, e si poteva andare in biciclettadappertutto; anche se, propriodurante un giro in bicicletta nelTrentino, il mio compagno di gitafu colpito da un’auto e, fortunata-mente, se la cavò con una granbotta sul sedere, per cui per qual-che giorno non riusciva a sedersi.

I cinque anni di ginnasio furo-no sereni e, direi, divertenti: Foga-gnolo, Della Bianca, Omet sonosolo alcuni dei compagni che ri-cordo.

Ricordo anche che, dopo l’esa-me – credo – di ammissione, ven-ne a casa nostra il mitico bidelloChiarandini per annunciare cheio ero uno dei due migliori, gua-dagnandosi, ovviamente, un – co-me si diceva – pour-boire.

Fatto l’esame di quinta ginnasio,non potei iscrivermi al liceo, per lesopravvenute leggi razziali.

Fu uno strano e, ovviamente,

molto brutto periodo. La campa-gna di propaganda razziale fu perme una specie di tuffo improvvi-so in un mondo mai immaginato,ma nemmeno ben compreso.Quando andai a rinnovare la tes-sera del C.A.I., dove avevo molticompagni di montagna, mi sentiidire: «Mi dispiace molto, ma nonpossiamo rinnovartela». A Trieste,dove ero andato per non so qualemotivo, trovai scritto sulla portadella basilica di San Giusto: «Quinon entrano cani ed ebrei».

Piccoli episodi di una situazio-ne inimmaginabile ed incom-prensibile, per cui da un momen-to all’altro, senza che in me e nel-le persone che conoscevo fossecambiato nulla, mi sentii respinto,isolato, collocato in uno spaziochiuso ad ogni rapporto esterno.

Diversa è stata, credo, la situa-zione nei luoghi dove, grande opiccola, esisteva una comunità diebrei: là ci si parlava, in qualchemodo ci si organizzava; anche sepoi tutto precipitò.

Essere diversi perché ebrei: unasensazione improvvisa ed alie-nante. Nella mia famiglia come,credo, in altre famiglie della me-dia borghesia italiana, la religioneconsisteva, grosso modo, in un in-sieme di tradizioni, direi abitudi-ni, famigliari; alle quali i figli siadeguavano, per rispetto ed ob-bedienza verso i genitori, ma sen-za capirne granché. Che questetradizioni ed abitudini famigliaridiventassero segno dell’apparte-nenza ad una diversa ‘razza’ era,

più che contestabile, assoluta-mente incomprensibile.

Dei tre anni di liceo da privati-sta ricordo poco. Nelle materieletterarie credo sia stato di grandeimportanza l’aiuto di mia sorellaMagda, che sarebbe diventatauna brava professoressa di filoso-fia e storia ed era molto brava an-che nei temi di italiano, che arric-chiva con descrizioni ampie e fan-tasiose.

Sull’argomento vorrei ricorda-re, in chiusura, un episodio. Nel-l’imminenza dell’esame di matu-rità, qualcuno pensò all’opportu-nità di un check-up proprio sul te-ma di italiano; e, sempre nel qua-dro di questa amicizia con gliStimmatini, venni ricevuto da ungiovane professore di italiano, al-to e cordiale.

Questi mi diede da svolgere untema, non ricordo su che argo-mento; tema che gli portai il gior-no dopo e che lesse con attenzio-ne. Poi, gentilmente, cominciò: «setolgo questa frase, secondo te il te-ma sta ancora in piedi?». Non po-tei rispondere di no. Così, pezzoper pezzo, il tema venne più o me-no dimezzato, ma il significato erarimasto chiaro e comprensibile.

Quella è stata una lezione chenon ho dimenticato in tutta la miavita e che, credo, mi è stata molto,molto utile. Lezione di cui temo dinon aver tenuto conto in questachiacchierata; della quale però, sesi togliessero le parti non essen-ziali, credo non rimarrebbe nulla.

San Daniele, anni ‘30. La comunità ebraica raccolta nella casa dei nonni, al tempo in cui c’era ancora la sinagoga.L’autore è in primo piano, vestito alla marinara, in braccio a Lello Cignolini

Un giovanissimo Roberto Gentilli, indivisa da marinaretto

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LA RUBRICA DELLA MEMORIA

«Erano i tempi del vino e delle ro-se...», potrebbe essere il poeticoe romantico incipit per proietta-

re la memoria al novembre del 1973! Per-ché di quel periodo stiamo parlando e, perla precisione, dei giorni durante i quali ve-deva la luce il coro polifonico dello Stellini.

Antefatti e ambientazione: il sottoscritto,assieme a numerosi compagni della classeIII F, si dilettava a eseguire canzoni goliar-diche, durante la pausa di ricreazione, nelcorridoio antistante alla nostra classe, a ri-dosso della porta a vetri che dava accessoai bagni. Io stesso battevo a macchina inpiù copie i testi dei brani da eseguire, peresempio il celebre Fanfulla da Lodi. E mifermo qui...!

Per inciso, e a riprova di un casuale maprofetico segnale, sulla porta della III Ferano vergati a matita la scritta

SEDE DEL CORO ‘PAR UN TAJ’COLLETTIVO ENOLOGICO

‘BACCO & VENERE’e l’estemporaneo quanto demenziale eneo-surrealistico annuncio

QUI SI VENDONO UNGHIE PER CAVALLI

All’epoca, era nostro insegnante di reli-gione don Gilberto Pressacco, il quale,transitando nel corridoio e avendoci inter-cettati in una delle nostre sapide perfor-mances canore, ci chiese: «Vedo che vi pia-ce cantare! Che ne direste di mettere inpiedi un coro?».

La nostra risposta fu, senza alcuna esita-zione: «Buona idea, Gilberto, perché no?»

E così don Pressacco ci illustrò la sua

La III D dell’anno 1962-63. Da sinistra in fondo: Alvise Pescarolo, Fabiano Zaina e Luigi Ferrante. In seconda fila:

Franca Rigoni, Piera Barresi, Maria Zannier, Rosetta Bullian, Paola Geretti e Alfredo Roccella. In prima fila, acco-

sciati: Aldo Pesamosca e Bepi Del Zotto

Questa è l’unica storica foto di alcuni componenti del co-ro e si riferisce ad un concerto tenuto, nell’allora palestradi via Scrosoppi, nella settimana di Pasqua del 1976. Vicompaiono anche alcuni ‘fuoriusciti’ dallo Stellini, comePino De Vita e Ugo Cugini, che, pur frequentando l’univer-sità, non appena fosse possibile si aggregavano al gruppoper le prove e per le esibizioni

Il Coro polifonico dello Stellini «Io c’ero, eccome…!»

idea: «Beh, si potrebbe provare a creare uncoro polifonico, tant par cjatasi, e, se la cosaha successo, farlo diventare il coro delloStellini...».

Detto fatto. Il giorno seguente don Gil-

berto faceva richiesta al preside, il prof.Vittorio Filippi, di poter dare il via a que-sta iniziativa (mandando Mauro Pascolinie me in tutte le classi a pubblicizzare la co-sa e invitare gli eventuali interessati) e dipoter usufruire dell’Aula Magna dalle 12alle 14 del sabato per effettuare le prove.

Il sabato successivo, giorno stabilito perla convocazione dei potenziali ‘coristi’,l’Aula Magna vedeva affluire un congruonumero di studenti, con don Gilberto cheeffettuava la selezione dei ruoli canori,smistando tenori e baritoni per le voci ma-schili, soprani e contralti per le voci fem-minili. C’era una certa perplessità tra dinoi, visto e considerato che si andava adaffrontare un campo ignoto ma intrigantecome la musica polifonica, ma dopo i pri-mi momenti una cosa era ormai certa: l’en-tusiasmo aveva preso il sopravvento.

Quel lontano sabato di novembre del1973 fu il primo di tanti sabati dedicati al-l’affinamento delle nostre qualità canore,nonchè alla conoscenza e alla preparazio-ne di brani musicali affascinanti e scono-sciuti ai più, e molto distanti dai nostriLed Zeppelin e Deep Purple!

Regolarmente, tanto per ribadire lo spi-rito iniziale del tant par cjatasi, le proveavevano il loro legittimo e doveroso epilo-go davanti ad una fila di ‘tagli’ alla Con-cordia o al Trombone, in guisa di affratel-lante aperitivo.

Il primo brano proposto per l’esecuzio-ne fu La manza mia si chiama Saporitta, checi poneva di fronte a un lessico quanto maiastruso ma coinvolgente: che soddisfazio-

ne, dopo alcune settimane di prove, ren-derci conto che il risultato melodico era al-l’altezza delle aspettative e ci spronava acimentarci con altri brani. E, allora, vai conGive me Jesus, Matona mia cara, Super flumi-na e, dulcis in fundo, esclusiva elaborazionedi don Gilberto in chiave polifonica (equindi una prima assoluta!), Il canto del ri-belle, ovvero la ben nota Fischia il vento.

Dopo qualche mese eravamo pronti peril debutto: una domenica di marzo del1974 (purtroppo non ricordo la data preci-sa), nella chiesa parrocchiale di Gradiscut-ta di Varmo, assieme al ben più blasonatoCoro Candotti di Codroipo, sempre diret-to da don Gilberto Pressacco.

Fu un felice esordio, anche perché i giu-dizi dei coristi del Candotti furono tutti as-sai lusinghieri nei nostri confronti, e ancheil pubblico presente diede prova di ap-prezzare, con lunghi applausi, la nostraprima esibizione coram populo. Il tutto tro-vò poi felice coronamento in un pranzo aprezzo più che politico nel rinomato risto-rante ‘Da Toni’.

Quest’operazione di ‘archeologia mne-monica’ mi ha dato l’occasione di ripercor-rere un bel periodo della mia vita di licea-le stelliniano, e anche la grande soddisfa-zione di verificare che una cosa, che hocontribuito in prima persona a far nascerequasi per scherzo quarant’anni fa, è cre-sciuta ed è diventata un’istituzione delloStellini.

Pino De VitaIII F 1973/74

Le nozze d’oro delle classi III A e III D

La III A dell’anno 1962-63. In prima fila da sinistra: Luigi Micelli, Tullia Passon, Carlina Berto, Alisa Del Re, Maria

Gabriella Zoz, Agostino Mangiacapra, Claudio Toldo. In seconda fila da sinistra: Italico Mareschi, Lionello D’Ago-

stini, Claudio Sciarretta, Giovanni Gianesini, Sergio D’Antonio, Gian Maria Bonora, Franco Bros, Franco Tudorov

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ria non si ripete mai, perché almeno una dimensionedel domani non è uguale a quella di oggi, cioè il tempo;ma molto più forte era il suo modo non tradizionale dispronarci ad assumere le proprie responsabilità: «sevuoi davvero costruire qualcosa di nuovo e di valido,comincia con te stesso e da te stesso con le tue azioni».

Ma c’era anche qualcos’altro nel messaggio di Me-non che mi divenne chiaro soltanto molti anni dopo:sono convinto che lui non sia stato trattato bene dallasocietà dove visse. Non posso dire se e quanto questofosse all’origine del suo modo di essere e di compor-tarsi: avviluppato nell’immancabile impermeabile ‘Va-tro’, occhiali scuri e zero vita sociale.

Menon mi avrebbe capito. Avrebbe forse anche in-travisto l’incredibile crescita del potere dell’individuonella società e il fenomeno della decadenza delle istitu-zioni, che dopo l’avventura napoleonica vennero ri-dotte a strumenti di mediocrità e non di leadership. Ilpolitologo e romanziere John Ralston Saul e Gian Gia-como Menon avrebbero dovuto conoscersi: entrambierano stati sconvolti dall’arroganza dell’ignoranza; en-trambi mi hanno aiutato, forse, a capire il mondo in cuiho passato la mia vita e a osare di ‘fare ciò che le isti-tuzioni non mi avrebbero permesso’. Paradossalmente,Menon avrebbe anche capito un uomo, per altro com-pletamente diverso da lui, che mi permise di operare inmodo anomalo, ma con risultati pratici e visibili neiteatri di tre guerre. Perez De Cuellar (che fu segretariogenerale dell’Onu per 10 anni dal 1982 al 1991) richie-deva un impegno totale dai tre-quattro fedeli assisten-ti che lavoravano con lui a stretto contatto di gomito:«Se vuoi veramente ottenere risultati in guerra e in pa-ce, dimenticati la pensione e assumiti la responsabilitàpersonale; a chi ha successo sul terreno – visibile e mi-surabile con i nomi e cognomi di chi venne salvato e dichi non venne inutilmente ucciso – nessuna istituzionelascia raggiungere l’età della pensione». Aveva ragio-ne; Menon avrebbe apprezzato.

Un altro grande uomo con cui ebbi l’onore di lavora-re (in modo anomalo) fu il generale Brent Scowcroft,personaggio chiave nella fine della guerra fredda, for-se il più ‘grande’ americano (anche se di statura meno-niana!) con cui ho avuto l’onore di collaborare. Brentmi ricorda la figura di Menon perché anche lui sgat-taiola tra la folla senza farsi notare. Entrambi allergicialle folle e alla notorietà, mi hanno insegnato che ilpeggiore aspetto dell’ignoranza non è il non saperebensì l’arroganza.

Quando scoprii Milan Kundera e la sua ‘insostenibi-

le leggerezza dell’essere’, mi ritrovai a chiedermi se percaso non avesse anche lui avuto a che fare con Menon.Era come vedere la realtà vera che sta dietro allo scher-mo, superficiale e banale, che le televisioni e i giornalici propinano, per di più con errori. Lo scrittore ceco la-sciava Praga proprio quando io feci la mia unica espe-rienza in un’università al di là di quella che allora eraancora la cortina di ferro; ma Kundera era già in Sviz-zera. Purtroppo non sono mai riuscito a leggere FranzKafka, cosa che sono sicuro Menon fece invece con in-tensità: no, non sono mai arrivato ai suoi livelli di cul-tura e conoscenza. Allo Stellini pensavo che non sareimai riuscito ad arrivare alla profondità e alla vastitàdel sapere di Menon: non penso di essermi sbagliato,anche perché non penso che condividesse con i suoi al-lievi tutto quello che sapeva. Ma sapeva seminare, con-sapevole che il vento a volte fa cadere i semi su un ter-reno fertile e molte volte, nella grande maggioranzadei casi, invece, su quello arido.

Oggi dopo quasi una vita, avrei molte cose da discu-tere con Gian Giacomo Menon: una discussione chenon saprei con chi altro fare o avere (forse quattro altrepersone nel mondo che ho conosciuto): mi capirebbe alvolo. Gli parlerei della prossima fine dello Stato-nazio-ne nato a Westfalia e radicato sull’arma segreta della‘identità imposta e non scelta’ e della ‘necessità di unnemico esistenziale’: un tabù oggi sempre meno soste-nibile, ma difeso da culture che non sanno accettare l’i-neluttabilità del ‘cambiamento’, unica regola della vita.Avrei voluto condividere con lui (e studiarmi la suareazione) quanto mi disse in faccia un tale chiamatoSaddam Hussein: «Tu Picco sei un mio nemico e io so-no un tuo nemico, questo lo capisco; quello che non in-vece capisco sono gli europei: non sono né carne né pe-sce!». Menon avrebbe apprezzato: io non ho avuto que-sto lusso perché sono sopravvissuto fisicamente al dit-tatore di Baghdad. Ma Menon mi avrebbe anche spie-gato che l’Occidente è diviso tra i figli di Cartesio e He-gel e quelli di Locke e Hume: una distinzione che nonè solo filosofica, ma molto pratica. Menon non credevanel concetto di imparzialità e nel mio percorso profes-sionale fatto di negoziati, me ne resi conto sulla miapelle: l’imparzialità è un’inutile illusione; nessun nego-ziato di successo che io sappia è stato concluso da chisi era illuso di usare il concetto di imparzialità. Il miopercorso umano (geografico e mentale) mi ha permes-so di capire forse un po’ di quanto Menon ci insegna-va.

Se potessi, oggi gli racconterei quello che ho appresonelle strade di questo mondo in guerra dall’Hindu-kush al Mediterraneo. Dopo decenni di cammino at-

traverso tre guerre (no, non in modo diplomatico) el’assurdità delle ‘identità che devono uccidere per au-todefinirsi’ (les identités meurtrières, come le ha definiteAmin Maalouf), credo di essermi ricollegato idealmen-te con Menon: quello che non riuscii a comprendere daadolescente quando lui ci insegnava, sono riuscito acapirlo camminando nelle strade di Paesi in guerra. Avolte mi sono chiesto se Menon non sia vissuto nelPaese e nell’epoca sbagliati. Ero convinto allora, ascol-tandolo nelle aule dello Stellini, che fosse un pessimi-sta a oltranza. Forse lo era rispetto alla società, non cer-to riguardo all’individuo. E comunque così ho vissutoe regolato la mia vita. Non si sopravvive alle guerresenza una qualche fiducia in qualche individuo, anchese viene meno quella nelle istituzioni.

Menon avrebbe apprezzato la follia della narrativairlandese che cominciai a conoscere molto presto gra-zie ai miei soggiorni a Dublino fin dagli anni meno-niani (1960) e poi attraverso una parte della mia fami-glia. La narrativa irlandese mi sembra molto simile aquella friulana e carnica degli anni della mia fanciul-lezza. Menon avrebbe apprezzato Seamus Heaney,premio Nobel per la letteratura e amico della mia fa-miglia, uno che il mio secondo figlio, incantato, stavaad ascoltare in silenzio quando aveva soltanto 4 anni.Menon lo avrebbe capito. Heaney comunica credo ilfallimento del mondo e la speranza dell’individuo neiversi di The Cure at Troy, un adattamento del Filottete diSofocle, quando scrive:

History says, don’t hope / On this side of the grave. / Butthen, once in a lifetime / The longed-for tidal wave / Of ju-stice can rise up, / And hope and history rhyme. // So hopefor a great sea-change / On the far side of revenge. / Believethat further shore / Is reachable from here. / Believe in mira-cle / And cures and healing wells.

E così mi pare che Gian Giacomo Menon in modomisterioso, ma reale, abbia veramente segnato ante lit-teram il mio percorso umano. Ma non era un profeta,no. E né lui né io, penso, avevamo ‘quella’ fede. E a lui,professore allo Stellini ma più esattamente maestro divita, oggi dico grazie: sono vivo forse anche grazie aquello che lui mi ha insegnato: we are what we do and wedo only what we really are («noi siamo quello che faccia-mo e facciamo soltanto quello che realmente siamo»).Forse ci ho messo troppo, quasi una vita intera, a capi-re ciò che il professor Menon mi ha insegnato in tre an-ni al liceo classico Stellini di Udine. Ma non è mai trop-po tardi per capire.

Giandomenico Picco

Periodico di informazione culturaleAnno XII, N. 1 – Luglio 2013

Direttore editorialeAndrea Purinan

[email protected]

Direttore responsabileDavide Vicedomini

Comitato di redazioneAndrea Purinan – Elettra Patti

Daniele Picierno – Lucio Costantini

Direzione e redazioneAssociazione “Gli Stelliniani”

c/o Liceo Ginnasio “Jacopo Stellini”Piazza I Maggio, 26 - 33100 Udine

Hanno collaborato a questo numeroValentina BrosoloLucio Costantini

Pino De VitaMatteo FornasinRoberto Gentilli

Gabriele GiacomuzziAndrea Nunziata

Elettra PattiGiandomenico Picco

Daniele PiciernoAndrea PurinanCesare Sartori

Giovanni Soramel

Consiglio direttivoPresidente onorario:

Daniele PiciernoPresidente: Elettra Patti

Vice Presidente: Gabriele DamianiSegretario: Andrea Purinan

Consiglieri: Giuseppe Santoro (Dirigente scol.)

Gaetano ColaLucio Costantini

Francesco GrisostoloAndrea Nunziata

Giacomo PattiAndrea Purinan

Gabriele RagognaDaniele Tonutti

Francesca VenutoFrancesco Zorgno

Collegio ProbiviriPaolo Alberto Amodio

Isabella BaccettiFlavio Pressacco

Collegio Revisori dei ContiGino Colla

Ettore Giulio BarbaAlbarosa Passone

Stampa e spedizioneCartostampa Chiandetti

Reana del Rojale

Iscrizione al Tribunale di UdineN° 27/2000 del 30/11/2000

degli Stelliniani

Aosservarlo da qui, fa pro-prio impressione! Entraed esce, esce ed entra, en-

tra ed esce… e sempre di corsa.Pare proprio un automa con lebatterie sovraccaricate. Talvoltami chiedo se non cadrà a terrafuso, prima o poi.

Ci conosciamo da tre anni, io elui. Tre lunghi anni di frequenta-zione assidua, quasi quotidiana.Ormai regoliamo le nostre vite inbase ai nostri incontri. Fa quasiridere, se si pensa che entrambi,se agissimo in maniera raziona-le, rinunceremmo a questa con-suetudine. In fondo che abbiamoin comune io e lui? Che abbiamoda dirci? Anzi, è come se ognunodi noi parlasse per conto pro-prio. Ci sono giorni, in effetti, incui mi propongo di non presen-tarmi all’appuntamento. Alloragironzolo qua e là, passo da unluogo all’altro, mi spingo fino avarcare quasi il confine tra l’au-tentico paradiso, dove vivo io, ela bolgia infernale, da cui luiogni tanto evade per raggiun-germi.

La sua esistenza si svolge aNew York, proprio nel cuore diManhattan. Invidia, eh?! Vorre-ste essere al suo posto? Viveretra gente benestante ed efficien-te, guardare le rutilanti vetrinedei negozi, ammirare gli enormicartelloni pubblicitari? Sì… i car-telloni pubblicitari! Ogni tanto,quando vado in trasferta, li con-sidero con attenzione e mi chie-

«Ma quanto corre quell’uomo!»do cosa ci trovi la gente di tantoattraente in un uomo o (più fre-quentemente) in una donna chesorride, in maniera idiota, tenen-do in mano qualcosa di assoluta-mente banale: bah! de gustibus…

In ogni caso, smettete d’invi-diarci! Se si esclude l’oasi, quelladove mi rifugio io (Central Park,per intenderci), New York è unluogo insulso e invivibile. Dav-vero non vi capisco! Agognatesul serio questo ammasso di ce-mento e questi palazzi di vetroche sembrano in equilibrio insta-bile, pronti a cadere alla prima

sollecitazione? Vi piace propriotanto questa cappa di smog cheavvolge ogni cosa?

Io ci vivo perché ci sono vissu-ti mio padre, mia madre, tutti equattro i miei nonni, e così via fi-no al mio primo avo. Ma statecerti che mi piacerebbe andar-mene in uno di quei luoghi sel-vaggi che fanno da sfondo neicartelloni di cui vi parlavo pri-ma. E chissà che, prima o poi,non mi trasferisca… il fatto è cheio non sono poi un gran viaggia-tore, non sono come mio cugino,io!

Ma torniamo a noi. Come vidicevo, a volte mi ripropongo didargli buca. Poi, però, mi prendela noia. E la noia si porta diretta-mente dietro la curiosità: che midirà oggi durante quel brevemomento di pausa che si conce-de. E allora volo alla nostra pan-china al limitare del parco, là do-ve il mio mondo s’interseca conil suo.

Eccolo! Guardate come corre!Se fossi maleducato, lo prendereiin giro, ma non posso: sono untipo perbene, io! Ma guardatelo:sta sempre con l’orecchio appic-

cicato al cellulare. E di solito cisbraita dentro. Chissà come fa alitigare tutti i giorni: dove li tro-va i pretesti? Che fantasia!...

Ecco, mi vede e rallenta: bene!Vieniti a sedere qui vicino a me,

amico mio!Si stravacca sulla panchina, fa-

cendola vibrare.Dovresti perdere un po’ di peso,

sai?«Ciao, amico mio».Ciao. «Come ti va oggi?» Al solito: senza infamia né lode.Lascia passare un po’ di tem-

po in silenzio, poi mi annuncia:«Domani vado in ferie: per unpo’ non ci vedremo…»

Oh bella! E dove vai?«…me ne vado ai Caraibi» di-

ce estraendo dalla tasca una‘brochure’ e agitandomela sottogli occhi.

Alberi, mare, sabbia: oh bravo!Finalmente mi dai retta!

«Vuoi venire anche tu?» michiede ridendo.

Sfotti, sfotti, bravo!Squilla il cellulare. Lui lo

guarda. «Devo andare: è Mary!»si giustifica.

Si alza e fa per avviarsi, ma su-bito s’inchioda e si gira verso dime: «Quasi dimenticavo!». Aprela borsa e ne tira fuori un sac-chetto. «Tieni! È per te!» esclamae ne rovescia a terra il contenuto.

Oh, che bello!!! Mi tuffo a pescesu quella meraviglia. Bello, bello,bello!!!

«Goditi il mio cadeau, amico!»dice ridacchiando. E questa vol-ta se ne va sul serio.

Sollevo il capo per un ultimosaluto e noto, seduta su un’altrapanchina, una vecchia che ha as-sistito a tutta la scena con espres-sione arcigna.

Beh?! Che hai da ridire, tu? Piut-tosto che con una come te, è meglioparlare con un piccione, no?!

Valentina Brosolo

(continua da pagina 3)

FOGLIO PROTOCOLLO

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