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LA CROCIFISSIONE DI S. DOMENICO MAGGIORE IN NAPOLI · più grandiose opere, il mau.soleo Marsuppini...

Date post: 17-Feb-2019
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Gli elementi decorativi del tabernacolo, com- presa la gocciola con quelle chimere, sono poi tipici dell'arte di Desiderio; ma nelle sue più grandiose opere, il mau.soleo Marsuppini e il Tabernacolo di S. Lorenzo, essi appaiono lavorati col trapano con tecnica ispirata a quella del basso impero. Il tabernacolo di Solarolo non ha questa tecnica; ma ciò può dipendere tanto dal diverso effetto cercato dall'artista per diverso luogo, quanto dalla abitudine tecnica dei garzoni che l'hanno eseguito tra i quali poteva anche trovarsi Francesco di Simone Ferrucci, che ripetè altrove simili ornamenti. Può darsi anche che quest'opera alla morte di Desiderio non fosse terminata, come da- rebbe a credere il fastigio rimasto greggio dove le cornucopie dovrebbero appoggiare sulla cor- nice ; "nel quale caso si può lasciare alla acu- tezza di altri studiosi il decidere se anche il gruppo centrale possa essere stato rifinito e lustrato un po' troppo da qualche seguace delicato ma di minor polso. La copia del Bargello deriva probabilmente dal calco e non ha più a che fare colla scuola di Desiderio. Essa sembra eseguita varii de- cenni più o rdi da qualche artista derivato del Verrocchio, da qualcuno della bottega di Francesco di Simone, alla cui tecnica gonfia e inorganica corrisponde effettivamente questa scultura quando si metta in rapporto con le Madonne dei Mausolei di Forlì, di Bologna, di Montefiorentino. CARLO GAMBA LA CROCIFISSIONE DI S. DOMENICO MAGGIORE IN NAPOLI R ARISSIMO ESEMPIO della pittura due- centesca in Campania è la tavola raffigu- rante la Crocifissione, conservata al culto col titolo del "Crocifisso che parlò a S. Tommaso d'Aqui- no", sull' altare del Cappellone detto, appunto, del Crocifisso, nel maggior tempio domenicano di Napoli (fig. I) . Il recente restauro, che l'ha restituita alla forma e alla deliziosa armonia cromatica originarie, mi permette ora di ten- tarne l'illustrazione in modo più completo e preciso che non si potesse innanzi, avendola ricordata soltanto il Toesca, e avendone dato la Signora Sandberg -Vavalà una brevissima descrizione, non molto esatta (I). La composizione della scena rivela, al primo sguardo, i caratteri tipici dell'iconografia bizan- tina nella cosidetta Il seconda età d'oro" di quell'arte (X-XIII secc.). La Vergine e il S. Giovanni Evangelista gementi ai lati del Cristo morto che pende dalla croce, le mezze- figure dei due angeli volanti sopra di essa, e sotto il suo piede il teschio di Adamo, creduto sepolto sul Golgota, sono gli elementi essenziali e quasi sempre costanti nello schema più semplice di questa figurazione, diffuso sopra tutto nelle opere d'arte minore (2). Ma la sagoma della tavola ha il lato superiore trilobato come una finestrella romanica: un vero unicum, finora, che, però, ci riporta a un motivo diffuso nelle icono- stasi, nei cibori, negli amboni, e talora ripetuto nella incorniciatura di pitture nostrane del Duecento. E la grossa cornice di stucco dorato, intercalata di bolloni a rilievo, come quelle della pala toscana di Vico l'Abate e della Virgo Regina di Amalfi, che si conserva nella Pinacoteca di Napoli (3), ambedue opere del pieno Duecento; la presenza delle due figurine di frati domenicani inginocchiati e oranti ai lati del ceppo della croce (4) ; il maturo carattere gotico delle scritte la- tine ; e perfino i tipici grafismi gotici e l'errore di trascrizione nel secondo dei due monogrammi greci indicanti la Vergine (5), ci chiariscono su- bito non soltanto che il dipinto è opera d'un pittore bizantineggiante, e non già bizantino; ma che egli dovette ispirarsi direttamente ad altri esemplari bizantineggianti nostrani, meglio 53 ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte
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Page 1: LA CROCIFISSIONE DI S. DOMENICO MAGGIORE IN NAPOLI · più grandiose opere, il mau.soleo Marsuppini e il Tabernacolo di S. Lorenzo, essi appaiono ... nel maggior tempio domenicano

Gli elementi decorativi del tabernacolo, com­presa la gocciola con quelle chimere, sono poi tipici dell 'arte di Desiderio; ma nelle sue più grandiose opere, il mau.soleo Marsuppini e il Tabernacolo di S. Lorenzo, essi appaiono lavorati col trapano con tecnica ispirata a quella del basso impero. Il tabernacolo di Solarolo non ha questa tecnica; ma ciò può dipendere tanto dal diverso effetto cercato dall'artista per diverso luogo, quanto dalla abitudine tecnica dei garzoni che l'hanno eseguito tra i quali poteva anche trovarsi Francesco di Simone Ferrucci, che ripetè altrove simili ornamenti. Può darsi anche che quest'opera alla morte di Desiderio non fosse terminata, come da­rebbe a credere il fastigio rimasto greggio dove le cornucopie dovrebbero appoggiare sulla cor-

nice ; "nel quale caso si può lasciare alla acu­tezza di altri studiosi il decidere se anche il gruppo centrale possa essere stato rifinito e lustrato un po' troppo da qualche seguace delicato ma di minor polso.

La copia del Bargello deriva probabilmente dal calco e non ha più a che fare colla scuola di Desiderio. Essa sembra eseguita varii de­cenni più o rdi da qualche artista derivato del Verrocchio, da qualcuno della bottega di Francesco di Simone, alla cui tecnica gonfia e inorganica corrisponde effettivamente questa scultura quando si metta in rapporto con le Madonne dei Mausolei di Forlì, di Bologna, di Montefiorentino.

CARLO GAMBA

LA CROCIFISSIONE DI S. DOMENICO MAGGIORE IN NAPOLI

R ARISSIMO ESEMPIO della pittura due­centesca in Campania è la tavola raffigu­

rante la Crocifissione, conservata al culto col titolo del "Crocifisso che parlò a S. Tommaso d'Aqui­no", sull' altare del Cappellone detto, appunto, del Crocifisso, nel maggior tempio domenicano di Napoli (fig. I) . Il recente restauro, che l'ha restituita alla forma e alla deliziosa armonia cromatica originarie, mi permette ora di ten­tarne l'illustrazione in modo più completo e preciso che non si potesse innanzi, avendola ricordata soltanto il Toesca, e avendone dato la Signora Sandberg -Vavalà una brevissima descrizione, non molto esatta (I) .

La composizione della scena rivela, al primo sguardo, i caratteri tipici dell'iconografia bizan­tina nella cosidetta Il seconda età d'oro" di quell'arte (X-XIII secc.). La Vergine e il S. Giovanni Evangelista gementi ai lati del Cristo morto che pende dalla croce, le mezze­figure dei due angeli volanti sopra di essa, e sotto il suo piede il teschio di Adamo, creduto sepolto sul Golgota, sono gli elementi essenziali

e quasi sempre costanti nello schema più semplice di questa figurazione, diffuso sopra tutto nelle opere d 'arte minore (2). Ma la sagoma della tavola ha il lato superiore trilobato come una finestrella romanica: un vero unicum, finora, che, però, ci riporta a un motivo diffuso nelle icono­stasi, nei cibori, negli amboni, e talora ripetuto nella incorniciatura di pitture nostrane del Duecento. E la grossa cornice di stucco dorato, intercalata di bolloni a rilievo, come quelle della pala toscana di Vico l'Abate e della Virgo Regina di Amalfi, che si conserva nella Pinacoteca di Napoli (3), ambedue opere del pieno Duecento; la presenza delle due figurine di frati domenicani inginocchiati e oranti ai lati del ceppo della croce (4) ; il maturo carattere gotico delle scritte la­tine ; e perfino i tipici grafismi gotici e l'errore di trascrizione nel secondo dei due monogrammi greci indicanti la Vergine (5), ci chiariscono su­bito non soltanto che il dipinto è opera d'un pittore bizantineggiante, e non già bizantino; ma che egli dovette ispirarsi direttamente ad altri esemplari bizantineggianti nostrani, meglio

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che a un prototipo orientale. Nè la data dell'ese­cuzione può risalire oltre la metà del Duecento (6). Ciò è confermato dal confronto, sia icono­grafico che stilistico, con le pitture della seconda metà di quel secolo e pur dalla generica impres­sione che il nostro dipinto, attraverso il manieri­smo bizantino, riesca già ad esprimere nei tipi delle figure, nei gesti, nella spaziata ritmica dell'insieme, una tutta nuova e nostrale aura di humanitas. La tradizione religiosa che ha con­servato il quadro fino a noi, quale adorato docu­mento di miracolo, vuole attestarci che innanzi ad esso pregò S. Tommaso d'Aquino, nel 1273, e fermare in qualche modo il nostro spirito sulla parlante qualità di tale humanitas. Vediamo se l'esame più specifico e intento dei caratteri stili­stici conforti simili additamenti. E anzitutto, donde ci venne il pittore? In quale fra le colture regionali del bizantinismo italiano è dato sup­porre ch'egli fosse allevato?

Una rapida scorsa delle Croci dipinte toscane del Duecento (7), mentre ci ricorda che il modulo bizantino del Cristo morto vi fu sostituito a quello tradizionale, romanico, del Cristo vivo -eretto, i grandi occhi aperti - solo verso il se­condo terzo del secolo, e probabilmente per opera di Giunta pisano (8) ; ci induce ad osservare che nei suoi Crocifissi la disposizione delle braccia secondo una linea retta dentro il campo dell'asse orizzontale della croce (anche se, talvolta, le braccia si àngolano sensibilmente nei gomiti) e il conseguente sopravanzare del capo del Cristo sopra quell'asse; oltre al particolare ripiegarsi della testa sulla spalla destra con un forte scorcio della gota; nonchè la caratteristica contrazione dei sopraccigli verso il mezzo della fronte - a mò d'accento circonflesso - e il disporsi dei piedi, inchiodati disgiuntamente, in maniera che quello destro sia di profilo e ad angolo quasi retto con il sinistro, che discende frontalmente, un poco deviato a manca; formano uno schema ben distinto da quello seguìto nella tavola napolitana (Fig. 2).

Questa, infatti, mostra il busto del Cristo sospeso alle braccia, che s'incurvano come una corda lenta, mentre il capo discende a campeggiar meglio nel centro dell' asse della croce; dispone il volto meno inclinato verso la spalla e alquanto

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plU frontale; disegna i sopraccigli secondo una linea appena incurvata ai margini, e scorcia i piedi come secondo un V capovolto. Ora, lo schema diffuso in Toscana nel pieno Duecento, fu quello di Giunta; e lo stesso Cimabue vi aderì nelle croci di S. Domenico ad Arezzo e di S. Croce a Firenze. Invece lo schema usato nella pittura napolitana era già noto nel 1257 a Simeone e a Machilos, umbri imitatori di Giunta, quanto allo stile (9) ; e nel 1272 se ne valeva l'anonimo "Maestro di S. Francesco" nella croce della Pinacoteca di Perugia. Qualche anno dopo, anche Cimabue l'usò negli affreschi di S. Francesco ad Assisi, certo derivandolo da quell'esempio; e probabilmente egli stesso lo divulgò, poco dipoi, in Toscana, dove lo tro­viamo per la prima volta in alcune tavole senesi e fiorentine e in alcune croci palesemente deri­vate dal fare di Cimabue: tutte databili nell'ul­timo quarto del secolo, del pari che le molte esemplificazioni umbre, marchigiane ed emiliane del prototipo del" Maestro di S. Francesco" (IO).

Queste osservazioni già tenderebbero, dunque, ad escludere che la nostra tavola sia toscana, o per lo meno ispirata ai comuni temi di quell'arte. Una indagine più accurata dei manierismi propri al pittore della Crocifissione di Napoli conferma, poi, chiaramente che, se alcuni arbitrari calli­grafizzamenti nella anatomia del nudo son comuni ai prototipi bizantini e alle derivazioni italiane: come il muscolo immaginario che col­lega l'orecchio con la base della gola, noto a Sotio (1187), a Berlinghieri e a molti giunteschi; o come l'ombelico arricciato a spira, capriccio caro a pittori del tipo transizionale fra il Cristo vivo romanico e quello morto, esemplato da Giunta (I I) ; o anche come il curioso rilievo del manubrio dello sterno, nel mezzo del petto; usato da quelli e pur dai seguaci del " Maestro di S. Francesco"; altri sono, al contrario, rin­tracciabili soltanto nel Cristo napolitano. Così la strana sporgenza della clavicola, alla base del collo, visibile anche nell'Evangelista (Fig. 3); lo sviluppo congiunto dei muscoli deltoide e pettorale sul braccio, connessi al bicipite da un profilo un ci nato ch'è esattamente capovolto ri­spetto al comune modulo dei maestri bizanti­neggianti toscani o umbri; il rilevarsi come

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FIG. I - NAPOLI, S. DOMENICO MAGGIORE: CROCIFISSIONE

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forma ossea sopra il fianco sinistro, d'un muscolo ben diversamente disegnato da quei pittori; la curva soda e piena dei fianchi; l'inarcarsi del -1'avambraccio destro dell'Evangelista; e in questa figura, come in quella del Cristo, l'ap-

FIG. 2 - NAPOLI, S. DOMENICO MAGGIORE: CROCIFISSIONE

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pari re delle caviglie (ignoto agli altri esempi) e il loro spostarsi sopra l'articolazione del piede. Ora, per quanto voglia attribuirsi parte di tali manierismi all 'arbitrio personale del pittore, è evidente che il loro insieme accenna a prototipi diversi, benchè affini a quelli conosciuti dai to­scani e dagli umbri; e afferma una ben distinta coltura artistica.

L'esame dello st~le corrisponde a simili indi­cazioni. Il calligrafismo comune si impreziosisce con troppa predilezione nel quadro di Napoli, rispetto alle note maniere dei toscani. Le artico­late flessioni della linea vi perdono quasi il risen­tito intento plastico degli esempi seguìti da Giun-

ta ad Assisi o da Cimabue ad Arezzo; e se non divagano, anzi insistono in particolari di preciso rilievo, tendono, tuttavia, visibilmente a un ef­fetto soltanto decorativo. Decorativo, s'intende, a confronto con 1'esasperato e pur conchiuso drammatismo dei dipinti bizantini cui si rifecero da presso i due maestri, e col metallico sbalzare della forma, messa ivi alla stretta fra l'ombra fredda e l'aspra lumeggiatura, quasi vi urgesse la punta d 'un bulino. Ma simile distinzione fra i due stili è profonda, fondamentale: sopratutto se si osserva che, di tutte le croci toscane, le due indicate, e specie quella di Arezzo, son le uniche che per molti caratteri si richiamino alla nostra, lungi dal vigoroso naturalismo e dalla nuova plrt­sticità della croce fiorentina di Cimabue, certo più tarda. Nè d'altro canto, giova accostarsi alle manierE:' più pittoriche e descrittive, care ai maestri delle tavole e croci istoriate, e in special modo ai pisani. Delle più antiche la nostra non ripete gli essenziali formalismi romanici; delle recenti può dirsi - è vero - che, come essa, rac­colgano il riflesso di quella corrente rigenera­trice della pittura bizantina dopo la metà del XII secolo, che il Muratoff chiamò Il neo-elle­nistica ", per quanto la vena ellenistica trascorra perenne nell'arte metropolitana e solo di volta in volta si dissecchi nel simbolismo ieratico (12). Ma se il dipinto napolitano non è certo estraneo alla più fluente vivacità del pennelleggiare e al modo di tracciare e di lumeggiare, succoso e pur nella sua raffinata ricercatezza Il improvviso", di tante miniature bizantine della seconda epoca, è ben facile notare che questo stile vi resta stretta­mente subordinato alle preferenze per la calligrafia come tale, e a quasi una sorta di estremo accade­mizzare sui bellissimi temi classicisti di Dafnì e di Palermo. Ai quali risponde, appunto, questa più agiata cadenza di ritmi, quest'aria comunica­tiva, ma sempre aulica e illustre, cui il nostro pittore può aggiungere, secondo che l'epoca ma­tura lo comporta, un accento alquanto più umano.

Così, non la viva, pezzata superficie croma­tica delle croci romaniche, nè il fresco accordo rosso-turchino di Giunta ad Assisi, nè il grave nero-oro di Cimabue ad Arezzo, o le carni ver­dastre del Cristo di S. Croce ; ma fuso nell ' oro opaco, un caldo biondeggiare dei corpi fra le

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NAPOLI , SAN DOMENICO MAGGIORE : CROCIFISSIONE

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morbide sete dell'azzurra tunica e del pallio carminio della Vergine, e i rosei rasi, dalle can­dide luci rimesse e quasi invetrite, del manto dell'Evangelista. Toni eleganti e preziosi, nella loro chiara pastosità da miniature: e in basso il verde-erba del piano, da cui s'eleva la croce az­zurrissima. Tutto questo, di più, sciolto con facile mano, pel piacere della grazia.

Certo, l'esperienza sottile del miniatore v'è sottintesa: la forma si delinea, s'arrotonda, s'ag­gira in sè, proprio come il sofisma stesso nel manierato compiacersi del pittore nel suo cifra­rio di antiche e laboriose delicature. Si direbbe, però, che in un piano addietrato, anteriore, le immagini vivano per lui; e una espressività sua propria, di naturalezza e di sentimentalismo pe­culiari, vi si traduce, sia nei volti e nei gesti dei personaggi maggiori, non pur grotteschi, per­chè inteneriti; sia, sopratutto, negli angeli e nei frati devoti (Figg. 4-7), dalla ingenua e quasi frettolosa animazione, che ci mostra, attraverso la cifra del manierismo grafico, una facilità per­fino caricaturale nel caratterizzare i tipi e una briosa facondia degli affetti. E questo sia inteso ancor meglio come gusto e inclinazione di tutta un'arte, che come speciale dono del nostro pit­tore. Conviene, quindi, affermare fin d'ora che nemmeno Pisa, il focolare del tardo bizantini­smo duecentesco toscano, conobbe una così signorile abitudine dei migliori modi bizantini unita ad una così piena dimenticanza delle narrative flessioni romaniche.

Per completare le precedenti osservazioni sulla iconografia delle Croci dipinte dell'Italia Centra­le, va ricordato adesso che proprio lo schema usato nella pittura da noi illustrata - e che s'è visto soltanto in due esemplari umbri, prima dell'ultimo quarto del secolo (13) - è quello predominante nelle opere bizantine della seconda epoca, a partire dai mosaici di S. Luca in Focide e di Dafnì (14) ; e che esso fu diffuso, senza quasi eccezione, nel più antico focolare nostrano di quell'arte: a Venezia (15). Gli esempi che vi rimangono, dall 'XI secolo fino al Duecento, rivelano, però, una maniera agitata, drammatica, vivamente accentata di ombre, e un complesso così diverso di manierismi locali, da non per­metterci nemmeno il tentativo di un confronto.

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Soltanto dopo la metà del secolo troviamo una precisa affinità di stile con la nostra tavola, nelle opere settentrionali. E meglio che in tutte, nell' Epistolario di Giovanni da Gaibana (1259; Padova, Tesoro della Cattedrale), al cui fare

FIG. 3 - NAPOLI, s. DOMENICO MAGGIORE: CROCIFISSIONE

(PARTICOLARE)

pittorico ed elegante, puramente bizantino, si ricollega tanta, e la miglior vena, della minia­tura bolognese nella sua seconda maniera (16). Ecco, all'incirca, raggiunto, intorno al 1260, con queste miniature, il termine a quo, entro cui contenere questo nuovo afflusso neo­ellenistico nel bizantinismo settentrionale, e i be­gli affreschi di Parma. Ma se ciò vale a precisare sempre meglio il clima storico-artistico in cui nacque il quadro napolitano - frutto, dunque, della stessa stagione - e la qualità del suo stile, decorativo e classicheggiante (come quello paler­mitano del pieno XII secolo, ma con più tardo e pittorico accento) ciò non giustificherebbe

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FIGG. 4-5 - NAPOLI, S. DOMENICO MAGGIORE: CROCIFISSIONE (PARTICOLARE)

in alcun modo una precisa attribuzione a tale gruppo: anzi rimane tuttavia intatto da specifici confronti e somiglianze quanto venimmo addi­tando più sopra, come complesso di manierismi e come tono e gusto propri alla Crocifissione che andiamo illustrando. Nè ci rimane che ricer-care se, nei pochi esempi della pittura del tempo, 10 Italia Meridionale, possa trovarsi una più sicura giustificazione al­l'ipotesi che si tratti d'un prodotto di arte locale, fondata finora solamente sul fatto che il nostro dipinto è ab antiquo conservato a Napoli.

(1057-87) affollata di figure, l'altra simile e più tarda (assai deteriorata) di S. Pietro ad montes presso Caserta vecchia, e quelle che fregiano gli Exultet miniati nei secoli XI e XII (17) ripetono sempre quel tipo, che si rivede nei rilievi della porta bronzea del Duomo di Benevento e del Pa-

liotto eburneo del Duo-

La ricerca iconografica par che ci assista ben poco. E ' noto difatti, che - contrariamente a quel che lascerebbe supporre

FIGG. 6-7 - NAPOLI, S. DOMENICO MAGGIORE: CROCI­

FISSIONE (PARTICOLARE)

mo salernitano, come negli altri lavori attribuiti alla stessa epoca e scuola (18). E perfino nel mo­saico del Duomo di Mon­reale, dovuto certamente, al pari degli altri del transetto e delle naVI minori, all' opera delle maestranze locali edu­cate dai maestri greci a Palermo, e databile tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, il Cri­sto morto, di forme atle­

la vicinanza con Palermo, l'altro grande focolare della coltura artistica bizantina in Italia - gli scriptoria monastici in gran parte benedettini e la scuola pittorica affine conservarono fin tardi la predilezione per il tipo romanico del Cristo vivo, rigidamente eretto e con gli occhi spa­lancati. La Crocifissione di S. Angelo in Formis

tiche, mantiene la eretta rigidità del corpo, come in vari esempi transizionali bizantini (19).

Solo la Crocifissione rimasta a testimonianza del gusto campano, nella prima metà del Due­cento, in una delle miniature dell' Exultet di Salerno (Tesoro del Duomo); acc~ntua il mo ­tivo della Il curva bizantina " col fianco destro

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del Cristo inarcato all' infuori; ma dispone ancora le braccia rigidamente distese sopra l'asse orizzontale della croce, proprio come il Cristo di Giunta in S. Paolo a Ripa, a Pisa. Se, però, osserviamo più attentamente il tipo del Cristo effigiato nella miniatura, ci accorgiamo subito che esso, meno che pel particolare indicato,

residui del più grossolano ombreggiare con dure luci Il rimesse", come negli affreschi della cripta dell' Annunziata a Minuto (Amalfi), furono sommersi, oltre la metà del secolo, dallo squi­sito gusto pittorico Il neo-ellenistico" ; le campi­ture di forti colori, a contrasto, si fusero in una più scaltra e delicata armonia; ma l'uso

di quei tipici manieri­smi permase. Così rima­neva fin dagli affreschi di S. Angelo in Formis (Fig. 8) la predilezione, veramente provinciale e popolaresca, p e r q u e i grossi menischi rossi che accendono le gote dei personaggi della tavola napolitana, come della Virgo Regina d'Amalfi e dei coèvi dipinti sici­liani, in modo ben di­verso da quello proprio ai mosaicisti veneti. Non già che tale motivo non fosse, anche altrove, co­mune; ma in tutti questi

. . esempl campam esso

corrisponde quasi esat­tamente a quello della tavola napolitana. Iden­tica è la posizione della testa; assai vicina la tipologia del volto; ca­ratteristica la strana spor­genza de 11 a clavicola; l'altra sul fianco sinistro; eguale la posizione delle gambe e dei piedi, con una sorta di 8 per se­gnare il ginocchio. Non vi figurano le caviglie; ma il perizoma è di­sposto allo stesso modo; ed è anch' esso traspa­rente, sebbene di velo scuro, non bianco listato d'oro. Inoltre il gesto dell'Evangelista è il me­desimo, specie per l'at­teggiamento della mano sinistra, aperta davanti al petto, in segno di ad­ditamento e d'a:1locuzio-

FIG. 8 - CAPUA, s. ANGELO IN FORMIS : BASILICA, AFFRESCHI

DELL' XI SECOLO (PARTICOLARE) (Fot. Anderson)

perde il carattere di un segno distratto e di ma­niera ; si completa con il forte spiegamento della gota e col curioso e gonfio

ne,come non si vede quasi mai nelle crocifisioni italiane, dove regge il libro del Vangelo, o pende sul grembo, o stringe il lembo del manto (21).

Esiste, quindi, un prototipo bizantino, da cui discendono ambedue le figurazioni; che, a dir meglio, istituì presso gli scriptoria e le mae­stranze dei pittori campani un canone dE'l tipo di Cristo, esemplato con gusto più arcaico nel­l'Exultet salernitano, da un facile pittorello del primo Duecento, e oltre mezzo secolo dopo, ripreso dal raffinato maestro del quadro napoli­tano. Durante questi decenni lo schema del Cristo morto, seguendo gli intimi impulsi della tendenza Il drammatica" bizantina, si rilasciò sempre più, esprimendo l'agonia e il dolore, i

arrotondarsi della ma-scella ; e riesce a vivere in una particolare espres­sione di tutte le fisionomie, realistica, un po' volgare anche, eppure pronta, colorita, comunica­tiva, e non sai se appassionata o comica, che a me rende un sapore tutto paesano e dialettale (22). Si ripensi al codice Laurenziano Il De re medica" così appropriatamente ascritto dal Toesca a miniatore meridionale; e sopratutto alle vivaci, bellissime scene della Il Vita Sancti Benedicti", miniata per lo stesso abate Desiderio, suscita­tore dell' età aurea cassinese (23), le quali ci richia­mano subito alla memoria l'estro brioso e la tipi­cità da ritratto delle figurine di domenicani oranti nella tavola di Napoli, e il miniaturistico calli­grafismo della cavernetta col teschio d'Adamo.

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Simile pittoresco e locale fervore di vita tra­spare chiaramente in questa tavola e ne attesta, quasi ex imo la patria o almeno il gusto naturale del pittore (24). Non ne spiega, tuttavia, le

FIG. 9 - NAPOLI, S. DOMENICO MAGGIORE : CROCIFISSIONE

(PARTICOLARE)

qualità dell 'arte: che mi pare di cogliere plU addentro quando, oltre il vivo ricordo della peculiare crudezza e invetriatura dei drappeggi nelle storie di S. Angelo in Formis, ci si rifaccia agli esempi più tardi delle maestranze siculo­bizantine. Là, sulle navate del Duomo di Mon­reale, nella fine del XII secolo, vedo avvenire già una sorta di scorporata trascrizione dei temi metropolitani. Il manierismo si figge in cifre, vuote affatto d'intenzione. I minuziosi partico-

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lari grafici in cui, per un'azione di poderoso astrattismo, si scompone l'immagine, ottenendo che la sottile casistica del dialettismo greco­orientale, possa potenziare di simbolo ogni segno e compiacersi di quel generale effetto allusivo, tipico dell 'arte bizantina meno ellenizzante e più vera, come d 'ogni arte intellettualistica; quei segni che sono annotazione e indicamento, non solo di valori mentali, ma pur di se stessi, tanto ciascuno è stato scelto e disposto a quel che deve esprimere (luce, rilievo, ogni minuzia della forma: e perfino, nella predilezione pel mosaico, la scomposizione del colore in un frammentismo analitico, in cui ben confluisce e finisce l'impressionismo ellenistico) trovano una nuova pagina su cui iscriversi e vi diventano un giuoco complicato e come prefisso, se non una svuotata copia; acquistano, cioè, il nuovo valore della propria gratuità, della esercitazione lette­raria a rime obbligate.

Nè può dirsi che le più tarde accentuazioni della maniera Il agitata" bizantina, affluendo in Campania nel Duecento - pur così viva­mente da ripetere quasi contratto in un rictus di spasimo, nel malconcio affresco della grotta di Rongolise presso Sessa Aurunca, il nobile tema della Morte della Vergine, già affollato di gesti emotivi alla Martorana di Palermo -spostino sensibilmente i termini di questo giu­dizio. Prova ne sia il mosaico dell' absidiola destra del Duomo di Salerno, dedicato, circa il I260, a Giovanni da Procida e che ci può rappresentare in modo, direi, ufficiale lo stato del bizantinismo Il aulico" siculo-campano, proprio negli anni in cui fu dipinta la tavola di S. Domenico Maggiore (25). Nè la irritata cincischiatura grafica del particolare, accresciuta in questa riproduzione dal pittoresco fram­mento delle tessere musi ve; nè il caratterismo tra ieratico e ritrattistico dei volti - seguìto, come già a Palermo, alle assai più libere for­me dell'arte Il profana" di Bisanzio - alterano nelle quattro figure di Santi rimaste meno toccate dal vasto restauro del I867, la invol­garita, diretta discendenza dalla pratica dei maestri siciliani. E il ricco, ma freddo colore, molti particolari del tipo stesso dell'Evangelista (capelli a ciocche, caratteri fisionomici , spor-

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genza clavicolare alla base del collo, caviglia spostata sopra il piede ecc.) e perfino la pre­senza della figurina genuflessa e orante del donatore chiariscono, poi, per la stretta somi­glianza coi motivi della tavola napolitana, quella unificazione della coltura artistica in Sicilia e in Campania che il dominio svevo aveva cer­tamente compiuto, diffondendo nella nostra costiera t'architettura arabo-sicula, come a Mon­reale la cosidetta scoltura neo-campana.

Pratica di bottega, dunque ripeto; e talvolta colto estetismo. A quale categoria ascrivere il nostro ignoto pittore? Guardiamone l'opera an­cora una volta. Il Cristo non serra, come in Giunta o in Cimabue, le labbra nella morsa della morte: è emaciato, scarnito, non contratto dallo spasimo. Lo sguardo par che tuttora coli, nella lunga ombra sotto le chiuse ciglia. La bocca­motivo inusato - è semiaperta, spirante. La Vergine (Fig. 9), sollevando alla guancia la mano avvolta nella tunica, ne trae il lembo e modella così, sotto la spalla, la propria figura, pur ieratica e come incolonnata sulle lunghe gambe rigide. La mano destra - gesto anch' esso nuovo alla iconografia duecentesca - ricade pen­dula sul grembo, esprimendo spontanea l'ab­bondano dell'animo al dolore. E la tunica si drappeggia sul petto con libere onde lineari, a

(I) TOESCA, Storia dell' Arte Italiana, l ° vol., p. 967 ; E. SANDBERG-VAVALÀ, La Croce dipinta Italiana, Ve­rona, 1930, p. 394, n. Il4. La Signora Vavalà cosi, tra l'altro, descrive: Il curva quasi gotica" delle gambe del Cristo; piedi Il incrociati"; la mano sinistra dell'Evan­gelista Il gesticola con la palma scoperta": causa, certo, la pessima visibilità del quadro, prima del restauro. Il VAN MARLE non ricorda il nostro dipinto (Italian School of Painting, Aja, I-V voll.).

(2) Cfr. oltre i citati; REI L, Die Fruehchristlichen Dar­stellung der Kreuzigung Christi, Leipzig, 1904; MALE, L'Art rèligieux du XIIe siècle en France, Paris, 1922, p. 78; id., du XlIIe siècle, Paris, 1923, p. 189; nonchè il MILLET, Rècherches sur l'iconographie de Z'Evangile, Paris, 1915, p. 39; e VAN MARLE, Rech. sur l'icono de Giotto et de Duccio, Strasbourg, 1920, p. 35. Non pare che l'elabora­zione degli schemi iconografici della prima epoca bizan­tina, in gran parte di origine sirio-palestina, che la Signora Sandberg attribuisce all'arte, rivelataci dal DE ]ERPHA­NION, delle Il EgZises rupestres de Cappadoce" (Paris, 1925, Ier voI. p. 31 ss.), durante il IX secolo, abbia avuto altro effetto che di svolgere più accentuatamente nei due Il te-

imitare veramente la morbidezza della seta. Gentile femminilità (26). Sono cenni, più che forme risaltate in concretezza d'arte; ma cenni di una sensibilità viva, che la raffinata lettera­tura del gusto non ha spento. In questo, e nella vivace partecipazione degli angeli e dei devoti, si scopre un fondo immaginoso, un Il sentimento" individuale. E forse il particolare sapore d'un' arte nasce proprio da tale humanitas più intenerita e pittoresca che drammatica e intensa: dal ve­derla trapelare attraverso così trascritte formule e appunto quando esse ricevono dal pittore una sorta di amorosa giustificazione, in ispirito nuovo di italica Il venustà ". Arte, dunque vuoI dirsi, come al margine d'una natura tra realistica e sentimentale, non ;;tncora assunta allo stile di una coscienza e tutta impigliata nella rete d'oro delle dilette e consumate maniere; anzi divagata in quel­le con la sofistica sottigliezza ch'è anche essa il segno dello spirito meridionale. E il meglio che ne resti è l'equilibrio stesso che tali due elementi hanno raggiunto nell'opera e che vi si dispiega in calmi e semplici ritmi d'uno spazio ideale, testi­moniando così la felicità estetica del loro accordo.

Verosimilmente questa dolce immagine potè parlare allo spirito di Tommaso d'Aquino (27).

SERGIO ORTOLANI

stimoni" dell'uomo-dio il tema del dolore. Cfr. TOESCA, cito p. 158, circa la miniatura dell' Evangeliario Siriaco di Rabula, certo anch'essa della fine del VI secolo.

(3) Cfr. A. O. QUINTAVALLE, La tavola di S. Maria Il De Flumine", ecc. Bollettino d'Arte, S. II, A. X, p. 265 (1930), intorno alla quale, anche per la sua ostentazione di regalità e di sfarzo - male ascritta dalla tradizione a una provenienza illustre - cfr. la serie delle Virgines Reginae meridionali, a partire dagli affreschi di S. Vin­cenzo al Volturno (826-43) e dal perduto mosaico absi­dale della Cattedrale di Capua (inizi XII sec., V. BER­TAUX, L'Art dans l' Italie MèridionaZe, Paris, 1904, p. 187), fino all'affresco di S. Maria in Foroclaudio (Carinola) e a quelli di S. Lucia di Brindisi (VAN MARLE, Italian School, cito V vol., p. 415), di S. Giusta di Bazzano (Abruzzo; V. Bollettino d'Arte, S. II, A. X, 1930, p. IlO) e per affinità di stile, di S. Lucia presso Melfi (ivi, p. 172); ma sopratutto agli affreschi della Grotta di Roncolise (Sessa Arunca), i quali per esser coevi alla tavola amalfitana, per l'immediata derivazione bi?;antina (scritte greche nella Koimesis ecc.) e per i particolari calligrafici della piena maniera" drammatica", mostrano

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grande somiglianza con essa nei manierismi delle mani, del trono, dei panneggi lumeggiati sontuosamente e con urtato fervore di linee. Le scene, assai agitate, dovrebbero divergere per lo stile dalla maestosa immagine di Amalfi i e invece la Virgo Regina, effigiata accanto ad esse dalla stessa mano, e così prossima all'altra, ci mostra che il tipico ieratismo del modulo frontale importava da se stesso, dentro il comune ambito del tardo stile bizantino, l'effetto presunto " classico " o "romano ", di tale figurazione, anche se va ammesso che la particolare predilezione nostrana per questa immagine potè in­fluire su un certo suo comune "romanicizzamento ".

(4) L'ordine domenicano fu confermato da Onorio III nel 1~16. Il primo suo convento venne istituito in Na­poli nel 1~31 e fu l'antica abbazia, prima basiliana, poi benedettina, di S. Michele Arcangelo a Morfisa, la cui chiesetta fu riconsacrata a Dio e a S. Domenico nel 1~55 ed è compresa nel perimetro dell'attuale chiesa di S. Domenico Maggiore. Ivi - nel 1~43-44 - Tommaso d' Aq uino era stato converso.

(5) L'upsilon del secondo monogramma è mutato in un chi.

(6) La Signora VAVALÀ (loc. cit.) dice - "Fine XIII secolo" - il TOESCA (id.) allude anch'egli ad epoca tarda, di poco anteriore al diffondersi dell'arte toscana e romana in Napoli, con Montano d'Arezzo (1305-13), Pietro Cavallini (1308), Simone Martini (1317-~0), Lello fio­rentino (132~) e Giotto (1328-32). Quest'afflusso disperse in Napoli ogni tradizione dell'arte locale rappresentata dalla tavola di S. Domenico Maggiore e da pochissimi altri resti. Il culto rivoltole vuole attestare che S. Tom­maso d'Aquino pregò innanzi ad essa e che un giorno fu veduto sollevarsi da terra "per più cùbiti". E dal Crocifisso uscì la voce: - Bene scripsisti de me, Tho­ma. Quam ergo mercedem accipies? - Non aliam nisi te, Domine - il grande Dottore rispose (Bolland, p. 671, n. 35 del T. I. di marzo). Ciò non avrebbe potuto accadere che nel 1~73, quando, dopo molti anni di assenza, il filosofo ritornò a Napoli e tenne per un anno, presso il convento stesso di S. Domenico, la sua celebre Schola di teologia, riconosciuta e compensata da Carlo I d'Angiò. Nel gennaio del 1274 il filosofo morì in viaggio, mentre si recava al Concilio di Lione.

(7) Cfr. SANDBERG-VAVALÀ, cito nota I. (8) Altra croce, forse coeva a quella di Giunta in S.

Maria degli Angeli ad Assisi (1236), è esposta nel Mu­seo Civico di Pisa, n. 20, e mostra il Cristo morto, an­cora con il corpo eretto.

(9) Cfr. OZZOLA, Un crocifisso romanico, ecc. (Collez. Bastianelli, Roma) in Bollettino d'Arte, S. II. A. V. p. 320 (1926)

(IO) Due tavole nella Pinacoteca di Siena i una nella collez. Schiff di Pisa (Fot. Reali 182) i una nella Collez. Blumenthal di New Yorki un'altra nella Vale Univer­sity: cfr. VAN MARLE, cito I vol., pagg. 191, 195, 372 i e SANDBERG-VAVALÀ, cito p. 39~ e 808. Per le croci cfr. ivi, p. 781 e 8~3.

(II) Croci di Campi (Spoleto, 1242), del Museo Civico

di Pisa, n. ~o, del Museo Bardini di Firenze. Vedi anche i due calligrafici esempi della Pinacoteca di S. Gimignano (il I) e delle Gallerie dell' Accademia di Firenze.

(12) Cfr. MURATOFF, Pittura Bizantina, ed. Valori Plastici, Roma, p. 35 i e TOESCA cito p. 161 e 917. Un gruppo di pitture toscane, studiato in parte dal SIREN, (Toskanische Maler im XIII jahhundert, Berlin, 1922, passim) e nuovamente illustrato dal SALMI (I mosaici del" Bel San Giovanni" e la pittura del secolo XIII a Firenze, Dedalo, febbraio 1931, p. 543 ss.), derivato dall'arte lucchese, ma con nuovi spiriti che, pur nel cal­ligrafismo accademico dominante e certo berlinghie­riano, si svolgono via via verso il naturalismo e la pitto­ricità neo-ellenistica, appena dopo la metà del Duecento, è il più affine, forse, per epoca e gusto, alla tavola di Napoli. Si osservi sopra tutto l'opera più tarda di codesto" Ano­nimo Lucchese ti operante a Firenze: la pala di S. Michele Arcangelo nella chiesa di Vico l'Abate, ele­gantemente annotata dal DAMI (Un nuovo maestro del Dugento fiorentino, Dedalo, Va, p. 490 - 1924-5). Ma sono sempre affinità generiche, dovute allo stesso mo­mento .,torico.

(13) Per es. non compare nella croce di Coppo e Salerno di Marcovaldo nel Duomo di Pistoia (1274) i ma è usato da Diodato Orlandi in quella del Museo di Lucca (1~88). Che le croci dove lo si vede impiegato siano tarde, lo si ricava anche dall'osservazione che in molte di esse è usata l'unica chiodatura dei piedi del Cristo e specie l'accavallarsi delle gambe, motivo desunto dallo stile gotico d'oltralpe ai Pergami di Pisa (1260) e meglio di Siena (1265-8) per opera di Nicola Pi.,ano.

(14) Dell'XI sec. Cfr. DIEHL, Manuel d'Art Byzan­tin, Paris, 1910, p. 540. Vedilo usato anche negli affre­schi di Elmalè-Kilissè a Gheremé (ivi), del convento di Stilos a Latmos (XII sec. vedi WULFF, Altchristliche U.

Byzantinische Kunst, Berlin, 1918, p. 687, tav. 506), di Studenizza in Serbia (XII sec. Cfr. Diehl cito p. 757, tav. 388) ecc. Per le miniature cfr. DALTON, Byzantine Art and Archaeology, Oxford, 1915, p. 441, 464 i per le figurazioni plastiche, ivi, p. 21 5, ~29, ~40 ecc.

(15) S. Marco, interno, mosaico XII sec. i due smalti Pala d'oro, in quel Tesoro i ivi, smalto di legatura i Aquileia, Duomo, affresco del 1200 C. (Cfr. TOESCA Gli affreschi del Duomo di Aquileia, Dedalo, giugno 1925, p. 3~) i Verona, Museo Civico, affresco del XIII sec. ecc. Un gruppo di crocifissioni: - affresco Cappella Torriani, Duomo di Aquileia (Cfr. MORASSI, in Bollet­tino d'Arte, S. II, A. III, 1923-4, p. 423) i affresco Sala Capitolare di S. Nicolò a Treviso (Cfr. TOESCA, cito p. 959) i tavoletta Museo di Budapest, incertamente ascritta a Scuola Senese (Cfr. VAN MARLE, I voI. p. 379 e VENTURI, St. dell' A., Va voi, fig. 13) - cui va ricollegato l'affresco della Pinacoteca di Fabriano, mo­stra i caratteri della fine del Duecento, anche per l'unica chiodatura dei piedi e l'incavallarsi delle gambe del Cristo (V. nota 13). Questo gruppo si ricollega per un parti­colare alla nostra tavola: sulla superficie frontale della croce è modellato un saliente a tre piani, per mezzo d

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tre zone digradanti del colore azzurro, disposte parallela­mente alla lunghezza delle assi. Tale motivo è usato già nel mosaico di Dafnì, in quello di S. Marco a Venezia, e poco diversamente nel Duomo di Monreale. Lo si trova anche in qualche esempio protogotico d'oltralpe, come nel Salterio detto di Bianca di Castiglia, dove il Cristo ha ancora i piedi chiodati disgiuntamente (l° quarto del XIII sec. Cfr. MARTIN, La Miniature Fran­çaise, Paris, 1924, p. 85, tav. I).

(16) Cfr. TOESCA, cito p. 920 e La Collez. di Ulrico Hoepli, Milano, 1930, p. IO.

(17) Cfr. BER1 AUX, cito p. 213: Exultet di Gaeta (11,111), di Montecassino (Londra, British Museum), di Fondi (Parigi, Bibl. Naz.), di Sorrento, di Napoli (Calco Bibl. Vitto Em.), della Bibl. Casanatense, Roma. Per altri es. cfr. SANDBERG-VAVALÀ cito p. 386-8.

(18) Cfr. GOLDSCHMIDT, Die Elfenbeinskulpturen ecc. Berlin, 1914 sS. IV vol. passi m e TOESCA, cito p. 1095 e II42.

(19) Cfr. GRAVINA, Il Duomo di Monreale, 1859, tav. 20A.

(20) Cfr. SANDBERG-VAVALÀ, cito p. 108. Il primo tosca­no che lo dipinse trasparente fu Cimabue nella croce fio­rentina; ma è da ricordare che il motivo era già noto all'arte bizantina del XII sec. Cfr. DALTON, cito p. 441.

(21) Cfr. SANDBERG-VAVALÀ, cito p. 130-1: vedi l'affresco della Pinacoteca di Fabriano. Nell'affresco di S. Angelo in Formis il gesto è simile, ma le dita sono un pò ripie­gate vérso la palma e la mano s'accosta al gomito destro.

(22) Naturalmente nel dipinto napolitano è con grazia ammorbidito l'animamento espressivo degli affreschi di S. Angelo in Formis, ch'è, con gli strillanti contrasti del colore, tanta parte della loro piuttosto paesana vivacità e freschezza. L'uso dei menischi fu generale; ma solo nella pala di Vico l'Abate (Firenze, vedi nota 12) è usato con spi­rito affine. Nota ivi anche la somiglianza dei vari manie­rismi da calligrafo e ricorda che lo stesso maestrolucchese dipinse a Firenze il Cristo delle Gallerie di quell' Accade­mia, pel quale cfr. nota II. Come epoca e gusto la vici­nanza di esso al maestro napolitano è chiara; ma sempra in senso generico e non nel" sentimento" dello stile.

(23) Del 1058-87; è il codice vat. lat. 1202, Roml, Vaticana. Per l'altro cfr. TOESCA, cito p. 1062.

(24) Altri elementi unici di essa sono i nimbi, rilevati di stucco e dorati, divisi in quadratini a punta di dia­mante: si trovano, infatti, solo nella tavola con " S. Domenico e 12 storie della sua vita ", conservata in S. Pietro martire a Napoli, opera degli ultimi anni del Duecento, proveniente da S. Domenico di Gaeta: che presto pubblicherò - essendone già compiuto il restauro - in questo Bollettino d'Arte.

(25) Gli affreschi di Rongolise sono tuttora ignoti e, dopo il restauro necessario, verranno qui pubblicati. Il mosaico di Salerno, già noto allo SCHULZ (II, 292) ecc.: vedi BERTAUX, cito p. 615 e TOESCA, cito a pago 697; è tuttora inedito. Aggiungo qui che la lunetta a mosaico, col S. Matteo, ivi conservata, è certo coeva a questa figurazione musiva, sebbene di maniera più eletta.

(26) È vero che il gesto è stato indicato varie volte dalla Signora SANDBERG-VAVALÀ, (p. 392 ss.); ma nella miniatura del Duomo di Velletri la destra non ricade, anzi stringe un lembo della tunica; nell'affresco di Aqui­leia (Cappella Torriani) il braccio si ripiega avanti al petto; nella miniatura del Museo di Deruta è teso rigidamente in basso; così nell'affresco di Monte l'Aba­te; e solo nella tavoletta del Museo di Lucignano ac­cenna rozzamente al motivo della Vergine napolitana, con l'unico intento, però, di ripetere l'identico gesto dell'Evangelista, al quale è comune, nel tardo Duecento.

(27) Ricostruita nel 1283 la chiesa di S. Domenico Maggiore, il dipinto ch'era in una antica Cappella di S. Nicola, fu collocato nella nuova cappella omonima, fino al 1524, quando venne trasferito nel Cappellone attuale. Cfr. PERROTTA, Descrizione storica della Chiesa e del Monastero di S. Domenico Maggiore in Napoli, 1830; VALLE, id. id. 1853; MINICHINI, Per dichiarare monu­mento nazionale la chiesa di S. Dom. Magg. 1886.

La tavola napolitana è dipinta, come d'uso, a tempera su una imprimitura di gesso e colla, distesa sopra una tela aderente al legno, non sottile, secondo il miglior modo bizantino, ma piuttosto grossa.

La conservazione del dipinto era pessima, ove si con­siderino le condizioni della sua visibilità; abbastanza buona quanto alla solidità del legno e alla aderenza del colore originale. Però la tavola (di 0,80 per 1,20 d'altezza) presentava fra le prime due assi (a partire da sinistra) che la compongono, una grave disgiunzione, oltre a minori fenditure nella parte superiore. Ne era stato causa l'antico slentarsi delle traverse originali, semi di­strutte dal tarlo, a differenza della tavola stessa; e questo aveva favorito la sconnessione dei margini di quelle fessure e l'ondulazione della superficie delle assi mede­sime. Inoltre, l'aver aggiunto nel lato di sopra, dove il lobo mediano era stato in parte segato, alcuni pezzi di tavole, per dare al dipinto una forma rettangolare; nonchè le parziali assicurazioni fatte in varia epoca con strati di tela gessata ecc. avevano non soltanto alterato la sagoma genuina del quadro, ma stipato e costretto le sue assi. Sicchè, non ostante la solidità generale della imprimitura e del colore, varii erano i gonfiamenti; e moltissimi, poi, gli sfregi e i buchi, i chiodi infissi o mozzati, i vecchi restauri a cera, a gesso e perfino a mastice forte; molte le ridipinture, e grossissimo, infine, lo strato delle vernici sovrapposte; mentre le fessure erano state a varie riprese inzeppate con striscie di tela, zaffe di stoffa e beveroni di gesso, sì da nascondere i dislivelli tra le assi. Tali condizioni, oltre la rarità del dipinto e il grande culto rivòltogli, reclamavano, meglio che non giustificassero, l'opera di restauro.

Del risarcimento fu incaricato dalla R. Sovrainten­denza all' Arte Medievale e Moderna della Campania, dopo una varia e riuscita esperienza dell'abilità sua in puli­mento di tavole e d'affreschi, il giovane e valoroso Prof. Stanislao Troiano, di questo Istituto di Belle Arti, origi­nale e appassionato studioso delle difficoltà del restauro.

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Primo compito fu quello di liberare d'ogni esterna pressione e apposizione di legno, tela, zaffe, colla e mastice, la tavola, che ritrovò l'originaria sagoma tri­lobata. Quindi, con graduali operazioni, furono ridotti l'ondulamento e la disgiunzione degli assi, con un sem­plice accostamento dÌ essi e con l'unirli per mezzo di cambre a farfalla, senza sforzarli nè rinzaffare le fessure, che meglio restano respirate dall'aria, visto che il legno è stato mummificato contro possibili tarlature. Infine, la tavola fu armata di un solido e preciso apparecchio in ferro zincato a sbarre orizzontali e regoli verticali resi interscor­revoli, per mezzo di rulletti metallici, secondo le naturali trazioni del legno; sicchè si è data una durevole coe­sione alla compagine del quadro. Solidificati e ridistesi, poi, sulla tavola tutti i tratti gonfi e pericolanti della imprimitura e del colore, s'è iniziata, dopo molti assaggi in punti di minore importanza, la detersione delle vernici e delle ridipinture, senza intacclre in menoml parte la

vernice originale, anzi lasciando anche una traccia della primitiva sporcatura, per non stonare l'armonia croma­tica già fusa dal tempo. L'oro, meno in alcuni buchi d'antico restauro, colmati di durissimo mastice, sia nei nimbi, sÌl nel fondo, è risultato quasi intatto e d'un bellissimo tono opaco, tanto ch'è parso superfluo rido­rare le mancanze, che non avesse a sembrar troppo nuovo. Non restava che stuccare le parti lacunose, per fortuna tutte in luoghi secondari, e attintarle a tempera, facilmente detergibile. S'è preferito all'unica tinta neutra - anche tenendo conto che il dipinto doveva essere riesposto al culto - una campitura secondo il color.:! locale della zom adiacente. Essa è stata distesa senza il menomo modellato e in modo che il margine delh hcum risulta ben distinto all'occhio, mentre il ton ) stesso la riassorbe nella tinta local ~ . Posso affermare che il risultato è assli soddisfacente e raccomandabile ili ogni caso.

IL MULETTO DI DIONISO UN VASO PLASTICO DA AGRIGENTO

N ELL' OTTOBRE 1930 si esplorava ad Agrigento, nel singolare santuario de11e Di­

vinità Chtonie scoperto tre anni prima a nord ed a est del Tempio detto dei Dioscuri, un sace110 di forma quasi quadrata, con profondo pronao a pilastri; a11'esterno presso l'angolo sud-est apparve una favissa irregolare praticata ne11a roccia, riempita a11a rinfusa di materiali e rifiuti di ogni genere; sopra tutto frammenti di vasi grezzi, ma insieme cocci dipinti e resti di pic­cole plastiche. Ero io stesso sul lavoro, e vigi­lavo l'opera cauta de110 scavatore. Affiorarono cocci dipinti che mi apparvero subito di rara be11ezza, e frammenti plastici verniciati mal definibili. Moltiplicata la prudenza, altri resti si aggiunsero, si che potei ricostruire la parte inferiore d'un quadrupede, con le fiancate mag­giori piene e dipinte a figure rosse. La favissa venne vuotata, la terra passata al crivo, e i dintorni esplorati con la più ostinata minuzia; uscirono altri frammenti privi di attacchi; ma purtroppo ne11 'oggetto, di cui si cercava divi­nare la forma, restavano tante lacune.

Al laboratorio di restauro del Museo di Pa­lermo i resti furono studiati e connessi con cura; e ci si avvide che un frammento rinvenuto in antecedenza, una sorta di coppa non regolare, un poco ovale, con la fiancata dipinta, si sal­dava agli altri, costituendo parte del corona­mento, dando il carattere a11'oggetto, sì da permetterci di capirlo e di tentarne idealmente una reintegrazione.

Non voglio tardare a render di pubblica ragione questa opera, che è di vivo interesse per lo studio e che porta una nuova nota ne11e nostre conoscenze de11'arte e11enica, pago di poterne fare una presentazione forse ancora sommaria e non del tutto esauriente. Ma penso che una rie1aborazione maggiore, se possibile, potrà venire più tardi, frutto di discussione e di co11aborazione; ed a11a discussione appunto offro qui l'oggetto, la sua reintegrazione ideale, e l'opinione che io me ne son fatta.

I frammenti ricomposti formano la parte infe­riore d'un equino, mulo, a giudicare dal corpo corto e pesante, da11e zampe atticciate e grosse

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