La cucina “in bianco e nero”è fatta di gesti, di sacrificio,
di ingredienti. Alla base c’è la cultura: l’uomo e tutto il suo bisogno
di comunicare.
Pino Cuttaia
P e r l e s c a l e d i S i c i l i a
P i n o C u t t a i a
Racconti diFrancesco Lauricella
Fotografie di Davide Dutto
Prefazione di Marco Bolasco
Per le scaledi Sicilia
p r o f u m i , s a p o r i , r a c c o n t i , m e m o r i a
“C’è un ingrediente che non manca mai nei miei piatti e che
consente di riconoscerli. Il mio ingrediente segreto
è la memoria.Ognuno dei miei piatti
contiene almenoun pizzico di memoria.Ognuno dei miei piatti,con la sua semplicità,
prova a raccontare una storia”.
Responsabile area enogastronomiaMarco Bolasco
Progetto grafico e impaginazioneLeonardo Di Bugno
Editing delle ricetteAnnalisa Barbagli
Responsabile editorialeDavide Mazzanti
www.piattoforte.it
www.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - ItaliaPiazza Virgilio 4 - 20123 Milano - ItaliaPrima edizione: ottobre 2014
Ristampa Anno
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Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. - Stabilimento di Prato
A nonna Rosalia, che mi ha donato i valori di questa Sicilia, e a mia moglie Loredana, che mi ha consentito di apprezzarli fino in fondo.p.c.
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Ci sono molte ragioni, in ambito gastro-nomico, per essere grati a Pino Cuttaia. Nell’attuale circo Barnum della cucina – un’e-poca fatta di luci, di miti e di rappresentazio-ni talvolta artificiali – la sua relazione con il mondo appare nuova, autentica, cristallina. Il carattere personale di questo grande cuo-co siciliano ha rimesso al centro del sistema la figura dell’uomo, riuscendo a rivelare tut-to ciò che esiste dietro al lavoro ai fornelli. Vale a dire un sistema di relazioni e di storie personali, di contesti, capace di valorizzare il buon cibo come rete fra soggetti diversi tra
loro. Una sorta di nuovo umanesimo, quello di Cuttaia, che da quell’estremo di terra si-ciliana che è la città di Licata ha saputo rac-contare una storia effettivamente diversa: tanto evocativa e stimolante da fare del suo ristorante, La Madia, una vera destinazione. Perché da Pino Cuttaia non si va solo per il piacere della buona cucina: attraverso i suoi piatti si entra in relazione con un sistema complesso di gesti, memoria e vicende uma-ne, che non può prescindere dal contesto. Una delle cose molto chiare sin dalle prime pagine, leggendo i racconti che si susseguono
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er le scale di Sicilia
in questo volume, è che si tratta di un cuo-co con i piedi ben saldi per terra. Non che i suoi piatti non volino alto, anche in tema di fantasia e creatività, ma ciò che li compone trae origine da percorsi, da ricordi, da sguar-di e profumi che nascono all’interno del suo territorio. Anche questi sono ingredienti; e il cuoco, di tutto questo, è narratore. La sua ca-pacità di saltare, volare più alto, creare nuova cucina, è fortemente connessa alla scelta di raccontare il mondo reale. Vero divulgatore, Cuttaia riesce infatti a dare voce a chi non ce l’ha. È questa una nuova relazione con il terri-torio, la Sicilia, ma – ci viene ricordato – la Si-
cilia è un arcipelago e non ha senso pensarla come sistema unitario. Non a caso le storie che leggerete sono storie personali, racconti di vita e di memoria individuale che tratteg-giano dei volti, ma sanno aiutarci a leggere la Sicilia di Cuttaia. È una memoria senza retorica, rappresentata attraverso uno sguar-do molto personale in cui ogni ingrediente della narrazione – si tratti di un mestiere, di un paesaggio o di un prodotto – vive solo in quanto è parte del percorso reale: uno spac-cato di vita vissuta, senza messa in scena. Emergono, attraverso questi ritratti, i caratte-ri intensi che compongono lo spartito della
cucina di Pino. Vere e proprie note musicali e sottolineature prendono forma o riacquista-no vita nella rielaborazione dei piatti. A volte volano lontano dalle proprie origini, anche per la necessità di separarsene. La creatività di questo cuoco nasce nei gesti, prima ancora che nelle tecniche. Forse è proprio perché dai gesti nascono nuove tecniche che questi piatti appaiono nuovi eppure mai artificiosi: tratti colorati di storie che esistono davvero. Come se la mano di chi li ha preparati venisse guidata anche da chi gli sta, idealmente, die-tro: un amico, un fornitore o un collaboratore.Per tutte queste ragioni – per la concretezza
e per la forza del gesto, per la memoria e il territorio rappresentati così come sono, per le facce che li raccontano – e per le fotografie in-tense che scandiscono queste pagine, è pos-sibile che Per le scale di Sicilia non sia solo un libro di cucina. Più che mai, a pensarci bene, continuare a rappresentare la cucina come un palcoscenico teatrale illuminato da riflet-tori non ha molto senso. Perché la gastrono-mia non è tanto, o solamente, scienza della nutrizione o dei cibi, ma è una rappresenta-zione umana complessa in cui la convivialità è anche socialità e vita. La stessa che ritro-viamo scandita e celebrata in queste pagine.
Marco Bolasco
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SommarioL’artigiano 21
Sicilia Piemonte e ritorno 37
prima parte
Per le scale di Sicilia 51
Un pizzico di sale, un filo d’olio 63Ventresca lisciata all’olio di cenere Spigola in crosta di sale marino
con insalatina d’arance e finocchioTonno e conserve
Il carciofo 79 Ninfea di carciofo spinello
Il mare inaspettato 89 Sapori di mare Quadro di alici
Aglio e mandorla, due note musicali 103
Minestra di pasta con aragostaFiletto lisciato all’olio di cenere Agnello picchettato all’aglio
La seppia 117Gnocco di seppia con carbone di nero Favette, piselli e seppioline
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er le scale di Sicilia
Campagne e pastori, il gioco e il baratto 131Spiedino di polpo verace con crema di ceci
e salsa al rosmarinoMaialino nero dei Nebrodi al sugo
della domenicaPiccione con fegatini
La domenica 149Arancine di risoCassata di gelato
seconda parte
Tutta colpa dello champagne 163
In bianco e nero 173Pasta con le sarde
Arancina di riso con ragù di trigliee finocchietto selvatico
Bianco e nero di baccalàFinta cassata
Mamma, ho fatto l’uovo con la seppia! 189
“Uovo” di seppia
La cucina degli avanzi 199
Parmigiana riveduta e correttaalla moda della Madia
Lasagne di melanzanaPizzaiola: merluzzo all’affumicatura di pigna
L’illusione 213
Tortello in falso magro
Spatola a beccafico con caponata croccante di verdure Nuvola di capreseRaviolo di calamaro, ripieno di tinniruma di cucuzza, con salsa di acciughe
I dolci della domenica 229 La cornucopiaGelo di mandarinoProfiterole al cioccolato
L’italiano a tavola: uno, nessuno e centomila 245Cannolo di melanzana perlina in pasta croccantePesce arrostoCrostata con confettura di gelsi rossi
Perché Licata? 265
appendice
La Madia 283Alcune immagini riprodotte nel testo 284 Indice alfabetico delle ricette 285 Ringraziamenti 286
L’artigiano
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Rincorso spesso dalla domanda
sull’arte in cucina, sentendomi più vicino
all’esperienza degli artigiani, una volta cercai sul dizionario la parola “artigiano”. La definizione sembrò
la mia condanna: lavoratore.
Capii in tal modo, definitivamente, che
ero un artigiano e non un artista. Fatica e
affidabilità sono parte del mio quotidiano.
Attraverso gesti comuni, con attrezzi sem-
plici e un approccio di genuina, profonda
curiosità, mi sforzo di esaltare le caratte-
ristiche e le qualità degli ingredienti. Così
come ogni giorno fa il sarto con un buon
tessuto, come il falegname con il legno.
Da sempre le botteghe degli artigiani mi
affascinano. In Sicilia, durante le vacanze
scolastiche, i bambini venivano indirizzati a
una di queste botteghe perché imparasse-
ro il mestiere. Poteva trattarsi, a volte, solo
di pochi giorni, ma quel tanto già bastava
per entrare in un universo a parte, che fun-
zionava con le proprie regole e aveva un
suo linguaggio. Trascorrevo spesso il mio
tempo dal calzolaio perché mi piaceva l’o-
dore del mastice e del cuoio, o dal barbie-
re, dove si sviluppavano discussioni infini-
te su tutti gli argomenti, o dal falegname,
dove un qualsiasi pezzo di legno veniva tra-
sformato in un oggetto.
Nella mia cucina penso di aver fatto il
possibile per ricreare quell’atmosfera così
favorevole allo scambio di esperienze, af-
finché la conoscenza e i gesti del lavoro
vengano trasmessi dall’uno all’altro, e non
vadano perduti come già è stato per mol-
ti mestieri.
Artigiano dunque, e oggi più che mai la
mia sfida quotidiana è raggiungere l’eccel-
lenza nella semplicità. Nel mio ristorante
porgo il benvenuto ai clienti con il pane, o
meglio i pani: ne offro sette varietà da ac-
compagnare con l’olio.
Pane e olio: cosa c’è di più semplice e ge-
nuino? Sarà banale, forse, ma a mio pare-
re è questo il migliore benvenuto ai clienti.
Mi piace essere semplice e buono: come il
pane. Attraverso quel gesto, quell’elemen-
to “in bianco e nero”, voglio comunicare a
chi siede alla mia tavola un messaggio di
genuinità.
Essere cuoco in bianco e nero significa
intendere lo chef non come un artista, ma
come un artigiano. Nel mio lavoro è quella
stessa quotidiana fatica che mira a realizzare
un prodotto buono, di cui ci si possa fidare.
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È la scelta di chi mette innanzi a tutto quel
che realizza con le mani, e non se stesso.
A mio parere, gli chef dovrebbero riassa-
porare il piacere – ma non è questo il termi-
ne giusto – di stare nelle cucine d’un tem-
po. Per decenni, o meglio forse per secoli,
i cuochi sono rimasti confinati in antri inac-
cessibili, vivendo una vita difficile e dura:
lavorando per tantissime ore al giorno in
ambienti caldi e umidi. Di necessità, esclu-
si da ogni vita sociale. A nessuno veniva da
pensare che si trattasse di artisti.
Fortunatamente oggi, anche se il mestie-
re è ancora duro, e non potrebbe essere al-
trimenti, fare lo chef non comporta le rinun-
ce e i sacrifici d’un tempo. Il rischio è che gli
chef, uscendo nel mondo, facciano svanire
quell’alone di mistero e di magia; che sca-
dano in secondo piano non solo gli ingre-
dienti, punto di partenza della cucina, ma
anche i piatti finiti, ovvero il punto di arrivo.
Ai clienti offro prodotti unici, che sono il
dono della Sicilia, e ricette della tradizio-
ne: non tanto il mio nome. Voglio vivifica-
re questa identità dei luoghi e arricchirla,
al termine di un serio percorso di ricerca.
Quando reinterpreto una ricetta, lo faccio
con estremo rispetto e molta cautela, non
miro a farne una versione “personale”: si
tratterebbe di un pretesto per mettersi in
mostra, ed è cosa che non mi appartiene.
La tradizione ha la sua complessità e si
nega a letture eccessivamente personali.
I capolavori della tradizione gastronomica
sono piatti con i quali un cuoco prima o poi
deve fare i conti, lungo la strada. Se sceglie
d’intraprendere questo viaggio mosso da
curiosità e rispetto, riuscirà a svelare sotti-
li sfumature: riuscirà a penetrare l’anima di
quella ricetta e a entrare in sintonia con chi
siederà, un domani, alla sua tavola. È que-
sto il percorso che consente di addentrarsi
nelle pieghe più riposte di una ricetta, per
poterla rigenerare.
Nel mio quotidiano impegno, cerco di ri-
portare alla luce tutto quel che la tradizione
ci ha regalato e, attraverso una nuova ve-
ste, di far rivivere sapori perduti nella me-
moria.
La parmigiana servita in un bicchiere da
Martini non ricorda, visivamente, il piatto
che ha lo stesso nome: in realtà sembra più
un dessert. Ma, assaggiandola, si viene as-
saliti dal ricordo perché ha il profumo del ri-
cordo, ha il sapore della memoria.
La cucina in bianco e nero è fatta di gesti,
di sacrificio e di ingredienti. Alla base c’è la
cultura, ovvero l’uomo con tutto il suo biso-
gno di comunicare.
Non voglio stupire il cliente con trovate
che celebrino la tecnica a discapito del pro-
dotto. La tecnologia deve rispettare la ma-
teria, non la deve stravolgere.
L’”Uovo di seppia” dimostra come nuo-
ve conoscenze e nuove tecniche possano
essere a servizio di un ingrediente. In tal
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modo un piatto povero, rustico, che trovava
spazio esclusivamente sulle tavole più umi-
li, attraverso la tecnica può vedere esalta-
te le proprie caratteristiche e acquisire una
nuova eleganza.
Ho usato l’innovazione, in questo caso,
senza compromettere la memoria. Anzi, ho
portato in superficie l’eco di un ricordo che
apparteneva a molti, ma che per tanto tem-
po era rimasto inascoltato.
Prodotti poveri come la seppia, la triglia,
la sciabola, sono parte delle nostre più umi-
li radici. Giudizi sbrigativi, e una certa dose
di pigrizia, li hanno banditi dalle nostre ta-
vole. Credo invece che siano prodotti come
questi ad avere ancora tanto da esprime-
re. Prodotti con un dato di memoria collet-
tiva che li rende capaci di suscitare emozio-
ni forti: li rende capaci di svelare sapori che
fanno parte della nostra cultura più di quan-
to noi stessi possiamo immaginare, più di
quanto saremmo disposti ad ammettere.
La cucina in bianco e nero: semplice,
umile, deve celebrare il valore della stagio-
nalità. La memoria del buono, per me, è le-
gata alla stagionalità.
Uno dei ricordi che più di ogni altro è im-
presso nella mia memoria è rappresentato
dagli occhi sognanti di meraviglia dei bam-
bini, quando tornava a casa dalla campagna
il nonno, o lo zio, e da un fagotto estraeva
i primi frutti di stagione: i primi pomodori o
le prime fave, appena raccolti. Momenti di
gioia, fatti di gesti semplici. Ed erano quel-
li i prodotti migliori, quelli che il contadino
raccoglieva per sé e per i suoi cari quando
il frutto raggiungeva la massima espressio-
ne di profumo e di sapore.
Il profumo s’imprimeva chiaro nella me-
moria di tutti, perché nella vita di tutti e di
ciascuno la natura aveva un ruolo centrale:
semina e raccolto erano eventi che coinvol-
gevano l’intera comunità, veri e propri riti a
cui tutti partecipavano.
Sono convinto che il modo migliore per ri-
spettare un prodotto (come oggi si usa dire
spesso) sia in realtà quello di riscoprire il
valore della stagionalità e dunque il sen-
so dell’attesa. Sapere aspettare. Aspetta-
re il momento, la stagione, in cui il prodot-
to raggiunge la sua massima espressione.
Quando propongo un prodotto voglio su-
scitare la stessa emozione, la gioia e lo stu-
pore che provavamo da bambini al gesto
semplice di chi, tornato dalla campagna,
poggiava sul tavolo in cucina i primi frutti di
stagione. Quando ci riesco, si attiva la stes-
sa percezione: la memoria del buono.
Se il cuoco ha un privilegio, è quello di
toccare le corde della memoria delle per-
sone, pur non conoscendole. Attraverso un
piatto, il cuoco racconta una storia che par-
la di sé: si mette a nudo e comunica qual-
cosa. Non può utilizzare ingredienti o gesti
che non gli appartengano: il cliente avverti-
rebbe la finzione, un che di artificioso.
Un piatto lo devi metabolizzare, devi farlo
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tuo. Se non ti appartiene, intendo dire se il
cuoco non lo sente come suo, difficilmen-
te sarà un buon piatto. Difficilmente comu-
nicherà l’emozione che infine crea la per-
cezione di buono e, in chi la prova, giunge
come un dono.
Pochi passi più là, in sala, o separato dalla
distanza e dal tempo, il cliente allora premia
il gesto di generosità, apprezza la traccia
suggerita, riconosce il profumo e il sapore
della memoria. Se non rinuncerà ad ascol-
tare il ricordo che, come una favola, è con-
tenuto in ogni piatto, la magia lo rapirà e si
troverà a seguire la strada della memoria.
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