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LA DEMOCRAZIA DIRETTA · La rivoluzion deirSQe quell, a del 182 i0n Ispa-gna, quella de l 182 e1 le...

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Piccola Biblioteca 350 Giuseppe Rensi LA DEMOCRAZIA DIRETTA ADELPHI
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Piccola Biblioteca 350

Giuseppe Rensi

LA DEMOCRAZIA DIRETTA

A D E L P H I

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Costretto a rifugiarsi in Svizzera all 'indomani della feroce repressione dei moti di Milano del maggio 1898 (i cannoni di Bava Beccaris...), il giovane militante socialista Giuseppe Rensi vi pubblicava nel 1902 la prima edizione di que-sto libro, che regge benissimo il tempo e sem-bra riemergere nei momenti più tesi della sto-ria italiana (altre edizioni apparvero nel 1926 e nel 1945). Osservando i caratteri di tre forme di governo (l'antico assolutismo, la monarchia costituzionale e le forme «repubblicane-demo-cratiche moderne»), Rensi si poneva un inter-rogativo che è rimasto centrale: come impedire che una minoranza organizzata domini sempre una maggioranza disorganizzata? E lo stesso te-ma che ritro\iamo in Gaetano Mosca e Vilfre-do Pareto - e già si delineava in Tocqueville. Come sempre, Rensi è magnifico nell'analisi, nell'enucleare le contraddizioni, nel traire con-seguenze da episodi. E la sua critica, spietata e im.passibile nei confronti dell'assolutismo e del-la monarchia costituzionale, non è meno cor-rosiva quzindo si appunta sulla democrazia rap-presentativa; proprio per salvarla dai suoi mali cronici Rensi introdusse - con un occhio alla confederazione svizzera - il tema, provocato-rio allora come oggi, della democrazia diretta.

A cura di Nicola Emery.

ISBN 978-88-459-1132-3

€ 13,00

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Di Giuseppe Rensi (1871-1941) Adelphi h a pubblicato Lettere spirituali (1987) e La filosofia dell'assurda (1991). La democrazia diretta apparve per la prima volta nel 1902 col titolo Gli ancietis régimes e la democra-zia diretta. Lo riproponiamo qui sulla ba-se dell'edizione del 1926, l'ultima licen-ziata dall'autore.

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<>La deniocr;i;/iac(ir<-ii.i iui| (dr.I <• < In i! predoininio ecoii'itiiicn M I 'HIM > i.i m predominio politico, u, .ilim no, iiii|m disce che il prt(loininio polliiif" ilcll.i classe prevalente (;(:ononii( ;iin( me di venga esteso, continualo, ellii AI I , M-I M •

democrazia diretta, periiu-lic ndn al ìa massa eli rovesciare luttc le «li-non le vanno a genio, stabilivi i- e ni,io tiene un terreno politico di uguaj.',lian/.i e di neutralità nel quale le lotte di ( l.iss' vengono coinbattxite colle Ibrze c Hi t(i ve di cui ciascuna classe dispone; seii/.i che ad esse si possano aggiungere le loi • ze aidiiciali della politica e della legisl.i zione».

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PICCOLA BIBLIOTECA A D E L P H I

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DELLO STESSO AUTORE:

La filosofia dell'assurdo Lettere spirituali

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Giuseppe Rensi

LA DEMOCRAZIA DIRETTA

A cura di Nicola Emery

ADELPHI EDIZIONI

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Prima edizione: ^ugno 1995 Secmda edizione: marzo 2010

I 1 9 9 5 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT

ISBN 978-88-459-1132-3

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INDICE

Vecchi e nuovi governi 11

Le monarchie assolute 32

Il sistema parlamentare 50

Il sistema parlamentare (continuazione) 82 Il sistema parlamentare {continuazione

e fine) 105 La democrazia diretta 135

La sovranità popolare 183

ìiOTA di Nicola Emery 215

APPENDICE 2 4 1

Lo stato di diritto 243 Prefazione alla prima e seconda edizione 261 Prefazione alla terza edizione 270

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LA DEMOCRAZIA D I R E T T A

A mia moglie Lauretta Perucchi compagna fedele e serena in ogni vicissitudine anche questa terza edizione del mio primo libro resti dedicata

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I VECCHI E NUOVI GOVERNI

Il comune e generalissimo criterio di distinzio-ne tra le forme di governo è quello della loro rispondenza o non rispondenza alla volontà popolare e del fatto che esse lascino o no libe-ro il corso all'influenza di questa volontà po-polare nella compagine dello Stato. Si può dire che questo criterio risalga ad Ari-stotile, il quale ha distinto i governi in monar-chici (in cui la volontà popolare non ha alcuna influenza perché vi è sovrana quella del re), aristocratici (in cui la volontà popolare ha solo una piccolissima influenza, quella rappresen-tata dalla piccola classe che esercita il potere) e in democratici, in cui la volontà del popolo prevale pienamente. Tale distinzione delle forme di governo, basa-ta sul criterio della prevalenza o dell'esclusio-ne della volontà popolare, fu accettata e segui-ta, da Aristotile in poi, da quasi tutti gli scritto-ri politici. Ed essa, considerata astrattamente, è, a nostro avviso, come apparirà in sèguito, esatta. Ma, se la formula di distinzione accennata è esatta in astratto, gli errori sopravvengono nell'applicazione concreta di essa. È verissimo che l'esclusione o l'ammissione della volontà popolare alla direzione della cosa pubblica può, teoricamente, stabilire un taglio netto e

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preciso tra le forme di governo. Ma quando si tratta di determinare praticamente se la tale o la tale altra costituzione politica ammetta od escluda l'influenza della volontà popolare; quando si tratta di determinare se la tale o la tal altra costituzione politica vada classificata tra quelle che concedono corso alla volontà popolare o tra quelle che le elevano contro barriere; allora sorgono gli equivoci e gli in-ganni. In base al criterio enunciato, noi siamo, per esempio, abituati a fare una profonda e rigo-rosa distinzione tra due forme di governo. Quando pensiamo a costituzioni politiche sta-bilite all'infuori della volontà popolare e ne-ganti a questa ogni influenza nello Stato, ci si affacciano tosto alla mente le monarchie asso-lute, gli «anciens régimes»; quando pensiamo a ordinamenti politici aperti all'influsso della volontà popolare, e organizzati appunto allo scopo di accordare a questa la prevalenza, ci si presentano tosto i governi costituzionali, rap-presentativi, parlamentari, diffusisi nella pri-ma metà del secolo XIX, in seguito alla rivolu-zione francese, per tutta Europa. La teoria della sovranità popolare, la teoria che i governi ottengono il loro potere dalla co-munità per delegazione, è accettata (come ri-conosce un acerrimo e formidabile nemico della democrazia, il Sumner Maine)' in tutti i paesi d'Europa e d'America (meno la Russia e la Turchia). E dovunque si credette che quella

1. Henry Sumner Maine, Essai sur le gouvernement popu-laire, E. Thorin, Paris, 1887, pp. 21 sgg.

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teoria potesse prendere corpo e tradursi effet-tivamente in pratica mediante i governi parla-mentari. Perciò le rivoluzioni - lo sforzo su-premo compiuto dal popolo per conquistare la sovranità - mirarono dovunque ad attuare il regime rappresentativo. La rivoluzione deirSQ, quella del 1820 in Ispa-gna, quella del 1821 e le successive in Piemon-te e negli altri Stati italiani, quella del 1848 in Germania e in Austria, avevano nettamente per scopo di fondare la sovranità popolare, e tale fu lo scopo che si ritenne e si proclamò raggiunto coll'istituzione dei governi parla-mentari. Ne derivò la convinzione profonda, radicata, incrollabile che questi govèrni abbia-no pienamente realizzato 'aspirazione alla so-vranità popolare, la quale era stata il motivo della loro introduzione; e che essi rappresenti-no di fronte ai vecchi regimi assoluti, l'èra nuova, l'èra della libertà opposta a quella della schiavitù. Da questo punto di vista, la storia ci pare, co-munemente, divisa così: fino al 1789 esclusio-ne assoluta della volontà popolare dal potere pubblico che si concentrava (come scrive il Pal-ma)' «nel signore di una reggia»; poi, l'abisso tumultuoso della rivoluzione francese, e di quelle che la seguirono negli altri paesi; infine,

sorgere da questo abisso dei governi a base di volontà popolare che si insediano in tutto il mondo civile (meno la Russia) mediante le Co-stituzioni ed i Parlamenti.

1. Luigi Palma, Corso di diritto costituzionale, Pellas, Fi-renze, 1881, voi. I, p. 283.

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Se noi richiamiamo alla memoria l'educazione storica che abbiamo tratta dai libri o ricevuta nelle scuole vediamo che essa è proprio infor-mata a questi concetti. I vecchi governi erano la compressione sistematica della volontà po-polare, la schiavitù; e noi risentiamo ancora il senso di oscura tetraggine che ci ispirava lo studio della loro storia fattane nelle scuole o che emana da qualunque dei più comuni libri di storia quando trattano di quelli. I nuovi go-verni sono la libertà, il trionfo della volontà popolare; e ancora rammentiamo il sospiro di soddisfazione, con cui durante il nostro studio scolastico, o durante la nostra lettura, usciti dal triste pelago dei vecchi regimi e giunti al periodo dei nuovi Stati popolari, esclamavamo col dolce brivido di chi ha sfuggito un perico-lo: finalmente siamo liberi! cose simili a quella di una volta, fortunati noi, non ne vedremo più. Epperò, vedete casi!, le cose di una volta si ri-petono anche sotto i governi costituzionali, parlamentari, rappresentativi, anche negli Sta-ti, così detti «popolari». Quella persecuzione con cui, come noi avevamo appreso nelle scuo-le o nei libri, i vecchi governi si accanivano contro i cittadini, quelle strazianti prigionie la cui lettura ci strappava lagrime, quegli ec-cessi a cui si abbandonava la soldatesca sopra un popolo inerme, quelle trame poliziesche che ci ispiravano tanto disgusto - tutti quei fat-ti rimasti nella nostra mente con uno stigma d'orrore - tutti quei fatti che noi ci rallegrava-mo appartenessero oramai al passato, al passa-to dei vecchi governi, e che noi, per fortuna 14

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nostra, non dovevamo più vedere - tutti questi fatti noi li abbiamo visti riprodursi negli Stati che, come avevamo appreso, rispondevano o-ramai alla volontà popolare e in cui la volontà popolare aveva liberissimo corso. D'altra parte, le medesime lotte dei popoli contro i governi che avevamo appreso dalla storia studiata nelle scuole o sui libri più diffu-si, essere proprie degli Stati assoluti in cui la volontà popolare è esclusa dalla cosa pubblica, quelle medesime lotte noi le vedemmo e le ve-diamo riprodursi dai popoli odierni contro i governi che (come ci si assicura) rispondono oramai completamente alla volontà popolare e le concedono una piena influenza. Così, per esempio, in Italia vedemmo numerose parzia-li insurrezioni, e l'organizzazione della massa popolare, del proletariato industriale ed agri-colo, in associazioni non certo favorevoli a quel governo che s'era sostituito ai vecchi siste-mi politici, quale asserita affermazione della sovranità del popolo, e non certo da questo governo benevise: insurrezioni paragonabilis-sime a quelle che dal 1821 in poi turbarono la tranquillità degli antichi Stati; organizzazione che può per qualche lato assomigliarsi (dal punto di vista politico) a quella dei carbonari o della «Giovine Italia», e che a molti sembra ancora più paurosa. E vero che molti scrittori sciorinano un sacco di buone ragioni per dimostrare che un gover-no, pur perfettamente libero e pur assoluta-mente popolare, può arrestare, imprigionare ed uccidere i cittadini come il governo italiano nel 1894 e nel 1898. È vero che quegli scrittori

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sostengono che le numerose insurrezioni av-venute in Italia, contro il governo « uscito dal popolo », e l'organizzazione della massa popo-lare, orientata contro il medesimo governo, non sono per nulla affatto schiette manifesta-zioni della volontà popolare. Ma tutti gli arzi-gogoli messi innanzi su questo argomento non possono impedire che ogni intelligenza sem-plice e diritta scorga l'assoluta identità sostan-ziale tra fatti della medesima indole: persecu-zioni politiche inflitte ai cittadini, insurrezioni e associazioni dirette contro il governo. Se queste insurrezioni e associazioni, cento an-ni fa, erano la manifestazione della volontà popolare, come c'insegnano nelle scuole; e se le persecuzioni che tali insurrezioni e associa-zioni provocavano erano la dimostrazione che i governi stavano accampati fuori e contro la volontà popolare; perché fatti della medesima indole, verificantisi oggidì, non vorranno dire che tra la volontà popolare e l'assetto governa-tivo v'è lo stesso contrasto negli odierni Stati parlamentari di quello che v'era nei regimi as-soluti? Sappiamo bene come l'idea che rispetto all'ef-fettiva realizzazione della sovranità popolare i regimi costituzionali non siano gran che dissi-mili dagli assoluti sembra paradossale e mo-struosa a tutti coloro i quali sono rimasti nella credenza comune che il sistema parlamentare abbia segnato un'epoca nuova di fronte alle monarchie assolute. E sappiamo anche bene che quell'idea sembra poco men che pazzesca a tutti gli altri che non si occupano, o si occu-16

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pano raramente, di politica. Ma alcuni brevi riflessi ci faranno persuasi non essere costoro che possono portare sopra una determinata forma di governo un giudizio attendibile e de-cisivo. Qualunque sia stato il sistema politico in vigo-re, sotto la monarchia assoluta come sotto le dominazioni straniere, vi fu sempre una larga categoria di persone che non ne desiderava af-fatto il cambiamento. Tutti coloro che, senza nutrire delle idealità politiche spiccate, atten-devano ai loro affari e potevano compierli sen-za soverchi inciampi da parte del potere politi-co, tutti coloro che avevano larghi agi né di al-tro si occupavano se non di conservarli e di go-derli, non hanno mai desiderato il cambia-mento di nessun governo, né hanno mai pen-sato che alcun governo fosse costituito contro la volontà popolare. Le alte classi francesi del tempo della rivoluzione erano partigiane della monarchia assoluta; l'aristocrazia e l'alta bor-ghesia italiana, i cui membri diventavano ciam-bellani della Corte di Vienna o dei suoi luo-gotenenti in Italia, erano, nella loro generali-tà, partigiani del governo austriaco. Ora, noi per giudicare di quel che fosse, sotto quei dominii, la volontà popolare, non ricor-riamo al parere dei soddisfatti; ricorriamo al parere degli scontenti. Non a quello di coloro che traevano beneficii dal sistema in vigore: ma a coloro che ne subivano l'oppressione. Il medesimo criterio dobbiamo applicare per giudicare dei governi d'oggidì. Bisogna che noi, per giudicare rettamente se i governi at-

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tuali incarnano la volontà popolare, ci sforzia-mo di uscire dalla nostra pelle di classe diri-gente che dalla presente forma politica trae mille vantaggi, che ha voce in capitolo presso tutte le autorità, che è ascoltata, e la cui in-fluenza ha mille modi di farsi valere in ogni ingranaggio del meccanismo governativo. Ra-de volte una persona appartenente alla così detta classe dirigente resta abbandonata total-mente alle sue sole forze contro l'azione gover-nativa; essa può agire sulla giustizia sia per rapporti personali che può avere coi giudici, perché questi appartengono alla sua medesi-ma classe, sia per mezzo di amici comuni. Può agire sull'amministrazione, in tutti i suoi rami, per mezzo di deputati o di funzionari amici, 0 per mezzo di amici degli amici. Anche senza conoscenze personali la sua stessa posizione sociale, che più?, la sua stessa foggia «decen-te » di vestire le assicura entratura ed ascolto. E naturalissimo che tali persone trovino che gli attuali governi offrano tutte le libertà e tut-te le garanzie possibili di rispondere al volere della comunità. Ma noi dobbiamo far astrazione dei vantaggi che offrono a noi le presenti forme di gover-no, e metterci nei panni di coloro che nessuno di tali vantaggi risentono, di coloro che appar-tengono ad una classe diversa dalla nostra, che non hanno né l'educazione, né l'istruzione, né 1 modi, né la foggia di vestito della classe diri-gente, né rapporti di amicizia con questa, e cui quindi un abisso separa da tale classe e dai funzionari dello Stato che escono dal seno di 18

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essa. Dobbiamo metterci nei panni di costoro e procurar di capire come costoro giudichino dei presenti governi. Un esempio ci si offre mentre scriviamo. Uno dei tanto frequenti scioperi di risaiuole è scop-piato a Molinella. Le condanne piovono sulle scioperanti per le preghiere che esse rivolgono alle loro compagne di astenersi dal lavoro, considerate come reato contro la libertà di la-voro. Le scioperanti sanno di operare secondo la legge, tanto che fornite di una carta nella quale sono stampati gli articoli del codice con-sacranti il diritto di sciopero la mostrano ai ca-rabinieri e dicon loro: se lo sciopero non è un reato noi siamo nel nostro diritto se invitiamo le nostre sorelle, senza violenza e senza minac-cie, come la legge prescrive, a desistere dal la-voro e a fare atto di solidarietà con noi. Queste scioperanti, adunque, sono così sicure di non commettere nessun reato, come poteva esserlo Voltaire, quando sulla falsa accusa di aver scritto un libello contro Luigi XIV, fu chiuso per un anno nella Bastiglia: come pote-va essere sicuro Raynal di non avere commes-so atto punibile di sorta pubblicando VHistoire des Indes ; o Marey scrivendo YAnalyse de Bayle ; o Linguet gli Annales Politiques] o Delisle la Philosophie de la Nature-, o Duvernet la storia della Sorbona; come potevano essere sicuri di non aver fatto nulla di punibile Marmontel leggendo a pochi amici una satira non sua contro il duca d'Aumont; o Morellet per aver fatto una innocente allusione alla principessa di Robeck; o Diderot per aver scritto che i cie-

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chi dalla nascita hanno idee differenti da colo-ro che posseggono il senso della vista. Tutti costoro, per avere esercitato quello che essi erano sicuri fosse un loro diritto, e che tale veramente era, furono gettati nella Bastiglia o esigliati. E noi troviamo in ciò la prova eviden-te che r« ancien régime » era la tirannide e op-primeva la coscienza popolare. Le scioperanti di Moline la, per esercitare quel-lo che esse sanno essere un loro diritto, si ve-dono condannate e imprigionate. Quale può es-sere il loro giudizio sul presente governo par-lamentare se non lo stesso che noi, classi bor-ghesi, formuliamo per le stesse cause, contro le monarchie assolute? « Vanno in carcere allegramente: » riferiva un giornale al tempo dello sciopero cui alludiamo «accompagnai ieri da Molinella a Budrio tre donne arrestate. Erano ardite ed orgogliose di trovarsi fra i carabinieri; le loro compagne le salutavano piangendo e ridendo ad un tempo. - Coraggio - gridava, mentre il treno si move-va, una donnetta bruna, cogli occhi scintillanti - coraggio, presto verremo anche noi a rag-giungervi in prigione ... « I ragazzi ricordano i lutti di quei giorni [delle repressioni del 1893 e del 1898] e si vantano nello stesso tempo di aver dato alle carceri il padre e la madre ... «Che importa il forcaiolismo del pretore di Budrio? Esse lo sanno che vuol fare carriera e si recano alle udienze neppure sospettando di essere assolte, sicure della condanna. Quindi non si difendono, non contestano le monoto-ne testimonianze dei carabinieri, più che altro 20

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occupate in una gaia letizia per essere state prese di mira».' Si rifletta un momento a questa situazione di cose. Si pensi a quelle operaie che sono certe di aver esercitato un loro diritto, di non essere uscite dalla legge, e sono nell'istesso tempo certe di essere condannate. Si pensi all'orgo-glio dei ragazzi di aver avuto i genitori in car-cere, simile a quello che nutrirebbe ciascuno delle classi borghesi per avere avuto il padre perseguitato dal governo austriaco. E si vegga se tutto ciò non riveli una corrente di opinioni che per essere estranee a noi delle classi diri-genti non è meno esistente e meno basata sulla realtà. Si vegga se quei contadini non sentano, e non abbiano ragione di sentire che lo Stato non è qualche cosa che essi abbiano contribui-to a formare e contribuiscano a mettere in mo-to, ma qualche cosa che sta sopra loro, del tut-to all'infuori delle loro volontà e contro di loro in attitudine oppressiva - tal quale come i per-seguitati dai vecchi governi consideravano, e noi stessi in causa di quelle persecuzioni consi-deriamo, le dominazioni assolute. E siccome gli operai, i contadini, quelli che trovano o possono trovare ogni momento di fronte a loro lo Stato nello stesso atteggiamen-to oppressivo, sono nella società di gran lunga il maggior numero, si vegga se non sia esatto dire che il contrasto tra la volontà popolare e l'assetto governativo è negli odierni ordina-

1. G.B. Pirolini nell'« Italia del Popolo », 17 è 18 maggio 1901.

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menti costituzionali il medesimo che era negli ordinamenti autocratici. Non sappiamo se la continuità di questo con-trasto dica nulla a coloro che sono cresciuti nella fede che il passaggio dalle monarchie as-solute ai governi rappresentativi abbia segnato il passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla compressione al riconoscimento della volontà popolare. Non sappiamo se dica nulla a costo-ro il seguente fatto: gli attuali regimi rappre-sentativi sono sorti dovunque sotto l'impeto e per opera di quella significantissima manife-stazione della volontà popolare, che è la rivo-luzione; ciò vuol dire che la volontà popolare credeva di trovare nei regimi rappresentativi quel libero esercizio che i governi, contro i quali per mezzo delle rivoluzioni era insorta, le negavano; eppure, manifestazioni assai ana-loghe a quelle con le quali la coscienza popola-re dimostrò il suo dissenso dai vecchi governi, - manifestazioni assai analoghe a quei moti di popolo in base ai quali si giustifica il sostituirsi dei regimi parlamentari agli assoluti, e si so-stiene che i primi sono, a differenza di questi ultimi, l'espressione della volontà popolare -si producono ora egualmente contro i governi parlamentari. Non sappiamo se dica nulla a coloro il fatto che questi governi, che si pre-tendono rappresentare la stessa organizzazio-ne del potere della volontà popolare, non pos-sono reggersi se non usando ad ogni istante di mezzi di compressione violenta: leggi eccezio-nali, stati d'assedio, tribunali militari, commis-sioni per il domicilio coatto, come in Germa-nia durante la lotta bismarchiana contro il

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partito socialista; come in Italia, specialmente nel 1894 e nel 1898; come in Ispagna quasi ininterrottamente dal 1899 in poi; — quegli stessi mezzi appunto che usavano i vecchi go-verni; - quegli stessi mezzi appunto de' quali sopratutto si mirava ad impedire l'applicazio-ne quando s'abbattevano i vecchi governi, e vi si sostituivano i nuovi fondati sug i Statuti.' Successivi commovimenti popolari, dapprima deboli e facilmente repressi, poi impetuosi e irresistibili, hanno abbattuto i vecchi governi assoluti e li hanno sostituiti coi rappresentati-vi. E ci si insegna che quei commovimenti ap-punto voglion dire che la volontà popolare si sentiva compressa sotto i vecchi governi, ed era perciò ad essi fieramente avversa. Or dun-que, che cosa vorran dire commovimenti po-polari analoghi a quelli, che si operano contro gli attuali governi? Gli arresti, le « lettres de cachet », le prigionie, i tribunali militari, i giudizi statari, messi in pratica dai vecchi governi, ci si insegna che si-gnificano esser stati questi governi in così stri-dente contrasto colla volontà popolare da aver bisogno della violenza per reggere ed impor-si. Or dunque che cosa significheranno quegli stessi fenomeni manifestantisi per opera dei governi rappresentativi? Noi sotto l'urto di questi fatti che ci dimostra-

1. Art. 26 dello Statuto italiano: «Niuno può essere ar-restato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dal-la legge, o nelle forme che essa prescrive ». Art. 71: « Niu-no può essere distolto dai suoi Giudici naturali. Non po-tranno perciò essere creati Tribunali e Commissioni straordinarie ».

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no la continuità del contrasto tra la volontà po-polare e l'assetto governativo, siamo condotti a questa conclusione: essere assolutamente fal-lace l'applicazione pratica del criterio del rico-noscimento o dell'esclusione della volontà po-polare dai poteri pubblici, nel senso di stabili-re la distinzione profonda, che è comunemen-te accettata, fra le monarchie assolute (gli « an-ciens régimes ») e i governi rappresentativi; ed essere invece, dal punto di vista di quel crite-rio, le monarchie assolute, e i governi rappre-sentativi sostanzialmente identici e tali da do-ver essere classificati nella medesima catego-ria.

Nell'affermazione che la distinzione tra le mo-narchie assolute e i governi rappresentativi, basata sul criterio che i primi precludessero e i secondi ammettano la prevalenza della volontà popolare nel potere pubblico, è una distinzio-ne errata, noi siamo preceduti da uno dei più acuti scrittori italiani di scienze politiche: Gae-tano Mosca; sotto l'egida della cui autorità a-miamo porre, per coloro cui sembrasse ostica, la nostra affermazione. Il Mosca ha escogitata e svolta nelle sue due principali pubblicazioni, una teoria originale e, fino ad un certo punto, perfettamente esat-ta: quella della classe politica. Non è vero (égli dice) né che le monarchie as-solute fossero l'espressione esclusiva del volere d'un solo, né che i moderni Stati parlamentari siano l'espressione della volontà popolare. È 24

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questa, bensì, l'opinione comune. «Ai giorni nostri ancora molti Governi si dicono la mani-festazione della volontà del paese; si ammette, e si crede anche, che la base legale di essi stia nell'essere accettati volontariamente dai più ... Spesso ancora sentiamo parlare di Governi, da noi poco lontani, nei quali tutto si fa a nome di un autocrate, ed anche in questo caso il princi-pio legale facilmente si prende per il fatto, e crediamo che intere nazioni obbediscano al Governo assoluto di un sol uomo».' Ma ciò è falso. Non è vero in primo luogo che, come comune-mente si crede, nelle monarchie assolute, il potere pubblico sia, per usare l'espressione del Palma, confinato in una reggia. « Se un uomo solo, qualche volta può con un atto della sua volontà esercitare un'azione che si faccia senti-re in tutta l'ampiezza di uno di questi Stati, ciò accade perché si trova in una posizione dalla quale può dare l'impulso a tutta una macchina governativa vastissima e complicata; ma questa macchina non la compone lui, sibbene è un'or-ganizzazione umana i cui elementi sono deter-minati da un complesso di fatti storici e sociali, che un uomo solo non può né creare né pro-fondamente modificare. E quest'impulso di cui abbiamo parlato, quell'uomo non può dare se non in momenti straordinari e decisivi e so-lamente nelle grandi linee, ma per ciò che concerne i momenti ordinari, gli atti quotidia-

1. Gaetano Mosca, Sulla teorica dei Governi e sul Governo parlamentare, Loescher, Torino, 1884, p. 21.

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ni della vita pubblica questa macchina, que-st'organismo umano agisce da sé ».' Ma non è per nulla più vero, in secondo luo-go, che la volontà popolare sia sovrana in uno Stato parlamentare. «Anche in questo caso è necessaria una macchina governativa, un'or-ganizzazione composta naturalmente da una minoranza numerica, per la quale tutta l'azio-ne governativa si esplichi. Anche in questo ca-so tutte le pubbliche funzioni sono nel fatto esercitate né da uno solo né da tutti sibbene da una classe speciale di persone Abbiamo dunque, secondo il Mosca, una per-fetta identità di situazione, rispetto alla parte concessa alla volontà popolare nel potere pub-blico, sia nella monarchia assoluta che negli Stari costituzionali. Nelle prime come nei se-condi, una piccola minoranza comanda, una grande maggioranza obbedisce. « In tutte le società, a cominciare da quelle più mediocre-mente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi del a civiltà, fino alle più numerose e più colte, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l'altra dei governati. La prima che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il po-tere e gode dei vantaggi, che ad esso sono uni-ti; mentre la seconda più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno lega-le ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiah di sussistenza e quelli che alla

1. Loc. cit. 2. Ibid., p. 22.

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vitalità dell'organismo politico sono necessa-ri».' Tanto nel caso dei governi assoluti che dei co-stituzionali il fenomeno, adunque, è identico. Una piccola classe è la sola che comanda. E « quest'organismo che fa tanto, che può tanto, e che a tutti s'impone, non è, in fondo com-preso, voluto, sostenuto, che da uno scarsissi-mo numero di uomini. Le masse, la maggio-ranza, gli forniscono, è vero, i mezzi coi quali sostiene ed esplica la sua azione, ma non già volontariamente, perché riconoscono l'utilità di quest'ente, sibbene perché vi sono costrette dalla forza, perché non sanno sfuggire alla sua azione».^ Questa piccola minoranza, che co-stituisce la classe politica, esercita sempre ef-fettivamente il comando (sebbene variamente composta) negli Stati rappresentativi, come negli «andens régimes». Soltanto lo esercita mediante una diversa formula politica: negli « anciens régimes » là formula era il diritto di-vino dei re; nei reggimenti costituzionali la formula è quella uscita dalla rivoluzione fran-cese: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Ma sotto entrambe queste formule, si riscontra il medesimo fatto: la piccola classe dei gover-nanti che comanda a quella vastissima dei go-vernati.' L'identità degli stati assoluti e dei costituziona-li, rispetto all'esercizio del potere pubblico da

1. Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica, Loescher, Torino, 1896, p. 60. 2. Mosca, Sulla Uorica, cit., p. 22. 3. Ibid., cap. IV e Elementi, cit., cap. u.

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parte della volontà popolare, è stabilita da un'ultima osservazione. Traverso la rete, in cui tanto nei primi che nei secondi la volontà popolare è costretta, essa riesce talvolta a pas-sare. « Qualunque sia » scrive il Mosca' « il ti-po di organizzazione sociale, la pressione pro-veniente dal malcontento della massa dei go-vernati, le passioni da cui essa è agitata posso-no talvolta esercitare una certa influenza sul-l'indirizzo della classe politica». Il che vuol di-re (come anche risulterà da quanto esporremo più innanzi) che la volontà popolare riesce, talvolta, a prevalere del pari nei regimi assolu-ti come nei costituzionali quando abbia rag-giunto sia nei primi che nei secondi un grado uguale di forza.

Noi accettiamo integralmente questa teoria del Mosca in quanto essa parifica i regimi assoluti e i regimi costituzionali; stabilisce che i secondi non hanno realizzata la sovranità popolare meglio dei primi; rovescia il dottrinarismo li-berale secondo cui questi ultimi regimi avreb-bero instaurato la libertà politica, fatti i jKjpoli arbitri delle loro sorti, e resi i governi semplici delegati di potere della comunità. Ma abbiamo detto che la teoria del Mosca è ve-ra fino ad un certo punto. Essa è vera, cioè, fino a quel punto di evoluzio-ne politica che il Mosca aveva presente nel for-mulare la sua teoria; vale a dire fino alla com-parsa dei governi puramente parlamentari.

1. Mosca, Elementi, d t , p. 61.

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Fino a questo punto, infatti, si può affermare con piena verità che in tutte le forme di gover-no vi è una piccola classe politica la quale co-manda alla amplissima classe dei governati. Ma questa teoria crolla davanti all'ulteriore svolgimento dei governi puramente parlamen-tari nelle forme modernissime di democra-zia diretta. Le tre principali istituzioni poli-tiche, infatti, introdotte nei reggimenti a de-mocrazia diretta, il «referendum», il diritto d'iniziativa, e il diritto di revisione, rompono irremissibilmente il breve cerchio della « classe politica» racchiudente esclusivamente in sé il potere pubblico, e diffondono la « vis politica » (se ci è lecito usare questa espressione) vera-mente per tutto il popolo, rendendo effettivo l'esercizio del potere pubblico e della sovranità in ciascun cittadino. Anticipando, quindi, sulle conclusioni cui ver-remo più innanzi, poniamo questa proposizio-ne: tra i governi assoluti e quelli puramente parlamentari non v'è alcuna sostanziale diver-sità. Essi vanno classificati nella medesima ca-tegoria; nella categoria dei governi eretti sulla base d'una piccola « classe politica » che detie-ne ed esercita esclusivamente il potere. Nei regimi assoluti la «classe politica» era composta essenzialmente dei nobili e del clero. Nei regimi puramente parlamentari essa non è costituita in modo molto dissimile, giacché tra i primi elementi che concorrono a formar-la vi sono la nascita e la ricchezza. Citeremo anche qui la opinione del Mosca: «Nascita vuol dire ricchezza, vuol dire relazioni che uno può difficilmente acquistare mentre ad

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un altro ciò sarà facilissimo; vuol dire facilità relativa nel rendersi padrone di certe cogni-zioni, che ad altri costeranno moltissimo stu-dio; vuol dire tuono ed abitudine al comando, e ad occupare una posizione importante; cose quest'ultime che si credono generalmente di poco peso, e che invece nella pratica della so-cietà ne hanno uno grandissimo. Il palio è of-ferto a tutti, tutti possono correre per guada-gnarlo, senonché chi ne dista pochi passi, chi cento; ecco di che cosa decide la nascita».' Altro elemento che concorre a costituire la « classe politica » nei reggimenti costituzionali è, è vero, il merito personale. Ma a parte che questo elemento non era affatto privo di efficacia neppure nei governi assoluti, esso è subordinato a quello della ricchezza. « Lo stes-so acquisto di una cultura superiore» nota giustamente ancora il Mosca^ «e delle cogni-zioni speciali è immensamente da essa facilita-to; ai ricchi è cento volte più facile lo istruirsi che ai poveri ». Quindi, tanto gli ordinamenti assoluti che quelli puramente parlamentari sono governi di classe, e, più specialmente, governi in cui la classe dominante è formata in modo assai si-mile perché costituita sopratutto dagli elemen-ti della nascita e della ricchezza. Giunti a questo punto ci è facile vedere il per-ché anche negli Stati puramente parlamentari, si avvertono quelle persecuzioni politiche e quell'orientamento di parte del popolo contro

1. Mosca, Sulla teorica, cit., pp. 36-37. 2. Ibid., p. 39.

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il governo, come contro un ente nemico, che credevamo peculiari agli ordinamenti autocra-tici. La ragione ne è che tanto questi quanto i primi sono governi di classe e da questa loro identità di principio non possono non derivarne in pratica le medesime conseguenze. Ma se tra i regimi puramente parlamentari e i regimi assoluti non può stabilirsi una raziona-le distinzione perché entrambi governi di clas-se, e entrambi quindi fondati e funzionanti fuori e sopra della volontà popolare, la distin-zione vera e sostanziale tra le forme di gover-no è quella che separa i governi a « classe poli-tica » (siano essi monarchie assolute o Stati pu-ramente parlamentari) dai governi a democra-zia diretta in cui una classe politica esercitante in modo esclusivo il potere non esiste, perché tale esercizio, mediante il «referendum», il diritto d'iniziativa e quello di revisione, è in balìa di tutto il popolo. Per noi, adunque, le monarchie assolute e i re-gimi puramente parlamentari costituiscono, entrambi, gli « anciens régimes ». Il nuovo go-verno è costituito solamente dalla moderna democrazia diretta, la quale sola segna quin-di effettivamente il passaggio dal vecchio al nuovo.

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II LE MONARCHIE ASSOLUTE

Abbiamo visto come uno dei concetti più ge-neralmente diffusi, perché appartengono alla categoria dei semplicismi accettati per udito dire e senza esame, sia quello che i governi parlamentari differiscano radicalmente dalle monarchie assolute, perché nei primi domina la volontà popolare, l'opinione pubblica, men-tre nelle seconde dominava sovranamente la volontà del monarca. E abbiamo notato come il Mosca giustamente osservi che a torto noi siamo venuti ad ammettere che il volere di un uomo solo potesse diventare legge per una so-cietà numerosa e politicamente organizzata, che quest'uomo solo potesse far dipendere dai suoi assoluti comandi milioni di persone, e che ancora adesso in Russia un'intera nazione ob-bedisca al governo assoluto di un sol uomo.^ È con innanzi alla mente questo concetto su-perficialissimo delle monarchie assolute che ci siamo formati l'altrettanto superficiale convin-zione che il passaggio da quelle ai governi par-lamentari segni il passaggio dalla schiavitù alla libertà, dall'èra della tirannide a quella della sovranità popolare. La verità è che la parte personale che nel go-verno dello Stato poteva esercitare il sovrano 1. Mosca, Sulla teorica, cit., pp. 20-21. 32

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assoluto non era nelle vecchie monarchie gran fatto superiore a quella che esercita nelle mo-narchie parlamentari il sovrano costituzionale; e che la parte che nella direzione della cosa pubblica esercitava la volontà popolare, l'opi-nione pubblica, non era nelle monarchie asso-lute molto inferiore di quel che or sia; ed essa si esercitava anche sulle sommità dell'ordina-mento politico, cioè nella scelta dei ministri; imperocché anche il sovrano assoluto doveva governare mediante i ministri, e nella scelta di questi l'opinione pubblica si faceva sentire nel-le monarchie assolute press'a poco colla mede-sima forza, sebbene con altri meccanismi che non il parlamentare odierno, di quel che si faccia sentire nelle monarchie parlamentari. «Si parla dell'opinione pubblica» scrive il Bryce ' « come se fosse una forza nuova che avrebbe fatto la sua apparizione da quando i governi di popolo hanno cominciato ad esiste-re ... Pure, 'opinione pubblica è stata in realtà, quasi in tutte le nazioni e in tutte le epoche la potenza principale, e quella che ha quasi sem-pre finito per vincere. Né intendo parlare del-l'opinione della classe alla quale appartengono i capi ... intendo l'opinione inespressa, inco-sciente, ma egualmente reale e potente delle masse popolari ... La differenza tra i paesi go-vernati dispoticamente e i paesi liberi non ri-siede dunque nel fatto che questi siano guidati dall'opinione e quelli dalla forza, perché en-1. James Bryce, La République Américaine, trad. di P. Les-tang, Giard et Brière, Paris, 1901, voi. I l i , parte quarta, cap. Lxxvii.

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trambi sono sottomessi ordinariamente all'im-pero dell'opinione. Risiede nel fatto che, nei primi, il popolo obbedisce istintivamente a un potere che esso sa non èssere realmente opera sua e non esistere col suo permesso; mentre negli altri il popolo ha coscienza della sua su-premazia, e tratta scientemente i suoi padroni come dei rappresentanti, e i padroni alla loro volta obbediscono a un potere che, per loro stessa confessione, li ha fatti e può disfarli: la volontà popolare ». Noi vorremmo aggiungere che la differenza tra i governi veramente liberi, e quelli che non 10 sono, sta in ciò: che in questi ultimi la volon-tà popolare riesce a trionfare, sì, ma in modo anormale, non mediante le leggi e le istituzio-ni, ma all'infuori di esse e talvolta contro di es-se; mentre i governi liberi presentano nelle lo-ro leggi e istituzioni il meccanismo più perfet-to possibile per agevolare la manifestazione e 11 trionfo della volontà popolare, meccanismo che continuano a perfezionare maggiormen-te con l'intento supremo di farlo diventare lo stromento più atto a ripercuotere e lasciar pas-sare le manifestazioni e gli atteggiamenti del volere della comunità. Ora è facile scorgere, e lo vedremo ampia-mente in seguito, che tanto nei regimi assoluti che in quelli puramente parlamentari il trion-fo della volontà popolare, quando avviene, av-viene in modo ugualmente anormale e non per opera delle istituzioni e delle leggi, ma fuori o contro di esse; mentre il passaggio del-la volontà popolare si opera normalmente e 34

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per mezzo delle istituzioni e delle leggi, soltan-to nelle democrazie dirette moderne. E qui, a togliere di mezzo il pregiudizio della radicale differenza, da questo punto di vista, tra le monarchie assolute e i governi parla-mentari, vogliamo recare alcune prove che an-che nelle monarchie assolute, senza bisogno di costituzione e di parlarnenti, la volontà popo-lare trovava modo di imporsi con sforzo non grandemente maggiore di quello che impieghi per imporsi là dove esistono soltanto le costitu-zioni e i parlamenti.

Osserviamo un periodo della storia di Francia, della nazione cioè che ci offre il più compiuto modello di monarchia assoluta; quel periodo che seguì l'avvento al trono di Enrico IV.' Quale era lo stato dell'opinione pubblica du-rante il regno di Enrico IV, la reggenza di Ma-ria de' Medici, e il regno di Luigi XIII? Era uno stato di crescente simpatia e di favore per l'elemento protestante perseguitato sotto i re precedenti, di avversione per il prepotere dell'alto clero, di desiderio di tolleranza reh-giosa e di pari trattamento per tutte le profes-sioni di fede. Questo stato dell'opinione pubblica, questo sentimento di tolleranza religiosa, che arrivava fino allo scetticismo, è provato da moltissimi sintomi. Esso ebbe anzitutto la sua espressione letteraria nelle opere di Montaigne, di Char-1. Cfr. Henry Thomas Buckle, Histoire de la civilisation en Angleterre, Flammarion, Paris, 1881, voi. III.

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ron, di Descartes. Fu nel 1588, qualche anno prima della promulgazione dell'editto di Nan-tes che uscirono in luce gli Essais di Montai-gne, cioè il primo libro di scetticismo religioso e filosofico, comparso in Francia. E pochi anni dopo comparve il libro De la sagesse di Charron che è il primo tentativo moderno per costruire la morale respingendo i dogmi teologici. Fi-nalmente Descartes pubblicava alcuni anni più tardi il suo Discours sur la méthode che costitui-sce il più fiero colpo recato dal pensiero mo-derno ai preconcetti della teologia. Parallelamente a queste manifestazioni nel più alto campo del pensiero, altre numerosissime ne avvenivano nel paese, che dimostravano in modo da non lasciar dubbio, come la corrente dell'opinione pubblica tendesse a favorire i protestanti e a reprimere la predominanza del clero cattolico. Il Nunzio (essendo ministro Ri-chelieu) si lamentava con indignazione del sentimento ostile che i giudici francesi spiega-vano contro gli ecclesiastici. E tale tendenza dell'opinione pubblica si manifestava perfino con atti violenti; si arrivò al punto che Sourdis, arcivescovo di Bordeaux, venne battuto due volte in pubblico. Luigi XIII visitò nel 1620 la città di Pau, e la corrente protestante vi era co-sì viva, che non solo egli venne trattato poco convenientemente, perché, come cattolico, ve-niva considerato eretico; ma trovò che non gli era stata neppure lasciata una chiesa dove po-tesse fare gli esercizi del suo culto. Questo era lo stato dell'opinione pubblica. Quale era di fronte ad essa il sentimento dei sovrani? In perfetta contraddizione colla vo-36

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lontà popolare. Lasciamo da parte Enrico IV tempra di uomo assolutamente scettico in fatto di cose religiose. Ma Maria de' Medici, che gli succedette nel governo, essendo minore Luigi Xin, era fanaticamente cattolica, ignorante, superstiziosa, educata in mezzo ai preti; e Lui-gi XIII era fanatico al pari della madre. In questo conflitto tra la volontà del popolo e que la del sovrano, quale prevalse nella mo-narchia assoluta francese? Tutti sanno che prevalse la volontà popolare, e che, contro il sentimento più profondo del sovrano, e per opera di ministri preti, si affer-mò nella direzione del governo quella tenden-za che costituiva l'opinione pubblica, cioè la tolleranza non solo, ma la concessione di favo-ri ai protestanti e la fine del predominio del-l'alto clero cattolico. Prima di Enrico IV i re di Francia erano stati feroci persecutori degli eretici. Francesco I di-ceva che se la sua mano destra fosse colpevole di eresia la taglierebbe. Enrico II aveva dato ordine ai magistrati di processare i protestanti e dichiarato pubblicamente che « lo sterminio degli eretici sarebbe il suo principale pensie-ro ». A Carlo IX si deve la notte di San Barto-lomeo. Enrico III aveva giurato di combattere l'eresia anche a rischio della vita, perché, dice-va, non avrebbe potuto trovare tomba più no-bile che fra le rovine di quella. Ma non appena si produsse quel mutamento d'opinione pubblica di cui abbiamo testé ac-cennato i sintomi, ecco un corrispondente mu-tamento operarsi nell'indirizzo del governo. Enrico IV porta nella storia politica francese

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la nota nuova dello scetticismo e della tolleran-za religiosa. Egli aveva cambiato due volte di religione, e mutò una terza per assicurare il trono a sé e la tranquillità al paese. Sono note le parole attribuitegli: «Parigi vai bene una messa». Cinque anni dopo la sua abiura dal protestantesimo egli pubb icò l'edit-to di Nantes, col quale per la prima volta un governo cattolico .riconosceva agli eretici i di-ritti civili e religiosi. Né basta: ché sotto la pressione della corrente d'opinione pubblica dianzi accennata, Enrico IV accordava danaro ai protestanti per mantener i loro ministri e ri-parare le loro chiese, e bandiva i gesuiti. Si dirà che Enrico IV non era cattolico convin-to e che egli cedeva all'opinione pubblica per-ché questa tendeva a spingerlo là dove egli stesso desiderava di andare. Ma altrettanto non si può dire di Maria de' Medici e di Luigi XIII le cui convinzioni fervorosamente cattoli-che non possono essere messe in dubbio. Eppure la prima, appena salita al trono an-nunciò che avrebbe seguito l'esempio di Enri-co IV, mantenne i suoi ministri, confermò l'e-ditto di Nantes, e non osò compiere la più pic-cola persecuzione religiosa. Il secondo confermò pubblicamente, mentre era ancora sotto tutela, tutte le misure prese precedentemente in favore dei protestanti, e governò in modo affatto liberale mediante il cardinale Richelieu. Il principio ritenuto di carattere essenzial-mente costituzionale, « il re regna e non gover-na » — questo principio che si crede segni ap-punto la differenza tra le monarchie parla-38

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mentari, dove esso avrebbe vigore, e quelle as-solute, nelle quali invece la volontà del re pri-meggerebbe su tutto ed avrebbe un ascenden-te irresistibile - quel principio, diciamo, fu perfettamente vero fin dal tempo di Luigi XIII, e lo troviamo così formulato da uno sto-rico illustre, il Monteil:' « Richelieu tenne lo scettro; Luigi XIII portò la corona». Anziché dunque la volontà del monarca potes-se predominare su quella del popolo, ed ab-battere la viva corrente d'opinione pubblica favorevole all'uguaglianza re igiosa - sebbene una tale corrente fosse assolutamente contra-ria ai sentimenti del sovrano - fu la volontà popolare che si fece strada alla direzione della cosa pubblica determinando il governo assolu-tamente liberale di Richelieu. Richelieu destituì il confessore del re, Caussin, perché cercava di insinuare le sue idee politi-che nell'animo del suo regio penitente; e non permise che il successore, Sirmond, entrasse in carica prima di avere ottenuta promessa formale di non mescolarsi in affari di Stato. Ora, quale ministro di una monarchia costitu-zionale potrebbe allontanare dalla reggia, per esempio, un generale che insinuasse nell'ani-mo del sovrano consigli antiliberali? Richelieu obbligò il clero a contribuire con un soccorso di sei milioni di franchi alle casse del-lo Stato, ed esiliò quattro vescovi che avevano protestato. Affidò a generali eretici (Rohan, 1. Alexis Monteil, Histoire des Frangais des divers états ou Histoire de France aux cinq demiers siècles, V. Lecou, Paris, 1853, tomo VII.

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Chatillon, Bernard de Weimar, Turenne, ecc.) il comando dell'esercito. Richiamò il duca di Rohan dall'esilio. Conferì a Sully il bastone di maresciallo. Ora come potrebbe, in una mo-narchia parlamentare, quella volontà che è contraria ^lla volontà del monarca avere una parte più effettiva ed esplicita nella dii^ezione della cosa pubblica? Quale ministro potrebbe, in una monarchia costituzionale, chiamare a-gli uffici piubblici e specialmente al comando dell'esercito persone le cui idee stessero in stri-dente contraddizione con quelle del re, come lo erano le idee dei protestanti con quelle del bigotto Luigi XIII? Nelle monarchie costitu-zionali i socialisti, quando vengono chiamati sotto le armi, vanno regolarmente alle compa-gnie di disciplina. Richelieu, quindi, seguiva l'impulso della « piaz-za», e in obbedienza alla «piazza» agiva con-trariamente alle opinioni del re. Che i senti-menti personali di questo fossero in opposizio-ne con l'opinione pubblica liberale, rappre-sentata dal ministro e per mezzo di costui trionfatrice, se ne ha una riprova nel fatto che le nomine di protestanti negli uffici pubblici costituivano per lui uno scandalo e che, come racconta un contemporaneo, il Brienne, egli prese poco prima di morire la determinazione di non permettere che per l'avvenire alcun protestante ricevesse il bastone di maresciallo in Francia. Ma questa volontà del re fu così poco rispettata che quattro mesi dopo la sua morte il più eminente generale protestante, Turenne, ebbe il bastone di maresciallo; e l'an-no dopo l'ottenne il protestante Gassion. 40

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Dopo la morte di Luigi XIII, e durante la mi-norità di Luigi XIV, governò apparentemente la madre di questo, in realtà un altro ministro, Mazzarino, che seguì la politica di Richelieu. Ma noi vogliamo qui soffermarci soltanto so-pra un altro fatto caratteristico: e cioè sul trionfo della volontà popolare sulla volontà re-gia, nella monarchia assoluta francese, per quanto ha tratto alla politica estera. Le tendenze religiose dei re di Francia li spin-gevano a fare causa comune coi governi catto-lici per schiacciare i protestanti. Così Carlo IX aveva costituito una lega della Francia con la Spagna e col papa a difesa degli interessi catto-lici. Questa lega fu sciolta da Enrico IV, ma Maria de' Medici, durante la minorità di Luigi XIII l'aveva, fino ad un certo punto, rinnova-ta; e per meglio attaccarsi alla Spagna era riu-scita a far sposare a suo figlio una principes-sa spagnuola, e un principe spagnuolo a sua figlia. Essa considerava questo duplice matri-monio (scrive Le Vassor)' come il più saldo appoggio della sua autorità. Ciò non ostante, per favorire il sentimento po-polare che voleva la tolleranza, e la parità di trattamento delle due religioni, Riche ieu con-traddisse e rovesciò questo sistema di politica estera accarezzato dal re. Aiutò i luterani con-tro l'imperatore di Germania, i calvinisti con-tro il re di Spagna, e fece causa comune coi protestanti olandesi contro Filippo, stringen-do con essi un trattato di intima alleanza. Più 1. Michel Lej Vassor, Histoire du règne de Louis XIII, P. Brune! - Z. Ohatelain, Amsterdam, 1750-1753, tii)mo I.

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tardi si sforzò di creare una lega in favore del-l'Elettore Palatino, capo dei protestanti; e con-cluse effettivamente un'alleanza con Gustavo Adolfo, il loro capitano più eminente. E dopo la morte di Gustavo Adolfo, Richelieu riuscì con molto lavoro a creare quella che Sismondi chiama una confederazione protestante, cioè l'alleanza tra Francia, Inghilterra e Olanda, e ciò ad aperta protezione degli interessi prote-stanti. Dunque, Richelieu condusse una politica este-ra in contraddizione a quella che era nelle sim-patie del re, in obbedienza al sentimento po-polare che voleva l'uguaglianza di trattamento tra protestanti e cattolici. Quanti ministri, in regni costituzionali, non possono fare altret-tanto e devono, andando al potere, accettare i capisaldi di politica estera voluti dalla Corte, sebbene essi siano contrari ai sentimenti e ai bisogni del popolo!

Vediamo un altro esempio a conferma della verità che anche nelle monarchie assolute una forte corrente d'opinione pubblica aveva mo-do di farsi valere e di imporsi al governo. Nei primi tre quarti del secolo XVIII l'opinio-ne pubblica francese era tornata ad essere vi-vamente anticlericale. I sintomi di questa ten-denza dell'opinione pubblica sono noti a tut-ti: Voltaire acquistava una celebrità immensa. Helvétius scriveva il suo famoso libro De l'esprit e le sue dottrine divennero assolutamente po-polari perché erano l'espressione del pensiero comune. « L'opera di Helvétius » scrisse M.me 42

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Dudeffand « è popolare, perché egli è un uo-mo che ha detto segreto di tutti». Il barone d'Holbach acquistava una notorietà vastissima col suo libro ateo Systèrne de la nature. Condillac suffragava il materialismo col suo Traité des sensations. Si preparava l'Enciclopedia. L'arci-vescovo di Tolosa, in un indirizzo al re a nome del clero dichiarava che l'ateismo era divenuto l'opinione dominante. E l'ateismo professato dai grandi pensatori, Condorcet, Diderot, Hel-vétius, Laplace, ecc. concordava così piena-mente col sentimento generale che si faceva aperta pompa in società d'un'opinione che in epoche anteriori si sarebbe nascosta come una vergogna. Il giansenismo era diffusissimo. La Sorbona divenne giansenista. Professavano la dottrina giansenista Turgot e Necker. Gli editti contro 'eresia cominciavano a venir applicati dai tri-

bunali con estrema mitezza. E Sismondi, par-lando di quest'epoca, scrive che «la reazione dell'opinione pubblica contro l'intolleranza e-ra penetrata fino nelle provincie più fanati-che ». Tutto ciò prova quale fosse il sentimento po-polare. l^uscì esso a prevalere nel governo as-soluto? È noto che sì. Il governo cominciò nel 1749 ad emanare, per opera del controllore generale Machault « 'É-dit de mainmorte » il quale interdiceva la fon-dazione di qualunque casa religiosa, senza il previo consenso della Corona, debitamente e-spresso con lettere patenti, registrate dal Par-lamento. Più tardi, nel mese d'aprile del 1761, il Parlamento ordinò ai gesuiti di presentare i

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regolamenti dell'ordine; in agosto, fu loro vie-tato di ricevere dei novizi, furono costretti a chiudere i collegi, e alcune delle loro opere fu-rono pubblicamente bruciate per mano del carnefice. E nel 1752 comparve un editto di condanna dell'ordine dei gesuiti - sul pretesto che avevano usata mala fede in una transazio-ne commerciale e rifiutato di pagare una som-ma da loro dovuta - si ordinò la vendita delle loro proprietà, la secolarizzazione del loro or-dine; furono dichiarati indegni « di essere am-messi in un paese ben governato », e la loro so-cietà formalmente abolita. Nella medesima epoca il gusto degli studi eco-nomici s'era immensamente diffuso, come lo prova il grande aumento di opere di finanza e di economia pubblica verificatosi in quel tor-no di tempo. Insieme, era penetrato il deside-rio di veder chiaro nelle cose finanziarie dello Stato. Ed ecco Necker pubblicare il suo celebre con-toreso delle finanze della Francia, di cui seimi-la esemplari (conferma della reale esistenza del desiderio popolare di occuparsi di finanze dello Stato) furono esitati in un giorno solo. Questa pubblicazione segnava una vera rivolu-zione nella concezione dei rapporti tra il po-polo e il governo; era l'affermazione di que-sto principio assolutamente nuovo, inaudito e sovversivo, che il popolo aveva diritto di esa-minare e giudicare la gestione dello Stato, fino allora statagli sottratta come cosa circa la quale il popolo era affatto incompetente, e perché, in generale, il popolo non veniva ritenuto de-gno di ficcare il suo sguardo nelle alte questio-44

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ni di governo. Non per nulla il barone di Mon-lyon definì il libro di Necker « appello al popo-lo per opera d'un ministro del re contro il re stesso ». (iiacché questo atto rivoluzionario veniva com-piuto da uno cui il re s'era compiaciuto di af-fidare il potere supremo, noi non vediamo nulla che si possa paragonare alla pubblicazio-ne di Necker, se non forse la pubblicazione che un ministro d'un re costituzionale facesse di un trattato di alleanza, con tutte le più se-grete notizie diplomatiche connessevi, invitan-do il popolo ad impadronirsi della questione e a giudicare. Naturalmente, la pubblicazione di Necker con-traddiceva profondamente il desiderio della Corte, assolutamente opposto a quello del po-polo, e sommamente ostile a permettere che questo spingesse il suo sguardo nella gestione dello Stato. Ciò non ostante Necker potè non solo pubblicare l'opera, ma anche dar fuori una giustificazione del suo libro «malgrado il divieto del re». ' Né basta; ché egli potè poco stante ridiventare ancora ministro. La volontà del popolo che lo voleva a questo ufficio aveva vinto la volontà del monarca, che la condotta di Necker aveva profondamente offeso. Tutto questo sarebbe « in via normale » assolu-tamente impossibile in una monarchia costitu-zionale. Un ministro che rivelasse un segreto di 1. Du MesniI, Mémoires sur le prince Lebrum, due de Plai-sance et sur les événemenis auxquels il pris pari sous le parle-rnents, la Revolution, le Consulat et l'Empire, Rapilly, Paris, 1828.

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Stato e lo sottoponesse al giudizio del popolo si chiuderebbe per sempre le porte del potere, quand'anche egli avesse l'opinione pubblica dalla sua parte. E soltanto una manifestazione della volontà popolare così forte da far temere una rivoluzione potrebbe ricondurlo al gover-no. Ma ecco che noi abbiamo testé veduto co-me quando la volontà popolare toccava tale grado di forza (come era appunto il caso del-l'epoca di Necker) essa raggiungeva il medesi-mo risultato anche nelle monarchie assolute. Aggiungiamo che, quanto alla politica estera della monarchia assoluta francese, durante questo periodo, Ségur nelle sue Memorie (I, I l i ) dice che Maurépas ripetè sovente a suo padre che l'opinione pubblica aveva forzato il governo a fare, «contro la sua volontà», causa comune con l'America nella guerra per l'in-dipendenza. E quanto alla politica interna ba-sterà notare quel che accadde riguardo ai «clubs», riguardo cioè a quelle associazioni che rappresentavano allora qualche cosa di ben più rivoluzionario che non siano ora, in Italia, le Camere del Lavoro e le leghe di mi-glioramento. Appena i « clubs » vennero intro-dotti a Parigi, il governo fece chiudere il prin-cipale di essi. Ma il sentimento popolare si ma-nifestò così prontamente e con tanta violenza contrario a questa disposizione, che il governo dovette cedere, l'ordine di chiusura fu cassato, il «club» potè ancora radunarsi, e dietro ad esso tutti gli altri, la cui opera contribuì pos-sentemente a determinare l'indirizzo dei nuo-vi e grandi cangiamenti che si preparavano.

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Abbiamo accennato alla analogia che, conside-rati dal punto di vista politico e nei loro rap-porti di fronte ai rispettivi governi costituiti, corre tra i « clubs » dell'ultima metà del secolo XVIII in Francia e le odierne italiane associa-zioni di lavoratori. Un recente caso viene a confermare questa analogia. Vogliamo alludere alla Camera del Lavoro di Genova sciolta dal prefetto di questa città, in obbedienza alle inveterate consuetudi-ni del governo italiano, indi lasciata dal mini-stro ricostituire davanti allo sciopero completo e fulmineo dei lavoratori del porto che la mi-sura di scioglimento ayeva provocato. Si volle vedere in questo fatto - come nella li-bertà successivamente lasciata al costituirsi del-le Leghe dei contadini - una prova che la po-litica della monarchia italiana si avviava ver-so uno stadio normale di liberalismo e di de-mocrazia. In realtà, episodi assolutamente a-naloghi - come quello accennato della revoca-zione dell'ordine di chiusura del primo «club» in Francia - noi riscontriamo anche sotto le monarchie assolute. La verità di fatto si è che la volontà popolare aveva modo di im-porsi quando era diventata forte e temibile, anche nei governi assoluti; e che, analogamen-te, non può trionfare nei governi costituziona-li se non quando sia diventata altrettanto forte e temibile. Non basta che una data tendenza abbia per sé la maggioranza per prevalere nei governi puramente parlamentari, come non bastava negli assoluti. Tanto i primi quanto i secondi, infatti, avevano ed hanno mille mezzi, che se sono spesso diversi per natura, sono pe-

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rò ugualmente efficaci, onde tener a lungo in-dietro la vittoria di una tendenza che pure ab-bia conquistata la maggioranza. Solo quando, oltre aver conquistata la maggioranza, quella corrente, è diventata fortissima e pericolosa, trova modo di farsi valere nei presenti regimi; - ma la medesima cosa accadeva nei regimi as-soluti. Per modo che tanto nei governi parla-mentari che negli assoluti la forza che deve ac-quistare un'opinione per trionfare è, nello stes-so grado, assolutamente sproporzionata con quella che basterebbe a farla trionfare in un re-dime organizzato con lo scopo di offrire alla vo-ontà popolare il modo normale di farsi valere,

come è appunto la democrazia diretta. Possiamo quindi concludere che i governi as-soluti si conducevano di fronte alla volontà popolare nella medesima guisa con cui si con-ducono verso di essa i governi rappresentativi e strettamente parlamentari. La possibilità per la volontà popolare di farsi valere nella com-pagine dello Stato è press'a poco uguale tanto nei primi che nei secondi. E si può in generale affermare che tutte le forme di governo più frequentemente attuate sinora - e cioè così le antiche monarchie, come i moderni governi semplicemente parlamentari - avversarono sempre ogni nuova corrente del sentimento popolare, e cercarono, tanto le une quanto gli altri, di reprimerla coi medesimi mezzi. Ma quando una determinata corrente d'opinione pubblica acquista un rilevante grado di inten-sità, soltanto allora, i governi cedono ad essa: vi cedono i governi costituzionali così come vi cedevano anche i governi assoluti. 48

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Non si può dunque affatto affermare che il ca-rattere dei governi rappresentativi sia il pre-dominio della volontà dei « plurimi » al con-trario dei governi assoluti dove il predominio spettava alla volontà dell'» unus». Dietro un rigoroso esame, questo carattere di distinzione tra le due forme di governo - carattere princi-palissimo ed essenziale, per coloro che tale di-stinzione ammettono - scompare. In realtà, la volontà dei « plurimi » aveva, volta a volta, se-condo le circostanze, press'a poco la stessa fa-cilità o la stessa difficoltà di farsi valere sotto i vecchi regimi di quel che abbia sotto i regimi rappresentativi. Fra le antiche monarchie assolute e i presenti regimi rappresentativi non v'è dunque una di-versità così profonda - per ciò che riguarda l'elemento essenziale a stregua del quale noi giudichiamo i governi: il rispetto alla volontà dei più - che autorizzi a classificare le prime in una categoria diversa dai secondi; bensì gli uni e gli altri appartengono a una medesima cate-goria: quel a degli « anciens régimes ».

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I l i IL SISTEMA PARLAMENTARE

In nessuna applicazione del sistema rappre-sentativo è possibile lo schietto affermarsi del-la sovranità popolare. Però non tutte le forme di tale sistema offrono lo stesso grado di im-permeabilità al volere della comunità. In alcu-ne questo incontra maggiori, in altre minori ostacoli. Abbiamo tutta una gamma che va dal-le repubbliche parlamentari (le quali costitui-scono l'applicazione del sistema rappresentati-vo che minori ostacoli oppone al corso della volontà popolare) alle monarchie strettamente costituzionali, come la germanica, nelle quali il sovrano sceglie i suoi ministri, senza prendere, neppure apparentemente, alcuna indicazione, per la scelta, nel voto della Camera dei rappre-sentanti della nazione; e nelle quali quindi la sovranità risiede in realtà e in apparenza nel-la volontà del monarca. Queste monarchie si distinguono a stento, anche nella forma, da quelle assolute. Molte altre gradazioni intermedie si possono constatare, sopratutto prendendo in esame la natura che una determinata monarchia è ve-nuta assumendo nella sua formazione storica. Così, per esempio, presentano un diverso gra-do di resistenza alla volontà popolare, quegli Stati monarchici, come l'Inghilterra e il Bel-gio, dove il popolo in rivoluzione, dopo aver 50

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distrutto una monarchia precedente, ha libe-ramente chiamato una nuova dinastia, la quale senza l'invito del popolo vittorioso nella rivo-luzione, non avrebbe potuto accampare diritti a quel trono e non si sarebbe neppure pensata di tentar di insediarvisi; e quegli altri Stati mo-narchici, come l'Italia e la Germania, nei quali la monarchia si è imposta alla rivoluzione de-viandola e soffocandola. È chiaro che nei pri-mi di quésti Stati l'istituto monarchico, risen-tendo, per tutta la sua vita, l'influenza della sua origine, presenterà minori resistenze alla sovranità popolare che non nei secondi. Se si volesse, adunque, determinare con tutta precisione gli ostacoli che il sistema rappre-sentativo oppone, nelle sue diverse applicazio-ni, al libero corso della volontà del popolo, bi-sognerebbe studiarle e descriverle particolar-mente quali si presentano in concreto nelle va-rie forme di quel sistema, repubblicane e mo-narchiche, realmente esistenti; perché la so-stanza e la formazione storica dei singoli Stati jroduce delle divergenze notevoli dall'uno al-'altro circa il più o meno libero passaggio del-la volontà popolare attraverso le maglie del-l'ordinamento politico. Però, qualche osservazione generale si può in-dubbiamente tracciare; e noi ne esporremo al-cune, fermandoci dapprima sulle accidentalità per le quali certe forme di sistema rappresen-tativo offrono maggiori resistenze di altre alla volontà popolare; per indi esaminare gli osta-coli al corso di tale volontà che sono più gene-rali, e comuni a tutte le forme del governo parlamentare.

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La più prominente di queste accidentalità è l'esistenza d'una monarchia alla sommità dello Stato rappresentativo. Intorno alla monarchia costituzionale esiste un concetto, a nostro avvi-so, radicalmente sbagliato. Esso è già diffuso da tempo, ed ha avuto origine negli ambienti conservatori, ma s'è assai esteso ed è ancora largamente accolto: e fu anzi recentemente rinnovato in altra forma. Consiste nel ritenere che l'azione politica dei re costituzionali sia nulla e che essi non siano se non dei re-travi-cello, assolutamente impotenti ad un esercizio attivo del potere, il quale sarebbe oramai ca-duto in piena balìa del Parlamento. Questo concetto ha origine monarchica, seb-bene gli scrittori monarchici che lo espongono talvolta mostrino di deplorare che le cose stia-no così com'essi dicono e si augurino una ri-presa di vigore del potere regio. Ma è eviden-te che quel concetto giova all'idea monarchi-ca perché contribuisce potentemente a far sì che quella irresponsabilità del principe, che è scritta nella legge fondamentale, diventi cre-denza comune, e che si radichi nella coscienza popolare l'assioma: «il re non può far male». Tale concetto fu recentemente rinnovato, sot-to altra forma, da alcuni tra i più intelligenti pubblicisti del partito socialista, i quali spesero tesori di sottig iezza per sostenere che a mo-narchia giace passiva in mezzo ai contrasti po-litici e sociali della nazione e pronta a cede-re alla tendenza più forte. Per costoro la mo-narchia sarebbe soltanto una specie di dina-mometro sociale, il cui atteggiamento, in un dato momento, non sarebbe se non un indice 52

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che una determinata tendenza possiede mag-gior forza di altre nella nazione; e quell'atteg-giamento, quindi, cambierebbe quando altre tendenze venissero ad acquistare forza preva-lente. È certo che una forte corrente d'opinione pubblica può spingere la monarchia costitu-zionale in una data direzione; ma questo fatto (come abbiamo veduto) accadeva anche nelle monarchie assolute, talché esso non servirebbe neppure a provare che quella rappresenti un mig ioramento in confronto di queste. Però la questione sta nel vedere se il giuoco dei con-trasti politici e sociali, operanti nel seno della nazione, sia tutto; o se invece l'istituto monar-chico possa contribuire a pesare potentemente in un senso piuttosto che in un altro, e talvolta, gettando la spada sopra la bilancia, a farla tra-boccare da una parte piuttosto che dall'altra. Se la cosa non fosse messa recentemente in dubbio ci parrebbe superfluo l'insistervi, tan-to gli argomenti atti a dimostrare la tesi che la monarchia offre maggiori ostacoli della re-pubblica al passaggio della volontà popolare, sono ovvii, elementari e quasi puerili. La questione sta tutta in questi due punti: il ca-po dello Stato ha nella monarchia costituzio-nale interessi speciali da far valere che non ha invece in repubblica? se sì, ha i mezzi per farli valere? Per quanto riguarda il primo punto, la cosa sta per noi in questi termini: nelle repubbliche puramente parlamentari la volontà popolare si trova davanti l'ostacolo della « classe politi-ca» che, di fatto, esercita sempre esclusiva-

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mente il potere. Nelle monarchie parlamenta-ri la volontà popolare oltre al trovarsi di fronte l'ostacolo della «classe politica» si trova di fronte anche quello della dinastia regnante. Quando in uno Stato la classe dominante ha delegato il suo supremo potere politico ad una monarchia ereditaria, questa, oltre che essere la rappresentante degli interessi della classe dominante medesima, tende anche natural-mente a far valere e a salvaguardare gli inte-ressi suoi particolari. Questi interessi assumo-no un carattere di particolarità e di continuità dal momento che la funzione di capo dello Stato è ereditaria. Un presidente di repubblica, che giunga al potere portatovi da un partito e, più o meno chiaramente, come rappresentan-te di esso; che non può coprire l'ufficio se non jochi anni, e non può trasmetterlo a figli; non la evidentemente interessi politici particolari

alla sua persona e alla sua famiglia da far vale-re che lo possano guidare nella sua condotta; ovvero, dal momento che egli si lasci guidare da c^uesti interessi cessa di essere un presiden-te di repubblica per diventare un cospiratore, un pretendente, un macchinatore di colpi di Stato, un fondatore di monarchie. Un presi-dente di repubblica non è, adunque, se non il rappresentante puro e semplice degli interessi d 'un partito, ossia di una frazione della classe politica dominante. Ma in una monarchia il capo dello Stato è qualche cosa di più. Esso è il rappresentante non solo della classe politica dominante, ma anche di una famiglia; egli deve non solo pro-teggere gli interessi di quella, ma è altresì 54

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spinto a conservare e possibilmente ad allarga-re il potere toccato in sorte alla dinastia di cui egli fa parte, che dovrà trasmettere ai figli. Per usare un paragone che può parere alquanto grossolano e sentire da farmacia di villaggio, ma ci sembra calzante, diremo che un re ha in-teresse, a differenza di un presidente di re-pubblica, a consolidare e aumentare il suo po-tere nello stesso modo e per la stessa ragione che un proprietario, a differenza di un fittavo-lo a brevissima scadenza, ha interesse ad au-mentare il valore della sua proprietà. La perennità del potere supremo nella stessa persona, per tutta la vita, e nella stessa Casa, fa sì, adunque, che ciascun membro di questa Casa cui in ogni generazione spetta quel po-tere, abbia, naturalmente, un vivo interesse, particolare a sé e alla Casa medesima, di raf-fermarlo ed estenderlo. Di qui un'azione del monarca, del tutto peculiare e affatto indipen-dente dai conflitti che agitano la nazione, per far valere quel suo speciale interesse. Tutto questo è di elementare evidenza, e cre-dere diversamente sarebbe un contraddire al-la natura umana. Proseguendo nella nostra analisi, constatere-mo che, in via generale, nella monarchia costi-tuzionale gli interessi della dinastia e quelli della classe dominante, in molti punti si intrec-ciano e si sovrappongono. La classe politica dominante sarà calda sostenitrice del potere regio perché questo offre un contrafforte sal-do e perenne, per essere sottratto al vento mu-tabile delle opinioni popolari e confidato alle costanti tradizioni d'una famiglia, contro can-

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giamenti politici che offendano il predominio della classe medesima. Il monarca sarà il pro-tettore più energico degli interessi della classe politica dominante perché esso sa che il suo proprio dominio è condizionato al dominio di questa e non ne è che il supremo coronamen-to. Fin qui gli interessi della classe politica do-minante e quelli del sovrano si sommano, co-me quantità omogenee, e si presentano quale una doppia barriera opposta al corso della vo-lontà popolare. In qualche caso, gli interessi del sovrano e quelli della classe dominante potrebbero non essere, naturalmente, concordanti. Potrebbe il sovrano, in vista dei suoi speciali interessi di-nastici, volere zdleanze estere che alla classe dominante sono ostiche o indifferenti, o pre-tendere un armamento che a questa classe sembri troppo pesante. Ma in questi casi finirà per stabilirsi spontaneamente e tacitamente tra la volontà del sovrano e quella della « classe politica » un'intesa, dettata dal reciproco inte-resse dell'accordo, per cui le due volontà s'in-contreranno ancora in una medesima linea di condotta. Ma questa linea di condotta sarà la risultante scaturiente dall'incontro delle due volontà; e la sua direzione risentirà quindi l'in-fluenza della volontà particolare della dina-stia. Nell'un caso e nell'altro, il monarca si sentirà portato a difendere ciò che rappresenta la fu-sione degli interessi suoi con quelli della classe dominante, con energia ben maggiore di quel-la che sarebbe indotto a spiegare un presiden-te di repubblica: perché per costui gli interessi 56

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affidati alle sue cure non sono che interessi di partito, per il primo invece sono, nel loro com-plesso, in virtìi di quella reciprocanza cui ab-biamo or ora accennato, e della trasmissione ereditaria del potere, interessi personali e fa-migliari. Ci sembra, adunque, che non si possa mettere in dubbio il primo quesito posto piìi sopra; e che si debba concludere che nella monarchia costituzionale il capo dello Stato ha, a diffe-renza delle repubbliche, interessi particolari da far valere, ed anche un forte incitamento a farli valere con grande intensità.

Resta il secondo punto: il monarca costituzio-nale ha mezzi per far valere questi interessi? Ed è qui che ci si para innanzi l'opinione di co-loro i quah pensano che l'azione politica del re nelle monarchie costituzionali sia praticamen-te nulla e che tutto il potere effettivo sia passa-to nel Parlamento. Coloro che professano questa opinione si fon-dano sopra le seguenti adduzioni: È vero (essi dicono) che nelle monarchie costi-tuzionali il re ha la facoltà di scegliere e revo-care i suoi ministri (Statuto italiano, art. 65; Statuto belga, art. 65); ma è altresì vero che bi-sogna distinguere le monarchie che rimasero strettamente basate a questa disposizione dello Statuto (come quella germanica) nelle quali il re sceglie i ministri a suo tutto beneplacito sen-za curarsi dell'opinione delle Camere, e non li rimanda quando non abbiano più in queste

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la maggioranza; dalle monarchie, le quali, da strettamente costituzionali, sono diventate par-lamentari, e nelle quali il sovrano sceglie o congeda i ministri a seconda dei voti delle Ca-mere. Secondo tale distinzione, nelle monarchie del-l'ultima specie, essendo diventata infrangibile consuetudine costituzionale che il re possa sol-tanto scegliere a suoi ministri le persone che la Camera dei rappresentanti indica mediante un voto comprovante la fiducia da essa in quel-le persone riposta, e debba congedarli quando un altro voto dimostri che tale fiducia è venuta meno, per prendere quelle a cui si dirige la nuova fiducia della Camera; in tali monarchie, si dice, è la Camera dei deputati che, in realtà, governa, nominando, sia pure indirettamente, il proprio Comitato esecutivo nel Gabinetto. Ma in primo luogo è da osservarsi che tale for-ma di monarchia costituzionale è da conside-rarsi come affatto accidentale. In tutta la storia politica del mondo noi non ne abbiamo avuti che due esempi, entrambi per un periodo bre-vissimo: l'Inghilterra durante il regno di Vit-toria, e il Belgio durante il regno di Leopoldo I è II. Lo strano, illogico ed instabile equilibrio costituito dalla monarchia costituzionale della seconda specie non fu dunque raggiunto che per un breve istante nel mondo, e non v'è nes-suna ragione di supporre che esso possa man-tenersi e fissarsi davvero in una consuetudine immutabile, la quale costituirebbe la distruzio-ne, di fatto, di ogni potere nel re. Coloro, per vero, che. hanno più profonda-58

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mente studiata la condizione politica dell'In-ghilterra convengono in questo, che, nel mo-mento presente, il potere regio è annichilito. «La monarchia costituzionale inglese» scrive il Palma' «in realtà è piuttosto una repubbli-ca, in cui le classi medie governano all'ombra della Corona e delle classi alte ». E uno scritto-re francese più recente, che seppe penetrare con grande finezza l'intima essenza della costi-tuzione politica inglese, Boutmy, scrive che la Camera dei Comuni tende a diventare l'unica sede del potere e che il pubblico considera gli altri poteri come semplici ornamenti della co-stituzione. «Esso ci tiene come un privato ai vecchi mobili di famiglia, leggermente inco-modi, ma di grande stile e di grande effetto; li conserva volentieri, a patto che essi non in-gombrino il passaggio e non impediscano i movimenti del potere vivente ed attivo. Piìi il ramo elettivo rappresenta completamente e fedelmente la nazione, più l'Inghilterra s'al-lontana in fatto da quel a teoria del governo misto e temperato di cui alcuni pubblicisti con-tinuano a crederla il più perfetto modello. Non soltanto non v'ha più una specie di equili-brio tra due assemblee, tra un Parlamento e un re consigliato dai suoi ministri, ma vi è una concentrazione estrema di tutta l'autorità ef-fettiva in una sola assemblea, di cui il ministe-ro non è che una delegazione. La sovranità del popolo e l'unità del potere sono due principii che, sebbene non siano stati formulati e siano anzi nascosti dalle forme del diritto pubblico

I. Palma, op. cit, voi. II, p. 454. 59

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inglese, pure sono ormai il fondo e la sostanza della costituzione britannica».' Ciò sta bene ed è una risposta a quei conservar tori italiani che, additando di continuo l'esem-pio inglese ai radicali, pretendono che quell'e-sempio significhi per i partiti estremi una le-zione di monarchismo. Ma la verità espressa dal Boutmy è la verità d'un solo paese e del momento presente; e crediamo si possa dubi-tare se essa sia la verità di tutti i paesi retti a monarchie costituzionali, e se sarà la verità del domani. L'organo continua ad esistere, e fino a che e-siste tenderà di continuo a riprendere intera la sua funzione. Sulla « Positivist Review » del marzo 1901 comparve un articolo del prof. Beesly, così riassunto dalla « Rivista Popola-re»: «L'Inghilterra corre gran pericolo di as-sistere a un risveglio del potere della Corona, come già è avvenuto per quello della Camera dei Lord. Mezzo secolo fa, l'aumento continuo del potere della Camera dei Comuni era evi-dente; ma da allora le cose sono singolarmente cambiate in suo vantaggio. Le classi conserva-trici, che vivono di rendita, interesse e pro-fitto, son rappresentate meglio dalla Camera alta che da quella bassa, e come si son servite della prima per la difesa dei loro interessi con-tro la massa del popolo, così potrebbero fare ora della Corona. La Costituzione accorda a questa diritti dei quali non si è fatto uso da gran tempo, come quello di veto, e quello di 1. Émile Boutmy, Le développement de la Costitution et de la Société politique en Angleterre, Colin, Paris, 1897, p. 350. 60

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nominare i ministri e sciogliere il Parlamento. Le adulazioni delle ultime settimane alla Coro-na, mostrano che la idea di un governo perso-nale, alla tedesca, non ripugna agli inglesi quanto si è creduto, ed un re potrebbe gover-nare anche contro il volere del Parlamento, servendosi dei diritti che per tanto tempo non si sono esercitati. Se dietro la Corona fosse una forte classe conservatrice, se pure la massa del popolo eleggesse una Camera dei Comuni di opposizione, questa si troverebbe impotente di fronte alla Corona. La Camera potrebbe rifiu-tarsi di votare le imposte, e l 'annuo "Muting Bill", ma questi mezzi darebbero origine a tali jerturbazióni, da nuocere in primo luogo a chi i avesse adottati ».' Alla monarchia parlamentare, quale la vedia-mo funzionare nell'Inghilterra della regina Vittoria e nel Belgio dei due Leopoldi, si ap-plicano veramente, e ben più a ragione, le con-siderazioni che fa il Sumner Maine intorno al-la democrazia in generale. Si pensa dalla gene-ralità (egli dice) che l'avvento della democrazia sia fatale e il suo procedere indeprecabile. Pe-rò quelli che pensano in questa guisa non con-siderano se non una piccolissima parte della storia dell'umanità. « A partire dalla fondazio-ne dell'Impero romano ebbe luogo, in com-plesso, durante diciassette secoli, un movi-mento quasi universale verso la monarchia ... Repubb iche italiane, signorie feudali, parla-menti, tutto crollò, salvo una memorabile ec-cezione, davanti il potere e il prestigio inces-1. «Rivista Popolare» dell'ori. Colajanni, 30 aprile 1901.

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santemente crescente dei dispotismi militari». E lo stesso autore continua: « In Inghilterra, il governo popolare, nato dalla libertà della tri-bù, ritornò alla vita più presto che altrove. Protetto dall'isolamento insulare del suo nuo-vo soggiorno, esso seppe mantenere dei mezzi d'esistenza. E così la Costituzione britannica divenne la sola contraddizione alla "tendenza delle epoche"; per la sua influenza indiretta tale tendenza fu rovesciata; e riprese forza il movimento verso la democrazia. Pure, anche in Inghilterra sebbene il re abbia potuto ispi-rare timore e antipatia, le funzioni regie non hanno mai perduta la loro popolarità. La Re-pubblica e i Protettorato non hanno ottenuto un solo istante il favore reale del popolo. Il ve-ro entusiasmo popolare fu riservato per la Re-staurazione ».' Più oltre, lo stesso autore, a proposito del diritto di veto spettante alla Co-rona inglese contro le leggi votate dalle pame-re, osserva che non si cercò d'impiegarlo sola-mente « perché non si presentarono occasioni di servirsene » ; e fa capire che questo diritto di veto potrebbe benissimo venir risuscitato dal Gabinetto; giacché « se gli piacesse di consi-gliare alla Corona il veto d'una legge già votata dalle due Camere, nulla prova chiaramente che questo atto possa incontrare la menoma resistenza».'' Lo stesso Sumner Maine ricorda ancora come lo Gneist abbia affermato che l'Inghilterra sarebbe presto obbligata a torna-re al Governo del « Re nel suo Consiglio » tan-1. Sumner Maine, op. cit, pp. 118-21. 2. Ibid., pp. 163-65. 62

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lo le difficoltà delle sue istituzioni parlamenta-ri diventano serie.' Sarebbe insomma assai precipitato dal fatto che in un breve momento della storia del mon-do, in una monarchia costituzionale, l'Assem-blea dei rappresentanti della nazione ha anni-chilito il potere del re concentrando in sé la sovranità, concludere che questo sia l'aspetto normale e costante che assumeranno le mo-narchie costituzionali. È assai più verosimile invece che tale aspetto non sia che accidentale e transeunte; e che la monarchia costituziona-le giovandosi dei potenti mezzi di azione che stanno a sua disposizione, tenderà invece ad esercitare i suoi diritti in tutta la pienezza con cui secondo la lettera della Costituzione le so-no concessi; ad esercitare fra tutti, effettiva-mente e indipendentemente, quello che costi-tuisce la più importante funzione di govèrno, cioè la scelta e la revoca dei ministri; a far pesare, insomma, potentemente, sulla bilancia dello Stato, la sua volontà contro l'autogover-no del popolo. Si può ritenere, in una parola, che il tipo più normale della monarchia costi-tuzionale sia, non già quello inglese o belga, ma quello germanico. In ogni modo, anche concesso che il tipo nor-male della monarchia costituzionale sia quello nel quale non è ammessa la scelta dei ministri contro le indicazioni della Camera, il sovrano ha sempre modo di scegliere a suo beneplacito i ministri, senza violare la legalità creata da ta-le consuetudine accettata. I. /tórf., p. 357.

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In primo luogo, quando la situazione dei par-titi nella Camera sia tale da far prevedere che il voto con cui essa negherà là fiducia al mini-stero indicherà chiaramente a succedergli uo-mini che il sovrano non intendesse accettare, egli può far dare al ministero in carica le di-missioni prima del voto. In questo caso, egli resta assolutamente' libero di scegliere i succes-sori. E siccome la questione se una crisi sia sta-ta risolta costituzionalmente o meno dal re, è sempre una questione sottilissima e per la qua-le non vi sono giudici, così non sarà mai possi-bile venire alla conclusione palmare, indiscus-sa ed evidente per tutti, che il re abbia nomi-nato i suoi ministri contro le indicazioni del Parlamento. Tale fu il sistema seguito lunga-mente in Italia. In secondo luogo, il re mediante l'opera di mi-nistri fedeli combinata con quella di fedeli de-putati può preparare le cose in modo che, molte volte, il voto designativo non avvenga se non nel senso desiderato dal sovrano. Median-te l'abile giuoco di un forte gruppo di deputati saldi nel lealismo monarchico, è abbastanza fa-cile evitare una battaglia quando essa condur-rebbe a designare per il governo uomini o ten-denze non voluti dal re; affrontarla o provo-carla quando questo pericolo non vi sia. A proposito di una recente crisi ministeriale italiana un giornale torinese' pubblicava un'in-tervista con un « illustre uomo di Stato, che per l'eminente ufficio suo e per la parte precipua ch'egli ha rappresentato e rappresenta tuttavia 1. «Gazzetta del Popolo», 7 maggio 1901. 64

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nella vita politica è in grado di conoscere mol-to bene, come nessun altro forse, la storia de-gli ultimi avvenimenti parlamentari: spirito fi-nemente critico, egli porta un giudizio quasi esclusivamente obbiettivo sulle questioni ». Questo uomo di Stato, parlando del ministero Saracco, nel momento in cui esso sentiva di star per soccombere sotto un voto contrario della Camera, riferiva che «l'attenzione del Saracco dovette concentrarsi a trovare la posi-zione netta su cui il Ministero potesse cadere, con dignità sua e lasciando integre le preroga-tive del potere esecutivo ». La quale ultima frase significa appunto: « la-sciando integra nel re la facoltà di scegliere i suoi ministri e di determinare le tendenze che devono affermarsi nel governo ». Questo, adunque, prova che con qualche abih-tà da parte dei ministri uscenti e da parte dei deputati amici si possono sempre preparare le cose in modo da salvaguardare da un lato la prerogativa del re di scegliere con tutta indi-pendenza i suoi ministri, e da permettergli quindi di imprimere alla cosa pubblica la dire-zione della sua volontà; e da salvaguardare dall'altro lato, l'apparenza che sia la Camera a designare col suo voto i ministri. Questo fatto che esistano dei deputati, la cui funzione principale consiste nell'apparecchia-re abilmente il terreno parlamentare in, modo che la volontà del re riesca a prevalere, occul-tamente e senza dar nell'occhio, non è cosa sconosciuta nella storia. Abbiamo appena biso-gno di ricordare che il fenomeno apparve e-videntissimo in Inghilterra al tempo di Pitt.

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« Allora » narra Macaulay ' « venne al mondo e alla luce una specie di rettili politici quali il nostro paese non aveva mai conosciuto fino al-lora, né più conobbe dappoi. Erano uomini che non conoscevano alcun legame politico, eccetto quelli che li attaccavano al trono. Non si aveva che da designare loro un partito, qua-lunque fosse, essi erano pronti a coalizzarsi con esso, ad abbandonarlo, a minarlo segreta-mente, a dargli l'assalto, tutto ciò in un batter d'occhio e senza intervallo. Ai loro occhi, tutti i governi e tutte le opposizioni erano una cosa sola ... Il loro ufficio speciale era, non di soste-nere il ministero contro l'opposizione, ma di sostenere il re contro il ministero. Ogni volta che Sua Maestà era indotto a dare un consenso che gli ripugnava per la presentazione di qual-che legge che i suoi consiglieri costituzionali credevano necessaria, era cosa sicura che i suoi amic i d e l l a C a m e r a d e i C o m u n i a v r e b b e r o parlato contro la legge, votato contro la legge, gettato sul cammino della legge tutti gli osta-coli compatibili colle regole del Parlamento». « Mutatis mutandis », non è inverosimile che qualche cosa di analogo possa avvenire anche ora, e che sopratutto possa stabilirsi tra i mini-stri che escono di carica (ma che aspirano, na-turalmente, a ritornarvi) e alcuni eminenti uo-mini politici, che aspirano a diventare ministri - i quali, tutti, quindi, hanno bisogno del favo-re e della simpatia regia - un'intesa per di-1. Thomas Babington Macaulay, Essais historiques et bio-graphiques, trad. di G. Guizot, Levy, Paris, 1885^ pp. 152 sgg-66

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sporre le cose in modo da mantener « salva la prerogativa del sovrano » di scegliere i ministri che crede, senza far parere di andar contro al-le designazioni della Camera. A ciò, per esempio, serve assai bene il giuoco avvenuto in Italia, nella crisi che portò al go-verno il ministero Zanardelli-Gio itti. Questo giuoco consistette nel dare al cangiamento di Gabinetto l'apparenza di un passo nuovo ed ardito, sia perché, dopo circa dieci anni dac-ché ciò non accadeva in Italia, la crisi fu lascia-ta prodursi in seguito ad un voto della Came-ra; sia perché venivano chiamati al potere uo-mini ritenuti come depositari di un nuovo in-dirizzo liberale. Ma mentre la chiamata al po-tere di questi uomini serviva a dare il colorito esteriore al Gabinetto, e a far credere che la volontà popolare fosse giunta a trionfare, me-diante il voto della Camera, e ad imporsi al-la Corona, due dei più importanti dicasteri, quello della Guerra e quello della Marina (at-torno ai quali appunto ferveva in quel mo-mento più vivace la discussione in causa delle spese militari) venivano chetamente e silenzio-samente mantenuti ai ministri che li gerivano nel precedente Gabinetto. E in questa crisi si manifestò anche più chiara-mente del solito il potere che ha ed esercita la Corona nella soluzione delle crisi ministeriali e nel governo effettivo della cosa pubblica. Poi-ché il mantenimento di quei ministri e la con-seguente mancata partecipazione alla combi-nazione ministeriale dei radicali (i quali pone-vano come condizione la consolidazione delle spese militari) provennero, per esplicita con-

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fessione della stampa monarchica, dalla volon-tà del re. E la « Gazzetta del Popolo » del 14 febbraio 1901 scriveva, infatti: «Falliscono le trattative coi radicali perché questi esigono un programma minimo militare e tributario, che non è quello dell'onorevole Zanardelli né del-l'on. Giolitti, impegnati colla Corona a mante-nere i progetti militari presentati prima d'ora alla Camera». Che la volontà del re costituzionale sia deter-minante nello scioglimento delle crisi ministe-riali veniva implicitamente constatato di re-cente, nella seduta del 30 aprile 1901 del Se-nato italiano, nella quale discutendosi l'inter-pellanza Arrivabene intorno alle leghe di mi-glioramento dei contadini del mantovano, che il ministro Giolitti era accusato di tollerare, il senatore Serena disse: « Oramai io non temo né spero più nelle crisi ministeriali; temo altre crisi ben più spaventevoli». Un uomo politico navigato, come il senatore Serena, sa infatti bènissimo che il grande ar-meggio parlamentare dei partiti è, in una mo-narchia costituzionale, cosa, in fondo, del tut-to esteriore e superficiale che non tocca la inti-ma compagine e l'andamento abituale dello Stato. Le crisi parlamentari si succedono, nuo-vi uomini vanno al potere, e quindi, si dovreb-be presumere, si compiono segnalati rinnova-menti. Ma in realtà gli esperimentati sanno che non c'è nulla da temere, e che tutto resta tal quale, perché la volontà del re, occulta ma potente, dirige a suo beneplacito lo sciogli-mento delle crisi, anche quando sembri cedere al voto dei rappresentanti del popolo, e non 68

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ammette al governo se non gli uomini che in-contrano il suo favore o che le abbiano prece-dentemente date garanzie di obbedienza. Sol-tanto le « crisi ben più spaventevoli », cioè l'ab-battimento della monarchia, potrebbero, per implicita confessione del senatore Serena, de-terminare nello Stato un indirizzo nuovo, per-ché non più controllato dalla volontà costante e uniforme di chi incarna gli interessi della dinastia. Che più? Abbiamo la stessa dichiarazione d'un re che ci fornisce la prova che la volontà reale è sovrana nella soluzione delle crisi e nell'indi-rizzo fondamentale dello Stato. Nel giugno del 1896 il senatore Gadda narra-va, infatti, a un redattore del « Corriere della Sera » il seguente episodio: «Lasciato il Ministero nell'agosto del 1871, venni nominato prefetto di Roma, e durai in quella carica per cinque anni. Nel 1876, anda-ta al potere la Sinistra, ed il ministero degli In-terni essendo stato assunto dall'on. Nicotera, io non rrii sentivo molto fiducioso sull'anda-mento che doveva prendere l'Amministrazio-ne; chiesi perciò l'aspettativa; e resistetti anche alla cortese insistenza che il nuovo Ministero mi fece perché io restassi al mio posto. Mi re-cai, com'era naturale, a prendere congedo da Vittorio Emanuele, al quale esposi le cause della determinazione che avevo preso; e ricor-do che il re, con espressione confidente e col sorriso sulle labbra, mi rivolse queste precise parole: "Ha torto di aver paura. Non precipi-teremo. La mano alla 'mécanique' la tengo

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sempre io; e vedrà che, occorrendo, saprò stringere i freni a tempo" ».' Assai istruttiva, da questo punto di vista, è la storia del regno di Giorgio III d'Inghilterra, il quale, mentre i due primi Giorgi occupati a governare l'Hannovre avevano abbandonato ai loro ministri il governo della Gran Breta-gna, cominciò a badare assai poco all'Hanno-vre e molto al governo dell'Inghilterra, e in-traprese a dirigere a sua guisa i destini di que-sta.^ Si videro allora gli uomini politici più eminen-ti, verso i quali stava rivolta con affetto e con entusiasmo la coscienza della nazione, come Lord Chatam, Fox e Burke, tenuti ostinata-mente lontani dal potere e colpiti dall'avver-sione regia: il primo perché amico dichiarato dei diritti del popolo, il secondo perché tenace difensore della libertà civile e religiosa, il terzo perché contrario alla tratta dei negri, al siste-ma di coscrizione militare a vita, alla guerra contro le colonie americane e favorevole all'u-guaglianza religiosa; mentre i capisaldi della politica regia erano il mantenimento della schiavitù dei negri, l'incremento dell'autorità della Corona contro i diritti popolari, il predo-minio della chiesa anglicana, a soppressione d'ogni spirito di ricerca, il divieto di ogni ri-forma parlamentare, la guerra coll'America e colla Francia. Lo stesso Burke, nella sua Storia parlamentare, scrisse questa frase: « La questio-ne non era di prendere coloro che potevano, 1. «Corriere della Sera», 3-4 luglio 1901. 2. Sumner Maine, op. cit., p. 298. 70

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gerire meglio gli affari pubblici, ma coloro che s'incaricavano di non far nulla». E Lord Cha-lam disse, in un discorso pronunciato nel 1777: «Il governo di questo glorioso impero appartiene agli uomini pieghevoli non agli uo-mini capaci ». Ma quando Burke, colpito profondamente nel suo equilibrio mentale dalla morte del figlio e dallo scoppio della rivoluzione francese, cad-de in uno stato d'allucinazione assai vicino alla pazzia, e rinnegò tutti i suoi principii, comin-ciò allora a ricevere le attestazioni del favore regio e fu elevato alla Parìa. E Pitt, che fu l'u-nico uomo grande ammesso al potere con pie-no gradimento della Corona, durante i sessan-t'anni del regno di Giorgio III, non riuscì ad occupare ed a mantenere questa sua posizione se non sconfessando tutti i principii nei quali era stato educato e che aveva professato al suo entrare nella vita pubblica. Egli aveva procla-mato l'assoluta necessità della riforma parla-mentare; ma siccome il re non la voleva, non esitò a perseguitare il partito che un tempo, d'accordo con lo stesso Pitt, tendeva a far trionfare quell'idea. Giorgio III era partigiano della schiavitù dei negri, e Pitt non osò mai ap-profittare del potere per proporne l'abolizio-ne. Pitt finalmente desiderava mantisnere la pace colla Francia, ma siccome il re odiava i francesi e voleva la guerra, così Pitt gettò il paese in un conflitto politicamente pericoloso e finanziariamente gravissimo. Pitt voleva con-cedere all'Irlanda una pìccola parte dei suoi diritti, violentemente conculcati, e il re lo de-stituì. E quando Pitt volle ritornare al potere,

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dovette rinunziare a qualsiasi pensiero di giu-stizia verso l'Irlanda.' E evidente l'identità di quanto accadde in In-ghilterra sotto Giorgio III, con quanto accad-de in Italia con Crispi, Zanardel i Nicotera é cento altri, e con quanto sta probabilmente ac-cadendo con l'on. Sacchi. Ma quei fatti a cui si nega l'ovvia interpretazione, per ragioni poli-tiche, quando accadono sotto i nostri occhi, re-stano nettamente delineati, in sé stessi e nei lo-ro motivi, nella storia, che è molte volte il fred-do ed imparziale specchio del presente. Ne risulta che l'opinione, così diffusa, che l'a-zione politica del sovrano costituzionale sia nulla e che egli sia impotente a far prevalere la sua volontà nella scelta dei ministri e, quindi, nella direzione della cosa pubblica, è un erro-re massiccio. Senza affermare che nella mo-narchia rappresentativa le forze parlamentari non possono mai esercitare una azione indi-pendente nella creazione e nell'abbattimento dei governi, si può concludere che questo libe-ro giuoco è ad esse concesso, solo quando la competizione avvenga tra capi di partiti o di gruppi, per quanto riguarda le linee fonda-mentali della politica, ugualmente accetti al monarca; ma che, per quanto concerne i capi-saldi della politica, la volontà del monarca è sovrana e che tale sovranità si esercita sia nella scelta delle persone, sia nel determinare que-ste a rinunciare alle idee, che il popolo ha loro dato il mandato di rappresentare, per accetta-re quelle del monarca. Nell'un caso e nell'al-

1. Cfr. Buckle, op. cit., voi. II. 72

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irò, quindi, la volontà del re costituzionale giunge a tenere in iscacco quella del popolo; e nel secondo caso con conseguenze ancora più deleterie che nel primo: perché, il popolo ve-dendo chiamati a potere gli uomini in cui ri-pose la sua fiducia, si conferma sempre più nell'errore che la sua volontà possa aver libe-ro corso nella monarchia costituzionale, non accorgendosi chiaramente che quegli uomini per essere chiamati al potere hanno dovuto ri-nunziare alle loro idee; giacché il giudizio po-Dolare resta per lungo tempo oscurato dalle oro stesse sofistiche dichiarazioni di coerenza e proteste di logicità e da qualche loro atto, compiuto sopra questioni secondarie nell'in-tento di dimostrare che non sono venuti meno al loro antico programma.

Ma non è qui tutto. Altri mezzi, oltre quello della scelta dei ministri, ha il re costituzionale per far prevalére la sua volontà su quella del popolo. E, anzitutto, un fatto, del quale non si tiene, ci pare, il debito calcolo è l'educazione politica, diremo così, professionale che riceve il monarca. Fin da quando il principe ereditario giunge in età da poter riflettere, egli si trova in una posi-zione in cui nessun ingranaggio politico più occulto, nessun più misterioso maneggio par-lamentare o diplomatico gli resta ignoto. Il re costituzionale, quindi, prima ancora di salire al trono ha avuto amplissimo campo di scal-trirsi nell'uso di tutti i più reconditi meccani-smi della politica, di imparare quali molle bi-

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sogna mettere in moto per raggiungere infal-lantemente questi o quest'altri risultati, per far trionfare alla chetichella e senza mettersi in mostra (e il sistema monarchico-rappresentati-vo consiste in fondo, tutto in questa ipocrisia), la sua volontà. Egli si è trovato, insomma, nella posizione di chi può osservare uno spettacolo stando tra le quinte, in modo da poter vedere da vicino la preparazione interna, la trafila delle disposizioni, il processo per mettere in moto i congegni, tutte cose che non apparisco-no all'occhio dello spettatore, il quale dello spettacolo non coglie che l'esteriorità. Questa educazione professionale del re diven-ta tanto più profonda quanto piìi egli dispone di una esperienza piìi ricca, e quindi, quanto 5Ìù questa esperienza si è potuta fissare, stante 'antichità della dinastia, in una specie di linea

di condotta tradizionale, in una linea di patri-monio intellettuale della Casa regnante. Ora, nello sforzo che fa il popolo d'una mo-narchia costituzionale per lo sviluppo della li-bertà politica e per raggiungere una sempre più ampia possibilità di far prevalere la sua vo-lontà, avviene una tacita e sorda lotta, tra i rappresentanti del popolo stesso e chi imper-sona il potere rivale, il potere regio. Anche quando il re debba, sotto a pressione di un'in-tensa corrente dell'opinione pubblica, chiama-re al potere uomini che incarnano una deter-minata tendenza politica, voluta dal popolo ed avversata dal re, questi, in grazia dell'educa-zione politica professionale che possiede e che lo ha messo a conoscenza di ogni più occulto congegno, si trova di fronte a quelli in una po-74

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sizione assai più forte, e riesce facilmente a metterli in sacco e ad incanalare la loro azione in modo da renderla assolutamente innocua. Molti uomini politici, saliti al potere in una monarchia costituzionale, e contro i quali si gridò poscia al tradimento per aver essi com-pletamente gettato a mare il bagaglio delle lo-ro idee, non furono, forse, almeno da princi-pio, se non giuocati essi medesimi. E una volta giuocati, una volta compromessi di fronte al popolo, essi non poterono più in forza di quel-la gelosa cura che ha ogni uomo della propria coerenza, cura che spesso lo spinge a difende-re i propri errori, a perseverare in essi, e anzi ad accentuarne la portata, tornare indietro. E rimasero o ritornarono al potere oramai com-pletamente addomesticati e asserviti alla politi-ca dinastica, ad aumentare ancora credito alla fallace apparenza che la monarchia rappre-sentativa dia libero corso alla sovranità del po-polo, proprio quando a questa apparenza ve-niva più profondamente meno la corrispon-dente realtà. Chi potrebbe dire, a questo proposito, quanta parte dell'attuale annichilimento del potere regio in Inghilterra, sia dovuto al fatto che la regina Vittoria - durante il cui regno quell'an-nichilimento si compì - era una donna, e salì al trono giovane e assolutamente inespeipta, e si trovò di fronte agli uomini parlamentajri del suo regno in una posizione assolutamenie in-versa di quella che occupa normalmente un sovrano costituzionale, cioè a dire si trovò ad essere più debole di loro nel giuoco della poli-tica?

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Ancora maggiore è la potenza personale che ; un re può trarre dai rapporti di politica este-ra. Il sovrano (e già durante la sua educazio-ne professionale, come principe ereditario) ha entratura in tutte le Corti; egli vi si acclimata, acquista importanti conoscenze di cose e di persone; può stringere e preparare di lunga mano rapporti, o fondare relazioni di cui il parlamento e i ministri del suo Stato possono non venir mai a cognizione e neppure averne il sospetto; può, finalmente, anche in questo campo imparare quali sono e come si maneg-giano le fila che mettono in moto i vari intrecci della politica estera. « Mediante la sua posizio-ne elevata, » scrive il Laveleye' « mediante le sue relazioni di famiglia, egli otterrà delle in-formazioni, delle confidenze, che non saranno comunicate a un ministro di passaggio, per paura di vederle comparire in un "Libro Az-zurro", in una lettera o in un discorso al Parla-mento». Ma, su questo argomento, amiamo riportare le parole di Max Nordau, le quali ci sembrano ri-produrre con perfetta esattezza la realtà delle cose. La monarchia, dicono molti, «è,» egli scrive® « almeno nei paesi costituzionali, una semplice decorazione; il monarca vi ha minor potere che non il presidente degli Stati Uniti d'Ameri-1. Émile Louis Victor de Laveleye, Le gouvemement dans la démocratie, Alcan, Paris, 1896, tomo II, libro decimo, cap. I, p. 104, 2. Max Nordau, Les mensonges conventioneUes de nòtre ci-vUisatùm, trad. di A. Dietrich Heinrichsen, Paris, 1886, pp. 124-26. 76

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ca. L'Inghilterra, il Belgio e l'Italia sono, in realtà, delle Repubbliche con dei re alla loro testa, e le forme tradizionali di sommissione di cui la Corona è circondata non impediscono, in alcun modo, la libera manifestazione deilla volontà popolare. « È questo un grave errore che avrà ancora per parecchie volte conseguenze funeste ai popoli. Il potere dei re continua ad essere enorme, e la loro influenza, anche in paesi come il Bel-gio, la Romania, l'Inghilterra, e la Norvegia, è potentissima, sebbene .sia esercitata non me-diante la costituzione, ma a lato di questa. Né abbiamo le testimonianze più irrecusabili. L'o-norevole Gladstone, così competente sulla qui-stione, si è spiegato in modo assai significativo sull'influenza dei re nella "Nineteenth Centu-ry". Alcune pubblicazioni del nostro tempo spandono su questo punto una luce sufficien-te, particolarmente la biografia del principe Alberto di Martin, che contiene la corrispon-denza tra il principe Alberto e il principe Gu-glielmo di Prussia, fu turo re ed imperatore, e il racconto delle relazioni di Napoleone con la Corte d'Inghilterra; le Memorie del consigliere aulico Schneider, di Meding, ecc. Noi vediamo come, nei Gabinetti dei re, al di sopra dei po-5oli, dei parlamenti e dei ministeri si tessano e fila delle relazioni intime; come i monarchi

conferiscano direttamente gli uni con gli altri; come giudichino ogni avvenimento poljitico, anzi tutto, dal punto di vista dei loro interessi dinastici; come si sentano solidali di fronte al movimento che conduce i popoli a riconoscere le loro forze e i loro diritti; come nelle più gra-

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vi risoluzioni, che esercitano una azione fune-sta sopra milioni di individui, essi si lascino de-terminare da capricci, da amicizie e da antipa-tie personali. Gli oratori popolari pronuncia-no grandi frasi nei comizi; i deputati declama-no nei parlamenti, i ministri fanno con aria importante le loro rivelazioni; tutti insieme convinti di determinare essi soli i destini del loro paese; ma, frattanto, il re sorride con di-sprezzo e scrive lettere confidenziali ai suoi amici coronati d'oltre frontiera, e decide con loro ogni cosa; alleanze ed esclusioni, guerra e pace, conquiste e cessioni, restrizioni e con-cessioni; quando il piano è fissato, lo si esegui-sce senza curarsi delle chiacchiere dei parla-menti. « I re trovano anche in abbondanza degli stru-menti per compiere la loro volontà in una for-ma correttamente costituzionale; del resto, al bisogno, non è difficile creare delle correnti d'opinione pubblica, e infine accade che i re, i quali si crede non alibiano nello Stato che una aarte decorativa, son quelli che pronunciano a parola decisiva nella vita dei popoli; oggi, precisamente come nel medio evo, oggi anzi ancora di più, perché un tempo l'alleanza dei re tra di loro era piìi debole, il sentimento del-la loro solidarietà non esisteva ancora, e. il loro naturale "entourage", l'aristocrazia e l'alto cle-ro, era ad essi molto meno devoto che non ora. La debolezza degli uomini che, contrariamen-té alla lóro ragione e alla loro convinzione, praticano la menzogna monarchica si vendica su loro medesimi, o piuttosto sul progresso umano; gli pseudo-liberali i quali credono di 78

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ingannare i re accordando loro privilegi ed onori, secondo essi, illusori, sono in realtà, essi medesimi, ingannati dai re; costoro sanno as-sai abilmente aggiungere all'apparenza del po-tere, che si lascia loro, la realtà di questo pote-re. Non è la forma monarchica che è vana, co-me se lo lasciano dar ad intendere quelli che commettono la menzogna dinastica: è la sovra-nità nazionale ».'

Un'obbiezione è abituale in bocca dei monar-chici a quanto abbiamo detto piìi sopra circa la facoltà effettiva che il re costituzionale possie-de di scegliere esso i suoi ministri. Osservano, cioè, i monarchici, che tale facoltà hanno anche i presidenti di repubbliche e tal-volta più incontestata, più estesa, e più indi-scussa, anche nella forma e nell'apparenza, di quel che tale facoltà non sia in mano di un re costituzionale. Ciò è perfettamente vero. Il Presidente della Confederazione nord-americana ha una indi-pendenza, costituzionale, ed effettiva, assoluta nella scelta dei ministri, i quali sono, press'a poco, soltanto dei suoi impiegati. « Si ascia » scrive il Bryce « la più grande latitudine al Pre-sidente nella scelta dei suoi ministri. D'abitudi-ne egli prende un Gabinetto interamente nuo-vo alla sua entrata in funzioni, anche se appar-tiene all'istesso partito del suo predecessore. Egli può scegliere, e lo fa talvolta, non solo uo-mini che non hanno mai seduto al Congresso, 1. Nordau, Les mensonges conventionelles, cìt., pp. 124-26.

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ma che non hanno mai fatto della politica, che non hanno forse mai fatto parte della legisla-tura di uno Stato o occupato il più piccolo im-piego. Due membri soltanto del Gabinetto Harrison formato nel 1899, avevano seduto nel Congresso ... Il ministro non è altro che il suo [del Presidente] domestico, obbligato ad obbedirgli e indipendente dal Congresso».' Ciò sta bene. Ma i monarchici che muovono tale obbiezione dimenticano di notare che il potere del presidente americano è periodico. Esso dura solo quattro anni; e per una consue-tudine inviolabile, nessuno può essere chiamar to alla presidenza per più di due volte.^ Ora è chiaro che la più ampia latitudine lasciata al presidente nella scelta dei ministri non è, in fondo, che una latitudine lasciata a chi, col mandato appunto di scegliere i ministri, vien nominato dal popolo. Si può affermare che i ministri vengono nominati dal popolo me-diante doppio grado di elezione. E si può pa-ragonare questa condizione di cose a quella che si avrebbe da noi se il presidente del Con-siglio dei ministri fosse eletto ogni quattro an-ni dal popolo, anziché nominato dal re, lascia-ta poscia a lui la facoltà più ampia di scegliere gli altri membri del suo Gabinetto. Come si vede, adunque, la facoltà di scegliere i 1. Bryce, op. cit, pp. 133, 138. 2. Soltanto otto furono i presidenti che ebbero questa unica possibile rielezione: Washington, Jefferson, Madi-son, Monroe, Jackson, Lincoln, Grant e Mac Kinley. Que-st'ultimo poco prima della sua morte s'era affrettato a smentire la voce corsa che egli fosse disposto ad accettare la candidatura per la terza volta. 80

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ministri, esercitata da un presidente, ha un si-gnificato ed un'efficacia ben diversi che non esercitata da un re. E in generale si può dire che l'eleggibilità periodica del capo dello Stato altera profondamente il carattere e la influen-za dei mezzi di predominio politico che sono alla portata di esso, quand'anche questi mezzi siano apparentemente quelli medesimi che possiede un re, e li fa diventare da mezzi di predominio di interessi dinastici, mezzi di pre-dominio di un partito. Con questo di più, che in mano di una dinastia, in grazia della sua continuità, quei mezzi di predominio saranno volti, con immutabile costanza, nel senso di pro-teggere, accanto agli interessi dinastici, quelli della classe i cui interessi sono fusi cogli in-teressi del trono; mentre, in repubblica, dove ogni partito può volta a volta conquistare il seggio presidenziale, i mezzi di predominio di cui può disporre il capo dello Stato, non pos-sono essere destinati a favorire, con inalterabi-le continuità, una sola classe; bensì possono servire, con vece alterna, a tutte, stabilendosi così anche sotto questo aspetto, la possibilità di una maggiore parità dì trattamento, da parte dello Stato, di tutte le classi sociali.

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IV IL SISTEMA PARLAMENTARE

{Continuazione)

Abbiamo notato come la volontà popolare in-' contri nel governo parlamentare degli ostacoli che si possono chiamare accidentali, i quali, vale a dire, non sono comuni a tutte le forme del sistema parlamentare e non sono insepara-bili dalla sostanza di questo; ed altri ostacoli propri di tutte le forme di quel sistema e in-scindibili dalla sua essenza. Oltre quelli che abbiamo enumerati nel capito-lo precedente, altri ostacoli vi sono di carattere accidentale. E anche questi, se non sono per ne-cessità logica connessi all'esistenza di una mo-narchia costituzionale, si avvertono però, nor-malmente, là dove questa monarchia esiste. Il primo di essi è la nomina del Senato da par-te del Capo dello Stato; la quale forma di no-mina, se non è necessariamente propria della monarchia costituzionale, si riscontra però sol-tanto negli Stati monarchici, e, per dire più esattamente, si riscontra, almeno nella sua for-ma più completa, soltanto in Italia. Le Camere Alte in generale godono tutte le predilezioni dei nemici della democrazia. Il Sumner Maine si esprime senza ambagi: « Non v'è alcun mezzo, secondo me » egli scrive' « di sfuggire a questo fatto che tutte le istituzio-

1. Sumner Maine, op. cit, pp. 255-56.

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ni di tal genere, quali un Senato, una Camera dei Pari o una seconda Camera qualunque, ri-posano sulla negazione o la messa in dubbio del famoso adagio che "la voce del popolo è la voce di Dio". Esse esprimono la rivolta del buon senso di una gran parte dell'umanità contro questo assioma; esse sono il frutto di un agnosticismo dell'intelligenza politica». E co-me « il miglior esempio » di una Camera di Pa-ri nominati a vita il Sumner Maine cita appun-to il Senato italiano. Ora, quand'anche i mezzi cui abbiamo accen-nato nel capitolo precedente non bastassero a mantenere inalterabile la prevalenza della vo-lontà del re su quella del popolo; quand'anche nella Camera elettiva si facesse strada una maggioranza contraria a certi postulati della politica regia, e questa maggioranza resistesse (cosa praticamente impossibile, come dimo-streremo più innanzi) agli scioglimenti della Camera, perfettamente legali; il Senato di no-mina regia offre sempre il più semplice, age-vole e spedito stromento per tenere in iscacco la volontà popolare che sia riuscita a farsi stra-da nell'altro ramo del Parlamento. Nella facile illusione, che le giovani forze dei partiti estremi si formano in Italia, di poter cambiare la natura dello Stato a colpi di sche-da, tutte le immense forze di resistenza che si presentano come una muraglia inespugnabile di contro ad ogni proposito di seria innovazio-ne vengono dimenticate; e prima di ogni altra viene dimenticato il Senato, che si considera quasi come un'istituzione trascurabile. In realtà il Senato è la potente armata di riser-

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va per il sostegno della volontà del re e della classe politica dominante, contro la volontà popolare. E se questa sua forza diviene rara-mente attiva e non apparisce, gli è che non c'è stato mai bisogno di metterla in opera, serven-do più che sufficientemente allo scopo gli altri mezzi per conculcare la sovranità popolare. Essa rimane adunque allo stato di potenza, ma non è a dire che non sappia, al bisogno, inter-venire efficacemente: e ne abbiamo avuto una prova recente in quanto accadde nel giugno e luglio del 1901, quando, accennando il mi-nistero Zanardelli-Giolitti ad assumere l'appa-renza di un atteggiamento democratico, il Se-nato non gli menò buona neppure questa ap-parenza, e condusse il ministero a fare sopra due importanti questioni - le leghe di miglio-ramento dei contadini, e la condotta di un ufficiale che aveva fatto sparare su alcuni con-tadini scioperanti — dichiarazioni assai più re-strittive di quelle che aveva poco prima fatte alla Camera. Quando il Senato è ereditario, come in parte la Paria inglese o il Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia, v'è sempre una certa possibilità che esso, ad un dato punto, venga a rispecchiare le principali correnti politiche della nazione e si apra alquanto alle idee nuo-ve. Poiché sebbene le famiglie che lo costitui-scono appartengano, originariamente, alla clas-se conservatrice, il succedersi delle generazio-ni può portare in esso uomini dalle più diverse opinioni politiche. Ma in un Senato di nomina regia, avviene invece una selezione, in ogni ge-nerazione, degli elementi più supinamente de-84

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voti alla volontà del re e provatamente ligi agli interessi della classe dominante, i quali soltan-to sono chiamati all'ufficio. E siccome, del re-sto, in ogni momento, il re può creare senatori senza limite di numero, così è chiaro che, quando anche la maggioranza del Senato ac-cennasse per un istante a schierarsi contro alla politica regia, il monarca potrebbe, colla no-mina di nuovi senatori, mutare quella maggio-ranza e formarne un'altra di suo maggior gra-dimento. Del resto, la critica del Senato regio non è più da farsi. Tutti i pivi autorevoli scrittori di dirit-to costituzionale l'hanno condannato. Il Palma ne fa una severissima censura: « La nomina reale » egli scrive' « circondata come si voglia di guarentigie, dipende sempre dal buon vole-re del Capo dello Stato e dei suoi ministri. Qualunque siano gli eletti essi hanno un pec-cato d'origine di essere non un potere proprio ma una seconda edizione di altro potere». E l'autorevole scrittore si chiarisce favorevole al Senato eletto dai Consigli provinciali ammini-strativi. Cavour {Della costituzione di una seconda Came-ra) criticò égli pure vivamente il Senato di no-mina regia. Francesco Crispi, nell'opuscolo I doveri del Gabinetto del 25 marzo, scrisse: « Il Se-nato è un istrumento fatto a comodo del pote-re esecutivo. Quando una legge d'iniziativa re-gia ebbe il voto della Camera elettiva, al Senato non restò altro ufficio che di manifestare il suo assentimento. Al contrario, se nella Camera

1. Palma, op. cit., voi. II, cap. v.

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elettiva si fa qualche legge che non garbi ai si-gnori ministri, il Senato è condannato a farla da spegnitoio». Ciò non ostante la monarchia italiana - che al-cuni vanno predicando perfino eccessivamen-te democratica - adottò e mantiene, sola fra tutti i governi del mondo, questa istituzione assolutamente contraria perfino alla apparen-za del principio della sovranità popolare; que-sta istituzione della quale Cavour scriveva: « L'o-pinione pubblica, questa vera regina della so-cietà moderna, considererà i membri chiamati a comporla come i deputati def governo, quin-di le loro deliberazioni non saranno mai pie-namente indipendenti, e non avrà mai grande autorità»; e ancora: « L'equilibrio in meccani-ca indica lo stato d'immobilità, stato che mal s'addice alle società moderne, spinte irresisti-bilmente nella via della civiltà: epperciò repu-tiamo fallace ed erronea la triste metafora col-la quale tanti pubblicisti hanno cercato di pro-vare la utilità di una seconda assemblea. Gli ordini politici dello Stato debbono essere sta-biliti in vista di un moto continuo, di un non interrotto svolgimento, ma di un moto, di uno svolgimento ordinato e progressivo». È notevolissimo il fatto che mentre il Senato di nomina regia è stato fin da principio riprovato dai più forti pensatori del partito conservato-re, esso fu, nondimeno, introdotto e mantenu-to. Ciò dimostra che la classe dominante e la dinastia ebbero un istinto piìi sicuro e piìi pra-tico di quanto ad esse conveniva fare che non alcuni uomini, pure tra i più eminenti, appar-tenenti alla stessa classe politica. E mentre

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questi, trascinati dalla logica, condannavano il Senato regio, il Senato regio, ciò non ostante, diventava istituzione dello Stato italiano, e nul-la v'è che possa far pensare dover esso scom-parire in un vicino o lontano avvenire. Ora, se l'esistenza di una seconda Camera, quando questa sia elettiva, si può giustificare, anche contro il famoso dilemma di Sieyès: « Se la seconda Camera è in disaccordo con la pri-ma è un'istituzione dannosa; se sono entrambe d'accordo, essa è superflua», osservando che essa può giovare a rallentare il corso di troppo precipitate deliberazioni, e ad adempiere in certa guisa la funzione di organo della rifles-sione della democrazia; quando il Senatp è di nomina regia la sua esistenza non può essere spiegata che colla teoria di Montesquieu e di Guizot. E cioè che esistono nella società due classi principali: «quella degli uomini che vi-vono sulle entrate delle loro proprietà fondia-rie o mobiliari, terre o capitali, e quella degii uomini che vivono del loro lavoro senza terre né capitali »; e che a ciascuno di questi elemen-ti essenziali ed eterni della società abbisogna una rappresentanza separata, altrimenti uno sarà sacrificato dall'altro e si riuscirà alla spo-gliazione e all'anarchia.' Tale è infatti — e basta esaminarne la composi-zione stabilita dall'art. 30 dello Statuto - la spiegazione del Senato di nomina regia. Esso è, cioè, una vera rappresentanza esclusiva de-gli interessi della classe dominante e della di-nastia fusi insieme, la quale rappresentanza

1. Cfr. Laveleye, op. cit., tomo II, libro ottavo, cap. ii.

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può, col suo voto, distruggere anche quelle piccole conquiste che la volontà popolare fosse riuscita a fare nella Camera elettiva; esso è un vero e proprio arnese di guerra contro la so-vranità del popolo/

Ma il più potente dei mezzi che hanno i sovra-ni costituzionali per assicurare un predominio incontrastato alla loro volontà - quel mezzo, anzi, che è il fondamento di tutti gli altri - è la aresenza dell'esercito permanente confidato al oro diretto comando. Mediante l'esercito permanente i governi at-tuali a «classe politica», sono riusciti a risolve-re un difficilissimo problema in modo analogo a quello con cui, sul terreno economico, un al-tro problema, altrettanto difficile è stato risol-to mediante il salariato. Come il salariato, ve-nendo a sostituirsi all'economia a servi ed a schiavi, ha reso inutile ogni costrizione per mantenere il lavoratore nello stato di sogge-zione, e ne ha realizzato la soggezione automa-tica, e, apparentemente, libera e spontanea; così coll'eserdto permanente, a base di coscri-zione, si è raggiunto questo curioso risultato di

1. Il Laveleye studiando il miglior modo di costituire la Camera alta (elettiva, s'intende, perché quella regia non vien nemmeno presa in considerazione dall'autore del Governo della democrazia) nota che potrebbe applicarsi al Senato l'idea messa innanzi dal Prins e preconizzata dal Sismondi, di comporlo cioè mediante «rappresentanti eletti dai diversi gruppi industriali e agricoli, la metallur-gia, le miniere, il cotone, la seta, la viticoltura, il commer-cio e così via » (loc. cit).

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far sì che il popolo stesso presti automatica-mente la forza materiale per assicurare il pre-dominio della classe politica dominante sopra sé medesimo. Una giusta analisi di questo fenomeno fa, dal punto di vista conservatore, Gaetano Mosca, sebbene la chiarezza, quasi brutale, con cui si esprime, sia alquanto compromettente per gli interessi conservatori. Egli così scrive: «Quello che intendono con questa frase: "so-stituire la Nazione armata all'esercito perma-nente", ben lo sappiamo, ed è uopo che l'espli-chiamo bene, mettendo i punti e le virgole. Ciò che si vuole è la distruzione di questo or-ganismo ammirabile, per il quale le masse bru-te vengon raccolte e disciplinate e cambiate in istrumento obbediente di quelle altre classi so-ciali, che possiedono l'intelligenza, la cultura, la ricchezza e per esse il potere: di quest'orga-nismo che è il più bel trionfo che un ordina-mento intelligente, che tutte le sue forze fa agire coordinatamente e come obbedienti ad un unico impulso, abbia mai riportato sopra elementi disgregati e ciecamente agenti sot-to l'impulso dell'interesse puramente e gretta-mente individuale. E che cosa si vorrebbe so-stituire a ciò? Lo sbrigliamento della folla in-disciplinata, che tumultuariamente armata di-verrebbe la padrona della situazione, e sulla quale le minoranze intelligenti prive di quel-l'organamento e di quell'insieme nell'agire, che forma la loro forza, non avrebbero piiì al-cun mezzo per imporsi e tenerla a dovere. E si pretenderebbe che coloro, i quali attualmente

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hanno il potere nelle mani consentissero a ciò, consumassero in altre parole il loro suicidio? «Ma ciò è un suppor i anche più semplici e ciechi di quello che realmente non siano. Cre-dano a noi tutti quelli che hanno qualche cosa da perdere, ci credano ciecamente questa vol-ta, giurino sulla nostra parola: se essi conser-vano pacificamente quello che hanno, non lo devono che alle baionette dei soldati. Quando incontrano per le vie un povero fantaccino, quando vedono il pronto saluto che una senti-nella rende ad un ufficiale, sopra questi fatti così semplici e comuni, meditino un poco. Quella divisa così uniforme, quelle stelle bian-che al colletto, quel moschetto così rispettosa-mente alzato, racchiudono per loro un grande insegnamento. Sono questi i mezzi morali e materiali onde una minoranza scelta, elegante, colta ha potuto assicurare il suo regno, ha sa-puto padroneggiare una maggioranza brutale, i cui appetiti non mai saziati, sono sempre pronti a scatenarsi; che è tenuta a posto solo dalla forza, e che, se la forza organizzata non fosse, manderebbe a sconquasso a civiltà per il piacere di un'ora di onnipotenza e di vendet-ta».' Non si potrebbe svelare con maggior sincerità e con maggiore crudezza la funzione dell'eser-cito moderno, così detto nazionale, la quale consiste appunto nella protezione degli inte-ressi di una piccola minoranza contro quelli della grande maggioranza dal cui seno stesso l'esercito esce. E da qui scaturisce la riprova

1. Mosca, Sulla teorica, cit., pp. 288-89.

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che l'unica sostanziale differenza tra le forme di governo è quella che viene determinata dal-la democrazia diretta: imperocché (a parte l'Inghilterra, che costituisce un caso del tutto speciale, e in cui il popolo vittorioso nelle rivo-luzioni del XVII secolo s'affrettò a togliere al sovrano l'esercito) tutti gli Stati puramente parlamentari posseggono un esercito perma-nente e a base di coscrizioni; ma in quelli a de-mocrazia diretta, perché in essi il governo non è ridotto nelle mani d'una «classe politica», non esiste neppure lo stromento per sostenere i privilegi della classe, e l'esercito, o è fondato sul reclutamento volontario, o è sostituito dal-la nazione armata. Senonché, in una monarchia costituzionale, l'esercito oltre che servire a proteggere l'inte-resse di classe, serve anche, e in prima linea, a sostenere quello della dinastia. Dell'esercito avviene come di quasi tutte le al-tre istituzioni destinate in origine a mantenere saldi i privilegi di classe; e cioè che queste isti-tuzioni finiscono per crearsi degli interessi pe-culiari a sé, veri interessi di corpo, che difen-dono, naturalmente, allato e avanti agli inte-ressi di classe. L'ultimo clamoroso avvénimén-to che ha manifestato quanto questi interessi particolari all'istituzione siano profondamente sentiti e radicati nell'esercito, è stato l'affare Dreyfus. Esso dimostrò, infatti, come la solida-rietà dei membri della gerarchia militare, soli-darietà spinta fino al delitto, sia tale e tanta che essi sono portati a tramare un cambiamento di forma di governo pur di mantenere intatta l'autorità e la rispettabilità di alcuni capi. E se

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si rifletta poi che l'affare Dreyfus rivelò i ten-tativi o almeno la tendenza degli alti capi mili-tari, per sostituire una monarchia alla repub-blica, se ne trarrà la conclusione che quell'epi-sodio ci ha fornito la prova del sentimento di reciproca attrazione della monarchia con l'e-sercito permanente e dei mutui vincoli che le-gano l'una all'altra istituzione. Orbene: se il senso della comunanza degli in-teressi di corpo fu tanto vivo, quale l'affare Dreyfus ce l'ha rivelato, nella repubblica fran-cese, si consideri quale esso deve essere in una monarchia. In questa il capo dell'esercito non è più un generalissimo che vien nominato da un ministero e può essere da un altro destitui-to; ma è invece il re medesimo, il cui potere ha origine all'infuori del ministero e del Par-lamento e risiede perennemente nella stessa persona e nella stessa dinastia. L'educazione morale dei militari ha, nella monarchia, un obbietto ben fisso e preciso: la devozione cieca, illimitata, esaltata, per il re, per la Casa re-gnante. Questo spirito di devozione che negli eserciti permanenti delle repubbliche, può po-sarsi saltuariamente su qualche generale, ma resta di ordinario fluttuante e senza meta fissa, ha nelle monarchie, una meta precisa e costan-te. Se, dovunque, l'esercito permanente costi-tuisce una casta, chiusa in sé, e tendente a for-mare uno Stato nello Stato, e a sovrapporsi al-le autorità civili e specialmente a quelle d'ori-gine popolare, nella monarchia questa casta fa capo e culmina nella persona che tiene anche in sua mano tutti i fili della politica, e questa persona trae, quindi, dall'esercito una potenza

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cui, praticamente, nulla v'è nello Stato che la possa bilanciare. La forza di imporsi allo Stato e di distruggerne la costituzione, che qualche volta trasse dall'esercito un generale (come Napoleone il 18 brumaio, o come forse poteva trarre il generale Roget se il 23 febbraio 1899 avesse seguito l'invito di Déroulède di marcia-re all'Eliseo) questa forza, evidentemente, gia-ce sempre, latente e potenziale nelle mani d'un re, verso cui spontaneamente, più che verso qualunque generale, si indirizza normal-mente la devozione dell'esercito. Un'autorità del diritto costituzionale, il Lave-leye, ha una pagina assai eloquente su questa spada di Damocle che è, verso anche le palli-de libertà parlamentari, l'esercito permanente, specialmente se ha alla testa un re. Egli ricorda la situazione della Germania, e scrive: « L'im-pero ha il suo Reichstag, e ciascun Stato la sua Assemblea deliberante. Vi si pronuncia dei bellissimi discorsi; vi si vota delle leggi, e spes-so anche si prende la soddisfazione di respin-gere i progetti del governo; ma in realtà, il pa-drone assoluto è il sovrano o il suo ministro, )er la semplice ragione che un milione di jaionette disciplinate ed obbedienti formano

un argomento irresistibile. Questa verità è du-ra e i liberali ne gemono, tanto piìi che ci si tie-ne a dissimulargliela». Indi l'illustre scrittore aggiunge: «A che serve, adunque, farci illu-sione? Anche nei nostri paesi d'Occidente, do-ve le istituzioni costituzionali sembrano aver preso definitivamente radice, esse non esisto-no se non per condiscendenza dell'esercito. Supponete un sovrano assolutamente deciso a

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far prevalere i suoi disegni e una controversia come quella del 1864-1866 in Prussia; certa-mente non è la volontà del Parlamento che prevarrà. Noi diciamo volentieri che i tedeschi del regime parlamentare non hanno che le ap-parenze. In fondo, la situazione è da per tut-to la stessa, soltanto altrove essa è allo stato latente».' È perciò che noi vediamo al di sopra del cla-more delle discussioni parlamentari, spesso più vane di quel che non crediamo, all'infuori de-gli apparenti cambiamenti radicali della poli-tica del governo, gli affari militari procedere, nelle monarchie costituzionali, con una assolu-ta continuità di direzione; imporsi e prevalere sulle questioni economiche più vitali della na-zione; essere gestiti sempre da uomini appar-tenenti alla casta, i quali spesso permangono al potere attraverso a molteplici cambiamenti de-gli altri ministri, e che hanno talvolta la since-rità (come fece il generale Mazè de la Roche nel 1878) di dichiararsi «comandanti» al po-sto di ministri.^ In conclusione, quand'anche attraverso la fitta rete degli ostacoli che abbiamo passato e pas-seremo in rassegna riuscisse a farsi strada un

1. Laveleye, op. cit., tomo II, libro decimo, cap. i, p. 108. 2. Si legga a questo proposito il libro Italia del generale Còrsi. È la storia d'Italia dal '70 al '93 quale la vede un al-to capo militare. Vi si scorgerà facilmente come le agita-zioni parlamentari, così appariscenti, siano un fattore af-fatto secondario della politica, e come il perno di questa giaccia nelle considerazioni di ordine militare, matura-te dall'esercito (cioè, naturalmente, dai suoi alti capi) e dal re.

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raggio della volontà popolare, se questa è in contraddizione colla volontà regia, il re, aven-do a sua disposizione la forza armata può sem-pre ridersi di ogni dispositivo costituzionale. Nell'eventuale conflitto tra le due volontà, del re e del popolo, non v'è infatti, al disopra un giudice che sentenzi e a cui sia esclusivamente riservato l'uso della forza per far eseguire la sentenza. Quest'uso è invece in possesso sol-tanto d'una delle due parti contendenti. E, se-condo le parole che Macaulay mette in bocca a Milton, « che cosa ne è mai dei voti, degli statu-ti, delle risoluzioni? Essi non hanno occhi per vedere, non hanno mani per colpire e per ven-dicarsi».' Concetto questo che s'incontra con quello tante volte ricorrente negli scritti del Romagnosi: « Voi mi obbietterete le carte co-stituzionali. Ma che cosa è una carta costituzio-nale senza il potere della forza, e contro il po-tere della forza? Voi mi citerete le congrega-zioni parlamentari. Ma che cosa sono queste congregazioni senza il potere della forza, o contro il potere della forza? Che cosa sono a fronte del re che le può sciogliere a suo bene-placito? Che cosa sono quando si vendono apertamente al Gabinetto che paga questa far-sa per far passare gli atti della sua reale poten-za? In mano di chi sono le armi, il tesoro, le ca-riche, le onorificenze?

1. Thomas Babington Macaulay, Essais sur l'histoire d'An-gleterre, trad. di G. Guizot, Levy, Paris, 1884, p. 202. 2. Giandomenico Romagnosi, Dell'indole e dei fattori del-l'incivilimento, con esempio del suo risorgimento in Italia, Piatti, Firenze, 1834^ p. 110.

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Molte altre cose vi sarebbero da notare intor-no agli ostacoli speciali che il governo parla-mentare a forma monarchica oppone alla so-vranità popolare; e anzitutto questa: che tutti i mezzi presentati dal sistema puramente parla-mentare per far prevalere la volontà della « classe politica » su quella del popolo (pressio-ni, corruzioni, ecc.) possono in un governo monarchico rappresentativo essere usati per far prevalere la volontà particolare della dina-stia. Ma qui ci si presenta una osservazione di carattere pivi generale e importante. Finora abbiamo parlato dei mezzi, a dir così, di uso personale e diretto del sovrano, coi qua-li questi riesce a far trionfare la propria volon-tà. Non bisogna però dimenticare che questi mezzi sono sostenuti da una serie di istituzioni le quali tutte concorrono a mantenere fermo, nella sua piena saldezza e integrità il potere regio. La monarchia è la fortezza centrale eretta con-tro la volontà popolare; ma essa presuppone una serie di contrafforti che si diramino dal centro e si estendano fino alla periferia, chiu-dendo tutto il paese nella loro rete, e mante-nendo quello stato di relativa immobilità che è necessario perché resti immobile e ferma l'isti-tuzione centrale. Questi contrafforti sono costituiti dagli orga-ni inferiori di governo, burocrazia centrale e provinciale, polizia, magistratura, ecc. E tali or-gani sono, nella loro parte maggiore e prin-cipale (e devono necessariamente essere) sot-tratti completamente ad ogni influenza diretta della volontà popolare, e posti in stretta con-96

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nessione e dipendenza col potere fisso e cen-trale. Se tutte queste istituzioni inferiori di governo fossero lasciate in balìa della volontà popolare; se questa potesse plasmarle, mutarle, o anni-chilirle a sua posta; è evidente che l'onda della mobilità, che la democrazia finirebbe per im-primere a tutte le istituzioni dello Stato, urte-rebbe contro la monarchia e terminerebbe col-lo scalzarla. Quando tutte queste istituzioni in-feriori di governo fossero pienamente nelle mani del popolo verrebbe a mancare alla mo-narchia la base solida, il sicuro «ubi consi-stam» della sua immobilità, come all'apice di una piramide la cui larga base fosse scossa da una serie incessante di movimenti. È qui dove appare tutta l'erroneità che la que-stione della monarchia e della repubblica sia una semplice questione di forma. Certamente « può » esserlo, in quanto cioè (e anche qui fino a un certo punto) si tratti di lasciare intat-te tutte le istituzioni monarchiche, e di sosti-tuire un capo elettivo a un capo ereditario. Ma quella questione è invece una gravissima que-stione di sostanza, in quanto la monarchia pre-suppone necessariamente una serie di istitu-zioni, nella loro essenza, immobili e perenni come essa, che le facciano da contrafforte. Qualche concessione apparente alla sovranità popolare potrà bensì venir fatta: si concederà il sindaco elettivo, si darà anche una parvenza di «referendum» ristretto ad affari ammini-strativi e del tutto secondari. Ciò allo scopo di fortificare, con quelle apparenze, l'illusione che la piena democrazia sia compatibile colla mo-

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narchia, e conquistabile, a poco a poco, sotto di essa. Ma quelle concessioni saranno in via normale neutralizzate da altri freni (tutela del-le autorità provinciali sopra i Comuni, ecc.); e, in ogni modo, esse saranno sempre le mille miglia lontane dal costituire quel complesso di diritti popolari i quali soltanto (come vedremo più innanzi) formano, nel loro tutto, il gover-no democratico, e che nel loro insieme sono, come apparirà intuitivamente, assolutamente incompatibili con l'immobilità dell'istituzione monarchica. Ora, quando si pensi che tutte le istituzioni se-condarie e inferiori di governo, le quali sono sottratte all'arbitrio popolare in conseguenza necessaria della presenza dello istituto monar-chico, sono quelle che stanno in più immedia-to contatto col popolo e premono direttamen-te su di esso, si vedrà agevolmente come (anzi-ché essere la monarchia una questione di for-ma) essa tragga fatalmente con sé quella lunga e fitta serie di vincoli che inceppano la libertà di movimenti d'un popolo; i quali vincoli se possono esistere anche senza la monarchia, esistono però sempre là dove questa esiste e ne sono l'inevitabile prodotto.

Obbiettano alcuni: sta bene che il re costituzio-nale abbia, astrattamente, potenti mezzi per far prevalere la sua volontà: ma in pratica que-sti mezzi non eserciterà per non suscitare una resistenza che metta in pericolo il trono. L'obbiezione non ha nessun valore dal nostro punto di vista. Essa si applica, infatti, tale e 98

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quale anche alle monarchie assolute. Tutti ri-conoscono che in queste il sovrano ha grandis-simi mezzi onde far predominare il suo volere su quello del popolo. Eppure (e ne abbiamo già visti alcuni esempi) anche nelle monarchie as-solute il timore d'una resistenza popolare peri-colosa induceva il governo a non usare di quei mezzi e a cedere alla volontà del popolo. Si tratta qui di vedere se le così dette garanzie costituzionali possano assicurare il libero corso della volontà popolare di per sé stessa e indi-pendentemente da una minaccia seria di resi-stenza, la quale, se veramente seria, otteneva 10 scopo di far trionfare la volontà popolare, anche quando quelle garanzie non c'erano, anche cioè nelle monarchie assolute. Ora, noi abbiamo dimostrato che le garanzie costituzionali permettono al sovrano di eserci-tare un predominio della sua volontà che, in pratica e in via normale - quando cioè il paese non sia disposto a un'agitazione rivoluzionaria - può essere pressoché illimitato. A che cosa si afferma che giovino le costituzio-ni e i Parlamenti in uno Stato monarchico? Precisamente ad assicurare normalmente il li-bero corso alla volontà popolare, e senza biso-gno di usare quei mezzi rivoluzionari coi quali soltanto era possibile nei vecchi regimi rag-giungere tale scopo. Ma, invece, noi abbiamo visto che le costituzioni, per sé sole, non intac-cano, di fatto, quasi per nulla l'autorità del re, 11 quale, se vuole e se le circostanze glielo per-mettono, può esercitare la sua volontà con la medesima estensione di un re assoluto. Dal punto di vista della sovranità popolare - di

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questo criterio fondamentale di distinzione del-le forme di governo - non v'è, adunque, una distinzione sostanziale tra la monarchia asso-luta e la monarchia costituzionale. A parità di altre circostanze, gli Statuti non danno affatto modo alla volontà popolare di esplicarsi nel-l'ultima forma di monarchia, meglio che non potesse nella prima. E la pratica identità di quelle due forme di go-verno potrebbe essere provata con molti altri argomenti. Accenneremo qui soltanto ad uno eccezionalmente importante. Si afferma dagli scrittori di scienze politiche che le costituzioni hanno introdotto questa profonda innovazione nei criteri di Stato che mentre nelle monarchie assolute il cittadino non conosceva quali fossero i suoi diritti pub-blici e quindi si trovava spesso a dover subi-re pene e persecuzioni senza avere previamen-te potuto conoscere di violare una legge, in-vece nelle monarchie costituzionali i diritti dei cittadini sono fissati nella costituzione; per cui ognuno sa quel che gli è lecito e quel che non gli è lecito di fare, e si comporta in conse-guenza. Ma questa opinione circa il valore delle costi-tuzioni è assolutamente smentita dai fatti. Se noi consideriamo le più importanti libertà del cittadino — quella di parola, di stampa, di asso-ciazione e di riunione - noi troviamo che in-torno all'esercizio di esse perdura la massima incertezza. Tante volte, in Italia, un discorso tenuto in un comizio e non interrotto dal fun-zionario di polizia che vi assisteva, procurò poi a chi lo pronunciò gravissime condanne da-100

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vanti ai Tribunali eccezionali. Un articolo di giornale non sequestrato in una città, e quin-di ritenuto un fatto lecito, fu considerato in un'altra città quale reato e quindi sequestrato. Un'associazione, o una serie d'associazioni, ri-maste non molestate per molto tempo, furono a un tratto giudicate criminose e disciolte, e i loro soci colpiti da gravi pene. Da ciò risulta che l'arbitrio degli ufficiali gover-nativi è sempre sovrano, ed è sempre esistente l'incertezza dei cittadini intorno a quel che sia lecito di fare, nella nostra monarchia costitu-zionale come in una monarchia assoluta. E quel che abbiamo detto per le libertà fon-damentali del cittadino, per quanto riguarda cioè l'applicazione della legge statutaria, è ve-ro altresì per quanto riguarda l'applicazione di ogni altra legge. «Da noi, infatti,» scrive il Vidari' « non si è mai sicuri di nulla; imperoc-ché se il Parlamento ed il Re fanno le leggi, i ministri le modificano a piacer loro, mediante regolamenti e circolari che per i poveri impie-gati hanno più forza ancora delle stesse leggi. Massime in materia fiscale, la legislazione no-stra è tutta un tranello. Le leggi possono: dire quello che vogliono, ma il ministro fa quel che gli accomoda, o l'alta burocrazia da cui esso di-pende. Il cittadino, quindi non è mai sicuro, obbedendo alla legge, di fare tutto quello che deve fare per avere così diritto alla protezione di essa. Sapere, conoscere la legge è il meno. Quella è la via maestra: e al Governo, per con-

1. Ercole Vidari, La presente vita italiana politica e sociale, Hoepli, Milano, 1899, p. 30.

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trario, piacciono le vie segrete, le sorprese, le imboscate. Ebbene i regolamenti e le circolari ministeriali non sono che imboscate conti-nue». La volontà dei cittadini si trova dunque di fronte, nella nostra monarchia costituzionale, all'istessa incontrollabile onnipotenza del go-verno che trovava nelle monarchie assolute. Lo Statuto non ha alterato di un ette la situa-zione. Si avverta poi che una recentissima esperienza comune a parecchi Stati monarchici costituzio-nali europei, all'Italia, alla Spagna, all'Austria, ha mostrato che la costituzione viene con tutta facilità sospesa e sostituita col regime militare e con lo stato d'assedio - vale a dire coll'antico assolutismo aperto e dichiarato - proprio in quei momenti di agitazioni politiche che i po-poli avevano avuto espressamente presenti nel chiedere ed ottenere gli Statuti, onde impedi-re appunto che da quelle si prendesse motivo, come nelle monarchie assolute, per inferocire nella persecuzione. Uno dei principii fondamentali dello Statuto itahano è il divieto di creare tribunali o com-missioni straordinarie. Quando le monarchie assolute creavano tali tribunali o commissioni? Non in tempi normali, non ce n'era bisogno. Si creavano in tempi anormali di sommosse, di torbidi, di ribellioni: alla promulgazione dello Statuto erano recenti, appunto, in Piemonte i processi, fatti per mezzo di tribunali straordi-nari alla «Giovane Italia». Il divieto consacra-to dallo Statuto mirava e mira dunque a colpi-re i tribunali e le commissioni straordinarie 102

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dei « tempi anormali » e dei momenti di « tor-bidi popolari». Eppure noi abbiamo visto re-plicatamente, al più piccolo fermento un po' vivo, i canoni dello Statuto perdere immedia-tamente vigore, e ripristinarsi apertamente le pratiche dell'antico assolutismo. Ciò significa che, quasiché non bastassero tutti i mezzi normali e costituzionali per conculcare la volontà popolare, vi è sempre in riserva, ma a facile portata di mano, questo altro: di fare come se neppure quella parvenza di libertà e di garanzia contenuta nello Statuto monarchi-co esistesse più. Possiamo quindi concludere colle parole del Laveleye: « Se il Sovrano ha una politica per-sonale » (e, come abbiamo avvertito la ha ne-cessariamente, per legge di natura, in causa della perennità del potere in lui e nella sua di-nastia) « egli si sforzerà di farla prevalere. Non oserà forse mettersi in lotta aperta con la rap-presentanza nazionale, ma, usando degli enor-mi mezzi d'influenza di cui il potere esecutivo dispone, farà di tutto perché questa rappre-sentanza sia composta conformemente ai suoi desideri e perché ad essi ceda. Egli tenterà di estendere il suo potere, e una lotta sorda, ma piena di pericoli si stabilirà tra il monarca e la parte più ardente del paese. E siccome esso potrà sbarazzarsi delle Camere, grazie all'eser-cito, il regime parlamentare non esisterà che per tolleranza e sarà sempre alla mercé di un colpo di Stato ».' Se non che noi crediamo che l'insigne scrittore belga non sia qui del tutto

1. Laveleye, op. cit., tomo II, pp. 242-43.

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esatto. Perché il sovrano costituzionale riesca a far prevalere la sua politica personale, non v'è, in via normale, affatto bisogno di un colpo di Stato. Egli può farla prevalere coi soli poten-tissimi mezzi di predominio che la Costituzio-ne gli concede. Egli quindi non farà mai un colpo di Stato, perché non ha nessun interesse a farlo; perché sa che la Costituzione, anche letteralmente osservata, non diminuisce, in realtà, per nulla il suo potere; perché sa che è il popolo il quale se vuoi far prevalere la sua volontà non può colle sole forze costituzionali riuscirvi. Perché sa insomma che lo Statuto, le elezioni, il Parlamento, tutto questo non è se non uno scenario, la sola cosa, è vero, che col-pisca la gran massa degli spettatori ma dietro la quale può agire e predominare colla mede-sima efficacia d'un tempo, « ceteris paribus » la volontà del sovrano. Per costui sarà sempre soltanto una questione di tattica e di pruden-za. Cederà al volere della comunità quando vegga che insistendo in un suo proposito può suscitare una agitazione che non ha la forza di reprimere - tale e quale come accadeva nei re-gni autocratici. Ma quando questa forza sap-pia d'averla, potrà fare quanto gli piace; e ciò, normalmente, non solo senza uscire dalla co-stituzione; ma anzi in base ad essa ed osservan-dola letteralmente.

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V IL SISTEMA PARLAMENTARE

(Continuazione e fine)

Le critiche contro il parlamentarismo (vale a dire contro quegli inconvenienti del governo parlamentare che non sono più accidentali, e particolari piuttosto ad una che ad un'altra delle varietà di esso governo, ma generali e co-muni a tutte) occupano oramai dei volumi. Es-se sono state ampiamente sviluppate dagli scrit-tori appartenenti al partito conservatore, nel-l'intento di screditare quanto ha, anche appa-rentemente, origine popolare. Però molto spes-so, manifestazioni di malcontento contro il re-gime parlamentare si fanno strada anche negli scritti degli uomini politici più avanzati. Per conto nostro, accettiamo quasi tutte le cri-tiche che essi muovono al sistema parlamenta-re. Ma diciamo subito che tutti i mali inerenti a questo sistema sono guaribili sviluppando il principio che lo informa fino alle sue ultime conseguenze, sviluppando cioè il sistema par-lamentare fino alla democrazia diretta. Si credette e si proclamò che il sistema parla-mentare attuava il principio della sovranità popolare. Invece la volontà della comunità ri-mase conculcata ed oppressa nei governi pu-ramente rappresentativi al pari che nei vecchi regimi. Tutt'al più i governi rappresentativi non fecero che reridere alla volontà popolare l'omaggio che, secondo La Rochefoucauld, reii-

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de il vizio alla virtù: quello della ipocrisia. Si proclamò formalmente l'accettazione del prin-cipio della sovranità popolare e se ne praticò una finzione, una specie di rappresentazione scenica. Questa falsa ed esteriore applicazione del prin-cipio della sovranità popolare non poteva che dar tristi frutti. Ma si applichi quel principio -posto che quasi nessuno oramai osa metterne in dubbio la verità - in tutta la sua sincerità e in tutta la sua estensione, vale a dire con la for-ma della democrazia diretta, e si vedrà che quei tristi frutti non vi saranno più. Si capisce perché i partiti avanzati difendano il sistema parlamentare dalle critiche che gli vengono mosse. Queste critiche partono, per vero, da coloro che vorrebbero veder sparire o ridursi ai minimi termini possibili anche quel-l'apparente adesione che colla forma rappre-sentativa i governi hanno fatto alla sovranità popolare. È giusto, pertanto, che nella lotta sul terreno pratico si difenda anche quella legge-ra concessione fatta al principio, che il supre-mo potere spetta alla comunità; giacché anche tale leggera concessione è meglio di nulla. Ma da un punto di vista più alto sta il fatto che il sistema parlamentare merita la maggior par-te delle critiche che gli vengono mosse; e ciò non perché esso conceda troppo larga parte alla volontà popolare nel governo dello Stato; ma perché gliene concede troppo poca e in modo falso e imperfetto. Abbiamo dimostrato che la volontà popolare trovava modo, quando raggiungeva un certo grado di forza, di farsi valere anche nei regimi

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assoluti, come solo quando raggiunge quel medesimo grado di forza riesce a farsi valere anche negli Stati costituzionali. Abbiamo pas-sato in rassegna gli ostacoli che contro la vo-lontà popolare si avvertono esclusivamente o piìi di frequente negli Stati costituzionali a forma monarchica. Vedremo ora gli ostacoli che si parano dinanzi all'esercizio della sovra-nità popolare derivante dalla forma parla-mentare in generale. E dimostreremo che, in via normale - e cioè quando non raggiunge quel certo grado, abbastanza eccezionale, di forza - la volontà popolare, come non aveva modo di farsi valere nei regimi assoluti così non Io ha neppure nei parlamentari (prescin-dendo dalla forma da essi assunta di monar-chia o repubblica e considerando soltanto il meccanismo parlamentare) sebbene si affermi che questo è appunto quel meccanismo me-diante cui la volontà del popolo riesce a preva-lere in modo normale. Quindi noi passeremo in rassegna solo le criti-che contro il sistema parlamentare le quali provano come, sotto tale forma di governo, la volontà popolare non abbia possibilità di im-primere in via normale la sua direzione alla cosa pubblica.

Si dice che i deputati sono i rappresentanti del popolo, e come tali essi dovrebbero in primo luogo trarre la loro origine da un atto di since-ro, libero e non ostacolato esercizio della vo-lontà popolare; in secondo luogo, nella pratica delle loro funzioni legislative seguire l'impulso

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che viene loro dalla volontà popolare, o, alme-no, non operare in contraddizione con essa. Ma né l'una né l'altra cosa è vera. L'esplicazione della volontà popolare, median-te il sistema parlamentare, è viziata fin dalla radice, fino dall'atto con cui il popolo crea i co-sì detti suoi rappresentanti, fino cioè dalle ele-zioni, che del sistema stesso sono la base. Ripetere che le elezioni non rappresentano l'e-sp icazione della volontà popolare se non in una proporzione infinitesimale è dire, oramai, una banalità. Mille circostanze concorrono, come ognun sa, a impedire nelle elezioni la manifestazione di quella volontà, o a deviarla e a confonderla. Fra le principali di quelle che mirano direttamente a reprimerla sta l'opera del governo sotto forma di pressioni e di cor-ruzioni. Fra quelle che mirano a deviarla e a confonderla sta l'opera dei candidati stessi, o dei loro grandi elettori o della stampa. Si supponga che si formi tra il popolo una cor-rente d'opinione pubblica, la quale spiaccia al governo; e che questa corrente costituisca la maggioranza. In un ordinamento politico che si afferma divergere dai precedenti perciò ap-punto che esso presenta il meccanismo me-diante cui la volontà della maggioranza può farsi normalmente valere, tale corrente d'opi-nione pubblica dovrebbe tosto trionfare. Ma nel governo parlamentare essa corre a rischio di restare sempre soccombente, magari fino al suo totale insterilimento, a meno che non ac-quisti una forza tale da far temere di una rivo-luzione. Il governo, infatti, ha modo mediante le pres-108

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sioni e la corruzione di impedire che quella corrente di opinione che raccoglie la maggio-ranza del paese, divenga maggioranza nella Camera dei rappresentanti; esso ha mezzo per farla rimanere minoranza legale. Ed è ciò ap-punto che accade normalmente. « Che i Prefetti siano tutti agenti elettorali del ministero » scrive il Mosca' « è una verità ora-mai così nota che qualunque dimostrazione di essa ci pare superflua. In Francia ciò accade da un pezzo; in Italia è un fatto più recente, ma certo non nuovo, né introdotto negli ultimi anni: ora, è vero, si va generalizzando sempre più, perché prima erano agenti elettorali solo i così detti "Prefetti politici", che venivano man-dati in alcune grandi città, mentre ora lo sono tutti indistintamente». E poiché il Mosca è stato uno degli scrittori che più acutamente s'è levato contro la leggen-da della sovranità popolare nei governi parla-mentari, egli aggiunge queste parole, che ri-portiamo perché vengono a sorreggere la no-stra dimostrazione: « Siccome noi non crediamo punto che la "vo-lontà del paese" sia una cosa che quasi mai possa manifestarsi sinceramente per mezzo di un'elezione, così non solo non sentiamo alcu-na magnanima ira contro l'intervento sum-mentovato, ma anche, tutto considerato, nel-la maggior parte dei casi incliniamo a trovar-lo utile. Infatti, dato che per ora e per qual-che tempo ancora, dobbiamo essere arbitraria-mente governati da elementi che escono dalle

1. Mosca, Sulla teorica, ài., pp. 231 sgg.

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così dette elezioni popolari, siccome è un fatto per noi certo, che in una elezione la maggio-ranza è sempre, per necessità di cose, comple-tamente passiva, e che la scelta del deputato è imposta da una sparuta minoranza, vai me-glio, secondo noi, che questa imposizione ven-ga dall'autorità centrale che da una cricca lo-cale qualunque, la quale spesso potrà anche essere formata da un pugno di camorristi. Ciò ci pare, se non altro, più dignitoso ». Poco più oltre, lo stesso autore accenna ai mo-di con cui la volontà governativa, per mezzo dei prefetti, riesce a vincere e a sostituirsi alla volontà popolare. « Là » egli scrive' « dove i deputati, creando il Ministero, si riservano il diritto di cambiarlo a lor voglia, il Ministero reagendo, alla sua vol-ta, crea, per mezzo dei Prefetti, una quantità di deputati; i quali, naturalmente, sono inte-ressati a sostenerlo sempre ed a non farlo mai mutare. Il giuoco però si presta ad una quanti-tà di reciproche canzonature, in cui la meglio resta sempre a chi è più furbo. In quanto ai mezzi con cui i prefetti esercitano nelle elezio-ni la loro influenza essi sono varii. Prima di tutto hanno un certo numero di elettori, im-piegati, persone dipendenti, ecc. dei cui voti sono sicuri, ma questi non sogliono essere molti: poi ricorrono all'espediente di venire a trattative con gli elementi che nei singoli paesi s'impongono, cioè nelle società politiche e spe-cialmente coi grandi elettori, ed a questi fanno dare direttamente dal governo quei medesimi

1. Ibid-, p. 297.

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favori che essi ordinariamente ottengono per mezzo dei loro deputati. L'amministrazione provinciale e comunale offre pure molte risor-se. È così che quando i prefetti hanno del tatto e della scaltrezza, riescono spessissimo a riuni-re un numero di voti preponderante sui can-didati raccomandati dal Ministero». Un giornale piemontese aveva, tempo fa, un'in-tervista con « un alto funzionario del Ministero dell'Interno, che ha pure retto l'Amministra-zione di importanti provincie», appunto in-torno all'argomento dell'opera elettorale dei prefetti. Ed ecco che cosa il funzionario di-chiarò: « Il "lavoro" elettorale è quello che special-mente si impone ai prefetti. Dapprima si ado-perano le nomine a sindaco, a presidenti di as-sociazioni, a membri di corporazioni; si fa tut-tavia largo uso ed abuso di onorificenze, di sussidi a corpi morali e perfino ai privati; si in-coraggiano e si favoriscono progetti stradali e di condutture d'acque; si costruiscono caser-me, si allogano e si traslocano truppe; si crea-no o si sussidiano giornali o giornalisti ... - « Non mancano i ribelli; ma allora si tenta

di rimutarne il carattere colle punizioni e coi traslochi, e, quando si rivelino incoercibili, si ricorre alla legge del 1887, e, col pretesto di "svecchiare" l'amministrazione provinciale, si stimolano le ambizioni dei giovani più spre-giudicati. Così abbiamo assistito ad una vera ecatombe di prefetti, colpevoli di null'altro che di essere prossimi ai quarant'anni di servi-zio, per far largo a qualche giovane più intra-prendente e "più abile a far passare la volontà

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del Paese!". Per stimolarne maggiormente i nobili appetiti, come diceva testé con frase ta-gliente 'on. Saracco, non si ebbe neppure ri-guardo di andar contro alle leggi dell'anziani-tà, e quasi tutti i reggenti furono presi dai con-siglieri delegati di seconda classe, con grave demoralizzazione di quelli di prima ».' L'azione, dunque, che il Governo esercita sulle elezioni per mezzo dei Prefetti impedisce af-fatto-alla volontà del paese di farsi valere. E, a questo proposito, amiamo qui riportare l'opi-nione che due acuti osservatori inglesi, Bolton King e Thomas Okey, autori del recente bellis-simo libro Italy to-day, recano intorno all'opera politicamente corruttrice del governo e dei privati, quale si esplica in Italia. « La pressione governativa e la corruzione pri-vata» essi scrivono^ «tocca mostruose propor-zioni. La prima è peggiore nel Sud, la seconda nel Nord. Ma dovunque più o meno, i Prefetti sono impiegati a "preparare" le elezioni, e se un Prefetto ricusa di lavorare per il candidato ministeriale, è sommariamènte rimosso, ovve-ro secondo il più decente costume odierno, è temporaneamente sospeso finché l'elezione sia finita. Tutti i suoi enormi poteri sono adope-rati per assicurare la riuscita del candidato del Governo. Un Prefetto una volta si vantò di po-ter dominare tutte le elezioni nella sua provin-cia, come di poter mandare tutti i suoi sindaci in prigione, se fosse necessario. Nei giorni di

1. «Gazzetta del Popolo», 14 maggio 1901. 2. Bolton King e Thomas Òkey, Italy to-day, Nisbet, London, 1901, pp. 16-19.

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Crispi, essi arrestarono elettori sotto false irti' putazioni alla vigilia delle elezioni e li tennero in custodia finché lo scrutinio fu chiuso. In Si-cilia hanno anche impiegata la "Mafia" per ter-rorizzare gli elettori. « I fogli sono sussidiati coi fondi segreti; agli studenti si impedisce di far propaganda eletto-rale; gli impiegati ferroviari vengono ammo-niti, ovvero, se socialisti influenti, rimossi a luoghi lontani durante le elezioni; i sindaci di-ramano circolari ufficiali raccomandando il candidato ministeriale; le guardie di pubblica sicurezza vengono collocate presso le urne elettorali per cacciar fuori gli elettori dell'op-posizione. Nel recente processo di diffamazio-ne Codronchi-De Felice, un ex ministro di Giu-stizia affermò che la polizia siciliana era una vera "agenzia elettorale". Le liste vengono ac-comodate dai membri dell'Ufficio di. revisione. Si seppe di un professore di lettere che fu can-cellato come illetterato, e a Catania 5000 elet-tori sopra 9000, tra cui professori di università ed avvocati furon depennati in un sol colpo. Due esempi notorii, che fanno quasi il paralle-lo colle elezioni della Galizia, illustreranno co-me il sistema opera in Sicilia. «Nel 1895, mentre Crispi era al potere, era aperta una campagna elettorale ad Alcamo e, nonostante le medicazioni delle liste, Damiani, il candidato ministeriale, aveva poca probabili-tà di successo. Ma un certo Saladino, abitante di quella città, era in prigione sotto l'accusa di assassinio e di falso; e i parecchi amici e le rela-zioni del Saladino erano sufficienti per mutar l'esito dell'elezione. Il generale Mirri, gover-

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natore dell'isola, operando probabilmente die-tro diretti jardini di Crispi, andò ad Alcamo e strinse un patto: Saladino fu rilasciato ed egli assicurò l'elezione di Damiani. "Damiani" scris-se il generale "deve vincere ad ogni costo, per-ché Damiani significa Crispi". Lo scandalo di Alcamo ebbe un degno complemento l'anno scorso. Il collegio di Corleone attirò la speciale attenzione del Prefetto. La polizia fu mandata nei villaggi a minacciare i timidi contadini che, se il candidato ministeriale veniva battuto, essi sarebbero stati arrestati in massa. Ad un'asso-ciazione mafiosa di noti criminali fu data un'in-fornata di licenze di porto di armi, affinché es-si e i loro amici potessero terrorizzare gli elet-tori. Sindaci, maestri, pubblici ufficiali, impie-gati municipali vennero ammoniti di appog-giare il candidato del Prefetto. Manovre come queste si udirono riferire da tutte le parti d'I-talia nelle recenti elezioni e l'apice dello scan-dalo venne raggiunto quando una circolare se-greta ordinò agli impiegati telegrafici di non trasmettere alcun dispaccio relativo alle elezio-ni senza che fosse stato visto dal Prefetto. Non v'è da meravigliarsi che ogni Gabinetto, in una difficoltà, faccia appello al paese sapendo che l'elezione sarà sufficientemente burlesca in un numero bastante di collegi per dargli una mag-gioranza. La corruzione completa 'opera. Essa non consiste soltanto nell'abbondante uso di promesse che il governo accorderà speciali fa-vori alle località: ferrovie locali, fornitura d'ac-qua a sue spese, nuove caserme nel capoluogo, una o due decorazioni per i piìi eminenti so-stenitori. Oltre tutto ciò, vi è un'audace e sfac-

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ciata corruzione da parte del Governo e dei privati. La legge elettorale che punisce con multa e carcere ogni tentativo diretto o indi-retto di corruzione, è lettera morta; e sotto Di Rudinì nel 1892 un magistrato del Veneto che voleva iniziare un processo per un caso di no-toria corruzione, trovò il suo processo impedi-to e fu egli stesso trasferito altrove. I fondi se-greti del Governo sono largamente adibiti a questo scopo. Una delle cause che rovinarono la Banca Romana fu la domanda di prestiti fatta successivamente da parecchi presidenti del Consiglio dei ministri, i quali volevano au-mentare il loro fondo elettorale. Si crede che Pelloux avesse da parte un miliardo per occor-' renze elettorali; e si dice che nel 1892 in un so-lo collegio siano state spese 200.000 lire. Nelle elezioni del 1900 la corruzione sembra essere stata predominante così al Nord come al Sud. Si seppe che a Catania furono pagate lire 20 per un voto, a Corteolona in Piemonte furono pagate da lire 5 a 25; ad Intra il prezzo cadde a sei soldi. Occasionalmente una elezione viene annullata per "larga filantropia" alla vigilia di un'elezione, o per "corruzione di quasi tutto il collegio". Ma, di regola, tutto ciò può essere fatto impunemente e anche quando la Giunta delle elezioni ha proposto che un'elezione sia annullata per corruzione, la Camera ha alcune volte rifiutato di ciò fare ». Nessun quadro dei mezzi coi quali si conculca la volontà popolare nelle elezioni, cioè nel pic-colissimo spiraglio traverso al quale il governo parlamentare le permette di mostrarsi, po-trebbe essere piìi completo di quello che trac-

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ciano questi due stranieri e imparziali osserva-tori della nostra vita politica. Eppure vi sono ancora molti « bevitori di frasi » che hanno una fede illimitata nell'efficacia della ischeda elettorale. Costoro ch^, pur sapendo come attraverso l'a-zione di corruzione e di intimidazione eserci-tata dal Governo « passi la volontà del paese », hanno graA fede nella scheda elettoralè, sem-bra non si fendano un conto concreto e preci-so della potenza di quell'azione. Il fatto che in alcune grandi città l'aizione spiegata, nel senso ora descritto, dal Ministero non riesce a far presa, li fa dimenticare come l'azione medesi-ma sia onnipotente nella maggior parte dei collegi elettorali meno in vista. Qualche appa-riscente e clamorosa vittoria della volontà po-polare nei grandi centri li fa trascurare le sconfitte che la stessa corrente di opinione pubblica, sotto quella azione, subisce in moltis-simi altri luoghi, pur costituendo anche qui la maggioranza. Nelle piccole città di provincia, nei collegi ru-rali, l'azione spiegata dal Ministero nel senso sopradetto, è onnipotente; per cui si può dire che, nel complesso di un paese, un Governo è normalmente certo, usando i potenti mezzi di pressione e di corruzione che stanno in suo potere, di impedire assolutamente il libero corso della volontà del paese - almeno fino a che questa volontà non assuma una forza tale che avrebbe fatto piegare anche un Governo assoluto. Avviene quindi che i pochi ma clamorosi suc-cessi della corrente d'opinione pubblica pre-116

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dominante nei centri più in vista, mentre gio-vano a confermare, per l'impressione che de-stano, l'illusione che la sovranità del popolo possa essere, in regime parlamentare, una realtà, in fatto non approdano a nulla, poiché sono più che compensati dal conculcamento che il Governo riesce a fare di quella medesi-ma corrente d'opinione pubblica negli altri collegi meno in vista. Per cui, complessiva-mente si ha il fenomeno che una corrente d'o-pinione pubblica non riesce mai a prevalere di fatto: sia perché non giunge mai a vincere l'a-zione opposta del Governo, contemporanea-mente, nella maggioranza dei collegi elettora-li; sia perché la sua progressiva conquista dei collegi, trovandosi di contro la potentissima azione governativa, è tanto lenta, che mentre gli uni vengono conquistati, gli altri vengono perduti, ovvero, quando, per caso impossibile, ne sia conquistata la maggioranza, è ormai passato tanto tempo dacché quella corrente d'opinione pubblica s'è formata che è venuta meno in gran parte la sua ragione d'essere o la possibilità pratica del suo trionfo. Spieghiamoci con un esempio. Supponiamo che esista in un paese una corrente d'opinione jubblica contraria al rinnovamento di un'al-eanza, o ad un'impresa di politica coloniale, o all'esercizio privato di una rete ferroviaria. Supponiamo che questa corrente d'opinione pubblica costituisca la reale maggioranza del paese; ma che il Governo le sia contrario. Avvengono le elezioni: quella determinata o-pinione riuscirà ad avere il sopravvento in qualche collegio; ma sotto l'azione delle corru-

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zioni o intimidazioni governative, soccomberà nella maggior parte. È bensì vero che è possibile che mediante costanti e immani sforzi quel-l'opinione conquisti a poco a poco la maggio-ranza dei collegi; ma perché ciò avvenga, e perché essa possa far valere in concreto la sua conquista con nuove campagne elettorali, oc-corrono diecine di anni. E intanto il Governo forte della maggioranza raccolta nelle prime battaglie - maggioranza non rispecchiante la volontà del paese ~ avrà rinnovato l'alleanza, compiuta l'impresa coloniale, concessa la rete ferroviaria ad esercizio privato. E cosa fatta ca-po ha. La situazione politica cangia di momento in momento. E questa impossibilità della volontà del paese di affermarsi immediatamente nel momento opportuno, equivale nel fatto all'im-possibilità di affermarsi. Per impedire l'affer-mazione pratica basta che il Governo riesca - e gli è facilissimo — a prorogarne la completa manifestazione. Quando questa manifestazio-ne completa, dopo lunghissimi sforzi, può av-verarsi, sono passate le condizioni che la ren-devano efficace. La volontà popolare si trova, adunque nel regime parlamentare, da questo punto di vista, press'a poco nella condizione di Tantalo. Stanno dinanzi ad essa apparente-mente in abbondanza i mezzi atti a darle l'illu-sione di potersi fare efficacemente valere; ma quando essa è lì per appressare all'acqua le labbra riarse dalla unga sete o per afferrare le frutta con le mani già stanche dalla lunga ten-sione, l'acqua e le frutta si sono già per sempre allontanate da lei. 118

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Considerando le cose positivamente, adunque, bisogna concludere che l'affermazione del-la volontà popolare, nel governo parlamenta-re, mediante il sistema elettorale, che sembra fatto apposta per fornire i mezzi normali a questa affermazione, incontra ostacoli insor-montabili. E ciò tanto più quando si rifletta che il potere esecutivo ha a sua disposizione un'arma micidialissima onde stancheggiare ogni sforzo del popolo per affermare la sua volontà, e prostrarlo alla fine: quella dello scio-glimento della Camera. Una qualunque tendenza popolare anti-gover-nativa impegna mediante e elezioni una batta-glia col Governo. Ora, la facoltà di sciogliere la Camera è paragonabile a quella che avesse uno solo di due lottatori - per giunta più forte del rivale - di non dichiararsi mai vinto, ma di far ripetere incessantemente la prova della lot-ta, scegliendo lui il terreno ed il momento. E evidente che a questa stregua le probabilità di vittoria del primo lottatore aumentano a di-smisura, anzi si trasformano praticamente in certezza. La facoltà di sciogliere la Camera concessa al Governo, lo pone, dunque, esatta-mente nelle condizioni del primo lottatore, e gli accorda la certezza di potere, quando il bi-sogno se ne presenti, aumentare indefinita-mente a sé le probabilità di vittoria. Le pressioni e le corruzioni governative, e quelle che esercitano i privati, siano essi gli stessi candidati, o siano i grandi elettori di questi, interessati a procurare il trionfo del lo-ro partito, danno origine alle critiche contro il sistema parlamentare aventi tratto alla impos-

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sibilità che si esplichi la volontà popolare, me-diante il sistema elettorale, in presenza delle disuguaglianze economiche esistenti nella so-cietà. Tale critica è già stata fatta da uno scrittore italiano, ingiustamente dimenticato, il quale ha avuto delle intuizioni e dei precorrimenti meravigliosi. Essa Forma anzi tutta la sostanza del pensiero politico di Carlo Pisacane. « Pas-siamo al suffragio universale » egli scriveva già fin dal 1850' « amara derisione del popolo mi-nuto. L'operaio, il contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario vengono da questi minacciati nella fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come di una derrata». Questa verità è stata avvertita, dappoi, da mol-ti altri pensatori, tutt'altro che rivoluzionari. «E impossibile» scrive il Mosca^ «che leggi ed istituzioni che garantiscono la giustizia ed i di-ritti dei deboli, siano efficaci, quando la ric-chezza è così distribuita, che di fronte ad un piccolo numero di persone, che possiedono le terre ed i capitali, vi è una moltitudine di pro-letari, che non hanno altra risorsa che le pro-prie braccia ed hanno bisogno dei ricchi per non morire di fame dall'oggi al domani. In questa condizione di cose a massima che la legge è uguale per tutti, la proclamazione dei diritti dell'uomo e il suffragio universale non sono che ironie». Però, come dimostreremo più innanzi, la cor-

1. Carlo Pisacane, Saggio sulla rivoluzione. Agnelli, Mila-no, 1860, p. 37. 2. Mosca, Elementi, cit., p. 152.

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ruziòne perde la più gran parte della sua efficacia nei governi a democrazia diretta, per-ciocché in tali governi essa non riesce mai a soffocare e a pervertire la volontà politica del popolo. Vi sono, finalmente le circostanze che impedi-scono la netta esplicazione della volontà popo-lare mediante le elezioni, perché concorrono a deviarla e a confonderla. Queste circostanze sono l'opera del candidato, della stampa e dei comitati politici che lo so-stengono, ed hanno la loro radice nel fatto che il candidato non si presenta agli elettori con la proposta pura e semplice di assumere un mandato politico; ma questa proposta ^ffaccia circonfusa i e molte volte quasi soffocata da promesse di carattere economico, amministra-tivo o privato. Un candidato, per esempio, promette agli elet-tori di un collegio di votare per la costruzione di una strada, di una ferrovia, o simili. Allora avviene che la massa degh elettori, la quale si occupa tiepidamente di politica ed ha più a cuore gli interessi economici, dà il voto al can-didato: non in considerazione delle sue opi-nioni politiche, ma in considerazione delle promesse di carattere economico, amministra-tivo, ecc., fatte dal candidato medesimo. Que-sti, sopra le più importanti questioni pubbli-che potrà recare un voto diverso da quello che i suoi elettori, se interpellati circa alle questio-ni medesime, avrebbero desiderato. Potrà vo-tare un aumento di spese militari, o un'impre-sa coloniale, e, di conseguenza, un aumento di imposte, tutte cose sommamente ostiche ai

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suoi elettori. Questi non gli avranno meno da-to il voto, senza preoccuparsi di queste faccen-de vaghe e lontane, e preoccupati invece delle faccende precise e prossime, cioè, per esem-pio, della loro strada e della loro ferrovia. E non saranno meno contenti di avergli dato il suffragio se avranno ottenuto la loro strada e la loro ferrovia, quand'anche il voto emesso dal deputato sulle grandi questioni politiche sia in contraddizione con quanto, interrogati su quelle, sarebbe stato il loro pensiero. Chiunque ha qualche pratica con quanto av-viene nella massima parte dei collegi (tranne alcuni delle grandi città) sa che questa è la ve-rità. E per accertarsene basta seguire ciò che dice la stampa quando vuole fare la réclame ad un deputato uscente. La sua condotta poli-tica è relegata quasi completamente nell'om-bra. La stampa amica se ne occupa appena, ben sapendo che questo è l'argomento che fa minor presa. Essa insiste invece sopratutto sul-le benemerenze acquistatesi dal deputato nel procurare favori o vantaggi concreti al col-legio che deve nominarlo. E in nome quasi esclusivamente di questi ne domanda la riele-zione. Il fatto, adunque, che nel sistema parlamenta-re, la volontà politica del popolo deve esplicar-si attraverso un mandatario, e che questo mandatario non è un puro ed astratto mecca-nismo di trasmissione della volontà politica popolare, ma un uomo che fa delle promesse e può procurare dei vantaggi di genere econo-mico, ecc., questo fatto, porta alla conseguen-za che la volontà politica dei cittadini si trova 122

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automaticamente sviata e confusa, e che, lo stesso mezzo creato perché essa possa farsi va-lere, offre la possibilità di indurla a non preoc-cuparsi neppure di farsi nettamente valere. • Come quindi (secondo quanto abbiamo visto nel capitolo precedente) gli attuali governi hanno raggiunto, mediante la coscrizione, il paradossale risultato di far difendere i privile-gi sociali da coloro stessi contro cui i privilegi sono creati; così il sistema parlamentare ha raggiunto questo risultato ancor più parados-sale di condurre i cittadini ad usare del mezzo dato loro per esplicare la propria volontà poli-tica - cioè dell'elettorato - precisamente con-tro la propria volontà politica medesima.

Viziato così profondamente alla radice, il go-verno parlamentare non lo è meno, dal punto di vista della espressione della volontà popo-lare, nel suo ordinario funzionamento. Max Nordau fa a questo proposito delle osservazio-ni acute e piene di verità. « Tutte le funzioni essenziali del Parlamento » egli scrive' « sono esercitate unicamente da ca-pi-partito. Sono essi che decidono, che lottano, che trionfano. Le sedute pubbliche sono rap-presentazioni senza importanza; si fanno dei discorsi per non lasciar scomparire la finzione del parlamentarismo. Ma avviene rarissima-mente che un discorso conduca ad una impor-tante risoluzione parlamentare. I discorsi ser-vono a dare all'oratore notorietà e potenza,

1. Nordau, op. cit, pp. 208 sgg.

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partito, dei loro consiglieri e dei loro accoliti... In teoria, i deputati non devono avere davanti agli occhi che il bene della nazione; in fatto, essi pensano innanzi tutto ai loro propri inte-ressi e a quelli dei loro amici ... « Il semplice cittadino non ha nemmeno una briciola del diritto di sovranità del popolo di cui il parlamentarismo è la sanzione. Il mio povero Giovanni, deve obbedire, pagar le tas-se, rompersi i gomiti contro mille barriere as-surde, precisamente come prima. Il parlamen-tarismo, con tutto il suo tumulto e le sue agita-zioni, non diventa sensibile per lui, che quan-do, il giorno del voto, egli affatica le sue gam-be per recarsi all'urna, o quando constata nel suo giornale l'invasione dei resoconti parla-mentari d'ordinario noiosi, a detrimento di al-tre materie più ricreative». Questa analisi non è affatto esagerata. L'ora-mai vecchia osservazione che il cittadino non è, nel governo parlamentare, sovrano che un momento solo, cioè in quello del voto, che to-sto dato il suffragio, perde ogni sua sovranità, apparirà (a parte il fatto che, come abbiamo dimostrato, il cittadino non è sovrano neppure nel momento del voto) di piena evidenza a chiunque voglia riflettere alquanto. Come os-serva esattissimamente Max Nordau, la volon-tà popolare non ha modo di esercitarsi me-diante il Parlamento, cioè mediante quello stromento che passa per essere creato apposta per l'esercizio di quella volontà, se non in casi eccezionali, nelle questioni cioè che sono ecce-zionalmente semp ici e che nello stesso tempo, per qualche circostanza raramente occorrente,

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sono state poste molto in vista dinanzi al pub-blico ed hanno grandemente attirata l'atten-zione di questo. Cioè negli stessi casi in cui la volontà popolare trovava modo di farsi valere anche nei regimi assoluti. Ma tranne questi casi, la volontà popolare non ha nessun tramite per poter penetrare nelle aule parlamentari. I cittadini vedono (spesso molto tempo dopo che il fatto è avvenuto) che sono loro cascati addosso leggi, regolamenti, discipline e provvedimenti d'ogni sorta, che essi non hanno mai pensato a volere, non solo, ma che, se interrogati intorno a quelli, si sa-rebbero affrettati a respingere. Per la grande maggioranza del popolo, che non si occupa « ex professo » di egislazione, le leggi penali, civili, finanziarie o amministrative, colle quali qualche avvenimento della vita o qualche affa-re la porti in contatto, sono molto spesso causa di meraviglia, e oggetto d'imprecazione — tan-to poco il popolo ha voluto quelle leggi, tanto poco le ha approvate. E di questo fatto che le assemblee rappresenta-tive nella loro attività legislativa raramente ri-spondono al volere della comunità, abbiamo la prova nella circostanza (che illustreremo più avanti) che nei paesi dove esiste il «referendum», molti provvedimenti presi a grande maggio-ranza, e anche all'unanimità, da quelle assem-blee, sono respinti dal popolo sotto valanghe di voti contrari. Ma nei regimi puramente parlamentari, la combinazione di queste due circostanze, che la funzione legislativa è intieramente delegata ai Parlamenti, e che la grande maggioranza del 126

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popolo non può pronunciarsi previamente in modo esplicito e forte su tutti i provvedimenti che si tratta di prendere, per il lungo tempo e le difficoltà quasi insormontabili che richiede-rebbe e incontrerebbe il provocare questa pro-nunciazione; la combinazione di queste due circostanze fa sì che la volontà popolare non ha praticamente nessuna influenza sull'opera ordinaria - la quale pure è quella che esercita l'azione più continua e profonda nella vita dei cittadini — delle assemblee legislative; e che quest'opera procede, in realtà, assolutamente indipendente dall'impulso e dal controllo del-la volontà popolare. Perciò avviene che, non avendo né potendo avere, quasi mai, come regolatore dei loro atti, la volontà popolare, i così detti rappresentanti del popolo prendano come regolatori della lo-ro condotta quei canoni della schermaglia par-lamentare, accennati dal Max Nordau, i quali finiscono per diventare soli (specialmente do-ve esistono due partiti ben distinti) il codice morale a stregua del quale si giudica della con-dotta politica di un deputato. Di sotto al denso velo di questa schermaglia, che . occupa appariscentemente la scena politi-ca; di sotto a tutti i disegni legislativi che sono alle mille miglia dall'aver il loro germe nel de-siderio del popolo, ma che lo hanno soltanto, il più delle volte, nel cervello di un deputato che vuol mettersi in vista, o nelle aspirazioni di un gruppo che vuole dar la scalata al potere, o simili; e che da questa origine prendono le mosse per poi diventar, molte volte, effettiva-

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mente legge, ed esercitare la loro influenza sui cittadini tutti; di sotto a tutto ciò, la volontà popolare sparisce completamente, e, quanto più se ne parla, tanto piti diventa una vera e propria quantità trascurabile.

Ma non basta. La volontà popolare non può estrinsecarsi nelle elezioni, non può esplicarsi mediante il Parlamento. Ma anche quella scar-sissima estrinsecazione che le sarebbe possibile nell'Assemblea legislativa, le è tolta dal caratte-re speciale che è venuto dovunque assumendo il governo di Gabinetto. È a dubitarsi se sia stata mai vera, e se sia ap-plicabile, e se sia veramente e praticamente utile, la famosa distinzione dei tre poteri: legi-slativo, esecutivo e giudiziario, messa alla mo-da da Montesquieu. Ma il fatto è che, negli odierni governi parlamentari, quella distinzio-ne è quasi del tutto soppressa e i criteri su cui essa si asside sono quasi completamente rove-sciati. Il potere legislativo viene largamente esercitato da quell'organo che si dice rappresentare il po-tere esecutivo: dal Gabinetto. È il Gabinetto che prende l'iniziativa di fare le leggi, che le redige, che le fa votare. E, in concreto, si può dire che quasi tutte le leggi volute dal potere esecutivo vengono adottate, e, per converso, che nessuna legge viene adottata che non sia voluta da quel potere. Su questo argomento il Sumner Maine ha qualche pagina assai profonda. 128

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« Mentre la Camera dei Comuni » egli scrive' « assume il controllo di tutto il potere esecuti-vo, essa scarica sul governo esecutivo la parte più importante del lavoro legislativo. Poiché è nel seno stesso del Gabinetto che incomincia l'opera effettiva della legislazione. I ministri, appena riposati dalle fatiche, oggidì assai se-rie, di una sessione che dura fin quasi al prin-cipio di settembre, si riuniscono in consiglio di Gabinetto al mese di novembre, e, nel corso di alcune sedute, che durano appena oltre una quindicina, determinano le proposte, abboz-zate al più con un semplice accenno, da sotto-mettersi al Parlamento. Queste proposte - lo si crederà agevolmente - sono in seguito conse-gnate a un apposito redattore legislativo del governo. Ora, in ogni legislazione, il lavoro consiste, per una parte così grande, nelle ma-nipolazioni di particolari e nell'adattamento alle leggi preesistenti di innovazioni di cui l'i-dea madre è più o meno vaga, sicché noi pro-babilmente non ci inganniamo molto attri-buendo i quattro quinti di ciascun testo legisla-tivo al consumato giurista incaricato di dare forma presentabile ai "bills" del governo. Se-condo il numero delle misure che escono dalle sue mani, si fabbrica il programma dei "bills" che è annunziato nel discorso della regina; e, a questo momento, la legislazione inglese fa la sua entrata sopra un'altra scena ». Adunque, il Parlamento, l'organo che dovreb-be essere il veicolo della volontà popolare, ed esplicarne la sovranità precisamente sul cam-

1. Sumner Maine, op. cit, pp. 330 sgg.

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po legislativo, viene, regolarmente, su questo campo, spossessato dal Gabinetto, ed anzi, in ultima analisi, da un impiegato qualunque, che è in Inghilterra il redattore legislativo del governo, come potrebbe essere in Italia un ca-po-divisione o un alto funzionario del ministe-ro nella cui sfera d'azione si tratta di legifera-re; e, a questo punto, quale lanterna di Dioge-ne potrebbe ancora scoprire traccia della vo-lontà popolare nella normale produzione legi-slativa dei governi parlamentari? E ciò tanto più in quanto che il Gabinetto ha un'arma potentissima con cui determinare il trionfo delle misure da esso, e meglio dall'im-jiegato incaricato, proposte: la questione di ìducia, e la minaccia di crisi. « Ogni "bill" » scrive il Maine' « introdotto al Parlamento dal ministero - e noi abbiamo vi-sto che tutti i "bills" importanti si introducono sotto quésto patronato - deve traversare la Ca-mera dei Comuni senza modificazioni sostan-ziali, altrimenti i ministri danno le dimissioni, e possono derivarne le conseguenze più gravi fino nelle parti più lontane di un impero che si estende ai confini della terra. Quindi bisogna aprire per forza al "bill" del governo un pas-saggio attraverso alla Camera dei Comuni, portandovi tutto il vigore che presta al partito una disciplina severa; e la legge deve uscirne conservando quasi esattamente la forma che le avea dato il potere esecutivo ». In pratica, quindi, il Gabinetto può costringe-re la maggioranza, ossia il Parlamento, ossia il

1. Loc. cit.

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popolo tutto, a subire le misure legislative da esso proposte. A parte qualche diversità di grado la verità espressa dal Maine è tale non solo in Inghilterra, ma in tutti i paesi retti a si-stema parlamentare. Dovunque la maggioran-za, o una frazione della maggioranza sarà co-stretta ad accettare misure proposte dal Gabi-netto, e che essa disapprova, per paura di pre-cipitare il paese in una crisi ministeriale e di spingere al potere gli avversari politici. Ne abbiamo avuto un esempio, recente e lim-pido, in Francia. Il ministero Waldeck-Rous-seau, che era sorto col programma della difesa repubblicana contro il monarchismo e il cleri-calismo, e che, in omaggio a questo program-ma, aveva condotto in porto la legge sulle Congregazioni, propose poi che venissero in-dennizzate dallo Stato le società religiose fran-cesi esistenti in Cina, per i danni da esse subiti durante la rivoluzione dei « boxers » ; venendo così a riconoscere l'esistenza legale di quelle stesse associazioni che rifiutavano, in Francia, di chiedere rautorizzazione dello Stato e i cui beni in conseguenza venivano liquidati. L'E-strema Sinistra, sostenitrice del ministero, pro-testò per bocca di molti suoi membri contro tale incoerenza. Ma non pochi deputati di E-strema si videro, all'atto pratico, costretti a da-re un voto contro le loro convinzioni e contro la volontà degli elettori che li avevan mandati in Parlamento, e ad appoggiare il ministero anche in questa questione per paura ch'es-so rimanesse in minoranza, e salissero quindi al potere Méline e i suoi seguaci. «Waldeck-

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Rousseau » scriveva in tale occasione Pressen-cé suir« Aurore »' « sa oggi che non vi sono li-miti alla docilità del suo gregge. Sa che gli ba-sterà agitare lo spettro di una crisi ministeriale per far accettare ai più feroci adepti dell'anti-clericalismo una politica straniera il cui con-fessionalismo sembra più degno della Repub-blica dell'Equatore che della Repubblica figlia deir89 ... Periscano tutti i principii piuttosto che un solo capello dei nostri ministri di difesa repubblicana sia in pericolo! Tale è la morale di questo episodio». Ei in fondo, contingenze analoghe a questa so-no la storia di tutti i giorni nel sistema parla-mentare. La contesa che, in questi ultimi tem-pi, ha scisso, in Italia, i socialisti e i repubblica-ni e i socialisti fra di loro, non ha forse per ori-gine il medesimo spauracchio d'una crisi, il ti-

1. «Aurore», 30 novembre 1901. II fenomeno di cui ci occupiamo veniva messo in rilievo dall'avvocato ^bori in uno dei suoi recenti articoli sull'affare Dreyfus. « Nel Par-lamento» egli scrisse sul «Journal» dell'Il dicembre 1901 «nessun gruppo vota per far riuscire una riforma, per applicare-un principio o assicurare il trionfo d'una determinata politica. Le questioni di persone, non soltan-to dominano, ma occupano un posto quasi esclusivo. Si vota per sostenere un ministero, e si proclama audace-mente che si voterà, a tale scopo, contro le pròprie più es-senziali opinioni». Citeremo ancóra la «Lanterne» che ri 1 dicembre del 1901, a proposito del bilancio dei culti, la cui abolizione si discuteva allora alla Camera francese, scriveva: « Per parte nostra ci augureremmo che la di-scussione venisse condotta, di comune accordo, con tutta rettitudine, senza che la sempiterna questione di fiducia tornasse una volta di più a pesare sulla coscienza e a mo-dificare il carattere dello scrutinio».

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more di veder risorgere un governo d'aperta reazione, questo vizio profondo del sistema parlamentare in forza di cui alcuni deputati dei partiti popolari credettero opportuno fare dichiarazioni di ministerialismo? La possibilità da parte del Ministero di porre questioni di fiducia, di minacciare una crisi, e da parte della Camera di produrla col dare un voto contrario al governo, è, quindi, quella che finisce per impedire che la volontà popo-lare abbia solo una ombra di influenza norma-le e diretta nel meccanismo del governo parla-mentare.

Quando, adunque, si rifletta a tutto quel com-plesso di circostanze che abbiamo enumerato in questo capitolo e nel precedente, non si po-trà sfuggire alla conclusione che noi viviamo sotto l'impero di un grande pregiudizio: il pregiudizio della scheda. Si proclama comu-nemente, su pei giornali, che la scheda eletto-rale è l'arma con cui il popolo può riuscire a governarsi da sé; ma è questa una grande illu-sione. In realtà, anche col regime parlamenta-re, cioè col regime della scheda, il popolo non è che governato, e sulla sua volontà piovono dall'alto ogni sorta di restrizioni e di prescri-zioni, senza che esso vi abbia avuto mano, sen-za che neppure abbia avuto modo di saperlo, tale e quale come accadeva nelle monarchie as-solute. « Quel che avviene colle altre forme di governo» scrive il Mosca' «che cioè la mino-

1. Mosca, cit., p. 166.

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ranza organizzata domina la maggioranza di-sorganizzata, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo ».

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VI LA DEMOCRAZIA DIRETTA

Abbiamo visto come le acute ricerche di Gae-tano Mosca lo abbiano condotto alla teoria del-la «classe politica», la quale distrugge la di-stinzione comunemente accettata tra le forme di governo. Tutte le forme di governo, infatti - secondo l'autore citato - siano esse monar-chie assolute o regimi rappresentativi, hanno questo sostanziale punto di identità: che non è mai la massa, il popolo, la comunità che gover-na, bensì una piccola classe la quale costituisce da sola la categoria dei governanti, mentre la massa forma la categoria dei governati. Perfino nella cosdtuzione della «classe politi-ca » vi è una quasi identità tra gli assetti politici che si pretendono profondamente distinti: im-perocché, tanto nelle monarchie assolute co-me nei presenti regimi rappresentativi, gli ele-menti che concorrono a formare questa classe politica sono, principalmente, la nascita e la ricchezza.' Questa teoria (la quale ha qualche analogia con quella dei trattatisti tedeschi che hanno voluto tracciare una netta distinzione tra lo Stato e la Società, cioè appunto, tra l'appara-to governativo e l'elemento governato) questa teoria è vera, abbiamo detto, fino ad un certo

1. Si veda sopra, pp. 25 sgg.

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punto: e cioè fino ed inclusivamente alla com-parsa dei sistemi puramente parlamentari. Ma essa non è più vera di fronte ai nuovi sviluppi che la democrazia ha preso nei paesi più pro-grediti e che possiamo definire col nome di « democrazia diretta ». I governi a democrazia diretta sono riusciti a distruggere l'esistenza della «classe politica», che i regimi puramente parlamentari hanno rispettata. Nei primi, la funzione governativa, la forza politica estrinsecantesi effettivamente e normalmente nella direzione della cosa pub-blica, non è più racchiusa in una classe, ma è diffusa in tutto il popolo. Per la prima volta, dopo la scomparsa delle grandi monarchie con-tro le quali si levò tante volte con impeto rivo-luzionario il popolo nell'intento di rivendicare la propria sovranità, per la prima volta, questa sovranità viene effettivamente raggiunta. I governi a democrazia diretta hanno dunque, per noi, un'importanza assai maggiore di quel-la che sembrano darvi i trattatisti politici. Co-storo, generalmente, non sembrano conside-rare quei governi se non come una varietà, una sottoclasse dei governi rappresentativi; ed essi (come per esempio il Laveleye) compren-dono tanto le monarchie costituzionali quanto i regimi a democrazia diretta nella stessa cate-goria di governi della democrazia. Per noi in-vece, i governi a democrazia diretta, come quelli che per primi riuscirono a sradicare l'e-sistenza della « classe politica » e a diffondere la funzione governativa in tutto il popolo, rap-presentano una formazione politica assoluta-mente nuova, e così veramente diversa da tut-

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te le formazioni anteriori (governi parlamen-tari e monarchie assolute) quanto dai piìi, er-roneamente, si considerano diversi i regimi rappresentativi dalle antiche monarchie. Solo le organizzazioni a democrazia diretta realiz-zano veramente, nell'assetto politico dei popo-li, il « novus ordo ». Noi ci faremo ora a dilucidare questi concetti, e a dimostrare come la democrazia diretta rap-presenti in realtà quell'ordinamento essenzial-mente nuovo rispetto a tutte le altre forme di governo che invano si vuol riscontrare nei re-gimi parlamentari rispetto alle monarchie as-solute. I punti che segnano le sostanziali differenze tra i governi a democrazia diretta e i governi puramente parlamentari sono, principalmen-te, i seguenti: 1) Eleggibilità e periodicità di tutti gli uffici pubblici; 2) Elezione dei rappresentanti della nazione per un termine fisso, avanti la scadenza del quale la Camera non può essere sciolta; 3) Inammissibilità della posizione di questioni di fiducia, nel senso parlamentare, da parte dei ministri; e quindi inammissibilità del a lo-ro dimissione dinanzi a un voto contrario della Camera; 4) Applicazione del «referendum», del dirit-to di iniziativa, del diritto di revisione. Noi ci siamo proposti di trattar qui la questio-ne dal solo punto di vista della sovranità popo-lare; e dovremmo, per tanto, limitarci a mo-strare come il volere della comunità, mentre non ha modo di esercitarsi col sistema pura-

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mente parlamentare, lo acquisti con l'introdu-zione dei principii ora enumerati che costitui-scono il governo a democrazia diretta. Ma non possiamo non accennare che l'applica-zione di questi principii, oltreché permettere quel pieno e normale esercizio della volontà popolare, che il sistema puramente parlamen-tare non concede, toglie anche la maggior par-te di quegli inconvenienti su cui i partiti con-servatori di tutti i paesi si compiacciono di insi-stere con lo scopo di screditare i governi rap-presentativi diminuendo la fiducia per la parte che ha in essi l'elemento popolare, e aumen-tandola per la parte che vi ha l'elemento regio e burocratico. Il principale di questi inconvenienti è, sen-za dubbio, l'instabilità del governo, cagionata dalle crisi ministeriali. Nei sistemi puramente parlamentari il governo può essere abbattuto, quando che sia, mediante un voto di sfiducia; e a sostituirlo possono essere chiamati ad ogni momento coloro che questo voto di sfiducia hanno provocato e diretto. Sembra un mecca-nismo costruito apposta per togliere ogni sta-bilità al governo, per eccitare le cupide ambi-zioni dei membri delle Camere, per dare il mi-nistero in piena balìa dell'assemblea, e, meglio, delle impazienze, delle vanità, della brama di potere dei membri di questa. Se noi non fossi-mo abituati a veder funzionare questo sistema e ce lo descrivessero come esistente in un altro pianeta, esso ci sembrerebbe completamente assurdo e ridicolo. Ma questo assurdo e questo inconveniente scompaiono negli Stati a democrazia diretta. 138

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In questi il governo viene nominato (sia diret-tamente dal popolo, sia dall'Assemblea dei rappresentanti di questo) per un periodo de-terminato. Nessun voto contrario dell'Assem-blea può abbatterlo, e costringerlo a ritirarsi prima della scadenza del suo periodo di nomi-na; anzi, ciò è vietato, se non dalla legge, da una consuetudine non mai infranta. Se una proposta del governo ha il voto contrario della Camera, la proposta cade ma il governo resta al posto; concetto questo pienamente pratico e assolutamente democratico, perché, in demo-crazia, il governo non deve essere se non l'am-ministratore secondo i voleri del popolo, e agi-re quindi conformemente a quanto il popolo stesso, o coloro che sono presunti esprimerne la volontà legislativa gli indicano. La democrazia diretta sopprime in tal modo il grave inconveniente delle crisi ministeriali; e non è poco, se si consideri che in questa possi-bilità delle crisi provocate dai voti della Came-ra ha radice principale la corruzione parla-mentare e l'ingerenza dei deputati nell'ammi-nistrazione. Imperocché i ministri sono obbli-gati a concedere favori d'ogni specie ai depu-tati, e a permettere, a favorire anzi, la loro in-gerenza nell'amministrazione, quando devono calcolare sui loro voti per mantenersi al pote-re, e quando sanno che un loro voto contrario può abbatterli. Un altro gravissimo inconveniente imputato giustamente ai governi parlamentari è quello della servilità dei deputati verso il governo. Nel sistema parlamentare, se il governo ha in-teresse ad essere servile verso i deputati, alla

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loro volta questi hanno interesse ad essere ser-vili verso il governo, sia per evitare lo sciogli-mento della Camera che li obbliga al lavoro di riconquistare il collegio, sia per assicurarsi, una volta la Camera sciolta, l'appoggio eletto-rale del Governo, che abbiamo veduto come e per quanti mezzi sia potente. Da questo doppio ordine di servilità derivano tutti quei giuochi e quelle sterili combinazioni 5arlamentari (la politica di corridoio, il «lob->ying ») che, per confessione universale, allon-tanano e straniano l'ambiente parlamentare dalla coscienza del paese, o, in altri termini, scavano un abisso tra la volontà del popolo e la condotta dei suoi rappresentanti. Ma il fatto che nei governi a democrazia diret-ta la Camera viene eletta per un periodo de-terminato e non può essere sciolta dal ministe-ro prima del termine di quel periodo, elimina del tutto anche questo secondo inconveniente. I deputati sono affatto indipendenti di fronte al governo, come questo lo è di fronte ai depu-tati, per quanto ha tratto all'esistenza politica. La minaccia di una crisi ministeriale, il perico-lo di provocare una perturbazione negli affari pubblici, lo stesso timore che un partito debba abbandonare il timone dello Stato, non hanno più presa sulle deliberazioni dei deputati, e non i possono più determinare a emettere vo-ti contrariamente alle loro convinzioni, e a quelle degli elettori che rappresentano. Non avviene più così che i deputati debbano, per usare una frase diventata di moda, « ingoiare dei rospi», e che (come è accaduto recente-mente in Italia) i deputati dell'Estrema Sini-

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stra debbano sostenere coi loro voti un mini-stero che segue una politica militare ed estera assolutamente contraria ai postulati radicali, unicamente pel timore di far cadere il potere in mano di un Gabinetto ancora più reaziona-rio. L'eliminazione di questi due inconvenienti, per opera della democrazia diretta, semplifica, moralizza, rende più trasparente e regolare l'intero andamento del governo. Le congiure di corridoio, che tengono tanta parte nel siste-ma puramente parlamentare, non hanno più ragione di essere, perché l'esito di un voto non può né abbattere né salvare il governo. I favo-ritismi, le corruzioni, l'ingerenza dei deputa-ti nell'amministrazione pubblica perdono per gran parte il loro motivo. Finalmente osserveremo che l'eleggibilità e la periodicità della carica di capo dello Stato per-mette quel rafforzamento del potere esecutivo che è tra i desideri più vivi dei conservatori. È verissimo che il Presidente americano esercita, apertamente, maggiore potere di quello che si vegga esercitare da un re costituzionale. Ma ciò può avvenire per la ragione semplicissima che egli è nominato dal popolo e che il suo po-tere è di breve durata; cosicché se la tendenza spiegata dal Presidente al governo è contraria alla volontà della maggioranza del popolo, egli non viene più chiamato all'ufficio. Ciò spiega appunto il successo del diritto di « ve-to » praticato dal Presidente americano, men-tre è, attualmente, caduto in disuso nelle mo-narchie costituzionali europee. Quel successo

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(come osserva il Bryce),' si spiega, cioè col fat-to che «il Presidente, essendo un magistrato elettivo e non ereditario, è responsabile da-vanti al popolo ». E lo stesso autore fa ancora, a questo proposi-to, le seguenti importanti osservazioni: « Si credeva, un tempo, che la forza dei mo-narchi ereditari consistesse in ciò che essi trae-vano il loro potere da sé stessi e non dal popo-lo. Un presidente è potente per la ragione esat-tamente opposta, perché i suoi diritti gli ven-gono direttamente dal popolo ... Oggi il Presi-dente è ritenuto rappresentare il popolo allo stesso titolo che i membri delle Camere legisla-tive. L'opinione pubblica (al pari di queste) go-verna per mezzo suo e attraverso di lui, e lo rende popolare anche contro un Congresso eletto dal popolo. È questo un fatto che non dovrebbe sfuggire ai filosofi europei i quali cercano nella consolidazione del principio ere-ditario un rimedio ai difetti dei governi parla-mentari».^ A un uomo come il Presidente americano il quale non ha esercito permanente, né modo di crearselo; cui il Congresso può tener in iscacco rifiutandogli i crediti; che non possiede un'ari-stocrazia suscettibile di raggrupparsi intorno a lui; che non ha una Corte, né può pensare a giovarsi della sua potenza politica per far vale-re la continuità di interessi di una dinastia; a un tal uomo, è ammissibile che si conceda sen-za opposizioni e senza pericoli di esercitare

1. Bryce, op. cit, p. 95. 2. Loc. cit.

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un'azione personale efficace e di imprimere le sue idee nell'andamento della cosa pubblica. « I fondatori della Costituzione americana » scrive il Sumner Maine' «adottarono come definitive le idee di Giorgio III sulle attribu-zioni della regalità. Essi abbandonano al presi-dente tutto l'insieme del potere esecutivo e non permettono ai suoi ministri di sedere né d'aprir bocca in alcuno dei rami della legisla-tura. Per limitare i poteri del presidente e dei ministri, essi non hanno fatto ricorso ad alcu-no dei procedimenti conosciuti dal costituzio-nalismo moderno in Inghilterra, ma si limita-no a mettere un termine ogni quattro anni alle funzioni presidenziali». Di qui appare che ne,-gli Stati a democrazia diretta, è possibile rin-forzare il potere esecutivo, perché le garanzie limitative imposte a questo potere nelle mo-narchie parlamentari sono rese superflue dal fatto che esiste la garanzia, ben più comprensi-va d'ogni altra, che ogni quattro anni le fun-zioni di chi è investito del potere esecutivo ces-sano, e la volontà popolare può aprirsi la stra-da fino a questo potere ad ogni breve periodo mediante l'elezione del presidente. Quando, dunque, i conservatori insistono so-pra gli inconvenienti del sistema parlamenta-re, e cercano di screditarlo per suscitare nell'o-pinione pubblica una corrente di fiducia e di aspettazione per l'esercizio del potere regio, noi possiamo rispondere loro che quegli in-convenienti esistono veramente, ma che essi si guariscono non retrocedendo, bensì progre-

1. Sumner Maine, op. cit., p. 299.

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dendo; non ritogliendo al popolo i diritti che esso ha conquistato sul potere regio, per rido-narli a questo; bensì concedendo al popolo tutti i diritti che sono contenuti nel concetto della sua sovranità, e che gli sono stati, me-diante il sistema puramente parlamentare, affidati in modo del tutto incompleto e imper-fetto. Come ha scritto Tocqueville: «L'estrema de-mocrazia previene i pericoli della democra-zia».

Ma il punto in cui l'attuazione dei principii della democrazia diretta segna la divergenza più profonda dai sistemi puramente parla-mentari è in quanto si riferisce alla possibilità del pieno esercizio della volontà popolare, la quale, mediante l'applicazione di quei princi-pii, riesce per la prima volta nella storia politi-ca moderna a rispecchiarsi, tale e quale effetti-vamente esiste, nella direzione della cosa pub-blica. È superfluo, in primo luogo, avvertire come la circostanza che in democrazia diretta la fun-zione di capo dello Stato è elettiva, tolga tutti gli impacci che all'esercizio della volontà po-polare può opporre la presenza d'una dina-stia: su questo punto, del resto, non insistia-mo, perché tale vantaggio è comune anche alle repubbliche puramente parlamentari. Più specialmente importante è l'altra circo-stanza che in democrazia diretta non solo quello del capo dello Stato, ma tutti gli uffici pubblici sono elettivi e periodici. Per quanto 144

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riguarda il potere esecutivo si hanno in demo-crazia diretta due sistemi diversi. Quello del potere esecutivo federale degli Stati Uniti, nei quali la Convenzione, ossia l'assemblea degli elettori presidenziali nominati a questo scopo dal popolo, elegge il Presidente, e questi po-scia sceglie, con assoluta indipendenza, i suoi ministri. E quello del potere esecutivo federale della Svizzera, in cui l'Assemblea Nazionale (ossia la riunione dei membri del Consiglio na-zionale - Camera dei deputati - e del Consi-glio degli Stati - Senato e ettivo - ) nomina tut-ti i membri che devono comporre il potere esecutivo medesimo, cioè il Consiglio Federale per la durata di tre anni, e sceglie poscia, an-nualmente, e nel seno di essi, uno per turno a fungere da presidente della Confederazione, quasi del tutto senza funzioni e poteri speciali che non siano di semplice rappresentanza. Questo sistema subisce però un ulteriore svi-luppo se passiamo dal potere esecutivo federa-le dei due Stati nominati a quello dei singoli Stati o Cantoni. In America il potere esecutivo dei singoli Stati si compone, generalmente, di un governatore, un segretario di Stato, un tesoriere, un « attor-ney » generale, un controllore, un verificatore dei conti, un sopraintendente alla istruzione pubblica, tutti nominati direttamente dal po-polo. Questi funzionari non costituiscono un Gabinetto. Ciascuno è incaricato dell'ammini-strazione del suo dipartimento, e non è neces-sario vi sia un'intesa generale sulla politica, perché la politica non la fanno i rappresentan-ti del potere esecutivo, ma la Camera (la legi-

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slatura) « le cui leggi prescrivono ai funzionari tutto quello che devono fare e non lasciano che pochissimo posto alla loro iniziativa».' In Isvizzera il potere esecutivo dei Cantoni si compone, generalmente, di cinque membri, nominati, nella massima parte dei Cantoni, di-rettamente dal popolo. Ordinariamente i mem-bri dei Consigli di Stato cantonali scelgono nel loro seno un membro, per turno, quale presi-dente che dura in carica pochi mesi e non ha importanti funzioni speciali. In queste varie applicazioni della democrazia diretta al potere esecutivo noi troviamo co-stantemente che la sovranità popolare possie-de quel mezzo di esercitarsi che non ha invece nei sistemi puramente parlamentari. È il popolo che, direttamente o indirettamen-te, nomina il potere esecutivo. È il popolo che, dopo un breve periodo di tempo, quattro, sei anni, ne giudicherà la condotta rinominando le stesse persone all'ufficio, o chiamandone al-tre. I rappresentanti del potere esecutivo sen-tono, quindi, costantemente pesare su ciascu-no dei loro atti il giudizio del popolo. Se que-sta situazione di cose è accompagnata dalla presenza di una stampa molto diffusa (e ciò sembra essere una necessaria conseguenza della democrazia diretta, perché noi riscon-triamo una stampa immensamente diffusa così in America come nella Svizzera), di una stam-pa che porti a cognizione di tutti i cittadini cia-scun atto del governo, commentandolo libera-mente a sua guisa; il potere esecutivo finisce

1. Bryce, op. cit., voi. II, cap. xi.

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per diventare un delicatissimo stromento atto soltanto a farsi il trasmettitore della corrente che prevale nell'opinione pubblica e di ogni sua oscillazione. Il fatto, già osservato, che il potere esecutivo è nominato per un termine fisso senza che possa ritirarsi davanti a un voto contrario dell'as-semblea legislativa, e che questa pure è elet-ta per un periodo determinato senza che il po-tere legislativo possa scioglierla, questo fatto, eliminando d'un colpo tutto quel complicato armeggio che, nei governi puramente parla-mentari, si svolge nei rapporti tra deputati e governo, lontano da qualsiasi influsso della volontà popolare, mette immediatamente di fronte il popolo e i suoi rappresentanti, nel potere legislativo e nell'esecutivo; e permette a quello di ripercuotere direttamente e imme-diatamente su questi il suo volere, senza che questi possano, a dire così, schermirsene die-tro il complesso arruffio della tattica parla-mentare. Ma sopra un altro punto che non sia quello del potere esecutivo il principio della democrazia diretta, essere tutti gli uffici pubblici eleggibili e periodici, concede un più pieno esercizio alla volontà popolare: e cioè in quanto riguarda la burocrazia. È la burocrazia, il corpo degli impiegati, che costituisce il vero governo; perché è essa che viene in diretto contatto coi cittadini, che tra-duce in pratica quotidiana i principii direttivi formulati in modo generale dai piìi alti enti governativi, e che può, dunque, effettivamen-te, per gran parte interpretare e quindi misu-

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rare a suo beneplacito la portata e l'efficacia di quei principii. Ora, negli Stati a regime puramente parla-mentare ogni indirizzo politico nuovo che pre-valga alla cima, alla superficie, dell'assetto po-litico, s'infrange contro l'immobilità granitica delle burocrazie che sta alla base di questo as-setto. Possono cambiare i ministri, ad uno rea-zionario può succederne uno liberale; ma la polizia, gli impiegati amministrativi (prefetti, ecc.), i giudici sono rimasti tali e quali. Essi continuano ad applicare i vecchi criteri nella loro effettiva e pratica sfera di governo; e ne risulta che in realtà, il nuovo indirizzo gover-nativo non è riuscito ad innovare nulla. Spesse volte neppure le rivoluzioni giungono ad una effettiva innovazione se attraverso ad esse si salva e perdura la burocrazia. Ne abbia-mo la prova nella Francia in cui si può dire che la Repubblica, tuttora insidiata da uno Sta-to Maggiore, che (come ha dimostrato Urbano Gohier) è composto dei nepoti e discendenti degli emigrati del 1793, non è ancora riuscita a penetrare nelle intime fibre dell'ordinamen-to politico, e, per così dire, ad attuarsi comple-tamente, appunto perché la Francia è sottopo-sta al governo d'una burocrazia creata dalle monarchie e dagli imperi, i membri della qua-le, per essere nominati a vita non consentono che un rinnovamento lentissimo e soltanto per cadere in un nuovo immobihsmo. Uno storico recente' delinea tale stato di cose

1. Charles Seignobus, Histoire politique de l'Europe con-temporaine. Évolution de partis et de formes politiques, 1814-1914, Colin, Paris, 1897, pp. 208-209.

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con le seguenti parole che egli applica sola-mente alla Francia, ma che si riferiscono u-gualmente bene a tutti gli Stati nei quali gli impiegati della pubblica amministrazione de-tengono permanentemente le loro funzioni. « La Francia è dunque "governata" da un per-sonale politico, organizzato secondo il princi-pio democratico dell'elezione; e i suoi capi po-litici sono i deputati, mandatari diretti degli elettori, i senatori e i ministri, mandatari indi-retti, tutti sottomessi al controllo della stampa e dell'opinione pubblica. Essa è "amministra-ta" da un personale burocratico, diviso in ser-vizi speciali, organizzato secondo una gerar-chia: i suoi capi amministrativi sono dei fun-zionari che cooperano tra loro e si controlla-no a vicenda e obbediscono a regolamenti o a casi speciali, e sono indipendenti dall'opinione pubblica. « Questi due personali, tirando la loro autorità da due principii opposti, tendono ad applicare due concezioni opposte di governo. Il perso-nale politico, non avendo che un potere dele-gato dal basso e temporaneo, tende sopratutto a soddisfare gli "elettori'' da cui dipende, ob-bedendo all'opinione della maggioranza. I fun-zionari, esercitando un potere conferito dal-l'alto e praticamente a vita, tendono a vedere nei cittadini degli "amministrati" che bisogna mantenere nella sommissione dovuta ai rego-lamenti e all'autorità. «... La frequenza delle interpellanze e l'inge-renza dei deputati nell'amministrazione sono condannati da tutti i teorici di diritto pubblico

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come usurpazioni del Legislativo sull'Esecuti-vo, contrarie alla dottrina della separazione dei poteri; ma, ciò non di meno, esse sono di-venute i costumi fondamentali della vita politi-ca in Francia. Esse sono espedienti pratici che permettono di conservare insieme due sistemi contraddittori di istituzioni - un regime pub-blico democratico, un regime amministrativo gerarchico - costringendo il corpo dei funzio-nari a sottomettersi agli "eletti del popolo" ». Nei paesi a democrazia diretta questo immo-bilismo burocratico che impedisce qualunque cangiamento nel governo pratico e reale, e vie-ta che anche una forte scossa impressa alla ci-ma dell'ordinamento politico si ripercuota fin nel profondo, non esiste. In democrazia diret-ta tutte le funzioni pubbliche sono elettive e periodiche; e quindi la burocrazia, anziché es-sere, come negli Stati puramente parlamenta-ri, quell'organo opaco e greve contro il quale si spunta lo sforzo di tradurre nella minuta pratica quotidiana un nuovo indirizzo di go-verno, è invece un organo elastico, agile ed ob-bediente alle mutazioni che la volontà popola-re, coll'eleggere al potere esecutivo e al legisla-tivo uomini d'un partito piuttosto che di un al-tro, mostra di voler imprimere alla direzione della cosa pubblica. E sempre la volontà popo-lare che, come è sovrana del potere esecutivo e del legislativo, così è sovrana anche del giudi-ziario e dell'amministrativo, perché ad ogni breve termine è ad essa risottoposto il quesito (sia presentandolo direttamente al popolo, sia, indirettamente, a persone investite da poco e

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per poco di uffici che vengono ugualmente dal suffragio popolare) se voglia mantenere in ca-rica l'attuale corpo burocratico ovvero cangiar-lo in tutto o in parte. Che tale sistema permetta l'esercizio della so-vranità popolare in modo assai più pronto e completo che non col sistema prevalente negli Stati puramente parlamentari, è evidente. Né a noi importa qui rispondere ad obbiezioni di altro genere che al principio dell'eleggibilità e periodicità dei funzionari pubblici si oppon-gono. Il fatto è però che nei paesi dove è applicato tale principio - come in America e in Isvizzera - non si vede che l'amministrazione pubblica abbia gran che da invidiare a quella dei paesi dove esiste un corpo permanente di funziona-ri in carriera, eletti a vita; ma è piuttosto il contrario che è vero. Finalmente non è da tacere un'ultima conside-razione. Si fanno sempre più alti i lamenti in-torno alla influenza funesta che esercita sulla psiche di una nazione la tendenza sempre maggiore nei giovani delle classi borghesi ad entrare nelle carriere che offrono gli impieghi dello Stato. Valorosi pubblicisti (citeremo solo il Demolins)' sostengono che questa tendenza ammorza ogni iniziativa delle c assi dirigenti, e fa sì che una nazione divenga nel suo comples-so impotente a sostenere sul mercato mondiale la concorrenza delle altre nazioni in cui le gio-vani energie non assopite nelle vie degli impie-

1. Cfr. Édmond Demolins, A quoi tieni la supériorité des Anglo-Saxons, Firmin-Didot, Paris, 1897.

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ghi pubblici, ma costrette a lanciarsi e a inten-sificarsi nelle professioni usuali, si espando-no, con immenso vigore, alla conquista com-merciale, industriale, agricola, finanziaria del mondo. Negli Stati a democrazia diretta questo torpo-re che sale dalle carriere degli impieghi gover-nativi ad assopire le energie e le iniziative pri-vate non esiste. Colà non vi sono, a parlar pro-priamente, carriere pubbliche. Chi è oggi no-minato pubblico funzionario è stato fino a ieri banchiere, commerciante, industriale, ingegne-re, e sa che potrà essere costretto a ridiventar-lo domani quando il popolo non gli dia piìi i suoi suffragi. Il pubblico funzionario, adunque, negli Stati in cui vige il principio della eleggibilità e della periodicità degli uffici pubblici, come porta nell'impiego quell'attività e quell'energia di cui ha contratto l'abito nel mondo degli affari, an-ziché la mollezza e l'inerzia dei ronds-de-cuir ; così non lascia la sua energia addormirsi nel nuovo impiego, non si abbandona passivamen-te al flusso dell'avanzamento automatico, come avviene degli impiegati nominati a vita, perché sa che dopo un breve periodo egli può trovarsi a dover riprendere la vita degli affari con tutte le asprezze di cui è seminata e gli sforzi che richiede. Questa condizione di cose, adunque: il pensie-ro sempre presente ai funzionari pubb ici che la loro situazione attuale non è permanente, e il fatto che questa situazione si muta assai di frequente in realtà, bandisce del tutto dalle nazioni rette a democrazia diretta quel senti-152

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mento di inerzia, di mancanza di energia, di abbandono morale che è proprio dei burocra-tici; non accarezza né tende ad estendere que-sto sentimento coll'attirare verso gli impieghi pubblici, come carriere permanenti, i giovani, e tiene viva, sveglia e di continuo sollecitata l'e-nergia e l'iniziativa anche di quella larghissima parte delle classi dirigenti che occupa gli im-pieghi dell'amministrazione pubblica, e che, negli Stati dove questi impieghi sono concessi a vita, vi poltrisce invece e vi insterilisce.

Gli istituti pei quali i governi a democrazia di-retta si distinguono essenzialmente da quelli solamente parlamentari, e mediante i qua i nei 5rimi si attua veracemente la sovranità popo-are, sono il « referendum » e i diritti di inizia-

tiva e di revisione. Sono questi i tre istituti che distruggono l'esi-stenza della « classe politica » la quale, come il Mosca dimostrò, detiene ed esercita esclusiva-mente il governo tanto nelle monarchie asso-lute che nei governi parlamentari. Sono quelli i tre istituti che, per la prima volta nella storia 1 moderna, trasportano il governo effettivo dal-la « classe politica » nel popolo intero. I governi a classe politica sono caratterizzati dal fatto che in via normale, solo persone ap-partenenti alla classe hanno aperta la via al po-tere; e che dal potere fanno piovere la legisla-zione — cioè una serie di restrinzioni della li-bertà individuale - sui governati, senza che questi abbiano come che sia partecipato a quella legislazione, senza che intorno ad essa

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abbiano manifestato il loro parere, senza che, nella maggior parte dei casi, sappiano neppu-re che tale legislazione, tale diminuzione della loro libertà si compie. La legislazione ha, nel fatto, tanto negli Stati assoluti come in quelli puramente parlamentari, il suo germe e i suo svolgimento al di fuori e al di sopra del po-polo. Il « referendum » sovverte completamente que-sta situazione di cose. Quando una legge vo-tata dall'assemblea legislativa non entra imme-diatamente in vigore, bensì, se un certo nume-ro di cittadini lo desidera, dev'essere sotto-posta all'intero corpo elettorale perché questo si pronunci se vuo e accettarla o no; allora la concentrazione dell'effettivo esercizio del po-tere politico in una classe di governanti vien meno istantaneamente. Tutto il popolo, infatti, viene mediante il « re-ferendum » chiamato a pronunciarsi intorno a una misura legislativa. La legge non si compie più lontano da lui nelle chiuse aule delle as-semblee. I giornali fanno un'attiva campagna e richiamano vivissimamente l'attenzione po-polare sull'oggetto che si tratta di votare. E mentre adesso, in realtà, accade che la legge si formi non solo inaudito il popolo, ma a sua in-saputa, coll'introduzione del «referendum» ciò è tanto impossibile come sarebbe impossi-bile che in un qualunque Stato parlamentare moderno le elezioni avvenissero ad insaputa d'un solo cittadino. La stessa larghezza di in-formazioni e di agitazione che noi vediamo prodursi, in tempo di elezioni, intorno ai can-didati, ai partiti, ecc. - e che non permette an-154

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che al cittadino più assorbito nei suoi negozi privati di non essere richiamato a quell'episo-dio politico - avviene, nei paesi di democrazia diretta, in caso di « referendum », intorno alla questione su cui si tratta di votare, ossia intor-no alla legge medesima. Mediante il « referen-dum » quindi il popolo viene reso consapevole di tutti i principii di una certa importanza in-trodotti nella legislazione; non so o: ma chia-mato direttamente a partecipare alla loro crea-zione col dire se vuole ammetterli o no. Si ob-bietterà forse che quelle medesime forze di pressione e di corruzione mediante le quali la « classe politica » e il governo che esce dal suo seno tengono in iscacco la volontà popolare nel regime rappresentativo, opereranno an-che in democrazia diretta e riusciranno ugual-mente ad impedire che la volontà popolare si faccia strada col «referendum». Ma questa obbiezione non resiste a un attento esame dei fatti. Infatti, nel regime rappresentativo, le forze di pressione e di corruzione che abbiamo accen-nate vengono messe in opera per due ragioni: dal governo, perché esso, ha immenso interes-se a fare che vengano eletti alcuni candidati anziché alcuni altri, dipendendo la possibilità della sua esistenza dai voti con cui i primi lo appoggeranno in Parlamento; dai candidati medesimi, perché essi hanno un interesse vi-vissimo e personale (di ambizione o altro) ad es-sere nominati. Insomma le pressioni e le corru-zioni che, nel regime rappresentativo, impedi-scono il libero corso della volontà popolare hanno sopratutto origine dal fatto che la lotta

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elettorale avviene sopra persone concrete, non sopra principi! o disposizioni astratte. Ma, mediante il «referendum», la situazione viene del tutto mutata. Quando il popolo sia chiamato a votare se accetta o se respinge una legge, per esempio, sullo stato civile, sul divor-zio, sui brevetti d'invenzione, sulle assicurazio-ni operaie, è evidente che i motivi per cui in regime rappresentativo vengono messe in o-pera le forze della pressione e della corruzio-ne da parte della «classe politica» scompari-scono quasi interamente. L'esistenza del ministero, infatti, non è in giuoco, qualunque sia l'esito della votazione sui progetti di legge sottoposti al «referen-dum». Non , è in giuoco l'interesse personale che un deputato porta alla sua carriera politica e che lo spinge a procurare ogni mezzo per es-sere rieletto. I membri del governo, i deputati, potranno sentire desiderio che una legge sot-toposta al «referendum» sia approvata o re-spinta. Ma sarà, normalmente, un desiderio astratto, il quale potrà manifestarsi con un'at-tiva propaganda in un senso piuttosto che in un altro; ma raramente andrà fino ad assume-re, per trionfare, quei mezzi di pressione e di corruzione che normalmente mettono in ope-ra, nel sistema rappresentativo, i ministeri e i membri della «classe politica». Tali mezzi, in ogni modo, non saranno mai, in occasione del-la votazione sopra una cosa, quale è quella che ha luogo col «referendum», messi in opera con quella violenza e con quella sistematicità, con cui vengono usati quando si tratta dell'ele-zione di persone - la quale ultima, lo si noti

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bene, costituisce l'unico mezzo concesso al po-polo per manifestare, nei sistemi parlamentari puri, la sua volontà. Che, in realtà, queste forze di pressione e di corruzione, atte ad impedire la manifestazione della volontà popolare, siano, se non del tutto inesistenti, di gran lunga più deboli, quando si tratta di una votazione per «referendum», che non quando si tratta di elezioni, è. dimo-strato da un fatto semplicissimo. Mentre è un caso assai raro che un ministero il quale « fa » le elezioni non ottenga la maggio-ranza, è un caso frequentissimo che una legge sostenuta dal governo e approvata dalla mag-gioranza dell'assemblea legislativa, sottoposta al «referendum», venga respinta dal popolo. Si sono dati perfino dei casi di reiezione da parte del popolo di leggi approvate, nell'as-semblea legislativa, da tutti i partiti. Il Laveleye' riferisce l'esito delle votazioni per «referendum», sopra leggi e decreti federali, in Isvizzera, dal 1874 al luglio del 1891. Sedi-ci leggi furono sottoposte al « referendum » (senza contare le sei modificazioni parziali del-la Costituzione) e undici di esse sono state re-spinte. Si noti che queste cifre riguardano soltanto le votazioni circa le leggi federali avvenute in Isvizzera. Assai più, di gran lunga, sono i casi di reiezione da parte del popolo di leggi, in materia cantonale, elaborate dal governo ed accettate dal Gran Consiglio (assemblea legi-

1. Laveleye, op. cit, tomo II, libro decimo, cap. iv, p. 160.

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slativa); e ne vedremo più innanzi degli esem-pi. Ciò si avvera sopratutto, con grande fre-quenza, nei Cantoni dove è istituito il «refe-rendum» obbligatorio, sotto il quale devono passare due volte per anno tutte le leggi votate dal Gran Consiglio. Bisogna leggere i giornali governativi di questi Cantoni (per esempio di Berna) per capire co-me il « referendum » obbligatorio sia un pode-roso colpo di piccone alla «classe politica». È costante in essa un lamento che si può riassu-mere in due parole: col « referendum » obbli-gatorio non si può più legiferare; il popolo re-spinge la maggior parte delle leggi che noi ela-boriamo. Ora, se ciò prova, da una parte, che dove il « referendum » non esiste, il popolo subisce, contro la sua volontà, la maggior parte delle leggi; ciò prova anche che il «referendum» toglie ogni base consistente al governo della « classe politica » la quale è costretta a dichiara-re di non poter governare in grazia dell'immi-stione continua della volontà popolare nell'e-sercizio del potere pubblico. Noi troviamo, adunque, in ciò un principio di sgretolamento del governo della « classe politi-ca», additato dal Mosca. I governanti fanno, bensì, le leggi. Ma i governati le esaminano, e, quando loro non piacciono (e ciò accade bene spesso), le respingono. La frequenza con cui il popolo, mediante il « re-ferendum » (e specialmente mediante il « refe-rendum » obbligatorio) respinge le leggi ap-provate dall'Assemblea - questo fatto in cui molti trovano un argomento d'accusa contro il 158

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« referendum » - è per noi la prova che questo dà modo al popolo di far prevalere effettiva-mente la sua volontà sul governo. Le leggi non piovono più dall'alto di una Ca-mera di deputati sopra il popolo senza che questo abbia modo di sottrarvisi se non gli piacciono; anzi, il più delle volte, senza che la sua attenzione sia neppure richiamata alla leg-ge che si sta per imporgli, la quale non gli si ri-vela che più tardi nell'applicazione. Il popolo tien gli occhi aperti e controlla; impedisce che abbiano vigore tutte le restrinzioni della sua attività che i governanti vogliano imporgli ma che esso esplicitamente non accetti; e non per-mette che entrino in attività se non quelle di-sposizioni legislative, quelle restrinzioni di at-tività, cui esso, il popolo, abbia dato il suo con-sapevole ed esplicito consenso.

Se il governo a base di « classe politica » viene profondamente intaccato dal «referendum», specialmente se obbligatorio, esso viene di-strutto dal diritto di iniziativa, vale a dire dal diritto del popolo di domandare la modifica-zione delle leggi esistenti o la promulgazione di leggi nuove. Il diritto d'iniziativa si distingue da quello di revisione in ciò che mentre il primo consiste, come abbiamo detto, nella facoltà del popolo di domandare la modificazione o la promulga-zione delle leggi ordinarie, invece il diritto di revisione consiste nella facoltà del popolo di domandare una riforma della legge fonda-mentale dello Stato, ossia della Costituzione.

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Praticamente, però, i due diritti vengono in al-cuni casi a confondersi; o, più precisamente, il popolo, giovandosi del diritto di revisione, vie-ne in realtà a conquistare ed esercitare quello di iniziativa. Questo fenomeno è evidentissimo nei singoli Stati componenti l'Unione Americana. Le Costituzioni degli Stati della Confederazio-ne Nord-americana possono modificarsi, in generale, con questo procedimento: l'Assem-blea legislativa (sia con un voto di semplice maggioranza, sia con la maggioranza di tre quarti, sia a semplice maggioranza ma per due legislature successive) propone al popolo alcu-ne speciali modificazioni, ovvero domanda al popolo di decidere con un voto se vi sia luogo di convocare una Convenzione per rivedere la Costituzione. In alcuni Stati (per esempio nel New Hampshire) l'Assemblea legislativa non ha diritto di proporre emendamenti; ma inve-ce le autorità devono ogni sette anni consul-tare il popolo sull'utilità di una revisione del-la Costituzione. In altri Stati questa consulta-zione deve avvenire ogni dieci, sedici, o ven-t'anni. Quindi « la Costituzione d'uno Stato » scrive il Bryce' dal quale prendiamo questi cenni «è semplicemente una legge fatta dal popolo che vota sopra un progetto a lui sottoposto. Il po-polo, votando in tal modo, agisce come una prima assemblea costituente, come se esso fos-se chiamato a radunarsi in un sol posto, alla guisa delle assemblee popolari dei nostri ante-

1. Bryce, op. cit., voi. II, cap. xxxvn.

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nati teutoni. Soltanto il numero gl'impedisce di riunirsi in un unico luogo e lo obbliga a vo-tare in luoghi diversi. Così la legge costituzio-nale è l'opera diretta dalla sovranità popola-re ». Ora, mentre le prime costituzioni degli Stati americani erano brevissime e contenevano quasi esclusivamente una dichiarazione fonda-mentale di diritti, queste costituzioni vennero poscia acquistando una mole assai maggiore, e comprendendo sotto il titolo «clausole diver-se» delle vere leggi ordinarie, per esempio sulla procedura, sul diritto civile, sulle Ban-che, sulle Ferrovie, sull'agricoltura, ecc. Insomma, il popolo si giova del momento in cui si fa una nuova costituzione, e della circo-stanza che sulla formazione di questa esso agi-sce in modo diretto, mediante il suo voto, per ottenere, nella stessa maniera, e sotto la mede-sima sua azione diretta, le leggi speciali che gli stanno più a cuore. Questa azione diretta del popolo americano sulla legislazione avviene in due maniere. La prima è la formazione o l'emendamento di una Costituzione, nella quale, come abbiamo osservato, vengono introdotte disposizioni ap-partenenti alla legislazione ordinaria. In que-sto caso, non si ha nulla più che un « referen-dum», giacché la Costituzione (e le leggi spe-ciali che sotto il titolo di « clausole diverse » vi vengono introdotte) viene redatta ed approva-ta dalla Convenzione speciale o dalla legislatu-ra, e poscia sottoposta al popolo. La seconda maniera «consiste nel sottomette-

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re ai suffragi del popolo, in conformità con le clausole della Costituzione, una proposta o al-cune proposte specificate nella legge fonda-mentale ... : se la legislatura non ha preso una decisione su queste proposte, e se il voto popo-lare ha luogo in conformità con le clausole contenute nella Costituzione, non si ha più, a rigore, un "referendum", ma un caso di legi-slazione da parte del popolo solo, come se tutti gli elettori d'uno Stato si riunissero in una as-semblea ».' Sebbene, adunque, il popolo americano non possegga il diritto d'iniziativa propriamente detto, nondimeno riesce, sia pure mediante un giro vizioso, a legiferare direttamente. Giac-ché è evidente che le leggi speciali o le propo-ste di legge che vengono accluse nelle Costitu-zioni non possono essere dalla Convenzione o dalla legislatura che formulate con stretta ob-bedienza ai voleri del popolo, dovendo poi a questo essere sottomesse, e potendo da esso venir respinte fino a che non gli vengano pre-sentate come le desidera. Il popolo svizzero in questioni federali, e in materia di legislazione ordinaria, non posse-deva, fino al 1891 il «diritto di iniziativa» e a rigor di termini non lo possiede, per quan-to riguarda la legislazione ordinaria, neppure ora. Ma il 29 luglio 1891 è entrato in vigore un emendamento costituzionale, mediante il qua-le venne introdotto nella Costituzione federale uno dei suoi più importanti principii.

1. Bryce, op. cit., p. 79.

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L'art. 121 (riformato)' ammette e disciplina il diritto di iniziativa da parte del popolo in ma-teria costituzionale, per ottenere cioè la rifor-ma parziale della costituzione, in modo così ampio e democratico, che il popolo svizzero può in fatto giovarsi di esso per far valere il suo diritto di iniziativa anche in materia di le-gislazione ordinaria, e per legiferare diretta-mente come meglio gli piace, ancora piiì age-volmente che non il popolo americano. Questo articolo stabilisce che cinquantamila cittadini aventi il diritto di voto possono ri-chiedere l'adottamento, l'abrogazione o la mo-dificazione di dati articoli della costituzione fe-derale. La domanda può essere presentata o come proposta generale, o come progetto già elaborato. Nel primo caso, se le Camere fede-rali sono d'accordo, esse devono provvedere alla revisione nel senso domandato, e sotto-porre la revisione stessa al popolo e agli Stati )er l'accettazione o per il rifiuto; se le Camere ederali non sono d'accordo per fare la revi-

sione, la questione se la revisione deve farsi sa-rà sottoposta alla votazione popolare, e quan-do la maggioranza dei votanti si sia pronuncia-

1. Si noti che in molte riproduzioni della Costituzione federale che si leggono nei libri che trattano della Svizze-ra, l'art. 121 è riportato nella forma che aveva prima del 1891, e con ciò la Costituzione appare mutilata d'una del-le sue più notevoli conquiste democratiche. Così, per esempio, nel bel libro di Ettore Ciccotti Attraverso la Sviz-zera è riportata in calce la Costituzione federale quale era prima della modificazione del 1891. Lo stesso si dica della Costituzione riportata ed esaminata néll'Instruction civique di Numa Droz, giacché questo libro fu scritto prima della revisione del 1891.

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ta affermativamente, l'Assemblea federale de-ve uniformarsi alla decisione popolare e pro-cedere alla revisione. Nel secondo caso, quan-do cioè la domanda di revisione è messa in-nanzi in forma di progetto ^ià elaborato, o l'Assemblea federale vi aderisce, e allora il progetto stesso viene sottoposto al popolo e agli Stati per l'accettazione o per il rifiuto, o l'Assemblea federale non aderisce al progetto, oppure propone il rigetto di quello che fu pre-sentato e sottopone alla votazione del popolo e degli Stati il suo progetto o la sua proposta di rifiuto insieme colla rispettiva domanda d'ini-ziativa. E chiaro che con queste disposizioni della Co-stituzione federale svizzera è assicurato al po-polo il diritto di legiferare direttamente, per-ché le leggi invece di scendere dall'alto al bas-so, dai governanti sui governati, senza che questi abbiano nessun mezzo per opporvisi, salgono dal basso all'alto, partono dalla massa, perfino sotto forma di progetto elaborato in tutti i suoi particolari, e si impongono ai go-vernanti. Ma dove la distinzione tra il diritto d'iniziativa in materia di legislazione ordinaria, e quello di revisione costituzionale, è formulato netta-mente e con tutto rigore scientifico, si è in quei Cantoni svizzeri che hanno riformata di re-cente la loro Costituzione introducendovi tutti i postulati della moderna democrazia. Tale, per esempio, il Cantone Ticino, che ci-tiamo tanto più volentieri perché abitato da una razza italiana, la quale ha saputo conqui-stare e mettere in pratica tutte le più avanzate 164

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riforme democratiche. La Costituzione del 1892 mentre regola agli artt. 25 e seguenti il diritto di revisione da parte del popolo della Costituzione, stabilisce all'art. 10 che «il dirit-to d'iniziativa in materia legislativa » spetta an-che al popolo, e determina che «l'iniziativa popolare è il diritto di proporre al Gran Con-siglio la accettazione, l'elaborazione, la mo-dificazione o l'abrogazione di una legge o di un decreto legislativo» mediante domanda che « deve essere firmata da almeno cinquemi-la cittadini attivi ». Così, adunque, il popolo che dapprima può esercitare, come in America, il diritto di inizia-tiva nella legislazione ordinaria, solo mediante un giro alquanto tortuoso, giovandosi cioè del diritto di revisione costituzionale, e introdu-cendo nella Costituzione leggi speciali o pre-scrizioni ai poteri legislativi di legiferare in un dato senso, conquista finalmente, nelle forme democratiche più moderne, esplicitamente il diritto di iniziativa in materia legislativa, ossia il diritto di fare le leggi che la maggioranza ef-fettivamente vuole. A questo punto, noi possiamo agevolmente constatare come il governo a « classe politica » la cui esistenza fu additata dal Mosca in tutti gli aspetti politici, dalle monarchie assolute agli Stati parlamentari, venga sradicato dalla democrazia diretta. Nei paesi dove esistono gli istituti di cui abbiamo parlato e specialmente il « referendum » e il diritto di iniziativa non si può più dire che «alla direzione della cosa jubblica vi è una minoranza di persone in-luenti di cui la maggioranza subisce, di buono

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o mal grado, la direzione »;' è, invece, la mag-gioranza, che con mezzi diretti e indiretti, im-prime alla cosa pubblica il proprio impulso; e gli enti in cui esteriormente s'incarna lo Stato - governo, assemblee legislative, ecc. - non so-no che i timidi e docili servitori di questo im-pulso che parte dalla maggioranza popolare. La vecchia teoria della sovranità popolare pro-clamata da Rousseau, che, davanti all'esempio degli Stati puramente parlamentari, sembrava diventata un vieto dottrinarismo, ritorna, in presenza degli Stati a democrazia diretta, ad essere perfettamente vera.

Gli istituti, di cui abbiamo parlato, hanno il lo-ro coronamento nel diritto di revisione, vale a dire nella facoltà concessa al popolo di mo-dificare a suo beneplacito la costituzione fon-damentale dello Stato. Degli Stati ordinati a monarchia, il Belgio am-mette formalmente questo diritto. L'art. 131 della Costituzione belga stabilisce, infatti, che il potere legislativo ha diritto di dichiarare che è il caso di procedere alla revisione di una di-sposizione costituzionale; dopo questa dichia-razione le Camere devono essere rinnovate, e le nuove, di comune accordo col re, delibera-no sui punti sottomessi alla revisione; due terzi almeno dei membri devono essere presenti, e l 'emendamento deve raccogliere i due terzi dei voti. Ma è chiaro che queste disposizioni dello Sta-

1. Mosca, Elementi, cit., p. 61.

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luto belga non potranno mai avere un'effica-cia profondamente innovatrice, stante special-mente il necessario accordo col re per intro-durre le modificazioni. Non solo, infatti, que-sto accordo implica il perenne mantenimento della forma monarchica, ma essendo il re il rappresentante più alto degli interessi della « classe politica » e di quelli speciali della dina-stia, è evidente che il consenso del re alle mo-dificazioni da farsi alla Costituzione importa che nessuna modificazione sostanziale - la quale, vale a dire, ferisca gli interessi della classe politica medesima, o della dinastia - po-trà mai compiersi; almeno quando non si ma-nifesti una pressione rivoluzionaria, ciò che, come fu spesso avvertito, rendeva conseguibili le riforme nel senso voluto dal popolo, anche sotto le monarchie assolute. Nella Repubblica francese troviamo già un no-tevole progresso: la maggioranza assoluta del-le due Camere, riunite in Congresso, è suf-ficiente per compiere una revisione della Co-stituzione. In America per quanto riguarda la Costituzio-ne federale, vi sono (secondo l'art. 5) due me-todi per proporre le modificazioni, e due me-todi per adottarle. Per quanto concerne la proposta di modificazione, il Congresso, me-diante un voto di due terzi in ciascuna Came-ra, può preparare e proporre gli emendamen-ti; ovvero, le assemblee legislative di due terzi degli Stati possono invitare il Congresso (che deve obbedire) a convocare una Convenzio-ne costituzionale, la quale deve redigere gli emendamenti. Per quanto concerne l'adozio-

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ne degli emendamenti redatti, nell'una o nel-l'altra maniera, vi sono altri due metodi a scel-ta del Congresso; e cioè sottoporre gli emen-damenti proposti alle assemblee legislative de-gli Stati, ovvero sottoporli a Convenzioni ap-positamente nominate nei diversi Stati. Nel-'un caso e nell'altro gli emendamenti devono

essere approvati da tre quarti delle assemblee o delle Convenzioni.' Per quanto riguarda la revisione della Costitu-zione nei singoli Stati della Confederazione Nord-americana, abbiamo veduto, parlando del diritto d'iniziativa, quali sono le disposizioni che la regolano: la proposta di modificazione parte in generale dalle assemblee legislative e deve essere sottoposta al popolo; ovvero, si in-terroga ad ogni periodo determinato il popo-lo, se intende modificare la Costituzione. Ma il paese nel quale il diritto di revisione è formulato esplicitamente nel modo più de-mocratico è certamente la Svizzera. Secon-do la Costituzione federale (art. 120) quando 50.000 cittadini domandano la riforma « tota-le » della Costituzione, la questione « se la ri-forma abbia o no ad aver luogo » è sottoposta al popolo. Se la maggioranza risponde affer-mativamente, i due Consigli vengono rinnova-ti, e le nuove Camere pongono mano alla ri-forma totale. Quanto alla revisione « parziale » della Costi-tuzione svizzera abbiamo già visto quali sono le disposizioni (le quali sono riprodotte, press'a poco nell'istesso tenore, anche nelle Costitu-

1. Bryce, op. cit., voi. I, cap. xxxii.

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zioni dei Cantoni più democratici, come il Ti-cino) che regolano l'esercizio di questo diritto popolare. Esse sono ancora più ossequienti al-a sovranità popolare di que le che regolano la

riforma totale; poiché è una stessa frazione di popolo, una parte della massa, la quale può elaborare un progetto particolareggiato e far-lo adottare. E quando si pensi che, mediante revisioni parziali, una Costituzione può venire totalmente riformata, e che poche revisioni aarziali bastano per trasfornlarne interamente o spirito, si converrà che in Isvizzera è vera-mente la massa popolare, e non una piccola « classe politica » che tiene in mano la somma delle cose dello Stato e che lo domina fino a plasmarlo, o a trasformarne la foggia a suo jeneplacito. Si rifletta ora alla profonda diversità che que-sto diritto di revisione (specialmente se formu-lato secondo il sistema svizzero) segna tra gli Stati di vecchio tipo e quelli di carattere mo-derno. Nello Statuto italiano, per esempio, si legge questo preambolo: «di nostra certa scienza, regia autorità, avuto il parere del nostro consi-glio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge Fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue», ecc. La legge è perpetua; e quindi, legalmente, nessuna modificazione potrebbe esservi intro-dotta. Lo Stato italiano è di conseguenza fon-dato sull'immobilismo. Negli Stati che sono, in tal modo, fondati so-pra una base immobilista, in cui la Costituzio-ne non prevede nessun mezzo per essere mo-

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dificata, la stessa legge fondamentale rappre-senta un enorme macigno che sbarra la via ad ogni progresso legale, ad ogni nuova manife-stazione della volontà popolare oltrepassante o contraddicente la legge fondamentale mede-sima. Una tale estrinsecazione della volontà po-polare non può aver luogo, in questi Stati, in modo legale; e non potrebbe operarsi che me-diante una rivoluzione o una agitazione rivo-luzionaria. Ma negli Stati in cui la possibilità di mutare la Costituzione è prevista e concessa al popolo dalla Costituzione medesima, la base di immo-bilismo, la barriera ad ogni novella manifesta-zione della volontà popolare, viene tolta di mezzo. Quel mutamento nelle forme statuta-rie che negli Stati a tipo immobilista non si può ottenere se non col mezzo straordinario della rivoluzione o della agitazione rivoluzio-naria, diventa ottenibile in forma tutt'affatto normale e legale. E siccome il mutamento del-la legge fondamentale dello Stato costituisce ciò che noi (abituati agli ordinamenti politici a tipo immobilista) chiamiamo rivoluzione; così si può dire che le democrazie nelle quali è affidato al popolo il diritto di revisione hanno legalizzata la rivoluzione. Ma legalizzare la rivoluzione - nel senso di mutamento della legge fondamentale dello Stato - significa renderla inutile nel senso di distruzione violenta di una forma di governo. Infatti, la volontà popolare non ha più biso-gno di usare questo mezzo estremo per passa-re oltre le barriere d'una Costituzione esisten-d o

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te, quando questa stessa Costituzione le offre un modo normale, legale, pacifico per farsi va-lere pur contro la Costituzione medesima. Perciò il Dr. von Holst' nota giustamente che il principio della sovranità diretta del popolo applicato costantemente e completamente, è stato un ostacolo alle tendenze rivoluzionarie in America, perché ha offerto un mezzo legale e pacifico di compiere i cangiamenti politici ed economici, e ha abituato il popolo ad avere, per le decisioni della maggioranza, il rispetto che è condizione essenziale per il successo dei governi popolari.

Non abbiamo parlato di due istituzioni che pure sono, o accennano ad essere, parte im-portante nella democrazia moderna: vogliamo dire la rappresentanza proporzionale e la na-zione armata. Per quanto riguarda la prima, non si può an-cora dire che essa faccia parte di fatto delle istituzioni della democrazia moderna: esiste bensì in molti Cantoni della Svizzera, ma nel 1900 cadde l'iniziativa popolare tendente ad in-trodurre la rappresentanza proporzionale nel-le elezioni dell'Assemblea federale. Pure è cer-to che le democrazie moderne tendono all'a-dozione di questo principio che, mirando a dare a tutti i partiti la rappresentanza che loro spetta, e a fare delle assemblee legislative l'e-satto specchio della situazione politica del pae-

1. Constitutional Law of the United States, par. 90.

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se, è di pura equità;' e che, riducendo l'impe-ro delle maggioranze, dà maggiore mobilità all'ordinamento dello Stato e permette alle mutazioni della volontà popolare di riflettersi, in tutte le loro graduazioni, nelle Camere dei rappresentanti. Osserviamo però che la rappresentanza pro-porzionale, che costituisce una questione es-senziale nei governi puramente parlamentari, perde alquanto della sua importanza in quelli a democrazia diretta, nei quali alla questione della rigorosamente esatta rispondenza delle Assemblee alla situazione dei partiti nel paese, toglie valore il fatto che il popolo può sempre riprendere esso in esame le deliberazioni pre-se dall'Assemblea medesima e pronunciare su questa il suo giudizio supremo ed inappella-bile. Quanto alla nazione armata ci porterebbe troppo in lungo a parlarne qui «ex profes-so».^ Ci basti il dire che da quanto abbiamo scritto più sopra circa l'esercito permanente risulta che la nazione armata, mediante la qua-le la forza materiale viene sottratta all'incon-trollato arbitrio e all'assoluta disposizione, del governo per essere affidata ai cittadini, è la ba-se di fatto sulla quale soltanto possono rimane-re saldamente assise le libertà. Le democrazie dirette (abbiamo detto) costituiscono la forma di governo veramente nuova perché la « vis »

1. Cfr. Giuseppe Rensi, Per il sistema del quoziente, in «Critica Sociale», 1° settembre 1897. 2. Cfr. Giuseppe Rensi, Una Repubblica Italiana, Edizione «Critica Sociale», Milano, 1899, pp. 8 sgg.

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politica anziché essere ristretta in una piccola classe è diffusa in tutta la massa. Parallela a ta-le diffusione nella massa della «vis» politica (perché questa sia efficiente ed attiva) dev'es-sere la diffusione della forza materiale; la qua-le quindi nelle democrazie moderne più per-fezionate accompagna il movimento di diffu-sione della facoltà di prendere parte diretta al governo, e come questa si estende a tutti i cit-tadini, così a tutti i cittadini si estende l'uso della forza materiale. Osserveremo ancora che oramai l'opposizione che si fa alla nazione armata non ha più che due motivi: quello del timore appunto di ve-der sottratta la base materiale al predominio della «classe politica», motivo energicamente espresso nelle parole del Mosca che abbiamo ricordato parlando dell'esercito permanente: e quello, più specialmente dinastico, di giovar-si dell'esercito permanente, come di sostegno della monarchia, di base di alleanze con altri sovrani, di stromento di imprese estere. Impe-rocché è provato che, dal punto di vista difen-sivo, nessun esercito vale la nazione armata. Giovanni von Bloch, il celebre e competentis-simo autore della grande opera La Guerra, la quale mosse, si dice, Nicola II a promuovere la conferenza dell'Aja, mette in luce chiaramente questa verità in un articolo intorno al conflitto anglo-boero, pubblicato sulla « Deutsche Re-vue» del giugno 1901.' Egli nota come, in primo luogo, la guerra an-glo-boera dimostri che è vano sperare nella su-

1. Riassunto della «Minerva», 9 giugno 1901.

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periorità di un esercito bene addestrato e otti-mamente disciplinato: infatti, i volontari in-glesi e boeri hanno fatto miglior prova delle truppe da lungo tempo sotto le bandiere. Inoltre la campagna sud-africana prova all'e-videnza che, date le armi moderne, non è più possibile precisare le forze né le posizioni del nemico, sia per le condizioni determinate dal-le recenti invenzioni, sia perché è impossibi-le dare a enormi eserciti unità di azione. Con-statata la forza di resistenza che può spiegare un piccolo popolo valoroso contro un'enorme massa militare, bisogna concludere che la mo-bilitazione di un grande esercito non raggiun-gerà mai lo scopo, perché prima di aver conse-guito alcun risultato, le forze politiche ed eco-nomiche del paese saranno completamente esauste. Il Bloch inoltre constata come le varie fasi del-la guerra anglo-boera abbiano confermato la verità della tesi da lui sostenuta nel secondo volume della Guerra e cioè che la guerra offen-siva è divenuta pressoché impossibile. Infatti, nella prima fase, i boeri assalirono con forze preponderanti gli inglesi e l'assalto fallì. Nella seconda fase, gli inglesi, che frattanto avevano ottenuto una notevole superiorità nu-merica, assalirono alla loro volta, ma senza ri-sultato. Nella terza fase, mediante una stra-bocchevole superiorità di forze (poiché gli in-glesi si trovarono ad essere, rispetto ai boeri, nel rapporto di 7 ad 1), gli inglesi poterono, con gravi difficoltà e gravi perdite, costringere i boeri a ritirarsi dalle loro posizioni, ma senza 174

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infligger loro perdite notevoli di uomini o di armi. E attualmente i boeri ridotti a 15.000 tengono ancora il campo contro più di 250.000 inglesi, i quali, fuori delle città for-tificate non sono riusciti ad imporsi definitiva-mente al paese che essi proclamano conquista-to. Questa quarta fase dimostra a meraviglia la immensa potenza della guerra difensiva e la grande impotenza di quella offensiva. Le ragioni principali di questo fatto sono, spe-cialmente (rileva il Bloch), le seguenti: la pol-vere senza fumo che rende invisibile il mani-polo accampato nelle trincee; e la rapida co-struzione di trinceramenti i quali porgono alle truppe la piìi efficace difesa contro il canno-neggiamento e la fucileria. Le trincee hanno reso inutile la cavalleria; e quanto all'artiglie-ria, è provato che i cannoni della difesa han-no una immensa superiorità su quelli dell'as-salitore. Basterà ricordare che a Paardeberg i 4000 uomini di Cronje, trincerati in modo me-raviglioso, rimasero per dieci giorni chiusi in uno spazio piccolissimo, sotto il fuoco di cento cannoni a campo e di marina, alcuni dei quali caricati con 40 chilogrammi di liddite. Eppure quando Cronje si arrese, per fame, i suoi mor-ti e feriti non erano che 179. Gli assalti di fronte degli inglesi contro i boeri riuscirono, adunque, quasi sempre vani. L'u-nico mezzo col quale gli inglesi ottennero qualche successo furono i movimenti di accer-chiamento. Ma questi non sarebbero possibili in una guerra europea, prima di tutto perché nessun esercito potrebbe mantenere rispetto al nemico la superiorità numerica che hanno

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nel Sud-Africa gli inglesi rispetto ai boeri; poi perché per i movimenti aggiranti occorre un terreno quasi deserto, mentre in Europa, gra-zie alle fortificazioni che si trovano in tutti i confini, un esercito, anche numericamente in-feriore, potrebbe prendere posizioni tali da render vano ogni tentativo di accerchiamento. Le conclusioni a cui viene il Bloch, sono le se-guenti: in una guerra avvenire la decisione non potrà assolutamente essere rapida. Se per esempio i tedeschi in guerra coi francesi, riu-scissero a rompere la linea di difesa di questi, si troverebbero di fronte ai milioni di soldati di riserva di cui dispone la Francia; e tra que-sti, vi sarebbe certamente una piccola frazione pari in valore ai boeri, che divisa in piccole schiere continuerebbe, come fanno i boeri, a lottare disperatamente, molestando il nemico, catturando distaccamenti isolati, interrompen-do le comunicazioni ferroviarie e telegrafiche; e, prolungando così la campagna in modo da produrre perturbamenti economici tanto disa-strosi, che il vincitore stesso dovrà piegarsi alla pace. Nelle presenti condizioni degli strumenti e dei metodi di guerra, una lotta con esito decisivo fra le Potenze europee è dunque semplice-mente impossibile. Questa conclusione a cui viene un osservatore attento e competente come il Bloch autorizza noi, alla nostra volta, a concludere che la na-zione armata serve alla difesa meglio che l'e-sercito stanziale, e che l'opposizione che ad es-sa si muove non ha per ragione se non il fatto che essa non si presta, come l'esercito stanzia-176

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le, a sostenere il predominio della « classe poli-tica » e a compiere alleanze o intraprese dina-stiche.

Chiudiamo questo capitolo con uno specchio dei diritti popolari, quali esistono attualmente nei varii Cantoni svizzeri, da cui appariscono in tutta la loro pienezza le basi costituzionali e legali che garantiscono al popolo il suo con-corso nell'opera della legislazione. Zurigo possiede l'iniziativa in materia legislati-va e costituzionale dal 1869; il numero di elet-tori richiesto per l'esercizio di questo diritto è di 5000; la prima iniziativa si applica alle leggi e ai decreti. A Zurigo esiste ino tre il « referen-dum» obbligatorio sotto il quale devono pas-sare le leggi, i trattati, i decreti. Berna possiede l'iniziativa in materia legislati-va e costituzionale (la prima applicabile alle leggi e ai decreti) dal 1893; per la prima occor-rono 15.000, per la seconda 12.000 elettori. Il Cantone possiede anche il « referendum » ob-bligatorio per le leggi e per gli oggetti finan-ziari. Lucerna possiede l'iniziativa in materia costi-tuzionale dal 1863, esercitabile su domainda di 5000 elettori. Lo stesso numero occorre per il « referendum » facoltativo sulle leggi e i tratta-ti introdotto nel 1875. Uri (Cantone a « Landsgemeinde ») ha l'inizia-tiva in materia costituzionale dal 1888; il nu-mero degli elettori richiesto per esercitarla è di 50. Per l'iniziativa in materia legislativa in-trodotta pure nel 1888 per le proposte di leg-

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ge, basta la domanda di un solo cittadino. Esi-ste dal 1888 il «referendum» facoltativo, pro-movibile su domanda di 20 cittadini, per i re-golamenti e i decreti; e, da tempo immemora-bile, il « referendum » obbligatorio per le leg-gi, i trattati, e gli oggetti finanziari. Svitto possiede dal 1848 l'iniziativa in materia costituzionale, su domanda di 2000 cittadini; e dal 1876 quella in materia legislativa circa le leggi propriamente dette soltanto, pure su do-manda di 2000 elettori. Lo stesso numero è ri-chiesto per il « referendum » facoltativo circa i trattati, i decreti, e i regolamenti, introdotto nel 1876, nel quale anno fu pure introdotto il « referendum » obbligatorio per le leggi, i re-golamenti e gli oggetti finanziari. L'Alto Untervaldo (Cantone a « Landsgemein-de ») possiede, dal 1867, l'iniziativa in materia costituzionale, su domanda di 500 cittadini; pure dal 1867, su domanda d'un sol cittadino, quella in materia legislativa riguardo le propo-ste di legge; dall'istesso anno, su domanda di 400 cittadini, il « referendum » facoltativo sul-le leggi e decreti elaborati dal Gran Consiglio per delegazione di potere; e da tempo imme-morabile, il « referendum » obbligatorio sulle leggi, decreti e questioni finanziarie. Il Basso Untervaldo (Cantone a «Landsge-meinde ») possiede l'iniziativa in materia costi-tuzionale su domanda di 800 cittadini, dal 1877; dall'istesso anno, su domanda d'un elet-tore, l'iniziativa in materia legislativa, concer-nente le proposte di legge; da tempo imme-morabile, il « referendum » obbligatorio per le leggi e le proposte di legge.

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Glarona (Cantone a « Landsgemeinde ») pos-siede, da tempo immemorabile, l'iniziativa in materia costituzionale, quella in materia legi-slativa (quest'ultima per le proposte di legge; entrambe su domanda d'un solo cittadino) e il «referendum» obbligatorio circa le leggi, i trattati, e le questioni finanziarie. Zugo ha dal 1873 l'iniziativa in materia costi-tuzionale su domanda di 1000 elettori; dal 1894 quella in materia legislativa, su domanda di 800, applicabile alle leggi e ai decreti; e dal 1873, il «referendum» facoltativo, promovibi-le mediante 500 firme e applicabile alle leggi, ai trattati e agli oggetti finanziari. Friburgo possiede soltanto l'iniziativa in mate-ria costituzionale, dal 1857, sopra domanda di 6000 cittadini. Soletta ha dal 1856 l'iniziativa in materia costi-tuzionale, su domanda di 3000 elettori; dal 1875, quella in materia legislativa, applicabile alle leggi e ai decreti, su domanda di 2000 cit-tadini; e pure dal 1875 il « referendum » obbli-gatorio sulle leggi, trattati, decreti e oggetti finanziari. Basilea-Città possiede dal 1875 l'iniziativa in materia costituzionale e legislativa (leggi e de-creti) e il « referendum » facoltativo (leggi e decreti), sempre su domanda di 1000 elettori. Dal 1875 pure il «referendum» obbligatorio per le leggi e decreti elaborati in seguito a una domanda di iniziativa. Basilea-Campagna possiede l'iniziativa in ma-teria costituzionale, dal 1863, e quella in mate-ria legislativa (leggi, decreti, regolamenti) dal 1892, entrambe su domanda di 1500 cittadini;

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e, dal 1863, il «referendum» obbligatorio per le leggi, decreti, trattati. Sciaffusa possiede dal 1876 l'iniziativa in ma-teria costituzionale e legislativa (per le leggi propriamente dette soltanto) su domanda di 1000 elettori; e, dal 1895, il « referendum » ob-bligatorio per le leggi, decreti, e oggetti finan-ziari. Appenzello-Esterno (Cantone a « Landsgemein-de») possiede dal 1876 l'iniziativa in materia costituzionale e legislativa (leggi soltanto) e-speribile su domanda di un numero di elettori uguale a quello dei membri del Gran Consi-glio (70); e il «referendum» obbligatorio per le leggi, i trattati, e gli oggetti finanziari. Appenzello-Interno (Cantone a « Landsgemein-de») possiede, da tempo immemorabile, l'ini-ziativa in materia costituzionale e legislativa (leggi soltanto) su domanda entrambe di un solo cittadino; e il « referendum » obbligatorio per le leggi. San Gallo ha l'iniziativa costituzionale dal 1861 su domanda di 10.000 elettori; quella le-gislativa (leggi e decreti) dal 1890 su domanda di 4000; e pure dal 1890 e su domanda di 4000 cittadini il « referendum » facoltativo per le leggi e i decreti. I Grigioni possiedono dal 1880 l'iniziativa in materia costituzionale su domanda di 5000 elettori; dal 1892 quella in materia legislativa per le leggi, i decreti e i regolamenti su do-manda di 3000 elettori; dal 1880, su domanda pure di 3000, il « referendum » facoltativo per i regolamenti e i decreti, e dal 1852 quello ob-180

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bligatorio per le leggi, i trattati, i decreti e gli oggetti finanziari. Argovia possiede l'iniziativa costituzionale dal 1855, e quella legislativa (leggi soltanto) dal 1852, su domanda entrambe di 5000 cittadini; e dal 1885 il «referendum» obbligatorio per le leggi e gli oggetti finanziari. Turgovia possiede dal 1869 e su domanda di 2500 elettori l'iniziativa costituzionale ie legi-slativa (leggi e decreti); e il « referendum » ob-bligatorio per le leggi, i trattati e gli oggetti finanziari. Il Ticino possiede l'iniziativa in materia costi-tuzionale, su domanda di 70Ò0 cittadini, dal 1875; quella in materia legislativa (per le leggi e i decreti) dal 1892 su domanda di 5000 elet-tori; dal 1883 su domanda di 5000 elettori il « referendum » facoltativo per le leggi e i de-creti, esteso poscia nel 1892 agli oggetti finan-ziari. Vaud possiede, su domanda di 600.0 elettori, l'iniziativa costituzionale dal 1885, e quella le-gislativa (per le proposte di legge) dal 1861; dal 1885 il «referendum» facoltativo per le leggi e i decreti, e dal 1861 quello obbligatorio su questioni finanziarie. Il Vallese possiede dal 1852 l'iniziativa in ma-teria costituzionale su domanda di 6000 citta-dini e il «referendum» obbligatorio su que-stioni finanziarie. Neuchàtel possiede l'iniziativa costituzionale dal 1848, quella legislativa (leggi e decreti) dal 1882, entrambe su domanda di 3000 elettori; e dal 1879, su domanda d'ugual numero, il

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« referendum » facoltativo per le leggi e i de-creti. Ginevra possiede, dal 1891, su domanda di 2500 elettori, l'iniziativa in materia costituzio-nale e legislativa (leggi e decreti); e dal 1879 su domanda di 3500 elettori il « referendum » fa-coltativo per le leggi, i decreti e gli oggetti finanziari. Da questo quadro, meglio che da qualsiasi ra-gionamento, appare l'abisso enorme e insupe-rabile che divide i paesi monarchico-rappre-sentativi, come l'Italia, e quelli nei quali fiori-sce pienamente la democrazia moderna; e l'as-surdo di pensare alla possibilità di unire insie-me i due capi delle istituzioni che dominano i primi e di quelle che reggono i secondi. Eppure è spltanto in questi ultimi, e mediante le istituziorii che abbiamo in essi riscontrate, che la sovranità popolare ha la sua intera espansione e la sua attuazione completa.

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VII LA SOVRANITÀ POPOLARE

La moderna democrazia diretta, funzionante col mezzo degli istituti di cui abbiamo parlato, attua pienamente il concetto della sovranità popolare. Davanti ad essa si arrestano le acute considerazioni del Mosca intese a sostenere che in tutti gli ordinamenti politici la piccola classe dei governanti comanda di fatto alla grande classe dei governati. E si comprende come una siffatta generalizzazione si sia stabi-lita nel pensiero dell'illustre professore dell'U-niversità di Torino di fronte allo spettacolo degli Stati puramente parlamentari, e special-mente di fronte alla vita dello Stato italiano; si deve anche riconoscere che quella generalizza-zione perde ogni valore in presenza degli Stati ordinati nelle forme democratiche moderne, come l'America e la Svizzera. Un popolo è governato da una classe politica quando, come avviene nelle monarchie assolu-te o negli Stati puramente parlamentari, l'ela-borazione delle leggi - ossia delle restrinzioni imposte all'attività individuale - avviene in se-no a quella classe; e da essa le leggi discendo-no poscia sulla massa, la quale è costretta a subirle. Questo fenomeno - ha osservato giustamente il Mosca - si avverte, come nelle monarchie as-solute così nei regimi puramente parlamenta-

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ri. In questi, anche nell'ipotesi più favorevole che una Camera di rappresentanti sia riuscita a concentrare in sé, come in Inghilterra, tutto il potere, vi è sempre una distinzione netta tra il governo, rappresentato in questo caso dai deputati, e la massa del popolo che costituisce i sudditi, i governati. Le leggi si elaborano al-l'infuori e al di sopra del popolo, dal governo (cioè, nell'ipotesi dalla Camera dei deputati) e discendono da questa imperativamente sul po-polo. Abbiamo dimostrato come l'elezione dei depu-tati sia lontana dal garantire la sincera manife-stazione della volontà popolare. Che questa volontà non possa estrinsecarsi mediante i parlamenti se ne ha una prova di fatto nella circostanza delle frequenti reiezioni da parte del popolo, nei paesi dove esiste il «referen-dum », di leggi approvate dall'Assemblea dei rappresentanti. Ciò prova che, in questi casi, se il « referendum » non esistesse, il popolo avrebbe « subito » una legge la quale non era meno contral"ia alla sua volontà per essere sta-ta votata da un'Assemblea di eletti dal popolo stesso. Un popolo invece si governa da sé quando es-so, anziché doverle senz'altro subire, può ac-cettare o respingere le leggi elaborate dagli enti che incarnano il governo, e quando le leg-gi anziché avere sempre il loro germe in questi enti possono averlo anche nella massa. Ciò si ottiene mediante il « referendum » e il diritto popolare d'iniziativa in materia legisla-tiva e costituzionale. Ora ci domandiamo: è possibile che anche at-184

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traverso il « referendum » e l'iniziativa si faccia sentire la predominanza politica della classe dirigente sulla massa, e che continui a manife-starsi il governo dei pochi sui molti? E rispondiamo: no, non è possibile. Basta, per accertarsene, pensare un momento a quanto accade quando alla massa popolare viene sottoposta per la votazione una legge, confrontandolo con quanto accade quando al-la massa viene invece presentata una persona per l'elezione. Quest'ultimo mezzo è l'unico canale aperto al-la manifestazione della volontà popolare nei regimi puramente rappresentativi. Ma, che co-sa accade quando questo mezzo viene messo in azione? Accade che la «classe politica» riesce sempre ad avere e a conservare la sua prevalenza. È, per la maggior parte, da questa classe - cioè, attualmente, dall'alta e dalla media borghesia - che escono i candidati ai vari uffici pubblici elettivi, anche perché questa classe ha il mono-polio della cultura. La massa, nelle elezioni, si trova costantemente davanti, per la scelta, can-didati uscenti dalla «classe politica»; e anche quando con essi concorrono candidati non uscenti da questa classe i primi hanno sempre di gran lunga maggiore probabilità di vittoria, sia per i maggiori mezzi finanziari, sia per l'a-scendente personale che in grazia della loro si-tuazione economica esercitano sulla massa, sia infine anche per una specie di tendenza atavi-ca all'obbedienza che, almeno in molti luoghi, trascina la massa a votare per la persona la cui famiglia ha da tempo immemorabile esercitato

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la supremazia nel luogo: per cui, molte volte, l'antica supremazia feudale non fa che can-giarsi, passando da una generazione all'altra, in supremazia elettorale.' Il Mosca nota acuta-mente che anche la funzione di deputato ten-de a diventare ereditaria. « Bisogna osserva-re » egli scrive « che riescono quasi sempre eletti coloro che posseggono le forze politiche che abbiamo già enumerate e che spessissimo sono ereditarie. Difatti, nel Parlamento ingle-se ed anche in quelli francese ed italiano ve-diamo frequentemente sedere i figli, i fratelli, i nipoti e i generi di deputati ed ex deputati ». Finalmente, mediante l'elezione, la « classe po-litica» riesce sempre a mantenere il suo pre-dominio per un'altra ragione già adombrata: essa presenta all'elezione un uomo, cioè un complesso di idee, di tendenze, di preconcetti che sono patrimonio comune della classe. La massa Io elegge perché promette, per esem-pio, una ferrovia, una strada, o anche un dato voto in una determinata circostanza. Ma eleg-gendolo per queste ragioni la massa elegge tutto l'uomo con tutte le sue idee, i suoi pre-concetti, le sue tendenze. Quand'anche la vo-lontà della massa riesca a prevalere per quel determinato caso, cioè nell'ottenere la ferro-via, la strada, ecc., si troverà contraddetta dal-l'opera del suo eletto in mille altri casi non previamente chiariti, nei quali egli seguirà una condotta conforme all'interesse della classe e

1. Vedine un esempio nel bellissimo romanzo del De Roberto: / viceré. 2. Mosca, Elementi, cit., p. 75.

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contraria alla volontà della maggioranza della massa. Eppure questa nelle nuove elezioni si troverà forse decisa a rinominarlo ancora per riuscire a far prevalere la sua volontà sopra uno o pochi soli punti, fatti oggetto di pro-gramma elettorale da parte del candidato; e andrà incontro in tal modo ai medesimi incon-venienti di prima. Si paragoni questa situazione di cose con quanto accade quando alla massa viene sotto-posta una disposizione di legge, o che tale di-sposizione sia stata elaborata dal governo (« re-ferendum »), o che sia stata elaborata e presen-tata da una frazione della massa medesima (iniziativa). In tal caso la massa deve non più eleggere una persona, ma votare sopra una cosa. Si tratterà, per esempio, di accettare o respingere un pro-getto di codice civile, di votare per l'esercizio di Stato o per la cessione a una compagnia pri-vata di una ferrovia, di approvare o rifiutare una tassa o una legge di polizia dei pubblici esercizi!. In questo caso, non è più, in primo luogo, possibile nessuna confusione: non av-viene più, cioè, come accade quando la massa è chiamata ad eleggere una persona che essa elegga in questa tutto un complesso di idee, di tendenze, di pregiudizii, la cui azione sfugge quasi totalmente al controllo della massa e agi-sce indipendentemente da questa una volta che la persona è stata eletta. Il giudizio, invece, verte sopra una sola e determinata questione: e di fronte ad essa ciascun cittadino emette il giudizio che gli pare più opportuno. In secondo luogo, nessun ascendente persona-

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le - quell'ascendente famigliare, economico, intellettuale per cui un uomo, appartenente alla classe politica dirigente, ha mille probabi-lità di imporsi alla massa - è possibile. Si tratta di una questione astratta; non d'una persona; e quindi la visione del proprio interesse appa-re nitidamente a ciascuno, non offuscata da considerazioni estranee o da errori, e a norma di tale visione ciascuno emette il suo voto. Finalmente, tutti gli altri mezzi con cui, trat-tandosi di elezioni di persone, la « classe politi-ca » riesce a dominare la massa - corruzioni, pressioni, ecc. - vengono meno. Quando, per esempio, si presenti come candidato al Parla-mento un proprietario fondiario, questi potrà essere eletto grazie, poniamo, alla promessa di votare per la costruzione d'una strada, o di emettere un voto contrario a un ministero in-viso agli elettori; e oltre a ciò riuscirà ad essere eletto mediante la corruzione da lui esercitata, il suo ascendente personale, ecc. Il deputato, nominato per queste ragioni e con tali mezzi, voterà bensì per la strada, voterà contro il mi-nistero, ma voterà anche, presentandosi il ca-so, favorevolmente al dazio sul grano. La mas-sa, quindi, grazie alla promessa della strada, del voto contro il ministero, e per opera dell'a-scendente personale del candidato e della cor-ruzione da lui esercitata, si troverà ad aver vo-tato, in modo indiretto e assolutamente contro sua voglia, anche a favore del dazio sul grano, il quale, per ipotesi, danneggia i suoi interessi e non è da essa voluto. Ma si supponga ora che la questione stessa del dazio su grano venga direttamente sottoposta 188

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alla massa. Come è possibile, in questo caso, che si esplichi il predominio della « classe poli-tica » e il governo dei pochi sui molti? Ciascun cittadino vede quale è il suo interesse sopra quella sola questione precisa e diretta, e secon-do quel suo interesse voterà senza che né l'a-scendente né le suggestioni di chicchessia pos-sano distornamelo. Neppure la corruzione potrà aver presa: imperocché mentre, trattan-dosi dell'elezione di una persona, l'elettore non ha quasi mai chiara e nitida dinanzi agli occhi l'intuizione di danneggiare i propri inte-ressi votando per quella persona, ha invece chiarissima l'intuizione di danneggiare sé stes-so votando, per esempio, un dazio sul grano, se questo gli aumenta il prezzo del pane, senza offrirgli altri compensi: la corruzione, quindi, che nel primo caso è facilissima, è, nel secondo quasi impossibile. Mediante la democrazia diretta, adunque, il governo dei pochi sui molti è praticamente inattuabile. Non vogliamo dire con ciò, si noti, che la lotta di classe non si manifesti nei paesi a democra-zia diretta. Soltanto, in questi paesi, la classe socialmente predominante non può farsi un contrafforte dell'ordinamento politico, per ren-dersi più potente che in realtà non sia, e, me-diante una legislazione di classe, cristallizza-re il suo predominio per modo da rinforzar-lo e perpetuarlo oltre quanto corrisponde alla sua potenzialità sociale effettiva. La democra-zia diretta impedisce, insomma, che il predo-minio economico si converta in predominio politico, o, almeno, impedisce che il predomi-

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nio politico della classe prevalente economica-mente divenga esteso, continuato, efficace, se-rio. La democrazia diretta, permettendo alla massa di rovesciare tutte le leggi che non le vanno a genio, stabilisce e mantiene un terre-no politico di uguaglianza e di neutralità nel quale le lotte di classe vengono combattute col-le forze effettive di cui ciascuna classe dispone senza che ad esse si possano aggiungere le forze artificiali della politica e della legislazione. Abbiamo, altrove,' notato come in Isvizzera il partito socialista volga quasi esclusivamente la sua attività al campo economico: organizzazio-ni operaie, scioperi, ecc. Ciò avviene appunto perché nella Svizzera, paese a democrazia di-retta, l'assetto politico e la legislazione non formano un « rempart » per la classe economi-camente prevalente, ma costituiscono un cam-po aperto nel quale le lotte economiche si pos-sono liberamente combattere dalle varie c assi che spiegano nella lotta le rispettive forze ef-fettive, mediante le organizzazioni operaie, gli scioperi, i consorzi padronali, i «lock-outs», senza che l'azione politica possa venir a per-turbare l'opera di queste forze. E notavamo anche che un insigne statista svizzero, il Droz, osserva appunto come il «referendum» riu-scisse ad impedire che il formarsi d'una classe economicamente potente in seguito al costi-tuirsi della grande industria venisse a produr-re una legislazione di classe.

1. Cfr. Giuseppe Rensi, Il Socialismo in Isvizzera, in «Cri-tica Sociale», 16 gennaio e 1° febbraio 1901.

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« Era l'epoca » scrive il Droz' « in cui, sotto il regime della libertà di commercio e d'indu-

I stria, si fondavano le grandi Società d'azionisti per lo sfruttamento delle ferrovie, della Ban-ca, e degli altri rami dell'attività nazionale. Ne risultava uno sviluppo colossale della prospe-rità economica, ma anche uno stato di dipen-denza più grande da parte dell'individuo, in-capace di lottare da solo contro queste potenti organizzazioni. Così veniva a ricostituirsi una specie di feudalità. Essendo la divisione del la-voro spinta fino alle sue ultime conseguenze, veniva ad imporsi all'operaio una regolarità meccanica. Instintivamente il popolo cercava un correttivo e domandava alla legge di pro-teggere maggiormente l'individuo. Ma la leg-ge chi la faceva? I parlamentari sovrani. Una volta eletti i deputati il diritto degli elettori cessava. Per forza di cose, i parlamenti erano composti di avvocati, di grandi industriali, di ricchi proprietari, di uomini di finanza, i quali si intendevano tra loro come in famiglia. Era una nuova aristocrazia sostituita all'antica. Il rimedio consisteva nel dare al popolo non sol-tanto il potere costituente, ma anche il potere legislativo, e ciò mediante il "referendum" ». In America, noi avvertiamo lo stesso fenome-no: vale a dire, la barriera insormontabile che la democrazia diretta oppone al formarsi di una legislazione di classe. Ecco che cosa dice in proposito l'autore che ha più largamente e

1. Numa Droz, Histoire Politique de la Suisse au XIX Siècle, in Paul Seippel, La Suisse au XIX Siècle, Ch. Viret-Genton, Lausanne, 1899-1901, voi. I, pp. 312-13.

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profondamente studiato la presente situazio-ne politica americana, il Bryce: « Sarebbe dir poco l'affermare che non vi sono in America leggi, come le leggi di classe in Eu-ropa, le quali opprimono i poveri per salva-guardare gelosamente i piaceri e la tasca dei ricchi; giacché in un paese dove i poveri sono da lungo tempo in maggioranza e hanno nelle loro mani il potere politico, è evidente che essi si sono fatti giustizia da sé medesimi. Ma si sa-rebbe potuto temere il pericolo contrario; i poveri avrebbero potuto prendere la loro ri-vincita contro i ricchi, far cadere su di questi tutto il peso delle imposte, e disprezzare, pro-testando l'interesse delle masse, ciò che si chia-ma il diritto di proprietà. Non soltanto la cosa non è stata tentata - ma non è stata quasi sug-gerita (se non, naturalmente, da parte dei so-cialisti d'Europa), e non ispira alcun serio ti-more. Niente nel meccanismo del governo po-trebbe far più che ritardare per qualche tem-po l'adozione di leggi di questo genere, se le masse le desiderassero. Ciò che lo impedisce è l'onestà e il senso comune dei cittadini in ge-nerale, i quali sono convinti che gli interessi di tutte le classi sono press'a poco i medesimi, e che la giustizia è il più grande di questi inte-ressi. L'uguaglianza, la libera concorrenza, il campo libero per tutti, ogni incoraggiamento possibile al lavoro e ogni specie di garanzia per i frutti del lavoro: ecco quel che essi consi-derano come i principii evidenti della prospe-rità nazionale».'

1. Bryce, op. cit, voi. I l i , p. 493.

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Queste parole del Bryce ci conducono ad un'altra considerazione. Negli Stati a demo-crazia diretta, se è impossibile per la classe economicamente forte di emanare una legisla-zione di classe, oppressiva per i poveri, è quasi altrettanto impossibile per la classe operaia di ottenere, alla sua volta, una legislazione di classe, apertamente diretta cioè a distruggere il privilegio economico dei detentori dei mezzi di produzione. E si capisce perché ciò avviene. La massa dei cittadini non si presenta divisa nettamente in due classi: i poveri e i ricchi, i padroni e gli operai. Vi sono moltissime cate-gorie intermediarie: i piccoli proprietari-colti-vatori, gli artigiani, i piccoli commercianti, ecc., i cui interessi non collimano con quelli d'una delle classi principali e divergono tra di loro. Su di ciascuna questione sottoposta al vo-to popolare, i suffragi dei cittadini apparte-nenti a queste classi e sottoclassi si intrecciano e si raggruppano, sopra ogni separazione di classe, per modo da essere praticamente im-possibile che una misura estrema raccolga la maggioranza dei suffragi. Così la legislazione segue una via mediana ed equitativa, con ten-denza a costituire sempre migliori condizioni per gli operai, senza attaccare alla radice il pri-vilegio della proprietà - a seguire cioè la linea che, secondo la risultante delle opinioni comu-ni alla grande maggioranza, costituisce la com-binazione del diritto con l'equità e con la bene-volenza che va tribuita ai più sfavoriti dalla sorte. Non vogliamo, però, mancar qui di avvertire come vi siano argomenti per sostenere che la

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democrazia diretta opera anche nel senso di attenuare la lotta di classe ed eziandio di ap-pianare fino ad un certo punto le stesse divi-sioni di classe. Abbiamo altrove ' notato che in Isvizzera il concetto di lotta di classe, il quale è la pietra angolare del movimento socialista in Italia e in Germania, è relegato nell'ombra, né rappresenta un principio fondamentale o grandemente importante; e abbiamo, in quel-l'occasione, citato l'opinione di uno dei capi del Partito socialista svizzero, Teodoro Curti, il quale scrisse: « Le speculazioni, quali la leg-ge di bronzo dei salarli, la proletarizzazione delle masse e la lotta di classe, non hanno com-mosso profondamente gli spiriti, precisamen-te perché, grazie alle libertà politiche, rimane-va aperto il campo alle riforme sociali e tra le classi della società avveniva un continuo scam-bio di idee e di concessioni Quanto agli Sta-ti Uniti d'America, l'autore che li ha meglio studiati e descritti, il Bryce, ci conferma repli-catamente che una divisione di classi come in Europa, non esiste colà. « Le differenze di opi-nioni» egli scrive, in un passaggio della sua grandiosa opera ' « sono verticali e non oriz-zontali ». E in un altro punto spiega questo suo concetto così: « Le classi non sono affatto in America ciò che sono nelle grandi nazioni del-l'Europa. Non bisogna dividerle, dal punto di vista politico, in alte e basse classi, in ricchi e poveri, ma piuttosto secondo le loro occupa-

1. Cfr. Rensi, Il Socialismo in Isvizzera, cit. 2. In P. Seippel, La Suisse auXIXSiècle, cit., voi. IH, p. 215. 3. Bryce, op. cit., voi. I l i , p. 358.

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zioni e secondo le condizioni di vita che costi-tuiscono il loro ambiente»;' e cioè, per esem-pio, in coltivatori, ricchi e poveri, padroni e la-voratori, che formano tutti una sola categoria e portano nell'opinione pubblica un'unica da-ta tendenza; in commercianti, anche qui, ric-chi e poveri, padroni e lavoratori, che deter-minano tutti insieme un'altra corrente di opi-nione pubblica. Mentre in Europa la divisione, dal punto di vista politico, è, sommariamen-te, in senso orizzontale, e cioè tutti i padroni, tutti i ricchi (proprietari fondiari, commer-cianti, industriali, ecc.), e tutti i poveri, tutti i lavoratori appartengano all'agricoltura, all'in-dustria, ecc. Ma, anche ritenuta questa distinzione verticale di classi, non è da credere, secondo il Bryce, che una di esse sia riuscita a costituirsi in classe dirigente. « In Europa » egli scrive^ « vi è sem-pre una classe dirigente, un gruppo di perso-ne che la nascita, la ricchezza o l'educazione hanno elevato al di sopra dei loro simili, e alle quali fu lasciata la cura di formare l'opinione pubblica, di occupare i seggi delle legislature. L'opinione pubblica della Germania, dell'Ita-lia, della Francia e dell'Inghilterra, è stata, in complesso, l'opinione della classe che porta abiti neri ed abita buone case, quantunque nei due ultimi paesi sia stata sempre più influen-zata, durante gli ultimi anni, dalla opinione delle classi socialmente inferiori. Sebbene i membri del Parlamento inglese obbediscano

1. lìrid., p. 391. 2. Ibid., pp. 356-57.

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ora alla massa dei loro elettori quando questi esprimono nettamente un desiderio, l'influen-za che agisce ancora maggiormente su di essi e li avvolge, è sempre l'opinione di una classe o di certe classi, e non quella di tutta la nazione. La classe a cui appartiene la grande maggio-ranza dei membri delle due Camere (cioè quella dei proprietari fondiarii, e dei membri delle professioni liberali o dell'alto commer-cio) è la classe che forma in gran parte e che esprime ciò che si chiama l'opinione pubblica. ... Negli Stati Uniti, l'opinione pubblica è l'opi-nione di tutta la nazione, quasi senza distinzio-ni di classi. Gli uomini politici ... non aspirano a formare l'opinione; essi sono come lo schia-vo orientale che dice: odo ed obbedisco. E non vi è neppure una classe, un gruppo d'uomini, uno stato sociale, il quale crei, piuttosto che un altro, delle idee, e che costruisca una dottrina politica per le masse. L'opinione della nazione è la risultante delle viste non d'un certo nume-ro di classi, ma di una moltitudine d'individui, differenti senza dubbio l'uno dall'altro, ma meno differenti dal punto di vista politico che se fossero membri di gruppi separati dal ran-go sociale o dalla proprietà». Altre importanti conferme, nello stesso senso, ci offre l'autore nominato: «In Europa» scri-ve' «le classi sono divenute dei fattori nella x)litica per interesse o per passione. Le leggi e 'amministrazione sono state talvolta assai du-

re per una classe e questa classe ha dovuto di-fendersi ed affrancarsi. Ovvero, i suoi senti-

1. Ibid., p. 407.

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menti sono stati feriti da ingiustizie o insulti anteriori, ed essa cerca l'occasione di vendicar-si. Ma non si può dire che in America una clas-se abbia una di queste ragioni per agire così. Le classi non sono dunque state uno dei prin-cipali fattori nella politica americana o nella formazione della opinione pubblica del popo-lo americano». E finalmente: «Possiamo ripe-tere ciò che abbiamo già detto, che in America l'opinione non ha la sua origine in una classe particolare, ma che essa cresce e si sviluppa in tutta la nazione».' Senza voler approfondire più oltre l'argomen-to, ci basta poter venire alla conclusione che sembra si possa sostenere aver la democrazia diretta un'influenza nel senso di attenuare la lotta di classe sia anche la stessa divisione fra le classi. La teoria della divisione e della lotta di classe ha preso origine nella mente di poderosi pensatori volta a studiare lo spettacolo che of-frivano i maggiori Stati d'Europa, nei quali quella teoria è perfettamente vera. Ma potreb-be darsi che il nuovo mondo e gli assetti politi-ci veramente nuovi presentino molte cose che (come diceva Amleto) non entrano nella no-stra filosofia.

Per toccare con mano come la teoria del: Mo-sca, che le minoranze organizzate dominano sempre sulla massa disorganizzata, vien meno davanti alla democrazia diretta, dobbiamo ve-dere che cosa faccia, nella pratica, il popolo

1. Ibid., p. 344.

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mediante il « referendum », l'iniziativa, e il di-ritto di revisione; se veramente, là dove esisto-no questi istituti, la minoranza organizzata detti essa, in realtà, le leggi alla massa; o se non piuttosto la massa riesca ad ottenere sol-tanto le leggi che più le piacciono. Per fare questa constatazione esporremo i dati che ci presenta la statistica politica svizzera. Abbandoneremo le votazioni federali, come quelle che sono meno significanti per noi; e ci faremo ad esaminare quelle cantonali, osser-vando che cosa accade nei vari Cantoni onde trarne il giudizio se il popolo di questi sia vera-mente sovrano o se invece sia governato da una « classe politica ». Ci limiteremo al periodo 1890-1894. Nel 1890, in ordine di data, furono respinte dal popolo dei seguenti Cantoni le seguenti leggi: Zugo: revisione parziale della legge sull'assicu-razione immobiliare contro gli incendi; Basi-lea-Città: legge sulla assicurazione obbligato-ria contro le malattie; Berna: legge sull'impo-sta; Ginevra: legge costituzionale sulle incom-patibilità; legge costituzionale sul «referen-dum» facoltativo; legge costituzionale sul di-ritto di iniziativa; Ticino: legge sull'imposta; Grigioni: censimento degli immobili; progetto di legge circa le frazioni di Comune; Basilea-Città: domanda di iniziativa circa la rappre-sentanza proporzionale nella nomina dei de-putati al Gran Consiglio. Nello stesso anno, 1890, vennero accettate le seguenti disposizioni legislative: Basilea-Città: Costituzione riveduta; Svitto: di-198

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sposizioni concernenti le intimazioni mediante affissi relative alle successioni; disposizioni le-gali sulle scomparse di persone o assenze pro-lungate; Zurigo: modificazione all'art. 4 della legge sulle votazioni; legge sui funerali; Ber-na: legge sulla procedura in materia di re-sponsabilità civile e proprietà intellettuale o industriale; Turgovia: legge sull'igiene pub-blica e sulla polizia delle derrate alimentari; Ticino: domanda di iniziativa per la revisione della Costituzione, da farsi co mezzo di una costituente; Svitto: disposizioni legali concer-nenti l'assicurazione dei fabbricati e del mobi-lio in caso d'incendio; legge sull'indennità in caso di incendio di fabbricati; modificazione dell'art. 2 della legge sulla Banca cantonale; legge concernente l'imposizione degli stabili-menti di trasporto, depositi di mercanzie, ecc.; Berna: legge sulla creazione d'una scuola in-dustriale; decreto modificante una legge pre-cedente circa la scuola d'agricoltura della Rut-ti; Grigioni: revisione della procedura penale; San Gallo: progetto di Costituzione. Nell'anno 1891 furono respinti: Lucerna: domanda di iniziativa per la revisio-ne della Costituzione; Zugo: domanda di ini-ziativa concernente la revisione della legge su-gli esercizii e sull'imposta; Sciaffusa: legge co-stituzionale concernente la revisione delle di-sposizioni relative al potere giudiziario; Solet-ta: legge circa l'applicazione della legge fede-rale d'Esecuzione e Fallimenti; Berna: idem; Argovia: idem; Basilea-Campagna: idem; leg-ge relativa al diritto matrimoniale in materia di beni, al diritto d'eredità, e alle donazioni;

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Argovia: secondo progetto d'una legge canto-nale per l'applicazione di quella federale d'E-secuzione e Fallimenti; art. 55 della legge pre-detta; domanda di revisione per affidare al popolo l'elezione dei membri del Consiglio di Stato e di quello degli Stati; Svitto: revisione parziale della Costituzione; Soletta: legge sulle conseguenze in ordine ai diritti civici dell'ese-cuzione infruttuosa; Grigioni: legge sugli sti-pendf dei membri del corpo insegnante pri-mario; Turgovia: decreto concernente la rior-ganizzazione degli stabilimenti cantonali di alienati. Nell'anno 1891 furono accettati: Lucerna: revisione della Costituzione; Ticino: Costituzione riveduta; Berna: decreto circa la percezione d'una imposta per l'estensione del servizio pubblico degli alienati; legge circa l'a-brogazione di leggi concernenti la fabbricazio-ne dell'acquavite e del «trois-six»; Turgovia: legge circa la revisione del capitolo XI della legge rurale; legge d'applicazione di quella fe-derale d'Esecuzione e Fallimenti; Basilea-Cit-tà: elezione dei giudici da parte del popolo; Ticino: domanda di iniziativa per una revisio-ne parziale della Costituzione cantonale, me-diante una Costituente; Zurigo: legge d'appli-cazione di quella federale d'Esecuzione e Falli-menti; Berna: decreto concernente la parteci-pazione dello Stato alla costruzione di nuove ferrovie; Soletta: codice civile riveduto; codice di procedura riveduto; Basilea-Campagna: se-condo progetto di legge concernente il diritto matrimoniale in materia di beni, il diritto d'e-redità e le donazioni; Ginevra: legge costitu-200

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zionale in materia di iniziativa; legge costitu-zionale circa l'epoca dell'elezione del Gran Consiglio e del Consiglio di Stato e durata del-le loro funzioni; Zurigo: legge costituzionale concernente disposizioni particolari applicabi-li ai Comuni che hanno più di 10.000 abitanti; legge concernente l'annessione alla città di Zu-rigo di alcuni comuni limitrofi, e le imposte comunali di Zurigo e Winterthur (approvata, meno un articolo riguardante la estensione della scuola primaria); concordato tra i Canto-ni di Zurigo, Svitto e San Gallo circa l'esercizio della pesca nel lago di Zurigo; Basilea-Città: decreto concernente la libera disposizione del-la Piazza del Mercato; Soletta: secondo proget-to di legge d'applicazione di quella federale d'Esecuzione e Fallimenti; legge per incorag-giare e migliorare l'allevamento del bestiame; Zugo: iniziativa di revisione costituzionale; Svitto: secondo progetto di revisione costitu-zionale; legge d'applicazione di quella fede-rale di Esecuzione e Fallimenti; Berna: secon-do progetto di legge d'applicazione di quella federale d'Esecuzione e Fallimenti; Basilea-Campagna: decreto concernente la revisione della Costituzione cantonale; secondo proget-to di legge d'applicazione di quella federa-le d'Esecuzione e Fallimenti; Grigioni: legge concernente la revisione delle condanne pena-li; Zugo: legge relativa alla creazione di una Banca cantonale; Basilea-Città: decreto mo-dificante la Costituzione nel senso di affidare agli elettori la nomina dei membri dei tribuna-li cantonali.

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Nell'anno 1892 furono respinti: Ticino: legge sulla partecipazione dello Stato alla costruzione e all'esercizio delle ferrovie regionali; Turgovia: legge sullo stipendio de-gli uscieri di prefettura; Ticino: egge sulla polizia degli esercizi pubblici; Zurigo: legge modificante alcune disposizioni relative ai giu-dici di distretto; Ginevra: revisione totale della Costituzione; Svitto: decreto concernente l'ac-quisto di 200 azioni della Ferrovia del Sud-est svizzero; San Gallo: legge sui funerali civili; Argovia: legge relativa alle tasse di naturaliz-zazione; Basilea-Campagna: legge riguardan-te il riposo domenicale. Nell'anno 1892 furono accettati: Turgovia: decreto concernente la ricostruzio-ne d'un manicomio; Berna: legge circa il rior-dinamento dei registri fondiarii e titoli ipote-cari distrutti nell'incendio di Meiringen; Solet-ta: legge sulle tasse da prelevarsi per diritti di concessioni idrauliche accordate dallo Stato; legge trasformante la sezione commerciale del-la scuola cantonale in scuola di commercio; iniziativa circa le intimazioni di pagamento e le minaccie di fallimento; Zurigo: decreto au-torizzante un credito per la trasformazione dello stabilimento Beugger a Wulflingen in ca-sa di salute; decreto autorizzante un credito per la costruzione d'una clinica e policlinica oftalmica; Basilea-Campagna: Costituzione can-tonale; Turgovia: iniziativa per il ripristino di una tassa sulla birra; Ginevra: legge costituzio-nale sulla rappresentanza proporzionale dei deputati al Gran Consiglio; legge costituzio-na e modificante un articolo della legge sul

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culto protestante; Turgovia: decreto per la co-struzione d'un nuovo ospedale per vaiuolosi; Grigioni: Costituzione cantonale riveduta; Ti-cino: Costituzione cantonale riveduta; Sciaffu-sa: legge relativa alla revisione di tre articoli della Costituzione; Friburgo: revisione parzia-le della Costituzione cantonale; Berna: revisio-ne della Costituzione, mediante il Gran Consi-glio; legge concernente la partecipazione dello Stato al mantenimento delle strade di IV clas-se; modificazione e completamento della legge sull'assicurazione immobiliare. Nell'anno 1893 furono respinti i provvedi-menti seguenti: Soletta: revisione della Costituzione, mediante una Costituente; San Gallo: iniziativa per l'in-troduzione del voto proporzionale; Turgovia: secondo progetto di legge sugli stipendi degli uscieri di prefettura; legge sull'esecuzione di un catasto generale; legge circa un'imposta sugli spacci di birra; legge sulla sovvenzione dello Stato alle ferrovie a scartamento ridot-to; Basilea-Campagna: legge sugli onorari dei membri del Consiglio di Stato, del cancelliere e del suo sostituto; Grigioni: legge sugli sti-pendi degli insegnanti primarii; legge circa 'obbligo del bollo per le cambiali; legge d'im-

posta sulle successioni collaterali, legati, dona-zioni, ecc.; Berna: legge sulle conseguenze ci-viche del fallimento e dell'esecuzione infrut-tuosa; Argovia: iniziativa concernente la revi-sione della legge sulla caccia; Soletta: riforma finanziaria; Svitto: iniziativa concernente una legge sul bollo; Turgovia: questione della gra-tuità del materiale scolastico per le scuole pri-

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marie e le scuole di perfezionamento; Lucer-na: iniziativa concernente una legge sull'ele-zione proporzionale per i deputati al Gran Consiglio, e la divisione del Cantone in 8 cir-coli elettorali. Nell'anno 1893 furono accettati: Soletta: legge sull'istituzione dei tribunali di probiviri; Lucerna: legge sull'imposta; Sciaf-fusa: ripristino della pena di morte per omici-dio; Zurigo: modificazione dell'articolo della Costituzione riguardante l'elezione dei mae-stri e degli ecclesiastici, nel senso proposto dal Gran Consiglio e non dalla domanda d'inizia-tiva; modificazione d'un articolo della legge concernente l'industria degli alberghi; legge sulle costruzioni nelle località urbane; Berna: legge concernente l'organizzazione della poli-zia cantonale; Argovia: legge circa il ritiro del Cantone di Argovia dal concordato con altri Cantoni relativo ai vizi redibitori del bestiame; Berna: Costituzione cantonale; Ginevra: legge costituzionale per l'elezione da parte del po-polo dei deputati al Consiglio degli Stati; Zuri-go: legge riguardante la custodia e la tassa dei cani; legge sulla divisione di quattro parroc-chie; legge sul trasferimento allo Stato della maggior parte dei servizi stradali; Berna: mo-dificazione alla legge sull'imposta; Soletta: se-condo progetto di legge sulle conseguenze ci-viche del fallimento e della esecuzione infrut-tuosa; Svitto: legge sui diritti d'eredità; Tici-no: revisione parziale della Costituzione ri-guardante l'esercizio elettorale dei ticinesi do-miciliati all'estero. 204

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Nel 1894 furono respinti: Berna: secondo progetto sulle conseguenze ci-viche del fallimento e dell'esecuzione infrut-tuosa; Ginevra: legge accordante un credito di un milione e mezzo di franchi al governo per assicurare la costruzione d'una ferrovia; Gri-gioni: legge sull'esercizio della caccia; Zurigo: decreto determinante a quale comune politico deve essere annesso Herzogenmùhle; iniziati-va per la soppressione delle pensioni dei mae-stri e degli ecclesiastici; legge sugli stipendi dei membri del Consiglio di Stato e dei giudici cantonali. Nel 1894 furono accettate: Friburgo: revisione parziale della Costituzio-ne cantonale; Turgovia: legge concernente il pegno del bestiame; Zurigo: legge che proibi-sce il lavoro nelle fabbriche nei giorni festivi; modificazione alla legge sull'assicurazione dei fabbricati; Soletta: legge sull'alloggio dei can-cellieri di tre prefetture; Ticino: revisione del-la Costituzione nel senso di stabilire una sede permanente del Tribunale d'Appello; Zugo: revisione della Costituzione; Berna: legge sul-le scuole primarie; Turgovia: decreto concer-nente l'ampliamento del Manicomio cantona-le; Grigioni: legge sulle costruzioni; Zurigo: legge circa le fiere, i mercati, il commercio am-bulante; decreto circa la conservazione del fondo cantonale per i vigneti; revisione della legge sulla fillossera; elevazione dell'imposta dei biglietti di banca dal 5 al 6 per cento del-l'ammontare dell'emissione; Berna: legge sul-l'edilizia; legge sugli alberghi; Zurigo: doman-da di iniziativa concernente la revisione del-

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l'art. 32, alinea 2, della Costituzione; legge sul diritto d'iniziativa popolare; legge sulla prote-zione degli operai; Argovia: completamento della legge rurale; legge sulle conseguenze del fallimento e dell'esecuzione infruttuosa; par-ziale modificazione della legge sulle elezioni e le votazioni; Soletta: legge sull'assicurazione del bestiame; Sciaffusa: domanda di iniziativa per la revisione della Costituzione cantonale, da farsi per mezzo d'una Costituente; Ticino: legge circa la creazione di un manicomio; ri-forma della organizzazione giudiziaria e della procedura penale. Abbiamo qui la statistica delle votazioni canto-nali avvenute in tutta la Svizzera nel periodo di cinque anni consecutivi, scelto a caso, e sufficiente per darci un'idea di quello che può fare, in ordine alla direzione della cosa pubbli-ca, quella massa disorganizzata che nei regimi puramente parlamentari come nelle monar-chie assolute, è sempre governata da una pic-cola «classe politica». Dalla semplice lettura dello specchio delle vo-tazioni surriportate balza agli occhi l'immensa differenza che corre tra queste forme di go-verno e la democrazia diretta; e apparisce la potenza veramente sovrana della volontà della massa in quest'ultima. Gli oggetti più disparati, che, negli Stati pura-mente costituzionali, si trattano e si risolvono, del tutto lontano dalla massa medesima, e sen-za che questa ne abbia spesse volte neppure sentore, qui sono interamente sottoposti al suo giudizio inappellabile. Questioni che presso di noi sono di competenza o del Parlamento o 206

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d'una divisione del Ministero, o del Consiglio di Stato, o d'un Prefetto, o d'una Giunta pro-vinciale, sono, nei paesi ordinati a democrazia diretta, giudicate e risolte dalla maggioranza del popolo. Questa decide di tutto: dal muta-mento della Costituzione, alla partecipazione dello Stato alla costruzione d'una ferrovia; dall'erezione di una scuola, all'introduzione di una nuova imposta; dalla determinazione di una circoscrizione amministrativa a una legge di polizia; dal diritto civile agli stipendi dei maestri o degli ecclesiastici. Chi consideri il forte numero di leggi elabora-te dai Gran Consigli e dai Governi cantonali -minoranza organizzata, « classe politica » — e a cui la maggioranza dei cittadini - massa disor-ganizzata - ha, col suo voto contrario, negato vigore, non può non iscorgere immediata-mente quanto noi ci troviamo qui lontani dal-la teoria del Mosca, e quanto gli Stati a demo-crazia diretta rappresentino alcunché di ve-ramente nuovo e di radicalmente diverso da quelli a cui la teoria si applica. E ce ne persuaderemo maggiormente, riflet-tendo, non solo al numero delle leggi che i go-vernanti approvarono e la massa respinse, ma anche a quelle che scaturirono direttamente dal volere della massa: ne abbiamo parecchi esempi, nella serie sopra enumerata, sia nelle domande di iniziativa (le quali hanno sempre un'origine e uno spirito contrari alla classe di-rigente, giacché si spiegano là dove una deter-minata tendenza popolare non trova la sua esplicazione né nel governo, né nell'assemblea dei rappresentanti) che furono accettate dal

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popolo; sia nei « secondi progetti » di varie leg-gi che furono sottoposti alla votazione popola-re ed approvati. La presentazione, infatti, di un secondo progetto di legge che, dopo la reiezione del primo, viene accettato, significa che il secondo progetto venne elaborato in modo da introdurvi quelle disposizioni o to-gliervi quelle altre la cui mancanza o la cui presenza aveva fatto respingere il primo pro-getto dalla maggioranza popolare. Significa insomma che gli enti governativi e legiferanti hanno sentito e hanno obbedito alla volontà di questa maggioranza. Ciò conduce ad un'altra osservazione. Nei pae-si dove esistono il « referendum » e i diritti d'i-niziativa e di revisione, la potenza della volon-tà della massa sul governo è assai maggiore di quello che apparisce dalla misura con cui, in concreto, tale volontà si fa valere mediante gli istituti. L'esistenza del «referendum», dell'iniziativa e della revisione, è, per sé stessa, infatti, una spada di Damocle che pende sopra ogni dispo-sizione legislativa o costituzionale contraria al volere della maggioranza della comunità. Ba-sta l'esistenza di quegli istituti, per determina-re gli enti governativi a prestare la massima attenzione alla volontà della massa e ad obbe-dirvi prontamente, giacché essi sanno che qua-lunque disobbedienza sarebbe punita dalla massa con un voto che manderebbe a picco la disposizione di cui si tratta. La sola esistenza di quelle istituzioni, adunque, esercita, indipen-dentemente dalla loro messa in azione, un pe-so decisivo nel senso di rendere sovrana nelle 208

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determinazioni del governo la volontà popo-lare. Chiunque ha qualche pratica della vita politica di un Cantone svizzero sa quanto questa paura del « referendum » influisca sulle decisioni del governo e dell'assemblea; e sa come, conse-guentemente, il governo obbedisca docilmen-te a quella che i conservatori italiani chiame-rebbero «la piazza», cioè all'opinione pubbli-ca. E quanto all'America, il Bryce, nel suo li-bro più volte citato, offre numerose ed esplici-te testimonianze, che vi accade la stessa cosa. «Anche là» egli scrive' «dove il meccanismo per pesare o misurare la volontà popolare, da una settimana all'altra, o da un mese all'altro, non è stato inventato o non è vicino ad esserlo, può avvenire che i ministri o legislatori siano condotti ad agire come se esistesse; ciò è a di-re, che essi osservano tutte le manifestazioni dell'opinione pubblica corrente, e che cercano di a ^ r e secondo l'idea che si fanno di queste manifestazioni. In questo caso la massa dei cit-tadini, non perde di vista gli affari pubblici, perché sente che è essa che governa realmen-te, e che i suoi rappresentanti, esecutivi o legi-slativi, sono piuttosto i suoi servitori che i suoi rappresentanti ... Al di sopra dei Presidenti e dei governatori di Stato, al di sopra del Con-gresso e delle legislature di Stato, s'erge l'opi-nione pubblica che è, negli Stati Uniti, la gran-de fonte del potere, il padrone di tutti i servi-tori che tremano dinanzi a lei ... Siccome ["la americana"] è la forma di governo popolare

1. Bryce, op. cit, voi. I l i , parte quarta.

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più sviluppata, è anche la forma che produce pili naturalmente ciò che ho chiamato il gover-no mediante l'opinione pubblica. Si può dire che il governo popolare esiste dovunque il po-tere intiero è dato al popolo e viene dal popo-lo. Il governo mediante l'opinione pubblica esiste là dove i desideri e le viste del popolo prevalgono, anche prima d'essere stati espres-si per mezzo degli organi regolari stabiliti dal-la legge, e senza che sia necessario che venga-no espressi in tale forma... Essa [l'opinione pubblica] cresce e si sviluppa non al Congres-so, né nelle legislature di Stato, né in quelle grandi Convenzioni che fanno i programmi e scelgono i candidati, ma nella massa del popo-lo. Essa viene espressa dovunque dalla voce della folla. Essa governa come una potenza impalpabile che penetra tutto, a guisa dell'ete-re che passa traverso a ogni cosa. Essa raccor-da tutte le parti di questo sistema complicato, e dà ad esso l'unità di scopo e di azione che pos-seggono ».

Abbiamo più volte accennato alla circostanza che tra le monarchie assolute e quelle parla-mentari non v'è diversità di sostanza, e che la vera e sostanziale distinzione delle forme di governo deve farsi tra gli Stati assoluti e parla-mentari da una parte, e quelli a democrazia di-retta dall'altra. Ciò forma anzi il punto centra-le del nostro pensiero. Ma alcuni uomini politici (come, per esempio, l'on. Sacchi) professano in Italia la teoria che 210

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la monarchia sia compatibile col governo de-mocratico. Non sappiamo che cosa costoro intendano per governo democratico; forse qualche larva di « referendum » amministrativo mediante il qua-le si potrà votare sopra la convenienza o me-no di erigere in piazza una fontana, o di i-stituire una biblioteca circolante. Con questo la monarchia è compatibilissima; ma col go-verno democratico, di cui noi abbiamo deli-neata qualche fattezza, col governo nel quale (come scrive Tocqueville) « al di sopra di tutte le istituzioni e al di fuori di tutte le forme, esi-ste un potere supremo, quello del popolo che le distrugge o le modifica a sua posta»' - con questo governo, che è il solo nel quale la vo-lontà popolare sia pienamente sovrana, la mo-narchia è, intuitivamente, incompatibile. È incompatibile, non tanto per il fatto in sé stesso dell'esistenza, alla testa dello Stato, d'un potere ereditario; quanto perché questo fatto richiede imprescindibilmente un ordinamen-to generale dello Stato che si dirami in tutta la nazione mediante una rete di istituzioni im-mobiliste, non atte cioè ad essere smosse o mo-dificate profondamente dall'onda in perpetuo cangiamento della volontà popolare; imperoc-ché, senza questa forte rete di istituzioni im-mobiliste, ferme come scogli, resistenti all'urto del volere della folla, non potrebbe restare im-mobile e perenne neppure l'istituzione supre-ma, la monarchia.

1. A. de Tocqueville, La Démocratie en Amérique, voi. II, cap. I.

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Ciò è, ripetiamo, intuitivo, così che ci parrebbe superfluo l'insistervi. La questione della mo-narchia non è una questione di forma perché non si tratta soltanto dell'ereditarietà anziché dell'eleggibilità del potere supremo. L'esisten-za della monarchia impone una serie di istitu-zioni, salde contro la volontà della massa, non dipendenti da essa, le quali movano dal centro dello Stato e giungano alla periferia, e creino degli argini la cui esistenza o il cui abbattimen-to non dipenda da un voto della maggioranza. Sarebbe ridicolo il pensare che, non diciamo la nomina da parte del popolo dei ministri, ma il « referendum » (illimitato, come l'abbiamo vi-sto in Isvizzera), e i diritti d'iniziativa e di revi-sione - vale a dire i mezzi coi quali soltanto la massa riesce a sfuggire al governo della « clas-se politica » e a imporre pienamente la sua vo-lontà nella direzione della cosa pubblica - sia-no compatibili con una istituzione legalmente eterna e alla quale una certa parte della sovra-nità deve, legalmente, appartenere in modo perenne. La teoria del Mosca, adunque, la quale si ap-plica con perfetta verità a tutti i fenomeni po i-tici che si manifestano nelle varie forme di go-verno fino e inclusivamente al sistema parla-mentare, vien meno di fronte a quel moderno sviluppo della democrazia mediante il quale la legislazione, ordinaria e costituzionale, è pla-smata direttamente dalla massa, coi sistemi di cui abbiamo parlato. Un tale ordinamento politico sfugge completa-mente al principio generale affermato dal Mo-sca. Esso si innalza di fronte alle monarchie as-212

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solute e ai governi parlamentari - entrambi «anciens régimes» - come un assetto vera-mente nuovo. Esso costituisce (come scrive il Bryce)' « in fatto, se non in apparenza, un go-verno diverso dal sistema rappresentativo qua-le se lo figuravano i pensatori e gli uomini di Stato europei dell'ultima generazione. Ed è a questo genere di governo che sembrano ten-dere le nazioni democratiche ».

1. Bryce, op. cit., voi. I l i , p. 346.

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N O T A DI NICOLA EMERY

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La democrazia diretta di Giuseppe Rensi sembra destinata ad accompagnare - dalla prima edi-zione del 1902 fino ad oggi - tutti i momenti più critici dell'Italia unita. Maturata nel fuoco della crisi politica di fine secolo, la prima edizione di quest'opera vide la luce, con il titolo Gli anciens ré^mes e la demo-crazia diretta, in Svizzera dove il giovane mili-tante socialista Rensi era stato costretto a rifu-giarsi all'indomani della feroce repressione dei moti di Milano del maggio 1898. L'intento di Rensi, come dichiara nella Prefa-zione riportata in Appendice, era quello di confrontare fra loro tre diverse forme di go-verno: il vecchio assolutismo, la monarchia co-stituzionale e le forme « repubblicane-demo-cratiche moderne», nelle quali le assemblee rappresentative sono sottoposte al controllo costante degli istituti del referendum, del di-ritto d'iniziativa e di revisione. Solo quest'ulti-ma, secondo Rensi, presenta i requisiti neces-sari e sufficienti a soddisfare i postulati del « programma minimo » del partito socialista, il quale pertanto avrebbe dovuto intensificare il proprio rapporto con il partito repubblicano e interrogarsi circa la questione, e il futuro, del-la classe politica. Contrariamente a quanti propugnavano la

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teoria dell'indifferenza delle forme di governo per le sorti del socialismo, legate esclusiva-mente alla conquista del potere, il libro di Rensi pone al centro dell'attenzione il proble-ma istituzionale. Ma anche se nata nell'esilio della « piccola re-pubblica italiana d'oltre Chiasso», l'opera eb-be subito un'ampia e militante diffusione in Italia. Della prima edizione furono stampate duemila copie che vennero offerte agli abbo-nati dell'«Italia del popolo», organo dei re-pubblicani di Arcangelo Ghisleri, autore a sua volta dell'Introduzione al volume.' Nel giro di qualche mese, sempre nel 1902, si rese neces-saria una seconda edizione, pubblicata ancora a Bellinzona, alla quale vennero allegati in ap-pendice un Dibattito con interventi di Arturo Labriola, Angelo Oliviero Olivetti e Guglielmo Ferrerò. In altra sede intervenne anche Gaeta-no Mosca.^

1. Arcangelo Ghisleri (1855-1938), figura eminente del mondo repubblicano, a quel tempo era esule a Lugano da dove dirigeva «L'educazione politica» e, nel maggio 1901, il risorto « L'Italia del popolo ». Rensi entrò in con-tatto con lui nel dicembre del '98 e presto iniziò un rap-porto di intensa collaborazione a quei periodici. Cfr. Ni-cola Carranza, L'incontro Rensi-Ghisleri nel quadro della de-mocrazia italiana (1898-1925), in «Bollettino della Domus mazziniana», XIV, 1, Pisa, 1968. 2. A. Labriola, La democrazia, in «Avanti!», 25 gennaio 1902", A.O. Olivetti, Sistema parlamentare e democrazia diret-ta, in « L'educazione politica », 28 febbraio 1902; G. Fer-rerò, La volontà del popolo, in « Il secolo », 4 giugno 1902. Oltre a questi articoli, l'Appendice contiene anche un in-tervento di A. Ghisleri (L'animale uomo e il valore delle isti-tuzioni, in « L'educazione politica», 15 marzo 1902) e del-lo stesso Rensi (Novus ordo, in «L'Italia del popolo», 1°

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La democrazia diretta era il primo libro di Giu-seppe Rensi, che in precedenza aveva firmato una quarantina di saggi apparsi sulla turatiana «Critica Sociale» (a partire dal 1895) e sulla repubblicana « L'educazione politica » (a parti-re dal 1900),' nonché la Prefazione a un volu-me di Cario Pisacane per la « Biblioteca Rara », una collana che riprendeva lo spirito delle edi-zioni di Capolago e che Rensi dirigeva con Ghisleri. Fra questi scritti particolare attenzio-ne merita, per l'importanza che il tema avrà nel volume del 1902, una serie di articoli ap-parsi fra il giugno e l'ottobre 1898 su «Critica Sociale»,^ nei quali tentava una descrizione analitica delle istituzioni del Cantone svizzero di lingua italiana. Rensi era convinto che la sua analisi potesse giovare al lettore italiano,

febbraio 1902). Gaetano Mosca menziona il libro del gio-vane Rensi nella prolusione II principio aristocratico e il de-mocratico, con cui inaugurò l'anno accademico 1902-1903 a Torino, raccolta poi in Partiti e sindacati nella crisi del re-gime parlamentare, Laterza, Bari, 1949 (il riferimento a Rensi si trova a p. 11). Riferimenti di Mosca a Rensi si tro-vano anche in G. Mosca, Elementi di Scienza politica, 1923, ora in Scritti politici, n curz di G. Sola, Utet, Torino, 1982, voi. II, p. 689. 1. Un'ampia parte di questi sag^ sono stati raccolti in G. Rensi, StiidieNote, Colombi, Bellinzona, 1903. Fra questi rivestono particolare importanza quelli dedicati alla « mo-rale sociale » - dove l'utilitarismo di Mill inizia ad essere criticato sulla scia di Jean-Marie Guyau — e quelli dedicati alla questione istituzionale nella vicenda risorgimentale, fra cui si veda in particolare La condanna storica d'una illu-sione. 2. Gli articoli furono poi raccolti da Rensi nell'opuscolo Una Repubblica Italiana. Il Cantone Ticino, Uffici della Critica Sociale, Milano, 1899 (poi Locamo, 1994).

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non tanto perché quelle istituzioni costituisse-ro esempi di democrazia « più ardita » in asso-luto - il che guardando « qua e là nei vari Stati liberi d'Europa » era giudizio da lasciare pru-dentemente sospeso - , ma piuttosto perché « l'identità di razza, lingua, cultura » consenti-va un tentativo di comparazione con la situa-zione italiana. Per questo motivo l'opuscolo rensiano, come d'altra parte il libro del 1902, non presta molta attenzione alle istituzioni e alle strutture federali (ed è un suo limite) ma si concentra su quelle cantonali fissate con la Co-stituzione del 1892, nelle quali gli pare che si estrinsechi « la natura politica d'una razza ita-liana perfettamente simile a quella che abita la Lombardia ». Nelle istituzioni ticinesi Rensi apprezzava il fatto che consentissero un rapporto « corretto e cortese » fra governo e opposizione, tale da « temperare l'antagonismo » fra le forze e da diminuire l'antagonismo « fra Uberi partiti cozzanti». Proprio grazie a questo quadro isti-tuzionale — e all'educazione che l'esperienza e la consuetudine avrebbero fatto maturare - gli sembrava che il Canton Ticino fosse avviato ad un « ordine stabile », a « sicura tranquillità nel-la vita pubblica » e a « uno sviluppo civile, da ogni punto di vista, rapidissimo». Si trattava di un risultato tanto più significativo in quanto gli pareva che la « razza italica » fosse portata a vivere la-libertà politica come antagonismo trasmodante, e che questo fosse « un inconve-niente inevitabile » per tutti i paesi di lingua, cultura e razza italiana. Ma l'esempio del Can-ton Ticino sembrava assicurare che, attraverso 220

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una forma adeguata di democrazia moderna, anche la razza italiana potesse raggiungere consensualmente un equilibrio fra le forze po-litiche, e mantenere un rispetto della «legali-tà» condiviso da Governo e Opposizione.' Il caso del Canton Ticino torna, come esempio di forma democratica fra le pivi moderne, an-che nella Democrazia diretta. Proprio l'esempio ticinese, « che citiamo tanto più volentieri per-ché abitato da una razza italiana, la quale ha saputo conquistare e mettere in pratica tutte le pivi avanzate riforme democratiche»,^ con-sente a Rensi di osservare, attenuando la tesi di Gaetano Mosca sull'eterna preminenza di una minoranza organizzata, che la vecchia teo-ria rousseauiana della sovranità popolare riac-quista una nuova verità. Ma da qui non si può inferire che la dura polemica nei confronti della « finzione » rappresentativa avesse come esito inevitabile una sorta di tirannia della maggioranza. In questo senso Rensi, rispon-dendo ad Arturo Labriola, nel 1902 scrive che « se in democrazia diretta sorgono dei Cesari, è questo un fenomeno accidentale, che non può compiersi se non "contro" le istituzioni, non già col loro favore ... L'opera di un uomo contraria alle istituzioni non può servire di ar-gomento a discredito delle istituzioni stesse ». E aggiunge che nessun disegno istituzionale

1. Rensi, Una Repubblica Italiana, cit., pp. 56-57. Ma sul-l'importanza dell'intervento federale nel 1890 cfr. A. Ghi-ringhelli - R. Bianchi, Il respiro della rivoluzione 1890, Sal-vioni, Bellinzona, 1990. 2. Si veda sopra, pp. 164-65.

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3UÒ escludere di per sé gli « elementi pertur-)atori », così come nessun discorso sui climi sa-

ni o nocivi, pur stabilendo una netta distinzio-ne fra di essi, può escludere che « dove regna il primo possa essere accaduta o accadere qualche spaventevole bufera». La sua attenzione per le forme di governo spiega come mai i compagni socialisti, da An-na Kuliscioff a Turati, da Angelo Oliviero Oli-vetti a Mussolini, pensavano che questo primo Rensi svizzero, così attento alle forme di go-verno, fosse di spirito troppo «ceruleo», che la sua casa fosse « troppo hnda » e che, al di là dell'anagrafe, rispetto a lui « la vecchia guar-dia» fosse «ancora la più giovane».' Dagli scritti di quel primissimo periodo tra-spare una mentalità da « programma mini-mo», preoccupata, come si osserva per esem-pio neu'articolo su! Socialismo svizzero, di invo-care tutte le riforme possibili affinché la politi-ca diventasse sede di composizione dei conflit-ti di classe.'^ Questa mentalità impronta anche

1. Cfr. F. Turati - A. Kuliscioff, Carteggio, Einaudi, Tori-no, 1977, voi. I. Di grande interesse è in particolare la lettera di A. Kuliscioff del 15 febbraio 1899, da leggere in paral-lelo con Margherita Sarfatti, Dux, Mondadori, Milano, 1926, pp. 83-84, dove si racconta l'incontro del 1905 a Bellinzona fra Mussolini e il « professor » Rerisi. 2. Cfr. Il socialismo in Isviziera (1901), poi in Studi e Note, cit., pp. 259-77. Ma sull'atteggiamento di Rensi circa la crisi del positivismo cfr. l'importante saggio di Antimo Negri, Il socialismo nietzscheano di G. Rensi, in Nietzsche nella pianura, Spirali, Milano, 1993; mi permetto di rimandare anche al mio Un socialista fra Dio e Volontà di potenza. G. Rensi in Ticino 1898-1908, in AA.VV., L'inquieto esistere. Atti del Convegno su G. Rensi nel cinquantenario della morte. Fondazione M. Novaro, Genova, 1993.

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il volume del 1902 dove, fra i vantaggi della democrazia diretta, viene indicato quello di «opporre barriere insormontabili al formarsi di una legislazione di classe » perché « è prati-camente impossibile che una misura estrema raccolga la maggioranza dei suffragi», e la le-gislazione risultante sarebbe quindi sempre «mediana ed equitativa». Due anni prima, di-nanzi all'estremo tentativo di porre restrizioni alle libertà di espressione e di riunione opera-to dal Pelloux nel '99, Rensi propone (ne sag-gio Lo Stato di diritto qui raccolto in Appendi-ce) una serie di « freni giuridici » che permet-tano di « tenere a segno », ossia di controllare e limitare senza alcun ricorso alla violenza, com-preso l'ostruzionismo parlamentare, le «esor-bitanze da diritto divino delle maggioranze». Per questo egli sente la necessità di dialogare, attenendosi al punto di vista della tutela della minoranza, con i «conservatori», cioè Gaeta-no Mosca e Tocqueville, di cui condivide l'idea che un esecutivo stabile può servire alla difesa della libertà. Nel 1902 Rensi aveva quindi presente la tema-tica moschiana della «difesa giuridica». L'an-titesi fra gli anciens régimes, nei quali sono compresi anche tutti i governi puramente rap-presentativi, e i governi a moderna democra-zia (semi) diretta, in cui «una classe politica esercitante in modo esclusivo il potere non esi-ste», poggia a ben vedere su un criterio che non è tanto quello della sovranità, quanto piuttosto quello del controllo democratico. E infatti contrappone le forme che consentono di cambiare i governi e modificare la costitu-

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zione in modo «normale, legale, pacifico» («legalizzato») a quelle invece che, considera-te come espressioni della « Legge Fondamen-tale, perpetua ed irrevocabile », non ammetto-no alcuna modificazione e quindi sono « enor-mi macigni » che si aprono e si modificano solo con il ricorso alla violenza, con l'esplosione ri-voluzionaria. Cambiamento legalizzato della costituzione, «legalizzazione della rivoluzio-ne», per Rensi vuol dire chiaramente (come ribadirà con fermezza nel 1925)' che chi ef-fettua il cambiamento è anch'egli vincolato alle modifiche apportate, e che in ogni caso per le opposizioni è sempre possibile, pur rimanen-do nell'ambito de la legalità, introdurre una nuova revisione. Questo nuovo assetto politi-co, e qui Rensi si riferisce ancora all'esempio svizzero, è « un campo aperto Gaetano Mosca, oggetto di un appassionato odi et amo, comprese che non sarebbe stato cor-retto tentare di sbarazzarsi della « coraggiosa » proposta rensiana facendo leva strumental-mente su una interpretazione letterale delle tesi più radicali. In una lunga lettera a Rensi riconobbe che, almeno in parte, la tesi del li-bro poteva integrare e aprire la sua teoria dua-listica della classe politica: « Ella apporta una sensibile modificazione alla mia teoria perché crede che non regga, la dove vi è il governo di-retto della democrazia, ossia il referendum. Nella sua dottrina credo che ci sia qualche cosa

1. Cfr. l'importante Autorità e Libertà, Libreria politica moderna, Roma, 1926, pp. 68-73. 2. Si veda sopra, p. 190.

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di vero senza che perciò essa distrugga la mia. Il governo rappresentativo, come tutti i gover-ni di questo mondo è governo di minoranza, ma il più grande pregio di esso è che la mino-ranza della gente è obbligata ad un regime di discussione e non gode di un regime di autori-tà indiscussa ed indiscutibile. L'introduzione del referendum nel governo rappresentativo (perché dove vi è questo istituto vi sono pure le camere elettive) limita e circoscrive ancor più l'arbitrio delle minoranze governanti, esse infatti vengono a sentire ancor più gli impulsi delle maggioranze governate, impulsi che, co-me ella ha notato, si fanno sentire in qualun-que forma di governo, ma con maggiore o mi-nore intensità ». Evidentemente Mosca non era scandalizzato dalle novità che Rensi apportava alla sua teo-ria, non vi vedeva il tentativo, come invece ini-ziò a dire Angelo Oliviero Olivetti (e ne nac-que anche una polemica con Ghisleri), di una « trasformazione logica e dialettica di una tesi reazionaria in una tesi rivoluzionaria». Piutto-sto, egli sottoponeva a Rensi un problema di contenuti politici scarsamente considerato nel libro: « Io non so poi se il maggior freno che le maggioranze governate possono opporre al-l'indirizzo delle minoranze governanti corri-sponda sempre al progresso dell'intero corpo sociale. A me pare che gli effetti pratici del re-ferendum si esplichino soprattutto nel limita-re grandemente l'azione di tutti i governi, nel farli governare il meno possibile. Ciò in molti casi può essere un bene, in altri no. In Italia è cer-to che il referendum avrebbe respinto la co-

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scrizione obbligatoria ma avrebbe pure respin-to l'istruzione e la vaccinazione obbligatoria. Mi pare certo che se quarant'anni fa si fosse chiesto al popolo italiano se voleva ferrovie e molte tasse o poche tasse e niente ferrovie avrebbe preferito pagare meno e continuare nel sistema delle diligenze. Ad ogni modo nel punto nel quale sono le cose trovo che in Italia un po' di referendum farebbe bene, perché in Italia si governa troppo e non già troppo poco ... La ringrazio di nuovo e con l'augurio since-ro che Ella possa presto venire ad insegnare in Italia, mi creda... Gaetano Mosca».' Quello che veniva così posto era un problema politico che Rensi, giurista di formazione, ave-va sottovalutato denunciando così la sua scarsa inclinazione a fermarsi sui contenuti politici. Anche Guglielmo Ferrerò, nel suo intervento raccolto da Rensi nell'Appendice alla seconda edizione, fece una osservazione analoga quan-do, scendendo sul terreno dei possibili usi mi-litanti, scrisse: « Ma le istituzioni a loro volta non pare servirebbero a molto, se non si trovi modo di accrescere la precisione e il vigore della volontà nazionale ... La nazione non ha idee precise e chiare. Non si dimentichi che al punto in cui siamo giunti della grande crisi na-zionale che viene trasformando a poco a poco tutta l'Italia, noi ci troviamo innanzi problemi di una complessità e paurosità che non cono-sce non soltanto la Svizzera, ma nemmeno gli Stati Uniti. La volontà nazionale è debole non

1. Gaetano Mosca, lettera a Giuseppe Rensi del 2 marzo 1902, Fondo Rensi, Milano.

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solo perché le istituzioni ne scoraggiano l'eser-cizio costante e metodico; ma perché essa do-vrebbe affrontare problemi immensi e terribili che la spauriscono».

Nel 1925, a più di vent'anni di distanza dalle prime due edizioni, la Libreria politica moder-na di Roma decise di ristampare il pamphlet del giovane Rensi. La casa editrice era diretta dall'intransigente repubblicano Giovanni Con-ti, a quel tempo aventiniano, amico di lunga data del Ghisleri e protagonista nel 1923 di ac-cesi contraddittori alla Camera con Mussolini. Il libro uscì nel gennaio del 1926 con il titolo, approvato dall'autore e qui ripreso per la no-stra edizione, di La democrazia diretta. Fu una decisione coraggiosa, che rinnovò l'interesse )er le tesi di Rensi, tanto che già alla fine di ébbraio quest'ultimo scrisse a Contii « C^ui a

Genova non se ne trova più una copia dai li-brai; è andato a ruba ».' Ma nel volgere di po-chi mesi le intimidazioni fasciste nei confronti della Libreria politica moderna si fecero sem-pre più pesanti, la tipografia fu assaltata, il Conti ferito e quella terza edizione « dispersa da aggressori incendiari»^ insieme ad altre migliaia di volumi.

1. La lettera, del 27 febbraio 1926, si trova nel Fondo G. Conti dell'Archivio di Stato di Ancona. 2. L'aggressione venne evocata da Giovanni Conti nel-l'Avvertenza che scrisse per la successiva edizione parziale del libro, pubblicato con il titolo Forme di governo del passa-to e dell'avvenire. Libreria politica moderna, Roma, 1943 (1945'').

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Questa terza edizione appariva in un contesto culturale e politico ben diverso dal precedente, e non solo perché nel frattempo Rensi, grazie soprattutto ai Lineamenti di filosofia scettica (1919) e alla Filosofia dell'autorità (1920), si era affermato come una delle voci non secondarie della filosofia italiana. I movimenti di massa che seguirono alla guerra mondiale avevano inciso profondamente sull'atteggiamento di Rensi verso le questioni del potere, del sociali-smo e della democrazia. Fra il 1919 e il 1922 era entrato in rapporti con Mussolini, al quale chiedeva di « prendere in mano il governo con la forza necessaria per far cessare la grande paura bolscevica », appropriandosi, con forza e risolutezza, della lezione del « grande Lenin ».' Ma proprio il carattere movimentista o « sov-versivista » del fascismo gli apparve ben presto troppo simile a quel sovversivismo bolscevico-socialista che voleva combattere.^ Pertanto da «conservatore serio» e «partigiano d'un au-tentico Stato d'autorità», già prima della mar-cia su Roma Rensi manifesta dall'interno il suo dissenso, che esprimerà poi con assoluta fer-

1. Cfr. G. Rensi, L'esempio russo, in « Il popolo d'Italia», 18 agosto 1920, poi in Teoria e pratica della reazione politica. La stampa commerciale, Milano, 1922 (Roma, 1974). Cfr. R. Bassanesi, G. Rensi e lo smarrimento delle coscienze dal 1919 al 1922, in « Il Protagora », 22-23, 1962. 2. Cfr. G. Rensi, Il Critone. Critiche al fascismo, «La Se-ra», 5 gennaio 1922, poi in Teoria e pratica, cit. L'articolo inizia a criticare alcuni comportamenti dei giovani fasci-sti, cui manca il rispetto « socratico » per le « leggi della patria », ed è scritto con riferimento al congresso di fon-dazione del Partito fascista svoltosi a Roma dal 7 all'11 novembre 1921.

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mezza dopo il « mostruoso » e « orrendo caso Matteotti»,' rinfacciando al fascismo l'incapa-cità di « governare con serietà e calma in una direttiva nazionale e conservatrice ». Nel 1923-1924 Rensi si presenta come un « conservatore » che, dopo aver mosso « un'a-spra critica di socialismo, democrazia e parla-mentarismo», e aver visto deluse dal fascismo le sue aspettative, « non può in questo momen-to sottrarsi dal pensare che quei primi sistemi e idealità [democrazia e parlamentarismo] sia-no forse gli unici mezzi suscettibili di essere qui ed ora posti in opera per sperare di metter fine alla situazione del paese, dissennata altret-tanto e forse più di quanto non lo fosse sotto la minaccia bolscevica».^ Nel 1923, recensendo la seconda edizione degli Elementi di Scienza po-litica, fece sua la raccomandazione di Mosca a conservare il regime parlamentare. Nel di-cembre del 1924 tornò a collaborare a « Critica Sociale» e nel gennaio successivo esordì su « La rivoluzione liberale » di Piero Gobetti con un articolo sulla questione istituzionale che rappresenta una sorta di testamento politico: « La storia degli ultimi dieci anni in Italia » os-serva «dimostra anche ai ciechi la necessità che non tutto il potere e l'autorità nello Stato sia di fonte elettorale o "popolare" che dir si voglia ... La "volontà popolare" corre spesso con impetuosità per vie che essa stessa ricono-

1. G. Rensi, Incapacità, in « Il Lavoro», Genova, 2 luglio 1924. 2. Loc. cit.

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sce presto erronee ». Sono le vie di quel cesari-smo che travolge come una « bufera spavento-sa » (la metafora, del 1902, ritorna nel 1925) tutte le garanzie formali che pur si vogliono e si devono porre. Il problema dei freni giuridi-ci, all'interno di un itinerario certo non lineare ma nemmeno esclusivamente contraddittorio, si ripresenta con toni drammatici: «Occorre nello Stato accanto al potere di fonte elettorale o "popolare", un potere d'altra fonte che con-trolli, regoli il primo ». Gli avvenimenti italiani di questi ultimi anni « sono la confutazione ir-recusabile del repubblicanesimo » e dimostra-no come «la Monarchia costituzionale sia la forma migliore di governo».' Fu in seguito a questo amaro testamento poli-tico che Conti propose a Rensi di ripubblicare il libro sulla democrazia diretta. Rensi dichia-rò subito di voler preparare « una prefazione che cercherò vada bene così rispetto alle mie nuove idee come agli scopi della Sua bibliote-ca ».' Ne nacque un testo di grande interesse, qui raccolto in Appendice, in cui Rensi mise in luce « il perché filosofico della risoluta opposi-zione del filosofo dell'autorità alla presente si-tuazione ».' Sul piano teorico, nella tragedia « sconvolgen-te » di quel primo quarto di secolo Rensi aveva

1. G. Rensi, La questione istituzionale, in «La rivoluzione liberale», 18 gennaio 1925. 2. Lettera a Giovanni Conti del 5 novembre 1925, pres-so Fondo G. Conti dell'Archivio di Stato di Ancona. 3. Così si esprime Rensi nella citata lettera a Giovanni Conti.

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maturato l'impossibilità del razionalismo poli-tico con la sua fiducia di poter risolvere per via consensuale la questione del potere: nessuna istituzione, legge o costituzione può risolvere il tragico problema della persuasione senza ri-correre a « fatti » esterni, non necessariamente violenti ma nemmeno mai del tutto giustifica-bili in termini di vera e propria unanimità ra-zionale.' Quest'ultima constatazione diventa tanto più significativa se viene raffrontata con le riflessioni sui presupposti di una democra-zia consensuale sviluppata negli scritti del pri-mo periodo svizzero: anche in forza di questo rapporto la sua filosofia dell'autorità - che mi-ra a descrivere, senza con ciò tentare di darne una giustificazione, l'evento «despiritualizza-to » del potere - offre una « fra le più comples-sive e acute » interpretazioni della crisi.^ Nella nuova Prefazione del 1925 egli torna sul tema dei freni istituzionali, già affrontato nel-lo Stato di diritto, per mostrare come la sua filo-sofia della crisi contenesse una indicazione su come tener a freno l'impeto delle fazioni con-trapposte, senza più rinunciare «ai princìpi fondamentali del diritto costituzionale, ai di-ritti dell'uomo e del cittadino».' La dimensio-ne che egli ora considera fondamentale è quel-la di un costume o di una morale la quale, sot-tratta a qualunque tipo di contrattazione, pos-

1. Cfr. G. Rensi, La filosofia dell'autorità, Sandron, Paler-mo, 1920, cap. 1 (poi Catania, 1993). 2. Cfr. M. Cacciari, Il disincanto di Giuseppe Rensi, in AA.VV., L'inquièto esistere, cit. 3. Si veda sotto, la Prefazione alla terza edizione.

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sa formare un orizzonte super partes nel quale temperare gli opposti interessi e passioni poli-tiche. Anche il sistema parlamentare può e deve contribuire a formare questa dimensione. Ma nessuna istituzione, per quanto perfetta o pri-va di «freni giuridici», può risolvere la que-stione della lealtà istituzionale. Per converso il supremo problema politico, quello di una au-torità che regga contro « le improvvise ventate del capriccio della massa», si può risolvere an-che in regime di democrazia diretta. Occorre tuttavia che vi sia una «ossatura solida», una lunga tradizione di cultura politica, « come at-testa luminosamente l'esempio della Svizze-ra». Su questo punto Rensi presta maggiore attenzione agli istituti confederali, ponendo in primo piano proprio il Tribunale Federale, inteso come corte di giustizia superiore non ri-ducibile ad alcun interesse parziale. E in un te-sto coevo osserva che quella «piccola Italia d'oltre Chiasso » è « fortunata » proprio per-ché « la razza italiana, mediante la sua stretta indissolubile congiunzione con due altre serie, forti razze europee, nel sistema politico forse più antico e duraturo sorto sul Continente, è condotta a temperare saggiamente i suoi difet-ti con le sue qualità e soprattutto è salva dalla dissennata feroce lotta di tipo guelfo e ghibel-lino, che quando lasciata a sé sembra essere il suo ricorrente retaggio». E aggiunge: «Invi-diabile paese perché contribuisce ad offrire l'esempio e il modello della convivenza pa-cifica di più nazionalità in un organismo stata-le unico, su cui dovrà finire sospinta dai suoi

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stessi errori e dalle sciagure da questi prodot-te, per plasmarsi l'Europa».' Ma il problema era, di nuovo, di appurare se in Italia fosse presente una dimensione mora-le e culturale sedimentata. La marcia su Roma lo porta però a concludere: « Troppo modesti erano stati quei fascisti che hanno limitato a sessant'anni a previsione della durata del loro governo. Questo sarà invece, probabilmente eterno, nel senso che la "fase fascista" non ces-serà più per l'Italia. Non si ripristinerà piìi per l'Italia il sistema di Governo normale, diciamo lo "Stato di Diritto", l'ordine politico in cui v'è una legge o consuetudine forte come la legge che determina e regola le condizioni e il modo del pacifico succedersi dei partiti al potere. Un tale sistema di Governo fu forse per sempre infranto con l'ottobre 1922. E con quest'epoca l'Italia è entrata forse per sempre nel sistema di governo proprio di quella che, in un certo senso si potrebbe chiamare la periferia euro-pea: Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Bulga-ria».^ Qualche anno più tardi dal carcere fa-scista Rensi scriverà alla figlia Emilia che il suo pessimismo non era affatto «eccessivo», ma costituiva l'amaro segno della sua « sicura (contro tutti) preveggenza»,' maturata nel suo costante dialogo con la meditazione stori-

1. G. Rensi, Ciò che devo al Cantori Ticino, in « Il Dovere », 3 dicembre 1925. 2. G. Rensi, Incomprensione, in «Critica Sociale», 16-31 marzo 1925, p. 71. 3. G. Rensi, lettera alla figlia Emilia dal carcere di Vero-na, 28 novembre 1930.

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co-politica di Leopardi, il « sommo filosofo ita-liano ... in diametrale opposizione all'ideali-smo assolutistico».' Nel gennaio 1925, rispondendo a Mario Vin-ciguerra,^ Rensi indicò quali fossero, a suo av-viso, le più profonde ragioni che lo separava-no sia dagli avversari del fascismo sia, a mag-gior ragione, dai suoi sostenitori. Con i primi condivideva ormai la condanna totale de pre-sente, e non lo nascondeva. Ma c'era modo e modo di vivere e di intendere quella condan-na. E il modo in cui la intendevano i « signori dell'opposizione » era a suo avviso « irrepara-bilmente inquinato di quella filosofia crocio-gentiliana che è diventata la filosofia ufficiale propria del fascismo». Dopo aver a lungo po-lemizzato con il fascismo gentiliano perché sovversivo e privo dello spirito del Critone, ora Rensi si trova a polemizzare con i rappresen-tanti deiropposizione perché - per ragioni che egli riconosce «naturali», logiche, comprensi-bili - anch'essi non avevano potuto fare a me-no di adottare l'idealismo crociano e gentilia-no. Quest'ultima filosofia, osserva Rensi, si poteva interpretare in due modi: o, in termi-ni « positivistici », come divinizzazione dell'esi-stente, oppure, in maniera « genuinamente con-

1. Sulla «filosofia del diritto» di Leopardi Rensi si sof-ferma già nei Lineamenti di filosofia scettica, Zanichelli, Bo-logna, 1919, pp. 97-105. 2. M. Vinciguerra, Inventario di cultura, in «La rivolu-zione liberale», 21 ottobre 1924. Il sintetico brano dedi-cato a Rensi è indubbiamente fra le cose migliori scritte su di lui. Rensi e Vinciguerra caddero vittima della medesi-ma retata fascista nel dicembre 1930.

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forme al razionalismo idealistico», come «sol-levazione » dialettica del reale, del divenire, al-la razionalità. «E naturale» afferma Rensi «che gli uomini di opposizione inquinati da tale filosofia, questa seconda interpretazione della loro formula filosofica l'abbiano nel san-gue». E spiegava in questo modo l'errore che essi commettevano: «Nel fascismo siamo da-vanti ad un assurdo, ad un assurdo mostruoso ed enorme. Sin qui essi sono pienamente nel vero. Ma aggiungono: poiché è un assurdo, poiché è irrazionale non può durare domani, postdomani sparirà. Questa aggiunta è il gra-ve errore in cui la loro filosofia li precipita». Gli oppositori avrebbero tuttavia dovuto evita-re questo errore familiarizzandosi con la lace-razione da lui aperta rovesciando l'identità he-geliana fra reale e razionale e piegando in per-petua negatività, in filosofia dell'errore e del dolore, la riforma gentiliana della dialettica: la processualità per Rensi non è altro che una in-sensata «fatica di Sisifo». La scissione ontolo-gica fra verità e presenza avrebbe potuto por-tarli a riconoscere che « la situazione attuale è assurda, dunque non c'è nessun motivo per cui essa debba cessare: anzi, dunque è proba-bile che continui ». Insomma: « Tutti diciamo che la situazione attuale è formata da... irra-zionali! Verissimo. Ma ciò non vuol dire che essa debba cadere». Questo giudizio verrà ri-preso da Ernesto Rossi che, dopo otto anni di carcere, dichiara in una lettera che la filosofia di Rensi è la sola capace di « comprendere l'as-

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surda e orribile condizione storica Alla lu-ce della filosofia dell'assurdo si comprende l'invocazione complementare del 1925 - se-condo il «santo» modello del De monarchia dantesco - di una autorità superiore straniera (da Rensi indicata nella Lega delle Nazioni) che potesse far salvi « i diritti dell'uomo e del cittadino dal capriccio del tirannello». L'as-surdo che trionfa con la fazione fascista emer-ge come terribile verità della « storia interna » del paese fin dalle guerre civili di Roma e pas-sando per la storia delle repubbliche italiane del Medioevo. Ma adesso questa terribile dia-gnosi sfocia nell'invocazione di una istanza di « giurisdizione superiore » che possa non solo risolvere « le controversie fra gli Stati » ma an-che «tener a segno i governi all'interno», ne-gando in definitiva l'idea di Stato nazionale so-vrano, che si dissolve nell'idea di un federali-smo europeo. In questo pensiero, « in un certo senso anti-ita-liano » e mosso dalla difesa delle garanzie indi-viduali, risiede secondo Rensi l'unica nostra fragile, ma presto sommersa, speranza. Nella struttura «inconciliata» di questo progetto che vuole spezzare il «cerchio chiuso» dello Stato nazionale e della sua classe politica, rie-cheggia la critica mossa al «circolo vizioso» del neoidealismo fin dagli anni Dieci, e si pre-para la rivendicazione del platonismo come ir-riducibile etica di opposizione delle opere po-

1. E. Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Later-za, Bari, 1968, p. 408, ma si veda anche pp. 183 sgg.

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steriori al 1930.^ Dall'assurdo dello Stato tota-litario non si esce situandosi sul piano della dialettica errore-verità, né su quello dell'® au-tocritica immanente » proposta da Gentile, ma soltanto grazie a una forte istanza sovranazio-nale, necessaria come un'idea kantiana, senza la quale i blocchi chiusi, autarchici, precipita-no, anche indipendentemente dalle intenzio-ni, in un errore senza fine. Rensi avverte Gen-tile nel 1927: «È questa una situazione etica? uno Stato etico? ... Lei ha una posizione di re-sponsabilità nella situazione attuale. Non può malgrado tutto non sentire che quello che dico è vero. Forse non potrà non pensare alla re-sponsabilità che incombe ad uno come Lei che aderendo alla situazione denunziata è pure patrocinatore dello Stato etico; ad uno come Lei il cui nome resterà nella storia anche poli-tica e gli occhi dell'avvenire non vedranno le cose di oggi con gli occhi del presente Pro-prio questi suoi pensieri sull'assurdo dello Sta-to nazionale portarono presto l'autorità, nono-stante un intervento di Gentile a favore di Rensi, a decretare, come si evince da alcuni documenti ministeriali, che tra « i presupposti

1. Cfr. G. Rensi, Il genio etico, Laterza, Bari, 1912, p. 260 e Motivi spirituali platonici, Gilardi e Noto, Milano, 1933, p. 193. Sul carattere politico del platonismo di Rensi si ve-da M. Untersteiner, Testimonianza, in AA.VV., G. Rensi. Atti della fornata rensiana 30 aprile 1966, a cura di M.F. Sciacca, Marzorati, Milano, 1967, pp. 56-59. 2. G. Rensi, lettera a Giovanni Gentile del 14 giugno 1927. La cito per gentile concessione della Fondazione Giovanni Gentile di Roma.

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politici del Regime ai fini dei quali l'azione educativa della scuola è diretta e il pensiero del Rensi » vi è una « radicale antitesi » non ul-teriormente tollerabile. A Rensi non sarebbe rimasto che scrivere: « Bisogna che io muoia. Sono troppo eterogeneo all'insanabile tempe-rie morale del mondo. Non mi ci posso accli-matare. Non c'è per me emigrazione in altra zona che in quella della morte

Introvabile per tutto il ventennio fascista, La democrazia diretta tornò ad essere sentita come opera « di palpitante attualità con la guerra di liberazione e le decisive scelte istituzionali. Il volume venne riproposto postumo, senza la Prefazione del 1925, in due edizioni militanti e parziali, stampate a Roma e a Milano fra l'ot-tobre 1943 e l'aprile 1945. La prima, dovuta ancora all'infaticabile Giovanni Conti e alla sua risorta Libreria politica, uscì con il titolo Forme di governo del passato e dell'avvenire. In una sua Nota, Conti non esitò a definire « or-mai classica » la tesi del libro e a sottolineare come fosse « condivisa dalla scuola repubblica-na italiana». «La sovranità popolare che La democrazia diretta è chiamata a realizzare » ag-giungeva Conti « non è come volgarmente si pensa la sovranità della folla, della massa in-colta, selvatica e brutale, ma del Popolo, sintesi umana composta (come scriveva Luigi Einau-

1. Rensi, Sguardi, La laziale, Roma, 1932, p. 131. 2. Loc. cit.

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di) "di famiglie, di padri, di ceti, di regioni, di associazioni, di chiese" ».' L'edizione milanese apparve con il titolo Go-verni d'ieri e di domani presso la Libreria Editri-ce Milanese, preceduta da una nota siglata c.r., in cui si riapriva la annosa polemica dei repub-blicani nei confronti dell'indifferenza sociali-sta in materia di governo, e dalla riedizione, «a guisa di prefazione», di un articolo con il quale Arcangelo Ghisleri intervenne nel dibat-tito apertosi nel 1902. Va notato, perché an-che questo potrebbe in qualche misura rien-trare nella lunga storia della ricezione della Democrazia diretta, che nel 1946 Giovanni Conti fu eletto vicepresidente dell'Assemblea Costi-tuente dove ricoprì un ruolo di rilievo in quel Comitato dei 18 a cui si deve il progetto di Co-stituzione della Repubblica.^ Ben presto lo stesso Conti, divenuto senatore, denunciò al-cune inadempienze al dettato costituzionale e la ricomparsa del rischio di degenerazioni partitocratiche.

1. G. Conti, Al Lettore, premessa datata ottobre 1943 a Giuseppe Rensi, Forme di governo del passato e dell'avvenire, Libreria politica moderna, Roma, 1945, p. 5. 2. Cfr. la voce dedicata a Giovanni Conti in Dizionario Biografico degli Italiani, voi. XXVIII, pp. 419-20. La partecipazione del Conti al Comitato dei 18 è afferma-ta nel saggio introduttivo di Giangiulio Ambrosini a Costi-tuzione Italiarui, Einaudi, Torino, 1975, p. x v m . Va altresì rilevato che alla commissione prese parte anche Paolo Rossi, in seguito membro della Corte costituzionale, già allievo di Rensi a Genova e curatore di una sua opera po-stuma, Sale della Vita, Dall'Oglio, Milano, 1951.

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Da allora, dal tempo delle due edizioni mili-tanti uscite negli anni precedenti la fondazio-ne della Repubblica, fino ad oggi La democrazia diretta è caduta nel più completo oblio.

Questa edizione della Democrazia diretta riprende il testo - emendato di alcune sviste tipografiche - di quella del 1926, l'ultima pubblicata in vita dall'au-tore.

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APPENDICE

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LO STATO DI DIRITTO* Referendum, Corte Suprema,

Consiglio di Stato, Corte dei Conti (A PROPOSITO DI RIFORME URGENTI)

La formula « lo Stato di diritto » {Rechtsstaat) fu introdotta dai pubblicisti tedeschi in antitesi al concetto dello Stato quale sorse, teoricamente, dal dottrinarismo francese e quale, mediante la rivoluzione di Francia, si tentò di fondare praticamente. Questo concetto era ed è che lo Stato basa sulla « volontà popolare », la quale è presunta manifestarsi in tutta la sua interezza mediante le elezioni, donde esce un Parlamen-to onnipotente. Per mezzo delle elezioni e del Parlamento il popolo esercita di fatto quella sovranità, che di diritto gli spetta. Contro questo concetto i pubblicisti tedeschi svolsero la teoria del Rechtsstaat. Non è nel po-polo, nella società, che la sovranità risiede, ben-sì nello Stato, nell'amministrazione, in quelle forme e istituzioni politiche, cioè, in cui a so-cietà si è andata storicamente organizzando. L'idea che il popolo sia sovrano inverte il vero concetto dello Stato, il quale viene ad essere assorbito dalla società e precipitato quindi nel-la licenza demagogica. Invece il popolo, la so-cietà non sono sovrani, sono solamente ammi-nistrati. Ma devono però essere amministrati giusta la legge, secondo il diritto.

* Apparso in « Critica Sociale », 1° ottobre 1900, pp. 295-99 [N.d.C.l

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Questa teoria è, come si vede, essenzialmente antidemocratica. E, infatti, i più forti pensato-ri politici italiani del partito conservatore pro-pugnarono, già da tempo, se non la parola, la cosa. Citeremo soltanto il Minghetti, il Turiel-lo e il Mosca. Tuttavia noi crediamo che la teoria dello Stato di diritto non sia del tutto da respingersi dai partiti democratici, e neppure dalla democra-zia socialista; e che alcuni dei concetti fonda-mentali che essa contiene possano e debbano farsi propri anche dal nostro partito.

Quale è il concetto che la teoria dello Stato di diritto mira a battere in breccia? Quello della sovranità popolare la quale si manifesta me-diante l'onnipotenza dei Parlamenti. I Parla-menti (dicono i seguaci di quelle teorie) non devono avere il diritto di fare tutto quello che vogliono, di loro pieno arbitrio, sorpassando anche alla legge. Chi deve governare è il pote-re esecutivo, ed esso deve essere frenato, di-retto, dominato nell'esplicazione del suo go-verno da organi giuridici. « Per quanto » scrive lo Gneist, uno dei principali espositori di que-sta teoria « si continui a parlar con rispetto della legge, tale invocazione alla legge dura so-lo finché essa sta a fronte d 'un Governo indi-pendente. Appena la maggioranza sa di essere a vera padrona del Governo, essa perde ogni

disposizione a porre da sé stessa freni al pro-prio arbitrio...Il potere esecutivo, in apparen-za, organo della egge, diventa invece lo stru-mento d'una amministrazione sbrigliata, di-

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pendente dalle decisioni sovrane della Camera elettiva, le quali hanno per sanzione la conces-sione del bilancio e la responsabilità politica dei ministri ».'

Queste parole contengono la sintesi di tutti i difetti del parlamentarismo. Ora, il partito so-cialista non ha nessuna ragione per avere so-verchia tenerezza per il parlamentarismo. Es-so difende, bensì, il Parlamento, perché que-sto rappresenta attualmente l'unica forma e l'unico mezzo con cui il popolo può esercitare il suo controllo sul potere esecutivo e coglierlo in fallo quando esso tenta di uscire, appunto, dal diritto. Ma il parlamentarismo, in causa di quei difetti che Io Gneist mette in luce, nuoce gravemente al partito socialista, che è partito di minoranza, quanto giova ai partiti conserva-tori, che sono partiti di maggioranza. La campagna per l'attuazione dei principii dello Stato di diritto fu sempre fatta dai partiti di minoranza, perché è soltanto ad essi che giova l'invocare che le maggioranze osservino dei freni giuridici. In Italia, come ognun sa, essa fu iniziata dal partito moderato, ma dopo il 1876, e precisamente col celebre discorso te-nuto a Bergamo nel 1880 da Silvio Spaventa. Una parodia di applicazione di alcuni principii dello Stato di diritto fu fatta dal Crispi colle leg-gi del 2 giugno 1889 e 1° maggio 1890, quan-do era venuta meno ogni chiara delineazione

1. R. von Gneist, Lo Stato secondo il diritto, a cura dij. Artom, Zanichelli, Bologna, 1881, p. 139.

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tra i vecchi partiti politici, e si era formata una sola famiglia della Destra, che aveva chiesti i freni giuridici, e della Sinistra, che li accorda-va; talché, non potendosi neppure più sapere quale era il partito che metteva dei limiti alla strapotenza che gli veniva dalla propria mag-gioranza e quale quello a protezione del quale quei limiti venivano posti, tutto si riduceva al solito dottrinarismo, a fare, cioè, qualche cosa, per poter dire: abbiamo fatto meglio del Bel-gio, o meglio della Germania. Perché, ora che una nuova delineazione dei partiti si forma, non potrebbero i partiti popo-lari, che sono minoranza e che hanno quindi interesse ad ottenere guarentigie giuridiche, riprendere in mano la questione e domandar-ne una risoluzione seria e completa, la quale non sarebbe altro che un'applicazione sincera di principii mille volte proclamati dai conser-vatori? Mentre imperversavano i colpi di testa del mi-nistro Pelloux è stata da questa stessa Rivista presagita la fine del Parlamento. La previsione ci sembrò soverchiamente pessimista, come ec-cessivamente ottimiste ci sembrarono le dedu-zioni che dalla caduta del Ministero Pelloux si vollero trarre per assicurare che la libertà era sulla via del suo definitivo trionfo; - deduzioni le quali, del resto, si sono arenate di fronte alla reazione che sembra risorgere, prendendo a pretesto l'assassinio di Umberto I.'

1. Noi non abbiamo « presagito » sic et simplicìter la « fine del Parlamento». Nell'articolo che portava questo titolo (« Critica », 16 aprile 1900), sostenemmo che, se l'Estrema

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Non v'è alcun pericolo che il Parlamento fini-sca. E ciò perché la sua esistenza sta tenace-mente a cuore alle classi dirigenti, conservatri-ci, borghesi. Anche a noi l'esistenza del Parlamento sta a cuore. Ma la differenza è questa: che, mentre noi teniamo al Parlamento come a uno stro-mento di libertà e di controllo sul potere ese-cutivo, le classi conservatrici (le qua i, se il Par-lamento non servisse che a questo, lo condan-nerebbero assai volentieri in modo definitivo) ci tengono invece per tutt'altri motivi. Noi te-niamo al sistema parlamentare per quello che questo sistema presenta di intrinsecamente

Sinistra e il paese avessero subita la situazione che usciva dal Regolamento fraudolentemente approvato, ciò sareb-be equivalso - malgrado il ritiro dei provvedimenti politi-ci, onde molti dei nostri menavano vanto come di una vit-toria - alla castrazione delle parti più vitali del Parlamen-to, ad avere un Parlamento senza Opposizioni o colle Op-posizioni imbavagliate, a un colpo di Stato larvato. Di quel pessimismo non ci doliamo, perché ebbe virtù di aprir gli occhi a parecchi e concorse a preparare le ulteriori resi-stenze, onde nacque la necessità delle elezioni generali e con esse lo sgretolamento dell'edificio innalzato dalla tria-de criminale: Pelloux-Colombo-Sonnino. - O^gi non cre-diamo cessata la necessità della lotta colla reazione, ma ne par certo che la situazione parlamentare uscita dalle ele-zioni è tale da renderle assai più malagevole il passo, co-stringendola ad appigliarsi a pretesti bestiali, come il regi-cidio, per tentare di riprender terreno, senza che il tenta-tivo - anche a giudicarne da documenti recenti - sembri destinato ad avere molta fortuna. Il movimento reaziona-rio, cui diè pretesto il regicidio è (ci lusinghiamo almeno) una ventata che passa; la situazione parlamentare resta immutata; e se i partiti popolari, dentro e fuori la Came-ra, sapranno stringere bene il fascio delle forze, la reazio-ne, speriamo, non prevarrà (Nota della «Critica»),

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buono. Le classi conservatrici vi tengono ap-punto per quello che costituisce il complesso dei difetti del sistema medesimo. Leggiamo in uno scrittore conservatore, nel Mosca, quali sono i prindpzili di questi di-fetti. « Da che mondo è mondo, come regola gene-rale, gli uomini non hanno prestato i loro ser-vizi se non mediante un compenso; e i deputa-ti ministeriali tanto meno sottraggonsi a que-sta legge, in quanto che i grandi elettori, che sono al loro servizio, non sono ordinariamente disinteressati: sicché, per contentar loro ed i loro seguaci, il Ministero è obbligato a largire favori. I quali non sono quasi mai, né furono mai forse, direttamente pecuniari; ma, senza scendere al vile metallo, vi è nell'amministra-zione dello Stato, nelle mille cose di cui un mi-nistro dispone, tanto da contentare ogni più smodata brama di lucro. Vi sono mille e mille posti che si possono togliere all'anzianità ed al merito, e dare siccome l'interesse del portafo-gli detta, vi sono mille contratti ed appalti che lo Stato può concludere a patti più o meno onerosi, che può aggiudicare all'uno anziché all'altro; sì nel civile che nel penale le bilance della giustizia possono essere influenzate a fa-vore di un tale, che ha una protezione valevole a Montecitorio; una strada od una ferrovia possono farsi o non farsi, passare di qua o di là. E ciò senza parlare delle onorificenze, dei privilegi, dei sussidi, delle esenzioni più o me-no larvate dal servizio militare, del pagamento d'imposte, ecc., che i deputati non si vergo-gnano di chiedere, né i ministri di dare; senza

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parlare di un'ammonizione che si può levare a un facinoroso, di un permesso d'armi che si può concedere ad un altro, purché abbiano un protettore colà dove si puote ciò che si vuole ».' V'è dell'altro. Ecco come lo stesso autore parla dell'influenza che i deputati hanno sugli im-piegati dello Stato, cioè sulla pubblica ammini-strazione: «Si sa benissimo che disgustare un deputato vuol dire dispiacere al ministro, ed il ministro è l'arbitro assoluto di tutto quanto può sperare di bene o temer di male un povero funziona-rio dello Stato. Tutte le porte, che al pubblico sono poco accessibili o perfettamente chiuse, sono a un deputato spalancate, e questi, sì per la facilità che ha di accostare il ministro o gli alti funzionari, sì per il rispetto ed il tirhore, che la sua Qualità desta in tutti gli uffici, ha, anche che non voglia ricorrere a vere pressio-ni e intrighi, certo più agevolazioni a risolvere un affare amministrativo, di quelle che non abbia un semplice privato».^ Ed ecco ora come il Mosca spiega più intima-mente in qual guisa questi affari amministrati-vi si possano risolvere con tali agevolazioni: « Quando poi si tratta di un affare un po' im-brogliato, che pizzichi anche d'illegalità, il me-glio che si possa fare è mettersi nelle mani di uno di quei tali, che son chiamati avvocati di Ministero, o, volgarmente parlando, avvocati af-faristi. Questi tali, conoscendo tutte le segrete vie e avendo molteplici relazioni, fanno, me-

1. Mosca, Sulla teorica, cit., pp. 194-95. 2. Ibid., p. 211.

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diante equo compenso proporzionato all'im-portanza dell'affare, ottenere dei risultati che altrimenti era follia sperar. Intorno ai mezzi di riuscita, di cui dispongono gli avvocati affari-sti, circolano a Roma e nelle provincie delle voci, che è nostro dovere di riportare. Si dice, e si dice con insistenza, anche da uomini ono-revolissimi, incapaci di mentire, e citando dei fatti positivi, e facendo dei nomi, che esistono delle consorterie e delle ditte, composte ognu-na di quattro, cinque o più deputati, di cui gli avvocati affaristi non sarebbero che i rappre-sentanti in faccia al pubblico, gli uomini che procurerebbero gli affari, i quali poi sarebbe-ro sbrigati mercé l'appoggio dei membri del-la ditta, che ne dividerebbero i proventi fra di loro, prelevata prima una giusta provvigione per l'avvocato, che presta il suo nome alla so-cietà, punto onorevole, degli onorevoli. L'in-dole e l'andazzo generale del nostro Governo, come pure la conoscenza che abbiamo del ca-rattere personale degli uomini a cui questi fat-ti vengono imputati, ci fanno credere, che la veracità delle voci che corrono sia più che pro-babile ».' Ecco i difetti del sistema parlamentare, difetti che tutti conoscono e tutti ripetono, ma che abbiamo creduto utile di rievocare qui colla parola d 'un conservatore. Orbene: basta riflettere un momento, per ca-pire che, in questi difetti del parlamentarismo, i rappresentanti dei partiti estremi non ci han-no che vedere. Essi non possono chiedere al

1. Ibid., pp. 212-13.

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Ministero favori né per sé, né per il loro Col-legio elettorale, né personalmente per i loro elettori. Essi non possono esercitare influenza di sorta sugli impiegati dello Stato, i quali si ri-derebbero delle sollecitazioni di deputati, che non solo non hanno voce in capitolo presso i ministri, ma corrono il pericolo, ad ogni ab-buiarsi dell'orizzonte, di andare in galera. Es-si, finalmente, non potrebbero, neppur volen-do, esercitare la lucrosa e onesta professione di avvocati di Ministero. Viceversa, i deputati, che incarnano e rappre-sentano le « forze conservatrici », a cui l'on. Sa-racco faceva appello, come alle uniche possibi-li salvatrici d'Italia, nel suo ultimo discorso qua-le presidente del Senato, sono appunto quelli che hanno formato e radicato questo comples-so di difetti del parlamentarismo e che ne traggono profitto. È mediante questi difetti che la classe conservatrice mantiene sullo Stato e nel Paese la sua potenza, come classe. I de-putati conservano il loro ascendente sui gran-di elettori coi favori concessi a questi o al Col-legio. I grandi elettori mantengono alla loro volta il loro ascendente sulle turbe degli eletto-ri minuti mediante i favori che per mezzo di essi si ottengono dal deputato^ e, quindi, dal-l'amministrazione dello Stato. E tutta una fitta rete di interessi, per opera della quale coloro che rappresentano, per il Governo costituito, una «forza conservatrice», riescono, giovan-dosi dei diritti rimproverati al sistema parla-mentare, a costituire e accrescere il proprio ascendente. Quando, dunque, noi vediamo i giornali con-

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servatori scagliarsi talvolta contro il sistema parlamentare, non dobbiamo preoccuparcene troppo. Sono facezie. Il parlamentarismo non sara mai combattuto seriamente dai conserva-tori, perché i difetti di quello giovano troppo a questi. Abolito il Parlamento, ne sarebbero na-turalmente soppressi anche questi preziosi di-fetti. Sostituito il Parlamento con un Governo assoluto, la supremazia della classe ora politi-camente dominante sarebbe, se non distrutta, rattrappita. Mentre oggi quella supremazia è diffusa in tutta la classe, ed ognuno che rap-presenti una « forza conservatrice » anche pic-cola (per esempio il grande o il medio elettore) può farla valere in proprio vantaggio metten-do in moto la macchina dei difetti del parla-mentarismo, soppresso invece il Parlamento, la supremazia della classe dominante si espli-cherebbe praticamente solo in favore delle sommità di essa. Dormiamo dunque tra due guanciali. I con-servatori ci manterranno il Parlamento in gra-zia appunto dei difetti che questo presenta. Alla< limostrazione, svolta finora, che i conser-vatori amano il Parlamento per i difetti del si-stema, mentre i partiti estremi lo amano per quanto c'è in esso di veramente buono, voglia-mo aggiungere un'altra prova assai conclu-dente. Questa prova - parrà un paradosso - consiste nell'ostruzionismo, terminato colla caduta del Ministero-Pelloux. Polemizzando poco fa, sulla «Rivista P ^ o l a -re » del Colajanni, contro il «Journal de Genè-ve», circa questo ostruzionismo, facevamo no-tare al giornale conservatore ginevrino (il qua-252

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le, a proposito della recente campagna ostru-zionista, aveva accentuato la sua avversione per i partiti popolari italiani) come quella pic-cola violenza che è l'ostruzionismo fosse am-piamente giustificata dalle violazioni della Co-stituzione, le quali (secondo tutti i trattatisti di diritto costituzionale) giustificano anche quel-la grande violenza che è la rivoluzione. A ciò il «Journal de Genève » ci rispondeva: chi ha di-ritto di decidere se una Costituzione è stata violata? Forse un'infima minoranza, quale è quella che nel Parlamento italiano rappresen-tano i deputati dei partiti popolari? Ma il «Journal de Genève» erra manifesta-mente. Non è la piccola minoranza dei depu-tati d'Estrema Sinistra, la quale ha sentenziato che il Ministero Pelloux sia uscito dallo Statu-to. Nel momento in cui siamo, si può ben dire che questa è oramai la sentenza inappellabile della storia. Il verdetto della Corte di Cassazio-ne giudicante il decreto-legge incostituzionale; lo sfasciamento rapido e completo della mag-gioranza, già sì proterva, sfasciamento che di-mostra come essa avesse la coscienza del suo malfare; il responso dato dagli elettori convo-cati a giudicare appunto chi tra il Ministero e gli ostruzionisti fosse nel diritto; finalmente i discorsi pronunciati alla riapertura della Ca-mera da due fior di monarchici quali sono gli on. Villa e Saracco: tutti questi fatti costitui-scono, nel loro complesso, una sentenza, asso-lutamente obbiettiva, sulla condotta del Mini-stero Pelloux. Se vi è un caso in cui il successo è la dimostrazione del buon diritto, questo ca-so è appunto quello che ci occupa. Giammai

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l'Estrema Sinistra sarebbe uscita vincitrice dal conflitto, se nella coscienza di tutto il popolo, dei magistrati della Corte Suprema, come dei semplici elettori, di alti funzionari dello Stato, quali Villa e Saracco, come degli stessi deputa-ti della maggioranza, non vi fosse stato il senti-mento che il Ministero violava lo Statuto. E un giudizio così completo e così concorde (e nep-pure discusso più, dopo la caduta di Pelloux, dagli stessi organi della vecchia maggioranza) è di quelli che restano immutabili, solenni e imparziali nella storia. Si può dunque (prescindendo da ogni nuova di-mostrazione giuridica, che sarebbe dimostra-zione d 'una parte in causa) affermare, con perfetta obbiettività, che il Ministero Pelloux aveva violato lo Statuto, e intendeva più pro-fondamente violarlo. Ciò posto, quale fu la portata, diremo così, giuridica de l'ostruzionismo? Appunto quella di impedire una delle più gravi manifestazioni di quel vizio organico, che i partigiani della teoria dello Stato di diritto rimproverano al si-stema parlamentare. « Appena la maggioranza sa di essere la vera padrona del Governo, essa perde ogni disposizione a porre da sé stessa freni al proprio arbitrio» scrive lo Gneist. E l'ostruzionismo tendeva appunto a imporle questi freni. « Il potere esecutivo, » segue lo Gneist « in apparenza l'organo della legge, di-venta invece lo strumento d 'una amministra-zione sbrigliata, dipendente dalle decisioni so-vrane della Camera elettiva»; e l'ostruzioni-smo aveva per iscopo, ed ebbe per effetto, di impedire che il Governo diventasse lo stro-254

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mento- d'un'azione sbrigliata ed extralegale, dipendente dalla decisione sovrana della Ca-mera elettiva, anziché essere lo stromento del-la legge. L'ostruzionismo ebbe, dunque, una portata as-solutamente giuridica e perfettamente confor-me alla teoria dello Stato di diritto. Viceversa, quei conservatori, i quali lo combatterono con l 'argomento del sovrano diritto della maggio-ranza della Camera, si posero da quel medesi-mo punto di vista giacobino, che viene tanto oppugnato dallo Gneist, e da tutti i conserva-tori che hanno maturato la loro coscienza poli-tica in un concetto profondo del diritto pub-blico. Il fatto che la minoranza della Camera italiana abbia dovuto servirsi dell'ostruzionismo come di un f reno giuridico contro le esorbitanze del « diritto divino » delle maggioranze parlamen-tari, dimostra che essa sente istintivamente la necessità di questi freni. D'altra parte, mentre i conservatori (come ab-biamo dimostrato) amano il Parlamento ap-punto per i suoi difetti, pure, al sommo della bocca, hanno sempre critiche contro il sistema parlamentare. Prendiamoli, dunque, in paro-la; e proponiamo noi stessi i freni che valgano a togliere, o almeno a diminuire, i difetti del parlamentarismo. I freni possibili nell'ambito della Costituzione attuale, e a cui noi accenneremo, hanno per la maggior parte radice nella nostra stessa legi-slazione, e non si tratterebbe che di rafforzare ed estendere l'azione di alcuni istituti già esi-stenti. Uno solo è nuovo.

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Charles Benoist, il noto propugnatore della ri-forma costituzionale in Francia, nel fascicolo del 1° agosto della « Revue des deux Mondes », scriveva che il parlamentarismo può limitarsi (a parte il sistema dispotico, fuori di discussio-ne) in due modi: « Popolarmente, come in Isvizzera, mediante U referendum ; giuridicamente, come negli Stati Uniti, mediante una Corte Suprema. Inutile dire che, in una democrazia organizzata, do-vrebbe aver la preferenza quest'ultimo siste-ma; ma senza che sia impedito di vedere se non sarebbe possibile di combinarlo con l'al-tro. Con un f reno in alto e uno in basso, il fun-zionamento del parlamentarismo non sarebbe che meglio misurato e più assicurato».

Primo freno, adunque, il referendum, proposto in Francia dal Benoist, che è conservatore; il referendum, il quale è uno dei principali motivi che impediscono alle degenerazioni del parla-mentarismo di penetrare in Isvizzera. Da un pezzo noi domandiamo l'introduzione del refe-rendum. I conservatori italiani, se sono sinceri nelle loro critiche contro il parlamentarismo, si uniscano dunque a noi nel volere quella isti-tuzione, che è propugnata o fu attuata dai loro correligionari politici svizzeri e francesi. Secondo freno, la Corte Suprema. Noi abbia-mo, qui, l 'organo nella nostra Corte di Cassa-zione. Ma bisognerebbe che la funzione di es-sa, e insieme di tutto il potere giudiziario, fos-se esplicitamente estesa, come è appunto quel-la del potere giudiziario e della Suprema Cor-te degli Stati Uniti. 256

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Si è vista la nostra magistratura, prima, e per-fino dopo, della sentenza della Cassazione so-pra il decreto-legge, riluttare ad entrare nell'e-same della costituzionalità di esso, quasi che un tale esame sfuggisse alla competenza del potere giudiziario, e questo dovesse, quando una legge è promulgata con le prescritte for-malità esteriori, accettarla, senza preoccuparsi se essa sia o no conforme alla Costituzione. Leggiamo, in Tocqueville, che cosa accade in-vece in America. E prima per quanto riguarda il potere giudiziario in genere: « Gli americani hanno riconosciuto ai giudici il diritto di basare le loro sentenze sulla Costitu-zione piuttosto che sulle leggi. In altri termini, hanno permesso loro di non applicare le leggi che loro sembrassero incostituzionali».' Poi per quanto riguarda specialmente la Corte Suprema: « Nelle mani di sette giudici federali riposano incessantemente la pace, la prosperità, l'esi-stenza stessa dell'Unione. Senza di essi, la Co-stituzione è un'opera morta; è ad essi che si appella il potere esecutivo per resistere alle usurpazioni del corpo legislativo; e questo per difendersi dalle invasioni di quello; l'Unione per farsi obbedire dagli Stati; gli Stati per re-spingere le pretese esagerate dell'Unione; l'in-teresse pubblico contro l'interesse privato; lo spirito di conservazione contro l'instabilità de-mocratica

1. De Tocqueville, La Démocratie en Amérique, cit., voi. I, p. 160. 2. Ibid., p. 243.

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Estesa espressamente la sfera d'azione della nostra Corte di Cassazione e del nostro potere giudiziario come lo è quella della Suprema Corte e del potere giudiziario degli Stati Uniti, si avrebbe qui un freno di una certa efficacia contro le esorbitanze del potere esecutivo e le illegalità delle maggioranze parlamentari. Si in-tende però che, anzitutto, dovrebbe essere se-riamente assicurata l'indipendenza dei giudi-ci: la quale potrebbe (almeno fino a un certo punto) essere raggiunta, togliendo al potere esecutivo ed affidando alla magistratura stessa le nomine, promozioni, traslochi, ecc., dei giu-dici: per esempio alle Corti d'Appello le nomi-ne, traslochi, ecc., dei pretori e dei giudici di Tribunale, nei rispettivi distretti; alle cinque Corti di Cassazione la nomina dei consiglieri d'Appello; e alla stessa Suprema Corte di Cas-sazione a sezioni riunite la nomina dei propri membri che venissero a mancare.

Altri due freni possibili noi li troviamo in una integrazione delle funzioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti. Per quanto riguarda il primo, bisognerebbe che il parere del Consiglio di Stato, di cui il ca-po I, titolo II della legge 2 giugno 1889, fosse reso obbligatorio per tutte le leggi e i decreti reali e ministeriali, e che, sólo dopo aver otte-nuto parere favorevole, potesse il Governo proporre alle Camere una legge od emanare un decreto. Probabilmente, con una simile di-sposizione, il generale Pelloux non avrebbe osato il suo antistatutario decreto. Si capisce

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che, anche per quanto riguarda il Consiglio di Stato, sarebbe urgente anzitutto garantire l'in-dipendenza dei suoi membri, col toglierne la nomina al potere esecutivo ed affidarla allo stesso Consiglio di Stato a sezioni riunite, e collo stabilire l'inamovibilità dei membri me-desimi. Quanto alla Corte dei Conti, bisognerebbe estendere e rafforzare più che sia possibile il suo sindacato. E anzitutto completare l'opera iniziata coll'art. 56 della legge 17 febbraio 1884 sulla Contabilità generale dello Stato, statuendo che, anche per i decreti reali, quan-do la Corte neghi il suo visto, non debba il de-creto essere registrato con riserva dopoché il Consiglio dei ministri vi abbia insistito, ma debba cadere issofatto nel nulla e il rifiuto di registrazione della Corte rimanere assoluto}

1. Al famoso decreto-legge 22 giugno 1899 del Ministe-ro Pelloux la Sezione competente della Corte dei Conti rifiutò la registrazione. Il Ministro ne richiese, a sensi del-la legge 14 agosto 1862, la registrazione con riserva alla Corte dei Conti a Sezioni riunite, la quale così motivava (23 giugno 1899): « Considerato che... nel decreto si danno norme e precetti con sanzioni penali al diritto di riunione, si dà qualità di reati a fatti non considerati per tali dal Codice penale, si modificano disposizioni dell'Editto sulla stampa, della Legge di P. S. e del Codice penale; e sono abrogati un ar-ticolo dell'Editto sulla stampa e due articoli del Codice penale; «che simili provvedimenti, già compresi in progetti di legge, presentati alla Camera dei deputati e da essa esa-minati e discussi, sono evidentemente di competenza legi-slativa; «che la clausola, contenuta nell'art. 10 del decreto, della immediata presentazione al Parlamento per la sua con-

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Le riforme accennate sono tutt'altro che « sov-versive». E andranno incontro all'obbiezione che i freni, che da esse si attendono a protezio-ne del diritto, quando questo sia contrario all'in-teresse della maggioranza, avranno assai scarsa efficacia, perché gli organi, che questi freni dovrebbero applicare, escono sempre dal seno della classe dominante e partecipano quindi al sentimento dei costei interessi. Per quanto l'obbiezione possa essere forte,- ri-spondiamo che quei freni, non ostante tutto, a qualche cosa pure gioveranno, come a qualche cosa giova, anche cosi com'è, la Corte di Cassa-zione, come s'è visto nella contingenza del de-creto-legge. D'altra parte si tratta qui, non già di tracciare una restaurazione ab imis fundamentis, ma di esporre alcune riforme urgenti, attuabili nel-l'ambito dello Stato presente. E soltanto come tali noi le abbiamo enunciate.

GIUSEPPE RENSI

versione in legge, e la determinazione della sua entrata in vigore alla data fissa del 20 luglio, più lontana di quel che sarebbe secondo il Codice civile, non sanano nel potere esecutivo la sua incompetenza a promulgarli; « che non è compito della Corte apprezzare le ragioni po-litiche e le circostanze speciali che hanno indotto il Gover-no ad emettere il decreto; ecc., ecc. »,

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PREFAZIONE ALLA PRIMA E SECONDA EDIZIONE

Chiunque segue, anche superficialmente, la politica italiana, è al corrente delle varie fasi della contesa sorta tra una parte del partito so-cialista, da un lato, e un'altra parte dello stesso partito e il partito repubblicano, dall'altro. Questa contesa incominciò in seguito alle di-chiarazioni di ministerialismo di alcuni tra i più eminenti uomini del partito socialista i-taliano - primo e più deciso su questa via Fi-lippo Turati, che, del resto, al di sopra di que-sto passeggero dissenso, tutti profondamente amiamo e stimiamo. S'inasprì in seguito alla campagna oratoria di Enrico Ferri in Roma-gna ed altrove, tendente a sostenere, contra-riamente a quanto aveva cercato di dimostrare con alcuni articoli della «Critica Sociale»' chi scrive queste linee, che Giuseppe Mazzini non può considerarsi quale un precursore del so-cialismo e che la sua dottrma è prettamente «borghese». Finalmente, quella contesa rag-giunse la sua ultima fase durante e immediata-mente dopo il congresso repubblicano di An-cona (l°-3 novembre 1901).

1. Si veda / Profeti dell'idea socialista in Italia, in «Critica Sociale » del 1° e 16 marzo, 1° e 16 aprile 1901. Ripubbli-cando in volume a parie (era in corso di stampa) questi ed altri miei Studii, avrò occasione di spiegare brevemente il mio pensiero in argomento.

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In questa ultima fase le obbiezioni dei sociali-sti ministeriali ai repubblicani possono riassu-mersi così: voi (essi dicono) vi rinchiudete nel-la «pregiudiziale» che fuori della repubblica non vi sia salvezza e che nulla si possa fare sen-za di essa. Data questa « pregiudiziale » voi do-vreste, logicamente, appartarvi dall'odierna vi-ta politica attiva e restringervi ad una afferma-zione sterilmente rivoluzionaria. Invece, voi prendete parte a questa vita politica, doman-date e proponete riforme, e con ciò, dimo-strando di essere persuasi che riforme si pos-sano ottenere anche nella monarchia, negate la stessa vostra «pregiudiziale» e di conse-guenza abbattete la chiave di volta su cui ap-poggia il vostro edificio di partito politico. Ma questa argomentazione ci pare alquanto semplicista. Sembra, infatti, che si possa, senza incoerenza, ritenere che solo la repubblica de-mocratica (tipo svizzero o americano) presenti l'ambiente politico atto alla facile, normale, piena e perfetta esplicazione della volontà po-polare; che l'ambiente politico presentato da una monarchia sia sempre le mille miglia lon-tano dall'offrire questi vantaggi; che sia, quin-di, opportuno diffondere l'idea repubblicana e cercar di convincere il maggior numero pos-sibile di cittadini della verità dei due fatti ora accennati; — e, ciò non ostante, riconoscere che qualche piccolo frammento di bene, qualche riforma utile può compiersi anche con la mo-narchia e, quindi, cercar di ottenerli. La giustificazione dell'esistenza di un partito repubblicano - e del repubblicanesimo del partito socialista - sta completamente nelle tre

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prime circostanze or ora accennate, e non è per nulla invalidata dall'ultima; così come non sarebbe invalidata l'affermazione d'un povero diavolo che il vitto carneo è l'unico igienico, dal fatto che égli è costretto a nutrirsi di pata-te. O forse che gli si potrebbe obbiettare: voi siete incoerente: una volta che pronunciate quella affermazione, voi dovete incrociare le braccia in attesa del vitto carneo: e se vi ostina-te a mangiare patate, dimostrate con ciò l'inso-stenibilità della vostra proposizione? Ma il po-vero diavolo continuerà, giustamente, ad af-fermare che il vitto carneo è l'unico igienico, e, ciò non ostante, non potendo di meglio, a mangiare patate, e, finché non può procurarsi quello, cercherà magari di aggiungere a que-ste qualche altra specie di nutrimento inferio-re. Ciò è, semplicemente, quel che fa il partito repubblicano, quando, fermo nella proposi-zione che la forma repubblicana-democratica moderna è l'unica igienica per la salute dei po-poli, e costante nel diffondere e far penetrare nei cervelli questa verità, pure, anziché appar-tarsi e lasciarsi morire di fame, si nutre della maggior quantità di patate e di altri alimenti inferiori che gli è dato procurarsi in monar-chia, e cerca di aumentare più che sia possibile questa razione. Del resto, si noti che se vi fosse incoerenza nel partito repubblicano la stessa incoerenza esi-sterebbe per il partito socialista. Anche il par-tito socialista pone come proposizione che l'u-nico ordinamento buono è dato dalla colletti-vizzazione dei mezzi di produzione; e tale pro-posizione predica come caposaldo del partito.

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Ciò non ostante cerca di ottenere quelle bricio-le di miglioramento che è dato raggiungere nell'assetto capitalistico. Se questo fa il Partito socialista, perché non potrà il repubblicano fa-re analogamente, la stessissima cosa nel campo suo?

Tra gli uomini politici italiani che hanno mag-giormente consacrato i loro sforzi a dimostra-re che un partito repubblicano non ha ragione di esistere, si è segnalato in questi ultimi tem-pi, l'on. Ettore Sacchi, il quale svolse il suo concetto in argomento specialmente con un discorso, pronunciato il 30 giugno 1901 a Cre-mona, e con un articolo, che leggiamo in que-sto momento nella « Nuova Antologia» de 15 novembre 1901. Ciò che rende particolarmente ingiustificata l'attitudine dell'on. Sacchi è lo sforzo ch'egli fa per invocare a suo favore il positivismo e quasi per atteggiarsi a un discepolo in politica di Ro-berto Ardigò. Imperocché il pensiero dell'on. Sacchi si fon-da sopra tre capisaldi che sono quanto di me-no positivo e di più aprioristico si possa imma-ginare; e rifugge dall'affrontare a realtà an-che negli accessori, come quando, rinnovando il caso di Tecoppa, addita, tanto nel discorso quanto nell'articolo, lo scandalo che chi scrive queste linee «ha detto male di Garibaldi», quasi volendo così risolvere la questione se l'o-pera di Garibaldi sia stata utile o no alla causa della democrazia italiana col solito assai poco positivo colpo di tamburone patriottico e sen-

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za affacciarsi a discutere i fatti su cui il nostro giudizio era appoggiato.' I tre capisaldi del pensiero dell'on. Sacchi sui quali egli scorre come su principii che non ab-bisognino di dimostrazione sono i seguenti: I - Che la monarchia non è una forza operan-te «fuori delle masse popolari», una istituzio-ne «che esiste per sé, distinta e separata dal popolo». E invece connaturata con questo, perché costituisce «un ordinamento da esso espressamente e tacitamente voluto; in modo cioè esplicito dalle generazioni che votarono nei plebisciti e in modo tacito dalle successive generazioni per tutto lo insieme della vita del-o Stato ». II - Che non è piìi a farsi questione di monar-chia o repubblica perché « nel sistema rappre-sentativo, essendo il suffragio la leva che può sollevare il mondo politico » la monarchia non può aver « altro ufficio che di inalveare la vo-lontà del popolo per le risoluzioni che esso crede giovevoli». I l i - Che l'ipotesi che la monarchia possa con-trastare alla volontà popolare è smentita dalla storia, la quale « dà torto ai dubitanti, ai condi-zionali, ai diffidenti». Abbiamo detto che questi tre punti fondamen-tali del pensiero dell'on. Sacchi sono quanto di meno positivo si possa immaginare. E, per vero, quanto al primo, crediamo che

1. Abbiamo «detto male di Garibaldi» in due articoli della «Critica Sociale» del 1° novembre e 1° dicembre 1900, che faranno parte degli Stvdii ora in corso di stam-pa.

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nessun politico positivista, per dimostrare che una monarchia in generale e l'italiana in parti-colare è connaturale alla vita della nazione, oserebbe seriamente invocare i plebisciti. Tut-ti, anche coloro che fingono di prenderli con solennità, sanno come questi avvengono. San-no che il plebiscito ha creato in Francia l'impe-ro. E sanno che in Italia quella scarsissima se-rietà che ha questa forma di manifestazione della volontà popolare è stata per di più di-strutta dal momento di tumultuario entusia-smo in cui la votazione accadde, e dal modo particolare con cui il quesito dell'accettazione della monarchia venne, senza possibilità di scelta, sottoposto ai cittadini. Maggior ragione avrebbe l'on. Sacchi se la forma monarchica fosse stata costruita in Italia da una Costituen-te come nel Belgio dopo la rivoluzione del 1830. Ma tanto si era sicuri che la monarchia fosse la forma naturale in cui poteva adagiarsi il popolo italiano, che la Costituente, la quale so a, se mai, poteva esprimere seriamente l'or-ganizzazione politica naturale all'Italia, fu ac-curatamente e con ogni sforzo tenuta lontana. Quanto al « modo tacito » con cui le generazio-ni successive a quella che votò nel plebiscito mostrarono e mostrano di volere le istituzioni attuali, ci sarebbe da rispondere due cose: la prima, che bisognerebbe anzitutto ricercare se parecchie manifestazioni del popolo italiano non ismentiscano l'affermazione dell'on. Sac-chi; la seconda, che il « modo tacito » di con-senso popolare per un governo, potrebbe, se fosse seriamente probante, invocarsi a favore di migliaia di governi da tutti riconosciuti per

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pessimi e dimostrati dalla storia contrari allo spirito della nazione e alla volontà del popolo che li sopportò. Il secondo caposaldo dell'on. Sacchi, che, cioè, nel sistema rappresentativo, il suffragio sia tut-to e la monarchia quindi non possa avere altro ufficio che di inalveare la volontà del popolo, anziché essere un concetto positivista, è un vecchio luogo comune del dottrinarismo pro-jrio ai professori di diritto costituzionale. Per a sua confutazione rimandiamo l'on. Sacchi ai

libri del Mosca - questo sì un vero scrittore politico positivista - o quanto meno ai riferi-menti che a tali libri si fanno nelle pagine che seguono. La terza affermazione dell'on. Sacchi, essere cioè la ipotesi che la monarchia possa contra-stare alla volontà popolare smentita dalla sto-ria, è destituita d'ogni fondamento. Bisogna-va, per provarla, che l'on. Sacchi avesse confu-tato i fatti raccolti nei nostri articoli della « Cri-tica Sociale », da lui ricordati; fatti, i quali, se non altro, attestano che l'aiffermazione sopra-detta ha bisogno di venire lungamente dimo-strata. Ma l'on. Sacchi crede di aver fatto una dimostrazione trionfale quando ha citato l'al-largamento del suffragio, semplice superficia-lità, vera polvere negli occhi dei gonzi; e di-mentica la sostanza, cioè l'ininterrotta e conca-tenata serie di fatti che va dal proclama di Moncalieri attraverso ai lunghi anni di crisi extraparlamentari, fino all'ultima crisi, la cui soluzione fu pure extraparlamentare per quan-to riguarda i dicasteri della guerra e della ma-rina, e nella quale l'esclusione dello stesso on.

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Sacchi e dell'on. Marcora si dovette (diremo anche noi parafrasando una frase che ebbe un momento di celebrità) a ragioni « che tutti san-no », anche perché la rivelò la « Gazzetta del Popolo» del 14 maggio 1901.' Questo il positivismo politico dell'on. Sacchi.

Ma torniamo alla polemica dei socialisti coi re-pubblicani. Con le pagine che seguono noi, senza presu-mere minimamente di assiderci a giudici e neppure di entrare direttamente nella polemi-ca, abbiamo voluto soltanto mettere in luce la verità cui sopra s'è alluso: e cioè che solo le forme repubblicane-democratiche moderne consentono un pieno e normale elaterio della volontà popolare - verità affermata, del resto, nel programma minimo socialista come primo postulato politico, così formulato: « Stato democratico, dove il proletariato si sen-ta realmente uguale - politicamente e giuridi-camente - al capitalista; e quindi: « I - Suffragio universale, semplice diretto e segreto per tutti i maggiorenni d'ambo i sessi. - Elettorato passivo illimitato, salvo interdizio-ne per infermità. - Rappresentanza propor-zionale. - Referendum. « II - Tut te le cariche, senm eccezione, eleggibi-li, revocabili, responsabili, retribuite, ecc. ». E si noti che la Dichiarazione che precede il programma minimo avverte che questo sta al massimo «nei rapporti di mezzo a fine». Non

1. Si veda sopra, p. 112.

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v'è bisogno d'insistere sulla importanza di questa affermazione in relazione colla trasfor-mazione politica di cui al n. II. Le polemiche fanno sempre perdere la misura e riescono a squilibrare le posizioni. Così è av-venuto di quella di cui abbiamo parlato. Pivi ancora che nelle sfere intellettualmente e poli-ticamente pili elevate dei due partiti, nei pic-coli ambienti e nelle piccole discussioni locali si corse oltre al segno, e, da parte socialista, nella naturale esagerazione cui la disputa con-duce, si andò, se non erriamo, fino a rimettere a nuovo la teoria dell'indifferenza verso le for-me di governo. Per ciò ci parve opportuno ricordare gli argo-menti e i fatti che tale indifferenza condanna-no, e che, per contro, provano ed illustrano l 'opportunità dei postulati del programma mi-nimo socialista surriportati. Si tratta soltanto di ricordare-, epperò sarebbe ultroneo voler cercare in queste pagine novità o profondità di vedute.

Novembre 1901 GIUSEPPE RENSI

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Duces partium, accendendo civili bello acrei, temperandae victoriae impares, quippe inter turbas et discordias pessimo cuique plurima vis, pax et quies bonis ar-tibus indigeni.

TACITO {Hist, IV, 1)

Scrissi questo libretto venticinque anni or so-no, quando ero

calidus inventa consule Fianco?

Poiché - singolare e forse immeritata fortuna di queste pagine! - esso è ancora ricercato e se ne richiede una terza edizione, lo lascio stare tal quale si attesta essere piaciuto al pubblico, senza mettervi minimamente le mani, quan-tunque ben consapevole che, già solo per ra-gioni scientifiche, occorrerebbe rimaneggiarlo radicalmente e solidamente integrarlo median-te la base d'una ben piìi ampia letteratura poli-tica, la cui larga conoscenza allora mi manca-va. Ma un quarto di secolo non può essere passato invano per una mente pensante. Né esperien-

1. Hor., Carni., I l i , 14.

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ze come quelle che si ricavano da avvenimenti così sconvolgenti e contraddittori, quali offrì in Italia il periodo 1918-1925 possono non aver prodotto mutamenti e rimutamenti di con-clusioni. Mentirei se dicessi che le mie opinioni sono rimaste interamente quelle espresse in questo volumetto. In che cosa sono mutate? La storia italiana del periodo 1918-1922 e più ancora quella del periodo 1922-1925, mi con-vinse che il supremo problema politico è il problema dell'autorità: d'un'autorità che reg-ga contro le improvvise opposte ventate del capriccio della massa e della folla partitante e che quindi tragga origine dal di fuori del suo momentaneo volere. Dove trovare questa autorità? Dove può essa essere assisa? Dire, in risposta a tale domanda, il mio parere al riguardo; mettere in luce le fasi per cui, su tale argomento, il mio pensiero è passato, e le ragioni del suo passaggio dall'una all'altra, è cosa che non posso fare con la dovuta precisio-ne, chiarezza e larghezza. E non lo posso per la seguente ragione. In uno Stato cui stesse a cuore il proprio svi-luppo intellettuale, il dibattito delle idee do-vrebbe essere interamente libero per tutti e in jarticolar modo per coloro il compito e la pro-"essione dei quali è appunto la elaborazione di

idee, cioè per gli appartenenti alla categoria degli scrittori e dei pubblici insegnanti. Altri-menti il popolo di quello Stato cade nella per-fetta stasi intellettuale e nell'immobile, mono-tona, infeconda ripetizione obbligatoria per

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tutti del medesimo concetto, senza più possibi-lità di vitale fermento e progresso, come ac-cadde nell'impero bizantino o in Italia per l'a-ristotelismo sino a Galileo ed oltre. Coloro che vogliono ciò, dimenticano le agili e profonde frasi che quel grandissimo pensatore che fu A. France pone in bocca ad uno dei suoi perso-naggi. «Faites-vous un tableau, très chers a-mis, de l'état de mceurs, si des hommes en as-sez grand nombre croyaient fermement pos-séder la vérité et si, par impossible, ils s'enten-daient sur cette vérité... Aussi convient-il de fonder l'ordre public sur la diversité des opi-nions et non de chercher à l'établir sur le con-sentement de tous à une méme croyance. On n'obtiendrait jamais ce consentement unani-me et, en s'efforgant de l'obtenir, on rendrait les hommes aussi stupides que furieux».' Del resto, uno scrittore che sembra essere innalza-to a filosofo della «nuova èra», il Gioberti, scriveva: « La libertà della stampa è un dovere e un diritto. Legittimo perché si riduce a una legge cosmica. È la espressione del conflitto fra le idee, senza cui non vi ha progresso nel sape-re. I fautori della stampa serva non conoscono l'ordine della Provvidenza. Vogliono con la forza introdurre un ordine di cose ripugnante alla creazione, anticipando l'armonia palinge-nesiaca. L'epoca cosmica è epoca di conflitto e di armonia iniziale, non di armonia perfetta. L'opinione contraria fu l'errore del medioevo e produsse i roghi, l'intolleranza, la servitù dei

1. A. France, Sur le pierre bianche, Nelson, Paris, 1905, pp. 75-76.

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pensiero. Ma Dio ruppe il medioevo e creò l'e-tà moderna». ' E un altro filosofo, pure assai in auge tra i dominatori dell'ora, il Fichte, po-teva, almeno riguardo a quella che egli chia-mava la « repubblica dotta » scienziati, scritto-ri, filosofi, insegnanti (poiché di essa era per lui elemento precipuo la cattedra universita-ria, sicché egli affermava che « errano di molto coloro i quali raccomandano riserbo sulla cat-tedra e pensano che anche su di essa non si possa dir tutto, che anche su di essa si debba riflettere che cosa possa giovare o nuocere, che cosa possa essere bene o male interpreta-to ») p^oteva, dico, il Fichte, e già nella Prussia del 1798, esprimere l'esigenza dell'ammissio-ne di questa massima: che nell'ambito di essa repubblica dotta « con assoluta, illimitata liber-tà ogni possibile può essere pensato e investi-gato »; che quindi « ogni membro di questa so-cietà deve aver spezzato i vincoli de simbolo chiesastico e dei concetti giuridici sanzionati nello Stato »; che per esso deve valere il princi-pio: « la comunicazione della mia convinzione privata è assoluto dovere »; e che lo Stato deve permettere tutto ciò.^ Ma i sedicenti ricostruttori dell'Italia, non solo hanno con ogni sorta di pressioni e violenze, illegali e «legali», soppressa interamente per la generalità la possibilità di questo scambio e

1. V. Gioberti, Frammenti » Delia Rifoma Cattolica», e «Della libertà Cattolica», Vallecchi, Firenze, 1924, pp. 19-20. 2. G. Fichte, Dottrina morale, soc. edit. Dante Alighieri, Roma, 1918, pp. 242-47.

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dibattito di idee e ridotta la vita intellettuale al-la ripetizione obbligata d 'una idea sola; ma, per di più, mediante una delle leggi tipiche del «regime», — vera lex maiestatis, secondo la foggia datavi nei tempi più tristi dell 'Impero romano, ché prima, all'epoca dello Stato lega-le, come ci narra Tacito, « facta arguebantur, dieta impune erant»^ - lex maiestatis che, come all'età di Tiberio, formerà il terreno specifica-tamente propizio alla più ricca fioritura di « delazioni » - non pure hanno posto ai « dot-ti» nel senso fichtiano (che nel nostro paese appartengono per la maggior parte alla cate-goria dei pubblici insegnanti) vincoli soffocan-ti circa ciò che possono dire e scrivere, ché li hanno inoltre, mediante la formulazione inde-terminata della legge stessa, collocati nella condizione di non sapere con precisione che cosa possano o non possano dire e scrivere, e così con l'incertezza se questo o quest'altro pensiero, enunciato, sia tale da farli incorrere nelle sanzioni della legge, li hanno messi nella assoluta impossibilità di esprimere qualsiasi idea pertinente a quella che i nostri antichi chiamavano «filosofia civile». In particolare poi la libertà d'insegnamento (poiché un pro-fessore non potrà più - o, che è peggio, non saprà più chiaramente se potrà o no - illustra-re con adesione il regime parlamentare, o il positivismo, o gli argomenti di Kant contro l'e-sistenza di Dio), quella libertà d'insegnamento che pure una legge del « regime » formalmen-te garantisce e che già nel 1673 il Serenissimo

1. Ann., 1, 72.

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Elettore Palatino poteva assicurare a Spino-za,' è ormai sepolta nell'Italia del 1925.^ L'at-mosfera intellettuale d'Italia, atmosfera che poc'anzi era davvero ammirevolmente libera tanto che negli istituti superiori italiani trova-vano posto imparzialmente e cattolici e comu-nisti, è così diventata esattamente quella che fu nel periodo della «restaurazione» ispano-au-striaca iniziatosi col 1530. E, parallelamente, l'antico turpe servilismo di quel periodo, an-che e sopratutto dei « dotti », l'arte per l'arte del servilismo, il servilismo anche «disinteressa-to» e senza pensiero di compensi, purché ci sia la soddisfazione di fricare chi sta a potere -quel servilismo, cancellare le ultime pieghe la-sciate dal quale nelle coscienze italiane, avreb-be dovuto essere il compito d'un movimento veramente rinnovatore - si è risvegliato in pie-no ed ha ripreso universale dominio. Per queste ragioni non posso dunque esprime-re particolareggiatamente il mio parere sulla questione dianzi affacciata; e devo limitarmi -poiché chi, come me, da trent'anni ha espresso il suo coscienzioso avviso sulle cose d'Italia, ri-tiene suo dovere civico non rinunciare del tut-to a far ciò nemmeno nelle circostanze presen-ti, quali si siano le conseguenze che nell'adem-pimento di questo dovere, con cui si ha alme-

1. Ep-, XLVIII. 2. Questo vale sopratutto per la libertà d'insegnamento filosofico se è vera l'opinione, che Seneca constatava esse-re da moki professata, che debbano potere « philosophiae fideliter deditos contumaces esse ac refractarios, contem-ptores magistratuum aut regum eoramve, per quos pu-blica administrantur » (Ep., LXXIII).

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no la soddisfazione di staccarsi dall'abbiezione dei più, si possa affrontare, ché un uomo il quale possegga il senso della sua dignità perso-nale ha (per usare le parole del Guyau) « tout un passé avec lequel il lui faut compier et qui le pousse en avant»' - devo limitarmi ad enunciare la conclusione o soluzione a cui so-no da ultimo approdato. E sia lecito augurare al partito dominante amici della medesima fermezza e del medesimo disinteresse di molti dei suoi oppositori: sebbene, per la via su cui si è incamminato, esso operi evidentemente una selezione in senso inverso. Quella soluzione non è nuova. Anzi è antichis-sima. È stato giustamente detto che non già la storia aiuta a comprendere i fatti attuali, ma questi sono che aiutano a comprendere quella. Ciò è più vero che mai riguardo agli eventi attuali d'Italia. Per mezzo di essi una luce vivissima si proietta ai nostri occhi e sul periodo delle guerre civili di Roma e sulla storia interna del-le repubbliche italiane del medioevo (e in essa sull'odio di Dante e di Dino Compagni) e sulla fase giacobina della rivoluzione francese. Tut-ti questi periodi, che prima potevano essere solo materia remota di erudizione, ci ridiven-tano vicini, ci si fanno familiari e quasi vera-mente vissuti, li intendiamo in tutti i loro par-ticolari, in tutta la loro «psicologia». Così comprendiamo finalmente questa cosa di pri-mo acchito mostruosa e inspiegabile, come

1. J.-M. Guyau, La morale d'Épicure et ses rapports avec les doctrìnes contemporaines, F. Alcan, Paris, 1886', p. 124.

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mai, cioè, uomini della stessa terra, essendo tra essi il fratello lupo al fratello, si siano ad ogni momento sentiti costretti a chiamare gli stranieri contro i «fratelli», appunto per la necessità primordiale di salvare dal « fratello » la vita e i diritti elementari connessi con l'esi-stenza. Comprendiamo l'apostrofe di Cicero-ne: « Quae potest enim spes esse in ea republi-ca, in qua hominis impotentissimi atque in-temperantissimi armis oppressa sunt omnia? et in qua nec senatus nec populus vim habet ullam? nec leges ullae sunt, nec iudicia, nec omnino simulacrum aliquod ac vestigium civi-tatis? ».' Comprendiamo l'esclamazione di Dan-te: « Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le verghe dei reggimenti d'Italia prese avete. E dico a voi Carlo e Federico regi, e a voi altri principi e tiranni; e guardate chi a lato vi siede per consiglio; e annumerate quante volte il dì questo fine della umana vita per li vostri consiglieri v'è additato. Meglio sarebbe a voi, come rondine volare basso, che, come nib-bio altissime rote fare sopra le cose vilissi-me Comprendiamo l'invettiva con cui Dino Compagni chiude la sua Cronica : « Così sta la nostra città tribolata, così stanno i nostri citta-dini ostinati a malfare. Gli uomini vi si uccido-no; il male per legge non si punisce. O iniqui cittadini, che tutto il mondo avete corrotto e viziato di mali costumi e falsi guadagni. Voi siete quelli che nel mondo avete messo ogni

1. Ad Fam., ìi, 1. 2. Il Conv., IV, 6.

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malo uso. Ora vi si ricomincia il mondo a rivol-gere addosso: l 'Imperatore con le sue forze vi farà prendere e rubare per mare e per terra ». E la sete di giustizia, il bisogno di un magistra-to, a cui poter fiduciosamente ricorrere per aver riparo contro iniquità flagranti, e che, poiché il livore di parte rende impossibile che esista all'interno, si conclude debba essere isti-tuito al di fuori dei confini del proprio paese perché possa essere indipendente e superio-re ai partiti entro questo tumultuanti e impe-ranti. Or dunque come i fatti attuali ci aiutano a comprendere la storia, i fatti passati, e non vi-ceversa, talché si può capovolgere il noto apof-tegma e dire xnta magistra historiae, così essi ci aiutano anche a comprendere le posizioni di pensiero del passato. Solo ora, ad esempio, io IO compreso, in tutta la sua forza e nel suo si-

gnificato profondo, il concetto a cui Cicerone, in circostanze analoghe alle presenti, ritorna così di frequente con rimpianto e speranza: mores maiorum. Mores maiorum. La tradizione; l'ordine consue-tudinario. Che cos'è che, tanto nella vita priva-ta, quanto e più nella vita pubblica, può costi-tuire per l 'uomo il vincolo che lo rattenga e lo freni? Non le armi, non le « perfette costitu-zioni » di Sieyès, non gli Efori di Sparta, non la divisione dei poteri per quanto minuziosa-mente bilanciata sulla carta in modo da preve-nire usurpazioni, non il riparto tra questi po-teri della forza pubblica, non per sé il semp ice fatto dell'introduzione di magnae Chartae o di Statuti e il giuramento a questi (giuramento, 278

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che con slealtà ed irrisione assai più turpe del-l'aperta revoca di essi, si vede talvolta conti-nuato anche quando nel fatto essi sono così to-talmente violati da non esistere più); non altre istituzioni, il cui compito essenziale dovrebbe, sì, essere quello di stare elevate sopra i partiti, di impedirne gli eccessi, le iniquità, le ingiusti-zie, di obbligarli all'osservanza delle costituzio-ni giurate, di cui a quelle istituzioni incombe essere la guardia, ma che (contro ciò che io ho per un momento creduto) si manifestano inve-ce, incapaci o impotenti o nolenti a questo compito. Una cosa sola può costituire per l'uo-mo, specie nella vita pubblica, il vincolo che veramente e fermamente lo leghi, gli si im-ponga, costituisca l'autorità che egli non osa infrangere: i m(yres maiorum, la tradizione o il costume politico, passatogli nel sangue, pene-trato nel suo interno, così da suscitargli una ta-le venerazione che egli senta un ribrezzo in-sormontabile a operare contro o fuori di esso. In ciò - che in sostanza non è altro che quella « assuefazione » di cui il Leopardi fa il concetto centrale della sua filosofia - sta forse l'unica vera possibile autorità politica. Questo è che costituisce la grandezza mirabile della vita po-litica inglese. Un popolo su cui i mores maiorum, la tradizione nel costume pubblico, non esista, o non abbia presa e non susciti una profonda religiosa e quasi superstiziosa venerazione, non avrà mai vera e solida autorità. Non l'avrà mai un popo-lo, che, invece di sentire un tale pressoché su-perstizioso rispetto per i mores maiorum e quin-di di conservarli sempre, solo ritoccandoli e

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innestandovi e coordinandovi senza sconvol-gerli le innovazioni necessarie, non lascia che essi si solidifichino e li butta all'aria (e da ciò l'importanza del monito che Gaetano Mosca, nella seconda edizione del libro alla prima del quale questo volumetto fu così largamente in-spirato, dà agli italiani di conservare il sistema parlamentare, nonostante le critiche formida-bili che egli stesso vi aveva mosse).' - Ma i mo-res maiorum possono divenir solidi e costituire una stabile ossatura d'autorità ad infrangere la quale ognuno senta la medesima invincibile ripugnanza che prova a commettere un atto contro natura, anche, come attesta luminosa-mente l'esempio della Svizzera, in democrazia diretta. In questo pensiero, adunque, può for-se trovarsi la conciliazione tra la democrazia diretta che, quando scrivevo questo libretto, mi appariva il regime politico ideale, e l'esi-genza di un'autorità sopra le improvvise ven-tate della « volontà popolare », esigenza che gli eventi posteriori fecero grandeggiare davanti alla mia mente. Ma, appunto perché l'unica autorità solida che riesca a tener in regola la vita politica, è quella dei mores maiorum o della tradizione, il vero sa-crilegio, la profanazione dell'anima dei popo-li, è l 'opera che disperde i primi e spazza la se-conda, specialmente se nel luogo e nel mo-

1. G. Mosca, Elementi di Scienza politica, Bocca, Torino, 1923^ specialmente p. 501. «Ci sentiamo costretti a rac-comandare alla generazione novella, la restaurazione e la conservazione di quel regime politico (se. parlamentare) che essa ha ereditato dai suoi padri».

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mento in cui né quelli né questa sono ancora perfettamente solidi, ma cominciano a solidi-ficarsi; l'opera che impedisce (per usar l'e-spressione del Mosca) «la conservazione del regime politico ereditato dai padri». Perché un 'opera di siffatta natura rompe l'incanto; fa toccar con mano a tutti che l'autorità della tra-dizione è semplicemente virtuale, impalpabile, e fatta quasi a dire di aria, non di pietra, di ferro, di bronzo, di materia contro cui la testa si spezza; che è cioè, in fondo, come si è detto, una « superstizione ». Colui che rovescia la tra-dizione - che schianta totalmente, anziché li-mitarsi a raddrizzare, rettificare, correggere, riadattare, edificando e innestando sul passato - spezza la « superstizione », dissipa la venera-zione, come co ui che calpesta un oggetto sa-cro o « tabù » rende manifesto che era illusio-ne il credere che non si potesse calpestare impunemente. Rotto l'incanto, o l'illusione, e quindi la venerazione, ognuno vede che il ri-spetto che lo tratteneva era un'ubbia e che può del pari osare. Il popolo in cui ciò accade resta quindi aperto ad ogni sorta di perturbamento futuro, e quella che, scartate, perché dimo-strate inefficaci dalla storia, tutte le altre for-me e fonti d'autorità, residua come la sola pro-fondamente vincolante, la venerazione cioè per i mores maiorum o la tradizione, rimane per sempre bandita dalla sua vita politica, destina-ta così a vacillare tra inquietudini e sconvolgi-menti continui.

Questa, adunque - i mores maiorum, la tradizio-ne, il costume politico - l'unica autorità del presente. Ma comincia forse a spuntare un'al-

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tra autorità, che noi non vedremo, ma che probabilmente vedranno i nostri nepoti. Nel De Monarchia, in mezzo a tutto quanto v'è di caduco, di morto, di scolastico. Dante enun-cia un pensiero grandemente vitale e fecondo che comincia appena ora a trovare attuazione. Quello della necessità di una autorità interna-zionale - r« Imperatore », nel concetto e lin-guaggio dantesco - la quale risolva pacifica-mente come istanza di giurisdizione superio-re, le controversie tra i singoli Stati. È il pen-siero che forse sta per realizzarsi con la Lega delle Nazioni, la quale dovrebbe veramente ornare con motti del De Monarchia, poiché con questo libro Dante fu il preannunciatore di es-sa, le pareti della sua sede. Ma il pensiero di Dante non si limita a questo. Nella sua mente, la suprema istanza di giusti-zia internazionale - r« Imperatore » - deve a-vere anche la competenza per decidere le con-troversie di diritto costituzionale tra i cittadini e i loro particolari governi, per sentenziare in-torno ai gravami che quelli avessero da solle-vare contro di questi, per riparare i torti e im-pedire i soprusi che all'interno d'un singolo Stato i reggitori o i dominatori di questo eser-citassero sui loro compatrioti. Così solo, dice Dante, i singoli governi funzio-neranno rettamente. « Tunc enim solum poli-tiae dirigunguntur obliquae, democratiae sci-licet, oligarchiae atque tyrannides quae in ser-vitutem cogunt genus humanum, ut patet di-scurrenti per omnes, et politizant reges, ari-stocratici quos optimates vocant, et populi li-282

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bertatis zelatores». E, cosa notevolissima, egli aggiunge che vi sono dei diritti primordiali co-muni a tutti, quelli che ora si chiamerebbero « i diritti dell'uomo », che i singoli governi non possono a loro beneplacito ammettere o disco-noscere, ma il cui riconoscimento ai singoli go-verni deve essere imposto dalla suprema auto-rità internazionale. « Sed sic intelligendum est ut humanum genus secundum sua communia, quae omnibus competunt, ab eo [dal Monarcha] regatur et communi regula gubernetur ad pa-cem. Quam quidem regulam, sive legem parti-culares principes ab eo recipere debent». Il Monar-cha o « Imperatore » è, dunque, per Dante la suprema autorità internazionale,' deputata, non solo a dirimere le controversie tra Stato e Stato, e ad impedire le aggressioni d'uno di questi a danno dell'altro, ma altresì a tener a segno i governi «oblique politizantes» all'in-terno, a far ragione ai cittadini contro i loro governi che violassero la costituzione, le pub-bhche libertà, i diritti fondamentali dell'uomo; poiché (proprio tutto al contrario di quanto ora vanno asserendo i pretesi assertori d'italia-nità, per Dante i cittadini non esistono per lo Stato, ossia in servizio delle leggi, ma lo Stato, ossia le leggi, in servizio dei cittadini, e dei cit-tadini i governi non sono i padroni, ma i mini-stri. « Non enim cives propter consules nec gens propter regem, sed e converso consules

1. Cfr. anche James Bryce, Il Sacro Romano Impero, Val-lardi, Napoli, 1886, cap. xv, dal quale risulta precisamen-te che l'Impero non era concepito che come potere inter-nazionale.

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propter dves et rex propter gentem... Secun-dum leges viventes non ad legislatorem ordi-nantur, sed magis ille ad hos».' Quanto più in Italia imperavano illimitata-mente e autoritariamente principi, consoli, podestà, duci, dogi, partiti, tiranni, tanto piti pareva a Dante venir meno la vera autorità ed essere l'Italia «indomita e selvaggia»,^ «fera fatta fella »,' « misera... senza mezzo alcuno al-la sua governazione E in questo pensiero in un certo senso antitaliano (cioè contrario ai vole-ri di fatto degli italiani, contrario alla « passio-ne d'Italia», contrario alla sua «libertà», cioè alla libertà di questa passione) Dante aveva ra-gione: poiché l'autorità non risiede nell'impe-rare della fazione, ma nell'essere l'impeto e la « passione » della fazione tenuti a segno da una forza-giustizia superiore ad essi. Si capisce immediatamente quale era stata l'e-sperienza che aveva condotto Dante a questo alto concetto. Era stata il vedere nella sua Fi-renze il partito dominante trascorrere al san-gue, alla violenza, all'oppressione, senza il me-nomo freno di giustizia, fare il suo assoluto be-neplacito, calcare, soffocare, spogliare, sban-dire, uccidere, in assoluto spregio al diritto, il partito vinto. Poiché invano all'interno nello Stato fiorentino il cittadino appartenente a que-st'ultimo partito si guardava disperatamente in-

1. De Mori., libro primo, capp. xvi e x iv (e nelle edizioni moderne xiv e xii). 2. Purg., VI, 98. 3. Ibid., 95. 4. Il Conv., IV, 9.

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torno per cercare un'istituzione, un'autorità, una magistratura a cui far fiduciosamente ri-corso affinché fosse ripristinato e fatto valere il diritto calpestato, insozzato, vilipeso, era na-turale, che il pensatore levasse lo sguardo ver-so una istituzione, che di ciò fosse capace, la quale, per essere internazionale, fosse indi-pendente e superiore ai partiti infunanti al-'interno. E tale pensiero di Dante è santo. Al

tirannello - uomo o partito - di Firenze, Efeso o Samo - tirannello, perché, onnipotente sul-l'uomo del suo Stato da lui ucciso, le sue forze sono minuscole in confronto delle grandi po-tenze che lo circondano - non può affatto es-sere lecito di imprigionare, spogliare, imbava-gliare, uccidere a suo capriccio, adducendo che ogni popolo ha il diritto di governarsi da solo e non deve tollerare ingerenze straniere. Invece, dovunque accadono soprusi e iniquità l'umanità in generale e i suoi rappresentanti hanno diritto e dovere di intervenire solidal-mente per impedirle e reprimerle,' così come invano si addurrebbe, per salvaguardarsi la possibilità di commettere entro le proprie quattro pareti dei delitti, che al governo non è lecito penetrare nel domicilio privato. Per qualche ragione, un cittadino, poniamo, della Russia bolscevica, o di un altro Stato, che si vede sottoposto da coloro che nei confini del suo paese si sono impadroniti del potere, ad iniquità, violenze e soprusi d'ogni maniera, non deve avere una corte di giustizia superio-

1. Il medesimo concetto ho sostenuto già in Principii di Politica Impopolare, pp. 60 sgg.

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re, «umana», a cui rivolgersi? Già ora il citta-dino d 'un Cantone svizzero, può contro le au-torità del suo Cantone, se si ritiene da queste illegalmente oppresso, ricorrere a quelle fede-rali; e se, per assurda ipotesi, lo Stato di Gine-vra, vietasse a un suo cittadino di pubblicare un giornale, questi potrebbe, facendo ricorso al Tribunale federale, obbligare lo Stato a riti-rare il divieto. Allo stesso modo, domani il cit-tadino d'ogni Stato potrà fare ricorso contro il suo stesso governo che violi i principii fonda-mentali e generali di diritto pubblico (i « dirit-ti dell'uomo »), alla Lega delle Nazioni, la qua-le, se conserverà e accrescerà vigore, e special-mente se allargherà la sua sfera di competenza nel senso ora accennato (come certo avverrà), sarà la vera realizzazione di quanto v'è di vivo nel grande pensiero da Dante espresso nel De Monarchia. E come verrà internazionalmente codificato il diritto commerciale, così dovran-no venire codificati internazionalmente i prin-cipii fondamentali del diritto costituzionale, i diritti dell'uomo e del cittadino. I diritti fon-damentali garantiti dagli Statuti (parola, stam-pa, associazione, rehgione o irreligione, habeas corpus, ecc.) dovranno essere e saranno posti sotto la tutela della Lega delle Nazioni. Nessun capriccio di tiranno o impeto di «volontà po-polare» all'interno, dovrà più poterli mano-mettere. Chi si attentasse di violarh si esporrà al ricorso che il suo stesso cittadino potrà ele-vare contro di lui all'» Imperatore» e alle san-zioni di questo. « Interventismo », ricorso al giudizio dello « straniero » contro i torti subiti dal cittadino 286

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all'interno, che è dunque, - lo si noti bene -principio essenzialmente italiano, seppure Dan-te - del quale è, del resto, la solenne professio-ne di internazionalismo « nos autem, cui mun-dus est patria, velut piscibus aequor» ' - vuol dire italianità. Se, quindi, i mores maiorum, la tradizione politi-ca è l'unica cosa che possa costituire al presen-te una seria e ferma autorità, questa autorità sarà domani costituita dall'* Imperatore », dal-la Lega delle Nazioni, e sarà verso di essa che, contro principi e tiranni, come contro il pre-potere assoluto della « massa », della « maggio-ranza», della «democrazia», l'individuo potrà sicuramente guardare affinché nessuno, nem-meno la «massa», intacchi i suoi primordiah diritti di vita fisica, politica, civica. In tale istituto si avrà forse l'autorità, la cui ri-cerca mi preoccupava in questi ultimi tempi, che possa tener in f reno le esorbitanze anche delle «democrazie» e delle «volontà popola-ri», imponendo loro un codice internazionale di diritto pubblico, a cui nessuna decisione o impeto o « passione » di maggioranza all'inter-no, possa contravvenire, e che, contro qualsia-si decisione, impeto o « passione » di esse in contrario, salvaguardi con mano ferrea l'ina-lienabile diritto dell'individuo, e lo salvaguar-di pel solo fatto che è diritto primordiale di questo, che né un tiranno, né una maggioran-za può togliere, alla protezione del quale quin-di i rappresentanti della umanità (r« Impera-

1. De Vulg. Eloq., i, 6.

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tore», la Lega delle Nazioni), devono sovveni-re. In tale istituto, infine, risiede la sola speranza che, almeno per l'avvenire, rimane a coloro che vivono in quegli Stati nei quali il cittadino è costretto a fare le medesime esperienze che fece Dante della Firenze medioevale. Come Dante e Dino Compagni, il cittadino di uno di questi paesi non può che levare lo sguardo e la speranza al supremo potere internazionale, al-la Lega delle Nazioni, cioè air« Imperatore » nell'antico senso dantesco e nella sua configu-razione moderna.

Genova, R. Università, dicembre 1925

GIUSEPPE RENSI

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