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La dignità della persona all’incrocio di paradossi nel tempo della velocità. L’anacoluto della pietra scartata come centro del discorso.1
di Giuseppe Limone
Proviamo oggi a domandarci: che cosa c’entra il volume di una sfera con la carezza d’una
farfalla?
Una volta si sarebbe risposto a una tale domanda con un sorriso. Oggi, a nostro avviso, non
più.
Un signore di gran nome affermò che la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero.
Diciamo ciò per dire altro e per andare oltre. Un altro illustre pensatore, Reinhart Koselleck,
ha osservato, con intuizione bruciante, che oggi viviamo nel mondo iperveloce del futuro
passato. Appena viviamo un evento, è già passato. In questo tempo, sempre più si riduce lo
spazio dell’esperienza e sempre più si allunga il tempo dell’attesa. Il nostro stesso equilibrio
psichico e neuronico ne è rivoluzionato. Gli spazi si accorciano, i tempi si accorciano, le
velocità aumentano, le cose si riducono di scala, i corpi si miniaturizzano, il pianeta si
rimpicciolisce, il futuro si addossa sul presente, la tecnologia si addossa sulla scienza
generando la ‘tecnoscienza’, il sapere si è fatto immediatamente responsabilità. Tutto è
diventato prossimo a tutto. Non solo in termini di spazio, di tempo e di vita, ma di saperi e di
fattori strutturali interagenti.
Le distanze si accorciano, i tempi si aggrumano , le velocità si accelerano, le linee
s’incurvano, lo spazio euclideo si fa non euclideo. Siamo precipitati nei tempi
dell’accelerazione epocale previsti dalla Sibilla.
In una situazione come questa, sempre più in tal senso caratterizzata, la velocità
turbocomprime il nostro tempo, ci prende alle viscere e alla gola, ci tiene in un pugno. La
rivoluzione è ad almeno tre livelli: 1 La dignità della persona all’incrocio di paradossi nel tempo della velocità. L’anacoluto della pietra scartata come centro del discorso, in Prospettiva e modelli della cooperazione di giustizia nel Mediterraneo, Justice cooperation peace. La cooperazione di giustizia per lo sviluppo e la pace nel Mediterraneo. Atti e contributi del Simposio Scientifico Internazionale, Palazzo Real di Caserta 16-17 novemnbre 2007, dedicati a Gaetano Liccardo, Esi, Napoli 2010, ISBN 9788849520019, pp. 247 – 272.
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1. a livello dell’esperienza quotidiana;
2 .a livello della teoria scientifica e della teoria filosofica che la riflette;
3. a livello dell’identità stessa dell’essere umano concreto che la vive.
Ma una tale ‘velocità’ può comprendersi secondo modelli concettuali diversi, su cui
richiameremmo fortemente l’attenzione.
Questa velocità, infatti, può essere vista in due modi molto differenti fra loro: come evento
fenomenico e come fattore strutturale.
La velocità come evento fenomenico la si percepisce come fatto dell’esperienza quotidiana; la
velocità come fattore strutturale, invece, si deposita nel nostro pensare stesso come suo tratto
epistemologico, che ridisegna d’un colpo alla radice l’intero modello della ragione.
Si osservi:
1. La velocità fa sì che la scienza diventi direttamente tecnologia, anzi nasca già tecnologica
(‘tecnoscienza’);
2. la velocità fa sì che il nesso di una specializzazione scientifica con le altre non sia rinviabile
ai tempi lunghi di un confronto teorico successivo;
3. la velocità fa sì che molti effetti diventino, di fatto o per principio, irreversibili;
4. la velocità fa sì che il nesso della scienza col suo ‘senso’ (cioè, il suo essere dell’uomo e
per l’uomo) non sia più rinviabile ai tempi lunghi di una riflessione (filosofica, o etica, o
religiosa) successiva.
E si guardi ancora, solo per un esempio, all’effetto sismico prodotto dalla velocità sul diritto,
sulle norme e sull’assetto civile: rendendo continuamente obsolescenti le norme, infatti, la
velocità mina la ‘certezza del diritto’ – pilastro della civiltà giuridica occidentale – tendendo a
spostare sempre più l’esigenza della ‘certezza’ dal livello gravitazionale delle ‘norme’ –
troppo circostanziate, e perciò rapidamente obsolescenti – al livello gravitazionale dei
‘princìpi’ – ben più aperti, e perciò in grado di reggere meglio alla sfida della velocità (pur
restando, per altro verso, impregiudicata l’altra questione del rapporto fra ‘principio’ e
‘certezza del diritto’). In un tale fenomeno può osservarsi come la crescita di centralità del
‘principio’ operi in due sensi specifici, ad alto tasso di concentrazione: riduce, infatti, le
distanze fra i saperi (asse orizzontale fra gli stessi) e riduce le distanze fra il sapere e i valori
(asse verticale fra il sapere e il senso). Il tutto accade in una crescita di ‘prossimità’ e di
‘compattezza’ dell’insieme, generata dalla velocità.
In un tale contesto di considerazioni, la velocità non è più mero evento fenomenico, perché si
deposita come tratto strutturale nella stessa fisionomia della ragione. Siamo caduti in un
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mondo in cui la prossimità e la velocità strutturali sono diventate il nostro destino. Come in un
imbuto.
Si tratta, quindi, di guardare oggi il nostro tempo con un paradigma indiziario (Carl
Ginsburg). Quasi al modo con cui un ingegnere osservi un sistema statico dai vetrini collocati
nella struttura.
È in un tale quadro di condizioni che possiamo e dobbiamo osservarci impegnati in una nuova
frontiera. Vi riconosceremo, qui, nove paradossi.
Perché guardare un mondo dai suoi paradossi? I paradossi sono choc virtuosi, che destano dal
sonno dogmatico e squarciano le ovvietà, insegnando a pensare. Essi mettono in corto circuito
sinapsi inattese. Producono per sfregamento incendi impensati. Sono lampi che illuminano la
notte.
Il primo paradosso.
È sempre più grande la capacità della tecnoscienza di generare effetti invasivi ed è sempre più
piccola la capacità della stessa di prevedere con certezza ciò che accadrà.
Il secondo paradosso.
Un numero sempre più piccolo di uomini può produrre effetti sempre più devastanti sulla vita
di un numero sempre più grande di altri – anzi, di tutti.
Il terzo paradosso.
Da aree sempre più piccole del mondo possono prodursi effetti sempre più devastanti su aree
sempre più grandi – anzi, sull’intero pianeta. Si pensi agli stessi processi attivabili con la
nanotecnologia.
Il quarto paradosso.
Più cresce la specializzazione delle scienze, più il livello di specializzazione si avvicina a quel
limite di soglia oltre il quale ogni scienza ha necessità di superare la specializzazione in cui è
cresciuta – ossia di superare un suo dogma di base. Cioè: più cresce la necessità della
specializzazione, più cresce la necessità del suo superamento (‘complessità’); e, d’altra parte,
più cresce la necessità del superamento della specializzazione, più cresce la necessità di
ulteriore specializzazione.
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Si pensi, per un minimo esempio: dalla biologia nasce la genetica, dalla genetica la biologia
molecolare, dalla biologia molecolare la biologia delle proteine, dalla biologia delle proteine
la biologia dei recettori.
La specializzazione chiede urgentemente il suo superamento; ma il suo superamento chiede
urgentemente ulteriore specializzazione.
Il circolo ermeneutico, proprio delle scienze umanistiche, si è instaurato, paradossalmente,
anche nel cuore delle scienze dure.
Il quinto paradosso.
Più crescono specializzazione e complessità delle scienze, più la stessa specializzazione e la
stessa complessità avvicinano la scienza a quel limite di soglia oltre il quale la scienza è
necessitata a superare l’altro suo dogma di base, su cui pur era cresciuta: la separazione dei
fatti dai valori.
Ossia: più crescono la specializzazione e la complessità delle scienze, più cresce la loro
urgente e comune domanda di valori e di senso.
Il sesto paradosso.
Più crescono le pratiche scientifiche della ragione, più va in crisi il paradigma della ragione su
cui quelle stesse pratiche erano e sono cresciute.
Il settimo paradosso.
Più i sistemi (anche informatici) tendono a farsi completi e totali, più l’evento
dell’imprevedibile ne buca senza possibile scampo le basi. Più un sistema sa di non poter
essere completo, più cerca di rendersi completo; più pretende di essere completo più bisogna
resistere alla sua supponente completezza (si guardino i teoremi di Gödel).
L’ottavo paradosso.
Più la tecnoscienza individua un nuovo ‘possibile’, più un tale ‘possibile’ condiziona come un
evento reale il mondo reale. Il ‘possibile’ ha mutato statuto: non è più un mero ‘pensabile’: è
direttamente un già-accaduto. È un nuovo preciso accadere nell’universo iperveloce.
Il nono paradosso.
Più i saperi che studiano i problemi del senso sono emarginati dai processi produttivi del
mondo e del suo disincanto, più gli stessi saperi sono con urgenza riconvocati al centro della
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scena. Per portare soccorso alle parti e all’intero. Ossia: l’esigenza di senso non è più solo un
teorema, ma un fatto. Non è più solo un teorema della ragione etica, ma un fatto della vita.
Si tratta di nove paradossi che investono sia l’esperienza quotidiana, sia la teoria scientifica,
sia l’identità del concreto essere umano.
Si tratta di nove paradossi da cui nasce una decima osservazione finale: più ciò che è enorme
può essere visto in riduzione di scala, più entra in crisi sistemica la nostra percezione
dell’infinito. Perché l’infinito qui si rivela non più il semplice ‘immenso’ per estensione, ma
ciò che, per quanto immenso, può sempre essere visto a un livello di scala così piccolo, da
consentire a un ‘immenso’ a scala più grande di guardarlo come un sottomultiplo o come un
ordine inferiore di sé – e così via crescendo, in una fuga ascendente di infinite possibili scale
(a cui potrebbe essere un possibile approccio anche, ma non soltanto, la gerarchia dei
transfiniti di Georg Cantor). Non potrebbe essere l’intero universo quanto la cacca di una
formica? A quale scala di grandezza noi ci troviamo? Possiamo, rispetto ad altre possibili
scale, essere noi stessi dei ‘frattàli’? E a quale scala si colloca questo immenso universo che
noi, già prima di sperimentare, sembriamo ‘pre-sentire’?
Si tratta di nove paradossi da cui emerge, imperiosa, una semplice e precisa domanda: l’uomo
e le scienze, per vivere e progredire nel mondo iperveloce, sono costretti a segare il ramo su
cui sono seduti?
Dicevamo che essere nel tempo della velocità non significa semplicemente sperimentare alte
velocità. Il problema, infatti, non è empirico, ma epistemologico e valoriale. Esso investe e
travolge, cioè, lo stesso modello della ragione.
I tempi si accelerano, gli spazi si accorciano, gli oggetti si miniaturizzano, i corpi si riducono
di scala. Tutto passa all’acceleratore e all’impicciolitore. Tutto può essere guardato al
rallentatore e all’ingranditore. Tutto è diventato prossimo a tutto. Il mondo è un fazzoletto in
un pugno. In un rovesciamento paradossale del vangelo, la prossimità coatta è diventata il
nostro destino.
Non si tratta solo di uno choc dell’esperienza, ma di un elettrochoc del modello della ragione.
I circuiti delle sinapsi trovano – qui – altri possibili percorsi. È la stessa ragione che s’incurva.
Siamo chiamati, per essere noi stessi, a non essere più noi stessi come prima. Sotto pena di
perdere noi stessi.
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Si tratta di una rivoluzione molecolare e molare. Nel senso che è contrazione di spazi
molecolari fra le distanze e di tempi molecolari tra i fattori. Siamo come in un ascensore che
scende verso un vertice profondo e che, scendendo, sempre più vede ridursi le distanze fra le
sue parti. Là dove per ‘distanze’ dobbiamo intendere non soltanto quelle fra punti spaziali, ma
anche quelle fra tempi, tra fattori, tra funzioni. Ogni cosa è sempre più prossima all’altra. In
un paradossale contrarsi progressivo fino al limite dello zero.
Ci domandiamo: come poter pensare e vivere in un luogo come questo?
E domandiamoci ancora:
se al variare degli spazi variano i tempi;
se al variare degli spazi e dei tempi variano le velocità;
se al variare dello spazio-tempo e delle velocità variano le scale di grandezza;
se al variare delle scale di grandezza variano le misure;
e se, al tempo stesso, il rapporto fra queste variazioni tende al limite di zero o di infinito;
occorre avere il coraggio di porsi – a questo punto – la domanda più radicale:
al variare delle velocità oltre un certo limite di soglia, varia o non varia la stessa identità della
ragione? O, forse, diremmo ancor meglio: varia o non varia, in tali condizioni critiche, il
modello sedimentato di ragione? La velocità, diventando fattore strutturale, muta o non muta
la ‘Ragione’? E, se la muta, in che cosa la muta?
È qui, forse, che può cogliersi meglio come la velocità, avendo superato un certo limite di
soglia, intervenga sistemicamente sullo stesso paradigma della ragione.
Potrebbe quasi dirsi che, come una certa velocità critica muta lo spazio e muta il tempo, anzi
muta lo spazio-tempo, analogamente, a una certa velocità critica, muta la stessa ragione – o
almeno il suo modello consolidato.
Reinhart Koselleck, forse, dicendo sulla velocità, non aveva detto abbastanza.
La ragione va interrogata, perciò, guardandola secondo tre assi:
1. nel suo asse orizzontale (rapporto fra le scienze),
2. nel suo asse verticale (rapporto col senso e coi valori),
3. nel suo asse identitario e riflessivo (rapporto con se stessa).
Domandiamoci della ragione scientifica nel suo asse orizzontale (rapporto fra le scienze). In
due modi:
A. Guardando al suo rapporto con le contraddizioni.
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B. Guardando al suo specificarsi come ‘pratica scientifica’ e, in quanto tale, come
‘azione’.
A. Vediamo il primo punto.
Ignacio Matte Blanco aveva individuato e comparato una logica asimmetrica e una logica
simmetrica come modalità strutturali operanti nella psiche dell’essere umano e aveva, d’altra
parte, osservato che è possibile dare una rappresentazione geometrica del principio di non
contraddizione.
Se, infatti, sugli assi cartesiani istituiamo una messa in corrispondenza fra due verità
(appartenenti a generi diversi) che, nella formulazione logica, costituiscano l’una la negazione
dell’altra (p e non-p), possiamo osservare alcuni illuminanti risultati.
Infatti, studiando il rapporto fra il principio di non contraddizione e il principio di simmetria
come due specifiche logiche caratterizzanti la psiche nella sua modalità conscia (principio di
non contraddizione) e nella sua modalità inconscia (principio di simmetria), Ignacio Matte
Blanco2 si cimenta in una situazione in cui, dati degli assi cartesiani, intende raggiungere una
rappresentazione geometrica del principio di non contraddizione.
Se indichiamo, infatti, sui due assi cartesiani due numeri, essi individuano nel piano del
quadrante un punto e un punto solo. Ora, se istituiamo in questo piano una corrispondenza
biunivoca fra un punto e un’asserzione, che chiamiamo p, «possiamo affermare – dice Matte
Blanco – che, in queste condizioni, non si può dare il caso di p e di non – p. È quanto
precisamente afferma il principio di non contraddizione»3.
Che cosa significa, qui, dire ciò? Significa dire che, ove si indichino – invece – due coordinate
cartesiane per uno spazio a tre dimensioni, i due numeri indicati individueranno non un punto
solo ma una linea di infiniti punti (perpendicolare al piano in cui il punto è situato e passante
per esso) – e quindi individueranno infinite asserzioni corrispondenti a quei punti.
Ciò significa, analogamente, che in uno spazio a più di tre dimensioni, tre numeri
individueranno non un punto solo, ma infiniti punti, e quindi infinite asserzioni
corrispondenti.
Da ciò deriva che la contraddizione fra p e non-p è possibile scioglierla, senza violare il
principio di non contraddizione, se e solo se il punto ‘p’ è collocato in uno spazio cartesiano
che abbia una dimensione in più rispetto allo spazio in cui è stato individuato l’unico punto
‘p’.
2 Cf. I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino 1981, 58ss. 3 Ivi 59.
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Che cosa implica un tale ragionamento nel nostro discorso? Implica che l’opposizione fra le
due – o fra le più – ‘verità’ non è più tale se esse si inscrivono in uno spazio logico avente una
coordinata ulteriore.
Le due asserzioni di verità, pertanto, diventano perfettamente compatibili in una logica di
“volume” superiore. Ciò che è in contraddizione nell’ambito di un assetto disciplinare, non è
più in contraddizione se aumentano gli assi delle coordinate cartesiane: se si collocano cioè –
su altri assi – altri punti di vista di altri assetti disciplinari. Ciò che appare in contraddizione
nel piano, non è più in contraddizione nel volume. Ciò che appare in contraddizione in tre
coordinate, non lo è più in quattro.
Signori, la storia del Novecento scientifico, a ben guardare, ci offre un grande scenario di
tutto ciò. Si osservi.
Albert Einstein rivoluziona l’immagine del mondo fisico per superare una contraddizione
(quella fra le equazioni di Maxwell e la meccanica newtoniana).
I grandi sforzi teorici di oggi nei confronti delle quattro forze dell’universo tendono a
superare contraddizioni. Il noto sforzo di Hawking e di altri cosmologi e fisici teorici nasce
dall’intenzione consapevole di superare contraddizioni.
Una contraddizione può superarsi aumentando il numero degli assi cartesiani, aprendo il
volume logico a una dimensione ulteriore. Si osservi: è proprio qui la capacità geniale di
sfondare confini che abita nella metafora. È la rivoluzione della metafora.
B. Veniamo al secondo punto.
Osserviamo per un attimo le azioni sociali così come sono guardate dalle scienze. Sono noti i
paradossi a cui il loro studio mette capo (i paradossi di Marx, di Max Weber, di Olson, di
Boudon, di Antiseri). In tali paradossi si osserva che le azioni sociali intenzionali possono
produrre effetti non intenzionali e controintenzionali (effetti distorsivi, effetti collaterali,
effetti preterintenzionali, effetti controintuitivi: si vedano, fra gli altri, i fallimenti del mercato,
la congestione del traffico, gli effetti distorsivi da democrazia, i paradossi delle procedure,
eccetera).
Proviamo a compiere adesso un atto forse spaesante. A condurre questo ragionamento alla
seconda potenza.
Anche le pratiche scientifiche, infatti, sono azioni e quindi le scienze, in quanto azioni,
possono esser viste produrre, alla seconda potenza, effetti non intenzionali o
controintenzionali, distorcenti. Con una differenza, però: poiché le azioni scientifiche hanno
per oggetto il ‘vero’ – o meglio l’‘oggettivo’ –, gli effetti distorsivi delle scienze in quanto
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azioni riguarderanno non il semplice fine pragmatico dell’azione sociale in senso stretto, ma il
‘vero’ o l’‘oggettivo’ stesso. Non solo l’azione sociale può generare effetti distorsivi e
controintenzionali, ma anche l’azione scientifica che guarda l’azione sociale – e l’‘oggettivo’
tout court – può farlo, e al suo livello specifico.
Come si può uscire da simili distorsioni?
Si esce aumentando il numero delle coordinate cartesiane, perché una visione unitaria
integrata consenta di sciogliere, ove possibile, le emergenti contraddizioni: ossia dalle
contraddizioni si esce superando la separazione fra gli specialismi.
In questa logica, ogni apertura a un altro specialismo non è altro che l’inserimento di un’altra
coordinata cartesiana nel complesso dell’analisi. Signori, si tratta della lezione della
‘complessità’ intesa come paradigma epistemologico.
Abbiamo finora guardato la ragione secondo l’asse orizzontale (rapporto fra le scienze).
Guardiamola ora secondo l’asse verticale. E domandiamoci: che cosa accade della ragione nel
suo asse verticale (il rapporto col senso e coi valori)? Come mai oggi accade che nascano
discipline tanto incredibilmente meticce, quasi risibili alla percezione di una volta (bioetica,
etica degli affari, attività di banche etiche, concezioni di commercio solidale, bioantropologie,
bioassiologie, biofilosofie)?
Come accade che economisti di prima grandezza rimettano in discussione il venerabile
concetto economico dell’utile (Amartya Sen), o che introducano, superando il mero concetto
di ‘ricchezza’, i valori simbolici del territorio, o che mettano al centro dell’analisi matematica
il problema della fiducia? Come accade che l’etica entri nei discorsi economici lacerando
consolidate e venerabili purezze epistemologiche? Come accade che maturino strumenti
matematici e logici come la ‘teoria dei giochi’ o come il ‘dilemma del prigioniero’?
Si osservi.
L’interrogazione sulla questione del senso appare, ormai, non tanto la cogenza di un teorema,
ma l’urgenza di un fatto. Di un fatto vitale: in cui ne va non solo di una teoria, ma della vita.
Accade, infatti, anche qui, che entrino in rivoluzione sistemica rapporti fra saperi diversi, ma
collocati, stavolta, non in ‘orizzontale’ ma, per dir così, in verticale: fra scienza e filosofia; fra
scienza, filosofia e religione; fra scienza, filosofia, religione e poesia.
Si tratta, in realtà, del riemergere di rapporti che vanno pensati, oggi, non più fra regioni
complanari e distinte, ma, al contrario, fra piani diversi, a progressivi livelli di profondità, da
collocare in volume: configurabili secondo una successione di coni coassiali, a vertice comune
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e a progressiva concentrazione di volume, lungo l’asse di scorrimento di una medesima
direttrice a cui insieme appartengono le loro altezze (come in una bambola matrioska).
Infatti, in questo tempo della velocità intesa come fattore strutturale, la scienza, separatasi
epocalmente dal senso, chiede senso al suo cono più interno, la filosofia. E la filosofia, a sua
volta, in quanto distintasi dal senso, chiede senso a un suo cono ancora più interno: la
religione. E quest’ultima, anch’essa talvolta in crisi di senso, chiede senso, a sua volta, a un
cono ancora più interno: all’arte e alla poesia. Si osservi. Lungo lo scorrimento di coni
sull’unico asse, accade l’avvicinamento asintotico a un vertice profondo e comune: al vertice
del senso.
Signori, se un uomo bruciasse la sua casa, sarebbe portato al manicomio. Che cosa dovremmo
fare di una ragione frantumata in più parti che, dicendosi tutte ‘pratiche razionali’, sta
bruciando il pianeta?
La ragione può delegare la reimpostazione del problema solo alla politica e al diritto o deve,
invece, saper riconoscere quanto è specificamente pur suo in questi errori di percorso ed
emanciparsi – quindi – da un consolidato e inadeguato modello di sé?
E qui, signori, possiamo individuare il decimo e l’undicesimo paradosso.
Il decimo.
Più ragioni spezzettate e accostate producono la dis-ragione, se e in quanto ognuna di esse
distorce non-intenzionalmente il suo oggetto. Come un ‘panottico’ fatto di lenti frantumate.
Che, nel riprodurre il proprio oggetto per accostamento di parti, riproduca in realtà un oggetto
deformato. Si osservi. Gli scienziati della percezione sanno della differenza profonda che
esiste fra movimento stroboscopico e movimento reale. Si è, qui, come in preda a un ‘doppio
legame’: la ragione scientifica, più cresce, più ha bisogno di frantumare l’oggetto; e, d’altra
parte, più ha bisogno di frantumare l’oggetto, più ha bisogno di superare la frantumazione
dell’oggetto.
Una volta la filosofia scolastica distingueva fra ‘oggetto formale’ e ‘oggetto materiale’ della
scienza, e in tal modo contrastava la possibile confusione fra l’‘oggetto nella prospettiva dello
sguardo astraente’ e l’‘oggetto reale’. Ma oggi questa ‘quieta’ distinzione ‘ a bocce ferme’
non basta più, perché è messa in scacco dalla velocità. Ed esige, pertanto, l’attivazione di un
perenne circúito dinamico e interagente fra le istanze delle parti e l’istanza dell’intero.
L’undicesimo paradosso.
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La ragione scientifica, più cresce e più ha bisogno del senso; più ha bisogno di senso e più ha
bisogno di fare a meno del senso. Domandiamoci, perciò: restando nella logica della
frantumazione e della separazione dal senso, non rischiamo di vivere tutti e ciascuno in un
delirio di innocenza?
Se osserviamo la storia scientifica del Novecento, possiamo scoprire un fatto non solo
paradossale, ma illuminante. Un secolo che ha inseguito tre miti logici (la frantumazione
progressiva dell’oggetto, la coerenza delle proposizioni, la totalità del sistema) – un tale
secolo ha dovuto conoscere – in tutte e tre le direttrici – tre autentici scacchi. Il fallimento del
programma fisicalista, in un tale contesto, dà da pensare. Si veda questa storia, se si vuole,
alla luce di una metafora. Se esaminiamo, in una tale prospettiva, il Novecento osservando i
suoi eventi come limature di ferro nell’area di una calamita o se sviluppiamo una forte
pressione sulla pagina della sua storia come realizzando un frottage, scopriamo una trama
sottotraccia che torna, nonostante tutto. Che cosa vediamo? Vediamo emergere le linee di una
sommersa e continua reazione alla frantumazione, che l’accompagna come una sua
incancellabile qualità recessiva e che chiameremmo ‘legame’.
Se, infatti, guardiamo alla scoperta delle antinomie di Russell; alle due forme della relatività
di Einstein; ai teoremi di incompletezza di Gödel; alle scoperte del quantismo e alla
contraddizione di forme prospettiche tra flusso energetico e particella corpuscolare; al
principio di indeterminazione di Heisenberg; al principio dell’irreversibile e a Prigogine; se
guardiamo al paradossale esperimento fisico di Aspect (in cui particelle distantissime fra loro
sembrano ‘comunicare’ come se fossero vicinissime e legate in una compatta unità); se
guardiamo agli sforzi di fisici teorici e cosmologi (Hawking e altri) per superare le
contraddizioni fra grandi e piccole scale; se guardiamo alla ‘matematica del caos’ e alla
‘matematica dei frattali’; se guardiamo alle nuove ipotesi sulle stringhe e sulle superstringhe
nell’immagine dell’universo (Brien Greene); se guardiamo al principio di conservazione
universale dell’informazione e se prestiamo attenzione, addirittura, all’ipotesi teorica di una
‘fisica della resurrezione’ dei corpi (F. J. Tipler); se riflettiamo sulle geniali ipotesi di Bergson
e di Simmel a proposito dell’aggressione ‘intelligente’ della vespa al grillo; se ripensiamo alle
implicazioni di quello che è ormai un principio epistemologico trasmesso dalla lezione delle
scienze contemporanee alla coscienza giuridica internazionale: il “principio di precauzione”;
se riusciamo a guardare a tutto questo e ad altro ancora, forse potremmo scoprire che dal
frottage applicato a una simile storia emergono, sottotraccia, tante diverse declinazioni
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dell’idea del legame. Tutto questo ha straordinarie ricadute teoriche, su cui è necessario non
solo ulteriormente cercare, ma meditare.
Domandiamoci, a questo punto. Perché l’economia rimette in discussione l’utile? Perché
introduce al suo interno la questione etica? Perché riapre un discorso, a valenza
epistemologica, sulla ‘fiducia’? Perché rifonda il discorso sulla ricchezza riaprendone il
significato ai valori simbolici del territorio? E perché gli affari introducono l’etica e il
commercio la solidarietà? Perché si incomincia a parlare di ‘Banca etica’ e di una
‘responsabilità sociale’ dell’imprenditore? Perché i laboratori scientifici introducono,
paradossalmente, l’etica nelle loro provette?
Che cosa sta accadendo sotto le forme di simili ‘ircocervici’ meticciati? Forse, sta accadendo,
per le scienze, la necessità e l’urgenza di riaprire la questione radicale – epistemologica – dei
loro concetti fondamentali, del loro lessico di base. E una tale interrogazione impellente
nasce, appunto, dalla situazione nuovissima generata dalla velocità. Che ci mette davanti, alla
necessità di un orizzonte da rispettare. Che ci chiede il conto non più soltanto in termini di
responsabilità futura, ma in termini di stretta conoscenza e di senso. Fin da ora e fin da qui.
Ma non c’è solo un asse orizzontale e un asse verticale della ragione: c’è anche un asse
identitario, che specificamente la interroga sul suo essere ciò che è.
Su questo asse – sul suo asse identitario e riflessivo cioè – la ragione non può non aprirsi al
possibile, all’impensato, al vissuto concreto di ogni singola ragione distinta da ogni altra, da
un ‘multiverso’ assunto come apertura di altre possibili vie, di altre scoperte e di altre verità.
Se osserviamo, da questo punto di vista, la ragione, possiamo rappresentarcela, nei suoi tre
assi, come due coni reciprocamente rovesciati, a basi accostate, sovrapposti in verticale,
collocati contro un fondale a partire dal quale sorge un altro asse, proveniente da una
‘profondità’ retrostante.
Sull’asse orizzontale, che è il diametro della base comune dei due coni, potrà vedersi la
relazione fra i saperi: è il problema della complessità.
Sull’asse verticale , che congiunge i due vertici opposti dei coni, potrà vedersi la relazione dei
saperi coi valori: è il problema del senso.
Ma, al tempo stesso, i due coni appaiono in movimento su un asse che corre, per così dire, a
partire da una quarta dimensione, che li spinge perennemente in avanti, rimodellandoli nel
tempo: è l’asse di un’identità mutante in cammino.
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Si noti, quindi. Nel mondo della velocità come fattore strutturale che cosa accade della
ragione?
In primo luogo, nella relazione orizzontale fra i saperi, la sua pratica non può essere più
spostata in un momento successivo, perché essa è necessariamente tutta da ‘anticipare’ nella
struttura prospettica di partenza.
In secondo luogo, nella relazione verticale col senso, la pratica della ragione non può essere
più spostata in un momento successivo, perché è – anch’essa – necessariamente tutta da
‘anticipare’ nella struttura prospettica di partenza.
In terzo luogo, nella relazione riflessiva con se stessa, la pratica della ragione non può non
rimisurarsi, sempre daccapo, con le nuove scoperte, col possibile inedito di ognuno, con la
storia, con l’impensato: perché la pratica della ragione deve esser capace di mantenersi
perennemente aperta alle nuove condizioni che emergono dai singoli e dai processi
complessivi.
Gli assi della ragione sembrano individuare, perciò, una realtà a più dimensioni. A partire da
una delle quali – a partire cioè dalla non-predeterminabile profondità – la ragione si
rimodella più volte nel suo paradigma, accedendo alle nuove emergenze del tempo.
Il rimodellamento degli assi della ragione, perciò, rimodella tutt’intera la ragione. E noi
siamo chiamati oggi, ancora una volta, a questa sfida.
Signori, i paradossi da cui siamo partiti possono essere tutti rovesciati. E il loro
rovesciamento può essere, per noi, oggi, straordinariamente illuminante e virtuoso.
Che cosa, infatti, tali paradossi fanno emergere, per contrasto, oggi, nell’identità dell’essere
umano concreto, scavato dalla ‘velocità’ come da una paradossale struttura d’illuminazione?
Questi paradossi sono, infatti, scavi maieutici nell’identità dell’essere umano concreto. Al
modo con cui i gesti di uno scultore fanno emergere da un blocco di marmo per sottrazione la
forma che in esso si celava.
Osserviamoli a rovescio e al rallentatore, questi paradossi.
Ne nasce l’idea d’un uomo singolo, piccolo e paradossalmente potente, eppur
paradossalmente legato. E paradossalmente profondo. Perché imprendibile a ogni possibile
sguardo che si pretenda capace di esaurirlo.
Da questi paradossi nasce – rinasce! –, per sottrazione, la persona. L’idea della persona. Essa
emerge, quindi, per scavo dagli stessi paradossi del mondo contemporaneo che pur
sembrerebbero averla cancellata per sempre dal pianeta (mi si consenta di dire che una tale
linea critica vale anche nei confronti di un recente libro di Roberto Esposito sull’emergere
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della ‘terza persona’ e dell’impersonale come una sorta di priorità teoretica. Credo, infatti,
che l’analisi di Esposito, e ogni impostazione simile, vada rigorosamente rovesciata).
Osserviamo, in questo senso, solo due punti, degni di speciale attenzione:
1. il paradosso di un ‘singolare’ che si fa direttamente universale. Qui, un evento teorico
appare transustanziarsi in carne viva. Insegnandoci che per questo punto in cui siamo
collocati – per questo pozzo – passa la falda freatica che attraversa tutta la Terra. Non c’è più
periferia, quindi: né empirica né teorica. Perché tutto è, nel mondo veloce, già qui.
2. Il paradosso di un ‘singolare’ che si fa profondo, inaccessibile a ogni sguardo che si voglia,
nei suoi confronti, esaustivo e totalizzante.
Infatti:
1. Un uomo può generare effetti devastanti e irreversibili.
2. Tali effetti possono venire, al limite, da pochissimi esseri umani, se non da uno solo.
3. Tali effetti possono venire da zone piccolissime del mondo.
Elias Canetti ha scritto, come è noto, che la moneta del potere è la minaccia di morte. Mai
come oggi una tale moneta si è ‘democratizzata’ così tanto, in una paradossale democrazia
della paura. Assediato dal potere di ognuno di dare la morte a ognuno, l’uomo concreto è
diventato l’incarnazione dell’uomo hobbesiano. Uno schema teorico si è fatto carne viva. La
mia e la tua carne. La nostra. Ma, questa volta, l’uomo hobbesiano può riapparire in
coordinate molto diverse da quelle hobbesiane. È infatti proprio qui, su questo abisso del
pericolo, che può nascere, anche per noi, l’evento che ci salva (Hölderlin).
Vediamo perché.
Se l’altro può disporre di me e di tutti, anche io posso disporre di lui e di tutti. Il paradosso ha
due facce:
1. Ognuno può disporre di ognuno e, al tempo stesso, nessuno è separabile da nessuno;
2. ogni fattore può scatenare ogni altro fattore e nessuno di essi può essere separato da nessun
altro.
Una situazione epocale come questa non era mai accaduta. In una tale possibile geografia del
terrore e della prossimità, l’alternativa ultima si dà – oggi – fra la tragedia e la fides. Siamo
tutti improvvisamente precipitati nel dilemma – teorico e pratico – del prigioniero.
L’emergere della teoria dei giochi di Nash può essere un illuminante commento a tutto ciò.
Si pensi , in proposito, al fatto inconsueto per cui nelle scienze dure incomincia a porsi con
forza la cittadinanza epistemologica – direi matematica – della fiducia. Della fides.
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Sull’asse del mio singolare c’è direttamente l’universale. Ciò che accade in me e ciò che
decido di me accade nel mondo e decide del mondo. Per me passa la falda profonda che può
decidere di tutti.
Si tratta di capire, a questo punto, l’aforisma di Friedrich Nietzsche sulla ‘volontà di potenza’
meglio e più a fondo di lui stesso. Nietzsche, come è noto, pensava che, nel mondo dell’eterno
ritorno, chi decide dell’ora decide del futuro, perché il futuro perennemente ritorna. Noi
dobbiamo, in proposito, saper pensare, più a fondo di lui, che chi decide nel mondo iperveloce
di oggi decide – e anche senza saperlo – non solo di sé, ma di tutti – e non solo nel mondo
dell’eterno ritorno, ma nel mondo del futuro che è già qui.
Si tratta, forse, in questo punto, di scavare più a fondo nella memoria di Agostino d’Ippona.
Perché la memoria è legame. Ed è legame non solo col passato ma col futuro. Perché è
memoria non solo del passato, ma del futuro. E – potremmo forse aggiungere ancora – il
‘futuro che è già qui’ è, nel suo tessuto, memoria di ognuno di noi e del nostro irrimediabile
legame.
In un tale orizzonte, l’essere umano singolo – concreto, piccolo, nano – rivela agli altri e a se
stesso la sua importanza. Si tratta di una ‘importanza’ da assumere in una significazione non
enfatica, ma radicale. Si tratta di un’importanza nel senso di ciò che ‘importa’, in se stessa la
vita di tutti e di ognuno, proprio mentre la vita di tutti e di ognuno ‘importa’in se stessa questa
singola vita. E si tratta di un’importanza da intendere non in senso etico, ma in senso
epistemologico. In quel singolo ‘ ne va’di tutti e di ognuno, proprio mentre in tutti e in
ognuno ‘ne va’ di lui. E� in questa ‘importanza’ di livello epistemologico il nocciolo onto-
epistemologico della dignità di quel singolo. Dignità, ripetiamo, non etica, ma onto-
epistemologica. Dignità come importanza onto-epistemologica. Qui è la sua dignità prima. La
sua maiestas. E� solo su questa base, in un passo mentale secondo e successivo, che potrà
parlarsi di dignità in senso etico, qualora si sposi l’idea che ciò che è epistemologicamente
irresistibile deve essere anche assunto come valorialmente positivo e da salvaguardare. Il
singolo - concreto, piccolo, nano – che all’incrocio dei paradossi contemporanei della velocità
si rivela un irresistibile centro in cui ‘ ne va’ di tutto, eleva qui la sua forza erga omnes,
rispetto alla quale ogni sistema – politico, giuridico, teoretico – è messo in radicale
discussione. E� questo il terreno specifico della dignità della singola persona. Dei suoi Diritti
fondamentali. Del suo luogo carnale come centro di possibile falsificazione permanente di
ogni sistema che, pur dichiarando di prevederlo lo neghi.
Una tale ‘importanza’ del singolo è, nei confronti della grammatica di ogni sistema, un
anacoluto. Perché la grammatica di ogni sistema assume per sua regola costitutiva che ogni
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suo elemento è seriale, mai qualitativamente unico. In relazione a una tale grammatica di
sistema l’importanza del singolo come unico e nuovo è un anacoluto. Ma nella visione nuova
dell’importanza radicale del singolo – di ogni singolo – un tale anacoluto, pietra scartata, si
pone al centro del sistema e di ogni discorso su di esso.
Osserviamo. Se al variare degli spazi e dei tempi variano le velocità e se al variare delle
velocità varia il grado di compattezza della ragione, ciò significa pure che al crescere delle
velocità la ragione diventa sempre più contratta e più densa: per così dire, si restringe. Perché
anche le distanze interne fra le sue articolazioni si fanno prossime fra loro.
Ciò produce un effetto nuovo e straordinario. Se infatti al crescere della velocità si contrae e si
condensa il corpo della ragione, ciò sprigiona una crescita di velocità in ogni articolazione
della ragione stessa, e quindi una crescita della specifica potenza implicata in questa velocità,
se e in quanto la velocità è una componente della potenza, essendo essa il prodotto della forza
per la velocità.
Come in un rapporto tra grandezze che si pongano fra loro in inversa proporzionalità, al
crescere della velocità al numeratore e al decrescere del volume della ragione al
denominatore, emerge un fatto che dà straordinariamente a pensare: per ogni articolazione
della ragione cresce la sua ‘capacità di velocità, e quindi di potenza. Si tratta, in realtà, della
crescita delle possibilità energetiche che, nelle nuove condizioni critiche date, la velocità fa
emergere dal corpo della ragione. Ossia: al crescere della velocità e al necessario conseguente
compattarsi della ragione, non può non seguire lo sprigionarsi, da una tale ragione, di una
crescita di potenza in ogni unità della sua articolazione.
Se è quindi vero, da un lato, che la velocità fa contrarre il corpo della ragione, questa
medesima velocità, d’altra parte, sprigiona dalla ragione stessa nuove straordinarie possibilità.
Si osservi. Questo rapporto tra variazioni di funzioni che tendono al limite, appare come una
derivata matematica. La nuova derivata dei tempi nostri diventa, in questo senso, lo
sprigionarsi di nuove, straordinarie, nascoste possibilità. Possibilità che, nascenti dal corpo
più coeso della ragione, si pongono come potenze pure. Forse, in un tale orizzonte di senso, la
derivata emergente da questi rapporti va intuita con uno sguardo nuovo. Perché essa può
costituire la misura di ciò che non avevamo ancora immaginato. La derivata dei tempi nuovi
può misurare, infatti, la speranza. È essa stessa un nome possibile della speranza.
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Domandiamoci. Chi è e che cosa diventa l’essere umano concreto alla nuova frontiera dei
paradossi? Diventa l’atto di esistere unico, relazionato, profondo, non riducibile all’atto della
sua specie.
Karl Popper notava che esiste una colossale e paradossale asimmetria fra una teoria
scientifica e un singolo fatto.
Occorrono, infatti, decenni, anche interi secoli, di fatti, per costituire una teoria scientifica,
laddove basta un singolo fatto – il nano d’un singolo fatto – per falsificare una teoria. Noi
vorremmo trasferire una simile intuizione in altro contesto. Vediamo. Occorrono secoli di
osservazioni e di sperimentazioni per costituire una ragione scientifica, un ordinamento
giuridico, un assetto razionale ed etico, eppure basta il vissuto di un singolo – la dignità di un
singolo nano – a falsificare quella ragione scientifica, quell’ ordinamento giuridico,
quell’assetto razionale ed etico.
La dignità di ogni persona e di ogni vissuto deve essere il nuovo baricentro – teorico e pratico
– per misurare e per costruire, per oggi e per domani.
È la rivoluzione necessaria del XXI secolo. È ciò a cui chi vi parla ha dato il nome di
‘giuspersonalismo’.
Questo criterio radicale batte in breccia ogni facile democrazia di facciata e ogni banale
principio di maggioranza: perché sa che la ‘maggioranza’ può essere la semplice maschera di
pochi, agitata come strumento persuasorio verso i molti, proprio mentre opprime i deboli e
proprio mentre si avvale degl’inerti e dei paurosi.
Nei nostri giorni rivisitiamo continuamente la memoria dei campi di sterminio. Signori,
quell’evento è sempre possibile in forme nuove. È sempre di nuovo in agguato. La più
pericolosa delle illusioni ha due forme: quella di sentirsene per sempre vaccinati e quella di
credere che il suo ritorno sia possibile solo nelle vecchie forme. Avere l’intelligenza e la
fantasia di riconoscerne le forme nuove è uno degl’irrinunciabili compiti della filosofia.
Non si dimentichi, d’altra parte, una questione cruciale: la ‘persona’ è profonda non solo in
quanto, essendo singolarità, è imprendibile dal concetto, e non solo in quanto, essendo un
‘possibile’, è inesauribile dal concetto stesso, ma in quanto, essendo un vissuto, non potrà mai
da un qualsiasi concetto essere ‘mentalmente raddoppiata’, ‘intellettualmente clonata’,
‘noeticamente replicata’. Il vissuto e il suo atto di esistere non possono in alcun modo essere
dall’esterno di uno sguardo mentale riprodotti e rispecchiati. Il che, d’altra parte, non pone la
persona ai margini del discorso, ma – al contrario – al centro di ogni architettura concettuale e
giuridica che sappia e voglia mirare al suo limite come al suo senso.
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Occorre, oggi, perciò, assumere come criterio nuovo e radicale non solo il visto ma il vissuto.
Adottando come principio cruciale di base la cura di sé e dell’altro: nelle scienze, nei saperi e
nella vita.
Questa rivoluzione di baricentro e di assi dice l’asimmetria insuperabile esistente fra la
dignità di un solo essere umano concreto – fra una sola ‘persona’ – e una qualsivoglia
‘ragione’ democratica – o, peggio, scientifica – che ne violi i limiti di soglia.
Questa rivoluzione esprime un rovesciamento senz’appello del paradigma tradizionale della
ragione. In nome dell’essere umano concreto – la ‘persona’ – còlto nella sua dignità di atto di
esistere unico, relazionato, profondo.
Perché la dignità di uno solo non è mai luogo separato dagli altri, ma direttamente bene
comune.
Qui, nel contesto di tali paradossi, l’essere umano concreto si rivela due cose: perché è, al
tempo stesso, misura e senso dell’intero sistema e suo autore (non in senso enfatico, ma
reale).
Questa rivoluzione non è stata dettata dal nostro buon cuore, ma dagli stessi paradossi che la
storia umana e scientifica sta accumulando sotto i nostri occhi come il progresso accumula
macerie sotto lo sguardo dell’angelo di Benjamin. Questa rivoluzione è dettata dalla nostra
necessità di decidere fra l’abisso e la speranza. È una rivoluzione nella qualità del pensare e
dell’agire. Una svolta epistemologica e valoriale.
Signori, Giambattista Vico è stato il Cristoforo Colombo della ragione: egli ha scoperto, a una
seconda e a una terza potenza, che viaggiando verso il futuro, viaggiamo, al tempo stesso,
verso il nostro più profondo passato.
Nella vulgata vichiana si dice che nei ‘corsi’ e ‘ricorsi’ di Vico si tratta non di una semplice
ripetizione del percorso ma, piuttosto, di una struttura a spirale, in cui un cammino si rinnova
lungo un ritmo di tornanti che si dànno a livello sempre più alto.
Una tale prospettiva è, ad avviso di chi vi parla, sbagliata, o almeno parziale. Perché questo
procedimento a spirale può esser visto non solo a salire ma a scendere: verso il limite
(matematico) del vertice profondo verso cui discendiamo nelle nostre sempre più contratte
prossimità.
Noi discendiamo in un ascensore che progressivamente si restringe, contraendosi nelle sue
distanze molecolari.
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È qui che occorre imparare virtuosamente dagli undici paradossi di cui dicevamo. Per
comprendere con intelligenza le nuove forme di possibilità e per diventare capaci delle nuove
decisioni.
Sono a tutti note le trasformazioni paradossali che si avrebbero nel reale se il mondo percepito
riducesse le sue dimensioni: passando, ad esempio, da tre a due dimensioni, o da quattro a tre.
Nascerebbero fenomeni di concentrazione di dimensioni, con trasformazioni straordinarie e
inaudite. Un elefante, ad esempio, passando da tre a due dimensioni, potrebbe diventare un
insieme di macchie circolari proiettate su un unico piano.
Noi siamo oggi chiamati, nel mondo delle prossimità strutturali, a raccogliere, per certi versi,
una sfida come questa. Forse anche per questo appare sempre più sintonizzata col tempo
nostro la logica concentrata dello stile aforistico come luogo delle contaminazioni essenziali.
C’è un compito urgente a cui essere adeguati, oggi. La ragione deve riuscire ad eleggere per
sua costante stella polare e per sua leva di Archimede l’essere umano concreto, singolare: la
dignità epistemologica del suo vissuto. E deve imparare a farlo non per semplice scelta, ma
per necessità. Dopo la ‘rivoluzione copernicana’ di Kant che mette al centro l’uomo, bisogna
realizzare una rivoluzione copernicana alla seconda potenza, che mette al centro l’essere
umano concreto, singolo: la ‘persona’.
In un noto saggio, Gyorgy Lukàcs, criticando a fondo gl’intellettuali degli anni Trenta,
affermava che essi si baloccavano con fanfaluche da salotto mentre il mondo tragicamente
franava in un grand Hotel Abisso.
Oggi noi siamo, ad attori cambiati, in un teatro di eventi che, nel bene e nel male, ha tanto di
uguale a quello passato. In questo senso, noi siamo chiamati a capire, dopo Colombo e Vico,
l’attuale contrarsi del mondo in un nuovo cosmo di fattori. In un tale rapporto fra variazioni
di funzioni che tendono al loro asintotico limite, si aprono nuove grandezze, nuove derivate,
nuove possibili misure. Noi potremmo riuscire a vedere il ‘misurato’ – gli oggetti misurati –
sotto altra luce: se e in quanto essi possono essere visti come le derivate della complessità,
della pietas e della speranza.
In questo rapporto funzionale tra variazioni di funzioni che tendono al limite asintotico,
infatti, si apre un rapporto fra variazioni di funzioni e contrazioni della ragione che tende al
limite dell’infinito. Qui, nell’emergere di questo limite, lo dico anche a matematici e a fisici, si
apre, ingigantita, come nuova grandezza, la possibile derivata di uno speciale rapporto: là
dove una derivata può misurare l’intensità del legame, il valore della pietas e la forza della
speranza.
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Signori, il genoma può essere manipolato. Un meteorite può impattare con la Terra. Il polo
nord nel 2050 si scioglierà? Per conseguenza, i mari si eleveranno di sette metri e tutti saremo
inondati? Osserviamo. Non c’è mai stato un mondo in cui il futuro sia stato tanto prossimo
all’oggi. Il futuro è già qui. È il nostro convitato di pietra. Nel tempo della velocità, ormai, io
sono costretto a decidere al posto di chi domani sarà vittima al mio posto. C’è da domandarsi:
avrò l’altezza mentale, l’intelligenza prospettica e la capacità responsabile per poter
trasferire e rappresentare – oggi qui – il vissuto del mio postero nel mio vissuto?
Osserviamo. La ragione scopre, nel mondo della velocità, un suo limite intrinseco: là dove
deve fare i conti con quella cura per la vita che ha il volto dell’altro, col suo richiamo
silenzioso, col suo pudore: con quella ‘pietas’ che è il segreto rispetto della dignità.
Nel mondo del proclamato relativismo – quasi sempre giocato sul puro piano delle opinioni –
c’è un male massimo che non può essere relativizzato, perché comanda senz’appello a ogni
comportamento e opinione di non tollerarlo. Il male massimo non può essere relativizzato, né
tollerato. Come non può essere relativizzato il dolore. Il doleo richiama sempre, per sua
intrinseca forza, il con-doleo – anche quando ne abbiamo sepolto le tracce nella
spettacolarità. E il condoleo richiama, da sempre, il legame.
Ciò significa che l’attenzione verso l’altro va, oggi, approfondita e cambiata: non occorre solo
lo sguardo ‘scientifico’ in quanto servizio verso il ‘visto’, ma occorre, allo stesso tempo, lo
sguardo ‘ospitale’ (scientifico anch’esso) in quanto risonanza del vissuto altrui. Non a caso,
Giambattista Vico parlava della ‘pietà’ come intrinseca nel ‘sapere’ e individuava due pilastri
nell’essere dell’uomo: il pudore e la libertà.
Si osservi. L’essere umano concreto non è solo bisogni, ma possibilità. In un tale contesto, la
ragione non deve solo riconoscere necessità, ma aprire varchi. Non deve solo constatare
dignità, ma liberare speranza. Perché è la speranza la forza maieutica delle possibilità sepolte
e la possibile rimessa in valore del loro senso, della loro ansia di espressione.
Riconoscere i soli bisogni è limitarsi a guardare una dignità povera, rastremata sul filo dello
zero. Occorre dare speranza – cioè varchi, spazi e ali alle possibilità. Perché la persona possa
sentirle in se stessa svegliarsi ed esplodere di vita.
Chi è che può e deve far questo, se non la Scuola, l’Università, le comunità civili, lo Stato?
Non sono la scuola e le comunità civili la memoria dei legami e la liberazione dei talenti?
In ogni persona vivono possibili tesori. E la nostra domanda responsabile è: li lasciamo sepolti
o li esaltiamo?
Dicevamo che Giambattista Vico ci ricorda, alla fine della Scienza nuova, come, se non si ha
pietas, non possa esserci nemmeno sapere. E Walter Benjamin, a sua volta, ci ricorderà che
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alle forze dell’uomo concreto del tempo antico mancava ciò che non potrà mai più mancare al
nostro tempo: elpìs, la speranza. A questa speranza noi non potremo più rinunciare, perché
essa, scoperta, fa parte ormai per sempre di noi. Che cosa è, infatti, ancora la speranza? È la
memoria ricca del nostro essere – nell’itinerario del tempo – legati a ciò che potremo essere e
non ancora siamo.
Osserviamo. Nel mondo della velocità strutturale i limiti della ragione non si rivelano più
esterni, ma interni al suo statuto. La ragione scientifica viene a conosce limiti in cui
sperimenta, al tempo stesso, una restrizione di ambizioni e un allargamento di possibilità.
Come è noto, Ludwig Wittgenstein ha scritto che anche i pensieri hanno un prezzo: il
coraggio. Non ci sarà più – oggi – pensiero senza il coraggio di guardare le nuove necessità
della ragione. Occorre, infatti, oggi riuscire a guardarla così come è stata ridisegnata da queste
nuove, epocali prossimità che ci avvincono come un destino. Solo a questo prezzo potremo
finalmente trovare la forza delle ali.
Ciò significa – in definitiva – una sola, importantissima cosa. Occorre rimettere l’essere
umano concreto al centro delle scienze e della vita. Per recuperarne, contro la frantumazione
degli sguardi scientifici, l’unicità. Contro l’insufficienza degli sguardi scientifici, la
profondità. E, contro la separazione delle scienze dal loro fine profondo, il senso.
Nel mondo delle prossimità strutturali, in cui tutte le separazioni sono saltate, occorre
finalmente educarsi a un nuovo possibile sguardo, come si farebbe uscendo dal buio di una
camera oscura. Per riconoscerne bisogni e possibilità. Ossia dignità e speranza.
La velocità come fattore strutturale stringe ogni cosa in legami di prossimità. Una simile cosa
nel mondo non era mai accaduta. In queste condizioni ultimative, le nuove frontiere della
ragione sono diventate la complessità, il pudore, la fiducia e la pietas.
Che cos’è il ‘pudore’? È, nei confronti dell’altro, il sacro timore dei confini e il sentimento
della linea dell’alt. Per un tale pudore, io non posso andare oltre un certo limite nei tuoi
confronti né tu nei miei. E non si tratta del puro criterio minimo di un domestico buon
vicinato: è un crinale di civiltà. E che cos’è mai la pietas? È la forza che sente e soccorre,
nella percezione della condivisa fragilità, la dignità.
Giambattista Vico nel De Uno sottolineava che la parola latina fides viene da corda. La fides,
infatti, è corda, laccio, legame. Ma la corda ha due volti. Essa tiene vincolati agli altri e alla
memoria. Ma ha anche un’altra, non meno importante, funzione: essa può essere lanciata per
chiedere e stabilire un legame con l’altro e col possibile futuro. Così come fa l’alpinista o così
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come si fa nei rapporti a cui è necessario aprirsi per realizzare una svolta. Il ‘credere’ della
fides non è solo il legame col passato, ma l’atto del nuovo legame col possibile futuro.
Il mondo delle stringenti prossimità strutturali, rovesciandosi in un nuovo modo di capirlo,
può liberare senso del legame e speranza.
Siamo nel dilemma paradossale del prigioniero. Per ragioni della ragione e non per moventi
extrarazionali, o rinasce la fides – una reciproca fides – o si muore. Occorre oggi compiere ciò
che è proprio della libertà come riapertura di un inizio nuovo: occorre riaprire il tempo nuovo
in cui dare dignità alla speranza e speranza alla dignità.
Si noti. I paradossi individuati scavano l’identità dell’uomo contemporaneo come nel lavorìo
geologico di una maieutica epocale: fanno balzare dalla vita di tutti l’essere umano concreto e
singolare che ognuno di noi è. Non solo col suo ‘visto’, ma col suo ‘vissuto’. L’essere umano
concreto. Unico. Relazionato. Profondo. Radicato in un gruppo, in un territorio, in una
comunità di vita e di lavoro.
Signori, occorre avere oggi il coraggio di dirlo: in ogni rapporto fra i saperi che non abbia
dimenticato il sapere del senso, circola da sempre una segreta cifra del sacro. In questa cifra
potrà forse scoprirsi, alla fine del percorso, una cosa strana e illuminante: che il nucleo di
senso più profondo dei saperi dell’uomo è custodito dalla poesia. Perché – lo si sappia o no –
nella poesia ne va della vita e della morte, della fragilità e della pietas, della bellezza e del
senso, della speranza, del pudore e della libertà.
Possiamo rispondere, ora, meglio alla nostra domanda iniziale. Il volume della sfera c’entra
profondamente con la carezza di una farfalla, semplicemente perché è l’altro volto della
farfalla. E perché nel mondo delle prossimità strutturali la matematica e la bellezza si rivelano
finalmente la medesima cosa. In questo mondo noi siamo chiamati a riprenderci noi stessi, e
la speranza è la necessità che ci spinge a cercare il coraggio delle ali.
Si guardi. Perché dal bruco emerga la farfalla noi viviamo, stiamo insieme, lavoriamo,
soffriamo, siamo in letizia, facciamo scienza e sviluppiamo ricerche.
Albert Camus ha scritto: “Se dobbiamo rassegnarci a vivere senza bellezza e senza la libertà
che essa significa, il mito di Prometeo […] è uno di quelli che ci ricorderanno che ogni
mutilazione dell’uomo può essere soltanto provvisoria e che non si serve in nulla l’uomo se
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non lo si serve tutto intero”4. Prometeo ricorda all’uomo l’intero. E non c’è intero, senza la
filosofia, senza l’arte e la poesia.
Perché – è ancora Albert Camus che ci parla – “tutto ciò che gli uomini fanno per la libertà, in
realtà non lo fanno che per la bellezza”5.
Giuseppe Limone, Professore Ordinario di Filosofia del Diritto e della Politica presso la
Seconda Università degli Studi di Napoli. Telefono: 347 56 42 638 - 081 195 57 851.
Indirizzo: via Posillipo, 110, 80123, NAPOLI (ITALY)
ABSTRACT:
La “dignità” non può essere pensata se non in un costitutivo nesso con la persona. La
dignità della persona si pone oggi su basi radicalmente nuove che riguardano non
soltanto il terreno etico, ma, ancor prima, quello epistemologico. Ciò significa partire da
undici cruciali paradossi teorici e pratici che attraversano il mondo contemporaneo. A
partire da questi paradossi, strettamente legati al problema della velocità, l’importanza
della persona acquista significati nuovi e decisivi, anche spaesanti. L’anacoluto della
”pietra scartata” viene a collocarsi inevitabilmente al centro della questione.
4 Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano, 2003, p. 72. 5Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano, 2003, p. 82.