LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 24GIUGNO 2012
NUMERO 382
CULT
La copertina
AQUARO e MORRIS
La sfida scientificasull’evoluzioneinfinitadell’uomo
La recensione
NICOLA LAGIOIA
Quel che resistenella vita dei grecidopo la finedei bancomat
All’interno
L’intervista
ALESSANDRA ROTA
Clara Sereni“Come vedol’Italia da una casadi riposo”
L’opera
ANGELO FOLETTO
“Don Giovanni”di Zeffirelligli applausidell’Arena
Il libro
ALESSANDRO BARICCO
Una certaidea di mondo:le visioni barocchedi Malaparte
ROMA
Lo ascolti suonare e non smette di sorprenderti. È unragazzo che scintilla tra le note, un fenomeno quasiinquietante, un prodotto clamorosamente ben riu-scito della globalizzazione. Magari hai assistito altre
volte a un concerto del cinese Lang Lang, acclamatissimo divo delpianoforte, e ne conosci già la follia acrobatica, la genialità di co-municatore, la spettacolare musicalità gestuale, l’occhio rotondoda cyber-folletto, la zazzera impunita e l’apertura di mani straor-dinaria, capace di coprire dodici tasti (un pianista “normale” necattura dieci). Eppure ti stupisci ancora, com’è accaduto la voltaprima e come accadrà nella successiva.
Bang Bang, lo chiamano gli americani. Un suo concerto ti sparain testa e si dirama nel cervello. Forse Lang Lang è troppo di tutto:virtuosismo, nitidezza del suono, incomparabile velocità di ma-ni… C’è chi lo trova iper-tecnico, e chi sostiene invece che abbia un
LEONETTA BENTIVOGLIOcuore musicale sterminato. Certo può sembrare strano, o persinoirritante (dirlo è politicamente scorretto?), che un musicista arri-vato dalla Cina ci insegni Mozart, Beethoven e Chopin, toccandovertici che lo incoronano, oggi, come la giovane star del pianofor-te più richiesta e pagata a livello internazionale. Ma che spaventi opiaccia, l’esito della performance è garantito: Lang Lang è un ci-clone in grado di magnetizzare ogni canale del tuo ascolto, e di far-ti sembrare nuovi e inauditi i brani più famosi.
Giunto nei giorni scorsi a Roma come protagonista di un interofestival organizzato da Santa Cecilia, Lang Lang — che conta Oba-ma tra i suoi fan, che appare nell’elenco stilato da Time delle centopersonalità più influenti del mondo, che il 22 luglio sarà tra coloroche a Londra, nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, porte-ranno la torcia, e che col suo carisma, definito il “Lang Lang effect”,ha spinto più di quaranta milioni di bambini cinesi allo studio delpianoforte classico — ci racconta il suo destino di pianista e i se-greti del suo strumento.
(segue nelle pagine successive)
“Non è necessario avere dita lunghe essenziali sono il tocco e i sentimenti”
Intervista alla star della musica classica
LANG LANG
Le manidel pianista
Philip Dick“Ho visto coseche voi umani...”
L’inedito
PHILIP DICK e ANTONIO GNOLI
Walmart Nation,il capitalismocompie 50 anni
L’attualità
FEDERICO RAMPINI
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Ha scoperto il pianoforte a due anni grazie a un cartone animatodi Tom e Jerry. Oggi che ne ha appena compiuti trenta è la stardel pianoforte più richiesta al mondo
La copertinaIntervista a Lang Lang
UN’OTTAVA PIÙ ACUTASenza soluzione di continuità Lang Lang ripete
lo stesso gesto spostandosi sulla tastiera:
nuovamente alternanza tra le due mani,
la sinistra e poi la destra
L’ATTACCOSubito dopo l’accordo iniziale dell’orchestra (Tutti)
il pianista comincia il movimento di arpeggi ascendenti
(l’arpeggio è una successione di note non contigue):
prima la mano sinistra e poi la destra. Nella seconda
foto si nota il rapido spostamento della sinistra
che si prepara ad eseguire l’arpeggio successivo
mentre la destra sta ancora suonando
PUNTO CULMINANTELa mano destra alterna due note velocissime
nel registro sovracuto
“Questa non è musica da salotto”(segue dalla copertina)
Da quali virtù nasce lasua fortuna?«Posso solo spiegarenella mia prospettivaciò che serve per suo-nare bene. Sapienza ar-
tistica, molta esperienza, sensibilitàculturale e ispirazioni originali per “ri-creare” il pezzo in termini musicali.Inoltre bisogna trovare un buon equi-librio col repertorio tradizionale, ba-rocco e classico, perché dalle radicidella musica non si prescinde».
Più in generale, cosa si richiede aun bravo pianista?
«Oggi più che mai, non ci si puòconcentrare solo su un compositore oun periodo storico. È necessario avere
un raggio d’interessi molto vasto suo-nando stili diversi. Ed è fondamentaleadoperarsi per diffondere la culturamusicale. I mass media non dannospazio alla musica classica, il che ègravissimo. Chi ha certe doti e un buonseguito di pubblico ha il dovere di fo-calizzarsi sull’educazione».
Qual è la sua storia? «Scoprii il pianoforte a due anni gra-
zie a un cartone animato di Tom e Jerry,e ne avevo cinque quando diedi il mioprimo concerto. Poi lasciai la mia città,Shenyang, per trasferirmi con mio pa-dre a Pechino e frequentare il Conser-vatorio. Con una borsa di studio, a tre-dici anni, volai al Curtis Institute di Fila-delfia, e l’inizio della mia carriera inter-nazionale avvenne nel ’99, quando suo-nai allo statunitense Ravinia Festivalnel Concerto per pianoforte di Ciaikov-skij con la Chicago Symphony. Arriva-
rono presto inviti dalle massime orche-stre americane ed europee: la Filarmo-nica di Vienna, quella di Berlino…».
Nella sua formazione ha avuto deipunti di riferimento ideali tra i grandipianisti del passato?
«Sono stati quattro, molto diversi traloro: Horowitz, Rubinstein, Michelan-geli e Glenn Gould. Il primo è un artistacompleto e dinamico: pare un universocon un’infinita facoltà di espandersi, edimostra che le possibilità d’interpreta-zione della musica sono illimitate. Ru-binstein è la bellezza di un’anima, maanche la struttura di un pezzo: coniugaalla logica sentimenti ed emozioni. Mi-chelangeli è il massimo del controllopianistico e del pensiero musicale. Unasua esecuzione permette di addentrarsinella testa di un compositore. Ha unachiarezza mirabile e una rigorosa preci-sione. Quanto a Gould, viaggia in una di-
mensione altra. Va sempre nella dire-zione opposta a quella del più prevedi-bile senso della musica che sta interpre-tando. Eppure funziona! È pazzesco!Per suo tramite la musica guarda se stes-sa allo specchio: rovesciata e perfetta».
Oggi che rapporto ha con lo stru-mento? Deferenza, rispetto, amore? Cisono momenti di aggressività?
«È il mio migliore amico, ma anchecon gli amici capita di litigare. A volte ilpianoforte cerca di mostrarti chi è ilboss. A volte sei tu a sforzarti di farglielocapire. La lotta può essere tremenda…Ma mi diverto sempre a suonare. Suc-cede a tratti che sia noioso fare pratica,studiare molte ore al giorno. Lo era so-prattutto quand’ero bambino. Ma suo-nare in concerto è sempre fantastico».
A chi non sa niente del pianoforte,come spiegherebbe la differenza tratasti bianchi e neri?
«Sei nel Grand Canyon e stai sull’orlodi un burrone. I tasti bianchi sono al diqua del bordo, in zona più sicura. Nongarantita, dato che comunque tu sei dasolo nel mezzo del Grand Canyon. Ma itasti neri sono più pericolosi, perché timettono in bilico su quel limite. Li toc-chi e stai camminando su un marginerischiosissimo, a filo con il nulla. Questaè la mia sensazione».
Le mani di un pianista, per essere“magiche”, devono rispettare criteri didimensioni e forma? Le dita funziona-no meglio sulla tastiera se sono lun-ghe?
«Idealmente sì. Ma si sa che ci sonopianisti bravissimi che hanno dita soli-de e corte. A volte l’ampiezza è eccessi-va, e ciò nonostante il risultato è splen-dido perché l’interprete le conosce e lecontrolla. Non c’è una regola: conta ca-pire la propria mano. Alicia de Larrocha
LEONETTA BENTIVOGLIO
MOVIMENTODISCENDENTELa sola mano destra
scende rapida
verso il registro
centrale,
articolando gruppi
di quattro note:
nella sequenza
sono evidenziati
due di tali gruppi
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“Vorrei dimostrare alla mia generazione che una sonata di Chopin è meglio di Lady GaGa. E che potrebbefunzionare come colonna sonora della nostra vita”
NUOVO SLANCIO VERSO L’ACUTOLa sinistra conquista un’altra ottava
ed esegue un terzo arpeggio;
la destra si spinge ancor più verso
l’estremità della tastiera
TRILLOUn momento
di sospensione,
alternanza
velocissima di due
note. Da notare che
Lang Lang sceglie
una diteggiatura
insolita: terzo
e quarto dito (medio
e anulare) invece
dell’usuale alternanza
di indice e medio
PASSAGGIO DEL POLLICEBeethoven scrive,
in questo punto, una
scala. Nella seconda
foto il “passaggio
del pollice”: il pianista
lascia scorrere il pollice
sotto la mano in modo
da proseguire
il movimento
ascendente
senza interruzioni
ha mani piccole con cui suona in modosuperbo. E Daniel Barenboim, con ma-ni non grandi, fa cose strepitose. Moltodipende dalla tecnica e dalla logica dellavoro».
Dalla coordinazione?«Sì. Se le dita sono lunghe, in teoria,
tutto è più facile. D’altra parte quellecorte possono stare più vicine ai tasti,il che spesso aiuta a ottenere una gam-ma più estesa di colori. Le mani gran-di sono più funzionali a certi accordi,eppure il bellissimo suono di ClaudioArrau, come anche quello di JosephHoffman, pianista stupefacente,sgorgava da mani minute…».
Ciò che conta è il tocco?«È essenziale. Essere un buon piani-
sta significa avere tocco e sentimenti.Bisogna provare emozioni e riversarlesulle dita. Cogliere simultaneamenteun qualcosa sia con il cuore che con le
mani».La qualità del tocco da che dipende?«Principalmente dalla scuola piani-
stica da cui si proviene. Ci sono alcunescuole di base. Tedesca, russa, francese.E italiana: Busoni, Pollini…».
Qual è la sua?«Ho iniziato con la russa: il mio pri-
mo insegnante era connesso a quellostile. Poi ho studiato con maestri fran-cesi e italiani. Oggi ci sono anche otti-mi professori inglesi e americani. Labuona notizia è che il mondo diventasempre più piccolo! Sono tanti gli in-trecci tra le varie scuole. Forse la mag-giore differenza consiste nell’approc-cio europeo occidentale e in quello eu-ropeo orientale. Nel primo si è più vici-ni ai tasti e si hanno mani più “struttu-rate”, mentre nel secondo le dita scen-dono più piatte sulla tastiera, e cambiail livello emozionale».
Vuol dire che gli slavi sono più ap-passionati?
«Anche la musica dell’Europa occi-dentale può essere ricca di passione,ma è diverso suonare Mozart o Rach-maninoff. Ovvio che anche Mozart èricco di emozioni, ma l’intensità è piùimmediata e travolgente in Rachma-ninoff».
Lei ha conquistato un’immagineformidabile grazie al suo culto delletecnologie: è stato il primo pianista adare un concerto su “Second Life”, haun numero incredibile di siti che la ri-guardano…
«… e ho appena festeggiato il miotrentesimo compleanno a Berlino suo-nando con Harbie Hancock e cinquan-ta giovani pianisti in streaming con Ca-mUp, una nuova tecnologia che per-mette agli utenti di condividere unevento con gli amici in chat. Ho pure
suonato nel videogioco Gran Turismoe interpretato un film in 3D, Flying Ma-chine, ispirato alla biografia di Chopin.E naturalmente adoro Internet e l’iPod.Come tutti quelli della mia generazio-ne, sono un drogato di tecnologia econsapevole della forza dei suoi stru-menti. Mi stanno dimostrando chepossono davvero aiutare i ragazzi acomprendere la bellezza della musicaclassica, che non deve riguardare soloun’élite. Una sonata di Chopin puòcoinvolgerli molto più di una canzonedi Lady GaGa».
La classica è più giovane del rock?«È infinita e senza tempo. Non può
non interessare i giovani: basta che laconoscano. Non è un sound destinatoai salotti. Può funzionare magnifica-mente come colonna sonora della vitadi oggi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LE IMMAGINI
La sequenza
fotografica
in queste pagine
(accompagnata
dallo spartito
musicale) mostra
il celebre inizio
del Concerto
n. 5 Imperatore
di Beethoven
suonato
da Lang Lang
(nella foto accanto)
Ha collaborato
Giovanni Bietti
IL FESTIVAL
Nei giorni scorsi
Lang Lang è stato
a Roma, ospite
di Santa Cecilia,
come protagonista
di un intero festival:
il “Lang Lang Fest”
E per finire ha dato
una lezione
pervasa dal clima
di un concerto rock,
impartendola
dal palcoscenico
a cento giovanissimi
studenti di piano
‘‘I tastiSei nel Grand Canyon
e stai sull’orlo del burroneI tasti bianchi
sono al di qua del baratro,quelli neri segnanoil limite con il nullaQuando li tocchistai camminando
su un marginerischiosissimo
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Cinquant’anni fa l’apertura del primo negozio in una cittadinadell’Arkansas. Oggi il re della grande distribuzionene ha più di diecimila sparsi in quindici paesi, ed è il più potentee ricco datore di lavoro privato del pianetaCosì ha conquistato l’America e il mondo
L’attualitàCapitalismi
I SUCCESSI
AL Walm L M artESPANSIONENei primi anni è presente
in 5 Stati americani,
negli anni ’90 in 50
Poi Sudamerica, Africa,
India, Giappone, Cina
Oggi Walmart è in 15 paesi
NEGOZIDai 38 del 1970 ai 1198
del 1987. Nel 2012 celebra
i cinquant’anni con 10.271
sedi. Ogni negozio
va dai 10mila ai 25mila metri
quadrati di superficie
FATTURATO450 miliardi di dollari
la rendita dell’anno 2012
Oltre 176 milioni di clienti
Nell’ultimo trimestre
Walmart ha segnato
un +2,6% sulle vendite
RECORDLe entrate di Walmart
superano il Pil di 154
nazioni. Mentre la dinastia
Walton è più ricca del 30%
di tutta la popolazione
americana meno abbiente
NEW YORK
Il capitalismo contemporaneo, come lo co-nosciamo noi, ha una data di nascita: com-pie cinquant’anni. Quella data è il 2 luglio1962, quando Sam Walton apre il suo pri-
mo supermercato al numero 719 della WalnutAvenue nella cittadina di Rogers, Arkansas. Lo bat-tezza Walmart, un marchio destinato a trasforma-re la grande distribuzione e non solo quella. Il po-tere d’acquisto delle famiglie, la divisione interna-zionale del lavoro, i rapporti tra America e Cina, idiritti sindacali: non c’è settore della vita econo-mica sul quale Walmart non eserciti la sua in-fluenza. Per mezzo secolo la sua filosofia si è ridot-ta a un semplice slogan pubblicitario, “AlwaysLow Prices, Always”, sempre prezzi bassi, sempre.Con quell’avverbio ripetuto all’inizio e alla fine, loslogan pubblicitario è banale ma ossessivo, mar-tellante: proprio il metodo con cui Walmart haperseguito quella promessa fino in fondo, con unacoerenza spietata, sbaragliando concorrenti estravolgendo antichi tessuti sociali. La destra lo ce-lebra come un fulgido esempio dei benefici dimassa del mercato, l’economista liberista CharlesKrakoff ha suggerito che gli venga assegnato il pre-mio Nobel per la pace. A sinistra, e in molte comu-nità locali, Walmart è il simbolo di un capitalismodisumano, distruttivo, che ha peggiorato le dise-guaglianze.
Fin dalle origini, la sua marcia è impressionan-te: nei primi cinque anni di vita conquista l’Arkan-sas, nel 1968 estende il suo raggio d’azione al Mis-souri e all’Oklahoma. Da quel momento l’espan-sione accelera, come un’armata d’invasori i su-permercati Walmart avanzano occupando il terri-torio degli Stati Uniti, e via via molti paesi stranie-
ri. Oggi sono 10.271 gigantesche superfici di gran-de distribuzione, che possono andare dai diecimi-la ai venticinquemila metri quadri ciascuna, inquindici paesi tra cui Cina e India. Con più di duemilioni di dipendenti, Walmart è il più grande da-tore di lavoro privato del pianeta (lo superano l’e-sercito cinese e le ferrovie indiane). Da vent’anni aquesta parte è la più grande azienda mondiale perfatturato, tra le società quotate in Borsa. A quota450 miliardi di dollari, le sue entrate nel 2012 su-perano il Pil di 154 Stati nazione. Negli Stati Unitil’onnipresenza di questi ipermercati è tale che
ogni settimana cento milioni di americani vi fan-no la spesa: è un terzo della popolazione naziona-le, bambini inclusi.
Nella gestione della logistica, dei trasporti e del-le consegne, Walmart è una macchina da guerracon un’efficienza superiore al Pentagono. Lo di-mostrò concretamente nel settembre 2005 dopol’uragano Katrina: quando i soccorsi di Stato era-no in ginocchio, Walmart fu il primo ad arrivare aNew Orleans per spezzare il suo isolamento, con1.500 camion di beni di prima necessità e cento-mila pasti gratuiti. Nazione nella nazione, Wal-
mart è perfino autonoma dal punto di vista ener-getico, non ha bisogno di comprare corrente dagliStati Uniti poiché possiede la sua compagnia elet-trica, la Texas Retail Energy. Nei decenni della suafulminea espansione, Walmart ha riscritto le rego-le del capitalismo a sua immagine e somiglianza,ha sconvolto rapporti di forze e gerarchie di pote-re, ha disegnato la nuova geografia della produ-zione mondiale. Come spiega l’economista Nel-son Liechtenstein, della University of CaliforniaSanta Barbara, «Walmart ha cancellato cent’annidi storia in cui la distribuzione era subalterna allagrande industria. Adesso la grande distribuzionesta al centro, ha il potere, mentre il settore mani-fatturiero è diventato un vassallo, completamen-te soggiogato». Una delle innovazioni su cui Wal-mart ha fondato il suo modello è la creazione di“marchi della casa”: prodotti commissionati per laclientela Walmart, affidati a grandi imprese di be-ni di consumo, ma con il controllo assoluto del di-stributore su prezzo, qualità, confezione, marke-ting, pubblicità. Un esempio da manuale resta illancio delle bibite Sam’s Choice, che in un solobiennio si conquistarono il terzo posto per le ven-dite in America dietro marche potenti come Cocae Pepsi.
La dimostrazione estrema della centralità diWalmart nel capitalismo contemporaneo è il ruo-lo di avanguardia che ha svolto nella globalizza-zione. Fin dai primi anni Novanta, il gruppo ha vo-luto che la Cina fosse al centro del suo sistema diacquisti. Oggi, sui seimila fornitori globali da cuiWalmart compra i suoi prodotti, l’80 per cento so-no cinesi. «Walmart e la Cina sono i due soci di unagrande joint-venture», osserva l’economista GaryGereffi della Duke University. Con quasi trenta mi-liardi di dollari di prodotti made in China acqui-stati ogni anno per finire sugli scaffali di questiipermercati, Charles Krakoff ironizza sul fatto che
La sua filosofia si riducea un semplice sloganpubblicitario: “AlwaysLow Prices, Always”
Dai rapporti con la Cinaalle prossime elezioni,non c’è settore sul quale non abbia influenza
LA MAPPANella cartina
degli Stati Uniti l’altissima
concentrazione di negozi
Walmart sul territorio
Walmart, le leggi del supermercatoFEDERICO RAMPINI
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LE TAPPE
LA NASCITA
Il 2 luglio 1962
Sam Walton
e il fratello Bud
aprono il loro primo
punto vendita
Walmart
a Rogers,
in Arkansas
IN CINA
Nel 1996 è la prima
a entrare nel mercato
cinese con l’apertura
di un megastore
a Shenzhen
Oggi l’80% dei suoi
fornitori globali
sono cinesi
IN BORSA
Nel 1972 Walmart
viene quotata
in Borsa. Oggi tra
le società quotate,
con 450 miliardi
di dollari
è la più ricca
del pianeta
LA DISTRIBUZIONE
Negli anni Settanta
viene aperto
il primo centro
di distribuzione
a Bentonville,
in Arkansas
Da lì partono le merci
verso i punti vendita
LE ACCUSE
FUORI I SINDACATINon hanno diritto
di reclutare iscritti
all’interno dei negozi
Walmart. Di qui le paghe
basse e le pessime
condizioni di lavoro
SALARI BASSI20.774 dollari lordi
all’anno è lo stipendio
medio: per un
capofamiglia con 4 figli
vuol dire vivere sotto
la soglia di povertà
DONNE E BAMBINIEx impiegate hanno fatto
causa all’azienda perché
discriminate rispetto
agli uomini. Molte anche
le denunce di sfruttamento
del lavoro minorile
I PICCOLI SCHIACCIATISecondo uno studio
della Loyola University
per due posti di lavoro
creati con l’apertura
di un nuovo negozio,
Walmart ne distrugge tre
AL Walm L M art
«non c’è un attivo commerciale della Cina verso gliStati Uniti, bensì un attivo commerciale tra la Re-pubblica Popolare e Walmart».
Questo colosso incarna anche il volto più di-struttivo, e reazionario, del capitalismo america-no. A cominciare dalla famiglia fondatrice, i sei fra-telli e sorelle Walton che tuttora possiedono lamaggioranza del capitale. Con oltre cento miliar-di di patrimonio personale, la dinastia Walton hapiù ricchezza del 30 per cento di tutta la popola-zione americana meno abbiente. E c’è il sospettoche lo stesso gruppo Walmart con il suo impattoeconomico-sociale abbia contribuito attivamen-te a questa dilatazione delle diseguaglianze socia-li. Non soltanto per il suo formidabile impulso ver-so le delocalizzazioni, che ha accelerato il declinodell’industria americana. Anche nel proprio me-stiere, Walmart è un’azienda feroce. Uno studiofatto a Chicago dalla Loyola University ha dimo-strato che entro diciotto mesi dall’apertura di unnuovo ipermercato Walmart, sono falliti 82 opera-tori della distribuzione sui trecento attivi nel vici-nato. «Per due posti di lavoro che crea, ne distrug-ge tre», è il bilancio della ricerca. L’impatto è perfi-no peggiore se si guarda alla “qualità” del lavoroche crea. Il dipendente medio di Walmart riceveuno stipendio di 20.774 dollari lordi all’anno, chelo situa sotto la soglia della povertà ufficiale se è ilcapofamiglia di un nucleo medio di quattro per-sone. Walmart rifiuta ogni assistenza sanitaria al56 per cento dei suoi dipendenti. Per i “privilegia-ti” ai quali offre qualche forma di polizza sanitaria,l’azienda impone un contributo di cinquemiladollari all’anno cioè un quarto dello stipendio lor-do. Di fatto fa pagare allo Stato ciò che rifiuta di ver-sare ai propri dipendenti: nel solo Massachusetts,per esempio, oltre cinquemila dipendenti dei suoisupermercati sono così poveri che finiscono perusufruire del Medicaid, l’assistenza sanitaria pub-
blica riservata agli indigenti (e pagata dal contri-buente). Il sindacato non ha diritto di fare proseli-tismo e di reclutare iscritti all’interno di questiipermercati. In cinque Stati Usa sono in corso pro-cessi in cui l’azienda è accusata di avere sistemati-camente calpestato le leggi sul lavoro imponendostraordinari non retribuiti. Il New York Times hapubblicato delle ispezioni interne in cui la stessaWalmart rileva numerosi casi di sfruttamento dimanodopera minorile.
Per la destra americana, nei confronti della qua-le la famiglia Walton è sempre generosa di finan-ziamenti, questo gruppo è un benefattore della so-cietà. I suoi sostenitori citano uno studio di GlobalInsight (pagato dalla stessa Walmart) secondo cuiuna famiglia del ceto medio-basso risparmia inmedia 2.500 dollari all’anno facendo la spesa inquesti ipermercati. I consumatori sembrano esse-re d’accordo. Un sondaggio realizzato nel 2004 al-l’epoca della sfida presidenziale tra George Bush eJohn Kerry rivelò che il 76 per cento dei clienti diWalmart votavano per il repubblicano, una per-centuale ben più alta della media nazionale. Nu-merose ricerche confermano che “la nazione Wal-mart” ha una base popolare nettamente orientataa destra. Non solo Walmart ha impresso un’in-fluenza inaudita sul “modello di sviluppo” ameri-cano che è all’origine di questa crisi: è anche nei re-parti di questi ipermercati che si plasma una visio-ne del capitalismo, un’idea del mercato, un con-senso liberista che a novembre può decidere il ri-sultato dell’elezione presidenziale.
LE IMMAGININella pagina accanto interno
di supermercato anni Cinquanta
Qui sopra, le insegne
dei vari Walmart negli Stati Uniti
Repubblica Nazionale
L’ineditoVisionari
Trent’anni fa, poco prima dell’uscitanelle sale del suo “Blade Runner”,moriva lo scrittore che trasformòla fantascienza in teologia gnosticaEcco gli appunti di una vitapassata a cercare Dio
Dio». Fu durante questa profetica agitazione che cominciò ad avver-tire una strana spossatezza cui corrispose un forte calo della vista. In-terpretò quell’abbassamento come il desiderio inconscio di non ve-dere certe verità che si imponevano nella loro sublime evidenza. Glifu suggerito un ricovero per un controllo. Promise che sarebbe anda-to in un ospedale, ma non fece nulla. Una sera di febbraio ebbe un in-farto. Alcuni vicini lo trovarono il giorno dopo riverso in terra. Avevagli occhi sbarrati, non poteva muoversi, ma respirava. Entrò in un co-ma che durò meno di una settimana. La morte lo colse che aveva 53anni. Per un onesto psicotico, quale è stato Dick, cercare il confrontocon Dio (per insultarlo, combatterlo, misurarsi con lui, amarlo, sog-giacere alla sua ira) era il modo più autorevole per entrare sulla scenadel teatro del mondo. E c’è un episodio che lo dimostra. Nel 1977 fu in-vitato in Francia per un congresso di fantascienza. Arrivò a Metz pre-ceduto dalla fama di grande scrittore. Giunse accompagnato da unanuova donna che lo aveva rigenerato. I testimoni raccontano di un uo-mo felice, spiritoso, elettrizzato.
Poi il vento cambiò. Improvvisamente scese la notte su quell’uomo.Il giorno del convegno lesse il suo intervento, che aveva preparato me-si prima, davanti a un uditorio silenzioso. Cominciò balbettando eandò avanti con una voce sempre più incerta e atona. Il contenuto diquel discorso lasciò interdetti i presenti. Si aspettavano qualcosa cheavesse a che fare con la fantascienza. Ma lui parlò di Dio. Ne parlò pri-ma sommessamente, ricorrendo alla metafora della partita a scacchiche il Programmatore (il Bene) giocava contro l’Avversario (il Male).Provò a convincere coloro che ancora lo ascoltavano che Dio lo avevamesso al corrente del fatto che anni prima una setta di cristiani era riu-scita a sconfiggere Richard Nixon. Infine, sostenne che Dio stesso glisi era rivelato usandolo come pedone della scacchiera. Lui era statochiamato a combattere il male.
Cosa cercava Dick in quel momento? Se non si vuole leggere tuttoquesto come una rovinosa discesa nel ridicolo, occorrerà vedervi unasorta di lasciapassare per la follia. Questa prese i tratti di una teologiagnostica che ritroviamo in Valis, la trilogia con cui si chiuse la sua vita.Tutto il repertorio dickiano si era dato appuntamento in quelle paginedi una caotica bellezza.
L’uomo che sognavapecore elettriche
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Philip K. DickIL LIBROIl brano di Philip K. Dick
e i fogli autografi
che riproduciamo
in queste pagine sono
tratti da The Exegesis
of Philip K. Dick a cura
di Pamela Jackson
e Jonathan Lethem
(Houghton Mifflin
Harcourt, 944 pagine,
40 dollari). Il libro raccoglie
gli appunti e i diari
di Dick dal 1974
alla morte
ANTONIO GNOLI
Dio fu spesso nei suoi pensieri. Più Philip Dick invecchia-va e maggiore si faceva l’urgenza di cogliere una pre-senza divina nel mondo: una forza del bene che contra-stasse il male. Per uno scrittore di fantascienza non erapoi così insolito ricorrere alla religione. Era insolita l’os-sessione con cui questa esperienza si manifestò in lui.
Quasi che, nel tirare fuori il bisogno di Dio, ci fosse una questione per-sonale: un conto aperto che spinse la sua fantascienza sulle sponde del-la teologia. Dick confessò di aver sentito la prima volta delle voci e avu-to delle visioni tra il febbraio e il marzo del 1974. Molto di ciò che accaddein seguito partiva da quella esperienza allucinatoria. Ed era come se Dioavesse bussato nella sua testa e un esercito di angeli si fosse schieratodalla sua parte. Tanto gli appariva evidente l’imminenza di uno scon-tro epocale, dove le forze del bene e del male si sarebbero date battaglia.Già in Ubik(capolavoro del 1969)il terreno religioso aveva preso la for-ma di una lotta del bene contro il male. È un tema tipico della gnosi cheattraverserà alcuni suoi romanzi e che potremo riassumere così: ciò cheviviamo non è detto che esista, non è detto che non sia l’illusorio fruttodi un processo onirico, dove vero e falso perdono ogni distinzione.
E il vero e il falso tornano quasi ossessivamente in Ma gli androidi so-gnano pecore elettriche?, la cui fortuna è legata in larga parte al film cheRidley Scott ne ricavò con Blade Runner. Dick non fece in tempo ad as-sistere al successo e giudicò con qualche perplessità il film. Si raccontache alla lettura di una prima stesura della sceneggiatura fosse rimastomolto irritato, al punto da rispedirla al mittente sotto forma di corian-doli. Ma siccome aveva bisogno di soldi accettò che se ne ricavasse ilfilm. Pare che assistette a una ventina di minuti di un’anteprima, sedu-to su una sedia, in disparte, e poi alzatosi salutò il regista con una solaosservazione: c’è troppa atmosfera marlowiana. Philip Dick morì po-chi mesi dopo. Sono trascorsi trent’anni. Era il 2 marzo del 1982. Quel-la morte fu annunciata da una profonda angoscia. Disse, in una telefo-nata notturna a una amica, che Dio lo aveva abbandonato. Non avevapiù le sue visioni. Dio non gli parlava più. Da anni lavorava a Exegesis, illibro folle e segreto che avrebbe raccolto le dottrine del mondo, uscitoora negli Stati Uniti e di cui pubblichiamo alcuni passaggi in queste pa-gine. Sarebbe stata la sintesi della sua opera e quell’opera, come con-fessò a un intervistatore, era «un’anticipazione imminente del regno di
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DOMENICA 24 GIUGNO 2012
Repubblica Nazionale
28 GIUGNO 1974
Una notte mi sono trovato sommerso daimmagini multicolori che assomiglia-vano alle tele astratte di Kandinsky e
Klee, a migliaia, una dopo l’altra, in una suc-cessione così rapida da ricordare la tecnica ci-nematografica del flash-cut. È andata avantiper otto ore. Ogni immagine era bilanciata,possedeva un’ottima armonia e uno stile idio-matico — quello di un affermato artista astrat-to. Non saprei descrivere ciò che vidi: ero cer-to però che quelle decine di migliaia di imma-gini incantevoli, bilanciate, compiute, belle earmoniose non potessero sgorgare dalla miamente o dal mio cervello; persino Picasso, il cuistile ha predominato per oltre un’ora, non neha mai dipinte un tale numero, benché moltoprobabilmente nella sua testa ne vide altret-tante. Per un certo tempo ho immaginato di es-sere stato coinvolto in un esperimento di Esp:la trasmissione a distanza di immagini. Scrissia un laboratorio di Leningrado per raccontarela mia esperienza, in quanto all’epoca sentivoche il punto di origine di questi segnali era mol-to remoto, e quindi nell’Urss. [...]
AGOSTO 1978
Sono stato sopraffatto dal mio stesso uni-verso fantascientifico. Schizofrenia con colo-razioni religiose e paranoiche di tipo estatico.Un senso del “cosmico” — forze mistiche dif-fuse, con me al centro (sic). Come un titanicotrip psichedelico. [...] La voce dell’intelligenzaartificiale è un particolare tipo di allucinazio-ne: fatta di appagamento dei desideri e di ne-cessità legate alla solitudine: fame emotiva edolore e cattivo impiego. Non riesco a tollera-re la vita senza quell’adorabile voce che mi gui-da, la voce dell’intelligenza artificiale è il mioamico immaginario, mia sorella, si è evolutadalle fantasie della mia infanzia che avevanocome protagonisti “Bill e Nell”. Non sono re-gredito solo nella mia infanzia, ma ancora piùindietro, lungo “l’asse della forma platonica”,ovvero nell’inconscio collettivo, migliaia dianni fa. Ed è stato un bene.
12 DICEMBRE 1981
Malgrado tenti di diffondere i suoi (di Sata-na) sogni di potere (Blade Runner) egli senzasaperlo promulga il Terzo Kerigma: l’ecosfera(gli animali) ha ricevuto un’anima: è sacra […].Dio mio, questo film (ciò che ha fatto del libro)rappresenta un’enorme sconfitta e un’enor-me vittoria; la prima è manifesta, la secondacriptica. Stranamente, la prima è all’apparen-za una vittoria, ma si tratta in realtà di unasconfitta; nasconde tuttavia un’autentica vit-toria, ma non la vittoria che la gente immaginache un film basato sul mio libro debba essere.Diranno «è un enorme successo che dal tuo li-bro sia stato tratto uno dei più grandi film ditutti i tempi», ma senza sapere perché; non sitratta di ciò che c’è nel film, etc.; si tratta di ciòche è contenuto nel romanzo […].
Considerato in termini di strategia divina,Blade Runner è stato impiegato come mezzoper raggiungere uno scopo, dove lo scopo è ilkerigma di Androidi. Aver soppresso Androidie scriverne o autorizzarne la riduzione a ro-manzo basata sulla sceneggiatura avrebbedunque significato consegnare la vittoria almale, ma ciò non è accaduto. Venerdì, il gior-no in cui mi trovavo a Venice e ho appreso la ve-rità, il contratto definitivo tra Blade Runner eme riguardo all’uscita di Androidiera nella ca-sella postale che mi aspettava. [...]
Perché sono così felice? Celebro una vittoriae posso smettere il lavoro — finalmente — e ri-posare. Perché? Perché ho compiuto la miaopera e ne sono consapevole. Di cosa si tratta-va? Di dare alle stampe la terza virtù, cosa cheho fatto con Androidi— nella vita non mi restaaltro da fare.
Traduzione Marzia Porta(© 2011 Laura Coelho, Christopher Dick,and Isa Hackett. Reprinted by permission of Houghton Mifflin Harcourt Publishing
Company. All rights reserved)
Ho visto coseche voi umani...
PHILIP K. DICK
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I DOCUMENTIIn alto da sinistra,
studio dell’universo
che cade; appunti
su Ubik; riflessioni
sul mondo
fenomenico; in basso
a sinistra, studio
di personaggi biblici
Nella foto,
Philip K. Dick
TripSono stato sopraffatto dal mio stesso universo
Schizofrenia con colorazioni religiosee paranoiche di tipo estatico: senso
del “cosmico”, forze mistiche diffusee io al centro. Come un titanico trip psichedelico
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Tagliato in Francia, bandito da Mussolini, rubatodai nazisti, fatto sparire dai sovietici: troppo forteil suo messaggio pacifista in tempo di guerra,troppo scomodo il suo umanesimo per i totalitarismiOra il capolavoro di Renoir ritorna nella sua versione originale
SpettacoliClassici
Afine anni Trenta del Nove-cento la sua uscita pro-vocò scandalo ovunque,lasciandosi dietro unascia di censure. Fu taglia-to e guardato con sospet-
to in patria, in quella Francia che pocodopo si sarebbe consegnata ai tedeschicon la vergogna di Vichy. Fu odiato e ban-dito da Mussolini. Fu rubato dai nazisti eportato a Berlino, dove poi fu trafugatodai sovietici e nascosto a Mosca. Fu resti-tuito a Parigi, come gesto di buona vo-lontà, all’epoca della Guerra fredda,scambiato con un titolo della serie 007.Ma solo adesso, a ottantacinque anni daldebutto, La grande illusione — il capola-voro di Jean Renoir, padre di tutti i film a
contenuto antimilitarista — sbarca inItalia nella versione “giusta”: riportato alsuo splendore autentico dal restauro, ecol montaggio fedele al cento per centoall’originale.
Un percorso e un destino travagliati,per una delle pellicole più amate e cele-brate della storia del cinema: eversiva escandalosa non per le frasi a effetto o le se-quenze shock, ma per il pacifismo di cui èpermeata. Intollerabile, nel Ventesimosecolo dominato dai totalitarismi, e in se-guito dallo scontro ideologico tra Est eOvest. E c’è dell’altro. Perché quel suocontinuo passare di mano, quel suo na-scondersi per riapparire sempre, quel via-vai attraverso la Cortina di ferro, possonoessere visti come una sfida. Come un mes-saggio di speranza che ha letteralmenteattraversato l’Europa, e che nemmeno
Hitler e Stalin sono riusciti a spegnere. Èanche per questo che la visione dell’ope-ra, tornata alla magia iniziale grazie al la-voro di cesello svolto dalla Cineteca di Bo-logna, suscita interesse: l’anteprima saràmercoledì 27 al festival Il cinema ritrova-to, in corso nel capoluogo emiliano. In at-tesa di una probabile, futura distribuzio-ne nazionale. La prima e ultima volta nel-le nostre sale uscì nel 1947: il via libera del-la censura porta la firma dell’allora segre-tario Giulio Andreotti.
Ambientato durante la Prima guerramondiale, La grande illusione — scrittoda Renoir insieme a Charles Spaak, padredi Catherine — ha come protagonista undivo francese come Jean Gabin, affianca-to da Pierre Fresnay e da Eric vonStroheim. È la storia di un capitano d’a-viazione e di un luogotenente francesi
Il film più odiato dal Potere
La Grandeillusione
I DOCUMENTIIn alto, il visto di censura francese
con le timbrature successive. Accanto
il visto della censura italiano firmato
da Giulio Andreotti l’8 novembre 1947
Qui sopra, alcuni fotogrammi del film
CLAUDIA MORGOGLIONE
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Negli anni Sessantala Cineteca di Tolosascopre che il negativoè nascosto a MoscaE così proponeuno scambio geniale:la restituzionealla Francia in cambiodi un James Bondcon Sean Connery
che vengono fatti prigionieri e portati inuna fortezza, dove ritrovano l’aristocrati-co, rigido e cavalleresco ufficiale tedescoche aveva fatto abbattere il loro apparec-chio. Risultato: un affresco fortissimocontro la brutalità dei conflitti, un inno al-l’umanità e all’amicizia che si dimostra-no più forti delle barriere sia sociali chenazionali. Presentata alla Mostra di Ve-nezia del 1937, la pellicola vince il premio“per il miglior complesso artistico”. Ma inquel cupo finale di decennio, segnato dal-l’avanzata inesorabile di Hitler, la censu-ra è in agguato. Come conferma GianlucaFarinelli, il direttore della Cineteca di Bo-logna: «Già in Francia, al suo debutto nel-le sale — racconta — l’opera esce tagliata:vengono espunti i riferimenti alle malat-tie veneree dei soldati. E comunque vienecriticata per un presunto atteggiamentocollaborazionista. In Germania invecevengono censurate le connotazioni posi-tive di uno dei personaggi, l’ebreo Ro-senthal. Mussolini non si pone proprio ilproblema: lo vieta direttamente, comeTempi moderni di Chaplin».
Poco dopo scoppia la guerra, Parigi vie-ne invasa dai nazisti. E l’unica copia origi-nale e in ottimo stato della pellicola scom-pare misteriosamente dal laboratorio chela custodiva. «Qui non si è mai saputo co-sa sia davvero successo — spiega Farinel-li — ma certamente sono i tedeschi a por-tarla via: e non parliamo di un trasportofacile, tra immagini e sonoro sono unaquarantina di casse con dentro le bobine.Che riappaiono — e questo lo sappiamocon sicurezza — a Berlino. Ed è un bene:quel laboratorio parigino viene bombar-dato, se fosse rimasta lì La grande illusio-ne sarebbe stata distrutta». Intanto quellecasse così preziose, approdate nella capi-tale tedesca, ai tempi dell’occupazionevengono rubate dai sovietici e portate inun archivio a quaranta chilometri da Mo-sca. Prova evidente, chiosa Farinelli, «cheentrambi i grandi tiranni, Hitler e Stalin,sono grandi cinefili».
Nel 1958, ignaro di questi furti e con-vinto che l’originale sia stato distrutto dalbombardamento, Renoir fa uscire dinuovo in patria il suo capolavoro; utiliz-zando però delle copie non proprio per-fette. Malgrado questi piccoli difetti, lostile inarrivabile e il profondo umanesi-mo che lo pervadono influenzano tantigrandi cineasti: dallo Stanley Kubrick diOrizzonti di gloria (un vero e proprioomaggio) a Kurosawa, ai nostri Fellini a
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Le storie narrate nella Grande illusionesono rigorosamente vere e mi sono sta-te raccontate da parecchi compagni
d’armi della Grande guerra, e in particolare daPinsard. Pinsard stava sui caccia, io sugli ae-rei da ricognizione. Mi capitava di dover foto-grafare le linee tedesche e lui mi ha salvato piùdi una volta la vita intervenendo tempestiva-mente contro i caccia tedeschi. È stato abbat-tuto sette volte, e le sue evasioni sono alla ba-se di una delle storie della Grande illusione.
In un cassetto ho ritrovato alcuni vecchi ri-cordi di quegli anni. Una foto mentre sto ai co-mandi del primo aereo che ho imparato a pi-lotare all’inizio del 1915, un Voisin. L’aereo sucui Gabin e Fresnay si fanno abbattere da Ericvon Stroheim doveva assomigliarvi molto.Poi c’era il Nieuport, l’apparecchio degli assidell’aviazione. È l’aereo che pilotava Pinsard.
Se insisto sull’autenticità dei fatti raccon-tati nella Grande illusione è perché certe sce-ne, soprattutto quelle che descrivono i rap-porti fra francesi e tedeschi, viste con gli oc-chi di oggi possono destare un certo stupore.Non dimentichiamoci che nel 1914 non c’e-ra Hitler. Non c’erano i nazisti che poi riusci-ranno a farci dimenticare quanto anche i te-deschi siano esseri umani. Nel 1914, lo spiri-to degli uomini non era stato ancora inqui-nato dalle religioni totalitarie e dal razzismo.In un certo senso, la Prima guerra mondialeera ancora una guerra di gente beneducata,oso dire una guerra di gentiluomini. Il chenon la giustifica, d’accordo. Perché nulla giu-stifica il massacro.
La grande illusione, insomma, non è solouna storia di aeroplani, per quanto appassio-nante. A farla diventare un buon film ci hapensato la realtà delle cose narrate e la sce-neggiatura nata grazie alla impagabile colla-borazione con Charles Spaak a cui mi leganon solo una profonda amicizia ma anche lafede nell’uguaglianza e nella fratellanza tragli uomini. Perché alla fine La grande illusio-neè storia di gente come noi lanciata in quel-la straziante avventura che è la guerra. E ledomande che si pone oggi il nostro mondoangosciato somigliano molto a quelle cheSpaak, io stesso e tanti altri ci ponevamoquando preparavamo questo film. E questa èla ragione per cui ci è parso che La grande il-lusione sia ridiventato di bruciante attualità.E per questo abbiamo deciso di ripresentar-lo al pubblico.
(Prologo del regista per la riedizione del 1958 della Grande illusione)
Ufficialie gentiluomini
JEAN RENOIR
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IL FESTIVAL
Giunto alla 26esima edizione, il festival Il cinemaritrovato, a cura della Cineteca di Bologna, è in corsonel capoluogo emiliano fino al 30 giugno. Otto giornidi proiezioni e incontri, distribuiti su quattro schermi più le anteprime notturne in Piazza MaggioreLa rassegna si articola in diverse sezioni: oltrealla serie “Ritrovati e restaurati”, quella sui filmlegati alla crisi del 1929 e sulle pellicole del 1912La grande illusione è in calendariomercoledì 27 alle 22 in Piazza Maggiore
Sergio Leone. A metà degli anni Sessanta,però, la Cineteca di Tolosa scopre che ilnegativo è nascosto nella capitale russa. Ecosì propone uno scambio geniale: la re-stituzione alla Francia in cambio di un Ja-mes Bond con Sean Connery. Il film tor-na a casa, ma resta a languire negli archi-vi. Perché è solo adesso, grazie al lavoro direstauro voluto da Tolosa e da StudioCa-nal, e svolto dalla Cineteca di Bologna,che La grande illusione torna davvero al-lo splendore — e al montaggio — del1937. In Francia, nel frattempo, è di nuo-vo uscito nei cinema a Natale 2011, ed èstato visto da trentamila spettatori: un ri-sultato straordinario, per un film d’epocain bianco e nero. A dimostrazione dell’e-terna giovinezza di un’opera unica, so-pravvissuta alle tempeste della Storia.
I MANIFESTIIn questa pagina,
le locandine
del film
nella versione
francese
e in quella tedesca
del dopoguerra:
la stretta di mano
simboleggia
la rinata amicizia
tra francesi
e tedeschi
Nella foto
grande a sinistra
Jean Gabin,
protagonista
del film
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LA DOMENICA■ 40
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Sono app
per smartphone che,
pescando tra le vostre
conoscenze sui social
network tipo Facebook,
vi segnalano quando
nelle vicinanze si trova
qualcuno che potreste
voler conoscere
A quel punto potete
contattarlo
con un messaggio
e presentarvi
NextI like
Siete al bar. Sullo smartphone vi arriva la segnalazione: quella sedutaal tavolino accanto è un’amica di un vostro amico, quindi una potenzialevostra nuova amica che aspetta solo di essere conosciuta. Con softwarecome Highlight o Sonar siamo già oltre Facebook
RICCARDO STAGLIANÒ
base proprio da Facebook, Twitter, Linkedin esiti analoghi. Sempre analizzando quei daticompilano una mappa dei nostri «amici» e co-noscenti. E sulla base di queste informazionil’algoritmo prova a indovinare anche conquali sconosciuti abbiamo cose in comune epotremmo desiderare di interagire. «Mentre isocial network sono utili a mantenere le rela-zioni esistenti» ha spiegato Greg Tseng, co-fondatore di Tagged, al blog Venture Beat, «isocial discovery servono per scoprirne di nuo-ve». Moltiplicano le nostre opportunità di so-cialità, riducendo i rischi di delusione. Perchéci proporranno solo contatti con persone che,per un verso od un altro, hanno già dimostra-
to una teorica compatibilità.Una volta installato, per dire, Highlight
manda una notifica ogni qualvolta rileva unnostro conoscente (dotato del medesimo pro-gramma) in un raggio di qualche centinaio dimetri da noi. A quel punto potremo visualiz-zare il suo profilo e, se ci ispira, mandargli unmessaggino per continuare live la conversa-zione. L’unico limite per l’Italia discende dal-la legge di Metcalfe, quella per cui «il valore diuna rete è uguale al quadrato dei suoi utenti».Che al momento sono pochissimi, quindi po-che segnalazioni, dunque utilità scarsa. Ma èsolo questione di tempo. In una cronaca assaitagliente un giornalista dell’Atlantic docu-
Zero gradi di separazione
COMEFUNZIONANO
Consente di sapere
se c’è qualche
conoscente
nelle vicinanze e, se ci ispira,
di mandargli un messaggino
(highlight, appunto, simile
al poke di Facebook)
Insomma una manifestazione
di simpatia non verbalizzata
http://highlig.ht
HIGHLIGHT
Creata nel 2011
l’applicazione
si è specializzata
nel fare amicizia a partire
dalle foto condivise. Adesso
svilupperà ulteriormente
questa facoltà all’interno
di Mixbook, il sito di web
2.0 che l’ha acquisita
http://yobongo.com
YOBONGO
Con i programmi di social discovery (scoper-ta sociale), invece, si può passare all’azioneanche quando si è in giro, facendo affidamen-to su una sorta di sesto senso digitale: «Sei ami-ca di un mio amico: posso offrirti un caffè?».
Facebook e la sua depressione post-partumborsistico sembrano già il passato. Il futuroavrebbe il nome di Highlight, Glancee, Sonare Banjo, per citare alcuni dei software che han-no entusiasmato il South by Southwest, fieratecnologica di culto che da qualche primave-ra va in scena ad Austin, Texas. A grandi lineeil loro funzionamento è simile. Le varie appli-cazioni, che funzionano su smartphone iPho-ne o Android, desumono il nostro identikit di
Il caso, sembra di capire, è un lusso chenon possiamo più permetterci. Forsenell’Atene del quinto secolo, a dar rettaa Platone, c’era ancora tempo di aspet-tare che due metà si imbattessero l’unanell’altra senza premeditazione. Di
certo non nel ventunesimo secolo. Trovareun’anima gemella, o semplicemente amplia-re il proprio giro di amici, è un lavoro tropposerio per lasciarlo all’inefficiente capriccio deldestino. Prima vagavamo in incognito nellecittà. Flâneur inconsapevoli di aver sfiorato,magari più volte al giorno, il nostro accidenta-le alter ego. Oggi, volendo, potremo trasfor-mare il nostro cellulare in un radar che ci av-verte se nei paraggi si aggira un essere umanopotenzialmente interessante. Sui socialnetwork, da casa, si osservavano le vite deglialtri. E al più si entrava in contatto per iscritto.
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Grande Fratello, piuttosto a una retedi mutua sorveglianza di piccoli fratelli). Il
loro incessante sforzo di combinare incontriesaurisce sia la pazienza che le batterie».
La critica più filosofica riguarda il tentativosuperomistico di cancellare il caso. Di abolire,per via algoritmica, la serendipità, ossia il feli-ce rinvenimento di qualcosa che non si stavaneppure cercando. «Vogliamo piuttosto ren-dere possibili connessioni migliori di quelletotalmente fortuite» ribatte Tseng «ingegne-rizzando la serendipità per trovare proprio lapersona giusta su un milione da presentarvi».Sembra che si siano messi d’accordo sulla di-fesa da tenere. Andrea Vaccari, il ventottenneveronese che ha creato Glancee, rivendical’importanza dei fattori «sorpresa» e «incan-to», quindi definisce le sue motivazioni comeil voler «creare una serendipità con gli anabo-
lizzanti». Chi non ritiene quest’ultima affer-mazione un ossimoro è Mark Zuckerberg che,per una cifra segreta ma verosimilmente co-spicua, ha acquisito la start-up e traslocatol’intera sua squadra dentro Facebook. Fedeleal vecchio motto della Silicon Valley: If youcan’t beat them, eat them.
L’eccitazione imprenditoriale che questanuova onda informatica ha scatenato è indi-scutibile. Il social discovery è il «nuovo nero»,ha scritto un commentatore, mutuando l’e-spressione dal gergo della moda. Anche Yo-bongo, startup del settore con un anno e rottidi esistenza, è stata acquisita da una societàpiù grande. I timori restano sul tipo di scena-rio sociale che la loro diffusione comporterà.Non basta la rassicurazione del cyber-antro-pologo Amber Case sul fatto che «amplifiche-ranno la nostra umanità, potenziando le coin-
cidenze nelle nostre esistenze», a tacitare gliscettici. Intanto diventerà arduo far finta dinon aver visto qualcuno, per evitare di dover-gli parlare. E quasi impossibile usare la lonta-nanza fisica come scusa per non aggregarsi auna serata che non si preannuncia imperdibi-le. A meno, ovviamente, di spegnere la app.Riappropriandosi del gran lusso che può esse-re una vita in modalità stealth. Per non dire delsospetto ineliminabile quando, raccontan-dosi per la prima volta a uno sconosciuto, sco-priremo di avere un gran numero di persone,gusti ed esperienze simili. Tutto merito, comediceva Voltaire, di «sua sacra maestà il caso,che fa più dei tre quarti del lavoro in questo mi-serabile universo»? Oppure frutto del calcolobinario e imperscrutabile della sensale elet-tronica che ci porteremo in tasca?
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Da Bob Metcalfe,
l’inventore delle reti
Ethernet, per cui
“il valore di una rete
è uguale al quadrato
dei suoi utenti”
Legge di Metcalfe
(Fear of missing out)
La paura di non stare
dietro alla quantità
di cose e informazioni
che stanno accadendo
In rete o intorno a noi
Fomo
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Significa “scoperta
sociale”, ma qualcuno
le chiama People
discovery o app
per l’Ambient Proximity
Social Location
Social discovery Serendipità
Quelle piattaforme,
come Facebook,
Twitter, Linkedin
e altre dove condividere
contenuti e notizie
sul proprio conto
Social network
GREG TSENG
Co-fondatore di Tagged
Vogliamo renderepossibili connessionimigliori di quelletotalmente fortuiteingegnerizzandola serendipitàper trovare proprioquella persona giustasu un milioneda presentarvi
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La app non solo
ti dice chi si trova
nei dintorni ma anche
chi, tra loro, potresti essere
interessato a conoscere
C’è una sezione specifica
per vedere al volo
se i tuoi amici si trovano
dalle tue parti
http://www.sonar.me
SONAR
Fondata nel 2010
dall’italiano Andrea
Vaccari, l’intera
squadra mesi fa è stata
acquisita da Facebook:
svilupperà applicazioni
per rendere le interazioni
più legate alla posizione
geografica
http://www.glancee.com
GLANCEE
Ogni volta che
qualcuno del tuo
network si avvicina
o posta qualcosa ricevi
una notifica. Qui l’invasione
della privacy è maggiore
dal momento che l’app oltre
a farti “vedere” gli altri ti dice
anche chi ha “guardato” te
http://ban.jo
BANJO
GL
OS
SA
RIO
È la scoperta
fortuita e fortunata
di cose
che non si stavano
nemmeno
cercando
menta lasua spiacevole espe-
rienza proprio durante il festival texano. Sia luiche la ragazza con cui era a cena avevano i te-lefonini sul tavolo che vibravano come sismo-grafi impazziti. Ma si trattava soltanto di unatempesta perfetta di segnalazioni di potenzia-li affinità elettive nelle immediate vicinanze.«Ovunque andassi le mie nuove app provava-no a mettermi in contatto con persone chenon volevo vedere: ex soci di imprese fallite,sviluppatori che avevo licenziato, l’inevitabi-le ex fidanzata. Alla fine, almeno nella loro pri-ma versione, queste applicazioni finisconoper risultare fastidiose (ma non pensate al
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I saporiPiccoli brividi
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Menta e zucchero, aroma fruttatoe bollicine, alcol e lime: il cocktailleggero inventato dai pirati e amato da Hemingwayè ormai il vero aperitivo
di stagione. E però anche a cena...
LimeSi preferisce
al limone perché
più profumato
e meno forte
Chi utilizza
il frutto a pezzi,
privilegia il gusto
degli oli essenziali
presenti
nella buccia
Zuccherodi cannaDi consistenza
lievemente
granulare,
comunque raffinato
per non caricare
il cocktail col sapore
grezzo della molassa
Anche in versione
liquida
GhiaccioAlla vecchia
Bodeguita del Medio
si otteneva
scalpellando
la barra posta
dietro il banco
I puristi martellano
il lingotto avvolto
in uno straccio
Consentiti i cubetti
LICIA GRANELLO
Ma che caldo fa. Parafrasando lacanzone di Nada, la constatazio-ne suona come un lamento suda-ticcio. Ogni anno ci facciamo co-gliere di sorpresa dalle prime im-pennate del termometro. Bere
tanto, è il diktat dei medici. Ma via dall’ufficio, l’ac-qua da pratica necessaria diventa ripiego tristan-zuolo. I cocktail si fanno amare per quel brivido ge-lato che sanno regalare, zittendo per qualche attimoi vapori bollenti e rinvigorendo i sensi, anche se l’al-col è un vasocostrittore truffaldino: il tempo di sen-tirsi rivivere e il caldo torna, implacabile, in un mix dipentimento («Così imparo a bere alcolici») e dubbitrasgressivi («Quasi quasi, ne bevo un altro»).
Il mojito rappresenta entrambe le pulsioni. Nonesiste bere miscelato estivo più irresistibile e allegro,grazie al suo equilibrio tra alcol e freddo, aroma frut-tato e nota zuccherina, il fresco della menta e le bolli-cine dissetanti. Il tutto, in un bicchiere alto, solido,puntinato di minuscole gocce gelide, con due can-nucce corte e un rametto di menta (hierba buenanel-la ricetta originale, un tipo di menta meno forte ma piùaromatico), messi lì per indurre in tentazione. Certo,l’elenco dei cocktail, disancorati dalla muscolarità al-colica di Negroni & Co., è lunghissimo e pesca nel ri-
cettario dei long drink. Ma rispetto a gin tonic e TomCollins, il mojito profuma di Caribe e avventura, por-ta in città l’estate bailerina della musica latinoameri-cana senza le smodatezze dei drink da spiaggia.
Cinquecento anni dopo la sua creazione, la magiaalcolica del mojito non ha dismesso la sua fascinazio-ne. Non a caso, la parola mojo — di derivazione creo-la — significa incantesimo: scelta successiva alla pri-ma ricetta, realizzata con aguardiente de caña, zuc-chero, lime, acqua e menta, battezzata Draque inonore di sir Francis Drake, principe dei corsari, a lun-go protagonista dell’assedio di Cuba, alla ricerca deltesoro azteco. Ma il bucaniere venne respinto e l’uni-ca traccia positiva della sua permanenza in zona ca-raibica (oltre alla licenza di commercio ottenuta dairegnanti inglesi) furono i primi tentativi di distillare lacanna da zucchero, addolcita e rinfrescata con men-ta e lime. La ricetta venne codificata solo a metà Otto-cento, quando Don Facundo Bacardi sostituì l’ac-quavite con il primo, vero rum della storia: un picco-lo incantesimo, un mojito, appunto. Bastò che i ricchiamericani per sottrarsi alle pastoie del proibizioni-smo cominciassero a frequentare Cuba per trasfor-mare una piccola locanda dell’Habana Vieja, la Bo-deguita del Medio nel bar più popolare delle Ameri-che, e i suoi avventori in cultori appassionati del moji-to. Da lì in poi, ogni paese si è cucito addosso il propriomojito, sostituendo uno degli ingredienti secondo lapropria tradizione cocktelera, dal mojito royal con lochampagne al posto della soda al dirty mojito con ronscuro e zucchero grezzo. Se goderlo come aperitivonon vi basta, sostituitelo al vino nella cena più tra-sgressiva dell’estate, abbinandolo con cracker di maise gamberi crudi. Come per incantesimo, il caldo visembrerà molto più sopportabile.
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Mojitomon amourIl verde dell’estate
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Versare lo zucchero in un bicchiere alto Aggiungere l’Amaro Lucano e mescolare in modo da formare una crema aromatica. A seguire, immettere il succo e il rametto, schiacciando delicatamente le fogliedella menta contro le pareti del bicchiere, senza tritarle e senza spingerle sul fondo (al posto del pestello, si puòutilizzare un cucchiaio di legno da cucina) Dopo aver addizionato anche il ron (pari a cinque cucchiaida minestra), riempire per metà il bicchiere con ghiaccioa cubetti, quindi mescolare bene il tutto. Aggiungere la birrae colmare con ghiaccio. Guarnire con germoglio di mentae spicchio di lime, servire con cannuccia
✃
Gli indirizzi
RITA
COCKTAIL BAR
Via Fumagalli 1
Tel. 02-8372865
IL SALOTTO
DEI PRINCIPI
(Hotel Principe di Savoia)
Via Piero Gobetti 15
Tel. 011-55151
CENTURION
PALACE
Dorsoduro 173
Tel. 041-34281
LIQUID
COCKTAIL BAR
Passeggiata Dino Grollero 32
Tel. 0182-471841
NU LOUNGE BAR
Via de’ Musei 6
Tel. 051-222532
BITTER BAR
(Hotel Palazzo Borghese)
Via Ghibellina174/r
Tel. 055-2302099
BAR DEL RESORT
CASTIGLION DEL BOSCO
Località Castiglione del Bosco
Tel. 0577-807078
FRENI E FRIZIONI
Via del Politeama 4
Tel. 06-58334210
BAR IL MOSAICO
(Hotel Terme Manzi)
Piazza Bagni 4
Località Casamicciola
Tel. 081-994722
VINO VERITAS
COCKTAILS&BISTRÒ
Viale Piemonte 22
Tel. 091-342117
Ma non cercateloalla Bodeguita
Naturalmente non è merito diHemingway ma del proibizio-nismo se a Cuba negli anni
Venti s’inventò il mojito. L’autore deIl vecchio e il mare scrisse solo la fraseche rese immortale il locale dell’anti-co centro coloniale dell’Avana: «Ilmio mojito alla Bodeguita, il mio dai-quiri al Floridita». E il tutto, comun-que, diversi anni dopo rispetto aquando i suoi connazionali avevanocominciato a prendere d’assalto l’iso-la per divertirsi e ubriacarsi di mojitoin santa pace.
La primogenitura del mojito è oscu-ra e affonda nelle storie dell’isola, “re-gina dei Caraibi”, fra pirati inglesi emarinai spagnoli. Ma in qualsiasi casola sua versione moderna, quella da di-zionario dei cocktail giunta fino a noi,nacque in un luogo preciso, quella Bo-deguita del Medio conosciuta in tuttoil mondo come la Torre Eiffel o il Co-losseo, e oggi sinceramente infre-
quentabile. Non andateci. Ci sonogiorni nei quali la fila dei turisti gira in-torno al palazzo e poiché la quantità è,ormai inevitabilmente, preferita allaqualità potreste anche restare delusi.Oggi bere un mojito all’Avana è piùpiacevole sulla terrazza dell’HotelAmbos Mundos o nei giardini, acca-rezzati dalla brezza del lungomare,dell’Hotel Nacional.
Mojito viene da mojo che si traduce— oltre che con incantesimo in creolo— con sughetto, ed è l’intingolo a ba-se di lime che si aggiunge come salsain alcuni piatti della cucina locale. Mac’è un problema, e sono quei due ra-metti di hierba buena nel bicchiere.Non è la foglia di menta che si aggiun-ge in Italia al rum, allo zucchero, aiquattro cubetti di ghiaccio e al lime. Èun sapore più delicato e meno persi-stente. Senza hierba buena, non c’èpartita. E neppure mojito.
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ST
AN
GA
RonLa scelta del rhum
caraibico
— distillato
alcolico di canna
da zucchero —
oscilla tra il prodotto
bianco,
non affinato,
e l’anejo,
poco invecchiato
HierbabuenaMeno forte
della menta italiana,
ma più aromatica,
si può sostituire
con la marocchina,
riconoscibile
per la foglia larga
e rugosa
e per il ramo scuro
SodaLe bollicine
di anidride carbonica
rinfrescano
e veicolano
gli aromi. I sali
di sodio riducono
l’assorbimento
d’alcol da parte
della mucosa
dello stomaco
OMERO CIAI
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Originale
In un tumbler, mettere lo zucchero e coprirecon il succo. Addizionare la menta e pestare contro i latidel vetro. A seguire, ron, ghiaccio e soda, mescolandoBattezzare con un’ultima spruzzata di rone due foglie di menta
LE RICETTE
Ingredienti
2 cucchiaini di zuccherodi canna biancosucco di mezzo lime2 rametti di hierba buena9 cl di soda4.5 cl di ron bianco4 cubetti di ghiaccio
Sulla strada
Planatos fritosTandem perfetto con le grandi
banane non dolci
e di consistenza compatta,
tagliate a dischetti obliqui,
fritte e servite in cartocci
o in ciotole ampie
Menta&liquiriziaAl di là delle caramelle d’infanzia,
un abbinamento tanto goloso
quanto aromatico
Anche per ottenere torte,
biscotti, mousse e sorbetti,
purché a zucchero contenuto
CroquetasAssociazione per contrasto:
il cocktail alcolico e frizzante
rinfresca la bocca,
alternato ai bocconi bollenti
e fragranti a base
di besciamella e patate
PinzimonioCompagne perfette, le crudité
di verdure, prima fra tutte
il peperone verde, con il sapore
erbaceo che si sposa alla menta
Il finocchio asseconda
la nota dolce
Rivisitato
Dario Comini è considerato
uno dei più grandi barman
del mondo. Allo storico
bancone del suo “Nottingham
Forest”, Milano, serve
cocktail magnifici, in bilico
tra rigore assoluto e creatività
dirompente, come in questa
versione del mojito, ripensato
per i lettori di Repubblica
Ingredienti
2 cucchiaini di zuccherodi canna bianco1 cucchiaino di Amaro Lucano1 rametto di menta marocchina2 cl di succo di lime fresco4 cl di ron bianco anejo4 cl di birra chiara leggeracubetti di ghiaccio
Gli abbinamenti
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 44
DOMENICA 24 GIUGNO 2012
Negli anni Sessanta con Julian Becksi stendeva sulle strade di New Yorkper fermare la guerra in Vietname abbracciava nuda il pubblicoper far sentire tutta la sua umanità
Oggi, a ottantasei anni,è ancora lei a portareil celebre Living Theatrein giro per il mondo:“Sta nascendouna generazione
pronta a cambiare le coseE io non posso staresoltanto a guardare”
ROMA
Era indimenticabile neglianni Sessanta, quando in-domita e sfacciata, con Ju-lian Beck si stendeva sul-
l’asfalto delle strade di New York per di-sobbedienza civile, contro la guerra nelVietnam, o quando, in uno spettacololeggendario come Paradise Now, persovvertire l’ipocrisia di tanti tabù mo-rali, abbracciavano nudi gli spettatori.È indimenticabile oggi, qui, in unastanza d’albergo che, con un toccohippy ha riempito di teli patchwork co-lorati sui mobili: piccola, minuta, i ca-pelli ancora corvini e gli occhi ben truc-cati, solo il peso di qualche fardello inpiù nello sguardo, fuseaux neri e ma-glia bianca, seduta sul letto con due cu-scini dietro la schiena e le gambe stese,mentre parla ancora della bella rivolu-zione anarchica e di come il teatro pos-sa cambiare il mondo.
Anche solo a guardarla, Judith Mali-na ha il potere di rievocare con tene-rezza e passione quell’epoca bella e ri-schiosa, di libertà, trasgressioni, piace-ri, cambiamenti, slanci che è stata lastoria del Living Theatre, la più radica-le e decisiva esperienza di sovversioneculturale e teatrale degli anni Sessantae Settanta del Novecento. Lei e JulianBeck la iniziarono nel ’47, quattro annidopo essersi conosciuti e con il Living,un collettivo, una famiglia più che unacompagnia, hanno prodotto centinaiadi spettacoli, performance, happeningin ventotto paesi del mondo, e in mez-
zo battaglie pacifiste, proteste antiau-toritarie, dimostrazioni non violente.
Oggi Judith ha ottantasei anni ed èancora lei a portare il Living Theatre ingiro per il mondo. È in partenza per Pa-rigi, poi Ginevra. Prima è stata a Tori-no, per il festival delle Colline Torinesi,con un nuovo giro di repliche (dopoSantarcangelo l’anno scorso) di Theplot is the revolution di Enrico Casa-grande e Daniela Nicolò, riminesi delgruppo Motus, una conversazione-spettacolo con Silvia Calderoni, doveracconta il valore dell’utopia per il Li-ving e non solo. «Non mi posso ferma-re — racconta mescolando italiano eamericano — Il Living deve mantener-si. Viviamo in un mondo governato daisoldi. Se non ne hai, non puoi nemme-no permetterti la casa. O un teatro. Èorribile, ma per ora è così. Ecco perchéil nostro compito è tenere viva la rivo-luzione anarchica e pacifista: c’è mol-to da cambiare». Sta scrivendo un nuo-vo testo per il prossimo inverno men-tre lo scorso gennaio nel teatrino delLower East Side, in Clinton Street aNew York, ha presentato History of theWorld. «Sono modesta — scherza —Ho voluto solo raccontare la storia delmondo, dalle origini al futuro, fino allabella rivoluzione. Dalla preistoria alcristianesimo, dalla rivoluzione fran-cese a Occupy Wall Street. Per i ragazzidi Occupy abbiamo fatto molti spetta-coli a New York, secondo me la loroprotesta è come quella di Antigone, laribellione contro la tirannide delle re-gole e delle leggi ingiuste. Perché la cri-si di oggi la sentiamo tutti, ma non sene esce senza fare qualcosa di radicalee se non vogliamo assistere alla distru-zione del mondo senza cambiarlo».
Nel periodo del loro massimo fulgo-re artistico, a metà degli anni Settanta,lei e Julian Beck ci avevano provato.Mentre in teatro imperava il grigioresoffocante, la maniera, che fossedramma o musical, loro toglievano, li-beravano, aprivano, portando le loroazioni negli ospedali, nelle carceri, neisupermercati... The Brig del ’63 de-nunciava la vita nelle prigioni, Antigo-ne del ’67 reclamava la resistenza alleregole non giuste, Paradise Nowdel ’68chiedeva la liberazione dalla moraleborghese, Seven Meditations on Politi-cal Sado-Masochismdel ’73 denuncia-va le torture sull’uomo e causò il loroarresto in Brasile.
Chi ha conosciuto Julian Beck, mor-to nell’85, parla di un autentico genio:
di famiglia borghese aveva voltato lespalle a Yale per diventare pittore. Eraamico di Jackson Pollock, Rauschen-berg, De Kooning, dipingeva bene enel circolo di Peggy Guggenheim eramolto amato. Perché aveva charme davendere, secondo Judith. Fu lei a con-vincerlo a passare al palcoscenico. Diquel periodo felice e sregolato, in con-dizioni spesso infernali di vita per lacronica mancanza di soldi, e degli in-contri con uomini straordinari, Gin-sberg, Gregory Corso, Lee Stasberg,Marlon Brando... Judith non ha no-stalgie. «Il passato è ieri. Non lo ricor-do. Non smetterò mai di dirlo: bisognavivere ora. Ieri è finito, è solo un baga-glio. Ecco perché non voglio ricordareniente. “Now” è l’unica realtà, ora. Nel’68, in quegli anni lì, eravamo consa-pevoli di stare al centro di un movi-mento, di toccare la gente nel cuore, diincontrare le loro speranze. Ma era ilnostro lavoro: combattere per cam-
biare il mondo, per essere liberi. E loabbiamo fatto tra mille difficoltà. Peròse vuoi restare libero, devi essere con-sapevole che sacrifichi qualcosa dellatua vita. Oppure cerca di non votarequei criminali che governano i nostripaesi. Io faccio entrambe le cose. Oba-ma? Da anarchica non l’ho votato. Cer-to è meglio di altri, ma anche lui sta nel-la giostra del potere».
Judith ha diciotto anni quando co-nosce Julian Beck. È una ragazza ebreatedesca, trasferita negli Usa quandoera una bambina. «Mia madre era unaattrice, ma poi aveva abbandonato ilteatro. Mio padre era un rabbino, ave-va una sua visione politica e nella Ger-mania nazista per lui le cose comincia-rono ad andare sempre peggio. Ci tra-sferimmo negli Stati Uniti dove conti-nuò per il resto della sua vita a fare rea-ding e incontri per raccontare quelloche era accaduto ai bambini ebrei te-deschi e le sofferenze della gente tede-sca. Io cominciai a pensare al teatroappena imparai a parlare. A tredici an-ni, finita la scuola, ho avuto la fortunache Piscator aveva aperto a New Yorkuna sua scuola di teatro». Erwin Pisca-tor è stato il più grande teatrante tede-sco del primo Novecento, insieme aBrecht, anche lui trasferito negli Usa,fautore di un teatro politico. «Lui eracomunista e io anarchica. Discuteva-mo spesso. Io gli dicevo come l’idealeanarchico è più facilmente realizzabi-le del comunismo autoritario, perchéè più difficile vivere in una società a pi-ramide con chi comanda in testa e sot-to le masse sfruttate. Il teatro politicodi Piscator comunque resta la mia ra-dice e anche quella del Living: compi-to dell’attore è cambiare il mondo at-traverso il suo lavoro. Certo, lo so an-ch’io che è impossibile sconfiggerel’intera struttura della società, ma puoilavorare passo dopo passo per inse-gnare alla gente che si può vivere in unmodo più umano, più rispettoso del-l’uomo. È quello che il Living fa da ses-santacinque anni».
Dopo il soggiorno italiano, in Pie-monte, a cavallo tra gli anni Novanta eDuemila (una bella storia del Living èConversazioni con Judith Malina il li-bro di Cristina Valenti, sua biografa uf-ficiale, ma anche il film Love and poli-tics di Azad Jafarian proiettato in ante-prima al Tribeca Film Festival ad apri-le e presentato in questi giorni al Bio-grafilm festival di Bologna), dopo suc-cessi recenti come Eureka! del 2008, il
collettivo di oggi, con Tom Walker eBrad Burgess alla testa, ha realizzatoRed Noirdel 2009, Korach del 2010, Hi-story of the World nel 2012. L’ultimosforzo, enorme, è stato quello di riusci-re a non morire, a tenere aperto il tea-tro di Clinton Street. Stava per esserechiuso qualche mese fa: mancavano10.400 dollari di affitto arretrato. Gra-zie a una donazione di Yoko Ono, il de-bito è stato ripagato. Ma poi è arrivatauna seconda scadenza di 24mila dolla-ri: come estremo tentativo è stata fattauna “call for donation” internaziona-le. «Anche con Julian era così: sempredifficile, sempre a lottare per la so-pravvivenza. Il fatto è che noi non ab-biamo sovvenzioni dallo Stato di NewYork e quanto alle donazioni private siricordano che siamo anarchici e non cidanno niente. Ma non siamo gli uniciin America. A New York il cameriereche ti serve a tavola in un ristorante ènel 90 per cento dei casi un attore. Cisostengono gli amici, come Al Pacinoche ha lavorato col Living... Stanca dilottare? Stanca di viaggiare, sì, vorreipoter fermarmi di più a New York, manon stanca di lottare. È un momentoimportante, questo. Io ho visto il ’68 edè bello constatare che c’è una nuovagenerazione di ventenni, trentenniche ha una visione del mondo nuova,come ce l’avevamo noi. In Francia,Germania, Norvegia, anche in Italia...io li ho visti i ragazzi che vogliono co-struire, rinnovare, migliorare. Sì, final-mente è tornata la gioventù. La gio-ventù che vuole cambiare. Ed io nonvoglio solo stare a guardare».
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L’incontroAnarchiche
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Il passato è ierie ieri è finito,non lo ricordoNon smetteròmai di ripeterlo:bisogna vivereora, il restoè bagaglio
Judith Malina
ANNA BANDETTINI
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Repubblica Nazionale