Il diritto della forza, la forza del diritto
di Giuseppe Limone
1. Tra la forza e il diritto
È stato Jean-Jacques Rousseau a impostare in termini magistrali, praticando a modo
suo lo spirito dell’Illuminismo, la questione del rapporto tra la forza e il diritto. Il
pensatore ginevrino lo fa, nel capitolo 3 del libro I del Contratto sociale, in modo
ironico e penetrante. Egli afferma: «Il più forte non è mai abbastanza forte da essere
sempre il padrone se non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere»1.
La domanda, in termini radicali, è: come può fare la forza a chiedere obbedienza? Si
sta parlando, qui, della forza imperativa, ossia di quella forza che è capace di
trasformarsi nell’obbedienza dell’interlocutore. Infatti, la forza, se si pone come pura
forza, sarà tale soltanto per gli effetti reali che produce. Ma gli effetti reali della forza
sono necessariamente limitati a ciò che la forza, nelle sue conseguenze reali, può per
natura produrre. Infatti, la forza è, sul piano fattuale del suo essere forza, solo causa
di effetti, che sono cosa diversa dall’obbedienza. Non potendo essere la forza
illimitata, essa manterrà necessariamente aperti alcuni varchi nella sua capacità di
dominio, varchi al cui interno potrebbe inserirsi in ogni momento la disobbedienza.
Rousseau, in realtà, si sta domandando: davanti a una forza che mi si impone, debbo
obbedirle anche nei momenti in cui essa provvisoriamente cessa o si distrae? E, se le
obbedissi anche in questi casi, su quale base si costituirebbe la mia obbedienza?
Esiste forse un dovere di obbedire alla forza anche nei momenti in cui la forza cessa?
1 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, trad. Roberto Gatti, Rizzoli, Milano 2005, p. 59.
Qui Rousseau sta ponendo la questione alla radice. Altro è la forza come fatto, altro
la forza come diritto. Una tale impostazione, in realtà, significa che altro è la forza
come fatto, altro la ragione.
Il nocciolo del problema, in definitiva, sta nella differenza tra la forza in quanto
esercita i suoi effetti nel mondo naturale e la forza in quanto esercita i suoi effetti nel
mondo umano. In questo secondo caso, perché una forza possa conseguire i suoi
effetti, occorre necessariamente passare per un minimo di partecipazione – anche
debolissima – da parte del soggetto. Una tale partecipazione può esprimersi in forme
diversificate: nella paura, nell’imitazione gregaria, nella pigrizia, nella viltà,
nell’inerzia, nell’accettazione, nella fiducia, nella consapevole e intenzionale volontà.
In ogni caso, la forza non può tradursi tutta e direttamente nell’obbedienza perché,
per quanto riguarda il rapporto col soggetto umano, non può non presupporre un
minimo di partecipazione da parte dello stesso.
Vari apologhi hanno illustrato questa verità, che costituisce anche un’evidenza
empirica. Hobbes osserva che anche il più forte di tutti è esposto al pericolo che il più
debole lo uccida: con l’astuzia o accordandosi con gli altri. Hart osserva che non si
può non distinguere fra il diritto che ti impone di obbedire e il bandito che ti impone
la medesima cosa. È noto altresì l’apologo con cui si dice che un tiranno non può
dormire sulle baionette. Eric Voegelin, discorrendo intorno alle forme della
rappresentanza politica, individua la rappresentanza trascendentale, cioè quella con
cui il potere, per farsi obbedire, dichiara di rappresentare un significato forte, così
forte da persuadere all’obbedienza.
Le predette riflessioni girano tutte, in realtà, intorno a un solo problema: una forza
imperativa, per potersi realizzare nel mondo umano, abbisogna di un minimo di
partecipazione da parte del soggetto da cui pretende obbedienza. Uno dei modi per
conseguire una tale partecipazione è il procedimento attraverso cui la forza si auto-
giustifica, allo scopo di pretendere obbedienza. Una forza, per poter trasformarsi in
positiva obbedienza, ha, perciò, imprescindibile bisogno di un fondamento capace di
essere efficacemente persuasivo, cioè di un fondamento simbolico. Ogni forza
imperativa abbisogna di una sua antropodicea. Uno dei modi per persuadere
all’obbedienza è stato, nel corso dell’evoluzione umana, il ricorso all’idea della
“ragione”. In realtà, questa idea è uno dei modi – non l’unico – attraverso cui la forza
imperativa ha cercato di sopperire alla lacuna strutturale implicita nella sua forza. La
ragione, perciò, si presenta come fondamento simbolico, ossia come forza capace di
persuadere all’obbedienza, condensando in un unico significato fattori intellettuali e
fattori emozionali.
A ben vedere, Rousseau, nella sua impostazione argomentativa, ha mostrato di saper
svolgere una critica interna – e non semplicemente esterna – al problema di una
qualsivoglia forza imperativa che intenda presentarsi come autosufficiente. Il
pensatore ginevrino, cioè, non sta dicendo che alla forza bisogna contrapporre
un’altra forza, ma sta sottolineando che qualsiasi forza, per quanto forte, non riesce
mai a essere tanto forte da prolungarsi in modo autosufficiente nella obbedienza
umana correlativa.
Proviamo adesso a esaminare questo fenomeno al rallentatore. In una prima
approssimazione, possiamo dire che de facto una forza non riesce mai a trasformarsi
interamente in obbedienza umana, perché possono aprirsi sempre falle imprevedibili
nell’esercizio efficace del suo dominio. Rousseau, in merito, ironicamente scrive: se
il rapinatore si distrae, sono ancora obbligato a consegnargli il portafoglio?
In una seconda approssimazione, possiamo dire che de iure, anche nel caso ipotetico
in cui la forza si trasformasse interamente in obbedienza, non si tratterebbe affatto di
obbedienza umana, ma semplicemente di effetto naturale derivante da una causa
naturale. Se materialmente trascino con la forza un uomo da un posto a un altro, non
potrò certamente dire che il trascinato mi stia obbedendo. Il suo esser trascinato
costituisce semplicemente l’effetto di una causa. In tale ipotesi, non sta affatto
accadendo un fenomeno di obbedienza, fondata sul rapporto tra comandare ed
eseguire, ma un semplice fenomeno della natura, fondato sul rapporto tra causa ed
effetto. Sia nel primo che nel secondo caso (l’ipotesi de facto e l’ipotesi de iure), è
possibile capire come, perché ci sia obbedienza umana, occorra un minimo di
partecipazione, per quanto debolissima, del soggetto all’esecuzione di quanto la forza
impone. In una terza approssimazione, può dirsi che la forza, per trasformarsi in
obbedienza umana, deve necessariamente avvalersi di alcuni moventi propri
dell’azione umana: la paura, la tendenza gregaria a obbedire, la pigrizia, una più
generale adesione emozionale, una consapevole adesione volontaria. Quando Herbert
Hart provocatoriamente compara l’imposizione del diritto con l’imposizione del
bandito, sta segnalando – all’interno di due forme diverse di obbedienza umana – il
confine tra un’obbedienza dovuta soltanto alla paura, legata al qui e ora e priva di
ogni interiorizzazione duratura, e un’obbedienza dovuta a un minimo di
interiorizzazione partecipante, che è l’unica a fare del diritto una struttura
ragionevolmente durevole e, corrispettivamente, dell’esecuzione una obbedienza
ragionevolmente umana. In una quarta approssimazione, possiamo dire che la forza
imperativa può esprimersi in più modi e in più tappe: nei confronti di un uomo
singolo, a cui quella forza chieda obbedienza qui e ora; nei confronti di un uomo
singolo, a cui quella forza chieda obbedienza duratura; nei confronti di un gruppo
umano a cui quella forza chieda obbedienza qui e ora; nei confronti di un gruppo
umano a cui quella forza chieda obbedienza duratura. Passando da una tappa all’altra,
la forza imperativa in discorso presenta, nella sua pretesa auto-sufficienza, sempre
più lacune. In ogni caso – e ancor più nell’ultimo caso – la forza imperativa, per
realizzarsi nei confronti di un gruppo, avrà intrinseco bisogno, da parte dei soggetti
chiamati a obbedire, di un minimo di interiorizzazione del comando dato. Nell’ipotesi
dell’obbedienza collettiva duratura, Max Weber ha ideal-tipizzato, com’è noto, tre
forme di potere, che in realtà sono tre forme di forza imperativa: quella fondata sulla
consuetudine, quella fondata sul carisma e quella fondata su un’istanza razionale che
si presenta in forma legale. A ben vedere, nell’indagare il complessivo fenomeno
sociale per cui si obbedisce, molteplici ulteriori specificazioni e integrazioni
potrebbero individuarsi oltre la tipizzazione weberiana, il che comporterebbe una
visione più articolata all’interno della chimica sociale per la quale un ordine sociale
permane. Ma qui non è necessario ulteriormente ideal-tipizzare. Qualunque sia la
struttura ideal-tipica pensata, la necessità di un fondamento simbolico della forza
rimane. In tutte le ipotesi sopra individuate appare chiaro che una forza che voglia
trasformarsi in obbedienza collettiva duratura deve necessariamente passare, per
ragioni interne e non per ragioni esterne, attraverso un minimo di auto-giustificazione
persuasiva capace di trasformarsi, a sua volta, in una interiorizzazione obbediente.
Una forza, per ragioni interne e non per ragioni esterne, ha strutturalmente bisogno di
un minimo di auto-giustificazione persuasiva. In ultima analisi, il fondamento
simbolico fa parte intrinseca del fenomeno della forza che voglia realizzarsi come
forza. Ogni forza, per restare forza, deve persuasivamente auto-fondarsi – e non può
non farlo – sotto pena della sua inevitabile catastrofe. Non solo. Una tale capacità
auto giustificativa deve saper durare nel tempo, perché, in caso contrario, la forza
imperativa varcherebbe le condizioni che costituiscono la sua soglia di dominio e si
estinguerebbe in un crollo. Di una forza imperativa, perciò, fa parte costitutiva la sua
falla e, d’altra parte, questa falla esige di essere saturata da un fondamento simbolico,
che diventa parte intrinseca di quella forza, andando a costituire una forma di vita
razionale a cui quella forza rinvia. Senza quel fondamento simbolico quella forza non
sarebbe forza e, d’altra parte, quel fondamento simbolico diventa parte carnale di
quella forza. Quel fondamento simbolico, in realtà, rinvia alla sottostante forma
sociale di vita che lo alimenta. Si tratta, a ben vedere, di un rinvio non recettizio, in
base al quale il fondamento simbolico attinge a quella forma di vita razionale
assumendone, lungo il tempo che passa, tutte le successive evoluzioni. Ma che cosa è,
in tale contesto, il fondamento simbolico e che cosa è il simbolo? Per rispondere a
una tale domanda, è necessario istituire i lineamenti di una teoria del significato e, al
suo interno, di una teoria del significato simbolico. In una prima generalissima
prospettiva, diremmo che, affinché si dia un significato, occorrono tre elementi
costitutivi: una forza, una struttura ideale e/o affettiva e un corpo, là dove la forza è
l’elemento generatore, il significato la struttura leggibile da una coscienza che lo
rifletta e il corpo il modo di manifestarsi di un tale significato. Se da una teoria del
significato si intende passare, più specificamente, a una teoria del significato
simbolico, si trova che in quest’ultimo sono individuabili cinque elementi costitutivi:
una forza, un significato ideo-affettivo (cioè, congiuntamente mentale e emozionale),
un corpo, un qui e ora e un’istanza di durevolezza in quel qui e ora concentrata. In
questo senso, il significato simbolico è quel significato che non solo trasmette
l’esistenza di una forza, ma è esso stesso forza, che si concentra nel corpo specifico in
cui si manifesta. Se quel significato simbolico trasmettesse soltanto, trasmetterebbe
una mera notizia, ma quel significato simbolico non soltanto trasmette: è esso stesso
forza. Non solo. Questo significato-forza, che si dà in un corpo per manifestarvisi,
viene sperimentato dalla coscienza del fruitore come forza in atto, che accade qui e
ora, ma in un qui e ora in cui si viva la concentrazione di una durevolezza che sente
di debordare oltre il momento vissuto. Ciò è esemplarmente sperimentato nella
differenza fra il simbolo e il concetto: nel simbolo si vive il qui e ora, nel concetto
no. D’altra parte, se questo simbolo ha significato di simbolo sociale, alle cinque
caratteristiche delineate bisogna aggiungerne una sesta: il carattere della sua sociale
condivisione. Il significato simbolico perciò – in quanto evento-forza che si traduce in
un corpo, in un qui e ora e in una durevolezza concentrata – si realizza nel vissuto del
fruitore come forza di gravitazione, che attrae un duraturo sentire-operare,
esprimentesi, nella forma sociale, come duraturo e interiorizzato obbedire. In questa
prospettiva, premesso che della forza imperativa fa costitutiva parte il suo corredo
simbolico, tale corredo si pone, di diritto e di fatto, come fondamento persuasivo di
quella forza. Nel corso della storia la forza imperativa può dotarsi di fondamenti
simbolici diversi, che variano nel tempo, ma non può non dotarsene: essa deve
munirsi di un fondamento simbolico che, pur variando, è inevitabile e costitutivo.
Nella storia dei popoli, diverse, perciò, sono state le strutture persuasive attraverso
cui la forza imperativa, per saturare la sua intrinseca lacuna, ha cercato di
trasformarsi in duratura obbedienza. Potremmo indicarne, sulla falsariga di Eric
Voegelin, alcune: la forza del capo mongolo, in quanto esprime l’energia sottostante
dell’universo; la forza del re, in quanto esprime l’energia sottostante di una polis; la
forza dell’imperatore, in quanto esprime l’energia sottostante di un Dio; la forza del
monarca, in quanto esprime l’energia sottostante di Dio e della Nazione; la forza
dello Stato in quanto esprime l’energia sottostante dell’idea di popolo, e si potrebbe
continuare.
A ben vedere, nell’era dell’Illuminismo viene culturalmente elaborato uno specifico
rapporto tra la forza imperativa e il suo fondamento simbolico. Tale rapporto si
concentrerà intorno all’idea di una sovranità illuminata, nella quale la forza sovrana
deve essere caratterizzata dalla Ragione come suo limite e fondamento. Si porranno
così le basi per quel modello di forza che, introiettando un qualificato legame tra
Stato e Ragione, si chiamerà Stato di diritto, là dove il diritto diventa propriamente il
fondamento e il limite dello Stato, concentrando in sé la Ragione, intesa come diritto
della ragione. In sintesi, lo Stato di diritto viene a costituirsi come la forza sovrana
fondata sulla forza del diritto. In una tale prospettiva, la forza del diritto sarà espressa
dalla Legge, considerata come quella istanza razionale specifica che, nella sua
esteriore procedimentalità, si realizza attraverso norme pre-date, poche, scritte,
chiare, astratte, generali, stabili, coerenti, costituenti un ordine completo tale da
scongiurare la necessità di norme che seguano i comportamenti umani invece che
precederli. In tale contesto, la Legge, in quanto segnata dalle predette caratteristiche,
si configura come l’espressione positiva della Ragione, di quella Ragione che
costituisce, a sua volta, il limite e il fondamento auto-giustificativo della forza del
sovrano, cioè dello Stato. In realtà, dal punto di vista rigorosamente logico, una
Legge che, presentandosi come ordinamento, si pretenda pre-data e completa,
presumendo di poter prevedere tutti i casi possibili, si auto-propone, in realtà, come
forza che agisce ultra vires, cioè oltre le sue stesse possibilità. Non è possibile
prevedere tutti i casi possibili non soltanto dal punto di vista banalmente empirico,
ma dal punto di vista rigorosamente logico, perché non è possibile prevedere tutte le
condizioni di principio e di fatto, che costituiscono il presupposto ontologico di ciò
che la Legge imperativamente disciplina. Come già Bernhard Windscheid
nell’Ottocento sapeva nella sua teoria della presupposizione (1865) – la quale
mostrava di sapere qualcosa già prima delle teorie novecentesche di incompletezza di
Kurt Gödel (1931) –, un qualsiasi apparato imperativo e normativo strutturalmente si
svolge all’interno di condizioni presupposte non interamente prevedibili, che solo il
tempo potrà eventualmente far venire alla luce. Non è possibile, cioè, prevedere le
condizioni generali dentro cui opera una qualsiasi previsione, il che mette in
questione radicale non solo la capacità universale di quella previsione, ma la sua
stessa capacità di regolare ogni caso – reale e possibile – secondo un medesimo metro
e secondo una medesima ragione giustificatrice, capace di trattare equamente ogni
caso, cioè regolando in modo uguale l’uguale e in modo proporzionalmente disuguale
il disuguale. In questo contesto di riferimenti, una qualsiasi Legge – o meglio, un
qualsiasi Ordinamento – non riuscirà mai, alla luce di tutti i fatti che a quella Legge e
a quell’Ordinamento seguiranno, a presentarsi razionalmente fondata sulla base di
un’unica ragione giustificativa.
Il problema del necessario fondamento simbolico della forza imperativa subirà, nel
corso dei secoli, ulteriori evoluzioni, legate alla necessità di rispondere alle sempre
nuove esigenze che la forza statuale dovrà soddisfare per trasformarsi in obbedienza.
Esaminiamo rapidamente soltanto alcune delle modalità strutturali con cui la forza
statuale ha cercato di rispondere alle sue necessità di fondamento simbolico.
Una prima modalità strutturale è stata certamente quella di potenziare la forza
simbolica della Legge e del Diritto attraverso la forma di una Costituzione, espri-
mente in modo chiaro ed esplicito i fondamenti invalicabili dello Stato, e soprattutto
attraverso la forma di una Costituzione rigida, cioè non modificabile secondo i più
agevoli procedimenti con cui si modifica una qualsiasi legge ordinaria. Una seconda
modalità strutturale è stata certamente quella di garantire, attraverso la Costituzione,
alcuni fondamentali diritti di libertà, da intendere come diritti civili, intesi come
forme garantite di libertà negative, cioè di libertà rispetto a cui lo Stato non deve fare.
Una terza modalità strutturale è stata certamente quella di garantire, attraverso la
Costituzione, alcuni fondamentali diritti sociali, a cui corrisponderanno speciali
obblighi – da parte dello Stato – di un positivo facere, tali da costituire il fondamento
di quello che si chiamerà Stato sociale e, più tardi, Stato sociale di diritto. Una quarta
modalità strutturale sarà certamente quella per cui la forza imperativa si dichiarerà
democratica, e quindi fondata sulla volontà popolare e sul suffragio universale. Una
quinta modalità strutturale sarà quella per la quale la forma democratica si richiamerà
esplicitamente alla democrazia liberale, e perciò a una democrazia fondata, ancor
prima che sul consenso, sul dissenso, strutturalmente garantito e capace di sostituire il
precedente governo senza rivolgimenti violenti. Una sesta modalità strutturale sarà
quella per la quale la democrazia liberale si richiamerà alla difesa di diritti
fondamentali – civili, politici e sociali – garantiti a ogni cittadino attraverso l’azione
efficace di una Corte costituzionale, in grado, come struttura indipendente, di far
prevalere i diritti fondamentali dei singoli su ogni legge che eventualmente li abbia
violati.
Si tratta, in ogni caso, di modalità progressive con cui una forza imperativa, di
carattere statuale, ha cercato di darsi un fondamento simbolico per realizzare un
ordine sociale fatto di obbedienza e consenso.
Ma nel rapporto tra forza imperativa e ragione appare importante, a questo punto,
esaminare uno snodo cruciale. Quello che segna il discrimine fra tre modelli specifici:
la concezione politologica dell’ordinamento giuridico, la concezione giuspositivistica
e la concezione giusnaturalistica. Ma, per fare ciò, occorre sottoporre ad analisi i
significati del simbolico e del giuridico. E, a questo punto, diventano istruttive,
finanche spaesanti, le posizioni contrapposte di Hans Kelsen e di Carl Schmitt.
2. Una prospettiva del simbolico
Chiamiamo “simbolo” un significato-forza che si incarna in un segno e struttura un
campo gravitazionale, un campo di senso. Si tratta di un significato che, nel suo farsi
segno, è direttamente forza e non soltanto notizia di forza. Parliamo di un segno che
può essere un qualsiasi segno: visivo, uditivo, olfattivo, sensoriale tout court, ma che
può consistere anche in una rappresentazione mentale, o proposizionale, o verbale
(un’idea, una frase, una parola, etcetera). Una forma di una forza, che è corpo. Corpo
che può manifestare significati a più strati.
Non a caso diciamo campo di senso. Campo in un’accezione precisamente analoga
a quella del mondo fisico, energetico. Campo nel senso del campo di forze: luogo
gravitazionale – a dimensione interumana e intraumana – in cui in una forma (in una
“Gestalt”2) si strutturano dinamicamente fenomeni, vicende, trasformazioni, di cui
può compiersi una lettura rigorosa3.
Indipendentemente da quale sia la natura di questa forza – l’Archetipo di Jung,
l’Inconscio di Freud, il Ça di Lacan, l’Immaginario di Bachelard, etcetera – e
indipendentemente da chi o da che cosa ne sia la fonte (lo stesso “soggetto”, la
“natura”, il “divino”, l’“inconscio”, la “struttura desiderante”, etc.), il “simbolo” in
senso forte non è un mero denotante o designante semeiotico, ma è il risuonare di una
forza generatrice che, in quanto tale, produce gravitazione. Gravitazione non nel
fisico, ma nel fenomenologico, nel vissuto.
In una tale prospettiva, la “forza” non si dà necessariamente in questo o in quel
segno, perché può darsi in qualsiasi segno. Essa, però, al tempo stesso, deve poter
darsi in un segno. Che un segno in un contesto sia simbolo e in un altro non lo sia,
dice, contemporaneamente, l’invarianza di questo dover poter darsi e la varianza di
questo poter darsi. Un “simbolo”, infatti, può, in quanto simbolo4, nel corso dei
passaggi storici che vive, morire, diventando una mera traccia culturale del passato (è
la sua morte nel tempo), o può, nel corso dei passaggi interculturali, opacizzarsi al
vissuto, perdendo intensità simbolica e riducendosi a mera traccia antropologica (è la
sua morte nello spazio).
Ciò non toglie che il segno simbolico, 1) da un lato, nel contesto storico-culturale
di riferimento, concentri una forza reale che struttura un campo di senso; 2) dall’altro
lato, nel corso delle trasformazioni del culturale, possa essere sostituito da altri segni
nella capacità di risonare di quella forza; 3) infine, alla varianza culturale dei mille
2 Si pensi alla lettura dei fenomeni psicologici e sociali che, per esempio, ha dato il gestaltista Kurt Lewin. Si veda,
in proposito, K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, Editrice Universitaria, Firenze 1965. 3 Ci permettiamo rinviare, in proposito, a G. Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997. 4 In senso forte, cioè. Per una lettura fenomenologica del simbolo, vedi S. Briosi, Il simbolo e il segno, Mucchi,
Modena 1993.
possibili segni espressivi si accompagni l’invarianza simbolica della forza che deve
poter esprimersi in segni.
Una specifica scommessa epistemologica può consistere, oggi, nel costruire una
“fisica sociale del simbolico” quale fisica della percezione e dell’azione sociale. Ciò,
per certi versi, in analogia con le modalità con cui nel Novecento la
Gestaltpsychologie si è cimentata nella ricerca di una fisica del “percettivo”: là dove
indici strutturali invarianti ed esperienza passata variabile vanno a costituire
specifici nodi diffrattivi e ricostitutivi del guardare 5 . Si tratterebbe, qui, di
individuare nodi diffrattivi e ricostitutivi del percepire e dell’agire sociale. Come la
ragione epistemologica della Gestaltpsychologie ha cercato gl’indici duri (ossia
indipendenti dalla consapevolezza) delle diffrazioni che stanno a fondamento del
costituirsi dell’oggetto percepito, allo stesso modo una epistemologia del simbolico
può costituire una fisica del simbolico come analisi dei modi e dei segni
destrutturativi e ristrutturativi del senso. Si tratta, com’è noto, di una prospettiva
epistemologica su cui ha lavorato, nel Novecento, Kurt Lewin.
A ben guardare, la prospettiva simbolica è stata sempre, dagli opposti versanti del
logico e dell’empirico, radicalmente sospettata. Sospettata di inserire nella logica
rigorosa della scienza la fenomenologia friabile dell’illusione. Ma essa, la prospettiva
simbolica, pur sospettata di illusorietà, lascia alle altre due prospettive – quella logica
(analitica) e quella empirica (sperimentale) – il problema dell’esistenza di quei fatti di
cui esse non riescono a rendere ragione, di quei fatti la cui ragione fa apparire, invece,
in modo nuovo la prospettiva simbolica. Sicché la prospettiva simbolica si rivela alle
altre due in un’ottica in cui il simbolico appare, per così dire, in controluce, trasformato
dal diverso modello epistemologico che lo guarda. Infatti:
1) Nella prospettiva analitica, il “simbolico” appare come “finzione”. Si vede
operare, al suo posto, un “come se”, un “fare finta che”.
2) Nella prospettiva empirica, il “simbolico” appare come un effetto da fata
morgana. Si vede operare, al suo posto, un’illusione. Si assiste, cioè, a una sorta di
5 Per un contributo critico, vedi D. Katz, Gestaltpsychologie, Benno Schwabe & Co, Basilea 1948, tr. it. di Enzo
Arian, La Psicologia della Forma, Boringhieri, Torino 1973.Vedi, anche, la citata lettura gestaltica di Kurt Lewin.
illusione efficace (o, in alcuni casi, per dirla con Popper, a una profezia che si
autoadempie).
Nell’eventuale intersezione delle due prospettive (l’analitica e l’empirica) sul
simbolo, si ha la percezione cognitiva di un quid che, per così dire, funziona perché
finziona. Si tratta, a ben vedere, qui, del “fingere” latino nel suo doppio significato.
Ora, considerati gli esiti nelle due prospettive di cui sopra (il simbolico in quanto
ha lo status logico del “come se” e il simbolico in quanto ha lo status empirico
dell’“effetto sperimentale da illusione”), il simbolico, per l’autonomia con cui si
autocomprende, non si coglie né come l’uno né come l’altro modo. Ma, d’altro canto,
capire come esso epistemologicamente appare agli altri versanti è capire l’uno, l’altro
e lui stesso.
C’è da domandarsi: 1) Che cosa, nel livello della prospettiva logico-analitica, fa sì
che la ragione usi come selettore il come se e non gl’infiniti possibili altri? Qual è,
cioè, il criterio selettore che sceglie questo criterio selettore? E c’è da domandarsi,
ancora: 2) Che cosa, nel livello della prospettiva empirico-sperimentale, fa sì che alla
ragione un effetto osservabile appaia come un’illusione? Una risposta a tali domande
non è possibile se non si apre un altro spazio prospettico: lo spazio del “simbolico”,
appunto.
Collocata in campo, per così dire, una figura solida a più facce (collocato, per
esempio, un cristallo), occorre non solo poter vedere la faccia del simbolico a partire
dalla faccia logica e da quella sperimentale, ma anche poter vedere le loro prospettive
intersecate. E, fra queste, la stessa faccia del simbolico a partire da sé.
La prospettiva simbolica introduce alla lettura di una forza, fenomenologicamente
percorsa, che si esprime a più strati6. Si tratta dell’espressione simbolica intesa come
espressione di forza, colta nella struttura a catena dei suoi significati.
Rispetto a una tale forza, il sapere analitico potrà avere l’illusione che il come se
sia sostituibile ad libitum con un qualsiasi altro come se; il sapere empirico potrà
credere che l’effetto sperimentale osservato sia una mera illusione; il sapere
6 Su una lettura multifattoriale del simbolico, vedi Sandro Briosi, Il segno e il simbolo, cit.
empirico-analitico (logico-sperimentale) potrà figurarsi, da parte sua, che l’“effetto-
illusione”, in quanto riconducibile al “come se”, sia dissolvibile col semplice gesto di
una razionale azione illuminatrice. Ma è il sapere simbolico a mostrare come la
comprensione di un intero – interumano e intraumano – non possa giammai esser
fatto consistere nella comprensione dei suoi pezzi separati.
Il simbolico, a seconda delle tesi che l’indagano, può decifrarsi in relazione a vari
criteri diversificati:
1) in relazione all’assenza che esso richiama. In questo senso, il simbolico si dà
come la «capacità di rendere effettuale, cioè produttrice di effetti reali, qualcosa che
sotto l’aspetto della presenza si è ormai dileguata» (Domenica Mazzù, nelle
coordinate di Freud);
2) in relazione alla fattualità che al simbolico si connette. In questo senso, il
simbolico si dà come quella capacità di “creazione di senso” che, nominando la
fattualità, la inserisce in un progetto che l’ingriglia in un “oltre”: per così dire, in un
controfattuale che “proietta” il fattuale nell’oltrefattuale; in un “rinominare” che si
dà quale prolessi costantemente pro-duttiva e ri-produttiva (Bruno Romano, nelle
coordinate di Lacan, di Heidegger, di Hegel)7;
3) in relazione alla costituzione di spazio che il simbolico produce (Luigi Alfieri,
nelle coordinate di Nietzsche; vedi, in questo senso, anche la ricerca di Roberto
Escobar)8;
4) in relazione alla persuasività retorica del potere sullo spazio e sul tempo, che il
simbolico innesta (Giulio Chiodi, nelle coordinate d’una teoria critica della società)9;
5) in relazione all’energia sociale destrutturatrice (e ristrutturatrice) di cui il
simbolico è vettore (Claudio Bonvecchio, nelle coordinate di Jung)10;
6) in relazione al mondo di figure di cui il simbolico è generatore (Domenico
7 B. Romano, Per una filosofia del diritto nella prospettiva di Jacques Lacan, Bulzoni, Roma 1991. 8 L. Alfieri, Il Terzo che deve morire, in AA.VV., Simbolica politica del Terzo, a cura di Giulio M. Chiodi,
Giappichelli, Torino 1996, p. 25 ss. Vedi anche R. Escobar, Rivalità e mimesi: lo straniero, in AA.VV., La contesa tra fratelli, cit., p. 337 ss.
9 G. M. Chiodi, Sul simbolico nelle scienze politico-sociali, in AA.VV., L’immaginario e il potere, a cura di Giulio M. Chiodi, Giappichelli, Torino 1992, p. 7 ss.
10 C. Bonvecchio, Bellum omnium contra omnes. Il simbolico e la guerra postmoderna, in AA.VV., Il nuovo volto di Ares o il simbolico nella guerra postmoderna, Cedam, Padova 1999, p. 61 ss.
Corradini, nelle coordinate di una poesia e di una simbolica narrante: vedi, in un tale
contesto di approcci, fra gli altri, i contributi di Bachelard, Kerenyi, Eliade, Zolla)11;
7) in relazione al configurarsi dei nomi in cui il simbolico si sedimenta e si cela
(Carlo Sini, nelle coordinate di Cassirer e oltre)12;
8) in relazione all’uomo come animale onirico (Franco Fornari)13;
9) in relazione all’uomo come animale segnico (connotato, da un lato, dal bisogno
di produrre segni – “fecondità” – e, dall’altro, da quello, simmetrico, di interpretarli
– “ermeneuticità” –): in riferimento, da un lato, all’umano non “dover fidarsi” ma
“dover poter fidarsi”, e, dall’altro, all’umano non “dover ricevere fiducia” ma “dover
poter ricevere fiducia”;
10) in relazione a un’analisi della logica primaria – “simmetrica” – che nel
simbolo psicanaliticamente si esprime, analisi da condurre fino in fondo con
procedura rigorosa14;
11) in relazione a uno studio della struttura segnica vista come un combattersi di
significati che fanno del simbolico una forma a più strati: una “nebulosa a risonanze di
significato” (Umberto Eco) o una “vertigine di rinvii” (Umberto Galimberti);
12) in relazione a una prospettiva che, superando l’episteme “cartesiana”, colga la
vita emozionale come intrinseca alla vita mentale, ed entrambe – vita emozionale-
mentale – come intrinseche alla vita reale15;
13) in relazione a un’ottica che tematizzi l’essenziale struttura gnoseologica del
“conferimento/ritrovamento di senso” (il dover poter farlo) nella percezione cognitiva
dei segni (tracce, rappresentazioni mentali, oggetti): sia in quanto “inventati”, sia in
quanto “trovati”, sia in quanto prodotti da altri (“ermeneuticità”), sia in quanto prodotti
da sé (“fecondità”), sia in quanto coincidenti col gruppo sociale (costitutività della
11 D. Corradini, Miti e archetipi. Linguaggi e simboli della storia e della politica, ETS, Pisa 1994. Si veda anche: L.
Alfieri-D. Corradini, Abissi. Meditazioni su Nietzsche, K. Kerényi, Umgang mit Göttlichem e Wesen und Gegenwärtigkeit des Mythos, Albert Langen – Giuffrè, Milano 1992. Per un fondamentale approccio mitico-narrativo al simbolico, vedi Karl Kerényi, Il rapporto col divino, tr. it. di Maria Anna Massimello, Einaudi, Torino 1991.
12 C. Sini, Il simbolo e l’uomo, EGEA, Milano 1991. Per il fondamentale approccio cassireriano, E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1988.
13 Per una lettura simbolica delle Istituzioni, vedi F. Fornari, Introduzione a una socioanalisi delle istituzioni psichiatriche, in Rivista di psicoanalisi, XVII (1971), ora in F. Fornari, Simbolo e codice, Feltrinelli, Milano 1976.
14 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981. 15 A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995 (vedi spc. p. 336 ss).
“comunità”), sia in quanto coincidenti col sé (costitutività della “singolarità”): una
prospettiva che colga in questa ricerca di senso la forza generatrice di un campo di
vissuto a struttura gravitazionale. Dove si assiste, in realtà, a un continuo trasformarsi
di centri di energia cinetica in centri di energia potenziale e viceversa16;
14) in relazione a una prospettiva che veda il simbolico anche nel puro fatto
segnico, a più o meno forte condivisione sociale e/o naturale (Elias, Sebeok)17.
Molte e disparate, quindi, le interpretazioni del simbolico, e molte le
interpretazioni dei suoi rapporti con l’analitico e con lo sperimentale. Compito del
prossimo futuro sarà, forse, una possibile rimessa in circuito di queste molteplici –
ma concorrenti e, forse, componibili – piste. Non solo. Innumerevoli e importanti
possono essere, in proposito, i terreni di sperimentazione costituiti dalle opere
letterarie e dalle scienze che le riguardano. Si pensi, solo a mo’ di esempio, al Don
Chisciotte del Cervantes, alle figure di Borges, alle rappresentazioni del “Potere” di
Canetti18.
3. Una genealogia del simbolico
C’è forse un luogo in cui il “simbolo” può meglio – in modo più conciso e
pregnante, cioè – rivelare le sue più specifiche matrici. È il luogo del “sacro”.
Intendiamo riferirci, qui, in modo particolare, all’analisi che ne svolge Rudolf Otto
nell’ormai classico Il sacro19.
Il “sacro” – detto da Otto anche il “santo” – è, per lui, innanzitutto, il “numinoso”.
Si tratta di quel “numinoso” che è il “sovrappotente”20, il “tremendo”21, il “deinós”22:
16 Sul punto, ci permettiamo rinviare a G. Limone, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 35 ss.
e p. 31 ss. 17 N. Elias, Teoria dei simboli, il Mulino, Bologna 1998; Id., Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna 1986; Th. A.
Sebeok, Sguardo sulla semiotica americana, Bompiani, Milano 1992. 18 Per un esempio efficace vedi, a proposito del Signore delle mosche di Goding, il contributo di Luigi Alfieri in
AA.VV., La contesa tra fratelli, Giappichelli, Torino 1992, p. 227 ss. 19 R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1989. 20 Ivi, p. 28 e p. 30. 21 Ivi, p. 24.
ciò verso cui e a partire da cui l’uomo non può far altro che vivere l’assoluta propria
inermità dipendente in quanto condizione del nulla23. Il “numinoso”, in questo senso,
è ciò che assolutamente non può essere detto attraverso determinazioni razionali. Di
più. Il “numinoso” è ciò che non può essere detto neanche attraverso determinazioni
ontologiche, fossero pure determinazioni ultrarazionali24. Unilaterale ed erroneo
sarebbe, quindi, in una tale visione, tradurre “santo” con “trascendente”, ossia con
quella specifica connotazione ontologica che, per così dire, pur indicando il
“soprarazionale”, lo indica in modo pur sempre “razionale”25. Il “numinoso” è, nel
suo fondo, una reazione radicale dell’anima non spiegabile per concetto26. Quella
reazione che si accompagna «al momento dello sgomento»27. Otto dice anche: «il
fondo dell’anima». Un a priori.
Per intendere bene una tale prospettiva, bisogna capire come il Nostro critichi lo
stesso sentimento di dipendenza che Friedrich Schleiermacher colloca a fondamento
del fatto religioso, perché un tale sentimento è considerato – da Otto – anch’esso
incapace di capire il numinoso. Si tratta di un sentimento, infatti, che individuerebbe
il “numinoso” a partire dalla corrispondenza con una troppo generica situazione di
creaturalità 28 , laddove il “numinoso” è “una cosa” che «nonostante tutte le
somiglianze e tutte le analogie, è qualitativamente diversa da tutti i sentimenti
analoghi»29.
Per intendere appieno una simile prospettiva, bisogna capire come Otto, mentre
critica la stessa «sedicente teologia dialettica»30 e il suo discorso sull’“Altro”, afferma
che «l’autentico mirum è [...] “il completamente altro”, il thàteron, l’anyad,
l’alienum, l’aliud valde, l’estraneo straniero [...] assolutamente fuori dell’ordinario e
con l’ordinario in contrasto, e ricolmante quindi lo spirito di sbigottita sorpresa»31.
22 Ivi, p. 51. 23 Ivi, p. 30 ss., p. 94, pp. 36-37. 24 Ivi, p. 62. 25 Ivi, p. 62. 26 Ivi, p. 22. 27 Ivi, p. 21. 28 Ivi, pp. 22-23, p. 48, p. 142 e passim. 29 Ivi, p. 20. La sottolineatura è nostra. 30 Ivi, p. 186. 31 Ivi, p. 35.
Davanti a un simile evento, «le raffigurazioni degli spiriti e le concezioni affini sono
piuttosto tutte forme posteriori di “razionalizzazione”, che tentano di chiarire in una
qualsiasi maniera l’enigma del mirum, e hanno sempre l’effetto di indebolire e
assottigliare l’esperienza stessa. Da essa rampolla non già la religione, bensì la
traduzione razionale della religione, la quale finisce poi in una così massiccia teoria,
con interpretazioni così banali, che il mistero ne è decisamente cacciato»32.
Tutto il lavoro compiuto dall’interpretazione del numinoso si rivela, in realtà, come
lo sforzo malcelato di tradurre un “irrazionale” in “schemi razionali”. «Le nozioni e i
concetti razionali che si sviluppano parallelamente a questo momento irrazionale
dell’affascinante – [il «tremendo che repelle, ricco di majestas33»] – e lo traducono in
schemi sono l’Amore e la Misericordia, la Pietà, il Conforto; tutti elementi “naturali”
della comune esperienza psichica, solamente pensati nella perfezione»34.
Il “numinoso”, per la sua sovrappotenza ingovernabile, da un lato, può conoscere
un climax discendente di “addolcimenti” emotivi (climax che si sviluppa nel
trasmutarsi evolutivo e continuo da un sentimento a un altro «in rapporto col
cambiamento delle circostanze in cui mi muovo, attraverso il lento affievolirsi
dell’uno e l’acuirsi dell’altro»35: «anche il sublime è genuino “schema” [ossia
traduzione concettuale] del sacro stesso»36).
Dall’altro lato, lo stesso “numinoso” abbisogna, per così dire, di un lavoro
progressivo di neutralizzazione. Tutto il lavoro di traduzione concettuale – sia la
riconduzione complessiva a un insieme di categorie ontologiche, sia la riconduzione
complessiva a un insieme di categorie razionali, sia l’articolazione in distinte
categorie ontologiche e razionali – tutto questo lavoro si rivela, in realtà, in quanto
fenomeno di progressiva “comprensione”, fenomeno di progressiva neutralizzazione
(«Di uno spirito “compreso” non si ha più terrore, come mostra lo spiritismo. Cessa
pertanto di costituire argomento di indagine religiosa»37). E, si potrebbe aggiungere,
32 Ivi, pp. 35-36. Il corsivo è nostro. 33 Ivi, p. 43. 34 Ivi, p. 43; vedi anche p. 29. 35 Ivi, p. 55 e p. 56. 36 Ivi, p. 58; vedi anche p. 57 e p. 54. 37 Ivi, p. 185.
se la ragione è comprensione progressiva del numinoso come primus movens
dell’uomo, che all’uomo fa problema, l’elaborazione dei concetti primi dell’uomo –
esprimentesi nei concetti ontologici primi – non è se non elaborazione delle prime
articolazioni del numinoso: «...le idee razionali dell’assolutezza, della completezza,
della necessità, della sostanzialità come quella del buono, quale valore assoluto e
oggettivamente, validamente cogente, non si “evolvono” affatto da una qualsiasi
percezione sensibile. Ed una qualsiasi “epigenesi” o “eterogonia”, come del resto
qualunque altra formula sia adoperata di compromesso e di incertezza, non fanno
altro che mascherare il problema. Il rifugiarsi nel greco non è qui, come in molte altre
occasioni, se non un confessare la propria insufficienza. Noi veniamo respinti da ogni
percezione sensibile, per ripiegarci su quel che è indipendente da ogni “esperienza
esteriore” e poggia sulla “ragion pura” dello spirito con il suo potere più originale»38.
In realtà, l’“assoluto”, il “necessario”, il “trascendente”, pur indicando il
“soprarazionale” – l’“irrazionale” – sono, a guardare a fondo, idee razionali. Il
“modo” – neutralizzando il “come” – trasforma il “che”.
Si tratta, a ben vedere, del surrettizio e progressivo processo di «moralizzazione
del divino»39: là dove «attraverso tutte le molteplici sembianze si effonde, collegato
intimamente, un impulso singolarmente potente di un Bene che solamente la religione
conosce e che è sostanzialmente irrazionale. Lo spirito lo avverte alla maniera di un
presentimento e lo scopre attraverso oscuri e insufficienti simboli espressivi»40.
L’uomo, consegnato al fatto della propria soccombenza al numinoso – alla
irresistibile sua tremendità – deve poterglisi affidare. Non può non farlo. Deve poter
(anche) scegliere di farlo. A ben vedere, tutto il percorso di discussione medievale
intorno ai concetti di “Potestas absoluta” e di “Potestas ordinata” – tutto il plurisecolare
dibattito fra il “volontarismo teologico” e il “razionalismo teologico” (“Dio vuole il
Bene perché è Bene oppure, all’inverso, il Bene è Bene perché Dio lo vuole?”) – non
sono che un travagliato commentario a questo problema, in cui giocano non solo
38 Ivi, p. 114. 39 Ivi, p. 134. 40 Ivi, p. 48.
tonalità interpretative variegate ma Stimmungen diverse di temperamenti teoretici.
Se il “numinoso” è, nella sua pienezza, il “mistero tremendo” della
“sovrappotenza” – ciò che è attraente e terrifico, «ciò che sgomenta», l’«irrazionale»
nella sua radicale pienezza41 –, d’altra parte, la ricerca dei predicativi “razionali” del
“numinoso” ne costituisce una sostanziale interpretazione neutralizzatrice42: «Anche
se i predicati razionali sono generalmente collocati in prima linea, essi esauriscono
così poco la nozione integrale del divino, da risultare validi solo come attributi di un
irrazionale»43.
Un possibile banco di prova è, in questo senso, l’impresa filosofica di Hegel. Dice
Otto: «In Giovanni il cristianesimo assimila dalle religioni rivali luce e vita e a pieno
diritto, poiché solo nel cristianesimo luce e vita si trovano a casa loro. Ma che cosa
sono luce e vita? Chi non lo sente è di legno. Ma nessuno può dirlo. Sono
un’esaltazione dell’irrazionale. Non si creda che tutto ciò non sia vero anche per
quell’inciso giovanneo, al quale i razionalisti amano riportarsi con più vivo
compiacimento: “Dio è Spirito” (IV, 24). A queste parole faceva appello Hegel per
riconoscere e proclamare il cristianesimo come la religione più sublime, perché la
genuinamente spirituale, poggiante cioè su Dio come Spirito, vale a dire come
assoluta ragione. Ma questo si chiama grossolanamente fraintendere poiché, parlando
di Spirito, Giovanni non pensa affatto all’assoluta ragione, bensì a ciò che è in
assoluto contrasto con tutto il mondo, con ogni carne, all’essenza cioè puramente
celestiale e miracolosa, a tutto ciò che è misterioso e sorprendente, a ciò che è al di là
di ogni comprensione e di ogni intelligenza umana. Ha di mira cioè lo Spirito che
“dove vuole, soffia. Tu cogli molto bene la sua voce, ma non sai donde venga e dove
si diriga”... Onde quell’inciso, dall’apparenza tutta razionale, richiama nella maniera
più vigorosa l’irrazionale dell’idea biblica di Dio»44.
Si capisce, quindi, come «nell’esperienza religiosa di Lutero [...] è l’armonia dei
41 Ivi, p. 68. 42 Ivi, p. 54, p. 62, p. 71, p. 48, p. 16. 43 Ivi, p. 16. 44 Ivi, p. 98.
contrasti che forma l’intima essenza nella religione di Lutero»45.
L’«irrazionale» di Otto – il “numinoso” in quanto “irrazionale” – non è, quindi, il
“non razionale” in quanto opposto al “razionale”; né è il “non razionale” in quanto
distinto dal razionale; non è nemmeno il “non razionale” in quanto “sopra-razionale”:
ma è, invece, la sovrappotenza percepita e vissuta in quanto anteriore a tutte queste
distinzioni/articolazioni. Il numinoso è – da un punto di vista che sappia di essere ex
post, a valle della loro possibile articolazione – il venire a coincidere e a combattersi
di quelle specifiche articolazioni di cui, guardando appunto ex post, si è tentati, a
torto, di ritenere la preesistenza. Siamo, anche da questo punto di vista, davanti al
venire a coincidere e a combattersi di dimensioni risonanti insieme: davanti a un
“simbolo”46.
Potrebbe anche dirsi: l’esserci umano, sconvolto dalla forza del numinoso – in
quanto lo nomina e in quanto attiva, nel nominarlo, la “funzione simbolica” che lo
dice (quella funzione di cui, nel suo richiamo a Lacan/Heidegger/Hegel, parla Bruno
Romano) – lo “trova” simbolo. Lo inventa/trova come “simbolo”. Come espressione
di una forza che cerca una forma – un segno un nome una rappresentazione mentale
un’idea – che ne ri-generi e faccia risonare la forza.
In questa prospettiva gli attributi ontologici di “Potenza”, di “Ordine”, di “Bene”,
di “Giusto”, di “Bello” si rivelano, in realtà, progressive enucleazioni – “estrazioni” –
di idee “razionali” dal costato del numinoso. Mettendo il “numinoso” in regolato
assetto di “ragione”. E potremmo, qui, accorgerci di aver nominato – per un caso che
non è un caso – alcuni dei medievali “trascendentali” dell’“Essere”.
Ma che cosa sono queste progressive estrazioni dal costato del Numinoso? Esse
non sono, in realtà, meri concetti razionali: sono simboli. La Potenza è simbolo.
L’Ordine è simbolo. Il Bene è simbolo. Il Giusto è simbolo. Il Bello è simbolo. Sono
“rappresentazioni mentali” – segni – in cui si dà e risuona, del simbolo, una forza
fascinatrice.
Ma che cosa accade se questi “simboli”, razionalmente distinti, vengono riconnessi
45 Ivi, p. 104. 46 Ci permettiamo rinviare a G. Limone, Dimensioni del simbolo, cit.
al loro fuoco comune? Che cosa accade nell’“intersecarli”? Dire “Ordine” della
“Potenza” significa dire che in essa è leggibile una Lex (ossia: non le appartiene il
Tremendum dell’Imprevedibile). Dire “Bene” dell’“Ordine” significa dire che in questa
Lex è leggibile un “Bene”, un “Giusto” (ossia: non le appartiene il Tremendum del
Male). Dire “Bello” di questo “Giusto” significa dire che il suo “Fascinare” è positivo
(ossia: non gli appartiene il Tremendum dell’Orrido). Sono le Indistinzioni tremende
che vivono negli Dei indoeuropei di cui si è occupata la più agguerrita critica
antropologica (vedi Kerenyi, Dumézil, Zimmer, Eliade, etc.)47.
Ma dire questi attributi nella loro distinzione (formale, o modale, o accidentale) –
se non nella loro separazione – significa dire che questi attributi possono essere còlti
anche nella loro relativa autonomia (dire “Potenza” non significa necessariamente
dire “Ordine”; dire “Ordine” non significa necessariamente dire “Giusto”; dire
“Giusto” non significa necessariamente dire “Bello”). Non solo. Impiegare questi
attributi significa dire che il “Numinoso” è stato messo in assetto di ragione. In
articolato, addomesticato, neutralizzato assetto di “Ragione”.
È evidente che – in questa specifica forma in cui l’emozione, il fatto e il valore si
dànno come un tutt’uno indistinto nella “reazione radicale dell’anima”, anteriore a
ogni articolazione – in questa forma la distinzione razionale moderna tra “fatto” e
“valore” non ha senso. E si rivelerebbe anzi, in questo punto specifico, connotata da
una paradossale fallacia: una fallacia razionalistica che deriva dalla tentata
cancellazione della potenza energetica di cui ritiene di parlare.
In sintesi, la genealogia del simbolico dal numinoso ci fa scoprire che una potenza
energetica non può essere tradotta in semplici forme concettuali senza che la stessa
potenza sia tradita. Il simbolo, l’espressione simbolica intende trasmettere quella
forza rispetto alla quale il concetto non è adeguato.
4. Due criteri indipendenti: il grado energetico e il tratto identitario
47 Vedi, fra gli altri, G. Dumézil, Gli dei sovrani degl’indoeuropei, Einaudi, Torino 1985.
Ci preme, a questo punto del discorso, istituire due criteri indipendenti. La potenza,
se si trae spunto dal discorso di Otto sul numinoso, può declinarsi secondo due criteri
indipendenti fra loro. Il primo criterio istituisce una distinzione per tratti identitari; il
secondo una distinzione per grado energetico. In base al primo criterio,
distingueremmo una potenza assoluta, un ordine (inteso come potenza ordinata) e una
giustizia (intesa come potenza ordinata, il cui ordine sia giusto). In base al secondo
criterio, distingueremmo una scala in cui al primo livello si trova l’energia, al
secondo livello si trova l’idea intesa come traccia energetica e al terzo livello il
concetto come traccia spenta e conclusa di quella energia e di quella idea. I due
criteri, pur indipendenti fra loro, vanno ulteriormente guardati nel loro incrocio.
Consideriamo innanzitutto che, in base al primo criterio, la potenza rappresenta il
tratto identitario del religioso e/o del politico, l’ordine rappresenta il tratto identitario
del diritto e l’ordine giusto il tratto identitario dell’etica, dell’etica in quanto giustizia
interiorizzata. In un tale contesto di riferimenti, la potenza, tratto distintivo del
religioso e/o del politico, si declinerà secondo il grado dell’energia, dell’idea e del
concetto; e, secondo la stessa struttura, si declineranno l’ordine (come istanza
giuridica) e la giustizia (come istanza etica). Tutto ciò significa che il potere politico,
il diritto e la giustizia potranno declinarsi secondo tre distinti gradi (energia, idea,
concetto). L’energia, così, progressivamente si depotenzia in idea e in concetto. Essa,
nel depotenziarsi in idea, lascia traccia di sé all’interno di un noema che, da un lato,
conserva un minimo energetico e, dall’altro, si apre a una direzione, incarnandosi in
un contenuto noematico senza chiudersi in una forma completa. Al primo grado
energetico si realizza l’accadere di una potenza cui corrisponde la scossa di un
vissuto; al secondo grado energetico si realizza un contenuto noetico aperto e
direzionato; al terzo grado energetico si realizza un contenuto noetico definito e
completo. Esempio istruttivo di questo paradigma può essere dato dal tratto
identitario del diritto, che nel suo grado energetico massimo è valore, nel suo grado
energetico intermedio è principio e nel suo grado energetico minimo è norma48.
Naturalmente, stiamo qui parlando del “valore” non come semplice noema, ma come
potenza vissuta di cui si sente la scossa emozionale in atto. In un tale contesto e in
una tale scala, il valore si incarna attraverso quei princìpi che sono un apparire
dell’idea e s’incarna, in un passo ulteriore, in quelle norme che sono un precisarsi e
circostanziarsi del concetto. In definitiva, il valore sta al principio e alla norma come
la potenza emozionale sta all’idea e al concetto. La potenza del politico può pertanto
guardarsi secondo il grado dell’energia, dell’idea o del concetto, così come accade
dell’ordine in cui si sostanzia il diritto e dell’ordine giusto in cui si sostanzia l’etica.
In un tale contesto di riferimenti, il primo grado esprime il livello simbolico, il
secondo grado segna il livello ideale e il terzo grado definisce il livello concettuale.
Potremmo anche dire, in una tale prospettiva, che il primo grado esprime il livello del
simbolico forte e il secondo grado il livello del simbolico debole, laddove nel terzo
grado il simbolico, depotenziandosi, si spegne. Dal primo livello al terzo un’energia
si spegne in un noema concluso; dal terzo livello al primo un noema si apre e acquista
forza di vissuto. In una tale ottica, quando si parlerà di potere politico (nel senso della
potenza), di diritto (nel senso dell’ordine) e di etica (nel senso della giustizia),
bisognerà precisare a quale livello energetico ci si colloca nell’impiegare questi nomi.
L’intera prospettiva qui delineata potrà rappresentarsi sinotticamente secondo un
quadro in cui in una prima riga saranno collocati i tre tratti distintivi (potenza, ordine,
giustizia), mentre in una seconda e in una terza riga saranno indicati i livelli del loro
progressivo depotenziarsi (energia, idea, concetto). In una tale rappresentazione
s’incroceranno così i due criteri, fra loro indipendenti, dei tratti identitari e del grado
energetico di riferimento.
In un tale quadro d’insieme, per quanto riguarda il diritto, distingueremo pertanto
un vissuto dell’ordine giuridico (livello simbolico in senso forte), un’idea dell’ordine
giuridico (livello simbolico in senso debole, quello dei princìpi) e un concetto
48 Su questo percorso ci permettiamo richiamare G. Limone, Tra il principio dell’intero e il principio dell’eccezione:
l’equità dell’etica, l’etica dell’equità, in L’era di Antigone. L’etica dell’equità, l’equità dell’etica, Vol. 4.1, a cura di Giuseppe Limone, Quaderni del Dipartimento di Scienze giuridiche, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 9-44.
dell’ordine giuridico (livello dell’ordine normativo concreto).
Proponiamo, per una migliore comprensione del percorso, la seguente tavola sinottica:
5. Una prospettiva del giuridico
POTENZA
(POLITICA)
ORDINE
(DIRITTO)
GIUSTIZIA
(ETICA)
ENERGIA VISSUTO DI POTENZA
(POTERE POLITICO
COME FORZA IN
ATTO)
VISSUTO
DI ORDINE
(ORDINE
COME PIANO
DEI VALORI)
VISSUTO
DI GIUSTIZIA
(ORDINE
GIUSTO COME
VALORE)
IDEA IDEA DI POTENZA
(POTERE POLITICO
COME PRINCIPIO)
IDEA DI
ORDINE
(ORDINE
COME PIANO
DEI PRINCIPI)
IDEA DI
GIUSTIZIA
(ORDINE
GIUSTO COME
PRINCIPIO)
CONCETTO CONCETTO
DI POTENZA
(POTERE POLITICO
COME COMANDO
CONCETTUALIZZATO)
CONCETTO
DI ORDINE
(ORDINE COME
PIANO DELLE
NORME)
CONCETTO DI
GIUSTIZIA
(ORDINE
GIUSTO COME
CONCETTO)
Per cogliere più significativamente l’incrocio fra il “simbolico” e il “giuridico”,
preferiamo sperimentare, in un tale contesto di premesse, la teoria analitica dell’au-
tore che forse più potentemente degli altri non si presterebbe a quest’incrocio: il
teorico del diritto Hans Kelsen. Talvolta, affrontare il leone nella sua tana è il miglior
modo per saggiarne la ferocia.
Vediamone uno dei punti capitali: la cosiddetta “norma fondamentale”. La “norma
fondamentale” di Kelsen costituisce, per molteplici aspetti, un paradosso. Essa ha
attirato gl’interessi e i fulmini dei critici più agguerriti, critici che hanno preferito, per
saggiare la teoria kelseniana, proprio intorno a questa “fondamentalità” stringere
l’assedio. La norma fondamentale è un paradosso. Anzi, un labirinto paradossale. La
sua “sperimentazione mentale” è, però, produttiva. Essa ci consente di guardare in
controluce Kelsen e i suoi critici. E, forse, ci consente di chiarificare, attraverso una
scomposizione prismatica di Kelsen, la distinzione che la teoria politica cerca fra
“obbligo politico” e “obbligo giuridico”. Anzi: fra obbligo giuridico, obbligo politico
e obbligo morale.
In sede analitica, il primo paradosso è, come è noto, quello del potere: si obbedisce
perché c’è il potere o c’è il potere perché si obbedisce? Oppure, nei termini di Karl
Marx: è il re che fa i sudditi o sono i sudditi che fanno il re?
Ma il problema della “norma fondamentale” kelseniana è più complesso. Essa,
infatti, come è noto e come Kelsen più volte precisa, non è “posta” dal potere, ma
“presupposta” dallo scienziato del diritto.
È noto che, in questa chiave, viene scartata la tesi interpretativa – che per via obliqua
sempre si riaffaccia (vedi lo stesso Capograssi su Kelsen49) – per la quale tesi la
“norma fondamentale” fonderebbe il sistema giuridico posto o, addirittura, fonderebbe
il potere costituito che si è imposto. A una simile tesi, che contesta a Kelsen di fondare
il diritto sulla mera potenza, Kelsen sempre risponderebbe: «La norma fondamentale
della dottrina pura del diritto non è affatto un diritto diverso dal diritto positivo, ma è
49 G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, in Id., Opere, vol.V, Giuffrè, Milano 1959, p. 313 ss.
soltanto il fondamento, la condizione logico-trascendentale della sua validità e, come
tale, non ha un carattere etico-politico, bensì epistemologico»50.
Ma se la “norma fondamentale” è solo l’ipotesi “logico-trascendentale” che lo
scienziato del diritto presuppone per dare unità e validità al sistema giuridico da lui
studiato, perché Kelsen la chiama “norma”? Essa dovrebbe essere la proposizione
descrittiva di una norma: ossia, la proposizione descrittiva di una proposizione
prescrittiva. Ma una proposizione descrittiva non è una “norma”. La Soll-Satz non è
la Soll-Norm. In realtà, Kelsen sembra chiamarla “norma” non solo perché si tratta di
una proposizione che descrive una proposizione prescrittiva (sorta di “immagine
specchiante” che si confonde con l’“oggetto specchiato”), ma perché tra le condizioni
costitutive del suo essere ciò che è (del suo essere, cioè, la proposizione descrittiva
fondamentale del sistema) c’è che l’altra “norma fondamentale” – la “norma
fondamentale” non in senso kelseniano: la norma posta dal potere effettivo – sia
effettiva, sia cioè effettivamente obbedita. Chiamare “norma” l’ipotesi logico-
trascendentale che è a fondamento dell’unità e della validità del sistema è, in realtà, la
strategia teorica obliqua attraverso cui Kelsen in forma brachilogica e in modo
indiretto suggerisce che essa è ipotesi fondamentale che rispecchia – “riflette” – una
norma: quella del potere costituito. La cosiddetta “norma fondamentale” è una
“proposizione” (logica) fondamentale che rispecchia una “norma” (fondamentale)
“reale”. Infatti, Kelsen esplicitamente nota che, se una rivoluzione riesce, e quindi il
potere costituito cambia, anche la “norma fondamentale” cambia: perché, essendo
cambiata la “norma fondamentale” “reale”, non può non cambiare la cd. norma
fondamentale – la ‘norma logica’ – che la “riflette”51.
Ora, la “norma fondamentale” di Kelsen descrive quella specifica “norma” che
comanda di obbedire all’ordinamento in quanto l’ordinamento è effettivamente
obbedito. Ossia, la cd. “norma fondamentale” descrive una norma che comanda di
obbedire poiché di fatto già si obbedisce. Comandare di obbedire perché di fatto già
50 H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Milano 1975, p. 125, ed. or. Wien 1960. Su alcuni profili
problematici della norma fondamentale, vedi anche le osservazioni di F. Gentile, Intelligenza politica e Ragion di Stato, Giuffrè, Milano 1984, p. 147 ss.
51 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 99 ss.
si obbedisce sembra un assurdo. In realtà, si tratta di una “duplicazione”: 1) non
assurda, perché tratta di una traslazione dal piano reale al piano logico; 2) non
inutile: a. perché l’obbedienza di fatto di cui si parla è “a grandi linee”, e perciò fra
l’obbedienza in re e l’obbedienza intimata c’è una differenza strutturale52; b. perché
l’obbedienza realizzata a grandi linee, qui e ora, non implica necessariamente il
permanere di questa situazione nel tempo; 3) tecnicamente pertinente, perché il fine
(anche razionale) della duplicazione logica è quello di far reagire, attraverso gli
operatori giuridici, l’ordine logico sull’ordine reale rendendolo ordine tecnologico
(potrebbe, qui, rivelarsi, per certi aspetti, l’efficacia teorica della “funzione
simbolica” di cui parla Bruno Romano53).
6. Una genealogia del giuridico
Ma la “norma fondamentale” effettiva – quella intesa in senso non kelseniano, di cui
la cosiddetta “norma fondamentale kelseniana” è la “descrizione logica” – non è l’atto
del potere costituente. Non è l’atto del potere costituente, perché Kelsen più volte
nettamente distingue fra “decisione” e “norma”, fra “volontà” e “norma”, fra
“decisore” e “norma”. La “decisione”, la “volontà”, il “decisore” esistono hic et nunc:
sono fatti esistenziali. La “norma”, invece, è “depsichizzata”, trascende l’hic et nunc, si
colloca in un ordine spaziotemporale (fatto di “coerenza” e “stabilità”) che prescinde
dagli accidenti dell’atto decisorio, dallo psichismo della volontà, dalla morte del
decisore54. Si noti. La “norma” si differenzia dalla “decisione”, dalla “volontà”, dal
“decisore”, non perché sia “generale e astratta” laddove la “decisione” e la “volontà”
tali non sarebbero. Una simile interpretazione, infatti, riguarderebbe solo il Kelsen
degli Hauptprobleme, quello pre-merkliano, che vede nella “norma” dello Stato solo
52 Vedi, in proposito, H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit. 53 Vedi, in proposito, B. Romano, Per una filosofia del diritto nella prospettiva di Jacques Lacan, cit. 54 Su questi profili critici della norma fondamentale e dell’ordinamento, vedi anche: A. Catania, Il diritto tra forza e
consenso, ESI, Napoli 1987; Id., Manuale di teoria generale del diritto, Laterza, Roma-Bari 1998; spc. Id., Manuale di filosofia del diritto, ESI, Napoli 1995, p. 180 ss., p. 188 ss., p. 208 ss., p. 219 ss.
quella “generale e astratta”. Ma, qui, la distinzione fra “norma” da una parte e
“volontà/decisione” dall’altra riguarda tutto Kelsen, ossia anche il Kelsen “merkliano”,
quello che vede come “norma” anche la “norma individuale”. Infatti, qui la distinzione
significa che la “norma” posta dalla decisione, dalla volontà, dal decisore è istitutiva di
un ordine: e va quindi guardata “come se” la decisione fosse depsichizzata, “come se”
la volontà fosse devolontarizzata, “come se” il decisore non morisse più. La decisione
è “esistenzialità” hic et nunc, la norma è “ordine”.
Ma c’è da chiedersi: quando Kelsen, parlando degli effetti, ai fini della dottrina pura
del diritto, di un movimento riuscito di rovesciamento del potere55, afferma derivarne
che «cessa l’ordinamento antico e comincia ad avere effetti il nuovo»56, compie un
passaggio analiticamente rigoroso? Noi non lo crediamo. Che dall’imporsi di un
potere esistenziale derivi l’imporsi di un ordine (dire “ordinamento” è dire “ordine”) –
e che quindi il “comando” esistenziale, hic et nunc, di questo nuovo potere si trasformi
direttamente nella “norma” che costituisce il suo “ordine” – è passaggio improprio.
Tanto più insidioso perché apparentemente innocente. Infatti, dire che quel nuovo
potere effettivo, in quanto si è imposto, costituisca “ordinamento”, e quindi “norma”, e
quindi “ordine”, significa implicare che chi a quel potere obbedisce in quanto gli si è
imposto, lo viva “come se” fosse “depsichizzato”, “come se” emanasse norme
indipendenti dalla vita concreta di chi di fatto esistenzialmente comanda. Significa,
cioè, dire che il potere esistenziale, reale, è visto “come se” fosse “ordinamento”.
Significa dire che chi a questo potere obbedisce già gli sta conferendo il senso –
duraturo e depsichizzato – di “ordinamento”. Ma, sul piano logico, “non” c’è passaggio
logico “immediato” – non c’è “deducibilità logica” – dal “potere esistenziale” al suo
“ordine”. E ciò in due sensi. 1) Non c’è passaggio – non c’è “deducibilità logica” – dal
punto di vista degli “attori consocianti”, ossia di quelli che, istituendo il potere, ipso
facto istituiscono i correlativi consociati: non si spiegherebbe, infatti, come si potrebbe
passare dal qualificarlo “potere esistenziale” al qualificarlo “ordinamento”. 2) Né c’è
55 H. Kelsen, Enleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Franz Deuticke Verlag, Wien 1934, tr. it.
Lineamenti di dottrina pura del diritto, cur. Renato Treves, Einaudi, Torino 1952, p. 99 ss. 56 Ivi, p. 99. La sottolineatura è nostra.
passaggio dal punto di vista dei “consociati”: perché, come Wittgenstein osserva, dai
comportamenti dei soggetti “non” possono inferirsi le regole osservate (Amedeo
Conte)57.
Ma, se passaggio (non logico ma) di fatto c’è, un tale passaggio può essere
osservato solo richiamando un livello che Kelsen non richiama: il “simbolico”.
Infatti, perché il potere esistenziale possa “diventare” ordinamento, occorre che sia
visto “come se” lo fosse. Occorre che gli sia dai consociati riconosciuta/conferita la
forza del suo costituirsi così: come “ordinamento”. Occorre che i consociati se lo
rappresentino e lo vivano come ordinamento58. Ma, perché ciò avvenga, occorre che
accada il fenomeno complesso per cui il rappresentarsi il Potere come Ordinamento
da parte di ogni consociato divenga, in risonanza a spirale con quello di ogni altro,
un rappresentarsi – in larga misura – condiviso, ossia una forza.
Per passare dal “potere esistenziale” alla “norma” dal punto di vista logico, si esige
che il “deciso” dal potere esistenziale sia guardato “come se” fosse norma. Per passare
dal “potere esistenziale” alla “norma” dal punto di vista del fatto, si esige che il
“deciso” dal potere esistenziale sia vissuto “come se” fosse norma. E perché accada
tutto questo, occorre che questi sguardi e questi vissuti entrino – sia gli uni sia gli altri –
in risonanza al loro interno in un fenomeno condiviso come forza interiorizzata. Qui il
simbolico non si “vede”. Ma il “simbolico” è un assassino che non lascia tracce.
La norma fondamentale rivela, quindi, a uno sguardo attento, un triplice strato: 1)
una proposizione descrittiva – ipotesi logico-trascendentale del sistema scientifico –
che descrive; 2) una norma “fondamentale” effettiva, prescrittiva, quella “posta” dal
costituirsi simbolico del potere come “ordine”, come “ordinamento”: una norma
“fondamentale” effettiva che ri-dice con forza simbolica (“come se” istituisse un
ordine permanente e depsichizzato); 3) il comando concreto che con forza reale
nell’hic et nunc si sostanzia nel potere costituito che dice: “obbedisci”.
57 Per alcuni contributi di A. G. Conte, vedi in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di Riccardo Guastino,
il Mulino, Bologna 1980 (p. 197 ss. e p. 325 ss.); Fenomeni di fenomeni, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, (1986), p. 29 ss.
58 Per l’importanza, in Kelsen, della “rappresentazione mentale” come fattore direttamente produttivo, vedi Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 146 ss.
E viceversa: il “comando” esistenzialmente concreto che con forza reale nell’hic et
nunc il potere costituito impone (“obbedisci a quanto comando”) diventa – nel suo
depsichizzarsi e devolontarizzarsi – norma di pari contenuto (“obbedisci a ciò che il
potere costituito comanda”). La quale norma, avvenuta questa morfogenesi, diventa a
sua volta l’“oggetto” che la proposizione descrittiva fondamentale del sistema
kelseniano – la “norma” fondamentale – descrive.
Tutte le costruzioni analitiche condotte nell’interpretazione di Kelsen si arenano
dentro il labirinto del rapporto fra l’“empirico” e l’“analitico”, fra il “logico” e lo
“sperimentale”, perché epistemologicamente si autoinibiscono di aprirsi lo spazio
teorico a quel livello senza il quale non c’è possibile passaggio: il “simbolico”, un
simbolico rappresentato dall’idea di ordine che si costituisce come forza
interiorizzata. Non c’è, infatti, solo la fallacia naturalistica del passaggio
ingiustificato dall’“essere” al “dover essere” perché, in un’indagine che si svolga sul
“reale funzionamento del reale”, l’invocazione della “fallacia naturalistica” è
un’antifallacia fallace. Non c’è, infatti, solo la fallacia naturalistica del passaggio
ingiustificato dall’“essere” al “dover essere”: c’è anche la fallacia razionalistica della
separazione ingiustificata fra queste supposte articolazioni del reale59.
In realtà, Kelsen stesso, pur non individuando questo spazio teorico nella sua
autonomia e pur non chiamandolo “simbolico”, è sotterraneamente consapevole della
natura simbolica del problema: «Tutte le manifestazioni esterne, in cui si suole
ravvisare la forza dello Stato, le prigioni e le fortezze, le forche e le mitragliatrici,
sono di per sé oggetti inanimati. Si trasformano in strumenti della forza dello stato
soltanto quando gli uomini si servono di essi nel senso di un determinato
ordinamento, soltanto quando questi uomini sono determinati dalla rappresentazione
di questo ordinamento e dalla credenza di dover agire conformemente ad esso»60.
Qui Kelsen sta dicendo che il complesso degli oggetti inanimati è, al tempo stesso,
vissuto di un ordine che s’impone e idea di un ordine che s’impone.
59 Si guardi, in proposito, a tutte le costruzioni analitiche su Hobbes, e al loro arrestarsi davanti al paradosso
dell’“Hobbes logico” in quanto spiega e presuppone l’“Hobbes realista”: e si pensi, in questo senso, al significativo rapporto Hobbes-Schmitt.
60 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura, cit., p. 146. Le sottolineature sono nostre.
Se vediamo la questione da un altro punto di vista, quello di un’analitica del-
l’“esserci”, possiamo osservare che, se è vero che l’attore sociale “può” obbedire e
“può” non obbedire a un potere che gli s’imponga come tale, e se è vero quindi che egli
non “deve” obbedire – non è necessitato a obbedire – al potere esistenziale che gli
s’imponga come tale, perché non è un automa, è vero altresì che l’attore sociale deve
poter obbedire a un potere che gli s’imponga come tale. Nel concentrarsi – nella
struttura del potere costituito – del venire a coincidere e del combattersi fra il poter
obbedire, il poter non obbedire e il dover poter obbedire – c’è un annuncio della sua
simbolicità sociale condivisa, derivante dal vissuto della forza ordinante e dall’idea
della forza ordinante. Detto in altri termini, l’obbligo politico corrisponde al “simbolo”
della “potenza”, l’obbligo giuridico al “simbolo” dell’“ordine” in quanto tale (non
l’“ordine giusto” ma l’“ordine”), l’obbligo morale al “simbolo” dell’“ordine giusto”. In
ogni caso, quando diciamo simbolo, intendiamo dire forza, non concettualmente
metabolizzabile, ossia non riducibile a mera concettualizzazione. Su questa falsariga,
una possibile distinzione fra “obbligo morale”, “obbligo politico” e “obbligo giuridico”
è avvistata.
In questo contesto, siamo davanti a tre forme del dovere. Nel dovere etico si dà un
dovere realizzato secondo la modalità della convinzione; nel dovere giuridico si dà un
dovere realizzato secondo la modalità di una persuasione rinforzata attraverso un
ordine interiorizzato (ordine sia come vissuto, sia come idea); nel dovere politico si dà
un dovere realizzato secondo la modalità di una costrizione logo-guidata.
Se vediamo, infine, la questione da un ulteriore punto di vista, quello del modello
epistemologico adottato, può osservarsi che, nella successione dei modelli conoscitivi
che hanno caratterizzato, nel suo processo plurisecolare, la scienza, questa è passata
da un “trovare” l’ordine (Aristotele, Tommaso d’Aquino) a un “conferire” l’ordine
(Kant) fino – col neokantismo della Scuola di Marburgo (si pensi a Cohen, di cui
Kelsen è epistemologicamente debitore) – a un “produrre” l’ordine come ordine
formale del discorso indipendentemente dall’oggetto empirico di riferimento.
In realtà, sia che la scienza trovi l’ordine sia che lo conferisca sia che lo produca
come puro ordine formale, è sempre dell’“ordine” che si tratta, dell’idea di ordine:
ossia del (surrettizio) trànsito di un medesimo nocciolo simbolico all’interno di un
diverso modello di conoscenza. In questo senso, se è vero che Kant ha realizzato una
“rivoluzione copernicana” nell’adottare, rispetto all’empirico, il punto di vista del
conferire l’ordine e non quello del trovarlo, la sua rivoluzione non è tanto
copernicana da non ruotare intorno a uno degli antichissimi simboli della ragione:
l’“ordine”, l’idea di ordine, là dove si dà contemporaneamente un criterio di
regolarità, ripetibilità e prevedibilità in un contesto di coerenza (in cui si sostanzia
un’idea della ragione). Si tratta di una cosa che vale anche per gli epistemologi (à la
Cohen) nel loro parlare di un ordine formale.
7. Per una disamina dell’“ordine”
Dicevamo che la “decisione” è “esistenzialità” hic et nunc, laddove la “norma” è
“ordine”. Che la prospettiva di Kelsen sia questa è detto dalla sua vicenda
intellettuale, là dove, in due scritti61, istituendo una precisa analogia fra la dottrina
politica e la teologia (fra lo Stato e Dio62), in questi due specifici scritti Kelsen si
batte contro il dualismo fra Stato e Diritto: «...il peculiare contrasto in cui la teoria
tedesca del diritto pubblico [öffentliches Recht] ha messo il concetto di Stato col
concetto di diritto – in barba a tutte le interne contraddizioni, a dispetto di tutte le
esigenze della logica – si spiega con lo sforzo di rimuovere la costituzione positiva
costituzionale-democratica, il cosiddetto “Stato di diritto”, interpretando l’“essenza
dello Stato” a favore del principio monarchico-assolutistico dello Stato di polizia.
61 H. Kelsen, Il rapporto fra Stato e Diritto dal punto di vista epistemologico, in «Zeitschrift für öffentliches Recht»,
Neue Folge, Bd 1, 1921, pp. 453-510, e H. Kelsen, L’essenza dello Stato, in Internationale Zeitschrift für Teorie des Rechts, Bd 1 (1926), pp. 5-17: entrambi tradotti in H. Kelsen, L’anima e il diritto, a cura di Agostino Carrino, Edizioni Lavoro, Roma 1989, di seguito così citati.
62 «Tra “Dio” e “Stato” non c’è solo un parallelo logico ma anche una certa relazione reale», H. Kelsen, L’anima e il diritto, cit., p. 44; «...la validità dell’ordinamento normativo, di cui Stato o Dio sono espressioni», H. Kelsen, cit., p. 65.
Dimostrarlo nei fatti sarebbe tanto facile quanto meritevole»63. E ancora64: «Come
Dio per la teologia, così lo Stato è per la dottrina del diritto pubblico, a rigore, l’unica
persona». Mantenere il dualismo fra Stato e Diritto significa pensare a uno Stato che,
nella sua esistenzialità temporale concretissima, contrasti perennemente la possibilità
di un ordine che lo vincoli, esattamente come, nel dualismo teologico fra Dio e
Natura, Dio, facendo miracoli, si sottrae tutte le volte che vuole all’ordine della
Natura. Il bersaglio, come è chiaro, è l’«esistenzialità» della «decisione politica» à la
Schmitt, verso la quale, invece, l’«ordine giuridico» deve costituire, per Kelsen, rete
di vincolo e contenimento. In una tale prospettiva, il superamento del dualismo
giuspubblicistico, conducendo all’identificazione dello Stato con l’Ordinamento
giuridico, costituisce l’analogo del superamento del dualismo teologico, che,
consumando Dio nella Natura, gli sottrae l’arbitrio dei miracoli. Potrebbe dirsi: Dio
autore di miracoli sta alla Natura come lo Stato esistenziale dell’eccezione (di
Schmitt) sta al Diritto (di Kelsen)65.
Quindi, l’“ordine” della “norma” costituisce vincolo – oggettivo vincolo – all’e-
sistenzialità temporale del “potere costituito”, del “potere politico concreto”, dello
“Stato”.
In realtà, il paradosso epistemologico di Kelsen è nel fatto che, mentre combatte
contro la teoria dello Stato metagiuridico per vincolarlo, combatte
contemporaneamente contro la dottrina giusnaturalistica attraverso la tesi secondo cui
il diritto positivo non può essere vincolato. Ma quest’“ordine”, che può, per Kelsen,
porsi come argine nei confronti dello Stato metagiuridico, non è – non “può” essere –
un “ordine giusto”: è un “ordine”. L’Ordine non va confuso con l’Ordine giusto. Ma
è, pur sempre, Ordine. Si tratta di una “giustizia” sui generis, consumata in quella
proceduralità ripetitiva che costituisce ordine non “sostantivo”, ma, per così dire,
“sintattico”. Si tratta di un ordine che si consuma nel proprio vincolare ciò che regola
attraverso una “regola” qualsivoglia (si veda al rapporto fra “rex” e “regula”: e alle
63 Ivi, p. 47. 64 Ivi, p. 56, sub nota n. 97. 65 Sulla significatività forte del rapporto metaforico fra Dio e Stato in Kelsen vedi anche H. Kelsen, L’illecito dello
Stato, a cura di Angelo Abignente, ESI, Napoli 1988, p. 25.
possibili assonanze metaforiche con la “ruota”) 66 : regolare il “da-regolare”
producendolo come ordine in atto. Borges, parlando della sua «Biblioteca di Babele»,
scrive: «...gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe
un ordine: l’Ordine)»67. Ma che cos’è mai questo “Ordine” dissaldato dall’“Ordine
giusto” se non una particolare declinazione del simbolico? Che cosa è se non una
forza del “razionale” intesa come forza regolatrice? Potrebbe dirsi: “L’ordine
giuridico di Kelsen sta al potere esistenziale di Schmitt come l’ordine giuridico dei
giusnaturalisti sta all’ordine giuridico di Kelsen”.
Ma domandiamoci: ha l’“ordine giuridico” di Kelsen un suo spessore, un suo
specifico – teoricamente collaudabile – spessore nei confronti del “potere politico
esistenziale”?
8. Per una critica dell’“ordine”
È da dire, però, che Kelsen, mentre combatte la battaglia per la dottrina pura del
diritto – ossia per il superamento del dualismo giuspubblicistico (allo scopo di
conseguire l’identificazione dello Stato con l’Ordinamento) –, deve, d’altra parte,
affrontare l’altra difficoltà che gli deriva dall’aver costruito nei Hauptprobleme il
diritto «come sistema formato soltanto da norme giuridiche generali»68. Nella sua
opera accade, cioè, che, «poiché i Hauptprobleme der Staatrechtslehre non avevano
ancora raggiunto la nozione più lata di diritto e si limitavano quindi a prendere in
esame soltanto le norme giuridiche generali, sorgeva una contraddizione: da una
parte, il punto finale dell’imputazione giuridica non poteva essere fuori
dall’ordinamento giuridico stesso e quindi si rendeva necessario affermare che stato e
diritto erano tutt’uno; d’altra parte, poiché lo stato entra in contatto con la società
66 Sul punto vedi anche D. Mazzù, Violenza, colpa e riparazione, cit., p. 203 ss. 67 J. L. Borges, Finzioni, tr. di Franco Lucentini, Einaudi, Torino 1995, p. 78. 68 M. G. Losano, Forma e realtà in Kelsen, Edizioni di Comunità, Milano 1981, p. 28.
soprattutto sotto forma di norme giuridiche individuali, era inevitabile affermare che
esso non coincideva col diritto costituito dalle sole norme giuridiche generali...»69.
Ma, conseguita la nozione più lata di diritto, ossia la nozione per la quale il
sistema delle norme giuridiche generali veniva completato con l’inclusione delle
«norme giuridiche individuali»70, c’è da chiedersi: qual è il rapporto logico che si
instaura fra le norme del sistema?
Amedeo Conte71 ha puntualmente analizzato come l’identificazione, da Kelsen
posta, fra “validità” ed “esistenza” della norma, reagisca sui rapporti fra diritto e
logica. A prima vista sembrerebbe, infatti, che, ove mai sussistano proposizioni
prescrittive contraddittorie, una delle due sia invalida. «Ma – nota Conte – Kelsen
nega»72. E, in secondo luogo, sembrerebbe che alla proposizione prescrittiva generale
possa applicarsi il principio di inferenza e, quindi, che dalla validità della prima possa
inferirsi la validità della seconda. «Ma – nota Conte – [anche qui] Kelsen nega»73.
In realtà, il rapporto fra le norme non è rapporto fra meri noemi logici, fra i quali
sussistono il principio di non contraddizione e il principio di inferenza, ma è rapporto
fra esistenti, fra i quali non sussiste né il principio di non contraddizione né il
principio di inferenza: fra i quali, cioè, in caso di conflitto sussiste, come Kant
direbbe, non una contraddizione logica, ma un’opposizione reale.
9. Alcune implicazioni
La (tentata) combinazione del criterio simbolico dell’“ordine” (deve esserci un
criterio ripetuto nel rapportarsi delle proposizioni prescrittive) col criterio dell’“e-
sistenza”, ossia l’individuazione del criterio dell’ordine fra esistenti – in quanto
simbolicamente posto – produce alcune importanti conseguenze, a nostro avviso
aporetiche, che non possiamo qui circostanziare, sulla configurazione del “sistema
69 Ivi, p. 32. 70 Ivi, p. 28. 71 A. G. Conte, In margine all’ultimo Kelsen, in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di Riccardo Guastini,
il Mulino, Bologna 1980, p. 197 ss. 72 Ivi, p. 197. 73 Ivi, p. 200.
giuridico”.
1) L’inesistenza delle lacune. L’ordinamento viene visto come se la presenza di
lacune fosse puramente ideologica.
2) Una tensione contraddittoria fra la contraddizione fra enti logici e la
contraddizione fra esistenti logici. Si veda, da un lato, la tematica dell’alternativa fra
“annullabilità” e “inesistenza” degli atti giuridici e, dall’altro lato, il problema
dell’“illecito dello Stato” (guardato anche sub specie della secolarizzazione dell’idea
di Dio)74.
3) L’inserimento della “persona” vista come “ordinamento particolare” senza che
sia sufficientemente fondato perché mai essa costituisca “ordinamento” se è vero,
come è vero, che nelle premesse kelseniane ogni ordinamento deve avere una
“fonte”: e qui la fonte non c’è75. Potrebbe forse dirsi, in proposito, che l’esigenza
simbolica dell’ordine (dell’idea di ordine), a livello del microsociale fa sì che un tale
“ordinamento particolare” venga presupposto senza fondarlo: effetto distorsivo,
questo, provocato da un certo operare del simbolico all’interno del sistema.
4) L’insufficiente tematizzazione degli esiti teorici della differenza fra il livello
della scienza giuridica in quanto fa parte del diritto concretamente operato e il meta-
livello della stessa scienza in quanto rifletta sul diritto e sul suo operare (oltre che sul
proprio stesso operare di scienza). Infatti, nel caso del diritto come oggetto
scientifico, la scienza che lo riguarda, nel conoscerlo, lo produce.
10. Due questioni
1) Ora, se si tratta di un ordine non fra “noemi logici” ma fra “esistenti (logici)”, se
cioè le proposizioni descrittive delle norme (prescrittive) assumono queste ultime, le
norme prescrittive, “come se” fossero “esistenti” e se le stesse proposizioni descrittive
74 Sul punto, si veda H. Kelsen, L’illecito dello Stato, cit. 75 Vedi «Parolechiave», 10.11.1996, voce Persona, p. 103. L’obiezione è in F. D’Alessandro, Persone giuridiche e
analisi del linguaggio, Cedam, Padova 1989.
(del prescrittivo) vengono a loro volta assunte come se fossero esistenti – ci si
domanda: nel momento in cui il sistema giuridico nel quale si identifica e consuma lo
Stato è costituito di norme generali e individuali (che, in quanto esistenti, ammettono
contraddizioni e non rendono logicamente automatiche inferenze rigorose), quale
vincolo costituirebbe mai l’ordinamento giuridico nei confronti di uno Stato
esistenziale metagiuridico privo di vincoli? In altri termini: in che cosa la kelseniana
identificazione fra Stato e Ordinamento giuridico si differenzierebbe rispetto alla
schmittiana teoria della predominanza assoluta dello Stato esistenziale metagiuridico
senza vincoli, per arginare il quale Kelsen impiega l’Ordinamento giuridico che
assorbe in sé lo Stato esistenziale? Si risponderà che una differenza pur rimane: è
l’Ordine. Ma si tratta di un Ordine fortemente problematico, in teoria compatibile con
qualsiasi Dis-Ordine. In ispecie, compatibile con un qualsivoglia conglomerato di
contraddizioni possibili, con un Multiverso di “disordini”. Un Ordine compatibile con
qualsiasi Disordine, quindi, è da trattare “come se” fosse ordine?
La stessa idea kelseniana per la quale l’interpretazione è una “decisione” – e non
una “cognizione” – ossia l’idea che l’interpretazione sia un’arbitraria decisione
esercitata all’interno dello schema normativo, cela in realtà il fatto che lo stesso atto
“cognitivo” concernente i limiti dello schema è frutto pur sempre di una “decisione”
che, in teoria, potrebbe, in apicibus, essere in contraddizione con lo schema.
2) Posta in forma consapevolmente estremizzata, la questione, pur nelle necessarie
relativizzazioni critiche, che qui non si ha il tempo di circostanziare, appare in questi
termini. Delle due l’una: o Kelsen deve rinunciare al superamento del dualismo fra
Stato e Ordinamento per mantenere l’ordine giuridico come argine (“intrinsecamente
valoriale” nel suo essere sintatticamente vincolante) nei confronti di uno Stato
esistenziale concreto, fatto di decisioni sovrane arbitrarie e illimitate, oppure Kelsen
deve rinunciare a mantenere l’ordine giuridico come argine e realizzare, a questo
punto, il superamento (“scientifico”) del dualismo fra Ordine giuridico e Ordine
politico.
In ogni caso, l’unico vero “residuo” non eliminabile – resto essenziale di un
conflitto epistemologicamente appena governato – appare la messa in circuito –
contro il potere esistenziale hic et nunc, in quanto tale arbitrario – della forza
simbolica del “diritto” percepita come ordine “reale”. O meglio: la messa in circuito
di un “ordine” (del diritto) consumato così tanto al grado zero da divenire simbolo di
sé. E, al tempo stesso, radicale punto interrogativo su di sé.
Una cosa è certa. Se il Diritto realizza l’Ordine, l’idea di ordine, ciò non significa
che l’Ordine realizzato dal Diritto vada confuso con l’Ordine giusto. Ma nemmeno
significa, d’altra parte, che un tal Ordine non abbia un suo specifico quid, un proprio
preciso nocciolo duro di connotati rispetto a un “Sistema” qualsiasi di arbitrii
deliberati. Ci si domanda, infatti: può l’Ordine costituire un vincolo al Sistema delle
decisioni ove si comporti come un linguaggio compossibile con qualsiasi “Sistema”
di arbitrii decisionali? E, se invece esso non è compossibile con qualsiasi Sistema di
arbitrii decisionali, perché non riconoscere, a questo punto, che l’Ordine rivendicato
epistemologicamente al diritto celi, in realtà, nel suo fondo – consapevole o no che ne
sia il rivendicante – un Ordine altro, un Ordine come valore simbolico, un’idea di
ordine che, calata nel Diritto, costituisce pur sempre un argine rispetto a un Sistema
qualsiasi di arbitrii decisionali? Hans Kelsen, collocandosi fra la polemica contro
Schmitt e la polemica contro i giusnaturalisti e nel passare dalla dottrina premerkliana
della norma astratta e generale alla dottrina postmerkliana delle norme anche
individuali, occupa con la sua teoria uno spazio paradossale. Il positivismo giuridico
kelseniano, in quanto positivismo razionale, si mostra come quello che, in quanto
veramente razionale, non riesce ad essere interamente positivista. Perché, nel caso
del diritto come oggetto scientifico, la scienza che lo riguarda, nel conoscerlo, lo
produce. Lo studioso del diritto, nel momento in cui studia il suo oggetto, non si
limita a riprodurlo contemplativamente, perché partecipa, consapevole o no, alla
produzione del diritto che studia, dal momento che mette in circolo concetti e
interpretazioni che modificheranno lo stesso oggetto studiato. Nel saper questo, il
positivismo razionale kelseniano sottace che l’ordine razionale non è soltanto un
modo del guardare scientifico (nel senso del guardare contemplativo), ma fa
transitare in ciò che è guardato (sia in quanto conosciuto che in quanto prodotto)
l’ordine simbolico, ossia un’idea di ragione come idea della ragione: un Ordine, a cui
lo scienziato guardante si è sottomesso nel guardare. Il positivismo giuridico
kelseniano si mostra come quello che, in quanto veramente giuridico, non riesce ad
essere veramente positivista. Perché, nel dire ciò che dice, cela, nel performativo del
suo dire, un’anima giusnaturalista.
11. La ragione della forza, la forza della ragione: oltre la contraddizione?
A ben vedere, Schmitt e Kelsen rappresentano, nel rapporto tra forza e ragione, due
figure esemplari. Esse costituiscono, al massimo livello, modelli rigorosi per
esprimere due ideal-tipi del ragionare.
Ma Schmitt e Kelsen costituiscono, per altri versi, due modelli molto più vicini di
quanto essi stessi sospettino. E, per altri versi, la loro non sovrapponibilità nasconde
una distanza ben maggiore di quanto chi vede la somiglianza sospetti. Schmitt e
Kelsen sono, al tempo stesso, vicini e lontani, il che rende importante chiarificare la
prospettiva in cui sono vicini e quella in cui sono, invece, lontani.
Pensiamo, per progressive approssimazioni, al nocciolo duro del loro confronto
intorno al problema della forza e del diritto. Kelsen pensa che la forza vada regolata
dalla norma, anzi dall’ordinamento normativo e nell’ordinamento normativo. Schmitt
pensa, invece, che a fondamento dello stesso ordinamento normativo ci sia – e nelle
condizioni di emergenza si riveli – il potere di chi decide sullo stato di eccezione.
In una prima approssimazione, potrebbe dirsi che Schmitt pensa alla forza
esistenziale, che si dà qui e ora, mentre Kelsen pensa alla ragione normativa, che si
dà in modo astratto, generale e duraturo, che prescinde dai “qui e ora” anche se tutti
in schema li contiene.
In una seconda approssimazione, però, come si è già detto, può rilevarsi che la
ragione normativa di Kelsen, in quanto ragione del diritto, ha due precisi limiti, che
costituiscono l’orizzonte della sua identità: da un lato, tale ragione normativa rifiuta
di avere suoi contenuti valoriali, sicché si pone come ragione puramente procedurale
– sintattica – che opera connettendo qualunque contenuto semantico le norme
abbiano secondo i soli criteri della forza gerarchica e delle operazioni logiche;
dall’altro lato, questa ragione normativa opera a partire dal presupposto di una forza
reale che si è trasferita nella forma di una norma fondamentale, di carattere logico-
trascendentale. In questo orizzonte, la ragione formale kelseniana non è quella
ragione umana piena, che presuppone e contiene una forma di vita secondo la quale
procede, riflette, discute valori, esamina criticamente presupposti epistemologici e
assiologici. La ragione formale kelseniana è una ragione scientifica che proietta e
trova nell’insieme delle disposizioni normative un ordine formale, cioè
proceduralmente costruito secondo i criteri della forza gerarchica e dei contenuti
semantici. Nell’orizzonte epistemologico di Kelsen, la ragione è dimagrita fino al
punto da diventare puramente calcolante, procedurale.
In una terza approssimazione, può notarsi che Kelsen precisamente reagisce contro
la prospettiva schmittiana. Egli rigorosamente ritiene, cioè, che la sua prospettiva
procedurale, in quanto razionale, rappresenti qualcosa di diverso dalla prospettiva
schmittiana, puramente e consapevolmente esistenziale. Sembra scorgersi, nella
opposizione kelseniana, la convinzione che la pura forma procedurale, pur fondata
sulla forza, sia più “diritto” di quanto possa essere diritto la forma esistenziale
schmittiana.
La domanda, a questo punto, testardamente rimane. In che cosa una forza che si
esprime in una procedura può essere diversa da una forza che si esprime in una
decisione esistenziale che dura? Potrà certo rispondersi che il sovrapporsi della forza
kelseniana e di quella schmittiana costituisca solo un caso-limite, perché quasi
sempre una procedura realizza almeno una forma di uguaglianza fra le situazioni
regolate. Ma in che modo – con quale forza argomentativa – una tale risposta
risolverebbe la sostanza “razionale” che la posizione di Kelsen sembra difendere
contro la posizione di Schmitt?
In sostanza, mentre Schmitt sostiene che sovrano è chi decide sullo stato di
eccezione, Kelsen sostiene che sovrano è l’ordinamento giuridico. La prospettiva di
Schmitt mette soprattutto a fuoco l’emergenza esistenziale del qui e ora, ma ciò non
toglie che sia leggibile sotto quell’emergenza lo stato di una struttura che la precede;
la prospettiva di Kelsen, invece, mette a fuoco soprattutto la durevolezza di un assetto
di regole, ma ciò non toglie che questo assetto sia stato preceduto da un gruppo di chi
che l’ha imposto. Nel darsi di una struttura imperativa prevale il chi o il che? Prevale
l’atto esistenziale di un attore politico o un assetto di regole? Posta in questi termini,
la questione appare indecidibile. Infatti, bisognerà pur sempre guardare alla singola
situazione strutturale di cui ci si occupa, nella quale potranno prevalere il chi, il che o
entrambe le istanze combinate. E, d’altra parte, per quanto concerne il futuro di una
struttura, colui che si imponga – à la Schmitt – per farla durare, non può non porsi il
problema di quali saranno i modi regolatori in cui essa durerà, mentre, per altro verso,
chi decida in una situazione di emergenza potrà ben essere letto – à la Kelsen – come
uno che stia istituendo, con un colpo di Stato o con una rivoluzione, una nuova
«norma fondamentale». In ogni caso, sia nella soluzione prospettica di Schmitt che in
quella di Kelsen, rimane ontologicamente presupposta una forza che sostenga il chi
dell’atto schmittiano o il che della struttura kelseniana. E, d’altra parte, rimane
impregiudicata la questione intorno al fondamento simbolico di questa forza. Che si
tratti del chi di Schmitt o del che di Kelsen – dell’emergenza di Schmitt o dell’assetto
di regole di Kelsen – in entrambe le prospettive non si dice – cioè, non si ritiene
rilevante dire – quale debba essere il fondamento persuasivo attraverso cui quella
forza possa restare forza. In ultima analisi, sia che prevalga la prospettiva esistenziale
del chi sia che prevalga la prospettiva normativa del che, una tale prospettiva è pur
sempre fondata sull’esistenza di una forza. E, d’altro canto, chi guarda al chi non può
non porsi il problema del che, così come chi guarda al che non può non porsi il
problema del chi. Per certi aspetti, la vera differenza tra Schmitt e Kelsen sembra
ridursi al tipo di sguardo epistemologico: di carattere politologico nel primo e di
carattere giuridico nel secondo. È anche vero, però, che qui, paradossalmente,
Schmitt e Kelsen, mentre sembrano epistemologicamente lontani, sono più vicini che
mai. A questo punto, la distinzione fra la prevalenza prospettica dell’atto esistenziale,
legato a un’emergenza, e la prevalenza prospettica della regola astratta e generale,
legata alla durata, appare di scarso rilievo rispetto al più decisivo problema su quale
sia il fondamento auspicabile, in condizioni storiche date, per l’insediarsi di una
forza.
È certamente vero che, quando Kelsen si oppone a Schmitt, sembra implicare nel
suo discorso un richiamo al valore del diritto. Ma, poiché questo valore per Kelsen è
null’altro che il risultato di una forza, ciò significa che Kelsen affida tutto il valore
del diritto a quell’unica luce che è la sua sintassi procedurale, leggibile attraverso la
ragione scientifica, costituente l’ultimo residuo di un giusnaturalismo dimagrito fino
al grado zero della pura sintassi eguagliatrice.
Sia il sovrano di cui parla Schmitt che il sovrano di cui parla Kelsen, in realtà,
costituiscono una forza solo a condizione che questa forza sia effettiva, cioè obbedita.
Uguale in entrambi, pertanto, è l’effettività come fondamento. Ma diversa è la qualità
ontologica di quella forza che realizza l’effettività. Per Schmitt questa qualità è nella
potenza esistenziale di un chi, per Kelsen è nella potenza regolatrice di un che.
La querelle tra Kelsen e Schmitt, pertanto, mostra due diversi e precisi modi con cui
si cerca di realizzare lo sguardo sul potere: da un lato, attraverso il modo formale di
Kelsen, richiamandosi a un che, cioè a un modello; dall’altro, attraverso il modo
esistenziale di Schmitt, richiamandosi a un chi, cioè a un soggetto. Sia il modello del
che, sia il modello del chi, sono, però, insufficienti. Il modello del che è insufficiente in
quanto non riesce a entrare in contatto con l’evento esistenziale che qui e ora si
consuma nell’imporlo; il modello del chi è insufficiente in quanto non riesce a
mostrare le modalità strutturali attraverso cui l’atto esistenziale che si impone durerà.
In realtà, un modello plausibile di caratterizzazione deve necessariamente
connettere insieme l’uno e l’altro modello, perché, da un lato, la prospettiva non si
riduca a quella su una struttura anonima e, dall’altro lato, non si riduca a quella su un
intervento soggettivo semplicemente legato al qui e ora, all’istante.
Fin qui, sulla base della strutturale lacunosità della forza imperativa, abbiamo
parlato dei modi storicamente determinati con cui questa forza ha ottemperato alla
necessità di giustificarsi allo scopo di realizzare l’obbedienza sociale. Abbiamo
parlato, cioè, dei modi in cui la forza ha cercato di realizzare, attraverso la forza del
diritto, il diritto della sua forza.
Dobbiamo però, sulla base della inevitabile presenza di una forza all’interno di una
società che voglia realizzare il diritto, occuparci anche dei modi in cui è auspicabile
che una forza si renda – alla sensibilità degli uomini contemporanei –
ragionevolmente giustificabile.
In una prima approssimazione, possiamo dire che è utile a questi fini l’esistenza di
una rappresentanza democratica, costituendo l’esistenza di un consenso maggioritario
un fattore che riduce la frustrazione derivante dall’essere sottomessi a un potere. Ma
una tale rappresentanza è esposta a molteplici obiezioni. In primo luogo, l’esistenza
di un consenso maggioritario non esclude la presenza di ingiustizie, anche gravi. Una
maggioranza può costituire una discriminatoria tirannide. In secondo luogo, lo stesso
consenso può essere, in modi occulti o palesi, estorto o comprato. In terzo luogo, non
sempre la presenza di una maggioranza garantisce la praticabilità del dissenso da
parte di una minoranza.
In una seconda approssimazione, possiamo dire che la rappresentanza democratica
deve poter riguardare una democrazia liberale, fondata sulla pubblica praticabilità del
dissenso, che va a costituire il fattore popperiano di falsificabilità del sistema e la sua
caratterizzazione come sistema aperto. Ma anche una tale rappresentanza democratica
può essere esposta a obiezioni. In primo luogo, perché il dissenso di una minoranza
può ancora costituire una forza che schiaccia nel suo seno una interna minoranza, e
così via all’infinito. In secondo luogo, perché la stessa presenza del dissenso non
garantisce abbastanza contro l’esistenza di singoli soprusi. In terzo luogo, perché
l’esistenza del consenso e del dissenso non risultano ancora fondati su una forza più
forte, che si ponga strutturalmente in termini costituzionali.
In una terza approssimazione, possiamo dire che la rappresentanza democratica,
espressione di una democrazia liberale, deve poter essere garantita da una forza
costituzionale che ne garantisca l’esercizio.
In una quarta approssimazione, possiamo dire che la stessa garanzia costituzionale
deve riguardare non solo i diritti civili e politici, ma anche i diritti sociali, che
consentano un minimo di azione previdenziale e assistenziale nei confronti dei singoli
da parte dello Stato.
In una quinta approssimazione, possiamo dire che, perché una forza imperativa sia
ragionevolmente giustificabile, occorre andare oltre lo stesso criterio della
rappresentanza. In questo senso, bisogna pervenire a una legittimazione che sia tale
non solo da garantire la rappresentanza, cioè la rappresentazione delle volontà, e non
solo la rappresentatività, cioè la rappresentazione delle culture e degli interessi, ma
anche quella legittimazione più radicale che è la legittimazione esistenziale, ossia
quella che riguarda le dignità delle singole persone, colte nei loro bisogni minimi e
ineludibili, al di sotto dei quali non è lecito essere ridotti. Una tale legittimazione
implica l’esistenza di una garanzia, realmente efficace, più forte e più penetrante.
Occorre, cioè, una garanzia costituzionale, realizzabile da una Corte che, in
condizioni di indipendenza rispetto allo stesso Stato-amministrazione e allo stesso
Stato-legislatore, faccia prevalere, nel conflitto concreto fra singoli diritti
fondamentali violati e la legge, i singoli diritti violati.
In una sesta approssimazione, dobbiamo dire che una forza imperativa che voglia
realizzare un fondamento razionale allo scopo di persuadere all’obbedienza deve
essere capace di garantire a ogni singola persona quei diritti fondamentali che
costituiscano le condizioni minime perché una vita possa essere degna di essere
vissuta. Qui la forza imperativa può trovare – almeno nei termini di un’idea
regolativa – le condizioni migliori perché la sua lacunosità strutturale realizzi il
rispetto della forza del diritto, là dove il diritto non è semplicemente il diritto astratto
e generale, ma il diritto fondamentale di ogni persona. Davanti alla forza imperativa
dello Stato, che è forza, sta l’esistenza della singola persona, che è anch’essa forza,
esistenziale forza. Qui la pura forza può realizzarsi come forza solo a condizione di
rispettare quella forza del diritto, che è il diritto fondamentale di ogni persona,
considerata – al modo di Antonio Rosmini – come diritto sussistente. In questa
prospettiva, la pura forza, di per sé strutturalmente lacunosa, deve assumere come
fondamento simbolico un’altra forza, che non costituisce soltanto il suo fattore
antagonista, ma il suo complemento essenziale. Il diritto della forza trova, così, il suo
fondamento simbolico e la sua legittimazione esistenziale nella forza del diritto della
persona. Possiamo concludere, in questa luce: il diritto di esistere è il fondamento
dell’esistere del diritto.
Karl Popper, com’è noto, ha individuato in termini epistemologici, due livelli della
falsificazione. Al primo livello, si dà la considerazione per cui qualsiasi proposizione
empirica di carattere generale deve essere permanentemente esposta alla possibilità che
un singolo caso empirico ne smentisca la formulazione. Un giudizio empirico, in
quanto empirico, non può non essere fondato sulla sua possibile smentita.
Al secondo livello, si dà la considerazione per cui una teoria è scientifica non solo
se verificabile, ma se si espone alla possibilità che un singolo caso empirico la
smentisca: la teoria scientifica, per essere scientifica, deve poter essere smentita da un
singolo fatto empirico, perché, in caso contrario, sarebbe atto di fede e non teoria
scientifica.
È individuabile, in realtà, un terzo livello della falsificazione, in quanto trasferita
sul piano politico della democrazia liberale. In questa prospettiva, un sistema
democratico è tale se non solo è sostenuto da un consenso maggioritario, ma se è
strutturalmente esposto alla possibilità che un pubblico dissenso possa mettere il
governo in discussione ed esercitare la garantita possibilità di sostituirlo. Una
democrazia liberale è, pertanto, fondata sulla possibilità garantita di un pubblico
dissenso, che costituisce l’esposizione di quel governo alla sua possibile smentita.
È possibile individuare, come abbiamo altrove già sostenuto, un quarto livello
della falsificazione, che concerne non soltanto il semplice sistema democratico, ma
un sistema democratico fondato sulla garanzia costituzionale di diritti fondamentali.
In tale contesto, un sistema che si dichiari fondato sui diritti fondamentali è tale non
solo se li dichiara e tende a garantirli, ma se si espone alla possibilità che anche un
solo consociato – qualsiasi consociato – possa efficacemente obiettare nei confronti
del sistema la violazione del suo diritto fondamentale. In altri termini, anche qui, il
sistema fondato sui diritti fondamentali deve poter essere efficacemente smentito da
chi si dichiari leso e deve poter essere da quel sistema efficacemente protetto
attraverso la rimozione della lesione.
Tornando alla formula di cui dicevamo (il diritto di esistere è il fondamento
dell’esistere del diritto), si possono conclusivamente riconoscere in essa tre strati. Al
primo strato, si dà una forza che si impone come pura forza; al secondo strato, si dà
una pura forza che, in quanto strutturalmente lacunosa e bisognosa di fondamento,
assume per fondamento simbolico la forza del diritto come forza della ragione; al terzo
strato, questo stesso fondamento simbolico si dà come forza della ragione in quanto
rinvia a ogni persona, a ogni persona intesa come diritto sussistente: a ogni persona,
nessuna esclusa, una per una considerata, a partire dall’ultima. Se nella prospettiva
esistenziale schmittiana il sovrano è la forza di chi decide sullo stato di eccezione, nella
prospettiva esistenziale personalista la persona è l’eccezione che resiste allo stato della
pura forza. Si tratta dell’eccezione costituita da ogni singolarità in ogni suo qui e ora,
almeno nei limiti in cui viene in luce la sua inviolabile dignità. In questa prospettiva, la
persona è l’anti-sovrano, esistenzialmente e universalmente collocato. Per altro verso,
se nella prospettiva formale kelseniana sovrano è il diritto come ordinamento, cioè
come schema (come schema individuato dalla ragione scientifica calcolante,
proceduralizzata), nella prospettiva esistenziale personalista la persona è la singolarità
esistenzialmente irriducibile allo schema, il quale, in quanto tale, non potrà mai in se
stesso risolvere una concreta esistenza. Tra lo schema e l’esistenza concreta si dà
sempre un limite insuperabile, costituito da due forme intrinsecamente connesse. Dati,
infatti, uno schema e una concreta esistenza, lo schema è segnato dalla strutturale
incapacità a incontrare una esistenza viva: da un lato, lo schema trasforma quella
esistenza in un mondo puramente intellettuale, che è strutturalmente separato da una
esistenza reale; dall’altro lato, lo schema assume il calco intellettuale di quella
esistenza reale in una forma classificatoria che pretende ridurre alla sua prospettazione
l’intero ente mentale di cui si occupa. In questa situazione di separazione strutturale,
uno schema non potrà mai incontrare una esistenza concreta, e una esistenza concreta
non potrà mai essere ospitata da uno schema. Lo schema compie, nei confronti
dell’esistenza reale, due trasformazioni inevitabili, che sono altrettanti snaturamenti.
Trasformazioni che passano inosservate e che, però, non sono innocenti. Lo schema,
istituendo un mondo virtuale, trasforma l’esistente reale in un ente mentale, separato
dall’esistenza, e riduce questo ente mentale a una sua forma classificata, separata dalla
stessa interezza dell’ente di cui discorre. Lo schema inevitabilmente intellettualizza e
mutila, consumandosi in un modello in cui dell’esistenza reale – carnale e qui e ora
vivente – non c’è più traccia.
La sovranità schmittiana del chi e la sovranità kelseniana del che trovano, in ogni
caso, fondamento in una effettività che dura. Ma questa effettività – una qualsiasi
effettività – non può, come già si diceva, darsi se non attraverso una forma di
persuasività simbolica. Ove mai questa persuasività accetti di esprimersi nella
valorialità della persona, il chi schmittiano e il che kelseniano troveranno davanti a sé
un unico e comune limite, costituito da una forza – una persona – che è,
contemporaneamente, un chi e un che: un chi irriducibile e universale, dotato di un
che irriducibile e universale.
Ma l’esistenza personale non costituisce limite soltanto rispetto alla forza
schmittiana e rispetto allo schema kelseniano. Essa è limite nei confronti della stessa
idea di popolo e della stessa idea di ragione. Sia l’idea di popolo che l’idea di ragione
debbono, cioè, a loro volta, essere valorialmente limitate, nelle loro pretese, dall’idea
di una singola persona, còlta nel nucleo inviolabile della sua esistenziale dignità. Né
al “popolo” né alla “ragione”, se il valore è la persona, si può sacrificare la persona.
Si tratta, come si diceva, di ogni persona, una alla volta considerata, a partire
dall’ultima. Una tale formulazione non è affatto enfatica, in quanto possiede un suo
preciso contenuto semantico, chiarificabile e vincolante, che è etico e metodologico.
Si tratta di istituire una visione in cui sia rovesciata la logica per cui una superiore
sovrabbondanza dovrebbe progressivamente includere gli esclusi. In una logica
rovesciata, invece, occorre non includere progressivamente gli esclusi, ma partire dal
nucleo inviolabile degli ultimi per costituire le basi di un’eventuale sovrabbondanza.
Non si tratta, cioè, di guardare secondo una prospettiva della inclusione, ma secondo
una logica della ri-fondazione. In questo senso, la persona – ogni persona – è,
restando quella persona, direttamente bene comune.
In ultima sintesi, in una rappresentazione assolutamente schematica, abbiamo, da
un lato, una forza che si impone come pura forza e, dall’altro lato, una persona la cui
esistenza si pone come forza che resiste alla pura forza. Si osservano, qui, due forze a
confronto. Ove mai la pura forza, che ha necessità strutturale di una saturazione
persuasiva, “accetti” – cioè, sia costretta ad assumere – come proprio fondamento
simbolico la forza esistenziale della persona, di ogni persona, ciò significherà che la
forza di questa esistenza personale andrà a costituire il fondamento simbolico mai
esauribile di quella pura forza, che ogni volta sarà chiamata a render conto del suo
“accettato” fondamento.
Ma una tale impostazione, che cerca di connettere – attraverso l’idea della persona
– la struttura della pura forza col fondamento simbolico della ragione, non rimuove
affatto dal mondo reale la contraddizione tra quella forza e questa persona. Una tale
contraddizione resta, dal punto di vista reale, insuperabile. Essa non è risolvibile in
termini puramente ideali, anche se non è inutile porsene il problema. L’unico modo di
contribuire a risolvere la contraddizione è quello di provvedere, anche idealmente, a
che essa venga ogni volta individuata e governata – caso per caso – secondo previste
strutture di garanzia. Le contraddizioni reali non possono essere risolte con soluzioni
puramente intellettuali, per quanto idealmente strutturate. Le soluzioni puramente
intellettuali diventerebbero, di fatto, soluzioni verbali. Ma prevedere forme di
soluzione e strutture di garanzia non è cosa da poco. In questo senso, prevedere
queste strutture, garantirne la messa in opera in ogni qui e ora e predisporre la
generale possibilità di controllarne di fatto – caso per caso – l’efficacia, anche su
impulso della stessa persona lesa, rappresentano un test permanente e capillare –
quasi popperiano ma non solo popperiano – sulla persuasività valoriale di una forza,
di ogni forza, e sullo stato di salute di un sistema che intenda testimoniare e
conservare – in una situazione storica determinata – un rapporto con l’umano.