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La guida fondamentale “Finalmente un libro con l’aplomb di ......dagli scettici, a volte con...

Date post: 28-Feb-2020
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IL MANUALE DEL PERFETTO COMING OUT Cosa fare e soprattutto non fare quando si dice o ci si sente dire “Io sono gay” Il libro che ha ispirato il film ROBERTO PROIA
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www.sonzognoeditori.it Cover design: Hangar Design Group

In copertina fotografi edi Stefano Montesi e Philippe Antonello

La guida fondamentale per arrivare al fatidico “Sono gay”con l’aplomb di un monaco zen

ROBERTO PROIA dopo svariate attività (cameriere

al Four Seasons Hotel di Milano, timbratore in una società di cilindri pneumatici

giapponese in Brianza, responsabile uffi cio stampa di MTV…) approda nel mondo del cinema dove lavora come direttore marketing, sceneggiatore e produttore.

La sua esperienza di coming out ha ispirato questo libro che è diventato un fi lm, Come

non detto, interpretato tra gli altri da Josafat Vagni, Monica Guerritore,

Ninni Bruschetta e Francesco Montanari.

Perché dirlo? Quando dirlo? Come dirlo? Dove dirlo? A chi dirlo? A chi non dirlo? A partire dalla propria esperienza personale, l’autore ha raccolto testimonianze, suggerimenti, tecniche di sopravvivenza e allenamenti mirati per chi ha deciso (e per chi non ancora) di fare il grande passo. Oltre a essere un prezioso libretto di istruzioni per l’uso, questo manuale è un vero e proprio compagno di viaggio e di avventure che ha molto da raccontare. In queste pagine troverete un po’ di tutto: dai tips & tricks ai racconti di coming out celebri, dalle citazioni che possono essere d’ispirazione ai piccoli esercizi spirituali per prepararsi serenamente al G-Day, al debutto gay in società. E non mancano ovviamente i consigli per gli etero destinatari della confessione (amici, genitori, coniugi). L’autore - che è anche produttore e sceneggiatore della commedia cinematografi ca ispirata a questo libro - ci mostra con tanti esempi che il coming out può essere perfi no divertente.

“Finalmente un libro che abbatte molti pregiudizi sui gay...

tipo che si vestono bene... l’autore di questo manuale

ne è la prova vivente”

VICTORIA CABELLO

Artwork by

RO

BER

TO PR

OIA

IL MANUALE DEL PERFETTOCOMING OUT

Cosa fare e soprattutto non fare quando si dice o ci si sente dire

“Io sono gay”

Il libro che ha ispirato il fi lm

ROBERTO PROIA

€ 15,00

ProiaCOMEcop.indd 1 26/07/12 17:11

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Roberto Proia

Come non detto

Il manuale del perfetto coming out

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© 2012 by Marsilio Editori® spa in Venezia Prima edizione digitale 2012In copertina: foto

ISBN 978-88-www. [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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COME NON DETTO

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A Tiziano Ferro

Quando Tiziano Ferro ha fatto coming out in pubblico, il suo gesto è stato bollato, dai più, come non necessario («Chi se ne frega di cosa fa in camera da letto?»), una mossa pubblicitaria per vendere più libri, più cd, una trovata per avere la copertina di «Vanity Fair» e così via. Io, invece, sono convinto che il suo coming out, fatto all’apice della popolarità, abbia detto a milioni di teenager in tutto il mondo: «Se siete gay va benissimo così, non commettete il mio stesso errore, non sprecate tempo pre­zioso sentendovi prigionieri della vergogna e, soprattutto, cerca­te di volervi più bene e vedrete che anche voi sarete persone migliori dopo che vi sarete accettati». E questo è lo stesso spirito che ha animato, ben prima del suo gesto, la nascita di questo libro e del film. Ho difeso strenuamente il gesto di Tiziano Ferro dagli scettici, a volte con ottimi risultati e altre volte meno, e questa dedica vuole essere anche un modo per chiarire il concet­to una volta per tutte. E per dirgli grazie.

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Il coming out. Tutti ne parlano: giornali, rete, tv, social network... Di solito accade quando una star o un perso­naggio celebre decide di fare il grande passo e di far sa­pere al mondo qualcosa di molto, molto personale, ov­vero che è gay. A guardarlo da lontano, il coming out potrebbe persino sembrare un red carpet – parata di star, flash di fotografi, fiumi d’inchiostro anche digitale pronti a essere versati. Un party? Poco ci manca anche se, come sappiamo, non tutti i party riescono bene.

Ma il coming out non si vive solo da lontano attra­verso le lenti delle macchine fotografiche, le interviste e il gossip. Anzi, per molti di noi, quel red carpet è anche e soprattutto nostro. Solo che attorno non avre­mo paparazzi, reporter, ammiratori e ammiratrici a caccia di autografi, ma famigliari e amici, parenti e col­leghi di lavoro, le persone che amiamo e quelle di cui non c’importa molto. E magari quel red carpet ci sem­bra terribilmente lungo e accidentato, in salita e pron­to a farci inciampare. Soprattutto se lo sbirciamo dal­l’armadio in cui ci siamo rinchiusi, per colpa delle cir­costanze, della paura e della nostra vocina interiore che ci diceva di stare attenti, che non era il momento giusto e che gli altri non erano pronti, che in fondo erano solo fatti nostri e che non c’era bisogno di uscire di lì. Ma la verità è che vivere in un armadio non è di­vertente neanche per chi non soffre di claustrofobia e

Introduzione

Sorridete, siete sul red carpet! (non su candid camera)

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non è allergico all’antitarme (e chi no?). Perché nell’ar­madio siamo soli, al buio, se ci va bene ci annoiamo a morte e, soprattutto, non riusciremo mai a prendere una tintarella decente. E poi quel red carpet è così in­vitante, sembra veramente steso lì davanti apposta per noi. E infatti lo è. E anche se magari ci sembra ancora lontano e irraggiungibile, quasi un miraggio, il fatto che ci pensiamo, che lo desideriamo, che lo sogniamo, significa che abbiamo già fatto il primo passo. Il primo passo, certo. C’è una buona ragione per cui non do­vremmo fare anche gli altri?

Ho scritto questo manuale assolutamente senza la pretesa di mettere insieme un decalogo, un libretto d’istruzioni o un corso intensivo alla fine del quale vi verrà rifilato un attestato di frequenza da appendere al muro (o, peggio, dentro l’armadio) per poi dimenti­carsene; se mai questo libro vuole essere un compa­gno di viaggio e di avventure, perché il coming out è sia un viaggio che un’avventura. Come tutti i compagni di viaggio che si rispettino, di certo non se ne sta sedu­to in un angolo a guardare il panorama ma ha molto da dire, non è un tipo taciturno e, soprattutto, conosce bene l’argomento. Perché il compagno di viaggio ci è già passato e conosce molti altri che ci sono già passa­ti, sa che il coming out può essere tanto liberatorio quanto divertente, sa che qualche volta le cose posso­no essere difficili ma sa anche che, qualunque cosa ac­cada, fuori dall’armadio staremo comunque meglio di come siamo stati dentro, sa che il coming out è un mo­mento di libertà e affermazione di sé a cui nessuno di noi dovrebbe mai rinunciare.

In queste pagine troverete un po’ di tutto: dai tips & tricks ai racconti di coming out celebri e non, dalle ci­tazioni che possono essere d’ispirazione (si spera!) a fatti strani e divertenti, e poi esercizi con cui “giocare”

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in preparazione al G­Day, il grande passo. Qui trove­rete molti degli infiniti ingredienti di un perfetto co­ming out, ma non la ricetta. Perché quella, davvero, spetta a voi crearla.

Il mio coming out

Era il 1993, vivevo a San Francisco. Avevo vinto una borsa di studio subito dopo la laurea in Lingue per fre­quentare un master di un anno in una qualsiasi località degli Stati Uniti. So che neanche voi mi crederete ma la Golden Gate University di San Francisco è stata l’unica università americana ad avermi accettato. Una coinci­denza, quindi. E che coincidenza...

Già da un bel po’ di tempo avevo la matematica cer­tezza di essere gay ma l’unica depositaria del mio segre­to era la mia amica Stefania. Poverina, essendo lei l’uni­co sfogo, se dopo oltre venti anni siamo ancora amici deve volermi proprio bene.

Quindi ricapitolando, avevo ventiquattro anni, ero andato a vivere a quattordici ore di volo dalla mia fa­miglia, ero totalmente represso – ed ero vergine. A San Francisco. Niente male come quadretto, eh?

Si stava avvicinando il capodanno, il mio primo capo­danno gay. Mi ero fatto parecchi amici nei quattro mesi che avevo passato lì e loro, sapendo che per me sarebbe stata una festa importante, mi avevano organizzato un capodanno che prometteva di essere a dir poco indi­menticabile.

Sentivo la mia famiglia due­tre volte a settimana e durante ogni telefonata per qualche minuto ero obbli­gato a rimettermi i panni di “Roberto l’Etero”, che però era troppo serio per cambiare fidanzata ogni due mesi. Tanto l’operazione di maquillage mi impegnava circa venti minuti a settimana. Ben poca cosa, tutto sommato.

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Un giorno mi chiama mio fratello, etero, di quattro anni più grande che mi chiede se il 5 gennaio può ve­nirmi a trovare. Enorme, enorme seccatura. Avrei do­vuto studiare di nuovo la parte, assicurarmi che gli ami­ci che gli avrei presentato fossero “insospettabili”, ma­gari chiedere a quella ragazza che usciva spesso con noi di fingere che tra di noi ci fosse in effetti qualcosa. Una faticaccia, insomma. Però si sarebbe trattato di ripren­dere per una settimana a recitare una parte che comun­que avevo interpretato per anni. Di nuovo, ben poca cosa mi dissi. Gli chiesi se sarebbe venuto con la fidan­zata, il che, pur avendo lo svantaggio di avere il doppio del pubblico da “intrattenere”, mi avrebbe però per­messo di non avere mio fratello tra i piedi per tutto il tempo. Nota a margine ma non così a margine: mio fra­tello per anni ha beneficiato del fatto che portavo a casa amiche molto carine, che magari erano cotte di me ma (inevitabilmente) non ricambiate e che quindi erano per lui uno straordinario terreno di caccia. Una in particola­re, la più tenace di tutte, si chiamava Simona, una ra­gazza milanese che non lo degnava di uno sguardo tan­to era focalizzata sul suo obiettivo.

Ma torniamo a noi. È il 28 di dicembre. Io ormai sono così pronto allo scoccare del 1994 che dormo col cappel­letto di cartone happy new year ormai da una settimana. Arriva la solita telefonata dall’Italia. Anzi no. Non era la solita. Mio fratello si è mollato con la tipa. È triste. Ha bisogno di svago. Pensa che fare capodanno a San Francisco gli risolleverà il morale. In quel momento mi trasformo in Robert De Niro per fingere felicità invece di urlare dentro un asciugamano qualche raffinata be­stemmia. Mi comunica che arriverà il 30 pomeriggio e mi chiede se lo vado a prendere.

Inutile dire che tutta la leggerezza che avevo guada­gnato in quei mesi mi si stava ritorcendo contro. Avevo

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assaggiato la libertà e adesso anche sacrificarmi accet­tando un “capodanno etero” per non dare alla farsa una fine troppo brusca mi buttava giù. Non potevo mettere in scena in due giorni quello che avrei dovuto prepara­re in mesi e mesi con piccoli indizi, brevi frasi per tastare il terreno in attesa del momento perfetto. Insomma non avevo scelta.

Sono all’aeroporto. Mi faccio prestare l’auto da un amico. Al gate sono funereo. Ok siamo onesti: sono in­cazzato nero e fumante. Non è colpa di mio fratello, po­verino, e non è giusto che la paghi lui e quindi mi devo sfogare ribollendo per conto mio finché non si apriran­no le porte e comparirà lui con tutte le sue aspettative di dimenticare la sua ragazza. Il volo è atterrato. Bene. La possibilità che venisse dirottato a Cuba anche solo per una notte è svanita. Eccolo, è arrivato. Convenevoli. Io sono bravissimo, reggo la parte da attore consumato. Braccia rubate alla Notte degli Oscar. D’altronde l’espe­rienza paga, e io ne ho da vendere, anche troppa. Salia­mo in macchina. Ma che bella città... ti trovi bene... hai fatto amicizie... mamma ti saluta e mi chiede di control­lare che il frigo sia sempre pieno... a scuola come va... io sento solo le vocali ma sorrido...

Poi: semaforo rosso. «Senti, Armando, devo dirti una cosa importante. Io

sono gay.» L’avevo detto davvero oppure di nuovo lo stavo pensando per immaginare le reazioni come avevo fatto tante di quelle volte che ormai avevo perso il con­to? La sua espressione mi confermò che, sì, lo avevo detto. Eravamo entrambi molto molto sorpresi.

«In che senso?» chiede lui. «Be’, non ci sono molti altri sensi.» Lui: muto per quello che mi sembrò praticamente un

anno. Poi: «Senti, posso chiederti una cosa?». Natural­mente, in virtù del fatto che mi sentivo schiacciato dal

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senso di colpa, avrebbe potuto chiedermi anche un re­ne. E invece: «Lo diresti subito a Simona, così finalmen­te si mette l’anima in pace?».

Scoppiammo a ridere insieme. Quello fu l’unico capodanno che mi ricordo in ogni

minimo dettaglio.

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In un armadio possiamo mettere qualunque cosa: ov­viamente i vestiti e le scarpe, ma anche gli sci da fondo che non abbiamo mai usato, l’orribile quadro che ci ha regalato la prozia che vediamo esclusivamente alle fe­ste comandate e tiriamo fuori solo se siamo certi che passerà a trovarci, scorte di dolci per far fronte a fami notturne improvvise e incontrollabili che non voglia­mo rendere note agli altri e, all’occorrenza, uno sche­letro. Insomma, un armadio serve a contenere (e a na­scondere) davvero un sacco di cose. Ma per quanto utile possa essere un armadio, è il caso di rinchiuderci lì dentro a doppia mandata? Insieme a vestiti, scarpe, sci da fondo, quadri inguardabili e tutti quei biscotti? Alla fine ci ritroveremmo con indosso abiti datati, ai piedi scomodi e pesanti sci e pieni di biscotti fino a scoppiare. Che razza di vita, nessuno con cui parlare. A parte quello scheletro. E già, lo scheletro... Che stra­namente tanto scheletro non è e, a ben guardare, as­somiglia tantissimo a qualcuno che conosciamo molto bene – a noi.

Diciamocelo: nell’armadio non è proprio vita, ma se la vita è come una scatola di cioccolatini... No, questo non c’entra. O forse sì, perché se nasciamo gay (e sot­tolineo nasciamo), è quel cioccolatino che ci è capitato. Ed è veramente squisito. Possiamo anche metterci in te­sta di emulare Forrest Gump e correre quanto vogliamo

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L’armadio, il cioccolatino e il ballo delle debuttanti

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(ma sarà il caso, poi?) ma quello è il nostro cioccolatino. E un cioccolatino così favoloso e così irresistibile è pro­prio il caso di chiuderlo, rinchiuderlo, segregarlo, con­dannarlo a starsene dentro l’armadio? La risposta è no, naturalmente. Nemmeno per sogno. O per incubo. O per vie di mezzo. No.

Ma questo è uno sbaglio che, magari per un periodo più o meno breve, commettiamo tutti. E a volte ci ritro­viamo, per circostanze esterne o per ragionamenti, elucubrazioni varie e per renderci la vita apparente­mente più semplice, a costruire con le nostre mani l’ar­madio, un’asse alla volta, uno scaffale alla volta, porta e maniglia e serratura comprese. Le gioie della fale­gnameria e del fai da te. Almeno potessimo aggiunger­le come voce al nostro curriculum professionale! E in­vece neanche questo. Perché è un segreto. L’armadio stesso è un segreto. Nessuno, tranne noi, deve sapere che c’è. È praticamente un segreto dentro un segreto, matrioske di segreti.

A prima vista, una faccenda molto complicata, dav­vero.

A prima vista. Perché possiamo sempre, in qualun­que momento, decidere di darci un taglio con la fale­gnameria e le bambole russe, soffiare sull’armadio co­me il famoso lupo della casa dei tre porcellini e raderlo al suolo (tra parentesi, per chi non lo avesse capito, io tifavo per il lupo e detestavo quei tre fratellini petulan­ti). Farlo svanire. Dissolverlo, per liberarci una volta per tutte. E mettere una prima zampa, pardon, un piede sul red carpet.

Forse la cosa più difficile di tutte non è farlo ma deci­dere di farlo.

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Pellicola e cartaÈ nato prima l’uovo (il film) o la gallina (il libro)? Diciamo che è nata prima l’idea. L’idea di raccontare, sia in pellicola che su carta, sia con una storia che con un manuale, un evento davvero unico nel suo esse-re metà farsa e metà tragedia. L’idea di dare finalmente spazio alla parte farsesca troppe volte eclissata dalla controparte tragica che ha avuto così spesso un trattamento preferenziale, raccontando invece le mille sfumature buffe e divertenti che precedono e, soprattutto, seguo-no un coming out. Ma, come tutte le storie, anche questa inizia dal l’inizio. Abbiamo nel film un protagonista, Mattia Sberla, 25 anni e nessuna intenzione di rivelare ai suoi che è gay. Sta per trasferirsi in Spagna dove andrà a vivere col fidanzato Eduard, che è convinto che Mattia abbia detto tut-to a tutti. Ma il castello di carte (e di equivoci) rischia di crollare quan-do Eduard annuncia che è arrivato a Roma per conoscere i “suoceri”. Mattia, preso tra l’incudine e il martello, ha sette ore per decidere se rivelare ai genitori che è gay o al fidanzato che gli ha mentito. Senza rovinarvi il finale, diciamo che, come accade spesso, una minaccia si rivela un’opportunità e viceversa...

Mamma, papà, devo dirvi una cosa: sono biondo!

Se questo fosse un mondo perfetto, annunciare all’uni­verso mondo o a mamma e papà, o anche solo all’amica del cuore (che 9 su 10 lo ha già capito ma aspetta che siamo noi a parlarne) o all’edicolante sotto casa che sia­mo gay sarebbe davvero come dire sono biondo, o peso 70 chili (magari) o, per restare in tema, sono etero. Una cosa che in generale viene data per scontata o che ma­gari risulta addirittura visibile a occhio nudo, dati di fat­to di cui in teoria potremmo tranquillamente non parla­re – dopo tutto nessuno convoca il parentado e gli ami­ci per informarli che le lasagne non gli piacciono ma che le tortillas, sì, eccome, giusto? (Forse per qualche mam­

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ma un po’ tradizionalista a tavola questa potrebbe per­sino essere una notizia ferale e terribile, ma non entria­mo nel merito...) Nessuno, ma proprio nessuno, ci pensa e rimugina e riflette per settimane o per mesi prima di rivelare al mondo che gli piace l’hockey sul ghiaccio mentre il calcio, no, non gli interessa nemmeno tanto così – e via discorrendo.

In un mondo perfetto, già.Solo che, breaking news, questo è un mondo imper­

fetto. E per imperfetto intendo esclusivo e non inclusi­vo, che prende in considerazione solo una parte e non tutti, un modello unico che si applica senza pensarci e senza porsi mezza domanda che sia mezza.

Banalmente, anche soltanto nelle pubblicità, per ven­dere qualsiasi cosa, dalle auto agli aspirapolvere alle polizze assicurative agli integratori di sali minerali ai cracker, nel novantanove per cento dei casi viene usato un immaginario etero fatto di famigliole e coppiette ete­ro, felicissimamente etero. Tutto o quasi tutto ciò che ci circonda è così inesorabilmente etero che non ci faccia­mo neanche più caso. È un mondo bruno, non biondo. Un mondo in cui i gay non comprano auto e non man­giano cracker. Siamo abituati così, punto. Le nostre fa­miglie e i nostri amici sono abituati così. E tra questo e il momento in cui ci ritroviamo con in mano chiodi e mar­tello, impegnati a costruire il nostro “caro” armadio, il passo è veramente molto breve. E molto subdolo.

Magari ci sembra persino naturale o, se non naturale, comunque in qualche modo inevitabile. Magari ci dia­mo anche le pacche sulle spalle da soli per come sono venute le ante (a prova di bomba, resistenti ai raggi X e pure alla kryptonite, perché o le cose si fanno bene o non si fanno, eh...) o le mensole o per il lucchetto che abbiamo montato. Magari prima di entrarci guardiamo l’armadio e ci diciamo che ci troveremo bene lì dentro,

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che risolverà un sacco ma veramente un sacco di proble­mi per noi, che renderà meno imperfetto il nostro mon­do. Magari mentre chiudiamo le ante alle nostre spalle non immaginiamo nemmeno che arriverà un giorno speciale in cui vorremo uscire dall’armadio e saremo pronti a farlo, un giorno speciale in cui vorremo dire al mondo (imperfetto, okay, ma per una volta ascolterà) che siamo biondi, ooops, gay, che il cioccolatino che ci è capitato ci piace alla follia, ci fa bene, ci rende felici, non ci fa ingrassare, è tutta salute. È quello giusto per noi. Anzi, è giusto, punto e basta.

Non lo immaginiamo ma quel giorno c’è già. È (sarà) il giorno del nostro coming out.

Lo scheletro nell’armadio e il ballo delle debuttanti

Che l’armadio non sia oggi (e non sia mai stato) un luo­go ameno lo si evince anche dalle origini dell’espressio­ne in the closet, “nell’armadio”, che prevede il prover­biale scheletro ficcato lì dentro in modo che nessuno possa anche solo sospettarne l’esistenza. Ma di più. Nel caso non aveste ancora abbastanza orrore dell’armadio, sappiate che, molto tempo fa, lo scheletro in questione si riferiva a qualcosa di terribilmente reale e concreto, non simbolico: si trattava infatti dei cadaveri che veni­vano trafugati da personaggi senza scrupoli e venivano poi venduti a medici e scienziati che se ne servivano per ricerche ed esperimenti (tanto per capirci, il nome di Viktor Frankenstein vi dice qualcosa?).

Col passare del tempo, per estensione, lo scheletro è diventato simbolo di vergogna che dev’essere tenuta nascosta, segreto inconfessabile e così via. Quindi, in un certo senso, quando ci attardiamo nell’armadio, ci troviamo in pessima e lugubre compagnia – cadaveri, scheletri, colpe e annessi e connessi. E, davvero, nem­

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meno il più sfegatato amante dell’horror ci si trovereb­be a proprio agio.

Al contrario, l’espressione coming out rimanda a un evento felice, una sorta di rito di passaggio che merita di essere festeggiato. Infatti, ancora oggi, in alcuni ambien­ti viene usata per indicare l’occasione in cui una fanciul­la (ma noi non ci formalizziamo, vero?), debitamente agghindata e imbellettata, fa il suo debutto in società. Si capisce, i gusti sono gusti, e probabilmente a molti l’idea del ballo delle debuttanti fa venire i capelli dritti in testa quanto il pensiero di scheletri stipati in spazi angusti, ma il punto è un altro – il punto è che il coming out è una festa, è un momento di gioia e anche, come sopra, di passaggio.

E adesso, sul serio, alzi la mano (fan dell’horror in­clusi) chi di noi davvero preferirebbe starsene al buio in un armadio insieme a uno scheletro piuttosto che uscire per andare a un party strepitoso.

La verità è che non sei etero abbastanza

No, è che non lo sei per niente. Ma tutti – tua madre, tuo padre, i tuoi nonni, i tuoi insegnanti, il commesso che ti deve vendere lo spremiagrumi, il meccanico che ti aggiusta l’auto, il panettiere (ah, no, lui no: giusto l’altra sera lo hai visto in un locale gay), la baby­sitter dei tuoi fratellini che implacabile ti fa gli occhi dolci – tutti si aspettano che tu sia etero. Talmente tanto e talmente in tanti che qualche volta (spesso, probabilmente) te lo sei aspettato persino tu, pur sapendo benissimo che il tuo cioccolatino non ha proprio niente che non va, anzi. O lo hai desiderato.

Perché? Perché c’è un piccolo te etero in miniatura in agguato nel tuo cuore dei cuori che aspetta solo che tu ti accorga di lui e gli permetta di esprimersi?

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No, niente affatto. Perché è – o sei convinto che sarebbe – tutto infinita­

mente più semplice, una vita in cui non devi spiegare a nessuno che sei biondo, in cui hai pescato il cioccolatino che hanno pescato anche gli altri, una vita in cui potrai anche infilarti e chiuderti in altri armadi, e incontrare altri scheletri, ma non in questo particolare armadio. Non c’è niente di cui vergognarsi, non saresti il primo gay, e nemmeno sarai l’ultimo, che va a dormire la sera sperando di svegliarsi etero la mattina dopo (e magari facendo, nel frattempo, sogni appropriatamente etero). Però com’è come non è, di una delle più famose coppie di Hollywood, Brad e Angelina, quello che ti consegna senza vestiti il tuo inconscio è sempre ma proprio sem­pre, puntuale e implacabile, il Brangelina sbagliato. O meglio giusto. Ma non giusto per un etero. Ma giusto per te. Ma non per un etero. Ma per te sì. E così via, fino allo sfinimento...

Veniamo alle ragioni per cui ti ritrovi nell’armadio, in mezzo agli ometti (si tratta solo di semplici ap pen di­abi ti in questo caso, purtroppo), stordito dall’odore del­la naftalina e allucinato da certe giacche oscene che hai comprato quando eri più giovane e ingenuo. Spesso ci sono motivi decisamente seri. C’è la paura di affronta­re un ambiente che magari è tutt’altro che gay friendly o che tu percepisci così, tanto da spingerti a scegliere l’armadio. C’è la paura di essere “sbagliato” (virgolette d’obbligo, non servirebbe nemmeno dirlo), la paura di ritrovarti a essere la pecora nera – anzi, rosa shocking – in un gregge di pecore candide (oddio, candide candide poi...), la paura di deludere le aspettative altrui, la paura di non essere più accettati dai genitori, dalle persone a cui vogliamo bene – paura di essere giudicati male dal cane, dal gatto, dal pappagallino, dall’istruttore di tiro con l’arco, paura che il mondo finisca, altro che profezie

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maya e meteoriti in corsa contro la Terra, questa è l’uni­ca vera apocalisse con noi in rotta di collisione con qua­lunque cosa. E la paura è una forza potentissima, in gra­do di influenzare le nostre decisioni, a scapito della no­stra felicità, dei nostri desideri, della nostra identità.

Quindi, eccoti qui, chiuso in un armadio fatto di aspettative, giudizi e pregiudizi, cose date per scontate che scontate non sono proprio per niente, paure che so­no vere anche se sono vere solo per te. Ma c’è un ma. Per fortuna c’è un ma. Ed è un ma grosso non come una casa ma come un’anta. L’anta dell’armadio è fatta di tutti i buoni motivi che hai per uscire di lì. E la puoi apri­re in qualunque momento e trovarti finalmente sul red carpet che è lì, srotolato e invitante, e non aspetta che te.

Il grosso ma

Sarebbe quasi inutile dirlo ma lo diciamo lo stesso: così come non esiste una persona uguale all’altra, non esiste un coming out uguale all’altro. Non esiste nelle moda­lità, nelle circostanze e anche nelle motivazioni. La mia esperienza la conoscete, per qualcun altro le ragioni che portano a voler percorrere il red carpet possono essere diversissime. Inoltre qualche volta siamo noi a trovare i motivi per fare coming out, a volte sono i motivi che trovano noi, che magari credevamo di non aver nem­meno cominciato a cercarli.

La segretezza imposta (in minima parte) o autoimpo­sta (in massima) è un peso che affligge, l’alienazione da chi siamo veramente fa male, fingere è faticoso e logo­rante e ci deruba di un sacco di energie che potremmo usare per andare in palestra, farci nuovi amici (chi ha orecchie per intendere, intenda ciò che vuole...), vivere una vita piena, appassionante, la vita che vorremmo. Ma anche: farsi dominare dalla paura non è mai una scelta

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saggia, e avere rapporti onesti con le persone che conta­no per noi è fondamentale. È giusto offrire agli altri la possibilità di sapere chi siamo e di amarci come siamo al cento per cento. Questo significa che quando dichia­riamo di essere gay diventiamo un’altra persona, che il nostro orientamento sessuale determina chi siamo? No, ma fa parte di chi siamo e non dobbiamo vergognarce­ne. Non si tratta di avere una doppia identità, quanto di non averne una monca, amputata, parziale, incompleta. Ma di più, chi in possesso di tutte le sue facoltà mentali sceglierebbe consapevolmente una vita fatta di segre­tezza, sotterfugi, scissione da sé, mille difficoltà sempre più pesanti, situazioni imbarazzanti, invece di una vita alla luce del sole, libera, integra, in cui si è sinceri con se stessi e con gli altri, liberi da paura e timori?

Se sembra una domanda retorica è perché lo è e non potrebbe essere che così ma nonostante tutto è impor­tante e rende davvero l’idea. Ogni essere umano sulla faccia della terra o in orbita intorno alla stessa dentro qualche navicella spaziale – che sia un filosofo sufi ete­ro, una spogliarellista lesbica, un capo di stato bisessua­le, un taglialegna dell’Oregon trans, una scrittrice di best seller asessuale, un bambino che guarda le stelle dalla finestra della sua camera e non vuole essere nient’altro o quello che volete voi – vuole più di ogni altra cosa es­sere se stesso, essere libero di essere se stesso, essere fiero di ciò che è.

Non in mondovisione, non tra dieci minuti

Ricapitolando: siamo chiusi nell’armadio, abbiamo le idee più chiare riguardo a ciò che l’armadio è e rappre­senta, e abbiamo fatto il punto sulle motivazioni per cui fare il grande passo. (Se state leggendo questo libro, molto probabilmente siete già attratti dall’idea di fare

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