Date post: | 01-Nov-2014 |
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Indice
1
Matteo Majer
LA LIBERTA’ VERA
Alla ricerca della propria natura e del benessere personale.
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INDICE
1. Premessa.
Pag. 4
2. I primi passi da adulto.
Pag. 5
APPROFONDIMENTO - La fuga dal problema, l’evitamento.
Pag. 5
APPROFONDIMENTO - Il concetto di responsabilità in psicologia.
Pag. 7
APPROFONDIMENTO - L’autoefficacia.
Pag. 8
3. Il periodo buio.
Pag. 10
APPROFONDIMENTO - La cultura e l’allineamento.
Pag. 10
4. La prima rinascita.
Pag. 13
APPROFONDIMENTO – L’apprendimento.
Pag. 13
APPROFONDIMENTO - L’intelligenza emotiva.
Pag. 16
5. Il cambiamento.
Pag. 19
APPROFONDIMENTO - La percezione, la lettura degli eventi e la
valutazione cognitiva.
Pag. 19
6. La montagna e le grandi sfide. Ulteriore consapevolezza.
Pag. 24
APPROFONDIMENTO - La resilienza.
Pag. 24
7. Oggi.
Pag. 26
APPROFONDIMENTO - Il giudizio degli altri.
Pag. 27
8. Il futuro.
Pag. 30
Bibliografia. Pag. 31
3
A Marco e Giulia.
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TITOLO
LA LIBERTA’ VERA
Alla ricerca della propria natura e del benessere personale.
Non sono un uomo fortunato, mi ritengo un uomo libero…abbastanza libero…
1. Premessa.
Scrivo questo e-book dopo aver fatto varie esperienze di vita e ritenendo che ciò che ho appreso
da esse possa essere utile anche altri.
Non credo nel destino o nella fortuna, ritengo che ogni persona possa creare la propria vita e
raggiungere il benessere attraverso l’impegno e il sacrificio assumendosi in prima persona le
proprie responsabilità rispetto a ciò che le accade e ai risultati che ottiene / ha ottenuto.
Personalmente, non penso di avere talenti e/o doti particolari né di essere stato fortunato né,
tantomeno, di aver fatto sempre scelte appropriate nella mia vita. Di sicuro, invece, ho sempre
cercato di imparare qualcosa dai miei errori e dalle esperienze vissute. È sempre possibile
apprendere e migliorarsi.
Quella che vado a descrivere è la mia storia recente che spero possa fungere da stimolo di
riflessione per tutte quelle persone che vogliono andare OLTRE e migliorarsi, quelle persone che
sono alla ricerca del loro vero benessere.
PS. Durante la narrazione vengono presentati alcuni approfondimenti che sono solo una piccola
parte degli apprendimenti avvenuti in questi anni.
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2 . I primi passi da adulto.
Il mio percorso di apprendimento, di ricerca del benessere, di realizzazione e della vera libertà è
iniziato molti anni fa.
Dopo la laurea, che mi ha dato molto sotto il profilo teorico, ma quasi nulla a livello pratico, sono
andato a risiedere all’estero, precisamente in Brasile.
Accompagnato da un amico alla scoperta di questo nuovo mondo mi sono trovato, inizialmente, a
contatto con molti italiani. Dopo un primo periodo di conoscenza e assestamento nella nuova
realtà ho maturato un mio personale punto di vista rispetto a queste persone e alla realtà che mi
circondava. Vivendo in questa piccola comunità di italiani in Sudamerica mi sono reso conto
come la maggior parte di queste persone fossero in “fuga”. Ma da cosa fuggivano?
Alcuni dall’Italia, altri dall’occidente e dal modo di vivere occidentale, altri ancora dalla famiglia,
altri dalle forze dell’ordine. Erano persone che all’apparenza sembravano felici ma che, ad uno
sguardo più profondo, risultavano essere tristi e disadattati. La sensazione di tristezza che
emanavano era dovuta al fatto di non essere a posto con se stessi, di non “avercela fatta” nel
mondo dal quale provenivano. “Mondo” che non li aveva voluti ma che, in qualche modo, si
erano portati appresso.
Ed allora eccoli lì, sicuramente non in perfetta forma fisica, di mezza età, lontani migliaia di
chilometri dalla loro terra di origine a cercare il benessere fuori da se stessi. Soprattutto attraverso
l’alcool, la droga e le ragazzine brasiliane.
L’impressione era quella di persone “fallite” o non riuscite, non in pace con se stesse, che non
avevano risolto questioni personali in patria e che pensavano, risiedendo in un altro paese, di
trovare benessere e pace interiore.
APPROFONDIMENTO – La fuga dal problema, l’evitamento.
La fuga è una difesa psichica volta ad allontanare l'individuo da uno stimolo ansiogeno
attraverso il semplice meccanismo del non fronteggiare tale stimolo. La conseguenza è un
aumento della percezione di pericolosità dello stimolo evitato.
Questo tipo di difesa è, per la psicologia cognitiva, alla base delle fobie e del mantenimento di
credenze disfunzionali (convinzioni di pericolosità di oggetti o eventi). Quanto più un
individuo evita di esporsi ad oggetti o situazioni che gli provocano paura, tanto più sarà
confermata in lui la credenza che tale oggetto o situazione siano realmente pericolose.
La fuga dal problema può diventare un limite della propria libertà e questo dipende da ciò che
la persona evita.
Se coinvolge situazioni poco frequenti, la vita dell’individuo può procedere normalmente, ma
se riguarda comportamenti/pensieri molto frequenti e indispensabili, come ad esempio il fatto
di frequentare luoghi affollati, possono esserci degli impatti molto negativi e ingenti sulle
dinamiche socio-familiari, le relazioni socio-affettive ed il benessere psico-fisico della persona.
Le tecniche di esposizione o desensibilizzazione (esporre gradualmente in maniera consapevole
l'individuo allo stimolo temuto) permettono di diminuire sensibilmente la credenza di
pericolosità dell'oggetto/situazione temuto.*
Bisogna distinguere le differenti modalità di approccio che le persone possono mettere in atto di
fronte ad un ostacolo. Le modalità possono essere tendenzialmente tre.
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1. Evitamento = è la classica situazione di quelle persone che non vogliono o non si
sentono in grado di superare l’ostacolo per cui cercano in tutti i modi di trovare altre
strade, a volte non proprio lecite, per non affrontarlo, credendo che in tale modo si
possa risolvere la situazione. In questo caso, invece, si cerca di non vedere l’ostacolo e
pertanto si agisce in modo non funzionale al proprio miglioramento. Un domani,
qualora l’ostacolo si ripresentasse, potrebbero non esserci più le condizioni per evitarlo
o fare finta che non esista.
2. Eliminazione = in questo caso le persone tendono ad “entrare in guerra”, ad essere
“contro” e fanno di tutto per cercare di eliminare, distruggere, annientare ciò che si
trova nel loro percorso. Anche in questo caso non abbiamo evoluzione personale in
quanto non sempre è possibile eliminare ciò che non ci consente il raggiungimento dei
nostri obiettivi.
3. Superamento = consiste nel prendere atto dell’esistenza dell’ostacolo, analizzarne i
confini, le dimensioni, le caratteristiche e affrontarlo al fine di superarlo e, in questo
modo, essere in grado in futuro di gestire con successo una situazione simile qualora
dovesse ripresentarsi.
* Young J. E., Klosko J. S., Weishaar M. E. & Carrozza A. (2007). Schema therapy, La terapia cognitivo-comportamentale
integrata per i disturbi della personalità. Eclipsi.
In questo ambiente mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Ecco perché rapidamente ho lasciato
la comunità degli italiani per vivere da “brasiliano”. Ho iniziato a frequentare sempre più persone
del luogo, arrangiandomi, svolgendo lavori semplici quali il barista, l’aiuto cuoco, il traduttore,
l’insegnante di italiano e l’aiutante nel trasporto di mobili. Dopo quasi due anni mi sentivo come
uno di loro. Povero di soldi e ricco di relazioni. Ho imparato ad amare quelle persone, quel
mondo, fatto di amicizia, semplicità, essenzialità e poco centrato sull’accumulo di merci, oggetti e
sul denaro.
Ho scoperto come la natura di queste persone semplici fosse però già intaccata dal benessere
inteso in senso occidentale, cioè come tanto-avere. Le persone con maggiore disponibilità di
denaro trattavano quelle che svolgevano lavori più umili come fossero i loro servitori. Ricordo,
durante un lavoro di trasporto mobili presso una persona benestante, come siamo stati trattati
senza umanità e rispetto per la nostra persona. Forse erano i postumi di una cultura coloniale ma
penso, purtroppo, fossero i primi segnali di una tendenza globale che aumenta le distanze e le
differenze tra le persone e che rende i ricchi di denaro sempre più ricchi, senza scrupoli e rispetto
degli altri, e chi ha pochi soldi, ad averne sempre meno, sottomessi, in posizione di inferiorità,
trattati alla stregua di schiavi. Qui ho potuto vivere e osservare di persona i primi sintomi di questa
malattia globale: l’accumulo della ricchezza economica in un numero esiguo di persone.
Personalmente, nel frattempo, maturavo una prima idea di libertà e di futuro sviluppo personale.
Mi dicevo “io sono qui temporaneamente, io tra uno/due anni torno e voglio avere successo nel
mio mondo. Io non sono come gli italiani che sono qui né come i brasiliani”. Ed in effetti…
In quel mondo c’ero capitato non per caso, per altri motivi e seguendo un amico. Sicuramente
avevo scelto in autonomia quella strada e sicuramente ero anche stato influenzato dalle scelte di
Paolo, il mio amico. Come avevo fatto ad arrivare fin laggiù? Pagandomi il biglietto aereo con i
soldi guadagnati facendo dei lavori in Italia: consegna dei quotidiani negli appartamenti, aiuto
muratore, lavoro di ufficio e inserimento dati.
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Tutti questi elementi mi hanno fatto riflettere rispetto alle responsabilità che abbiamo nelle nostre
scelte. Sempre e comunque, che si voglia o no, noi scegliamo nella nostra vita. Io avevo scelto di
procurarmi il denaro per andare a risiedere all’estero. Io avevo scelto come meta il Brasile. Io
avevo scelto di seguire Paolo. Io avevo scelto di allontanarmi dalla comunità italiana. Sono tutte le
scelte, anche quelle piccole, che compiamo consapevolmente e inconsapevolmente ogni giorno
che determinano chi siamo oggi.
In fin dei conti, è stata mia la responsabilità delle scelte effettuate.
APPROFONDIMENTO – Il concetto di responsabilità in psicologia.
La responsabilità sarebbe, secondo la corrente psicanalitica, uno spazio psichico funzionale
orientato alla mediazione ed all’elaborazione dei conflitti interni/esterni all’individuo.
L’approccio proposto da tale disciplina risulterebbe, dunque, di tipo qualitativo, riconducendo
il problema ad un originale sguardo alla responsabilità come ad una diretta caratteristica del
legame tra l’Io e l’azione.
La psicologia cognitiva, invece, differenziandosi nettamente dalla proposta precedente, ha
dimostrato di non interessarsi direttamente ad una comprensione etimologica del concetto di
responsabilità, ponendo piuttosto il proprio interesse all’indagine dei meccanismi preposti alla
formazione ed all’organizzazione del pensiero, del giudizio morale e dei ragionamenti coinvolti
nei suddetti processi. In maniera particolare sarebbero state indagate le fasi evolutive delle
capacità cognitive nelle specifiche fasi dell’età evolutiva, percependo il processo di
responsabilizzazione come un meccanismo di acquisizione del pensiero morale, etico e civile
reso possibile mediante un’interiorizzazione delle regole provenienti dal contesto culturale di
appartenenza.
Studi specifici condotti da Jean Piaget avrebbero, infatti, evidenziato la rilevante importanza
occupata dalle differenze di genere, di ceto sociale e più in generale dalle variabili culturali ed
ambientali nel processo di responsabilizzazione individuale. *
La responsabilità è, inoltre, direttamente collegata alla personale capacità di indicare se stessi
come causa dei risultati che si ottengono (vedi Rotter, teoria del “Locus of Control”,
sull’attribuzione di causalità). Purtroppo, invece, è molto diffusa la cultura della giustificazione
o degli alibi. Spesso gli individui tendono a cercare e trovare delle scuse e quindi attribuire i
propri insuccessi a fattori indipendenti dal proprio volere e comunque esterni ad essi. Se la
situazione non è come si vuole o ci si adatta ad essa o si cerca di crearne una appropriata per il
raggiungimento dei propri obiettivi. Lamentarsi, o basarsi su cause esterne per spiegare le
proprie scelte e i propri insuccessi, non consente alle persone di apprendere e di migliorare.
Infatti, se una persona continua ad affermare, soprattutto verso se stessa, che “un certo obiettivo
non è raggiungibile perché…”, e questo perché non ha a che fare con se stessa, si sentirà
autorizzata a non fare nulla per modificarsi e per gestire la situazione. Quindi attraverso questo
atteggiamento, ci si autoconvince che la situazione non sia modificabile e che non dipenda da
noi. Pertanto, non si agisce verso l’unico elemento sul quale abbiamo una diretta influenza e la
possibilità di cambiamento: se stessi.
* De Leo G. (1996). Psicologia della responsabilità. Laterza.
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A questo punto scelgo di tornare in Italia, perché? Mi ero integrato felicemente nel modo di
vivere di quel paese sudamericano, avevo sviluppato amicizie e conoscenze interessanti, avevo
viaggiato e imparato tante cose. Stavo bene lì. Mi ero integrato a tal punto che le persone del
luogo pensavano fossi brasiliano o paraguaiano…
E allora perché tornare? Anche qui si tratta di effettuare una scelta. Con il senno di poi e
riflettendo su come sono andate le cose il motivo principale per il quale ho scelto di tornare in
Italia è stato sicuramente il fatto di volermi realizzare nel mio paese di origine. Probabilmente
questa era una spinta esterna e non mia personale, maturata coscientemente e serenamente.
Le pressioni da parte dei genitori nel tornare, le opportunità di lavoro e, devo ammetterlo, anche
l’idea di creare una mia famiglia sono tutti elementi che hanno determinato la scelta di rientrare.
Anche se, ripensando a quei tempi e con la maturità attuale, probabilmente avrei potuto
compiere una scelta differente se avessi avuto maggiore autonomia di pensiero e minori spinte a
conformarsi alle aspettative degli altri verso di me e a quello che il sistema ti insegna sia “giusto
fare”.
Appena rientrato, ho avuto l’opportunità di partecipare ad un concorso pubblico per entrare a
lavorare in università.
Mi ricordo ancora quel colloquio: davanti a me tre professori “color grigio topo” ma non nei
capelli, nell’anima…ed io, rilassato, abbronzato, che ormai “pensavo” in portoghese…chissà che
impressione ho fatto…
Ovviamente il concorso è andato male: che fortuna! Fondamentalmente non volevo nemmeno
parteciparvi, non avevo le idee chiare su come perseguire la mia realizzazione personale e
professionale per cui, visto con gli occhi di oggi, immaginandomi una vita al riparo da tutto, con lo
stipendio fisso e con il lavoro sicuro, posso affermare che sono stato fortunato.
Comunque, anche dopo questo pseudo-fallimento, ho continuato sempre a pensare che “ce
l’avrei fatta”, che avrei trovato la mia strada in questa vita. Ecco, l’atteggiamento che mi ha sempre
contraddistinto è stato quello di “pensare di farcela”. Non ho mai dubitato di essere in grado di
riuscire nel fare qualcosa e/o nel poter imparare qualcosa. Spesso non sono riuscito a raggiungere
gli obiettivi che mi ero prefissato ma sempre, una volta analizzate le cause di quanto accaduto
serenamente e, per quanto possibile, oggettivamente, mi sono sentito responsabile dei miei
risultati e ho continuato a pensare di “essere in grado”. Ho sempre creduto e credo tuttora di
poter realizzare i miei sogni, penso di poter raggiungere il successo personale e
l’autorealizzazione, ritengo di sapermela cavare in svariate situazioni con la forza di volontà, la
persistenza e la resilienza che ho appreso e sviluppato durante la vita.
APPROFONDIMENTO – L’autoefficacia.
A. Bandura, esponente della corrente comportamentista, ha dimostrato, attraverso le proprie
ricerche, che esistono molti fattori che sono alla base dei comportamenti degli individui. Il
concetto di “autoefficacia percepita” da lui stesso coniato incarnerebbe l’insieme delle capacità
del soggetto di sentirsi in grado di portare a termine un compito, mirando direttamente al suo
raggiungimento, anelando verso un conseguente suo esito positivo.
Questo è collegato al concetto di “motivazione all’azione”, elemento centrale delle spinte
pulsionali capaci di mobilitare gli individui verso una meta, verso uno scopo, in direzione di un
qualcosa che il soggetto desidera ed insegue.*
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Sicuramente risulta essere centrale nel raggiungimento dei propri obiettivi il pensiero, cioè la
capacità di “pensare di poter riuscire”. Se una persona si pone, si vede, si percepisce come “in
grado di” aumenta notevolmente la possibilità di raggiungere le mete prefigurate. L’obiettivo,
inizialmente, può anche essere vago, tipo “raggiungere l’autorealizzazione”, “essere felice”,
ecc., in seguito, però, è necessario definirlo precisamente. Immaginarsi di essere la persona di
successo che si vuole diventare, assumerne gli atteggiamenti, la forma… “tu sei la storia che ti
racconti”, puoi diventare chi “credi” di essere.
*Bandura A. (2000). Autoefficacia. Teoria e applicazioni. Centro studi Erickson.
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3. Il periodo buio.
Pertanto, una volta rientrato in Italia, superato l’ostacolo del riadattamento a costumi, valori, stili
di vita diversi da quelli degli ultimi anni, e scampato il rischio del superare il concorso pubblico,
inizio il mio percorso di sviluppo professionale facendo la gavetta all’interno di una società di
consulenza. Parallelamente evolve anche la situazione per quanto riguarda gli aspetti affettivi.
Alla fine del secolo scorso, una volta uscito dalla società e assunto a tempo indeterminato (cito da
“Una vita così” di Walter Bonatti. Domanda dell’intervistatrice: “E’ mai stato assunto a tempo
indeterminato?” risposta: “Si, purtroppo mi è capitato anche questo nella vita. Ma mi sono
successe anche cose peggiori”) presso un’azienda privata mi ritrovo coniugato e con un figlio.
Esattamente in linea con quelle che sono le aspettative del sistema, dei genitori, dei parenti, del
contesto religioso dominante. Il mio livello di autonomia di pensiero e di consapevolezza nelle
scelte effettuate era pari a quello di un tubero del centro America. All’inizio del nuovo millennio
la famiglia si allarga con l’arrivo della figlia e continuo a vivere in uno stato di apatia mentale
paragonabile alla morte apparente.
Le giornate scorrevano via monotone e piatte per quanto riguarda il lavoro che mi faceva sentire
realizzato sotto il profilo professionale in quanto ero diventato responsabile del personale come
previsto dai principali esperti del mercato del lavoro e dai manuali sullo sviluppo professionale.
Cioè, avevo ottenuto la laurea, mi ero fatto le “ossa” in una società di consulenza, ero poi entrato
in azienda per ricoprire un ruolo di prestigio. Avevo fatto tutto quello che la “norma” prevedeva.
Le uniche soddisfazioni venivano dalla crescita dei miei figli e, sinceramente, non ricordo altro
che potesse darmi parvenze di benessere e felicità in quel periodo. Ero rigidamente impostato nel
ruolo sociale che avevo scelto per rappresentarmi. Ero diventato la “maschera” che mettevo ogni
giorno per vivere nel sistema.
La tendenza a conformarsi alle linee di comportamento principali e di ottemperare alle aspettative
che gli altri hanno nei propri confronti hanno determinato questo mio appiattimento mentale,
culturale ed emotivo in quegli anni.
APPROFONDIMENTO – La cultura e l’allineamento.
Secondo la concezione di Tylor (antropologo inglese - 1871), si definisce cultura l’insieme di
segni, artefatti e modi di vita che gli individui condividono. In senso antropologico, cultura è
tutto ciò che possiede un determinato significato (simboli, linguaggio) e il termine è riferito a un
gruppo specifico: la cultura ha quindi dei confini riconoscibili. A partire dagli anni 60/70, il
concetto di cultura ha iniziato ad avere un ruolo centrale e non più marginale. La struttura
produttiva e occupazionale (società dei servizi) cambia e si sviluppano i vari settori. La cultura,
dunque, porta cambiamento che a sua volta valorizza il marketing, la qualità del prodotto, le
strategie economiche: tutti elementi che necessitano la conoscenza.
Ogni cultura è relativa alla società o al gruppo a cui appartiene. Essa può essere per esempio la
vita familiare, la religione, gli abbigliamenti, le consuetudini, ecc. ed è limitata ad un
determinato arco di tempo e luogo. Uno dei più grossi errori della storia è stato quello di
gerarchizzare la cultura, un vero e proprio atto di egoismo che ha comportato la credenza e il
sostenimento di culture “superiori” ad altre, generando il blocco culturale delle nazioni e quindi
conflitti internazionali.
Esistono diversi tipi di cultura:
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1) cultura dominante (egemone): è il cosiddetto senso comune, l’insieme delle opinioni
prevalenti in una determinata società, il modo in cui giudichiamo le cose;
2) subcultura: è l’insieme di valori o norme che identificano un gruppo all’interno di una società
(partito politico, hacker, ecc.). Si pone al fianco di quella egemone, ma non per questo è da
considerarsi inferiore. Non si pone in contrasto con essa. La società odierna è caratterizzata da
più minoranze culturali;
3) controcultura: si pone in conflitto con le norme dominanti e mira a sostituirsi a quella
egemone (prevalente).
Si distinguono quattro componenti della cultura: valori, norme, usi/consuetudini e simboli.
I valori servono a guidare il proprio comportamento e a fornire i criteri per valutare le azioni
proprie e quelle altrui. Le norme sono regole esplicite o implicite concernenti la condotta dei
membri di una società. Gli usi e le consuetudini sono quei costumi e abitudini acquisiti dagli
esseri umani per il semplice fatto di vivere in determinate comunità, comprese quindi le azioni
ordinarie della vita quotidiana. I simboli sono rappresentazioni di significato capaci di evocare
una relazione tra un oggetto concreto e un'immagine mentale, in riferimento anche alle
convenzioni sociali di una società.*
Gli esseri umani, come animali sociali sono portati naturalmente all’allineamento con la propria
cultura di riferimento o comunque con una cultura che li possa accogliere e rappresentare. Se da
una parte essere allineati porta maggiore sicurezza riguardo a cosa è giusto e cosa non lo è,
rispetto a ciò che è accettato e ciò che è rifiutato dalla cultura che si intende seguire d’altra parte,
questo atteggiamento porta a sviluppare varie tipologie di dipendenze. L’appartenere ad una
determinata cultura rende le persone spesso schiave della stessa, innanzitutto perché tende a
mantenere le persone non indipendenti a livello di pensiero, non consente una matura
evoluzione degli individui che prendono per “vero” e indiscutibile ciò che la stessa cultura
propone loro. Mettere in discussione la cultura alla quale si appartiene, i valori, le norme e i
simboli della stessa è impegnativo, è necessario un dispendio di energia e soprattutto fa
percepire le persone come “diverse dagli altri”. Tutti abbiamo “bisogno di approvazione” ma il
sistema attuale tende a rendere le persone sempre meno autonome, capaci ed indipendenti.
Per il personale miglioramento è necessario, invece, sviluppare innanzitutto la comprensione
dei motivi per i quali una cultura tende a condizionare e mantenere dipendenti i propri membri
e poi sviluppare una indipendenza di pensiero che consenta una valutazione oggettiva
sull’utilità dell’allineamento e dell’appartenenza (per approfondimenti vedi anche Giulio
Giorello, Di nessuna chiesa, Cortina Editore, 2009).
* Rossi P. (1970). Il concetto di Cultura. Einaudi.
In questi anni, comunque, nasce in me un primo barlume di consapevolezza rispetto agli aspetti
di produzione e di efficienza nelle organizzazioni. Sono anni di grande crescita economica dove
l’efficienza e la produttività erano valori inconfutabili per i quali si investivano enormi quantità di
risorse economiche, tecnologiche e umane. Si dovevano aumentare i volumi di produzione, le
vendite, il fatturato, si dovevano assumere dipendenti senza mai porsi delle domande, senza mai
porsi dei limiti. In questo periodo mi sono sorti dei dubbi rispetto al concetto di ottimizzazione,
sovrapproduzione, sfruttamento delle risorse e delle materie prime del pianeta. Però ero troppo
dentro al sistema per rendermi conto della incoerenza dello stesso e dell’impossibilità di una
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crescita infinita. Guardavo troppo in maniera miope i miei interessi personali, tra i quali spiccava
sicuramente il potere derivato dalla posizione che occupavo e l’immagine conseguente. Non mi
ponevo domande rispetto al futuro, pensavo che la mia realizzazione andasse di pari passo con la
realizzazione degli obiettivi aziendali.
Sicuramente, lo ammetto, avrei potuto dedicare più tempo alla famiglia e ai miei figli invece di
appassionarmi e vivere in maniera totalizzante la carriera professionale e parallelamente le sorti
dell’azienda. Fatto sta che in tale modo, ho creato le condizioni affinché nascessero problemi in
famiglia che negli anni sono diventati irrisolvibili. Per cui inizia un periodo di difficoltà relazionali
che mi porterà alla separazione. Tra l’altro, tale periodo, coincide anche con un momento
economico non favorevole per le aziende (l’onda lunga del’11 settembre 2001), pertanto, mi
ritrovo, in breve tempo, senza un lavoro, senza una famiglia e senza casa.
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4. La prima rinascita.
Questo è stato per me un periodo si svolta, fondamentale per la mia evoluzione personale.
E’ iniziato dal basso, anzi, ero quasi sotto terra! Senza un lavoro, senza una casa, con una
relazione fallita, ero “uscito” di casa (lasciata ovviamente ai figli) e avevo “terminato” il mio lavoro
in azienda (mi ero auto-riorganizzato). La mia relazione era terminata e non avevo tante relazioni
interpersonali in atto. Più in basso di così non potevo essere…
Ho iniziato a mettere in discussione me stesso, ciò che avevo fatto fino a quel punto della mia vita,
le mie modalità comportamentali, i miei valori e ho iniziato a ragionare sugli obiettivi futuri e
come riuscire a raggiungerli. Ho intrapreso un percorso introspettivo per riorganizzarmi la vita
sotto vari punti di vista.
Dopo aver individuato un luogo dove vivere, priorità assoluta (qui Maslow ha di sicuro ragione:
prima bisogna soddisfare i bisogni elementari), ho iniziato a riflettere su quale potesse essere una
occupazione maggiormente in linea con i miei valori e caratteristiche personali. Inoltre, ho
valutato attentamente che cosa mi piacesse fare, i motivi che mi portano all’azione, quali fossero le
mie conoscenze e le mie capacità. Ultimo aspetto, ho ripreso i rapporti con conoscenti e amici e
sviluppato nuovi contatti con persone di successo (o che ritenevo tali) per confrontarmi, avere
consigli, osservare ed eventualmente cercare di migliorare ciò che stavano facendo. Sulla base
delle indicazioni ottenute e delle riflessioni effettuate mi sono dato degli obiettivi rispetto allo
sviluppo di un’attività come libero professionista, nel mio specifico settore di competenza.
Quest’attività si è sviluppata per alcuni anni parallelamente a quella di temporary manager come
responsabile del personale.
Ritengo che l’elemento fondamentale che mi ha aiutato in quegli anni sia stato l’impegno, il
rimboccarmi le maniche quando mi sono trovato a terra e la propensione alla sfida. Ho sempre
guardato al “domani” con l’idea della sfida, del voler riuscire a sistemare le cose: non ho mai
dubitato che ce l’avrei fatta. Perché? Forse perché ho sempre pensato che “per un problema
esiste sempre una soluzione”, ho sempre ragionato nella mia mente verso la ricerca delle
soluzioni, focalizzandomi poco sul problema. Anzi, ho cercato di togliere questa parola dal mio
vocabolario. Ciò non significa fare finta che non esista ma è utile darle meno peso, meno
rilevanza: è più importante la soluzione del problema. Pensare alle opportunità che mi si aprivano
mi faceva stare meglio, mi faceva percepire la realtà in maniera diversa, da una cosa capitata puoi
sempre imparare qualcosa, basta cercarla. Io ho voluto farlo. Ho pensato (e penso tuttora) che il
“caso” non esista e che il “destino” ognuno se lo costruisce giorno per giorno. Se ti capita un
evento, se ti trovi in una situazione è perché tu devi apprendere qualcosa. E’ arrivato il momento
per te di un apprendimento.
APPROFONDIMENTO – L’apprendimento.
Dal punto di vista psicologico, l'apprendimento è una funzione dell'adattamento nel
comportamento di un soggetto risultato da una esperienza ovvero un processo attivo di
acquisizione di comportamenti stabili in funzione dell'adattamento dovuto essenzialmente a
stimoli interni o esterni. In sostanza dunque apprendere vuol dire adattarsi.
È possibile caratterizzare l'apprendimento in due distinti punti:
l'apprendimento come legato ad un cambiamento;
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l'apprendimento come legato all'esperienza e all'esposizione ad uno stimolo.
Secondo la scuola comportamentista l'apprendimento è delineato dal cosiddetto apprendimento
di tipo associativo per contingenza temporale (condizionamento classico) di Ivan Pavlov.
Questo paradigma comportamentista, studia il processo dell'apprendimento mediante
l'associazione stimolo-risposta, e ne rappresenta la sua forma più semplice.*
Insieme al condizionamento classico, il condizionamento operante rappresenta la base
dell'approccio comportamentista allo studio delle funzioni psichiche. E’ detto operante perché
basato su operazioni legate ai muscoli volontari. In questo caso, infatti, l'apprendimento non
avviene a livello di riflessi come nel condizionamento classico, ma di operazioni motorie più
complesse.
Una particolare tecnica di apprendimento, detta modellamento è stata sviluppata a partire dal
condizionamento operante di Skinner. Questa tecnica, risulta utile per modificare gradatamente
un comportamento. La prima volta viene premiato (attraverso un rinforzo positivo) un
comportamento che si avvicina gradualmente a quello che si vuole sviluppare (anche se solo
approssimativo), la seconda solo le esecuzioni che progrediscono in una situazione più corretta,
la terza si premiano solo le prestazioni che diventano ancora più corrette, e così via. È
importante, per sviluppare un modellamento efficace, che i rinforzi siano continui. Sono
tuttavia possibili anche rinforzi intervallati, ma essi risultano più utili per riapprendere
comportamenti già appresi. È comunque importante che sia premiato sempre lo stesso
comportamento.
È vero però che trascorso del tempo in cui allo stimolo non corrisponde un rinforzo,
l'apprendimento acquisito scompare. Ciò perché nell'apprendimento è necessaria continuità,
ripetitività ed esercitazione.**
L'approccio cognitivista sull'apprendimento concettuale è il cosiddetto problem solving. Questo
è un processo mentale volto a trovare un percorso che porta il cambiamento da una situazione
iniziale ad una disposizione finale. La capacità di problem solving risulta legata al fattore
cognitivo di intelligenza, essa infatti è spesso adoperata come misura empirica dell'intelligenza.
Il pensiero logico misurato dal quoziente d'intelligenza infatti, all'interno dei processi di
problem solving, è applicato alla risoluzione di uno specifico problema.
Ulric Neisser, evidenzia il problem solving come strategia efficace di apprendimento e ne
struttura un processo attraverso le seguenti fasi:
1. la prima parte comprende uno stato iniziale, ovvero una informazione incompleta con
la quale si affronta il problema, dato in termini di coordinate generali della situazione
di partenza;
2. la seconda fase consta nella definizione di mete e finalità insite nel problema,
nell’acquisizione di informazioni relativa allo stato finale da raggiungere;
3. infine l'ultimo momento del processo di problem solving consiste nella strutturazione
di una serie di operazioni, manipolazioni dello stato iniziale, da applicare per arrivare
allo stato finale.
Il problem solving, dunque, è un processo mentale volto al fine di trovare un percorso che porta
il cambiamento da una situazione iniziale ad una disposizione finale. ***
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Apprendere fa parte dell’evoluzione umana e dell’evoluzione di ogni singolo individuo. Come
esseri umani nasciamo con il cervello poco sviluppato e nell’arco della vita, attraverso le nostre
esperienze, attraverso i nostri sensi lo “formiamo” (come si forma il nostro carattere, i nostri
valori, il nostro destino). Alcune ricerche dicono che raramente le persone da adulte utilizzano
più del 10% delle potenzialità del proprio cervello.
E’ risaputo che la creazione di nuove connessioni tra i neuroni cerebrali può avvenire durante
tutto l’arco della vita. Per cui, se l’individuo vuole, può sempre apprendere e di conseguenza
tenere allenato il proprio cervello (e prevenire malattie degenerative). E’ necessario prima di
tutto “voler imparare”, successivamente avere consapevolezza di “dove ci si trova”, cioè delle
proprie conoscenze e modalità di pensiero. Conoscendo a che livello di apprendimento si è
giunti nella propria vita, si potrà definire dove si vuole progredire, cioè cosa si vuole
apprendere per evolvere. Così, successivamente, si potrà verificare se effettivamente si è
ottenuto l’apprendimento sperato. Infine, è opportuno sottolineare come non esiste
apprendimento senza la sperimentazione, cioè senza aver portato nella pratica quanto appreso
in termini teorici.
* Pavlov I. P. (2011), I riflessi Condizionati, Bollati Boringhieri.
** Skinner B. F. (1992), Scienza e Comportamento, Franco Angeli.
*** Neisser U. (1967), Cognitive Psichology, Appleton-Century-Crofts, New York.
I risultati sono arrivati in tempi abbastanza brevi. L’impegno richiesto era sicuramente notevole in
quanto viaggiavo per tutta Italia. Lavoravo sei/sette giorni alla settimana e sicuramente anche il
compenso economico è stato in linea con l’impegno profuso. Venivo chiamato direttamente dalle
aziende e spesso da società di consulenza nazionali e internazionali. Gestivo situazioni delicate per
quanto riguarda la valutazione del potenziale di dipendenti di grandi aziende italiane e
multinazionali. Effettuavo corsi di formazione a manager, dirigenti, funzionari di alto livello, mi
relazionavo con amministratori delegati, imprenditori e direttori generali costantemente.
Avevo grosse soddisfazioni professionali che mi garantivano riscontri economici eccessivi
(sovrastimati?). Quasi naturalmente ero portato a confrontarmi sui risultati economici e il mio
benessere era determinato dall’accumulo di denaro oltre che dalle gratificazioni professionali. Ero
quasi avvolto da una nube di successo che non mi consentiva di vedere altro nella mia vita.
Purtroppo, in questo periodo, ho dedicato poco tempo ai miei figli (le conseguenze le pago
ancora oggi), alle relazioni, alle amicizie, alla salute. Il mio benessere era collegato al fatto che il
denaro mi permettesse di fare tante cose che però non riuscivo a fare perché ero troppo
impegnato ad accumulare denaro. Direi che questo comportamento è l’apoteosi
dell’inconsapevolezza. Perché correvo? Perché ero spinto a fare sempre di più, a guadagnare
sempre di più, se ciò poi non mi consentiva un vero benessere?
Ero entrato in una modalità di azione e di pensiero tipica dei “malati da lavoro” che si può
tradurre con l’espressione “lavoro, guadagno, spendo, pretendo”.
Erroneamente pensavo che il concetto di libertà fosse collegato al “potere di fare le cose” e che
questo fosse a sua volta collegato al denaro. Lavoravo per avere soldi che mi consentissero poi di
avere opportunità, avere possibilità e quindi fare ciò che volevo. Si entra, a volte, in quello che
Natalino Balasso chiama l’“effetto telepass”: se non c’è coda agli altri caselli tu passi e il tuo umore
non cambia, ma se c’è coda e tu passi col telepass senza fermarti il tuo stato d’animo migliora (!).
Quindi, si prova benessere non per il fatto di poter fare una determinata cosa ma perché altri non
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possono farla. Assurdo concetto instillato dal sistema attuale nella mente di molti. Averlo in parte
accettato per vero è stata però piena responsabilità mia.
Ero un po’ accecato dall’avere ed accumulare denaro (ok che dovevo pagare il prestito della
banca per l’acquisto dell’appartamento ma stavo esagerando comunque), dal posseder cose,
dall’accumulo di oggetti. Sentivo di poter permettermi “cose” che altri non potevano.
“Credi che indossare un bel vestito, avere una automobile nuova, un gingillo elettronico ti renda
una persona migliore?” Ma allora è facile stare bene: basta avere un’occupazione che mi dia del
denaro e con questo mi compro qualcosa che mi rende felice! Peccato solo che questa felicità sia
effimera e che sia necessario continuare a comprare sempre nuovi oggetti per avere una felicità
sempre più breve. Il sistema ci vuole come dei bambini che credono ancora a Babbo Natale,
inconsapevoli e manipolabili.
Pensavo di essere libero perché “potevo” avere e comprare oggetti: la libertà nel “posso avere,
posso fare” non è libertà vera. È un abbaglio nato dal luccichio dei soldi, dal potere, dello status,
dall’immagine. Che tristezza ripensare a quei tempi!
Pensavo di essere una persona di successo e lo ero solo nella forma, nell’esteriorità. Facevo tutto
per un fine, quello economico, per uno scopo, la mia immagine, per soddisfare il mio ego; era
solo la parte razionale in me che viveva ed assoggettava tutto il resto della mia persona.
L’orientamento era solo verso il risultato economico (vi viene in mente qualcuno o qualcosa, tipo
i governi bancocentrici del pianeta?), ero diventato freddo, cinico, calcolatore, povero… Avevo
difficoltà nel provare emozioni e nell’esprimerle.
Ero felice? Stavo bene? Pensavo di sì fino a che gli eventi successivi non mi hanno portato a
rimettere in discussione queste mie convinzioni.
APPROFONDIMENTO – L’intelligenza emotiva.
Per avere successo nella vita in genere, e nell'ambito lavorativo in particolare, non è sufficiente
disporre di un elevato Quoziente Intellettivo o essere competenti da un punto di vista
professionale, occorre anche poter disporre di quella che Daniel Goleman chiama “intelligenza
emotiva”.
Se ci dovessero chiedere di elencare i fattori che portano un individuo ad avere successo nella
vita in genere, e sul lavoro in particolare, probabilmente ai primi posti della lista metteremmo
un'intelligenza vivace, una carriera scolastica brillante, precise competenze professionali e,
probabilmente, alcuni fattori legati alla sorte, come ad esempio il far parte di una classe sociale
abbiente, l'avere un aspetto fisico avvenente e l'essersi imbattuto in circostanze fortuite del tutto
favorevoli.
Tutto vero, ma non basta. Pensiamo, ad esempio, ad una persona con una straordinaria
intelligenza, brillante dal punto di vista accademico, competente sul piano lavorativo, ma
arrogante, irascibile, incapace di trattare con le altre persone e di gestire le proprie emozioni:
nonostante le sue competenze professionali e la sua intelligenza, non siamo affatto sicuri che
avrà successo nella sua carriera professionale e personale. Da questo punto di vista possiamo
dire che, se per accedere ad una determinata professione spesso appaiono prerequisiti
importanti l'essere qualificati come persone intelligenti, avere un titolo di studio conseguito a
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pieni voti, mettere in campo una competenza professionale di prim'ordine, per mantenere e
facilitare una carriera lavorativa sono necessarie anche altre caratteristiche.
Ad esempio:
la capacità di motivare se stessi e di continuare a perseguire un obiettivo nonostante le
frustrazioni;
la capacità di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione;
la capacità di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di
pensare;
la capacità di essere empatici e di sperare.
Più in generale, alla base dell'intelligenza emotiva ci sono due grosse competenze: una
competenza personale, legata al modo in cui controlliamo noi stessi; una competenza sociale,
legata al modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri.
Le abilità alla base della competenza personale sono la consapevolezza di sé, la padronanza di
sè e la motivazione.
La prima implica innanzitutto la capacità di riconoscere le proprie emozioni dando loro un
nome e saper effettuare un'autovalutazione accurata delle proprie risorse interiori, delle proprie
abilità e dei propri limiti e quindi porta sia alla percezione del proprio valore e delle proprie
capacità, sia ad una sana fiducia in se stessi. Su queste basi sarà poi possibile proporsi con
fermezza quando si tratta di mettere in evidenza i propri punti di vista, i propri diritti o di dar
voce a opinioni impopolari ma ritenute giuste.
La padronanza di sé va intesa principalmente come autocontrollo, quindi come capacità di
gestire le proprie emozioni. Infatti se non siamo responsabili degli eventi che generano i nostri
sentimenti ed emozioni, di ciò che proviamo interiormente di fronte a comportamenti o
avvenimenti, siamo però responsabili per il modo in cui decidiamo di esprimerli. In questo
senso, essere dotati di intelligenza emotiva significa essere in grado di gestire i propri
sentimenti, essere quindi capaci di controllarli ed esprimerli in modo appropriato ed efficace.
La motivazione è data dall'insieme delle tendenze emotive che guidano, sostengono o facilitano
il raggiungimento di obiettivi. La motivazione comporta sia la spinta alla realizzazione
personale, connessa al cercare la propria soddisfazione proponendosi obiettivi stimolanti,
orientandosi al risultato e coltivando l'impulso a migliorare le proprie prestazioni, sia l'impegno
nel dare senso e sostegno anche ad un eventuale lavoro d'équipe. La motivazione è sorretta da
uno spirito di iniziativa che consiste in una tensione all'obiettivo, al di là di quanto viene
prescritto e degli impedimenti burocratici, e nella prontezza a cogliere le opportunità.
Le abilità alla base della competenza sociale sono l’empatia, la comunicazione e le relazioni
interpersonali.
Essere empatici significa far risuonare dentro di sé i sentimenti degli altri come se fossero i
propri senza dimenticare i propri, in una sorta di vicinanza senza confusione. E' l'accettazione
incondizionata degli stati d'animo così come vengono offerti nella relazione. Nell'essere
empatici, accanto alla condivisione dei sentimenti, c'è anche la valorizzazione degli altri, che si
manifesta nel credere nelle persone, nel mettere in risalto e potenziare le loro abilità, nel
sostenere la loro autonomia, nel rispettare le loro diversità individuali, etniche e ideologiche,
nell'utilizzare le differenze come opportunità al di là di ogni pregiudizio.
La comunicazione è la capacità di ideare un pensiero e un contenuto da esprimere; in secondo
luogo identificare le modalità più efficaci con le quali esprimersi, individuare il canale più
opportuno, trasmettere il messaggio e verificare la comprensione dello stesso da parte
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dell’interlocutore. Fondamentale è anche saper modulare la comunicazione rispetto al contesto
e alle capacità di comprensione dell’interlocutore.
Le abilità relazionali sono direttamente collegate con la consapevolezza delle proprie modalità
comportamentali e di come si è percepiti dagli altri. E’ opportuno saper cogliere lo stile
relazionale e comportamentale dell’interlocutore e mettere in atto comportamenti e strategie
adeguati al fine di creare e mantenere un clima relazionale positivo.
In conclusione, si può affermare che non esiste solo un'intelligenza di tipo cognitivo, ma ne
esiste un'altra, di pari importanza, di tipo emotivo - relazionale che ci consente di capire meglio
noi stessi e di interagire in modo più efficace con gli altri.
In questo senso è pertanto facile comprendere come per avere successo nella vita in genere e
nell'attività professionale in particolare, non sia sufficiente avere un elevato Quoziente
Intellettivo o essere competenti da un punto di vista professionale, ma occorra disporre anche di
una intelligenza emotiva che ci consenta di essere competenti anche da un punto di vista
emozionale e relazionale.*
L’intelligenza emotiva è senza dubbio un fattore fondamentale per il successo personale, sul
lavoro e nella vita. Quante persone si incontrano con grande preparazione teorica o tecnica, che
hanno raggiunto buoni o ottimo risultati professionali e/o sportivi che hanno una sensibilità
emotiva pari a quella di una barra di acciaio?
Ci sono persone che sanno sfidarsi professionalmente, impegnarsi in attività manuali e ottenere
grandi risultati, professionisti ed imprenditori stimati e di grande successo, però, se si va più in
profondità nella conoscenza di queste persone e delle loro vite, appare evidente come il
successo in una area ha determinato, invece, enormi sofferenze in altri ambiti: per loro e per chi
gli è (o era) accanto.
E’ auspicabile, per il benessere degli individui, rendere pratico il concetto di “bilanciamento tra
vita lavorativa e vita privata” che troppo spesso rimane solo un mero proposito raramente
elaborato e quasi mai concretizzato.
* Goleman D. (1996). Intelligenza emotiva. BUR Rizzoli.
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5. Il cambiamento.
Successivamente, nasce in me una nuova modalità di percepire la realtà che mi porterà in seguito
ad una rivisitazione dei miei valori, dei miei criteri, delle mie credenze e delle mie modalità
operative/comportamentali. Come mi è successo in precedenza, anche in questo caso è stato un
evento accaduto a me (e poi uno ad un amico) che mi ha portato a riflettere e a mettere in
discussione il mio modo di essere e di fare.
Non sono le esperienze che cambiano le persone, non è ciò che capita alle persone che porta le
stesse a cambiare, è come una persona legge e analizza ciò che gli è capitato che può portare la
stessa a migliorarsi. Non è un meccanismo automatico: a una determinata esperienza corrisponde
un certo miglioramento. Quindi, non necessariamente un evento, un fatto, un accadimento incide
sulla vita degli individui. Devi essere tu protagonista nel ricercare in ciò che ti è capitato un
apprendimento. Ciò che capita spesso non lo si sceglie, non si possono prevedere tutti gli eventi
della vita, ma si può imparare ed allenarsi a leggerli, interpretarli e analizzarli al fine di un
miglioramento.
APPROFONDIMENTO – La percezione, la lettura degli eventi e la valutazione cognitiva.
La percezione consiste nell'assegnare un significato agli stimoli provenienti dagli organi di
senso e nell'attribuire ad essi proprietà fisiche: nitidezza ad un'immagine, grandezza ad un
oggetto, chiarezza ad un suono, ecc. Secondo il senso comune le proprietà fisiche attribuite ai
dati dell'esperienza sono oggettive, la percezione è una mera registrazione sensoriale. Secondo
la psicologia scientifica la percezione è frutto di un'elaborazione mentale e risente di processi
cognitivi di classificazione: è una complessa interpretazione della realtà.
La teoria empirista di Helmhotz, 1967, definisce la percezione come la somma di sensazioni
elementari, integrate dalle informazioni apprese in precedenza. Gli stimoli attuali vengono
interpretati in base alle esperienze passate. Per la psicologia della Gestalt, 1935, la percezione
non è cumulativa e non è influenzata dal passato, ma si compie all'istante in base alla
distribuzione degli stimoli, ai loro rapporti e ai "principi di unificazione”. Per il Movimento del
New Look of Perception degli anni '60, la percezione è influenzata dal significato emotivo dello
stimolo.
Le illusioni percettive confermano l'ipotesi della psicologia scientifica: la percezione non è una
registrazione sensoriale come sostiene il senso comune, ma una complessa interpretazione della
realtà. La percezione è un processo cognitivo e non solo sensoriale. La illusioni sono percezioni
di oggetti costruiti mentalmente, ma in realtà inesistenti.*
Collegato al concetto di percezione c’è quello di lettura degli eventi. Le persone percepiscono la
realtà in maniera soggettiva attraverso i propri sensi e la propria modalità di lettura degli
eventi. Lo stesso evento, lo stesso comportamento, può essere letto ed interpretato in maniera
differente sulla base della valutazione cognitiva che la persona effettua. È la dura legge del
bicchiere mezzo pieno. Non si possono controllare gli eventi e i comportamenti delle altre
persone, non si può controllare ciò che capita alle persone. Si può però decidere come leggere,
interpretare e valutare ciò che accade. Possiamo sempre ricercare e individuare un
apprendimento rispetto a quanto accaduto, quanto percepito, quanto osservato. Di fronte ad un
problema possiamo o focalizzarci sul perché sia capitato proprio a noi, sulla sfortuna, sulle
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colpe di altri oppure sulla soluzione, sul cosa si può fare. Questo dipende da come si effettua la
lettura degli eventi. Non sono, pertanto, gli eventi che influiscono sullo stato d’animo delle
persone e sui risultati che si ottengono ma le convinzioni che si hanno alla base che portano a
fare una certa valutazione dell’evento. Per migliorarsi è necessario diventare consapevoli del
proprio sistema di convinzioni e modificare la valutazione cognitiva degli eventi in senso
funzionale piuttosto che disfunzionale. Rispetto a qualsiasi cosa possa accadere, si può sempre
trarne un apprendimento. Imparare qualcosa è sempre un miglioramento.
* Canestrari R.; Godino A. (2007). La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia. Clueb, Bologna.
Nel momento nel quale ero all’apice della mia carriera di consulente, richiesto da varie società di
consulenza, con un grosso ritorno economico, sempre sulla cresta dell’onda, in giro per tutta
Italia, spesso occupato anche il sabato e la domenica, reduce da un divorzio con due figli ancora
piccoli che non mi vedevano praticamente mai, inizio a sviluppare una nuova visione di ben-
essere individuale lontana anni luce dal tanto-avere degli anni precedenti.
Frenesia, corse contro il tempo per avere sempre clienti più importanti, per aumentare il
fatturato, per poter scrivere sul curriculum che, dopo svariati anni di esperienza come
responsabile del personale, stavo ottenendo successo anche come consulente. Mi stavo, però,
spaccando la schiena, e non è solo una metafora, ma è la realtà di ciò che in seguito avvenne. In
effetti, le due ernie L5S1 e S2 si sono presentate in tutta la loro forza e mi hanno costretto a letto
per circa tre mesi, ma io non potevo stare a letto, dovevo soddisfare il cliente, dovevo correre,
dovevo fatturare, dovevo rispettare gli impegni lavorativi presi.
Ricordo, ancora come fosse oggi, i due incontri fondamentali, capitati in quel periodo: il primo
con un fisioterapista, il secondo con un neurochirurgo. Li avevo contattati, ovviamente, nella
speranza di guarire al più presto per poter tornare al lavoro. Il primo, persona semplice che mi ha
ascoltato e dedicato del tempo, in forma gratuita mi disse: “Non puoi fare nulla, devi solo
aspettare che passi del tempo”, e poi mi aveva spiegato come il corpo naturalmente si rigenera in
parte e ti consente una vita normale. Però non ero soddisfatto della risposta ricevuta, dovevo
guarire immediatamente per poter riprendere la vita di prima e fatturare. Pertanto mi sono recato
da un neurochirurgo, il quale mi disse “Non puoi fare nulla, devi solo aspettare che passi del
tempo”; parcella: 300 euro.
Stavo lavorando spaccandomi la schiena e guadagnavo del denaro per pagarmi i consulti medici e
le cure. I soldi che guadagnavo lavorando andavano a pagare le visite che facevo per guarire i
danni che il lavoro aveva procurato e la salute non migliorava: dovevo starmene ancora disteso a
letto. È stato proprio in quei giorni che ho iniziato una riflessione profonda su quanto il sistema
mi avesse plasmato, ma non reso soddisfatto e felice. Il circolo vizioso nel quale ero inserito si è
evidenziato in tutta la sua assurdità: correvo, spaccandomi la schiena, per guadagnare i soldi che
mi servivano a guarire la schiena.
Ero un burattino, alla mercè del sistema: lavora, compra, consuma, crepa.
“Lavorare di meno per dedicare più tempo alle esigenze spirituali, alle relazioni umane, familiari, sociali,
erotiche, culturali, religiose. A guardare le nuvole… A dedicarsi allo studio disinteressato, per il solo gusto di
sapere. A dipingere, ascoltare musica e suonare, contemplare, leggere e scrivere poesie, pregare.
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A fare esperienza di vita insieme ai propri figli invece di compensare con l’acquisto di cose i sensi di colpa
che si provano quando si affidano tutto il giorno a estranei perché si passa tutto il giorno a lavorare per
guadagnare i soldi necessari per comprare le cose che acquietano i sensi di colpa.”
Pallante Maurizio (2011), La decrescita felice. Torino. Ed. per La Decrescita Felice.
Un altro fatto, accaduto in quel periodo, mi ha aperto gli occhi: ciò che è successo al mio migliore
amico Francesco.
Ci eravamo conosciuti poco prima della nascita dei nostri primogeniti. Con lui, in quegli anni, ho
condiviso gli aspetti familiari, il lavoro, il tempo libero e le passioni. Abbiamo frequentato il corso
di arrampicata assieme, anzi, è stato lui a convincermi a farlo, abbiamo fatto le prime attività di
outdoor training assieme, abbiamo scalato montagne, progettato ed effettuato interventi presso
clienti.
Ci siamo sempre raccontati tutto delle nostre vite, ci siamo aiutati reciprocamente nei momenti
difficili sia personali, che familiari, che professionali.
Una sera, un lunedì mattina, mentre stavo per addormentarmi dopo una giornata d’aula a
Bolzano, mi arriva una telefonata di una conoscente in comune. “Matteo, hai sentito Francesco?”,
“Certo” rispondo io, “l’ho visto venerdì sera”. “No, sai perché un’amica ha letto sul giornale che
sembra che abbia avuto un incidente in deltaplano”. Fra era stato un amante del paracadutismo e
nell’ultimo periodo si era avvicinato a quest’altra disciplina sportiva. “Non è possibile” affermo io.
Provo a chiamarlo al telefono ma è spento. Contatto sua moglie: disperata. Mi dice che è a
Brescia in prognosi riservata.
Il giorno seguente, dopo una notte trascorsa insonne, vado al lavoro e chiedo se posso uscire
qualche minuto prima del termina dell’incontro per andare a trovare l’amico.
Corro come un pazzo in autostrada verso Brescia ascoltando la musica al massimo volume,
facendomi forza e sperando di poter trasmettere questa mia carica anche a Fra.
Arrivo in ospedale carico di energia, al massimo! Tra noi ci motivavamo sempre, riuscivamo
sempre a trasmetterci reciprocamente energia e sicurezza.
Il medico mi dice che non ci sono speranze. Sta attendendo l’autorizzazione della moglie per
l’espianto degli organi. Vado a vederlo: in stato vegetativo, con gli occhi sbarrati nel vuoto.
Gli sfioro la mano, l’unica cosa che ho saputo dirgli è stato “Ciao Fra”…
Ricordo ancora il ritorno a casa, in auto, mentre piango e urlo il mio dolore “Perché? Perché?
Prendi me!”
Ricordo quanto amasse stare con la sua famiglia, con i suoi figli, di come mi parlasse e mi
raccontasse dei giochi che faceva con il figlio piccolo e il più grande, di come avesse voglia di stare
più tempo con loro, di come, suo malgrado, non potesse dedicare più tempo agli affetti. “Sai, il
lavoro, i clienti, le bollette da pagare, i parenti, gli impegni, ecc. ecc.”
Qualche giorno prima gli avevo detto quanto era importante per me e quanto gli volessi bene!
Dopo questi episodi è iniziato un percorso introspettivo che mi ha portato a riflettere per
produrre scelte più consapevoli rispetto a ciò che desideravo veramente nella e dalla vita. Rispetto
a ciò che volevo ottenere, rispetto al senso che volevo prendesse la mia vita, rispetto al mio
compito su questa terra.
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Questo ha significato un percorso di presa di coscienza e di sviluppo di consapevolezza rispetto a
ciò per il quale “val la pena vivere”.
Fino ad allora, avendo assunto come vere e inconfutabili le logiche del sistema imperante, avevo
scelto di percorrere le stesse strade e di intraprendere la via della crescita del PIL come motivo e
scopo di vita.
Cosa misura il PIL? Misura le merci, ma non i beni!
“Il nostro pil comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le corse
delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Comprende la distruzione delle foreste e la
distruzione della natura. Comprende il napalm e il costo di smaltimento delle scorie radioattive.
Mentre invece il pil non tiene conto della salute dei nostri figli, della qualità della loro istruzione,
del divertimento, dei loro giochi, della bellezza della nostra poesia o della solidità dei nostri
matrimoni. Non considera il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra
saggezza.
Misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta.”
Robert Kennedy
Anche sul lavoro, anni prima, avevo iniziato ad avere qualche limitato lampo di consapevolezza.
“Una saldatrice in ogni casa”. In una delle esperienze lavorative che ho avuto come responsabile
del personale, ho letto questo slogan presso un’azienda all’interno di una fiera della saldatura. La
cosa mi ha fatto molto riflettere: fino a che punto l’acquisto ed il possesso di oggetti è correlato
con il nostro benessere? Fino a che punto è possibile stimolare il bisogno di possedere oggetti,
perlopiù inutili, nel consumatore? Questa è stata una delle prime riflessioni da me fatte, in
un’ottica di ricerca di lavorare meno per stare meglio, eliminando il superfluo e di attenzione
verso le risorse (finite) del pianeta.
Cito un altro esempio di situazione avvenuta in quegli anni: ad una cena aziendale, seduto accanto
ad un medico del lavoro ho affermato “Quest’anno penso di farmi il vaccino antinfluenzale”. Mi
sono accorto dell’assurdità della mia affermazione quando il medico mi ha risposto: “Perché farlo
se sei sano e se il tuo corpo impiega dodici anni a smaltire le sostanze nocive presenti nel
vaccino?” Questo è un altro esempio su come il sistema ci condizioni senza renderci coscienti di
ciò che facciamo.
Poniamoci questa domanda: “Cosa farebbero le aziende farmaceutiche se tutte le persone fossero
sane?”
“Il nostro sogno, inventare farmaci per gente sana”
Henry Gadsen, Direttore Generale della multinazionale farmaceutica Merck
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Lo stato dice che fumare fa male e ti vende le sigarette, ti dice di giocare d’azzardo ma “con
moderazione”. Queste cose ed altre hanno iniziato a farmi riflettere e mi hanno portato ad
analizzare in forma critica ciò che fino a poco tempo prima non mettevo nemmeno in
discussione.
Iniziavo, lentamente, a mettere insieme i pezzi del puzzle, a rendermi conto delle situazioni che
vivevo, ad essere (un po’) consapevole, ad analizzare la mia natura e spontaneità in modo critico,
a comprendere i miei criteri di scelta, a sviluppare nuovi obiettivi e a creare una personale
direzione strategica per il futuro.
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6. La montagna e le grandi sfide. Ulteriore consapevolezza.
La mia vita è stata finora un inno alla resilienza, sono sprofondato, caduto varie volte, quasi
annegato, ma sempre mi sono rialzato. In varie attività e con svariate modalità ho sempre cercato
di “allenare” questa capacità per affrontare le sfide che la vita ti pone di fronte.
Ho sviluppato, quindi, più recentemente, sempre di più la mia passione per la natura e la
montagna. Ho portato quasi ai limiti la mia resistenza e resilienza.
APPROFONDIMENTO – La resilienza*.
Continuare a reagire di fronte alle avversità, lottare quando le condizioni esterne diventano
difficili, cercare di risalire sulla barca rovesciata. Il termine resilienza deriva dal latino resalio
che definisce il gesto di provare a risalire sulle imbarcazioni rovesciate in mare. È una
caratteristica tipica degli esseri umani quello di andare avanti nonostante le difficoltà e di non
arrendersi di fronte agli ostacoli. È estremamente collegata ad aspetti di resistenza fisica,
mentale ed emotiva, all’allenamento, alla determinazione, alla costanza e alla fatica. Tutte
caratteristiche che consentono alla persona resiliente di essere protagonista dei propri successi
ed in grado di riprendere il cammino nonostante le difficoltà che lo stesso le pone di fronte. È
una caratteristica peculiare delle persone vincenti, che accettano anche le sconfitte ma che da
esse ripartono per nuovi obiettivi.
La resilienza è direttamente collegata all’adattamento della specie. Gli esseri umani, in quanto
inseriti in un ambiente o si adattano e quindi modificano i propri atteggiamenti, comportamenti
e modalità di pensiero oppure rischiano l’estinzione. Quindi, secondo me, la resilienza può
essere anche vista in un’ottica di capacità di adattamento a mutate condizioni ambientali.
* Trabucchi P. (2010). Resisto dunque sono. Corbaccio.
Ho partecipato ad una spedizione sulle Ande raggiungendo i 5.750 metri, ho bivaccato a 4.900
metri a temperature “un po’ basse”, ho scalato vette in inverno ed in estate, ho messo alla prova
me stesso. La montagna mi ha insegnato tante cose.
La preparazione alle uscite in montagna è come prepararsi alla vita. Ognuno deve pensare, deve
imparare a prepararsi: non puoi preparare tu le cose per un altro. Se fai ciò gli fai del male, fai in
modo che la persona non evolva e non capisca l’importanza di essere in grado di organizzarsi da
solo, lo mantieni in uno stato di inferiorità e gli risolvi tu i problemi. Non gli insegni a risolverli da
sola. Se vuoi bene ad una persona devi fare in modo che questa persona prenda consapevolezza,
sia autonoma e possa, quindi, migliorare. Se gli vuoi del male, risolvi tu le cose per lei/lui e, oltre a
tenerla in sudditanza, la lascerai nell’incapacità di badare a se stessa e di migliorare (che magari fa
bene al tuo ego ma non di certo all’altra/o).
Devi sapere come orientarti, qual è il territorio nel quale ci si muove, conoscerlo e rispettarlo.
Bisogna riprendere contatto con il proprio istinto, con la propria natura, con chi si è veramente.
Devi essere preparato alla vita. E’ bene sapere ed essere preparati, ma a cosa? A vivere, agli
imprevisti, a ciò che può accadere, alle mutate condizioni che si possono trovare, al cambiamento
che è insito nelle persone, nella vita stessa e nell’ambiente in cui si vive.
La montagna ti insegna che l’allenamento è fondamentale per riuscire in qualsiasi cosa si faccia.
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Devi saperti porre obiettivi e con rapidità devi saperli mutare. Devi avere la flessibilità per
cambiarli velocemente in base alle condizioni atmosferiche e ambientali.
La montagna ti insegna il valore della fatica nel raggiungere ciò che desideri: senza impegno è
difficile raggiungere obiettivi e mete significative.
La montagna ti insegna l’importanza del cammino e della meta. L’importanza di avere strategie di
“riuscita” e di “uscita”.
Ti insegna la flessibilità nel “cambiare strada”. Cioè nel cambiare strategia spesso e rapidamente
ma sempre avendo come stella cometa i propri valori e i propri principi.
“La strada è segnata: segui il sentiero.” La montagna ti insegna che devi metterlo in discussione il
sentiero segnato. Devi andare fuori dal sentiero se vuoi godere la montagna (o la vita).
“Va dove vanno gli altri”: la montagna ti insegna a valutare le orme, a capire dove sono andate
altre persone, ad osservare e non seguire ciecamente la strada già battuta. A comprendere pericoli
ed opportunità insite in ogni scelta.
La montagna ti invita a scegliere: come prepararti, cosa portare con te, come prevenire le
difficoltà, come risolvere ciò che ti capita. Ti invita a scegliere le modalità di escursione, gli amici
con cui uscire, le tempistiche, le difficoltà.
In montagna puoi perderti per poi ritrovarti migliore di prima. Imparare a perdersi è bellissimo!
La cosa importante è ritrovarsi sempre una volta in più!
La montagna ti insegna la responsabilità nei tuoi confronti e verso gli altri. Devi prepararti, devi
saperti ascoltare, devi saperti sfidare. Nello stesso tempo sei “con” altri che devono essere
responsabili delle loro scelte, ai quali ti puoi affidare e sui quali tu puoi contare. Anche gli altri,
ovviamente, devono potersi fidare di te ed affidare a te.
“Io basto a me stesso e, se posso, se sono nelle condizioni di poterlo fare, ho il dovere di aiutare
gli altri.
Gli altri devono bastare a se stessi e, se possono, devono potermi aiutare, cioè io devo lasciarmi
aiutare.
Io devo essere autosufficiente e devo poter aiutare gli altri.
Gli altri devono essere autosufficienti e devono potermi aiutare.”
Superare i propri limiti. La montagna ti insegna a raccogliere tutte le forze che hai in te che
nemmeno conosci e ti fa fare cose straordinarie. La montagna ti insegna ad “andare OLTRE”.
La montagna ti insegna a non abbatterti e a non esaltarti. La montagna ti insegna a stare attento a
ciò che accade fuori di te e dentro di te.
Ti insegna ad ascoltarti e ad ascoltare.
La montagna, infine, ti consente anche di divertirti se la rispetti, se la temi e se, al tempo stesso,
sai affidarti ad essa e sei disposto a lasciarti andare…
Negli ultimi tempi ho elaborato una ulteriore consapevolezza: non è necessario sfidarsi sempre,
andare al massimo, verificare sempre i propri limiti.
Rallentare, godersi un panorama, “stare” nella natura, passeggiare: è sufficiente questo per sentirsi
vivo. Ora adoro gustarmi il “senso del sublime” di kantiana memoria, amo i boschi, la neve, la
roccia, l’ambiente montano, fermarsi un po’, prendersi i propri tempi, adattarsi ai ritmi della
natura, vivere in essa.
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7. Oggi.
Ritengo di aver realmente preso in mano la mia vita, ho cercato di analizzare e comprendere che
cosa sia effettivamente importante per me, quale sia lo scopo e i compiti che voglio svolgere nella
mia esistenza, quali sono i miei valori e ho sviluppato una mia visione per il futuro. Ho cercato di
definire nel dettaglio quali sono i “ruoli” che ricopro nella mia vita e quali sono gli obiettivi che
intendo raggiungere nel breve periodo e a medio termine. Le scelte fatte sono assolutamente
individuali e pertanto non è detto che possano andar bene ad altri. Ritengo che il metodo che ho
ideato possa sicuramente aiutare chiunque nel raggiungimento del proprio benessere e della
felicità.
Nello sviluppo di questa mia visione della vita ho maturato la scelta di semplicità volontaria che
tradotta in termini operativi ha comportato decisioni per ridurre la quantità di ore dedicate al
lavoro e per aumentare il mio benessere facendo leva su altri elementi quali le relazioni, la salute,
le attività sportive, il contatto con la natura.
Semplicità volontaria, per me, significa, scelte consapevoli e sostenibili nei confronti degli altri e
sul piano ambientale, che determinano un maggiore benessere individuale e delle persone che mi
stanno attorno. È un percorso di costante approfondimento e conoscenza e una messa in
discussione critica dei valori dominanti e di quanto le aspettative degli altri (del sistema) nei miei
confronti avessero inquinato la mia natura, i miei obiettivi e la mia strada.
Ciò ha comportato, innanzitutto, una rivoluzione rispetto ai rapporti interpersonali. Ora
frequento persone che si vogliono bene, che si rispettano e rispettano gli altri, che usano meno
maschere e filtri nelle relazioni, più vere, più sincere, più semplici, più genuine rispetto alle
conoscenze tossiche del passato. Inoltre, effettuo sempre una valutazione prima di intraprendere
un’attività rispetto a quanto sia vicina ai miei valori e se mi porti nella direzione dei miei obiettivi.
Analizzo l’impegno previsto che deve essere equilibrato con le altre attività in atto. Infine, valuto
l’aspetto economico, visto devo ancora sfamare due figli e non riesco a farlo del tutto con
l’autoproduzione.
Mi domando: “Vale la pena fare questo lavoro? Perché accettare di svolgere questo incarico?” il
tutto con la consapevolezza che, ancor prima di analizzare se svolgere o no un’attività, è
necessario imparare a dire di no. Non solo saper dire di no (e quindi voler più bene a se stessi)
ma anche saperne accettare le conseguenze, con tutti i rischi che ciò comporta (ad esempio,
fatturato più basso, perdita del cliente, ecc.).
Che sensazione di completezza, di compiutezza quando si è “nel flusso”, quando si sente che le
decisioni prese sono in linea, sono coerenti e coincidono con i propri valori!
Questa scelta mi ha aiutato a fare chiarezza con me stesso soprattutto rispetto alla coerenza delle
azioni e dei comportamenti che, secondo me, devono essere allineati con i propri criteri, obiettivi
e scopo nella vita.
Inoltre, ha comportato un impegno di riduzione degli sprechi e di avvicinamento ad una vita
sobria. Il tutto condito da una maggiore espressione delle emozioni che viaggia parallelamente
con una riacquisizione delle capacità manuali e un riappropriarsi del rapporto con la natura e i
suoi tempi.
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Anche una maggiore attenzione ad uno stile di vita più equilibrato, ad una alimentazione più sana
(senza diventare paranoico), mi sta aiutando a sviluppare sempre maggiore benessere individuale.
Continuo ad applicarmi in tale direzione per un semplice motivo: ho sentito un immediato
beneficio da tutto ciò. Beneficio rispetto all’ambito del lavoro, della soddisfazione personale, delle
relazioni e anche sul piano fisico.
È una riscoperta di sé, della propria essenza e dei propri meccanismi di pensiero. È una presa di
coscienza e consapevolezza ad un livello più alto.
Penso che la libertà di pensiero sia un elemento focale del mio benessere attuale: non sentirsi
obbligato a dover seguire valori, convinzioni ed idee che non “senti” tue, non dover assecondare
le richieste di altri o del sistema senza aver prima fatto una valutazione approfondita delle stesse.
“Nessuno ha aspettative nei miei confronti, io non mi aspetto nulla dagli altri”.
APPROFONDIMENTO - Il giudizio degli altri.
Quando per noi seguire il giudizio altrui diventa un imperativo, per fare piacere agli “altri”,
tendiamo a modificare costantemente il nostro comportamento, questo modo di agire diventa
per noi una costante fonte d’ansia. La paura del giudizio è legata al bisogno dell’approvazione.
Di questo è responsabile l’educazione che abbiamo ricevuto e il nostro modo di approcciarsi con
l’altro: una persona passiva andrà sempre in cerca di consenso, mentre lo è di meno una
persona assertiva.
Molte persone trovano difficoltà a fare richieste, sperano di essere capite senza il bisogno di
parlare. Ma è molto difficile capire in mancanza di richieste dirette. Questo spostare l’attenzione
da noi stessi sugli altri crea delle distorsioni cognitive. Sviluppiamo un modo di pensare che ci
crea un disagio costante. Quando vogliamo fare una richiesta abbiamo timore di porla per
paura di rifiuto, fraintendimenti e problemi.
Il giudizio è quindi dato dal bisogno di approvazione e dalla paura della critica.*
Il giudizio degli altri spesso condiziona le nostre scelte e di conseguenza impatta enormemente
sul nostro benessere. Pensiamo che comportandoci come gli altri desiderano sia possibile
raggiungere la nostra felicità ma non sempre è così.
È necessario un equilibrio personale e una coerenza di fondo nei comportamenti che si attivano
rispetto al concetto di benessere e felicità. Una persona che non è consapevole delle proprie
azioni e modalità di pensiero, che non attiva comportamenti nella direzione della propria
felicità, come può pretendere che le persone che le stanno attorno siano altrettanto felici e
consapevoli?
Essere concentrati sulle richieste degli altri, dipendere da ciò che dicono e/o fanno gli altri,
determina una de-responsabilizzazione personale e pone gli altri in un ruolo di attori
protagonisti della propria vita e del proprio benessere. In questo modo tante persone fanno
dipendere il loro benessere da altri, delegano la loro felicità. E riescono anche a lamentarsi se
poi non sono felici!
* Rolla E. (2013). Piacersi non piacere. SEI Frontiere, Torino.
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Conseguenza di tutto ciò, è stato il riappropriarmi della mia vita sotto vari punti di vista. Adesso
ho una maggiore relazione con i figli, la fidanzata, gli amici, i genitori, il fratello e la sorella, ho
ripreso le passioni, vedi l’alpinismo e la barca a vela, ho aumentato in maniera esponenziale le
relazioni umane con amici e conoscenti (vedi vita sociale nel volontariato) e ottengo anche risultati
più gratificanti sotto il profilo lavorativo.
Non so se è un caso, ma, da quando sul lavoro, oltre che la testa, ci metto anche il cuore, le
persone mi offrono maggiori opportunità. Il concetto del dono, l’idea di darsi di più agli altri ho
potuto verificare che porta sempre ad un ritorno, non solo in ambito relazionale ed affettivo, ma
anche in quello economico, sociale e del lavoro.
Dare senza aspettarsi qualcosa in cambio, dare per il piacere di dare.
Durante la mia ricerca del benessere mi sono spesso imbattuto in quello che è un concetto che
ritengo cardine per la mia felicità: la libertà. Ho iniziato pensando che essere felici fosse collegato
alla libertà di scelta, all’avere molte opportunità e all’essere liberi di scegliere. Successivamente ho
maturato un ulteriore concetto di libertà collegata alla possibilità di fare ciò che desideravo e, di
conseguenza, essere felice per questo. Dalle mie esperienze è emerso, in seguito, un ulteriore
elemento che definisce la libertà, il fatto di non avere bisogno, cioè non essere necessariamente
legato a fattori esterni che possono determinare il tuo benessere. Ora penso di aver raggiunto un
ulteriore livello di consapevolezza rispetto alla libertà: poter servire.
Mi fa sentire libero l’essere nella condizione di poter aiutare gli altri. Mi sento di avere questa
opzione, posso scegliere di servire. Poter fornire suggerimenti, idee, contribuire all’evoluzione
personale. Non necessariamente devo farlo, mi è sufficiente sapere e pensare di poterlo fare.
Questa secondo me è libertà di pensiero.
È libero veramente chi sa liberare i propri pensieri, la propria mente, solo così poi può essere
d’aiuto, servire gli altri, in questo modo può andare OLTRE…
In questi ultimi anni, pertanto, ho potuto sperimentare l’efficacia della scelta di vivere attraverso la
semplicità volontaria e ho anche avuto modo di approfondire vari concetti ad essa collegati,
attraverso letture specifiche e partecipando ad incontri e dibattiti sul tema. Ho maturato una mia
personale convinzione che rimanendo nelle logiche di pensiero imperanti non si riesce a
svilupparsi del tutto, maturare un completo sviluppo individuale: è necessario “estraniarsi” un po’
e osservare le cose da altri punti di vista.
Ripeto, questa è una mia scelta personale, collegata ai miei valori, al mio scopo nella vita, alle mie
passioni. Pertanto, non è detto che sia applicabile anche ad altri. Ognuno, rispetto al suo percorso
di vita, alle sue esperienze, alle sue convinzioni, può raggiungere il benessere strutturando un
percorso che necessariamente dovrà toccare determinati aspetti. Non essere schiavo della propria
natura e spontaneità, del “io sono fatto così”, ma essere protagonisti consapevoli delle proprie
scelte.
È questo che io mi sento di poter dare oggi alle persone: un supporto nella definizione del
proprio percorso che porti al benessere individuale.
Attualmente, la mia passione è poter coinvolgere altre persone in un cammino di consapevolezza
(non necessariamente collegato alle mie scelte), posso fornire strumenti pratici per il
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raggiungimento del benessere individuale attraverso un’evoluzione personale che parta da una
presa di coscienza e che si sviluppi attraverso un piano di azione concreto. Per raggiungere il
risultato, sarà necessario, comunque, allenare la propria forza di volontà, determinazione ed
automotivazione, oltre alla pazienza, la costanza e la tenacia.
Attenzione al puntare troppo sull’essere se stessi: è meglio essere persone felici e consapevoli
piuttosto che trascinate dagli istinti. Seguire il proprio ego, la propria spontaneità può portare
all’infelicità. Per cui è preferibile impegnarsi su una strada che parta dalla conoscenza di sé,
individui strategie e raggiunga obiettivi di benessere e felicità.
Cura verso se stessi, consapevolezza del proprio impatto nei confronti degli altri e dell’ambiente
che ci ospita: così si può essere anche eticamente felici.
L’equilibrio che ho raggiunto ora è in costante cambiamento, “mi sento in equilibrio attraverso il
movimento”: tutto ciò avrà una sua evoluzione futura.
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8 . Il futuro.
Spero che la lettura di queste poche righe possa essere risultata interessante e possa avervi fornito
degli stimoli di riflessione.
Il percorso verso la consapevolezza, la coerenza, la realizzazione dei propri sogni che porta al
benessere individuale è sicuramente lungo ed impegnativo. Necessita fare chiarezza sul proprio
scopo nella vita, definire ed applicare i valori che ci guidano, le regole che intendiamo rispettare.
Da queste basi, poi, si deve definire la propria visione del futuro, i propri obiettivi e uno o più
progetti da realizzare. Il piano di attività che deriva dai progetti, va attuato sul campo, sulla realtà
attraverso i nostri comportamenti quotidiani.
Per passione, automotivazione, esperienze e risultati ottenuti mi sento in grado di poter
condividere con voi quanto ho appreso nel mio percorso e trasferirvi quelle che sono le modalità
operative per costruire il vostro personale futuro di benessere. Ritengo di potervi aiutare nel
riflettere e prendere consapevolezza della vostra natura, nell’individuare il vostro percorso di vita,
nel definire i vostri obiettivi e raggiungerli attraverso un piano di azione. Soprattutto, posso
supportarvi nell’applicare quotidianamente strategie e comportamenti per farvi vivere ogni giorno
con maggiore benessere e soddisfazione.
A tal fine ho assemblato e creato un metodo che metto a Vostra disposizione.
“…per raggiungere il proprio benessere è necessario andare OLTRE…”
Condividiamo la conoscenza.
Questo è un testo non commerciale pertanto è possibile divulgarlo attraverso tutte le modalità
senza l’autorizzazione dell’autore.
Puoi condividere e diffondere quest’opera nella sua integrità o parti di essa riportandone sempre
l’origine e senza fini di lucro.
Per il Vostro benessere…sempre.
Matteo Majer
www.matteomajer.it
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Trabucchi P. (2013), Perseverare è umano, Corbaccio.
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“La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
È la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: " Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? "
In realtà chi sei tu per Non esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c'è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.”
Marianne Williamson dal libro "Ritorno all'amore”