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La lotta di classe dopo la lotta di classe - Luciano Gallino

Date post: 07-Dec-2014
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Scheda bibliografica
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Gallino, L. (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari: Laterza. La disamina delle diverse forme di rappresentanza e lotta sindacale, attuate ed implementate dai lavoratori nei diversi contesti occupazionali, necessita di un’analisi dell’oggetto propulsore sottostante alla determinazione delle stesse unità sindacali: la classe sociale. Inoltre, al fine di attualizzare la trattazione, sarà altresì opportuno focalizzare l’attenzione sulle trasformazioni che, soprattutto nell’ambito della società contemporanea, hanno stravolto, ampliandolo, il concetto di “gruppo sociale”, determinandone tuttavia un’irreversibile metamorfosi che, seppur connotandosi come innovativa, in alcuni casi non ha condotto a risultati ugualmente rivoluzionari. Si registra una tendenza, diffusa soprattutto tra manager e leader politici, a considerare superata ed obsoleta la canonica identificazione degli operai - ossia dei lavoratori dipendenti generalmente intesi - come classe sociale, retaggio, questo, del periodo della rivoluzione industriale (Gallino, 2012). Appare indispensabile interrogarsi sull’effettivo perdurare dell’esistenza delle classi sociali - in relazione alle quali sono state analizzate e descritte le società sin dalla metà dell’Ottocento - alla luce dei mutamenti verificatisi e 1
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Gallino, L. (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe,

Roma-Bari: Laterza.

La disamina delle diverse forme di rappresentanza e

lotta sindacale, attuate ed implementate dai lavoratori nei

diversi contesti occupazionali, necessita di un’analisi

dell’oggetto propulsore sottostante alla determinazione delle

stesse unità sindacali: la classe sociale. Inoltre, al fine di

attualizzare la trattazione, sarà altresì opportuno focalizzare

l’attenzione sulle trasformazioni che, soprattutto nell’ambito della società

contemporanea, hanno stravolto, ampliandolo, il concetto di “gruppo sociale”,

determinandone tuttavia un’irreversibile metamorfosi che, seppur connotandosi come

innovativa, in alcuni casi non ha condotto a risultati ugualmente rivoluzionari.

Si registra una tendenza, diffusa soprattutto tra manager e leader politici, a

considerare superata ed obsoleta la canonica identificazione degli operai - ossia dei

lavoratori dipendenti generalmente intesi - come classe sociale, retaggio, questo, del

periodo della rivoluzione industriale (Gallino, 2012). Appare indispensabile interrogarsi

sull’effettivo perdurare dell’esistenza delle classi sociali - in relazione alle quali sono

state analizzate e descritte le società sin dalla metà dell’Ottocento - alla luce dei

mutamenti verificatisi e delle caratteristiche progressivamente affermatesi nel contesto

sociale contemporaneo.

Taluni sostengono la scomparsa delle classi sociali in virtù della constatazione

dell’assenza di manifestazioni di massa che possano attribuirsi ad uno specifico

aggregato di individui. Analogamente, sarebbe lecito affermare che non esistono più

partiti caratterizzantesi per un peso elettorale sostenuto e che, in quanto a statuto e

programma, si rifacciano chiaramente all’idea di classe sociale. Tale concezione

sostiene, rafforzandola, la tesi dell’ormai sfumato concetto di classe sociale e delle

relative forme di lotta sindacale. Allo stesso tempo, una classe sociale non esiste e

sussiste solo in quanto capace di innescare azioni collettive - espressioni di un conflitto -

o perché stendardo di un partito. Una classe sociale ha ragion d’essere a prescindere

dalle formazioni politiche che ne attestano l’esistenza, nonché dalla percezione e dalla

concezione che gli individui hanno di essa: «far parte di una classe sociale significa

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appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze

di tale appartenenza» (Gallino, 2012, p. 4).

Inoltre, al fine di definire in maniera completa ed esaustiva il concetto di classe,

occorre includere in esso anche la possibilità per chi vi appartiene di poter intervenire

nella determinazione del proprio percorso di vita, avendo la facoltà di modificarne la

direzione assunta in origine. La tesi dell’avvenuta perdita di pregnanza del costrutto

sociale in analisi viene altresì surrogata dall’attivarsi di un processo di omologazione

dei consumi e dello stile di vita della classe operaia e delle classi medie, pur

permanendo la classica distinzione tra consumo di massa concreto e tangibile e fattori

riferibili ai processi lavorativi quali: qualità del lavoro, possibilità di crescita

professionale, probabilità di ascesa dal punto di vista della carriera. In tale ottica,

dunque, le differenze di classe continuano a esistere e persistere.

Questione altresì spinosa è quella della sempre progressiva evaporazione dei

confini circoscriventi le classi e che sanciscono l’appartenenza di un soggetto ad uno

piuttosto che ad un altro aggregato sociale. Il confine tra classe operaia - lavoratrice e

classe media appare talora sfumato. È possibile definire la classe operaia o lavoratrice

come «l’insieme degli individui che con la loro forza lavoro, erogata alle dipendenze di

qualcuno, assicurano la produzione delle merci e del capitale, mentre rientrano nella

classe media coloro che assicurano la circolazione delle une (ad esempio con il trasporto

e il commercio) e dell’altro (ad esempio con il credito)» (Gallino, 2012, p. 7). Quelle

che in passato venivano classificate come piccola e media borghesia, per differenziarla

rispetto all’alta borghesia costituita da imprenditori, redditieri, proprietari terrieri e alti

dirigenti aziendali e della pubblica amministrazione.

L’epoca contemporanea si caratterizza per il mancato avvio di un processo di

sviluppo e formazione di una o più classi che si connotino per alto grado di

determinazione oggettiva e per capacità di agire come soggetto autonomo e

indipendente ai fini di una modifica del proprio destino. Facendo riferimento ad una

distinzione di marxiana memoria, è possibile affermare che, pertanto, manca il

passaggio dalla classe in sé alla classe per sé, ponendo in questa evoluzione «il

passaggio della classe dallo stato di mera categoria oggettiva allo stato di soggetto

consapevole e quindi capace di intraprendere un’azione politica unitaria» (Gallino,

2012, p. 8).

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In quest’ottica, il concetto di “lotta di classe” assume nuove sfumature di

significato e può riferirsi a due situazioni tra loro opposte. Coloro che non hanno

raggiunto un alto grado di soddisfazione nei riguardi del proprio percorso di vita e delle

vicende che ne scandiscono le tappe principali vedono nella mobilitazione uno

strumento atto a raggiungere un possibile miglioramento dell’originaria condizione

esistenziale, mediante l’attuazione di processi di collaborazione collettiva tra individui

che condividono lo stesso destino. Coloro che invece sono soddisfatti della direzione

assunta dal proprio destino, si impegnano a difenderla e preservarla nel timore che

questa possa essere invertita - e quindi compromessa - da variabili di contesto

difformemente prevedibili.

La lotta di classe si configura altresì come strumento multiforme e dalle

molteplici valenze, pur essendo diretta, nella maggior parte dei casi, alla difesa e al

miglioramento della posizione sociale dell’individuo che decide di attuarla. Il concetto

in analisi si caratterizza per aspetti sia concreti e visibili, sia astratti e subliminali.

Ingloba componenti economiche: il reddito, la ricchezza, il capitale; componenti

politiche: le leggi, la possibilità di intervenire nella loro determinazione, le norme che

regolano la vita sociale generalmente intesa. La “lotta” può anche essere “culturale”

quando, ad esempio, i soggetti intendono evidenziare i meriti attribuibili alla posizione

sociale occupata, descrivendo negativamente la posizione sociale di altri.

Al fine di analizzare le caratteristiche proprie della lotta di classe nella sua

accezione contemporanea, occorre far riferimento a un preciso periodo storico durante il

quale si è attivato un peculiare processo di mobilitazione che le ha conferito le

caratteristiche tuttora riscontrabili. A partire dal 1980, ha avuto inizio in molti paesi, tra

i quali Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania, un fenomeno da molti

definito come “contro-rivoluzione”. Tale processo si riferisce alla mobilitazione ad

opera delle classi dominanti che, appunto, hanno avviato una lotta di classe dall’alto,

finalizzata al recupero del potere progressivamente perso, attraverso l’implementazione

di specifiche e mirate strategie: contenimento dei salari reali; reintroduzione di

condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; incremento della quota dei

profitti sul Pil in precedenza erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle

imposte del periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni

Ottanta.

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Si è pertanto verificata un’inversione di tendenza in termini di direzione assunta

dalla lotta di classe stessa: questa, prima condotta dal basso ai fini di un miglioramento

delle condizioni del soggetto agente, viene soppiantata da una lotta innescata dall’alto

per recuperare i privilegi, i profitti e il potere. In definitiva, è possibile affermare che la

caratteristica principale della lotta di classe nel contesto contemporaneo è collocabile

nel fatto che «la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i

vincitori [...] sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti»

(Gallino, 2012, p. 12). Tale forma di lotta vede come protagoniste le classi dominanti

dei diversi paesi, costituite da proprietari di grandi patrimoni, top manager, politici di

primo piano, grandi proprietari terrieri.

Nell’ambito italiano, la proprietà immobiliare, sostituendo quella del latifondo,

rappresenta una componente di peso della classe dominante, definibile come “classe

capitalistica transnazionale” e non dissimile, in quanto a composizione, da quella che

dominava il settore economico americano, tedesco o inglese agli inizi del Novecento.

Tale classe dominante globale, presente in tutti i paesi del mondo, seppur in modo

differenziato in quanto a dimensioni e peso, ha come principale obiettivo quello di

contenere o contrastare lo sviluppo delle classi medie e operaie, al fine di evitare che

esse possano intaccare il suo potere decisionale nei riguardi del capitale, in termini di:

scelta delle merci da produrre, determinazione dei prezzi, selezione dei mezzi di

produzione, nel caso di un’impresa industriale; modalità di creazione del denaro per

mezzo del denaro, nel caso di una società finanziaria. In tale processo, si colloca una

serie di strumenti strategici e operativi atti a condurre un’efficace lotta di classe: la

circolazione dei top manager da un’impresa all’altra, i convegni, i sistemi di

comunicazione, gli strumenti di elaborazione ideologica (Gallino, 2012).

Diversi sono i modi in cui la lotta di classe viene condotta a livello globale. Le

leggi, ad esempio, costituiscono un efficace canale atto a rafforzare la posizione e

preservare gli interessi della classe dominante, nonché contrastare l’eventuale emergere

e la possibile pretesa di riconoscimento dei diritti da parte della classe media e operaia.

Ed ancora, l’espulsione dalla terra dei contadini, ritenuti improduttivi ed incapaci di

applicare le moderne tecnologie al settore agricolo, soprattutto nei contesti africano,

americano e asiatico, rappresenta un’altra forma di lotta di classe nella misura in cui le

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grandi corporations, specializzate nella produzione di alimenti e nel loro commercio,

acquistano o affittano enormi superfici per cifre irrisorie.

Inoltre, quella che mira ad attaccare i sindacati si configura come una particolare

forma di lotta di classe, da tempo registrabile anche nel contesto italiano. Nel trentennio

del dopoguerra, i sindacati hanno influito in modo significativo nel processo di modifica

della distribuzione dei redditi a favore dei lavoratori dipendenti e di estensione dei diritti

dei lavoratori. Per tali ragioni, i governi di centro-destra, e anche di centro-sinistra,

hanno attaccato i sindacati in Europa a partire dagli anni Ottanta, cercando di indebolire

il loro potere e la loro rappresentatività. In ambito europeo, come conseguenza del

persistere di tale condizione, si registra una progressiva diminuzione delle iscrizioni ai

sindacati, soprattutto nell’industria e nei servizi.

In Italia è stata attuata una campagna contro i sindacati ad opera di gruppi

politici di centro-destra che tendono a definirli come retrogradi ed obsoleti, non più

adatti ai modelli industriali ed ai servizi moderni. Un pesante attacco legislativo al

sindacato è stato implementato mediante un articolo inserito nel decreto sulla manovra

economica risalente al settembre 2011, con il quale si perviene ad uno svuotamento dei

contratti nazionali collettivi di lavoro ed alla vanificazione dello Statuto dei Lavoratori

del 1970, per il fatto che qualsiasi disposizione legislativa può essere derogata se il

sindacato più rappresentativo a livello territoriale si accorda con l’azienda (Gallino,

2012).

In virtù dell’insegnamento marxiano, occorre considerare la funzione

legittimante dell’ideologia, intesa come stile di pensiero, come modo di conoscere e di

affrontare la realtà e di interpretarla, caratteristici di una classe sociale o di un’epoca. Il

ruolo assunto dal fattore ideologico è senza dubbio primario, pur nella sua non

esclusività d’influenza legata al potenziale di condizionamento proprio di altri fattori,

quale, ad esempio, la competitività. Questa è interpretabile sia come lotta della classe

dominante contro i lavoratori, sia come fattore che concorre ad alimentare diverse forme

di conflitto interno alle classi.

Le imprese occidentali, spostando le attività di produzione in paesi nell’ambito

dei quali il costo del lavoro risulta minimo, al fine di accrescere il rendimento derivante

dai capitali e i profitti, nonché per poter vendere i prodotti nei paesi d’origine a prezzi

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contenuti, hanno estromesso dal mercato la concorrenza costituita dalle aziende che non

hanno optato per le delocalizzazioni.

Inoltre, un atteggiamento eccessivamente competitivo determina un’opposizione tra

coloro che, ad esempio, provenendo da contesti di povertà e degrado, sono disposti ad

accettare retribuzioni irrisorie, e coloro che, in seguito all’assunzione della tipologia di

lavoratori in questione, perdono il lavoro.

In particolare, uno degli effetti più vistosi derivanti dall’implementazione di

pratiche di delocalizzazione da parte delle aziende, nonché dall’assunzione di un

atteggiamento competitivo come lotta di classe, è collocabile nel progressivo diffondersi

- nei sistemi economici avanzati - di condizioni di lavoro e di modalità produttive

tipiche dell’economia informale. Processo, questo, definito come “meridionalizzazione”

o “terzomondizzazione” del Nord. A partire dai primi anni Ottanta, alcuni sociologi

hanno iniziato a sostenere secondo cui le classi sociali sono state interessate da un

processo di perdita di rilevanza in relazione all’inesistenza - nel contesto sociale

contemporaneo - di «un ambito di disuguaglianza sovraordinato ad altri a cui riportare

le disuguaglianze specifiche tra gruppi» (Gallino, 2012, p. 149). Tale constatazione

trova conferma nel progressivo decremento di rilevanza sociale del lavoro generalmente

inteso, fenomeno che, tuttavia, intacca principalmente i lavoratori dei paesi sviluppati

dell’Europa occidentale, dove, accanto al lavoro dipendente tradizionale, si sono

sviluppate nuove tipologie lavorative come, ad esempio, il volontariato e numerose

forme di lavoro flessibile. È quindi opportuno focalizzarsi sulle diverse declinazioni

assunte dalla pratica lavorativa nel contesto contemporaneo in termini di proliferazione

di forme di lavoro atipico e/o flessibile.

Con l’espressione “economia informale” ci si riferisce «all’attività economica

svolta al di fuori di qualsiasi legge che regoli le attività produttive, in assenza di diritti e

di protezione sociale, in condizioni fisiche o ambientali spesso mediocri o pessime»

(Gallino, 2012, p. 65). Nello specifico, l’aggettivo “informale”, riferendosi a situazioni

in cui non esiste o è carente un quadro giuridico finalizzato alla determinazione dei

confini entro i quali è applicabile la definizione di “occupato”, si discosta da

“irregolare” che, di contro, si attribuisce a contesti produttivi nell’ambito dei quali il tale

quadro esiste, ma il lavoro viene svolto al di fuori di esso.

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Occorre precisare che l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) colloca

all’interno dell’economia informale - in riferimento all’Europa ed agli Stati Uniti -

anche il lavoro atipico e quindi regolato da contratti di differente tipologia rispetto a

quelli tradizionali a tempo indeterminato, a causa della progressiva evaporazione di

diritti e protezione per il lavoratore. In quest’ottica, la delocalizzazione ha contribuito

notevolmente alla proliferazione di forme di occupazione informale, congiuntamente

alla nascita di una nuova classe di lavoratori globali. In essa si collocano quei lavoratori

che sono recentemente entrati alle dipendenze delle imprese transnazionali e nazionali

sorte sia nei paesi emergenti sia in quelli già industrializzati. La determinazione della

classe in analisi ha caratterizzato il fenomeno della globalizzazione fin dalla sua fase

aurorale, nei primi anni Ottanta.

All’interno del gruppo sociale in analisi, si registra altresì un’ulteriore partizione

interna che ha dato origine a evidenti disuguaglianze tra gli stessi lavoratori globali.

Nello specifico, ci si riferisce alla discrasia esistente tra lavoratori a bassa qualificazione

e quelli specializzati, con qualificazione elevata e altamente professionale. Tali divisioni

interne sono riscontrabili anche nell’ambito dei paesi sviluppati, in virtù del fatto che

anche in essi sono presenti i nuovi salariati.

Configurandosi come tramite e veicolo del processo di trasformazione della

classe in sé in classe per sé, i sindacati, avendo subito un depotenziamento della

canonica funzione di baluardo della classe operaia, appaiono fortemente indeboliti sia in

ambito europeo sia in quello nazionale. La crisi dei sindacati, parallelamente alla perdita

di pregnanza che ha interessato la rappresentanza sindacale, si connota come estesa e

globale (Gallino, 2012). Nello specifico, il fattore che in maniera predominante ha

favorito l’innescarsi del processo di erosione del sindacato generalmente inteso è

collocabile nel potente attacco di cui esso è stato oggetto da parte di governi

conservatori a partire dagli ultimi anni Settanta. A ciò, deve necessariamente

aggiungersi la progressiva contrazione dei settori manifatturiero e minerario, roccaforti

del movimento sindacale. Tale affermazione trova conferma nella diminuzione della

quota degli iscritti che, tuttavia, nel caso italiano non appare essere particolarmente

significativa, pur essendosi attestato un disincremento di circa un quarto dei soggetti

attivi in appena quindici anni: gli iscritti in attività (esclusi quindi i pensionati, gli

autonomi e i disoccupati) erano il 44% nel 1995, e solo il 33% nel 2009. Di

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conseguenza, a una diminuzione del numero degli iscritti corrisponde una minor forza

contrattuale.

Un altro fattore di indebolimento è costituito dagli effetti derivanti dal sistema

economico mondiale - quasi integralmente capitalistico - in termini di incapacità di

produzione di posti di lavoro atti ad assicurare un’occupazione a tutti coloro che ne

fanno richiesta: si è attestata una situazione di eccedenza della forza lavoro rispetto

all’utilizzo che le imprese riescono a farne. Siffatto scenario determina una radicale

debolezza del sindacato (Gallino, 2012).

Nel contesto contemporaneo, i soggetti in cerca di occupazione, pur di trovare o

conservare un posto di lavoro, son disposti a rinunciare alla protezione sindacale ed ai

connessi diritti lavorativi, costringendo il sindacato ad operare in un contesto di

concreta difficoltà strutturale, connotato, appunto, da una sovrabbondanza di forza

lavoro. È necessario riconoscere che i sindacati non si sono dimostrati particolarmente

solerti nell’implementare strategie operative finalizzate alla riduzione dei conflitti

interni alla classe dei lavoratori globali.

Nello specifico, ci si riferisce alla mancanza di interventi proattivi diretti a far

aumentare i salari e incrementare i diritti nei paesi emergenti, così da impedire che gli

stessi bassi salari e scarsi diritti potessero essere adoperati come fattore di

giustificazione del progressivo peggioramento delle retribuzioni e dell’erosione dei

diritti dei lavoratori verificatisi anche nei paesi sviluppati. Va tuttavia ricordato che,

soprattutto nei settori dell’industria mineraria, del tessile e dell’abbigliamento, alcuni

sindacati americani e italiani hanno ottenuto migliori condizioni lavorative per le

sussidiarie di imprese americane operanti in India.

Pertanto, pur esistendo una confederazione europea dei sindacati, ed anche una

mondiale, tuttavia la presenza delle forze sindacali dei paesi sviluppati come attori

capaci di promuovere interventi a favore dei lavoratori dei paesi emergenti, in termini di

richiesta di un miglioramento delle condizioni lavorative, è stata discontinua ed

evanescente. Congiuntamente al depotenziamento della capacità d’intervento dei

sindacati, nell’ambito della situazione socio-politica contemporanea, si registra un

progressivo indebolimento della funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori

storicamente attribuita ai partiti.

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A partire dal 2008, la Confederazione internazionale dei Sindacati - che

annovera 150 milioni di aderenti compresi gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil - promuove la

Giornata Mondiale del lavoro dignitoso, espressione coniata dall’Organizzazione

internazionale del lavoro per indicare l’attività lavorativa che assicura a chi la svolge

alcune specifiche sicurezze: un salario sufficiente, tutele sindacali, possibilità di

sviluppo professionale. In linea con tale definizione, è opportuno analizzare la relazione

intercorrente tra le nuove forme di lavoro atipico, il concetto di flessibilità e quello di

dignità.

Nello specifico, il lavoro flessibile si configura come conseguenza della

flessibilità del movimento del capitale connesse alla fase attuale della finanziarizzazione

e della smaterializzazione della moneta. A fronte dell’estrema flessibilità del capitale, è

necessario che il lavoro si adegui ai ritmi propri della produzione capitalistica. In

quest’ottica, le occupazioni atipiche costituiscono uno strumento atto a conseguire un

alto grado di flessibilità del lavoro come espressione della necessità della repentina

circolazione del capitale e di creazione di impieghi, appunto, flessibili. Il lavoro a tempo

indeterminato implica cavillose procedure burocratiche di licenziamento e, più in

generale, probabili conflitti sindacali e sociali. Al contrario, il moltiplicarsi di contratti

di breve durata, sebbene regolari, e di attività lavorative svolte solo su chiamata,

determina il superamento del problema, conferendo al datore di lavoro maggiore potere

decisionale e discrezionale.

Nel conteso italiano, a partire dagli anni Novanta, i governi si sono attivamente

adoperati nell’introdurre numerose tipologie di lavori flessibili con i relativi contratti

atipici: ci si riferisce al cosiddetto “pacchetto Treu”, la legge che, congiuntamente ad

altri provvedimenti, e risalente al 1997, ha introdotto il lavoro in affitto; ed al decreto

attuativo della legge 30, del settembre 2003, che, combinandosi con le leggi precedenti,

ha condotto ad oltre 45 il numero di contratti atipici. Pertanto, l’intera scena del mondo

del lavoro è stata stravolta a partire dalle fondamenta, con lo scopo precipuo di rendere i

movimenti del lavoro il più possibile somiglianti a quelli propri del capitale in

circolazione a livello globale.

In quest’ottica, per la maggior parte dei lavoratori il concetto di “flessibilità”

assume connotazioni prettamente negative, essendo automaticamente associato a

contratti di breve durata, con la connessa idea di un reddito incerto e dell’impossibilità

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di costituirsi un percorso professionale: la caratteristica che accomuna la maggior parte

dei lavoratori flessibili è costituita dal loro essere precari. Una delle conseguenze

scaturenti dall’assunzione da parte della pratica lavorativa della proprietà in analisi,

appunto quella della flessibilità, è collocabile nella dissoluzione dei legami sociali e

delle relazioni tra lavoratori che, in situazioni di stabilità e omogeneità, rendono la

catena produttiva più solida e meno vulnerabile a eventuali attacchi esterni o interni.

Infatti, quando in un’azienda si trovano a lavorare gli stessi soggetti per un periodo di

tempo piuttosto lungo, turnover fisiologico a parte, è molto più probabile che questi

sviluppino forme di cooperazione e di mutuo soccorso, scoprano di avere interessi

comuni, maturino un alto grado di coesione sociale, potenzialità, queste, quasi del tutto

assenti in ambiti lavorativi frammentati, segmentati e caratterizzati da un continuo

mutamento dei dipendenti in essi operanti.

Pertanto, le occupazioni flessibili concorrono oltremodo alla frammentazione

delle classi lavoratrici e delle loro forme associative, nonché al presentarsi di una

duplice condizione per i lavoratori: di impossibilità di ascesa nella scala occupazionale,

da un lato, e di rischio di discesa nella piramide sociale, dall’altro.

Infine, risulta utile, ai fini dell’analisi delle conseguenze sociali della precarietà

lavorativa qui condotta, considerare un altro elemento di criticità: il trasferimento della

proprietà “precario” anche ad altre sfere della vita degli individui. In particolare, con

tale affermazione, si intende evidenziare l’influenza che le disuguaglianze proprie del

contesto lavorativo risultano avere rispetto ad altre forme di ineguaglianza: il tipo di

lavoro svolto, alla luce del sistema strutturale occupazionale stabilitosi, determina

sempre maggiormente il delinearsi delle prospettive future degli individui.

AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” -

DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE

SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO

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