Date post: | 07-Dec-2014 |
Category: |
Education |
Upload: | augusto-cocorullo |
View: | 218 times |
Download: | 1 times |
Gallino, L. (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe,
Roma-Bari: Laterza.
La disamina delle diverse forme di rappresentanza e
lotta sindacale, attuate ed implementate dai lavoratori nei
diversi contesti occupazionali, necessita di un’analisi
dell’oggetto propulsore sottostante alla determinazione delle
stesse unità sindacali: la classe sociale. Inoltre, al fine di
attualizzare la trattazione, sarà altresì opportuno focalizzare
l’attenzione sulle trasformazioni che, soprattutto nell’ambito della società
contemporanea, hanno stravolto, ampliandolo, il concetto di “gruppo sociale”,
determinandone tuttavia un’irreversibile metamorfosi che, seppur connotandosi come
innovativa, in alcuni casi non ha condotto a risultati ugualmente rivoluzionari.
Si registra una tendenza, diffusa soprattutto tra manager e leader politici, a
considerare superata ed obsoleta la canonica identificazione degli operai - ossia dei
lavoratori dipendenti generalmente intesi - come classe sociale, retaggio, questo, del
periodo della rivoluzione industriale (Gallino, 2012). Appare indispensabile interrogarsi
sull’effettivo perdurare dell’esistenza delle classi sociali - in relazione alle quali sono
state analizzate e descritte le società sin dalla metà dell’Ottocento - alla luce dei
mutamenti verificatisi e delle caratteristiche progressivamente affermatesi nel contesto
sociale contemporaneo.
Taluni sostengono la scomparsa delle classi sociali in virtù della constatazione
dell’assenza di manifestazioni di massa che possano attribuirsi ad uno specifico
aggregato di individui. Analogamente, sarebbe lecito affermare che non esistono più
partiti caratterizzantesi per un peso elettorale sostenuto e che, in quanto a statuto e
programma, si rifacciano chiaramente all’idea di classe sociale. Tale concezione
sostiene, rafforzandola, la tesi dell’ormai sfumato concetto di classe sociale e delle
relative forme di lotta sindacale. Allo stesso tempo, una classe sociale non esiste e
sussiste solo in quanto capace di innescare azioni collettive - espressioni di un conflitto -
o perché stendardo di un partito. Una classe sociale ha ragion d’essere a prescindere
dalle formazioni politiche che ne attestano l’esistenza, nonché dalla percezione e dalla
concezione che gli individui hanno di essa: «far parte di una classe sociale significa
1
appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze
di tale appartenenza» (Gallino, 2012, p. 4).
Inoltre, al fine di definire in maniera completa ed esaustiva il concetto di classe,
occorre includere in esso anche la possibilità per chi vi appartiene di poter intervenire
nella determinazione del proprio percorso di vita, avendo la facoltà di modificarne la
direzione assunta in origine. La tesi dell’avvenuta perdita di pregnanza del costrutto
sociale in analisi viene altresì surrogata dall’attivarsi di un processo di omologazione
dei consumi e dello stile di vita della classe operaia e delle classi medie, pur
permanendo la classica distinzione tra consumo di massa concreto e tangibile e fattori
riferibili ai processi lavorativi quali: qualità del lavoro, possibilità di crescita
professionale, probabilità di ascesa dal punto di vista della carriera. In tale ottica,
dunque, le differenze di classe continuano a esistere e persistere.
Questione altresì spinosa è quella della sempre progressiva evaporazione dei
confini circoscriventi le classi e che sanciscono l’appartenenza di un soggetto ad uno
piuttosto che ad un altro aggregato sociale. Il confine tra classe operaia - lavoratrice e
classe media appare talora sfumato. È possibile definire la classe operaia o lavoratrice
come «l’insieme degli individui che con la loro forza lavoro, erogata alle dipendenze di
qualcuno, assicurano la produzione delle merci e del capitale, mentre rientrano nella
classe media coloro che assicurano la circolazione delle une (ad esempio con il trasporto
e il commercio) e dell’altro (ad esempio con il credito)» (Gallino, 2012, p. 7). Quelle
che in passato venivano classificate come piccola e media borghesia, per differenziarla
rispetto all’alta borghesia costituita da imprenditori, redditieri, proprietari terrieri e alti
dirigenti aziendali e della pubblica amministrazione.
L’epoca contemporanea si caratterizza per il mancato avvio di un processo di
sviluppo e formazione di una o più classi che si connotino per alto grado di
determinazione oggettiva e per capacità di agire come soggetto autonomo e
indipendente ai fini di una modifica del proprio destino. Facendo riferimento ad una
distinzione di marxiana memoria, è possibile affermare che, pertanto, manca il
passaggio dalla classe in sé alla classe per sé, ponendo in questa evoluzione «il
passaggio della classe dallo stato di mera categoria oggettiva allo stato di soggetto
consapevole e quindi capace di intraprendere un’azione politica unitaria» (Gallino,
2012, p. 8).
2
In quest’ottica, il concetto di “lotta di classe” assume nuove sfumature di
significato e può riferirsi a due situazioni tra loro opposte. Coloro che non hanno
raggiunto un alto grado di soddisfazione nei riguardi del proprio percorso di vita e delle
vicende che ne scandiscono le tappe principali vedono nella mobilitazione uno
strumento atto a raggiungere un possibile miglioramento dell’originaria condizione
esistenziale, mediante l’attuazione di processi di collaborazione collettiva tra individui
che condividono lo stesso destino. Coloro che invece sono soddisfatti della direzione
assunta dal proprio destino, si impegnano a difenderla e preservarla nel timore che
questa possa essere invertita - e quindi compromessa - da variabili di contesto
difformemente prevedibili.
La lotta di classe si configura altresì come strumento multiforme e dalle
molteplici valenze, pur essendo diretta, nella maggior parte dei casi, alla difesa e al
miglioramento della posizione sociale dell’individuo che decide di attuarla. Il concetto
in analisi si caratterizza per aspetti sia concreti e visibili, sia astratti e subliminali.
Ingloba componenti economiche: il reddito, la ricchezza, il capitale; componenti
politiche: le leggi, la possibilità di intervenire nella loro determinazione, le norme che
regolano la vita sociale generalmente intesa. La “lotta” può anche essere “culturale”
quando, ad esempio, i soggetti intendono evidenziare i meriti attribuibili alla posizione
sociale occupata, descrivendo negativamente la posizione sociale di altri.
Al fine di analizzare le caratteristiche proprie della lotta di classe nella sua
accezione contemporanea, occorre far riferimento a un preciso periodo storico durante il
quale si è attivato un peculiare processo di mobilitazione che le ha conferito le
caratteristiche tuttora riscontrabili. A partire dal 1980, ha avuto inizio in molti paesi, tra
i quali Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia, Germania, un fenomeno da molti
definito come “contro-rivoluzione”. Tale processo si riferisce alla mobilitazione ad
opera delle classi dominanti che, appunto, hanno avviato una lotta di classe dall’alto,
finalizzata al recupero del potere progressivamente perso, attraverso l’implementazione
di specifiche e mirate strategie: contenimento dei salari reali; reintroduzione di
condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; incremento della quota dei
profitti sul Pil in precedenza erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle
imposte del periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e gli anni
Ottanta.
3
Si è pertanto verificata un’inversione di tendenza in termini di direzione assunta
dalla lotta di classe stessa: questa, prima condotta dal basso ai fini di un miglioramento
delle condizioni del soggetto agente, viene soppiantata da una lotta innescata dall’alto
per recuperare i privilegi, i profitti e il potere. In definitiva, è possibile affermare che la
caratteristica principale della lotta di classe nel contesto contemporaneo è collocabile
nel fatto che «la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i
vincitori [...] sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti»
(Gallino, 2012, p. 12). Tale forma di lotta vede come protagoniste le classi dominanti
dei diversi paesi, costituite da proprietari di grandi patrimoni, top manager, politici di
primo piano, grandi proprietari terrieri.
Nell’ambito italiano, la proprietà immobiliare, sostituendo quella del latifondo,
rappresenta una componente di peso della classe dominante, definibile come “classe
capitalistica transnazionale” e non dissimile, in quanto a composizione, da quella che
dominava il settore economico americano, tedesco o inglese agli inizi del Novecento.
Tale classe dominante globale, presente in tutti i paesi del mondo, seppur in modo
differenziato in quanto a dimensioni e peso, ha come principale obiettivo quello di
contenere o contrastare lo sviluppo delle classi medie e operaie, al fine di evitare che
esse possano intaccare il suo potere decisionale nei riguardi del capitale, in termini di:
scelta delle merci da produrre, determinazione dei prezzi, selezione dei mezzi di
produzione, nel caso di un’impresa industriale; modalità di creazione del denaro per
mezzo del denaro, nel caso di una società finanziaria. In tale processo, si colloca una
serie di strumenti strategici e operativi atti a condurre un’efficace lotta di classe: la
circolazione dei top manager da un’impresa all’altra, i convegni, i sistemi di
comunicazione, gli strumenti di elaborazione ideologica (Gallino, 2012).
Diversi sono i modi in cui la lotta di classe viene condotta a livello globale. Le
leggi, ad esempio, costituiscono un efficace canale atto a rafforzare la posizione e
preservare gli interessi della classe dominante, nonché contrastare l’eventuale emergere
e la possibile pretesa di riconoscimento dei diritti da parte della classe media e operaia.
Ed ancora, l’espulsione dalla terra dei contadini, ritenuti improduttivi ed incapaci di
applicare le moderne tecnologie al settore agricolo, soprattutto nei contesti africano,
americano e asiatico, rappresenta un’altra forma di lotta di classe nella misura in cui le
4
grandi corporations, specializzate nella produzione di alimenti e nel loro commercio,
acquistano o affittano enormi superfici per cifre irrisorie.
Inoltre, quella che mira ad attaccare i sindacati si configura come una particolare
forma di lotta di classe, da tempo registrabile anche nel contesto italiano. Nel trentennio
del dopoguerra, i sindacati hanno influito in modo significativo nel processo di modifica
della distribuzione dei redditi a favore dei lavoratori dipendenti e di estensione dei diritti
dei lavoratori. Per tali ragioni, i governi di centro-destra, e anche di centro-sinistra,
hanno attaccato i sindacati in Europa a partire dagli anni Ottanta, cercando di indebolire
il loro potere e la loro rappresentatività. In ambito europeo, come conseguenza del
persistere di tale condizione, si registra una progressiva diminuzione delle iscrizioni ai
sindacati, soprattutto nell’industria e nei servizi.
In Italia è stata attuata una campagna contro i sindacati ad opera di gruppi
politici di centro-destra che tendono a definirli come retrogradi ed obsoleti, non più
adatti ai modelli industriali ed ai servizi moderni. Un pesante attacco legislativo al
sindacato è stato implementato mediante un articolo inserito nel decreto sulla manovra
economica risalente al settembre 2011, con il quale si perviene ad uno svuotamento dei
contratti nazionali collettivi di lavoro ed alla vanificazione dello Statuto dei Lavoratori
del 1970, per il fatto che qualsiasi disposizione legislativa può essere derogata se il
sindacato più rappresentativo a livello territoriale si accorda con l’azienda (Gallino,
2012).
In virtù dell’insegnamento marxiano, occorre considerare la funzione
legittimante dell’ideologia, intesa come stile di pensiero, come modo di conoscere e di
affrontare la realtà e di interpretarla, caratteristici di una classe sociale o di un’epoca. Il
ruolo assunto dal fattore ideologico è senza dubbio primario, pur nella sua non
esclusività d’influenza legata al potenziale di condizionamento proprio di altri fattori,
quale, ad esempio, la competitività. Questa è interpretabile sia come lotta della classe
dominante contro i lavoratori, sia come fattore che concorre ad alimentare diverse forme
di conflitto interno alle classi.
Le imprese occidentali, spostando le attività di produzione in paesi nell’ambito
dei quali il costo del lavoro risulta minimo, al fine di accrescere il rendimento derivante
dai capitali e i profitti, nonché per poter vendere i prodotti nei paesi d’origine a prezzi
5
contenuti, hanno estromesso dal mercato la concorrenza costituita dalle aziende che non
hanno optato per le delocalizzazioni.
Inoltre, un atteggiamento eccessivamente competitivo determina un’opposizione tra
coloro che, ad esempio, provenendo da contesti di povertà e degrado, sono disposti ad
accettare retribuzioni irrisorie, e coloro che, in seguito all’assunzione della tipologia di
lavoratori in questione, perdono il lavoro.
In particolare, uno degli effetti più vistosi derivanti dall’implementazione di
pratiche di delocalizzazione da parte delle aziende, nonché dall’assunzione di un
atteggiamento competitivo come lotta di classe, è collocabile nel progressivo diffondersi
- nei sistemi economici avanzati - di condizioni di lavoro e di modalità produttive
tipiche dell’economia informale. Processo, questo, definito come “meridionalizzazione”
o “terzomondizzazione” del Nord. A partire dai primi anni Ottanta, alcuni sociologi
hanno iniziato a sostenere secondo cui le classi sociali sono state interessate da un
processo di perdita di rilevanza in relazione all’inesistenza - nel contesto sociale
contemporaneo - di «un ambito di disuguaglianza sovraordinato ad altri a cui riportare
le disuguaglianze specifiche tra gruppi» (Gallino, 2012, p. 149). Tale constatazione
trova conferma nel progressivo decremento di rilevanza sociale del lavoro generalmente
inteso, fenomeno che, tuttavia, intacca principalmente i lavoratori dei paesi sviluppati
dell’Europa occidentale, dove, accanto al lavoro dipendente tradizionale, si sono
sviluppate nuove tipologie lavorative come, ad esempio, il volontariato e numerose
forme di lavoro flessibile. È quindi opportuno focalizzarsi sulle diverse declinazioni
assunte dalla pratica lavorativa nel contesto contemporaneo in termini di proliferazione
di forme di lavoro atipico e/o flessibile.
Con l’espressione “economia informale” ci si riferisce «all’attività economica
svolta al di fuori di qualsiasi legge che regoli le attività produttive, in assenza di diritti e
di protezione sociale, in condizioni fisiche o ambientali spesso mediocri o pessime»
(Gallino, 2012, p. 65). Nello specifico, l’aggettivo “informale”, riferendosi a situazioni
in cui non esiste o è carente un quadro giuridico finalizzato alla determinazione dei
confini entro i quali è applicabile la definizione di “occupato”, si discosta da
“irregolare” che, di contro, si attribuisce a contesti produttivi nell’ambito dei quali il tale
quadro esiste, ma il lavoro viene svolto al di fuori di esso.
6
Occorre precisare che l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) colloca
all’interno dell’economia informale - in riferimento all’Europa ed agli Stati Uniti -
anche il lavoro atipico e quindi regolato da contratti di differente tipologia rispetto a
quelli tradizionali a tempo indeterminato, a causa della progressiva evaporazione di
diritti e protezione per il lavoratore. In quest’ottica, la delocalizzazione ha contribuito
notevolmente alla proliferazione di forme di occupazione informale, congiuntamente
alla nascita di una nuova classe di lavoratori globali. In essa si collocano quei lavoratori
che sono recentemente entrati alle dipendenze delle imprese transnazionali e nazionali
sorte sia nei paesi emergenti sia in quelli già industrializzati. La determinazione della
classe in analisi ha caratterizzato il fenomeno della globalizzazione fin dalla sua fase
aurorale, nei primi anni Ottanta.
All’interno del gruppo sociale in analisi, si registra altresì un’ulteriore partizione
interna che ha dato origine a evidenti disuguaglianze tra gli stessi lavoratori globali.
Nello specifico, ci si riferisce alla discrasia esistente tra lavoratori a bassa qualificazione
e quelli specializzati, con qualificazione elevata e altamente professionale. Tali divisioni
interne sono riscontrabili anche nell’ambito dei paesi sviluppati, in virtù del fatto che
anche in essi sono presenti i nuovi salariati.
Configurandosi come tramite e veicolo del processo di trasformazione della
classe in sé in classe per sé, i sindacati, avendo subito un depotenziamento della
canonica funzione di baluardo della classe operaia, appaiono fortemente indeboliti sia in
ambito europeo sia in quello nazionale. La crisi dei sindacati, parallelamente alla perdita
di pregnanza che ha interessato la rappresentanza sindacale, si connota come estesa e
globale (Gallino, 2012). Nello specifico, il fattore che in maniera predominante ha
favorito l’innescarsi del processo di erosione del sindacato generalmente inteso è
collocabile nel potente attacco di cui esso è stato oggetto da parte di governi
conservatori a partire dagli ultimi anni Settanta. A ciò, deve necessariamente
aggiungersi la progressiva contrazione dei settori manifatturiero e minerario, roccaforti
del movimento sindacale. Tale affermazione trova conferma nella diminuzione della
quota degli iscritti che, tuttavia, nel caso italiano non appare essere particolarmente
significativa, pur essendosi attestato un disincremento di circa un quarto dei soggetti
attivi in appena quindici anni: gli iscritti in attività (esclusi quindi i pensionati, gli
autonomi e i disoccupati) erano il 44% nel 1995, e solo il 33% nel 2009. Di
7
conseguenza, a una diminuzione del numero degli iscritti corrisponde una minor forza
contrattuale.
Un altro fattore di indebolimento è costituito dagli effetti derivanti dal sistema
economico mondiale - quasi integralmente capitalistico - in termini di incapacità di
produzione di posti di lavoro atti ad assicurare un’occupazione a tutti coloro che ne
fanno richiesta: si è attestata una situazione di eccedenza della forza lavoro rispetto
all’utilizzo che le imprese riescono a farne. Siffatto scenario determina una radicale
debolezza del sindacato (Gallino, 2012).
Nel contesto contemporaneo, i soggetti in cerca di occupazione, pur di trovare o
conservare un posto di lavoro, son disposti a rinunciare alla protezione sindacale ed ai
connessi diritti lavorativi, costringendo il sindacato ad operare in un contesto di
concreta difficoltà strutturale, connotato, appunto, da una sovrabbondanza di forza
lavoro. È necessario riconoscere che i sindacati non si sono dimostrati particolarmente
solerti nell’implementare strategie operative finalizzate alla riduzione dei conflitti
interni alla classe dei lavoratori globali.
Nello specifico, ci si riferisce alla mancanza di interventi proattivi diretti a far
aumentare i salari e incrementare i diritti nei paesi emergenti, così da impedire che gli
stessi bassi salari e scarsi diritti potessero essere adoperati come fattore di
giustificazione del progressivo peggioramento delle retribuzioni e dell’erosione dei
diritti dei lavoratori verificatisi anche nei paesi sviluppati. Va tuttavia ricordato che,
soprattutto nei settori dell’industria mineraria, del tessile e dell’abbigliamento, alcuni
sindacati americani e italiani hanno ottenuto migliori condizioni lavorative per le
sussidiarie di imprese americane operanti in India.
Pertanto, pur esistendo una confederazione europea dei sindacati, ed anche una
mondiale, tuttavia la presenza delle forze sindacali dei paesi sviluppati come attori
capaci di promuovere interventi a favore dei lavoratori dei paesi emergenti, in termini di
richiesta di un miglioramento delle condizioni lavorative, è stata discontinua ed
evanescente. Congiuntamente al depotenziamento della capacità d’intervento dei
sindacati, nell’ambito della situazione socio-politica contemporanea, si registra un
progressivo indebolimento della funzione di rappresentanza degli interessi dei lavoratori
storicamente attribuita ai partiti.
8
A partire dal 2008, la Confederazione internazionale dei Sindacati - che
annovera 150 milioni di aderenti compresi gli iscritti a Cgil, Cisl e Uil - promuove la
Giornata Mondiale del lavoro dignitoso, espressione coniata dall’Organizzazione
internazionale del lavoro per indicare l’attività lavorativa che assicura a chi la svolge
alcune specifiche sicurezze: un salario sufficiente, tutele sindacali, possibilità di
sviluppo professionale. In linea con tale definizione, è opportuno analizzare la relazione
intercorrente tra le nuove forme di lavoro atipico, il concetto di flessibilità e quello di
dignità.
Nello specifico, il lavoro flessibile si configura come conseguenza della
flessibilità del movimento del capitale connesse alla fase attuale della finanziarizzazione
e della smaterializzazione della moneta. A fronte dell’estrema flessibilità del capitale, è
necessario che il lavoro si adegui ai ritmi propri della produzione capitalistica. In
quest’ottica, le occupazioni atipiche costituiscono uno strumento atto a conseguire un
alto grado di flessibilità del lavoro come espressione della necessità della repentina
circolazione del capitale e di creazione di impieghi, appunto, flessibili. Il lavoro a tempo
indeterminato implica cavillose procedure burocratiche di licenziamento e, più in
generale, probabili conflitti sindacali e sociali. Al contrario, il moltiplicarsi di contratti
di breve durata, sebbene regolari, e di attività lavorative svolte solo su chiamata,
determina il superamento del problema, conferendo al datore di lavoro maggiore potere
decisionale e discrezionale.
Nel conteso italiano, a partire dagli anni Novanta, i governi si sono attivamente
adoperati nell’introdurre numerose tipologie di lavori flessibili con i relativi contratti
atipici: ci si riferisce al cosiddetto “pacchetto Treu”, la legge che, congiuntamente ad
altri provvedimenti, e risalente al 1997, ha introdotto il lavoro in affitto; ed al decreto
attuativo della legge 30, del settembre 2003, che, combinandosi con le leggi precedenti,
ha condotto ad oltre 45 il numero di contratti atipici. Pertanto, l’intera scena del mondo
del lavoro è stata stravolta a partire dalle fondamenta, con lo scopo precipuo di rendere i
movimenti del lavoro il più possibile somiglianti a quelli propri del capitale in
circolazione a livello globale.
In quest’ottica, per la maggior parte dei lavoratori il concetto di “flessibilità”
assume connotazioni prettamente negative, essendo automaticamente associato a
contratti di breve durata, con la connessa idea di un reddito incerto e dell’impossibilità
9
di costituirsi un percorso professionale: la caratteristica che accomuna la maggior parte
dei lavoratori flessibili è costituita dal loro essere precari. Una delle conseguenze
scaturenti dall’assunzione da parte della pratica lavorativa della proprietà in analisi,
appunto quella della flessibilità, è collocabile nella dissoluzione dei legami sociali e
delle relazioni tra lavoratori che, in situazioni di stabilità e omogeneità, rendono la
catena produttiva più solida e meno vulnerabile a eventuali attacchi esterni o interni.
Infatti, quando in un’azienda si trovano a lavorare gli stessi soggetti per un periodo di
tempo piuttosto lungo, turnover fisiologico a parte, è molto più probabile che questi
sviluppino forme di cooperazione e di mutuo soccorso, scoprano di avere interessi
comuni, maturino un alto grado di coesione sociale, potenzialità, queste, quasi del tutto
assenti in ambiti lavorativi frammentati, segmentati e caratterizzati da un continuo
mutamento dei dipendenti in essi operanti.
Pertanto, le occupazioni flessibili concorrono oltremodo alla frammentazione
delle classi lavoratrici e delle loro forme associative, nonché al presentarsi di una
duplice condizione per i lavoratori: di impossibilità di ascesa nella scala occupazionale,
da un lato, e di rischio di discesa nella piramide sociale, dall’altro.
Infine, risulta utile, ai fini dell’analisi delle conseguenze sociali della precarietà
lavorativa qui condotta, considerare un altro elemento di criticità: il trasferimento della
proprietà “precario” anche ad altre sfere della vita degli individui. In particolare, con
tale affermazione, si intende evidenziare l’influenza che le disuguaglianze proprie del
contesto lavorativo risultano avere rispetto ad altre forme di ineguaglianza: il tipo di
lavoro svolto, alla luce del sistema strutturale occupazionale stabilitosi, determina
sempre maggiormente il delinearsi delle prospettive future degli individui.
AUGUSTO COCORULLO - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “FEDERICO II” -
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI - DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE
SOCIALI E STATISTICHE - XXIX CICLO
10