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La matematica nella cultura occidentale - Access · Ancor meno noto è il fatto che la matematica...

Date post: 14-Jul-2020
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1 Morris Kline La matematica nella cultura occidentale
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Morris Kline

La matematica

nella cultura occidentale

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Titolo dell’opera originale

Mathematics in Western Culture

Traduzione dall’inglese di

Libero Sosio

88 figure e 27 tavole nel testo

La presente è una edizione speciale

realizzata da Giuliano Buceti a fini non commerciali.

E’ fatto divieto di fare uso di tutto o parte di questo testo senza la autorizzazione

dei detentori dei relativi diritti d’autore.

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Premessa

Dopo una tradizione ininterrotta di molti secoli, nella nostra epoca dell’istruzione

di massa la matematica ha cessato generalmente di essere considerata parte

integrante della cultura. L’isolamento degli scienziati ricercatori, la miseranda

scarsità di insegnanti dotati di un ascendente sui giovani e le generali tendenze

educative avverse a una disciplina intellettuale hanno contribuito al successo, nel

campo dell’istruzione, di un atteggiamento antimatematico. È merito soprattutto

del pubblico se un forte interesse per la matematica rimane nondimeno vivo.

Recentemente sono stati compiuti vari tentativi per soddisfare quest’interesse.

Insieme con H. Robbins, ho tentato di discutere il significato della matematica in

What is Mathematics? Il nostro libro si rivolgeva però a lettori che già

possedessero un certo livello di conoscenze matematiche. Qualcosa di più si

dovrebbe fare, a un livello meno tecnico, per il gran numero di persone che non

posseggono tali nozioni ma che nondimeno desiderano conoscere quale sia il

significato della matematica nella cultura umana.

Ho seguito per qualche tempo, con grande interesse, il lavoro del professor Morris

Kline nella preparazione del presente libro. Sono convinto che questo si

dimostrerà un contributo di primaria importanza e che servirà ad avvicinare alle

scienze matematiche persone che non hanno avuto ancora modo di apprezzare il

fascino e le possibilità di questa scienza.

R. Courant

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A Elizabeth e Judith

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Prefazione

Quando tutti questi studi avranno raggiunto il punto di intercomunione e di connessione

l'uno con l'altro, e perverranno a essere considerati nelle loro mutue affinità, allora, io

credo, e solo allora, il loro perseguimento avrà un valore ai nostri fini; altrimenti in

essi non c'è profitto.

PLATONE

Il fine di questo libro è quello di suggerire la tesi che la matematica è stata una

forza culturale di primo piano nella civiltà occidentale. Quasi tutti sanno che la

matematica è essenziale ai fini eminentemente pratici della progettazione in

ingegneria. Non tutti sembrano invece rendersi conto che la matematica sopporta

il carico principale del ragionamento scientifico e che essa è il centro vitale delle

principali teorie della scienza fisica. Ancor meno noto è il fatto che la matematica

ha determinato la direzione e il contenuto di buona parte del pensiero filosofico,

ha distrutto e ricostruito dottrine religiose, ha costituito il nerbo di teorie

economiche e politiche, ha plasmato i principali stili pittorici, musicali,

architettonici e letterari, ha procreato la nostra logica e ha fornito le risposte

migliori che abbiamo a domande fondamentali sulla natura dell’uomo e del suo

universo. Essendo l'incarnazione e la più efficace rappresentante dello spirito

razionale, la matematica ha invaso campi dominati dall’autorità, dalle usanze e

dall’abitudine, soppiantandole come arbitra del pensiero e dell’azione. Infine,

essendo una realizzazione umana incomparabilmente raffinata, offre soddisfazioni

e valori estetici almeno pari a quelli offerti da qualsiasi altro settore della nostra

cultura.

Benché la matematica abbia dato questi contributi non certo modesti alla nostra

vita e al nostro pensiero, le persone istruite rifiutano quasi universalmente la

matematica come oggetto d’interesse intellettuale. Questo atteggiamento è in un

certo senso giustificato. Le lezioni scolastiche e i libri di testo ci hanno presentato

la “matematica” come una serie di procedimenti tecnici apparentemente privi di

significato. Un tale materiale è rappresentativo della disciplina nella stessa misura

in cui un’enumerazione del nome, della posizione e della funzione di ogni osso

nello scheletro umano è rappresentativa di quell’essere vivo, pensante ed emotivo

che è l’uomo. Come una frase perde il suo significato o ne acquista uno non

intenzionale una volta strappata al suo contesto, così la matematica, staccata dal

suo ricco ambiente intellettuale nella cultura della nostra civiltà e ridotta a una

serie di tecniche, è stata grossolanamente distorta. Poiché il profano fa assai poco

uso della matematica tecnica, ha fatto resistenza al materiale spoglio e arido quale

viene presentato di solito. La conseguenza è che un argomento fondamentale, di

vitale importanza e tale da elevare lo spirito, viene trascurato e disprezzato da

persone peraltro di buon livello intellettuale. Di fatto l’ignoranza della matematica

viene considerata, a un certo livello della scala sociale, un fatto positivo.

In questo libro tracceremo un panorama della matematica principalmente per

dimostrare in che modo le sue idee abbiano contribuito a plasmare la vita e il

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pensiero del nostro secolo. Le idee saranno esposte nel loro ordine storico,

cosicché i nostri materiali si distribuiranno dagli inizi, nella Babilonia e in Egitto,

fino alla moderna teoria della relatività. Alcune persone potranno porre domande

circa la pertinenza dei materiali appartenenti ai periodi storici più antichi. La

cultura moderna consiste però proprio nell’accumulo e nella sintesi di contributi

forniti da molte civiltà anteriori. I greci, che per primi apprezzarono l’efficacia del

ragionamento matematico, concessero graziosamente agli dèi di usarlo nella

progettazione dell’universo e poi, incitando l’uomo a scoprire il disegno di questo

progetto, non soltanto diedero alla matematica un posto di primo piano nella loro

civiltà ma avviarono modelli di pensiero che sono una componente fondamentale

del nostro. Col passare del tempo e il susseguirsi delle civiltà, la matematica

venne acquistando ruoli nuovi e sempre più significativi. Molte di queste funzioni

e influenze della matematica sono ora profondamente integrate nella nostra

cultura. Anche i moderni contributi matematici sono apprezzati nel modo migliore

alla luce degli sviluppi anteriori.

Nonostante l’impostazione storica, questo libro non è una storia della

matematica. L'ordine storico è stato adottato perché è il più conveniente per la

presentazione logica dell'argomento e perché è il modo naturale per esaminare in

che modo le idee sorsero, quali furono le motivazioni che condussero alla loro

investigazione e in che modo tali idee influenzarono il corso di altre attività.

Un’importante conseguenza secondaria è che il lettore può ottenere qualche

indicazione sul modo in cui si è sviluppata la matematica nel suo complesso, sul

modo in cui i suoi periodi di attività e di quiescenza si sono articolati al corso

generale della storia della civiltà occidentale, e sul modo in cui la natura e i

contenuti della matematica hanno plasmato le civiltà che hanno contribuito al

sorgere della nostra attuale civiltà occidentale. Ci auguriamo che

quest’esposizione della matematica come forza plasmatrice della civiltà moderna

serva a gettar nuova luce sulla matematica e sui caratteri dominanti della nostra

epoca.

Nell’ambito ristretto di un volume non possiamo purtroppo far altro che

limitarci a illustrare semplicemente questa tesi. La relativa esiguità dello spazio ha

reso necessaria una selezione da una vasta letteratura. Le relazioni fra matematica

e arte, per fare un esempio, sono state esaminate solo per il periodo

rinascimentale. Il lettore che ha familiarità con la scienza moderna noterà che

quasi nulla è stato detto sulla funzione della matematica nella teoria atomica e

nucleare. Alcune importanti filosofie moderne della natura, in particolare quella di

Alfred North Whitehead, sono state appena menzionate. Speriamo nondimeno che

gli esempi scelti siano abbastanza importanti da riuscire convincenti oltre che

interessanti.

Il tentativo di mettere a fuoco pochi episodi nella vita della matematica ha reso

necessaria anche un’eccessiva semplificazione della storia. Nelle imprese

intellettuali, come in quelle politiche, gli esiti sono determinati da numerose forze

e da numerosi contributi individuali. Galileo non creò certo da solo l’approccio

quantitativo proprio della scienza moderna. Analogamente, il calcolo

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infinitesimale è una creazione, quasi in ugual misura, di Eudosso, di Archimede e

di una decina di matematici del Seicento, oltre che di Newton e di Leibniz.

Specialmente per la matematica è vero che, mentre l’opera creativa è compiuta da

individui, i risultati sono la conseguenza di secoli di pensiero e di sviluppo.

Non c’è dubbio che, invadendo le arti, la filosofia, la religione e le scienze

sociali, l'autore si è avventurato in campi in cui anche angeli – matematici,

ovviamente – avrebbero paura a posare il piede. Il rischio di errori – ci auguriamo

di lieve entità – dev’essere affrontato se vogliamo far vedere che la matematica

non è uno strumento arido, meccanico, bensì il corpo di un pensiero vivo,

inseparabilmente connesso con altri settori della nostra cultura, da essi dipendente

e per essi prezioso.

Forse quest’esposizione dei risultati ottenuti dalla ragione umana può servire in

qualche misura a rafforzare quegli ideali della nostra civiltà che corrono oggi il

pericolo di andar distrutti. I problemi più scottanti del momento sono forse quelli

politici ed economici. Eppure non è certo in tali campi che noi troviamo le prove

della capacità dell’uomo di padroneggiare le difficoltà che gli si presentano e di

costruire un mondo desiderabile. Una fiducia nella capacità dell’uomo a risolvere

i suoi problemi e indicazioni del metodo che egli ha usato finora con più successo

possono essere ottenute da uno studio della sua impresa intellettuale più grande e

più duratura: la matematica.

Mi è grato ricordare gli aiuti e i favori ricevuti da più parti. Desidero

ringraziare, per molte utili discussioni, numerosi colleghi del Washington Square

College of Arts and Science della New York University; il professor Chester L.

Riess, del Brooklyn College of Pharmacy, per le critiche generali e per

suggerimenti particolari concernenti la letteratura illuministica, e il signor John

Begg della Oxford University Press per consigli nella preparazione delle figure e

delle tavole. Il merito delle eccellenti illustrazioni va alla signora Beulah Marx.

Mia moglie Helen mi ha dato un aiuto inestimabile con letture critiche e con la

preparazione del manoscritto. Sono particolarmente grato ai signori Carroll G.

Bowen e John A. S. Cushman per aver sostenuto l’idea di questo libro e per aver

guidato il manoscritto attraverso l’iter della pubblicazione a Oxford.

Ho un debito di riconoscenza anche nei confronti dei seguenti editori e privati

che hanno concesso l’uso dei materiali citati qui sotto. La citazione da Alfred

North Whitehead, nell’ultimo capitolo, è tratta da Science and the Modern World,

The Macmillan Co., New York 1925. Il permesso di usare i grafici di suoni reali,

di Dayton C. Miller, è stato concesso dal Case Institute of Technology of

Cleveland, Ohio. La citazione da Edna St. Vincent Millay è dal “Sonnet xlv” in

Collected Poems, a cura di Norma Millay, editi da Harper and Bros., New York,

copyright 1956 di Norma Millay Ellis. Le citazioni da Bertrand Russell sono da

Mysticism and Logic, opera edita da W. W. Norton and Co., Inc., New York, e

George Allen and Unwin, Ltd., London. La citazione da Theodor Merz è tratta dal

volume II di A History af European Thought in the Nineteenth Century, edito da

William Blackwood and Sons, Ltd., Edinburgh and London.

Morris Kline

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Quando applicai per la prima volta la mente alla matematica, lessi la maggior

parte di ciò che ci viene offerto comunemente dagli autori matematici, e dedicai

un’attenzione particolare all’aritmetica e alla geometria perché si diceva che

fossero le discipline più semplici e aprissero per così dire la via a tutto il resto. In

nessuna delle due mi imbattei però in autori che mi soddisfacessero

completamente. Di fatto nelle loro opere imparavo molte proposizioni sui numeri

che mi venivano poi confermate dal calcolo. Quanto alle figure, in un certo senso

esibivano ai miei occhi un gran numero di verità e traevano conclusioni da certi

ragionamenti. Mi sembrava però che non rendessero sufficientemente chiaro alla

mente stessa perché queste cose siano così e in che modo essi le avessero

scoperte. Di conseguenza non mi sorprendeva che molte persone, anche

intelligenti e dotte, dopo aver gettato uno sguardo su queste scienze, le avessero o

abbandonate come vane e infantili o, considerandole molto difficili e complesse,

si scoraggiassero fin dall’inizio del loro studio... Ma quando, successivamente,

riflettei su come potesse essere che i più antichi cultori della filosofia nelle

epoche passate si rifiutassero di ammettere allo studio della sapienza chi non

fosse versato nelle matematiche..., fui confermato nel mio sospetto che essi

avessero conoscenza di una specie di matematica assai diversa da quella che ha

corso nel nostro tempo.

René Descartes

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I. Introduzione. Concezioni vere e false

Non varchi il vostro piede profano dell’albergo

delle Muse la soglia, voi figli della Guerra

e del Commercio; e voi, della Chiesa e del Dritto

demoni impuri, queste pagine non toccate.

Degradati, corrotti, abietti e limitati,

niuna definizione sfiora la sciocca mente

vostra, niun postulato ha per voi senso alcuno.

Nessun ardente assioma l’ottusa mente infiamma,

non toccano per voi le tangenti, né gli angoli

delle linee l’incontro genera, né i cerchi

nel piacere si uniscono dell’osculazione.

JOHN HOOKHMAN FRERE, GEORGE CANNING e GEORGE

ELLIS

L’affermazione che la matematica è stata una forza importante nel plasmare la

cultura moderna, oltre che un elemento vitale della stessa, appare a molte persone

incredibile o, quanto meno, fortemente esagerata. Questa incredulità è del tutto

comprensibile ed è il risultato di una concezione molto comune ma erronea sulla

vera natura della matematica.

Influenzata da ciò che ha imparato a scuola, la persona media considera la

matematica come un insieme di tecniche il cui uso è riservato allo scienziato,

all’ingegnere e forse al finanziere. La reazione a insegnamenti del genere si

esprime in un’avversione per la disciplina e nella decisione di ignorarla. Qualora

venga invitata a motivare questa decisione, una persona istruita è in grado di

citare autorità a sostegno. S. Agostino diceva: “Il buon cristiano dovrebbe

guardarsi dai matematici e da tutti coloro che fanno vane profezie. C’è il pericolo

che i matematici abbiano stretto un patto col diavolo per oscurare lo spirito e per

relegare l’uomo all’inferno.” E i giuristi romani disponevano, “a proposito di

malfattori, matematici e simili,” che “È proibito imparare l’arte della geometria e

prender parte a esercizi pubblici, un’arte altrettanto condannabile della

matematica.” Persino un grande filosofo moderno come Schopenhauer descrisse

l’aritmetica come la più bassa attività dello spirito, com’è dimostrato dal fatto che

può essere esercitata da una macchina.

Nonostante giudizi così autorevoli e nonostante l’opinione comune, per quanto

giustificata possa essere in relazione all’insegnamento che della matematica si fa

nelle scuole, la decisione del profano di ignorare la matematica è sbagliata.

L’argomento non si esaurisce in una serie di tecniche. Queste sono, di fatto,

l’aspetto meno importante e sono altrettanto poco adeguate a rappresentare la

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matematica quanto un miscuglio di colori è adeguato a rappresentare la pittura. Le

tecniche sono matematica spogliata di motivazione, ragionamento, bellezza e

significato. Se acquisteremo una certa comprensione della natura della

matematica, ci renderemo conto che l’asserzione della sua importanza nella vita e

nel pensiero moderni è almeno plausibile.

Consideriamo perciò a questo punto, sia pure in breve, la visione che si ha oggi

dell’argomento. Innanzitutto, la matematica è un metodo di ricerca noto come

pensiero postulazionale. Il metodo consiste nel formulare con la massima cura

definizioni dei concetti che devono essere discussi e nello stabilire in modo

esplicito gli assunti che dovranno costituire la base del ragionamento. Da queste

definizioni e assunti vengono dedotte conclusioni attraverso l’applicazione della

logica più rigorosa che l’uomo sia capace di usare. Questa caratterizzazione della

matematica fu espressa in modo un po’ diverso da un famoso autore seicentesco

di opere matematiche e scientifiche: “I matematici sono come gli amanti...

Concedete a un matematico il minimo principio, ed egli ne trarrà una conseguenza

che non potrete non concedergli, e da questa conseguenza un’altra.”

Descrivere la matematica esclusivamente come un metodo d’indagine è come

descrivere il Cenacolo di Leonardo come un’organizzazione di pittura su muro.

La matematica è dunque un campo di sforzi creativi. Nel divinare che cosa possa

essere dimostrato, così come nel costruire metodi di dimostrazione, i matematici

usano un alto ordine di intuizione e di immaginazione. Keplero e Newton, ad

esempio, erano dotati di prodigiose facoltà d’immaginazione, le quali

consentivano loro non soltanto di sottrarsi a una tradizione antichissima e rigida

ma anche di creare concetti nuovi e rivoluzionari. La misura in cui le facoltà

creative dell'uomo sono esercitate nella matematica potrebbe essere determinata

solo mediante un esame delle creazioni stesse. Poiché alcuni esami del genere

saranno dati nel corso della seguente esposizione, qui sarà sufficiente rilevare che

oggi il campo della matematica comprende un’ottantina di settori molto estesi.

Se la matematica è veramente un’attività creativa, quali motivi inducono

l’uomo a perseguirla? Il motivo più evidente, anche se non necessariamente il più

importante, all’origine delle investigazioni matematiche è stato il desiderio di

rispondere a domande poste direttamente da bisogni sociali. Transazioni

commerciali e finanziarie, la navigazione, il computo del calendario, la

costruzione di ponti, di dighe, di chiese e palazzi, la progettazione di fortificazioni

e di armi belliche e numerose altre occupazioni umane implicano problemi che

possono essere risolti nel modo migliore dalla matematica. Particolarmente nel

nostro tempo dominato dall’ingegneria è vero che la matematica è uno strumento

universale.

Un altro uso fondamentale della matematica, che ha acquistato un rilievo

eccezionale in tempi moderni, è stato quello di fornire un’organizzazione

razionale di fenomeni naturali. I concetti, metodi e conclusioni della matematica

sono il sostrato delle scienze fisiche. Il successo di questi settori è dipeso dalla

misura in cui essi hanno collaborato con la matematica. La matematica ha

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restituito la vita alle ossa aride di fatti sconnessi e, agendo come tessuto

connettivo, ha legato serie di osservazioni staccate in corpi di scienza.

La curiosità intellettuale e un interesse per il pensiero puro hanno dato a molti

matematici lo spunto iniziale nella ricerca di proprietà di numeri e di figure

geometriche e hanno prodotto alcuni fra i contributi più originali. Lo studio della

probabilità, oggi così importante, cominciò da un interrogativo postosi in un gioco

di carte, ossia la giusta divisione della posta in un gioco d'azzardo interrotto prima

della conclusione. Un altro contributo decisivo, non connesso in alcun modo con

esigenze sociali o con la scienza, fu dato dai greci del periodo classico, i quali

trasformarono la matematica in un sistema di pensiero astratto, deduttivo e

assiomatico. Di fatto, alcuni fra i massimi contributi al campo della matematica –

la geometria proiettiva, la teoria dei numeri, la teoria delle quantità infinite e la

geometria non euclidea, per citare solo quelle di cui avremo occasione di

occuparci – costituiscono risposte a sfide puramente intellettuali.

Oltre a tutti gli altri impulsi alla creazione, c’è la ricerca della bellezza.

Bertrand Russell, il maestro del pensiero matematico astratto, si esprime in

proposito senza riserve:

La matematica, considerata nel modo giusto, possiede... una bellezza suprema: una bellezza

fredda e austera, come quella della scultura, priva di richiamo per le parti della nostra natura più

debole, priva degli sgargianti ornamenti della pittura o della musica, eppure di una purezza

sublime, e capace di una severa perfezione quale soltanto l’arte più grande può rivelare. Il puro

spirito di gioia, l’esaltazione, il senso di qualcosa di più che umano che è la pietra di paragone

della massima eccellenza, si trova nella matematica non meno che nella poesia.

Oltre alla bellezza della struttura compiuta, l’indispensabile uso di

immaginazione e intuizione nella creazione di dimostrazioni e conclusioni

garantisce al creatore un’alta soddisfazione estetica. Se intuizione e

immaginazione, simmetria e proporzione, assenza di superfluità ed esatto

adattamento dei mezzi ai fini sono inclusi nella bellezza e sono tipici delle opere

d’arte, allora la matematica è un’arte che ha una bellezza propria.

Nonostante le chiare indicazioni fornite dalla storia a dimostrazione del fatto

che tutti i fattori citati sopra hanno motivato la creazione matematica, ci sono state

in proposito molte dichiarazioni erronee. Alcuni – spesso per giustificare il

proprio disinteresse per l’argomento – accusano i matematici di indulgere in

speculazioni inutili o di essere sciocchi e vani sognatori. A queste accuse si può

dare facilmente una risposta schiacciante. Anche studi puramente astratti, e non

solo quelli motivati da esigenze scientifiche e tecniche, si sono dimostrati di

grandissima utilità. La scoperta delle sezioni coniche (parabole, ellissi e iperboli),

che per duemila anni erano state considerate nulla di più dell’“inutile divertimento

di un cervello speculativo,” hanno reso possibile in secoli recenti la moderna

astronomia, la teoria del moto dei proietti e la legge della gravitazione universale.

È d’altra parte un errore asserire, come fanno un po’ troppo frettolosamente

alcuni autori attenti soprattutto agli aspetti sociali, che i matematici siano

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stimolati per intero o anche in larga misura da considerazioni pratiche, dal

desiderio di costruire ponti, radio e aerei. La matematica ha reso possibili tutte

queste cose, ma raramente i grandi matematici pensano ad esse mentre

perseguono le proprie idee. Alcuni erano del tutto indifferenti alle applicazioni

pratiche, forse per il fatto che queste vennero solo alcuni secoli dopo. Le

meditazioni matematiche idealistiche di Pitagora e di Platone hanno condotto a

contributi molto più significativi dell’atto intenzionale dei commercianti autori

dell’introduzione dei simboli + e -, nella quale un autore vide “una svolta nella

storia della matematica... determinata dalla comune eredità sociale...” È

indubbiamente vero che quasi tutti i grandi uomini si occupano dei problemi tipici

del loro tempo e che le convinzioni dominanti condizionano e limitano il loro

pensiero. Se Newton fosse nato due secoli prima sarebbe stato con ogni

probabilità un grande teologo. I grandi pensatori si conformano alle mode

intellettuali del loro tempo così come le donne alle mode negli abiti. Anche quei

geni creativi per i quali la matematica era semplicemente un’occupazione

secondaria perseguivano i problemi che erano al centro dell’interesse dei

matematici e degli scienziati di professione. Neppure questi “dilettanti” e

matematici si occuparono primariamente dell’utilità del loro lavoro.

Interessi pratici, scientifici, estetici e filosofici diedero tutti un contributo a

plasmare la matematica. Sarebbe impossibile separare i contributi e le influenze di

ciascuna di queste forze e darne una valutazione relativa, e tanto più sostenere

pretese concernenti l’importanza relativa di ciascuna. Da un lato il pensiero puro,

la risposta a interessi estetici e filosofici, ha improntato in modo decisivo il

carattere della matematica fornendo contributi insuperati, come la geometria

euclidea e la moderna geometria non euclidea. Dall’altro i matematici

raggiungono i loro vertici di pensiero puro non innalzandosi da sé con le proprie

forze bensì in virtù delle forze sociali. Se queste forze non potessero revitalizzare

i matematici, essi si esaurirebbero ben presto e potrebbero sostenere i loro studi in

un isolamento forse anche splendido per breve tempo ma destinato ben presto a

un collasso intellettuale.

Un altro carattere importante della matematica è il suo linguaggio simbolico.

Come la musica usa il simbolismo per la rappresentazione e la comunicazione di

suoni, così la matematica esprime simbolicamente relazioni quantitative e forme

spaziali. A differenza del linguaggio usuale del discorso, che è il prodotto della

consuetudine, oltre che di circostanze sociali e politiche, il linguaggio della

matematica è progettato in modo accurato, intenzionale e spesso ingegnoso.

Grazie alla sua concisione, esso consente alla mente di manipolare idee che,

espresse in linguaggio comune, sarebbero poco maneggevoli. Questa concisione

rende possibile l’efficacia del pensiero. Il bisogno di Jerome K. Jerome di

ricorrere al simbolismo algebrico, anche se a fini non matematici, rivela in modo

abbastanza chiaro l’utilità e la chiarezza impliciti in questo strumento:

Quando un giovane del XX secolo si innamorò, non fece tre passi indietro, non guardò

l’amata fissamente negli occhi e non le disse che era troppo bella per essere vera. Disse che

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sarebbe uscito e avrebbe considerato la cosa. E se fuori avesse incontrato un uomo e gli avesse

spaccato la testa – la testa dell'altro uomo, voglio dire – allora ciò avrebbe dimostrato che la sua

ragazza – la ragazza del primo tizio – era una ragazza graziosa. Se invece l’altro tizio avesse

spaccato la sua testa – non la sua propria, intendetemi, ma quella dell’altro tizio, l’altro tizio

rispetto al secondo tizio, perché naturalmente l’altro tizio sarebbe stato 1’altro tizio solo rispetto

a lui, non il primo tizio –, se dunque avesse spaccato la sua testa, allora la sua ragazza – non la

ragazza dell’altro tizio, bensì del primo... Insomma, se A avesse spaccato la testa di B, allora la

ragazza di A sarebbe stata graziosa; ma se B avesse spaccato la testa di A, allora la ragazza di A

non sarebbe stata graziosa, bensì lo sarebbe stata la ragazza di B.

Un ingegnoso simbolismo, mentre consente di manipolare con facilità idee

complicate, rende anche più difficile per il profano seguire o capire una

discussione matematica.

Il simbolismo usato nel linguaggio matematico è essenziale per distinguere

significati spesso confusi nel linguaggio comune. Ad esempio la parola è viene

usata in molti significati diversi. Nella frase “egli è qui" indica una posizione

fisica. Nella frase “un angelo è bianco” indica una proprietà degli angeli che non

ha nulla a che fare con una posizione o con 1’esistenza fisica. Nella frase “è corso

via” il vocabolo “è” serve a specificare il tempo del verbo. Nella frase “due e due

sono quattro” la forma del verbo essere serve a denotare l’uguaglianza numerica.

Nella frase “gli uomini sono mammiferi pensanti con due gambe”, la forma di “è”

implicata nella frase asserisce l’identità di due gruppi. Ai fini del discorso

ordinario è naturalmente superfluo introdurre parole diverse per tutti questi

significati di “è”. Queste ambiguità non provocano nessun equivoco. Le richieste

della matematica, cosi come quelle delle scienze e della filosofia, costringono chi

lavora in questi settori a usare una maggiore precisione.

Il linguaggio matematico è preciso, così preciso da disorientare spesso le

persone non abituate alla sua forma. Se un matematico dovesse dire: “Oggi non

ho visto una persona”, con questa frase potrebbe intendere che non ne ha visto

nessuna o che ne ha visto molte. Il profano intenderebbe semplicemente che non

ne ha visto nessuna. Questa precisione della matematica appare come pedanteria o

come ampollosità a chi non si renda conto del fatto che essa è invece essenziale a

un pensiero esatto; pensiero esatto e linguaggio esatto procedono infatti di pari

passo. Lo stile matematico tende alla brevità e alla perfezione formale. Se talvolta

la sua concisione è tale da sacrificare la chiarezza, la precisione va alla ricerca di

garanzie. Supponiamo di voler esprimere in termini generali il fatto illustrato

nella figura 1. Possiamo esser tentati di dire: “Abbiamo un triangolo rettangolo.

Se costruiamo due quadrati aventi ciascuno come lato un cateto del triangolo e se

costruiamo un quadrato avente come lato l’ipotenusa del triangolo, allora l’area

del terzo quadrato è uguale alla somma delle aree dei primi due.” Nessun

matematico accetterebbe però di esprimersi in quel modo. Egli preferirebbe una

forma come la seguente: “La somma dei quadrati costruiti sui cateti di un

triangolo rettangolo è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa.”

Quest’economia di parole favorisce la speditezza della presentazione e la scrittura

matematica è notevole per il fatto di racchiudere molto in poche parole. Eppure a

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volte qualsiasi lettore di scritti matematici vede la sua pazienza messa a dura

prova da quella che egli chiamerebbe avarizia di inchiostro e carta.

Fig. 1. Il teorema di Pitagora.

La matematica è più di un metodo, di un’arte e di un linguaggio. Essa è un

corpo di conoscenza avente un contenuto che serve allo studioso di scienze fisiche

e sociali, al filosofo, al logico e all’artista; un contenuto che influenza le dottrine

di statisti e teologi; che soddisfa la curiosità dell’uomo che scruta il cielo e di

quello che medita sulla dolcezza dei suoni musicali; un contenuto che ha plasmato

innegabilmente, anche se a volte in modo non avvertibile, il corso della storia

moderna.

La matematica è un corpo di conoscenza. Essa non contiene però verità. La

convenzione contraria, che la matematica sia cioè un insieme inattaccabile di

verità, che essa sia una sorta di rivelazione finale di Dio, così come le persone

devote considerano la Bibbia, è un errore popolare che è estremamente difficile

sradicare. Fino al 1850 anche molti matematici davano il loro assenso a questo

errore. Fortunatamente alcuni eventi dell’Ottocento, che ci proponiamo di

esaminare più avanti, dimostrarono ai matematici l’errore insito in questo

atteggiamento. Non soltanto nella matematica non c’è nulla di vero, ma taluni

teoremi accettati in alcuni settori contraddicono altri teoremi in altri settori. Ad

esempio, alcuni teoremi stabiliti in geometrie create nel corso dell’Ottocento

contraddicono quelli dimostrati da Euclide nel suo sviluppo della geometria.

Benché priva di verità, la matematica ha conferito all’uomo uno straordinario

potere sulla natura. La risoluzione di questo estremo paradosso nel pensiero

umano sarà uno fra i temi principali trattati in questo libro.

Dovendo distinguere la conoscenza matematica dalla verità, il XX secolo deve

distinguere anche fra matematica e scienza, poiché la scienza ricerca verità sul

mondo fisico. La matematica è stata di fatto un faro per le scienze e le ha aiutate

continuamente a raggiungere la posizione che esse occupano nella nostra presente

civiltà. È esatto asserire perfino che la scienza moderna trionfa in virtù della

matematica. Eppure vedremo che i due campi sono distinti.

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Nel suo aspetto più generale la matematica è uno spirito, lo spirito della

razionalità. È questo lo spirito che sfida, stimola, rinvigorisce e guida le menti

umane al pieno esercizio di se stesse. È questo lo spirito che cerca di influenzare

in modo decisivo la vita fisica, morale e sociale dell’uomo, che cerca di dare una

risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, che si sforza di comprendere e

controllare la natura e che si esercita nell’esplorazione e nel consolidamento delle

più profonde e somme implicazioni di conoscenze già ottenute. In questo libro ci

occuperemo in gran parte del modo di operare di questo spirito nel corso della

storia.

Un altro carattere della matematica è di estrema pertinenza con la nostra

esposizione. La matematica è una pianta viva, che ha avuto periodi di grande

fioritura e di appassimento in coincidenza con l’ascesa e la caduta di civiltà.

Creata in un periodo della preistoria, lottò per l’esistenza per lunghi secoli nella

preistoria e nella storia documentata. Riuscì finalmente a imporsi nel terreno, che

le era molto congeniale, della Grecia ed ebbe un periodo di grande rigoglio. In

questo periodo produsse un fiore perfetto, la geometria euclidea. Cominciarono

lentamente a dischiudersi anche i bocci di altri fiori e guardando con molta

attenzione si potrebbero discernere le linee principali della trigonometria e

dell’algebra; ma questi fiori avvizzirono col declino della civiltà greca e la pianta

rimase allo stato quiescente per un migliaio di anni.

Tale era lo stato della matematica quando la pianta fu trasportata nel continente

europeo e venne a trovarsi un’altra volta in un suolo fertile. Nel Seicento essa

riacquistò il vigore che aveva posseduto nel periodo aureo della Grecia e si

preparo a irraggiare una luce di uno splendore senza precedenti. Se possiamo

descrivere la matematica nota prima del Seicento come elementare, possiamo

anche affermare che la matematica elementare è infinitesimale se confrontata con

ciò che è stato creato da allora. Di fatto, un individuo che possedesse le

conoscenze che Newton aveva nel suo periodo migliore non sarebbe oggi

considerato un matematico poiché, contrariamente a quanto di solito si ritiene,

oggi si deve dire che la matematica comincia, non finisce, col calcolo

infinitesimale. Nel nostro secolo la materia ha assunto proporzioni così vaste che

nessun matematico può sostenere di padroneggiarla per intero.

Questo abbozzo della vita della matematica, per quanto breve, può nondimeno

indicare che la sua vitalità è dipesa in grande misura dalla vita culturale della

civiltà che le ha dato alimento. Di fatto la matematica è stata una parte tanto

grande di civiltà e di culture che molti storici vedono riflessi nella matematica di

un periodo i caratteri delle altre opere principali dell'epoca. Consideriamo, ad

esempio, il periodo classico della cultura greca, che durò pressappoco dal 600 a.C.

al 300 a.C. Nel sottolineare il ragionamento rigoroso mediante il quale stabilirono

le loro conclusioni, i matematici greci si preoccuparono non di garantire la

possibilità di applicazione a problemi pratici bensì di insegnare agli uomini a

pensare in termini astratti e di prepararli a contemplare l’ideale e il bello. Non

dovrebbe esser dunque una sorpresa la constatazione che quest’epoca è stata

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insuperata nella bellezza della sua letteratura, nella qualità estremamente

razionale della sua filosofia e nell’idealità della sua scultura e architettura.

È vero anche che l’assenza di creazioni matematiche è indicativa del genere di

cultura di una civiltà. Lo dimostra il caso dei romani. Nella storia della

matematica i romani appaiono solo una volta e soltanto con una funzione negativa

per il suo progresso. Archimede, il più grande matematico e scienziato greco, fu

ucciso nel 211 a.C. da soldati romani apparsi improvvisamente mentre egli stava

studiando una figura geometrica tracciata sulla sabbia. Per Alfred North

Whitehead,

la morte di Archimede per opera di un soldato romano è simbolica di un mutamento storico

di prima grandezza; i greci, innamorati della teoria e della scienza astratta, furono soppiantati

alla guida del mondo europeo dai pratici romani. Lord Beaconsfield, in un suo romanzo, ha

definito un uomo pratico un uomo che pratica gli errori dei suoi antenati. I romani erano un

grande popolo ma erano afflitti dalla sterilità che si accompagna alla pura pratica. Essi non

fecero progredire le conoscenze dei loro avi e tutti i loro progressi furono limitati ai particolari

tecnici di secondo piano dell’ingegneria. Essi non erano abbastanza sognatori da pervenire a

nuovi punti di vista che potessero fornire un controllo più fondamentale delle forze della natura.

Nessun romano perse la vita per essere stato assorto nella contemplazione di una figura

matematica.

Di fatto Cicerone si vantava che i suoi concittadini, grazie agli dèi, non fossero

sognatori, come i greci, ma applicassero lo studio della matematica all’utile.

I pratici romani, che dedicarono le loro energie al governo e alla conquista, e

che sono forse simboleggiati nel modo migliore dagli archi solidi, se non

aggraziati, sotto cui le truppe vittoriose celebravano il loro ritorno in patria,

produssero ben poco di veramente creativo e originale. In breve, la cultura romana

fu una cultura derivata; la maggior parte dei contributi forniti durante il periodo

della supremazia romana furono opera di greci dell'Asia Minore, soggetti al

dominio politico di Roma.

Questi esempi ci dimostrano che il carattere generale di un’età è intimamente

collegato alla sua attività matematica. Questa relazione è valida specialmente al

nostro tempo. Senza voler sminuire i meriti dei nostri storici, economisti, filosofi,

scrittori, poeti, pittori e uomini politici, è possibile dire che altre civiltà hanno

prodotto nei vari campi uomini di ugual livello per capacità e risultati ottenuti.

D’altra parte, benché Euclide e Archimede siano stati indubbiamente pensatori di

livello eccezionale e benché i nostri matematici siano stati in grado di andare oltre

solo perché, come scrisse Newton, sono issati sulle spalle di tali giganti, soltanto

nella nostra epoca la matematica ha raggiunto la sua ampiezza e la sua

straordinaria elasticità di applicazione. L’attuale civiltà occidentale si distingue di

conseguenza da ogni altra civiltà nota alla storia per la misura in cui la

matematica ha influito sulla vita e sul pensiero contemporanei. Forse nel corso di

questo libro riusciremo a vedere quanto la nostra età debba alla matematica.

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II. Matematica ed empiria

Non si deve immaginare che la matematica sia difficile e

confusa e ripugnante per il buon senso. Essa è

semplicemente l’etereizzazione del buon senso.

LORD KELVIN

La culla dell’umanità, come pure della cultura occidentale, fu il Vicino Oriente.

Mentre le tribù più irrequiete abbandonarono la loro patria per percorrere le

pianure dell`Europa, popolazioni affini rimasero indietro fondando civiltà e

culture. Molti secoli dopo i sapienti dell’Oriente si sarebbero assunti il compito di

educare i loro antichi parenti ancora in uno stato di ignoranza. Delle conoscenze

che i sapienti impartirono agli uomini occidentali, gli elementi della matematica

furono una parte integrante. Per ricostruire l’influenza della matematica sulla

cultura moderna, dobbiamo perciò volgerci innanzitutto a considerare le principali

civiltà del Vicino Oriente.

Dobbiamo ricordare per inciso che taluni semplici progressi nel campo della

matematica furono compiuti già presso civiltà primitive. Tali progressi furono

senza dubbio suggeriti da bisogni puramente pratici. Il baratto di cose di prima

necessità, che ha luogo anche nei tipi di società umana più primitivi, richiede già

qualche tipo di calcolo. Poiché il calcolo è facilitato dall’uso delle dita delle mani

e dei piedi, non sorprende che l’uomo primitivo, come i bambini, usasse le dita

per spuntare le cose contate. Tracce di questo antico modo di pensare si trovano

ancora in lingue moderne; in inglese il vocabolo digit (latino digitus = dito)

significa non solo cifra, numero, ma anche dito. L’uso delle dita spiega

indubbiamente l’adozione del nostro sistema di calcolo in decine, centinaia

(decine di decine), migliaia (decine di centinaia) e così via.

Anche le civiltà primitive svilupparono simboli speciali per i numeri. Queste

civiltà dimostrarono così di conoscere il fatto che tre pecore, tre mele e tre frecce

hanno molto in comune, ossia la quantità tre. Questa valutazione del numero

come un’idea astratta, astratta nel senso che non ha necessariamente una relazione

con oggetti fisici particolari, segnò uno fra i progressi maggiori nella storia del

pensiero. Ciascuno di noi, imparando la matematica, passa attraverso un tale

processo intellettuale consistente nel separare i numeri da oggetti fisici.

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A civiltà primitive risale anche l’invenzione delle quattro operazioni

aritmetiche elementari, ossia somma, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Che

la conquista di queste operazioni non sia stata una cosa tanto semplice può essere

appreso anche da uno studio di popoli arretrati contemporanei. Quando i pastori di

molte tribù primitive vendono vari animali non chiedono una somma complessiva

per gli animali venduti ma esigono il pagamento capo per capo. La possibilità

alternativa di moltiplicare il numero di capi per il prezzo chiesto per il singolo

capo li disorienta e lascia loro il sospetto di poter essere imbrogliati.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che la geometria, come il sistema numerico, sia

stata promossa in civiltà primitive per soddisfare esigenze umane. I concetti

geometrici fondamentali derivarono dall’osservazione di figure formate da oggetti

fisici. È probabile che il concetto di angolo, ad esempio, sia derivato in origine

dagli angoli formati dai gomiti e dalle ginocchia. In molte lingue, incluso il

tedesco moderno, il vocabolo per indicare il lato di un angolo (Schenkel) significa

propriamente gamba.

Le principali civiltà del Vicino Oriente da cui derivarono la nostra cultura e la

nostra matematica furono la civiltà egizia e quella babilonese. Nei documenti più-

antichi di queste civiltà troviamo sistemi numerici ben sviluppati, un po’

d’algebra e una geometria semplicissima. Per i numeri da 1 a 9 gli egizi usavano

semplici lineette, come |, ||, |||, ecc. Per 10 essi introdussero il simbolo speciale ,

e c'erano simboli speciali anche per 100, 1000 e altri grandi numeri. Per numeri

intermedi essi combinavano questi simboli in un modo molto naturale. Il 21

veniva scritto ad esempio |.

Maggiore attenzione merita il metodo babilonese per scrivere le quantità. Per 1

i babilonesi scrivevano ; il 2 era rappresentato da ; il 4 da e così via fino

a nove. Il simbolo veniva usato per il 10. Il 33 veniva scritto quindi .

Particolarmente significativo è il numero . Qui il primo non significa 1

bensì 60 e l’intero gruppo rappresentato 60 + 10 + 10 + 1 ovvero 81. Così uno

stesso simbolo rappresentava valori diversi a seconda della sua posizione nel

numero. Il principio qui implicato è quello del valore della posizione ed è

precisamente quello in uso oggi. Nel numero 569, il 9 rappresenta 9 unità mentre

il 6 significa 6 volte 10 e il 5 significa 5 volte 10. In altri termini, la posizione di

una cifra nel numero determina il valore che la cifra rappresenta e questo valore è

un multiplo di 10, del quadrato di 10 o del cubo di 10 e così via a seconda della

posizione della cifra. Il numero dieci è chiamato la base del nostro sistema.

Poiché i babilonesi introdussero il valore di posizione in connessione con la

base sessanta, i greci e gli europei usarono questo sistema in tutti i calcoli

geometrici e astronomici fino al Cinquecento; esso sopravvive ancor oggi nella

divisione degli angoli e delle ore in 60 minuti, ciascuno dei quali si suddivide a

sua volta in 60 secondi. La base dieci fu sviluppata dagli indù e introdotta in

Europa nel Medioevo.

Il principio del valore di posizione è molto importante e merita perciò un po’ di

esame. Adottato in connessione con la base dieci, ha bisogno di soli dieci simboli

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per rappresentare qualsiasi quantità, non importa quanto grande. Questa

rappresentazione è sistematica e concisa rispetto ad altri metodi, ad esempio

quello egizio. Ancor più importante è il fatto che il principio permise lo sviluppo

dei nostri moderni efficaci metodi di calcolo.

Dovremmo osservare anche che non è necessario usare il dieci come base. In

linea di massima qualsiasi numero intero potrebbe assolvere il compito altrettanto

bene. Supponiamo, ad esempio, che una persona usi il numero cinque. Essa

avrebbe bisogno allora di cinque simboli, ossia 1, 2, 3, 4, e 0. Per indicare la

quantità cinque tale persona dovrebbe scrivere 10; in questo caso l’1

significherebbe 1 volta 5, esattamente come l’1 nel 10 che ci è familiare significa

1 volta 10. Per esprimere il sei in base cinque si deve scrivere 11. Sette sarebbe

12. Undici sarebbe 21. Venticinque sarebbe espresso da 100 ovvero 1 volta 52 + 0

volte 5 + 0 unità. Per usare sistematicamente la base cinque, tale individuo

dovrebbe naturalmente avere imparato le corrispondenti tavole di addizione e di

moltiplicazione. Cosi 3 + 4 darebbero 12; 13 + 14 (in base cinque, equivalenti

cioè rispettivamente a 8 e 9) darebbero 32 e così via. La questione di quale sia la

base migliore è stata seriamente considerata e ci sono buone ragioni a favore del

dodici. L’abitudine decide però a favore del dieci, almeno finché si tratta di

numeri comuni.

Per usare il principio del valore di posizione col massimo vantaggio si richiede

uno zero perché dev’esserci un modo di distinguere ad esempio 503 da 53. I

babilonesi usavano un simbolo speciale per separare il 5 dal 3 nel primo caso ma

non riconobbero che tale simbolo poteva essere trattato anche come un numero;

non si resero conto, in altri termini, che lo zero indica una quantità e può essere

sommato, sottratto e usato in generale come altri numeri. Il numero zero dev’esser

distinto accuratamente dal concetto di niente. Il voto di uno studente in un corso

di matematica è niente se egli non ha mai frequentato quel corso. Se invece egli

ha frequentato il corso e il suo lavoro è stato giudicato di nessun valore, allora il

suo voto sarebbe zero.

Per le civiltà più antiche il calcolo con frazioni non era una cosa tanto semplice.

I babilonesi erano privi di una notazione adeguata. Così significa 30/60

oltre che 30; il valore corretto poteva essere inteso dal contesto. Gli egizi

considerarono necessario ridurre una frazione a una somma di frazioni in ciascuna

delle quali il numeratore era l’unità. Essi avrebbero espresso ad esempio la

frazione 5/8 nella forma 1/2 + 1/8 prima di fare calcoli con essa. Benché i metodi

moderni dell’uso di frazioni siano molto più efficienti, mettono ancora in

imbarazzo molti adulti.

Le antiche civiltà della Babilonia e dell'Egitto portarono la loro aritmetica oltre

l’uso di numeri interi e di frazioni. Sappiamo che babilonesi ed egizi erano in

grado di risolvere problemi implicanti quantità incognite, anche se ricorrendo a

metodi più rozzi e meno generali di quelli che impariamo nelle nostre scuole

secondarie. La Babilonia è considerata, di fatto, la fonte di una parte delle

conoscenze algebriche di Euclide.

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Mentre i babilonesi svilupparono un’aritmetica e un’algebra superiori, si ritiene

comunemente che gli egizi li abbiano superati a loro volta nel campo della

geometria. Esistono molte speculazioni sui motivi di ciò. Una ragione addotta

dagli storici è che gli egizi non svilupparono mai metodi numerici convenienti,

particolarmente nel campo del calcolo con frazioni, e di conseguenza non

poterono progredire nel campo dell’algebra, insistendo perciò particolarmente

sulla geometria. Secondo un’altra concezione la geometria sarebbe un “dono del

Nilo”. Erodoto riferisce che nel XIV secolo a.C. il re Sesostri aveva diviso il

paese fra tutti gli egizi in modo che ciascuno di essi ricevesse un rettangolo di

uguali dimensioni e fosse tassato conformemente. Se un uomo avesse perduto

parte del suo terreno in conseguenza dell’inondazione annua del Nilo, doveva

riferirne al faraone, il quale gli avrebbe inviato un sovrintendente col compito di

misurare la perdita subita e concedere una riduzione proporzionata della tassa.

Così sarebbe sorta e fiorita in Egitto la scienza della geometria: da ge, che

significa terra, e metron, che significa misura. La ragione addotta da Erodoto per

spiegare l’importanza attribuita in Egitto alla geometria può essere corretta, ma

non tiene conto del fatto che nel XIV secolo a.C. la geometria aveva già in Egitto

millenni di vita.

La geometria egizia e babilonese era di tipo pratico-empirico. Le linee rette non

erano altro che tratti di corda tesi; la parola greca “ipotenusa”, di fatto, significa

“tesa contro”, presumibilmente contro i due cateti. Un piano era semplicemente la

superficie di un pezzo di terra piatta. Le formule usate da babilonesi ed egizi per il

volume di granai e per le aree di terreni erano state ottenute con metodi empirici,

provando e riprovando. Di conseguenza molte di tali formule erano decisamente

erronee. Ad esempio, una formula egizia per l’area di un cerchio era 3,16 volte il

quadrato del raggio. Questo risultato è erroneo, anche se abbastanza preciso per

gli usi che ne facevano gli egizi.

Gli egizi e i babilonesi fecero numerose applicazioni pratiche della loro

matematica. I loro papiri e, tavolette di argilla conservano promesse di pagamenti,

lettere di credito, ipoteche, pagamenti differiti e corrette ripartizioni di profitti. Se

l’aritmetica e l’algebra erano usate in tali transazioni commerciali, formule

geometriche fornivano le aree di campi e le quantità di grano immagazzinate in

granai cilindrici e piramidali.

Babilonesi ed egizi erano inoltre costruttori infaticabili. Anche nella nostra

epoca dei grattacieli, i loro templi e le loro piramidi ci appaiono come mirabili

opere di ingegneria. I babilonesi costruirono anche perfetti sistemi di irrigazione.

Attraverso canali scavati con grande abilità, i fiumi Tigri ed Eufrate, la linfa vitale

di questo popolo, fertilizzarono il paese e resero possibile, in quel clima caldo e

secco, lo sviluppo di un’agricoltura in grado di sostentare città fiorenti e popolose

come Ur e Babilonia.

È però un errore, lo ripetiamo ancora una volta, credere che in Egitto e nella

Babilonia la matematica fosse limitata alla soluzione di problemi pratici. Questa

convinzione è erronea per quei tempi come lo è per oggi. Se spingiamo più a

fondo l’investigazione, troviamo invece che l’espressione esatta di pensieri ed

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emozioni, fossero esse artistiche, religiose, scientifiche o filosofiche, implicava

allora, come oggi, alcuni aspetti della matematica. Nella Babilonia e in Egitto

l’associazione della matematica con pittura, architettura, religione e con

l’investigazione della natura non era meno intima e vitale del suo uso nel

commercio, nell’agricoltura e nella costruzione.

Gli autori che attribuiscono alla matematica solo un valore utilitaristico trovano

spesso nella storia una motivazione pratica per attività matematiche che

logicamente non avrebbero potuto esistere. Le loro argomentazioni suonano come

segue: la matematica fu applicata al computo del calendario e alla navigazione; la

creazione della matematica fu dunque motivata da questi problemi pratici, così

come il bisogno di contare condusse al sistema dei numeri. Questo tipo di

argomentazione post hoc ergo propter hoc non ha una storia e pochissime

probabilità a suo favore. Nessun marinaio perdutosi in mare decise

improvvisamente che nelle stelle era la risposta al suo problema di navigazione;

né alcun agricoltore egizio, interessato numero di giorni che sarebbero trascorsi

prima dell’inondazione del Nilo, decise di stabilirlo in base all’osservazione del

corso del Sole.

Prima dell’uso dell’astronomia e della matematica per la navigazione e per il

computo del calendario, devono esserci stati secoli durante i quali uomini pieni di

meraviglia e di timore nei confronti della natura, uomini animati da impulsi

filosofici insopprimibili, osservarono pazientemente il movimento del Sole della

Luna e delle stelle. Questi veggenti, ossessionati dal mistero della natura,

superarono l’ostacolo della mancanza di strumenti e una matematica miseramente

inadeguata, per distillare dalle loro osservazioni i disegni tracciati dai corpi celesti

nei loro moti. Furono questi gli uomini che assai presto nella civiltà egizia

appresero che l’anno solare, l’anno delle stagioni, consta di circa 365 giorni.

La loro pazienza e la loro perseveranza ottennero risultati ancora maggiori. Essi

osservarono che la stella Sirio appariva in cielo al sorgere del Sole nel giorno

dell’anno in cui l’inondazione annuale del Nilo raggiungeva l’attuale regione del

Cairo. Quest'osservazione fu compiuta verosimilmente per molti anni prima che ci

si decidesse a riprodurre graficamente il movimento di Sirio in cielo al fine di

predire l’inondazione. Essendo però l’anno calendariale di 365 giorni più corto di

un quarto di giorno rispetto all’anno solare vero, dopo vari anni il calendario non

era più in grado di dire quando Sirio sarebbe apparso in cielo al sorgere del Sole.

Soltanto dopo 1460 anni, ossia 4 365, il calendario e la posizione di Sirio in

cielo sarebbero tornati a coincidere. Questo periodo di 1460 anni, chiamato ciclo

o periodo sotiaco, era noto anche agli astronomi egizi. Certo l’esistenza di tali

regolarità in cielo dovette essere riconosciuta prima che qualcuno potesse pensare

di applicarle.

Una volta che gli studi astronomici e matematici ebbero rivelato queste

regolarità, i babilonesi e gli egizi appresero a osservare gli aspetti del cielo. Essi

impararono a cacciare, a pescare, a seminare, a mietere, a danzare e a compiere

cerimonie religiose nei tempi indicati dal cielo. Ben presto costellazioni

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particolari ricevettero i nomi delle attività autorizzate dalla loro comparsa. Il

Sagittario (il cacciatore) e i Pesci sono ancora in cielo.

Il cielo decideva dunque l’epoca in cui si dovevano compiere determinati

eventi. Ma un padrone così imperioso non avrebbe tollerato ritardi nel

compimento dei suoi ordini. L’egizio, che si procurava i mezzi di sussistenza

dissodando il suolo che il Nilo ricopriva di ricco limo durante la sua inondazione

annuale del paese, doveva essere pronto per l’epoca della piena. La sua

abitazione, gli attrezzi e il bestiame dovevano essere allontanati temporaneamente

da quell’area e si doveva predisporre tutto per poter procedere immediatamente

dopo la piena alla semina. Era quindi necessario predire esattamente l’arrivo

dell’inondazione. Non soltanto in Egitto ma in tutti i paesi era necessario

conoscere in anticipo il tempo della semina e l’arrivo dei giorni festivi e dei giorni

dei sacrifici.

Non era però possibile la predizione dei giorni utili per le varie operazioni

tenendo conto semplicemente dei giorni e delle notti trascorsi. Il calendario di 365

giorni perse infatti ben presto ogni relazione con le stagioni proprio a causa della

differenza di un quarto di giorno. La predizione di un giorno festivo o

dell’inondazione del Nilo, anche con pochi giorni di anticipo, richiedeva una

conoscenza precisa del moto dei corpi celesti e della matematica quale era

posseduta solo dai sacerdoti. Questi appassionati, conoscendo l’importanza del

calendario per la vita quotidiana e per poter compiere a tempo i preparativi

necessari, sfruttarono questa loro conoscenza come un mezzo per assicurarsi il

potere sulle masse non informate. Si ritiene di fatto che i sacerdoti egizi sapessero

che l’anno solare, ossia l’anno delle stagioni, fosse di 365 1/4 giorni ma che

tenessero nascosta deliberatamente questa notizia al popolo. Conoscendo anche

l’epoca dell’inondazione, i sacerdoti potevano asserire di essere loro a provocarla

con i loro riti, chiedendo perciò in cambio un pagamento al misero agricoltore. La

conoscenza della matematica e della scienza era uno strumento di potere allora

come lo è ancora oggi.

Se la meraviglia suscitata dai fenomeni celesti condusse alla matematica

attraverso la sua rispettabile parente, l’astronomia, il misticismo religioso, che era

anch’esso un’espressione della meraviglia suscitata dalla vita, dalla morte, dal

vento, dalla pioggia e dall’immagine complessiva della natura, si associò

anch’esso alla matematica attraverso la sua parente, ora screditata, l’astrologia. È

ovvio che l’importanza dell’astrologia nelle religioni antiche non dev’essere

giudicata sulla base del discredito di cui l’astrologia è oggi oggetto. In quasi tutte

queste religioni i corpi celesti, e specialmente il Sole, erano dèi che governavano i

fatti che avevano luogo sulla terra. La volontà e i disegni di questi dèi potevano

essere penetrati studiando le loro attività, le loro regolari apparizioni e scomparse,

le improvvise visite di meteore e le occasionali eclissi di Sole e di Luna. Era

altrettanto naturale per gli antichi sacerdoti elaborare formule per la divinazione

del futuro fondate sui moti dei pianeti e delle costellazioni quanto lo è per lo

scienziato moderno studiare e padroneggiare la natura con le sue tecniche.

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Anche se i corpi celesti non fossero stati considerati dèi, un popolo

scientificamente immaturo avrebbe avuto buone ragioni per associare le posizioni

del Sole, della Luna e delle stelle con affari umani. La dipendenza dei raccolti dal

Sole e dal tempo in generale, l’accoppiamento degli animali in stagioni dell’anno

ben definite, la periodicità del flusso delle donne, che anche Aristotele e Galeno

ritennero governato dall’azione della Luna, e numerose altre associazioni simili

conferirono una forte credenza a una tale dottrina. Per gli egizi, in particolare,

l’inizio dell’inondazione del Nilo esattamente nel giorno in cui Sirio appariva in

cielo al sorgere del sole significava che l’inondazione era causata da Sirio.

Il misticismo religioso si espresse direttamente de more geometrico nella

costruzione e orientamento di splendidi templi e piramidi. Ogni grande città

babilonese si costruì una ziqqurat, ossia un tempio in forma di torre. Era questo

un imponente edificio costruito al di sopra di una successione di terrazze, cui si

accedeva grazie a vaste rampe di gradini, e che era ben visibile da molti

chilometri di distanza. Le piramidi e i templi egizi sono ben noti. Le piramidi, in

particolare, erano costruite con una cura speciale essendo sepolcri reali, e gli egizi

ritenevano che la costruzione secondo precise prescrizioni matematiche fosse

essenziale per la vita futura del defunto. L’orientamento di queste strutture

religiose in relazione ai corpi celesti è ben illustrata dal famoso tempio di

Ammone-Re a Karnak. L’edificio era orientato esattamente di fronte al tramonto

nel solstizio d’estate; quel giorno i raggi del sole entravano direttamente nel

tempio e illuminavano la parete di fondo.

Il misticismo religioso non trascurò inoltre le affascinanti proprietà dei numeri

come veicolo per l’espressione delle proprie idee. Un interesse particolare

suscitarono i numeri tre e sette. Poiché l'universo era stato evidentemente

costruito in un periodo di tempo ben definito perché non usare un numero

desiderabile come sette? Che dovesse trattarsi di giorni e non di periodi più lunghi

sembrava un buon compromesso fra il potere di Dio e la complessità della natura.

La scienza della cabala illustra fin dove i credenti erano disposti a spingersi per

spiegare il mistero dell’universo in termini di numeri. La tradizione attribuisce ai

sacerdoti babilonesi l’invenzione di questa scienza mistica e demoniaca dei

numeri che fu poi sviluppata dagli ebrei. Questa pseudo-scienza era fondata

sull’idea seguente, Ogni lettera dell’alfabeto era associata a un numero. Di fatto

greci ed ebrei usavano come simboli numerici le lettere dei loro alfabeti. A ogni

parola era associato il numero che era la somma dei numeri corrispondenti alle

lettere che formavano la parola. Due parole aventi lo stesso numero associato

erano considerate in relazione fra loro, e questa connessione fu usata per fare

predizioni. Così la morte di un uomo poteva essere profetizzata quando erano

uguali il numero associato al nome di un’impresa che egli progettava di compiere

e quello associato alla parola morte.

Gli interessi artistici dell’uomo gareggiavano con i suoi sentimenti religiosi

nello scoprire e utilizzare conoscenze matematiche. Mentre gli architetti

studiavano e applicavano la geometria alla progettazione e alla costruzione di

meravigliosi edifici pubblici, templi e palazzi reali, i pittori erano attratti da figure

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geometriche come mezzi per esprimere le loro concezioni della bellezza. Artisti

della città di Susa, in Persia, usarono seimila anni fa forme geometriche in uno

stile artistico convenzionale non meno sofisticato di quello della moderna arte

astratta. La loro ceramica veniva decorata con capri i cui quarti, anteriori e

posteriori, erano rappresentati da triangoli e le cui corna erano rappresentate da

ampi semicerchi, e con cicogne il cui corpo e il cui capo erano raffigurati sotto

forma di triangoli grandi e piccoli. La geometria non era, come sostenne Erodoto,

solo il dono del Nilo. Anche gli artisti fecero questo dono alla civiltà.

Le civiltà egizia e babilonese trassero ispirazione per l’attività matematica da

molti bisogni e interessi umani, ma non furono sufficientemente grandi per

comprendere veramente la matematica e per dare un vero contributo al suo

sviluppo. Esse accumularono semplici formule e numerose regole e tecniche

elementari le quali rispondevano tutte a domande sorte in situazioni particolari.

Non ci fu però uno sviluppo generale _di un argomento né i testi enunciano

princípi generali. Il papiro di Ahmes (o Ahmosa), da cui derivano la maggior

parte delle nostre conoscenze sulla matematica egizia, elabora semplicemente

problemi specifici, senza fornire alcuna spiegazione o ragione delle operazioni

svolte. È stato suggerito che i sacerdoti babilonesi ed egizi possedessero forse

princípi matematici generali, di cui potrebbero aver mantenuto segreta la

conoscenza. È questa pura speculazione, sostenuta in parte dal titolo del papiro di

Ahmes, Istruzioni per ottenere la conoscenza di tutte le cose oscure, e in parte dal

carattere generale della teocrazia egizia, con la sua trasmissione orale delle

conoscenze e il suo tentativo di sviluppare nel popolo una riverenza per la classe

dominante.

L’incapacità di costruire un importante corpo scientifico di conoscenza o di

includere i particolari in una sintesi di una certa ampiezza si avverte anche

nell’astronomia egizia e babilonese. In migliaia di anni di osservazioni non fu

elaborata alcuna teoria in grado di legare fra loro e illuminare le osservazioni.

È stata profusa un’insistenza eccessiva sulla matematica usata nella costruzione

delle piramidi e dei templi come prova della profondità della matematica antica.

Alcuni autori hanno sottolineato che gli spigoli di una piramide sono quasi

perfettamente della stessa lunghezza e che gli angoli retti sono vicinissimi a 90°.

Per ottenere tali risultati si richiedevano però non matematica bensì cura e

pazienza. Calcolatori precisi non sono necessariamente grandi matematici e tali

non furono neppure i costruttori di piramidi. Quel che affascina nella loro opera

sono l’organizzazione e le conoscenze ingegneristiche di sforzi di tali dimensioni.

Dal punto di vista moderno, la matematica egizia e quella babilonese erano

inadeguate da un altro punto di vista: le conclusioni venivano stabilite

empiricamente. Vediamo brevemente in che modo gli egizi e i babilonesi

pervenivano alle loro formule.

Supponiamo che un agricoltore voglia cintare un’area di 100 metri quadrati al

costo più basso possibile e che desideri che l’area abbia forma rettangolare. Per

mantenere basso il costo del recinto, egli deve rendere il perimetro il più piccolo

possibile. Ora, egli può tracciare un rettangolo avente un’area di 100 metri

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quadrati usando dimensioni come 50 per 2, oppure 20 per 5, o ancora 8 per 12 1/2

e molte altre combinazioni. I perimetri dei vari rettangoli non sono affatto uguali,

nonostante che le aree siano tutte di 100 metri quadrati. Ad esempio, le

dimensioni 2 per 50 richiedono un perimetro di 104 metri; le dimensioni 5 per 20

richiedono un perimetro di soli 50 metri, e così via. Già da questi pochi calcoli

possiamo vedere che le differenze nei perimetri possono essere considerevoli in

corrispondenza col variare delle dimensioni.

Ora, l’agricoltore si trova in condizioni economiche non troppo floride. Se egli

conosce un po’ di aritmetica può provare con varie dimensioni che gli diano

un’area di 100 metri quadrati e scegliere quella col perimetro minore. Ma poiché

le possibilità sono infinite, egli non potrà mai provarle tutte e perciò non sarà in

grado di determinare la scelta migliore. Un agricoltore sveglio può osservare che

quanto più vicine sono le due dimensioni tanto minore sarà il perimetro richiesto.

Egli può sospettare pertanto che il quadrato di 10 metri di lato sia quello che

richiede il perimetro minore, ma non può esserne certo. Il suo procedimento per

prova ed errore lo ha condotto nondimeno a una conclusione probabile, ossia che

di tutti i rettangoli di una determinata area, il quadrato è quello che ha il perimetro

minore.

L’agricoltore userebbe indubbiamente questa congettura e la sua conclusione,

avendo il sostegno dell’aritmetica e di un’esperienza continua con aree

rettangolari, verrebbe tramandata alla posterità come un fatto matematico

attendibile. Ovviamente la conclusione non è affatto stabilita e a nessun moderno

studente di matematica verrebbe consentito di “dimostrarla” in questo modo. Il

più che si possa dire a favore di questo antico approccio alla conoscenza

matematica è che esso sostituisce l’intelligenza con la pazienza.

Un altro aspetto della matematica dei tempi antichi merita la nostra attenzione.

I sacerdoti monopolizzavano l’intero insegnamento, inclusa la matematica, per

asservirlo ai loro fini. La conoscenza dava il potere e, limitando la conoscenza,

essi riducevano la probabilità che qualcuno potesse sfidare la loro posizione.

Inoltre l’ignoranza genera il timore e il popolo timoroso si volge verso capi che lo

guidino e lo rassicurino, In tal modo i sacerdoti rafforzavano la loro posizione ed

erano in grado di mantenere il loro dominio sul popolo. Le teocrazie della

Babilonia e dell’Egitto reggono molto sfavorevolmente il confronto con civiltà in

cui non c’era una classe sacerdotale dominante. Vedremo che i pochi secoli

corrispondenti alla fioritura greca e gli ultimi secoli della nostra era moderna

produssero una conoscenza e un progresso infinitamente maggiori di quelli

realizzati nei millenni delle due antiche civiltà.

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III. La nascita dello spirito matematico

Tutto ciò che noi greci riceviamo, lo miglioriamo e

perfezioniamo.

PLATONE

Di Talete si racconta che una volta, mentre passeggiava di sera, era così assorto

nell’osservazione delle stelle che cadde in un fosso. Una servetta tracia che lo

accompagnava esclamò: “Come puoi sapere che cosa accade in cielo se non vedi

che cosa c’è ai tuoi piedi? " Talete, nondimeno, fece molte cose simultaneamente

e con successo. Nello spazio di una vita, non solo fondò la matematica greca,

osservò le stelle e fece passeggiate con compagni congeniali discutendo sulla

natura ma creò anche la filosofia greca, fondò un’importante teoria cosmologica,

fece molti viaggi, diede notevoli contributi all’astronomia e realizzò un successo

enorme negli affari.

Come la maggior parte dei matematici greci, Talete apprese gli elementi

dell’algebra e della geometria dagli egizi e dai babilonesi. Di fatto molti studiosi

greci di queste discipline vennero dall’Asia Minore, che aveva ereditato la cultura

babilonese. Altri, nati nella madrepatria greca, si recarono a studiare in Egitto.

Nonostante l’influenza incontestabile dell’Egitto e della Babilonia sui greci, la

matematica prodotta dai greci differiva in modo radicale da quella anteriore. Di

fatto, dal punto di vista del nostro secolo, la matematica e, si potrebbe aggiungere,

la civiltà moderna ebbero inizio con i greci del periodo classico, che si estese dal

600 a.C. circa al 300 a.C.

La matematica pregreca è già stata da noi definita una raccolta di conclusioni

empiriche. Le sue formule erano il risultato di lunghi periodi di esperienze, così

come molte pratiche mediche e rimedi in uso oggi. Benché l’esperienza sia senza

dubbio un’ottima maestra, in molte situazioni essa sarebbe un modo

estremamente inefficace di ottenere conoscenze. Chi costruirebbe un ponte lungo

un chilometro per stabilire se un particolare cavo d’acciaio sia in grado di

sostenerlo? Il metodo per prova ed errore può avere il vantaggio di essere un

metodo diretto, ma può anche rivelarsi disastroso.

L’esperienza è l’unico modo di ottenere conoscenza? Non per esseri dotati di

una facoltà di raziocinio. Il ragionamento può seguire molte vie, fra cui quella

molto sperimentata dell’analogia. Gli egizi, ad esempio, credevano

nell’immortalità e perciò seppellivano i loro defunti con abiti, utensili, gioielli, e

altre cose che potessero esser loro utili nell’altro mondo. Il loro ragionamento era

che poiché la vita sulla terra aveva bisogno di tali oggetti, lo stesso valeva anche

per l’altra vita.

Il ragionamento per analogia è utile ma ha anch’esso i suoi limiti. In molti casi

non esiste una situazione analoga; difficilmente si sarebbero potuti inventare

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aerei, radio e sommergibili ragionando per analogia. Oppure possono presentarsi

situazioni analoghe le cui differenze, per quanto piccole, possono comportare

grandi conseguenze. Benché gli esseri umani assomiglino alle scimmie

antropomorfe, talune conclusioni sugli uomini non possono esser tratte da uno

studio delle scimmie.

Un metodo di ragionamento usato più comunemente è noto come induzione.

Un agricoltore può osservare che grandi piogge avutesi in varie primavere

successive furono seguite da raccolti eccellenti. Egli ne conclude che grandi

piogge sono propizie ai raccolti. Ancora, una persona che abbia avuto esperienze

sfortunate trattando con avvocati conclude che tutti gli avvocati sono persone

indesiderabili. Il processo induttivo consiste essenzialmente nella conclusione che

qualcosa è sempre vera sulla base di un numero di casi limitato.

L’induzione è il metodo di ragionamento fondamentale nella scienza

sperimentale. Supponiamo che uno scienziato riscaldi una determinata quantità

d’acqua da 4° a 20° e veda che il volume occupato dall’acqua aumenti. Se è un

buon scienziato non trarrà alcuna conclusione ma ripeterà l’esperimento molte

volte. Supponiamo che egli osservi la medesima espansione ogni volta. Egli

dichiarerà allora che l’acqua si espande ogni volta che sia riscaldata da 4° a 20°.

Questa conclusione è ottenuta con un ragionamento induttivo.

Benché le conclusioni ottenute in virtù di un ragionamento induttivo sembrino

garantite dai fatti, esse non sono stabilite al di là di ogni dubbio. Sul piano della

logica, queste conclusioni non sono stabilite meglio della generalizzazione, tratta

dall’osservazione di quattrocento milioni di cinesi, che tutti gli esseri umani

hanno la pelle gialla. In altri termini, non possiamo essere certi di nessuna

conclusione ottenuta in virtù di un ragionamento induttivo. Esistono altre

limitazioni a questo tipo di ragionamento. Non possiamo concludere

induttivamente quale possa essere l’effetto sulla società di una legge non

sperimentata. Né possiamo concludere induttivamente, come fece un osservatore

acritico, che tutti gli indiani camminano in fila indiana per aver visto uno farlo!

I vari metodi per ottenere conclusioni, ciascuno indubbiamente utile in una

varietà di situazioni, posseggono un limite comune: anche se i fatti d’esperienza,

o i fatti su cui si fondano il ragionamento per analogia o per induzione, sono del

tutto corretti, la conclusione ottenuta non è certa e dove la certezza è d’importanza

vitale questi metodi sono praticamente inutilizzabili.

Fortunatamente esiste un metodo di ragionamento che garantisce la certezza

delle conclusioni ottenute. Il metodo noto come deduzione. Consideriamo alcuni

esempi. Se accettiamo fatti che tutte le mele sono deperibili e che l’oggetto che si

trova di fronte a noi è una mela, dobbiamo concludere che quest’oggetto è

deperibile. Un altro esempio è il seguente: se tutte le persone buone sono

caritatevoli e se io sono buono, allora devo essere caritatevole. E se io non sono

caritatevole, non sono buono. Di nuovo, dalle premesse che tutti i poeti sono

intelligenti e che nessuna persona intelligente si fa beffe della matematica,

possiamo trarre deduttivamente la conclusione inevitabile che nessun poeta si fa

beffe della matematica.

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Non ha nessuna importanza, finché si tratta semplicemente del ragionamento,

se accettiamo o no le premesse. Quel che conta è che, se accettiamo le premesse,

dobbiamo accettare la conclusione. Purtroppo molte persone confondono la

accettabilità o la verità di una conclusione con la validità del ragionamento che

conduce a tale conclusione. Dalle premesse che tutti gli esseri intelligenti sono

esseri umani e che i lettori di questo libro sono esseri umani, possiamo concludere

che tutti i lettori di questo libro sono intelligenti. La conclusione è indubbiamente

vera ma il ragionamento deduttivo implicato non è valido perché la conclusione

non segue necessariamente dalle premesse. Una breve riflessione dimostra che,

benché tutti gli esseri intelligenti siano umani, possono esserci esseri umani non

intelligenti e nulla, nelle premesse, ci dice a quale gruppo di esseri umani

appartengano i lettori di questo libro.

Il ragionamento deduttivo consiste dunque in quei modi di derivare nuove

asserzioni da fatti accettati che forzano all’accettazione di asserzioni derivate.

Non indagheremo a questo punto la questione del perché noi sperimentiamo

questa convinzione mentale. Quel che ora importa è che l’uomo ha questo metodo

per arrivare a nuove conclusioni e che queste conclusioni sono indubitabili se i

fatti da cui partiamo sono anch’essi indubitabili.

La deduzione, come metodo per ottenere conclusioni, presenta molti vantaggi

sul metodo per prova ed errore o sul ragionamento per induzione o per analogia. Il

vantaggio principale è quello che abbiamo già menzionato, ossia che le

conclusioni sono incontestabili se tali sono le premesse. La verità, se in generale

può essere ottenuta, deve provenire da certezze e non da inferenze dubbie o

approssimative. In secondo luogo, in contrasto con la sperimentazione, la

deduzione può essere applicata senza ricorrere all’uso di equipaggiamenti

dispendiosi. Prima che il ponte venga costruito e prima che il cannone a lunga

gittata spari, si può applicare il ragionamento deduttivo per stabilire quale sarà

l’esito. Talvolta la deduzione presenta il vantaggio di essere l’unico metodo

disponibile. Il calcolo di distanze astronomiche non può essere eseguito

utilizzando un regolo fisso. Inoltre, mentre l’esperienza ci confina a piccole

porzioni di tempo e spazio, il ragionamento deduttivo può estendersi a infiniti

universi ed eternità.

Nonostante tutti i suoi vantaggi il ragionamento deduttivo non può però

soppiantare l’esperienza, l’induzione o il ragionamento per analogia. È vero che

quando le premesse possono essere garantite al cento per cento, un’ugual certezza

si può attribuire alle conclusioni della deduzione. Premesse così incontestabili non

sono pero sempre necessariamente disponibili. Nessuno, purtroppo, è stato in

grado di fornire le premesse da cui si possa dedurre una cura per il cancro. Ai fini

pratici, inoltre, la certezza garantita dalla deduzione è talvolta superflua. Un alto

grado di probabilità può essere sufficiente. Per secoli gli egizi hanno usato

formula matematiche tratte dall’esperienza. Se essi avessero atteso di avere una

dimostrazione deduttiva, le piramidi di el-Gizah non si ergerebbero oggi nel

deserto.

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Ciascuno di questi vari modi di ottenere conoscenze presenta quindi vantaggi e

svantaggi. Nonostante ciò, i greci insistettero sulla tesi che tutte le conclusioni

matematiche devono essere stabilite solo col ragionamento deduttivo. Con la loro

insistenza su questo metodo, i greci mettevano da parte tutte le regole, le formule

e i procedimenti che erano stati ottenuti con l’esperienza, con l’induzione o con

ogni altro metodo non deduttivo e che erano stati accettati nel corpo della

matematica per millenni prima della loro civiltà. Sembrerebbe dunque che i greci

stessero distruggendo piuttosto che costruire; ma per il momento sospendiamo il

giudizio.

Perché i greci insistettero sull’uso esclusivo della dimostrazione in matematica?

Perché abbandonarono tali metodi pratici e fecondi per ottenere conoscenze come

l’induzione, l’esperienza e l’analogia? La risposta può essere trovata nella natura

della loto mentalità e della loro società.

I greci erano filosofi dotati. Essi si distinguevano dagli altri popoli in virtù del

loro amore per la ragione e del piacere che provavano nelle attività intellettuali.

Gli ateniesi colti erano tanto devoti alla filosofia quanto il nostro bel mondo lo è

ai night club; e l’Atene precristiana del V secolo a.C. era profondamente

interessata ai problemi della vita e della morte, dell’immortalità, della natura

dell’anima e della distinzione fra bene e male, così come l’America del XX secolo

lo è al progresso materiale. A differenza degli scienziati, i filosofi non ragionano

sulla base di esperimenti od osservazioni compiuti personalmente. Il loro

ragionamento si fonda piuttosto su concetti astratti e su vaste generalizzazioni. È

difficile infatti, dopo tutto, fare esperimenti con anime al fine di conseguire verità

sulla loro natura. Lo strumento naturale dei filosofi è il ragionamento deduttivo;

perciò i greci accordarono la preferenza a questo metodo quando si volsero alla

matematica.

I filosofi, inoltre, si occupano di verità, le poche immateriali manciate di

eternità che possono essere vagliate dalla sconcertante complessità di esperienze,

osservazioni e sensazioni. La certezza è l’elemento indispensabile della verità. Per

i greci, perciò, le conoscenze matematiche accumulate dagli egizi e dai babilonesi

erano un castello di sabbia. Bastava toccarlo perché si sbriciolasse. I greci

desideravano un palazzo costruito di un marmo indistruttibile, eterno.

La preferenza dei greci per la deduzione era, sorprendentemente, un aspetto

dell’amore ellenico per la bellezza. Come gli appassionati di musica odono la

musica come strutture, intervalli e contrappunto, così i greci vedevano la bellezza

come ordine, coerenza, compiutezza e determinatezza. La bellezza era

un’esperienza intellettuale oltre che emotiva. Di fatto, in ogni esperienza emotiva

i greci ricercavano l’elemento razionale. In un famoso elogio, Pericle esaltò gli

ateniesi morti in battaglia a Sarno non solo perché erano stati coraggiosi e

patriottici ma perché la loro morte era stata decretata dalla ragione. Le

argomentazioni deduttive esercitavano naturalmente un grande richiamo su

uomini che identificavano bellezza e ragione perché tali argomentazioni erano

intenzionali, coerenti e complete; proprio la convinzione delle conclusioni offre

infatti la bellezza della verità. Non stupisce dunque che i greci considerassero la

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matematica un’arte, così come è un’arte anche l’architettura anche se i suoi

principi possono essere usati per costruire magazzini.

Un’altra spiegazione della preferenza testimoniata dai greci per la deduzione va

vista nell’organizzazione della loro società. I filosofi, i matematici e gli artisti

erano membri della classe sociale più elevata. Questo strato superiore o

disdegnava del tutto le imprese commerciali e il lavoro manuale o li considerava

come tristi necessità. Il lavoro nuoceva al corpo e sottraeva tempo alle attività

intellettuali e sociali e ai compiti civili.

Greci famosi si espressero in modo inequivocabile in termini sdegnosi nei

confronti del lavoro e delle attività mercantili. I pitagorici, un’influente scuola di

filosofi e mistici di cui parleremo più avanti, si vantavano di aver innalzato

l’aritmetica, lo strumento del commercio, al di sopra dei bisogni dei mercanti.

Essi ricercavano la conoscenza, non la ricchezza. L’aritmetica, disse Platone,

dovrebbe essere studiata per la conoscenza e non per i fini del commercio. Egli

dichiarò inoltre che la professione del negoziante è una degradazione per un uomo

libero e auspicò che l’uso mercantile dell’aritmetica fosse punito come un

crimine. Aristotele dichiarò che in uno Stato perfetto nessun cittadino dovrebbe

praticare alcuna arte meccanica. Lo stesso Archimede, autore peraltro di

straordinarie invenzioni pratiche, prediligeva le sue scoperte nel campo della

scienza pura e considerava ignobile e volgare ogni tipo di abilità connessa con i

bisogni quotidiani. I beoti avevano un disprezzo spiccatissimo per il lavoro.

Coloro che si contaminavano esercitando un’attività commerciale venivano

esclusi da uffici statali per dieci anni.

L'atteggiamento dei greci nei confronti del lavoro avrebbe potuto avere scarsa

influenza sulla loro cultura se essi non avessero posseduto una vasta classe di

schiavi su cui poter scaricare i compiti ingrati. Gli schiavi si occupavano degli

affari e dell’amministrazione delle famiglie, facevano lavori manuali e tecnici,

gestivano le industrie e praticavano anche le professioni più importanti come la

medicina. La base servile della società greca classica favorì un divorzio della

teoria dalla pratica e lo sviluppo dell’aspetto speculativo e astratto della scienza e

della matematica, con la conseguenza che sperimentazione e applicazioni pratiche

furono del tutto trascurate.

Se si considera che la classe superiore greca evitava le attività mercantili – in

opposizione con l'interesse che la moderna classe sociale superiore dimostra per la

finanza e per l’industria – non riesce difficile comprendere la preferenza

testimoniata per la deduzione. Se una persona non “vive” nel mondo che la

circonda, l’esperienza le insegnerà ben poco. Similmente, per ragionare in modo

induttivo o analogico un individuo dev’essere disposto a uscir fuori e osservare il

mondo reale. La sperimentazione sarebbe sicuramente estranea a pensatori che

disapprovano il lavoro manuale. Poiché i greci non erano indolenti, essi

adottarono naturalmente quel modo d’indagine che si adattava alle loro

inclinazioni e ai loro atteggiamenti sociali.

Jonathan Swift osservò e mise in ridicolo quest’isolamento della cultura greca,

come pure la sua influenza sulla natura astratta di quella che egli riteneva fosse la

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pseudo-scienza del suo tempo. Quando Gulliver viene condotto a fare un giro

d’ispezione a Laputa, osserva:

Le loro case sono costruite molto male, le pareti sono sghembe, senza un angolo retto in

nessuna stanza, e questo difetto deriva dal disprezzo che essi hanno per la geometria pratica,

che spregiano come volgare e meccanica; le istruzioni che essi danno sono troppo raffinate per

gli intelletti dei loro operai, fatto che determina errori continui. E benché essi siano abbastanza

abili, quando abbiano un pezzo di carta, a maneggiare la riga, la matita e il compasso, tuttavia,

nelle azioni comuni e nel comportamento di vita non ho mai visto gente così goffa, maldestra e

inerte, né così lenta e perplessa nelle proprie concezioni su tutti gli altri argomenti che non

siano la matematica e la musica.

L’insistenza dei greci sul ragionamento deduttivo come sull’unico metodo di

dimostrazione in matematica fu nondimeno un contributo di prima grandezza.

Essa staccava la matematica dalla cassetta degli attrezzi del carpentiere, dal

ripostiglio degli arnesi dell’agricoltore e dal corredo dell’agrimensore e la inseriva

in un sistema di pensiero nella mente dell'uomo. La ragione dell’uomo, non i suoi

sensi, avrebbe deciso da questo momento in poi, che cosa fosse corretto. Con

questa decisione, la ragione fece il suo ingresso nella civiltà occidentale e i greci

rivelarono pertanto più chiaramente che in qualsiasi altro modo l’importanza

suprema che essi attribuivano alle facoltà razionali dell’uomo.

L’uso esclusivo della deduzione fu inoltre la fonte del sorprendente potere della

matematica e differenziò tale disciplina da tutti gli altri settori della conoscenza.

In particolare, sussiste qui una netta distinzione fra matematica e scienza, poiché

la scienza usa anche conclusioni ottenute per sperimentazione e per induzione. Le

conclusioni della scienza richiedono perciò occasionalmente revisioni e talvolta

devono essere completamente abbandonate, mentre le conclusioni della

matematica sono rimaste salde per migliaia di anni anche se in taluni casi il

ragionamento ha dovuto essere integrato.

Anche se i greci si fossero limitati a trasformare il carattere della matematica

facendone, da una scienza empirica qual era, un sistema deduttivo di pensiero, la

loro influenza sulla storia sarebbe stata ancora enorme. È questo pero solo il

primo dei loro contributi.

Un secondo contributo, di importanza vitale, dei greci consiste nell’aver reso la

matematica astratta. Le civiltà anteriori avevano cominciato a pensare ai numeri e

alle operazioni con i numeri un po’ astrattamente ma solo nel modo inconscio in

cui noi abbiamo imparato da bambini a pensare ai numeri e a manipolarli. Il

pensiero geometrico, prima dei greci, era ancor meno avanzato. Per gli egizi, ad

esempio, una linea retta era, in modo del tutto letterale, una corda tesa o una linea

tracciata nella sabbia. Un rettangolo era un recinto che limitava un campo.

I greci non soltanto riconobbero consapevolmente il concetto di numero ma

svilupparono anche l’aritmetica, l’aritmetica superiore o teoria dei numeri; nello

stesso tempo la mera abilità di calcolo, che essi chiamarono logistica e che non

implicava pressoché alcun apprezzamento delle astrazioni, veniva disprezzata

come un’abilità pratica nello stesso modo in cui oggi consideriamo dall’alto in

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basso l’abilità nella dattilografia. Similmente, in geometria, i vocaboli punto,

linea, triangolo e simili divennero concetti mentali, suggeriti da oggetti fisici ma

diversi da essi nello stesso modo in cui il concetto di ricchezza differisce da

terreni, edifici e gioielli e come il concetto di tempo differisce da una misura del

passaggio del Sole in cielo.

I greci eliminarono la sostanza fisica dai concetti matematici e ne conservarono

i meri involucri. Perché lo fecero? Certo è molto più difficile meditare su

astrazioni-che non su oggetti concreti. Un vantaggio è però subito evidente: un

guadagno in generalità. Un teorema dimostrato per un triangolo astratto si applica

alla figura formata da tre bastoncini di fiammiferi, al recinto triangolare di un

pezzo di terra e al triangolo formato, in ogni istante, dalla Terra, dal Sole e dalla

Luna.

I greci preferivano il concetto astratto perché esso era, ai loro occhi,

permanente, ideale e perfetto mentre gli oggetti fisici hanno breve durata, sono

imperfetti e corruttibili. Il mondo fisico non aveva importanza, se non nella

misura in cui ne suggeriva uno ideale; l’uomo era molto più importante degli

uomini. La forte preferenza per l’astrazione risulterà evidente da un breve sguardo

alla dottrina del più grande filosofo della Grecia.

Platone nacque ad Atene attorno al 428 a.C. da una distinta e attiva famiglia

greca, in un periodo in cui la città era all’apogeo del suo potere. Ancora giovane

conobbe Socrate e più tardi lo sostenne nella difesa del governo aristocratico di

Atene. Quando il partito democratico assunse il potere, Socrate fu condannato a

bere la cicuta e Platone divenne persona non grata ad Atene. Convintosi che in

politica non c’era posto per una persona cosciente – la politica era naturalmente

diversa a quell’epoca –, decise di lasciare la città. Dopo aver molto viaggiato in

Egitto e dopo essere entrato in contatto con i pitagorici nell’Italia meridionale,

tornò ad Atene attorno al 387 a.C. e vi fondò la sua Accademia per la filosofia e la

ricerca scientifica. Platone dedicò gli ultimi anni della sua vita a insegnare, a

scrivere e a formare matematici. Tra i suoi discepoli, amici e seguaci furono i

massimi uomini del suo tempo e di molte generazioni successive e tra essi si

potrebbero trovare tutti i matematici degni di nota del IV secolo a.C.

Secondo Platone esiste un mondo della materia, la Terra e gli oggetti che si

trovano su di essa, che percepiamo con i sensi; esiste inoltre il mondo dello

spirito, di manifestazioni divine e di idee come la Bellezza, la Giustizia,

l’Intelligenza, la Bontà, la Perfezione e lo Stato. Queste astrazioni erano per

Platone ciò che Dio è per il mistico, il Nirvana per il buddhista, e lo Spirito santo

per il cristiano. Mentre i nostri sensi afferrano il transeunte e il concreto, soltanto

la mente può innalzarsi alla contemplazione di queste idee eterne. Dovere di ogni

uomo intelligente è usare la propria mente al conseguimento di questo fine,

poiché solo queste idee, e non gli affari quotidiani, sono degne di attenzione.

Queste idealizzazioni, che costituiscono il nucleo della filosofia di Platone, sono

esattamente allo stesso livello mentale dei concetti astratti della matematica.

Apprendere come meditare sulle une è al tempo stesso apprendere come meditare

sugli altri. Platone capì questa relazione.

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Tavola I Prassitele, Afrodite di

Cnido, Vaticano

Per passare dalla conoscenza del mondo della materia al mondo delle idee, egli

disse, ci si deve preparare. La luce emanante dalle realtà più elevate, che risiedono

nella sfera del divino, acceca chi non è abituato a sopportarne la vista. Egli è, per

usare la famosa immagine di Platone, come uno che vive immerso continuamente

nell’oscurità profonda di una caverna e che viene trasportato improvvisamente

alla luce del sole. La matematica è il mezzo ideale per rendere graduale la

transizione dalle tenebre alla luce. Da un lato essa appartiene al mondo dei sensi,

poiché la conoscenza matematica concerne oggetti su questa Terra. Essa è, in

definitiva, la rappresentazione di proprietà della materia. D’altra parte,

considerata esclusivamente come un’idealizzazione, come uno studio

esclusivamente intellettuale, la matematica è di fatto distinta dagli oggetti fisici

che descrive. Inoltre, quando si redigono dimostrazioni, i significati fisici devono

esser lasciati fuori. Il pensiero matematico prepara perciò la mente a considerare

forme di pensiero superiori. Esso purifica la mente distogliendola dalla

contemplazione del sensibile e del perituro e avviandola alla contemplazione

dell’eterno. La via alla salvezza, e quindi alla comprensione del Vero, del Bello e

del Bene, passa per la matematica. Lo studio della matematica era un’iniziazione

alla mente di Dio. Per usare le parole di Platone, “la geometria solleverà l’anima

verso la verità e creerà lo spirito della filosofia...” La geometria si occupa infatti

non di cose materiali bensì di punti, linee, triangoli, quadrati e così via come

oggetti di puro pensiero.

Anche l’aritmetica, disse Platone, “ha un

effetto grandissimo ed eleva l’anima,

costringendola a ragionare su numeri astratti e

opponendosi all’introduzione nel ragionamento

di oggetti visibili o tangibili.” Egli suggeriva ai

“principali uomini di Stato di andare a imparare

l’aritmetica non per diletto ma proseguendo lo

studio fino a vedere la natura dei numeri con la

sola mente.”

Per ricapitolare la posizione di Platone: un

po’ di geometria e di calcolo sono sufficienti

per i bisogni pratici mentre le parti superiori e

più avanzate tendono a sollevare la mente al di

sopra delle considerazioni mondane e a renderla

capace di apprendere il fine ultimo della

filosofia, l’idea del Bene. Perciò Platone

raccomandava che i futuri filosofi-re fossero

istruiti per dieci anni, dai venti ai trent’anni di

età, nello studio delle scienze esatte: aritmetica,

geometria piana, geometria solida, astronomia e

armonia. Mettendo l’accento sulla matematica

come preparazione alla filosofia, Platone

parlava non soltanto per i suoi seguaci e per la

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sua generazione ma per l’intero periodo

classico della Grecia.

La preferenza dei greci per le idealizzazioni

e per le astrazioni si espresse nella filosofia e

nella matematica, ma anche nell’arte. La

scultura greca del periodo classico non si

soffermò su esseri umani particolari bensì su

tipi ideali (tavole I e II). Questa idealizzazione

si estese alla standardizzazione dei rapporti

reciproci delle varie parti del corpo. Le

prescrizioni di questi rapporti date da Policleto

non trascurarono né un dito né un’unghia.

L’uso moderno in concorsi di bellezza di

assegnare il premio alla donna le cui misure si

avvicinano di più a una norma stabilita è una

prosecuzione dell’interesse dei greci per una

figura ideale.

I volti e gli atteggiamenti di figure greche

classiche ricoperte di vesti drappeggiate oppure

ignude, almeno fino al decadente Laocoonte,

non

rivelano

emozione o partecipazione. A giudicare

dall’espressione dei loro volti, gli dei e gli

uomini greci non pensavano né ridevano né

si tormentavano. Il loro contegno è calmo

anche in sculture che raffigurano azioni

drammatiche. I volti sono sereni come

potremmo aspettarci che fossero quelli

dell’uomo considerato astrattamente.

Emozioni particolari sono, dopo tutto,

eventi temporanei, mentre questi scultori

stavano dipingendo l’eterno nella natura

dell’uomo. Questo stile epico della scultura

contrasta nettamente con quello che si

osserva in numerosi busti e statue di capi

militari e politici eseguiti nel periodo

romano (tavola III).

I greci sottoposero a norme, come la loro

scultura, così anche la loro architettura. I

loro edifici, semplici e austeri, furono sempre

di forma rettangolare; anche i rapporti delle

loro dimensioni furono espressi in canoni

Tavola II Mirone, Discobolo,

Collezione Lancellotti, Roma

Tavola III Augusto da Prima

Porta, Vaticano

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rigidi. Il Partenone ad Atene (tavola IV) è un esempio dello stile e delle

proporzioni che incontriamo in quasi tutti i templi greci. L’insistenza su

dimensioni ideali è, osserviamolo incidentalmente, strettamente affine

all’insistenza dei greci sulla forma, sulla forma in astratto, un concetto che non è

estraneo ai nostri giorni, in cui arte e astrazione sono praticamente sinonimi.

L’insistenza sulla matematica deduttiva e astratta creò la disciplina quale la

conosciamo oggi. Entrambi i caratteri citati le furono impartiti da filosofi. Benché

la matematica fosse nata dalla filosofia greca, molti matematici grandi e altri non

altrettanto grandi hanno manifestato un estremo disprezzo nei confronti di ogni

speculazione filosofica. Questo atteggiamento non è ovviamente altro che

un’espressione di ristrettezza. Questi matematici sono, nel loro proprio campo,

come fiumi possenti che abbattono le montagne per raggiungere il mare ma il cui

corso è poi limitato a strette gole. La forza ha consentito loro di penetrare in

profondità al di sotto della superficie che hanno cominciato a esplorare ma li ha

anche chiusi e presi in trappola fra alte pareti al di sopra delle quali non sono più

in grado di vedere. Questi matematici sprezzanti trascurano il fatto che i fiumi più

profondi e più possenti sono alimentati continuamente da tenui nubi, definite solo

in modo vago. Così anche le nubi del pensiero filosofico distillano la loro essenza

dando origine a fiumi matematici.

I greci diedero la loro impronta alla matematica in un modo ancora diverso, che

ebbe un effetto marcato sul suo sviluppo, ossia in virtù dell’accento posto sulla

geometria. Geometria piana e geometria solida furono esplorate a fondo. Non fu

Tavola IV Il Partenone di Atene

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però mai sviluppato un modo conveniente per rappresentare quantità né metodi

efficienti di calcolare con i numeri. Di fatto, nel computo essi non riuscirono a

utilizzare neppure le tecniche create dai babilonesi. L’algebra nel nostro senso

attuale di un simbolismo di grande efficacia e di numerosi procedimenti stabiliti

per la soluzione di problemi non era neppure considerata. Questa diversità

d’accento era così marcata che ci sentiamo costretti a ricercarne le ragioni. E le

ragioni sono varie.

Abbiamo già visto che nel periodo classico le attività artigianali, il commercio

e la finanza erano esercitati da schiavi. Perciò la gente istruita, che avrebbe potuto

produrre nuove idee e nuovi metodi per la manipolazione dei numeri, non si

occupava di tali problemi. Perché preoccuparsi dell’uso dei numeri nelle

misurazioni se non si misura o nel commercio se si detesta il commercio? Né i

filosofi hanno bisogno delle dimensioni numeriche fosse pure di un solo

rettangolo per speculare sulle proprietà di tutti i rettangoli.

Come la maggior parte dei filosofi, i greci osservavano le stelle. Essi

studiavano il cielo per scandagliare i misteri dell’universo. I greci del periodo

classico non si preoccuparono però dell’uso dell’astronomia nella navigazione e

nel computo del tempo. Ai loro fini figure e forme erano più importanti di

misurazioni e di calcoli; perciò la geometria fu favorita. Di queste forme, il

cerchio e la sfera, suggeriti evidentemente da un’osservazione superficiale del

Sole, della Luna e dei pianeti, ricevettero la maggiore attenzione. Anche il loro

interesse per l’astronomia condusse dunque i greci a favorire la geometria.

Il XX secolo cerca la realtà sbriciolando la materia, come testimoniano le

nostre teorie atomiche. I greci preferivano invece costruire la materia. Per

Aristotele e per altri filosofi greci la forma di un oggetto è la realtà che si trova in

esso. La materia come tale è primitiva e informe; essa ha importanza soltanto se

possiede una forma. Non stupisce pertanto se la geometria, lo studio delle forme,

attrasse in modo speciale l’attenzione dei greci.

Infine, i matematici greci furono condotti nel campo dei geometri dalla

soluzione di un problema matematico vitale. Abbiamo già parlato del fatto che la

civiltà babilonese, come altre civiltà anteriori, usava numeri interi e frazioni. I

babilonesi avevano familiarità anche con un terzo tipo di numeri, introdotto

mediante l’applicazione di un teorema sui triangoli rettangoli.

Figg. 2 e 3. Due triangoli rettangoli.

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Esaminiamo innanzitutto il teorema. Se i cateti di un triangolo rettangolo sono

lunghi 3 e 4, l’ipotenusa, ovvero il lato opposto all’angolo retto (il lato AB nella

fig. 2), è lungo 5. Ora, il quadrato di 5, cioè 25, è la somma dei quadrati di 3 e di

4, ossia 52 = 3

2 + 4

2. Questa relazione fra i lati di un triangolo rettangolo, ossia

che il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti

sui cateti, è nota comunemente come teorema di Pitagora. I babilonesi e gli egizi

conoscevano sicuramente questo fatto se non una dimostrazione.

Supponiamo ora che entrambi i cateti di un triangolo rettangolo abbiano

lunghezza 1 (fig. 3). Quanto sarebbe lunga l’ipotenusa? Chiamiamo l’ipotenusa x.

Secondo il teorema di Pitagora la sua lunghezza dev’essere tale che

x2 = 1

2 + 1

2 = 2.

Perciò x, la lunghezza dell’ipotenusa, dev’essere un numero il cui quadrato sia

2. Indichiamo il numero il cui quadrato sia 2 con 2 e lo chiamiamo radice

quadrata di 2. Ma quale numero è uguale a 2? Ossia, quale numero, moltiplicato

per se stesso, dà 2?

La risposta, come la scuola matematica pitagorica scoprì con grande sgomento,

è che non esiste alcun numero intero o frazione il cui quadrato sia 2. 2 è un

nuovo tipo di numero e i pitagorici lo chiamarono irrazionale perché non può

essere espresso esattamente come un rapporto fra numeri interi, come potrebbero

essere 4/3 o 3/2. In opposizione a questo nuovo tipo di numero, i numeri interi e

le frazioni sono chiamati numeri razionali. Questi termini sono in uso ancor oggi.

I numeri irrazionali sono un argomento molto trascurato nella storia del

pensiero e un membro scomodo del nostro sistema numerico. Abbiamo visto poco

fa che numeri del genere devono essere usati per rappresentare lunghezze; essi

sono inoltre implicati, esplicitamente e implicitamente, in quasi tutta la

matematica. Ma come si possono sommare, sottrarre, moltiplicare o dividere tali

numeri? Ad esempio, come possiamo sommare 2 e 2? Come possiamo dividere

7 per 2?

I babilonesi avevano trovato una soluzione di ripiego, benché pratica, di queste

difficoltà. Essi approssimavano il valore di 2. Ad esempio, poiché il quadrato di

14/10 ovvero 1,4 è 1,96, e poiché 1,96 è quasi uguale a 2, 1,4 dev’essere quasi

uguale a 2. Un’approssimazione ancora migliore a 2 è l,41, poiché il quadrato

di 1,41 è 1,988.

Un’approssimazione a 2 usata dai babilonesi non consente un ragionamento

esatto con numeri irrazionali, poiché, quale che sia il numero di posizioni

decimali che siamo disposti a usare, non possiamo scrivere un numero razionale il

cui quadrato sia esattamente 2. Eppure, se la matematica deve giustificare la sua

pretesa di essere uno studio esatto, deve lavorare con 2 e non con una sua

approssimazione. Per la mente greca questa era una difficoltà vera e importante

come il problema del cibo per un naufrago gettato dalle onde su un banco

corallino.

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Insoddisfatti del metodo poco rigoroso dei babilonesi, i greci si accinsero ad

affrontare la difficoltà logica a viso aperto. Per meditare con precisione sui

numeri irrazionali, essi concepirono l’idea di lavorare con tutti i numeri

geometricamente. Essi presero l’avvio nel modo seguente. Fu scelta una

lunghezza destinata a rappresentare il numero 1. Altri numeri furono poi

rappresentati nei termini di tale lunghezza.

Per rappresentare 2, ad esempio, essi usarono una lunghezza uguale

all’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti fossero entrambi uguali a 1. La

somma di 1 e di 2, ad esempio, era una lunghezza formata aggiungendo un

segmento unitario alla lunghezza che rappresentava 2. In questa forma

geometrica la somma di un numero intero e di un numero irrazionale non è più

difficile da concepire della somma di uno più uno.

Analogamente, il prodotto di due numeri, ad esempio 3 e 5, era espresso

geometricamente come l’area del rettangolo avente come dimensioni 3 e 5. Nel

caso di 3 e 5 l’uso dell’area come modo di riflettere sul prodotto può non offrire

grandi vantaggi. Ma si può anche concepire come un’area il prodotto di 3 e di 2.

Meditare su questo secondo rettangolo è più difficile che meditare sul primo;

eppure esso fornisce un modo esatto di lavorare col prodotto di un numero intero

e di un numero irrazionale oppure di due numeri irrazionali.

I greci non soltanto operavano geometricamente con numeri ma si spinsero fino

a risolvere, grazie a serie di costruzioni geometriche, equazioni implicanti

incognite. Le risposte a queste costruzioni erano segmenti lineari le cui lunghezze

erano i valori incogniti. La serietà della loro conversione dall’aritmetica alla

geometria può essere giudicata dal fatto che il prodotto di quattro numeri era

considerato inconcepibile nella Grecia classica perché non esisteva una figura

geometrica in grado di rappresentarlo, nel modo in cui un’area e un volume

rappresentavano rispettivamente il prodotto di due e tre numeri. Per inciso, in

conformità col pensiero greco parliamo ancor oggi di un numero come il 25 come

del quadrato di 5 e del 27 come del cubo di 3.

La predilezione dei greci per la geometria era così spiccata che, durante il suo

viaggio a Laputa, Gulliver fu di nuovo costretto a commentare:

Le conoscenze che avevo nel campo della matematica mi furono di grande aiuto

nell’acquisire la loro fraseologia, la quale dipendeva in grande misura da quella scienza e dalla

musica; e anche in quest’ultima non ero del tutto inesperto. Le loro idee concernono

continuamente linee e ligure. Se essi dovessero, ad esempio, esprimere il loro apprezzamento

per la bellezza di una donna, o di qualsiasi altro animale, la descriverebbero con rombi, cerchi,

parallelogrammi, ellissi e altri termini geometrici o con parole d’arte tratte dalla musica, che

non è necessario ripetere qui. Osservai nella cucina del re ogni sorta di strumenti matematici e

musicali, secondo la figura dei quali essi tagliavano i tranci di carne che venivano serviti alla

tavola di Sua Maestà.

Avendo i greci convertito idee aritmetiche in idee geometriche ed essendosi

dedicati allo studio della geometria, questa disciplina dominò la matematica fino

all’Ottocento, quando vennero finalmente risolte le difficoltà legate al trattamento

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dei numeri irrazionali su una base esatta, puramente aritmetica. Se si considerano

la rozzezza e la complessità di operazioni aritmetiche eseguite geometricamente,

questa conversione fu, da un punto di vista pratico, molto sfavorevole. I greci non

soltanto non svilupparono il sistema numerico e l’algebra di cui hanno bisogno

l’industria, il commercio, la finanza e la scienza, ma impedirono anche i progressi

delle generazioni successive influenzandole ad adottare il più scomodo approccio

geometrico. Gli europei si abituarono a tal punto alle forme e agli usi greci che la

civiltà occidentale dovette attendere gli arabi prima che si avesse l’introduzione di

un sistema numerico, originario della lontana India.

Per quanto questa perversione del sistema numerico e dell’algebra a opera dei

greci possa apparire sfavorevole commisurata alla nostra concezione del

progresso, non si dovrebbe però continuare a invocare sulla testa dei greci la

condanna di cui sono stati talvolta oggetto. L’unico passo indietro fatto dai greci

fu in sé del tutto ragionevole; inoltre il danno fatto è generosamente

controbilanciato dal bene incomparabile degli altri risultati da loro ottenuti.

La maggior parte delle persone, descrivendo i contributi dei greci alla civiltà

moderna, si esprime in termini di arte, filosofia e letteratura. Non c’è dubbio che i

greci meritino il massimo elogio per quanto ci hanno trasmesso in questi campi.

La filosofia greca è viva e significativa oggi come lo era allora. L’architettura e la

scultura greche, e specialmente la scultura, sono per la media delle persone

istruite del XX secolo più belle delle creazioni del nostro tempo. Drammi greci si

rappresentano ancora nei nostri teatri. Nondimeno, il contributo dei greci che più

ha influito sul carattere della nostra civiltà attuale è la loro matematica.

Trasformando la natura della disciplina nel modo che abbiamo visto, i greci

furono in grado di offrirci il loro dono supremo. Passeremo ora a esaminarne i

caratteri.

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IV. Gli Elementi di Euclide

Il solo Euclide

vide la nuda verità. Felice

chi, fosse pur da lungi e un giorno solo,

il suo pesante sandalo posare

udì sui sassi dell’acciottolato.

EDNA ST. VINCENT MILLAY

ln un periodo relativamente breve grandi intelletti, come Talete, Pitagora,

Eudosso, Euclide e Apollonio produssero una quantità prodigiosa di matematica

di livello assai elevato. La fama di questi uomini si diffuse in tutti gli angoli del

mondo mediterraneo e attrasse numerosi discepoli. Maestri e allievi si raccolsero

in scuole che, pur disponendo di pochi edifici, erano veri centri del sapere.

L’insegnamento di queste scuole dominò l’intera vita intellettuale dei greci;

perciò ci riferiremo ad esse in varie occasioni.

La scuola pitagorica fu la più influente nel determinare sia la natura sia i

contenuti della matematica greca. Il caposcuola, il leggendario Pitagora, era nato

nell’isola di Samo attorno al 569 a.C. Nei suoi numerosi viaggi in Egitto e in

India assimilò molta matematica e misticismo. Fondò poi a Crotone, una colonia

greca nel mezzogiorno d’Italia, una comunità che aderiva a dottrine sia mistiche

sia razionali. Per la parte mistica, il gruppo trasse ispirazione dalla religione greca

e considerò necessario purificare l’anima dalla contaminazione del fisico e

liberarla dalla prigione del corpo. Per conseguire questi fini, i pitagorici

osservavano il celibato e compivano rituali e purificazioni cerimoniali.

Ritenevano inoltre necessario osservare certi tabù. Non indossavano pertanto abiti

di lana, non mangiavano carne o fave se non in occasione di un sacrificio

religioso, non toccavano un gallo bianco, non passeggiavano per strade maestre,

non usavano ferro per attizzare il fuoco né lasciavano tracce di cenere su un

recipiente. Una volta liberatasi dal corpo, l’anima si reincarnava in un altro corpo.

Senofane racconta che una volta Pitagora, vedendo un uomo che percuoteva un

cane, gli gridò: “Fermati, smetti di percuoterlo; è l’anima di un amico. L’ho

riconosciuto udendo i suoi lamenti.”

La comunità si dedicava principalmente allo studio della filosofia, della scienza

e della matematica. Come se potesse prevedere gli usi terribili a cui alcune di

queste conoscenze avrebbero potuto essere destinate, essa vincolava i nuovi

membri al segreto e chiedeva loro di aderire alla setta per tutta la vita. Benché

l’appartenenza fosse limitata ai soli uomini, a udire le lezioni venivano ammesse

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anche donne, poiché Pitagora riteneva che le donne avessero qualche valore. Il

carattere esoterico del gruppo e le sue regole mistiche e segrete suscitarono il

sospetto e l`ostilità della cittadinanza di Crotone, che infine scacciò i pitagorici e

diede alle fiamme i loro edifici. Pitagora si rifugiò a Metaponto, nell’attuale

Basilicata, e, secondo una leggenda, vi fu assassinato. I suoi seguaci si diffusero

in altri centri della Grecia e vi continuarono il suo insegnamento.

Su altre dottrine mistiche e speculative di Pitagora diremo di più in un capitolo

seguente, Ci limitiamo per ora a ricordare che ai pitagorici viene riconosciuto il

merito di aver dato alla matematica uno status speciale e indipendente. Essi

furono il primo gruppo a trattare concetti matematici come astrazioni e benché

Talete e gli altri ionici avessero stabilito alcuni teoremi per via deduttiva, i

pitagorici esplorarono questo procedimento in modo esclusivo e sistematico. Essi

distinsero la teoria matematica da attività come la geodesia e il calcolo e

dimostrarono i teoremi fondamentali della geometria piana e solida e

dell’aritmetica, la teoria dei numeri. Con loro sgomento, scoprirono e

dimostrarono anche l’irrazionalità della radice quadrata di due.

Molto più nota dei pitagorici fu l’Accademia di Platone, che ebbe in Aristotele

il suo miglior discepolo. (Quest’ultimo, quando lasciò l’Accademia dopo la morte

di Platone, fondò una propria scuola, il Liceo.) Abbiamo già detto che fra i

discepoli di Platone furono i più famosi filosofi, matematici e astronomi

dell’epoca. Sotto l’influenza di Platone essi misero l’accento sulla matematica

pura fino a ignorare tutte le applicazioni pratiche ed estesero in misura enorme il

corpo delle conoscenze. La scuola conservò la sua preminenza in filosofia ancora

molto tempo dopo che la sua posizione di guida nel campo della matematica e

della scienza era passata ad Alessandria. Quando l’imperatore Giustiniano la

chiuse, nel VI secolo d.C., essa era durata novecento anni.

L’opera delle molte scuole e di individui isolati che vivevano in tutto il bacino

mediterraneo, dall’Asia Minore alla Sicilia e all’Italia meridionale, fu unificata da

Euclide nel libro magistrale intitolato Elementi. Questa esposizione famosissima,

redatta attorno al 300 a.C., costituisce perciò la storia matematica di un’epoca,

oltre che la presentazione logica della geometria. Da pochi assiomi, scelti con

acutezza, Euclide dedusse tutti gli importanti risultati ottenuti dai maestri greci

del periodo classico, circa cinquecento teoremi. Suoi erano gli assiomi, la

disposizione, la forma della presentazione e il completamento di argomenti

sviluppati solo in parte.

Gran parte del materiale contenuto negli Elementi di Euclide ci è familiare

dalla scuola media. Prima però di passare a considerare il significato di questa

matematica per la nostra cultura, vorremmo passare in rassegna alcuni caratteri di

questo trattato, che fu il più influente e, per alcuni, il più rivoluzionario di tutta la

storia. Occupiamoci per il momento della struttura logica delle dimostrazioni di

Euclide.

La geometria, come sappiamo, si occupa di punti, di linee, di piani, di angoli, di

cerchi, di triangoli e simili. Per Euclide, e per i greci di cui egli presentò l’opera,

quei termini rappresentavano non gli oggetti fisici in sé bensì concetti astratti da

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oggetti fisici. Di fatto soltanto poche proprietà dell’oggetto fisico sono riflesse

nell’astrazione matematica a cui esso dà origine. La corda tesa diede origine alla

linea retta matematica ma il colore della corda e il materiale di cui essa è

composta non sono proprietà della linea retta. Per indicare esattamente il

contenuto dei termini astratti da lui usati, Euclide cominciò con alcune

definizioni. Egli definì una linea retta come ciò che giace in modo uniforme fra i

suoi estremi. (È qui chiaramente evidente l’astrazione dalla corda tesa e dalla

livella del muratore.) Un punto, egli disse, è ciò che non ha parti. E così via,

passando ai triangoli, ai cerchi, ai poligoni e simili.

Nelle sue definizioni, Euclide si lasciò indurre in lungaggini non necessarie e

inopportune. Un sistema logico, autosufficiente, deve cominciare da qualche

parte. Non si può sperare di definire ogni concetto che esso usa, poiché la

definizione implica la descrizione di un concetto in termini di altri e di questi in

termini di altri ancora. Ovviamente, se il processo non dev’essere circolare, è

necessario prendere l’avvio da alcuni termini non definiti e definire gli altri nei

termini di questi. Ad esempio, la definizione data da Euclide del punto come di

ciò che non ha parti richiede necessariamente una definizione delle parti. Altri

autori, tentando di andare oltre Euclide, hanno definito il punto come una pura

posizione. E che cos’è allora la posizione? Indubbiamente in alcune sfere sociali

la posizione è tutto nella vita ma il concetto di posizione non chiarisce il

significato di punto.

Di nuovo, stiamo dicendo che non tutti i concetti possono essere definiti in un

sistema autonomo. È vero che tutti i concetti derivano da oggetti fisici definiti e

rappresentano oggetti fisici definiti, ma questi significati fisici non sono di alcuna

utilità nel processo della definizione formale, non essendo parte della matematica.

Sorprendentemente, l’incapacità di definire alcuni concetti di cui la geometria si

occupa non causa alcuna difficoltà, come vedremo fra poco.

Avendo definito, almeno per sua soddisfazione, i concetti di cui doveva

occuparsi, Euclide procedette al compito importante di stabilire fatti o teoremi su

di essi. Per intraprendere il processo deduttivo, egli aveva bisogno di premesse;

infatti, come Aristotele sottolinea,

Non tutto può essere dimostrato, altrimenti la catena della dimostrazione sarebbe infinita. Si

deve cominciare da qualche parte e si parte da cose ammesse ma indimostrabili. Questi sono

primi principi comuni a tutte le scienze e sono chiamati assiomi o postulati.

Nella scelta degli assiomi, Euclide dimostrò grande intuito e sicurezza di

giudizio. I matematici delle scuole principali avevano preso l’avvio da assiomi ad

essi accettabili. Col crescere dei contributi divenne sempre maggiore il pericolo

che venissero usati assiomi che non tutti i matematici riconoscessero

incontestabilmente veri per il mondo fisico. C’era inoltre una profusione inutile di

assiomi, una situazione disastrosa dal punto di vista logico, poiché è sempre

meglio presupporre il meno possibile e dimostrare tutte quelle asserzioni che

possono essere dedotte dagli assiomi già accettati. Il compito di Euclide

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consisteva dunque nella ricerca di un insieme adeguato e universalmente

accettabile di assiomi per la geometria. Inoltre, poiché le investigazioni

geometriche dei greci erano una parte della loro ricerca della verità, questi

assiomi dovevano essere verità assolute, incontestabili.

Gli assiomi proposti da Euclide esprimono proprietà di punti, linee e altre

figure geometriche che sono possedute dai loro corrispettivi fisici. Le proprietà in

questione appaiono così chiaramente vere di tali oggetti fisici che tutti gli uomini

sono stati disposti ad ammetterli come base per ulteriori ragionamenti. Il merito

straordinario della scelta di Euclide risiede nel fatto che, benché i suoi assiomi

siano immediatamente accettabili, non sono però mere banalità, conducendo a

conseguenze profonde. Egli riuscì inoltre a contenerli in un numero molto

limitato, dieci, e garantire nondimeno la costruzione dell’intero sistema della

geometria.

All’unico fine di rassicurarci sul discernimento della scelta di Euclide,

richiamiamo alla mente uno o due suoi assiomi. Egli affermò che “dev’essere

sempre possibile tracciare una linea retta che congiunga due punti”, che

“dev’essere sempre possibile tracciare un cerchio con un centro dato e per un

punto dato”; e che “il tutto è maggiore di ciascuna delle sue parti.” Indubbiamente

questi assiomi sono incontestabili e accettabili da tutti gli uomini.

Dopo aver scelto i concetti di cui la geometria deve occuparsi e le verità

fondamentali su tali concetti, Euclide procedette a stabilire teoremi o conclusioni.

Il metodo della dimostrazione era, com’è ovvio, rigorosamente deduttivo. Al fine

di apprezzare appieno perché le successive generazioni stimarono la solidità delle

conclusioni di Euclide, consideriamo una delle sue dimostrazioni.

Un antico teorema ripreso da Euclide dice che “gli angoli alla base di un

triangolo isoscele sono uguali.” Questo teorema riveste un interesse particolare

perché, nonostante il suo carattere elementare, segnava il limite dello studio della

geometria nelle università medievali. Esso è stato chiamato il “pons asinorum” o

“ponte degli asini” perché gli sciocchi non erano in grado di intenderne la

dimostrazione e quindi, come asini dinanzi a un ponte, non riuscivano a procedere

oltre.

Fig. 4. Triangolo isoscele.

Prima di passare in rassegna la dimostrazione, esaminiamo il significato del

teorema. Se ABC (fig. 4) è un triangolo isoscele, due lati, ad esempio AC e BC,

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sono uguali. Desideriamo dimostrare che gli angoli alla base A e B, ossia gli

angoli opposti ai lati uguali, sono uguali.

La dimostrazione ha inizio tracciando la linea CD, la quale biseca l’angolo C

del triangolo. La giustificazione di questo passo è la seguente.

Euclide aveva fatto vedere in precedenza che ogni angolo può essere bisecato.

Essendo C un angolo, anch’esso può dunque essere bisecato. Il ragionamento

deduttivo ha qui la forma seguente: tutte le mele sono rosse; questa è una mela;

dunque questa mela dev’essere rossa.

L’introduzione della linea CD divide il triangolo ABC in due triangoli ACD e

DCB. Di questi triangoli sappiamo, primo, che AC è uguale a CB, essendosi detto

che il triangolo originario è isoscele; secondo, che l’angolo ACD è uguale

all’angolo DCB poiché CD è la bisettrice dell’angolo; terzo, che, poiché il

segmento CD è comune ai due piccoli triangoli, questi triangoli hanno questo lato

uguale. Possiamo perciò asserire che il triangolo ADC è congruente col triangolo

DCB perché un teorema precedente stabilisce che ogni volta che due triangoli

hanno due lati e l’angolo incluso uguali sono congruenti. Possiamo asserire,

infine, che l’angolo in A è uguale all’angolo in B perché, per la definizione dei

triangoli congruenti, le parti corrispondenti sono uguali, e gli angoli in A e in B

sono siffatte parti corrispondenti.

Il teorema in questione è perciò dimostrato mediante varie argomentazioni

deduttive, ciascuna delle quali usa premesse incontestabili e fornisce una

conclusione incontrovertibile. Ovviamente non tutte le dimostrazioni in Euclide

sono così semplici. Nondimeno ogni dimostrazione, per quanto complessa possa

sembrare a tutta prima, consta solo di una serie di semplici argomentazioni

deduttive.

Non abbiamo bisogno di riesaminare uno per uno tutti i teoremi stabiliti da

Euclide. Sarà sufficiente ricordare che alcuni teoremi semplici sono dimostrati

attraverso un riferimento diretto agli assiomi e che tali teoremi semplici

forniscono stadi di avvicinamento verso la dimostrazione di teoremi più elaborati;

l’intera struttura risulta meravigliosamente e compattamente solidale. Di fatto

molti studenti considerano con irritazione il fatto che un così gran numero di

teoremi apparentemente complicati siano derivabili da pochi assiomi di evidenza

immediata.

Vediamo poi che i successivi argomenti toccati da Euclide riguardano proprietà

fondamentali delle dimensioni e forme di oggetti. L’argomento che gli interessava

di più era sotto quali condizioni due oggetti abbiano uguali dimensioni e ugual

figura, ossia quali condizioni si richiedono perché questi oggetti siano congruenti.

Supponiamo ad esempio che un agrimensore abbia due pezzi di terreno di forma

triangolare. Come potrà stabilirne l’uguaglianza? Deve misurare ogni lato, ogni

angolo e anche le aree di entrambi per stabilire che sono uguali? No, se può

disporre dei teoremi di Euclide. Due triangoli sono uguali da tutti i punti di vista

se, ad esempio, si sa che i lati dell’uno sono rispettivamente uguali ai lati

dell’altro. Questo fatto sembra poco più di una banalità ma il lettore potrà vedere

che non è così se si chiede quali siano le condizioni che si richiedono per esser

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certi della completa uguaglianza di due quadrilateri, ossia di due figure di quattro

lati. Questi problemi e altri affini si applicano, ovviamente, a ogni sorta di figure

geometriche.

Fig. 5. Due triangoli simili.

Euclide si chiese poi: se le figure non sono uguali, quali relazioni significative

possono avere l’una all’altra e quali proprietà geometriche possono avere in

comune? La relazione che egli scelse è la forma. Figure aventi dimensioni diverse

ma ugual forma, ossia figure simili, hanno in comune molte proprietà

geometriche. Applicata ai triangoli, ad esempio, la similitudine significa che gli

angoli di un triangolo sono uguali agli angoli corrispondenti dell’altro. Da questa

proprietà definitoria segue che il rapporto di due lati corrispondenti è costante.

Cosi, se ABC e A'B'C' sono triangoli simili (fig. 5), allora AB/A'B' è uguale a

BC/B'C'. Inoltre, se il rapporto di due lati corrispondenti è, per esempio, r, il

rapporto fra le due aree è r2.

Se le figure non hanno in comune né forma né dimensioni, che cosa si può dire

di esse? Esse possono avere ad esempio la medesima area ovvero, in termini

geometrici, possono essere equivalenti. Oppure possono essere iscrivibili nello

stesso cerchio. Il numero delle possibili relazioni e delle questioni che si possono

porre su ciascuna di esse è infinito. Euclide ne scelse solo alcune fondamentali.

Euclide applicò i concetti da lui studiati non solo a figure formate da linee rette

ma anche a cerchi e a sfere. L’interesse per queste figure era considerevole

perché, per i greci, il cerchio e la sfera erano figure perfette.

Dal punto di vista dell’attrazione estetica, un’altra classe di figure era per loro

altrettanto seducente. Fra i triangoli, il triangolo equilatero era degno di nota per il

fatto che i suoi lati hanno ugual lunghezza e che i suoi angoli hanno uguale

ampiezza. Tra le figure quadrilatere, il quadrato attraeva per la medesima ragione.

Si possono costruire anche figure piane di cinque, sei e più lati in modo che sia i

lati della figura sia gli angoli siano tutti uguali fra loro. Tali figure sono chiamate

poligoni regolari e furono studiate dettagliatamente. Complete superfici possono

essere formate con poligoni regolari, in modo che ogni superficie sia formata solo

da un tipo di poligono. Ad esempio, la superficie di un cubo è una superficie

completa costruita congiungendo sei quadrati lungo i loro lati. Tali superfici, di

cui quella citata del cubo è un esempio, sono chiamate poliedri regolari.

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Fig. 6. I cinque poliedri regolari.

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Una delle prime domande sorte in connessione con i poliedri regolari fu quella

del loro numero. Con un ragionamento magistrale, che non possiamo riprodurre

qui, Euclide dimostrò che devono esistere esattamente cinque tipi di poliedri

regolari. Essi sono illustrati nella figura 6. Platone ammirava a tal punto queste

figure da non poter concepire che Dio non ne avesse fatto uso. Egli sviluppò

perciò una scuola greca di pensiero secondo la quale tutti gli oggetti sono

composti da quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua, aggiungendo che le

particelle fondamentali del fuoco hanno la forma del tetraedro, quelle dell’aria la

forma dell’ottaedro, quelle dell’acqua la forma dell’icosaedro e quelle della terra

la forma del cubo. La quinta figura, quella del dodecaedro, fu da Dio riservata alla

forma dell’universo stesso.

Fig. 7. Una superficie conica e le sezioni ottenute mediante intersezione con

piani.

I greci studiarono in modo esauriente un’altra classe di curve. Abbiamo tutti

familiarità con la figura conica (quella del cono gelato). Se abbiamo due coni del

genere molto lunghi, collocati come nella figura 7, otteniamo quella che i

matematici chiamano superficie conica o a volte anche cono. Questa superficie

conica consta di due parti, le quali si estendono sopra e sotto O, procedendo

indefinitamente in entrambe le direzioni. Se una superficie conica viene

intersecata da un piano (una semplice superficie piana, come il ripiano di un

tavolo, privo però di spessore ed estendentesi indefinitamente in tutte le

direzioni), ne risulta una curva d’intersezione la cui forma dipende dalla posizione

del piano in relazione al cono. Così, quando il piano taglia via una parte del cono,

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la curva d’intersezione è un’ellisse (DEF nella fig. 7) o un cerchio (ABC nella fig.

7). Se il piano d’intersezione è inclinato in modo dal tagliare due parti del cono, la

curva d’intersezione consta di due parti ed è chiamata iperbole (RST e R'S'T' nella

fig. 7). Se, infine il piano d’intersezione è parallelo a una delle linee del cono,

come la POP', l’intersezione si chiama parabola (GIK nella fig. 7).

Anche i fatti fondamentali concernenti le sezioni coniche furono raccolti e

organizzati da Euclide in un libro andato perduto. Un po’ dopo Euclide un altro

famoso matematico, Apollonio, scrisse sull’argomento un trattato che ci è

pervenuto e che lo ha reso quasi altrettanto famoso dell’autore degli Elementi.

Molte altre opere matematiche furono create e scritte in questo periodo classico

ma poche di esse sono sopravvissute. Se giudichiamo sulla base dei libri e dei

frammenti che possediamo è pressoché certo che questo periodo fu caratterizzato

da una grandissima attività creativa, da un intenso interesse per la matematica e da

uno splendore insuperato.

La matematica greca è altrettanto importante per i problemi che si pose e lasciò

senza risposta quanto per quelli che riuscì a risolvere. Fra i primi ce ne sono tre

famosissimi, noti anche ai profani. Essi sono la “quadratura del cerchio”, la

“duplicazione del cubo” e la “trisezione dell’angolo. Quadrare un cerchio

significa costruire un quadrato l’area del quale sia uguale all’area del cerchio

dato. Duplicare un cubo significa costruire lo spigolo di un cubo il cui volume sia

doppio rispetto a quello di un cubo dato. Infine, trisecare un angolo significa

dividere un angolo qualsiasi in tre parti uguali. Queste costruzioni devono essere

eseguite solo con una riga, ossia un regolo non graduato, e un compasso. Non

dev’essere usato alcun altro strumento.

Fig. 8. Le sezioni coniche.

Le ragioni di questa restrizione gettano luce sull’atteggiamento classico verso

la matematica. Riga e compasso sono la controparte fisica della linea retta e del

cerchio e i greci, in generale, avevano limitato la loro geometria alla

considerazione di queste due figure e delle figure derivabili direttamente da esse.

Anche le sezioni coniche, come si vedrà, si ottengono facendo passare un piano

per un cono, ed entrambe queste figure, piano e cono, possono essere generate da

una linea retta in movimento. Questa restrizione alla linea retta e al cerchio,

autoimposta e arbitraria, era motivata dal desiderio di mantenere la geometria

semplice, armoniosa e perciò esteticamente attraente.

Alcuni greci, tra cui particolarmente Platone, avevano altre ragioni, secondo

loro altrettanto gravi, per imporre tale limitazione. L’introduzione di strumenti più

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complessi che potessero essere adeguati alla soluzione di problemi di costruzione

avrebbe richiesto un’abilità manuale secondo loro indegna di un pensatore.

Platone disse inoltre che, usando strumenti complicati, “il buono della geometria è

messo da parte e distrutto, poiché noi la riduciamo di nuovo al mondo del senso

invece di elevarla e impregnarla delle immagini eterne e incorporee di pensiero,

proprio come quando è usata da Dio, e per questa ragione Egli è sempre Dio.”

I tre problemi di costruzione erano molto popolari in Grecia. Il riferimento più

antico è ad Anassagora, che avrebbe trascorso il tempo passato in prigione

cercando di quadrare il cerchio. Nonostante i ripetuti tentativi dei migliori

matematici greci, i problemi non furono risolti, né lo sarebbero stati per i

successivi due millenni. Alla fine dell’Ottocento si stabilì infine che le costruzioni

non possono essere eseguite nelle condizioni date. Ciò nonostante c’è gente che vi

si cimenta ancora e spesso alcuni pretendono di aver raggiunto il successo.

Possiamo affermare, senza neppure esaminare il loro lavoro, che sono in errore o

hanno capito male i problemi.

I lunghi anni di fatiche spesi su questi problemi famosi confermano l’impegno,

il rigore, la pazienza e la perseveranza dei matematici. Questi problemi non hanno

alcuna importanza pratica, poiché le costruzioni possono essere eseguite

facilmente ricorrendo a strumenti solo di poco più complicati di riga e compasso.

Nondimeno, persone animate da un desiderio insopprimibile di affrontare sfide

intellettuali tentarono di realizzare le costruzioni teoriche.

Di fatto, la ricerca del ferro ha spesso portato alla scoperta di oro. Le sezioni

coniche, che prepararono la via all’astronomia moderna, furono scoperte durante

tentativi di eseguire le costruzioni famose, così come numerosi altri eleganti e

utili risultati matematici. Di fatto, se dovessimo fare un elenco delle idee

matematiche importanti conseguite affrontando problemi “non importanti”, di

nessun valore pratico, potremmo essere indotti a definire la matematica come lo

sviluppo del banale. (Più di un “educatore,” pur ignorando del tutto la disciplina e

la sua storia, non ha esitato a emettere un tale giudizio.) La storia degli sforzi

compiuti attorno a questi problemi di costruzione famosi dimostra quanto siano

ingiusti gli attacchi rivolti a questi greci “privi di senso pratico”, poiché questi

visionari fecero per l’avvento della nostra epoca scientifica assai più della

cosiddetta gente pratica.

Fig. 9.

Abbiamo già elogiato i greci per il fatto di aver reso astratta la matematica.

Sarebbe ora opportuno per la nostra valutazione della funzione della matematica

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vedere esattamente che cosa quest’astrazione implichi, almeno nella geometria

euclidea.

Consideriamo una situazione piuttosto semplice. Supponiamo di scegliere una

coppia di punti fissi, A e B, e una linea L che non passi per A o per B ma che

giaccia sullo stesso piano (fig. 9). Supponiamo inoltre di voler trovare il punto P,

sulla linea L, tale che la distanza AP + PB sia minima; ossia, se Q è un qualsiasi

altro punto su L, allora AP + PB dev’essere meno di AQ + QB. È questo un

problema puramente geometrico. Non è difficile dimostrare che se P è scelto in

modo tale che AP e PB formino con la linea L angoli uguali, allora la distanza AP

+ PB è quella minima.

Fig. 10.

Consideriamo questo teorema dimostrato e vediamo in che modo possa essere

applicato a situazioni pratiche. Supponiamo che A e B siano le posizioni di due

città e che L sia un fiume. Un molo destinato a servire entrambe le città dev’essere

costruito lungo il fiume in modo tale che la distanza totale dal molo alla città A e

dal molo alla città B sia la più breve possibile. In quale punto, lungo il fiume, si

dovrebbe collocare il molo? Il nostro teorema generale ci fornisce la risposta: nel

punto P, in cui AP e PB formano col fiume angoli uguali.

Consideriamo un’altra situazione “pratica”: una palla da biliardo situata sul

tavolo nel punto A dev’essere colpita in modo tale da farla battere contro la

sponda L del biliardo e da farle colpire la palla in B. Una palla da biliardo si

comporta sempre in modo che gli angoli che la sua traiettoria fa dirigendosi verso

la sponda del biliardo sono uguali agli angoli che forma allontanandosene dopo

averla colpita. In altri termini, nella figura 10, l’angolo 1 è uguale all’angolo 2.

Ogni giocatore di biliardo conosce, almeno in modo inconscio, questo fatto e lo

sfrutta. Egli dirige cioè la palla nel punto P in modo che AP e PB formino angoli

uguali con la sponda. Quello che egli certamente non sa è che la traiettoria da lui

scelta, e che spera sarà presa dalla palla, è il cammino più breve che una palla

possa percorrere nell’andare da A a B rimbalzando contro la sponda del tavolo da

biliardo.

Le nostre illustrazioni ci fanno vedere come un teorema matematico ci fornisca

informazioni valide in due situazioni molto diverse e prive di relazioni fra loro.

Lo stesso teorema ammette, di fatto, numerose altre applicazioni. Il fatto che un

teorema sviluppato per rispondere a una domanda in un campo si riveli così

spesso vitale in un campo completamente diverso riempie di sorprese la storia

della matematica. Ovviamente, quest’ampia applicabilità della matematica è

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pagata un certo prezzo, che è quello dell’astrazione, poiché per elaborare teoremi

validi per tutti i triangoli lavorando col triangolo ideale il matematico deve lottare

con pensieri elusivi e talvolta poco maneggevoli, invece di lavorare manualmente

con un triangolo fatto di legno.

C’è un altro punto molto importante da tenere a mente a proposito della

relazione fra i teoremi astratti della matematica e le loro applicazioni, ossia che il

teorema astratto formula il caso ideale, mentre la situazione fisica a cui esso si

applica può essere molto diversa dall’ideale. Supponiamo, ad esempio, di

tracciare un triangolo sulla superficie della Terra. Possiamo applicare a tale

triangolo i teoremi della geometria piana? In primo luogo, la Terra non e piana

bensì sferica. Inoltre la superficie della Terra è assai diversa da quella di una sfera

perfetta, ma è piuttosto irregolare. Per almeno due aspetti, quindi, questo triangolo

tracciato sulla superficie della Terra non corrisponde al triangolo ideale della

geometria piana. Nell’uso del teorema matematico è perciò probabile si insinui, in

questo caso, qualche errore. Nella misura in cui il triangolo fisico si avvicina

all’ideale, le conclusioni della matematica si applicheranno anche ad esso.

Qualora non si riconosca chiaramente questo fatto, l’applicazione può condurre a

gravi errori.

La creazione della geometria euclidea fu qualcosa più dell’introduzione di

alcuni teoremi utili ed eleganti. Essa generò uno spirito razionale. Nessun’altra

creazione umana ha dimostrato, più delle centinaia di dimostrazioni di Euclide, in

quale misura la conoscenza umana possa derivare dal solo ragionamento. La

deduzione di questi numerosi e profondi risultati insegnò ai greci e alle civiltà

successive il potere della ragione e diede loro la fiducia nei risultati ottenibili

mediante questa facoltà. Incoraggiato da quest’evidenza, l’uomo occidentale fu

ispirato ad applicare la ragione anche altrove. Teologi, logici, filosofi, uomini

politici e tutti i ricercatori della verità imitarono la forma e il modo di procedere

della geometria euclidea.

Fra gli stessi greci, la matematica fu posta come la norma di tutte le scienze.

Aristotele, in particolare, insisté sulla tesi che ogni scienza deve consistere nella

dimostrazione deduttiva di verità da pochi princípi fondamentali stabiliti con un

qualche metodo adatto alla scienza e aventi la funzione degli assiomi della

geometria euclidea. Il motto, spesso ripetuto, che era scritto sull’ingresso

dell’Accademia “Non entri qui chi ignora la geometria” compendia questa

considerazione per la matematica.

L’uomo occidentale apprese dagli Elementi di Euclide come debba procedere

un ragionamento perfetto, in che modo si possa acquistare familiarità con esso e

come sia possibile distinguere il ragionamento esatto da vaghe declamazioni che

hanno solo la pretesa di essere dimostrazioni. Nel corso dello sviluppo della

geometria, i greci pervennero a riconoscere principi generali di ragionamento, fra

cui le leggi sillogistiche sono ora quelle più diffusamente note. Essi scoprirono

anche metodi generali per affrontare i problemi. Si attribuisce ad esempio a

Platone il merito di aver definito il metodo analitico, che parte dalla conclusione

desiderata e ne deduce conseguenze finché si arriva a un fatto noto. La

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dimostrazione corretta viene eseguita poi rovesciando le fasi esplorative. Il lettore

può sperimentare questo stesso metodo nella geometria euclidea cercando di

scoprire la dimostrazione di un teorema. Il metodo trascende ovviamente la

geometria. I geometri greci scoprirono anche, e se ne gloriarono, l’efficacia del

metodo indiretto di dimostrazione, consistente nello sviluppare le implicazioni di

varie alternative nell’attesa che tutte, meno quella giusta, portino a contraddizioni

e vengano così eliminate. I fondamenti logici su cui questo metodo poggia, noti ai

logici come principio di non contraddizione e del terzo escluso, furono formulati

da Aristotele.

La necessità di una definizione accurata, di assunti chiaramente formulati e di

dimostrazioni rigorose divenne evidente nel corso del lavoro sulla geometria.

Uomini come Socrate e Platone non soltanto posero l’accento su queste esigenze

ma contribuirono anche a rendere sempre più chiara e razionale la struttura della

matematica. In effetti, il grande esercizio nel campo della logica che la geometria

richiese ai greci condusse alla costruzione e alla sistematizzazione a opera di

Aristotele delle leggi di pensiero che sono oggi accettate e applicate da noi tutti.

Così la geometria greca può essere considerata una progenitrice della scienza

della logica.

Centinaia di generazioni, fino a poco tempo fa, hanno imparato come ragionare

studiando Euclide, un procedimento disapprovato da molti, secondo i quali

potremmo imparare la logica senza alcun bisogno di studiare la matematica.

L’argomento è altrettanto valido quanto l’affermazione che noi tutti possiamo

formarci il concetto di grandi dipinti e così ci sarebbero al mondo non meno

concetti di dipinti che dipinti stessi. Purtroppo però il concetto di un dipinto non

ha mai commosso nessuno.

L’importanza di Euclide trascende di gran lunga il valore che la sua opera può

avere come esercizio logico e come modello di ragionamento. Con lo sviluppo

della bella struttura e dell’elegante ragionamento geometrico, la matematica fu

trasformata da strumento per il progresso di altre attività in un’arte. Essa fu

apprezzata come tale dai greci. L’aritmetica, la geometria e l’astronomia

divennero per essi musica per l’anima e arte della mente.

Di fatto, nel pensiero greco riesce difficile separare interessi razionali, estetici e

morali. Leggiamo ripetutamente che la Terra dev’essere sferica perché la sfera ha

la forma più bella fra tutti i corpi ed è perciò divina e buona. Per la stessa ragione

Platone riteneva che il Sole, la Luna e le stelle fossero fissati rigidamente

ciascuno a una sfera in rotazione sul proprio asse attorno alla Terra. La traiettoria

di ogni corpo doveva inoltre essere un cerchio, poiché il cerchio condivideva il

fascino estetico con la sfera. Il cerchio e la sfera erano le traiettorie perfette che

rappresentavano l’ordine eterno, immutabile del cielo, in contrasto col moto in

linea retta, che dominava sul corpo imperfetto della Terra. Era stabilito, per

ragioni che erano anche estetiche e morali, che i corpi celesti si muovessero con

velocità uniforme, percorrendo distanze uguali in intervalli di tempo uguali.

Questo moto maestoso, regolare, uniforme era adatto ai corpi celesti. Di fatto,

sostenevano i pitagorici, non si può ammettere che i pianeti abbiano velocità

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incostanti: “anche nell’ambito umano, una tale irregolarità è incompatibile col

modo di agire ordinato di un aristocratico.” Le verità della poesia e le verità della

scienza erano una sola o, per parafrasare Aristotele, la finalità della natura e le sue

leggi segrete tendono tutte nella loro opera molteplice a una qualche forma di

bellezza.

La geometria, la filosofia, la logica e l’arte erano altrettante espressioni diverse

di un unico tipo di mente, di una visione dell’universo, ed è affascinante

ricostruire, come hanno fatto taluni storici, l’esistenza di caratteri comuni in tutte

queste fasi della cultura greca classica. Ad esempio, la natura chiara, trasparente e

semplice della geometria euclidea è una manifestazione matematica del medesimo

amore per la chiarezza e per l’ordine del disegno espressi dalle forme piane,

semplici, del tempio greco. Di un’infinita complessità è, al confronto, la cattedrale

gotica, con le sue innumerevoli strutture subordinate, interne ed esterne. Anche la

scultura greca del periodo classico è sorprendentemente semplice. Nessun

abbigliamento elaborato, nessun ornamento militare, fronzoli o abbellimenti

ingombrano la statua o distolgono dal tema principale.

Analogamente, le opere letterarie del periodo erano scritte in uno stile

semplice, chiaro, pratico, che faceva economia di immagini e di aggettivi. Per

percepire le qualità dello stile greco è sufficiente che mettiamo a confronto

l’usignolo il cui canto ha “magiche finestre incantate, aperte sulla spuma di mari

perigliosi, in paesi fatati sperduti nell’oblio” con l’uccello di Sofocle, il quale

“canta la sua chiara nota immerso in verdi radure ricoperte d’edera, protette tanto

dallo splendore del sole quanto dal soffio impetuoso dei venti.” La lucidità, la

semplicità e la misura erano gli ingredienti della bellezza. L’arte greca è l’arte

dell’intellettuale, l’arte di pensatori chiari ed è, di conseguenza, un’arte piana. La

geometria, l’architettura, la scultura e la letteratura raggiungono nondimeno una

bellezza e un’eleganza che trascendono la loro semplicità.

La geometria euclidea è descritta spesso come chiusa e finita. Questi aggettivi

sono usati in vari sensi. L’argomento è limitato, come abbiamo visto, a figure che

possano essere costruite con riga e compasso e a teoremi che possano essere

derivati da un insieme fissato di assiomi. Nessun nuovo assioma è introdotto nel

corso dell’esposizione. La geometria euclidea è finita anche nel senso che evita

l’infinito. La linea retta, ad esempio, non è considerata da Euclide nella sua

interezza. Egli dice che un segmento di linea può essere esteso quanto serve nelle

due direzioni, come se concedesse mal volentieri la necessità dell’estensione.

Analogamente, trattando dei numeri interi i greci consideravano quest’insieme

come potenzialmente infinito ossia infinito solo nel senso che a qualsiasi insieme

finito dato si possono aggiungere sempre altri numeri; essi non si sarebbero

occupati dell’intero insieme dei numeri interi come di un’entità in sé.

Queste caratteristiche di chiusura e di finitezza sono dominanti anche

nell’architettura greca. L’intera struttura di un tempio greco è piccola, a portata di

mano, completamente visibile all’osservatore. Essa suggerisce definitività,

compiutezza e precisione. L’occhio e la mente afferrano e racchiudono

immediatamente le sue proporzioni e la sua magnificenza. Il tempio greco può

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essere confrontato con quello gotico anche sotto questi punti di vista.

Quest’ultimo non è quasi mai visualizzato nella sua interezza. Esso sembra

perdersi in tutte le direzioni e sfuggire a una comprensione completa. Esso

suggerisce grandi distanze e, attraverso le sue guglie, un’aspirazione spirituale.

L’immaginazione ne viene stimolata e l’individuo è intimorito da visioni senza

fine di archi sfuggenti e da alti altari visibili negli oscuri interni come da lontano,

mentre gli spazi immensi evocano impressioni dell’invisibile. Il senso della

finitezza è vinto quando l’alta struttura inghiotte l’individuo e lo perde negli spazi

bui.

Nella scienza greca il concetto di infinità è poco capito e apertamente evitato. Il

tipo di movimento più semplice per i greci non è, come per noi, quello rettilineo,

perché la linea retta non è percepibile nella sua interezza; il moto in linea retta

non è mai compiuto. I greci preferivano il moto circolare. Il concetto di un

processo senza fine li atterriva ed essi si ritraevano dinanzi “al silenzio degli spazi

infiniti.”

Anche in filosofia l’infinito veniva evitato. I paradossi dell’infinito, in alcuni

dei quali ci imbatteremo più avanti, si dimostrarono ostacoli insormontabili per il

pensiero filosofico greco. Aristotele dice che l’infinito è imperfetto, non finito e

perciò inconcepibile. Esso è informe e confuso. Bene e male erano fondati, di

fatto, sulle nozioni del limitato e determinato da una parte e dell’indeterminato e

dell’infinito dall’altra. Le qualità limitate e definite davano agli oggetti carattere e

perfezione. Soltanto quando gli oggetti erano distinti e definiti avevano una natura

e un significato. “Nulla di grande entra nella vita dei mortali senza una sventura,”

dice Sofocle.

Un altro carattere della matematica greca si trova nell’intera cultura ellenica.

La geometria euclidea è statica. Le proprietà del mutamento di figura non sono

investigate. Le figure sono date invece nella loro interezza e sono studiate come

tali. La tranquilla atmosfera del tempio greco riflette questo tema. Ivi la mente e

lo spirito sono in quiete. Così anche nella scultura greca le figure sono statiche,

indifferenti, psicologicamente calme. Esse hanno la stessa eccitazione emotiva di

un triangolo equilatero. Il Discobolo di Mirone (tavola II), che sta per compiere

un tremendo sforzo fisico, è calmo e imperturbabile come il proverbiale inglese

che sta prendendo il tè.

È stato spesso sottolineato anche il carattere di staticità del dramma greco. In

esso l’azione si riduce pressoché a nulla. All’inizio della tragedia ci viene

presentato un racconto completo degli avvenimenti anteriori, i quali pongono un

problema o una situazione per i personaggi implicati, e il dramma si occupa di

conflitti mentali e di fatti minori che si risolvono in uno scioglimento quasi

previsto.

Unita alla qualità statica del dramma greco è un’altra caratteristica che si trova

anche nella geometria euclidea. Le tragedie greche sottolineano le opere del fato o

necessità. I personaggi sembrano privi di volontà o del potere di prendere

decisioni ma sono sospinti da forze oscure. Cosi Edipo è spinto inesorabilmente

all’incesto e al parricidio. L’azione del fato è stata paragonata alla costrizione

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insita nell’uso del ragionamento deduttivo, in cui il matematico non è libero di

scegliere le conclusioni che devono essere tratte dalle premesse ma è costretto ad

accettare le conseguenze necessarie.

Nell’arte, geometria e filosofia greche è presente un altro carattere importante

che, pur essendo associato in generale a tali discipline, lo è in modo preminente

presso i greci. Le loro opere riflettono il tentativo da essi compiuto di considerare

l’universo sub specie aeternitatis. Essi ricercavano la conoscenza di ciò che è

universale ed eterno e non di ciò che è individuale e fugace. La sfera matematica è

eterna e le sue proprietà matematiche dureranno per sempre. Perciò la conoscenza

della sfera è molto desiderabile. Le bolle e i palloncini dai vivaci colori, per

quanto affascinanti possano essere, non sono degni di attenzione perché

scoppieranno ben presto. Così anche l’arte greca del periodo classico si sforzava

di evocare e raffigurare le qualità fondamentali, essenziali non di uomini bensì

dell’uomo. Ciò che importava in ogni persona erano le qualità dell’umanità in

generale che essa dispiegava. Abiti, relazioni individuali e attività quotidiane

erano tutti particolari accidentali e banali. Nelle loro speculazioni filosofiche, i

greci si sforzavano anche di definire e comprendere la forma perfetta di concetti e

qualità, poiché il perfetto è per la sua stessa natura eterno. Lo Stato perfetto era

degno di contemplazione; la democratizzazione della società greca era

difficilmente riconosciuta come un problema serio.

La matematica di cui abbiamo fatto finora l’esposizione e la cultura che essa

riflette appartengono al periodo greco classico. Esse non esauriscono affatto i

contributi della “civiltà del paese dell’aurora” alla matematica e alla nostra vita e

pensiero, poiché dobbiamo ancora esaminare l’epoca, assai importante, che si

estende dal 300 a.C. circa al 600 d.C. Prima di voltar pagina, ricordiamo che il

periodo che stiamo lasciando creò la matematica nel senso in cui intendiamo il

termine ancor oggi. L’insistenza sulla deduzione come metodo di dimostrazione

esclusivo, la preferenza per l’astratto in opposizione al particolare e la scelta di un

sistema di assiomi estremamente fecondo e accettabilissimo determinarono il

carattere della matematica moderna, mentre l’intuizione e la dimostrazione di

numerosi teoremi fondamentali la misero sulla strada giusta. Alla matematica era

associata la luce, che si irraggiava in realtà ben oltre, della ragione umana, accesa

per la prima volta dai greci. I loro documenti matematici proclamarono la

supremazia della mente negli affari umani e quindi un nuovo concetto di civiltà.

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V. Col metro fra le stelle

È notte fonda; sulla buia cima

il solitario osservatore il cielo

scruta e il suo sguardo vede da lontano

globi che son com’isole di luce...

A una stella vagante dalla chioma

arruffata: “Ritorna fra mill’anni,

in una notte come questa,” dice.

La stella tornerà. Essa ingannare

fosse pur di una sola ora la scienza

non oserà o i suoi calcoli smentire.

Molti uomini saranno ormai passati

ma insonne nella torre sarà l’uomo

ad attenderne vigile il ritorno.

E se gli uomini tutti ormai periti

fossero, in vece loro della stella

la verità vigilerà il ritorno.

SULLY PRUDHOMME

Per almeno quattro millenni la civiltà egizia seguì un modello molto rigido.

Nella religione, nella matematica, nella filosofia, nel commercio e nell’agricoltura

ciascuno imitava i suoi predecessori. Nessuna influenza esterna venne a turbare la

tranquillità della vita e a modificare abitudini consolidate, Poi, nel 325 a.C. circa,

Alessandro Magno conquistò questo grande paese, così come la Grecia e il Vicino

Oriente, e procedette a ellenizzare le sue conquiste. Egli fondò la città di

Alessandria e trasferì la capitale del mondo antico da Atene a questa nuova citta;

poi la cultura conquistatrice fu a sua volta conquistata. Da una fusione di culture

con centro ad Alessandria apparve una nuova civiltà, che diede un contributo

assai significativo e caratteristico alla matematica e alla civiltà occidentale.

Alessandria divenne il centro di tutto il mondo antico, essendo collocata in

posizione ideale nel punto di congiunzione dell’Asia, dell`Africa e dell’Europa.

Nelle vie della città, egizi autoctoni entrarono in contatto e commerciarono con

greci, ebrei, persiani, etiopi, siri, romani e arabi. Aristocratici, cittadini e schiavi si

mescolavano in una folla variopinta, di cui nessuna città al mondo, neppure la

moderna New York, può offrire un esempio altrettanto eterogeneo.

In quest’importante centro convennero mercanti e uomini d’affari da tutti gli

angoli del mondo. Nel porto erano navi che trasportavano vini dall’Italia, stagno

dal Galles e ambra dalla Svezia. Dal porto uscivano navi in partenza per la foce

del Gange e per Canton. I mercanti alessandrini non soltanto diffusero la cultura

greca nel mondo ma portarono indietro ad Alessandria conoscenze che erano state

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acquisite in altri paesi. La città divenne quindi veramente cosmopolita, mentre le

ricchezze accumulate permisero l’espansione in varie direzioni; Furono eretti

splendidi edifici, statue, obelischi, mausolei, tombe, templi e sinagoghe. Agli

amanti del piacere, Alessandria offriva bazar, bagni, parchi, teatri, biblioteche, un

ippodromo, una pista per le corse e ricoveri per i ricchi.

Il merito di aver fatto di Alessandria il centro intellettuale del nuovo mondo

non va al fondatore della città, che morì mentre ancora era impegnato nelle sue

conquiste, bensì all’abilissimo Tolomeo I Sotere, il generale che assunse il

controllo dell’Egitto alla morte di Alessandro. Ben consapevole dell’importanza

culturale delle grandi scuole greche, come quelle fondate da Pitagora, da Platone e

da Aristotele, Tolomeo decise che Alessandria dovesse avere una scuola del

genere e che dovesse diventare il centro della cultura greca in questo nuovo

mondo. Egli eresse perciò una dimora delle Muse in cui venivano ospitati

studiosi.

Vicino al Museo, Tolomeo fondò una biblioteca destinata non soltanto a

preservare importanti manoscritti bensì anche a servire il pubblico. Si dice che

questa famosa biblioteca contenesse in un certo periodo 750.000 volumi. Il Museo

e la biblioteca costituivano insieme una sorta di università, anche se nessuna

università attuale può vantare il possesso di un numero di grandi intelletti così

elevato come quello degli ospiti del Museo.

Studiosi di tutti i paesi furono invitati ad Alessandria da Tolomeo e furono

sovvenzionati da lui. Nel Museo si raccolsero di conseguenza poeti, filosofi,

filologi, astronomi, geografi, fisici, storici, artisti e i matematici più famosi del

periodo alessandrino. Il gruppo principale di studiosi ospitati dal Museo era greco,

ma erano presenti anche membri distinti di molte altre nazioni. Fra i non greci il

più illustre era il dotto astronomo egizio Claudio Tolomeo.

Due fattori sembrano aver influito in modo vitale sul carattere della cultura che

sorse dal miscuglio di popoli e di studiosi e dall’allargarsi degli orizzonti fisici.

Gli interessi commerciali degli alessandrini, più vasti di quelli degli ateniesi,

portarono in primo piano problemi di geografia e di navigazione e diressero

l’attenzione verso i materiali, i metodi di produzione e il perfezionamento delle

abilità. In secondo luogo, poiché il commercio era praticato da uomini liberi, che

non erano socialmente segregati dagli studiosi, questi ultimi vennero a

conoscenza, trovandovisi anche implicati in prima persona, dei problemi che si

ponevano alla gente in generale. Gli studiosi furono quindi indotti ad associare i

fiorenti studi teorici con concrete investigazioni scientifiche e tecniche. I campi

tecnici furono studiati ed estesi; furono fondate scuole di addestramento e fecero

progressi la meccanica e altre scienze. Vennero coltivate con entusiasmo anche

arti disprezzate o ignorate nel periodo classico.

L’ingegnosità dei congegni meccanici inventati dagli alessandrini in risposta ai

nuovi interessi è sorprendente anche in relazione ai livelli moderni. Essi

progettarono clessidre ad acqua e meridiane perfezionate e le usarono con buoni

risultati in tribunale per fissare un limite di tempo alle arringhe degli avvocati.

Avevano ampia applicazione pompe, carrucole, cunei, taglie, ingranaggi e un

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congegno per la misurazione delle distanze non diverso da quello che si trova

nelle moderne automobili. Fra le invenzioni meccaniche c’erano nuovi strumenti

per le misurazioni astronomiche. Al matematico e inventore Erone (I secolo d.C.)

il periodo dovette una macchina automatica per spruzzare acqua santa che

funzionava introducendovi una moneta da cinque dracme. In modo simile

potevano essere fatti funzionare organi musicali. I templi riempivano di stupore il

pubblico con porte che si aprivano depositandovi monete.

Lo studio di gas e liquidi produsse un organo ad acqua, un cannone azionato da

aria compressa e un tubo per spruzzare fuoco liquido. I giardini pubblici furono

ornati da fontane con statue mobili messe in movimento dalla pressione

dell’acqua. La produzione di forza a vapore fu un altro sviluppo degli

alessandrini. Essa era usata per spingere automobili lungo le strade della città

nelle annuali parate religiose. Quando veniva prodotto da fuochi alimentati sotto

gli altari dei templi, il vapore animava gli dèi. Un pubblico intimorito osservava

dèi che sollevavano le mani per benedire gli adoratori, dèi che versavano lacrime

e statue che elargivano libagioni. Colombe meccaniche si libravano in aria e

discendevano per mezzo di un’azione inosservabile del vapore.

Gli alessandrini applicarono anche la conoscenza del suono e della luce a

congegni pratici. Il più spettacolare di questi dispositivi fu il grande specchio di

Archimede che concentrò i raggi del sole sulle navi romane che assediavano la

sua città natale, Siracusa. Si dice che le navi, sottoposte al calore intenso, si

incendiassero.

In contrasto con l’insegnamento gelosamente custodito e trasmesso solo

oralmente del periodo egizio precedente, i libri disseminarono liberamente il

nuovo sapere. Fortunatamente per gli alessandrini, il papiro egizio era meno caro

della pergamena, cosicché Alessandria divenne il centro del commercio librario

del mondo antico. Per la prima volta nella storia della scienza apparve qui

un’opera eccellente sulla scienza meccanica e metallurgica. I principi operanti nei

congegni azionati ad acqua e a vapore furono spiegati in trattati di pneumatica e di

idrostatica, mentre altri trattati spiegavano la costruzione di volte, di catapulte e di

gallerie. Geniali, per quell’epoca, erano le prescrizioni matematiche fornite da

Erone per lo scavo di gallerie sotto una montagna; l’applicazione delle norme

formulate da Erone consentiva di affrontare il lavoro da entrambe le parti e alle

due squadre impegnate nei lavori di incontrarsi a metà.

Nel mondo alessandrino la matematica aveva chiaramente un posto

importantissimo, ma non era la matematica nota agli scienziati della Grecia

classica. Nonostante quanto alcuni matematici possono dire circa la purezza del

loro pensiero e la loro indifferenza, o distacco, nei confronti dell’ambiente, il fatto

è che la civiltà ellenistica alessandrina produsse un tipo di matematica di carattere

quasi opposto rispetto a quella prodotta dal periodo greco classico. La nuova

matematica era pratica, mentre quella anteriore non aveva quasi alcun legame con

eventuali applicazioni. La nuova matematica misurava il numero dei granelli di

sabbia nell’universo e la distanza delle stelle più lontane, mentre la vecchia

matematica si rifiutava di misurare. La nuova matematica dava all’uomo la

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capacità di viaggiare per terra e per mare; la vecchia lo preparava a sedersi

immobile e a contemplare con l’occhio della mente le astrazioni immateriali del

pensiero filosofico. I grandi matematici alessandrini – Eratostene, Archimede,

Ipparco, Tolomeo, Erone, Menelao, Diofanto e Pappo –, pur manifestando quasi

senza eccezione il genio greco per le astrazioni teoriche, furono sempre pronti ad

applicare le loro capacità a problemi pratici necessariamente importanti nella loro

civiltà.

Esempio tipico del nuovo greco fu Eratostene (275-194 a.C.), direttore della

biblioteca di Alessandria e genio universale. Versato negli studi classici della

matematica, della poesia, della filosofia e della storia, manifestò un sapere

profondo anche nei campi della geodesia e della geografia. Eratostene non

soltanto raccolse e integrò tutte le conoscenze storiche e geografiche disponibili

ma disegnò carte dell’intero universo noto ai greci. Egli escogitò anche un modo

semplice per misurare il raggio della Terra e per rappresentare graficamente

grandi estensioni di terreno. Le misurazioni astronomiche e la costruzione di

strumenti astronomici contribuirono ad accrescere la sua fama.

Eratostene perfezionò anche il calendario. La maggior parte delle antiche

civiltà non erano state in grado di registrare eventi celesti non conoscendo l’esatta

durata dell’anno solare. Ad esempio un antico calendario greco, che derivava con

ogni probabilità dai babilonesi, era fondato su un anno di dodici mesi,

comprendente ciascuno trenta giorni. L’insufficienza di questo calendario divenne

manifesta quando date che dovevano designare in origine determinati eventi

astronomici, come un equinozio, venivano troppo presto o troppo tardi.

Naturalmente gli dèi avevano da obiettare contro una così cattiva amministrazione

dei loro affari. Aristofane ne ricorda le lagnanze, che vengono trasmesse dalle

Nubi:

La Luna, attraverso noi nubi, i suoi saluti vi invia,

ma vuole altresì che diciamo che molto male è trattata

e che inopportuno ritiene che ancora i suoi giorni a scompiglio

mettiate e volgiate sossopra; e che quanti sono gli dèi

(i quali conoscono bene i giorni dei loro banchetti)

a causa dei computi vostri sbagliati dal sacro convito

rimangono esclusi e lei Luna con aspri toni riprendono.

Il calendario di Eratostene prevedeva un anno di 365 giorni e un giorno

intercalare ogni quattro anni. Questo calendario fu adottato più tardi dai romani ed

è essenzialmente quello in uso ancor oggi. Eratostene insisté inoltre sulla

datazione di tutti gli eventi mediante il calendario, opponendosi alla precedente

pratica greca di datare un fatto dal numero delle Olimpiadi dopo la caduta di Troia

o dalla pratica comune in altre civiltà di datare con riferimento agli anni di regno

di un sovrano. Eratostene operò ad Alessandria finché, in vecchiaia, fu colto da

cecità; allora mise fine alla sua vita rifiutandosi di assumere cibo.

L’uomo la cui opera compendia nel modo migliore il carattere del periodo

alessandrino è Archimede, uno fra i massimi geni dell’Antichità. Benché nato a

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Siracusa, una città greca della Sicilia, studiò ad Alessandria. Tornato a Siracusa,

vi trascorse il resto della sua vita. Dotato di un intelletto sublime, caratterizzato da

una grande vastità di interessi sia pratici sia teorici, da una straordinaria abilità

meccanica e da una fertile immaginazione, superiore secondo Voltaire a quella di

Omero, fu grandemente rispettato e ammirato dai suoi contemporanei.

Le indicazioni più manifeste degli interessi pratici in Archimede ci sono date

dalle sue invenzioni originalissime. In gioventù costruì un planetario che

riproduceva i moti dei corpi celesti. Inventò una pompa per sollevare l’acqua da

un fiume; usò pulegge composte per il varo di una nave di Gerone di Siracusa; e

inventò ordigni militari e catapulte per proteggere Siracusa quando la città fu

attaccata dai romani. A quest’epoca applicò la proprietà di far convergere i raggi

di uno specchio curvo per incendiare le navi romane. Sviluppò anche l’uso della

leva per muovere grandi pesi.

Fra le sue scoperte scientifiche quella forse più famosa è il principio idrostatico

che va sotto il suo nome. È stato tramandato il racconto di come Archimede

sarebbe pervenuto alla sua scoperta. Il re di Siracusa aveva ordinato a un orefice

una corona d’oro. Quando la corona gli fu consegnata, Gerone sospettò che

all’oro fossero stati mescolati metalli più vili; perciò la mandò ad Archimede e gli

chiese di escogitare un metodo per verificarne il contenuto, naturalmente senza

distruggere la pregevole esecuzione. Archimede meditò sul problema e un giorno,

mentre stava facendo il bagno, osservò che il suo corpo era in parte sostenuto

dall’acqua. Subito afferrò il principio che gli avrebbe consentito di risolvere il

problema. Egli aveva scoperto che un corpo immerso nell’acqua riceve una spinta

dal basso all’alto pari al peso dell’acqua spostata. Potendosi misurare sia il peso

dell’acqua spostata sia il peso di un corpo in aria, il rapporto dei pesi è noto.

Questo rapporto è costante per un metallo dato qualunque sia la sua forma, e

differisce da metallo a metallo. Archimede non aveva dunque altro da fare che

determinare questo rapporto per un pezzo d’oro e confrontarlo poi col rapporto

risultante per la corona. La storia non ci ha purtroppo conservato l’esito di questo

confronto. Il principio scoperto da Archimede è fra le prime leggi universali della

scienza; egli lo incluse, insieme ad altri, nel suo libro Sui galleggianti.

Anche la sua opera teorica di matematica fu influenzata dallo spirito del

periodo alessandrino; egli dedicò infatti gran parte del suo tempo a problemi di

misurazione. Dimostrò che l’area di un cerchio è pari a metà della circonferenza

moltiplicata per il raggio (procedimento che dà la formula usuale r2) e determinò

poi il valore di . Il risultato di questi calcoli – che è compreso fra 3 1/7 e 3

10/71 fu in verità notevole per quell’epoca. Egli dimostrò anche molte altre

formule concernenti aree e volumi.

Sempre animato dallo spirito dell’epoca, Archimede intraprese un compito

ripugnante per i greci del periodo classico. Egli escogitò un sistema per esprimere

numeri grandissimi e, in un’esposizione finale del suo lavoro intitolata Arenario,

dimostrò come fosse possibile esprimere il numero di tutti i granelli di sabbia

contenuti nell’universo.

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Per quanto Archimede possa essere stato mosso dagli interessi pratici del suo

tempo, possedeva nondimeno l’amore tipico dei greci classici per la teoria

fondamentale. Fra tutti i risultati da lui ottenuti, era particolarmente orgoglioso di

un risultato teorico. Lo sappiamo dalla sua richiesta di iscrivere sulla sua tomba la

figura di una sfera, quella di un cilindro ad essa circoscritto e il rapporto 2/3.

Quest’episodio si riferisce alla sua grande scoperta che il rapporto del volume di

una sfera iscritta in un cilindro sta al volume del cilindro come due a tre, e che

anche il rapporto della superficie della sfera alla superficie del cilindro è di due a

tre.

La morte di Archimede, come la sua vita, compendia gli eventi del suo tempo.

Abbiamo già riferito che egli ricevette un’intimidazione da parte di uno dei soldati

romani che avevano appena preso Siracusa. Archimede era così assorto in

meditazione che non udì il soldato, il quale, non ricevendo risposta, lo uccise,

contravvenendo all’ordine che era stato impartito dal comandante romano,

Marcello, di non far nulla ad Archimede. Questi aveva allora settantacinque anni

ed era nel pieno possesso di tutte le sue facoltà. Quasi per riparare al misfatto, i

romani eressero ad Archimede una tomba molto elaborata su cui iscrissero il

famoso teorema cui abbiamo poco fa accennato.

Nel campo della matematica vera e propria, gli alessandrini crearono e

applicarono metodi di misurazione indiretta. I loro contributi più semplici in

questo campo furono formule per superfici e volumi di figure geometriche

particolari. Queste formule, sorprendentemente, non si trovano in Euclide poiché,

per quanto Euclide fosse vissuto all’inizio del periodo ellenistico, la sua opera

rappresentò di fatto la ricapitolazione e l’apogeo della matematica del periodo

classico. Che le aree di due triangoli simili stessero fra loro come i quadrati dei

lati corrispondenti era per Euclide di grande interesse, mentre che l’area di un

triangolo qualsiasi possa essere trovata direttamente moltiplicandone la base per

la metà dell’altezza ci è stato fatto conoscere dagli alessandrini.

L’introduzione di formule per aree e volumi è spesso sottovalutata. Come si

deve fare per trovare l’area di un pavimento? Si devono prendere quadratini di 10

cm di lato, disporli sull’intero pavimento e stabilire così che la sua area è di 10

metri quadrati, poiché questo è di fatto il significato di area? Ovviamente non si fa

così. Per ottenere l’area bisogna misurare lunghezza e larghezza, quantità di solito

facilmente determinabili, e poi moltiplicare fra loro i due numeri. Si tratta in

questo caso di una misurazione indiretta, poiché l’area è stata ottenuta misurando

lunghezze. È chiara l’estensione di quest’idea a volumi. Così anche le formule più

comuni della geometria che dobbiamo agli alessandrini e che ci consentono di

misurare con un procedimento indiretto aree e volumi, esprimendo queste quantità

in termini di lunghezze facilmente misurate, rappresentano un risultato pratico di

grandissima importanza.

Ma questo tipo di misurazione indiretta era in realtà un gioco da bambini per i

matematici ellenistici, i quali riuscirono infine a misurare indirettamente il raggio

della Terra, i diametri del Sole e della Luna e le distanze dalla Terra alla Luna, al

Sole, ai pianeti e alle stelle. Il fatto che si possano misurare siffatte lunghezze

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fisicamente inaccessibili e farlo, di più, con una precisione grande a piacere,

sembra, a tutta prima, incredibile. Non soltanto gli alessandrini trasformarono

quest’apparente impossibilità in realtà, ma lo fecero con una semplicità e con una

perfezione tali che non si sarebbero potute prevedere a questa data nello sviluppo

delle idee matematiche.

Quel settore della matematica che fu così genialmente applicato alla

rappresentazione grafica della Terra e del cielo fu creato nel II secolo a.C. da

Ipparco, il più grande astronomo del mondo antico. Alla base del sagace metodo

di Ipparco è un semplice teorema di geometria. Prima di considerare il teorema,

ricordiamo che due triangoli sono simili, per definizione, se gli angoli di uno sono

uguali, rispettivamente, agli angoli dell’altro. Per dimostrare che due triangoli

sono simili è sufficiente far vedere che due angoli di uno sono uguali,

rispettivamente, a due angoli dell’altro. Il terzo angolo dei due triangoli dovrà

allora essere uguale poiché in ogni triangolo la somma degli angoli è 180°. In

particolare, se ci occupiamo di triangoli rettangoli, poiché gli angoli retti dei due

triangoli sono uguali, per concludere che i triangoli sono simili sarà sufficiente

sapere che un angolo acuto dell’uno è uguale a un angolo acuto dell’altro.

Il teorema applicato da Ipparco afferma che, se due triangoli sono simili, il

rapporto fra le lunghezze di due lati di un triangolo è uguale al corrispondente

rapporto dell’altro. Così, se i triangoli ABC e A'B'C' sono simili (fig. 11), allora

BC/AB è uguale a B'C'/A'B'. Se i triangoli ABC e A'B'C' sono rettangoli e se

l’angolo A è uguale all’angolo A', allora, in considerazione della conclusione del

precedente paragrafo, sappiamo che i due triangoli sono simili. Possiamo perciò

affermare, con Ipparco, che il rapporto del lato opposto all’angolo A

all’ipotenusa del triangolo dev’essere lo stesso in ogni triangolo rettangolo

contenente l’angelo A. Questo rapporto di BC ad AB è così importante che gli è

stato dato il nome specifico di seno, e poiché il rapporto dipende dal valore

dell’angolo A si scrive sen A. Cosi, per definizione,

sin A =BC

AB=

lato opposto all′angolo A

ipotenusa

Fig. 11. Due triangoli rettangoli simili.

La discussione che dimostra che sen A è uguale in tutti i triangoli rettangoli

contenenti l’angolo A potrebbe essere applicata ad altri rapporti formati dai lati di

un triangolo rettangolo contenente A. Ad esempio, i rapporti

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cosin A =AC

AB =

lato adiacente all′angolo A

ipotenusa

e

tg A =BC

AC =

lato opposto all′angolo A

lato adiacente all′angolo A

sono uguali in tutti i triangoli rettangoli contenenti l’angolo A.

Possiamo vedere ora in che modo questi rapporti venissero usati da Ipparco per

misurare la Terra e il cielo. Il primo passo consiste nel trovare l’altezza di una

montagna. Per semplificare in qualche misura il problema supporremo che la

montagna abbia un fianco perpendicolare, BC nella figura 12, col punto C

esattamente al piede della montagna. Misuriamo dapprima sul terreno la distanza

facilmente accessibile AC e otteniamo, ad esempio, la lunghezza di dieci

chilometri. Misuriamo allora l’angolo A e sia, ad esempio, 17°. Possiamo dire

allora, tenendo a mente il significato dell’espressione tangente A, che

𝑡𝑔 17° = 𝐵𝐶

𝐴𝐶

Poiché AC è uguale a 10,

𝑡𝑔 17° = 𝐵𝐶

10

,

e, moltiplicando entrambi i membri di quest’uguaglianza per 10, apprendiamo

che

𝐵𝐶 = 10 × 𝑡𝑔 17 °

Se conosciamo la tg 17° potremmo ottenere immediatamente BC. Ora, tg 17°

ha lo stesso valore in tutti i triangoli rettangoli contenenti quest’angolo. Perciò,

per determinare questa quantità, possiamo scegliere il triangolo per noi più

conveniente.

Fig. 12. Calcolo dell’altezza di una montagna

Un falegname otterrebbe questa quantità molto semplicemente, costruendo un

piccolo triangolo rettangolo avente un angolo acuto di 17°, misurando i lati

opposto e adiacente, e calcolando poi il rapporto dei due lati. Un matematico

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seguirebbe un procedimento più sofisticato, e più esatto. Ipparco, essendo un

matematico oltre che un astronomo, escogitò un metodo per calcolare questi

rapporti per qualsiasi triangolo rettangolo ed elencò i risultati in tavole famose che

egli trasmise ai suoi successori e che sono ora incluse nei libri di testo.

Non abbiamo bisogno di seguire i calcoli di Ipparco nei particolari. Quel che ci

importa è che è possibile calcolare questi rapporti con tutta la precisione che

possiamo desiderare. Da questi calcoli sappiamo che tg 17° è, fino al quarto

decimale, 0,3057. Perciò BC, che è 10 tg 17°, è 3,057 chilometri. L’altezza di

una montagna può dunque esser trovata senza bisogno di riportare su di essa un

metro rigido.

Vediamo ora in che modo questo risultato possa essere usato per misurare le

dimensioni della Terra. Ricordiamo innanzitutto che i greci colti pensavano che la

Terra avesse forma perfettamente sferica. Benché questa conclusione fosse stata

ottenuta mediante argomentazioni di carattere estetico e filosofico più che

attraverso la circumnavigazione, era nondimeno una convinzione radicata

profondamente. Perciò la quantità essenziale che doveva essere misurata era il

raggio della sfera

Fig. 13. Calcolo del raggio della Terra.

Per misurare questa lunghezza possiamo procedere come segue. Saliamo su una

montagna, alta per esempio 4830 metri, e guardiamo verso l’orizzonte. Misuriamo

poi, con un qualsiasi strumento a nostra disposizione, 1’angolo compreso fra la

nostra linea visuale e la verticale, nella figura 13 l’angolo CAB. Quest’angolo

risulterà essere approssimativamente 87° 46’. Disponendo di questa misura

possiamo completare il diagramma nel modo indicato; r è il raggio della Terra. In

questa figura il raggio BC è perpendicolare alla linea visuale AC poiché AC è

tangente alla superficie della Terra e, secondo un teorema della geometria

euclidea, un raggio di un cerchio condotto al punto di tangenza di una tangente è

perpendicolare a tale tangente. Ora, seguendo Ipparco, prendiamo nota del

rapporto del lato opposto all’angolo da noi misurato all’ipotenusa del triangolo

rettangolo. Nei simboli del nostro diagramma, questo rapporto è 𝑟

𝑟+4830. Questo

rapporto è anche il sen A o sen 87° 46’. Perciò

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sen 87° 46’ = 𝑟

𝑟+4830 .

Avendo Ipparco già calcolato i rapporti dei seni, sapeva che sen 87° 46’ è, fino

a cinque decimali, 0,99924. Vediamo perciò che

0,99924 = 𝑟

𝑟+4830 .

Con un’operazione di algebra semplicissima, quale noi tutti abbiamo imparato

nella scuola media, è facile risolvere quest’equazione per r e ottenere per il raggio

della Terra il valore di km 6350. La precisione di questa misura potrebbe essere

accresciuta misurando l’angolo in questione fino al livello dei secondi.

Il lettore che trovi tediose queste poche righe dovrebbe tener presente che il

metodo descritto è un’alternativa allo scavo di una galleria fino al centro della

Terra e alla misurazione del raggio mediante l’applicazione di un regolo dal

centro alla superficie.

Fig. 14. Calcolo della distanza Terra-Luna.

Vediamo ora in che modo Ipparco trovò la distanza dalla Terra alla Luna o, più

esattamente, dal centro della Terra al centro della Luna. La nostra descrizione è

un po’ semplificata ma contiene l’essenziale del metodo di Ipparco. Supponiamo

che il calcolo sia fatto all’epoca in cui la linea che congiunge il centro della Terra

e il centro della Luna, la linea AB nella figura 14, intersechi la superficie della

Terra in un punto sull’equatore. Possiamo immaginare poi una linea tracciata da B

alla superficie della Terra in modo che sia esattamente tangente alla superficie,

diciamo in C. Ora, secondo il teorema di geometria citato sopra, la linea AC, che

rappresenta il raggio della Terra condotto al punto di tangenza C sulla superficie,

forma con la tangente in C un angolo retto. L’angolo CAB della nostra figura è la

latitudine di C. Per inciso, fu proprio Ipparco a fondare il sistema di individuare

punti sulla superficie della Terra per mezzo della latitudine e della longitudine, il

sistema usato universalmente ancor oggi. Ipparco conosceva dunque la latitudine

di C. Egli conoscenza anche CA, il raggio della Terra. Poteva dunque argomentare

che

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cosin 𝐴 = 𝐴𝐶

𝐴𝐵.

Un valore ragionevole per A nella figura qui sopra è 89° 3’; le tavole di Ipparco

gli dicevano inoltre che cosen 89° 3’ = 0,01658. La distanza AC, il raggio della

Terra, risultò di circa 6360 chilometri. Perciò

0,01658 =6360

𝐴𝐵.

Moltiplicando entrambi i membri di quest’equazione per AB e poi dividendoli

entrambi per 0,01658, otteniamo

𝐴𝐵 =6360

0,01658= 383 594.

La distanza dal centro della Terra al centro della Luna è dunque di circa

383.600 chilometri.

Uno sguardo all’indietro ci rivela che, partendo da una distanza facilmente

misurabile sulla superficie della Terra, siamo in grado di calcolare

successivamente l’altezza di una montagna, il raggio della Terra e la distanza

della Luna. Con queste conoscenze e col metodo di Ipparco potremmo procedere

a calcolare le distanze del Sole, di tutti i pianeti e delle stelle. Di fatto, Ipparco

esegui un gran numero di calcoli astronomici. La semplicità e, nello stesso tempo,

le grandi possibilità di applicazione della trigonometria dovrebbero essere

evidenti.

La matematica creata da Ipparco al fine di misurare la Terra e il cielo è usata da

allora per risolvere numerosi problemi pratici. Agrimensori, naviganti e cartografi

la usano costantemente. Di fatto, grazie all’efficacia dei metodi di Ipparco e di

altri metodi matematici qui non illustrati, i greci alessandrini fecero della

cartografia una scienza. Le loro carte offrirono la migliore conoscenza della Terra

fino al tempo delle grandi esplorazioni, nel Quattrocento e Cinquecento.

Fortunatamente, per le generazioni successive, l’astronomo Tolomeo compendiò

tutte le conoscenze geografiche accumulate dal mondo antico nella sua Geografia,

un’opera in otto volumi. Quest’opera diede la latitudine e la longitudine di circa

8000 località e fu il primo atlante e dizionario geografico del mondo.

La trigonometria è un esempio eccellente di un settore della matematica

l’investigazione del quale fu motivata da interessi sia pratici sia intellettuali:

agrimensura, cartografia e navigazione da un lato e curiosità circa le dimensioni

dell’universo dall’altro. Con essa i matematici alessandrini sottoposero a

triangolazioni l’universo e diedero precisione alla loro conoscenza sulla Terra e il

cielo. Essi procedettero poi a trarre partito da quest’opera in un modo su cui

riferiremo nel prossimo capitolo.

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VI. La natura acquista la ragione

SOCRATE. Benissimo. Cominciamo facendo una domanda.

PROTARCO. E quale?

SOCRATE. Dobbiamo affermare, Protarco, che tutte le cose e

quello che chiamiamo “universo” siano guidati

dall’irrazionale e dal caso o, al contrario, come affermavano

quelli prima di noi, che l’universo è ordinato e guidato da

una meravigliosa intelligenza e sapienza?

PROTARCO. Del tutto diverse, eccellente Socrate, sono le due

asserzioni, tanto che ciò che dicevi poco fa mi sembra una

bestemmia. Dire invece che la mente ordina tutte le cose è

degno della visione che abbiamo del mondo...

PLATONE, Filebo

Le persone che vogliono creare devono essere innanzitutto disposte a sognare.

Poiché i greci dotati di una mente filosofica concedevano spesso alle loro

speculazioni di scivolare nel sogno, essi furono ricompensati con una capacità

profetica di intuizione quale l’uomo non ha mai più raggiunto. La visione si

dimostrò così straordinaria da guidare la vita intellettuale di tutti i greci. Per la

civiltà occidentale il seguito fu molto significativo.

In parte la suddetta visione è ordinata in modo razionale; tutti i fenomeni

naturali seguono un piano preciso e invariabile. La visione rivelò anche che la

mente è il potere supremo e che perciò il piano della natura può essere reso

intelligibile dall’applicazione della mente agli eventi dell’universo.

I greci proiettarono il loro sogno nella realtà e divennero il primo popolo dotato

dell’audacia e della genialità di dare spiegazioni ragionate di fenomeni naturali.

L’impulso dei greci alla comprensione aveva in sé l’eccitazione di una ricerca e di

un’esplorazione. E mentre esploravano redigevano carte, come la geometria

euclidea, in modo che altri potessero trovare rapidamente la via che conduceva

alle frontiere raggiunte e contribuire alla conquista di nuove regioni.

Le civiltà anteriori, e particolarmente quella babilonese e quella egizia,

avevano compiuto innumerevoli osservazioni e avevano ottenuto molte utili

formule empiriche. Ma benché dovessero avere scoperto prove dell’esistenza di

un ordine in natura, non concepirono teorie generali e sognarono appena

dell’esistenza di un piano generale. Le complesse e varie azioni e reazioni in

natura celarono loro ogni indicazione di piano, di ordine e di legge. La natura

appariva e rimaneva capricciosa, misteriosa, e spesso terrificante. I greci

vedevano le cose in modo diverso. Spronati dal loro desiderio di conoscenza e dal

loro amore per la ragione, questi protagonisti del potere della mente confidavano

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che un esame delle vie seguite dalla natura avrebbe rivelato l’ordine presente nel

mondo fisico.

La ricerca di un’interpretazione razionale della natura fu condotta innanzi

attivamente nei tempi più antichi della civiltà greca. Fu tipica la cosmologia di

Talete, il quale sosteneva che ogni cosa è in ultima analisi acqua e che bruma e

terra sono forme d’acqua. Egli credeva che l’universo fosse una massa d’acqua

con in mezzo una bolla; questa sarebbe il nostro mondo, con la terra galleggiante

sul fondo della bolla, mentre la pioggia proverrebbe dall’acqua di sopra. I corpi

celesti sarebbero acqua in uno stato incandescente; essi galleggerebbero

sull’acqua circostante la bolla. Mentre per gli egizi e per i babilonesi le stelle

erano divinità, per Talete erano il vapore di una pentola. Con la sua teoria sulla

costruzione dell’universo, Talete assunse un punto di vista estremamente

moderno. Egli non sostenne che la sua spiegazione descrivesse necessariamente la

realtà ma la presentò perché organizzava le osservazioni in uno schema razionale.

Tali analisi di fenomeni naturali sembrano superficiali e infantili se confrontate

con la complessità e la relativa profondità di teorie scientifiche moderne. Talete e

i filosofi ionici andarono nondimeno molto oltre il pensiero delle civiltà anteriori.

Questi uomini osarono quanto meno affrontare lo studio dell’universo e

rifiutarono ogni aiuto da dèi, spiriti, demoni, angeli o altri agenti inaccettabili a

una mente razionale. Le loro spiegazioni, essenziali e obiettive, scalzarono i

racconti mitici e sovrannaturali e la loro impostazione ragionata screditò le

spiegazioni fantastiche e acritiche dei poeti. Brillanti intuizioni scandagliarono la

natura dell’universo e la ragione le difese.

Con l’avvento dei pitagorici il programma della razionalizzazione della natura

si assicurò l’aiuto della matematica. I pitagorici furono colpiti dal fatto che

fenomeni fisicamente assai diversi presentano proprietà matematiche identiche.

La Luna e una palla di gomma hanno la stessa figura e hanno in comune tutte le

altre proprietà delle sfere. Analogamente un bidone delle immondizia e una botte

di ottimo vino possono avere lo stesso volume. Non è dunque evidente che al di

sotto delle diversità sono presenti relazioni matematiche e che queste devono

essere l’essenza dei fenomeni?

Per l’esattezza, i pitagorici trovarono quest’essenza nel numero e nelle relazioni

numeriche. Il numero era il primo principio nella spiegazione della natura e fu la

materia e la forma dell’universo. Filolao, un celebre pitagorico del V secolo a.C.,

disse: “Se non fosse per il numero e per la sua natura, nulla di ciò che esiste

sarebbe chiaro ad alcuno né in sé né in relazione ad altre cose... Si può osservare

che il potere del numero si esercita non soltanto negli affari dei demoni e degli dèi

ma in tutti gli atti e i pensieri degli uomini in tutti i lavori artigianali e nella

musica.”

La riduzione della musica, ad esempio, a semplici relazioni fra numeri divenne

possibile per i pitagorici quando essi scoprirono due fatti: primo, che il suono

causato da una corda pizzicata dipende dalla lunghezza della corda; e secondo,

che suoni armonici sono emessi da corde le cui lunghezze stanno fra loro come i

rapporti di numeri interi. Un suono armonico è emesso ad esempio pizzicando due

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corde ugualmente tese di cui una sia lunga il doppio dell’altra. L’intervallo

musicale fra le due note è ora chiamato un’ottava. Un’altra combinazione

armonica è formata pizzicando due corde le cui lunghezze stiano fra loro nel

rapporto di 3 a 2; in questo caso la corda più corta dà una nota chiamata la quinta

sopra quella data dalla più lunga. Di fatto, le lunghezze relative in ogni

combinazione armonica di corde pizzicate possono essere espresse come rapporti

di numeri interi.

I pitagorici ridussero a rapporti numerici anche i moti dei pianeti. Essi

ritenevano che i corpi che si muovono nello spazio producano suoni e che un

corpo che si muove velocemente emetta una nota più alta di un corpo che si

muova lentamente. Queste idee furono suggerite forse dal fischio di un oggetto

fatto ruotare velocemente all’estremità di una corda. Secondo l’astronomia

pitagorica, quanto maggiore è la distanza di un pianeta dalla Terra tanto più

veloce è il suo movimento. I suoni prodotti dai pianeti varierebbero perciò con la

loro distanza dalla Terra e sarebbero tutti armonici. Ma quest’“armonia delle

sfere”, come ogni armonia, si riduceva a semplici relazioni numeriche; lo stesso

vale anche per i moti dei pianeti.

Oltre a questi elementi più “sostanziali” della loro filosofia, i pitagorici

attribuirono affinità o interpretazioni molto interessanti ai singoli numeri. Essi

identificarono il numero uno con la ragione, poiché la ragione potrebbe produrre

solo un tutto coerente; il due fu identificato con l’opinione; il quattro con la

giustizia, essendo il primo numero che è il prodotto di due numeri uguali (per i

pitagorici l’uno non era un numero in senso pieno poiché l’unità era contrapposta

alla quantità); il cinque significava il matrimonio, essendo l’unione del primo

numero pari e del primo numero dispari; il sette era identificato con la salute, e

l’otto con l’amore e l’amicizia. Perché i pitagorici pensavano al quattro come a

quattro punti disposti a formare un quadrato e identificavano il quattro con la

giustizia, l’associazione del quadrato e della giustizia continua ancor oggi. Lo

square-shooter, in inglese, è ancor oggi l’uomo che agisce secondo giustizia.

Tutti i numeri pari erano considerati femminili, mentre i numeri dispari erano

considerati maschili. Da queste associazioni seguiva che i numeri pari

rappresentavano il male e i numeri dispari il bene. La difficoltà, con i numeri pari,

era che consentivano la bisezione in più e più numeri pari, come il 2 in l e l, il 4 in

2 e 2, l’8 in 4 e 4 e così via. Il processo della bisezione continua suggeriva

l’infinito, un pensiero orribile per i greci, i quali preferivano il definito e limitato.

I numeri dispari, d’altra parte, impedivano ai numeri pari di proseguire all’infinito

il processo di bisezione; essi impedivano ai numeri pari di frantumarsi. Essi stessi

inoltre resistevano alla bisezione poiché essa conduceva, nel caso di un numero

dispari, a volgari frazioni improprie.

Un numero era perfetto se era uguale alla somma dei suoi divisori, come 6 = 1

+ 2 + 3. Due numeri erano “amici” se l’uno era la somma dei divisori dell’altro.

Cosí 220 e 284 erano amici, come si vede facilmente se si controllano i loro

divisori. Tali numeri venivano scritti su pallottoline che venivano mangiate come

afrodisiaci. Il numero ideale era 10 perché era la somma dei numeri interi

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consecutivi 1, 2, 3 e 4. E poiché il 10 era ideale, i corpi mobili in cielo dovevano

essere in numero di 10. I pitagorici riuscivano a render conto facilmente di 9 corpi

celesti, poiché ritenevano che la Terra, il Sole, la Luna, la sfera delle stelle e gli

altri cinque pianeti noti a quell’epoca si muovessero attorno a un fuoco centrale

fisso. Essi asserivano l’esistenza di un decimo corpo mobile, che chiamavano

l’Antiterra. Questo corpo si trovava sempre dal lato del fuoco centrale opposto

alla Terra e perciò non era visibile. Il carattere ideale del 10 richiedeva anche che

ogni oggetto nell’universo fosse descrivibile in termini di 10 coppie di categorie,

come pari e dispari, limitato e illimitato, destro e sinistro, uno e molteplice,

maschio e femmina e buono e cattivo.

Queste stravaganze speculative dei pitagorici sono, in grande misura, vane,

ascientifiche e inutili. La loro ossessione dell’importanza del numero li indusse a

costruire una filosofia naturale che certamente aveva ben poche corrispondenze

con la natura. Purtroppo una parte di questa filosofia fu tramandata all’Europa

medievale, dove fu resa sacrosanta dal misticismo religioso. Nondimeno la tesi

principale dei pitagorici, ossia che la natura dovrebbe essere interpretata nei

termini di numeri e relazioni numeriche, che il numero è l’essenza della realtà,

domina la scienza moderna. La tesi pitagorica fu fatta rinascere e fu affinata

nell’opera di Copernico, di Keplero, di Galileo, di Newton e dei loro successori

ed è rappresentata oggi dalla tesi che la natura dev’essere studiata

quantitativamente. Questi scienziati relativamente moderni adottarono varie altre

convinzioni pitagoriche, ossia che l’universo è ordinato secondo perfette leggi

matematiche, che la ragione divina è l’organizzatrice della natura e che la ragione

umana, scandagliando la natura, cerca di discernerne il disegno divino. Vedremo

che proprio a questa filosofia va riconosciuto il merito del successo della scienza

moderna e che infine le relazioni numeriche hanno soppiantato la geometria, alla

quale i greci avevano concesso una posizione di privilegio.

Il principale pitagorico, subito dopo Pitagora, fu Platone, il quale condivideva

la convinzione che la realtà e l’intelligibilità del mondo fisico fossero accessibili

solo attraverso la matematica, poiché “Dio geometrizza eternamente.” Platone si

spinse oltre la maggior parte dei pitagorici. Egli desiderava non soltanto

comprendere la natura attraverso la matematica ma trascendere la natura al fine di

comprendere quel mondo ideale, matematicamente organizzato, che egli riteneva

fosse la realtà vera. Il sensibile, il caduco, l’imperfetto dovevano essere sostituiti

dall’astratto, eterno, perfetto. Egli sperava che pochi sguardi penetranti al mondo

fisico fornissero verità essenziali che avrebbero potuto essere poi sviluppate dalla

ragione, senza l’aiuto di ulteriori osservazioni. Da questo momento in avanti la

natura sarebbe stata sostituita interamente dalla matematica. Di fatto, egli criticò i

pitagorici perché investigavano i numeri delle armonie acustiche ma non erano

mai pervenuti alle armonie naturali dei numeri stessi. Egli dichiarò che il mero

studio dei suoni in quanto tali era inutile, mentre la riflessione su numeri

armonici, se perseguita avendo in vista il bello e il bene, aveva un valore

elevatissimo.

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L’atteggiamento di Platone nei confronti dell’astronomia illustra la sua

concezione di ogni tipo di scienza della natura. Secondo Platone la vera

astronomia non si occupa dei movimenti dei corpi celesti visibili. La disposizione

delle stelle in cielo e i loro moti apparenti sono in realtà meravigliosi e belli da

contemplare ma la mera osservazione e spiegazione dei moti non riguardano la

vera astronomia. Prima di poter attingere a quest’ultima, “dobbiamo lasciar stare

il cielo”, poiché la vera astronomia si occupa delle leggi del moto di stelle vere in

un cielo matematico di cui il cielo visibile è solo un’espressione imperfetta. Egli

incoraggiò la devozione a un’astronomia teorica i cui problemi affascinano la

mente, non l’occhio. La navigazione, il calendario e la misura del tempo erano

evidentemente estranei all’astronomia di Platone.

Non c’è dubbio che la riluttanza di Platone a osservare e a sperimentare

ostacolò lo sviluppo della scienza greca e generò una fiducia eccessiva sul potere

della mente di afferrare verità fondamentali e dedurne conseguenze logiche. Quel

che di buono conseguì a questa concezione della scienza naturale fu nondimeno di

valore inestimabile. Essa produsse il primo piano magistrale di quello stesso cielo

che preferiva lasciar stare.

I greci di questo periodo avevano osservato ciò che chiunque abbia cura di

registrare graficamente i moti dei pianeti può vedere. Visto dalla Terra, il loro

modo di procedere in cielo è disordinato e non c’è nulla che sembri ricondurlo a

una regola. Essi avanzano e retrocedono. Di fatto questi vagabondi del cielo (il

vocabolo pianeta significa in greco “viandante”) si rifiutano apparentemente di

seguire alcun corso ordinato.

Ora, una cosa è osservare e registrare accuratamente i moti dei pianeti come

avevano fatto per secoli gli egizi e i babilonesi, che erano semplici osservatori, e

una cosa del tutto diversa, e che segnava di fatto un grande passo avanti, era

chiedersi se non fosse possibile una teoria unificatrice dei moti dei corpi celesti

che rivelasse un piano al di là delle apparenti irregolarità. È questo il problema

che Platone propose all’Accademia, ossia escogitare uno schema matematico che,

attribuendo ai pianeti movimenti sistematici, riuscisse a render ragione del

disordine apparente dei loro moti quali ci si presentano. Egli descrisse il

problema, in un’espressione divenuta famosa, come “salvare i fenomeni (le

apparenze).”

Fig. 15. Abbozzo del sistema di Eudosso.

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La risposta al problema data da Eudosso, un discepolo dello stesso Platone, a

sua volta un grande maestro e uno fra i più importanti matematici greci, è la prima

importante teoria astronomica nota alla storia e segna un deciso progresso nel

programma di razionalizzare la natura.

Lo schema di Eudosso usava una serie di sfere concentriche al cui centro era la

Terra immobile. Per render ragione del moto complesso di ogni corpo, Eudosso

supponeva innanzitutto che esso fosse fissato a una sfera rotante con velocità

uniforme attorno a un asse passante per la Terra. Così il pianeta P (fig. 15) è

fissato alla sfera la cui sezione trasversale è AMB; questa sfera ruota attorno

all’asse AB. Eudosso immaginò poi quest’asse AB prolungato oltre A e B fino a

terminare su una seconda sfera, nei punti C e D nella figura 15, ai quali si

assumeva fosse fissato rigidamente. Si supponeva che questa seconda sfera

ruotasse a sua volta su un proprio asse, GF nella figura 15, trasportando nel

proprio moto il primo asse e la sfera ruotante su esso. Poiché due sfere non erano

sufficienti a descrivere il moto di ogni corpo celeste, Eudosso supponeva che

l’asse della seconda sfera venisse prolungato a sua volta nelle due direzioni fino a

raggiungere una terza sfera, la quale ruotava a sua volta su un proprio asse. Nel

caso dei pianeti, Eudosso usò quattro sfere ciascuno. Le velocità di rotazione e i

raggi di queste sfere erano adattati da Eudosso ai moti osservati dei pianeti stessi.

È ovviamente difficile farsi un’immagine visiva della traiettoria che ogni corpo

assumerebbe in seguito alla combinazione della rotazione di due o tre sfere. I moti

complicatissimi che ne risultano furono però precisamente quelli di cui Eudosso

aveva bisogno per descrivere le traiettorie dei cinque pianeti, del Sole, della Luna

e delle stelle quali apparivano dalla Terra. Per l’intero sistema era sufficiente un

totale di 27 sfere.

Il sistema di Eudosso per descrivere e predire i moti dei corpi celesti,

apparentemente vagabondi, era geniale e fece un’impressione enorme ai greci.

Esso introdusse in natura un ordine matematico e, nello stesso tempo, mise in

evidenza il potere della mente umana di concepire un tale ordine. È anche degno

di nota il fatto che Eudosso concepì il suo sistema come puramente matematico,

non attribuendo alle sfere alcun significato fisico. Esse erano fittizie e l’intero

progetto era solo una teoria destinata a salvare i moti osservati.

La costruzione di Eudosso non fu l’ultima parola nell’ambito dell’astronomia

greca. Vedremo fra poco che essa fu soppiantata da una teoria superiore. Ma

prima di abbandonare il periodo classico della cultura greca dobbiamo citare

un’altra prova significativa che questo periodo aveva accumulato a conferma della

razionalità della natura. I greci classici non avevano bisogno di scrutare lo spazio

per concludere che la natura era stata progettata matematicamente. Essi non

avevano da far altro che riflettere sul significato della geometria euclidea.

Euclide aveva iniziato la sua geometria con dieci assiomi. Alcuni di essi, come

quello che uguali aggiunti a uguali danno uguali, sono accettabili

immediatamente. Altri, come quello che due punti possono essere uniti da una e

una sola linea retta, furono suggeriti dall’osservazione del mondo fisico. Una

volta posti questi assiomi, i teoremi venivano dedotti con l’azione della sola

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mente. Ognuno delle centinaia di teoremi contenuti negli Elementi avrebbe potuto

essere dedotto da un Euclide seduto con gli occhi bendati in una torre d’avorio.

Nondimeno, ogni volta che uno di questi teoremi veniva applicato a una

situazione fisica, si trovava che esso la descriveva perfettamente. Il teorema

forniva una conoscenza precisa e attendibile proprio come se fosse stato inferito

direttamente dalla situazione. Che cosa avrebbero dovuto concludere i greci dal

fatto che un teorema, dedotto con un ragionamento puro implicante centinaia di

deduzioni successive dagli assiomi, si applicava perfettamente alla natura? Tale

fatto non dimostrava forse che la natura era stata progettata in accordo a un piano

razionale, che la natura si conformava a un intero corpo di conoscenza ragionata?

Non era questa una prova schiacciante dell’esistenza di un piano?

I greci studiarono numerosi altri fenomeni fisici e trovarono l’evidenza del

piano e della struttura matematica della natura. Illustriamo tale successo con un

esempio tratto dal campo dell’ottica.

Euclide scopri che l’angolo con cui un raggio di luce colpisce uno specchio è

sempre uguale all’angolo con cui ne viene riflesso; ossia l’angolo 1 è uguale

all’angolo 2 nella figura 16. Questo fatto, spesso descritto con la frase che

l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione, rivela legge e

comportamento matematico nel comportamento della natura.

Fig. 16. L’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione.

In questo fenomeno di ottica è implicita una seconda legge matematica.

Abbiamo già osservato in un altro contesto che se A e B sono due punti quali si

vogliano da un lato di una linea, allora, fra tutti i percorsi che vanno dal punto A

alla linea e di qui al punto B, il percorso più breve è quello che si ha quando il

punto è scelto in modo tale che i due segmenti AP e PB formino con la linea

angoli uguali.

E questo percorso più breve è esattamente quello seguito dalla luce.

Evidentemente dunque la natura conosce bene la geometria e la usa a suo

vantaggio.

Se i greci del periodo classico avevano prove eccellenti del piano matematico

della natura, i greci alessandrini avrebbero potuto sostenere, con ogni

giustificazione, di averne una dimostrazione incontrovertibile. La realizzazione

più alta di questi uomini fu la creazione della più precisa e influente teoria

astronomica dell’antichità. La figura centrale in quest’ambito fu Ipparco, l’uomo

che dimostrò l’uso della misurazione indiretta per calcolare dimensioni e distanze

dei corpi celesti. Nel corso delle sue investigazioni astronomiche egli perfezionò

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strumenti per l’osservazione, scoprì la precessione degli equinozi, determinò

l’angolo dell’inclinazione dell’eclittica, misurò irregolarità nel moto della Luna,

corresse stime anteriori della durata dell’anno (Ipparco stimò la durata dell’anno

solare 365 giorni, 5 ore e 55 minuti, con un eccesso di 6 1/2 minuti rispetto al

valore reale) e catalogò un migliaio circa di stelle. Questi contributi relativamente

minori furono sovrastati dalla costruzione di un sistema astronomico completo.

Ipparco riconobbe che lo schema di Eudosso, che supponeva i corpi celesti

fissati a sfere rotanti incentrate sul centro della Terra, non rendeva ragione di

molti fatti osservati da altri greci e dallo stesso Ipparco. La teoria di Eudosso

conteneva errori notevoli particolarmente nei moti di Marte e di Venere. A

differenza del sistema di Eudosso, Ipparco suppose che un pianeta P (fig. 17) si

muovesse in un cerchio con velocità costante e che il centro di questo cerchio, Q,

si muovesse con velocità costante su un altro cerchio con centro nella Terra.

Scegliendo opportunamente i raggi dei due cerchi e le velocità di Q e di P, egli fu

in grado di dare una descrizione esatta del moto di molti pianeti. Il moto di un

pianeta, secondo questo schema, è simile al moto della Luna secondo

l’astronomia moderna. La Luna compie la sua rivoluzione attorno alla Terra

mentre questa si rivolge attorno al Sole. Il moto della Luna attorno al Sole è

quindi simile al moto di un pianeta attorno alla Terra nel sistema di Ipparco.

Fig. 17. Abbozzo del sistema di Ipparco.

Nel caso di alcuni corpi celesti Ipparco ritenne necessario usare tre o quattro

cerchi, ciascuno mobile su un altro. In altri termini, il pianeta P si muoveva in

cerchio attorno al punto matematico Q, mentre Q si muoveva in cerchio attorno al

punto R e R si muoveva attorno alla Terra; inoltre ogni oggetto o punto si

spostava alla sua velocità costante. In altri casi Ipparco dovette supporre che il

centro del cerchio più interno o deferente non si trovasse esattamente nel centro

della Terra, bensì in prossimità di esso. Il moto in accordo con quest’ultima

costruzione geometrica era chiamato eccentrico, mentre, quando il centro del

deferente si trovava nel centro della Terra, il moto era chiamato epiciclico.

Ricorrendo a entrambi i tipi di costruzione e scegliendo opportunamente i raggi e

le velocità dei cerchi, Ipparco riuscì a descrivere abbastanza bene i moti della

Luna, del Sole e dei pianeti. Con la sua teoria diveniva possibile predire

un’eclisse di Luna con un margine di un’ora o due, mentre con minore precisione

venivano predette le eclissi di Sole.

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È degno di menzione il fatto che, dal punto di vista moderno, Ipparco stava

facendo un passo indietro poiché circa un secolo prima di lui un altro famoso

alessandrino, Aristarco, aveva suggerito la teoria che tutti i pianeti si muovessero

attorno al Sole. Ma osservazioni compiute per un periodo di centocinquant’anni

all’osservatorio di Alessandria, insieme a registrazioni babilonesi più antiche,

convinsero Ipparco di ciò che oggi sappiamo bene, ossia che una teoria

eliocentrica con i pianeti mobili in cerchi attorno al Sole non è possibile.

Invece di continuare a studiare ed eventualmente perfezionare l’idea di

Aristarco, Ipparco la abbandonò come eccessivamente speculativa. Altri

rifiutarono l’idea di Aristarco perché sembrava loro empio identificare la materia

corruttibile della Terra con i corpi celesti incorruttibili, considerando la Terra un

pianeta. Questa distinzione fra la Terra e gli altri corpi celesti era assai consolidata

nel pensiero greco e fu difesa, benché non dogmaticamente, anche da Aristotele.

Questa distinzione divenne una dottrina scientifica nella teologia cristiana e la

successiva eliminazione di questa convinzione erronea fu uno dei grandi successi

conseguiti dalla matematica e dalla scienza moderne.

Lo sviluppo della teoria astronomica greca raggiunse il suo culmine nell’opera

di Claudio Tolomeo, il quale era membro della famiglia reale di matematici, se

non dei sovrani politici d’Egitto. Di fatto, l’opera di Ipparco ci e nota perché è

sopravvissuta nell’Almagesto di Tolomeo, un’opera quasi importante come quella

di Euclide per l’influenza da essa esercitata sulle generazioni successive. Quanto

al suo contenuto matematico, l’Almagesto portò la trigonometria alla forma

definitiva che essa avrebbe conservato per più di un millennio. Nel campo

dell’astronomia offri un’esposizione completa della teoria geocentrica di epicicli

ed eccentrici, che divenne nota come teoria tolemaica. Essa era così precisa

quantitativamente e fu accettata per così lungo tempo che la gente fu indotta a

considerarla come una verità assoluta.

Questa teoria è la risposta greca finale al problema platonico della

razionalizzazione delle apparenze celesti ed è la prima grande sintesi scientifica.

Grazie al completamento, da parte di Tolomeo, dell’opera di Ipparco l’evidenza di

un piano nell’universo era ormai assoluta. L’universo si era rivelato razionale e i

principi che ne determinavano i moti erano matematici. Questa teoria

astronomica, trasformata nel Rinascimento da Copernico e Keplero e rifusa e

perfezionata da Newton, fornì l’evidenza principale per la dottrina più importante

della scienza moderna: quella dell’uniformità e immutabilità della natura.

Un uso più diretto della teoria fu fatto da un gruppo di pensatori del tutto

diverso. Poiché il sistema tolemaico faceva della Terra il centro dell’universo, era

del tutto naturale che la teologia cristiana, seguendo linee di pensiero razionali,

suggerisse la tesi che l’uomo è la creatura più importante di Dio e che il bene

dell’uomo è la cosa che più di tutte interessa a Dio. Questa conclusione teologica

acquistò il massimo rilievo mentre le argomentazioni matematiche su cui si

fondava passarono in secondo piano. Nondimeno, come la Chiesa riconobbe

chiaramente, la dottrina cristiana secondo cui l’uomo è l’oggetto più importante

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nell’universo, quello per il quale l’universo era stato creato qual era, poggiava

sulla teoria tolemaica.

I greci non portarono a compimento la razionalizzazione della natura. In questo

compito siamo ancora impegnati noi oggi. Essi lasciarono però documenti elevati

in questo senso nei campi dell’astronomia, della meccanica1 dell’ottica e nello

studio dello spazio e di figure nello spazio. In ciascuna di queste realizzazioni la

matematica fu o l’essenza o lo strumento essenziale.

Purtroppo la vita intellettuale greca fu troncata assai presto da eventi politici

che sfuggivano al controllo di matematici e filosofi. Nel periodo in cui

Alessandria era all’apogeo, il carro da guerra romano, percorsa la penisola

italiana, cominciava ad attaccare altri paesi affacciati sul Mediterraneo.

Intervenendo nella lotta familiare fra Cleopatra, che fu l’ultima rappresentante

della dinastia dei Tolomei, e il fratello Tolomeo XIII, Cesare riuscì ad assicurarsi

il controllo dell’Egitto. Egli tentò poi di distruggere la flotta egizia, all’ancora nel

porto di Alessandria, incendiandola. Ebbe inizio allora il più tragico olocausto

nella lunga storia della lotta dell’uomo contro la barbarie. Il fuoco si estese dal

mare alla città, distruggendo la grande biblioteca. Due secoli e mezzo di ricerca e

accumulo di libri e mezzo milione di codici che rappresentavano un brillante

compendio della cultura antica furono cancellati. I romani si ritirarono, ma solo

per tornare alla morte di Cleopatra, nel 31 a.C., e da quell’epoca le loro

interferenze e il loro dominio sul Museo di Alessandria si dimostrarono sempre

più distruttivi per la cultura che vi fioriva.

L’incendio di Alessandria potrebbe ben simboleggiare il disprezzo dei romani

per la conoscenza astratta. La storia dei romani ha un andamento

cronologicamente parallelo a quella dei greci ma non ci saremmo mai accorti

della loro presenza leggendo una storia anche vasta della matematica. I romani

erano gente pratica e se ne gloriavano. Essi intrapresero e realizzarono ambiziosi

progetti di ingegneria, come viadotti, magnifiche strade che sopravvivono ancor

oggi, ponti, edifici pubblici, ma si rifiutarono di considerare qualsiasi idea che

non si riferisse alle particolari applicazioni concrete di cui si stavano occupando

in un preciso momento. Il loro atteggiamento generale è illustrato da un problema

tratto da uno dei loro testi. Il problema chiede un metodo per determinare la

larghezza di un fiume quando il nemico sia già sulla riva opposta. Cicerone

ammetteva che, “poiché i greci tengono il geometra in sommo onore, nulla, presso

di loro, ha fatto progressi più brillanti della matematica.” Egli sosteneva però

orgogliosamente che “noi abbiamo stabilito come limite di quest’arte la sua utilità

nel misurare e nel contare.”

Abbiamo già visto come la matematica dei greci fosse in relazione col carattere

ideale della loro arte; così gli interessi pratici dei romani si manifestano nella loro

arte, concreta e piuttosto mondana. L’arte romana era programmatica, ad esempio

didattica o commemorativa, e la bellezza si abbassava a decorazione e

ornamentazione. Le sculture e i ritratti prendevano sempre per oggetto individui

1 Si veda il capitolo tredicesimo.

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concreti e si proponevano lo scopo di onorare o di divinizzare. Augusto, ad

esempio, fu scolpito come soldato, con la sua corazza (tavola III), e il bambino

piccolo accanto a lui simboleggia la fecondità di Roma. La contemplazione

dell’ideale e la devozione a figure divine e umane dalle proporzioni perfette

appartenevano ormai al passato. In architettura, Roma è rappresentata nel modo

migliore dai suoi edifici pubblici, come le terme, che avevano tutti finalità

pratiche.

La miopia spirituale dei romani produsse un’arte limitata, d’imitazione e di

seconda categoria. Per vari secoli essi furono in grado di sopperire a mancanza

d`ispirazione e di pensiero originale facendo assegnamento sui greci. Quando

Augusto intraprese un rilievo topografico dell’Impero, ricorse a specialisti di

Alessandria e anche Giulio Cesare, quando affrontò la riforma del calendario, si

valse dell’opera di un alessandrino. Quando le sorgenti del sapere si furono quasi

prosciugate, i romani cominciarono a rendersi conto dell’errore di adornare con

statue una fontana senza preoccuparsi della sua alimentazione. Ma era troppo

tardi.

La scarsissima importanza ottenuta dai romani nei campi della matematica,

della scienza, della filosofia e di molte arti è la risposta migliore che si può dare a

quella gente “pratica” che condanna il pensiero astratto che non sia motivato da

ragioni utilitarie. Una lezione che si può trarre dalla storia dei romani è

certamente che chi disprezza il lavoro altamente teorico di matematici e scienziati

e ne scredita l’inutilità ignora il modo in cui hanno avuto luogo importanti

sviluppi pratici. Di fatto, oggi tutte le grandi società industriali sanno di dover

spendere ingenti somme di denaro e anni di tempo in ricerche che non prospettano

alcuna utilità immediata, al fine di produrre nuove idee e nuove tecniche.

Il controllo dei romani sulla civiltà greca fu distruttivo per un’altra ragione.

Esso rese schiavi milioni di individui e ne tenne milioni di altri assoggettati. La

burocrazia romana soppresse ogni miglioramento sociale ed economico e

mantenne l’istruzione a un livello minimo. Nello stesso tempo, ricchezze enormi

furono sottratte ai paesi soggetti mediante la tassazione e avviate a Roma. La sorte

delle moltitudini divenne intollerabile. Fra queste persone miserabili l’appello

cristiano, con la sua enfasi sull’etica, la fratellanza e una ricompensa nell’altra

vita, si impose rapidamente e sottrasse alla cultura greca migliaia e infine milioni

di persone. Scontri sanguinosi nelle strade fra “pagani” e cristiani divennero

comuni. Purtroppo tutto il sapere greco fu identificato col paganesimo e perciò

severamente attaccato. Gli studiosi alloggiati nel Museo di Alessandria furono

perseguitati e scacciati dalla città.

Il destino di Ipazia, ultima rappresentante della scuola alessandrina, compendia

drammaticamente la fine di un’èra. Essendosi rifiutata di abbandonare la sua

religione greca, essa fu assalita da una plebaglia cristiana furiosa e fatta a pezzi

nelle strade di Alessandria. Il destino di Ipazia fu anche quello del pensiero greco.

Il colpo finale al Museo di Alessandria, che lo distrusse come se esso fosse

stato la copertina del grande libro degli antichi le cui pagine erano già state

disperse ai quattro venti, fu l’incendio del Museo a opera dei musulmani che

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conquistarono la città nel 640. L’intero Museo e i restanti manoscritti, salvati fino

a quel momento dagli altri nemici dell’illuminismo ellenistico, furono distrutti col

pretesto che se i rotoli contenevano qualcosa di contrario agli scritti di Maometto

erano erronei e in caso contrario erano superflui.

Benché il Museo fosse distrutto e gli studiosi dispersi, la cultura greca

sopravvisse e infine riemerse dando un contributo alla formazione della civiltà

occidentale. L’Europa apprese in definitiva dai greci le potenzialità della ragione

umana oltre che alcuni dei suoi prodotti più raffinati. L’Europa ereditò anche le

prove matematiche della razionalità della natura e la fiducia ad applicare la

ragione agli affari dell’uomo. La civiltà occidentale nacque quando lo spirito della

ragione prese possesso dell’uomo e questa civiltà conobbe progressi o regressi in

accordo con il variare della forza di tale spirito.

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VII. Intermezzo

D’altri pensieri non grava: la mente,

Ma serbala a Dio sol, Lui servi e temi.

JOHN MILTON

La Terra, scrisse un mercante alessandrino del VI secolo che aveva molto

viaggiato, è piatta. La parte abitata ha la forma di un rettangolo la cui lunghezza è

doppia della larghezza. La parte abitata è circondata dall’acqua, la quale è

circondata a sua volta da altra terra. A nord c’è un’alta montagna di forma conica

attorno a cui si rivolgono il Sole e la Luna. Di notte il Sole è nascosto dietro la

montagna; di giorno, ovviamente, è davanti ad essa. Il cielo è saldato ai suoi

estremi alle parti più esterne della Terra. Al di sopra del cielo e il firmamento, il

quale è diviso in due piani: in quello superiore sono i beati e Dio mentre quello

inferiore ospita gli angeli che recano assistenza all’uomo.

Cosi scrisse un uomo che pure respirava la stessa aria di Euclide, di Archimede,

di Ipparco e di Tolomeo. Questo mercante, di nome Cosma, che più tardi si fece

monaco, non apprese certo questi fatti sull’universo dai suoi viaggi. La topografia

dell’universo, egli disse, è fissata dalla Sacra Scrittura, della quale a un cristiano

non è lecito dubitare. Nella sua opera Topographia christiana, che fu molto

popolare sia fra le persone colte sia fra gli ignoranti fino al XII secolo, Cosma

elaborò questa cosmografia. Poiché la Bibbia ci dice che l’uomo vive “sulla faccia

della Terra”, non possono esistere antipodi. In realtà, se ci fossero antipodi, il

cielo dovrebbe circondare la Terra, mentre la Bibbia dice che la Terra è

saldamente fissata alle sue fondamenta.

Successivamente, altri pensatori aggiunsero importantissimi perfezionamenti

alla cosmologia di Cosma. Al centro dell’universo era, ovviamente, la Terra

immobile. Al di sopra della Terra erano la Luna, i pianeti e il Sole, ciascuno

fissato a una sfera. Queste otto sfere ruotavano attorno alla Terra di moto

circolare, l’unico tipo di moto possibile per corpi celesti. Le sfere e i corpi celesti

sarebbero fatti di materia tangibile ma incorruttibile, non soggetta alle leggi

fisiche della materia terrestre. Questi corpi celesti rimangono inoltre a distanze

fisse dalla Terra, poiché la materia di cui sono composti ha una disposizione

specifica a rimanere in quel luogo particolare. Sopra queste otto sfere ce ne sono

però altre due. La nona, che non trasporta alcun pianeta o stella, è il primo motore

di se stessa e delle altre otto sfere. Questa nona sfera si muove più velocemente

delle altre per compiere il suo viaggio attorno alla Terra in 24 ore; gli spiriti che la

muovono, infatti, essendo i più vicini al cielo, la decima sfera, sono più ardenti di

quelli che muovono le altre otto. La decima sfera è in quiete ed è abitata dagli

esseri già descritti da Cosma.

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Maggiori notizie si raccolgono sulla Terra stessa. La terra emersa si estende

press’a poco alla moderna Europa e Vicino Oriente, e Gerusalemme era

considerata il centro del mondo abitabile. All’interno della Terra era l’inferno, la

cui forma era quella di un imbuto, con i peccatori disposti in gironi lungo la

parete obliqua. Satana stava sul fondo. Sulla Terra c’era ancora il fiorito giardino

dell’Eden ma quest’area era purtroppo circondata da una parete di fuoco ed era

perciò inaccessibile. La Terra conteneva, oltre all’uomo, anche creature

meravigliose e mostruose. Le più importanti erano gli angeli e i diavoli, con i

demoni loro aiutanti. Fra le creature mortali simili all’uomo erano i satiri, i quali

avevano naso storto, corna in fronte e piedi caprini. Ben presto fu accertato che

esistevano molte varietà di satiri. Alcuni erano acefali; altri monocoli; altri

possedevano orecchie enormi; altri ancora avevano un piede solo. I mari

rivaleggiavano per le loro creature meravigliose con la terra, anche se questa era

infestata da draghi che davano abitualmente la caccia a elefanti.

La natura appariva di fatto meravigliosa e miracolosa a chi la contemplava.

Naturalmente, nessuno la contemplava, poiché non si sentiva alcuna esigenza di

farlo. Sant’Agostino disse: “Qualunque conoscenza si possa acquistare al di fuori

della Sacra Scrittura, se è dannosa dev’essere condannata, se è salutare vi è

contenuta.” Per assicurarsi tutta la conoscenza che si doveva avere bastava

dunque leggere le Sacre scritture e gli scritti dei primi Padri della Chiesa.

Affermazioni bibliche rispondevano anche alla questione fondamentale del perché

dell’esistenza del mondo fisico, degli animali e delle piante. Tutto ciò era stato

creato per servire all’uomo. Le piante e gli animali gli fornivano cibo e la pioggia

nutriva le sue colture. L’uomo era il centro dell’universo non solo

geograficamente ma anche nel senso dell’intenzionalità del progetto divino.

Benché il mondo della natura esistesse al fine di servire all’uomo, lo studio della

natura doveva essere evitato e la natura stessa doveva essere temuta perché Satana

governava la Terra e le sue corti erano onnipresenti. La scienza era in realtà

peccaminosa e la conoscenza ottenuta per suo mezzo veniva acquistata al prezzo

della dannazione eterna.

L’intera natura era stata creata per servire all’uomo, ma l’uomo esisteva solo

per morire e per riunirsi a Dio. La vita sulla Terra non aveva alcuna importanza

reale; quel che contava era solo l’altra vita.

L’uomo doveva perciò sottrarsi a questa sporca Terra e ascendere all’Empireo

divino. Egli doveva strappare la sua anima a una carne tenace responsabile del

peccato originale, svestendo ogni interesse e attaccamento terreno. Si doveva

rinunciare in grande misura ai ricchi doni della natura, ai cibi, agli abiti, al sesso,

poiché tutto ciò corrompeva l’anima. Con queste misure l’uomo medievale, certo

dei suoi peccati e dubbioso della salvezza, si preparava per l’altra vita e poteva

forse riuscire a procurarsi la grazia divina. Questo bisogno di purificare l’anima

cancellando la natura dai pensieri e dai sensi dell’uomo introdusse una nuova

dicotomia, una lotta senza fine fra la carne e lo spirito, fra il mondo e Dio.

Quest’esposizione della natura dell’uomo e del suo universo è un esempio del

tipo di sapere diffuso dalla fine del periodo ellenistico a buona parte del

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Medioevo. Per ragioni che abbiamo citato nel capitolo precedente, la civiltà greca

alessandrina degenerò rapidamente. I tardi pensatori alessandrini corruppero più

di quanto perfezionassero la loro eredità intellettuale. Essi trascurarono le scienze

e la matematica, si esaurirono in dispute metafisiche e cercarono di conciliare

Platone e Aristotele su argomenti su cui entrambi i filosofi erano ignoranti. Sotto

la crescente influenza del cristianesimo, parve importante agli alessandrini

esplorare il mondo invisibile, cercare metodi per liberare l’anima dal corpo e

discorrere con demoni e spiriti. Il risultato da loro ottenuto fu quello di

trasformare la filosofia in magia.

Il declino della cultura greca e romana fu accelerato dalla lotta condotta dalla

Chiesa contro il paganesimo. I capolavori greci e latini contenevano una mitologia

che doveva essere cancellata dalla mente degli uomini e una morale opposta

all’etica cristiana. Anche l’accento posto da greci e romani sulla vita in questo

mondo era considerato quanto meno un traviamento. Che cosa valgono la vita

fisica, la salute, la scienza, la letteratura e la filosofia paragonate alla salvezza

dell’anima? Perché leggete i poeti quando si devono ponderare i precetti dello

Spirito? Perché rendere gradevole e confortevole la vita sulla Terra dal momento

che essa non è altro che un preludio insignificante a una vita eterna che dev’essere

vissuta altrove? Perché cercare di rispondere a domande su fenomeni naturali

quando si devono ancora esplorare e capire la natura di Dio e la relazione a Dio

dell’anima umana? Mancava solo un passo alla conclusione che tutto il sapere

greco e romano era empio ed eretico. L’opposizione della Chiesa al paganesimo e

ai suoi ideali favorì così un atteggiamento anticlassico in tutti i paesi cristiani e

assorbì tutti gli interessi e le energie intellettuali in questioni teologiche.

La regione in cui il sapere e la cultura avevano raggiunto il loro livello più alto,

per sprofondare poi alle bassure più umilianti, comprendeva i paesi affacciati sul

Mare Mediterraneo. Osserviamo che finora Europa centrale e settentrionale non

hanno ancora svolto alcuna funzione. Qual era la situazione in Inghilterra,

Francia, Germania e altri paesi? In quale relazione stavano con le civiltà della

Grecia e di Roma e in che modo vennero a ereditare le ricchezze del pensiero

greco?

Le tribù germaniche che abitavano l’Europa nei primi secoli della nostra èra

erano ancora barbare. Esse vivevano nell’ignoranza e in una povertà definita

talvolta, con un eufemismo, semplicità virtuosa. Le attività artigianali erano

ignote. Il commercio aveva luogo mediante il baratto ed era integrato da scorrerie

ai danni di altre tribù e di regioni più civilizzate. L’organizzazione politica di ogni

tribù era primitiva e alla testa di ciascuna di esse era un guerriero valoroso. I

legami politici erano integrati da legami religiosi. Tutte queste tribù veneravano il

Sole, la Luna, il Fuoco, la Terra e divinità particolari che governavano gli affari

quotidiani della vita. Come le popolazioni più primitive, le tribù germaniche

credevano nella divinazione e praticavano sacrifici umani agli dèi.

Un’esposizione del sapere, delle arti e delle scienze dei germani è presto fatta.

Non c’è nulla. Questi uomini non conoscevano affatto l’uso delle lettere. Non

conoscendo la scrittura, era impossibile la tradizione da una generazione all’altra

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di scoperte, creazioni o esperienze. La trasmissione orale della conoscenza può

trasformare imprese banali in leggende e dare una parvenza di verità a fantasie e

superstizioni ma non può promuovere le arti e le scienze.

I barbari si civilizzarono gradualmente. La prima influenza di rilievo fu

esercitata da Roma, la quale conquistò varie regioni d’Europa e impose alcuni

suoi costumi e istituzioni alle aree conquistate. Quando cadde l’Impero romano,

assunse il controllo la Chiesa, l’unica potente organizzazione rimasta in Europa.

Al fine di convertite i pagani, la Chiesa introdusse e sostenne scuole, organizzò

comunità e fornì capi capaci. I barbari acquistarono così familiarità con la

scrittura, con istituzioni politiche, con la legge, l’etica e, naturalmente, la religione

cristiana. In tal modo l’Europa ricevette l’eredità di Roma.

Da una popolazione che non conosceva neppure i rudimenti dell’aritmetica non

ci si dovrebbero attendere progressi nella matematica e di fatto in questo caso la

storia non ha sorprese per noi. In nessuna delle civiltà che hanno contribuito alla

nostra, il sapere matematico esisteva a un livello così basso come nell’Europa

medievale. Dal 500 al 1400 non ci fu, nell’intero mondo cristiano, un solo

matematico degno di nota.

I progressi che si ebbero in questo periodo sono dovuti agli indù e agli arabi.

Abbiamo già avuto modo di vedere come gli indù applicassero il principio

babilonese del valore di posizione alla base dieci e come trasformassero il

simbolo di separazione dei babilonesi in uno zero di pieno diritto. A quanto

possiamo accertare gli indù furono del tutto originali anche nel creare un’altra

idea che si dimostrò in seguito estremamente importante. Fu questa il concetto di

numero negativo. In corrispondenza a ogni numero, come 5, essi introdussero un

nuovo numero -5 e chiamarono i vecchi numeri positivi per distinguerli dai nuovi,

che chiamarono negativi. Gli indù dimostrarono che questi nuovi numeri

potevano essere altrettanto utili di quelli positivi, usandoli per rappresentare

debiti. Di fatto, essi formularono le operazioni aritmetiche sui numeri negativi

avendo presente questa applicazione.

Questi e altri contributi indù furono accolti dagli arabi, i quali li trasmisero a

loro volta agli europei. Le idee non furono però accolte nel corpo delle

conoscenze matematiche fino al Seicento inoltrato. Le università europee del

periodo medievale insegnavano soltanto aritmetica e geometria, e l’aritmetica

consisteva in gran parte di semplici calcoli e complesse superstizioni. La

geometria era limitata pressoché solo ai primi tre libri di Euclide; a coloro che

aspiravano a diventare magistri non si chiedeva infatti di conoscere di più. Lo

stadio più avanzato che venne raggiunto in talune università era il teorema

elementarissimo che gli angoli di base di un triangolo isoscele sono uguali. Un

po’ di matematica era implicata anche nelle altre due discipline del quadrivio, la

musica e l’astronomia. Complessivamente, un dotto matematico dell’Europa

medievale di un migliaio di anni fa sapeva molto meno di un bambino di oggi che

abbia finito le elementari.

Ma anche se il livello della civiltà era così basso, la matematica svolse

nondimeno una funzione. Una funzione della matematica, anche se non sempre

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favorevole alla Chiesa, fu quella della redazione di previsioni astrologiche. Di

fatto, assai presto nel periodo medievale, la parola “matematica”, in quanto

distinta da “geometria”, significa astrologia e i professori di astrologia venivano

chiamati mathematici. A quell’epoca l’astrologia era anche in disgrazia presso gli

imperatori romani, cosicché troviamo leggi che condannavano l’arte della

matematica. Più tardi imperatori romani e cristiani, pur bandendo gli astrologi dai

loro regni, li usarono alle loro corti come consiglieri influenti. Se c’era qualcosa

di fondato in questa predizione del futuro, i governanti non desideravano

trascurarlo, né erano disposti a lasciare ad altri il controllo di questa conoscenza.

Nonostante la condanna morale e legale dell’astrologia, la disciplina fioriva

perché dal periodo alessandrino in poi i grandi medici, incluso Galeno, credevano

di poter stabilire i trattamenti medici appropriati consultando gli astri. Sulla base

di traduzioni arabe, vere e spurie, di Aristotele, si riteneva che i moti circolari,

regolari, delle stelle controllassero il corso ordinato della natura, come le stagioni,

il giorno e la notte, la crescita e la distruzione. I pianeti, d’altra parte, erranti nei

loro moti qual erano visti dalla Terra, governavano la vita variabile e

indeterminata dell’uomo. Ogni pianeta esercitava un’influenza su un organo

particolare del corpo. Marte governava la bile, il sangue e i reni; Mercurio

dominava il fegato e Venere gli organi genitali. Ogni segno dello zodiaco

governava qualche regione del corpo, come la testa, il collo, le spalle e le braccia.

L’associazione dei pianeti con le costellazioni in cui venivano a trovarsi

controllava le fortune umane. Matematici e medici studiavano pertanto nel modo

più accurato il moto delle stelle e dei pianeti e cercavano di stabilire correlazioni

fra le loro posizioni in cielo e il comportamento del corpo umano e degli eventi

umani.

A tal fine veniva richiesto un tale livello della matematica che i medici

dovevano conoscere abbastanza a fondo la disciplina. Essi erano di fatto astrologi

e matematici più di quanto fossero studiosi del corpo umano. Per vari secoli i

vocaboli medico e algebrista furono praticamente sinonimi. Quando, ad esempio,

Sansón Carrasco è disarcionato dal suo cavallo nel Don Chisciotte, viene mandato

a chiamare un algebrista perché gli bendi le ferite. Le università medievali

insegnavano di fatto agli studenti di medicina l’uso della matematica

nell’astrologia e il più famoso di questi centri era Bologna, che aveva una scuola

di matematica e medicina fin dal XII secolo. Anche Galileo insegnò astronomia a

studenti di medicina, in modo che potessero applicare le conoscenze astronomiche

all’astrologia.

È chiaro che nel periodo medievale l’astrologia non era considerata una

superstizione in cui potessero indulgere gli stupidi o ingenui. Essa era una

scienza, i cui princípi erano accettati altrettanto seriamente di quanto erano

accettate l’astronomia copernicana e la legge della gravitazione nell’Ottocento.

Ruggero Bacone, Cardano e Keplero la accettavano e mettevano le loro

conoscenze scientifiche e matematiche al suo servizio. La scienza dell’astrologia

è degenerata oggi nelle rubriche astrologiche sui quotidiani, negli oroscopi

mensili dispensati nei bazar da quattro soldi e nelle bilance automatiche della

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metropolitana che in cambio di una monetina rivelano a una persona il suo peso

esatto e il futuro. La scienza di ieri è diventata la superstizione di oggi.

Assai più comprensibile è per noi l’interesse dimostrato dalla Chiesa per la

matematica. In primo luogo astronomia, geometria e aritmetica erano utili ai fini

del calendario. Particolarmente importante era conoscere la data della Pasqua.

Ogni monastero in Europa aveva almeno un monaco in grado di determinarla.

La matematica era ugualmente preziosa per la Chiesa come preparazione per la

teologia. Tutto ciò che Platone e altri greci dell’epoca classica avevano visto nella

matematica come preparazione alla filosofia, lo accettava anche la Chiesa,

sostituendo semplicemente alla filosofia la teologia. Essa si premurava però di

avvertire che a tal fine non si richiedeva troppa matematica: giusto quanto era

bene per la mente e non di più. Questo interesse per il ragionamento da parte dei

teologi, i quali accettavano nondimeno tante nozioni per fede e si appellavano alle

Scritture e ai padri della Chiesa come garanti della verità, richiede un sia pur

piccolo esame da parte nostra.

I greci avevano molti dèi ed erano privi di una teologia. Il periodo medievale

ebbe un solo Dio e una teologia enorme. All’inizio del periodo medievale, la fede

era quasi l’unico sostegno di tale teologia. Sant’Agostino diceva: credo per capire.

Man mano però che i Padri della Chiesa venivano proponendo dottrine e che i

dotti cercavano di capirle ponendosi al tempo stesso il compito di riconciliare

asserzioni opposte o contrastanti, si ricorse alla ragione per procedere alle

necessarie riconciliazioni. Anche il ragionamento fortificò la fede con

l’argomentazione vera, la dialettica e la spiegazione. La ragione, similmente,

dimostrò l’accordo esistente fra sistemi filosofici e dottrine cristiane e tra fatti

osservati e interpretazioni cristiane.

Piuttosto tardi nel periodo medievale la ragione cominciò a soppiantare la fede

come principale sostegno della teologia cristiana. Questo movimento fu stimolato

dalla traduzione in latino dall’arabo di numerose opere greche. Divennero noti

così, in particolare, l’immenso sapere di Aristotele e la sua logica. Poiché la

teologia cristiana aveva già incorporato elementi dell’aristotelismo, i dotti della

Chiesa non potevano permettersi di ignorare il vasto corpo di conoscenza che si

era ora reso disponibile. La Chiesa affrontò quindi il compito di riconciliare

l’aristotelismo e la teologia cattolica e di armonizzare la metafisica con la

rivelazione. Le possibilità di una difesa completamente razionale del

cristianesimo furono intraprese dalla Scolastica, di cui San Tommaso d’Aquino è

il rappresentante più autorevole. L’Aquinate affrontò il compito di fornire una

salda struttura logica alla teologia e di combinare dottrina cattolica e filosofia

aristotelica in un sistema razionale. Il risultato dei suoi sforzi, la Summa

theologiae, offre la più vasta e profonda esposizione della filosofia cattolica che

sia mai stata costruita, mentre l’organizzazione del suo materiale meritò a

quest’opera l’appellativo di “Euclide spirituale.”

Questo breve cenno agli interessi razionali dei teologi cattolici, pur non

rendendo affatto giustizia all’alta levatura intellettuale delle loro opere, può

aiutare a capire perché la Chiesa tenesse vivo almeno un po’ di matematica nel

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Medioevo. Esiste nondimeno una relazione più vitale fra matematica e teologia

medievale. Abbiamo già indicato che la Chiesa aveva una filosofia della natura.

Questa filosofia asseriva, innanzitutto, che la natura era stata creata da Dio al fine

di servire l’uomo. Ogni evento, ogni essere aveva un fine preciso. Un secondo

dogma di questa filosofia era che la natura era intelligibile all’uomo. Le vie di Dio

e i suoi fini potevano essere compresi purché l’uomo si fosse sforzato con

sufficiente tenacia. La comprensione sarebbe venuta non dall’osservazione della

natura bensì da uno studio appropriato delle Scritture, la parola di Dio. La Chiesa

raccomandava inoltre ai suoi fedeli di cercare di comprendere i fini di Dio; il vero

oggetto di conoscenza dell’umanità era Dio. L’uomo comune non poteva

raggiungere una comprensione completa – le vie di Dio sono misteriose per alcuni

mortali – ma in esse c’erano significato, ragione e finalità. “Le vie di Dio sono

giuste e gli uomini devono giustificarle.”

Così i dotti del tardo Medioevo, e in particolare gli scolastici, non soltanto

fornirono l’atmosfera razionale in cui nacquero la matematica e la scienza

moderne bensì infusero nei grandi pensatori del Rinascimento la convinzione che

la natura fosse la creazione di Dio e che le vie di Dio potessero essere comprese.

Fu questo fondamentale articolo di fede a dominare e ispirare i matematici e gli

scienziati del Rinascimento, fu questa fede a sostenere le ricerche pazienti,

instancabili, ardue e difficili di Copernico, Brahe, Keplero, Galileo, Huygens e

Newton. È vero che questi uomini abbandonarono le Scritture e si rivolsero a

Euclide per le loro premesse e all’osservazione della natura per i loro dati

puramente scientifici ma per lo più non si proposero altro che di comprendere il

meraviglioso disegno divino. Essi erano, e rimasero, adepti ortodossi della

religione cristiana. È un’ironia della storia che le loro ricerche producessero leggi

in urto con le dottrine della Chiesa e che queste ricerche minassero in definitiva il

dominio esercitato dalla Chiesa sul pensiero.

Non possiamo lasciare il periodo medievale senza chiederci perché in esso la

matematica non fece progressi, almeno durante la parte finale. Nel rispondere a

questa domanda siamo inevitabilmente indotti a operare un confronto fra la civiltà

medievale e l’epoca romana, ugualmente sterile. Come già abbiamo visto, la

civiltà romana fu improduttiva nel campo della matematica perché era tanto

interessata ai risultati pratici da non riuscire a vedere oltre la punta del suo naso. Il

periodo medievale fu invece improduttivo perché non si occupò della civitatis

mundi bensì della civitas dei e della preparazione all’altro mondo. L’una civiltà

era troppo legata alla terra, l’altra al cielo. La praticità dei romani generò sterilità

mentre il misticismo della Chiesa ebbe come effetto un totale disinteresse per la

natura e il suo dogmatismo limitò l’intelletto e impedì lo spirito creativo. Ci sono

prove storiche sufficienti per vedere che la matematica non può fiorire in nessuno

di questi due climi. Come si verificò nel periodo greco, e come vedremo

riconfermato fra breve per un altro periodo, la matematica può prosperare nel

modo migliore in una civiltà desiderosa di allearsi al mondo della natura e, nello

stesso tempo, di permettere alla mente una libertà di pensiero illimitata, prometta

essa o no soluzioni immediate ai problemi dell’uomo e dell’universo.

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VIII. La rinascita della spirito matematico

La natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in

lei infusamente vive.

LEONARDO DA VINCI

Una figura affascinante e assai influente, e purtroppo assai poco nota, del

Rinascimento è Girolamo Cardano. Nel De vita propria, che è paragonabile

all’autobiografia del Cellini e che fa apparire al confronto il Cellini come un santo

e un recluso, il Cardano rivela candidamente i particolari più intimi e scottanti

della sua vita e dei suoi tempi.

Come ci viene raccontato nelle sue confessioni, la carriera di questo

straordinario furfante e studioso ebbe inizio in modo avventuroso, quando sua

madre tentò un aborto che però non riuscì. Il bambino, illegittimo e malaticcio,

nacque a Milano nel 1501. Egli si descrisse come dotato alla nascita solo di

miseria e di spregio. Piuttosto presto si preparò alle numerose carriere che

avrebbe seguito: quelle di matematico, medico, metafisico, truffatore, giocatore,

assassino e avventuriero. Nonostante un’infanzia miserabile, molte malattie,

infermità croniche e una povertà estrema, riuscì finalmente a laurearsi in medicina

all’università di Pavia.

Nei suoi primi quarant’anni di vita, la povertà continuò a inseguirlo;

un’infermità fisica gli impedì per molto tempo di soddisfare i suoi forti desideri

per i piaceri dell’amore, e la malattia continuò a sottrargli energie. Come per

sfogare sulla vita la sua rabbia, fu vendicativo e deliberatamente crudele nel suo

linguaggio e vantò la sua superiorità sui propri contemporanei.

Durante la maggior parte della sua vita praticò la medicina e la dissolutezza. A

tempo perso produsse alcune fra le migliori opere matematiche del Rinascimento.

La sua furfanteria si espresse anche nella sua attività; il più famoso risultato

apparso nella Ars magna, che è la sua massima opera matematica, era infatti una

scoperta di un altro grande matematico, Tartaglia, pubblicata da Cardano senza il

suo permesso. Durante molti anni della sua vita, Cardano fu professore di

matematica e di medicina in varie università italiane. Trascorse i suoi ultimi anni

come astrologo alla corte pontificia. Verso la fine della sua vita si rese conto che,

nonostante le sue infamie, era riuscito a diventar nonno, a procurarsi fama,

ricchezza, sapere, amici potenti e fede in Dio, alla cui bontà doveva i quindici

denti che ancora gli restavano in bocca. Si dice che abbia previsto la propria

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morte e che il giorno stabilito si sia suicidato per salvare la propria reputazione di

astrologo.

Cardano varcò la distanza fra il Medioevo e l’Era moderna. Nella sua

metafisica era ancora legato al medievalismo e alle fantasticherie. Fu il razionale

apologeta della chiromanzia, degli spiriti, dei portenti e dell’astrologia. Credeva

fermamente anche nella magia naturale, una “scienza” dalle possibilità un po’ più

ampie che non l’astrologia. Attraverso la magia naturale si imparava a conoscere

il carattere degli uomini, i modi e i fini della natura, il futuro, i modi in cui i corpi

celesti incorruttibili influenzano le azioni quotidiane e il destino dell’uomo, e

l’arte di prolungare la vita.

Nella sua sfrontatezza e nel rifiuto di dottrine autoritarie, così come nelle sue

ricerche matematiche, fisiche e mediche, Cardano simboleggiò la rivolta nei

confronti di un millennio di servitù intellettuale e il rinascere dell’interesse per il

mondo fisico. Le sue investigazioni propriamente scientifiche furono condotte in

uno spirito moderno ed erano del tutto scevre da misticismo e occultismo.

Nonostante l’uso generoso di creazioni di altri, le grandi opere di Cardano

sull’algebra e l’aritmetica furono i primi contributi importanti alla matematica

moderna e furono indubbiamente fra il meglio del Cinquecento.

L’Ars magna di Cardano, il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico

e il De humani corporis fabrica di Vesalio, che apparvero fra il 1543 e il 1545,

segnano, con tutta la chiarezza possibile alla parola scritta, la linea di

demarcazione fra pensiero medievale e moderno. Queste opere erano così

rivoluzionarie che è naturale ricercare quali forze spezzassero la civiltà medievale

e si fondessero a formarne una nuova.

La più antica influenza tendente a trasformare il pensiero e la vita nell’Europa

medievale fu l’introduzione di opere greche. Il primo contatto significativo con

queste opere ebbe luogo attraverso gli arabi. Nell’ultima parte del periodo

medievale alcuni dotti greci che risiedevano a Costantinopoli, il centro

dell’Impero bizantino ovvero dell’Impero romano d’Oriente, scoraggiati dalla

meschinità colà dominante, migrarono in Italia. Quelli che erano rimasti furono

scacciati a loro volta dalla conquista della città da parte dei turchi e anche questi

cercarono rifugio in Italia. Nel Quattrocento divenne possibile eseguire traduzioni

latine direttamente dai manoscritti greci che questi dotti avevano portato con sé.

Da quest’epoca in avanti l’influenza del sapere greco sul pensiero europeo fu

illimitata. Tutti i grandi scienziati del Rinascimento riconobbero nei greci la fonte

della loro ispirazione e confessarono di avere attinto dalle loro opere anche idee

specifiche. Il polacco Copernico, il tedesco Keplero, l’italiano Galileo, il francese

Descartes e l’inglese Newton ricevettero luce e calore dal sole della Grecia.

Altrettanto importante nel plasmare la civiltà moderna fu il sorgere di città e di

una classe mercantile. Le attività minerarie, la manifattura, l’allevamento del

bestiame su larga scala e grandi fattorie, gli antenati del big business di oggi,

divennero una parte importante della vita europea. La ricchezza genera ricchezza

e mondanità. I mercanti cercavano di godere delle cose materiali che trattavano;

chiedevano inoltre la libertà di avviare e svolgere commerci nell’ambito di un

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governo favorevole ai loro interessi. La Chiesa, d’altra parte, denunciava i profitti,

santificava la povertà e la vita semplice e metteva l’accento sulla negazione di

questo mondo a vantaggio di una vita ultraterrena. Inevitabilmente le popolazioni

urbane si irritarono e si ribellarono alle limitazioni imposte dalla Chiesa.

Desiderando espandere i loro interessi commerciali, i mercanti promossero le

esplorazioni geografiche che ebbero luogo nel Quattrocento e Cinquecento. Le

scoperte dell’America e di una via alla Cina circumnavigando l’Africa ampliarono

gli orizzonti dell’uomo e portarono all’Europa molte conoscenze su strani paesi,

credenze, religioni e modi di vita. Queste conoscenze sfidavano i dogmi del

Medioevo e stimolavano l’immaginazione dell’uomo.

In contrasto con le classi servili dell’Egitto, della Grecia e di Roma e con la

servitù del feudalesimo medievale, la nuova società possedeva una classe in

espansione di contadini e artigiani liberi. Lo stimolo al profitto attraverso il loro

lavoro fece sì che questi uomini pensassero con idee concernenti la loro attività

produttiva. I contadini che cercavano di aumentare il rendimento del proprio

lavoro e imprenditori aventi alle proprie dipendenze salariati iniziarono una

ricerca attiva di dispositivi in grado di consentire un risparmio di lavoro. Ne

risultò un crescente interesse per le macchine, i materiali e la natura. Questo

movimento sociale ed economico promosse la trasformazione della civiltà

europea dal feudalesimo e dall’indifferenza nei confronti dei fenomeni naturali

all’industrialismo e all’investigazione di problemi fisici. Le grandi invenzioni

pratiche scaturite dal lavoro degli artigiani furono più importanti di quanto si

sarebbe potuto prevedere. La carta fatta di cotone e più tardi di stracci sostituì la

costosa pergamena; i caratteri mobili sostituirono la copiatura a mano. Queste

invenzioni diedero ali al pensiero, consentendogli di diffondersi oltre i limiti di

nazioni e di religioni.

Una grande quantità di problemi scientifici fu suggerita da un altro evento

rinascimentale, l’introduzione della polvere da sparo nel Trecento. La polvere da

sparo rese possibili pallottole e palle di cannone che potevano colpire

efficacemente anche bersagli molto lontani. Per sviluppare queste armi e imparare

come usarle con efficacia i principi spesero somme sproporzionate all’importanza

scientifica dei fenomeni in gioco. Ma i bisogni della guerra hanno sempre indotto

le nazioni a profondere somme di denaro e sforzi inimmaginabili in tempo di

pace.

I dubbi sulla validità della scienza e della cosmologia della Chiesa, le obiezioni

alla soppressione della sperimentazione da parte della Chiesa e la riflessione su

problemi creati dal nuovo ordine economico, la degenerazione della corte papale a

un livello di moralità che i cristiani avrebbero descritto normalmente come

pagano e seri scismi intellettuali culminarono nella rivoluzione protestante. Gli

uomini che si ribellarono erano sostenuti dalla classe mercantile, ansiosa di

spezzare il potere della Chiesa, e da molti principi secolari, che desideravano

governare senza intralci.

La Riforma come tale non liberò dai ceppi la mente dell’uomo; essa servì

nondimeno, indirettamente, la causa del libero pensiero. Quando capi religiosi

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come Lutero, Calvino e Zwingli osarono sfidare il papato e le dottrine cattoliche,

la persona comune si sentì incoraggiata a fare lo stesso. I protestanti, essendo

ribelli, erano necessariamente più tolleranti e concessero pertanto la loro

protezione a pensatori che la Chiesa cattolica avrebbe voluto ridurre al silenzio.

Sia pure con riluttanza, anche i protestanti formularono interpretazioni razionali

delle Scritture per combattere le dottrine cattoliche, benché per Lutero la ragione

fosse “la prostituta del diavolo.” Di fatto i protestanti furono talvolta costretti a

sostenere che la diversità delle credenze è una conseguenza necessaria del libero

esame. Infine, in considerazione del fatto che la gente veniva chiamata a scegliere

fra le tesi cattoliche e protestanti, il pensiero indipendente veniva incoraggiato, sia

pure non intenzionalmente. Molti, scontenti di entrambe le parti, si volsero dalle

due fedi ad altre fonti di conoscenza, come la natura e i classici antichi.

Dovrebbe essere evidente anche da questo quadro frettoloso delle nuove forze

all’opera in Europa che nella civiltà occidentale stavano per imporsi mutamenti

fondamentali. Anche se può essere oggetto di discussione quale secolo segni la

svolta dal Medioevo all’Era moderna, non c’è dubbio sul fatto che l’Europa del

Quattrocento divenne un’arena di menti ribollenti che disputavano aspramente

sulle convinzioni religiose, sostenevano la ragione contro la tirannide scolastica e

l’autorità antiquata e contrapponevano la mondanità greca all’oltremondo

cattolico. Gli intelletti, costretti a speculare senza fine su un piccolo gruppo di

concetti e intralciati da un sapere limitato e dal dogmatismo, spezzarono infine i

loro legami. Uomini intolleranti di ogni controllo, pronti a criticare le norme di

condotta stabilite ed entusiasti della libertà degli antichi, si affermarono contro

autorità moleste. In seguito al descritto fermento intellettuale, uomini desiderosi

di apprendere e di divorare nuove idee cercarono una base più solida della

contestata teologia cattolica per poggiarvi e costruire e tentarono di sperimentare

nuovi approcci ai problemi dell’uomo, della natura e dell’ordine sociale.

Il materiale con cui costruire era già pronto. Dalle ricche scorte del sapere

greco, che erano rimaste quasi intatte per un millennio, gli europei derivarono un

nuovo spirito, nuovi ideali e una nuova visione dell’universo. Le opere greche

restituirono fiducia nei poteri sovrani della ragione umana e incoraggiarono

l’uomo del Rinascimento ad applicare tale facoltà ai problemi che si ponevano a

questo periodo. L’amore per una ricerca spassionata della verità era rinato e la

ricerca stessa era diretta ora verso le leggi della natura e non verso le affermazioni

divine spigolate dalla Scrittura, verso l’universo divino non verso Dio; come

destati da un lungo sonno, gli europei scoprivano un “brave new world”

brulicante di vita e di creature meravigliose, fra le quali l’uomo stesso si

presentava come un fenomeno biologico e fisico degno di osservazione e di

studio. Gli uomini guardarono con rinnovata curiosità il cielo e furono affascinati

dagli strani racconti di coloro che navigavano i mari ed esploravano nuovi paesi.

La bellezza, per tanto tempo condannata all’inferno come una dea pagana della

carne, fu riscoperta nella letteratura e nel mondo fisico e invece del peccato, della

morte e del giudizio gli uomini videro in essa la vita, il piacere e la gioia. La

dignità dell’uomo, che era stato denunciato fino a quest’epoca come un peccatore

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indegno, fu rafforzata. Soprattutto, lo spirito umano fu emancipato e incoraggiato

a percorrere liberamente l’universo.

Una fra le più importanti dottrine positive del Rinascimento proclamò l’idea del

“ritorno alla natura.” Ogni tipo di scienziato abbandonò le infinite spiegazioni

razionali sulla base di principi dogmatici dal significato vago e privi di legami con

l’esperienza e si volse alla natura come vera fonte di conoscenza. Questo ricorso

alla natura e all’osservazione era stato raccomandato molto tempo prima da

Ruggero Bacone ed era stato perseguito da pochi grandi e aperti pensatori

anteriori al Quattrocento, tra i quali possiamo nominare Guglielmo d’Occam,

Nicola Oresme e Giovanni Buridano. Questi uomini erano però troppo in anticipo

sui tempi e le loro voci non si udivano al di sopra dello strepito delle infinite

dispute teologiche. Questa corrente si ingrandì però via via, sia pure con lentezza,

e guadagnò forza.

Il movimento del ritorno alla natura era da poco cominciato quando alcuni

scienziati che erano ardentemente impegnati in esso concepirono un’idea ancor

più rivoluzionaria. Mentre i greci e gli scienziati dell’inizio del Rinascimento

ricercavano la conoscenza della natura, Francesco Bacone e Descartes osarono

suggerirne il dominio e sognarono la conquista dell’intero mondo naturale a opera

dell’uomo. Per Bacone il fine della scienza non era tanto una soddisfazione di

carattere speculativo, quanto l’instaurazione del regno dell’uomo sulla natura e

l’aumento delle comodità e della felicità dell’uomo. Descartes scrisse:

È possibile conseguire una conoscenza che sia utilissima nella vita e, invece di quella

filosofia speculativa che viene insegnata nelle scuole, trovare una filosofia pratica per mezzo

della quale, conoscendo la forza e l’azione del fuoco, dell’acqua, dell’aria, delle stelle, del cielo

e di tutti gli altri corpi che ci circondano cosi distintamente come conosciamo le varie abilità dei

nostri artigiani, possiamo nello stesso modo servircene in tutti quegli usi a cui sono adatti e

renderci così signori e padroni della natura.

La sfida lanciata da Bacone e da Descartes fu raccolta prontamente e gli

scienziati si dedicarono con ottimismo al compito di padroneggiare la natura.

Oggi, a distanza di tre secoli, gli eredi di questi pensatori e scienziati del

Rinascimento sono ancora all’opera con la visione di Bacone e Descartes ben

salda nella mente a spingerli sempre avanti.

Il movimento tendente a ricostruire l’intera conoscenza mediante l’applicazione

della ragione e il ritorno alla natura come fonte della verità portò naturalmente in

primo piano la disciplina che in passato aveva dato un contributo preminente al

conseguimento di entrambi questi obiettivi. Le menti audaci che cercavano di

stabilire nuovi sistemi di pensiero sulla base di talune conoscenze necessitanti

furono attratte dalla certezza della matematica, poiché le verità della matematica,

per quanto potessero essere state ignorate in epoca medievale, non erano mai state

realmente contestate o messe in dubbio dai veri dotti. Le dimostrazioni

matematiche avevano inoltre in sé una costrizione e una sicurezza che non

avevano l’uguale nella scienza, nella filosofia o nella religione. Descartes scrisse:

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Fui deliziato particolarmente dalle matematiche in virtù della certezza ed evidenza dei loro

ragionamenti: ... Fui stupito dal fatto che fondazioni così forti e solide non reggessero strutture

più elevate erette su di esse.

Anche Leonardo scrisse che solo tenendo fermo alla matematica la mente può

penetrare con sicurezza nel labirinto del pensiero intangibile e incorporeo.

Per gli scienziati del Rinascimento, come per i greci, la matematica era più di

un approccio attendibile alla conoscenza; essa era la chiave che consentiva di

accedere al comportamento della natura. La convinzione che la natura sia

matematica e che ogni processo naturale sia soggetto a leggi matematiche

cominciò a diffondersi nel XII secolo, quando gli europei la conobbero per la

prima volta dagli arabi, che stavano a loro volta citando i greci. Ruggero Bacone,

per esempio, credeva che il libro della natura fosse scritto nel linguaggio della

geometria. Ai suoi tempi tale dottrina assumeva talvolta una forma piuttosto

insolita. Si riteneva, ad esempio, che la luce divina fosse la causa di tutti i

fenomeni e la forma di tutti i corpi. Le leggi matematiche dell’ottica erano dunque

le vere leggi della natura.

Anche Keplero affermò che la realtà del mondo consiste nelle sue relazioni

matematiche. Le leggi matematiche sarebbero la vera causa dei fenomeni. I

principi matematici sono i caratteri con cui Dio scrisse il mondo, disse Galileo;

senza il loro aiuto è impossibile intenderne umanamente parola e ci si aggira

invano in un oscuro labirinto. Di fatto, solo le proprietà del mondo fisico

esprimibili matematicamente sono davvero conoscibili. L’universo è matematico

nella sua struttura e nel suo comportamento e la natura agisce in accordo a leggi

inesorabili e immutabili.

Descartes, il padre del mondo moderno, riferì un’esperienza mistica che gli

aveva rivelato il segreto della natura. In un sogno che egli ricordò distintamente e

che, egli disse, aveva fatto il 10 novembre del 1619, emerse in modo chiaro la

verità che la matematica è l’“Apriti Sesamo.” Egli si svegliò convinto che la

natura è un grande sistema geometrico. Conseguentemente egli “non ammette né

spera in fisica altri princípi oltre a quelli presenti nella geometria o nella

matematica astratta poiché così tutti i fenomeni della natura vengono spiegati e se

ne può dare qualche dimostrazione.”

La natura doveva dunque essere analizzata e ridotta a leggi matematiche. Ma in

qual modo doveva cominciare questo processo? Quali fenomeni avrebbero dovuto

essere scelti per quest’investigazione? Quali concetti sono fondamentali e al

tempo stesso esprimibili matematicamente? A queste domande gli studiosi del

Rinascimento diedero risposte proprie.

A differenza dei greci, per i quali erano fondamentali gli oggetti e le loro

forme, mentre lo spazio interessava solo in quanto designava il limite o confine di

un oggetto, il nuovo scienziato scelse lo spazio in sé come concetto soggiacente a

tutti i fenomeni e in cui gli oggetti esistono o si estendono e si muovono (anche se

Descartes sosteneva l’esistenza di una qualche sorta di materia non percepibile là

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dove non esiste la materia solida dell’esperienza). L’essenza degli oggetti

materiali è lo spazio, e gli oggetti sono essenzialmente pezzi di spazio, spazio

solidificato o geometria materializzata. Concesso questo principio, la materia era

descrivibile matematicamente attraverso la geometria dello spazio. Il tempo fu

introdotto come un altro concetto fondamentale. Gli oggetti esistono e si

muovono nel tempo, oltre che nello spazio. Galileo sottolineò che il tempo può

essere espresso matematicamente, poiché gli istanti del tempo non sono altro che

numeri e come i numeri si susseguono l’uno all’altro.

Quanto agli oggetti in sé, le loro proprietà fondamentali sono l’estensione e il

movimento. Le differenze fra corpi sono differenze di figura, di densità e di moto

delle loro particelle componenti, e queste proprietà sono reali ed esprimibili in

termini matematici. D’altra parte, qualità come il colore, il sapore, il suono non

sono reali ma sono reazioni del soggetto alle qualità reali, primarie. Queste qualità

secondarie possono essere trascurate in un’analisi del mondo reale, essendo solo

illusioni o mere apparenze.

Così l’estensione, o la figura nello spazio, e il moto nello spazio e nel tempo

sono la fonte di tutte le proprietà e sono le realtà fondamentali. Per usare le parole

di Descartes, “datemi l’estensione e il moto e io vi costruirò l’universo.” La

matematica, attraverso la geometria e il numero, esprime queste essenze degli

oggetti. Il moto degli oggetti, egli continuava, è dovuto all`azione meccanica di

forze che obbediscono a leggi necessarie ed esatte. La vita stessa, umana, animale

e vegetale, è soggetta a queste leggi. Da questa subordinazione Descartes esentò

soltanto Dio e l’anima umana. In sintesi, il mondo reale è la totalità di moti,

matematicamente esprimibili, di oggetti nello spazio e nel tempo e l’intero

universo è una grande macchina armoniosa, progettata matematicamente.

La nozione di causalità, il legame fra due eventi, uno dei quali sembra seguire

necessariamente dall’altro, ricevette una nuova formulazione. Il fatto che l’effetto

sembri seguire alla causa nel tempo è dovuto ai limiti della percezione sensoriale

umana. Causa sive ratio: la causa non è nient’altro che la ragione. Il significato di

questa dottrina è spiegato nel modo migliore da un’analogia. Dati gli assiomi

della geometria euclidea, le proprietà di un cerchio come la lunghezza della

circonferenza, l’area e le proprietà di angoli inscritti sono determinabili

immediatamente come conseguenze logiche necessarie. Di fatto si dice che

Newton si sia chiesto perché qualcuno si desse la pena di copiare i teoremi della

geometria euclidea, visto che essi sono implicati in modo manifesto dagli assiomi.

La maggior parte degli esseri umani impiega nondimeno molto tempo per scoprire

queste proprietà. Ma questa scoperta nel tempo, la quale sembra stabilire una

relazione fra assiomi e teoremi in una medesima sequenza temporale, come causa

ed effetto, è illusoria. Lo stesso vale per i fenomeni fisici. Per l’intelletto divino

tutti i fenomeni sono coesistenti e compresi in una struttura matematica. Sono i

sensi a riconoscere gli eventi uno a uno e a vedere in alcuni le cause di altri.

Possiamo ora intendere, disse Descartes, perché sia possibile la predizione

matematica del futuro; essa lo è perché le relazioni matematiche sono preesistenti.

L’elemento ultimo nella spiegazione fisica è la relazione matematica. Attorno al

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1650 l’interpretazione matematica della natura divenne così popolare e di moda

da diffondersi in tutt’Europa ed esposizioni del suo principale rappresentante,

Descartes, adorne di rilegature raffinate e dispendiose, adornavano i tavoli da

toeletta delle signore.

Non abbiamo ancora menzionato un altro elemento di importanza vitale nel

Rinascimento. Gli scienziati di questo periodo erano nati ed erano stati educati in

un mondo religioso che aveva anche una filosofia della natura. Questa filosofia,

come sappiamo, diceva che l’universo è stato creato da Dio ed è l’opera delle Sue

mani; la sua natura razionale è inoltre accessibile all’uomo. L’accento cattolico

sulla razionalità della natura e sull’importantissima presenza di Dio era impresso

in ogni intellettuale del Quattrocento e del Cinquecento. Questi uomini

affrontarono perciò il compito di conciliare e fondere gli insegnamenti cattolici e

la concezione matematica della natura propria dei greci. La loro soluzione è forse

ovvia. Alla base dell’universo è un progetto razionale che lo rende comprensibile

all’uomo. Questa posizione di partenza era comune a entrambe le filosofie. Per

eseguire la conciliazione era sufficiente aggiungere che Dio aveva progettato e

creato l’universo in accordo con leggi matematiche. In altri termini, facendo di

Dio un matematico supremo divenne possibile considerare la ricerca delle leggi

matematiche della natura una ricerca religiosa. Lo studio della natura divenne lo

studio della parola di Dio, delle Sue vie e della Sua volontà. L’armonia del mondo

era opera di Dio e, aggiunse Descartes, le leggi della natura rimanevano costanti a

causa dell’eterna invariabilità della volontà divina.

Dio introdusse nel mondo quel rigoroso ordine matematico che gli uomini

comprendono solo a prezzo di grande fatica. La conoscenza matematica è verità

assoluta ed è altrettanto sacrosanta di ogni riga della Scrittura; anzi, di fatto, è

superiore poiché c’è molto disaccordo sulle Scritture mentre non può essercene

sulle verità matematiche. Né, disse Galileo, Dio ci si svela meno mirabilmente

nelle opere della natura che nelle Sacre Lettere.

Cosi l’enfasi cattolica su un universo razionalmente progettato da Dio e

l’accento pitagorico-platonico sulla matematica come realtà fondamentale del

mondo fisico furono fusi in un programma scientifico consistente essenzialmente

in quanto segue: la scienza doveva scoprire le relazioni matematiche soggiacenti a

ogni fenomeno naturale, rivelando così la grandezza e la gloria dell’opera di Dio.

Possiamo vedere che la scienza moderna derivò la sua ispirazione e iniziazione

da una filosofia che affermava il disegno matematico della natura. Il fine della

scienza era, similmente, un fine matematico, ossia la rivelazione di tale disegno.

Come si esprime Randall in Making of the Modern Mind, “la scienza nacque dalla

fede nell’interpretazione matematica della natura, una fede nutrita assai prima di

essere verificata empiricamente.”

La natura dell’attività scientifica quale era considerata dai pensatori del

Rinascimento è spesso intesa in modo scorretto. Molte persone attribuiscono la

nascita della scienza moderna all’introduzione della sperimentazione su vasta

scala e ritengono che le matematiche abbiano svolto solo occasionalmente la

funzione di un utile strumento. La realtà, come abbiamo indicato sopra, fu del

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tutto opposta. Gli scienziati del Rinascimento si accostarono allo studio della

natura in qualità di matematici; essi cercavano cioè, e si attendevano di trovare,

principi razionali vasti, profondi, immutabili, attraverso l’intuizione o una

percezione sensibile immediata, in un modo molto simile a quello in cui Euclide

trovò presumibilmente i suoi assiomi. Dall’esperienza ci si attendeva scarso aiuto

o addirittura non ci si pensava neppure. Lo scienziato si attendeva di dedurre poi

nuove leggi da questi principi. Lo scienziato del Rinascimento era un teologo il

cui oggetto di studio era non Dio bensì la natura. Per Galileo, Descartes, Huygens

e Newton la parte deduttiva, matematica, dell’impresa scientifica appariva sempre

più ampia della sperimentazione. Galileo stimava un principio scientifico, anche

quando era stato ottenuto attraverso la sperimentazione, assai più in virtù del gran

numero di teoremi che ne scaturivano deduttivamente che non della conoscenza

che forniva di per sé. Egli confessò inoltre di sperimentare raramente e

soprattutto, quando pure lo faceva, per confutare coloro che non seguono la

matematica.

È vero che furono fatti anche esperimenti; la maggior parte di essi furono però

dovuti ad artigiani e a tecnici i quali non ricercavano significati ultimi e leggi

universali bensì conoscenze pratiche, comuni. Inoltre gli esperimenti che furono

compiuti attorno alla metà del Seicento non furono decisivi. Non soltanto la teoria

matematica precedette e dominò la sperimentazione nel periodo formativo della

scienza moderna ma, abbastanza stranamente, la sperimentazione fu considerata

antiscientifica. La svolta verso la sperimentazione fu un movimento

antirazionalistico, contrario alla speculazione interminabile e fino allora sterile di

uno spirito religioso declinante e al dogmatismo religioso che così spesso era

stato trovato in errore. Molto tempo dopo il Rinascimento, gli sperimentalisti e i

teorici si accorsero di stare perseguendo i medesimi obiettivi e unirono allora i

loro sforzi.

Quello che i grandi pensatori del Rinascimento considerarono il procedimento

proprio della scienza si dimostrò di fatto la direzione più feconda. La ricerca

razionale di leggi della natura produsse, all’epoca di Newton, risultati di pregio

sulla base delle più esigue conoscenze osservative e sperimentali. I grandi

progressi dei secoli XVI e XVII ebbero luogo nel campo dell’astronomia, dove

l’osservazione offri ben poco di nuovo, e in quello della meccanica, dove la teoria

matematica raggiunse ampiezza e perfezione sulla base di una sperimentazione

assai limitata. Lo scienziato è raffigurato di solito in un laboratorio ingombro di

equipaggiamenti e congegni complicati; in realtà, durante il Rinascimento, i

principali scienziati lavorarono con carta e penna.

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IX. L’armonia del mondo

… come crear, distruggere, inventare,

salvare le apparenze, far mutare

la sfera col complesso articolato

di eccentrici e epicicli, d’orbe in orbe.

JOHN MILTON

Sul frontespizio del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico,

pubblicato nel 1543, anno della morte del suo autore, figurava la scritta apposta in

origine sull’ingresso dell’Accademia di Platone: “Non entri qui chi ignora la

geometria.” Il Rinascimento aveva dato i suoi primi frutti.

Forse gli intraprendenti mercanti delle città italiane ricevettero più di quanto si

aspettassero quando contribuirono alla rinascita della cultura greca. Essi si

proponevano semplicemente di promuovere un’atmosfera più libera e invece della

brezza che si aspettavano raccolsero tempesta. Lungi dal continuare ad abitare e

prosperare su un terreno solido, la terra firma, si trovarono aggrappati

precariamente a un globo in rapida rotazione che si muoveva attorno al Sole con

una velocità inconcepibile. Fu probabilmente un misero compenso per questi

mercanti il fatto che la medesima teoria che scosse la Terra e la mise in rotazione

liberasse anche la mente dell’uomo.

Le rinascenti università italiane furono il fertile suolo di queste fioriture del

pensiero. Qui fu inculcata a Niccolò Copernico la convinzione greca che la natura

è un armonioso miscuglio di leggi matematiche e qui anche egli acquistò

familiarità con l’ipotesi – anch’essa in origine greca – del moto planetario attorno

a un Sole in quiete. Nella mente di Copernico queste due idee si fusero.

L’armonia dell’universo richiedeva una teoria eliocentrica ed egli accettò di

muovere cielo e terra pur di stabilirla.

Copernico era nato in Polonia. Dopo aver studiato matematica e scienza

all’Università di Cracovia decise di recarsi a Bologna, dove si impartiva una

preparazione molto superiore. Qui egli studiò astronomia sotto la guida

dell’influente magister Domenico Maria da Novara, un importante pitagorico. Nel

1512 assunse l’incarico di canonico della cattedrale di Frauenburg, nella Prussia

Orientale; i suoi compiti erano quelli di amministratore delle proprietà della

Chiesa e di giudice di pace. Nei restanti trentun anni della sua vita spese però

molto tempo in una piccola torre annessa alla cattedrale a osservare

scrupolosamente i pianeti a occhio nudo e a compiere innumerevoli misurazioni

con rudimentali strumenti fatti in casa. Il tempo libero lasciatogli da tutte queste

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attività fu da lui dedicato a perfezionare la sua nuova teoria dei moti dei corpi

celesti.

Dopo lunghi anni di osservazioni e di riflessione matematica, Copernico fece

infine circolare un manoscritto che descriveva la sua teoria e le sue ricerche. Il

papa Clemente VII approvò l’opera e ne chiese la pubblicazione. Copernico però

esitò. I papi del Rinascimento si succedevano abbastanza rapidamente e a un papa

liberale poteva succederne uno reazionario. Dieci anni dopo Copernico fu

convinto a consentire alla pubblicazione dal giovane matematico Retico, che se ne

assunse la cura tipografica. Copernico ricevette una copia del libro sul letto di

morte, dove giaceva paralizzato in seguito a un colpo apoplettico. È improbabile

che riuscisse a leggere il libro poiché non si riprese più. Morì poco dopo in quello

stesso anno 1543.

All’epoca in cui Copernico si dedicò a ricerche nel campo dell’astronomia, la

scienza era all’incirca nello stesso stato in cui l’aveva lasciata Tolomeo. Era

diventato però sempre più difficile accordare col cielo di Tolomeo le conoscenze

e le osservazioni della Terra e del cielo accumulate, in gran parte dagli arabi, nel

corso dei secoli. Al tempo di Copernico era necessario ricorrere a un totale di 77

cerchi matematici per render ragione del moto del Sole, della Luna e dei 5 pianeti

con lo schema epiciclico esaminato nel capitolo sesto. Non stupisce che

Copernico accettasse con slancio le possibilità incluse nell’idea greca del moto

planetario attorno a un Sole stazionario.

Già incorporate nella teoria tolemaica erano alcune altre idee greche che

Copernico adottò. Anch’egli credeva che il moto circolare fosse il moto naturale

dei corpi celesti e perciò si servì del cerchio come della curva fondamentale su cui

costruire la sua teoria. Egli suppose perciò che ciascun corpo, ossia la Luna o un

pianeta, si muovesse su un cerchio il cui centro fosse in moto su un altro cerchio.

Per alcuni di questi cerchi suppose che il centro dell’ultimo cerchio si muovesse

su un terzo cerchio e, dove si rivelò necessario, ne introdusse ancora un quarto.

Centro dell’ultimo cerchio egli suppose fosse il Sole, mentre Ipparco e Tolomeo

avevano supposto fosse la Terra. Per una ragione mistica simile a quella dei greci

egli conservò la nozione che ogni corpo o punto si muove lungo il proprio cerchio

a velocità costante, benché il moto apparente del corpo non sia costante. Un

mutamento di velocità, argomentò Copernico, potrebbe essere causato solo da un

mutamento nella forza motrice e poiché Dio, la causa del moto, era immutabile,

l’effetto non poteva non essere costante.

Copernico procedette poi a compiere ciò che pare non fosse mai stato tentato da

nessun greco; eseguì l’analisi matematica richiesta dall’ipotesi eliocentrica.

Usando semplicemente il Sole là dove Ipparco e Tolomeo avevano usato la Terra,

Copernico vide che poteva ridurre il numero totale dei cerchi richiesti da 77 a 31.

Più tardi, per garantirsi un accordo migliore con l’osservazione, perfezionò in

qualche misura la sua teoria collocando il Sole in prossimità, ma non in perfetta

coincidenza, col centro di questi insiemi di cerchi.

Quando Copernico si rese conto della straordinaria semplificazione matematica

resa possibile dall’ipotesi eliocentrica, la sua soddisfazione e il suo entusiasmo

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furono illimitati. Egli aveva trovato una spiegazione che doveva quindi essere

preferita poiché Copernico, come tutti gli scienziati del Rinascimento, era

convinto che la “Natura si compiace della semplicità e non ricerca lo sfarzo di

cause superflue.” Copernico poteva inoltre gloriarsi di aver osato pensare in tutte

le sue implicazioni ciò che altri, compreso Archimede, avevano rifiutato come

assurdo.

Copernico non portò a termine l’impresa iniziata. Benché l’ipotesi di un Sole in

quiete semplificasse considerevolmente la teoria e i calcoli astronomici, le

traiettorie epicicliche dei pianeti non si adattavano perfettamente alle osservazioni

e i tentativi di Copernico di correggere la sua teoria, sempre sulla base di moti

circolari, non ebbero successo.

Il completamento e l’estensione dell’opera di Copernico, una cinquantina di

anni dopo, sarebbero stati realizzati dal tedesco Keplero. Come la maggior parte

dei giovani di quell’epoca che dimostravano interesse per il sapere, Keplero era

stato avviato al sacerdozio. Mentre studiava all’Università di Tubinga, ricevette

lezioni private sulla teoria copernicana da un insegnante di cui era diventato

amico. La semplicità di questa teoria colpì profondamente Keplero.

Quest’interesse suscitò forse sospetti nei superiori della Chiesa luterana, i quali

misero in dubbio la devozione di Keplero, ne troncarono bruscamente la carriera

ecclesiastica e gli assegnarono la cattedra di matematica e di morale all’Università

di Graz. I suoi compiti richiedevano la conoscenza dell’astrologia cosicché egli

venne a padroneggiare le regole di quest’“arte.” Egli verificò così in pratica le

predizioni che aveva fatto sul proprio destino.

Come attività estranea al curriculum, egli applicò la matematica al matrimonio.

Quando era a Graz aveva sposato una ricca ereditiera. Quando questa morì, egli

fece un elenco delle giovani donne candidate a sostituirla, classificò ciascuna sulla

base di una serie di qualità e fece una media dei punteggi. Poiché le donne sono

notoriamente meno razionali della natura, la candidata classificata al primo posto

si rifiutò di obbedire ai dettati della matematica e declino l’onore di diventare

Frau Kepler. Solo sostituendo un valore numerico più piccolo egli poté soddisfare

l’equazione del matrimonio.

L’interesse di Keplero per l’astronomia persistè ed egli lasciò Graz per

diventare un assistente dell’osservatore più famoso, Tycho Brahe. Alla morte di

Ticone, Keplero gli successe come astronomo ufficiale; parte dei suoi compiti

furono nuovamente di natura astrologica: gli fu chiesto infatti di redigere oroscopi

per dignitari della corte del suo datore di lavoro, l’imperatore Rodolfo II. Egli si

adattò a questo lavoro con la riflessione filosofica che la natura aveva fornito

mezzi di sussistenza a tutti gli animali. Era solito parlare dell’astrologia come

della figlia dell’astronomia che nutriva la propria madre.

Durante gli anni trascorsi come astronomo dell’imperatore Rodolfo, Keplero

svolse la parte più impegnativa del suo lavoro. È estremamente interessante

osservare che né lui né Copernico riuscirono mai a sbarazzarsi dello scolasticismo

da cui la loro epoca stava emergendo. Keplero, in particolare, mescolò nel suo

approccio all’astronomia scienza e matematica con teologia e misticismo così

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come combinò un’immaginazione prodigiosa con una cura estrema e una pazienza

straordinaria.

Colpito dalla bellezza e dalle relazioni armoniose del sistema copernicano,

decise di dedicarsi alla ricerca di qualsiasi ulteriore armonia geometrica che

potesse essere suggerita dai dati delle osservazioni di Brahe e inoltre di trovare le

relazioni matematiche che collegavano insieme tutti i fenomeni della natura. La

sua inclinazione a voler adattare l’universo a un modello matematico preconcepito

gli fece spendere però anni interi seguendo false tracce. Nella prefazione al suo

Mysterium cosmographicum (1596) Keplero scrive:

In questo piccolo libro, caro lettore, mi sono proposto di dimostrare che il Creatore Ottimo

Massimo, nella creazione di questo nostro mondo mobile e nella disposizione dei cieli, ha

guardato a quei cinque corpi regolari che hanno goduto di così gran fama dai tempi di Pitagora

e Platone sino ai nostri giorni, e che alla loro natura ha uniformato il numero e la proporzione

dei cieli, e i rapporti dei moti celesti.

Egli postulò pertanto che i raggi

delle orbite dei pianeti fossero i

raggi delle sfere associate ai

cinque solidi regolari nel modo

seguente. Il raggio più grande era

quello dell’orbita di Saturno. Egli

suppose che in una sfera di questo

raggio fosse inscritto un cubo. In

questo cubo era inscritta a sua

volta una sfera il cui raggio era

quello dell`orbita di Giove. In

questa sfera supponeva fosse

inscritto un tetraedro e in questo

un’altra sfera, il cui raggio era

quello dell’orbita di Marte, e così

via fino a utilizzare tutti e cinque i

solidi regolari (tavola V). Lo

schema richiedeva sei sfere, le

quali si adattavano perfettamente

al numero dei pianeti noti a

quell’epoca. La bellezza e

l’armonia dello schema lo convinsero a tal punto che per qualche tempo sostenne

che potevano esistere solo sei pianeti poiché c’erano solo cinque solidi regolari

che potevano determinarne le distanze.

Benché la pubblicazione di quest’ipotesi “scientifica” rendesse Keplero famoso

e costituisca una lettura affascinante ancor oggi, le deduzioni da tale ipotesi non

erano purtroppo in accordo con le osservazioni. Keplero abbandonò con riluttanza

Tavola V Le orbite dei pianeti come effetto

di Cinque Solidi Regolari, da L’Armonia del

Cosmo (1596) di Keplero

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quest’idea ma non prima di aver compiuto sforzi straordinari per applicarla in una

forma modificata.

Se il tentativo di usare i cinque solidi regolari per scoprire i segreti della natura

non ebbe un esito positivo, Keplero ebbe invece un grande successo negli sforzi

che compì più tardi per trovare relazioni matematiche armoniche. I suoi risultati

più famosi e importanti sono noti oggi come le tre leggi di Keplero dei moti

planetari. Queste leggi divennero così famose e così preziose per la scienza da

valere a Keplero il titolo di “legislatore del cielo.”

La prima di queste leggi dice che l’orbita di ogni pianeta non è un cerchio bensì

un’ellisse di cui il Sole non occupa il centro bensì un punto leggermente spostato,

noto come il fuoco dell’ellisse (fig. 18). La sostituzione dell’ellisse al cerchio

eliminò quel bisogno di più moti circolari sovrapposti l’uno all’altro che la teoria

epiciclica utilizzava per descrivere il moto di un pianeta. (È degno di nota il fatto

che Keplero utilizzò una conoscenza matematica che era stata sviluppata dai greci

quasi duemila anni prima.) La semplicità ottenuta grazie all’introduzione

dell’ellisse lo convinse a rinunciare ai tentativi di usare moti circolari uniformi.

Fig. 18. Illustrazione della prima e seconda legge di Keplero.

La seconda legge di Keplero concerne le velocità dei pianeti. Copernico, come

abbiamo visto, insisté sul principio della velocità costante, secondo il quale ogni

pianeta si muove sul suo cerchio di moto uniforme; il centro di questo cerchio si

muoveva con velocità costante su un altro cerchio e così via. Keplero tenne fermo

dapprima alla dottrina secondo cui ogni pianeta si muove lungo la propria ellisse a

una velocità costante ma le osservazioni lo costrinsero infine ad abbandonare

questa convinzione, per quanto grata gli fosse. Fu grande la sua gioia quando

scoprì che poteva sostituirla con una legge altrettanto elegante, la quale rafforzava

la sua convinzione che la natura fosse matematica.

Se MM' e NN' (fig. 18) sono le distanze percorse da un pianeta in intervalli di

tempo uguali, allora, secondo il principio della velocità costante, MM' e NN'

dovrebbero essere distanze uguali. Per la seconda legge di Keplero, tuttavia, MM'

e NN' sono in generale disuguali ma tali che, essendo O la posizione del Sole,

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sono uguali le aree OMM' e ONN'. Keplero sostituì così a distanze uguali aree

uguali e il disegno matematico dell’universo rimaneva intatto. Strappare al cielo

un tale segreto era di fatto un trionfo, poiché la relazione descritta non è affatto

così facilmente discernibile come può apparire qui sulla carta. Keplero pubblicò

questa legge e la legge del moto ellittico nell’anno 1609, nel libro intitolato

Astronomia nova.

La terza legge di Keplero è altrettanto famosa delle prime due. Essa dice che il

quadrato del tempo di rivoluzione di ogni pianeta è proporzionale al cubo della

sua distanza media dal Sole; ossia, che il rapporto delle due quantità è il

medesimo per tutti i pianeti. Questa formula può essere usata per calcolare il

periodo di rivoluzione di ogni pianeta a partire dalla sua distanza media dal Sole

oppure, conoscendo il periodo di rivoluzione, per calcolare la distanza media dal

Sole.

È chiaro che concetti matematici e leggi matematiche sono l’essenza della

nuova teoria astronomica. Ciò che è però ancor più significativo è il fatto che la

sua eccellenza matematica la rese cara sia a Copernico sia a Keplero nonostante ci

fossero molti gravi argomenti in contrario. Di fatto, se Copernico o Keplero

fossero stati meno matematici e più scienziati, o uomini animati da una religiosità

cieca, o anche se fossero stati quelli che il mondo chiama uomini giudiziosi, non

avrebbero mai potuto tener duro. Le obiezioni scientifiche a una Terra in moto

erano numerose. Né era possibile spiegare come la grave materia della Terra

potesse essere messa e mantenuta in movimento, una questione di grande peso

posta da uomini secondo i quali soltanto i corpi celesti erano leggeri e potevano

pertanto esser mossi facilmente. La risposta migliore che Copernico potesse dare

era che per una sfera fosse naturale muoversi. Altrettanto difficile era rispondere

alla seguente obiezione: perché la rotazione della Terra non causa la proiezione di

oggetti nello spazio allo stesso modo in cui un oggetto fatto ruotare al capo di una

funicella tende a volar via? In particolare, perché la Terra stessa non si dissolve in

frantumi? La prima domanda rimaneva del tutto senza risposta. All’ultima

Copernico rispondeva che, essendo il moto naturale, non avrebbe potuto avere

l’effetto di distruggere il corpo. Egli contrattaccava a sua volta chiedendo come

mai il cielo non cadesse in pezzi sotto l’effetto del moto supposto dall’ipotesi

geocentrica. Del tutto senza risposta restava anche l’obiezione, legata alla prima

domanda, che se la Terra ha una rotazione da occidente a oriente, un oggetto

scagliato in aria dovrebbe ricadere a ovest rispetto alla posizione da cui è stato

lanciato. E ancora se, come avevano praticamente ritenuto tutti gli scienziati

dall’epoca dei greci, il moto di un oggetto è proporzionale al suo peso, perché la

Terra, nel Suo moto attorno al Sole, non si lasciava indietro gli oggetti di minor

peso? Anche l’aria che circonda la Terra dovrebbe essere lasciata indietro. Benché

Copernico non potesse render ragione del fatto che tutti gli oggetti che si trovano

sulla Terra si muovono con essa, si “sbarazzò” del moto dell’aria sostenendo che

essa partecipa della natura della terra e pertanto ruota in simpatia con la Terra.

Tutte le obiezioni scientifiche alla nuova teoria eliocentrica erano genuine e

derivavano dal fatto che quell’epoca accettava ancora la fisica aristotelica. Le

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obiezioni non potevano trovare risposte soddisfacenti e non le trovarono infatti

fino alla creazione della fisica newtoniana.

Le argomentazioni scientifiche contro il copernicanesimo furono compendiate

nel 1622 niente meno che da Francesco Bacone, il padre della scienza empirica:

Nel sistema di Copernico si trovano molti e grandi inconvenienti: poiché l’attribuzione alla

Terra di un triplice moto è assai scomoda, e altrettanto difficile è la separazione del Sole dalla

compagnia dei pianeti con i quali ha tante passioni in comune e così pure l’introduzione di una

così grande immobilità in natura, quale si ha rappresentando come immobili il Sole e le stelle...

Tutte queste sono speculazioni di uno che non si preoccupa delle finzioni che introduce in

natura purché i suoi calcoli tornino.

Benché le argomentazioni di Bacone non fossero particolarmente brillanti,

l’opposizione di un uomo della sua reputazione e abilità non poteva esser messa

facilmente da parte. Il conservatorismo di Bacone era dovuto, per inciso, alla sua

incapacità di apprezzare l’importanza della misurazione esatta, pur con tutta la sua

insistenza sull’osservazione.

Se Copernico e Keplero fossero stati uomini “pratici”, più “ragionevoli”, non

avrebbero mai sfidato i loro sensi. Noi non percepiamo né la rotazione né la

rivoluzione della Terra nonostante che la teoria copernicana ci assegni una

velocità elevatissima. D’altra parte percepiamo in apparenza il moto del Sole. Per

il famoso astronomo Tycho Brahe, grandissimo osservatore, queste e altre

argomentazioni erano una prova conclusiva del fatto che la Terra dev’essere

stazionaria. Per usare le parole di Henry More, “i sensi sostengono la causa di

Tolomeo.”

Se Copernico e Keplero avessero aderito alla religione in modo cieco e

ortodosso, non sarebbero stati disposti a investigare le possibilità di un’ipotesi

eliocentrica. La teologia medievale, sostenuta dal sistema tolemaico, vedeva

nell’uomo il centro dell’universo e la pupilla degli occhi di Dio, per il quale Dio

aveva creato appositamente il Sole, la Luna e le stelle. Ponendo il Sole al centro

dell’universo, la teoria eliocentrica negava questo dogma confortante. Essa faceva

apparire l’uomo come uno tra i numerosi possibili viandanti su molti pianeti che,

a loro volta, vagavano per un freddo cielo. Egli era un insignificante granello di

polvere su un globo roteante invece che un attore protagonista sulla scena

centrale. Era perciò improbabile che egli fosse nato per vivere gloriosamente e

raggiungere dopo la morte il paradiso o che egli fosse l’oggetto delle cure speciali

di Dio. Il sacrificio di Cristo per un essere insignificante come l’uomo appariva

vano. Il cielo come sede di Dio, la destinazione dei santi e di un Dio asceso dalla

Terra, e il paradiso cui i buoni potevano aspirare, veniva infranto dal passaggio di

una Terra in rapido movimento. In breve, la distruzione dell’ordine tolemaico

dell’universo smuoveva le pietre angolari dell’edificio cristiano e minacciava di

far crollare l’intera struttura.

La propensione di Copernico a combattere il pensiero religioso è in chiara

evidenza in un passo della lettera dedicatoria al papa Paolo III:

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Se ci saranno ciarlatani che, pur essendo completamente digiuni di matematica, ardiranno

nondimeno tranciar giudizi su questioni matematiche fondandosi su qualche luogo della

scrittura sconvenientemente distorto ai loro fini, e oseranno trovare a ridire sulla mia opera e

criticarla, li ignorerò al punto di disprezzare il loro giudizio come temerario.

La religione, la scienza fisica, il senso comune e la stessa astronomia si

piegavano alla matematica per ordine di Copernico e di Keplero. Essi dovettero

combattere molte dottrine astronomiche stabilite o nella teoria tolemaica o in

abbellimenti medievali delle dottrine di Aristotele. Si riteneva, ad esempio, che i

pianeti, il Sole e la Luna fossero perfetti, inalterabili, incorruttibili, mentre la

Terra aveva le qualità contrarie. La nuova teoria classificava la Terra insieme agli

altri pianeti. L’ipotesi di una Terra in movimento richiede inoltre il moto delle

stelle relativamente alla Terra. Le osservazioni compiute da astronomi del

Cinquecento e del Seicento non riuscirono però a mettere in evidenza questo moto

relativo. Ora, nessuna ipotesi scientifica che sia in contraddizione anche con un

solo fatto è realmente sostenibile. Copernico e Keplero tennero nondimeno fermo

alla loro concezione eliocentrica. Questi amanti della matematica stavano

costruendo una bella teoria. Se la teoria non si adattava a tutti i fatti, tanto peggio

per i fatti.

Copernico, pur mantenendosi deliberatamente nel vago sulla questione del

moto della Terra relativamente alle stelle, si sbarazzò dapprima del problema

affermando che le stelle si trovano a una distanza infinita. Evidentemente non era

però troppo soddisfatto di quest’affermazione e quindi lasciò il problema ai

filosofi. La vera spiegazione, che le stelle sono lontanissimo dalla Terra, così

lontane da renderne il moto relativo non rilevabile, non era accettabile per i

“greci” del Rinascimento, i quali credevano ancora in un universo chiuso e

limitato. Le vere distanze erano molto oltre qualsiasi misura che essi potessero

concepire come ragionevole. Di fatto, il problema di render conto del moto delle

stelle relativamente alla Terra non fu risolto fino all’anno 1838, quando il

matematico Bessel misurò infine la parallasse della stella più vicina e trovò che

era di 0”,76.

In considerazione di tutti questi argomenti e forze che agivano contro la nuova

teoria, perché Copernico e Keplero la sostennero? Sapendo che le grandi

esplorazioni della loro epoca richiedevano un’astronomia più precisa, si sarebbe

tentati di assegnare la motivazione della loro opera al bisogno di informazioni

geografiche più attendibili e a tecniche di navigazione perfezionate. Copernico e

Keplero non si occuparono però affatto di questi problemi pratici, per quanto

urgenti. Ciò di cui questi uomini furono debitori nei confronti del loro tempo fu

l’opportunità di entrare in contatto col pensiero greco, un’opportunità fornita dalla

rinascita della cultura in Italia. Copernico, come abbiamo visto, studiò appunto in

Italia e Keplero beneficiò dell’opera di Copernico. Entrambi gli uomini dovettero

dunque al loro tempo un’atmosfera certamente più favorevole all’accettazione di

nuove idee di quella che c’era stata due secoli prima. Le esplorazioni geografiche,

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la Rivoluzione protestante e tanti altri movimenti che avevano un largo seguito

stavano sfidando il conservatorismo e la compiacenza di sé, tanto che una nuova

teoria non aveva bisogno di affrontare l’urto della naturale opposizione al

mutamento.

Di fatto, Copernico e Keplero svilupparono le loro teorie, per quanto

rivoluzionarie, per soddisfare taluni interessi filosofici e religiosi.

Avendo tratto dal pitagorismo la convinzione che l’universo è una struttura

sistematica, armonica, la cui essenza è una legge matematica, essi si dedicarono a

scoprirne l’essenza, Le opere edite di Copernico forniscono indicazioni

inequivocabili, anche se indirette, delle ragioni che lo indussero a dedicarsi

all’astronomia. Egli apprezzò la sua teoria del moto planetario non per il fatto che

essa consente di perfezionare certe tecniche utili alla navigazione ma perché

rivela la vera armonia, simmetria e disegno dell’opera divina. Essa è una prova

meravigliosa e incontestabile della presenza di Dio. Descrivendo i risultati dei

suoi studi, che rimasero in fieri trent’anni, Copernico espresse la sua

soddisfazione:

Noi troviamo in quest’ordine la mirabile armonia del mondo e una relazione certa tra il moto

e la grandezza degli orbi, quale non si può trovare in altro modo.

Nella prefazione alla sua opera principale, il De revolutionibus, egli dice che il

Concilio Lateranense gli aveva chiesto di contribuire alla riforma del calendario,

che nel corso di un periodo di più secoli si era allontanato sempre più dalla realtà

astronomica. Pur scrivendo di aver considerato il problema, è evidente che non vi

si impegnò mai.

Anche Keplero manifestò quali erano i suoi interessi più profondi. Le sue opere

edite, il frutto delle sue fatiche, attestano la sincerità della ricerca dell’armonia e

della legge nelle creazioni del potere divino. Nella prefazione al Mysterium

cosmographicum egli scrisse:

Felice colui che si dedica allo studio del cielo; egli impara ad attribuir meno valore a ciò che

il mondo ammira di più; le opere di Dio sono per lui al di sopra di ogni altra cosa e il loro

studio fornirà le gioie più pure.

Un trattato maggiore, intitolato Harmonice mundi, edito da Keplero nel 1619,

esponeva di fatto un sistema di armonie celesti, una nuova “musica delle sfere”,

che faceva uso delle mutevoli velocità dei sei pianeti. Queste armonie venivano

sentite dal Sole, a cui Keplero attribuì un’anima esclusivamente a questo fine. Per

evitare che qualcuno consideri questo trattato una caduta nel misticismo poetico,

ci affrettiamo a dire che esso annunciava anche la famosa terza legge dei moti

planetari.

L’opera di Copernico e di Keplero fu l’opera di uomini che indagavano

l’universo alla ricerca di quell’armonia che, secondo le loro concezioni

scientifico-religiose, doveva immancabilmente esistere, ed esistere in una forma

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matematica esteticamente soddisfacente. È vero che anche la teoria tolemaica

offriva leggi matematiche dell’universo e Copernico e Keplero ammisero che

poiché l’astronomia era geometria e la geometria era verità, entrambe le teorie

potevano esser vere poiché entrambe erano buona geometria. La nuova teoria era

però matematicamente più semplice e più armoniosa.

Per uomini convinti che un essere onnipotente che avesse progettato un

universo matematico avrebbe preferito certamente questi caratteri superiori, la

nuova teoria era necessariamente giusta. Di fatto soltanto un matematico che

avesse la certezza che l’universo sia ordinato in modo razionale e semplice

avrebbe avuto la fermezza mentale di opporsi alle dominanti convinzioni

filosofiche, religiose e scientifiche e la perseveranza di elaborare la parte

matematica di un’astronomia tanto rivoluzionaria. Soltanto uomini in possesso di

convinzioni incrollabili circa l’importanza della matematica nel disegno

dell’universo avrebbero osato sostenere la nuova teoria contro la potente

opposizione in cui si sarebbe sicuramente imbattuta. È un fatto storico che

Copernico si rivolse ai soli matematici perché si attendeva che solo questi lo

capissero e da questo punto di vista non andò deluso.

Ammesso che sia stata la superiore matematica della nuova teoria a indurre

Copernico e Keplero, e più tardi Galileo, a ripudiare convinzioni religiose,

argomenti scientifici, senso comune e abiti mentali ben consolidati, in che modo

la teoria contribuì a formare i tempi moderni?

Innanzitutto, la teoria copernicana ha fatto, per determinare il contenuto della

scienza moderna, più di quanto venga generalmente riconosciuto. La singola

legge scientifica più importante e più utile è la legge newtoniana della

gravitazione. Senza anticiparne qui la discussione, che rimandiamo a un luogo più

appropriato di questo libro, possiamo dire che la migliore prova sperimentale per

questa legge, quella da cui essa viene fondata, dipende per intero dalla teoria

eliocentrica.

In secondo luogo, questa teoria è responsabile di un nuovo orientamento nella

scienza e nel pensiero umano, un orientamento appena percepibile a quell’epoca

ma di primaria importanza oggi. Poiché i nostri occhi non vedono la rotazione e la

rivoluzione della Terra, la nuova teoria rifiutò l’evidenza dei sensi. Le cose non

sono quel che sembrano. I dati sensoriali potrebbero essere svianti e la ragione è

l’unica guida attendibile. Copernico e Keplero posero quindi il precedente che

guida la scienza moderna, ossia che nella comprensione e nell’interpretazione

dell’universo la ragione e la matematica sono più importanti dell’evidenza dei

sensi. Grandi parti della teoria elettrica e di quella atomica e l’intera teoria della

relatività non sarebbero mai state concepite se gli scienziati non fossero

addivenuti ad accettare quella fiducia totale nella ragione esemplificata per la

prima volta dalla teoria copernicana. In questo senso molto significativo

Copernico e Keplero aprirono l’Età della Ragione, oltre a svolgere la funzione

cardinale di scienziati e matematici, cioè di fornire una comprensione razionale

dell’universo.

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Riducendo a proporzioni più modeste le ambizioni dell’Homo sapiens, la teoria

copernicana riapriva questioni a cui i custodi della civiltà occidentale avevano

dato una risposta dogmatica sulla base della teologia cristiana. Una volta c’era

stata una sola risposta; ora c’erano molte risposte a domande fondamentali come

le seguenti: Perché l’uomo desidera vivere e a qual fine? Perché dovrebbe esser

morale e ispirarsi nella sua vita a princìpi etici? Perché dovrebbe cercare di

preservare la razza? Una cosa è rispondere a tali domande nella convinzione che

l’uomo sia il figlio e pupillo di un Dio generoso, potente e provvidente; una cosa

del tutto diversa è rispondere ad esse sapendo che l’uomo è un granello di polvere

trasportato da un ciclone.

La teoria copernicana gettò tali domande in faccia a tutti gli esseri umani

pensanti, che proprio in quanto esseri pensanti non poterono respingere la sfida.

Le loro lotte per recuperare il loro equilibrio mentale, che era ancor più sconvolto

dall’opera matematica e scientifica seguita a Copernico e Keplero, forniscono la

chiave per la comprensione della storia del pensiero degli ultimi secoli.

Molti elementi si colgono nella letteratura postkepleriana, nella quale è

evidente l’agitazione creata dalle nuove e inquietanti idee. Il metafisico John

Donne, benché soddisfatto dello scolasticismo enciclopedico e sistematico in cui

era stato educato, fu costretto a riconoscere l’indesiderabile complessità a cui

aveva condotto la teoria tolemaica:

Pensiam gioisca il ciel della sua tonda

sferica proporzion che il tutto abbraccia,

eppure il corso vario e avviluppato,

osservato nei secoli, costringe

l’uomo a inventar tante eccentriche parti,

tante linee traverse e differenti

da sfigurare quella forma pura.

Benché le argomentazioni a favore del copernicanesimo fossero chiare a

Donne, egli poteva solo deplorare che il Sole e i pianeti non si muovessero più in

cerchio attorno alla Terra.

Anche Milton meditò sulla sfida lanciata alla teoria tolemaica ma non fece

alcuna scelta decisiva. Entrambe le teorie sono descritte nel Paradiso perduto.

Incapace di affrontare la nuova matematica sul suo terreno, egli ne rimproverò

invece i creatori. L’uomo dovrebbe ammirare, non interrogare, le opere di Dio.

Saggiamente decise l’Architetto divino

i suoi disegni di tenere per sé, segreti e sconosciuti all’uomo

e agli angeli, e accessibili soltanto

a colui che desideri ammirarli...

D’altri pensieri non gravar la mente,

ma serbala a Dio sol...

…umile e saggio;

quel che sol te concerne e l’esser tuo pensa...

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Eppure anche Milton era inconsapevolmente indotto ad accettare uno spazio

più misterioso e più vasto, ad esempio, dello spazio compatto e minuziosamente

definito di Dante.

Le garbate rimostranze dei poeti, più moderati, la satira di Ben Jonson, le

argomentazioni scientifiche di Bacone e le espressioni di gelosia personale, di

scherno, dei professori, le confutazioni matematiche del brillante Cardano, il

risentimento degli astrologi che temevano per i loro mezzi di sussistenza, lo

scetticismo di Montaigne, il rifiuto totale da parte di Shakespeare e la menzione

condiscendente da parte di John Milton valsero a Copernico la fama di un nuovo

Duns Scoto, il dotto pazzo. Nel 1597 Galileo scrisse a Keplero, descrivendo

Copernico come un uomo che, “pur essendosi procurato fama immortale fra i

pochi, è nondimeno oggetto di ridicolo e di scherno presso i più.”

Ma l’opinione dei pochi prevalse. La rivoluzione culturale acquistò peso; la

gente fu costretta a pensare, a mettere in discussione i dogmi esistenti e a

riesaminare convinzioni accettate da molto tempo. Da queste critiche e dal

riesame emersero molti fra i principi filosofici, religiosi ed etici ora accettati

senza discussione nella civiltà occidentale. Ma il contributo di gran lunga più

importante della teoria eliocentrica ai tempi moderni è quello dato alla lotta per la

libertà di pensiero e d’espressione. Il trattamento ricevuto in principio dalla teoria

eliocentrica illustra una generalizzazione abbastanza sicura: la reazione al

mutamento è reazionaria. Poiché l’uomo è conservatore, una creatura abitudinaria,

e convinto della sua propria importanza, la nuova teoria fu decisamente sgradita.

Inoltre gli interessi costituiti di dotti e capi religiosi ben sistemati nelle posizioni

di potere indussero questi a opporsi. La lotta più importante nella storia, quella

per la libertà della mente umana, fu associata al problema del diritto a sostenere

l’eliocentrismo. Fra gli anticopernicani più violenti furono i protestanti, che pure

avevano rotto anch’essi col tradizionalismo.

Gli autonominatisi rappresentanti di Dio diedero l’avvio alla lotta con attacchi

non certo leali. Martin Lutero definì Copernico “un astrologo venuto fuori

recentemente” e “un pazzo che desidera sconvolgere l’intera scienza

dell’astronomia.” Calvino tuonò: “Chi ardirà porre l’autorità di Copernico al di

sopra di quella dello Spirito Santo?” Non dicono forse le Scritture che Giosuè

comandò al Sole e non alla Terra di fermarsi? Che il Sole si muove da un capo

all’altro del cielo? Che le fondazioni della Terra sono salde e non possono essere

scosse? Impariamo come si va al cielo e non come va il cielo, protestava un

cardinale. L’Inquisizione condannò la nuova teoria come “quella falsa dottrina

pitagorica, totalmente contraria alla Sacra Scrittura”, e nel 1616 l’Indice dei libri

proibiti bandiva tutte le pubblicazioni attinenti al copernicanesimo. Di fatto, se il

furore e l’alto livello dell’opposizione sono una buona indicazione

dell’importanza di un’idea, nessuna idea più importante di quella copernicana fu

più avanzata in futuro.

Lo spirito di ricerca fu così scosso in quest’epoca che quando Galileo scoprì i

quattro satelliti di Giove, alcuni scienziati e religiosi si rifiutarono di applicar

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l’occhio al cannocchiale per vederli a loro volta. E molti che si lasciarono tentare

si rifiutarono di credere ai propri occhi. Fu questo atteggiamento di bigotteria a

rendere pericolosa l’adesione alla nuova ipotesi. Si rischiava la fine di Giordano

Bruno, che era stato mandato a morte dall’Inquisizione “nel modo più

misericordioso possibile e senza spargimento di sangue,” la terribile formula che

indicava la morte sul rogo.

Nonostante la precedente proibizione ecclesiastica di opere sul

copernicanesimo, il papa Urbano VIII consentì a Galileo di pubblicare un libro

sull’argomento; il papa riteneva infatti che nessuno avrebbe mai potuto

dimostrare che la teoria di Copernico fosse necessariamente vera. Nel 1632 uscì

dunque il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in cui Galileo metteva a

confronto le dottrine geocentriche e quelle eliocentriche. In omaggio alla Chiesa e

per superare senza ostacolo lo scoglio dei censori, Galileo incluse una prefazione

in cui si sosteneva che l’eliocentrismo era solo un prodotto dell’immaginazione.

Galileo scriveva però troppo bene e il papa cominciò a temere che le

argomentazioni a favore dell’eliocentrismo, come una bomba a scoppio ritardato,

potessero provocare gravi danni alla fede cattolica. La Chiesa insorse ancora una

volta contro un’eresia “più scandalosa, più detestabile e più perniciosa per la

cristianità di quelle contenute nei libri di Calvino, di Lutero e di altri eretici messi

insieme.” Galileo fu convocato a Roma dall’Inquisizione e costretto, sotto la

minaccia della tortura, a dichiarare che sull’erroneità del sistema copernicano non

possono sussistere dubbi, specialmente da parte dei cattolici.

La minaccia del rogo, della ruota, della forca e di vari e ingegnosi strumenti di

tortura contribuì indubbiamente molto più all’ortodossia che al progresso

scientifico. Sentendo parlare della persecuzione di cui era stato oggetto Galileo,

Descartes, che era individuo timoroso e apprensivo, rinunciò a sostenere la nuova

teoria e distrusse alcune sue opere che ne trattavano.

La teoria eliocentrica divenne nondimeno un’arma potente con cui combattere

contro la repressione della libertà di pensiero. La verità (almeno nel Seicento e

Settecento) della nuova teoria e la sua incomparabile semplicità attrassero sempre

più seguaci man mano che la gente si rese gradualmente conto che gli

insegnamenti dei capi religiosi potevano essere soggetti a errore. Divenne presto

impossibile per questi capi conservare la loro autorità su tutta l’Europa e fu

preparata la via al libero pensiero in tutti i campi. Certo l’emancipazione della

scienza dalla teologia data da questa controversia.

L’importanza di questa battaglia e il suo esito favorevole non dovrebbero andar

perduti per noi. Coloro che ancora posseggono e coloro che hanno perduto le

libertà acquistate in epoca così recente nella civiltà occidentale non possono non

apprezzare quanto era in gioco nella battaglia per far progredire la teoria

eliocentrica e quanto dobbiamo agli uomini di intelletto gigantesco e di coraggio

straordinario che intrapresero la lotta. Fortunatamente per noi, gli stessi roghi che

hanno consumato i martiri della libertà di pensiero hanno anche diradato le

tenebre del Medioevo. La lotta per imporre la teoria eliocentrica allentò anche la

stretta mortale del clericalismo sulla mente dell’uomo. Le argomentazioni

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matematiche si rivelarono più cogenti di quelle teologiche e la battaglia per la

libertà di pensiero e di espressione fu finalmente vinta. La Dichiarazione

d’indipendenza scientifica è una collezione di teoremi matematici.

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X. Pittura e prospettiva

Il mondo è il libro dove il Senno eterno

scrisse i propri concetti, e vivo tempio

dove, pingendo i gesti e ‘l proprio esempio,

di statue vive ornò l’imo e ‘l superno.

TOMMASO CAMPANELLA

Nel Medioevo la pittura, che aveva un po’ la funzione di ancella della Chiesa,

si concentrò sull’abbellimento delle idee e delle dottrine del cristianesimo. Verso

la fine di questo periodo anche i pittori cominciarono a interessarsi al mondo

naturale. Ispirati dalla nuova enfasi sull’uomo e sull’universo, gli artisti del

Rinascimento osarono porsi di fronte alla natura, studiarla in modo approfondito e

minuzioso e ritrarla realisticamente. I pittori rivissero la gloria e la felicità di un

mondo vivo e riprodussero belle forme che attestavano l’incanto dell’esistenza

fisica, il diritto inalienabile a soddisfare desideri naturali e i piaceri offerti dalla

terra, dal mare e dall’aria.

Per varie ragioni il problema di dipingere il mondo reale condusse i pittori del

Rinascimento alla matematica. La prima ragione è di ordine generale e potrebbe

operare in ogni epoca in cui l’artista cerchi di riprodurre i suoi oggetti

realisticamente. Privati di colore e di sostanza, gli oggetti collocati dai pittori sulla

tela sono corpi geometrici situati nello spazio. Il linguaggio per occuparsi di

questi oggetti idealizzati, le proprietà che essi posseggono in quanto

idealizzazioni e le relazioni esatte descritte dalle loro collocazioni relative nello

spazio sono tutti compresi nella geometria euclidea. Gli artisti hanno bisogno

soltanto di utilizzarla.

Gli artisti del Rinascimento si volsero alla matematica non soltanto perché

cercavano di riprodurre la natura bensì anche perché erano influenzati dalla

recuperata filosofia dei greci. Essi acquistarono piena familiarità con la dottrina

secondo cui la matematica è l’essenza del mondo reale, secondo cui l’universo è

ordinato e spiegabile razionalmente in termini geometrici. Perciò, come i filosofi

greci, essi ritenevano che, per penetrare il significato riposto, ossia la realtà

dell’argomento che cercavano di dispiegare sulla tela, fosse necessario ridurlo al

suo contenuto matematico. Un esempio molto interessante del tentativo

dell’artista di scoprire l’essenza matematica del suo tema si trova in uno degli

studi di Leonardo sulla proporzione. In esso egli cercò di adattare la struttura

dell’uomo ideale alle figure ideali, quelle del quadrato e del cerchio (tavola VI).

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L’assoluta utilità della

matematica per una descrizione

esatta e la filosofia che vedeva

nella matematica l’essenza della

realtà sono soltanto due fra le

ragioni per cui gli artisti del

Rinascimento cercavano di

usare la matematica. C’era però

anche un’altra ragione. Gli

artisti del Basso Medioevo e del

Rinascimento erano anche

architetti e ingegneri ed erano

pertanto necessariamente inclini

alla matematica. Uomini

d’affari, principi secolari e

funzionari ecclesiastici

assegnavano tutti agli artisti

problemi di costruzione. Questi

progettavano e costruivano

chiese, ospedali, palazzi,

monasteri, ponti, fortezze,

dighe, canali, mura urbane e

macchine da guerra. Numerosi

disegni di tali progetti

d’ingegneria si trovano fra gli

appunti di Leonardo; questi,

offrendo i suoi servigi a

Ludovico il Moro, signore di Milano, gli promise di prestare presso di lui opera

come ingegnere, costruttore di opere militari e progettista di macchine belliche,

oltre che come architetto, scultore e pittore. Da un artista ci si attendeva anche una

soluzione dei problemi connessi al moto di una palla di cannone, un compito che

richiedeva conoscenze matematiche per quell’epoca relativamente approfondite.

Non è esagerato affermare che l’artista del Rinascimento era il miglior

matematico pratico e che nel Quattrocento fu anche il più dotto e compiuto

matematico teorico.

Il problema specifico che impegnò i talenti matematici dei pittori del

Rinascimento e di cui noi dobbiamo occuparci qui fu quello di dipingere

realisticamente sulla tela scene dotate della terza dimensione, quella della

profondità. Gli artisti risolsero questo problema creando un sistema di prospettiva

matematica totalmente nuovo e modificando di conseguenza l’intero stile della

pittura.

I vari sistemi usati in tutta la storia della pittura per organizzare i soggetti

sull’intonaco e sulla tela, ossia i vari sistemi di prospettiva, possono essere

suddivisi in due classi principali: concettuale e ottico. Un sistema concettuale

Tavola VI Leonardo da Vinci, Le proporzioni

della figura umana, Accademia, Venezia

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intraprende l’organizzazione delle persone e degli oggetti in accordo a qualche

dottrina o principio che ha poco o nulla a che fare con la vera apparenza della

scena stessa. Ad esempio, la pittura e i rilievi egizi erano in gran parte concettuali.

La grandezza delle persone era spesso ordinata in relazione alla loro importanza

nella gerarchia politico-religiosa. Il faraone era di solito la persona più importante

ed era quello che aveva le dimensioni maggiori. La moglie del faraone gli seguiva

immediatamente come grandezza e i suoi servi erano ancora più piccoli. Vista di

profilo e frontale erano usate simultaneamente anche per parti diverse della

medesima figura. Al fine di indicare una serie di persone o di animali l’uno dietro

l’altro veniva ripetuta una medesima figura con piccoli spostamenti. La pittura

moderna, come la maggior parte della pittura giapponese e cinese, è anch’essa

concettuale (vedi più avanti tavola XXVII).

Un sistema di prospettiva ottico cerca invece di dare all’occhio la stessa

impressione che gli verrebbe dalla medesima scena nella realtà. Benché la pittura

greca e romana fosse primariamente ottica, l’influenza del misticismo cristiano

fece volgere gli artisti a un sistema concettuale che dominò per tutto il Medioevo.

Tavola 1 Primi Mosaici Cristiani, Abramo con gli angeli, San Vitale Ravenna

Gli artisti protocristiani e altomedievali si accontentavano di dipingere in

termini simbolici; i loro scenari e i soggetti trattati erano intesi cioè a illustrare

temi religiosi e a indurre sentimenti religiosi più che a rappresentare persone reali

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nel mondo attuale e presente. Le persone e gli oggetti erano altamente stilizzati e

disegnati come se esistessero in uno spazio piano, bidimensionale. Figure che

avrebbero dovuto essere una dietro l’altra erano di solito l’una accanto all’altra o

l’una sopra l’altra. Erano tipici drappeggi rigidi e atteggiamenti angolosi. Lo

sfondo era quasi sempre in un colore uniforme, di solito oro, come per

sottolineare l’inesistenza di alcuna connessione col mondo reale.

Il mosaico protocristiano Abramo con angeli (tavola VII), un esempio tipico

dell’influenza bizantina, illustra la disintegrazione della prospettiva antica. Lo

sfondo è sostanzialmente neutro. La terra, l’albero e i cespugli sono artificiali e

privi di vita; l’albero ha inoltre una forma peculiare per adattarsi al bordo del

mosaico. Non c’è un primo piano, o una base su cui le figure e gli oggetti posino.

Le figure non hanno alcuna relazione l’una all’altra e, ovviamente, le relazioni

spaziali sono ignorate perché misure e grandezze sembravano prive di

importanza. Quella scarsa unità che caratterizza un’opera pittorica le è fornita

dallo sfondo d’oro e dal colore degli oggetti.

Benché residui di un sistema ottico usato dai romani fossero presenti talvolta

nella pittura medievale, predominava questo stile bizantineggiante. Un esempio

eccellente, che è considerato di fatto il vertice della pittura medievale, è

Tavola 2 Simone Martini: La Annunciazione, Uffizi, Firenze

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l’Annunciazione (tavola VIII) di Simone Martini (1285-1344). Nella pittura si ha

un movimento dall’angelo alla Vergine e da questa di nuovo all’angelo.

Nonostante la leggiadria del colore, della superficie e la sinuosità della linea, le

figure in sé sono prive di emozione e non causano alcuna risposta emotiva nello

spettatore. L’effetto complessivo non si discosta da quello di un mosaico. Forse

l’unico aspetto sotto cui questa pittura costituisce un progresso verso il realismo

consiste nell’uso di un piano di base o di un pavimento su cui gli oggetti e le

figure poggiano e che si distingue dal fondo dorato.

Influenze tipiche del Rinascimento che avviarono gli artisti verso il realismo e

la matematica cominciarono a sentirsi verso la fine del Duecento, il secolo in cui

la conoscenza di Aristotele ebbe un impulso straordinario grazie a numerose

traduzioni dall’arabo e dal greco. I pittori si resero conto della mancanza di vita e

della irrealtà della pittura medievale e cercarono consapevolmente di modificarla.

Gli sforzi per avvicinarsi alla realtà si manifestarono nell’uso di persone reali

come soggetti di temi religiosi, nell’uso deliberato di linee rette, di superfici

multiple e di semplici forme geometriche, in esperimenti con posizioni non

ortodosse delle figure nel tentativo di esprimere emozioni e nella raffigurazione di

pieghe e panneggi realistici e non nel modo piatto e convenzionale proprio dello

stile medievale.

La differenza sostanziale fra arte del Medioevo e arte del Rinascimento

consiste nell’introduzione della terza dimensione, ossia nella resa dello spazio,

della distanza, del volume, della massa e degli effetti visivi. L’inclusione della

tridimensionalità nella pittura poteva essere ottenuta solo mediante un sistema

ottico di rappresentazione, e sforzi consapevoli in questa direzione furono

compiuti da Duccio (1255-1319) e da Giotto (1267-1336), all’inizio del Trecento.

Nelle loro opere apparvero vari elementi che sono degni di nota almeno come fasi

Tavola 3 Duccio Madonna in Majesty, Opera del Duomo, Siena

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nello sviluppo di un sistema matematico. La Maestà di Duccio (tavola IX)

presenta vari caratteri interessanti. La composizione, innanzitutto, è

rigorosamente semplice e simmetrica. Le linee del trono sono fatte convergere a

coppie e suggeriscono pertanto un senso di profondità. Le figure a entrambi i lati

del trono poggiano presumibilmente su un solo piano ma sono dipinte in varie

serie sovrapposte. Questo modo di raffigurare la profondità è noto come

prospettiva terrazzata, un accorgimento assai comune nel Trecento. Il panneggio è

abbastanza naturale, come si può vedere nell’esempio delle pieghe sul ginocchio

della Vergine. È presente anche un qualche senso di solidità e spazialità e i volti

tradiscono qualche emozione. L’immagine contiene ancora nel suo complesso

molti elementi della tradizione bizantina. Nello sfondo e nei particolari c’è un uso

generoso d’oro. Il disegno ricorda quello dei mosaici. Il trono non è raffigurato

abbastanza di scorcio da suggerire la profondità; perciò la Vergine non appare

seduta su di esso.

Ancor più significativa è L’ultima Cena di Duccio (tavola X). La scena è

fornita da uno spazio parzialmente inscatolato, uno sfondo usato molto

comunemente durante il Trecento e che segna una transizione fra scene di interni

Tavola 4 Duccio da Boninsegna, L’ultima cena. Museo dell’Opera del Duomo,

Siena.

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e scene di esterni. Le pareti e le linee del soffitto, viste un po’ di scorcio, si

allontanano, suggerendo la profondità. Le parti dello spazio sono ben integrate.

Vari particolari concernenti il modo di trattare il soffitto risultano importanti. Le

linee della parte di mezzo si uniscono in un’area che è detta punto di fuga per una

ragione che si chiarirà più avanti. Questa tecnica fu usata deliberatamente da

molti pittori del periodo come un accorgimento per dare il senso della profondità.

In secondo luogo, linee provenienti da ciascuna delle due sezioni estreme del

soffitto, collocate simmetricamente rispetto al centro, si incontrano a coppie in

punti giacenti su una linea verticale. Anche questo schema, noto come prospettiva

verticale o assiale, fu usato ampiamente per conseguire un effetto di profondità.

Nessuno dei due schemi fu usato sistematicamente da Duccio ma entrambi furono

sviluppati o applicati successivamente da altri pittori del Trecento. Sono degni di

nota anche suggerimenti del mondo reale, come i cespugli nella parte sinistra del

dipinto.

Duccio non trattò purtroppo l’intera scena in L’ultima Cena da un singolo

punto di vista. Le linee dei bordi del tavolo si avvicinano allo spettatore,

contrariamente a come l’occhio dovrebbe vederle. Il tavolo appare più alto nel

fondo che in primo piano e gli oggetti collocati su di esso non sembrano posati in

piano: di fatto essi sono troppo proiettati verso lo spettatore. C’è nondimeno un

senso di realismo, che è avvertibile particolarmente nei caratteri maggiori del

dipinto.

Si può dire che nell’opera di Duccio la tridimensionalità è ormai presente in

modo ben determinato. Le figure posseggono massa e volume e sono legate l’una

all’altra e alla composizione come a un tutto. Le linee sono usate in accordo a

taluni schemi particolari e i piani sono scorciati. Anche luce e ombra sono usate

per suggerire volume.

Tavola 5 Giotto, La morte di San Francesco, Santa Croce, Firenze

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Padre della pittura moderna fu Giotto. Egli dipinse con riferimento immediato a

percezioni visive e a relazioni spaziali e i suoi risultati inclinarono a una copia

fotografica. Le sue figure possedevano massa, volume e vitalità. Egli scelse scene

familiari, distribuì le sue figure in composizioni equilibrate e le raggruppò in

modi gradevoli all’occhio.

Uno fra i dipinti migliori di Giotto, L’accertamento delle stimmate di San

Francesco (tavola XI), usa, come L’ultima Cena di Duccio, l’espediente popolare

di uno spazio parzialmente chiuso, come inscatolato. Lo spazio suggerisce una

scena tridimensionale localizzata in opposizione a una scena bidimensionale piana

non esistente in alcun luogo. L’equilibrio accurato degli oggetti e figure

componenti è chiaramente inteso ad attrarre l’occhio. Ugualmente chiare sono le

relazioni delle figure l’una all’altra benché nessuna abbia relazione allo sfondo. In

questo dipinto come in altri di Giotto le parti delle stanze o degli edifici raffigurati

sembrano restare sullo sfondo. Lo scorcio è usato per suggerire profondità.

Giotto non è solitamente coerente nel suo punto di vista. Nel Festino di Erode

(tavola XII), le due pareti dell’alcova a destra non sono ben coordinate, né il piano

del tavolo e quello del soffitto nella sala del banchetto. La tridimensionalità di

questo dipinto è nondimeno indiscutibile. Alquanto interessante e significativo è il

frammento di architettura a sinistra. Il mondo reale è introdotto anche quando non

abbia alcuna rilevanza col tema.

Giotto fu una figura chiave nello sviluppo della prospettiva ottica. Benché le

sue opere non ci diano raffigurazioni visivamente corrette e benché egli non

introducesse alcun principio nuovo, la sua opera attesta nel suo complesso grandi

progressi rispetto a quella dei suoi predecessori. Egli era ben consapevole dei

progressi da lui realizzati, tanto che spesso incluse nei suoi lavori particolari non

Tavola 6 Giotto, Il festino di Erode, Cappella Peruzzi, Santa Croce, Firenze.

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necessari per dispiegarvi la propria abilità. È questa certamente la ragione che lo

indusse a inserire la torre nel Festino di Erode.

Progressi nella tecnica e nei principi possono essere riconosciuti ad Ambrogio

Lorenzetti (attivo tra il 1319 e il 1348). Egli è degno di menzione per

l’organizzazione dei suoi temi in aree realistiche, localizzate; le sue linee sono

vigorose e le sue figure robuste e umanizzate. Il progresso è evidente

nell’Annunciazione (tavola XIII). Il piano su cui le figure poggiano è ora definito

e chiaramente distinto dalla parete di fondo. Esso serve anche come misura della

dimensione degli oggetti e suggerisce uno spazio che si estende in profondità. Un

secondo progresso importante consiste nel fatto che le linee del pavimento,

allontanandosi dallo spettatore, si uniscono in un punto. Infine, le mattonelle sono

viste in uno scorcio tanto più spiccato quanto più sono sullo sfondo.

Complessivamente Lorenzetti trattò lo spazio e la tridimensionalità con più

maestria di ogni altro pittore del Trecento. Come Duccio e Giotto egli non riuscì

però a unire tutti gli elementi nei suoi dipinti. Nell’Annunciazione la parete e il

Tavola 7 Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, Accademia, Siena

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pavimento non sono legati fra loro. C’è nondimeno un buon trattamento intuitivo,

benché non matematico, dello spazio e della profondità.

Con Lorenzetti raggiungiamo il livello massimo raggiunto dagli artisti del

Rinascimento prima dell’introduzione di un sistema di prospettiva matematico. I

passi compiuti finora verso lo sviluppo di un sistema ottico soddisfacente

dimostrano quanto gli artisti sentissero il problema e lottassero con esso. È

evidente che questi innovatori stavano andando a tastoni alla ricerca di una

tecnica efficace.

Nel Quattrocento gli artisti capirono finalmente che il problema della

prospettiva dev’essere studiato scientificamente e che la geometria era la chiave

del problema. Questa consapevolezza può essere stata affrettata dallo studio di

antichi scritti sulla prospettiva che erano stati riesumati di recente insieme all’arte

greca e romana. Il nuovo approccio era ovviamente motivato da molto di più che

dal desiderio di conseguire una somiglianza con la realtà. Il fine principale era la

comprensione della struttura dello spazio e la scoperta di alcuni fra i segreti della

natura. Che la matematica fosse il mezzo più efficace per scandagliare la natura e

la forma in cui si dovevano formulare le verità ultime era un’espressione della

filosofia del Rinascimento. Questi uomini, che esploravano la natura con tecniche

peculiari alla loro arte, avevano precisamente lo spirito e l’atteggiamento di quegli

altri investigatori della natura che fondarono la scienza moderna per mezzo della

loro matematica e dei loro esperimenti. Di fatto, durante il Rinascimento, l’arte fu

considerata una forma di conoscenza e una scienza. Essa aspirava allo status delle

quattro “arti” platoniche: aritmetica, geometria, armonia (musica) e astronomia.

Ci si attendeva che la geometria fornisse il marchio della rispettabilità.

Ugualmente seducente come fine nello sviluppo di un sistema scientifico di

prospettiva era la possibilità di conseguire l’unità del disegno.

La scienza della pittura fu fondata da Brunelleschi, il quale elaborò attorno al

1425 un sistema di prospettiva. Egli insegnò a Donatello, Masaccio, Filippo Lippi

e altri. La prima esposizione scritta, il Della pittura di Leon Battista Alberti, fu

edita nel 1435. In questo trattato l’Alberti scrisse che il primo requisito per il

pittore è conoscere la geometria. Le arti vengono apprese mediante la ragione e il

metodo; esse sono padroneggiate mediante la pratica. Per quanto concerne la

pittura, l’Alberti credeva che la natura potrebbe essere perfezionata con l’aiuto

della matematica e a tal fine patrocinò 1’uso del sistema di prospettiva

matematico noto come prospettiva lineare.

Il grande maestro della prospettiva e, sia detto incidentalmente, uno fra i

migliori matematici del Quattrocento, fu Piero della Francesca. Il suo testo De

perspectiva pingendi integrò considerevolmente il materiale dell’Alberti, pur

adottando un’impostazione leggermente diversa. In questo libro Piero si spinse fin

quasi all’identificazione della pittura con la prospettiva. Negli ultimi vent’anni

della sua vita scrisse tre trattati per dimostrare come il mondo visibile potesse

essere ridotto all’ordine matematico dai principi della prospettiva e della

geometria solida.

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Il più famoso fra gli artisti che diedero un contributo importante alla scienza

della prospettiva fu Leonardo. Questa figura impressionante, di incredibile forza

fisica e di doti mentali impareggiabili, si preparava alla pittura mediante profondi

e vasti studi nei campi dell’anatomia, della prospettiva, della geometria, della

fisica e della chimica. Il suo atteggiamento nei confronti della prospettiva era

parte della sua filosofia dell’arte. Egli aprì il suo Trattato della pittura con le

parole: “Non mi legga chi non è matematico nelli mia principi.” Il fine della

pittura, egli insisteva, consiste nel riprodurre la natura, e il pregio di un dipinto

consiste nell’esattezza della riproduzione. Anche una creazione puramente

immaginaria deve apparire come apparirebbe se potesse esistere in natura. La

pittura è quindi una scienza e come tutte le scienze dev’essere fondata sulla

matematica poiché “nissuna umana investigazione si pò dimandare vera scienzia,

s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni.” Inoltre: “Chi biasima la

somma certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà silenzio

alle contradizioni delle sofistiche scienzie, colle quali s’impara uno eterno

gridore.” Leonardo scherniva “quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia.”

“Studia prima la scienzia e poi séguita la pratica, nata da essa scienzia.” Egli

descriveva la prospettiva come “briglia e timone della Pittura.”

Fig. 19. Dürer. Disegno di un uomo seduto.

Il più influente degli artisti che scrissero sulla prospettiva fu Albrecht Dürer.

Dürer apprese i principi della prospettiva dai maestri italiani e tornò poi in

Germania e proseguire i suoi studi. Il suo trattato, popolare e molto letto,

Underweysung der Mersung mit dem Zyrkel und Richtscheyd, cioè “Istruzione

della misurazione con compasso e riga” (1528), affermava che la base prospettica

di un quadro non dovrebbe essere disegnata a mano libera bensì costruita secondo

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princìpi matematici. Di fatto i pittori del Rinascimento non esaurirono la

trattazione dei principi della prospettiva. Matematici posteriori, e particolarmente

Brook Taylor e J. H. Lambert, scrissero in materia opere definitive.

È lecito asserire che quasi tutti i grandi artisti del Quattrocento e dell’inizio del

Cinquecento cercarono di introdurre nelle loro pitture principi matematici e

armonie matematiche, e che considerarono una prospettiva realistica un fine

specifico e particolarmente importante.

Fig. 20. Dürer. Disegna di una donna coricata.

Signorelli, Bramante, Michelangelo e Raffaello, fra gli altri, dimostrarono un

profondo interesse per la matematica e per le sue applicazioni all’arte. Essi

ritrassero deliberatamente atteggiamenti difficili, svilupparono e trattarono lo

scorcio con una facilità meravigliosa e a volte soppressero addirittura la passione

e il sentimento per dare maggior risalto agli elementi scientifici presenti nella

propria opera. Questi maestri erano consapevoli del fatto che l’arte, pur

avvalendosi di un’immaginazione individuale, è soggetta a leggi.

Fig. 21. Dürer. Disegno di una brocca.

Il principio fondamentale del sistema matematico sviluppato da questi artisti

può essere spiegato nei termini usati dall’Alberti, da Leonardo e da Dürer. Questi

uomini immaginarono la tela dell’artista come uno schermo di vetro attraverso il

quale egli osserva la scena che dev’essere dipinta, esattamente come noi possiamo

osservare attraverso il vetro di una finestra una scena che ha luogo fuori di casa.

Da un occhio, che viene mantenuto fisso in una posizione, si immagina che

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escano raggi di luce i quali raggiungono ogni punto della scena. Quest’insieme di

linee è chiamato una proiezione. Là dove ciascuna di queste linee interseca lo

schermo di vetro, si segna un punto sullo schermo. Quest’insieme di punti,

chiamato sezione, crea sull’occhio la medesima impressione della scena osservata

dal pittore. Questi artisti decisero quindi che la pittura realistica deve produrre

sulla tela disposizione, grandezza e posizioni relative di oggetti esattamente come

apparirebbero su uno schermo di vetro interposto fra l’occhio e la scena. Di fatto,

l’Alberti proclamò che la pittura è una sezione della proiezione.

Questo principio è illustrato in varie xilografie eseguite da Dürer. Le prime due

(figg. 19 e 20) presentano l’artista che tiene un occhio in un punto fisso mentre

traccia su uno schermo di vetro, o su una carta con una quadrettatura

corrispondente a quella che si osserva sullo schermo di vetro, i punti in cui linee

di luce congiungenti l’occhio e la scena intersecano lo schermo. La terza incisione

(fig. 21) ci fa vedere come l’artista possa tracciare il disegno corretto sullo

schermo di vetro anche quando si supponga che egli sia lontano dallo schermo.

In quest’incisione l’occhio che considera la scena è in effetti nel punto in cui la

fune è fissata alla parete. La quarta xilografia (fig. 22) presenta un disegno

tracciato su uno schermo.

Poiché la tela non è trasparente e poiché un artista può desiderare di dipingere

una scena che esiste solo nella sua immaginazione, non può dipingere una

“sezione” di Dürer solo tracciando punti. Egli deve avere regole che lo guidino.

Perciò gli autori di scritti sulla prospettiva derivarono dal principio della

proiezione e della sezione un insieme di teoremi che comprendono il sistema della

prospettiva lineare. È questo il sistema che è stato adottato da quasi tutti gli artisti

dal Rinascimento in poi.

Fig. 22. Dürer. Disegno di un liuto.

Quali sono i principali teoremi o regole della scienza matematica della

prospettiva? Supponiamo che la tela sia tenuta nella normale posizione verticale.

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La perpendicolare che va dall’occhio alla tela, o il suo prolungamento, interseca la

tela in un punto detto punto di fuga principale (la ragione di questo nome sarà

presto chiara). La linea orizzontale che passa per il punto di fuga principale è

detta linea d’orizzonte perché, se lo spettatore guardasse attraverso la tela verso lo

spazio aperto, la linea d’orizzonte corrisponderebbe all’orizzonte reale. Questi

concetti sono illustrati alla figura 23. Questa figura presenta un corridoio

considerato da una persona il cui occhio si trova nel punto O (non segnato) che

giace su una linea perpendicolare alla pagina passante per il punto P. P è il

principale punto di fuga e la linea D2PD1 è la linea d’orizzonte.

Il primo teorema essenziale è che tutte le linee orizzontali nella scena che siano

perpendicolari al piano della tela devono essere tracciate sulla tela in modo da

incontrarsi nel punto di fuga principale. Così linee come AA', EE', DD' e altre (fig.

23) si incontrano in P. Può sembrare scorretto che linee che in realtà sono

parallele vengano disegnate in modo che si incontrino in un punto.

Fig. 23. Disegno di un corridoio secondo il sistema della prospettiva lineare.

Questo è però precisamente il modo in cui l’occhio vede linee parallele; basti

pensare all’esempio familiare delle rotaie ferroviarie che apparentemente

convergono in lontananza. È forse chiaro ora perché il punto P sia chiamato punto

di fuga. Esso è infatti il punto (inesistente nella scena reale) verso cui sembrano

fuggire tutte le linee parallele della scena.

Un altro teorema deducibile dal principio generale che la pittura dovrebbe

essere una sezione della proiezione è che ogni insieme di linee orizzontali

parallele le quali non siano perpendicolari al piano della tela ma lo intersechino

formando un qualche angolo devono essere disegnate in modo da convergere

verso un punto che giaccia sulla linea d’orizzonte, in una posizione dipendente

dall’angolo che queste linee fanno col piano della tela. Linee come la AB' e la EK

della figura 23, che nella scena reale sono parallele e formano un angolo di 45°

col piano della tela, si incontrano in un punto D1, che è chiamato punto di fuga

diagonale. La distanza PD1 dev’essere uguale alla distanza OP, ossia alla distanza

dall’occhio al punto di fuga principale. Linee similmente parallele, come BA' e

FL, che nella scena reale formano con la tela un angolo di 135°, devono essere

disegnate in modo da incontrarsi in un secondo punto diagonale, D2 nella figura

23, e anche PD2 dev’essere uguale a OP. Linee parallele della scena reale che si

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innalzano o si abbassano man mano che si allontanano dallo spettatore devono

anch’esse incontrarsi in un punto, che sarà al di sopra o al di sotto della linea

dell’orizzonte. Questo punto sarebbe quello in cui una linea uscente dall’occhio e

parallela alle linee in questione intersecherebbe la tela.

Il terzo teorema che segue dal principio generale della proiezione e della

sezione è che linee parallele orizzontali della scena che siano parallele al piano

della tela devono essere disegnate orizzontali e parallele e che linee parallele

verticali devono essere disegnate verticali e parallele. Poiché tutti gli insiemi di

linee parallele appaiono convergenti all’occhio, questo terzo teorema non è in

armonia con la percezione visiva. Questa incoerenza sarà discussa più tardi.

Molto tempo prima della creazione del sistema della prospettiva lineare, gli

artisti si erano resi conto che oggetti lontani dovrebbero essere disegnati visti di

scorcio. Essi provavano però grandi difficoltà nel determinare l’esatta misura

dello scorcio. Il nuovo sistema fornì i teoremi richiesti, i quali potevano essere

dedotti anche dal principio generale che la pittura è una sezione della proiezione.

Nel caso delle mattonelle quadrate della figura 23, il trattamento appropriato delle

linee diagonali come AB', BA', EK e FL determina lo scorcio corretto.

Molti altri teoremi possono essere usati dall’artista esperto se desidera

conseguire il realismo consentito dal sistema della prospettiva lineare.

L’esposizione di questi risultati alquanto specializzati ci condurrebbe però troppo

lontano. C’è però un punto che è implicito in quanto abbiamo visto e che è

importante per il profano che osserva un dipinto disegnato in accordo col sistema

della prospettiva lineare. La posizione dell’occhio dell’artista è inseparabile dalla

struttura del dipinto. Per ottenere l’effetto corretto, lo spettatore dovrebbe

osservare il dipinto da tale posizione; in altri termini, l’occhio dello spettatore

dovrebbe trovarsi al livello del punto di fuga principale e proprio di fronte ad

esso, a una distanza uguale a quella del punto di fuga principale da ciascuno dei

Tavola 8 Masaccio, Il tributo. Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine, Firenze.

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due punti di fuga diagonali. Di fatto sarebbe bene che i quadri fossero appesi in

modo da poter essere alzati o abbassati a seconda della statura dello spettatore.

Prima di esaminare alcuni grandi

dipinti disegnati secondo il sistema

della prospettiva lineare,

dovremmo sottolineare che il

sistema non fornisce una

riproduzione fedele di ciò che

l’occhio vede. Il principio che un

dipinto dev’essere una sezione di

una proiezione richiede, come s’è

già detto, che linee parallele

orizzontali che siano parallele al

piano della tela e linee parallele

verticali debbano essere disegnate

parallele. L’occhio che osserva tali

linee trova però che anch’esse

appaiono incontrarsi, esattamente

come altri insiemi di linee

parallele. Perciò, almeno da questo

punto di vista, il sistema della

prospettiva concorrente non è

visivamente corretto. Una critica

fondamentale consiste nel fatto che

l’occhio in generale non vede linee

rette. Il lettore può convincersi di

questo fatto immaginando di

osservare dall’aereo un binario

perfettamente rettilineo. In entrambe le direzioni le rotaie sembrano incontrarsi

all’orizzonte. Due linee rette possono però incontrarsi solo in un punto. Poiché le

rotaie si incontrano all’orizzonte in entrambe le direzioni, è chiaro che l’occhio

deve vederle curve. Già greci e romani avevano riconosciuto che linee rette

appaiono curve all’occhio, come disse di fatto Euclide nella sua Ottica. Il sistema

della prospettiva lineare ignora però questo fatto della percezione, né tiene conto

del fatto che noi vediamo in realtà con due occhi, ciascuno dei quali riceve

un’impressione leggermente diversa. Gli occhi, inoltre, non sono fissi ma si

muovono quando uno spettatore osserva una scena in tutti i suoi particolari. Il

sistema della prospettiva lineare ignora infine che la retina dell’occhio colpita dai

raggi di luce non è una lastra fotografica bensì una superficie curva e che la

visione è non solo un processo puramente fisiologico quanto una reazione del

cervello.

Considerando queste deficienze del sistema, perché gli artisti lo adottarono?

Esso segnava chiaramente un progresso considerevole sui sistemi, più o meno

gravemente inadeguati, noti nel Trecento. Più importante, per gli artisti del

Tavola 9 Paolo Uccello, Scena dal

Miracolo dell’ostia profanata. Galleria

Nazionale delle Marche, Urbino

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Quattrocento e del Cinquecento, era il fatto che il sistema era completamente

matematico. Per uomini già impressionati dall’importanza della matematica nella

comprensione della natura, il raggiungimento di un sistema matematico

soddisfacente di prospettiva era tanto più gradito in quanto essi non ne

scorgevano tutte le deficienze. Di fatto, gli artisti ritenevano che esso fosse

altrettanto vero della geometria euclidea.

Esaminiamo ora la progenie nata dal matrimonio fra geometria e pittura. Uno

fra i primi pittori ad applicare la scienza della prospettiva iniziata da Brunelleschi

fu Masaccio (1401-1428). Benché

dipinti successivi attestino più

chiaramente l’influenza della nuova

scienza, Il tributo (tavola XIV) è

molto più realistico di qualsiasi

altra cosa dipinta in precedenza da

Masaccio. Vasari disse che

Masaccio fu il primo artista che

riuscì a realizzare un’imitazione

perfetta delle cose. Il

dipinto citato, in particolare,

presenta grande profondità,

spaziosità e naturalismo. Le singole

figure sono massicce; esse esistono

nello spazio e il loro corpo è più

reale di quanto fossero le figure

umane in Giotto.

Le persone poggiano saldamente

sul suolo. Masaccio fu anche il

primo a usare una tecnica

supplementare rispetto alla

geometria, ossia la prospettiva

aerea. Egli suggerì la distanza

diminuendo l’intensità del colore

oltre che le dimensioni degli oggetti più lontani sullo sfondo. Masaccio era di

fatto un maestro nel trattamento della luce e dell’ombra.

Tra coloro che più contribuirono allo sviluppo della scienza della prospettiva fu

Paolo Uccello (1397-1475). Il suo interesse per l’argomento era così intenso che

secondo Vasari “tutta la notte Paolo stava nello scrittoio per trovar i termini della

prospettiva” e quando la moglie lo chiamava a dormire egli rispondeva: “O che

dolce cosa è questa prospettiva!” Egli si appassionava nell’investigazione di

problemi difficili e fu tanto distratto dalla sua passione per una prospettiva esatta

che non riuscì ad applicarla pienamente alla pittura. La pittura era per lui solo

un’occasione per risolvere problemi e mettere in luce la sua padronanza della

prospettiva. Di fatto il suo successo non fu completo. Le sue figure sono

Tavola 10 Paolo Uccello, Studio

prospettico per un calice, Uffizi, Firenze

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generalmente ammassate l’una all’altra e la sua padronanza della profondità fu

imperfetta.

Tavola 11 Piero della Francesca, Flagellazione di Gesù. Galleria Nazionale

delle Marche, Urbino

Purtroppo gli esempi migliori della prospettiva di Paolo Uccello sono stati

danneggiati a tal punto da non essere qui riproducibili. Una scena tratta dalla

sequenza intitolata Il miracolo dell’ostia profanata dà qualche indicazione sulla

sua opera (tavola XV). Il suo Studio prospettico per un calice (tavola XVI) attesta

la complessità di superfici, linee rette e curve implicate in un esatto disegno

prospettico.

L’artista che portò alla perfezione la scienza della prospettiva fu Piero della

Francesca (1416-1492). Questo pittore dalle alte doti intellettuali era appassionato

per la geometria e progettava matematicamente le sue opere fino all’ultimo

particolare. La collocazione di ciascuna figura era calcolata in modo da essere in

relazione esatta con altre figure e con l’organizzazione del dipinto nel suo

complesso. Egli usò anche forme geometriche per parti del corpo e per capi di

abbigliamento e amò superfici curve lisce e la solidità.

La flagellazione di Piero (tavola XVII) è un capolavoro di prospettiva. La

scelta del punto di fuga principale e l’esatto impiego dei princípi del sistema di

prospettiva lineare legano i personaggi che si trovano sullo sfondo a quelli in

primo piano, mentre gli oggetti sono adattati tutti allo spazio chiaramente

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delimitato. Anche la diminuzione delle intarsiature nere nel pavimento di marmo

è calcolata con precisione. Un disegno nel libro di Piero sulla prospettiva dimostra

l’immenso lavoro preparatorio che costò questo dipinto. Qui come in altri dipinti,

Piero usò la prospettiva aerea per accrescere l’impressione di profondità. L’intero

dipinto è progettato con tanta cura che il movimento è sacrificato all’unità del

disegno.

La Resurrezione di Piero (tavola XVIII) è giudicata da alcuni critici una fra le

massime opere pittoriche di tutto il mondo. Il disegno è quasi architettonico. La

prospettiva è insolita: ci sono due punti di visione e perciò due punti di fuga

principali. Come risulta evidente dal fatto che vediamo dal di sotto il collo di due

soldati che dormono, un punto di fuga principale è alla metà del sarcofago.

L’occhio è poi trasportato inconsapevolmente nel secondo punto di fuga

principale, che si trova nel volto di Cristo. I due dipinti, ossia la parte inferiore e

quella superiore, sono separati da un confine naturale, il bordo superiore del

sarcofago, in modo che il mutamento del punto di vista non disturba. Facendo

salire le colline in modo piuttosto ripido, Piero unificò le due parti e nello stesso

tempo forni uno sfondo dall’apparenza naturale per quella superiore. È stato detto

talvolta che l’intenso amore di Piero per la prospettiva rese le sue pitture troppo

matematiche e perciò fredde e impersonali. Uno sguardo all’espressione grave,

Tavola 12 Piero della Francesca, Resurrezione di

Gesù, Pinacoteca comunale, Borgo San Sepolcro

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spettrale e clemente di Cristo dimostra però che Piero era capace di esprimere

delicate sfumature di emozione.

Leonardo da Vinci (1452-1519) produsse molti eccellenti esempi di

prospettiva perfetta. Quest’uomo dotato di una mente veramente scientifica e di

una sottile genialità estetica fece numerosi studi dettagliati per ogni dipinto

Tavola XIII Leonardo. Studio per l’Adorazione dei Magi. Gabinetto dei

disegni e delle stampe, Uffizi, Firenze

Tavola XX Leonardo, Cenacolo. Refettorio di Santa Maria delle Grazie,

Milano.

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(tavola XIX). La sua opera più nota e forse il dipinto più famoso di tutti è un

esempio eccellente di perfetta prospettiva. Il Cenacolo (tavola XX) è progettato in

modo tale da dare esattamente l’impressione che la scena reale farebbe

sull’occhio dello spettatore.

Questi si sente presente nella stanza in cui ha luogo l’ultima cena. Le linee rette

delle pareti, del pavimento e del soffitto che si allontanano dallo spettatore non

soltanto vanno chiaramente in profondità ma convergono in un punto

deliberatamente scelto nel capo del Cristo in modo da attrarre l’attenzione su di

lui. Si osservi, per inciso, che i dodici apostoli sono suddivisi in quattro gruppi di

tre ciascuno e che sono disposti simmetricamente ai due lati del Cristo. La figura

del Cristo forma un triangolo equilatero; questo elemento grafico era inteso a

esprimere l’equilibrio di senso, ragione e corpo. Si confronti il dipinto di

Leonardo con L’ultima Cena di Duccio (tavola X).

Alcuni altri esempi di dipinti che hanno un’eccellente struttura prospettica

indicheranno forse la diffusione e il richiamo della nuova scienza. Benché

Botticelli (1444-1510) sia noto soprattutto per dipinti come la Primavera e la

Nascita di Venere, in cui l’artista si esprime nel disegno, in linee rette e curve, e

dove il realismo non è un fine perseguito dal pittore, egli era capace anche di una

prospettiva eccellente. Una tra le sue opere più pregevoli, la Allegoria della

calunnia di Apelle (tavola XXI), dimostra la sua padronanza di questa scienza. Le

Tavola XIVI Sandro Botticelli la Allegoria della calunnia di Apelle

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varie parti del trono e degli edifici sono ben eseguite e lo scorcio di tutti gli

oggetti è corretto.

Un pittore che dimostrò una grande abilità nella prospettiva fu Mantegna

(1431-1516). Con lui anatomia e prospettiva raggiunsero un livello ideale. Egli

scelse problemi difficili e usò la prospettiva per conseguire visioni realistiche e

Tavola XVI Andrea Mantegna, San Giacomo condotto al martirio. Chiesa degli

Eremitani, Padova.

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audaci. In San Giacomo condotto al martirio (tavola XXII) scelse deliberatamente

un punto di vista eccentrico. Il punto di fuga principale si trova esattamente al di

sotto del dipinto e a destra del centro. L’intera scena è trattata con successo da

questo punto di vista insolito.

Il Cinquecento assisté al culminare dei grandi sviluppi del Rinascimento nel

campo della pittura realistica. I maestri dispiegarono una prospettiva e una forma

perfette e sottolinearono lo spazio e il colore. L’ideale della forma fu amato a tal

punto da rendere molti artisti indifferenti al contenuto. Il famoso discepolo di

Leonardo e Michelangelo, Raffaello (1483-1520), forni molti esempi eccellenti

degli ideali, dei livelli di qualità e delle realizzazioni che erano stati oggetto degli

sforzi dei secoli precedenti. La sua Scuola d’Atene (tavola XXIII) ritrae un

austero complesso architettonico in cui appaiono chiaramente una composizione

armonica, una padronanza della prospettiva e la precisione delle proporzioni.

Questo dipinto è interessante non soltanto per il suo superbo trattamento dello

spazio e della profondità ma anche perché evidenzia la venerazione che gli

intellettuali del Rinascimento avevano per i maestri greci. Platone e Aristotele, a

sinistra e a destra, sono le figure centrali. Alla sinistra di Platone è Socrate. In

primo piano a sinistra Pitagora sta scrivendo su un libro. In primo piano a destra

Euclide o Archimede si curva per dimostrare un teorema. A destra di questa

Tavola XXIII Raffaello, Scuola d’Atene. Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani

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figura, Tolomeo tiene in mano una

sfera. Musici, aritmetici e grammatici

completano il quadro.

I maestri veneti del Cinquecento

subordinano la linea al colore, alla

luce e alle ombre. Anch’essi furono

però maestri della prospettiva.

L’espressione dello spazio è

pienamente tridimensionale e

organizzazione e prospettiva sono

sentite chiaramente. Un rappresentante

di questa scuola è Tintoretto (1514-

1594). Il Trafugamento del corpo di

San Marco (tavola XXIV) dimostra un

trattamento perfetto della profondità;

si osservi lo scorcio delle figure in

primo piano.

Consideriamo ancora un ultimo

esempio. Abbiamo già menzionato

Dürer (1471-1528) fra gli autori di

prospettiva che esercitarono una

grande influenza sui pittori a nord

delle Alpi. Il suo San Girolamo nel

suo studio (tavola XXV),

un’acquaforte, illustra l’abilità pratica

dello stesso Dürer. Il punto di fuga

principale è a destra in centro. Il

disegno ha l’effetto di dare allo

spettatore l’impressione di trovarsi

nella stessa stanza di San Girolamo, a

poca distanza da lui.

Il lettore può ora verificare la sua

acutezza nel campo della prospettiva

esaminando quante assurdità è in

grado di scoprire nell’incisione di

William Hogarth intitolata Falsa

prospettiva (tavola XXVI).

Tavola XXIV Tintoretto Trasferimento

del corpo di S. Marco, Palazzo Reale,

Venezia

Tavola XXV Durer, S. Jerome nel suo

studio

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Gli esempi forniti sopra di dipinti che usarono il sistema di prospettiva lineare

potrebbero essere moltiplicati all’infinito. Essi sono però sufficienti a illustrare

come l’uso della prospettiva matematica abbia emancipato le figure dal fondo

dorato della pittura medievale e abbia dato loro la libertà di percorrere le strade e

le colline del mondo naturale. Gli esempi illustrano anche un valore secondario

nell’uso della prospettiva lineare, ossia quello di promuovere l’unità della

composizione del dipinto. La nostra esposizione della nascita di questo sistema

può anche aver fatto vedere come i teoremi della matematica vera e propria e una

filosofia della natura in cui la matematica fu dominante determinarono il corso

della pittura occidentale. Benché la pittura moderna si sia allontanata decisamente

da una descrizione realistica della natura, il sistema della prospettiva lineare è

insegnato ancora negli istituti artistici ed è applicato ogni volta che si ritenga

importante conseguire un effetto realistico.

Tavola XXVI Hogarth, Falsa Prospettiva

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XI. Una scienza figlia dell’arte: la geometria proiettiva

La facoltà che mette in modo l’invenzione matematica non è

il ragionamento bensì l’immaginazione.

A. DE MORGAN

La creazione matematica più originale del Seicento, un secolo in cui la scienza

fornì la motivazione dominante per l’attività matematica, fu ispirata dall'arte della

pittura. Sviluppando il sistema della prospettiva lineare, i pittori introdussero

nuove idee geometriche e posero vari interrogativi che suggerirono una direzione

di ricerca del tutto nuova. Così gli artisti pagarono il loro debito alla matematica.

La prima fra le idee derivate dal lavoro sulla prospettiva è che esiste una

distinzione fra il mondo accessibile al senso del tatto e il mondo che si vede.

Dovrebbero esistere corrispondentemente due geometrie, una geometria del tatto e

una della visione. La geometria euclidea è tattile perché le sue asserzioni si

accordano col nostro senso del tatto ma non sempre col nostro senso della vista.

Euclide si occupa ad esempio di linee che non s’incontrano mai. L’esistenza di

tali linee può essere attestata dalla mano ma non dall’occhio. Noi non vediamo

mai linee parallele. Le rotaie ci appaiono congiungersi in lontananza.

Ci sono molte altre ragioni per caratterizzare la geometria euclidea come

geometria tattile. Ad esempio, essa tratta figure congruenti, o figure che possono

essere sovrapposte l’una all’altra. La sovrapposizione è un atto eseguito dalle

mani. Il mondo di Euclide, infine, era finito, un mondo virtualmente accessibile al

senso del tatto. Egli non considerava, ad esempio, una linea retta nella sua

interezza ma la concepiva piuttosto come un segmento che può essere esteso

quanto serve in entrambe le direzioni. Non fu fatto alcun tentativo di considerare

che cosa accada a grandi distanze da una figura data.

Poiché la geometria euclidea potrebbe essere considerata ragionevolmente

come una geometria che risolve i problemi creati dal senso del tatto, rimaneva da

investigare la geometria del senso della vista. Verso quest'obiettivo il lavoro sulla

prospettiva offriva un secondo suggerimento principale. L’idea fondamentale nel

sistema della prospettiva lineare è quello della proiezione e della sezione. Una

proiezione è un insieme di linee di luce che si suppone congiungano l’occhio e i

punti di un oggetto o di una scena; una sezione è il disegno formato

dall’intersezione di queste linee con una lastra di vetro collocata fra l’occhio e

l’oggetto considerato. Benché la sezione su una lastra di vetro vari per grandezza

e figura con la posizione e con l’angolo a cui la lastra è tenuta, ciascuna di queste

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sezioni (fig. 24) crea sull’occhio la stessa impressione che creerebbe l’oggetto

stesso.

Fig. 24. Due sezioni diverse della medesima proiezione.

Questo fatto suggerisce vari grandi interrogativi matematici. Supponiamo di

considerare due diverse sezioni della medesima proiezione. Poiché esse creano

sull’occhio la medesima impressione, dovrebbero avere molte proprietà

geometriche in comune. Quali proprietà, esattamente, avranno in comune le

sezioni? E inoltre, quali proprietà hanno in comune l’oggetto e una sezione

determinata da esso? Infine, se due diversi osservatori considerano la medesima

scena, si formano due proiezioni diverse (fig. 25). Se si fa una sezione di ciascuna

di queste proiezioni, queste due sezioni, essendo determinate dalla medesima

scena, dovrebbero possedere proprietà geometriche comuni. Quali sono tali

proprietà?

Ancora un’altra direzione di ricerca fu suggerita ai matematici dal lavoro sulla

prospettiva. Gli artisti, abbiamo detto, non possono dipingere gli oggetti come

sono. Essi devono invece disegnare le linee parallele in modo che risultino

convergenti sulla tela; devono inoltre introdurre lo scorcio e altri accorgimenti al

fine di dare all’occhio l’illusione della realtà. Per mandare a effetto questo piano,

l’artista ha bisogno di teoremi che gli indichino la collocazione delle linee e gli

dicano inoltre quali altre linee ogni linea data debba intersecare. I matematici

furono perciò motivati alla ricerca di teoremi sull’intersezione di linee rette e

curve.

Il primo grande matematico che esplorò i suggerimenti forniti dal lavoro sulla

prospettiva fu l’architetto e ingegnere autodidatta Girard Desargues (1593-1662).

Ciò che lo spinse a intraprendere questi studi fu il desiderio di aiutare i suoi

colleghi nell’ingegneria, nella pittura e nell’architettura. “Confesso liberamente,”

scrisse, “di non aver mai provato piacere in studi o ricerche nel campo della fisica

o della geometria se non quando potevano servire come mezzi per arrivare a una

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qualche sorta di conoscenza delle cause vicine... per il bene e comodità della vita,

nel conservare la salute, nella pratica di qualche arte..., avendo osservato che una

buona parte delle arti è fondata sulla geometria, fra le altre quella del taglio delle

pietre in architettura, quella delle meridiane solari, e quella della prospettiva in

particolare.” Egli cominciò con l’organizzare numerosi utili teoremi e divulgò

queste scoperte mediante conferenze e fogli volanti. Più tardi scrisse un opuscolo

sulla prospettiva che trovò ben poca attenzione.

Fig. 25. Sezioni di due diverse proiezioni della medesima scena.

Desargues progredì da questo lavoro a creazioni matematiche altamente

originali. Il suo contributo principale, la fondazione della geometria proiettiva,

apparve nel 1639 ma, come i servigi da lui resi agli artisti, non suscitò grande

interesse. Tutte le copie stampate di questo libro andarono perdute. Anche se

alcuni suoi contemporanei apprezzarono quest’opera, la maggior parte la

ignorarono o se ne fecero beffe. Dopo aver dedicato alcuni altri anni a problemi di

architettura e di ingegneria, Desargues si ritirò nelle sue proprietà. Due suoi

contemporanei, Philippe de La Hire e Blaise Pascal, studiarono e fecero

progredire il parto della mente di Desargues prima che l’argomento fosse avvolto

da un lungo periodo di oblio. Fortunatamente La Hire fece una copia manoscritta

del libro di Desargues e questa copia, scoperta accidentalmente due secoli dopo,

ci dice quale sia stato il contributo di Desargues.

Il fatto più sensazionale, anche se non il più significativo, della nuova

geometria di Desargues è che essa non contiene linee parallele. Così come la

rappresentazione di linee parallele sulla tela richiede che esse si incontrino in un

punto, così Desargues richiede che linee parallele nello spazio (nel senso di

Euclide) si incontrino in un punto che può essere infinitamente lontano ma di cui

si suppone nondimeno l’esistenza. Questo punto è la controparte, nello spazio

reale, del punto in cui le linee parallele, disegnate sulla tela, si intersecano.

L’aggiunta di questo “punto all’infinito” non rappresenta una contraddizione

rispetto alla geometria euclidea ma piuttosto una sua estensione, che la rende

conforme a ciò che l’occhio vede.

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Fig. 26. Teorema di Derargues.

Il teorema fondamentale della geometria proiettiva, un teorema che è ora

fondamentale in tutta la matematica, deriva da Desargues e da lui prende il nome.

Esso illustra in che modo i matematici risposero alle domande poste dalla

prospettiva.

Supponiamo che l’occhio, collocato nel punto O, osservi un triangolo ABC (fig.

26). Le linee condotte da O ai vari punti sui lati del triangolo costituiscono, come

abbiamo visto, una proiezione. Una sezione di questa proiezione conterrà allora

un triangolo A'B'C', dove A' corrisponde ad A, B' a B e C' a C. I due triangoli ABC

e A'B'C' sono detti prospettici dal punto O. Desargues formula il suo teorema

come segue:

Le coppie di lati corrispondenti, AB e A'B', BC e B'C', e AC e A'C', di due triangoli

prospettici da un punto si incontrano, rispettivamente, in tre punti giacenti su una linea retta.

Con specifico riferimento alla nostra figura il teorema dice che se

prolunghiamo i lati AC e A'C' essi si incontreranno in un punto P; i lati AB e A'B',

prolungati a loro volta, si incontreranno in un punto Q; e i lati BC e B'C',

prolungati a loro volta, si incontreranno in un punto R. P, Q e R si troveranno su

una medesima linea retta. Il teorema conserva la sua validità sia che i triangoli

giacciano su uno stesso piano sia che si trovino su piani diversi.

Altrettanto tipico dei teoremi della geometria proiettiva è un teorema

dimostrato, all’età di sedici anni, dal precoce pensatore francese Pascal, di cui ci

occuperemo estesamente più avanti. Il teorema in questione fu inserito da Pascal

in un saggio sulle coniche, un saggio così brillante che Descartes non riusciva a

credere fosse stato scritto da una persona tanto giovane. Il teorema di Pascal,

come quello di Desargues, afferma una proprietà di una figura geometrica che è

comune a tutte le sezioni di ogni proiezione di tale figura. In linguaggio più

matematico esso formula una proprietà di una figura geometrica che è invariante

in proiezione e sezione.

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Fig. 27. Teorema di Pascal.

Pascal intendeva dire quanto segue: si disegni un qualsiasi poligono di sei lati

(esagono) con i vertici su un cerchio e se ne indichino i vertici con le lettere A, B,

C, D, E, F (fig. 27). Si prolunghino una coppia di lati opposti, ad esempio AB e

DE, fino a farli incontrare in un punto P. Si prolunghi un’altra coppia di lati

opposti finché anch’essi si incontrino in un punto, e sia questo il punto Q. Si

prolunghi infine la terza coppia di lati, i quali si incontreranno in un punto R.

Allora, asserisce Pascal, P, Q e R giaceranno sempre su una medesima linea retta.

In altri termini

Se un esagono è inscritto in un cerchio, le coppie di lati opposti si intersecano,

rispettivamente, in tre punti, i quali giacciono su una linea retta.

I concetti della geometria proiettiva illuminano anche la matematica familiare.

Come abbiamo visto nel capitolo quarto, i greci sapevano che cerchio, parabola,

ellisse e iperbole sono sezioni di un cono (fig. 7 nel capitolo quarto). Se

immaginiamo un occhio collocato in O, il vertice del cono, e se immaginiamo

linee come la OA, sulla superficie del cono, le quali siano come linee di luce

condotte dall’occhio O a punti sul cerchio ABC, allora le linee formano una

proiezione e il cerchio, la parabola, l’ellisse e l’iperbole appaiono come sezioni

operate da vari piani che intersecano tale proiezione. Il lettore può verificare

queste asserzioni proiettando un fascio di luce su un pezzo di filo chiuso in

cerchio e osservando l’ombra proiettata dal filo su un foglio di carta. Facendo

ruotare il foglio di carta muterà la sezione e si avranno le varie sezioni coniche.

Poiché le quattro curve possono essere ottenute tutte come sezioni di un cono e

poiché il teorema di Pascal stabilisce un fatto concernente il cerchio che rimane

invariante alla proiezione e alla sezione, ne segue che il teorema di Pascal si

applica a tutte le coniche.

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Consideriamo ora un ultimo teorema della geometria proiettiva. Il teorema di

Pascal ci dice qualcosa su un esagono che è inscritto in un cerchio. C.-J.

Brianchon, che lavorò alla rinascita della geometria proiettiva, all’inizio

dell’Ottocento, creò un teorema famoso che descrive una proprietà di un esagono

circoscritto a un cerchio. Il suo teorema stabilisce (fig. 28) che

Se un esagono è circoscritto a un cerchio, le linee che congiungono vertici opposti si

incontrano in un punto.

Come potremmo attenderci, il teorema di Brianchon si applica non solo al

cerchio ma anche a tutte le sezioni coniche.

I teoremi di Desargues, di Pascal e di Brianchon sono indicativi del tipo di

teoremi dimostrati nella geometria proiettiva e possono bastare come esempi.

Possiamo caratterizzare tutti i teoremi in questo campo dicendo che sono

incentrati sulle idee di proiezione e di sezione e che stabiliscono proprietà di

figure geometriche comuni a sezioni di una medesima proiezione o di proiezioni

diverse di un medesimo oggetto.

Mentre il mecenatismo artistico da parte di principi, secolari e clericali, rese

possibile la straordinaria attività nel campo della pittura e condusse

successivamente alla geometria proiettiva, i bisogni in espansione della borghesia

in rapida ascesa del periodo promossero l’interesse per la cartografia. La ricerca

di vie commerciali nel Cinquecento comportò estese esplorazioni geografiche e si

resero necessarie carte geografiche per facilitare le esplorazioni e per poter tenere

il passo con le scoperte.

Fig. 28. Teorema di Brianchon.

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Non si deve inferire da quanto è stato detto che le civiltà precedenti non

avessero avuto carte. Di fatto greci, romani e arabi disegnarono carte che furono

accettate per secoli. Le esplorazioni dei secoli XV e XVI rivelarono però le

imprecisioni e l’insufficienza delle carte esistenti e crearono una richiesta per

carte migliori e più aggiornate.

La ripresa dell’idea che la Terra fosse una sfera richiedeva inoltre carte

disegnate secondo questa premessa. Si posero questioni come quella del modo in

cui un itinerario dovesse essere tracciato su una carta piana in modo che

corrispondesse alla distanza minore sulla sfera. La stampa di carte ebbe inizio

nella seconda metà del Quattrocento e i grandi centri commerciali di Anversa e

Amsterdam divennero ben presto centri della cartografia.

Benché gli interessi pratici dei cartografi siano alquanto lontani da quelli

estetici dei pittori, entrambe le attività stanno in stretta relazione fra loro

attraverso l’istanza intermedia della matematica. Matematicamente, il problema

del disegno di una carta equivale a quello di come proiettare figure da una sfera a

un foglio piano, il quale non è altro che la sezione della proiezione. I principi che

entrano in gioco sono dunque esattamente gli stessi delle scienze della prospettiva

e della geometria proiettiva. Nel Cinquecento i cartografi si servirono di queste

idee e di altre affini per sviluppare nuovi metodi, il più famoso dei quali fu quello

sviluppato dal cartografo fiammingo Gerardo Mercatore (1512-1594), noto ancora

oggi come proiezione di Mercatore. Nel secolo successivo La Hire, fra altri,

applicò ai problemi della cartografia alcune idee di Desargues.

Fig. 29. Il principio della proiezione gnomonica.

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La difficoltà principale nella redazione di carte geografiche deriva dal fatto che

una sfera non può essere ridotta in piano senza gravi distorsioni della sua

superficie. Il lettore può avere una conferma di quanto diciamo se cerca di

sbucciare un’arancia a strisce o spicchi, tentando poi di distendere in piano le

strisce o spicchi di buccia senza stirarli o romperli. Per produrre una carta piana è

inevitabile distorcere o le distanze o le direzioni o le superfici; nessuna carta può

riprodurre esattamente le relazioni che esistono su una sfera. Quando si usa una

carta geografica, per ricavarne, ad esempio, le distanze, si deve conoscere la

relazione esistente fra le distanze misurate sulla carta e le distanze corrispondenti

sulla sfera. Perciò nel disegnare carte si devono usare metodi che stabiliscano

relazioni sistematiche fra la sfera e la superficie piana cosicché da osservazioni

compiute sulla carta piana si possano desumere conoscenze sulla sfera.

Fig. 30. Carta gnomonica dell’emisfero americano.

Menzioneremo alcuni fra i metodi più semplici della cartografia. Le spiegazioni

che daremo si riferiranno naturalmente solo ai principi geometrici implicati in

questi metodi. Per far vedere in che modo misurazioni eseguite su una carta

particolare possano essere convertite in informazioni corrispondenti sulla sfera

sarebbe necessario introdurre molta più matematica che non si possa fare qui.

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Uno tra i sistemi cartografici più semplici è noto come proiezione gnomonica.

Immaginiamo che un occhio sia collocato al centro della Terra e che stia

guardando verso il doppio continente americano. Ogni linea visuale, una volta

superata la superficie della Terra, viene prolungata fino a raggiungere un punto su

un piano tangente alla superficie della Terra (fig. 29). Se questo punto si trova

sull’equatore otteniamo una carta come quella riprodotta nella figura 30.

Si osserverà che i meridiani appaiono come linee rette. Di fatto ogni cerchio

massimo sulla Terra, ossia ogni cerchio il cui centro coincida col centro della

Terra, come l’equatore o un meridiano, sarà rappresentato in questo sistema con

una linea retta. Questa proprietà è abbastanza importante. La distanza più breve

fra due punti, sulla superficie terrestre, è data dall’arco del cerchio massimo che

unisce tali punti. Quest’arco risulterà in proiezione un segmento di retta

congiungente le proiezioni dei due punti. Poiché le navi e gli aerei seguono

generalmente rotte che si identificano con cerchi massimi, queste rotte possono

essere facilmente rappresentate sulla carta sotto forma di linee rette. Tutti i punti

sulla carta hanno inoltre le giuste direzioni rispetto al centro e fra loro. Un

carattere negativo di questo metodo di proiezione cartografica è che le regioni che

si trovano ai bordi dell’emisfero rappresentato presentano grandissime distorsioni

nelle distanze, negli angoli e nelle aree. Per questa ragione la carta illustrata nella

figura 30 non può rappresentare l’intero emisfero.

Fig. 31. Il principio della proiezione stereografica.

Proiezione e sezione sono usate in modo diverso in un secondo metodo

cartografico noto come proiezione stereografica polare. Supponiamo che un

occhio sia collocato sull’equatore press’a poco in prossimità di Ceylon e che

osservi punti collocati sull’emisfero americano, che è diametralmente opposto

(fig. 31). Supponiamo che un piano intersechi la Terra fra i due emisferi indicati.

Una sezione delle linee visuali costituita dal piano ci darà una carta stereografica

dell’emisfero americano (fig. 32).

Il metodo della proiezione stereografica e utile perché preserva gli angoli. Se

cioè due curve si incontrano sulla sfera formando un angolo C, le immagini di

queste curve sulla carta si incontreranno formando un angolo C' che è uguale

all’angolo C. Ad esempio, i paralleli geografici intersecano sulla sfera i meridiani

formando angoli retti. Le proiezioni di queste curve si intersecano formando

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angoli retti anche sulla carta piana. La proiezione stereografica non conserva

purtroppo le superfici. Le regioni in prossimità del centro della carta sono ridotte

a circa un quarto di quella che è la loro superficie sulla sfera. Le aree sono invece

quasi corrette in prossimità dei bordi della carta.

Fig. 32. Carla stereografica dell’emisfero americano.

Il metodo cartografico più noto è la proiezione di Mercatore. Il principio

applicato in questo metodo non può essere presentato in termini di proiezione e

sezione ma può essere descritto approssimativamente da una proiezione cilindrica

isogona o conforme. Quest’ultimo metodo, noto come una proiezione prospettica

cilindrica, usa un cilindro che circonda la Terra ed è tangente ad essa lungo un

cerchio massimo. Nella figura 33 questo cerchio è un equatore. Le linee che

costituiscono la proiezione hanno origine nel centro della Terra, il punto O nella

figura 33, e si estendono fino al cilindro. Così il punto P della superficie della

Terra è proiettato in P' sul cilindro. Il cilindro viene ora tagliato lungo una linea

verticale e ridotto in piano. Sulla carta piana i paralleli appaiono come linee

orizzontali e i meridiani come linee verticali. Nessun punto sulla carta corrisponde

ai poli nord e sud.

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Fig. 33. Il principio della proiezione cilindrica prospettica.

La differenza sostanziale fra la proiezione prospettica cilindrica e la proiezione

di Mercatore consiste nella spaziatura dei paralleli specialmente nelle estreme

regioni boreale e australe.

Fig. 34. Proiezione di Mercatore dell’emisfero americano.

La figura 34 illustra la proiezione di Mercatore. L’importanza di questo sistema

è duplice. Innanzitutto, come nel caso della proiezione stereografica, essa

conserva gli angoli. In secondo luogo, nel dirigere una nave è conveniente seguire

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una rotta con direzione costante rispetto all’ago della bussola; tale rotta, che

intersecherà i successivi meridiani sulla sfera sempre a uno stesso angolo, e nota

come rotta lossodromica. Essa appare come una linea retta su una carta eseguita

secondo la proiezione di Mercatore. Perciò su una carta del genere è

particolarmente facile tracciare la rotta di una nave e seguirla.

Osserviamo per inciso che una rotta su un cerchio massimo non implica che si

segua sempre una medesima direzione rispetto all’ago della bussola, tranne

quando il cerchio massimo è l’equatore o un meridiano. Perciò su una carta di

Mercatore la rotta su un cerchio massimo appare curva. È d’uso nella pratica della

navigazione approssimare a tale curva varie brevi linee lossodromiche, le quali

consentono così alla nave di mantenere una direzione costante rispetto all’ago

della bussola lungo ogni linea lossodromica e nello stesso tempo di trarre qualche

vantaggio dalla distanza minima permessa dalla rotta su un cerchio massimo.

Il metodo di proiezione cartografica di Mercatore è così comune che la maggior

parte delle persone non si rende conto delle distorsioni che esso introduce. La

Groenlandia appare grande quasi quanto l’America meridionale pur essendo di

fatto solo un nono di essa. Il Canada appare grande il doppio degli Stati Uniti, pur

avendo in realtà una superficie maggiore solo di un sesto. Nonostante queste

distorsioni, la carta è così utile nella navigazione per la ragione indicata sopra da

essere quella maggiormente usata.

Questi brevi cenni sui principi geometrici usati nei vari metodi della cartografia

non esauriscono la varietà dei metodi né danno alcuna indicazione sulle tecniche

matematiche che devono essere usate per interpretare le misurazioni eseguite sulle

carte per ottenere le distanze reali sulla sfera. Dovrebbe risultar chiaro,

nondimeno, che la matematica è essenziale alla cartografia e, in particolare, che

proiezione e sezione vi sono usate non meno che nello studio della prospettiva.

Come l’uso della proiezione e della sezione nella prospettiva diede origine a

questioni matematiche, lo stesso si verificò nella cartografia. In connessione con

le carte è importante, per ragioni pratiche, conoscere le proprietà comuni a una

regione sulla sfera e alla corrispondente regione sulla carta. Ad esempio, il fatto

che in un particolare metodo di proiezione cartografica siano preservati gli angoli

è molto utile. Perciò la cartografia, come la prospettiva, è stata la fonte di molti

nuovi problemi matematici.

Le idee esaminate in questo capitolo erano incentrate sulle nozioni di

proiezione e di sezione. I pittori furono condotti a tali nozioni dai loro sforzi per

costruire un sistema ottico di prospettiva soddisfacente. I matematici derivarono

da tali nozioni un campo d’investigazione del tutto nuovo: la geometria proiettiva.

I cartografi usarono le medesime nozioni per escogitare nuove proiezioni

cartografiche. Tutti e tre i campi sono perciò intimamente legati fra loro da un

concetto matematico fondamentale.

La geometria proiettiva vera e propria può essere applicata a taluni problemi

pratici; è stata coltivata nondimeno primariamente per l’interesse intrinseco che

l’uomo ha trovato in essa, per la sua bellezza, la sua eleganza, lo spazio che

concede all’intuizione nella scoperta di teoremi e il ragionamento rigorosamente

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deduttivo che richiede per le dimostrazioni. Dopo essere stata temporaneamente

trascurata a favore della matematica applicata, questa disciplina fu investigata

attivamente nell’Ottocento e si rivelò la madre di molte nuove geometrie. Forse

perché la pittura ne colorò le idee, la “scienza figlia dell’arte” creata da Desargues

è oggi uno fra i settori più belli della matematica.

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XII. Discorso sul metodo

Finché l’algebra e la geometria procedettero su sentieri

separati, il loro progresso fu lento e le loro applicazioni

limitare. Ma quando queste scienze si unirono, trassero

l’una dall’altra nuova vitalità e da allora in poi procedettero

con passo rapido verso la perfezione.

JOSEPH-LOUIS LAGRANGE

La matematica applicata nel senso moderno del termine non fu la creazione di

un ingegnere o di un matematico con propensioni per l’ingegneria. Dei due grandi

pensatori che fondarono questo settore, uno fu un profondo filosofo, l’altro un

giocatore d’azzardo nel regno delle idee. Il primo si dedicò a un pensiero critico e

profondo sulla natura della verità, sull’esistenza di Dio e sulla struttura fisica

dell’universo. Il secondo visse una vita comune come avvocato e come impiegato

statale, indulgendo di notte a baldorie mentali, creando e offrendo generosamente

al mondo teoremi da milioni di dollari. L’opera che i due uomini compirono in

molti campi resterà immortale.

Il profondo filosofo fu René Descartes (1596-1650), che era nato da genitori

moderatamente agiati a La Haye, in Francia. All’età di otto anni fu mandato a

compiere i suoi studi al collegio gesuita della Flèche, dove acquistò interesse alla

matematica. A diciassette anni, a conclusione dello studio dei consueti argomenti

scolastici, decise di imparare di più su di sé e sul mondo da esperienze di prima

mano. Cominciò questi studi dandosi a vita dissoluta a Parigi; si ritirò quindi in un

angolo tranquillo della città per un periodo di riflessione. Ad esso seguirono la

partecipazione a campagne militari, viaggi, di nuovo vita a Parigi, e poi ancora

guerra, e ancora Parigi, e infine la decisione di stabilirsi in qualche posto.

Pensando forse di poter conseguire un completo isolamento in Olanda, si

procurò una casa ad Amsterdam, dove visse in solitudine, se si prescinde dalla

compagnia della sua amante e di suo figlio, e dedicò la maggior parte dei

vent’anni successivi a scrivere. Qui egli compose le sue opere migliori e divenne

famoso non appena fu pubblicato il suo primo libro. Man mano che egli

continuava a scrivere cresceva, nel pubblico e in lui, l’impressione della

grandezza della sua opera. Profondi pensieri, espressi in opere di alto valore

letterario che rivelarono la chiarezza, la precisione e l’efficacia della lingua

francese, resero popolari sia Descartes sia la filosofia.

Dopo vent’anni di isolamento, Descartes fu convinto a fare il precettore della

regina Cristina di Svezia e si trasferì quindi a Stoccolma. La regina amava

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cominciare la sua giornata alle cinque di mattina studiando in una biblioteca

gelida e Descartes fu costretto a vederla a quell’ora. Queste richieste erano però

eccessive per il cagionevole René. La sua carne era debole e il suo spirito

riluttante. Morì di polmonite nel 1650.

Quando Descartes era ancora alla Flèche, cominciò a chiedersi come mai fosse

così diffusa l’opinione di conoscere tante verità. In parte perché aveva una mente

critica e in parte perché viveva in un’epoca in cui la visione del mondo che aveva

dominato l’Europa per un millennio cominciava ad essere violentemente scossa,

Descartes non poteva essere soddisfatto dei dogmi pronunciati con tanta energia e

sicurezza dai suoi insegnanti e dai capi di sette diverse dalla propria. Egli senti

tanto più giustificati i suoi dubbi quando si rese conto di trovarsi in una fra le più

celebrate scuole d’Europa e di non essere uno studente di secondo piano. Alla fine

del suo curriculum di studi concluse che non c’era alcun corpo di conoscenza

sicuro. Tutta la sua istruzione lo aveva condotto alla scoperta dell’ignoranza

dell’uomo.

In verità egli riconobbe alcuni valori nel tipo di studi usuale. Consentì che

“l’eloquenza ha forza e bellezza incomparabili, che la poesia ha grazie e delizie

affascinanti”; ritenne nondimeno che queste qualità fossero doni di natura più che

frutti di studio. Riveriva la teologia perché indicava la via al cielo, cui anch’egli

aspirava, ma “poiché la via è non meno aperta al più ignorante che al più dotto e

poiché le verità rivelate che conducono al cielo sono al di sopra della nostra

comprensione,” non ebbe la presunzione di assoggettarle all’impotenza della

nostra ragione. La filosofia, egli ammise, “fornisce i mezzi per discorrere con

un’apparenza di verità su tutti gli argomenti e suscita l’ammirazione dei più

semplici.” Essa non ha nondimeno prodotto nulla che fosse incontestabile o al di

sopra di ogni dubbio, pur essendo stata coltivata per epoche intere dagli uomini

più eccellenti. Egli non presumeva perciò di poter avere maggior successo con la

filosofia tradizionale. “La giurisprudenza, la medicina e le altre scienze assicurano

ai loro cultori onori e ricchezze...” Nella misura però in cui esse attingevano i loro

principi alla filosofia, egli riteneva che non si potessero erigere soprastrutture

solide su fondamenta così vacillanti, e grazie al cielo egli non era costretto a far

mercimonio della scienza per migliorare la propria fortuna. “Quanto alla logica, i

suoi sillogismi e la maggior parte degli altri suoi precetti sono di qualche profitto

più nella comunicazione di ciò che già sappiamo o... nel parlare senza giudizio di

cose di cui non sappiamo nulla, che nell’investigazione di ciò che ci è ignoto...”

Numerosi “utilissimi precetti ed esortazioni alla virtù sono contenuti in trattati di

morale”, ma le disquisizioni degli antichi moralisti erano palazzi torreggianti e

splendidi fondati però solo su sabbia e fango. In tutti questi campi, la verità reale

o verificabile brillava per la sua assenza.

Durante gli anni trascorsi nell’esercito, in viaggi e a Parigi, Descartes ponderò

la questione di come si possono conseguire verità. Gradualmente gli si fece chiaro

un programma su come assicurarsele. Cominciò col mettere da parte tutte le

opinioni, i pregiudizi e le cosiddette conoscenze che aveva acquistato fino a quel

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momento. Rifiutò inoltre ogni conoscenza fondata sull’autorità e smise ogni

nozione preconcetta.

Il rifiuto di ciò che è falso non era però in sé sufficiente a produrre la verità. Il

problema che egli pose poi a se stesso fu quello di trovare il metodo per stabilire

nuove verità. La risposta gli venne durante un sogno nel corso di una delle

campagne militari cui partecipò.

Le “lunghe catene di ragionamenti semplici e facili per mezzo dei quali i

geometri sono abituati a raggiungere le conclusioni delle loro dimostrazioni più

difficili” lo condussero a credere che “tutte le cose alla portata della conoscenza

dell’uomo sono reciprocamente connesse nello stesso modo...” Egli decise allora

che un sano corpo di filosofia potesse essere dedotto solo usando i metodi dei

geometri, poiché essi soli sono in grado di ragionare in modo chiaro e

irreprensibile e di pervenire a verità indubitabili. Avendo concluso che la

matematica “è uno strumento di conoscenza più efficace di qualsiasi altro che ci

sia stato lasciato in eredità da altri uomini,” egli cercò di distillare dallo studio

dell’argomento alcuni principi generali destinati a fornire il metodo per ottenere

una conoscenza esatta in tutti i campi o, com’egli lo chiamò, una “mathesis

universalis”. Egli si propose cioè di generalizzare e di estendere i metodi usati dai

matematici al fine di renderli applicabili a ogni tipo di investigazione.

Sostanzialmente, il metodo sarebbe stato una costruzione assiomatica, deduttiva

per ogni pensiero. Le conclusioni sarebbero state teoremi derivati da assiomi.

Guidato dai metodi dei geometri, Descartes formulò con cura le regole che lo

avrebbero diretto nella ricerca della verità. Egli decise, innanzitutto, di non

accettare come vero nulla che non fosse così chiaro e distinto al suo spirito da far

escludere ogni dubbio. Egli rifiutò pertanto i dati dei sensi e, conformemente,

tutte le qualità degli oggetti, come sapore e colore, che potevano essere le reazioni

individuali del soggetto e non caratteri intrinseci degli oggetti stessi. Il secondo

principio di questo metodo consisté nello scomporre grandi problemi in problemi

più piccoli. Il terzo stabiliva che egli avrebbe proceduto dal semplice al

complesso; e il quarto che avrebbe enumerato e verificato in modo così completo

le fasi del ragionamento deduttivo che nulla sarebbe stato omesso

inavvertitamente. Questi principi sono il nucleo del suo metodo.

Egli doveva però ancora trovare quelle verità semplici, chiare e distinte che

svolgessero nella sua filosofia quella stessa parte che gli assiomi svolgono nella

matematica vera e propria. I risultati di questa ricerca sono famosi. Dall’unica

fonte attendibile che i suoi dubbi lasciarono intatta – la coscienza di sé – egli

estrasse le pietre da costruzione della sua filosofia: a) penso, dunque sono; b) ogni

fenomeno deve avere una causa; c) un effetto non può essere maggiore della

causa; e d) le idee di perfezione, di spazio, di tempo e di moto sono innate alla

mente.

L’uomo, dubitando tanto e conoscendo così poco, non è un essere perfetto.

Eppure, secondo l’assioma d), la sua mente possiede l’idea di perfezione e, in

particolare, di un essere onnisciente, onnipotente, eterno e perfetto. In che modo si

formano queste idee? In base all’assioma c) l’idea di un essere perfetto non

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potrebbe essere derivata o essere creata dalla mente imperfetta dell’uomo. Perciò

potrebbe essere ottenuta solo dall’esistenza di un essere perfetto, che è Dio. Perciò

Dio esiste.

Un Dio perfetto non ci ingannerebbe e quindi la nostra intuizione può essere

considerata abbastanza attendibile da fornirci alcune verità. Perciò gli assiomi

della matematica, ad esempio, che sono le nostre intuizioni più chiare, devono

essere verità. I teoremi della matematica non posseggono invece la semplicità e

l’evidenza degli assiomi. In che modo si può esser certi della loro verità? L’uomo

ragiona in un modo che egli ritiene infallibile ma quali garanzie ha del fatto che i

metodi di ragionamento conducano necessariamente a verità? Ricorrendo di

nuovo a un Dio che non ingannerebbe l’uomo, Descartes sostenne che anche le

conclusioni devono essere vere e devono perciò essere vere asserzioni sul mondo

reale. Da tali fondamenta Descartes procedette alla costruzione della sua filosofia

dell’uomo e dell’universo.

Il suo racconto della ricerca del metodo e dell’applicazione del metodo a

problemi di filosofia fu presentato nel suo famoso Discours de la méthode. La

supremazia della ragione umana, l’immutabilità delle leggi naturali, la dottrina

dell’estensione e del moto considerati come l’essenza di oggetti fisici, la

distinzione fra corpo e mente e quella fra qualità che sono reali e intrinseche in

oggetti e quelle presenti in essi solo in apparenza, essendo dovute di fatto alla

reazione della mente ai dati sensoriali, vengono elaborate in questi scritti e hanno

avuto una grande influenza nel determinare i caratteri del pensiero moderno.

Non è nostro intento soffermarci qui sulle vie filosofiche seguite da Descartes,

per quanto degne di studio esse siano. Ciò che concerne la nostra storia è che le

verità della matematica e il metodo matematico servirono da faro per un grande

pensatore che cercò a tastoni la sua via fra le tempeste intellettuali del Seicento.

La sua filosofia può essere caratterizzata di fatto come una filosofia

matematizzata. Essa è molto meno mistica, metafisica e teologica e molto più

razionale di quelle dei suoi predecessori medievali e rinascimentali. Egli esaminò

con somma cura il significato e il ragionamento impliciti in tutti gli stadi del suo

pensiero; insegnò agli uomini a guardare in se stessi alla ricerca della verità e

respinse la soggezione all’antichità e all’autorità. Con Descartes teologia e

filosofia si divisero.

Descartes riapplicò poi alla matematica il metodo che aveva astratto dalla

matematica e generalizzato; con esso egli riuscì a creare un metodo nuovo per

rappresentare e analizzare curve. Questa creazione, nota oggi come geometria

analitica, è la base di tutta la moderna matematica applicata. Si può prevedere che

essa continuerà a essere utile in futuro, mentre la filosofia di Descartes, come la

maggior parte delle filosofie, è legata a un’epoca particolare. Prima di esaminare

il pensiero di Descartes nella matematica vera e propria, dobbiamo soffermarci a

considerare gli sforzi ugualmente meritevoli e indipendenti del suo connazionale e

coinventore della geometria analitica, Pierre Fermat.

In contrasto con la vita avventurosa, romantica e tutta rivolta verso un fine di

Descartes, quella di Fermat fu monotona, molto convenzionale e pratica. Egli era

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nato nel 1601 nella famiglia di un mercante francese di cuoio. Dopo aver studiato

legge a Tolosa, fu per la maggior parte della sua vita un funzionario dello Stato.

Anche la vita domestica di Fermat fu del tutto comune: sposatosi a trent’anni, si

dedicò tutto alla moglie e ai suoi cinque figli. Visse tranquillo; ignorando i grandi

problemi concernenti Dio, l’uomo e la natura dell’universo e si rilassò la notte

con il suo passatempo favorito, la matematica. Mentre la matematica serviva a

Descartes per risolvere problemi filosofici e scientifici e per padroneggiare la

natura, la disciplina offriva a Fermat bellezza, armonia e i piaceri della

contemplazione. Nonostante il breve tempo che poteva dedicare a

quest’argomento e l’atteggiamento edonistico con cui lo affrontava, a

sessantaquattro anni si era imposto come uno fra i più grandi matematici di tutti i

tempi.

I suoi contributi al calcolo infinitesimale furono di primo piano benché messi

un pò in ombra da quelli di Newton e di Leibniz. Con Pascal condivide l’onore di

aver creato la teoria matematica della probabilità e con Descartes quella della

creazione della geometria analitica. Da solo fondò uno dei grandi settori della

matematica, la teoria dei numeri. In tutti questi campi, questo “dilettante” ottenne

risultati brillanti e lasciò la sua impronta. Benché non fosse interessato a un

metodo universale in filosofia, Fermat ricercò un metodo generale per trattare le

curve. Qui le sue idee si incontrarono con quelle di Descartes.

Dobbiamo compiere una breve digressione per capire perché i grandi

matematici di questo tempo fossero così interessati allo studio delle curve. Nella

prima parte del Seicento, la matematica era ancora sostanzialmente un corpo di

geometria con appendici algebriche, e il cuore di questo corpus era il contributo di

Euclide. La geometria euclidea si limita a figure formate da linee rette e da cerchi;

nel Seicento però i progressi della scienza e della tecnica avevano prodotto il

bisogno di operare con molte figure nuove. Ellissi, parabole e iperboli divennero

importanti in quanto descrivevano le traiettorie dei pianeti e delle comete. Le

parabole erano anche traiettorie di proiettili come le palle di cannone. Il moto

della Luna fu studiato intensamente per contribuire alla determinazione della

posizione di navi in mare. I percorsi curvi dei raggi di luce attraverso l’atmosfera

interessavano ad astronomi e artisti, mentre la curvatura delle lenti fu studiata in

relazione al loro uso negli occhiali, nel telescopio, nel microscopio e per capire il

funzionamento dell’occhio umano. Di fatto, sia Descartes sia Fermat furono

molto interessati all’ottica. Descartes pubblicò un saggio sul passaggio della luce

attraverso lenti e Fermat introdusse varie lenti fondamentali, di una delle quali ci

occuperemo in un altro capitolo. Euclide non offriva purtroppo alcuna

informazione sulle curve implicate in questi e in numerosi altri problemi pratici e

le opere greche sopravvissute sulle sezioni coniche erano inadeguate.

Le opere greche non soltanto non fornivano le conoscenze desiderate su curve

importanti ma non mettevano neppure a disposizione metodi matematici di

generale applicazione per conseguire tali conoscenze. Ogni dimostrazione in

Euclide richiedeva nuove impostazioni, spesso ingegnose. I matematici greci, che

disponevano di molto tempo e che non avevano alcun interesse per le applicazioni

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immediate, evidentemente non sentirono come un difetto questa mancanza di un

procedimento generale. Le molteplici esigenze pratiche e scientifiche del Seicento

misero invece sotto pressione i matematici, chiedendo loro di risolvere in breve

tempo problemi difficili.

A questo punto entrano in scena Descartes e Fermat. Essi erano decisamente

insoddisfatti dei metodi limitati usati nella geometria euclidea. Descartes criticò

esplicitamente la geometria degli antichi accusandola di essere troppo astratta e di

essere tanto legata a figure “da poter esercitare l’intelletto solo a prezzo di grande

fatica dell’immaginazione.” Egli criticò anche l’algebra, così totalmente soggetta

a regole e a formule “da risultarne un’arte piena di confusione e di oscurità, adatta

per mettere in imbarazzo, invece che una scienza idonea a coltivare la mente.”

D’altra parte, entrambi gli uomini riconobbero che la geometria forniva

informazioni e verità sul mondo reale. Essi apprezzarono anche il fatto che

l’algebra potesse essere usata per ragionare su quantità astratte e incognite, e

anche per meccanizzare il processo del ragionamento e minimizzare lo sforzo

richiesto per risolvere problemi. Essa è in potenza una scienza universale del

metodo. Descartes e Fermat si proposero perciò di attingere il meglio dalla

geometria e dall’algebra e di correggere con l’una i difetti dell’altra.

Possiamo comprendere nel modo migliore i risultati ottenuti da questi uomini

nel compito che si proposero seguendo il ragionamento di Descartes, anche se la

nostra esposizione può differire dalla sua nei particolari. Abbiamo visto che nel

suo studio generale del metodo egli aveva deciso di risolvere tutti i problemi

procedendo dal semplice al complesso. Ora, la figura più semplice nella

geometria è la linea retta. Egli cercò perciò di affrontare lo studio di curve

mediante linee rette e trovò il modo di realizzare questo progetto.

Sia data, disse Descartes, una curva come quella illustrata nella figura 35.

Questa curva può essere immaginata come generata da un punto P giacente su una

linea verticale PQ. Mentre la linea si muove verso destra, il punto P si muove su o

giù in accordo con la forma della curva. Ogni curva può essere studiata pertanto

studiando il moto di un punto P che si muove in alto o in basso lungo una linea

retta che si muove a sua volta orizzontalmente rispetto alle sue posizioni

precedenti. Fin qui tutto bene. Come si può, però, caratterizzare una curva col

comportamento di P?

Fig. 35. Curva generata dal moto di un segmento rettilineo di lunghezza

variabile.

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A tal fine Descartes usò l’algebra, sapendo che il linguaggio algebrico è un

espediente semplice per aiutare la memoria e che abbraccia molti fatti in breve

spazio. Man mano che la linea verticale si muove verso destra (fig. 35), la sua

distanza da una posizione fissa in O, ad esempio, può essere usata per denotare la

sua posizione. Questa distanza è indicata con x. La posizione di P sulla linea in

movimento può essere specificata stabilendone la distanza al di sopra della linea

orizzontale OQ. Questa distanza può essere denotata con y. Così, per ciascuna

posizione di P ci saranno un valore di x e un valore di y. Due curve diverse aventi

un valore x uguale differiranno nei valori di y. Perciò quel che caratterizza una

curva è una qualche relazione fra x e y valida per i punti P su tale curva, relazione

che sarebbe diversa per una curva diversa.

Vediamo in che modo quest’idea si applichi a una curva semplice come una

linea retta che passi per il punto O e formi con l’orizzontale un angolo di 45° (fig.

36). Se la linea mobile QP si muove percorrendo una distanza x verso destra, il

punto P dovrà salire di una distanza y pari a x per raggiungere la linea retta,

poiché la geometria euclidea ci dice che OQP è un triangolo isoscele e che OQ

dev’essere perciò uguale a QP. Perciò

(1) y = x

è la relazione che caratterizza i punti della linea retta in questione. Così il punto

P per il quale la distanza OQ è 3 e la distanza PQ è 3 è un punto sulla linea poiché

il suo valore di x (= 3) e il suo valore di y (= 3) soddisfa l’equazione y = x.

Fig. 36. Una linea retta che forma un angolo di 45° con l’orizzontale.

Al fine di includere sulla linea punti come P' e nello stesso tempo di

distinguere P' da P, si è convenuto di usare numeri negativi per rappresentare le

distanze percorse da PQ a sinistra di O e le distanze QP al di sotto della linea

orizzontale OQ. Così i valori di x e di y di P' sono entrambi negativi e uguali e

continua a esser vera l’equazione y = x. D’altra parte, per il punto R, che non

giace sulla linea P'OP, il valore di y ovvero la distanza QR non è uguale a x; per

punti esterni alla linea non e dunque vero che y = x.

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Fig. 37. Il sistema delle coordinate ortogonali.

Possiamo sistematizzare come segue le idee contenute nell’esame compiuto qui

sopra: Per esaminare l’equazione di una curva introduciamo una linea orizzontale

che sarà chiamata l’asse X (fig 37), un punto O su questa linea, chiamato origine,

è una linea verticale che passa per O ed è chiamata l’asse Y. Se P è un punto su

una curva, la sua posizione è descritta da due numeri. Il primo è la distanza da O

al piede, Q, della perpendicolare condotta da P all’asse X. Questo numero si

chiama valore x o ascissa di P. Il secondo numero è la distanza PQ ed è chiamato

valore y o ordinata di P. I due numeri sono chiamati le coordinate di P e vengono

scritti generalmente così (x, y).

Fig. 38. Un cerchio collocato su un sistema di coordinate ortogonali.

Si conviene che se P si trova a destra dell’asse Y il suo valore x è considerato

positivo, se invece si trova alla sua sinistra è negativo. Similmente, se P è al di

sopra dell’asse X, il suo valore y è considerato positivo, mentre se esso si trova al

di sotto il suo valore y è negativo. La curva viene allora descritta algebricamente

stabilendo un’equazione che sia valida per valori delle x e delle y di punti su

quella curva e solo per quei punti.

Per illustrare l’idea di Descartes con un altro esempio, vediamo di applicarla al

cerchio della figura 38. Supponiamo che il cerchio abbia il raggio 5. Supponiamo

che P sia un punto qualsiasi sulla curva e che x e y siano le sue coordinate. Il

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teorema di Pitagora, secondo il quale la somma dei quadrati dei cateti è uguale al

quadrato dell’ipotenusa, ci dice che

(2) x2 + y

2 = 25.

Questa relazione vale per qualsiasi punto P sul cerchio; i valori x e y di ciascun

punto sono cioè tali che x2 + y

2 = 25. Ad esempio, il punto che ha le coordinate

(3,4) giace sul cerchio perché 32 + 4

2 = 25. (3,2) non sono invece le coordinate di

un punto sul cerchio perché 32 + 2

2 non fa 25. Diciamo che l’equazione (2) è

soddisfatta dalle coordinate di un punto se la sostituzione della sua ascissa a x e

della sua ordinata a y lascia il primo membro dell’equazione uguale al secondo.

Le coordinate di un punto giacente sulla circonferenza soddisfano l’equazione; le

coordinate di un punto che non giace sul cerchio non soddisfano l’equazione.

Abbiamo fatto vedere così in che modo una curva possa essere rappresentata da

un’equazione che caratterizza questa curva in un modo univoco. L’idea di

Descartes ci consente anche di rovesciare il procedimento. Supponiamo di partire

da un’equazione come

(3) y = x2.

Quale curva può essere associata a quest’equazione? Consideriamo la cosa

ancora una volta nei termini del comportamento del punto P sulla linea in

movimento PQ. Quando PQ si muove a destra di O la distanza OQ, che è il valore

x di P, è positiva. Ora, l’equazione (3) ci dice che il valore y di P, ovvero la

distanza PQ, dev’essere sempre uguale a x2. Quando x è positivo, lo è anche x

2. Il

punto P deve trovarsi perciò al di sopra dell’asse X. Inoltre, quando x è piccolo, lo

è anche x2, che aumenta rapidissimamente al crescere di x. Sappiamo perciò,

almeno approssimativamente, qual è la forma della curva per valori positivi di x

(fig. 39). Ora, quando PQ si muove a sinistra di O, il valore x di P è negativo; x2 è

però ancora positivo perché il quadrato di un numero negativo è positivo. P sarà

perciò al di sopra dell’asse X. Di più, il valore di x2 è identico per un determinato

valore negativo di x e per il corrispondente valore positivo della stessa x. Ad

esempio, x2 è 9 sia per x = - 3 sia per x = + 3. Il punto P si muoverà perciò nello

stesso modo alla sinistra dell’asse Y di come fa a destra. La curva completa è

illustrata nella figura 39, dove s’intende che la curva continua a salire

indefinitamente tanto a destra quanto a sinistra. La nostra analisi dell’equazione y

= x2 ci dimostra che la curva è simmetrica attorno all’asse Y. Si potrebbe

dimostrare che tale curva è una parabola.

Se desiderassimo ottenere un’immagine più precisa della curva, potremmo

scegliere valori di x, sostituirli nell’equazione y = x2, e calcolare i corrispondenti

valori di y. Così, quando x = 1, y = 1; quando x = 2, y = 4; quando x = 2 1/2, y =

25/4 e così via. Poiché ciascuna di queste coppie di coordinate, ad esempio (2, 4),

rappresenta un punto sulla curva, potremmo registrare questi punti e unirli con

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una curva continua. Quante più coordinate calcoliamo, tanti più punti possiamo

registrare e con tanto maggior precisione può essere disegnata la curva.

Fig. 39. La curva di y = x

2.

Ecco dunque dinanzi a noi il nucleo dell’idea di Descartes e di Fermat. A ogni

curva corrisponde un’equazione e una sola, la quale descrive i punti di tale curva

e nessun altro punto. Inversamente, ogni equazione implicante x e y può essere

descritta come curva interpretando x e y come coordinate di punti. E precisamente

l’equazione di qualsiasi curva è un’uguaglianza algebrica la quale è soddisfatta

dalle coordinate di tutti i punti giacenti sulla curva ma non dalle coordinate di

qualsiasi altro punto. L’associazione di equazione e di curva è quindi l’idea

nuova. Combinando il meglio dell’algebra e il meglio della geometria, Descartes

e Fermat disponevano di un metodo nuovo e di grandissimo valore per lo studio

delle figure geometriche. È questa l’essenza dell’idea di Descartes presentata in

un’appendice al Discorso sul metodo a dimostrazione dei risultati a cui il suo

metodo generale in filosofia poteva condurre se applicato alla matematica. Di

fatto, in due o tre mesi, Descartes riuscì a risolvere ricorrendo a questo metodo

molti difficili problemi.

Oltre all’analisi di proprietà di singole curve, l’associazione di equazione e di

curva rende possibile una grande quantità di applicazioni scientifiche della

matematica. In questa connessione esamineremo un’applicazione della parabola

in cui l’equazione della curva si è dimostrata preziosa. Una parabola è sempre

simmetrica rispetto a una linea che è chiamata il suo asse. Nella figura 39

quest’asse di simmetria è l’asse Y. Nella figura 40 l’asse è la linea orizzontale su

cui giace il punto F. Tale punto, detto fuoco, è tale che se P è un punto qualsiasi

sulla parabola, la linea PF e la linea passante per P parallela all’asse, PD nella

figura 40, formano angoli uguali con la tangente PQ in P. Ossia l’angolo 1 è

uguale all’angolo 2.

Supponiamo ora che la parabola sia una sezione trasversale di una superficie

riflettente e che una piccola sorgente di luce sia collocata in F. I raggi di luce

emanati da F colpiranno la parabola e, fortunatamente per noi, saranno riflessi su

linee parallele all’asse. Così un raggio di luce tipico originantesi in F adotterà la

traiettoria FPD. L’effetto è che tutta la luce sarà concentrata nella direzione

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dell’asse e produrrà un forte raggio di luce. In applicazioni pratiche di questo

principio usiamo una superficie ottenuta facendo ruotare la parabola sul suo asse;

un esempio familiare ci è fornito dai fari di un’automobile (si veda anche la fig.

44).

La medesima proprietà della parabola viene usata anche in senso inverso. Se la

parabola viene orientata in modo tale che il suo asse punti verso una stella

lontana, i raggi di luce arriveranno praticamente paralleli all’asse della parabola,

colpiranno la parabola e saranno riflessi nel punto F. In F ci sarà dunque una

grande concentrazione di luce, la quale consentirà agli scienziati di vedere più

chiaramente le stelle lontane. La parabola è usata perciò in alcuni tipi di telescopi.

Se invece di una stella si osservasse il Sole, i raggi di luce convergenti in F

produrrebbero un grande calore e incendierebbero un oggetto infiammabile che vi

fosse collocato. Questo effetto rende ragione del vocabolo fuoco (dal latino focus,

focolare).

Fig. 40. La proprietà di una parabola di far convergere nel fuoco i raggi

incidenti paralleli all’asse.

Poiché le applicazioni pratiche della matematica non ci interessano

primariamente in questo libro, ci limiteremo a menzionare di passaggio che tutte

le sezioni coniche posseggono proprietà simili a quella appena descritta per la

parabola. Queste curve sono perciò effettivamente usate in lenti, telescopi,

microscopi, macchine per radiografie, sale per concerti, antenne radio, riflettori e

centinaia di altri importanti dispositivi. Quando Keplero introdusse in astronomia

le sezioni coniche, esse divennero fondamentali in tutti i calcoli astronomici,

compresi quelli di eclissi e delle traiettorie di comete. Le sezioni coniche sono

usate anche nella progettazione di cavi e di carreggiate per ponti. In tutte queste

applicazioni, le equazioni di queste curve hanno reso possibili, o almeno hanno

facilitato, i calcoli. Là dove i metodi della geometria euclidea avrebbero richiesto

costruzioni elaborate e complesse e avrebbero fornito lunghezze misurabili solo

approssimativamente, l’equazione algebrica di Descartes è uno strumento molto

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più semplice e fornisce risposte con tanti decimali quanti ne sono richiesti dai

singoli casi. La geometria analitica può anche essersi rivelata impari all’attesa di

Descartes, secondo il quale era destinata a risolvere tutti i problemi geometrici,

ma ne risolve molti di più di quanti egli avrebbe potuto considerarne nel Seicento.

Le idee realmente importanti hanno di solito l’effetto di suggerire nozioni e

relazioni insospettate. L’associazione, a opera di Descartes, di equazione e curva,

scoprì automaticamente un nuovo mondo di curve.

Per ogni equazione algebrica in x e in y esiste una curva che è descritta da tale

equazione. Poiché il numero delle equazioni che possono essere formulate è

illimitato, è illimitato anche il numero delle curve. Queste numerose curve,

scoperte solo attraverso le loro equazioni, si sono dimostrate utili a loro volta in

numerose e molteplici applicazioni.

L’associazione di equazione e di curva fece più che aprire un nuovo mondo di

curve; essa annunciò prospettive di nuovi spazi. L’estensione dell’idea allo spazio

tridimensionale si impose da sé immediatamente, e fu seguita dalla suggestiva

intuizione di estendere l’idea a dimensioni ancora superiori. Dobbiamo dare uno

sguardo a queste ramificazioni più recenti della geometria analitica poiché queste

estensioni sono alla base degli sviluppi scientifici più complessi e raffinati,

compresa la teoria della relatività.

Fig. 41. Sistema di coordinate ortogonali tridimensionale.

Considereremo dapprima l’estensione della geometria analitica allo spazio

tridimensionale. Abbiamo già visto che la posizione di un punto nel piano può

essere descritta da una coppia di numeri o coordinate. Sarà subito evidente che la

posizione di un punto nello spazio può essere specificata da un tripletto di numeri.

Sia A un piano, come il piano di questa pagina, e sia tenuto orizzontalmente.

Supponiamo che in questo piano la direzione in cui sono misurati i valori di x

positivi sia indicata da OX (fig. 41) e che la direzione in cui sono misurati valori

positivi di y sia indicata da OY.

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Ora, ogni punto P nello spazio si trova o al di sopra o al di sotto del piano A di

una distanza che rappresenteremo con z; z è positivo per punti che si trovino al di

sopra di A e negativo per punti che si trovino al di sotto. Ad esempio, se P è 4

unità al di sopra di A, il suo valore z è 4. La posizione di P nello spazio è descritta

completamente osservando innanzitutto che esso si trova direttamente al di sopra

del punto R nel piano orizzontale. R ha coordinate x e y, trovandosi nel piano A.

Supponiamo che queste coordinate siano (3, 2). I numeri 3, 2 e 4 determinano

allora completamente la posizione di P e nessun altro punto nello spazio risponde

a questa descrizione. Chiamiamo perciò 3, 2 e 4 le coordinate di P e le scriviamo

nella forma (3, 2, 4). Per un punto che si trovi sul piano A, come ad esempio R, si

assegna una terza coordinata O così che le coordinate di R in questo sistema di

coordinate tridimensionale che stiamo ora costruendo sono (3, 2, 0). Il punto P'

con coordinate (3, 2, - 4) è anch’esso raffigurato nella figura 41. L’intersezione O

dei tre assi OX, OY e OZ è chiamata l’origine del sistema tridimensionale e ha le

coordinate (0, 0, 0).

Fig. 42. Una sfera collocata in un sistema di coordinate ortogonali

tridimensionale.

Per mezzo del nostro sistema di coordinate tridimensionale è possibile mettere

in relazione equazioni algebriche e figure geometriche nello spazio. Per illustrare

una tale relazione consideriamo la sfera. La sfera è per definizione l’insieme di

tutti i punti dello spazio equidistanti da un punto fisso chiamato il centro della

sfera. Supponiamo che tutti i punti della nostra sfera siano a 5 unità dal centro e

che la sfera sia collocata in modo che il suo centro sia all’origine di un sistema di

coordinate tridimensionale (fig. 42). Siano (x, y, z) le coordinate di un punto P

qualsiasi sulla sfera. Allora x e y sono i cateti di un triangolo rettangolo (che giace

nel piano orizzontale), la cui ipotenusa è OR. Per il teorema di Pitagora

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x2 + y

2 = OR

2.

OR e z sono però i cateti del triangolo rettangolo ORP, la cui ipotenusa è OP o

5 unità. Allora

OR2 + z

2= 25.

Ma OR2 ha un valore dall’equazione precedente. Se sostituiamo questo valore,

otteniamo l’equazione

x2 + y

2 + z

2 = 25.

È questa l’equazione di una sfera, nel senso che il primo membro è uguale al

secondo quando e solo quando a x, y e z si sostituiscano le coordinate di un punto

sulla sfera. Il punto (0, 3, 4), ad esempio, soddisfa l’equazione, poiché

02 + 3

2 + 4

2 = 25

e perciò giace sulla sfera. La somiglianza dell’equazione della sfera a x2 + y

2 =

25, che è l’equazione del cerchio, dovrebbe essere osservata per essere esaminata

ulteriormente.

Il caso della sfera illustra un fatto nuovo importante. Un’equazione in x, y e z

rappresenta una superficie e ogni superficie è rappresentata da una tale equazione.

Senza dilungarci nei particolari, citeremo alcune equazioni e le superfici

corrispondenti perché tali esempi potranno aiutare il lettore a seguire il nostro

esame della geometria quadridimensionale.

Un’equazione della forma

3x + 4y + 5z = 6

(i numeri sono scelti a caso) rappresenta l’insieme di punti di un piano (fig. 43).

La somiglianza di quest’equazione con l’equazione di una linea retta che in un

sistema di coordinate bidimensionale è esemplificata da 3x + 4y = 6 è evidente.

Un’equazione della forma

x2 + y

2 = z

rappresenta un paraboloide (fig. 44). Il paraboloide presentato in questa figura

ha pressappoco la forma di un faro d’automobile. Quest’equazione è assai simile

alla y = x2, che rappresenta una parabola.

La sfera, il piano e il paraboloide sono gli analoghi, nello spazio

tridimensionale, del cerchio, della linea e della parabola, e questa relazione ci si

rivela quando confrontiamo le loro equazioni. Se avessimo a disposizione il

tempo di esaminare le equazioni di altre superfici, troveremmo che esse sono le

estensioni naturali delle equazioni di curve che hanno proprietà geometriche

simili.

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Il linguaggio trasporta idee; un linguaggio ricco può anche suggerire nuove

idee. Ciò accade almeno nella matematica dove il linguaggio si dimostra spesso

più intelligente delle persone che lo inventano. Il linguaggio algebrico della

geometria analitica rivelò di possedere un potere inaspettato poiché dispensa dal

bisogno del pensiero geometrico.

Fig. 43. Il piano corrispondente all’equazione 3x + 4y + 5z = 6.

Consideriamo l’equazione x2 + y

2 = 25, che sappiamo ora rappresentare un

cerchio. Dov’è la figura arrotondata, la via senza fine, la bellezza della forma?

Tutto nella formula. L’algebra ha sostituito la geometria; la mente ha sostituito

l’“occhio.” Noi possiamo trovare tutte le proprietà del cerchio geometrico in

proprietà algebriche di quest’equazione. Questo fatto suggerì ai matematici la

possibilità di esplorare attraverso la rappresentazione algebrica di figure

geometriche un concetto proposto ancor prima dell’epoca di Descartes e di

Fermat ma fino a questo periodo inaccessibile: ossia la geometria

quadridimensionale.

Fig. 44. La superficie parabolica corrispondente all’equazione x

2 + y

2 = z.

Che cos’è una geometria quadridimensionale? Considerato visivamente, il

concetto non ha alcun significato. Ma noi possiamo immaginare quattro linee fra

loro perpendicolari, ossia quattro linee di cui ciascuna sia perpendicolare alle altre

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tre. Un punto in uno spazio quadridimensionale può anche essere considerato

come rappresentato da quattro numeri o coordinate; tali numeri sarebbero le

distanze che devono essere percorse lungo i quattro assi per raggiungere tale

punto. Così le coordinate di un punto arbitrario possono essere scritte come (x, y,

z, w). È possibile, inoltre, immaginare particolari figure geometriche in uno spazio

quadridimensionale. Il modo più conveniente per introdurre e studiare queste

figure è attraverso il linguaggio della geometria analitica. Ad esempio, possiamo

formulare un’equazione come la seguente

x + y + z – w = 5.

Quest’equazione è soddisfatta da molti insiemi di valori di x, y, z, e w. Così i

valori x = 1, y = 6, z = 2 e w = 4 soddisfano quest’equazione e così i valori x = 1, y

= 5, z = 3 e w = 4. Ogni insieme di valori che soddisfa l’equazione appartiene a un

punto e la figura geometrica rappresentata dall’equazione è l’insieme di punti

ciascuna delle cui coordinate soddisfa l’equazione. Poiché l’equazione è

l’estensione a quattro lettere delle equazioni della linea retta e del piano,

chiamiamo questa figura un iperpiano. Similmente, possiamo parlare della figura

appartenente all’equazione

x2 + y

2 + z

2 + w

2 = 25

come di un’ipersfera, poiché quest’equazione è un’estensione a quattro lettere

delle equazioni del cerchio e della sfera. Le equazioni a quattro lettere sono la

descrizione algebrica di figure in uno spazio quadridimensionale.

Le figure della geometria quadridimensionale esistono nello stesso senso delle

figure a due e a tre dimensioni. L’iperpiano è altrettanto “reale” della linea retta e

del piano, e l’ipersfera è altrettanto “reale” del cerchio e della sfera. Lo stesso vale

per tutti gli altri oggetti della geometria a un numero di dimensioni superiore. La

difficoltà che i più provano ad accettare una geometria quadridimensionale e le

equazioni corrispondenti è dovuta al fatto di confondere costruzioni mentali e

visualizzazione. L’intera geometria, inclusa la geometria euclidea bi- e

tridimensionale, si occupa, come sottolineò Platone, di idee che esistono solo

nella mente. Fortunatamente possiamo visualizzare o descrivere graficamente le

idee bi- e tridimensionali per mezzo di disegni sulla carta e questi disegni ci

aiutano a ricordare e a organizzare i nostri pensieri. Ma i disegni non sono

l’argomento della geometria e non ci è consentito ragionare sulla base di essi. È

vero che la maggior parte delle persone, inclusi i matematici, si appoggiano a

questi disegni come a una stampella e sono incapaci a camminare quando la

stampella sia loro sottratta. Per fare un viaggio nei campi della geometria a un

numero di dimensioni superiore la stampella non è però disponibile. Nessuno,

nemmeno il matematico più dotato, può visualizzare strutture quadridimensionali;

egli deve fondarsi solo sulla sua mente. Le strutture sono trattate quindi per

mezzo delle loro equazioni.

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163

Fig. 45. Sezioni bidimensionali dell’ellissoide.

Di fatto è possibile visualizzare sezioni di figure nello spazio

quadridimensionale. Il significato di quest’asserzione può essere spiegato in

riferimento a una situazione tridimensionale. Supponiamo di voler studiare

l’ellissoide (ad esempio la superficie di una palla da rugby) nei particolari. Per

aggirare la difficoltà di visualizzare l’intera figura, una difficoltà in questo caso

non troppo grande, un espediente matematico molto usato consiste nel prendere

sezioni piane dell’ellissoide e studiare queste. Da queste sezioni – ellissi come A e

B nella figura 45 – possiamo ottenere la conoscenza dell’intero ellissoide. Il

problema dello studio di una figura nello spazio tridimensionale è ridotto così a

quello dello studio di figure nello spazio bidimensionale.

In modo simile possiamo esaminare sezioni bi- e tridimensionali di figure

geometriche quadridimensionali e dedurre conoscenze su di esse dallo studio delle

sezioni. “Ma,” potrebbe obiettare il lettore, “sappiamo che cosa sono le sezioni

piane di un ellissoide perché possiamo visualizzare l’intera figura. Come

possiamo ottenere un risultato analogo per il nostro mondo quadridimensionale?”

La risposta è: per mezzo delle equazioni algebriche. Troviamo prima l’equazione

della sezione e ne otteniamo la forma con la nostra conoscenza della geometria

analitica ordinaria, bidimensionale e tridimensionale.

In modo ancora diverso siamo in grado di visualizzare figure di uno spazio

quadridimensionale. Per studiare una sezione ellittica dell’ellissoide possiamo

limitarci al piano su cui giace l’ellisse, cioè abbiamo bisogno di considerare solo

un mondo bidimensionale. Consideriamo ora una curva di un mondo

quadridimensionale. Se questa curva si trova su un piano può essere visualizzata

completamente, benché faccia parte di un mondo quadridimensionale.

Se possiamo studiare figure quadridimensionali in termini di sezioni bi- e

tridimensionali, perché ammettere in primo luogo il mondo quadridimensionale?

La risposta è che la vera relazione di queste sezioni l’una all’altra può esistere

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solo in un tale mondo, così come la vera relazione delle sezioni A e B

dell’ellissoide della figura 45 può esistere solo nello spazio tridimensionale.

La nozione di una geometria quadridimensionale è di fatto molto utile nello

studio dei fenomeni fisici. C’è un punto di vista da cui il mondo fisico può e deve

essere considerato quadridimensionale. Qualsiasi fatto ha luogo in un certo posto

e in un certo tempo. Per descrivere questo fatto come distinto da altri fatti

dovremmo indicare la posizione e il tempo del suo verificarsi. La sua posizione

nello spazio può essere specificata da tre numeri, ossia le sue coordinate in uno

spazio analitico tridimensionale; il tempo del verificarsi può essere specificato

come un quarto numero. I numeri x, y, z e t, non uno di meno, servono pertanto a

specificare un evento in modo chiaro. I quattro numeri sono le coordinate di un

punto in un mondo spaziotemporale quadridimensionale. È quindi naturale

pensare al mondo degli eventi come a un mondo quadridimensionale e studiare gli

eventi fisici in tale luce.

Consideriamo, come evento specifico, il moto di un pianeta. Per situare un

pianeta in modo appropriato dobbiamo specificare non soltanto la posizione del

pianeta ma anche l’epoca in cui il pianeta occupa tale posizione. Per descrivere la

posizione del pianeta si richiedono dunque di fatto quattro numeri, i quali possono

essere considerati come la descrizione di un punto in una geometria

quadridimensionale. Anche le posizioni successive del pianeta possono essere

descritte come punti di un mondo quadridimensionale e l’intero moto del pianeta

nello spazio-tempo è descritto da una ipercurva. Non possiamo visualizzare o

disegnare una tale curva ma possiamo rappresentarla con un’equazione o, più

esattamente, con un insieme di equazioni a quattro lettere. Se le equazioni sono

scelte in modo corretto, esse includono una descrizione completa del moto,

esattamente come x2 + y

2 = 25 è una descrizione completa del cerchio. E come

possiamo dedurre fatti concernenti il cerchio dallo studio della sua equazione, così

possiamo dedurre fatti sul moto di un pianeta studiandone le equazioni

rappresentative.

Dovremmo forse cogliere quest’occasione per sottolineare che una grande

quantità di affermazioni assurde sono state scritte su ciò che accadrebbe se

vivessimo in un mondo avente quattro dimensioni spaziali. Molti autori hanno

dichiarato che in un mondo di quattro dimensioni spaziali la gente potrebbe

mangiare un uovo senza romperne il guscio, o uscire da una stanza senza passare

attraverso le pareti, il pavimento o il soffitto. Questi autori ragionano per analogia

con situazioni paragonabili in dimensioni inferiori. Per passare da un punto A

all’interno di un quadrato a un punto B all’esterno di esso (fig. 46) restando nel

piano della carta, bisogna attraversare il confine C. Ma possiamo evitare C se ci è

consentito di usare una terza dimensione e di uscire dal piano della carta.

Similmente, per passare da un punto A all’interno di un cubo a un punto B

all’esterno di esso (fig. 47), bisogna attraversare la superficie del cubo, finché

siamo confinati alle tre dimensioni.

Nondimeno, e qui interviene il ragionamento per analogia, se potessimo usare

una quarta dimensione potremmo evitare di attraversare la superficie del cubo.

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Fig. 46 Fig. 47

Ora, speculazioni del genere sarebbero innocue se non dessero l’impressione

che i matematici credano nell’esistenza reale di un mondo a quattro dimensioni

spaziali e sperino un giorno di educare il nostro apparato visivo a percepire questo

mondo. I matematici non nutrono nessuna convinzione del genere né contemplano

un tale progetto.

Le nozioni di dimensione e di geometria di uno spazio a più di tre dimensioni

sono settori della matematica affascinanti. Questi argomenti ci portano però molto

oltre l’epoca e l’opera di Descartes e di Fermat. In questo capitolo l’argomento

che ci interessa e la loro opera e la lezione che ne può essere derivata. Qual è

allora tale lezione? In primo luogo, la matematica fu un’ispirazione e un faro nel

pensiero filosofico. In secondo luogo, un interesse filosofico per il metodo e un

piacere intellettuale nell’attività matematica produssero la geometria analitica da

cui praticamente dipendono tutte le applicazioni della matematica al mondo

fisico. La linea di sviluppo da Descartes a Newton a Einstein è così rettilinea

come potrebbe concepirla una idealizzazione matematica.

L’opera di Descartes accrebbe considerevolmente l’importanza della

matematica poiché egli fu il primo pensatore influente a dimostrare al mondo la

natura e il valore del metodo matematico nella ricerca della verità da parte

dell’uomo. Egli offrì a un mondo sperduto nella confusione che caratterizza la

fine di un’èra un piano di approccio ai problemi. Quanto il mondo traesse profitto

dell’opera di proselitismo svolta da Descartes a favore della causa del metodo

matematico apparirà evidente nello spazio di alcuni capitoli.

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XIII. L’approccio quantitativo alla natura

Si aprirà l’accesso a una scienza vastissima e

importantissima, della quale queste nostre fatiche

costituiranno gli elementi e in cui ingegni più del mio

perspicaci penetreranno più riposti recessi.

GALILEO

Un giorno un giovane che era studente all’università di Pisa visitò la cattedrale.

La funzione religiosa doveva essere noiosa poiché, invece di ascoltare

attentamente, egli osservava le oscillazioni di una grande lampada sospesa. Il

giovane si accorse presto che il tempo impiegato dalla lampada a percorrere un

grande arco doveva essere uguale a quello che impiegava, via via, a percorrere

archi più piccoli. Per verificare quest’osservazione egli non usò il suo orologio da

taschino per la semplice ragione che non era ancora stato inventato, ma pensò di

usare il battito del suo polso. L’osservazione risultò corretta e un giovinetto si

trovò ad aver scoperto una legge scientifica che governa ogni moto pendolare: il

tempo richiesto da un pendolo a compiere un’oscillazione è indipendente

dall’ampiezza dell’oscillazione. Non molto tempo dopo questa legge fu usata per

progettare l’utile orologio che il giovane non possedeva. Fatto più importante, la

scoperta suggerì un nuovo concetto di attività scientifica che definisce la scienza

moderna e nello stesso tempo le conferisce il suo potere “magico”. È appunto

questo il concetto che intendiamo ora esaminare.

Il giovane che sognava a occhi aperti in chiesa, Galileo Galilei, figlio di un

musicista, era nato a Pisa nel 1564, l’anno della nascita di Shakespeare. All’età di

diciassette anni era entrato all’università di Pisa per studiarvi medicina e, sempre

a Pisa, apprese la matematica in lezioni private da un ingegnere. La lettura di

Euclide e di Archimede infiammò un genio naturale per la matematica e per la

scienza e perciò, col consenso del padre, egli si rivolse allo studio di questi settori.

La vastità degli interessi e delle attività di Galileo era innegabilmente grande,

anche per un’età di grandi geni. Egli ebbe sempre un profondo interesse per

congegni meccanici e aveva egli stesso una grande abilità meccanica. Tenne a

casa sua, a Padova dove insegnò matematica a partire dal 1592, un’officina in cui

passava gran parte del suo tempo; qui produsse tanti nuovi e ingegnosi dispositivi

da poter essere chiamato il padre delle moderne invenzioni. Il telescopio, o

perspective glasses (lenti prospettiche), come lo chiamò Ben Jonson, con cui

Galileo scoprì i satelliti di Giove e con cui vide confusamente gli anelli di

Saturno, con cui osservò la composizione stellare della Via Lattea, le fasi di

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Venere e le montagne e valli della Luna, fu costruito da lui. Queste osservazioni,

per inciso, dimostravano che i corpi celesti possedevano le stesse proprietà della

Terra e costituivano perciò altre prove di un certo peso a favore della teoria

eliocentrica. Un’altra invenzione di Galileo fu il pulsilogio, un congegno che

utilizzava la sua legge del moto pendolare per indicare la rapidità del polso.

Benché le sue ricerche scientifiche oscurino le altre sue attività, Galileo fu una

figura letteraria di primo piano ed è un fatto riconosciuto che egli scrisse la

miglior prosa italiana del Seicento. Egli sperimentò varie forme letterarie, criticò

e scrisse poesie e fece una lettura su Dante. I suoi scritti scientifici sono famosi

non soltanto perché presentano le sue ricerche astronomiche e fisiche ma anche

perché sono classici della letteratura. L’interesse di Galileo per l’arte dello

scrivere fu integrata dalla sua passione per la pittura e per la musica, che lo

consolarono spesso nei suoi anni più travagliati.

La creazione più artistica e più feconda della versatile mente di Galileo fu un

grande piano per la lettura del libro della natura. In sostanza esso offriva un

concetto totalmente nuovo dei fini scientifici e della funzione della matematica

nel realizzarli. Anche se non si possono ignorare gli sforzi, parziali e in genere

abortiti, di suoi precursori, Galileo formulò esplicitamente il piano e lo mandò a

effetto stabilendo un certo numero di leggi fondamentali. Quando Galileo mori,

nel 1642, vecchio e famoso, la scienza moderna era già ben avviata; la sua genesi

dev’essere considerata opera quasi esclusiva di Galileo. In questo capitolo ci

occuperemo del piano escogitato da Galileo per studiare e padroneggiare la

natura.

Quasi tutte le persone del nostro secolo si rendono conto del fatto che qualcosa

di rivoluzionario ebbe luogo nel campo della scienza attorno all’anno 1600.

Perché l’attività scientifica avviata nel Seicento si rivelò così efficace? Coloro che

contribuirono in tale secolo allo sviluppo della scienza, Descartes, Galileo,

Newton, Huygens e Leibniz, erano intelletti maggiori di quelli delle civiltà

precedenti? È difficile sostenerlo. Il profondo Aristotele e il brillante Archimede

possedevano un’intelligenza non inferiore a quella di qualsiasi scienziato del

Seicento. Forse l’efficacia della scienza seicentesca fu dovuta all’accresciuto uso

dell’osservazione, dell’esperimento e dell’induzione, metodi raccomandati da

Ruggero e da Francesco Bacone? Evidentemente no. La svolta verso

l’osservazione e la sperimentazione può essere stata un’innovazione

rinascimentale ma era un metodo di approccio almeno familiare a scienziati greci.

Né il semplice uso della matematica in studi scientifici spiega gli affascinanti

risultati ottenuti dalla scienza moderna poiché, anche se gli scienziati seicenteschi

sapevano che il fine della loro opera doveva essere quello di scoprire le relazioni

matematiche esistenti fra i vari fenomeni, la ricerca di tali relazioni in natura non

era nuova per la scienza. La convinzione della struttura matematica della natura

era stata sottoposta a verifica già in tempi greci.

Il segreto del successo della scienza moderna fu nella scelta di un nuovo

obiettivo dell’attività scientifica. Questo nuovo obiettivo, definito da Galileo e

proseguito dai suoi successori, è quello di ottenere descrizioni quantitative di

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fenomeni scientifici indipendentemente da qualsiasi spiegazione fisica. Il

carattere rivoluzionario di questo nuovo concetto scientifico sarà apprezzato più

compiutamente quando venga messo a confronto con l’attività scientifica dei

periodi precedenti.

Gli scienziati greci concentrarono il loro interesse sulla spiegazione del perché

i fenomeni abbiano luogo. Aristotele, ad esempio, spese molto tempo cercando di

spiegare perché corpi scagliati in alto ricadano a terra. Il matematico e ingegnere

greco Erone usò il principio secondo cui la natura ha orrore del vuoto per spiegare

altri fenomeni. Similmente, la fisica greca rese conto dell’assenza di forze

apparenti che causino il moto dei corpi celesti affermando che il moto circolare è

naturale e non c’è bisogno quindi di forze che lo avviino e che lo mantengano.

Altre “spiegazioni” ancora sembrano non aver la forza di penetrare i fenomeni di

cui si occupano. Ad esempio, secondo Platone, la Terra conserva la sua posizione

fissa al centro dell’universo “perché una cosa in equilibrio in mezzo a una

sostanza uniforme non avrà una causa che la faccia inclinare verso una direzione

più che verso un’altra.”

Anche l’Europa medievale si occupava del perché le cose accadono, ma le

spiegazioni erano sempre espresse nei termini della finalità di un fenomeno. Una

“spiegazione” della pioggia era che serviva a irrigare le coltivazioni. Le piante

coltivate crescevano per nutrire l’uomo e l’uomo viveva per servire Dio e

venerarLo. San Tommaso, seguendo Aristotele, discusse il moto dal punto di vista

del perché esso accade e disse che esso è l’atto di ciò che è in potenza e cerca di

passare all’atto. Per quanto queste spiegazioni possano apparirci soddisfacenti o

no, esse furono nondimeno le risposte date a domande che si posero nelle fasi più

antiche della attività scientifica.

Galileo fu il primo uomo a rendersi conto del fatto che tali speculazioni

concernenti le cause e le ragioni di eventi non avevano fatto molto progredire fino

allora la conoscenza scientifica e non avevano dato all’uomo un grande potere di

predizione e di controllo sul corso della natura. Per queste ragioni egli propose di

sostituirle con una descrizione quantitativa dei fenomeni.

La sua proposta può essere chiarita con un esempio. Nella semplice situazione

in cui una palla è lasciata cadere dalla mano di una persona, possiamo speculare

all’infinito sul perché la palla cade. Galileo ci insegnò a comportarci

diversamente. La distanza che la palla percorre dal suo punto di partenza aumenta

col passare del tempo dall’istante dell’inizio della caduta. In linguaggio

matematico, la distanza percorsa in caduta dalla palla e il tempo trascorso

dall’inizio della caduta sono chiamati variabili, mutando entrambi quando la palla

cade. Cerchiamo, disse Galileo, qualche relazione matematica fra queste variabili.

La risposta cercata da Galileo si scrive oggi in quella forma stenografica nota

come formula; per il caso in esame la formula è s = 1/2 at2 (s = 4,9t

2). Questa

formula dice che il numero di metri, s, che la palla percorre in caduta libera in t

secondi è 4,9 volte il numero dei secondi al quadrato. Ad esempio in 3 secondi la

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palla percorre 4,9 32 ossia 44,1 metri, in 4 secondi la palla percorre 4,9 41

ossia 78,4 metri, e così via.

Si deve osservare, innanzitutto, che la formula è concisa, esatta e

quantitativamente completa. Per ciascun valore di una variabile si può calcolare

esattamente il valore corrispondente dell’altra. Questo calcolo può essere eseguito

per milioni di valori della variabile tempo, in realtà per un numero di valori

infinito, cosicché la semplice formula s = 4,9t2

contiene una quantità

d’informazione infinita.

La formula è un modo di rappresentare una relazione fra variabili.

La relazione in sé, la cui esistenza può essere riconosciuta su basi fisiche, è

chiamata oggi funzione o relazione funzionale. Tali relazioni sono valide

praticamente in ogni ambito. Poiché la pressione dell’atmosfera varia con

l’elevazione al di sopra della superficie della Terra, esiste una relazione

funzionale fra la pressione e l’altitudine. Similmente, il costo di un articolo

artigianale dipende, ovvero ne è una funzione, dal costo delle materie prime, della

mano d’opera e dalle spese generali. In quest’ultimo esempio sono implicate

quattro variabili, una delle quali, il costo dell’articolo, dipende dalle altre tre.

È molto importante rendersi conto del fatto che una formula matematica è una

descrizione di ciò che ha luogo e non una spiegazione di una relazione causale. La

formula s = 4,9t2

non dice nulla sul perché una palla cade o se nel passato siano

cadute palle o se continueranno a cadere in futuro. Essa dà semplicemente

un’informazione quantitativa su come una palla cade. E benché tali formule siano

usate per mettere in relazione fra loro variabili che gli scienziati suppongono

siano fra loro in relazione causale, è vero nondimeno che non c’è bisogno di

investigare né di capire la connessione causale al fine di trattare la situazione con

successo. Galileo se ne rese conto chiaramente quando mise l’accento sulla

descrizione matematica contro le meno felici investigazioni qualitativa e causale

della natura.

Galileo decise dunque di ricercate le formule matematiche che descrivono il

comportamento della natura. Quest’idea, come la maggior parte delle idee geniali,

può anche lasciare a tutta prima indifferente il lettore. Si ha infatti l’impressione

che si tratti di semplici formule matematiche non aventi alcun valore reale. Esse

non spiegano nulla ma si limitano a descrivere in un linguaggio preciso. Eppure

tali formule si sono rivelate la conoscenza più valida che l’uomo abbia mai

acquisito sulla natura. Vedremo che le più affascinanti conquiste, pratiche come

teoriche, della scienza moderna sono state realizzate principalmente attraverso la

conoscenza quantitativa, descrittiva, che è stata accumulata e manipolata e non

attraverso le spiegazioni metafisiche, teologiche e anche meccaniche delle cause

dei fenomeni. La storia della scienza moderna è la storia dell’eliminazione

graduale di dèi e demoni e della riduzione di nozioni vaghe sulla luce, il suono, la

forza, i processi chimici e altri concetti a numeri e a relazioni quantitative.

La decisione di ricercare le formule che descrivono fenomeni conduce a sua

volta alla domanda: quali quantità dovrebbero essere messe in relazione fra loro

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mediante formule? Una formula stabilisce una relazione fra i valori numerici di

enti fisici variabili come la pressione e la temperatura. Questi enti devono essere

perciò misurabili. Il principio seguito successivamente da Galileo fu quello di

misurare ciò che è misurabile e di rendere misurabile ciò che non lo è ancora. Il

suo problema fu allora quello di isolare quegli aspetti dei fenomeni naturali che

sono fondamentali e capaci di misurazione.

Perseguendo quest’obiettivo, Galileo doveva dissodare un terreno nuovo. I suoi

predecessori medievali, seguendo Aristotele, si erano accostati alla natura nei

termini di concetti come origini, essenze, forma, qualità, causalità e fini. Queste

categorie non si prestano alla quantizzazione. Galileo procedette invece a sfruttare

una filosofia della natura fondata da lui stesso e da Descartes. Quest’ultimo aveva

già fissato nella materia in moto nello spazio e nel tempo il fenomeno

fondamentale della natura. Tutti gli effetti erano spiegabili nei termini degli effetti

meccanici di tali moti. La materia stessa era considerata, di fatto, un insieme di

atomi i cui moti determinano non soltanto il comportamento di un oggetto bensì

anche le sensazioni da esso prodotte.

Galileo cercò perciò di isolare i caratteri della materia in movimento che

potevano essere misurati e poi essere messi in relazione fra loro mediante leggi

matematiche. Analizzando i fenomeni naturali e riflettendo su di essi, egli decise

di concentrare la propria attenzione su concetti come lo spazio, il tempo, il peso,

la velocità, l’accelerazione, l’inerzia, la forza e la quantità di moto. Gli scienziati

successivi aggiunsero la potenza, l’energia e altri concetti. Nella scelta di queste

proprietà e concetti particolari, Galileo rivelò di nuovo il suo genio poiché quelli

che scelse non erano immediatamente discernibili come i più importanti né erano

facilmente misurabili. Alcuni, come l’inerzia, non sono neppure posseduti

manifestamente dalla materia e la loro esistenza doveva essere inferita da

osservazioni. Altri, come la quantità di moto, dovettero essere creati

appositamente. Eppure questi concetti si rivelarono estremamente significativi

nella razionalizzazione e nella conquista della natura.

Nell’approccio galileiano alla scienza c’è un altro elemento che si rivelò

altrettanto importante in seguito. La scienza doveva essere esemplata sul modello

matematico. Galileo e i suoi successori immediati sentirono con certezza che

avrebbero potuto trovare alcune leggi del mondo fisico le quali avrebbero potuto

apparire così incontestabilmente vere come l’assioma di Euclide che tra due punti

quali si siano può essere tracciata una linea retta. Forse la contemplazione, la

sperimentazione o l’osservazione avrebbero suggerito questi assiomi di fisica; ad

ogni modo, una volta che essi fossero stati scoperti, la loro verità sarebbe stata

evidente intuitivamente. Da tali intuizioni fondamentali, questi scienziati

seicenteschi speravano di dedurre numerose altre verità, esattamente nel modo in

cui i teoremi di Euclide seguivano dai suoi assiomi.

Al fine di valutare nel suo giusto valore il significato del progetto di Galileo è

necessario rendersi conto del fatto che la scienza non è una serie di esperimenti,

per quanto sia grande l’intelligenza o l’abilità con cui sono eseguiti, né è una serie

di fatti dedotti sperimentalmente o teoricamente. Il contenuto positivo di una

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scienza è un corpo di teoria che racchiude, organizza, mette in relazione e

illumina una quantità di fatti apparentemente sconnessi in un modo coerente e

consistente e che è capace di condurre a nuove conclusioni sul mondo fisico. I

fatti o gli esperimenti singoli hanno poco valore di per sé. Il loro valore risiede

nella teoria che li unisce insieme. Le distanze dei pianeti dal Sole sono particolari

di dettaglio: la teoria eliocentrica è la conoscenza importante. Così un’altra

innovazione di Galileo consistè nel fare della teoria scientifica, il tessuto

connettivo fra i fatti, un corpo di leggi matematiche deducibile da un insieme di

leggi assiomatiche.

Il piano di Galileo conteneva, pertanto, tre elementi principali. Il primo era la

ricerca di descrizioni quantitative di fenomeni fisici e la loro inclusione in formule

matematiche. Il secondo era l’isolamento e la misurazione delle proprietà più

fondamentali dei fenomeni. Queste sarebbero state le variabili nelle formule. Il

terzo era la costruzione deduttiva della scienza sulla base di princípi fisici

fondamentali.

Per mettere in esecuzione questo piano, Galileo doveva trovare leggi

fondamentali. Noi possiamo ottenere una formula matematica che metta in

relazione il numero dei matrimoni nel Siam e il prezzo dei ferri di cavallo a New

York, poiché queste quantità variano di anno in anno. Una tale formula non ha

però alcun valore per la scienza poiché non comprende, né direttamente né

indirettamente, alcuna informazione utile. La ricerca di leggi fondamentali era un

altro compito immenso poiché ancora una volta Galileo doveva rompere con i

suoi predecessori. Il suo approccio allo studio della materia in movimento doveva

tener conto dei moti di rotazione e di rivoluzione della Terra e questi fatti in sé

invalidavano gran parte dell’unico sistema significante di meccanica che il mondo

rinascimentale possedeva, ossia la meccanica di Aristotele.

Trattando il comportamento degli oggetti sulla Terra, questo filosofo antico

aveva insegnato che ognuno di essi ha un luogo naturale e che lo stato naturale di

un corpo consiste nel rimanere in quiete nel proprio luogo naturale. Gli oggetti

gravi hanno il loro luogo naturale al centro della Terra, che coincide ovviamente

col centro dell’universo. Gli oggetti leggeri, come i gas, hanno il loro luogo

naturale in cielo. Gli oggetti che non si trovano nel loro luogo naturale e che non

sono disturbati da forze esterne ricercheranno tale luogo; così ha origine il moto

naturale. Ad esempio, un oggetto lasciato libero dalla mano ricercherà il centro

della Terra e si dirigerà verso di esso. Quando invece un oggetto e scagliato o

spinto, il moto risultante sarà violento.

Poiché la quiete è lo stato naturale, sia il moto naturale sia il moto violento

devono essere dovuti a una qualche forza che agisce in modo continuo, altrimenti

il moto cesserà. Ogni moto è inoltre soggetto a una resistenza continua. In ogni

caso, la velocità del moto può essere espressa dalla formula (in notazione

moderna) V = F/R, o, in parole, la velocità dipende direttamente dalla forza e

inversamente dalla resistenza. Nel caso del moto naturale la forza è il peso

dell’oggetto e la resistenza deriva dal mezzo in cui l’oggetto si muove. Perciò in

un mezzo dato i corpi più pesanti devono muoversi più velocemente perché F

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nella formula V = F/R è più grande e quindi dev’esser tale anche V. Nel moto

violento la forza è applicata da mani umane o da qualche meccanismo fatto

dall’uomo e la resistenza è dovuta al peso. Per i corpi più leggeri la resistenza R è

dunque minore e perciò la velocità V è maggiore. Perciò i corpi più leggeri si

muovono più velocemente di corpi più pesanti quando venga applicata loro una

medesima forza.

Una teoria speciale si richiedeva per spiegare alcuni fenomeni. Ad esempio, un

corpo lasciato cadere acquista continuamente velocità. Ora la forza in questo moto

naturale è fornita dal peso e questa quantità, così come la resistenza del mezzo, è

costante. Perciò, per la formula V = F/R, la velocità dovrebbe essere costante.

L’accelerazione, o aumento di velocità, fu spiegata con l’azione dell’aria che,

spinta dal corpo, lo aggirerebbe spingendolo a sua volta. Si supponeva che

quest’aria esercitasse una spinta sulla parte posteriore del corpo, accrescendone

così la velocità. Persone dalla mentalità meno scientifica spiegavano che un corpo

si muoveva tanto più allegramente quanto più era vicino alla meta.

Queste leggi di Aristotele si componevano di due parti di osservazione e di otto

parti di princípi estetici e filosofici. Esse erano servite nondimeno di base, per

molti secoli, a innumerevoli volumi di religione, di filosofia e di scienza.

Possiamo esser certi che il compito di Galileo nel portare alla luce le leggi

fondamentali della natura, come la difesa della teoria eliocentrica da parte di

Copernico, furono resi infinitamente più difficili dal fatto di dover rompere con

duemila anni di pensiero costituito.

Secondo Aristotele, per tenere un corpo in movimento si richiede una forza.

Perciò per mantenere in movimento, anche su una superficie perfettamente liscia,

un’automobile o una palla, dovrebbe essere presente una qualche forza

propulsiva. Ma Galileo aveva di questo fenomeno una conoscenza molto più

profonda che non Aristotele. Di fatto un’automobile o una palla in movimento

sono ostacolate in qualche misura dalla resistenza dell’aria e sono ritardate

dall’attrito con la superficie su cui si muovono. Se questi impedimenti non fossero

presenti, non ci sarebbe bisogno di alcuna forza propulsiva per mantenere

l’automobile in movimento. Essa continuerebbe a muoversi alla stessa velocità

indefinitamente; inoltre seguirebbe una traiettoria in linea retta. Questa legge

fondamentale del moto, secondo cui un corpo non soggetto a forze continuerà a

muoversi indefinitamente a una velocità costante e in linea retta, legge che fu

scoperta da Galileo, è nota oggi come prima legge del moto di Newton. Essa è un

principio chiaramente più penetrante di quello che Aristotele produsse per la

medesima situazione. La legge dice che un corpo varierà la sua velocità solo nel

caso che su di esso agisca una forza. I corpi posseggono così la proprietà di

resistere alle variazioni di velocità. Questa proprietà della materia, ossia la

resistenza a variazioni di velocità, è la sua massa inerziale o semplicemente la sua

massa.

Prima di addentrarci più a fondo nell’esposizione delle idee di Galileo,

dobbiamo sottolineare che questo primissimo principio è in contraddizione con

quello di Aristotele. Ciò significa forse che Aristotele compì errori palesi o che le

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173

sue osservazioni erano troppo rozze o troppo poche per fornire il principio

corretto? Niente di tutto questo. È improbabile che la semplice osservazione

potesse condurre Aristotele a correggere se stesso o altri a correggere Aristotele.

Aristotele era un realista e insegnava ciò che le osservazioni realmente

suggeriscono. Il metodo di Galileo era invece più sofisticato e conseguentemente

ebbe maggior successo. Galileo affrontò il problema da matematico. Egli

idealizzò il fenomeno ignorando alcuni fatti a favore di altri, esattamente come il

matematico idealizza la corda tesa e lo spigolo di una riga concentrando la sua

attenzione su alcune proprietà a esclusione di altre. Ignorando l’attrito e la

resistenza dell’aria e immaginando che il moto avesse luogo in un puro vuoto

euclideo, egli scoprì il principio corretto fondamentale. Il suo espediente consisté

nel geometrizzare il problema e ottenere poi la legge.

Possiamo chiederci, nondimeno: l’attrito e la resistenza dell’aria non sono forse

effetti reali? Essi non causano forse la perdita di velocità di un oggetto e infine il

suo arresto finale? Talvolta lo fanno; e quando ciò accade, attrito e resistenza

dell’aria dovrebbero esser presi in considerazione. Essi sono però effetti

addizionali che si sovrappongono al fenomeno fondamentale, secondo il quale un

oggetto in moto continua a muoversi indefinitamente con velocità costante.

Talvolta l’attrito e la resistenza dell’aria sono praticamente trascurabili, come

quando un pezzo di piombo di mezzo chilo cade al suolo da un’altezza di qualche

centinaio di metri. Il riconoscimento del fatto che queste forze addizionali sono

presenti consente anche di minimizzare il loro effetto. Olio, cuscinetti a sfere e

superfici lisce riducono l’attrito nel movimento dei meccanismi. Là dove l’effetto

può essere minimizzato, il riconoscimento della sua esistenza ci consente di

tenerne conto esplicitamente e quindi di predire il moto corretto. L’atteggiamento

che Galileo assume qui è precisamente quello del matematico quando tratta figure

ideali. La misurazione di triangoli reali produrrebbe somme di angoli varianti

forse fra 160° e 200°. Il fatto fondamentale è che la somma degli angoli di un

triangolo ideale è di 180° e nella misura in cui un triangolo reale si approssima al

triangolo ideale la somma dei suoi angoli si approssimerà a 180°. Il paradosso che

sta dietro ai successi della scienza moderna sta nel fatto che lo scienziato o

matematico appare distorcere un problema idealizzandolo al punto da offendere il

senso comune e procedere poi per ottenere la soluzione corretta. Un’esposizione

del successo avuto dall’approccio di Galileo si vedrà in quanto segue.

Che cosa si può dire sul moto di un corpo cui sia stata applicata una forza? Qui

Galileo fece una seconda scoperta fondamentale. L’applicazione continua di una

forza fa sì che un corpo acquisti o perda velocità. Chiamiamo l’acquisto o la

perdita di velocità per unità di tempo l’accelerazione (positiva o negativa) del

corpo. Così se un corpo acquista velocità al ritmo di 9 metri al secondo ogni

secondo, la sua accelerazione sarà di 9 metri al secondo o, in forma abbreviata, 9

m/sec2. La seconda legge del moto afferma che se una forza fa sì che un corpo

acquisti o perda velocità, allora la forza, espressa in qualche unità adatta, è uguale

al prodotto della massa del corpo e della sua accelerazione. Espressa in una

formula questa legge dice

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(1) F = ma.

Questa formula è importantissima. Essa implica che una forza costante produca

un’accelerazione costante su una massa costante, poiché se F e m sono fisse,

anche a dev’esserlo. Ad esempio, una resistenza costante dell’aria determina una

perdita di velocità costante, e questa circostanza rende ragione del fatto che un

oggetto che rotoli o scivoli su una superficie piana perda continuamente velocità

fino a raggiungere velocità zero.

Inversamente, se un oggetto mobile possiede accelerazione, ossia se a nella

formula (1) non è zero, allora la forza F non può essere zero. Ora, un oggetto che

cada a terra da una qualche altezza possiede accelerazione; dev’essere perciò

all’opera una qualche forza. All’epoca di Galileo aveva già acquistato qualche

credito la nozione che questa forza dovesse essere una trazione da parte della

Terra. Senza perdere peraltro molto tempo a speculare su questa nozione, Galileo

investigò i fatti quantitativi concernenti i corpi in caduta libera.

Egli scoprì che, se si trascura la resistenza dell’aria, tutti i corpi che cadono

sulla superficie della Terra hanno la medesima accelerazione costante, ossia che

acquistano velocità allo stesso ritmo, di metri 9,8 al secondo per ciascun secondo.

Se il corpo viene lasciato cadere, ossia se gli si consente semplicemente di cadere

senza imprimergli un movimento, partirà con velocità zero. Alla fine del primo

secondo la sua velocità sarà di 9,8 metri al secondo; alla fine del secondo secondo

la sua velocità sarà di 9,8 metri per 2 ossia metri 19,6 al secondo e così via. Alla

fine di t secondi la sua velocità sarà di 9,8t per secondo; in simboli

(2) v = 9,8t.

Questa formula ci dice esattamente come la velocità di un corpo in caduta

libera aumenti col tempo. Essa ci dice anche che un corpo che cade per un tempo

più lungo avrà una velocità maggiore. È questo un fatto familiare poiché

moltissime persone hanno osservato che corpi lasciati cadere da altezze maggiori

colpiscono il suolo a velocità maggiori che non corpi lasciati cadere da altezze

minori.

Al fine di trovare la distanza percorsa da un corpo in caduta libera in un certo

tempo non possiamo moltiplicare la velocità per il tempo. Questo procedimento ci

darebbe la distanza corretta solo se la velocità fosse costante. Galileo dimostra

tuttavia che la formula corretta per la distanza percorsa dal corpo in caduta in t

secondi è

(3) s = 4,9t2,

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dove s è il numero di metri che il corpo percorre in caduta libera in t secondi.

Ad esempio, in tre secondi, il corpo percorrerà in caduta libera 4,9 32 ovvero

metri 44,1.

Dividendo entrambi i membri della formula (3) per 4,9 e poi estraendo la radice

quadrata di entrambi i membri, otteniamo il risultato che il tempo richiesto da un

oggetto per percorrere in caduta libera una distanza A' data è indicato dalla

formula t = (s/4,9). Si osservi che la massa del corpo che cade non appare in

questa formula. Perciò tutti i corpi impiegano il medesimo tempo a percorrere una

distanza data. È questa la lezione che si suppone Galileo abbia imparato lasciando

cadere oggetti dal campanile di Pisa. La gente stenta ancora, nondimeno, a

credere che un pezzo di piombo e una piuma, lasciati cadere insieme da una certa

altezza nel vuoto, raggiungano il suolo nel medesimo tempo.

Un’altra formula utile può essere ottenuta combinando la (2) e la (3).

Dividendo per 9,8 entrambi i membri della formula (2) otteniamo

t = v/9,8.

Se sostituiamo questo valore di t nella formula (3), otteniamo

s = 4,9(v/9,8)2 = 4,9(v/9,8)(v/9,8),

o

(4) s = v2/19,6.

La formula (4) ci dice che, se conosciamo la velocità di un corpo in caduta

libera, possiamo calcolare la distanza che ha percorso per raggiungere tale

velocità.

Moltiplicando entrambi i membri per 19,6, otteniamo

v2 = 19,6s

ovvero

(5) v = 19,6s

La formula (5) fornisce la velocità acquistata da un oggetto al termine della

distanza s.

Consideriamo ancora un esempio del modo in cui le leggi del moto possono

essere usate per derivare una formula importante. Consideriamo il fenomeno di

una palla proiettata verticalmente verso l’alto. Ovviamente l’altezza della palla al

di sopra del suolo muta continuamente col trascorrere del tempo. Sia t il numero

di secondi in cui la palla si muove, cominciando a contare dal momento in cui

viene proiettata verso l’alto, e sia h l’altezza al di sopra del suolo raggiunta dalla

palla in t secondi. Una formula utile in tale situazione è quella che stabilisce una

relazione fra le variabili b e t.

Supponiamo che la palla sia gettata in aria con forza sufficiente a darle una

velocità di 30 metri al secondo nel momento in cui si stacca dalla mano. Se

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nessun’altra forza agisse sulla palla, allora, secondo la prima legge del moto di

Newton, questa velocità resterebbe costante. In t secondi la palla percorrerebbe

verso l’alto una distanza uguale alla sua velocità moltiplicata per il numero dei

secondi trascorsi, ovvero, in questo caso, una distanza di 30t. Ma nello stesso

tempo che si muove verso l’alto, la palla è attratta verso la Terra, come fa ogni

palla che sia semplicemente lasciata cadere. Secondo la formula (3) la distanza di

cui la palla è attratta verso la Terra in t secondi e di 4,9t2 metri. Il moto della palla

è dunque la risultante di due moti separati che hanno luogo simultaneamente,

un’ascesa di 30t metri in t secondi e una caduta di 4,9t2 negli stessi t secondi.

L’altezza h della palla al di sopra del suolo in t secondi è dunque

(6) h = 30t – 4,9 t2.

La derivazione di formule come le (4), (5) e (6) illustra in piccolo come Galileo

sperasse di realizzare il suo programma di derivare le importanti leggi della natura

da poche leggi fondamentali. Possiamo vedere che il ragionamento matematico

sostenuto dagli assiomi fisici consente la derivazione deduttiva di leggi. Questi

esempi, così come altri che esamineremo fra breve, illustrano anche in che modo

un matematico possa sedersi in poltrona e ottenere decine di importanti leggi

naturali. I suoi strumenti, oltre a carta e penna, sono gli assiomi e i teoremi della

matematica e gli assiomi della fisica, come le leggi del moto. La deduzione

matematica, che è l’essenza del suo lavoro, produce la conoscenza del mondo

fisico.

Da queste dimostrazioni Galileo procedette a un’osservazione che incorporò in

un’altra legge del moto. Se un corpo è trasportato da un altro, come un passeggero

è trasportato da un aereo, il primo partecipa del moto del secondo. Questo fatto

sembra abbastanza ovvio. Ma se il passeggero dovesse essere improvvisamente

espulso dall’aereo, continuerebbe a possederne il moto orizzontale; di fatto, se

non ci fossero la resistenza dell’aria e l’attrazione della Terra verso il basso, egli

continuerebbe a viaggiare di conserva con l’aereo. Questa legge spiega perché gli

oggetti sulla Terra non siano lasciati indietro dalla sua rotazione e dalla sua

rivoluzione attorno al Sole.

Fig. 48. Due oggetti in caduta libera dotati di velocità orizzontali diverse

raggiungono il ruolo nello stesso tempo.

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177

Il valore potenziale di questa legge per il moto dei proietti è abbastanza

evidente e Galileo lo mise ben presto a frutto. Studiando il moto dei proietti

osservò che il moto di un oggetto può risultare da due moti simultanei

indipendenti. Il significato di questa scoperta può essere chiarito con un esempio.

Un oggetto lasciato cadere da un aereo che voli orizzontalmente possiede due

moti. In accordo con la legge or ora descritta, uno di questi due moti è orizzontale

e ha la stessa direzione e velocità dell’aereo. Il secondo moto è verticale verso il

basso. La combinazione di questi due moti simultanei fa sì che l’oggetto cada

verso il basso descrivendo una curva che, come sottolineò Galileo, è parte di una

parabola. Il moto orizzontale e il moto verticale dell’oggetto in caduta sono

nondimeno indipendenti l’uno dall’altro. Se l’aereo si muovesse con una

maggiore velocità, il moto orizzontale dell’oggetto sarebbe più veloce, mentre il

moto verso il basso sarebbe sempre il medesimo. L’oggetto impiegherebbe

dunque lo stesso tempo a raggiungere il suolo, anche se in questo caso

compirebbe un maggiore percorso orizzontale. Così, l’oggetto che lasciasse

l’aereo nel punto O della figura 48 colpirebbe il suolo nel punto Q quando la

velocità dell’aereo fosse più elevata, o nel punto P quando fosse minore, ma il

tempo richiesto per raggiungere P o Q sarebbe lo stesso.

Galileo applicò questo principio dei moti indipendenti simultanei al moto di

una palla di cannone e dimostrò che la traiettoria è anche in questo caso parte di

una parabola e che la massima gittata è ottenuta sparando con un alzo di 45°.

Tutti questi risultati e molti altri furono esposti da Galileo nei Discorsi e

dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, un capolavoro a cui egli

lavorò per più di trent’anni. Con questo libro Galileo avviò la moderna scienza

fisica su un piano matematico, fondò la scienza della meccanica e costituì il

modello per il moderno pensiero scientifico. Purtroppo all’epoca in cui il

manoscritto era pronto per essere pubblicato, Galileo era già incorso nello sfavore

della Chiesa, la quale aveva proibito la pubblicazione di ogni sua opera. Egli

dovette allora disporre in segreto per la pubblicazione in Olanda, fingendo di non

aver avuto nulla a che fare con la stampa. Sostenne che una copia del manoscritto

era caduta per caso in mano all’editore olandese, che aveva proceduto senza il suo

permesso. Galileo morì pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera, avvenuta nel

1638, e con lui morì anche lo spirito indipendente del pensiero italiano.

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XIV. La deduzione di leggi universali

Vorrei che un dì Copernico, potesse

vedere come, grazie a lui, che un giorno

disperse un sogno, e i falsi meccanismi

spezzò dei cieli e ogni central certezza

bandì dall’universo…,

lo spirito dell’uomo

tenne fermo alla legge, passo passo

salì lento e sicuro, del suo regno

e del potere suo possesso prese.2

ALFRED NOYES

Fortunatamente per la scienza e per la matematica, in un paese con

un’atmosfera intellettuale più libera di quella italiana era nato un degno

successore di Galileo. Nel 1642, l’anno stesso della morte di Galileo, in una

fattoria che faceva parte di un villaggio inglese isolato, una donna rimasta vedova

da poco diede alla luce un bambino cagionevole e prematuro. Con un’origine così

insignificante e con un corpo così debole da far disperare per la sua vita, Isaac

Newton visse ottantacinque anni e si acquistò una fama non inferiore a quella di

nessun altro uomo.

Se si prescinde da un forte interesse per congegni meccanici, Newton, come

molti altri geni, non sembrò promettere da giovane nulla di particolare. Per la

ragione negativa che egli non dimostrava alcun interesse per l’agricoltura, la

madre lo inviò a Cambridge. Nonostante i vari vantaggi legati al suo soggiorno a

Cambridge, come l’opportunità di studiare le opere di Copernico, di Keplero e di

Galileo e la possibilità di ascoltare il famoso matematico Isaac Barrow, Newton

sembrò trarne poco profitto. Egli risultò troppo debole in geometria e una volta fu

sul punto di passare dallo studio della filosofia naturale a quello del diritto.

Quattro anni di studi si conclusero in modo altrettanto scialbo di come erano

cominciati e Newton fece ritorno a casa, a studiare.

La sua intelligenza quieta e riservata ebbe uno scoppio di luce quando, fra i

ventitré e i venticinque anni, Newton fece tre passi giganteschi che gli

assicurarono la fama e fecero progredire enormemente la scienza moderna. Il

primo fu la scoperta del segreto del colore, cui egli pervenne decomponendo la

2 Da ALFRED NOYES, Watchers of the Sky, copyright by Alfred Noyes 1922, 1949; versi riprodotti col

permesso degli editori J. B. Lippincott Company, New York, e Wm. Blackwood and Sons Ltd.,

Edinburgh and London, e del signor Hugh Noyes.

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luce bianca; il secondo fu la creazione del calcolo infinitesimale, su cui ci

soffermeremo più avanti, e il terzo fu la dimostrazione dell’universalità della

legge della gravitazione.

Se avesse annunciato anche una sola di queste scoperte, si sarebbe procurato

immediatamente una fama duratura; ma Newton tenne tutto per sé. Quando la

peste che aveva infuriato a Londra si calmò, fece ritorno a Cambridge per

prendere il diploma di magister e poi divenne un fellow. Aveva ventisette anni

quando il suo insegnante, Barrow, si ritirò, e Newton, che era considerato ora

almeno un serio studioso di matematica, fu designato a succedergli. Come

insegnante non ebbe un successo paragonabile a quello che aveva avuto nelle sue

ricerche. A volte non aveva neppure un uditore. Il materiale originale da lui

presentato non fu neppure notato e tanto meno acclamato.

Infine egli pubblicò la sua opera sulla natura composta della luce bianca,

accompagnandola con una presentazione della sua filosofia della scienza. Sia la

filosofia sia l’opera sulla luce furono oggetto di critiche e alcuni scienziati le

rifiutarono entrambe in toto. Newton fu disgustato da quest’accoglienza e decise

di astenersi da ulteriori pubblicazioni. Quando, vari anni dopo, infranse la sua

risoluzione per annunciare altre scoperte, si trovò impigliato in controversie

scientifiche e in dispute in questioni di priorità che rafforzarono la sua

inclinazione a tenere per sé le sue ricerche. Se non fosse stato per le pressioni e

l’aiuto finanziario dell’astronomo Edmond Halley, i Philosophiae naturalis

principia mathematica (1687), che inclusero i frutti delle ricerche di Newton, non

avrebbero mai visto la luce.

Dopo la pubblicazione, egli ebbe finalmente un grande successo. I Principia

ebbero varie edizioni e le nozioni in essi contenute furono divulgate. Nel 1789

erano apparse dell’opera quaranta edizioni in inglese, diciassette in francese,

undici in latino, tre in tedesco e almeno una in portoghese e in italiano. Fra le

divulgazioni ce n’era una intitolata Neutonianismo per le dame (di Francesco

Algarotti), che ebbe anch’essa molte edizioni, Di fatto i Principia avevano

bisogno di volgarizzazioni poiché il libro è estremamente difficile e non è affatto

chiaro ai profani, nonostante asserzioni di educatori in contrario. I maggiori

matematici lavorarono per un secolo per chiarire completamente il materiale del

libro.

La fama di Newton si diffuse fino a divenire paragonabile a quella di Einstein

oggi. Newton diede il dovuto credito ai suoi predecessori: “Se io ho visto un po’

più lontano di altri è perché mi sono issato sulle spalle di giganti.” Né la sua opera

gli parve di importanza incomparabile: “Non so come posso apparire al mondo;

ma ai miei occhi mi sembra di essere stato solo come un bambino assorto nei suoi

giochi sulla riva del mare e di essermi divertito a trovare qua e là un sassolino più

liscio o una conchiglia più graziosi del comune, mentre il grande oceano della

verità stava tutto ancora da scoprire davanti a me.”

Fra i grandi contributi del periodo giovanile di Newton, la sua filosofia della

scienza e la sua opera sulla gravitazione sono quelle che hanno maggiore

attinenza con l’argomento di questo capitolo. La sua filosofia definiva in modo

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più esplicito il programma scientifico avviato da Galileo: da fenomeni

chiaramente verificabili devono essere tratte leggi che descrivano il

comportamento della natura nel preciso linguaggio matematico. Attraverso

l’applicazione a queste leggi del ragionamento matematico, altre se ne possono

dedurre. Come Galileo, Newton desiderava sapere come l’Onnipotente avesse

costruito l’universo ma non era tanto presuntuoso da chiedersi quale fosse stato il

Suo fine né sperava di spiegare il meccanismo che stava dietro molti fenomeni.

Egli scrisse: “Dire che ogni specie di cose è dotata di una qualità occulta specifica

in virtù della quale essa agisce e produce effetti manifesti, equivale a non dire

nulla: Ma derivare dal moto dei fenomeni due o tre principi generali e

successivamente dire in che modo le proprietà e le azioni di tutte le cose corporee

seguano da quei principi manifesti, sarebbe un grandissimo passo avanti in

filosofia [scienza] anche se le cause di tali principi rimanessero ignote3: perciò

non esito a proporre i principi del moto menzionati sopra, i quali sono di

estensione molto generale, lasciando indeterminate le loro cause.”

In questo compito di descrivere la natura, il più famoso contributo di Newton

consiste nell’avere unificato il cielo e la Terra. Galileo aveva osservato il cielo

come nessun altro era riuscito mai a fare prima di lui ma i suoi successi nella

descrizione matematica della natura erano rimasti limitati a moti sulla superficie

della Terra o in prossimità di essa. Durante la vita di Galileo, il suo

contemporaneo Keplero aveva stabilito le sue tre famose leggi matematiche sui

moti dei corpi celesti e aveva perciò portato un’ulteriore conferma a favore della

teoria eliocentrica. Così, mentre uno scienziato stava costruendo la scienza dei

moti terrestri, l’altro perfezionava la teoria dei moti celesti. Le due branche della

scienza sembravano indipendenti l’una dall’altra. La sfida a trovare qualche

relazione fra esse stimolava i grandi scienziati. La soluzione fu trovata dal più

grande.

C’era una buona ragione per pensare che esistesse un qualche principio

unificante. Secondo la prima legge del moto di Galileo i corpi tendono a muoversi

in linea retta a meno che su di essi non agiscano forze. Perciò i pianeti, messi in

moto in qualche modo, dovrebbero muoversi in linea retta mentre, secondo

Keplero, essi si muovono su ellissi attorno al Sole. Qualche forza deve perciò

agire in modo da deviare continuamente i pianeti dalla loro traiettoria rettilinea,

così come un peso fatto ruotare all’estremo di una funicella non può fuggirsene in

linea retta perché la mano esercita su di esso una trazione. Il Sole stesso stava

agendo presumibilmente come una forza d’attrazione sui pianeti. Gli scienziati

dell’epoca di Newton si rendevano conto anche del fatto che la Terra attrae i corpi

verso di essa. Questa attrazione rendeva ragione della caduta verso terra di un

corpo lasciato libero da una mano; in mancanza di tale attrazione il corpo, non

ricevendo alcuna forza dalla mano che semplicemente lo lascia libero, dovrebbe,

secondo la prima legge del moto, rimanere sospeso in aria. Poiché sia la Terra sia

3 Il corsivo è di Newton.

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il Sole attraggono corpi, l’idea di unificare entrambe le azioni sotto una sola teoria

fu proposta e discussa già all’epoca di Descartes.

Newton convertì un’idea comune in un problema matematico e, senza

determinare la natura fisica delle forze in gioco, risolse il problema con una

brillante tecnica matematica. Egli poté dimostrare che una medesima formula

matematica descrive sia l’azione del Sole sui pianeti sia l’azione della Terra su

oggetti in prossimità di essa. Poiché la medesima formula descriveva entrambe le

classi di fenomeni, Newton concluse che una medesima forza opera in entrambi i

casi. Si racconta che l’identità dell’attrazione della Terra su oggetti e

dell’attrazione del Sole sulla Terra sia stata rivelata a Newton dalla caduta di una

mela da un albero. Il matematico Gauss afferma invece che Newton raccontò

questa storiella per liberarsi di persone sciocche che gli chiedevano come avesse

scoperto la legge della gravitazione. In ogni modo questa mela, a differenza di

un’altra che aveva avuto una parte nella storia, migliorò la condizione dell’uomo.

Il ragionamento di Newton nel dimostrare che la medesima formula si applica a

corpi celesti e terreni è ora classica. Ne considereremo una versione un po’

semplificata, la quale può nondimeno fornircene l’essenziale. La traiettoria della

Luna attorno alla Terra è grosso modo un cerchio. Poiché la Luna, L nella figura

49, non segue una traiettoria rettilinea, come ad esempio LP, è attratta

evidentemente verso la Terra da qualche forza. Se LP è la distanza che sarebbe

percorsa dalla Luna in un secondo in assenza di alcuna forza gravitazionale agente

su di essa, allora PL' è la distanza di cui la Luna è attratta verso la Terra durante

quel secondo. Newton usò la distanza PL' come misura della forza d’attrazione

della Terra sulla Luna. La quantità corrispondente nel caso di un corpo vicino alla

superficie della Terra è di 4,9 metri poiché un corpo lasciato cadere è attratto

verso la Terra per uno spazio di metri 4,9 nel primo secondo. Newton desiderava

dimostrare che la stessa forza rende ragione sia di PL' sia dei 4,9 metri.

Fig. 49. L’effetto gravitazionale della Terra sulla Luna.

Calcoli approssimativi lo avevano condotto a pensare che la forza con cui due

corpi si attraggono dipenda dal quadrato della distanza fra i centri dei due corpi e

che questa forza diminuisca col crescere della distanza. La distanza fra il centro

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della Luna e il centro della Terra è di circa 60 volte il raggio della Terra. Perciò

l’effetto della Terra sulla Luna dovrebbe essere 1/(60)2 dell’effetto che essa

esercita su un corpo in prossimità della superficie, della Terra, ossia la Luna

dovrebbe essere attratta verso la Terra di 1/(60) 2

di metri 4,9, ovvero di metri

0,00136 ogni secondo. Usando alcuni risultati numerici ottenuti per mezzo dei

rapporti trigonometrici, Newton trovò che la Luna è attratta verso la Terra

esattamente di tale distanza ogni secondo. Egli aveva ottenuto così una prova

importantissima del fatto che tutti i corpi nell’universo si attraggono

reciprocamente in accordo con la medesima legge.

Investigazioni più estese dimostrarono a Newton che la formula precisa per la

forza d’attrazione fra due corpi quali si vogliano è la seguente

(1) F = kMm/r2,

dove F è la forza d’attrazione, M e m sono le masse dei due corpi, r è la

distanza fra di essi e k è un valore uguale per tutti i corpi. Ad esempio, M

potrebbe essere la massa della Terra e m la massa di un oggetto vicino alla

superficie della Terra o su di essa. In questo caso r è la distanza dell’oggetto dal

centro della Terra. La formula (1) è ovviamente la legge della gravitazione.

Avendo ottenuto la forma corretta di questa legge attraverso lo studio del moto

della Luna, Newton dimostrò quindi che la legge poteva essere applicata a moti

sulla Terra o in prossimità di essa. Secondo questa legge, la Terra attrae ogni

corpo. Sentiamo questa attrazione della Terra su un corpo quando lo reggiamo. Se

M è la massa della Terra e m la massa del corpo, allora F nella formula (1) misura

l’attrazione della Terra sul corpo ovvero il peso del corpo. Osserviamo allora che

il peso è una forza mentre la massa è una qualità dell’oggetto concernente la

resistenza alla variazione di moto.

Newton fece bene attenzione a distinguere fra queste due qualità affini della

materia, ossia la massa e il peso. Mentre la massa di un corpo è costante, il suo

peso può variare. Ad esempio, se muta la distanza di un corpo dal centro della

Terra, cambia anche il peso del corpo. E precisamente, se un corpo di massa m è

portato a una distanza di circa 6380 km dalla superficie terrestre, la sua distanza

dal centro della Terra è raddoppiata. Ora, se nella formula (1) r rappresenta la sua

distanza originaria dal centro, 2r rappresenta la sua nuova distanza. Per calcolare

il peso della massa nella nuova posizione sostituiamo r con 2r. Il denominatore

nella formula (1) diventa (2r)2 o 4r

2. F sarà dunque solo un quarto del valore che

si ha quando il corpo si trova sulla Terra. Ossia, a 6380 km dalla superficie

terrestre un corpo di massa m peserà solo un quarto del suo peso alla superficie

della Terra. In sintesi, abbiamo dimostrato che, mentre la massa di un oggetto

rimane costante, il suo peso può essere modificato variandone la distanza dal

centro della Terra.

Consideriamo un “altra conseguenza della formula (1). Sia M la massa della

Terra e m la massa di un oggetto in prossimità della superficie. Se riscriviamo la

formula (1) nella forma seguente:

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𝐹 = 𝑘𝑀

𝑟2 𝑚

e dividiamo entrambi i membri di quest’equazione per m, otteniamo:

(2) 𝑚

𝐹 =

𝑘𝑀

𝑟2

Ora, quale che sia l’oggetto in prossimità della superficie della Terra che

consideriamo, le quantità nel primo membro della formula (2) sono le stesse,

poiché r è circa 6380 km, M è la massa della Terra e k è un valore uguale per tutti

i corpi. Perciò per qualsiasi oggetto in prossimità della superficie della Terra il

rapporto F/m, ossia il rapporto del peso alla massa, è costante. Perciò le due

distinte proprietà della materia sono fra loro in una relazione quantitativa molto

semplice. Una spiegazione di questa relazione sorprendente rimase ignota fino

alla creazione della teoria della relatività. Poiché noi ci occupiamo quasi sempre

di oggetti prossimi alla superficie della Terra siamo tratti in errore da questa

relazione costante fra massa e peso e spesso li confondiamo. Ad esempio, se

cerchiamo di far partire un’automobile a spinta, siamo inclini ad attribuire la forza

che occorre spendere al peso dell’automobile, mentre di fatto è la massa che

resiste alla variazione di stato.

Dalla seconda legge del moto e dalla legge di gravitazione possiamo dedurre

ancora un’altra conseguenza. La seconda legge del moto dice che qualsiasi forza

agente su un corpo di massa m conferisce al corpo un’accelerazione. In

particolare, la forza di gravità esercitata dalla Terra su un corpo dovrebbe

conferirgli un’accelerazione. Ma la forza di gravità è

(3) 𝐹 = 𝑘𝑀𝑚

𝑟2 ,

mentre la relazione di una forza qualsiasi all’accelerazione da essa causata è

(4) F = ma.

Quando la forza F nella formula (4) è quella della gravità, possiamo uguagliare

i secondi membri delle formule (3) e (4) poiché i primi sono uguali; cioè

𝑚𝑎 =𝑘𝑀𝑚

𝑟2 ,

Possiamo dividere entrambi i membri di quest’ultima equazione per m e

otteniamo

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184

(5) 𝑎 =𝑘𝑀

𝑟2 ,

Questo risultato dice che l’accelerazione conferita a un oggetto dalla forza di

gravità della Terra è sempre di kM/r2. Poiché k è una costante, M è la massa della

Terra e r è la distanza di un oggetto dal centro della Terra, la quantità kM/r2 è la

stessa per tutti i corpi in prossimità della superficie della Terra. Tutti i corpi

cadono perciò con la medesima accelerazione. È questo, ovviamente, il risultato

che Galileo aveva già ottenuto per inferenza dai suoi esperimenti e sulla base di

questo risultato egli dimostrò matematicamente che tutti i corpi che cadono da

una medesima altezza raggiungono il suolo nello stesso tempo. Per inciso, il

valore di a è misurato facilmente ed è di 9,8 al secondo.

Molti risultati più affascinanti possono essere ottenuti dalle leggi del moto e

della gravitazione. Per illustrare l’efficacia del ragionamento matematico,

dobbiamo derivare un’altra conclusione: calcoliamo la massa della Terra. A tal

fine abbiamo bisogno del valore di k, la costante della gravitazione universale, che

compare nella formula (1). Poiché questa quantità è sempre la stessa,

indipendentemente dalle masse che compaiono nella formula (1), essa può essere

ottenuta in laboratorio usando masse note m e M, una distanza nota r fra di esse e

misurando la forza di attrazione che fra di esse si esercita. Può allora essere

calcolata k, l’unica incognita presente nella formula. Questo esperimento fu

compiuto da molti fisici, il più famoso dei quali fu Henry Cavendish (1731-1810).

Egli giunse alla conclusione che le è la quantità estremamente piccola 6,67 10-8

,

ovvero 6,67 diviso un centimilionesimo, supponendo che le misurazioni siano

fatte in centimetri, grammi e secondi.

Possiamo ora usare la formula (5), in cui k è la quantità esaminata sopra, M è la

massa della Terra, r il raggio della Terra e a l’accelerazione dell’oggetto in

prossimità della Terra. Poiché tutte queste quantità, eccettuato M, sono ora note,

possiamo calcolare M. Il risultato è M = 6 1027

grammi, ossia 6 seguito da 27

zeri, ovvero ancora 6 1021

tonnellate massa.

Un interesse di questo calcolo risiede anche nel fatto che esso ci fornisce

qualche informazione sulla composizione della Terra. Poiché il raggio della Terra

è noto, il suo volume, supponendo che la sua forma sia esattamente sferica, può

essere calcolato in base alla formula per il volume di una sfera, V = 3/4r3. Ora, è

possibile misurare la massa di un metro cubo d’acqua; si può calcolare così quale

sarebbe la massa della Terra se essa fosse composta per intero d’acqua. La massa

della Terra calcolata sopra è 51/2 volte maggiore che se la Terra fosse composta

per intero d’acqua. I geologi ne traggono perciò la conclusione che l’interno della

Terra dev’essere composto da minerali pesanti. Fin qui i contributi di Newton alla

teoria della gravitazione possono essere compendiati nel modo seguente.

Studiando il moto della Luna, egli ne aveva inferito la forma corretta della legge

della gravitazione. Egli dimostrò poi che questa legge e le due leggi del moto

erano sufficienti a fondare conoscenze valide sui moti degli oggetti sulla Terra.

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185

Egli aveva perciò realizzato uno degli obiettivi principali del programma di

Galileo, avendo dimostrato che le leggi del moto e della gravitazione sono

fondamentali. Come gli assiomi di Euclide, esse fungevano da base logica per la

deduzione dei altre leggi importanti. Quale trionfo sarebbe stato, di fatto, se si

fossero potute dedurre da esse anche le leggi del moto dei corpi celesti!

Anche questo trionfo fu riservato a Newton. Una serie veramente portentosa di

deduzioni da lui compiute dimostrò che tutt’e tre le leggi di Keplero seguono

dalle due leggi fondamentali del moto e dalla legge della gravitazione. Illustriamo

qui di seguito l’essenziale di una di queste derivazioni, ancora al fine di illustrare

l’efficacia della matematica nell’ottenere la conoscenza del mondo fisico in virtù

del processo deduttivo. La derivazione che presenteremo sarà una versione un po’

semplificata del procedimento reale di Newton; supporremo infatti che l’orbita di

ciascun pianeta sia circolare e non ellittica. Newton trattò l’orbita come un’ellisse

ma non c’è motivo qui di rendere più complicata la dimostrazione.

La terza legge di Keplero afferma che il quadrato del tempo di rivoluzione di

ciascun pianeta è proporzionale al cubo della sua distanza media dal Sole. La

formula che esprime questa terza legge è T2 = KD

3, dove T è il tempo di

rivoluzione o durata dell’anno del pianeta, D è la distanza media del pianeta dal

Sole e K è una costante, ossia è uguale per tutti i pianeti. Per derivare la terza

legge di Keplero abbiamo bisogno ancora di un fatto sul moto, un fatto che in sé è

facile da dimostrare ma che è estraneo al nostro argomento principale. Un oggetto

che si muove in cerchio è soggetto a una qualche forza che lo fa deviare dalla

traiettoria rettilinea che esso dovrebbe altrimenti seguire in base alla prima legge

del moto di Newton. Una misura di questa forza, comunemente detta forza

centripeta, è data dalla formula

(6) 𝐹 =𝜋𝑣2

𝑟

dove m è la massa del corpo, v la sua velocità e r il raggio dell’orbita circolare.

Tale forza agisce su ciascun pianeta ed è dovuta all’attrazione gravitazionale del

Sole. La formula (6) è però una corretta espressione della forza centripeta, derivi

essa o no dalla gravitazione.

Per procedere alla derivazione della legge di Keplero, osserviamo dapprima che

la velocità di un pianeta, supponendo che esso percorra un’orbita circolare a

velocità costante, è data dalla circonferenza del cerchio divisa per il tempo della

rivoluzione. Ossia

(7) 𝑣 =2𝜋𝑟

𝑇

Se sostituiamo questo valore di v nella formula (6), otteniamo un’espressione

per la forza centripeta F che agisce su un pianeta, e precisamente

(8) 𝐹 =𝑚

𝑟 (

2𝜋𝑟

𝑇)2 =

𝑚 4𝜋2𝑟2

𝑟 𝑇2=

𝑚 4𝜋2𝑟

𝑇2

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186

Ora, questa forza centrifuga F è dovuta alla forza gravitazionale esercitata dal

Sole, la cui massa denotiamo con M. Questa è

(9) 𝐹 = 𝑘 𝑚 𝑀

𝑟2

Uguagliando le due forze date nelle formule (8) e (9), otteniamo

(10) 𝑘 𝑚 𝑀

𝑟2=

𝑚 4𝜋2𝑟

𝑇2

Possiamo dividere entrambi i membri di quest’equazione per m, cancellando

così questo fattore in entrambi. Se moltiplichiamo entrambi i membri per T2r

2 e

dividiamo per kM, otteniamo

(11) 𝑇2 = 4𝜋2

𝑘 𝑀 𝑟3

Osserviamo ora che M, la massa del Sole, e k, la costante gravitazionale, non

mutano nella derivazione, quale che sia il pianeta, m, da noi considerato. La

quantità 42/kM è perciò una costante e possiamo denotarla con K. Scrivendo D

invece di r, possiamo dire che

(12) T2 = KD

3

e questo risultato è la terza legge di Keplero. Così le famose leggi planetarie

che Keplero ottenne solo dopo anni di osservazioni e di tentativi possono essere

dimostrate in pochi minuti per mezzo delle leggi di Newton.

Un importante corollario di queste leggi dovrebbe essere istruttivo per il lettore

profano che ricerchi una spiegazione del potere della matematica. Il valore

principale delle leggi di Newton risiede, come abbiamo visto, nel fatto che esse si

applicano a molte diverse situazioni in cielo e in terra. Le stesse relazioni

quantitative compendiano caratteri comuni a tutto. La conoscenza delle formule

rappresenta perciò in realtà una conoscenza di tutte le situazioni comprese nelle

formule. La persona che considera una formula matematica deplorandone

l’astrattezza, aridità e inutilità non ne ha afferrato il vero valore.

L’opera di Galileo e di Newton non fu la fine bensì l’inizio di un programma

per la scienza. Lo stesso Newton formulò il programma nella prefazione dei suoi

Philosophia naturalis principia mathematica, l’opera classica che contiene i frutti

della sua brillante giovinezza:

Presentiamo quest’opera come i principi matematici della filosofia [scienza]; tutta la

difficoltà nella filosofia sembra infatti consistere in questo: dai fenomeni dei moti investigare le

forze della natura e poi da queste forze dimostrare gli altri fenomeni; e a questo fine sono

dirette le proposizioni generali nei libri I e II. Nel III libro diamo un esempio di ciò nella

spiegazione del sistema del mondo; in virtù di proposizioni matematicamente dimostrate nel I

libro, vi deriviamo infatti dai fenomeni celesti le forze di gravità con cui i corpi tendono verso il

Sole e verso i vari pianeti. Poi da queste forze, in virtù di altre proposizioni anch’esse

matematiche, deduciamo i moti dei pianeti, delle comete, della Luna e del mare. Vorrei poter

derivare i restanti fenomeni della natura mediante lo stesso tipo di ragionamento da principi

meccanici; sono infatti indotto da molte ragioni a sospettare che essi possano dipendere tutti da

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certe forze mediante cui le particelle dei corpi, a opera di alcune cause finora sconosciute, sono

o reciprocamente attratte l’una verso l’altra, aggregandosi in figure regolari, oppure sono

respinte e si allontanano l’una dall’altra.

Come un masso che rotoli giù per una collina scoscesa, il movimento per

assicurare le leggi matematiche fondamentali e per dedurre le loro conseguenze

acquistò forza e infine causò una valanga. Mediante procedimenti simili a quelli

illustrati in questo capitolo, furono calcolate la massa del Sole e quella di ogni

pianeta con satelliti osservabili. L’idea della forza centrifuga, la forza opposta alla

forza centripeta di cui si è parlato sopra, fu applicata al moto della Terra e rese

ragione della grandezza del rigonfiamento equatoriale della Terra oltre che della

conseguente variazione di peso di un oggetto da un punto all’altro della superficie

terrestre. Dalla conoscenza degli scostamenti dalla sfericità osservati nei vari

pianeti divenne possibile calcolare i loro periodi di rotazione. Fu dimostrato che le

maree sono causate dall’attrazione gravitazionale del Sole e della Luna. Furono

calcolate le orbite delle comete e predetta con precisione la loro riapparizione.

Anche il loro passaggio improvviso e veloce in prossimità della Terra fu spiegato

come dovuto alla grande eccentricità della loro orbita ellittica. Per inciso, questo

lavoro matematico sul comportamento delle comete convinse la gente del fatto

che esse sono membri di pieno diritto di un universo razionale governato da leggi

e non visite divine intese a gettare il terrore nel cuore degli uomini o a mandare in

frantumi la Terra. Nello stesso tempo esso diede una prova incontestabile del

comportamento matematico della natura e dell’efficacia dell’approccio

quantitativo.

Il successo della ricerca di leggi si estese molto oltre il campo dell’astronomia.

Il fenomeno del suono studiato come un moto di molecole nell’aria fornì ora leggi

matematiche famose. Hooke misurò l’elasticità di solidi. Boyle, Mariotte, Galileo,

Torricelli e Pascal misurarono la pressione e la densità di liquidi e di gas. Van

Helmont usò la bilancia per pesare sostanze, un passo importante nella direzione

della chimica moderna, e, con Hales, diede inizio a studi quantitativi nel campo

della fisiologia, come la misurazione della temperatura corporea e della pressione

sanguigna. Harvey dimostrò, con argomentazioni quantitative, che il sangue

pompato dal cuore compie un circuito completo del corpo prima di tornare al

cuore. Gli studi quantitativi si estesero anche alla botanica, dove fu determinato il

ritmo di assorbimento e di evaporazione dell’acqua in piante. Römer misurò la

velocità della luce. Il freddo invernale e il caldo estivo furono identificati con

moti più o meno eccitati di molecole dell’aria attraentisi reciprocamente secondo

la legge della gravitazione. Ben presto furono scoperte leggi che collegavano fra

loro settori separati della scienza. Ad esempio, la chimica, l’elettricità, la

meccanica e i fenomeni del calore furono tutti collegati insieme mediante la legge

della conservazione dell’energia.

Tutto ciò fu solo l’inizio di quel vasto movimento scientifico senza precedenti

che ha plasmato il mondo moderno. Il corso del movimento continuò a sostenere

la convinzione di Newton della possibilità di derivare tutti i fenomeni naturali

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dalle leggi del moto e della gravitazione. Uno o due esempi scelti dai risultati

superlativi ottenuti nel Settecento indicheranno la vastità del fronte su cui questo

programma fu portato innanzi.4

Benché ci fossero prove schiaccianti a favore di un ordine matematico

invariabile del cielo, all’epoca della morte di Newton, nel 1727, numerose

irregolarità, che rimanevano inspiegate, erano state osservate nei moti dei corpi

celesti. Ad esempio, benché la Luna rivolga sempre la stessa faccia alla Terra, la

regione vicina ai bordi diventa periodicamente più o meno visibile. Una maggiore

precisione nelle osservazioni aveva inoltre rilevato che la durata del mese lunare

medio diminuisce di circa 1/30 di secondo ogni secolo (tale era l’ordine di

precisione che osservazione e teoria erano pervenute a trattare). Infine erano state

osservate anche piccole variazioni nelle eccentricità delle orbite planetarie.

Queste e altre divergenze dalla legge e dall’ordine perfetti ponevano un grande

interrogativo: il sistema solare è stabile? Ossia queste irregolarità, per quanto

piccole, sarebbero gradualmente aumentate e, in virtù dei complicati effetti dei

corpi celesti l’uno sull’altro, avrebbero determinato infine uno squilibrio nel

sistema solare? Sotto l’effetto cumulativo di queste irregolarità non avrebbe

potuto accadere che un pianeta si perdesse nello spazio o che un giorno la Terra

andasse a schiantarsi nel Sole?

Newton era ben consapevole di molte di queste irregolarità, e nei suoi propri

studi aveva affrontato il moto della Luna. Questo corpo percorre un’orbita ellittica

un po’ nello stesso modo in cui un ubriaco segue una linea retta: si affretta e

rallenta e oscilla da una parte all’altra. Newton era convinto che questo

comportamento straordinario fosse dovuto in parte al fatto che oltre alla Terra

anche il Sole attrae la Luna e ne determina scostamenti da un percorso veramente

ellittico. Non avendo però alcuna dimostrazione del fatto che tutte le irregolarità

osservate nei moti della Luna e dei pianeti fossero dovute ad attrazioni

gravitazionali e non potendo dimostrare che l’effetto cumulativo non avrebbe

causato infine la disgregazione del sistema solare, Newton si sentì costretto a

ricorrere all’intervento di Dio per mantenere l’universo in funzione. Ma i

successori settecenteschi di Newton decisero di fondarsi meno sulla volontà di

Dio e più sul loro potere di deduzione.

L’orbita di ciascun pianeta attorno al Sole sarebbe un’ellisse solo se

nell’universo fossero presenti esclusivamente il pianeta e il Sole. Il sistema solare

contiene invece numerosi pianeti, alcuni con satelliti, i quali non soltanto si

muovono attorno al Sole ma si attraggono l’un l’altro in accordo alla legge della

gravitazione universale di Newton. I loro moti non possono perciò essere

veramente ellittici. Le loro orbite esatte sarebbero note se fosse possibile risolvere

il problema generale di determinare il moto di un numero di corpi a piacere,

ciascuno dei quali esercita una forza gravitazionale su tutti gli altri. Ma questo

problema è superiore alla capacità di qualsiasi matematico. Due fra i massimi

matematici del Settecento fecero però progressi straordinari in questa direzione. Il

4 Si vedano anche i capitoli diciannovesimo e ventesimo.

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matematico Joseph-Louis Lagrange, nato a Torino, in una brillante esibizione di

genialità giovanile, affronto il problema matematico del moto della Luna sotto

l’attrazione del Sole e della Terra e lo risolse all’età di ventott’anni. Egli dimostrò

che la variazione nella parte della Luna visibile è dovuta ai rigonfiamenti

equatoriali sia della Terra sia della Luna. Fu dimostrato inoltre che l’attrazione del

Sole e della Luna sulla Terra è tale da perturbare l’asse di rotazione della Terra in

una misura calcolabile. Fu dimostrato così che lo spostamento dell’asse di

rotazione della Terra, con la conseguente precessione degli equinozi, un fatto

d’osservazione noto almeno dall’epoca dei greci, è una necessità matematica della

legge di gravitazione. Lagrange fece un altro notevole passo avanti con la sua

analisi matematica dei moti dei satelliti di Giove. L’analisi dimostrò che le

irregolarità osservate nei loro moti erano anch’esse un effetto della gravitazione.

Egli incorporò tutti questi risultati nella sua Mécanique analytique, un’opera che

estendeva, formalizzava e coronava l’opera di Newton sulla meccanica. Lagrange

si era lagnato una volta della grande fortuna di Newton per il fatto che esiste un

solo universo e che Newton ne aveva già scoperto le leggi matematiche. Lagrange

ebbe nondimeno l’onore di dimostrare al mondo la perfezione della teoria

newtoniana.

Il francese Pierre-Simon Laplace, che, come Lagrange, rivelò già in gioventù la

sua genialità, dedicò la vita al problema di applicare la legge di gravitazione di

Newton al sistema solare. Fra i risultati più spettacolari ottenuti da Laplace fu la

dimostrazione del fatto che le irregolarità nelle eccentricità delle orbite ellittiche

dei pianeti sono periodiche. Queste irregolarità presentano cioè oscillazioni

attorno a valori fissi e non si accrescono fino a spezzare in modo irreversibile

l’equilibrio dei moti celesti. In sintesi, l’universo è stabile. Laplace dimostrò

questo risultato nella sua opera fondamentale, la Mécanique céleste, in 5 volumi,

fra il primo e l’ultimo dei quali passano 26 anni.

La perfezione dell’ordine matematico dell’universo era divenuta, all’epoca

della morte di Laplace (cent’anni esatti dopo la morte di Newton), del tutto

evidente. Essa si rifletté nella famosa risposta di Laplace a Napoleone che, avendo

ricevuto una copia della Mécanique céleste, criticò Laplace per aver scritto

un’opera sul sistema dell’universo in cui non si faceva menzione di Dio. La

risposta di Laplace fu: “Non ho avuto bisogno di quest’ipotesi.” Il mondo si era

rivelato stabile e non c’era più bisogno di Dio, come aveva ritenuto Newton, per

correggerne le irregolarità o impedirne un comportamento aberrante.

Particolarmente degna di nota è una deduzione notevole dalla teoria

astronomica generale di Lagrange e Laplace. Si tratta della predizione puramente

teorica dell’esistenza e della posizione del pianeta Nettuno. Era stato supposto che

aberrazioni inspiegate nel moto del pianeta Urano fossero dovute all’attrazione

gravitazionale, su Urano, di un pianeta sconosciuto. Due astronomi, John Couch

Adams in Inghilterra e U.J.J. Leverrier in Francia, calcolarono l’orbita del

presunto pianeta sulla base delle irregolarità osservate e della teoria astronomica

generale. Gli osservatori si misero allora alla ricerca del pianeta nel tempo e nella

posizione determinati matematicamente da Adams e da Leverrier. Il pianeta fu

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localizzato. Esso era appena osservabile con i telescopi dell’epoca e difficilmente

avrebbe potuto essere individuato se gli astronomi non lo avessero cercato nella

posizione indicata. Il problema risolto da Adams e da Leverrier era estremamente

difficile perché essi dovevano lavorare, per così dire, all’indietro. Invece di

calcolare gli effetti di un pianeta di cui si conoscessero massa e orbita, essi

dovevano dedurre massa e orbita di un pianeta sconosciuto sulla base degli effetti

da esso esercitati sul moto di Urano. Il loro successo fu perciò considerato un

grande trionfo della teoria e proclamato ai quattro venti come la dimostrazione

definitiva dell’universalità di applicazione della legge della gravitazione di

Newton.

Alla metà del Settecento l’infinita sapienza dell’approccio quantitativo di

Galileo e di Newton alla natura era chiaramente stabilita. Se essi avessero

affrontato il problema, forse insolubile, di analizzare la materia e le forze

qualitativamente, non avrebbero forse fatto avanzare la scienza oltre il punto

raggiunto dai pensatori medievali. Il problema della struttura della materia è

estremamente complesso; di fatto le ricerche moderne nel campo della teoria

atomica cominciano a rivelarci il grado quasi incredibile di questa complessità.

Galileo e Newton evitarono la discussione sulla struttura della materia ma

indicarono come misurarne le proprietà inerziali e gravitazionali in termini di

accelerazione, ossia in termini di spazio e di tempo. Anche la forza di gravità si

era rivelata un problema insolubile per l’analisi qualitativa. Di fatto, Newton

ammetteva che la natura di questa forza era per lui un mistero. Gli sembrava

inspiegabile come tale forza potesse superare 150 milioni di chilometri e attrarre

la Terra verso il Sole ed egli non formulò ipotesi in proposito. Newton sperava

che altri avrebbero studiato la natura di tale forza. Alcuni cercarono di spiegarla

per mezzo di pressioni esercitate da un qualche mezzo intermedio o con altri

processi, ma tutti i tentativi si rivelarono insoddisfacenti. Infine tutti i tentativi

furono abbandonati e la gravitazione fu accettata come una cosa incomprensibile.

Nonostante la totale ignoranza sulla natura fisica della gravità, Newton possedeva

una formulazione, significativa e utilizzabile, del modo in cui tale forza agiva. Il

paradosso della scienza moderna è che, pur accontentandosi di così poco, riesce a

ottenere risultati molto importanti.

L’opera di Galileo e di Newton ha altre implicazioni di importanza vitale.5 La

teoria copernicana aveva spazzato via gran parte del misticismo, della

superstizione e della teologia che offuscavano il cielo e aveva consentito all’uomo

di vederlo in una luce più razionale. La legge della gravitazione di Newton spazzò

via le ragnatele dagli angoli, dimostrando che i pianeti seguono lo stesso modello

di comportamento degli oggetti familiari che si muovono sulla Terra. Questo fatto

fornì un’ulteriore e schiacciante evidenza alla conclusione che i pianeti sono

composti di comune materia. L’identificazione della materia del cielo con la

crosta della Terra distrusse intere biblioteche di libri sulla natura dei corpi celesti.

In particolare, la distinzione affermata dai grandi pensatori greci e medievali fra il

5 Si vedano i capitoli sedicesimo, diciassettesimo, diciottesimo e ventunesimo.

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cielo, perfetto, immutabile, incorruttibile, e la Terra, imperfetta e corruttibile, si

rivelò ora nel modo più chiaro un parto dell’immaginazione dell’uomo.

Al di là dell’identificazione della Terra e dei corpi celesti, l’opera di Galileo e

di Newton stabilì l’esistenza di leggi universali, matematiche. Queste leggi

descrivevano il comportamento di un granello di polvere come della stella più

lontana. Nessun angolo dell’universo si sottraeva alla loro validità. Così gli

argomenti a favore del disegno matematico dell’universo furono immensamente

rafforzati. Inoltre l’immutabile aderenza dei fenomeni naturali al disegno di

queste leggi confermava l’uniformità e l’invariabilità della natura e si

contrapponeva alla concezione medievale di una Provvidenza attiva al cui volere

l’universo sarebbe continuamente soggetto.

Il Seicento ereditò un mondo qualitativo soggetto al volere divino e inteso solo

nei termini di vie e fini del Creatore. Esso lasciò a sua volta all’umanità un

universo meccanico che operava immancabilmente in accordo con leggi

matematiche universali e invariabili. Sarà sempre più chiaro man mano che

procederemo nella nostra esposizione che il mutamento inaugurato in questo

periodo non fu altro che una rivoluzione culturale.

Ripercorrendo le fasi principali che hanno condotto a questo sconvolgimento

intellettuale, ci s’impone una lezione. Lo studio del cielo fornì la prima grande

sintesi scientifica sotto forma della teoria astronomica di Eudosso. Questa fu

seguita dal sistema quantitativo, di grande utilità pratica, di Ipparco e Tolomeo,

che esercitò nel corso dei secoli un’influenza grandissima. Un ulteriore studio del

cielo produsse l’astronomia rivoluzionaria di Copernico e di Keplero. Sulla base

di una teoria eliocentrica la legge universale della gravitazione divenne un’ipotesi

sostenibile. La validità della legge fu attestata inoltre dalla deduzione dalle leggi

di Keplero. Infine l’opera astronomica di Lagrange e di Laplace eliminò tutti i

dubbi sull’imperio delle leggi matematiche universali in natura. La lezione che si

può ricavare da questa storia è che l’eccentrico osservatore delle stelle può dirci

sul nostro mondo più di quanto non sia in grado di dirci l’“uomo d’affari” pratico.

Le nostre conoscenze migliori sul comportamento anche di quei fenomeni naturali

che pervadono il nostro ambiente immediato ci sono venute dalla contemplazione

del cielo e non dall’esame di problemi pratici. Il senso della legge, che predispone

gli uomini ad attribuire tutti i fenomeni, anche quelli completamente inspiegabili,

a un comportamento regolare invece che anormale della natura, questa tendenza a

sostituire la legge all’intervento soprannaturale, fu sviluppato distogliendo lo

sguardo dai problemi immediati dell’uomo e studiando il movimento delle stelle

più lontane.

L’opera di Copernico, Keplero, Galileo e Newton rese possibile la

realizzazione di molti sogni. Tra questi erano il sogno e la speranza di astrologi

antichi e medievali di predire le vie della natura. C’era anche il progetto proposto

da Bacone e da Descartes di padroneggiare la natura per far progredire il

benessere dell’uomo. L’uomo progrediva verso entrambi gli obiettivi, quello

scientifico e quello tecnologico. Le leggi universali resero possibile certamente la

predizione dei fenomeni in esse compresi. E il dominio della natura viene solo un

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passo dopo la predizione poiché la conoscenza del corso immutabile della natura

rende possibile una sua utilizzazione in congegni tecnici.

Un altro programma ancora per lo studio e la comprensione della natura fu

realizzato nell’opera di Galileo e di Newton. La filosofia pitagorico-platonica che

le relazioni numeriche siano la chiave per la comprensione dell’universo, che tutte

le cose siano conoscibili attraverso il numero, è un elemento essenziale nel

procedimento galileiano di mettere in relazione aspetti quantitativi di fenomeni

mediante formule. Questa filosofia fu mantenuta viva per tutto il Medioevo anche

se per lo più, come nel caso degli stessi pitagorici, era parte di una più ampia

teoria mistica della creazione in cui il numero era considerato la forma e la causa

di tutti gli oggetti creati. Galileo e Newton spogliarono la dottrina pitagorica di

ogni associazione mistica e la rivestirono di uno stile che divenne una norma per

la scienza moderna.

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193

XV. Fermati attimo fuggente: il calcolo infinitesimale

Quando Newton cader vide una mela,

riscosso dalla sua contemplazione

trovò – si dice (ché difficil cosa

dei pensieri e dei calcoli di un saggio

dare è i motivi) – una dimostrazione

che il globo della Terra ruota in cerchio

con naturale vortice, chiamato

da lui “universal gravitazione.”

Ei fu il solo mortale che affrontare

seppe, dai tempi biblici di Adamo,

un pomo e una caduta con successo.

LORD BYRON

La derivazione di leggi universali doveva indubbiamente attendere un’età

disposta a pensare nei termini che abbiamo visto nel capitolo precedente, e

pensatori come Descartes, Galileo e Newton in grado di determinare gli obiettivi e

i metodi della moderna attività scientifica. Essa doveva attendere però anche, e di

fatto sarebbe stato impossibile altrimenti, la creazione di uno strumento

indispensabile: il calcolo infinitesimale. Di tutti i filoni di pensiero esplorati dai

geni del Seicento questo si dimostrò il più ricco. Al di là del suo valore nella

derivazione di molte fra le leggi universali già discusse, il calcolo infinitesimale

fornì i mezzi per fondare molte nuove imprese scientifiche.

Contrariamente alla credenza popolare che un genio rompa radicalmente con la

sua età, tre fra le maggiori intelligenze del Seicento – Pierre Fermat, Isaac

Newton e Gottiried Wilhelm Leibniz –, lavorando ciascuno indipendentemente

dall’altro, si occuparono dei problemi connessi al calcolo infinitesimale. Fermat

lavorò in Francia, Newton in Inghilterra e Leibniz in Germania. Il terzo membro

di questo triumvirato di geni, che è nuovo per la nostra storia, era nato a Lipsia

nel 1646. All’età di quindici anni entrò all’Università di Lipsia con l’intento

chiarato di studiare legge e l’intenzione non dichiarata di studiare tutto. Un saggio

sul diritto scritto poco tempo dopo che egli ebbe lasciato Lipsia attrasse

l’attenzione dell’Elettore di Magonza che decise di valersi di Leibniz come

diplomatico. Purtroppo in questo periodo il tempo che egli poteva dedicare allo

studio fu limitato perché la povertà lo costrinse a servire come fattorino

straordinario per vari principi tedeschi. Nel 1676 fu nominato consigliere e

bibliotecario dell’Elettore di Hannover e questo lavoro, pur richiedendogli ancora

molti viaggi in missioni diplomatiche, gli concesse un po’ di tempo libero. Egli

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riuscì quindi a scrivere articoli, saggi e lettere, che riempirono più di 25 volumi di

profondi contributi nei campi del diritto, della religione, della politica, della

storia, della filosofia, della filologia, della logica, dell’economia e, ovviamente,

della scienza e della matematica. Quest’uomo di doti e interessi universali riuniva

in sé “un’intera accademia.”

Numerosi validi matematici avevano già compiuto progressi in direzione del

calcolo infinitesimale. L’opera di Fermat, di Newton e di Leibniz fu, perciò, la

continuazione e il coronamento di una lunga serie di sforzi da parte dei loro

predecessori. Evidentemente, per quanto grandi siano i contributi del singolo

genio, lo spirito e la sostanza delle sue idee sono confinati alla sua propria età. Il

contributo del genio consiste nel percepire e fecondare le riflessioni della società e

restituisce i dividendi per i secoli a venire.

Quali che siano le conclusioni che possono essere formulate sulle relazioni del

genio con la sua età, non c’è dubbio che i concetti del calcolo infinitesimale erano

nel Seicento per così dire nell’aria, tanto che sorse una disputa fra gli amici di

Newton e quelli di Leibniz, sostenendo i primi che Leibniz doveva aver avuto

notizia delle idee di Newton e i secondi rigettando violentemente l’accusa. I

sentimenti suscitati dalla disputa erano così aspri e i principali pensatori

impegnati in quest’argomento, che pure è fra quelli più razionali, erano così

partigiani, che i matematici inglesi e quelli del Continente interruppero lo

scambio di idee e la corrispondenza per un secolo circa dopo la morte di Newton

e di Leibniz. Né il linguaggio usato da entrambe le parti per commentare l’opera

del competitore fu sempre sobrio e razionale e neppure cortese. Un’eccezione è

costituita da un’osservazione molto generosa di Leibniz, secondo cui, se si

considerava la matematica dall’inizio del mondo all’epoca di Newton, l’opera

dell’inglese era la metà migliore.

Nel periodo in cui furono attivi Fermat, Newton e Leibniz, i matematici europei

erano uniti nel tentativo di risolvere un intero gruppo di problemi implicanti un

tipo particolarissimo di difficoltà: il ritmo istantaneo di mutamento di variabili.

Prima di esaminare i contributi decisivi dei tre uomini dobbiamo chiarire la natura

del problema che essi si trovarono ad affrontare.

Per trattare variabili, ossia quantità che mutano continuamente, è necessario

distinguere fra mutamento e rapidità di mutamento. Quando una pallottola viene

proiettata in aria, la distanza percorsa e il tempo aumentano continuamente;

nell’istante in cui la pallottola colpisce una persona è importante la sua velocità,

ovvero la rapidità di variazione della distanza in relazione al tempo e non la

distanza percorsa e il tempo impiegato a percorrerla. Se quella velocità è di un

chilometro e mezzo all’ora, la pallottola cadrà innocua al suolo ai piedi della

persona. Se è invece di millecinquecento chilometri all’ora, la persona cadrà a

terra e il futuro non potrà più apportarle altri danni. Ovviamente le rapidità di

variazione delle quantità sono almeno altrettanto importanti del fatto che esse

variano.

Fra le rapidità di mutamento delle variabili dobbiamo distinguerne due tipi: la

rapidità media e la rapidità istantanea. Se una persona va in automobile da New

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York a Filadelfia, le quali distano circa 150 chilometri, in tre ore, la sua velocità

media, ossia la sua rapidità media di variazione della distanza in relazione al

tempo, è di 50 km all’ora. Tale numero non rappresenta però necessariamente,

com’è ovvio, la sua velocità in nessun istante di tempo particolare durante il

viaggio, ad esempio alle tre. Supponiamo ora che a quest’istante, ossia

esattamente alle tre, il viaggiatore osservi il tachimetro della sua automobile e

veda che esso segna 56 km all’ora. Questa quantità è una velocità istantanea;

ossia è la sua rapidità di variazione della distanza in relazione al tempo alle tre ma

non necessariamente la velocità di un istante prima o un istante dopo. Possiamo

sostenere che non esiste una velocità istantanea perché in un istante non si ha un

passare del tempo e quindi non può esserci moto. Per ora ci appelliamo

semplicemente alla nostra esperienza fisica a sostegno dell’affermazione che una

persona che viaggia in automobile si muove a una velocità definita in ogni istante.

Un urto con un albero in uno qualsiasi di questi istanti convincerebbe sicuramente

il lettore che avesse dubbi in proposito.

Il bisogno di occuparsi della velocità istantanea si presenta primariamente

quando un oggetto si muove con velocità variabili; in caso contrario il concetto di

velocità media è sufficiente. Ora, le velocità variabili sono per l’appunto quelle in

cui si imbatterono gli scienziati seicenteschi. La seconda legge di Keplero, ad

esempio, afferma che un pianeta si muove non con una velocità costante, come

avevano creduto i greci e altri scienziati prerinascimentali, bensì con una velocità

continuamente varia. Similmente, secondo Galileo, i corpi in ascesa o in caduta in

prossimità della superficie della Terra si muovono con velocità continuamente

varia. Anche il pendolo e il moto dei proietti, che a quest’epoca furono studiati

intensamente, implicano velocità variabili. Per trattare tali moti mancava agli

scienziati una chiara comprensione delle velocità istantanee e, inoltre, un metodo

per calcolarle.

Dovrebbe esser chiaro che non possiamo ottenere una velocità istantanea come

otteniamo una velocità media poiché in un istante si percorre una distanza nulla e

trascorre un tempo nullo e dividere zero per zero non ha senso. Una breve

meditazione sull’argomento sarà sufficiente a convincere il lettore del fatto che

soltanto una soluzione insolita del problema della definizione e del calcolo di

velocità istantanee può aver successo. A questo problema applicarono la loro

genialità Fermat, Newton e Leibniz.

Consideriamo innanzitutto una versione semplificata del loro approccio

matematico. Abbiamo già visto che se un’automobile lascia New York alle 14 e

arriva a Filadelfia alle 17, la sua velocità media per il viaggio è data dalla distanza

percorsa, 150 chilometri, divisa per il tempo impiegato a percorrerla, 3 ore; ossia,

la velocità media è 50 chilometri orari. Che cosa possiamo dire sulla velocità alle

tre del pomeriggio? È chiaro che, benché la velocità media sia di 50 chilometri

orari, la velocità alle tre avrebbe potuto essere di 60 chilometri all’ora o quasi

qualsiasi altro numero. Possiamo tentare di rispondere alla domanda considerando

la velocità media per un breve periodo di tempo attorno alle tre. Così se

l’automobile percorre un chilometro nel minuto successivo alle tre, la velocità

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media per tale minuto è di 1 km diviso per 1 minuto, ovvero 60 chilometri all’ora.

È questa la velocità media alle tre?

Benché un minuto sia un intervallo di tempo abbastanza breve, è ancora

possibile che la velocità media per questo minuto differisca considerevolmente

dalla velocità alle tre esatte perché l’automobile potrebbe aumentare o diminuire

la sua velocità durante questo minuto. Diminuiamo allora la durata dell’intervallo

di tempo attorno alle tre per il quale calcoliamo la velocità media. Ora, possiamo

calcolare la velocità media per 1 secondo, o per 1/10 di secondo o per 1/100 di

secondo e così via. Quanto più breve è l’intervallo di tempo per cui si calcola la

velocità media, tanto più la velocità media in quell’intervallo di tempo dovrebbe

avvicinarsi alla velocità istantanea alle tre.

Supponiamo che le velocità medie calcolate per intervalli di tempo sempre più

piccoli risultino essere di 62, 61 e 1/2, 61 e 1/4, 61 e 1/8 e così via man mano che

ci si avvicina alle tre. Poiché le velocità medie per intervalli di tempo sempre più

piccoli attorno alle tre dovrebbero essere stime sempre più precise della velocità

alle tre, definiamo la velocità istantanea alle tre il numero cui tendono le velocità

medie man mano che gli intervalli di tempo si approssimano a zero. Nel caso

delle velocità medie 62, 61 e 1/2, 61 e 1/4, 61 e 1/8 e così via, questi numeri

stanno presumibilmente tendendo a 61 e pertanto dovremmo considerare 61 la

velocità istantanea alle tre. Si osservi che la velocità istantanea non è definita

come il quoziente della distanza divisa per il tempo. Abbiamo invece introdotto

l’idea di prendere un numero cui tendono per approssimazione le velocità medie.

Possiamo ora considerare una descrizione più precisa del metodo per ottenere

una velocità istantanea. Consideriamo la formula che stabilisce una relazione fra

la distanza di un corpo in caduta libera e il tempo impiegato nella caduta e

calcoliamo la velocità istantanea di una palla esattamente tre secondi dopo che è

stata lasciata cadere: Secondo Galileo la relazione fra distanza percorsa in metri e

tempo impiegato in secondi è

(1) s = 4,9t2.

La distanza percorsa alla fine del terzo secondo, indicata con s3, è ottenuta

perciò sostituendo in questa formula il 3 al t. Abbiamo così

s3 = 4,9 32 = 44,1.

Ora, invece di calcolare velocità medie per vari intervalli di tempo attorno alla

fine del terzo secondo, come abbiamo fatto per la velocità dell’automobile attorno

alle tre, possiamo operare in modo più efficace come segue.

Supponiamo che h rappresenti un intervallo di tempo a piacere. Allora 3 + h la

rappresenta un nuovo intervallo di tempo, maggiore di 3 secondi della quantità h.

Al fine di stabilire quale distanza percorra la palla in caduta in 3 + h secondi,

sostituiamo questo valore del tempo nella formula (1). Sappiamo che la nuova

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distanza non sarà 44,1 bensì un diverso valore di s. Indichiamolo con s3 + k, dove

k è la distanza addizionale percorsa negli h secondi addizionali. Allora

s3 + k = 4,9(3 + h)2.

Moltiplicando (3 + h) per se stesso (elevandolo al quadrato), otteniamo

s3 + k = 4,9(9 + 6h + h2).

Moltiplichiamo ora ciascun termine all’interno della parentesi per 4,9. Il

risultato è

(2) s3 + k = 44,1 + 29,4h + 4,9h2.

Al termine di tre secondi la distanza percorsa è

(3) s3 = 44,1.

Per ottenere le, ossia la variazione della distanza durante gli h secondi,

sottraiamo l’equazione (3) dall’equazione (2). Quest’operazione dà

(4) k = 29,4h + 4,9h2.

Ora, come la velocità media dell’automobile era stata ottenuta dividendo i 150

chilometri per le tre ore, così ora dividiamo k, la distanza percorsa, per h, il

numero dei secondi impiegati a percorrere tale distanza, per ottenere la velocità

media durante gli h secondi. Se, poi, dividiamo entrambi i membri della formula

(4) per h, otteniamo

(5) k/h = 29,4 + 4,9h.

Dalla formula (5) vediamo che la velocità media, k/h, nell’intervallo di h

secondi dopo il terzo secondo è una funzione di h, tale funzione essendo 29,4 +

4,9h. Man mano che h diventa sempre più piccolo, k/h rappresenta la velocità

media su un intervallo di tempo sempre più piccolo misurato a partire dalla fine

del terzo secondo. Abbiamo accettato sopra di prendere il numero cui tendono

queste velocità medie come la velocità istantanea alla fine del terzo secondo.

Ricerchiamo perciò il valore che più si approssima a k/h man mano che la si

avvicina a zero. Approssimandosi h a zero, anche 4,9 si approssima a zero; e,

come possiamo vedere dal secondo membro della formula (5), k/h si approssima a

29,4. Perciò la velocità istantanea alla fine del terzo secondo è 29,4 metri. È

questa la velocità che un corpo lasciato cadere nel vuoto raggiunge dopo tre

secondi.

Il lettore dovrebbe osservare che, per determinare il numero 29,4 come velocità

istantanea, guardiamo che cosa accade nel secondo membro della formula (5)

all’approssimarsi di h a zero. Il nostro ragionamento era stato che quanto più h

diventa piccolo tanto più 29,4 + 4,9 h si approssima a 29,4. Il processo mentale

non equivale alla sostituzione di h con zero anche se lo stesso risultato potrebbe

essere ottenuto mediante tale sostituzione nel caso di questa funzione semplice.

Vediamo perché il processo mentale non è il medesimo. Quando h è zero, k è

zero perché k è la distanza percorsa dalla palla durante il tempo h. Perciò quando

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h è zero, k/h = 0/0, la quale è un’espressione priva di significato. Pertanto è

scorretto parlare di ottenere la velocità alla fine del terzo secondo sostituendo 0 a

h nell’espressione per k/h. Trovare invece il numero cui tendono per

approssimazione le velocità medie quando gli intervalli di tempo per i quali le

velocità medie sono calcolate si approssimano allo 0 è logicamente ineccepibile

ed è appunto questa l’idea introdotta per aggirare la difficoltà insita nel concetto

di velocità istantanea. Non sussiste ovviamente alcuna difficoltà nel calcolo delle

velocità medie, poiché esse riguardano tutte intervalli di tempo diversi da zero.

Possediamo ora un concetto di velocità istantanea. Questa è il numero cui

tendono per approssimazione le velocità medie man mano che gli intervalli di

tempo per i quali le velocità medie sono calcolate si approssimano a zero. Un

fatto altrettanto importante è che possediamo un metodo per calcolare la velocità

istantanea utilizzando la formula che mette in relazione la distanza e il tempo. Per

inciso, dovremmo osservare che, se avessimo calcolato la velocità alla fine di t

secondi invece che di 3 secondi, il nostro risultato sarebbe stato che la velocità v è

uguale a 9,8t. Possiamo così ottenere una formula per la velocità in qualsiasi

istante t.

Il procedimento che abbiamo appena esaminato è tipico della matematica. Al

fine di trattare il concetto di velocità istantanea, il matematico ha idealizzato

spazio e tempo in modo da poter parlare di qualcosa che esiste in un istante del

tempo e in un qualche punto dello spazio. Egli ottiene in tal modo la velocità in

un istante. L’immaginazione e l’intuizione del profano sono sollecitate

eccessivamente dalle nozioni di istante, punto e velocità istantanea; egli

preferirebbe quindi parlare di velocità in intervalli di tempo piccolissimi. Eppure

la matematica produce, attraverso la sua idealizzazione, non soltanto un concetto

bensì una formula per la velocità in un determinato istante, formula che è esatta e

applicabile più facilmente della nozione di velocità media in qualche intervallo

sufficientemente piccolo. L’immaginazione può essere affaticata ma l’intelletto

riceve un aiuto. È questo il paradosso della matematica, un paradosso in cui ci

siamo già imbattuti sotto altre forme e che consiste nel fatto che, là dove sembra

introdurre difficoltà, in realtà semplifica e rende facile un problema complesso.

Il metodo consistente nel definire e calcolare una velocità istantanea è oggi più

ampiamente applicabile di quanto apparisse in passato. Nulla nei suoi aspetti

matematici richiede che d rappresenti la distanza e t rappresenti il tempo. Queste

variabili possono avere un qualsiasi significato fisico e noi possiamo calcolare la

rapidità di variazione di una variabile rispetto all’altra per un valore della seconda

con lo stesso procedimento matematico che abbiamo usato per calcolare la

rapidità di variazione della distanza confrontata al tempo in un istante. Ad

esempio, se s rappresenta la velocità e t il tempo, possiamo calcolare la rapidità di

variazione della velocità confrontata al tempo in un istante; questo valore

istantaneo della variazione della velocità è l’accelerazione istantanea. Un altro

esempio è che la pressione nell’atmosfera varia con l’altezza al di sopra della

superficie della Terra; per questa funzione calcoliamo la legge della variazione di

pressione in relazione all’altezza per qualsiasi altezza data. Ora, se la variabile s

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rappresenta il livello dei prezzi di certe merci e t rappresenta il tempo, allora

possiamo calcolare il ritmo della variazione del prezzo in relazione al tempo in un

qualche istante. Così il nostro metodo ci consente di definire e calcolare migliaia

di significanti e utili rapidità di variazione di una variabile in relazione a un’altra

per un valore della seconda variabile. Per inciso, tali rapidità di variazione sono

riferite tutte a velocità istantanee, benché il tempo possa non essere una delle

variabili implicate, perché i problemi originari del calcolo infinitesimale della

velocità e dell’accelerazione implicavano il tempo e si occupavano

dell’andamento della variazione in un istante di tempo. Il calcolo infinitesimale

può ora essere definito come la disciplina che tratta il concetto di rapidità

istantanea della variazione di una variabile rispetto all’altra e le varie applicazioni

di questo concetto.

La rapidità istantanea di variazione di una variabile rispetto a un’altra è indicata

solitamente con un simbolo speciale. Cosi, se le due variabili sono y e x, un

simbolo comunemente usato è Dxy, che si legge derivata di y rispetto a x. (Un

altro simbolo comune ma sviante è dy/dx.) Entrambi i simboli sono esempi

eccellenti della concisione del linguaggio matematico. In meno spazio di quello

che si richiede per una parola, il simbolo descrive il risultato dell’intera

operazione di trovare il ritmo istantaneo di variazione di una qualche variabile y

in relazione a un’altra variabile x. Evidentemente l’uso di tale simbolo rappresenta

un ulteriore passo avanti oltre l’uso della lettera x per rappresentare un’incognita.

La matematica superiore differisce da quella elementare in parte per quest’uso

molto efficace di simboli per concetti complessi.

Nell’applicazione del concetto di rapidità istantanea di variazione menzionato

finora siamo partiti dalla formula che mette in relazione due variabili e poi

abbiamo trovato la rapidità di variazione. Supponiamo che ci sia dato l’andamento

della variazione di una variabile in relazione all’altra: avrebbe qualche importanza

il processo inverso di trovare la formula che mette in relazione le due variabili?

Questo rovesciamento del processo ha ovviamente qualche importanza solo se si

conosce qualche importante legge di variazione da cui prendere l’avvio.

Fortunatamente quest’informazione può essere ottenuta facilmente in molti

fenomeni naturali e artificiali. Di qui procediamo alla formula e alla soluzione di

molti problemi. Esaminiamo un caso reale.

Supponiamo di voler trovare la formula che mette in relazione le due variabili,

ossia la distanza percorsa da un corpo in caduta libera e il tempo che esso impiega

a percorrere tale distanza. Dalle leggi di Newton segue logicamente, come

abbiamo visto nel capitolo precedente, che l’accelerazione di un corpo in caduta

libera è costante. La rapidità di variazione della velocità rispetto al tempo è cioè

lo stesso a ogni istante. Esperimenti semplici come quelli compiuti da Galileo

dimostrano che il valore di questa costante è di 9,8 metri/sec2. In simboli, se si

esprime con a l’accelerazione,

(6) a = 9,8.

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Tutti i corpi che si trovano in aria al di sopra della Terra, l’aeroplano che vola

sopra le Montagne Rocciose, la pallottola sparata da un fucile e la palla scagliata

in alto, posseggono quest’accelerazione verso il basso.

Ora, a è la rapidità istantanea di variazione della velocità in relazione al tempo;

perciò possiamo pensarla come derivante da una formula che metta in relazione la

velocità v e il tempo t. Se potessimo trovare questa formula, essa ci darebbe

l’espressione per la velocità in termini del tempo. Possiamo ottenerla rovesciando

il procedimento mediante il quale si trova la rapidità di variazione. Il lettore può

accettare il fatto che la formula che mette in relazione velocità e tempo è

(7) v = 9,8t.

oppure può verificarla trovando la rapidità di variazione di v rispetto a t e vedrà

che da questa verifica risulta la formula (6). Ma la formula (7) non è la risposta al

nostro problema poiché essa ci dà la velocita a ogni istante in cui dura la caduta

del corpo nei termini del tempo di caduta, mentre noi stiamo cercando la relazione

fra distanza e tempo. La velocità è però la rapidità di variazione della distanza in

relazione al tempo. Perciò, per trovare la distanza percorsa dal corpo in caduta in t

secondi, dobbiamo trovare una nuova formula per la quale la formula (7)

rappresenti la rapidità istantanea della variazione. Rovesciando ancora una volta il

procedimento della ricerca di una rapidità di variazione otteniamo la formula che

mette in relazione s, la distanza percorsa dal corpo in caduta, e t, il numero dei

secondi. Il risultato è

(8) s = 4,9t2.

Il lettore può confermare questo risultato dimostrando che la rapidità di

variazione di s in relazione a t è la formula (7). Così, rovesciando due volte il

procedimento che si segue per trovare rapidità di variazione istantanee, possiamo

trovare la formula che mette in relazione la distanza percorsa da un corpo in

caduta libera e il tempo che esso impiega a percorrerla.

Un altro esempio di una classe di problemi in cui la rapidità di variazione è

l’informazione ottenuta con maggiore facilità può essere sufficiente per indicare

l’importanza del procedimento consistente nel trovare la formula sulla base della

rapidità di variazione. La seconda legge del moto di Newton, una legge usata

come base per le investigazioni più fondamentali in fisica, è un’asserzione su una

rapidità di variazione. Essa dice che la forza agente su un corpo è uguale alla

massa del corpo moltiplicata per l’accelerazione del moto del corpo. Quando la

forza è nota, la legge diventa un’asserzione sull’accelerazione o sulla rapidità di

variazione della velocità in relazione al tempo. Allora, procedendo in modo simile

a quello da noi seguito sopra nel passare dalla formula (6) alla formula (8),

possiamo trovare la formula che mette in relazione la distanza e il tempo nella

situazione in cui si applica la forza. Molto spesso una formula ottenuta

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rovesciando una legge di variazione non potrebbe essere ottenuta in alcun altro

modo.

Le espressioni implicanti rapidità istantanee di variazione sono scritte di solito

sotto forma di equazioni, come ad esempio le (6) e (7), e sono chiamate equazioni

differenziali. Un’equazione differenziale esprime qualche fatto sulla rapidità

istantanea di variazione di una variabile in relazione a un’altra. Il procedimento

consistente nel trovare la formula che mette in relazione queste variabili operando

a partire dall’equazione differenziale è detto risoluzione di tale equazione. Grazie

alla risoluzione di una famosa equazione differenziale, Newton fu in grado di

dedurre così prontamente le leggi di Keplero. Poiché le equazioni differenziali si

sono dimostrate i mezzi più efficaci per formulare e sviluppare interi settori della

scienza, si ritiene spesso che la natura e Dio si “esprimano” nei termini di tali

equazioni.

Se ci occupassimo degli usi pratici del calcolo infinitesimale sarebbe utile

vedere come l’inversione del procedimento consistente nel trovare una rapidità di

variazione istantanea potrebbe essere applicata a trovare le lunghezze di curve,

superfici delimitate da curve, volumi delimitati da superfici e numerose altre

quantità non ottenibili in modo diverso. E’ atteso che almeno vedremo in che

modo il calcolo infinitesimale sia implicato in tali applicazioni.

Fig. 50. Superficie generata dal movimento di un segmento rettilineo di

lunghezza variabile.

Come semplice illustrazione consideriamo la superficie raffigurata nella figura

50. Possiamo concepire tale superficie come descritta da un segmento verticale m

movimento AB che cominci a muoversi nel punto P (con lunghezza zero) e si

muova verso destra. Per ogni posizione del segmento AB, la superficie descritta è

l’area tratteggiata della figura. Ora, man mano che AB si muove verso destra,

l’area descritta aumenta con una rapidità che è uguale alla lunghezza di AB.

Poiché AB muta di lunghezza da una posizione a un’altra, l’area descritta varia da

un punto all’altro ed entra in scena il concetto di rapidità di variazione istantanea.

Se volessimo completare quest’esposizione e vedere in che modo si possano

trovare in realtà l’area di questa figura e altre aree dovremmo addentrarci troppo

negli aspetti puramente tecnici del calcolo infinitesimale. Il riconoscimento della

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relazione esistente fra il concetto generale di rapidità di variazione da un lato e la

determinazione di lunghezze, aree e volumi dall’altro è la massima singola

scoperta di Newton e di Leibniz nel calcolo infinitesimale.

Mentre una produzione efficiente di barattoli di latta é una motivazione

sufficiente, nella nostra civiltà, per lo studio di un’idea matematica, il calcolo

infinitesimale, come altri settori della matematica, merita attenzione per aver

svolto parti di primo piano nella creazione della civiltà e della cultura moderne.

L’uso delle tecniche del calcolo infinitesimale nella derivazione di leggi

scientifiche è già stato descritto. Il successo di Newton nell’ottenere leggi

universali che governano il moto stimolò inoltre gli scienziati a cercare leggi del

genere in altri settori della fisica. Di conseguenza leggi fondamentali

comprendenti ampie classi di fenomeni naturali furono trovate in campi come

l’elettricità, la luce, il calore e il suono. Non abbiamo però ancora considerato lo

sviluppo più significativo seguito alla creazione del calcolo infinitesimale.

Gli scienziati, come tutti gli uomini, non si accontentano facilmente. Una volta

ottenuto un successo, ne desiderano immediatamente uno maggiore. Gli scienziati

del Settecento, con un coraggio reso possibile dal possesso della potente arma del

calcolo infinitesimale, con appetiti aguzzati da successi iniziali e col gusto del

progresso scientifico coltivato dalla loro esperienza, osarono speculare sulla

possibilità di dedurre addirittura le leggi universali dei vari settori della fisica da

una singola legge sottostante forse al piano razionale dell’intero universo. Essi

speravano quanto meno di unificare varie branche della scienza sotto una legge

matematica generale da cui potessero essere dedotte le leggi separate dei vari

settori. Coraggio e abilità ebbero la meglio. Matematici e scienziati scoprirono un

principio interamente nuovo che non solo ha guidato da allora il corso di ampi

sviluppi scientifici ma che è stato accettato come dottrina fondamentale sulla

struttura dell’universo. Questa connessione fra il calcolo infinitesimale e la

struttura del cosmo abbisogna di qualche spiegazione.

Supponiamo che una palla sia lanciata verticalmente in aria e che noi

desideriamo trovare l’altezza massima che essa raggiunge al di sopra del suolo.

Per mezzo del calcolo infinitesimale il problema viene risolto facilmente.

Supponiamo, ad esempio, che l’altezza h della palla al di sopra del suolo sia data

dalla formula

(9) h = 39,2t – 4,9t2,

dove t è il numero di secondi trascorsi dall’istante in cui la palla è stata

lanciata. Poiché la palla non appena lanciata comincia a salire, ciò significa che h

aumenta con t. La velocità della palla però diminuisce poiché la gravitazione si

oppone alla velocità verso l’alto. La palla continuerà a salire finché la sua velocità

sarà zero. Ciò accadrà nel punto più alto del suo volo poiché altrimenti la palla

continuerebbe a salire. Quest’argomentazione suggerisce che se noi troviamo

l’istante in cui la velocità è zero conosceremo almeno l’istante in cui la palla si

trova alla sua altezza massima. Applicando il procedimento usato per trovare il

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ritmo istantaneo di variazione di h rispetto a t alla formula (9) dovremmo trovare

che la velocità è data dalla formula

(10) v = 39,2 – 9,8t.

Abbiamo ammesso che la velocità v è uguale a zero nell’istante in cui la palla

tocca il punto più alto della sua traiettoria. Poniamo perciò v = 0 nella formula

(10) e osserviamo che il tempo t a cui la palla è nel punto più alto soddisfa

l’equazione

0 = 39,2 – 9,8t.

Evidentemente t = 4 soddisfa quest’equazione e pertanto la palla raggiunge il

punto più alto della sua traiettoria 4 secondi dopo aver lasciato il suolo. Qual è

l’altezza della palla in questo istante? La formula (9) ci dà l’altezza in qualsiasi

istante di tempo. Sostituiamo 4 a t nella formula e troviamo che

h = 39,2 4 – 4,9 42 = 78,4.

La massima altezza raggiunta dalla palla è pertanto metri 78,4 al di sopra del

suolo. Il punto importante di quest’esempio è che il calcolo infinitesimale ci

consente di trovare il valore massimo di una variabile, nell’esempio citato h,

mediante il concetto di rapidità di variazione istantanea. Lo stesso procedimento,

applicato a una variabile che abbia un valore minimo, ci consentirebbe di trovare

tale minimo.

A quest’epoca, nel Settecento, gli scienziati avevano osservato che in numerosi

fenomeni la natura si comporta in modo che qualche quantità sia o un massimo o

un minimo. Ad esempio, un raggio di luce che vada da un punto A a uno specchio

e poi a un punto B (si veda la fig. 16) potrebbe compiere parecchi percorsi

concepibili. In realtà. come scoprirono i greci, il raggio prende la via più breve.

Poiché in un’atmosfera uniforme la luce viaggia con velocita costante, la via più

breve è anche quella che richiede il minor tempo. In questo fenomeno la natura si

comporta perciò in modo che e la distanza e il tempo implicati siano minimi.

Fig. 51. I raggi di luce rifratti adottano la traiettoria che richiede meno tempo.

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Quando la luce passa da un mezzo a un altro, ad esempio dall’aria all’acqua,

non muta soltanto la sua velocità, passando ad esempio da una quantità c1 a una

quantità c2, ma anche la direzione del raggio di luce (fig. 51). Di nuovo, il raggio

di luce potrebbe compiere percorsi diversi nel passaggio da A, nel primo mezzo, a

B nel secondo. Sia Snellius (Willebrord Snell), un professore di matematica

all’Università di Leida, sia Descartes dimostrarono però che il percorso seguito

dal raggio di luce è quello per cui c1 diviso per c2 è uguale a sen 1 diviso per sen

2. Fermat dimostrò poi che questo percorso è anche quello che richiede minor

tempo.

La luce segue la traiettoria che richiede il tempo minimo anche quando passa

per un mezzo di caratteristiche variabili come l’atmosfera al di sopra della Terra.

Questo comportamento della luce può essere attestato quasi quotidianamente.

L’atmosfera in prossimità della superficie della Terra è più densa di quella più

lontana. Ma la velocità di un raggio di luce è minore in un’atmosfera densa che

non in una rara. Perciò la luce proveniente dal Sole rimane nell’atmosfera più rara

il più a lungo possibile, probabilmente per trarre vantaggio dalla velocità

superiore che vi è possibile. La traiettoria curva della luce che ne risulta ci

consente di vedere il Sole dopo il tramonto, ossia quando il Sole si trova in realtà

al di sotto dell’orizzonte geometrico (fig. 52).

Fig. 52. La luce che attraversa un’atmosfera di densità variabile adotta la

traiettoria che richiede meno tempo.

Sulla base di tali fatti d’esperienza Fermat affermò il suo Principio del Minimo

Tempo, il quale dice che un raggio di luce che si muova da un punto all’altro

prenderà sempre la via che richiede il tempo minimo. Poiché il vero percorso è

quello che richiede il tempo minimo e poiché il calcolo infinitesimale può essere

applicato per determinare il valore di una variabile che minimizza o massimizza la

variabile con cui è in relazione, il principio di Fermat ci dice, in effetti, come il

calcolo infinitesimale possa essere usato per determinare i percorsi dei raggi di

luce. Il principio di Fermat si applica però soltanto al comportamento dei raggi di

luce. Ma che dire di altri fenomeni?

Altri casi in cui la natura obbedisce a un principio del minimo furono cercati e

trovati ben presto. Una palla fatta di gomma distribuita uniformemente e di

consistenza uniforme assume una forma sferica quando viene gonfiata. Lo stesso

fa una bolla di sapone. È un teorema matematico che di tutte le superfici

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contenenti un volume dato la sfera ha la superficie minima. (Un greco del periodo

classico avrebbe dato la vita per poter dimostrare questa proprietà per un solido

così apprezzato come la sfera.) La palla e la bolla assumono pertanto, quando

vengono gonfiate, la forma che richiede la superficie minima in relazione al

volume dell’aria soffiata in esse. Ma perché esse dovrebbero decidere di obbedire

a questo teorema matematico? Assumendo una forma sferica la gomma e la

pellicola di sapone vengono distese su una superficie minima e perciò sono

sottoposte a una tensione minima. Evidentemente la natura, come gli esseri

umani, tende al minimo sforzo.

Tutti questi esempi potrebbero essere fatti rientrare in un principio generale?

Attorno alla metà del Settecento un fisico famoso, Pierre Louis Moreau de

Maupertuis, annunciò il Principio della minima azione. Questo principio, che

Maupertuis scoprì mentre stava lavorando alla teoria della luce, afferma che la

natura si comporta in modo da rendere il più possibile piccola una certa quantità

matematica complessa nota tecnicamente come azione ed equivalente al prodotto

della massa, della velocità e dello spazio percorso. Applicando il calcolo

infinitesimale alla formula per l’azione, se ne possono dedurre le prime due leggi

del moto di Newton, oltre ad altre leggi di meccanica e di ottica. Si può dire

perciò che i corpi che si muovono in accordo alle leggi di Newton, ad esempio i

pianeti, obbediscono a un principio del minimo. Maupertuis era inoltre riuscito a

portare le leggi della meccanica e della luce sotto un unico principio del minimo.

Maupertuis ricercò e sostenne questo principio per ragioni teologiche. Egli

riteneva che le leggi del comportamento della materia dovessero rivelare la

perfezione degna della creazione a opera di Dio. Il principio della minima azione

soddisfaceva questo criterio in quanto dimostrava l’economicità della natura. Egli

lo proclamò perciò non soltanto come una legge universale della natura bensì

anche come la prima prova scientifica dell’esistenza di Dio, essendo esso “un

principio così sapiente da esser degno solo dell’Essere supremo.”

Come Maupertuis, anche il grande matematico svizzero Eulero (Leonhard

Euler) ritenne che l’esistenza di un principio del minimo come la minima azione

non fosse casuale e difese perciò le tesi di Maupertuis. Il principio era una prova

del disegno consapevole di Dio. Evidentemente il Dio che era in passato

semplicemente il geometra degli scienziati greci e rinascimentali si stava ora

istruendo. In breve tempo sarebbe diventato, da semplice geometra qual era stato

in precedenza, un matematico raffinato, abile in tutte le discipline della

matematica.

In realtà Fermat, Maupertuis ed Eulero sbagliavano nel ritenere che la natura si

comporti sempre in modo da render minima qualche funzione. Ci sono situazioni,

ad esempio, in cui un raggio di luce prende un percorso che richiede il tempo

massimo rispetto al tempo richiesto da altre vie possibili. Perciò la corretta

formulazione del principio che questi uomini ricercavano è che la natura si

comporta in modo che qualche funzione sia o un massimo o un minimo.

Maupertuis non avrebbe perciò dovuto dire che la natura è economica bensì che la

natura spesso ricorre agli estremi.

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Eppure, benché Maupertuis e i suoi colleghi possano aver compiuto errori su

qualche particolare, i loro successori dell’Ottocento e del Novecento hanno

ritenuto con fiducia che questi uomini fossero sulla strada giusta. Spogliato delle

associazioni teologiche, un principio del massimo e del minimo domina ora la

scienza fisica. Uno tra i fisici più eminenti del secolo scorso, Sir William Rowan

Hamilton, dimostrò che quasi tutte le leggi gravitazionali, ottiche, dinamiche ed

elettriche possono essere ottenute massimizzando o minimizzando una funzione

da lui creata e nota tecnicamente come integrale tempo del potenziale cinetico. La

funzione di Hamilton è apprezzata in parte perché tante leggi fisiche sono

comprese in essa e in parte perché queste leggi devono essere dedotte mediante

l’applicazione di un procedimento di massimizzazione o di minimizzazione.

Inoltre il più geniale matematico di questo secolo, Albert Einstein, ottenne il

successo più sensazionale, all’interno della sua creazione più importante, la teoria

della relatività, dimostrando che la traiettoria naturale di corpi nello spazio-tempo

è quella che massimizza una funzione chiamata l’intervallo. L’importanza di

quest’asserzione risiede nel fatto che rende ragione delle traiettorie osservate dei

pianeti. Il fine di abbracciare tutti i fenomeni in un principio, quello cioè secondo

cui il comportamento reale della natura consiste nel minimizzare o massimizzare

qualche quantità matematica generalissima, viene oggi perseguito attivamente. Lo

stesso Einstein si è impegnato sino alla fine della sua vita in questo compito di

comprimere tutte le conoscenze elettriche e meccaniche in una forma matematica

da cui le leggi della natura potessero essere dedotte mediante un procedimento di

minimizzazione o di massimizzazione.

Vediamo dunque che l’accento posto dagli scienziati su un principio del

massimo o del minimo non è diminuito. L’unico mutamento è che mentre tali

principi venivano in precedenza attribuiti alla provvidenza divina, sono ora

accettati e graditi per il fatto di essere esteticamente attraenti e scientificamente

utili. Alcuni famosi scienziati del nostro secolo, come Eddington e Jeans, hanno

nondimeno continuato a guardare a Dio come alla Causa prima e all’ultima ragion

d’essere.

Benché i grandi matematici e scienziati non perdessero tempo ad applicare il

calcolo infinitesimale all’architettura dell’universo, essi furono impediti per

generazioni nei loro tentativi di erigere una base logica adeguata alla loro

disciplina. Come la lacuna fra la concezione di una carrozza senza cavalli e la

moderna automobile fu superata mediante un centinaio di invenzioni importanti e

varie centinaia di invenzioni minori, così quella esistente fra il calcolo

infinitesimale di Newton e Leibniz e quella che è considerata oggi un’esposizione

soddisfacente dell’argomento fu superata grazie alle opere di centinaia di

matematici, grandi e piccoli. Ci vollero circa centocinquant’anni perché si

pervenisse a produrre una presentazione logica del calcolo infinitesimale.

La difficoltà principale sorge nella fase che dà la velocita istantanea. Possiamo

ricordare che dalla formula s = 4,9t2 abbiamo ottenuto l’espressione:

k/h = 29,4 + 4,9h

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per la velocità media durante l’intervallo di tempo di h secondi: Come velocità

istantanea si convenne allora di prendere il numero cui tende per approssimazione

quest’espressione quando h si approssima a zero, ovvero il limite, come tale

valore e chiamato oggi nel calcolo, infinitesimale. Può sembrare ovvio al lettore

che il numero cui quest’espressione tende è il 29,4; tale fatto è forse evidente in

quest’esempio semplice, ma il concetto di limite è nondimeno sottile ed elusivo.

Esaminiamo alcune fra le difficoltà implicate in esso.

I numeri della sequenza 0, 1/4, 3/8, 7/16, 15/32 ... Sono crescenti e tendono ad

approssimarsi a 1 ma evidentemente non si avvicineranno mai all’unità perché

nessun termine di questa sequenza raggiungerà neppure il valore di 1/2. Se i

valori di k/h componessero questa sequenza in corrispondenza all’approssimarsi

di h a zero, quale sarebbe il limite ovvero il numero cui tenderebbe k/h?

Evidentemente si deve dire qualcosa di più sul modo in cui opera questa

impostazione. Si può dire che la sequenza di valori deve approssimarsi

moltissimo al limite. Ma la parola approssimarsi è vaga; il pianeta Marte è

prossimo alla Terra quando si trova a soli 80 milioni di km da essa. D’altra parte

una pallottola passa in prossimità di una persona quando la sfiora a una distanza

di pochi centimetri.

La difficoltà con cui i fondatori del calcolo infinitesimale avevano a che fare

era precisamente quella di dare una qualche definizione soddisfacente di ciò che

intendevano per velocità istantanea o per limite. I tentativi di alcuni fra i

ricercatori del primo Seicento di intendere e giustificare i loro contributi

frammentari all’argomento sono ridicoli se commisurati ai livelli moderni.

Nonostante la lunga tradizione della dimostrazione rigorosa in matematica, alcuni

matematici erano pronti a abbandonare la norma proprio perché sapevano di aver

messo le mani su un’idea di grande valore che desideravano far progredire ma che

non erano in grado di giustificare. Il rigore, disse Bonaventura Cavalieri, un

discepolo di Galileo che insegnò matematica all’Università di Bologna, è affare

della filosofia e non della geometria. Pascal argomentò che il cuore interviene per

assicurarci della correttezza di alcuni passaggi matematici. La “finesse” più che la

logica era necessaria al retto pensare, esattamente come l’apprezzamento della

grazia religiosa è superiore alla ragione.

Newton e Leibniz, pur avendo fatto compiere i progressi più significativi alla

tecnica del calcolo infinitesimale, non contribuirono molto a una rigorosa

fondazione logica dell’argomento. Non si possono leggere i particolari dei loro

scritti sul calcolo infinitesimale senza restare sorpresi dalla varietà di modi in cui

essi si affaticarono attorno alla versione corretta del concetto di limite, senza

peraltro realmente raggiungerlo. Molte volte essi cambiarono la loro impostazione

e contraddissero loro affermazioni precedenti. Nessuno dei due riuscì col concetto

di limite a far più che confondere se stesso, i suoi contemporanei e persino i suoi

successori. In un passo dei Principia, Newton formulò la versione corretta della

nozione di ritmo istantaneo di variazione ma evidentemente non riconobbe questo

fatto, visto che in scritti posteriori diede spiegazioni più mediocri della logica del

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suo procedimento. Leibniz tentò una giustificazione della sua opera in questo

campo mediante argomentazioni filosofiche sulla natura delle quantità h e k che

appaiono nel rapporto k/h quando si consente a h di tendere a zero; eppure egli

ritenne che, prescindendo da considerazioni metafisiche, il calcolo infinitesimale

fosse solo approssimativamente corretto ma in ogni caso utile in quanto gli errori

implicati erano troppo piccoli per avere una qualche incidenza pratica. Nella sua

esposizione matematica del calcolo infinitesimale, Leibniz dà solo regole e mai

dimostrazioni. Per descrivere i valori di k e h che costituiscono il numero cui k/h

tende quando h si approssima a zero, egli parla di h come della differenza in due

valori del tempo t che sono infinitamente vicini l’uno all’altro; similmente, k è la

differenza in due valori del genere della distanza s. In alcuni suoi scritti egli si

riferisce ai valori limitanti di k e di h come a quantità infinitamente piccole, o

quantità evanescenti, o quantità incipienti, contrapposte alle comuni quantità

esistenti. Per il limite di k/h Newton usò l’espressione “rapporto primo e ultimo.”

Tutte le espressioni del genere non fanno però altro che esprimere la difficoltà

implicata.

A causa della mancanza di rigore che caratterizza le più antiche opere sul

calcolo infinitesimale, conflitti e dispute sulla validità dell’intero argomento erano

destinate a durare a lungo. Il matematico Michel Rolle, un contemporaneo di

Newton, insegnò che il calcolo infinitesimale non era altro che una collezione di

ingegnosi errori. Poco tempo dopo la morte di Newton un buon matematico,

Colin Maclaurin, decise di conferire rigore al calcolo infinitesimale. Il suo libro,

edito nel 1742, era indubbiamente profondo ma anche illeggibile. Molte altre

esposizioni settecentesche del calcolo infinitesimale furono scritte col preciso

intento di fornirne la logica. I risultati ottenuti possono essere compendiati dalla

definizione data da Voltaire del calcolo infinitesimale come dell’“arte di numerare

e misurare esattamente una cosa di cui non si può concepire l’esistenza.” Due fra i

massimi matematici di tutti i tempi, Joseph-Louis Lagrange ed Eulero, che

scrissero entrambi le loro opere migliori un centinaio d’anni circa dopo quelle di

Newton e Leibniz, ritenevano ancora che il calcolo infinitesimale non fosse

rigoroso ma desse risultati corretti solo perché gli errori si eliminavano a vicenda.

Verso la fine del Settecento, d’Alembert esortò gli studiosi a proseguire lo studio

dell’argomento; alla fine avrebbero avuto fede. Fu una circostanza molto fortunata

il fatto che la matematica e la scienza fossero strettamente legate nell’èra

newtoniana e che il ragionamento fisico potesse guidare i matematici e tenerli

sulla retta via. Poiché i risultati che essi ottenevano erano utili e corretti nelle

applicazioni, essi conservarono la fiducia nei loro metodi e il coraggio per

procedere oltre. Di fatto, i procedimenti del calcolo infinitesimale funzionavano

tanto bene e procuravano vantaggi tanto grandi che a volte i matematici

chiudevano volontariamente gli occhi dinanzi al problema del rigore.

Sappiamo oggi che furono l’intuizione e argomentazioni di carattere fisico e

non la logica a guidare Newton e Leibniz sulla strada giusta. Un’incompletezza

nel pensiero dei creatori delle idee principali è quasi inevitabile. I pionieri

dell’avventura intellettuale fecero i loro grandi progressi su sentieri illuminati di

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quando in quando da bagliori improvvisi e brevi di luce. Se essi avessero

indugiato per compiere piccole osservazioni, comportanti comunque un dispendio

di tempo, il loro progresso sarebbe stato limitato ai passi avanti raffinati,

manierati, degli accademici miopi. La storia del calcolo infinitesimale è

nondimeno rivelatrice poiché dimostra come hanno luogo i progressi in

matematica. La concezione popolare del matematico che ragiona perfettamente e

arriva direttamente alla conclusione non è mai così radicalmente diversa dalla

realtà storica come nel caso dei creatori del calcolo infinitesimale. Ovviamente,

molte dimostrazioni matematiche dovettero essere corrette perché qualche errore

fu fatto inconsciamente. È un segreto professionale, la cui divulgazione non

dovrebbe andar oltre il lettore di questo libro, che anche Euclide commise errori

che non furono scoperti fin verso la fine dell’Ottocento. Nel caso del calcolo

infinitesimale troviamo però un vasto corpo di matematica applicato ai problemi

scientifici più profondi e sfociante nella produzione delle leggi più importanti del

Settecento, benché per tutto il tempo i matematici, gli scienziati e altri intellettuali

fossero consapevoli degli insufficienti fondamenti della disciplina e addirittura

dubbiosi della sua correttezza. Dovrebbe essere anche confortante per noi

ricordare che quasi tutti i migliori matematici di due secoli concentrarono i loro

sforzi sul problema di conferire rigore al calcolo infinitesimale, fallendo però

miseramente.

Fortunatamente per la matematica e per il mondo, questa commedia degli errori

ebbe una conclusione felice. Il brillante matematico francese Augustin-Louis

Cauchy riuscì a formulare correttamente il concetto di limite e a dimostrare i

teoremi sui limiti che erano necessari per giustificare le tecniche. Cauchy

pubblicò un’opera definitiva, il Cours d’analyse, nel 1821. Sbaglieremmo però

nell’inferirne che i matematici si liberassero allora delle assurdità che erano state

scritte per centocinquant’anni prima di quella data e adottassero le idee di

Cauchy. Il libro di testo sul calcolo infinitesimale più usato negli Stati Uniti negli

ultimi cinquant’anni, che è ancor oggi molto popolare, potrebbe benissimo essere

stato scritto nel Settecento.

Contrariamente alla convinzione comune, il calcolo infinitesimale non è la

vetta della cosiddetta “matematica superiore.” Esso ne è, di fatto, solo il principio.

Ben presto dopo la sua creazione divenne la pietra angolare dell’analisi, una

branca della matematica molto più vasta dell’algebra e della geometria, che ha

servito, guidato e condotto la scienza in modo così egregio. Argomenti come

equazioni normali ed equazioni differenziali alle derivate parziali, serie infinite, il

calcolo delle variazioni, la geometria differenziale, il calcolo di funzioni di una

variabile complessa e la teoria del potenziale sono soltanto alcuni dei campi

dell’analisi. Con tali strumenti gli scienziati continuarono la loro ricerca di leggi

matematiche della natura e consolidarono il loro dominio su grandi parti di essa.

Alcune di queste imprese saranno oggetto dei capitoli seguenti.

Mentre venivano creati questi nuovi settori della matematica, una nuova cultura

stava sorgendo sulla base dei contributi dei secoli XVI e XVII. Abbandonando i

tronchi morti della conoscenza medievale che in precedenza avevano dato loro

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alimento, la scienza, la filosofia, la religione, la letteratura, l’arte e l’estetica

cercarono il loro nutrimento nei fecondi contributi matematici a una nuova

interpretazione del cosmo. Le direzioni seguite da questi settori rinvigoriti della

nostra cultura saranno oggetto dei prossimi capitoli.

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XVI. L’influenza newtoniana: scienza e filosofia

Vagate pure liberi su tutta

la scena umana: un grande labirinto

ma concepito non senza un disegno.

ALEXANDER POPE

Una votazione che fosse stata fatta nel Seicento per designare l’“uomo” più

influente dell’epoca avrebbe collocato sicuramente al primo posto il diavolo.

Secondo la scienza della demonologia, sviluppata e predicata dai teologi, il

diavolo e i suoi assistenti spiriti malvagi erano accusati di provocare guerre,

carestie, pesti e tempeste. Essi si divertivano a spaventare i bambini e a impedire

alla panna di latte agitata di trasformarsi in burro. Il diavolo era aiutato nel suo

lavoro da streghe, esseri umani “unti” che derivavano da lui i suoi poteri. Le

streghe potevano infettare la gente, trasformarsi in lupi e divorare il bestiame dei

loro vicini e anche avere relazioni carnali col diavolo stesso. Nei momenti d’ozio

cavalcavano manichi di scopa su e giù per i camini o in aria.

I danni perpetrati dal diavolo e dai suoi collaboratori, nonostante l’onnipotenza

di Dio, erano così mostruosi che i rappresentanti politici e spirituali di Dio non

trovarono una missione più importante o più santa di quella di sterminare questi

nemici dell’umanità. Tra questi campioni autonominatisi tali della società erano

persone che credevano fermamente nella stregoneria, come il re Giacomo I

d’Inghilterra, Lutero, Calvino, alcuni papi, John Wesley e, nel New England,

Cotton Mather. Sulla base delle prove più inconsistenti furono accusati di

stregoneria vecchi, giovani, donne e bambini. Per essere certi che nessuna persona

sospetta potesse farla franca, furono sollecitate, anche nel corso di funzioni

religiose, le accuse anonime. Venivano fatte passare regolarmente cassette nelle

quali i fedeli potevano introdurre biglietti recanti i nomi di persone sospette. Gli

accusati venivano imprigionati, torturati e costretti a confessare. Sia che

l’accusato confessasse sia che si rifiutasse di farlo, la tortura continuava fino alla

morte poiché la mancata confessione veniva interpretata come ostinazione mentre

la confessione imponeva naturalmente il castigo. Per alleggerire la coscienza dei

giudici, ad alcuni fra gli accusati che non avevano confessato veniva concesso un

certificato d’innocenza, ovviamente postumo.

Con un’adesione di una fermezza quasi incredibile a dottrine che oggi sono

considerate fantastiche, i giudici secolari e gli ecclesiastici condannavano

freddamente a morte streghe e maghi. Quanto fosse ritenuta pericolosa la

minaccia delle streghe nell’Europa del Seicento si può desumere da una delle

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misure di “riforma”. Il papa Gregorio XV stabilì che dovessero essere punite col

carcere invece che con la morte quelle streghe che, con i loro poteri magici,

avessero prodotto divorzi, malattie o impotenza o avessero arrecato danno ad

animali o colture.

Benché la caccia alle streghe fosse responsabile della morte di molte migliaia

di persone innocenti nel Seicento, non fu certo il solo aspetto tetro della vita in

quell’età violenta. La gente viveva nel terrore continuo di ciò che, a quanto le

veniva detto, la attendeva dopo la morte. I preti affermavano che quasi tutti

sarebbero andati all’inferno dopo la morte e descrivevano con ricchezza di

particolari le torture spaventose, intollerabili che attendevano per tutta l’eternità i

dannati. Zolfo infuocato e fiamme intense bruciavano vittime che, invece di

consumarsi, rimanevano intatte e continuavano a soffrire queste torture che non

diminuivano mai. Dio era presentato non come il salvatore bensì come il flagello

dell’umanità, il potere che aveva creato l’inferno e le torture che hanno luogo in

esso e che gli affidava i peccatori, limitando il Suo amore solo a una piccola parte

del Suo gregge. I cristiani venivano esortati a spendere il loro tempo meditando

sulla dannazione eterna al fine di prepararsi alla vita dopo la morte. La gente

credulona, irriflessiva, per la quale la religione era l’unico sfogo, accettava

servilmente questo annuncio del suo destino come letteralmente vero. Non

sorprende che gli uomini si sentissero tenuti a “giustificare le vie di Dio!”

Durante il Seicento la libertà religiosa fu una rarità, ma, peggio ancora, furono

combattute regolarmente guerre per soffocare opinioni eterodosse all’interno dello

Stato e negli Stati vicini. Si insisteva a tal punto sulla totale uniformità di pensiero

da eliminare ogni forma di pensiero indipendente. Le Inquisizioni spagnola,

romana e messicana, il massacro della notte di San Bartolomeo in Francia, quello

del Piemonte in Italia e la Guerra dei Trent’Anni furono solo alcuni degli sforzi

“ispirati” per educare l’umanità. L’eresia, che comprendeva ogni atto sgradito alla

particolare Chiesa dominante in ogni paese o anche semplici parole contro il papa

negli Stati cattolici, veniva soffocata immediatamente e in modo spietato. Anche

in America ci furono quaccheri impiccati per l’audacia di essere andati nella

puritana Boston. Non soltanto non esisteva quasi libertà di religione, ma la

religione manteneva gli uomini nel terrore: terrore della punizione, terrore della

dannazione, terrore del diavolo, terrore di Dio e terrore della tortura dopo la

morte.

In una tale atmosfera reazionaria ci si può aspettare che la libertà di stampa

fosse così sconosciuta come la libertà religiosa. Dal 1543 fu un’infrazione colpita

dal codice penale negli Stati cattolici stampare, vendere, possedere, trasportare o

importare qualsiasi cosa stampata che non avesse avuto l’approvazione espressa

dell’Inquisizione. Un Indice dei libri proibiti elencò i libri che i fedeli non

dovevano leggere. Mai nulla fu più letale per la sorte delle lettere. Anche là dove

esisteva un certo grado di libertà religiosa, come in Prussia sotto Federico il

Grande, la libertà di stampa era considerata pericolosa per la classe dominante.

Mentre Federico ammetteva che “ogni uomo deve andare in cielo a modo suo,”

sosteneva fermamente che l’uomo non deve aver nulla da dire sul governo che

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regge la sua vita sulla terra. Perciò era rigorosamente imposta la censura di libri e

di articoli. I governi esortavano in apparenza i cittadini alla ricerca della verità,

ma li punivano quando l’avevano trovata. In seguito alle restrizioni sulla

diffusione della cultura, l’ignoranza delle masse era tanto profonda quanto diffusa

e la classe tradizionalmente colta “risolveva” ancora problemi teologici e

sguazzava in Aristotele.

La stessa democrazia era confinata a un concetto aristotelico nella filosofia

speculativa e non era proclamata un fine da conseguire in questo mondo. L’uomo

comune, servile, considerato una proprietà dei suoi padroni, non aveva ancora

imparato che poteva scuotere il diritto divino dei re. Le masse non godevano

inoltre di alcun diritto civile. La gente veniva sbattuta in prigione senza bisogno

che ci fossero accuse specifiche e doveva attendere anni prima che si facesse il

processo. I reati più comuni, come il furto di una pecora o di una piccola somma

di denaro, venivano puniti con la morte, e il carcere per debiti era una cosa

normale. Lo svago prediletto di gentildonne e gentiluomini, in Inghilterra e

altrove, consisteva nell’osservare la tortura e l’esecuzione di criminali operata con

i metodi più crudeli. Essere sventrato e squartato non era affatto a quei tempi un

modo di dire figurato.

Fortunatamente queste manifestazioni di depravazione intellettuale, sociale e

morale erano gli ultimi sussulti di una cultura che stava tramontando. Nel

Seicento la civiltà medievale era crollata completamente. Essa sarebbe stata

soppiantata nel mondo occidentale da una civiltà più illuminata, la quale si stava

proprio allora formando. Il modo in cui la matematica e la scienza contribuirono

alla formazione di questa nuova civiltà è certamente altrettanto degno di esame

del modo in cui esse produssero “miracoli” moderni come la radio e la

televisione.

Gli sconvolgimenti religiosi e sociali del Rinascimento e la rapida

accumulazione delle conoscenze apportate dalle esplorazioni geografiche e dalla

ricerca matematica e scientifica produssero dapprima solo confusione

intellettuale. In tutto questo periodo, però, un piccolo gruppo di scienziati e di

matematici, a cominciare da Copernico, e inclusi poi Keplero, Galileo, Descartes,

Fermat, Huygens, Newton e Leibniz, aveva lavorato assiduamente. Mentre

l’effetto ultimo della loro opera era stato quello di sostituire la decadenza

medievale con un nuovo ordine culturale, il fine di questi uomini era, dal loro

punto di vista, relativamente limitato. In accordo con la nuova concezione

galileiana del compito della scienza e con l’affermazione esplicita di Newton nei

suoi Philosophiae naturalis principia mathematica, esso consisteva nella scoperta

delle relazioni matematiche valide per l’universo fisico.

In vista di questo fine, le leggi del moto e della gravitazione furono il

contributo principale di Newton. Si trovò che queste leggi abbracciavano in sé

una varietà sorprendente di fenomeni. Le leggi di Keplero, fondate fino allora

sull’osservazione, furono riconosciute come deduzioni immediate dalle leggi

matematiche di Newton. Quando Newton e altri dopo di lui trovarono che la luce

poteva essere studiata con successo come un moto di corpuscoli e il suono come

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un moto di molecole d’aria, le leggi di Newton si rivelarono efficaci anche in

questi studi. Molti altri campi scientifici cominciarono a fornire una formulazione

matematica. Leggi quantitative furono scoperte anche nei campi dell’elettricità e

del calore, per le forze agenti nei liquidi e nei gas e per molti fenomeni chimici.

Benché i maggiori successi venissero ottenuti nei campi dell’astronomia e della

fisica e, in minor misura, della chimica, la loro importanza fu accresciuta dalla

promessa di cose a venire.

Il perfezionamento del microscopio, attraverso studi matematici e fisici sulla

luce, aprì quasi letteralmente un nuovo mondo ai biologi. Il successo

dell’approccio quantitativo, insieme all’analisi in termini di forza e di moto,

suggerì ai fisiologi e agli psicologi di ricercare una soluzione dei loro problemi in

termini meccanici invece che in quelli di prodigi astrologici, anima, mente, spiriti,

umori e altre nozioni vaghe. Studi quantitativi sul flusso di acqua nei tubi

avrebbero chiarito secondo loro il caso della circolazione del sangue nelle arterie

e nelle vene. Di fatto la dimostrazione data da Harvey che il sangue circola in

tutto il corpo prima di tornare al cuore rafforzò questa concezione meccanicistica

perché paragonava il corpo a una macchina pompante, col cuore che fungeva da

pompa. Il lavoro sulla luce avrebbe spiegato gran parte della funzione corporea

della vista, mentre lo studio del suono avrebbe chiarito i problemi implicanti il

senso dell’udito. Due grandi opere, L’homme machine del famoso medico

francese Julien Offroy de La Mettrie e Le système de la nature del radicale barone

Paul Heinrich d’Holbach, si spinsero fino a spiegare in termini di materia e moto

la coscienza, i processi corporei e tutti i pensieri e azioni umani. Non molto tempo

dopo che Newton aveva studiato il cielo, La Mettrie pretese di avere scoperto il

calcolo della mente umana e l’economista francese François Quesnay annunciò

equazioni per la vita economica e sociale. Sembrava che fosse solo una questione

di tempo perché tutti i fenomeni, naturali, sociali e mentali, venissero ridotti sotto

leggi matematiche.

Il segreto dei successi già ottenuti e di quelli attesi con fiducia era chiaro ai

pensatori del Settecento. Uomini come il conte di Buffon, il principale naturalista

francese, e il marchese di Condorcet, il famoso metafisico, compresero che

l’introduzione di metodi quantitativi avrebbe concesso alla scienza un nuovo

potere di razionalizzare e padroneggiare la natura. Kant dichiarò, di fatto, che il

progresso di una scienza poteva essere determinato dalla misura in cui la

matematica era entrata a far parte del suo metodo e dei suoi contenuti. La

matematica divenne così la chiave celebrata alla conoscenza, la “regina delle

scienze.”

La valutazione del potere già sorprendente delle alleate, matematica e scienza,

imbevve gli uomini pensanti di entusiasmo per una vasta riorganizzazione

dell’intera conoscenza lungo le linee seguenti. Innanzitutto essi esaltarono la

ragione umana come lo strumento più efficace per il conseguimento di verità. In

secondo luogo, considerando il ragionamento matematico l’incarnazione delle

forme di pensiero più pure, profonde ed efficaci, la perfetta giustificazione delle

pretese delle facoltà mentali degli esseri umani, essi raccomandarono l’uso di

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metodi matematici e della matematica vera e propria per la derivazione della

conoscenza. In terzo luogo, gli investigatori in ogni campo di ricerca dovevano

ricercare le relative leggi naturali, matematiche. In particolare, i concetti e le

conclusioni della filosofia, della religione, della politica, dell’economia, dell’etica

e dell’estetica dovevano essere riformulati, ogni volta in accordo con le leggi

naturali del suo campo.

Il carattere principale di questo nuovo approccio alla conoscenza era una

fiducia illimitata nella ragione e nella validità dell’estensione di metodi

matematici in tutte le scienze fisiche e formali e, oltre di esse, a tutti i campi della

conoscenza. Questo programma coraggioso non ebbe, come vedremo, un successo

completo. Non tutti i problemi si dimostrarono assoggettabili a metodi

matematici, nonostante le attese e gli sforzi di molti grandi uomini. Ciò

nondimeno la disposizione razionalistica del periodo alterò permanentemente il

corso del pensiero in quasi tutti i campi. Eppure, come i principali esponenti,

ebbri di ragione, dell’Illuminismo settecentesco previdero, la matematica servì da

fulcro alla leva che ribaltò l’ordine del mondo esistente e da strumento principale

per la creazione di un mondo nuovo.

Era quasi prevedibile che uno fra gli sforzi maggiori dei pensatori

settecenteschi sarebbe stato quello di formulare un approccio matematico a tutti i

problemi. Descartes, come abbiamo visto, aveva cercato di ricostruire tutto il

sapere su una base incontestabile e aveva scelto il metodo deduttivo della

matematica come l’unico attendibile. Pur avendo considerato una “mathesis

universalis”, egli non offri però alcun simbolismo o tecnica con cui affrontare

problemi non matematici paragonabili alla sua introduzione dell’algebra per lo

studio delle curve.

Perseguendo un fine non meno vasto di quello di Descartes, il matematico e

filosofo Leibniz si pose un programma più ambizioso. Egli cercò di inventare un

linguaggio universale, tecnico, e un calcolo che fosse adeguato a comprendere e

condurre innanzi in modo efficace qualsiasi tipo di ricerca. Egli sperava in tal

modo che fosse possibile dare facilmente una risposta a tutte le questioni che si

ponevano all’umanità.

La matematica non solo fornì a Leibniz l’ispirazione per il suo progetto ma fu

anche il punto di partenza per la sua esecuzione. Questa disciplina aveva già un

linguaggio ideale e modi di operazione adatti ai suoi propositi. Perché, si chiedeva

Leibniz, non ampliare la portata del linguaggio matematico e dei meccanismi

matematici fino a includervi tutti gli studi? Egli propose perciò come primo passo

verso la sua scienza deduttiva universale la scomposizione di tutte le idee usate

nel pensiero in idee fondamentali, distinte e non sovrapponentisi, così come un

numero composto, come il 24, viene scomposto nei fattori primi 2 e 3. Dapprima

egli usò come simboli per le idee fondamentali numeri primi ma più tardi decise

di costruire un linguaggio speciale con simboli simili agli ideogrammi cinesi. Le

idee complesse dovevano essere rappresentate da combinazioni dei simboli

fondamentali, esattamente come una quantità a(b + c) rappresenta una quantità

algebrica complessa. Egli intendeva poi codificare le leggi del ragionamento in

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modo che una persona potesse applicarle ai simboli e combinazioni di simboli al

fine di dedurre conclusioni altrettanto meccaniche ed efficaci di quelle della

matematica nell’algebra.

Di primo acchito il progetto di Leibniz sembra assurdo. L’attesa che tutti i

problemi in tutti i campi possono essere risolti sembra a una persona moderna

piuttosto utopistica. Eppure si possono addurre molti argomenti a favore di

Leibniz. La storia della matematica dimostra che l’introduzione di simbolismi e

operazioni sempre migliori ha reso comuni operazioni che sarebbero state

impossibili senza il perfezionamento delle tecniche esistenti. Per considerare

l’esempio più semplice, l’uso dei simboli arabo-indiani per i nostri numeri e la

notazione posizionale rendono possibile ai bambini delle elementari di oggi

l’esecuzione di operazioni che erano oltre le capacità di dotti matematici di epoca

greca, romana e medievale. Leibniz era nondimeno troppo ambizioso. Non

soltanto non riuscì mai a completare i suoi sforzi in queste direzioni, ma la sua

convinzione che tutte le idee potessero essere scomposte in un numero

relativamente piccolo di idee fondamentali non ha trovato conferma.

Eppure il suo programma condusse a qualche azione e a qualche risultato

nell’Ottocento. La logica stessa ha adottato i suoi metodi nel senso di usare

simboli per le idee e operazioni fondamentali che hanno luogo nel ragionamento e

nel senso di eseguire le sue investigazioni sulla natura e le forme del

ragionamento valido in questo linguaggio puramente simbolico. Leibniz è

pertanto il fondatore della scienza nota oggi come logica simbolica, una scienza

che è stata portata avanti attivamente nel nostro secolo da uomini della levatura

mentale di Bertrand Russell e di Alfred North Whitehead.

Se il tentativo di risolvere tutti i problemi con una sorta di calcolo universale

era destinato ad abortire, lo stesso non si può dire per le altre revisioni del sapere

intraprese dall’età di Newton. Il mutamento di maggior portata fu compiuto,

com’è ovvio, nelle scienze stesse. Quando Descartes, Galileo e Newton

stabilirono che il fine della scienza era quello di trovare le leggi matematiche

della natura, i due campi, la matematica e la scienza, assorbirono le forze. Quanto

maggiori erano i successi che coronavano gli sforzi combinati, tanto più stretta

diveniva l’alleanza. Nuovi settori della matematica furono creati per promuovere

la scienza e la scienza fornì i principali problemi alla matematica. Di fatto, i

migliori risultati matematici e scientifici furono ottenuti dalle medesime persone.

È infatti impossibile giudicare se Newton, Leibniz, gli esponenti della famiglia

Bernoulli, d’Alembert, Legendre, Lagrange, e Laplace fossero più grandi come

matematici o come scienziati. Gradualmente, però, una delle parti cominciò a

dominare l’alleanza e il Settecento assisté all’inizio di una nuova fase della

relazione, poiché in questo secolo la matematica cominciò ad assorbire la scienza.

Benché la scienza tenesse fermo con costanza al suo obiettivo di studiare e

scandagliare la natura, divenne però sempre più matematica nel contenuto, nel

linguaggio e nel metodo.

Fra le branche della scienza che diventavano sempre più matematiche,

raggiungendo al tempo stesso quella che sembrava agli uomini del Settecento la

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perfezione nella rappresentazione e spiegazione della natura, il settore più

eminente e più sviluppato fu la scienza della meccanica. Galileo e Descartes

avevano proposto un programma e una filosofia, ossia che la natura constava di

materia in moto e che la scienza non aveva altro da fare che scoprire le leggi

matematiche di questi moti. Un secolo dopo questo programma era stato

trasformato in una realtà solida ed estremamente imponente. Attraverso l’opera

degli iniziatori e di decine di altre intelligenze di primo piano, lo studio dei moti

dei corpi sulla terra e specialmente dei corpi celesti aveva conseguito una

compiutezza e un carattere così chiaramente definitivo da convincere gli uomini

dell’Illuminismo della verità e della validità di questa filosofia della scienza. Nel

Settecento le due opere monumentali sulla meccanica, la Mécanique analytique di

Lagrange e la Mécanique céleste di Laplace, “dimostrarono” che la natura è

governata da leggi matematiche precise ed eterne, le quali comprendevano ogni

fenomeno del moto osservato dagli scienziati.

Nello stesso tempo, questi scienziati ridussero la meccanica a pure equazioni.

La scienza della meccanica si rivelò un paradiso in cui i matematici potevano

vagare liberamente e felicemente. In questo campo non c’erano più grandi

problemi non risolti che turbassero la loro mente e i fenomeni della natura non

erano altro che frutti che dovevano essere raccolti. Mentre il Seicento poteva

vantarsi delle sue brillanti creazioni matematiche, il Settecento poteva andar fiero

dei successi conseguiti dalla sua filosofia meccanica della natura e avrebbe potuto

essere descritto in modo esatto come l’età della meccanica matematica.

In concomitanza con il mutamento nel contenuto della scienza, ci furono

mutamenti nel linguaggio e nel modus operandi. Il linguaggio si identificò sempre

più con quello della matematica, col suo simbolismo preciso, univoco,

appropriato e universale. Anche la scienza cominciò a fare un uso molto più

ampio di concetti astratti o ideali. Di fatto, noi tutti astraiamo continuamente idee

dall’esperienza, anche se, come il personaggio di Molière che non riusciva a

credere di aver parlato in prosa per tutta la vita, spesso non ce ne rendiamo conto.

La forza di gravità era una fra le astrazioni più notevoli del Seicento. Altre

importanti astrazioni erano l’etere che pervadeva lo spazio, un altro concetto usato

ampiamente a partire dal Seicento, e la massa, un concetto scientifico. Fra le

famose astrazioni introdotte a partire dall’inizio del Seicento possiamo

menzionare i concetti di potenza e di energia.

La scienza era diventata più matematica nei suoi metodi grazie all’uso più

ampio della deduzione. Intendiamo dire con ciò che aveva adottato assiomi, come

la matematica fece durante il periodo greco, e che usava questi assiomi in

connessione con gli assiomi e i teoremi della matematica, per dedurre i propri

teoremi. Possiamo chiederci: quali assiomi, oltre a quelli puramente matematici,

sono alla base ad esempio del ragionamento in fisica? Assiomi del genere sono le

leggi del moto e della gravitazione di Newton e li abbiamo visti usare nel capitolo

precedente. Un altro esempio di quello che può essere considerato un assioma

fisico è l’affermazione della conservazione dell’energia. Questo assioma è

suggerito dall’osservazione che quando l’energia viene consumata in una forma,

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riappare in un’altra. Se si usa energia muscolare per segare legna, nella sega e nel

legno ricompare energia sotto forma di calore. L’energia latente nel carbone è

usata per creare energia nella forma di elettricità. Sulla base di queste

osservazioni e di molte precise misurazioni, i fisici sono disposti ad accettare

come assiomatico il fatto che nei processi fisici e chimici l’energia non va mai

perduta ma semplicemente muta forma.

La conversione di un intero settore della scienza in una disciplina

essenzialmente matematica e l’uso crescente da parte della scienza del linguaggio,

delle conclusioni e dei procedimenti della matematica come l’astrazione e la

deduzione sono stati caratterizzati come la matematizzazione della scienza. Nel

Settecento sembrava chiaro che col tempo l’intera scienza sarebbe stata

matematizzata e che il progresso della scienza sarebbe stato sempre più rapido col

progredire dell’assorbimento della scienza da parte della matematica.

Nella loro investigazione della natura, gli scienziati del Rinascimento

cercarono e trovarono verità matematiche. La matematica era stata riconosciuta

naturalmente una fonte di tali verità fin dai tempi greci. Solo dopo il

Rinascimento, però, le leggi matematiche cominciarono a fare sull’universo

affermazioni così vaste da mettere in pericolo i titoli dei tradizionali signori

filosofici e religiosi del regno della verità. Di fatto la matematica stava rivelando

un nuovo ordine e piano razionale dell’universo, più maestoso di qualsiasi altro

mai suggerito prima. E con la matematica in piena parabola ascendente e diretta

ormai verso uno zenit di realizzazioni oltre l’immaginazione dell’uomo, sia la

filosofia sia la religione dovettero abbandonare sistemi di pensiero costruiti da

molto tempo e ricostruire alla luce del nuovo sapere matematico e scientifico.

I filosofi cominciarono la ricostruzione riproponendo l’interrogativo: in che

modo l’uomo perviene a conoscere verità? Anche i teologi si occuparono di

questo problema, poiché la nuova matematica e la scienza avevano distrutto tanta

parte di ciò che in passato era stato considerato conoscenza che, almeno fra gli

intellettuali, la fede religiosa ortodossa in Dio stava quasi scomparendo. Poiché la

dimostrazione dell’esistenza di Dio non poteva con ogni verosimiglianza derivare

da un teorema matematico o da un esperimento scientifico, alcuni videro la

necessità di trovare tale fede in una nuova teoria della conoscenza. Forse si poteva

dimostrare che il concetto di una divinità fosse innato nell’uomo e perciò

superiore a ogni dubbio.

In che modo l’uomo perviene a conoscere verità? In che modo acquisisce la

conoscenza in cui è disposto a credere ciecamente? In che modo rende ragione

della convinzione che si accompagna a tale sapere? I filosofi ponderarono questi

problemi e proposero risposte che scontentavano i teologi nella stessa misura in

cui riflettevano il nuovo modo di vedere dell’epoca.

Conformemente alle conoscenze che venivano acquisite dalla matematica e

dalla scienza, il filosofo Thomas Hobbes affermò per primo nel Leviathan (1651)

che fuori di noi c’è soltanto materia in movimento. I corpi esterni comprimono i

nostri organi di senso e, attraverso processi puramente meccanici, producono

sensazioni nel nostro cervello.

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Tutta la nostra conoscenza deriva da queste sensazioni. Una sensazione può

indugiare nel cervello perché, come tutta la materia, possiede inerzia. La

sensazione viene chiamata allora immagine. Quando una successione di immagini

arriva, ne richiama altre già ricevute, cosi come, ad esempio, l’immagine di una

mela richiama quella di un albero. Il pensiero è l’organizzazione di catene di

immagini. Specificamente, si assegnano nomi a corpi e a proprietà di corpi non

appena essi si presentano sotto forma di immagini e il pensiero consiste nel

connettere questi nomi mediante asserzioni e nel cercare le relazioni che valgono

necessariamente fra queste asserzioni. La conoscenza consiste in regolarità

scoperte dal cervello quando esso organizza e mette in relazione le asserzioni.

Ora, l’attività matematica produce per l’appunto regolarità del genere poiché

attraverso la matematica il cervello sceglie e astrae relazioni necessarie che non

sono immediatamente evidenti in oggetti fisici in quanto tali. Perciò l’attività

matematica del cervello produce una conoscenza autentica del mondo fisico e la

conoscenza matematica è verità. Di fatto, la realtà ci è accessibile solo nella forma

della matematica.

Hobbes difese con tanta energia il diritto esclusivo della matematica alla verità

che anche i matematici obiettarono. In una lettera a uno tra i massimi fisici

dell’epoca, Christiaan Huygens, il matematico John Wallis scriveva di Hobbes:

Il nostro Leviatano sta attaccando e distruggendo furiosamente le nostre università (e non

soltanto le nostre bensì tutte) e specialmente i ministri del culto e il clero e tutta la religione,

come se il mondo cristiano non possedesse alcuna conoscenza solida e nessuno che non fosse

ridicolo nella filosofia e nella religione e come se gli uomini non potessero intendere la

religione senza aver prima inteso la filosofia, né la filosofia a meno che non conoscano la

matematica.

L’accento posto da Hobbes sul carattere puramente fisico della sensazione e

dell’azione del cervello nel ragionamento scandalizzò molti filosofi per i quali la

mente era più di una massa di materia che agiva meccanicamente e che cercavano

un sostegno per concetti della religione come Dio e l’anima. Nel suo Essay

concerning Human Understanding (Saggio sull’intelletto umano), edito nel 1690,

John Locke iniziò un po’ nel senso di Hobbes, ma diversamente da Descartes,

affermando che negli uomini non ci sono idee innate; gli uomini nascono con la

mente perfettamente vuota, come una tabula rasa. L’esperienza, attraverso gli

organi di senso, scrive su quelle tavolette e produce idee semplici. Alcune idee

semplici sono copie esatte di qualità realmente presenti nei corpi. Queste qualità,

che egli chiama primarie, sono esemplificate dalla solidità, dall’estensione, dalla

figura (forma), dal moto o quiete e dal numero. Tali proprietà esistono

indipendentemente dall’esistenza di un soggetto che le percepisca. Altre idee che

sorgono da sensazioni sono gli effetti delle proprietà reali di oggetti sulla mente

ma queste idee non corrispondono a proprietà reali. Fra queste qualità secondarie

sono il colore, il sapore, l’odore e il suono.

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Benché la mente non possa inventare o immaginare alcuna idea semplice, essa

possiede la capacità di riflettere sulle idee semplici, di confrontarle e di unirle e di

formare in tal modo idee complesse. Qui Locke si allontanò da Hobbes. La mente

non conosce inoltre la realtà in sé ma soltanto idee della realtà e opera con esse.

La conoscenza concerne la connessione di idee, il loro accordo o contraddizione.

La verità consiste nella conoscenza che si adegua alla realtà delle cose.

La dimostrazione connette idee, stabilendo in tal modo verità. Fra le certezze

raggiunte dalla dimostrazione, quelle matematiche sono perfette. Locke preferiva

la conoscenza matematica perché, innanzitutto, si rendeva conto che le idee di cui

essa si occupa sono quelle più chiare e attendibili. La matematica stabilisce inoltre

relazioni fra idee mettendo in luce connessioni necessarie fra di esse e la mente

comprende tali connessioni nel modo migliore.

Locke non soltanto preferiva la conoscenza matematica del mondo fisico

prodotta dalla scienza ma rifiutò addirittura la conoscenza fisica diretta. Egli

sostenne che molti fatti concernenti la struttura della materia non sono chiari, e tra

questi comprese ad esempio le forze fisiche mediante cui gli oggetti si attraggono

o si respingono l’un l’altro. Inoltre, poiché noi non possiamo mai conoscere la

sostanza reale del mondo esterno bensì soltanto idee prodotte da sensazioni,

difficilmente la conoscenza fisica può essere soddisfacente. Egli era convinto,

nondimeno, che il mondo fisico che possiede le proprietà descritte dalla

matematica esiste, così come Dio e noi stessi.

La filosofia di Locke riflette in modo quasi perfetto i contenuti della scienza

newtoniana. La sua influenza sul pensiero popolare fu perciò enorme. La sua

filosofia pervase il Settecento quasi come quella cartesiana aveva dominato nel

Seicento.

Nelle loro teorie della conoscenza sia Hobbes sia Locke misero l’accento

primariamente sull’esistenza di un mondo di materia esterno agli esseri umani.

Mentre tutta la conoscenza derivava da questa sorgente, le verità su questo mondo

infine ottenute dalla mente, o cervello, erano le leggi della matematica. Il vescovo

George Berkeley, famoso come filosofo oltre che come ecclesiastico, individuò in

questo accento posto sulla materia e sulla matematica una minaccia alla religione

e a concetti come Dio e l’anima.6 Con argomentazioni geniali e acute egli

procedette ad attaccare sia Hobbes sia Locke e a presentare la propria teoria della

conoscenza. Nella sua opera filosofica principale, A Treatise concerning the

Principles of Human Knowledge, wherein the chief cause of error and difficulty in

the sciences, with the grounds of scepticism, atheism and irreligion, are inquired

into (Trattato sui principi della conoscenza umana, in cui si indagano le cause

principali dell’errore e delle difficoltà nelle scienze, con i fondamenti dello

scetticismo, dell’ateismo e dell’irreligione), Berkeley sferrò un attacco frontale.

Sia Hobbes sia Locke sostenevano che tutto ciò che noi conosciamo sono idee,

ma queste idee sono prodotte dall’azione di cose esterne, materiali, sulla nostra

mente. Berkeley ammise che le sensazioni o impressioni sensoriali derivino da

6 Si veda anche il prossimo capitolo.

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esse ma contestò la convinzione che esse siano causate da oggetti materiali esterni

alla mente che percepisce. Poiché noi percepiamo soltanto le sensazioni e le idee,

non c’è ragione di credere che qualche cosa sia esterna a noi stessi. In risposta

all’argomentazione di Locke secondo cui le nostre idee delle qualità primarie di

oggetti materiali ne sarebbero copie esatte, Berkeley replicò che un’idea non può

essere uguale se non a un’altra idea.

In breve, Berkeley sostenne che, poiché conosciamo soltanto sensazioni e idee

formate da sensazioni ma non conosciamo gli oggetti esterni in sé, non c’è affatto

bisogno di supporre l’esistenza di un mondo esterno. Il mondo non esiste più di

quanto esistano le stelle che vediamo quando prendiamo una botta in testa. Un

mondo esterno di materia è un’astrazione priva di significato e incomprensibile.

Se esistessero corpi esterni, noi non saremmo in grado di conoscerli; e se non ne

esistessero, avremmo le stesse ragioni che abbiamo ora di pensare alla loro

esistenza. La mente e le sensazioni sono le uniche realtà. Così Berkeley si liberò

della materia.

Il lettore può rifiutare questa conclusione e forse tentare di confutarla, come

fece Samuel Johnson, dando un calcio a un sasso dall’apparenza molto solida, ma

la logica della posizione di Berkeley non ne viene certo invalidata. Al più essa

può essere rifiutata per la ragione descritta dal conte di Chesterfield in una lettera

al figlio:

Il dottor Berkeley, vescovo di Cloyne, un uomo molto degno, geniale e dotto, ha scritto un libro per

dimostrare che la materia non esiste e che nulla esiste se non nell'idea; che tu e io abbiamo solo

l’impressione di mangiare, di bere e di dormire... Le sue argomentazioni sono, a rigore, inconfutabili;

eppure io sono così lontano dall’esserne convinto che sono deciso a continuare a mangiare e a bere, ad

andare a passeggio e a cavalcare al fine di mantenere quella materia da cui immagino così erroneamente

che il mio corpo sia attualmente composto nella migliore condizione possibile. Il buon senso (che pur

essendo detto spesso senso comune è in verità poco comune) è il miglior senso che conosco.

Bisogna confessare che lo stesso Berkeley non disdegnava contatti occasionali

col mondo fisico la cui esistenza egli negava. La sua ultima opera, intitolata Siris:

A Chain of Philosophical Reflections concerning the Virtues of Tar-Water,

raccomandava di bere acqua in cui fosse stato immerso catrame come cura contro

il vaiolo, la consunzione, la gotta, la pleurite, l'asma, l’indigestione e molte altre

infermità. Tali errori occasionali non devono essere usati come argomenti contro

Berkeley. Il lettore che consulti i deliziosi Dialogues of Hylas and Philonous

(Dialoghi fra Hylas e Philonous) vi troverà una difesa estremamente abile e

piacevole della filosofia di Berkeley. In ogni modo, privando il materialismo della

sua materia, Berkeley riteneva di essersi liberato del mondo fisico e, con esso,

della scienza newtoniana.

Ma Berkeley doveva ancora fare i conti con la matematica. Com’è possibile

che la mente riesca a ottenere leggi che non soltanto descrivono ma anche

predicono il corso del mondo esterno? Che cosa si poteva fare per opporsi alla

credenza settecentesca, fortemente stabilita, nelle verità su un mondo esterno

offerte dalla matematica?

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Egli procedette alla demolizione della matematica e fu abbastanza accorto da

attaccarla nel suo punto più debole. Il concetto fondamentale del calcolo

infinitesimale è quello del ritmo istantaneo di variazione di una funzione; ma,

come abbiamo detto in precedenza, questo concetto non fu inteso chiaramente e

perciò non fu presentato in modo irreprensibile né da Newton né da Leibniz.

Berkeley poté quindi attaccarlo con buone ragioni e con convinzione. In The

Analyst, del 1734, indirizzato a un matematico miscredente, egli non misurò certo

le parole. I ritmi istantanei di variazione furono da lui condannati in quanto “né

quantità finite né quantità infinitamente piccole né infine alcunché.” Questi ritmi

di variazione non erano altro che “gli spiriti di quantità svanite. Certo... colui che

riesce a digerire una seconda o una terza flussione [il nome tecnico adottato da

Newton per indicare il ritmo istantaneo di variazione] ... non ha bisogno, mi pare,

di essere schifiltoso su alcun punto della teologia.” Che il calcolo infinitesimale si

dimostrasse ciò nondimeno utile era spiegato da Berkeley col fatto che in qualche

modo gli errori si compensavano a vicenda. Benché le critiche di Berkeley al

calcolo infinitesimale fossero a quell’epoca giustificate, di fatto egli non si era

liberato di tutte le verità prodotte dalla matematica sul mondo fisico. Nondimeno,

avendo dato ai suoi avversari di che pensare, fissò su questo punto la sua

opposizione alla matematica.

La filosofia di Berkeley sembrerebbe essere tanto radicale quanto il pensiero

può esserlo sull’argomento della relazione dell’uomo al mondo fisico. Ma lo

scettico scozzese David Hume pensò che Berkeley non si fosse spinto abbastanza

avanti. Berkeley aveva accettato una mente pensante in cui esistevano le

sensazioni e le idee. Hume negò anche la mente. Nel suo Treatise of Human

Nature (Trattato sulla natura umana) (1739-1740) egli affermò che noi non

conosciamo né la mente né la materia. Entrambe sono finzioni. Noi non

percepiamo né l’una né l’altra: ciò che percepiamo sono solo impressioni

(sensazioni) e idee come immagini, ricordi e pensieri, che sono tutt’e tre solo

deboli effetti di impressioni. Esistono, è vero, impressioni e idee sia semplici sia

complesse, ma le ultime sono soltanto combinazioni di impressioni e idee

semplici. Si può perciò asserire che la mente è tutt’uno con il nostro insieme di

impressioni e di idee. Essa non è altro che un termine conveniente per dare un

nome a questo insieme.

A proposito della materia, Hume era d’accordo con Berkeley. Chi ci garantisce

che esista un mondo permanente di oggetti solidi? Tutto ciò che conosciamo sono

le nostre impressioni di un tale mondo. Per associazione di idee, mediante

somiglianza e contiguità per ordine o posizione, la memoria ordina il mondo

mentale delle idee così come la gravitazione presume di ordinare il mondo fisico.

Lo spazio o il tempo sono soltanto un modo e un ordine in cui le idee ci si

presentano. Analogamente, la causalità è soltanto una connessione abituale di

idee. Né lo spazio né il tempo né la causalità sono realtà oggettive. Credendo in

tali realtà, siamo ingannati dalla forza e dalla costanza delle nostre idee.

L’esistenza di un mondo esterno dotato di proprietà costanti è in realtà

un’inferenza ingiustificata. Non esiste alcuna prova dell’esistenza di qualcosa al

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di là di impressioni e idee, le quali non appartengono a nulla e non rappresentano

nulla. Perciò non possono esistere leggi scientifiche concernenti un mondo fisico

oggettivo, permanente: tali leggi hanno semplicemente il significato di compendi

convenienti di impressioni. Poiché inoltre l’idea di causalità si fonda non su prove

scientifiche ma semplicemente su un abito mentale risultante dalla frequente

osservazione dell’ordine comune degli “eventi”, non abbiamo alcun modo di

sapere con certezza che le successioni che abbiamo osservato si ripresenteranno.

L’uomo stesso è solo un aggregato isolato di percezioni, ossia di impressioni e

di idee. Egli esiste solo in quanto tale. Ogni tentativo da parte sua di percepire se

stesso ha come risultato solo una percezione. Tutti gli altri uomini e il supposto

mondo esterno sono per ogni uomo solo percezioni e non c’è alcuna certezza che

esistano. Soltanto un ostacolo si opponeva allo scetticismo radicale di Hume,

ossia l’esistenza delle verità generalmente riconosciute della matematica pura.

Non potendo demolire queste verità, egli procedette a svuotarne il valore. I

teoremi della matematica pura, egli asserì, non sono altro che affermazioni

ridondanti, ripetizioni inutili di un medesimo fatto in modi diversi. Il 2 2 = 4

non è un fatto nuovo. Di fatto 2 2 è soltanto un altro modo di dire o scrivere 4.

Questa e altre affermazioni in aritmetica sono pure tautologie. Quanto ai teoremi

della geometria, essi non sono altro che ripetizioni in forma più elaborata degli

assiomi, i quali hanno a loro volta tanto significato quanto 2 2 = 4.

La soluzione data dunque da Hume del problema di come l’uomo ottenga la

verità è che egli non può ottenerla. Né i teoremi della matematica né l’esistenza di

Dio né l’esistenza del mondo esterno né la causalità né la natura né i miracoli

costituiscono verità. Hume distrusse così col ragionamento quanto il

ragionamento aveva costruito, mentre, nello stesso tempo, rivelava i limiti della

ragione.

L’opera di Hume non soltanto invalidava gli sforzi e i risultati della scienza e

della matematica ma sfidava il valore della ragione stessa. Alcuni filosofi, come

Rousseau, ne trassero l’inferenza ovvia, raccomandando l’abbandono della

ragione a favore di un approccio immaginativo e intuitivo alla vita. Per essi la

ragione era una forma di autoinganno, un’infelice illusione. L’uomo pensante non

era altro, dopo tutto, che un animale malato.

Ma una tale conclusione, una tale negazione della massima facoltà umana, era

inaccettabile per la maggiore parte dei pensatori del Settecento. La matematica e

altre manifestazioni della ragione umana avevano ottenuto tanti risultati da non

poter essere messe semplicemente da parte come aberrazioni. Il filosofo supremo

Immanuel Kant espresse di fatto la sua opposizione all’ingiustificata estensione, a

opera di Hume, della teoria gnoseologica di Locke. La ragione doveva essere

rimessa in trono. A Kant appariva indubitabile che l’uomo possiede idee e verità

che vanno al di là di mere amalgamazioni dell’esperienza sensoriale.

Kant intraprese perciò un approccio interamente nuovo al problema di come

l’uomo ottiene verità. Il suo primo passo consisté nel distinguere fra due tipi di

asserzioni o giudizi che ci danno la conoscenza. Il primo tipo, che egli chiamò

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giudizi analitici e che è esemplificato dalla proposizione “tutti i corpi sono estesi”,

non contribuisce in modo reale alla conoscenza. L’affermazione che i corpi sono

estesi è semplicemente l’asserzione esplicita di una proprietà che i corpi hanno

per il semplice fatto di essere corpi e non dice nulla di nuovo. Perciò non

impariamo nulla quando ci viene detto che i corpi sono estesi, anche se tale

affermazione può forse servire a dare maggior enfasi al fatto. D’altra parte,

l’asserzione che tutti i corpi hanno un colore aggiunge qualcosa di nuovo alla

nostra conoscenza poiché aggiunge alla nostra informazione sui corpi un fatto che

non è inerente alla loro natura in quanto corpi. I giudizi di questo tipo furono

chiamati da Kant giudizi sintetici. Kant distinse anche fra la conoscenza ottenuta

direttamente dall’esperienza e la conoscenza ottenuta in qualche modo dalla

mente indipendentemente dall’esperienza. Quest’ultimo tipo di conoscenza fu da

lui chiamato a priori.

Secondo Kant, la verità non può provenire dalla sola esperienza poiché

l’esperienza è un miscuglio di sensazioni, privo di concetti e di organizzazione.

Le semplici osservazioni non forniranno perciò verità. Le verità, se esistono,

devono essere giudizi a priori e inoltre, per essere conoscenza autentica, devono

essere giudizi sintetici. Opponendosi a Hume e a Rousseau, Kant dimostrò

innanzitutto che l’uomo possiede verità, ossia giudizi sintetici a priori.

Una prova evidente era disponibile nel corpo della conoscenza matematica.

Quasi tutti gli assiomi e i teoremi della matematica erano per Kant giudizi

sintetici a priori. La proposizione che la linea retta è la distanza più breve fra due

punti è certamente sintetica poiché combina due idee, la rettilinearità e la distanza,

nessuna delle quali è implicata nell’altra. Essa è però anche a priori poiché né

l’esperienza con linee rette e neppure misurazioni potrebbero assicurare la verità

invariabile e universale che Kant associava a questa proposizione. Per Kant non

era perciò affatto dubbio che l’uomo possa avere giudizi sintetici a priori, ossia

verità autentiche.

Ma Kant gettò lo scandaglio ancora più in profondità. Perché, si chiese, era

disposto ad accettare come una verità l’asserzione che la linea retta è la distanza

più breve fra due punti? Come è possibile per la mente conoscere verità del

genere? Si potrebbe dare una risposta a questa domanda se si potesse rispondere

alla domanda di come sia possibile la matematica. La risposta data da Kant è che

la nostra mente possiede, indipendentemente dall’esperienza, le forme dello

spazio e del tempo. Kant chiamò queste forme intuizioni. Lo spazio è perciò

un’intuizione attraverso la quale la mente “vede” il mondo fisico al fine di

organizzare e comprendere le sensazioni. Poiché l’intuizione dello spazio ha la

sua origine nella mente, certi assiomi sullo spazio sono immediatamente

accettabili alla mente. La geometria procede quindi a esplorare le implicazioni

logiche di questi assiomi.

Perché allora i teoremi della geometria, che sono costrutti mentali, si applicano

al mondo fisico, esterno alla nostra mente? La risposta di Kant è che la forma

dello spazio che la mente possiede sotto forma di intuizione pura è l’unico modo

in cui essa può comprendere le relazioni spaziali. Noi percepiamo, organizziamo e

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comprendiamo l’esperienza in accordo con questa forma spaziale; l’esperienza si

adatta cioè a questa forma come una pasta a uno stampo. Per questa ragione

dev’esserci un accordo fra la geometria euclidea e la nostra esperienza con figure

fisiche.

Più in generale, Kant argomentò che il mondo della scienza é un mondo di

impressioni sensoriali organizzate dalla mente in accordo con principi o categorie

innati. Le impressioni sensoriali si originano in un mondo reale ma purtroppo

questo mondo è inconoscibile. La mente stessa fornisce l’organizzazione e la

comprensione dell’esperienza. La realtà può essere conosciuta solo nei termini

delle categorie soggettive fornite dalla mente che percepisce.

Da questa succinta esposizione della teoria kantiana della conoscenza è

evidente che Kant fece dell’esistenza di verità matematiche un pilastro centrale

della sua filosofia. In particolare, egli faceva assegnamento sulle verità della

geometria euclidea. La sua incapacità a concepire alcun’altra geometria lo

convinse del fatto che non potesse essercene un’altra. Furono così giustificate le

verità di Euclide e l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori.

Purtroppo la creazione ottocentesca, la geometria non euclidea, distrusse le

argomentazioni di Kant. Né il problema di come l’uomo può raggiungere verità

ottenne una soluzione definitiva da contributi successivi del pensiero filosofico.

Di fatto, come vedremo più avanti, l’argomento fu reso ancora più intricato dai

creatori delle geometrie non euclidee. Ma benché i grandi pensatori settecenteschi

non riuscissero a risolvere il problema di come l’uomo pervenga a conoscere

verità, essi aprirono almeno gli sbarramenti che si frapponevano al pensiero e

permisero a nuove idee di fluire liberamente nella mente dell’umanità.

Benché i filosofi settecenteschi fossero in energico disaccordo fra loro sulla

questione di come l’uomo pervenga a conoscere verità, c’era ben poco contrasto

fra loro su che cosa sia vero. Poiché le leggi del moto e della gravitazione

estendevano il loro dominio su un numero sempre maggiore di fenomeni e poiché

i pianeti, le comete e le stelle continuavano a seguire traiettorie descritte con tanta

precisione dalla matematica, l’assunto di Descartes e di Galileo che l’universo sia

interpretabile in termini di materia, forza e movimento divenne una convinzione

nella mente di quasi tutti gli europei pensanti.

Poiché la materia in moto era la chiave per una descrizione matematica dei

corpi cadenti e del moto dei pianeti, gli scienziati stessi tentavano di estendere una

tale spiegazione materialistica a fenomeni la cui natura non comprendevano

affatto. Il calore, la luce, l’elettricità e il magnetismo erano considerati tipi di

materia imponderabili, dove imponderabile significa semplicemente che le densità

di questi tipi di materia erano troppo piccole per poter essere misurate. La materia

del calore, ad esempio, fu chiamata calorico. Si supponeva che un corpo

riscaldato si imbevesse di questa materia così come una spugna si imbeve

d’acqua. L’elettricità era, analogamente, materia allo stato fluido e quel fluido che

scorre nei fili era la corrente elettrica.

Dei tre concetti di materia, forza e moto, la forza agiva sulla materia e il moto

era una proprietà della materia; la materia era perciò fondamentale. I filosofi

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proclamarono perciò che la materia si comporta in accordo con leggi matematiche

immutabili e che essa è la sola realtà. Questa è la dottrina del “materialismo”.

Hobbes la espresse nella sua forma più cruda:

L’universo, ossia l’intera massa di tutte le cose che sono, è corporeo, ossia è corpo, e ha le

dimensioni della grandezza, ossia lunghezza, larghezza e profondità; ogni parte del corpo è

inoltre, similmente, corpo, e ha le dimensioni analoghe, e dì conseguenza ogni parte

dell’universo è corpo, e ciò che non è corpo non è parte dell’universo; e poiché l’universo è

tutto, ciò che non è parte di esso non è nulla, e di conseguenza non è in alcun luogo.

Il corpo, egli continuava, è qualche cosa che occupa spazio, che è divisibile e

mobile e si comporta matematicamente.

Si può dire pertanto che il materialismo vede nella realtà semplicemente una

macchina complessa, un meccanismo di oggetti che si muovono nello spazio e nel

tempo. Poiché l’uomo stesso fa parte della natura fisica, tutto dell’uomo

dev’essere spiegabile in termini di materia, moto e matematica. Nel linguaggio di

Hobbes, tutto ciò che esiste è materia; tutto ciò che accade è movimento; la

coscienza è semplicemente l’urto di particelle materiali sulla sostanza cerebrale.

Altri esponenti della nuova filosofia, come La Mettrie, il cui Homme machine

affermò questa tesi nel modo più netto, e il barone d’Holbach, il cui libro Le

système de la nature fu chiamato la Bibbia del materialismo, andarono ancor

oltre. Il pensiero, così come la coscienza, fu considerato un moto molecolare. La

mente non può essere distinta dal cervello e perisce con esso. Il concetto di una

“sostanza” non fisica come l’anima dev’essere rifiutato completamente. Lo stato

morale dell’uomo è soltanto un aspetto speciale del suo stato fisico, un modo

d’azione particolare causato dalla sua organizzazione e dall’ambiente fisico.

Soltanto i pregiudizi ci impediscono di esaminare le influenze che determinano il

nostro comportamento morale. In sintesi, la materia é la causa e la spiegazione di

tutti i fenomeni ed è la sorprendente alternativa a Dio.

Prima di esaminare le conseguenze dirompenti del materialismo, dovremmo

cercare di chiarire quale sia la fonte della sua forza. L’attività scientifica

dell’osservazione e sperimentazione, oltre ai concetti scientifici di materia, forza e

moto, si combinarono con la matematica pura per produrre le prove a sostegno

della dottrina. Parrebbe però che una dottrina che asserisce la realtà fondamentale

della materia dovrebbe fondarsi più su basi scientifiche che su basi matematiche.

Eppure, come comprese chiaramente Newton, la forza del movimento

materialistico risiede non nella solida materia bensì nelle astrazioni immateriali

dell’eterea matematica. L’intero sistema della scienza naturale, fondato da Galileo

e da Descartes ed eretto da Newton, si fondava sulla forza universale della

gravitazione. Benché Newton avesse reso indispensabile la teoria di questa forza

universale, ammise di non conoscerne la natura. Di fatto egli sottolineò la

necessità di investigarne la natura fisica e il modus operandi, rifiutando come

premature e vaghe le sue stesse congetture sull’argomento. Con profetica

lungimiranza egli aderì rigorosamente alla formulazione matematica dell’azione

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della gravità e alle conseguenze matematiche della formulazione. La matematica

era il segno in cui Newton condusse la sua conquista.

Ovviamente Newton e i suoi successori si attendevano che un giorno o l’altro si

pervenisse alla spiegazione fisica dell’azione della gravità. Taluni famosi

scienziati, come Huygens, Leibniz e Johann Bernoulli, si resero conto quanto

meno del fatto che una spiegazione mancava e che proprio a causa di questa

lacuna sul piano della teoria fisica essi erano costretti a trattare il comportamento

della gravità in modo totalmente matematico. Nel frattempo scienziati minori si

riferirono alla gravitazione come a un’“azione a distanza”, come se l’espressione

potesse sostituire in qualche modo una spiegazione fisica. Poco a poco la costante

ripetizione delle parole “azione a distanza”, le quali si limitavano semplicemente

a passar sopra il problema, attenuò la sensibilità critica facendo accettare la frase

come il surrogato di una spiegazione. Il significato fisico fu costretto e sacrificato

sull’altare della fecondità matematica. La natura e il modus operandi della forza

di gravitazione non furono mai spiegati.

Per questa ragione i materialisti che, per secoli dopo Newton, parlarono in

modo così disinvolto e sicuro dei fenomeni solidi, tangibili e osservabili della

natura, stavano di fatto proclamando al tempo stesso l’importanza di una nozione

più mistica e oscura della transustanziazione. Vantando il progresso della

concezione materialistica nella scienza, essi sottolineavano inconsapevolmente

l’importanza delle leggi matematiche poiché la filosofia materialistica, che

sembra derivare la sua forza principalmente dal trattamento scientifico della

materia, di fatto la deriva dalla matematica, la più astratta delle astrazioni

scientifiche. Il pitagorismo, con la sua enfasi sulle relazioni numeriche come

realtà ultima, veniva giustificato sotto l’aspetto del materialismo.

Nonostante che il materialismo disponesse solo di una base materiale

inadeguata, la convinzione che l’universo potesse essere spiegato completamente

in rapporto ai concetti meccanici di forza, materia e moto e delle loro relazioni

matematiche acquistò una tale presa sulle menti da divenire un luogo comune di

moda. Tale convinzione è ancora condivisa da molti che seguono,

consapevolmente o meno, il punto di vista degli immediati successori di Newton.

Essa è spesso espressa anche oggi benché sia divenuto chiaro che la natura è

molto più complessa di quanto non ritenessero gli scienziati meccanicisti del

Settecento. Essa è alla base della convinzione ottocentesca della perfettibilità

scientifica e della soluzione ultima di tutti i problemi, come la cura del cancro e la

creazione della vita con mezzi chimici.

Corollario del materialismo settecentesco fu il determinismo. Le formule

matematiche fornivano descrizioni veridiche di tanti fenomeni e si dimostrarono

tanto utili in applicazioni da rendere inevitabile la conclusione che il mondo fosse

stato progettato con precisione e che operava in accordo con queste formule. Il

corso del mondo appariva determinato interamente da leggi matematiche

armoniche, le quali prescrivevano per ogni evento un evento necessario che

doveva conseguirne. I principali esponenti di questa concezione furono i brillanti

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matematici settecenteschi Lagrange e Laplace. Per Laplace il futuro era leggibile

altrettanto chiaramente quanto il passato.

Possiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa

del suo futuro. Un intelletto che conoscesse in ogni momento tutte le forze che animano la

natura e le posizioni reciproche degli esseri che lo compongono, se fosse abbastanza vasto da

sottoporre ad analisi i suoi dati, potrebbe condensare in una sola formula il movimento dei

massimi corpi dell’universo e quello dell’atomo più leggero: per un tale intelletto nulla

potrebbe essere incerto, e il futuro sarebbe presente dinanzi ai suoi occhi esattamente come il

passato.

L’Età della ragione è ormai conclusa. In filosofia abbiamo fatto grandi

progressi dal Settecento. Il determinismo continua però a essere il punto di vista

più diffuso. L’opinione più comune è che il mondo sia costruito in accordo con

leggi matematiche e che il suo futuro sia determinato da esse. Possiamo farci

un’idea della convinzione con cui la gente considera ancora questa dottrina

osservando il nostro stesso comportamento, che è in gran parte un riflesso del

pensiero settecentesco. Consideriamo, ad esempio, la reazione moderna a

un’eclisse. A differenza delle popolazioni primitive, non ci precipitiamo

all’aperto, non ci inginocchiamo tremando e non preghiamo gli dei perché

allontanino da noi la calamità presagita dall’evento incombente. Usciamo invece

con cronometri per verificare fino alla frazione di secondo la predizione che gli

scienziati hanno fatto dell’eclisse. Alla conclusione di tali eventi siamo ancor più

convinti della regolarità e della legalità del comportamento della natura.

Il punto di vista deterministico era così consolidato che i materialisti lo

applicavano persino alle azioni dell’uomo come parte della natura. Il

determinismo applicato all’uomo dichiara spietatamente: non esiste libero

arbitrio. La volontà umana è determinata da cause esterne, fisiche e fisiologiche.

Su quest’argomento Hobbes fu schietto ed esplicito: il libero arbitrio è una vuota

accozzaglia di parole, un’assurdità priva di significato. E Voltaire affermava nel

suo Philosophe ignorant:

Sarebbe davvero singolare che tutta la natura, tutti i pianeti, dovessero obbedire a leggi

eterne e che esistesse un piccolo animale, alto cinque piedi, che, in dispregio di queste leggi,

potesse agire a suo piacimento, unicamente in accordo al suo capriccio.

Questa conclusione era così sgradevole che persino i materialisti cercarono di

mitigarne la severità. Alcuni dissero che benché le azioni del corpo siano

determinate, i pensieri non lo sono. Questa risoluzione non era troppo confortante

perché assoggettava al determinismo i pensieri che conducono all’azione.

Secondo questa concezione, l’uomo è ancora un automa. Altri reinterpretarono il

significato della libertà in modo da conservarne una qualche parvenza. Voltaire

affermava elusivamente: “Essere liberi significa poter fare ciò che ci piace, non

poter volere ciò che ci piace.” Evidentemente, per esser liberi deve piacerci ciò

che vogliamo. Questa tesi poco felice fu sostenuta anche da Leibniz.

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Con un atto volontario interromperemo la discussione di questo problema. Gli

argomenti più significativi pro e contro il libero arbitrio che sono stati presentati

finora dai filosofi potranno essere capiti a fondo soltanto dopo che avremo

passato in rassegna alcuni fra gli sviluppi matematici più recenti. Per il momento

possiamo ottenere qualche indicazione del successo di incursioni matematiche nel

territorio della filosofia dall’osservazione del famoso fisico ottocentesco Lord

Kelvin, secondo cui “la matematica è l’unica buona metafisica.”

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XVII. L’influenza newtoniana: la religione

E come un giorno dal monte Sinai

Dio disse d’esser Uno,

oggi attraverso la scienza a noi

dice: Non c’è nessuno!

Muove la chimica la terra, è il cielo

meccanica celeste.

Spirito e mente nell’uomo sono

materia come il resto!

ARTHUR CLOUGH

Giordano Bruno aveva dichiarato che l’uomo non è più di una formica al

cospetto dell’infinito. A questa sfida alla dottrina cristiana secondo cui l’uomo

rappresenta il culmine della creazione e l’oggetto principale delle cure e della

sollecitudine di Dio si poteva rispondere nel Seicento soltanto in un modo: la

morte sul rogo. Il mondo della scienza venne in aiuto di Giordano Bruno con un

secolo di ritardo.

Man mano che, nel secolo seguente, venivano scoperte nuove leggi, tanto più la

natura appariva glorificata e la posizione dell’uomo più modesta. Il regno

matematico e meccanico dell’estensione e del moto si presentava come il mondo

reale mentre l’uomo come una propaggine accidentale e uno spettatore irrilevante.

Il fatto che la mente dell’uomo si fosse insinuata nel cuore dei fenomeni e avesse

escogitato le leggi matematiche che descrivevano e razionalizzavano la natura

passò sotto silenzio. L’accento fu posto di fatto sull’esistenza di leggi, mentre

l’uomo fu disprezzato perché la sua mente limitata era capace di individuarle solo

in modo graduale. In effetti la natura veniva letta lentamente, ma l’uomo veniva

considerato esterno alla natura. Era evidente che l’universo non teneva in alcuni

conto i fini, i desideri o i bisogni umani. Le buone intenzioni di Dio verso l’uomo

nei suoi progetti e nella sua organizzazione dell’universo apparivano una nozione

infondata, giustificata non più solidamente di un mito.

Come per l’uomo, così per Dio. L’èra newtoniana creò la meccanica celeste ma

distrusse il cielo, la sede di Dio e la dimora finale delle anime umane privilegiate.

L’opera di Copernico, di Keplero e di Galileo sulla teoria eliocentrica dimostrò

non soltanto che il cielo è governato da leggi matematiche più semplici di quelle

indicate dalla teoria tolemaica ma costrinse anche ad abbandonare le concezioni

ingenue sul cosmo che erano state integrate nella filosofia aristotelica e tomistica

e che erano state assunte dal cristianesimo. Più tardi Newton dimostrò che i corpi

celesti seguono le medesime leggi che osservano i corpi sulla Terra. Appariva

dunque certo che i corpi celesti fossero fatti della stessa materia che costituiva la

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Terra. Questa scoperta abolì gran parte del mistero così come dei timori e delle

superstizioni associati ai pianeti.

Dio perse non soltanto la sua sede bensì anche la sua importanza. Per Descartes

era già chiaro che Dio, l’onnipotente, non poteva abolire l’estensione o le leggi

del moto. Newton, con Descartes, riconobbe a Dio l’atto della creazione ma ne

limitò le funzioni quotidiane. Dio impediva alle stelle di cadere l’una contro

l’altra e correggeva le irregolarità che insorgono nel moto dei pianeti e delle

comete. Huygens e Leibniz limitarono ancor più la funzione di Dio. Anch’essi gli

attribuirono l’atto iniziale della creazione; in tale circostanza egli aveva anche

stabilito l’ordine matematico dell’universo. Successivamente, tuttavia, le sue

relazioni attive col mondo cessavano. Di fatto era un insulto a Dio credere che la

sua creazione avesse bisogno di rettifiche.

In realtà Huygens e Leibniz ignoravano osservazioni astronomiche di

irregolarità che erano a quell’epoca inspiegate. Queste aberrazioni apparenti dalla

legge matematica, che Newton riteneva potessero compromettere l’equilibrio

dell’universo e richiedere l’intervento di Dio, divennero parte costitutiva

dell’ordine della natura quando Lagrange e Laplace dimostrarono che erano

semplicemente variazioni periodiche. L’universo era stabile; in esso non c’era

posto per il capriccio o per il caso. Con questo magistrale coronamento

matematico anche le misure correttive in precedenza richieste a Dio venivano rese

inutili e Dio veniva privato di un’altra funzione. Di fatto l’intervento della

Provvidenza negli affari della natura diventava impossibile mentre la preghiera

per l’intercessione a favore dell’uomo appariva futile.

Non molto tempo dopo Dio sarebbe stato reso del tutto inutile poiché Hume

attaccò la causalità e, di conseguenza, il bisogno di un creatore, o primo motore,

dell’universo. Il mondo divenne una macchina eterna, infinita, capace di muoversi

da sé, che esisteva già prima che esistesse quell’essere insignificante che era

l’uomo e che non serviva ad alcun fine evidente, tranne forse quello di deliziare i

matematici che scoprivano in modo lento ma sicuro i principi che lo

controllavano. Cosi Dio, che nel pensiero medievale non era semplicemente un

carpentiere cosmico ma il fine di ogni pensiero, attività e proposito nell’universo,

fu ridotto, nel caso migliore, solo a un mezzo in vista del conseguimento di un

fine; il fine stesso divenne l’operazione regolare, esatta di tutti i processi

dell’universo.

Non soltanto il contenuto ma anche lo spirito che impregnò le grandi opere

matematiche e scientifiche del Seicento e del Settecento minacciò il pensiero

religioso. Venendo esaltata la ragione, la fede fu screditata come una garante

assurda del vero e fu etichettata come credulità. La critica del razionalismo

disperse inoltre gran parte del mistero e del richiamo emotivo delle religioni

ortodosse, L’emozione stessa fu guardata con disapprovazione e considerata

sospetta. Il materialismo sommerse lo spiritualismo, distrusse l’anima e la sua vita

futura e svuotò l’enfasi cristiana sulla preparazione all’altra vita. Il determinismo

sfidò il libero arbitrio, giustificò i peccati dell’uomo e rimosse perciò il bisogno

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della salvezza. Su tutti i fronti di battaglia la religione e il newtonianesimo si

affrontarono come contendenti.

Questo orientamento era contrario ai desideri e alle intenzioni dei grandi

scienziati seicenteschi, che erano uomini timorati di Dio. La loro opera scientifica

era un’espressione di sentimento religioso in quanto essi studiavano la natura per

percepire in essa le leggi e l’ordine divini. Per parafrasare James Thomson, essi

cercarono, prendendo l’avvio dalle semplici leggi del moto, di scoprire la mano

segreta della Provvidenza operante nell’universo. Ognuno dei grandi scienziati del

Seicento possedeva una combinazione di genio scientifico e matematico e di

ortodossia religiosa che oggi sono considerati incompatibili e possibili solo in un

periodo di transizione. Quando però questi uomini si resero conto della minaccia

che la loro opera poteva costituire per le convinzioni religiose, tentarono di

riconciliare le loro affermazioni intellettuali e spirituali. Robert Boyle, il padre

famoso della chimica moderna, dedicò gran parte del tempo da lui non trascorso

in laboratorio alla religione. Egli considerò anche il suo lavoro sperimentale come

un modo di servire Dio. Nel suo testamento lasciò fondi per combattere gli atei,

gli scettici e altri infedeli. Isaac Barrow, l’insegnante di Newton, si dimise per

dedicarsi a studi teologici. Lo stesso Newton si dedicò alla teologia e considerò il

consolidamento delle basi della religione più importante della sua attività

matematica e scientifica, poiché quest’ultima era limitata alla scoperta del disegno

divino nel solo mondo naturale. A tale fine contribuì con alcuni studi i quali

tentavano di dimostrare che le profezie di Daniele e la poesia dell’Apocalisse

avevano un senso e di armonizzare i dati dell’Antico Testamento con quelli della

storia. Egli giustificò spesso il lavoro scientifico duro e, a volte, arido solo perché

costituiva un sostegno per la religione fornendo prove dell’esistenza dell’ordine

divino nell’universo. La scienza era un’impresa altrettanto pia dello studio delle

Scritture.

Eloquentissima è l’esposizione newtoniana dell’argomento classico

dell’esistenza di Dio:

Lo scopo principale della filosofia naturale consiste nell’argomentare da fenomeni senza

fingere ipotesi e nel dedurre cause da effetti, fino ad arrivare alla primissima causa, la quale non

è certamente meccanica... Che cosa c’è in posti quasi vuoti di materia e a che cosa si deve il

fatto che il Sole e i pianeti gravitino gli uni verso gli altri, senza che esista materia densa fra di

loro? Da dove deriva il fatto che la natura non fa nulla invano, e da che cosa scaturiscono tutto

l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo? A qual fine esistono le comete e da che cosa

deriva il fatto che i pianeti si muovono tutti nella stessa direzione in orbite concentriche, mentre

le comete si muovono in tutte le direzioni in orbite molto eccentriche, e che cosa impedisce alle

stelle fisse di cadere le une sulle altre? In che modo i corpi degli animali vennero a essere

progettati con tanta arte, e a quali fini furono destinate le loro varie parti? L’occhio fu

progettato senza alcuna abilità nel campo dell’ottica e l’orecchio senza alcuna conoscenza dei

suoni? In che modo i movimenti del corpo seguono alla volontà e donde deriva l’istinto negli

animali? ... E poiché tutte queste cose sono sistemate nel modo giusto, non appare forse dai

fenomeni che esiste un essere incorporeo, vivo, intelligente, onnipresente, il quale, nello spazio

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infinito, come nel suo sensorio, vede intimamente le cose stesse e le percepisce in modo totale;

e le comprende interamente mediante la loro presenza immediata a se stesso?

Nella seconda edizione dei Principia, Newton rispose alle sue stesse domande:

Questo sistema bellissimo del Sole, dei pianeti e delle comete potrebbe procedere solo dal

consiglio e dal dominio di un essere intelligente e potente. Quest’Essere governa tutte le cose,

non in qualità di anima del mondo bensì di Signore supremo di tutto.

L’Hymn di Joseph Addison formulò gli argomenti di Newton in termini poetici:

Lo spazioso firmamento,

l’alto, azzurro, etereo cielo

e la notte risplendente

l’alta origine proclamano.

Ogni giorno il Sol dispiega

il potere del creatore

e rivela a ogni paese

l’opra dell’Onnipotente...

Cosa importa se in silenzio

il terrestre oscuro globo

compie la sua rotazione

e se voce alcuna o suono

fra i radianti orbi non s’ode?

Della muta armonia lieti

che provien dalla ragione,

con gloriosa voce cantano

e splendor vivo: “Divina

è la man che ci ha creati.”

Newton era convinto anche del fatto che Dio fosse un abile matematico e

fisico. In una sua lettera egli dice:

La creazione di questo sistema [solare], perciò, con tutti i suoi moti, richiedeva una causa

che capisse e paragonasse insieme le quantità della materia nei vari corpi del Sole e dei pianeti,

e le potenze gravitazionali che ne risultavano; le varie distanze dei pianeti primari dal Sole, e di

quelli secondari [cioè i satelliti] da Saturno, da Giove e dalla Terra; e le velocità con cui questi

pianeti potevano rivolgersi attorno a quelle quantità di materia nei corpi centrali; e la

comparazione e l’aggiustamento di tutte queste cose insieme in una così grande varietà di corpi

presuppone che la causa non sia cieca o fortuita ma molto abile in meccanica e in geometria.

Leibniz scrisse molti articoli e libri per combattere la diffusa apostasia. La sua

Confessio Naturae contra atheistas cerca di dimostrare che l’ipotesi dell’esistenza

di Dio spiega taluni aspetti dei fenomeni naturali meglio di quanto non facciano la

descrizione scientifica in termini di materia, forza e moto, mentre i suoi Essais de

Théodicée riformulano l’argomento familiare secondo cui Dio è l’intelligenza che

ha creato questo mondo progettato con tanta cura.

La difesa della religione da parte di Boyle, di Newton, di Leibniz e di altri non

rimase senza effetto. Le persone che erano disposte favorevolmente nei confronti

della religione provarono un grande entusiasmo. Dio, il creatore, aveva costruito

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un ciclo e una Terra più grandi di quanto l’uomo avesse mai sognato, un universo

che operava infallibilmente in accordo con leggi matematiche meravigliosamente

precise. Queste leggi rivelavano inoltre nuovi aspetti della natura divina, in

entrambi i sensi dell’espressione. Tali manifestazioni della maestà di Dio

potevano soltanto rinnovare la fede e dare un ulteriore motivo per esultare in essa.

Gli sforzi di questi uomini erano nondimeno votati all’insuccesso. Benché

matematici e scienziati affermassero e difendessero l’esistenza di Dio e

dell’anima, questi concetti venivano presentati come astrazioni intellettuali e non

come convinzioni profondamente sentite. Per accettare tali entità, la mente doveva

conoscerle in modo altrettanto chiaro e distinto di come conosceva le conclusioni

matematiche. Poiché Dio non era noto con tanta distinzione, ne seguiva la sua

inesistenza. La storia, almeno, scelse questa implicazione invece di quella che

Boyle, Newton e Leibniz avevano inteso sostenere nei loro scritti teologici.

Le loro opere non riuscirono ad arginare la marea che invase ampie parti degli

edifici religiosi esistenti. L’ingenua speranza che la filosofia meccanicistica della

natura proposta da Descartes e da Galileo e sviluppata da Boyle, Newton e

Leibniz avrebbe fornito una prova permanente dell’esistenza di un divino creatore

e avrebbe perciò sostenuto il cristianesimo, fu infranta dai loro successori,

L’opera matematica e scientifica dell’epoca fu trasformata nel fondamento di una

crociata intellettuale contro le religioni ortodosse e contribuì a sostenere tutte le

sfumature di opposizione a tali fedi. Il nome di Newton, in particolare, divenne un

simbolo dello spirito di rivolta contro la religione.

Le diserzioni dai ranghi della religione divennero sempre più diffuse. Ad

esempio, mentre tutti i grandi intelletti francesi del Seicento furono molto legati al

cattolicesimo, tutti quelli del secolo successivo gli si opposero. La posizione di

questi intellettuali passò successivamente da una difesa dell’ortodossia a una

razionalizzazione dell’ortodossia, dalla fede in un deismo cristiano, e poi in un

“deismo scientifico”, allo scetticismo e infine all’ateismo.

Per tracciare un panorama dell’influenza del newtonianesimo sulla religione

seguiremo queste correnti principali del Settecento. La fede era stata il principale

sostegno della religione ma la nuova scienza e la nuova matematica resero questo

periodo favorevole alla ragione. La religione dovette essere associata perciò in

qualche modo alla ragione. A questo fine alcuni sostennero che lo scopo della

teologia avrebbe dovuto essere quello di fondare la religione cristiana sulla

ragione invece che sulla rivelazione. Una tale base ne avrebbe garantito la verità

e, poiché ragione e natura erano in quell’età solitamente identificate, avrebbe

fornito anche una religione naturale.

Il movimento tendente a restituire al cristianesimo una base razionale è spesso

indicato come un supernaturalismo razionalistico e uno tra i suoi esponenti più

famosi fu John Locke. Nella sua Reasonableness of Christianity e nel Discourse

on Miracles egli sostenne che la religione è essenzialmente una scienza; ossia da

un insieme di assiomi ragionevoli possono esser dedotte ulteriori proposizioni le

quali sono non soltanto ragionevoli ma anche utili. Fra gli assiomi ragionevoli,

Locke ne propose tre: l’esistenza di un Dio onnipotente, un assioma ben sostenuto

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dalla conoscenza della nostra esistenza e dalla sapienza che si manifesta in natura;

una vita virtuosa in obbedienza alla volontà di Dio; e l’esistenza di una vita futura

in cui Dio premierà il virtuoso e punirà il peccatore. Da questi assiomi segue che

l’uomo deve vivere in modo da meritare e conseguire il premio in cielo.

Poiché non tutto del cristianesimo si presta a essere razionalizzato, ci si doveva

aspettare qualche compromesso. Oltre alle verità in accordo con la ragione o

deducibili da assiomi ragionevoli, Locke ammise verità che sono al di sopra della

ragione e che sarebbero fornite dalla rivelazione. La resurrezione dei morti è una

tale verità. Dobbiamo esser certi però che una rivelazione provenga realmente da

Dio; nessuna rivelazione dev’essere perciò contraria alla nostra chiara conoscenza

intuitiva. La ragione dev’essere il giudice. La ragione è, di fatto, la rivelazione

con cui Dio ci comunica tutta la verità compresa nell`ambito delle nostre facoltà

naturali. In ogni caso la ragione è l’ultimo giudice e la guida migliore. Purtroppo

l’immoralità e l’astuzia dei preti impediscono alla ragione di farsi udire in materia

di religione.

Ma Locke si spinse ancor oltre nel suo compromesso. La religione, per la sua

stessa natura, deve implicare relazioni dell’uomo con una potenza superiore e

perciò deve contenere taluni elementi soprannaturali come i miracoli.

Evidentemente, se il soprannaturale in sé non può essere razionalizzato può

esserlo invece almeno l’ammissione di tali elementi.

È forse evidente dalla difesa dell’ortodossia a opera di Locke che due difficoltà

erano centrali, ossia la giustificazione sia della rivelazione sia dei miracoli.

Alcuni, che non erano convinti dagli argomenti di Locke, difendevano la

rivelazione sostenendo che non è in contraddizione con la ragione. Altri

adottarono la difesa negativa che la natura e, perciò, la ragione contengono

fenomeni inspiegati, i quali sarebbero perciò altrettanto sconcertanti della

rivelazione. Né l’una né l’altra, ad esempio, spiegano il diavolo. Altri ancora

sostenevano che Dio cerca di mettere a prova la nostra capacità di comprensione

mediante rivelazioni parziali e ciò spiega la loro mancanza di chiarezza.

I miracoli, che in epoche precedenti erano considerati la prova migliore

dell’esistenza di Dio, ora dovevano essere razionalizzati poiché erano in

contraddizione con l’ordine della natura. Alcuni pensatori decisero di accettare i

miracoli che fossero “nell’ambito” della ragione, o almeno non contrari ad essa.

Ad esempio, un morto poteva essere riportato in vita ma le donne non avrebbero

potuto ragionevolmente essere trasformate in pilastri di sale. Per molti i miracoli

erano in realtà eventi naturali solo apparentemente irrazionali, così come il

fenomeno della neve apparirebbe inspiegabile a un nativo dei tropici.

Come ci si potrebbe attendere, i tentativi di difendere l’ortodossia mediante il

ragionamento non soddisfecero tutti. La maggior parte delle persone illuminate

desideravano una religione, cristiana o no, completamente razionale, e poiché il

cristianesimo non poteva secondo loro esser reso del tutto tale, questi uomini

procedettero a definire e a erigere una nuova religione: il deismo.

È stato talvolta osservato che per i deisti la Ragione era Dio, i Principia di

Newton la Bibbia e Voltaire il Profeta. I deisti credevano nell’esistenza di una

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religione naturale così come nell’esistenza delle leggi matematiche del cielo e

della Terra. Non era nondimeno necessario ricorrere alla rivelazione o alla Bibbia

al fine di cercare le dottrine di questa religione. Esse potevano essere trovate

studiando il mare, il cielo, i fiori, la Terra e gli uomini. Lo studio della creazione è

il modo migliore per studiare il Creatore. Da queste fonti naturali, invece che

dalle Scritture, verrebbero appresi direttamente taluni principi fondamentali e altri

verrebbero poi ottenuti da questi mediante una dimostrazione razionale. La

ragione umana, che affronta con successo lo studio della natura fisica, avrebbe

risolto anche questi problemi.

Per mezzo di argomentazioni troppo particolareggiate per poter essere ripetute

qui, i deisti pervennero a vari principi positivi. Dio conservava il suo posto come

progettista dell’universo. Egli era la fonte delle leggi universali scoperte da

Newton. C’era una vita futura in cui ciascuno sarebbe stato trattato secondo i suoi

meriti. La venerazione di Dio e il pentimento venivano incoraggiati perché

favorivano una vita migliore sulla Terra. Il peccato era una disobbedienza ai

comandi della ragione. Come indicano queste dottrine, i deisti credevano che

l’essenza della religione fosse la moralità.

Tali dottrine non si discostano eccessivamente dal cristianesimo. I deisti

sostenevano però anche che fra le dottrine cristiane erano valide solo quelle che

potevano essere difese dalla ragione. Ogni dottrina che fosse contaminata dalla

superstizione, dall’irrazionalità o dal mito doveva essere rifiutata. Poiché la

nascita virginale, la divinità di Cristo e il concetto del peccato originale non erano

spiegabili razionalmente, furono fra le prime dottrine a essere rifiutate. Furono

tralasciati come errori anche i miracoli, provvidenze specifiche e la rivelazione

soprannaturale. Il rifiuto di tali credenze portò naturalmente il deismo in conflitto

diretto col cristianesimo e benché i deisti accettassero un Dio, quantunque si

trattasse di un Dio che dovesse avere le carte in regola per svolgere la funzione di

signore dell’universo newtoniano, essi furono accusati di ateismo dai cristiani

ortodossi.

Voltaire, il geniale capofila dell’Illuminismo e devoto seguace della

matematica e della fisica newtoniane, fu il principale difensore del movimento

deista. Sostenuto dai suoi vivaci e numerosissimi scritti, il deismo divenne, fra la

gente colta, il più forte fra tutti i movimenti religiosi del Settecento. In America si

convertirono ad esso Thomas Jefferson e Benjamin Franklin. Tanto grande fu

l’influenza di questa religione razionale in America che nessuno fra i primi sette

presidenti degli Stati Uniti professò la religione cristiana, benché naturalmente nei

loro discorsi politici non mancassero i riferimenti al Dio cristiano. Il deismo calò

come movimento formale dopo il Settecento, ma rappresenta ancora

l’atteggiamento religioso prevalente fra la gente colta del Novecento.

Molti pensatori che desideravano fondare una religione naturale ed erano

perciò essenzialmente deisti fecero addirittura a meno di Dio. Essi sostennero che

la teologia naturale è in realtà una branca della scienza. L’esistenza di Dio come

agente essenziale alle opere dell’universo fu rifiutata come extrasperimentale.

Poiché inoltre l’universo poteva essere stato sempre com’era attualmente, non

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c’era alcun bisogno di supporre un creatore. Dedurre l’esistenza di Dio dal

concetto di causa prima fu considerato come l’inferenza dell’azione di “un Essere

inconcepibile che compie un’operazione inconcepibile su materiali inconcepibili.”

Nessun fenomeno spiegabile richiedeva, d’altra parte, l’esistenza di Dio.

Con o senza Dio, il deismo tentò di essere completamente razionale. Di fatto,

esso provvedeva in qualche misura al desiderio dell’uomo di fede e mistero; è

stato osservato in proposito che i deisti erano razionalisti con la nostalgia della

religione. Perciò il deismo non soddisfece alcuni grandi pensatori, i quali furono

completamente scettici. Questi uomini, fra i quali erano i filosofi Hobbes, Hume,

Montaigne e Diderot, il matematico d’Alembert, che fu il principale assistente di

Diderot nella realizzazione dell’Encyclopédie, e lo storico Edward Gibbon,

preferivano vedere nella religione semplicemente un fenomeno storico che sorge

naturalmente presso ogni popolo, pur non essendo indispensabile.

Hobbes spiegò l’esistenza di religioni positive semplicemente come

superstizioni accettate. “Il timore di un potere invisibile inventato dalla mente o

immaginato dalle favole, qualora sia accettato pubblicamente, è religione; se non

è accettato, è superstizione.” Per “l’infedele Hume”, ad esempio, la religione era

semplicemente un modo di comportamento umano. A nessun elemento

soprannaturale contenuto in alcuna fede si doveva concedere il minimo credito. Il

suo disprezzo per le vaste costruzioni della teologia create gradualmente dalle

principali religioni era inequivocabile.

Se prendiamo in mano un qualsiasi volume di teologia, o di metafisica scolastica, ad

esempio, ci chiediamo: Contiene forse qualche ragionamento astratto concernente la quantità o

il numero? No. Contiene forse qualche ragionamento sperimentale concernente la realtà o

l’esistenza? No. Diamolo dunque alle fiamme, poiché non può contenere altro che sofismi e

illusioni.

Lo scetticismo è per lo più una fase intermedia e transitoria. Gli uomini lo

considerano una richiesta superiore alla loro capacità di conservare

indefinitamente un equilibrio precario. Nella Francia del Settecento lo scetticismo

non era altro che un preludio all’ateismo. All’inizio del secolo la negazione della

religione era una concezione tanto rara e audace che la questione se un

miscredente potesse morire in pace era molto discussa e l’ateo che fosse morto

con una parola di scherno faceva sensazione perché non aveva ceduto al rimorso;

più tardi però l’ateismo guadagnò molti seguaci. I materialisti francesi, i quali,

come i soprannaturalisti razionali e come i deisti, prendevano l’avvio dalla

struttura newtoniana dell’universo, negavano del tutto la religione.

Fu Laplace, il grande matematico francese, a trarre la conclusione ultima dalla

cosmologia newtoniana, facendo a meno di un creatore. Abbiamo già detto che

quando Napoleone gli chiese perché non avesse introdotto Dio nel suo libro sui

corpi celesti, la Mécanique céleste, Laplace rispose di non aver avuto bisogno di

tale “ipotesi”. Egli fu in grado di descrivere i moti dei corpi celesti ricorrendo solo

alla matematica e alle leggi di Newton. Laplace superò in tal modo Newton nel

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fare economia di ipotesi, benché proprio Newton raccomandasse agli scienziati di

non servirsi di ipotesi non necessarie.

Può sembrare un paradosso che Newton riuscisse a “dimostrare” l’esistenza di

Dio sulla base delle sue scoperte matematiche mentre Laplace, pur confermando

in modo ancor più mirabile il disegno matematico dell’universo accessibile, non

vide alcun bisogno di Dio. Questo paradosso si spiega però facilmente con

l’osservazione di Pascal che la natura prova l’esistenza di Dio soltanto a coloro

che già credono in Lui.

L’atteggiamento di Pascal nei confronti della religione fu condiviso da molti

altri pensatori francesi di primo piano. Secondo Holbach l’idea di Dio non

corrisponde ad alcunché di reale. Originandosi dal timore e dalla sventura, essa è

creata dall’immaginazione per accattivarsi poteri fittizi. Su questa estrapolazione

dall’ignoranza si fondano insiemi di dogmi e vaste organizzazioni. La religione

distoglie la mente degli uomini dai mali inflitti loro dai governanti e serve solo a

perpetuare la loro miseria promettendo loro la felicità nell’altro mondo se

accettano di essere infelici in questo. L’ignoranza, disse Holbach, genera Dio, il

sapere lo distrugge. Dio non è altro che la natura; l’anima non è altro che corpo.

Gran parte del Système de la nature di Holbach, un’opera che ebbe vasta

diffusione e che fu chiamata la Bibbia dell’ateismo, argomenta contro l’esistenza

di Dio. In completo accordo con questa concezione, il medico Julien O. de La

Mettrie dichiarò che la religione è utile solo ai preti e ai politici. Poiché l’uomo

era in grado di capire la natura, non c’era più bisogno dei racconti primitivi,

superstiziosi, forniti dalle religioni costituite. Pur essendo disposto ad ammettere

l’esistenza di Dio, La Mettrie la considerava una pura ipotesi, di nessuna utilità

pratica. Di fatto essa era pericolosa e dannosa. Lungi dal costituire una garanzia

per la moralità, essa consentiva ai capi religiosi di fomentare guerre nel nome di

Dio. Così il materialismo culminò in Francia in una rivolta contro quella che era

considerata la tirannide spirituale di tutte le religioni.

In difesa del deismo, il pensiero religioso raggiunse un vertice troppo alto per

molta gente. Alcuni che si erano innalzati col loro intelletto fino a quelle altezze

furono presi da vertigini e si trovarono male in quell’atmosfera fredda e rarefatta.

Altri ancora, che pure avevano tentato di salire fino a quelle vette, non riuscirono

a trovare la via e preferirono essere guidati da una luce meno abbagliante. Il

bisogno di una guida fu espresso acutamente da Tennyson:

Di Dio potente figlio, Amore

imperituro, che per fede,

per sola fede, veneriamo;

la fede a credere ci aiuta

là dove mancano le prove...

Sol fede abbiamo; conoscenza

è infatti solo delle cose

che mano tocca ed occhio vede.

Eppur crediamo che da Te

provenga un raggio nella notte.

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Fa che più grande sempre sia.

Mentre molti fra i perplessi si limitavano semplicemente a esprimere la loro

disperazione, altri agivano. I fratelli Wesley, il cardinale Newman e i capi del

Movimento di Oxford videro nel ritorno all’ortodossia religiosa l’unica salvezza

per la civiltà. Il movente delle loro azioni così come di quelle degli altri

movimenti religiosi del Settecento e dell’Ottocento può essere inteso nel modo

migliore come una reazione contro influenze scientifiche e matematiche.

Molti di noi considerano l’inclinazione settecentesca all’ateismo come un male.

Un fenomeno associato all’ateismo, ossia l’emergere della tolleranza e della

libertà di pensiero, è stato un bene di grandissima importanza. Non si può leggere

la storia del Medioevo e dell’inizio dell’Era moderna senza essere colpiti dal

potere controllato dalla religione. Nel nome di Dio taluni uomini venivano

mantenuti poveri, sporchi e ignoranti; altri venivano calpestati, torturati, bruciati

sul rogo, uccisi; l’autonomia di pensiero e di azione era scoraggiata, repressa o

soffocata.

La storia della persecuzione per motivi di divergenze religiose, che non fu

affatto limitata ai cristiani del Rinascimento, è in realtà una parte orribile e

vergognosa della storia umana. Uomini che avevano, a sostegno delle proprie

credenze religiose, soltanto la loro fede osarono uccidere i dissidenti con le torture

più ingegnose e diaboliche: lo stivaletto, la ruota, la flagellazione pubblica, il

fuoco lento, i marchi con ferro rovente e chiodi piantati nel corpo. Questi fanatici

devono aver meditato a lungo e con grande impegno per inventare mezzi di

tortura così “ingegnosi” da giustificarne l’esposizione nei musei. Fondandosi solo

su un giudizio privato, taluni uomini osarono affermare il loro accesso esclusivo

alla verità e costringere gli altri ad accettarla col ferro e col fuoco. Montaigne

descrisse la situazione con sottile ironia: “Si attribuisce evidentemente un grande

valore alle opinioni di una persona quando la si arrostisce a causa di esse.”

La tolleranza non fu un contributo diretto della matematica. Il movimento deve

la sua nascita piuttosto allo spirito razionalistico del Seicento e del Settecento. I

trionfi della ragione umana nella forma delle leggi matematiche universali

costituiscono nondimeno il nerbo del razionalismo. Inoltre la matematica, che sta

o cade col ragionamento più rigoroso di cui l’uomo sia capace, è diametralmente

opposta all’autorità, alla fede cieca, ai miracoli e all’accettazione irrazionale di

“verità.” Infine la scienza, che insegna l’osservazione della natura, la verifica

continua delle sue conclusioni e la disposizione ad accettare ogni teoria che si

adatti ai fatti, anche quando presenti un aspetto inverosimile, come le teorie

eliocentrica e relativistica, si fonda in gran parte sulla matematica. Questo

complesso dottrinale ha dato perciò un contributo vitale, anche se per taluni

aspetti indiretto, alla propagazione di uno spirito generoso.

La guerra fra il libero pensiero e la religione fu dichiarata all’epoca di

Copernico. La polvere sollevata dalla lotta non è ancor oggi totalmente ricaduta

ma siamo giunti almeno a riconoscere l’importanza della libertà di culto, di

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parola, di stampa e d’indagine. Fortunatamente oggi ci appassioniamo per la

libertà e non per la teologia.

Un’ulteriore libertà fu conquistata attraverso i risultati matematici ottenuti

nell’èra newtoniana: la libertà dalla superstizione. Nella civiltà occidentale la

maggior parte delle persone sono convinte oggi che il corso della natura non

possa essere influenzato da demoni o spiriti misteriosi, da incantesimi o da errori

di comportamento di esseri umani. La convinzione dell’importanza dominante

della legge naturale ha praticamente abolito la convinzione che taluni atti banali

dell`uomo possano assicurare la buona sorte o prevenire calamità.

Che la religione si evolva è un fatto che non sempre viene riconosciuto. Non ci

sono nondimeno dubbi sul fatto che l’avvento del razionalismo ha avuto effetti

salutari anche sulla religione. La religione non si appropria più del campo della

scienza. L’opera di matematici e scienziati è perciò relativamente libera e le

scoperte della scienza sono riconosciute come la fonte migliore della nostra

conoscenza della natura. La teologia e la scienza sono ora considerate dai credenti

come reciprocamente compatibili e rafforzantisi a vicenda, mentre le conquiste

della scienza sono accettate come base per speculazioni teologiche razionali. Oggi

i teologi ripetono le argomentazioni proposte da Newton e da Leibniz per

dimostrare l’esistenza di Dio e i servizi resi dalla scienza in questa dimostrazione

sono liberamente riconosciuti. Le leggi matematiche della natura sono proclamare

come una prova del progetto razionale e armonico dell’universo, di cui Dio è il

creatore e il legislatore. Man mano che vengono scoperte nuove leggi, la scienza

viene salutata sempre più come rivelatrice dell’opera di Dio.

Prima del Settecento, le leggi morali avevano trovato generalmente la loro

sanzione nella religione. L’indebolimento e la negazione della religione

lasciarono queste leggi sospese in una sorta di vuoto. Inoltre, l’enfasi

materialistica sui piaceri mondani si opponeva alla sostanza dell’etica cristiana e

il determinismo inficiò le dottrine del peccato e della salvezza in quanto la

volontà veniva a essere strettamente legata al comportamento determinato della

materia. Poiché, secondo questa concezione, l’uomo non è un agente libero, non è

neppure responsabile delle sue azioni. La negazione del peccato riaprì a sua volta

il problema del perché il male esista sulla Terra (un problema non meno acuto per

i razionalisti che per i teologi). Il cristianesimo aveva spiegato il male col

racconto mitico del peccato dell’uomo e della caduta, ma questa “spiegazione”

venne meno col venir meno del peccato.

Sottoposte a un esame razionale, molte dottrine etiche apparvero infondate.

Una volta esaminata con la massima cura la natura di Dio, sorse un problema:

perché avrebbe dovuto favorire la virtù piuttosto che il vizio? Il dotto Terzo Conte

di Shaftesbury mise in ridicolo la teoria che la virtù fosse il prodotto di un patto

con potenze soprannaturali in grado di premiare il buono e punire il cattivo. Ancor

più radicale fu la convinzione di La Mettrie che il piacere sia non un peccato

bensì un’arte. Furono approvati in particolare i piaceri dei sensi.

Il codice morale potrebbe sopravvivere alla religione? Alcune risposte furono

tentate da pensatori settecenteschi. La ragione stessa fu raccomandata come guida

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del comportamento. Locke, ad esempio, credeva che i principi della morale

fossero suscettibili di dimostrazione matematica. Bisogna seguire la ragione, il

Dio in noi, al fine di determinare il comportamento appropriato. La ragione che

abbiamo è sufficiente per guidarci purché ci diamo la pena di essere ragionevoli.

Di coloro che raccomandavano l’applicazione della ragione, alcuni aggiunsero

che l’uomo ha un senso morale che opera in armonia con la ragione. Questo senso

naturale del giusto e dell’ingiusto è indipendente dalla religione. Non è necessario

temere Dio o cercare ricompense in cielo. Di fatto una tale motivazione è non

cristiana. Il senso morale permette all’uomo di evitare il male e di scegliere il

bene, esattamente come il suo senso estetico lo predispone alla bellezza.

Altri, seguendo l’identificazione settecentesca di ragione e natura, dissero che

dovremmo studiare l’uomo allo stato di natura e imitarlo. Perciò i costumi dei

popoli primitivi, noti all’Europa attraverso le grandi esplorazioni, furono

considerati ideali. Poiché Magellano aveva scritto che i brasiliani non

conoscevano i vizi dei civilizzati e vivevano 140 anni, il modo di vita dei

brasiliani fu esaltato. Essendo i costumi dei cinesi più primitivi di quelli degli

europei, ne seguiva che i cinesi erano più morali e che la loro società era

esemplare. E quando l’esploratore Bougainville pubblicò un’esposizione

entusiastica della vita dei tahitiani, alcuni europei si convinsero che l’imitazione

di questa popolazione avrebbe restituito il Giardino dell’Eden. Perfino i

missionari gesuiti lodarono le virtù dell’uomo naturale non contaminato: il buon

selvaggio.

Molti filosofi decisero che la posizione dell’etica nei confronti della religione

doveva essere inversa rispetto a quella storica. Locke scrisse che le Scritture

confermano le leggi morali scoperte dalla ragione. Kant, fra gli altri, ritenne che la

morale costituisca la base della religione, e non viceversa. La Bibbia ha un valore

solo nella misura in cui coincide col codice morale e in cui lo integra e la

religione è utile solo in quanto addolcisce la pillola morale che l’uomo deve

ingoiare per vivere come membro non deteriore della società. Il cristianesimo

diventa, da questo punto di vista, niente di più di un “aiuto prezioso per la

polizia.” Matthew Arnold espresse un’opinione analoga definendo la religione

“una morale con un pizzico di emozione.”

Il codice dell’etica fu così compromesso dall’indebolirsi della religione da

richiedere una ricostruzione completa. La matematica fece ammenda fornendo un

piano. Era nato un nuovo Euclide, che avrebbe scritto le leggi morali per l’intera

società. Questa storia costituirà però l’argomento di un altro capitolo.

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XVIII. L’influenza newtoniana: letteratura ed estetica

Arte che resta ignota è la natura;

intenzion non percepita è il caso;

armonia non intesa è la discordia...

ALEXANDER POPE

Durante i suoi viaggi a Laputa, Gulliver si imbatte in vari professori impegnati

in progetti per perfezionare il linguaggio del paese. Un progetto consisteva

nell’accorciare il discorso riducendo i polisillabi a monosillabi e tralasciando

verbi e participi dato che in realtà tutte le cose immaginabili non sono altro che

nomi. Un altro cercava di fare a meno di tutte le parole, costringendo la gente a

portare con sé gli oggetti e a mostrarli invece di dire le parole corrispondenti.

Benché quest’ultimo piano fosse difeso come un grande dono in quanto

contribuiva grandemente alla brevità e anche alla salute, le donne di Laputa si

opposero perché non consentiva loro di usare la lingua.

In questo passo, come in numerosi altri, Jonathan Swift usò la sua arma

migliore – la satira – per mettere in ridicolo la grandissima influenza esercitata

sulla letteratura della matematica dell’epoca. Come l’uomo di successo nella vita

economica è diventato nell’America del nostro secolo la figura più autorevole,

così i matematici, che erano in grado di rivelare e formulare l’ordine nella natura,

divennero gli arbitri del linguaggio, dello stile, dello spirito e del contenuto della

letteratura del Seicento e del Settecento. Le massime figure letterarie dell’epoca

stabilirono che le loro opere erano inferiori sotto tutti gli aspetti alle opere

matematiche e scientifiche e che la prosa e la poesia potevano essere migliorate

seguendo quegli esempi.

Gli scrittori diedero inizio alla ricostruzione standardizzando il linguaggio.

Simboli arbitrari destinati a restare fissati per sempre furono adottati per idee,

esattamente come i matematici usano la x come un simbolo arbitrario, fisso, per

indicare una quantità incognita. La standardizzazione della lingua inglese e di

altre lingue che ebbe luogo a quell’epoca potrebbe esser vista nei costanti

riferimenti alle ragazze come a ninfe, agli amanti come a cigni, nell’attribuzione

ai prati dell’aggettivo rugiadosi o roridi, alle fontane e ai fiumi dell’aggettivo

muschiosi, all’acqua dell’aggettivo limpida, mentre parole particolari venivano

associate ad nauseam.

A ulteriore imitazione della matematica, il discorso comune cominciò a usare

concetti astratti. Un cannone divenne un tubo puntato; gli uccelli divennero i

pennuti; i pesci una scagliosa progenie o una razza con pinne; l’oceano una

distesa d’acqua e il cielo una volta di lapislazzuli. I poeti, in particolare, si

concessero termini astratti come virtù, follia, gioia, prosperità, melanconia, orrore

e povertà, che personificavano e scrivevano con l’iniziale maiuscola. Sia la

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standardizzazione sia la predilezione per le astrazioni spogliarono il linguaggio di

tutte le parole concrete, colorite, pittoresche e succulente.

Il movimento per la standardizzazione culminò in una delle pietre miliari della

lingua inglese, il Dictionary di Samuel Johnson. Johnson intraprese il compito di

dare norme a una lingua che era stata “prodotta per necessità e ampliata per

accidente.” Da spiegazione più o meno comprensiva dei significati delle parole,

Johnson trasformò il dizionario in una norma autoritaria dell’uso lecito e in un

arbitro di modi verbali. Mediante precise distinzioni esposte in modo chiaro,

spesso con l’aiuto di citazioni, egli stabilì significati esatti e l’uso appropriato di

parole. Era suo intento che questi significati e usi fossero fissati una volta per tutte

così come il vocabolo triangolo ha significato precisamente la medesima cosa per

migliaia di anni.

Questo mutamento del concetto di dizionario appare radicale nella storia dei

dizionari ma era quasi inevitabile nel Settecento. Johnson si accinse a fare per la

lingua inglese ciò che era già stato iniziato in tutti i settori di attività, ossia la

determinazione degli standard più ragionevoli, più efficaci e più permanenti. I

linguisti avevano insegnato fino allora che, nonostante le regole e le definizioni, la

lingua è necessariamente un fenomeno fluido e in evoluzione. Le parole mutano

di significato di anno in anno e da luogo a luogo, come il dizionario moderno

dimostra chiaramente includendo significati arcaici.

La standardizzazione della lingua era accompagnata da un esame critico

dell’efficacia della lingua comune. Jeremy Bentham, che era famoso per la sua

filosofia etica e politica, si occupò anche di questo problema. I nomi, egli disse,

sono meglio dei verbi. Un’idea incarnata in una parola “poggia sulla roccia"; una

materializzata in un verbo “sguscia fra le dita come un’anguilla.” La lingua ideale

dovrebbe esser simile all’algebra; le idee dovrebbero esservi rappresentate da

simboli come i numeri sono rappresentati da lettere. In tal modo parole ambigue o

inadeguate e metafore svianti sarebbero eliminate. Le idee sarebbero associate

mediante il minor numero possibile di relazioni sintattiche così come tutti i

numeri sono associati dalle poche operazioni: somma, moltiplicazione,

uguaglianza e così via. Due frasi potrebbero essere comparabili nello stesso modo

in cui lo sono due equazioni: ad esempio, quando un’equazione è ottenuta da

un’altra mediante la moltiplicazione per una costante. Il movimento per l’uso di

simboli in sostituzione di nomi e connettivi, cui aderì anche Bentham, fu messo in

relazione col piano di Leibniz per la simbolizzazione del linguaggio. Mentre

Leibniz cercava di facilitare il ragionamento, Bentham e altri si sforzarono di

raggiungere una maggiore precisione.

La riforma della lingua in sé fu però solo un’influenza matematica secondaria

sulla letteratura. Lo stile fu modificato radicalmente. Nell’età newtoniana fu

riconosciuto che le proposizioni in una discussione o dimostrazione matematica

sono concise, univoche, chiare ed esatte. Molti autori ritennero che il successo

ottenuto dalla matematica potesse essere attribuito quasi interamente a questo stile

spoglio e intatto e perciò decisero di imitarlo.

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Nel Seicento i membri della Royal Society decisero che la riforma della prosa

inglese rientrava nelle competenze di quell’augusto consesso. Fu nominato un

comitato, comprendente Sprat, Waller, Dryden ed Evelyn, con l’incarico di

studiare la lingua. Gettando occhiate furtive all’Académìe Française, il comitato

suggerì la fondazione di un’accademia inglese per “il perfezionamento della

parola parlata e scritta.” Esso raccomando ai membri della Società di evitare

l’eloquenza e le stravaganze linguistiche nella descrizione dei propri esperimenti.

Essi dovevano rifiutare tutte “le amplificazioni, le digressioni e le ampollosità di

stile” e ricercare “un ritorno alla purezza e alla concisione primitive, quando gli

uomini comunicavano tante cose con un numero quasi uguale di parole.” Essi

dovevano usare “un modo di parlare preciso, spoglio, naturale; espressioni

positive, sensi chiari, una scioltezza nativa; portare tutte le cose il più vicino

possibile all’evidenza matematica7; e preferire il linguaggio degli artigiani, dei

contadini e dei mercanti a quello dei begli ingegni e degli studiosi.”

Uno dei grandi intellettuali di quest’epoca, Bernard Le Bovier de Fontenelle

(1657-1757), che fu anche tra i più famosi divulgatori della scienza, scrisse, in un

saggio sull’utilità della matematica e della fisica:

Lo spirito geometrico non è così legato alla geometria da non poterne essere separato e

trasportato in altri campi della conoscenza. Un’opera di etica, di politica, o di critica, e forse

anche un`opera di eloquenza, sarà più fine, a parità di tutto il resto, se sarà fatta dalla mano di

un geometra. L’ordine, la semplicità, la precisione, l’esattezza che dominano da qualche tempo

nei buoni libri, possono ben essere il frutto di quello spirito geometrico che è ora più diffuso di

quanto non sia mai stato in passato.

Gli uomini da noi citati nei capitoli precedenti come grandi matematici furono

additati nel Settecento come modelli letterari. Lo stile di Descartes fu esaltato per

la sua chiarezza, semplicità, leggibilità e perspicuità e il Cartesianesimo divenne,

oltre che una filosofia, anche uno stile. L’eleganza e la razionalità di Pascal,

specialmente nelle Lettres provinciales, furono salutate come superbi attributi di

uno stile letterario. In quasi tutti i campi si cercò di imitare, nella misura

consentita dall’argomento, le opere di Descartes, di Pascal, di Huygens, di Galileo

e di Newton.

In seguito a tali influenze, numerosi mutamenti ebbero luogo nello stile della

prosa. Le metafore furono bandite a favore di una precisa descrizione linguistica

di realtà oggettive. Locke disse, in proposito, che la metafora e il simbolismo

sono gradevoli ma non razionali. Il pedantesco stile fiorito della scuola con

complesse costruzioni di ispirazione latina fu abbandonato a favore di una prosa

semplice, più diretta. Furono banditi anche i voli impetuosi dell’immaginazione,

le espressioni vigorose, cariche di emotività, l’esuberanza poetica, l’entusiasmo e

le frasi sonore e altamente suggestive. Compito dello scrittore, scrisse Pope, è di

essere piú che spron, guida ai destrier delle Muse;

7 Il corsivo è mio.

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controllarne il furor, non scatenarlo.

Gli scrittori dovevano comunicare fatti in uno stile che si accordasse con le alte

norme del pensiero logico. La chiarezza, la proporzione, l’istinto architettonico

per la forma, il ritmo, la struttura simmetrica e le cadenze, la rigida aderenza a

disegni d’insieme erano qualità del nuovo stile della prosa. La prosa divenne

sobria, tersa, precisa ed epigrammatica. La richiesta di una facile intelligibilità e

chiarezza esigeva che ogni frase o gruppo di parole venisse afferrato con facilità

dalla mente. Divennero perciò di moda frasi brevi; l’inversione fu disapprovata;

all’interno della frase l’ordine delle parole fu dettato dal pensiero. Le frasi

vennero organizzate anche in modo che la loro connessione illustrasse

chiaramente il processo del pensiero. Fine e legge dello stile della prosa divenne

“il rapporto facile e intelligibile fra menti.”

L’accento posto sugli elementi razionali nello stile a spese di quelli emotivi

favorì le qualità appropriate alla fine retorica, al ragionamento, alla narrativa e

scoraggiò l’espressione delle forti emozioni e passioni che ispirano la grande

poesia. L’Età della Ragione si espresse perciò nel modo più caratteristico in prosa,

nelle forme del romanzo, del diario, delle lettere, del giornale e del saggio, che

dominavano sulla lirica e sul dramma. Di fatto il romanzo sostituì abbastanza

bene la poesia come sfogo per la scrittura immaginativa mentre la poesia lirica

dell’epoca divenne prosaica, “prosa poetizzata.”

Nella prosa la satira divenne un genere preferito. L’adorazione della ragione

diede grande risalto a tutto ciò che era irrazionale e gli scrittori trovarono in ciò

un tema nuovo. Poiché nell’Ottocento natura e ragione venivano identificate, i

modi in cui l’uomo si era allontanato dallo stato di natura, ad esempio nel suo

desiderio di potere, potenza e posizione, furono facilmente individuati e attaccati.

Il più grande scrittore satirico di quell’epoca, Jonathan Swift, è molto letto ancor

oggi e ciò che scrisse è ancora acuto. Il racconto di ciò che Gulliver scoprì in

strani paesi è ogni volta una satira di qualche fase della civiltà europea del

Settecento. I minuscoli lillipuziani ci appaiono a tutta prima persone divertenti,

ignoranti e indifese, e noi siamo ben disposti a ridere di loro finché non ci

accorgiamo che l’ironia è diretta contro di noi. I tentativi di Gulliver di spiegare i

costumi e il modo di vita degli europei agli Houyhnhnm, i membri di élite di una

società di cavalli, hanno l’unico risultato di mettere in ridicolo gli europei.

Come abbiamo appena visto, l’Età della Ragione favorì la prosa nei confronti

della poesia. Lo spirito newtoniano impose inoltre una separazione netta fra prosa

e poesia, fra ciò che un individuo pensava come uomo di buon senso e di giudizio

e ciò che sentiva come poeta, fra la conoscenza della natura da un lato e i colori

della retorica, gli espedienti della fantasia e le illusioni delle favole dall’altro. La

prosa si occupa di fatti, la poesia di piaceri e fantasie. Un uomo può sentire in

termini poetici ma deve pensare in prosa. L’accento sulla facoltà del

ragionamento screditò così i concetti, le immagini e i valori poetici. Inoltre,

poiché nell’età newtoniana la verità consisteva nella conoscenza delle proprietà

matematiche chiare e distinte di oggetti e poiché tali non sono le verità della

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poesia, queste ultime furono respinte come fittizie. Di fatto, per ottenere verità gli

uomini dovevano esorcizzare i fantasmi dell’immaginazione. La poesia poteva,

nel caso migliore, ornare e rendere gradevoli le verità astratte della matematica e

della scienza.

Le figure di primo piano deprecarono la poesia e alcuni le dichiararono

addirittura guerra. Locke scrisse che la poesia offre semplicemente immagini

gradevoli ma che queste non si conformano alla verità e alla ragione. La gente che

ha visto la luce della ragione non ha veramente bisogno di poesia; perciò nessuna

fatica o pensiero dovrebbero essere spesi per esaminare la verità contenuta in una

composizione poetica. Di fatto, il piacere della poesia sarebbe guastato

dall’applicazione della ragione ai suoi contenuti. Egli disse inoltre che se un

bambino ha inclinazioni poetiche, i genitori dovrebbero darsi da fare a reprimerle.

Newton diede la sua opinione sulla poesia citando il suo insegnante Barrow,

secondo il quale la poesia sarebbe una sorta di ingegnosa assurdità. Hume fu più

brutale. Secondo lui la poesia è l’opera di mentitori di professione i quali cercano

di divertire con finzioni. Bentham distinse la poesia dalla prosa col criterio che

nella prosa tutte le righe, tranne l’ultima, si estendono fino al margine mentre in

poesia alcune di esse sono più corte. La poesia, egli continuò, non dimostra nulla;

essa è piena di sentimento e di vaghe generalità. Le sciocche cantilene possono

soddisfare l’orecchio di un selvaggio ma non farebbero alcuna impressione su una

mente matura.

Pare che i poeti stessi, intimiditi da questa disapprovazione generale, abbiano

accondisceso ad accettare una posizione inferiore. Nell’Apology for Heroic Poetry

and Poetic License Dryden scrisse che dovremmo apprezzare le immagini della

poesia ma non lasciarci ingannare dalla finzione. Il più che Addison riuscisse a

dire in difesa della poesia fu che, se il mondo materiale fosse dotato solo di quelle

qualità che possiede di fatto, costituirebbe una figura poetica triste e

sconfortevole. Fortunatamente una Provvidenza benevola ha dato alla materia il

potere di produrre in noi un gran numero di deliziose qualità immaginarie così

che l’uomo possa essere confortato e deliziato da sensazioni gradevoli. Il dittatore

della letteratura settecentesca, Samuel Johnson, condannò la poesia con una lode

appena percettibile. La poesia, egli scrisse, è l’arte di unire il piacere con la verità,

chiamando l’immaginazione in aiuto della ragione.

Ovviamente la poesia ne risentì. Prevalse l’opinione che l’arte richiedesse

soltanto un punto d’osservazione limitato, una piccola immaginazione e poche

regole per raggiungere la perfezione. Anche i poeti accettarono la nozione che le

loro creazioni fossero non verità bensì solo finzioni gradevoli. Essi provvidero

semplicemente al piacere della gente; fornirono abbellimenti che si richiamavano

alla fantasia ma che non avevano alcun significato reale neppure per i poeti.

L’arte fu svalutata fino a diventare soltanto un passatempo minore; essa cercò

poi di giustificare la sua esistenza diventando più filosofica o più utile. Alcuni

poeti decisero di conseguenza che le funzioni della poesia dovessero essere quelle

di insegnare, di ragionare e di argomentare in rima. Pur non dovendo stimolare i

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sentimenti, la poesia poteva purificare le passioni, moderare i timori e proporre

esempi di grandi virtù.

Non contenti di ridurre la poesia a un’attività minore, i critici del periodo si

sforzarono di raggiungere l’obiettività matematica sopprimendo tutti gli sforzi

personali o individualistici in questo campo. Essi stabilirono, innanzitutto, che un

poeta dovesse essere una sorta di matematico. Dryden dichiarò: “Un uomo

dovrebbe essere istruito in varie scienze e dovrebbe avere una mente razionale,

filosofica e, in qualche misura, matematica, per essere un poeta completo ed

eccellente...” Anche la giovane nazione americana cadde sotto le nuove influenze;

per usare le parole di Emerson:

Noi non ascoltiamo con la più grande considerazione i versi di un uomo che sia solo un

poeta né i suoi problemi se è solo un algebrista; ma se un uomo ha familiarità insieme con la

fondazione geometrica delle cose e col loro gaio splendore, la sua poesia è esatta e la sua

aritmetica musicale.

I matematici avrebbero presumibilmente apprezzato che l’arte, come la scienza,

possedesse leggi naturali che potessero essere dedotte dallo studio della natura.

Dryden scrisse, di fatto, che quelle cose che deliziano tutte le età sono

un’imitazione della natura. Anche Pope espresse la sua convinzione che

esistessero leggi naturali per la poesia. Nel suo Essay on Criticism egli scrisse:

Innanzitutto segui la natura

e alla sua norma che non muta mai

uniforme il giudizio. La natura

che mai non erra, che di viva luce

splende, chiara, immutabile e divina,

vita, forza e bellezza impartir deve,

e all'Arte essere fonte e norma e fine.

Abbastanza stranamente, “seguire la natura” non aveva precisamente lo stesso

significato che nelle scienze fisiche, quello cioè di obbedire alle leggi

matematiche della natura. Piuttosto, attraverso 1’associazione storicamente

giustificabile dei greci con la natura, seguire quest’ultima significò limitare la

forma dei classici greci. Perciò, scrisse Pope:

le norme ritrovate un dì lontano,

non create dall’uomo, son natura,

ma natura con metodo ordinata;

come la libertà, ristretta è solo

la natura alle leggi che in principio

l’ordine suo le diedero...

Quando dapprima il giovane Marone [Virgilio]

nella sua mente fervida un poema

concepì che immortal rendesse Roma,

superior della critica alla legge

poté sembrare, e sol dalla natura

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attinger stabilì, ma quando volle

esaminare il tutto parte a parte,

che natura ed Omero eran la stessa

cosa si accorse...

Nondimeno, quando Pope tradusse l’Iliade di Omero, espresse Pope e non

Omero. Come Sir Leslie Stephen sottolinea in English Literature and Society in

the Eighteenth Century, “Quando leggiamo in un discorso di Agamennone, che

esorta i greci ad abbandonare l’assedio,

Dovere, sicurezza, amor ci impongono

di andare via. Della natura è questa

la voce, ed obbedienza a lei dobbiamo,

non c’è bisogno che ci venga detto che non stiamo ascoltando l’Agamennone di

Omero ma un Agamennone col parrucchino.” Né c'è bisogno che ci si dica che la

voce che stiamo ascoltando è quella del Settecento, intonata con le sue assunzioni

fondamentali: la validità del razionalismo e il dominio della legge naturale. Le

norme o leggi della poesia sorsero dunque da un’identificazione della natura,

degli antichi e della ragione, così che seguir 1’una cosa equivaleva a seguirle

tutte. Le regole dell’arte erano “natura con metodo ordinata.”

Pope, Addison e Johnson dettarono lo stile poetico in accordo con la filosofia

descritta sopra. Regole rigorose furono tratte dallo studio degli antichi, mentre le

traduzioni a opera di Dryden dei classici latini prescrissero le leggi della

traduzione metrica in inglese. Il verso, si pensava, potrebbe essere scritto

osservando semplicemente le norme: la lirica, l’epica, il sonetto, l’epistola, il

verso didattico, l’ode e l’epigramma possono essere costruiti osservando le leggi

che ne stabiliscono la forma; ordine, trasparenza ed equilibrio erano gli obiettivi

che si dovevano cercare di raggiungere. Era raccomandata anche l’attenzione alle

regole grammaticali e alla struttura della frase. I principi della forma nella poesia

furono paragonati ad assiomi matematici, poiché gli assiomi determinavano forma

e contenuto dei teoremi. Il distico di pentametri giambici a rima baciata acquistò

favore a causa del suo equilibrio e della sua simmetria e, per quanto eccessiva

possa sembrare quest’opinione, grazie al fatto che la sua forma era analoga a una

serie di proporzioni di uguaglianza. Tale forma di distico fu considerata l’essenza

della regolarità cadenzata. Per i critici letterari dell’epoca la bellezza consisteva in

un’aderenza a queste rigide regole di versificazione.

I poeti adottarono un codice che fu formulato come una serie di proposizioni

matematiche e seguirono meticolosamente le regole stabilite dalla critica. La

grande poesia fu ridotta a una scrittura corretta, ossia all’obbedienza al codice. La

poesia diventò temperata, ben regolata e intellettuale. I poeti adottarono la

versificazione formale e rigidamente regolata di Pope e sottolinearono gli ideali

neoclassici della chiarezza, della moderazione, dell’eleganza, della proporzione e

dell’universalità. Veniva osservata anche l’armonia del tema, della materia e della

forma.

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Poiché oltre alla forma veniva prescritto anche lo spirito, i poeti, benché spesso

ironicamente, soppressero il sentimento. L’entusiasmo fu aborrito; l’emozione,

l’abbandono, l’estasi e la contemplazione mistica furono messi fuori legge.

L’immaginazione fu limitata severamente dalla ragione, dalla freddezza e dalla

prudenza, in accordo con l’ingiunzione di Dryden secondo cui l’immaginazione è

“una facoltà così selvaggia e sfrenata che, come uno spaniel abituato a correre

molto, deve essere legata a impedimenti, per tema che oltrepassi la giusta misura

del giudizio.” Così le grandi tragedie divennero le tragiche vittime della nuova

atmosfera letteraria del buon senso. L’unione del cuore e della testa, la sintesi di

pensiero e di sentimento, fu distrutta.

Nel Settecento fu quasi dimenticata la concezione della poesia come qualcosa

di maestoso, di spirituale e di divino. Quei pochi autori che persistettero a scrivere

composizioni poetiche appassionate dovettero contrabbandare le loro opere nel

mondo letterario o camuffandole o sostenendo di mettere in ridicolo i loro sforzi

nel momento stesso in cui li presentarono. Soltanto pochi uomini, tra cui

particolarmente Collins, Smart, Cowper e Blake, dei quali si supponeva che

avessero più che un grano di follia, osarono violare le regole e scrivere in accordo

ai dettami della propria ispirazione.

Se lo spirito della poesia del Settecento ne risultò impoverito, la sostanza

almeno ne fu arricchita. I maggiori poeti seicenteschi del periodo giovanile di

Newton scrissero poesie devote o liriche d’amore. Quasi tutti ignoravano la

matematica e la scienza. I pochi che trattarono questi argomenti parvero

inconsapevoli della grandissima importanza degli sviluppi dell’epoca. Altri

ancora misero addirittura in ridicolo la matematica. Nel 1663 Samuel Butler

scrisse in Hudibras:

In matematica più grande

fu di Ticone o di Erra Pater,

ché con geometriche misure

ei calcolare dei boccali

sapea la birra, e disvelare

di pane o burro con tangenti

e segni se mancava il peso,

e per virtù d’algebra dire

sapea del giorno a quale ora

battea i rintocchi l’orologio.

Dopo l’opera di Newton, il ridicolo si trasformò in un’ammirazione illimitata.

La poesia accolse giudizi entusiastici sulla nuova matematica e sulla nuova

scienza. Gli scrittori trovarono la ragione, l’ordine e il disegno matematico e il

vasto meccanismo dei temi naturali così interessanti da sostituire in loro

l’interesse per la nascita, l’amore e la morte di un essere così insignificante come

l’uomo. Nessuno fu così sfrenato nel suo entusiasmo per i nuovi prodigi del

mondo come Dryden.

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Dall’armonia, dall’armonia del cielo

quest’universo ebbe principio;

da un’armonia a un’armonia,

attraverso la gamma delle note,

col diapason posto nell’uomo...

quando sospinte dalle sacre

leggi si mossero le sfere

cantando in lode del Creatore

di sopra il coro dei beati.

Sono famosi anche i versi che Alexander Pope scrisse come epitaffio per la

tomba di Newton, nell’Abbazia di Westminster:

Natura e le sue leggi eran nel buio

Dio disse: “Newton sia”, e luce fu.

È purtroppo impossibile passare qui in rassegna i contenuti della grande poesia

dell’età di Newton. Le citazioni occasionali che compaiono altrove nel libro e nei

motti dei capitoli possono forse dare qualche indicazione sui nuovi argomenti.

Ma per quanto i critici del Settecento difendessero la letteratura fredda,

meccanica e impersonale, non poterono abolire il cuore delle persone sensibili.

Nell’Ottocento si impose però la coscienza del fatto che il codice poetico era

irrimediabilmente inadeguato e che le immagini della poesia si erano estenuate.

Le regole della geometria descrittiva producono il bozzetto di un disegnatore, non

un’opera di architettura. Come si espresse Robert Burns riferendosi all’imitazione

degli antichi, il poeta non poteva “sperare di raggiungere il Parnaso a forza di

greco.”

La soppressione dello spirito era stata così drastica che i poeti dell’inizio

dell’Ottocento sentirono che ogni bellezza era stata bandita. Keats esecrò

Descartes e Newton per aver sgozzato la poesia e Blake li maledisse. A un pranzo,

nel 1817, Wordsworth, Lamb e Keats, fra altri, fecero un brindisi che suonava:

“Salute a Newton e abbasso la matematica.” Benché Blake, Coleridge,

Wordsworth, Byron, Keats e Shelley capissero quali risultati la matematica e la

scienza avessero raggiunto e li ammirassero, protestarono nondimeno contro

quanto era accaduto all’essenza della poesia. Shelley disse, a proposito dei limiti

imposti all’immaginazione, che “l’uomo, pur avendo asservito gli elementi,

rimaneva egli stesso uno schiavo.” Coleridge rifiutò l’universo meccanico come

un mondo morto. William Blake definì la ragione il diavolo, i cui sommi sacerdoti

erano Newton e Locke. “L’arte è l’albero della vita... La scienza è l’albero della

morte.” Egli considerò l’esposizione meccanica del mondo irrimediabilmente

inadeguata a rendere la natura.

Tigre, tigre, sguardo acceso

nelle selve della notte,

quale eterna mano o sguardo

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introdur poté nel mondo

tale orribil simmetria?

Wordsworth sosteneva che la sola ragione produce mostri immorali e attaccò

gli scienziati che si profondano invece di volare e che considerano separatamente

natura e anima, perdendo in tal modo il senso della grandezza e del mistero.

Ora domina l’uomo

dove debole un tempo egli tremava;

la scienza avanza a passi da gigante,

ma in mitezza ed amor qualche guadagno

ha lo spirito nostro anche arricchito?

Reazione e rivolta, consapevoli e inconsapevoli, si mossero contro quella

macchina fisica materiale, priva di colore, che nel Settecento era chiamata natura.

Emozioni represse per un secolo infransero i ceppi e si ribellarono contro il

dominio sul pensiero e sui sentimenti esercitato dalla matematica e dalla scienza.

L’ordine perfetto dell’universo proclamato nel Settecento fu dichiarato

un’illusione, esistendo ancora misteri e contraddizioni non risolti dalla ragione. I

poeti affermarono l’importanza dei sensi, dei sentimenti e della coscienza propria

dell’uomo. La natura, essi dissero, dev’essere vissuta, non appresa attraverso

l’inadeguata spiegazione matematica data dagli scienziati. Godiamo direttamente

della natura, scrisse Wordsworth, invece di indulgere in orge razionalistiche.

Gran Dio! Se fossi stato

un pagano nutrito nell’antico

credo, deh avessi avuto almeno qualche

vago barlume per sentirmi meno

abbandonato...

La poesia fu liberata dai ceppi della tradizione meccanicistica. Le emozioni

furono richiamate in vita ed espresse; il mito e il simbolo ebbero nuova linfa.

L’immaginazione fu collocata al di sopra della ragione e da alcuni fu proclamata

addirittura la forma suprema di ragione poiché forniva verità intuitive. Si ingiunse

al poeta di essere più di un commentatore razionale. Egli fu indirizzato a

esercitare la sua genialità e ad esprimere la divinità che risiedeva nel suo petto.

Attraverso il legame fra la natura e l’anima dell’uomo, il mondo inerte poteva

essere teso vivo ed essere goduto direttamente. Paradiso,

boschetti elisi e campi fortunati:

perché solo una storia di perdute

cose, o mera invenzion di ciò che mai

non è esistito esser dovrebber? Quando

con amore e passione all’universo

il sagace intelletto sarà unito

dell’uom, gli sembreranno queste cose

un semplice prodotto quotidiano.

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L’universo non è freddo bensì attivo e suscettibile di essere plasmato da un

potere all’interno dell’uomo. La poesia registra l’azione nobilitante e lo spirito del

poeta trasforma il mondo inanimato infondendogli la vita. Perciò, scrisse

Wordsworth,

Un amante son io dei prati e boschi

e dei monti e di quanto contempliamo

di questa verde terra; del possente

mondo dei suoni e della luce, a mezzo

da lor creato e da noi percepito;

ben disposto a veder nella natura

il linguaggio dei sensi, e dei più puri

pensieri miei l’ancora di salvezza,

la nutrice, la guida, la custode

del mio cuore e dell’anima e di tutto

l’essere mio morale...

Sapendo che giammai tradì natura

il cuor che l’ama...

La natura rimase il tema principale dei poeti ma fu una natura soffusa di

sentimento, viva e vibrante, ricca di colore, attraente per i sensi e misteriosa, e

non la natura ristretta alle catene di leggi astratte. I poeti dell’Ottocento scelsero le

esperienze concrete della natura, “sensazioni dolci, sentite nel sangue e col

cuore.” Essi gioirono dei suoni, della luce, degli odori e dello spettacolo della vita

stessa. Il sorgere e il tramonto del sole offuscarono l’analisi matematica della

luce; il fuoco vitale del Sole mise in ombra la sua attrazione gravitazionale nei

confronti di altre masse; e il vento selvaggio dell’ovest – “il soffio dell’essere

dell’autunno,” lo spirito incontrollabile spirante ovunque, e traente dal lungo

torpore l’azzurro Mediterraneo – spazzò via il moto meccanico, regolare, delle

molecole d’aria.

Benché i poeti romantici si ribellassero, non si liberarono completamente dalle

catene che costringevano il loro spirito. Di fatto, il progresso nel pensiero

matematico e scientifico compiuto durante l’Ottocento rafforzò le concezioni

dell’universo avanzate così ardentemente dai razionalisti settecenteschi e,

ovviamente, i poeti furono dolorosamente consapevoli di questo fatto. Quando i

loro slanci appassionati si furono un po’ acquietati, essi riaffrontarono

nuovamente il problema del significato dell’universo. Per tutto l’Ottocento essi

meditarono e furono divisi fra la spiegazione della natura fornita dalla matematica

e dalla scienza e quella fornita dai sensi. Matthew Arnold svelò ai suoi

contemporanei che il mondo,

...il quale sembra

stendersi innanzi a noi come un paese

di sogno, così vario, bello, nuovo,

non conosce in realtà gioia né amore,

né luce, né certezza, né sollievo

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al dolore, né pace e noi siam come

sperduti in un profondo oscuro piano,

dai confusi clamori della lotta

percorso e della fuga, dove ignari

eserciti contendono di notte.

Il conflitto fra il cuore e la mente è ancora il tema principale della poesia.

Quanto più alte sono state le realizzazioni della ragione, tanto più è cresciuto il

turbamento dei poeti.

La letteratura non fu l’unica arte a essere fortemente influenzata dal dominio

quasi assoluto dello spirito matematico dell’età newtoniana. La pittura,

l’architettura, l’arte dei giardini e persino il disegno di mobili divennero oggetto

nel Settecento di rigide convenzioni e fissarono esplicitamente norme. I precetti

del pittore Sir Joshua Reynolds illustrano il carattere artistico dei tempi. Egli

sottolineo la fedeltà all’oggetto dipinto, la subordinazione del colore all’idea e il

sacrificio dei particolari agli elementi generali ed eterni. Fu chiesto inoltre al

pittore di rivolgersi non all’occhio bensì alla mente. In architettura e nelle arti

minori dominarono l’ordine, l’equilibrio, la simmetria e la rigorosa aderenza a

ben note forme geometriche semplici. Accademie artistiche formate sul modello

delle fortunate accademie scientifiche promulgarono i criteri dell’arte ed

esercitarono una grande influenza nello stabilire e nell’assicurare l’adesione allo

stile. Purtroppo la nostra breve rassegna delle influenze newtoniane non consente

estese disgressioni nella storia di queste arti.

Successivamente ai mutamenti nel carattere della letteratura, della pittura e

delle altre arti si ebbero mutamenti nella filosofia dell’estetica, i quali

razionalizzarono e giustificarono i nuovi atteggiamenti. La nuova tesi dell’estetica

fu che l’arte, come la scienza, era derivata dallo studio e dall’imitazione della

natura e che perciò, come la natura, era suscettibile di formulazione matematica.

Secondo Sir Joshua Reynolds,

È uno stesso gusto ad apprezzare una dimostrazione in geometria, a gioire della somiglianza

di un quadro al suo originale e a essere commosso per l’armonia di una musica. Tutti questi

fatti hanno basi inalterabili e fisse in natura.

Di più, scrisse Sir Joshua, l’essenza della bellezza è l’espressione di leggi

universali.

Come l’osservazione aveva prodotto le leggi di Keplero, così lo studio della

natura avrebbe rivelato le leggi dell’arte. Alcuni ritenevano invece che la ragione

da sola, indipendentemente dall’osservazione, potesse dedurre col metodo

geometrico a priori le leggi matematiche dell’estetica, poiché la bellezza, come la

verità, è appresa dalla facoltà razionale.

Così gli uomini studiarono la natura o applicarono le loro facoltà razionali a

ridurre l’arte a un sistema di regole e la bellezza a una serie di formule

caratterizzanti. Furono formulati precetti per raggiungere la bellezza e furono

compiute analisi della natura del sublime. Ci si attendeva che la ricerca della

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bellezza in natura producesse non soltanto un ideale astratto di bellezza ma anche

i suoi caratteri principali. Disponendo di queste conoscenze, avrebbero potuto

essere create belle opere quasi a volontà, attraverso l’osservanza delle regole

d’arte così scoperte. Purtroppo la grande arte non viene ancora creata su una base

di produzione di massa; ciò si deve forse al fatto che nessun moderno capitalista

industriale ha messo a frutto le scoperte del Settecento.

I capitoli sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo hanno dato qualche

indicazione, almeno lo speriamo, sulla rivoluzione causata nella cultura dalla

matematica newtoniana.8 Alla morte di Newton i mutamenti erano già enormi e

l’influenza della scienza newtoniana sulla cultura artistica cominciava appena a

farsi sentire. Le implicazioni e le amplificazioni della matematica newtoniana

stanno ancora plasmando il nostro pensiero così come il nostro modo di vivere. Di

fatto, la settecentesca Età della Ragione contrassegnò semplicemente l’inizio di

una cultura essenzialmente moderna di contro a una precedente cultura

ecclesiastica e feudale.

In generale, la grande realizzazione di Newton e dei suoi contemporanei

consisté nell’avere iniziato una grande ricerca intellettuale sulla natura del mondo,

dell’uomo, della società e di quasi ogni istituzione e usanza dell`uomo. Quest’età

trasmise alle generazioni successive l’ideale di leggi universali, onnicomprensive.

Essa avviò inoltre la nostra civiltà a una ricerca dell’onniscienza, stimolò il

desiderio di organizzare il pensiero in sistemi costruiti sul modello matematico e

instillò una fede nel potere della matematica e della scienza. Il massimo

significato storico delle creazioni matematiche del Seicento e del Settecento è che

esse alimentarono lo spirito razionalistico che aveva soffuso quasi tutti i settori

della nostra cultura.

Sulla base dei successi sensazionali conseguiti dalla matematica e dalla scienza

newtoniane nei campi dell’astronomia e della meccanica gli intellettuali del

periodo illuministico espressero la convinzione che tutti i problemi dell’uomo

sarebbero stati ben presto risolti. Se questi uomini avessero avuto sentore delle

ulteriori meraviglie che la scienza e la matematica avrebbero rivelato ben presto,

sarebbero stati ancora meno riservati, se possibile, nelle loro attese. Oggi è

evidente che l’ottimismo nutrito da questi pensatori era ingiustificato. La loro

convinzione era nondimeno profetica, almeno nella misura di una semiverità,

poiché la matematica e la scienza avrebbero, se non risolto tutti i loro problemi,

almeno rifatto il mondo. Anche in quei campi in cui erano stati compiuti ben

pochi progressi verso la soluzione di problemi fondamentali, gli ideali dell’Età

della Ragione fornirono ancora i fini e la forza per conseguirli.

8 Si veda anche il capitolo ventunesimo, La scienza della natura umana.

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XIX. Il seno del sol maggiore

La musica è il piacere che l’anima umana trae dal

contare senza avere coscienza di stare contando.

GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ

Può darsi, per improvvisare sulla storia, che Pitagora abbia trascorso varie ore,

seduto all’ombra degli olivi natii, a pizzicare le corde di una lira. In un qualche

modo del genere egli scopri che l’altezza dei suoni emessi da una corda pizzicata

dipende dalla sua lunghezza e che suoni armonici sono emessi da corde le cui

lunghezze stanno fra loro come numeri interi semplici. Dal tempo di Pitagora lo

studio della musica fu considerato di natura matematica e alla matematica fu

associato. Quest’associazione fu sancita formalmente nel curriculum del sistema

d’istruzione medievale, in cui aritmetica, geometria, sfera (astronomia) e musica

componevano il famoso quadrivio. I quattro argomenti erano inoltre legati

assieme in una descrizione che li presentava rispettivamente come numero puro,

stazionario, mobile e applicato.

Durante i molti anni trascorsi dall’età di Pitagora all’Ottocento, matematici e

musicisti, greci, romani, arabi ed europei, cercarono di comprendere la natura dei

suoni musicali e di estendere la relazione fra matematica e musica. Sistemi di

scale e teorie dell’armonia e del contrappunto furono sezionati e ricostruiti. Il

culmine di questa lunga serie di investigazioni, da un punto di vista matematico,

fu segnato dall’opera del matematico J.-B.-J. Fourier, il quale dimostrò che tutti i

suoni, vocali e strumentali, semplici e complessi, sono descrivibili completamente

in termini matematici. A causa dell’opera di Fourier neppure la bellezza elusiva di

una frase musicale si sottrae alla sottomissione a una formulazione matematica.

Mentre Pitagora si accontentò di pizzicare le corde di una lira, Fourier suonò

l’intera orchestra.

Benché Joseph Fourier, nato in Francia, ad Auxerre, nel 1768, fosse un ottimo

studente di matematica, desiderava con tutte le proprie forze diventare ufficiale di

artiglieria. Quando gli fu negato un brevetto da ufficiale perché era figlio di un

sarto, tornò a studiare a malincuore per farsi prete. Abbandonò questa via quando

la sua abilità matematica gli valse una cattedra proprio nella scuola militare che

aveva frequentato; per una posizione così modesta come quella di insegnante di

matematica non era infatti necessaria un’elevata condizione sociale.

Nel 1807, dopo anni di servizio politico e scientifico a Napoleone, presentò

all’Académie française un teorema di importanza senza precedenti per il

progresso delle scienze fisiche. Questo teorema fece progredire il dominio

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matematico dei moti delle onde d’aria quanto Newton aveva portato avanti lo

studio dei moti dei corpi celesti. L’Ottocento era chiaramente avviato a realizzare

le grandiose speranze suscitate dal Settecento.

Fig. 53. Moto di molecole d’aria causata da un diapason in vibrazione.

Vedremo ora come l’opera di Fourier rese possibile una profonda analisi

matematica dei suoni musicali. Supponiamo che un violinista sia sulla scena di un

grande teatro e che tenti con l’archetto le corde del suo strumento. Alcune delle

note emesse durano solo una frazione di secondo; altre sono prolungate; alcune

sono forti, altre in sordina; alcune sono alte, altre basse. Persone sedute a una

trentina di metri di distanza odono tutti questi suoni esattamente come sono

emessi. Che cosa accade fisicamente quando il violinista suona e in che modo la

sua musica raggiunge il pubblico?

Per facilitare la spiegazione consideriamo dapprima il semplice suono emesso

da un diapason. Se un rebbio di un diapason viene colpito, il diapason oscillerà

rapidissimamente. Quando il rebbio si muove verso destra per la prima volta

comprime insieme le molecole d’aria contigue (fig. 53). Questa compressione è

chiamata condensazione. Poiché la pressione dell’aria tende a diventare uniforme,

le particelle d’aria condensate continuano a muoversi verso destra, dove c’è una

densità minore. Qui il processo continua e la condensazione seguita a spostarsi

verso destra.

Nel frattempo, però, il rebbio si è mosso verso sinistra andando oltre la sua

posizione originaria. Rimane pertanto relativamente vuota una regione nella

posizione precedentemente occupata dal rebbio. Le molecole d’aria situate a

destra di questa regione si precipitano in questo spazio meno popolato, creando

un’altra regione rarefatta in corrispondenza della regione occupata in precedenza.

Le molecole che si trovavano a destra si spostano ora a sinistra in questa regione

rarefatta, e così via. Se chiamiamo rarefazione la creazione di una regione

rarefatta, possiamo dire che ciò che sta ora accadendo è che una rarefazione sta

muovendo verso destra a partire dal rebbio. Ogni movimento del rebbio verso

destra e verso sinistra manda verso destra una condensazione e una rarefazione.

Abbiamo considerato i moti che hanno luogo a destra del rebbio. Di fatto,

condensazioni e rarefazioni si muovono in tutte le direzioni. Quando queste

condensazioni e rarefazioni raggiungono il nostro timpano, le vibrazioni che vi

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inducono vi causano la sensazione di suono. È importante osservare che le

molecole d’aria non si muovono dal diapason all’orecchio. Ciascuna molecola si

muove avanti e indietro in una regione limitata attorno alla posizione da essa

occupata prima che venisse disturbata. Ciò che viene trasmesso è la successione

di condensazioni e rarefazioni, e queste costituiscono l’onda sonora.

A rigore, non tutte le molecole d’aria in una regione particolare si muovono

esattamente nello stesso modo; quel che ci interessa è però l’effetto netto dei loro

movimenti collettivi. Questo può essere descritto nei termini del moto di una

molecola tipica. Supponiamo che questa molecola si trovi originariamente in O

(fig. 54). Una condensazione ne determina lo spostamento a destra, in A. La

successiva rarefazione la fa muovere indietro, oltre la posizione originaria, fino in

B; la condensazione successiva la fa ora muovere verso O. La molecola ha

compiuto ora una vibrazione completa. Senza però fermarsi in O, la molecola,

sotto gli impulsi successivi provenienti dal diapason in vibrazione, prosegue a

muoversi avanti e indietro da B ad A e da A a B. Lo spostamento della molecola

dalla sua posizione originaria varia continuamente nel tempo durante il quale si

muove.

Fig. 54. Moto di una molecola d’aria tipica.

Il movimento della molecola d’aria tipica è illustrato chiaramente da uno

strumento delicatissimo chiamato fonodeik. Quando un suono viene prodotto in

prossimità di questo strumento, esso registra le vibrazioni dell’aria nella forma di

un diagramma che riproduce lo spostamento della molecola d’aria tipica. La

molecola si muove avanti e indietro lungo una linea retta. Il diagramma illustra lo

spostamento dalla posizione di quiete originaria sotto forma di distanza verticale,

mentre l’asse orizzontale sul diagramma rappresenta il tempo trascorso dall’inizio

del moto. La parte della curva da O a Q (fig. 55) rappresenta il moto della

molecola tipica durante una vibrazione completa del diapason; quella da Q a R il

moto durante un’altra vibrazione completa e così via. Se il diapason è percosso in

modo da far sì che la molecola d’aria tipica si muova per un massimo di 0,0025

centimetri prima da un lato della sua posizione originaria e poi dall’altro, il

fonodeik registra un diagramma con un’ampiezza, ossia con uno spostamento

massimo, di 0,0025 centimetri. Se il diapason compie 200 vibrazioni complete in

un secondo, lo stesso farà la molecola d’aria tipica; e il fonodeik registrerà in un

secondo 200 parti complete come quella da O a Q.

Abbiamo quindi un’immagine fisica di come il suono di un diapason si

propaghi nello spazio. È possibile rappresentare questo suono con una formula, e

in tal caso che cosa guadagniamo da una tale rappresentazione?

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Fig. 55. Diagramma della spostamento in funzione del tempo di una molecola

d’aria tipica.

Il suono di un diapason è semplice se paragonato con suoni vocali e

strumentali, ma per il momento consideriamo il compito di rappresentare

matematicamente questo suono semplice. Ciò che cerchiamo e quindi una formula

che metta in relazione lo spostamento e il tempo impiegato da una molecola

tipica, nello stesso modo in cui esiste, come abbiamo visto, una formula che mette

in relazione la distanza percorsa da un corpo in caduta libera e il tempo impiegato

a percorrere tale distanza.

Fig. 56. Diagramma di y = sen x.

Il matematico ha la formula pronta. Egli ha nella sua scorta di relazioni fra

variabili la formula y = sen x, la quale possiede proprietà con le quali possiamo

familiarizzarci nel modo migliore osservandone la relativa rappresentazione

grafica. Come illustra la figura 56, i valori y di questa funzione aumentano da 0 a

1 quando x aumenta da 0 a 90; quando x, continuando a crescere, va oltre questo

valore, i valori di y diminuiscono fino a 0, diventando quindi negativi fino a

raggiungere il valore -1, e poi aumentano per assumere il valore 0 quando x

raggiunge il valore di 360. Nell’intervallo compreso fra x = 360 e x = 720, i valori

della y ripetono il loro comportamento da x = 0 a x = 360. In ciascun intervallo

successivo di 360 unità di valori della x, i valori della y ripetono di nuovo il

comportamento presentato nel primo intervallo di 360 unità della x. In altri

termini, la funzione è regolare o periodica, ovvero, come possiamo anche dire, il

ciclo di valori della y si ripete dopo ogni intervallo di 360 unità di valori della x.

Nel corso di questi secoli tale relazione fu ampliata in modo da assegnare a

qualsiasi valore della x, non importa quanto grande, un valore della y, come

illustra la figura 56. La formula y = sen x è quindi un nemico vecchio con un volto

nuovo che è tornato a tormentarci. A causa della sua origine dalle relazioni

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introdotte per la misurazione dei triangoli, y = sen x è chiamata una funzione

trigonometrica.

Il lettore avrà probabilmente notato l’uso del vocabolo “seno” e lo avrà messo

in connessione con la matematica del periodo alessandrino. I valori della y della

funzione y = sen x, con x che varia da 0 a 90, sono precisamente i valori del

rapporto trigonometrico sen x, al variare di x da 0° a 90°. Nel corso dei secoli

passati da Ipparco all’epoca del matematico svizzero Eulero, i rapporti

trigonometrici, che in origine erano definiti per angoli in triangoli rettangoli,

furono separati dagli angoli e vennero a essere considerati esclusivamente come

relazioni fra variabili. Così y = sen x divenne una relazione fra due variabili y e x.

Fig. 57. Diagrammi di y = sen X e di y = 3 sen x.

Questa funzione non rappresenta interamente il suono di un diapason bensì una

modificazione semplicissima di esso. Un piccolo sforzo produrrà la modificazione

appropriata. Consideriamo y = 3 sen x. Questa formula differisce da y = sen x per

il fatto che per un medesimo valore della x il valore della y è nella prima

equazione tre volte maggiore che nella seconda. La figura 57 illustra il

comportamento di y = 3 sen x e lo mette a confronto con y = sen x. Possiamo

descrivere la curva di y = 3 sen x dicendo che essa ha una forma simile a quella

della curva comune del seno; la sua ampiezza, ovvero il suo valore massimo di y,

è però 3 unità, mentre l’ampiezza di y = sen x è 1. Similmente, il diagramma di y

= a sen x, dove a è un numero positivo scelto a piacere, ha la forma generale della

curva del seno ma con un’ampiezza di a unità.

Un’altra variazione semplice della funzione del seno è illustrata da y = sen 2x.

Potremmo supporre che questa funzione sia la stessa di y = 2 sen x e perciò che

essa sia un altro esempio del tipo appena analizzato. Vedremo però subito che non

è così. L’effetto del 2 nella formula y = sen 2x è immediatamente apprezzabile in

un diagramma. La figura 58 fa vedere come sen 2x assuma nell’intervallo da 0 a

180 l’intero ciclo di valori della y che sen x assume nell’intervallo da 0 a 360.

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All’epoca in cui x raggiunge il 360, y = sen 2x passa per due cicli completi di

valori della y mentre y = sen x passa attraverso un ciclo solo. Si dice perciò che la

frequenza della prima funzione in 360 unità x sia 2. L’ampiezza di y = sen 2x è 1,

poiché il massimo valore numerico del seno di ogni quantità è 1.

Fig. 58. Diagramma di y = sen 2x.

Possiamo generalizzare il risultato visto sopra al caso della funzione y = sen bx,

dove b è un numero positivo scelto a piacere. La frequenza di y = sen 2x è 2.

Similmente, la frequenza di y = sen bx nell’intervallo di 360 unità della x è b: ciò

significa che nel passaggio della x da 0 a 360 i valori della y ripetono l’intero ciclo

di variazioni b volte. Come nel caso di y = sen 2x, l’ampiezza di y = sen bx è 1.

Fig. 59. Diagrammi di y = sen x e di y = 3 sen 2x.

Una variazione della funzione del seno che differisce sia in ampiezza sia in

frequenza dal comportamento di y = sen x è esemplificata da y = 3 sen 2x. In

questa funzione i valori della y sono tre volte maggiori dei valori ottenuti da y =

sen 2x per gli stessi valori di x. Perciò l’ampiezza di 3 sen 2x è 3 e la sua

frequenza in 360 unità di valori della x è 2 (fig. 59).

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I risultati che abbiamo ottenuto finora possono essere compendiati

dall’affermazione che la funzione y = a sen bx, dove a e sono numeri positivi

scelti a piacere, ha l’ampiezza a e la frequenza b in 360 unità di valori della x.

Siamo ora preparati a rappresentarci matematicamente il suono del diapason.

Un confronto dei diagrammi che abbiamo esaminato finora col diagramma reale

del diapason suggerisce nozioni che il ragionamento teorico può confermare. La

funzione che mette in relazione lo spostamento e il tempo della tipica molecola

vibrante dell’aria ha la forma y = a sen bx. Per riprodurre il comportamento del

diapason dobbiamo semplicemente determinare i valori appropriati di a e di b.

Se l’ampiezza del moto di una molecola d’aria tipica, quando su di essa agisce

il diapason, è di 0,0025, allora questo numero dovrebbe essere il valore di a nella

formula y = a sen bx; e se il diapason, e perciò la molecola d’aria tipica, compie

200 vibrazioni al secondo, il diagramma del moto di questa molecola ha una

frequenza di 200 al secondo. Ma la frequenza di y = a sen bx è b in 360 unità,

ovvero b/360 in un’unità.9 Perciò b/360 dovrebbe essere uguale a 200. Si ha allora

b = 360 200 = 72 000. La formula che descrive il suono del diapason è pertanto

y = 0,0025 sen 72 000t,

dove abbiamo scritto t invece di x per tenere a mente che questa variabile

rappresenta valori del tempo.

Ovviamente pochissimi suoni musicali sono altrettanto semplici di quelli

emessi dal diapason. I suoni di un flauto si approssimano a quelli semplici di un

diapason, ma il flauto è l’eccezione, non la regola. Che cosa ha da dire la

matematica a proposito di suoni più complessi? In che modo rende ragione del

carattere dolce di alcuni suoni e di quello discordante di altri? Perché una

medesima nota emessa da un violino e da un pianoforte suona diversa

all’orecchio?

Una parte della risposta a queste domande risulta dall’osservazione dei

diagrammi dei vari suoni. I diagrammi di tutti i suoni musicali – tra questi sono

compresi anche i suoni comuni della voce umana – presentano una certa

regolarità. In altri termini, ogni curva dello spostamento in relazione al tempo si

ripete esattamente molte volte ogni secondo. Questa periodicità è esemplificata

dai diagrammi del suono del violino e di quello del clarinetto, oltre che dal

diagramma del suono della vocale a nella parola father (padre) (fig. 60).

I suoni che posseggono questa regolarità grafica sono complessivamente

gradevoli all’orecchio e sono distinguibili, ad esempio, dal rumore di una scatola

di latta fatta rotolare sulla strada: quest’ultimo rumore ha un diagramma

estremamente irregolare. Tutti i suoni che posseggono una regolarità grafica o

9 La frequenza di suoni reali si riferisce al numero di vibrazioni in una unità di tempo, di solito un

secondo. La frequenza in 360 unità è chiamata la frequenza circolare.

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periodicità sono chiamati tecnicamente suoni musicali comunque vengano

prodotti.

Fig. 60. La periodicità di suoni vocali e strumentali (per gentile concessione di

Dayton C. Miller).

In termini “grafici” possediamo dunque il carattere distintivo fra suoni

gradevoli e sgradevoli, fra suoni musicali in senso ampio e rumori. Purtroppo

questo carattere della regolarità è posseduto da un numero così sterminato di

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suoni musicali da rendere necessaria un’ulteriore analisi e caratterizzazione:

eppure questo compito è parso impossibile fino all’Ottocento. Poi entrò in scena

Fourier e disperse la confusione.

Formulato come un teorema di matematica pura, il contributo di Fourier

sembra abbastanza scialbo. Il teorema dice semplicemente che la formula che

rappresenta un suono periodico è una somma di semplici termini di seni della

forma a sen bx. Le frequenze di questi termini di seni sono inoltre tutti multipli

integrali di quello più basso, ossia il doppio, il triplo e così via.

Per illustrare il significato del teorema di Fourier, analizziamo uno dei suoni

offertici da un violinista compiacente, ad esempio quello rappresentato

graficamente nella figura 60 in alto. La formula che rappresenta tale diagramma è

essenzialmente10

y = 0,15 sen 180 000t + 0,05 sen 360 000 t + 0,025 sen 540 000 t.

Osserviamo innanzitutto che, in accordo col teorema di Fourier, la formula è

una somma di semplici termini di seni. In secondo luogo, la frequenza del primo

termine è 180000 in 360 unità di t, ossia in 360 secondi, che corrisponde a una

frequenza di 180 000/360 ovvero 500 al secondo. Analogamente, la frequenza del

termine successivo è di 1000 e quella del terzo termine è di 1500. Le frequenze

del secondo e del terzo termine sono perciò multipli interi della frequenza più

bassa. Il grafico di ciascuno di questi termini di seni semplici è illustrato nella

figura 61.

Or dunque, qual è il significato fisico del teorema di Fourier? In linguaggio

matematico, il teorema ci dice che la formula per ogni suono musicale è una

somma di termini della forma a sen bx. Poiché ciascuno di tali termini rappresenta

un suono semplice, diciamo il suono di un diapason con la opportuna frequenza e

ampiezza, il teorema dice che ciascun tuono musicale, per quanto complesso, è

semplicemente ana combinazione di suoni semplici come quelli emessi da un

diapason.

La deduzione matematica che ogni suono musicale complesso può essere

realmente costruito da suoni semplici è verificabile fisicamente. Gli esperimenti

dimostrano che una corda vibrante, come nel pianoforte e nel violino, si comporta

come se emettesse vari suoni semplici simultaneamente. Ciascun suono semplice

può essere di fatto rivelato da appositi strumenti.

Una prova ancor più notevole della natura composta dei suoni musicali è

fornita dal fatto che ogni suono musicale può essere duplicato con l’opportuna

combinazione di suoni semplici di diapason. Ad esempio, un suono il cui timbro è

praticamente indistinguibile dalla qualità del suono di violino esaminato in

precedenza, può essere prodotto suonando simultaneamente, con intensità

appropriata, tre diapason con frequenza di 500, 1000 e 1500 vibrazioni al

secondo. Questi tre diapason, che suonano simultaneamente, impongono le loro

proprie vibrazioni a una molecola d’aria tipica, in modo che il loro effetto sulle

10 Per semplicità abbiamo trascurato l’elemento relativamente poco importante della fase.

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molecole d’aria è registrato dal fonodeik come un unico diagramma. Se ciascun

rebbio è messo in movimento nell’istante appropriato, il fonodeik registrerà la

stessa curva che registra per il suono complesso del violino. È perciò teoricamente

possibile eseguire l’intera Nona Sinfonia di Beethoven (compreso l’Inno alla

gioia) con diapason. È questa una delle implicazioni più sensazionali del teorema

di Fourier.

Fig. 61. Diagrammi dei termini di seno componenti nel suono di un violino.

Ogni suono complesso può esser quindi composto con un’opportuna

combinazione di suoni semplici. I suoni semplici sono chiamati i componenti

parziali o gli armonici del suono. Fra i componenti parziali, quello che ha la

frequenza più bassa è chiamato il primo componente o tono fondamentale. Il tono

immediatamente successivo è detto secondo componente e la sua frequenza è,

secondo il teorema di Fourier, doppia di quella del tono fondamentale; il tono che

presenta la frequenza immediatamente più alta è detto terzo componente e ha una

frequenza tripla della prima, e così via.

Questa scomposizione di suoni complessi in suoni parziali o armonici ci aiuta a

descrivere matematicamente la caratteristica principale di tutti i suoni musicali.

Ciascuno di tali suoni, semplice o complesso che sia, ha tre proprietà che servono

a distinguerlo da altri suoni musicali, ossia l’altezza, l’intensità e il timbro.

Quando diciamo, di un suono, che è alto o basso ci riferiamo al suo timbro. Ad

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esempio le note di un pianoforte, andando dalla parte sinistra della tastiera verso

destra, salgono dai toni bassi a quelli alti. La seconda proprietà del suono,

l’intensità, è comprensibile immediatamente. Alcuni suoni sono così deboli da

riuscire impercettibili; altri ci spaventano per la loro intensità. Il timbro è infine

ciò che distingue un suono da altri suoni aventi la medesima intensità e altezza.

Quando un violinista e un flautista producono suoni della medesima altezza e

intensità, riconosciamo una differenza di timbro grazie alle differenze esistenti fra

i due strumenti.

Ciascuno di questi caratteri – intensità, altezza e timbro – può essere “spiegato”

matematicamente. Il più intenso fra due suoni ha una curva che presenta una

maggiore ampiezza. Poiché l’ampiezza di una curva è lo spostamento massimo

delle molecole d’aria che trasportano il suono, ne segue che l’intensità di un

suono dipende dal massimo spostamento subito dalle molecole d’aria vibranti;

quanto maggiore è questo spostamento, tanto più intenso è il suono. Questa

conclusione è facilmente accettabile poiché sappiamo per esperienza che per

ottenere da una chitarra un suono molto intenso dobbiamo far vibrare le corde con

più forza che per ottenerne un suono debole.

I suoni che hanno la stessa altezza producono diagrammi aventi la stessa

frequenza, mentre i diagrammi di suoni più alti hanno frequenze maggiori di

quelli di suoni più bassi. Così il diagramma del do di mezzo sul pianoforte ha una

frequenza di 261,6 al secondo e lo stesso suono un’ottava più in alto ha una

frequenza di 523,2 al secondo.

L’altezza di un suono complesso, ovvero la frequenza del suo diagramma, è

sempre quella del tono fondamentale. Consideriamo ad esempio la formula per il

suono del violino. Gli armonici hanno qui rispettivamente le frequenze di 500,

1000 e 1500. Ciò significa che il diagramma del secondo suono parziale compirà

due cicli completi mentre il diagramma del tono fondamentale avrà percorso il

suo primo ciclo. Similmente, il diagramma del terzo suono parziale compirà tre

cicli completi mentre il tono fondamentale compie il suo primo ciclo.

Fig. 62. Note diverse suonate dal flauto (per gentile concessione di Dayton C.

Miller).

Il diagramma composto ripeterà però il suo comportamento quando e solo

quando lo ripeterà il diagramma del tono fondamentale, ossia dopo 1/500 di

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secondo. Ciò significa che le molecole d’aria cominceranno a ripetere il loro

comportamento dopo 1/500 di secondo. Poiché è questa frequenza a determinare

l’altezza di un suono, ci rendiamo conto del perché l’altezza del suono complesso

sia determinata dal tono fondamentale.

Il timbro di un suono musicale incide sulla figura o forma del diagramma. Se

un suono di una medesima altezza e intensità è prodotto successivamente da un

diapason, da un violino e da un clarinetto, i diagrammi corrispondenti ai diversi

strumenti hanno lo stesso periodo e la stessa altezza ma differiscono per la figura

(cfr. fig. 60), mentre i diagrammi di note diverse suonate dal medesimo strumento

presentano sempre la medesima figura generale (fig. 62). Ciò significa che

ciascuno strumento ha il suo timbro caratteristico.

La figura del diagramma dipende, a sua volta, in parte da quali armonici siano

presenti nel suono e in parte dall’intensità relativa di questi armonici. Il secondo

suono componente, la cui frequenza è doppia di quella del tono fondamentale, può

essere così debole da non avere quasi alcun effetto sul suono. Matematicamente

parlando, il diagramma del secondo suono componente può avere un’ampiezza

così piccola da non modificare quasi la figura del diagramma dell’intero suono.

Ad esempio, nelle note più alte di un flauto, tutti i suoni componenti eccettuato il

primo sono così deboli che i suoni composti sono praticamente semplici. Da

questo punto di vista i toni del flauto sono simili a quelli di una voce di soprano di

altezza simile. Il flauto è perciò usato spesso per accompagnare un soprano in arie

d’opera e la combinazione produce un effetto assai gradevole. Nella voce di un

baritono, gli armonici sono generalmente fortissimi nell’ordine sei, sette, cinque,

tre, otto ecc. Un tale suono è illustrato nella figura 60, dove la lettera a è stata

emessa da un baritono all’altezza di 159 cicli al secondo. In alcuni toni dell’oboe

(fig. 63), i suoni parziali quarto, quinto e sesto sono più intensi dei primi tre. Nel

suono di un clarinetto illustrato nella figura 60, i suoni parziali ottavo, nono e

decimo predominano; successivamente vengono il settimo, il primo e il terzo.

Fig. 63. Suono di un oboe (per gentile concessione di Daylon C. Miller).

Dovrebbe essere ora evidente che non soltanto la natura generale dei suoni

musicali bensì anche la loro struttura e le loro proprietà generali possono essere

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caratterizzate matematicamente. Con un tratto della penna di Fourier una varietà

sterminata di suoni – la voce umana, i toni di un violino e il lamento di un gatto –

è ridotta a combinazioni elementari di suoni semplici e ciascuno di questi, a sua

volta, non è più complesso matematicamente di una funzione trigonometrica

semplice. Quelle formule matematiche tediose, astratte, che hanno tormentato

senza fine gli studenti delle scuole medie e dell’università, hanno in realtà con noi

un legame molto stretto, Noi diamo loro voce ogni volta che apriamo bocca e le

udiamo ogni volta che tendiamo l’orecchio.

Grazie a Fourier ci è ora chiara la natura di singoli suoni musicali. Ma che cosa

ha da dire la matematica su combinazioni armoniche di suoni, sull’essenza delle

belle composizioni musicali, sull’“anima” della musica? La risposta a questa

domanda richiederebbe molti volumi; tutto ciò che possiamo fare qui è leggerne la

prima pagina.

Gli accordi o combinazioni di toni più piacevoli, come scoprirono i pitagorici,

sono composti da suoni i rapporti delle cui frequenze si identificano con i rapporti

di numeri interi semplici. La terza maggiore, ad esempio, È costituita da una

coppia di toni, o, come si dice comunemente, da un intervallo, le cui frequenze

sono fra loro nel rapporto di 4 a 5; la quarta è una coppia di toni le cui frequenze

sono nel rapporto di 3 a 4; e la quinta consta di frequenze nel rapporto di 2 a 3.

Nessuna spiegazione del perché l’orecchio senta queste armonie come gradevoli

si è spinta molto oltre il riconoscimento delle relazioni numeriche esistenti fra le

altezze in gioco.

Poiché l’orecchio accetta come armoniche solo certe combinazioni di note, la

costruzione di una scala musicale soddisfacente è un problema piuttosto

complicato. Al fine di suonare accordi armonici, la scala deve fornire toni con i

rapporti di frequenza appropriati. Oltre a questa richiesta, altre ne sono poste

dall’introduzione della musica polifonica o contrappunto e dalla desiderabilità di

utilizzare varie chiavi per ottenere diversi effetti emotivi. Vari musicisti e

matematici hanno tentato di soddisfare tutte queste richieste.

Poiché non è possibile avere su strumenti come il pianoforte, in cui la

frequenza di ogni nota è fissata, una gamma illimitata o anche solo ampia di

frequenze, le difficoltà furono risolte con la costruzione della scala temperata. La

difesa di questa scala da parte di J.S. Bach e del figlio di lui, Karl Philipp

Emanuel Bach, condusse alla sua permanente adozione nella civiltà occidentale.

La scala temperata contiene dodici note; così, dal do al do2, che è un’ottava

sopra, ci sono dodici intervalli. Le frequenze delle undici note intermedie sono

fissate in modo che ciascuna abbia un rapporto costante con la precedente. Poiché

do al do2 ci sono dodici intervalli e poiché il rapporto delle frequenze di queste

due note è 2, il rapporto delle frequenze delle note consecutive è 1,0594, poiché

(1,0594)12

= 2. Nella scala temperata ogni intervallo, chiamato semitono, è di

conseguenza uguale. Ogni nota può dunque essere usata come la chiave di una

composizione. Gli intervalli che possono essere formati con le note di questa scala

non sono però esattamente quelli che abbiamo indicato come i più gradevoli. Al

fine di produrre l’accordo di quinta, in cui il rapporto fra le frequenze delle due

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note è di 3 a 2, il meglio che si possa fare sulla scala temperata è scegliere due

note il cui rapporto di frequenza sia 1,498. L’intervallo della quarta, che dovrebbe

richiedere un rapporto di frequenza di 4 a 3, può essere approssimato col rapporto

di 1,335. Queste differenze, per quanto sembrino insignificanti, possono essere

nondimeno scoperte da un buon orecchio. Ovviamente il violinista, quando regola

la lunghezza e la tensione delle corde del suo strumento, e il cantante non hanno

bisogno di limitarsi alle frequenze della scala temperata. Il pianoforte, essendo

uno strumento fondamentale, ha però dettato la scala per la musica occidentale

negli ultimi due secoli.

La funzione della matematica nella musica si estende alla composizione stessa.

Maestri come Bach e Schönberg hanno costruito e patrocinato vaste teorie

matematiche per la composizione musicale. In tali teorie il modello creativo è

fornito non da un ineffabile sentimento spirituale bensì dalla fredda ragione.

Ma argomenti come gli accordi, le scale e le teorie della composizione esulano

dal nostro tema. La nostra rassegna delle relazioni fra matematica e cultura non ci

consente di soffermarci eccessivamente in queste direzioni. Le poche osservazioni

finora compiute indicano semplicemente quanto in profondità la matematica sia

penetrata nella sfera della musica dall’epoca in cui fu riconosciuto per la prima

volta che l’armonia delle sfere poteva essere ridotta a matematica.

Ovviamente l’analisi matematica dei suoni musicali ha una grande importanza

pratica. Un esempio sarà forse sufficiente a convincerci di questo fatto. Il telefono

cerca di riprodurre fedelmente i suoni. In considerazione della varietà di questi,

tale fine apparve dapprima quasi irraggiungibile con semplici congegni fisici. Il

teorema di Fourier ci dice però che tutti i suoni vocali sono semplicemente

combinazioni di suoni semplici di varia frequenza. Il problema è perciò

semplificato, riducendosi a quello della riproduzione di suoni semplici.

Un’ulteriore analisi dei diagrammi dei suoni umani reali per mezzo del teorema di

Fourier dimostra che per avere un’udibilità intelligibile si richiedono soltanto

suoni semplici con frequenze comprese fra 400 e 3000 cicli al secondo. La

progettazione del telefono fu perciò indirizzata verso la riproduzione di suoni

semplici con frequenze comprese nella gamma or ora citata. Furono ottenuti

progressi considerevoli nella qualità della riproduzione.

Anche i suoni musicali degli strumenti sono stati migliorati considerevolmente

grazie all’applicazione della matematica. L’analisi di corde vibranti ha fornito

conoscenze utili nella progettazione di pianoforti; l’analisi di membrane vibranti è

stata applicata alla costruzione di tamburi; e studi simili su colonne d’aria vibranti

hanno reso possibili grandi perfezionamenti nella costruzione di organi. L’analisi

armonica dei suoni musicali e usata anche dai costruttori di pianoforti, i quali

collocano i martelletti in modo tale da eliminare armonici indesiderati. La

matematica non soltanto offre un valido aiuto nella progettazione di questi

strumenti ma è spesso preferita all’orecchio per giudicare quale sia la struttura

perfetta di uno strumento. Molti produttori di strumenti convertono i suoni dei

loro strumenti in diagrammi per mezzo di congegni analoghi al fonodeik. Essi

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giudicano poi la qualità degli strumenti da loro prodotti osservando in quale

misura questi grafici corrispondano ai grafici ideali per i suoni di tali strumenti.

È vero indubbiamente che, per quanto concerne la progettazione degli

strumenti musicali, l’esperienza ha dato un contributo maggiore di quello della

matematica. È invece nettamente vero l’inverso nella progettazione di strumenti

di riproduzione, come radio, grammofoni, cinema sonoro e sistemi di

amplificazione. Gli aspetti tecnici di tutti i componenti di questi strumenti

complessi si fondano in gran parte sull’analisi dei suoni musicali compiuta da

Fourier. Anche il profano che diventa un appassionato della high-fidelity impara

ben presto a parlare il linguaggio di Fourier. Se si considerano i molti contributi

della matematica alla produzione e alla riproduzione di idee musicali, il moderno

appassionato della musica deve evidentemente non meno a Fourier che a

Beethoven.

Ci sono anche corollari filosofici all’opera di Fourier. L’essenza della bella

musica non si può ovviamente ridurre a quanto ci viene rivelato dall’analisi di

Fourier. Attraverso il teorema di Fourier, questa grande arte si presta però

perfettamente alla descrizione matematica. La più astratta fra tutte le arti può

essere perciò trascritta nella più astratta fra tutte le scienze e la più ragionata fra

tutte le arti viene chiaramente riconosciuta affine alla musica della ragione.

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XX. La padronanza delle onde dell’etere

Nell’aria è il mistero.

ANONIMO

Con la scoperta del pianeta Nettuno l’Ottocento ampliò in misura considerevole

il nostro universo materiale. Abbiamo già detto che il pianeta fu osservato dopo

che i matematici Adams e Leverrier ne avevano predetto l’esistenza e la

posizione. Ma quest’aggiunta al nostro universo di un pianeta molte volte più

grande della Terra non distolse l’umanità neppure per un istante dai suoi affari

quotidiani. Gli spiriti celesti di Copernico, di Keplero e di Newton si limitarono a

sorridere con indulgenza e a mormorare: “L’avevamo detto.”

Non molti anni dopo l’Ottocento assiste a un’altra scoperta, la quale, come

quella di Nettuno, non avrebbe potuto essere compiuta senza l’aiuto della

matematica. A differenza di Nettuno, questa nuova scoperta fu decisamente

inconsistente. La cosa scoperta non pesava, era invisibile e impalpabile, non

aveva sapore né odore; era ed è fisicamente ignota all’uomo. Eppure, a differenza

di Nettuno, questa “sostanza” inafferrabile ebbe effetti manifesti e addirittura

rivoluzionari sulla vita quotidiana di quasi tutti gli uomini, donne e bambini nella

civiltà occidentale. Essa rese possibili le comunicazioni attorno al mondo in un

batter d’occhio; ampliò la comunità politica dall’angolo della strada al pianeta

Terra; accelerò il ritmo della vita, promosse il diffondersi dell’istruzione, creò

nuove arti e industrie e rivoluzionò la guerra. Di fatto la vita intera ne risentì, in

tutti i suoi aspetti.

Il personaggio centrale in questa seconda scoperta fu uno scozzese, James

Clerk Maxwell, che era nato a Edimburgo nel 1831 e aveva poi studiato a

Cambridge, dove divenne successivamente professore. Benché fin da giovane

Maxwell manifestasse una grande attitudine al pensiero astratto – a scuola fu

molto brillante in matematica e pubblicò il suo primo saggio all’età di 15 anni –,

il suo più grande desiderio fu sempre quello di comprendere il funzionamento

fisico di fenomeni naturali e di congegni meccanici. Da ragazzo chiedeva sempre,

di tutto: “Come funziona?” Con sua grande soddisfazione la sua analisi teorica

della struttura dell’anello di Saturno, un suo lavoro giovanile, dovette essere

integrata con la costruzione di un modello. Era difficile attendersi che una persona

così insistente sulle spiegazioni fisiche fosse destinata a raggiungere un livello di

assoluta preminenza con un ragionamento puramente matematico su un fenomeno

misteriosissimo e fisicamente inesplicabile.

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Al fine di apprezzare pienamente il problema affrontato da Maxwell, dobbiamo

fare un passo indietro. Varie migliaia di anni fa un pastore cretese, di nome

Magnete, osservò che i chiodi di ferro dei suoi sandali e la punta di ferro del suo

bastone erano attratti da un tipo particolare di roccia. Il pastore aveva scoperto la

magnetite o magnete naturale e aveva osservato che essa attrae il ferro. In Europa,

nel XII secolo, si apprese dai cinesi che un pezzo di magnetite può fungere da

bussola, ma il fenomeno del magnetismo non fu studiato estesamente finché il

medico di corte della regina Elisabetta d’Inghilterra, William Gilbert, ne investigò

le proprietà. Gilbert dovrebbe essere ricordato particolarmente per aver stabilito

che la Terra stessa è un magnete e per aver quindi reso ragione del

comportamento dell’ago della bussola. Nonostante tutti i suoi sforzi, Gilbert fece

ben pochi progressi verso la comprensione della natura reale dell’attrazione

esercitata da calamite e la sua opera non ebbe alcuna influenza sugli atteggiamenti

superstiziosi nei confronti dell’argomento. Prima e dopo quest’epoca la gente

credette che il comportamento della calamita fosse magico e supponeva che

questo magico potere avesse la facoltà di guarire quasi ogni malattia e anche di

riconciliare marito e moglie. Il fenomeno dell’attrazione magnetica è “spiegato”

oggi dicendo che la calamita crea attorno a sé un campo e che il ferro che

perviene all’interno di questo campo ne subisce l’azione.

Una scoperta molto simile e ad essa legata fu compiuta dallo scienziato greco

Talete. Talete osservò che un pezzo di ambra lucidata sfregato attrae oggetti

leggeri, come pagliuzze e foglie secche. L’ambra sfregata crea dunque

manifestamente, come un magnete, un campo che attrae taluni oggetti che cadono

dentro il campo verso l’ambra stessa. Per molto tempo i fenomeni associati

all’ambra e alla calamita furono considerati come una stessa cosa. Fu Gilbert a

mettere in evidenza le differenze; a tal fine egli chiamò “elettrico”, dal nome

greco dell’ambra, il potere d’attrazione dell’ambra sfregata.

Verso la fine del Settecento il professore di anatomia e medicina Luigi Galvani,

di Bologna, osservò che le gambe di una rana morta si contraggono quando gli

estremi di un arco di filo formato congiungendo due metalli diversi toccano le

terminazioni di un nervo. Il significato della sua scoperta fu valutato e usato da un

altro italiano, il comasco Alessandro Volta. Volta si rese conto che i due metalli

diversi producevano una forza, ora chiamata forza elettromotrice, alle estremità

del filo ed elaborò una combinazione di metalli più efficace, ossia una pila.

Sostituendo il nervo della rana con un filo e fissando i due capi del filo ai

terminali della sua pila, Volta dimostrò che la forza poteva essere utilizzata per far

scorrere nel filo piccole particelle di materia. Questo flusso di particelle, che

furono più tardi identificate con elettroni, è una corrente elettrica. Benché né

Galvani né Volta se ne rendessero conto, gli elettroni sono precisamente ciò che

appare sull’ambra sfregata e sono proprio questi elettroni ad attrarre particelle di

altri oggetti. La pila di Volta fece scorrere questi oggetti invece di lasciarli

raggruppati e immobili come sono sull’ambra sfregata.

Una relazione importantissima fra elettricità e magnetismo fu scoperta nel 1820

dal fisico danese Hans Christian Ørsted, che lavorava all’Università di

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Copenaghen. Usando la nuova pila di Volta per costringere la corrente elettrica

lungo un filo, Ørsted trovò che il filo agiva come una calamita mentre la corrente

passava attraverso di esso, ossia che la corrente elettrica creava un campo

magnetico attorno al filo. Un tale campo attrae o respinge altre calamite

esattamente come fa il magnete naturale. Questa scoperta era di fatto accidentale

ma, come scrisse una volta Pasteur, “Il caso favorisce soltanto la mente

preparata.” Ørsted era degno di questa fortuna e poté esplorare appieno la sua

scoperta. Il fisico francese André-Marie Ampère dimostrò poi che due fili

paralleli che trasportano corrente si comportano come due calamite. Se la corrente

va nella stessa direzione i fili si attraggono, se va in direzione opposta si

respingono.

Sarebbe toccato all’autodidatta, ex apprendista legatore di libri, Michael

Faraday, che lavorava in Inghilterra, e al maestro di scuola Joseph Henry, della

Albany Academy di New York, scoprire l’altro legame essenziale fra elettricità e

magnetismo, preparando così la scena per il clamoroso ingresso di Maxwell. Se

un filo che trasporta corrente crea un campo magnetico, un campo magnetico non

indurrà corrente in un filo? La risposta, come questi uomini dimostrarono un

centinaio di anni fa, è: sì, purché il filo sia mosso nel campo del magnete al fine di

far variare il campo attorno al filo.

Fig. 64. Il principio di un generatore di elettricità.

Esaminiamo più da vicino l’essenza della scoperta di Faraday e di Henry.

Supponiamo che un filo cui sia stata assegnata una figura rettangolare (fig. 64) sia

fissato rigidamente a un asse R e che il filo e l’asse siano poi collocati nel campo

di un magnete. Se si fa ruotare l’asse, utilizzando ad esempio l’energia di una

caduta d’acqua o di un motore a vapore, ruoterà anche il circuito di filo.

Supponiamo anche che l’asse ruoti a velocità costante in senso antiorario e che il

filo BC inizi il suo movimento dalla sua posizione più bassa. Quando BC passa da

questa posizione verso una posizione orizzontale a destra un flusso di corrente

elettrica passa nel filo in direzione da C a B. Questo flusso cresce d’intensità

finché BC si avvicina alla posizione orizzontale e raggiunge un massimo in

coincidenza con quella posizione. Continuando BC a muoversi verso l’alto, il

flusso decresce come quantità e svanisce quando BC si trova nella posizione più

alta. Continuando BC a ruotare, nel filo riappare la corrente, questa volta però

nella direzione da B a C. Di nuovo il flusso aumenta d’intensità al ruotare del filo

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e raggiunge un valore massimo per la nuova direzione quando BC viene a trovarsi

nuovamente in posizione orizzontale. Quando BC torna alla posizione più bassa, il

flusso di corrente diminuisce e infine scompare. Questo ciclo di mutamenti si

ripete a ogni rotazione completa dell’asse. La comparsa e il flusso di corrente in

un filo che viene mosso all’interno del campo di un magnete è il fenomeno noto

col nome di induzione elettromagnetica.

La corrente generata, come quella prodotta da una pila, è un flusso di miliardi

di particelle di materia piccolissime, invisibili, chiamate elettroni. Questo flusso

di elettroni è causato da una forza che appare nel filo simultaneamente con la

corrente e che passa per le medesime variazioni cui è soggetta la corrente; essa

cioè aumenta e diminuisce e poi si inverte per aumentare e diminuite nella nuova

direzione. Questa forza può essere paragonata alla pressione che fa scorrere

l’acqua in un tubo. La corrente stessa può essere paragonata al flusso dell’acqua.

Sia la quantità sia la forza del flusso creato dall’induzione elettromagnetica

variano col tempo; poiché stiamo occupandoci di quantità misurabili, possiamo

scoprire la relazione funzionale che vi interviene. La relazione fra corrente e

tempo è certamente periodica poiché la sequenza di variazioni si ripete a ogni

rotazione completa del circuito. Può essere eccessivo attendersi che in questo

fenomeno periodico, come in quelli che abbiamo visto nello studio dei suoni

musicali, si riveli utile la funzione sen x. Ma la natura non cessa mai di

accomodarsi alla matematica dell’uomo. La relazione fra la corrente I e il tempo t

risulta della forma

I = a sen bt,

dove l’ampiezza a dipende da fattori come l’intensità del magnete, e la

frequenza b dipende dalla velocità di rotazione del circuito. Se esso compie 60

rotazioni al secondo, il valore di b, tenendo conto delle nostre considerazioni sulla

frequenza esposte nel capitolo precedente, sarà di 60 360 ovvero 21 600. La

corrente che fornisce elettricità alla maggior parte delle abitazioni compie 60 cicli

sinusoidali di variazione completi in un secondo; per questa ragione è chiamata

corrente alternata a 60 cicli (o hertz).

La corrente elettrica può dunque essere concepita come un flusso di elettroni e

può essere rappresentata da una formula matematica. Ma in che modo il processo

dell’induzione elettromagnetica produce correnti elettriche? Questo fenomeno

rimane misterioso. In qualche modo il semplice movimento di un filo in un campo

magnetico induce nel filo una forza elettromotrice e questa forza causa il flusso di

una corrente. Nessuno sa però in che modo il campo magnetico crei quest’effetto

o in che modo un magnete attragga il ferro o l’acciaio. In nessuno dei due

fenomeni è stato possibile scoprire un agente causale materiale. In considerazione

della nostra profonda ignoranza sulla natura fisica dei campi, una spiegazione

dell’induzione elettromagnetica sembra ancor più fuori della portata dell’uomo

che non le stelle più lontane.

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Fortunatamente, ciò che può essere fuori della portata fisica dell’uomo è

nondimeno alla portata della sua comprensione matematica. All’epoca di

Maxwell, i fisici dell’Ottocento erano riusciti a formulare matematicamente gli

aspetti quantitativi di vari fenomeni elettrici e magnetici che erano stati studiati

nei secoli precedenti. Il comportamento di campi associati a cariche elettriche

fisse, come quelle che appaiono sull’ambra sfregata, e il comportamento dei

campi che circondano i magneti furono espressi da due leggi note oggi come leggi

dell’elettricità statica e del magnetismo. Il fenomeno dell’induzione

elettromagnetica, osservato per la prima volta da Faraday e da Henry, fu espresso

in una terza legge, chiamata oggi legge di Faraday. Infine il comportamento dei

campi magnetici che circondano fili che trasportano corrente, lo studio dei quali è

stato condotto da Ørsted e Ampère, fu espresso in una quarta legge chiamata

legge di Ampère. Queste due ultime leggi sono chiamate leggi

dell’elettrodinamica perché descrivono il comportamento di correnti o campi

magnetici in moto. Tutte e quattro assumono la forma di equazioni differenziali,

le quali sono però troppo complicate per poter essere esaminate qui. Possiamo

nondimeno considerare in che modo Maxwell se ne servì.

Lavorando con queste leggi dell’elettromagnetismo, Maxwell eseguì una

deduzione da cui risultava evidente che queste leggi erano incoerenti con un’altra

legge della fisica matematica nota come equazione di continuità. Per un

matematico una contraddizione è intollerabile e Maxwell ricercò una soluzione

della difficoltà. Egli osservò che aggiungendo un nuovo termine alla legge di

Ampère si sarebbe conseguita la coerenza delle leggi dell’elettromagnetismo con

l’equazione di continuità e perciò decise di aggiungerlo.

Mai soddisfatto della sola matematica, Maxwell ricercò il significato fisico di

ciò che aveva fatto. Egli vide ben presto che il nuovo termine, che rappresentava

un campo elettrico variabile, aveva proprietà matematiche simili a quel termine

della legge di Ampère che rappresentava il flusso di corrente in un filo. Maxwell

interpretò audacemente la quantità da lui aggiunta. Le sue proprietà erano quelle

di una corrente. D’altra parte, il campo elettrico variabile di cui egli si occupava

esisteva nello spazio, mentre le correnti note in precedenza fluivano in fili.

Maxwell decise immediatamente che il nuovo termine rappresentava una corrente

o un’onda che fluiva attraverso lo spazio. A differenza delle correnti che si

spostavano in fili, quest’onda spaziale appariva priva di un contenuto materiale;

non gli era chiaro inoltre in che modo si spostasse fisicamente. Nondimeno,

convinto dalla matematica, Maxwell ne affermò l'esistenza e coniò per essa

l’espressione corrente di spostamento (displacement current). Ragionando

ulteriormente sull’argomento si convinse che un tale campo elettrico variabile,

come le correnti elettriche nei fili, dovesse essere accompagnato da un campo

magnetico. La combinazione di questi due campi è nota oggi come campo

elettromagnetico.

La soluzione delle equazioni differenziali corrette dell’elettromagnetismo

rivelò a Maxwell che i campi elettrici e magnetici, se generati nel modo

appropriato, si spostano nello spazio, in modo molto simile a quello delle onde; in

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ogni punto dello spazio l’intensità di ogni campo varia sinusoidalmente col

tempo. I campi elettrici e magnetici che si spostano possono essere paragonati

ciascuno all’onda che si muove lungo una corda estesa orizzontalmente quando se

ne muove velocemente un capo su e giù. Maxwell fece così la prima delle sue

grandi scoperte, quella dell’esistenza di onde elettromagnetiche.

La sua scoperta successiva fu probabilmente un premio per la sua audacia. Egli

osservò che le sue equazioni corrette che descrivevano il comportamento delle

onde elettromagnetiche erano identiche alle equazioni ottenute in precedenza da

altri scienziati per il moto della luce. Inoltre, le sue onde elettromagnetiche

possedevano la stessa velocità delle onde luminose. Maxwell trasse senza esitare

la manifesta inferenza. Le onde elettromagnetiche sono della stessa natura delle

onde luminose. L’identità operava naturalmente in entrambi i sensi. La luce

doveva essere composta da onde elettromagnetiche. Perciò il sapere matematico e

fisico già ottenuto sulle onde elettromagnetiche doveva essere applicabile alla

luce, e inversamente le conoscenze concernenti la luce potevano essere applicate

allo studio di fenomeni elettromagnetici. In altri termini, due settori in precedenza

indipendenti della fisica furono identificati e il patrimonio di conoscenze su

ciascuno di essi fu praticamente raddoppiato.

Per completare l’interpretazione fisica della sua matematica, Maxwell doveva

ancora spiegare quale mezzo trasportasse le sue onde di recente scoperta. Al suo

tempo gli scienziati ammettevano che le onde luminose si muovessero in un

mezzo chiamato “etere”, una “sostanza” che, pur non essendo mai stata scoperta

sperimentalmente in alcun modo, si riteneva pervadesse tutto lo spazio e tutti i

corpi materiali. In considerazione della relazione da lui stesso stabilita fra onde

elettromagnetiche e luce, Maxwell suppose che anche queste onde spaziali fossero

propagate dai moti dell’etere. Tanti compiti erano già stati assegnati a questo

sfruttatissimo etere, che uno di più non faceva alcuna differenza.

La dichiarazione da parte di Maxwell dell’esistenza di nuovi fenomeni fisici,

che non erano mai stati supposti prima e che non potevano essere scoperti

sperimentalmente dagli scienziati di quell’epoca, fu di fatto un passo molto

audace. I fisici matematici più in vista di quell’epoca, Hermann von Helmholtz e

Lord Kelvin, si rifiutarono di credere in correnti di spostamento. Ma, per

definizione, il genio non si scoraggia facilmente. Convinto della realtà fisica delle

sue onde spaziali elettromagnetiche, Maxwell si spinse oltre e suggerì

l’apparecchiatura che poteva produrle. Ventitré anni dopo che Maxwell aveva

dedotto l’esistenza di onde spaziali e dieci anni dopo la sua morte, il fisico

tedesco Heinrich Hertz dimostrò l’esistenza di queste onde generandole e

rivelandole esattamente nel modo proposto da Maxwell.

Hertz ragionò che la corrente di spostamento o il campo elettrico variabile di

Maxwell doveva essere identico in natura con i campi che circondano cariche

elettriche stazionarie o elettroni. Egli escogitò perciò un modo per far muovere

cariche elettriche avanti e indietro su un filo in modo che anche il campo

associato con esse venisse posto in moto. Quando la frequenza del moto alterno

delle cariche era abbastanza elevata, una parte apprezzabile del campo si metteva

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in moto nello spazio, esattamente come le onde si muovono lungo una fune

quando un suo capo è mosso su e giù con sufficiente velocità. A qualche distanza

il campo agiva su elettroni stazionari in un altro filo e li faceva muovere avanti e

indietro. Così una corrente, scoperta da Hertz, veniva indotta nel secondo filo. I

fili usati da Hertz erano la forma originaria delle moderne antenne: le antenne

trasmittenti su alte torri delle stazioni radiofoniche e le antenne riceventi che

erano collocate un tempo sui tetti delle abitazioni mentre sono oggi incorporate

negli apparecchi radio. La telegrafia senza fili, che implica semplicemente

interruzioni lunghe e brevi nell’emissione di onde elettromagnetiche, era appena

dietro l’angolo.

Fig. 65. Un’onda portante modulata in ampiezza.

La trasmissione senza fili di voci e musica presentava però un altro problema.

L’analisi matematica dei suoni musicali, esaminata nel capitolo precedente, aveva

dimostrato agli scienziati dell’Ottocento che questi suoni constano di onde d’aria

sinusoidali con frequenze fino ad alcune migliaia di cicli al secondo. Il lavoro sul

telefono aveva dimostrato che queste onde sonore potevano essere convertite in

correnti elettriche che possedevano esattamente le medesime proprietà

matematiche delle onde sonore. Queste correnti elettriche che rappresentavano

suoni musicali potevano essere convertite direttamente in onde elettromagnetiche

ed essere così trasmesse nello spazio? Ciò è teoricamente possibile ma per ragioni

ben note ai tecnici della radio è più facile irradiare correnti ad alta frequenza

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dell’ordine di milioni di cicli al secondo che non le basse frequenze

corrispondenti a suoni vocali e strumentali. Era necessario un qualche sistema che

consentisse di convertire correnti di bassa frequenza in alte frequenze, o almeno

di associarle ad esse.

Vari sistemi del genere furono sviluppati. Attualmente è in uso un sistema noto

come modulazione di ampiezza. L’ampiezza di una corrente sinusoidale ad alta

frequenza, che può essere irradiata facilmente nello spazio, è fatta variare al di

sopra e al di sotto del suo valore normale esattamente come l’ampiezza dell’onda

sonora che dev’essere trasmessa. Quest’operazione viene compiuta, con gli

equipaggiamenti opportuni, in ogni stazione radiotrasmittente. La risultante

corrente ad alta frequenza, o corrente portante, ad ampiezza modulata fig. 65),

viene poi irradiata nello spazio, attraverso cui viaggia per centinaia e migliaia di

chilometri fino agli apparecchi riceventi. Ogni apparecchio ricevente “elimina” la

corrente portante, ossia converte le variazioni d’ampiezza nell’onda portante in

correnti elettriche a bassa frequenza portate dal filo, le quali variano col tempo

precisamente come l’ampiezza della corrente

Fig. 66. Un’onda portante modulata in frequenza.

ad alta frequenza. Le correnti a bassa frequenza operano allora come un

altoparlante, le cui vibrazioni creano onde sonore. Mediante questi processi le

voci e i suoni generati in uno studio radiofonico vengono riprodotti nelle nostre

abitazioni appena una frazione di secondo dopo, nonostante subiscano

trasformazioni intermedie tali da sfidare l’immaginazione più sfrenata.Le attuali

frequenze portanti per le onde radio a modulazione di ampiezza delle normali

stazioni radiotrasmittenti sono comprese fra 500 000 e 1 500 000 cicli al secondo.

La persona che “sintonizza” il suo apparecchio radio su una stazione particolare lo

regola in modo da fargli ricevere la frequenza portante di quella stazione.

In anni recenti è stato indagato e messo in uso un altro sistema per trasmettere

per via radio voci e musica, ossia quello della modulazione di frequenza. In

questo sistema viene variata la frequenza invece dell’ampiezza della corrente

sinusoidale ad alta frequenza, in accordo col suono che dev’essere trasmesso.

Supponiamo che la frequenza della corrente portante, ovvero dell’onda radio che

si propaga nello spazio, sia di 90 000 000 di cicli al secondo e che il suono che

dev’essere trasmesso sia di 100 cicli al secondo e di ampiezza 1. Se l’onda

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portante non fosse modulata, continuerebbe naturalmente a oscillare al ritmo di 90

000 000 di cicli al secondo. Supponiamo però ora che questa frequenza venga

variata da 90 000000 a 90 002 000, poi di nuovo a 90 000 000 e quindi a 89 998

000 e poi di nuovo a 90 000 000. Questa sequenza di variazioni nella frequenza,

ovvero la modulazione della frequenza, riceve un ritmo tale da presentarsi 100

volte al secondo, cioè alla frequenza del suono musicale. La misura della

variazione nella frequenza portante, ossia 2000 cicli, è determinata dall'ampiezza

della nota musicale. Se quest’ampiezza fosse 2 invece di 1, la variazione nella

frequenza portante sarebbe doppia, ossia 4000 cicli, cosicché la frequenza

portante raggiungerebbe 4000 al di sopra e al di sotto di 90 000 000, ancora al

ritmo di 100 volte al secondo (fig. 66).

Frequenze ancora più elevate di quelle usate per le trasmissioni radiofoniche in

modulazione di frequenza sono usate nelle apparecchiature radar. Le onde

elettromagnetiche irradiate nello spazio variano sinusoidalmente d’intensità con

frequenze dell’ordine di 10 miliardi di volte al secondo. Tali onde sono emesse in

brevi impulsi che durano circa un milionesimo di secondo ciascuno (fig. 67). Se

questi impulsi colpiscono una superficie metallica, come un aereo o una nave,

sono riflessi all’emittente, che scopre in tal modo la presenza della superficie

riflettente.

Per quanto incredibili e stupefacenti siano queste frequenze, difficilmente

mettono a dura prova l’immaginazione umana se le si confronta con le frequenze

riscontrate nelle onde luminose. Ancor prima dell’epoca di Maxwell si riteneva

che la luce fosse una qualche sorta di moto ondulatorio. La dimostrazione data da

Maxwell del fatto che la luce ha carattere elettromagnetico rese chiaro che la

differenza essenziale fra la luce e le onde radio consiste nella frequenza di

variazione del moto dell’etere.

Fig. 67. Impulsi radar.

Le frequenze delle onde luminose sono dell’ordine di 1 seguito da 14 zeri al

secondo. In particolare, tutte le onde le cui frequenze sono comprese fra 4 1014

e

7 104 sono onde visibili: i nostri occhi rispondono infatti a queste varie

frequenze registrando diversi colori.

Man mano che, nella gamma indicata sopra, la luce ricevuta varia dalla

frequenza più piccola a quella più grande, le nostre sensazioni di colore, un

contributo fornito dai nervi e dal cervello, passano gradualmente dal rosso al

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giallo, al verde, al blu e infine al viola. Il colore nella luce è pertanto analogo

all’altezza nel suono. E come combiniamo suoni semplici per produrre suoni

complessi, così possiamo combinare colori semplici per produrre nuovi colori. La

luce bianca, ad esempio, non è un “tono” cromatico semplice bensì un “accordo”

luminoso, un effetto composto di molti colori. Così la luce del sole contiene tutti i

colori, dal rosso al violetto, e l’effetto composto di tutti questi colori è la luce

bianca.

Numerosi pezzi del puzzle elettromagnetico furono ben presto composti

insieme. Si scoprì che i raggi ultravioletti e infrarossi, rivelabili i primi attraverso

l’annerimento di negativi fotografici e i secondi attraverso il loro effetto termico,

sono onde elettromagnetiche con frequenza rispettivamente superiore e inferiore a

quelle delle onde luminose. I raggi X, scoperti per la prima volta verso la fine

dell’Ottocento, furono identificati anch’essi con onde elettromagnetiche aventi

frequenze ancora più alte di quelle dei raggi ultravioletti. Infine anche i raggi

gamma, emessi da sostanze radioattive, risultarono essere onde elettromagnetiche,

con frequenze ancora più elevate di quelle dei raggi X.

L’affinità fra questi vari tipi di onde elettromagnetiche, scoperta dall’opera di

Maxwell, viene ora utilizzata continuamente. Ad esempio, le lampade elettriche

nelle nostre case convertono onde di 60 cicli, che viaggiano lungo fili, in onde di

luce, che si spostano nello spazio. L’essenziale identità dei molti tipi di onde è

usata nel modo più sensazionale nel recente miracolo della scienza che ha invaso

le nostre case: la televisione. Le variazioni di luce in una scena che dev’essere

trasmessa vengono trasformate in correnti elettriche, le quali vengono a loro volta

impresse su un’onda radio ad alta frequenza e irradiate nello spazio.

L’apparecchio ricevente, nelle nostre case, converte le onde radio in correnti

elettriche e le correnti elettriche in onde luminose in modo che l’occhio vede

precisamente la scena originale. In tal modo una forma di onda elettromagnetica è

convertita in una seconda e questa in una terza; poi la sequenza delle

trasformazioni viene rovesciata. Ogni volta che andiamo al cinema assistiamo alla

conversione di un tipo di onda elettromagnetica in un altro. La luce che passa

attraverso la colonna sonora, di varie gradazioni di nero, della pellicola, colpisce

una cellula fotoelettrica; questo congegno converte la luce trasmessa in una

corrente elettrica variabile e questa a sua volta attiva un altoparlante. In tal modo

le voci melliflue di maschi ardenti rivolte a bellezze incomparabili ci trasportano

in un’atmosfera romantica.

Questi risultati pratici sono di fatto spettacolari e rendono il miracolo un luogo

comune. Essi hanno avuto anche conseguenze sociali di grande portata e

incommensurabili, alcune delle quali sono state enunciate all’inizio di questo

capitolo. L’uso della radio per discorsi politici dovrebbe essere sufficiente a dare

un’idea efficace dell’importanza sociale della scienza dell’elettromagnetismo.

Ma nel contributo di Maxwell ci sono valori che proiettano i loro effetti

incalcolabili sulla società e sulla vita quotidiana. L’uomo non vive di solo pane e

politica. Egli desidera comprendere la natura e la sua relazione alla natura;

intende soddisfare la sua curiosità su fenomeni sempre presenti, come il suono e

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la luce; e desidera metter ordine nelle diverse impressioni che una moltitudine di

eventi proietta sui suoi sensi. Tali valori sono ottenuti dalla spiegazione

matematica dei fenomeni fisici.

La teoria elettromagnetica di Maxwell supera addirittura la gravitazione

newtoniana nell’abbracciare una varietà di fenomeni apparentemente diversi in un

ampio insieme di leggi matematiche. Il comportamento del granello di sabbia e

della stella di maggior massa possono essere descritti e predetti applicando le

leggi sul moto di Newton. L’elettrone invisibile e la luce del sole possono essere

descritti e imbrigliati con le leggi elettromagnetiche di Maxwell. Le correnti

elettriche, gli effetti magnetici, le onde radio, le onde infrarosse, le onde

luminose, le onde ultraviolette, i raggi X e i raggi gamma, le onde sinusoidali con

frequenze dell’ordine di 60 cicli al secondo e di 1 seguito da 24 zeri sono

manifestazioni di un unico schema fisico-matematico soggiacente a tutti questi

fenomeni. Questa teoria, a un tempo così profonda e così comprensiva da sfidare

ogni immaginazione, ha rivelato l’esistenza nella natura di un piano e di un ordine

che parlano all’uomo con più eloquenza della natura stessa. Con essa la ragione

dell’uomo, la sola facoltà grazie alla quale egli si distingue dal resto del mondo

animale e sulla cui base può credere nella propria importanza, si è assicurata

un’altra vittoria. Ancora una volta l’uomo ha afferrato con la propria mente le

redini che controllano le impennate della natura.

La teoria elettromagnetica ci fornisce un altro esempio del potere della

matematica di svelare i segreti della natura. Fu possibile concepire e anche

immaginare in modo visibile il sottomarino e l’aeroplano già molto tempo prima

che i tecnici producessero modelli funzionanti. Difficilmente la nozione di

un’onda radio avrebbe potuto invece presentarsi anche nel volo più sfrenato della

fantasia e, qualora si fosse presentata, sarebbe stata abbandonata subito, appunto

come puramente fantastica. Le onde radio, la cui natura fisica non è ancora

compresa, furono scoperte, e si potrebbe quasi dire inventate, perché il

ragionamento matematico ne richiedeva l’esistenza. La scienza sta ora esplorando

sistematicamente altre grandi regioni del mondo elettromagnetico chiaramente

delineato nella teoria di Maxwell.

Particolarmente significativo è il fatto che non fu proprio il ragionamento

matematico comune a condurre alla predizione delle onde radio; fu, piuttosto,

l’insistenza sul ragionamento esatto. Il matematico, attribuendo il massimo valore

alla coerenza logica delle sue equazioni, non tollera la minima contraddizione. Né

egli consente a una comprensione fisica inadeguata, limitata da percezioni

sensoriali fallibili e finte, di distoglierlo dal fare tutto il necessario per eliminare

tale incoerenza. Impregnato dello spirito del ragionamento esatto, il matematico

non considera un’inutile stravaganza qualsiasi richiesta concernente l’esattezza. I

cosiddetti uomini pratici, e anche gli scienziati e ingegneri che confondono il

rigore matematico con la pedanteria, farebbero bene a meditare sull’opera di

Maxwell.

Ma molto di più possiamo apprendere anche da questa breve rassegna della

teoria elettromagnetica. Ammesso che, attraverso di essa, la matematica ha

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padroneggiato un’altra parte del mondo fisico, e ammesso anche che la radio, i

motori, gli strumenti ottici e le macchine per radiografie, progettate e operanti

secondo questa teoria, non lasciano dubbi sul fatto che la matematica sta

occupandosi di fenomeni reali, dove e quali sono gli agenti fisici che producono

gli effetti descritti dalla matematica? Che cosa sono gli elettroni che fluiscono nei

fili e rendono incandescenti le lampadine? Che cosa sono i campi elettrici e

magnetici che attraggono e respingono oggetti e interagiscono l’uno sull’altro? In

particolare, che cos’è quella corrente di spostamento che viaggia attraverso lo

spazio e che si trova nell’aria che ci circonda? Benché i più grandi matematici e

fisici si siano tormentati su queste domande, esse rimangono senza risposta. I

fantasmi più misteriosi che siano mai stati concepiti sono più tangibili e

comprensibili delle spiegazioni fisiche architettate per i fenomeni

elettromagnetici. Gli elettroni, stazionari di campo e mobili, e l’etere non sono

altro che finzioni, vuote speculazioni. I fenomeni elettromagnetici sono non meno

misteriosi e paurosi delle presunte manifestazioni soprannaturali.

Anche l’uomo che fu più ispirato di tutti nel costruire un’immagine fisica

dell’induzione elettromagnetica, un’immagine che lo stesso Maxwell usò per

presentare il proprio pensiero, confessò di essere frustrato nel proprio tentativo di

intendere l’intero fenomeno fisicamente. In una lettera scritta a Maxwell nel 1857,

Faraday gli chiedeva se non potesse esprimere le conclusioni del suo lavoro

matematico “nel linguaggio comune in modo cosi compiuto, chiaro e definito

come nelle formule matematiche? In tal caso, non sarebbe un grande favore

esprimerle così per quelli come me? Tradurle dai loro geroglifici in modo che

anche noi possiamo svolgere su di esse un lavoro sperimentale... Se ciò è

possibile, non sarebbe un bene se i matematici, lavorando su questi argomenti, ci

dessero i risultati in questo modo popolare, utile, funzionale, oltre che in quello

che è loro proprio?” Purtroppo la richiesta di Faraday non è stata a tutt’oggi

esaudita.

In nessun caso la nostra ignoranza del mondo reale o della sua natura ultima è

più sgradevole che nel fenomeno della luce. È chiaro che quando la luce emessa

da una sorgente come il Sole o una lampadina elettrica perviene ai nostri occhi

qualche cosa attraversa lo spazio. Ma che cosa? Da tre secoli a questa parte gli

scienziati hanno investigato con serietà e costanza la natura della luce. Le prove

sperimentali vanno a sostegno di due teorie vaghe e contraddittorie; secondo l’una

la luce sarebbe un moto ondulatorio continuo nell’etere; secondo l’altra la luce

sarebbe un moto di particelle o corpuscoli, piccolissimi e impercettibili. Frequenti

spostamenti dell’opinione scientifica da una teoria all’altra hanno dato adito a

beffe continue: la teoria ondulatoria prevale nei giorni dispari del mese, quella

corpuscolare nei giorni pari.

È vero che Maxwell insisté sui modelli fisici di ogni fenomeno da lui

investigato. Egli descrisse ad esempio il flusso dell’elettricità come il flusso di un

fluido immaginario e studiò addirittura fluidi reali per trarne leggi matematiche

che potessero essere applicabili al flusso dell’elettricità. Inventò modelli

meccanici implicanti particelle e meccanismi al fine di rappresentare e studiare la

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propagazione di campi elettrici e magnetici. Non dimenticò però mai che i fluidi e

i modelli meccanici erano semplicemente ausili al pensiero e infine li abbandonò,

pur conservando le equazioni matematiche da essi suggerite. Quando egli

presento, nel 1864, alla Royal Society il suo saggio classico A Dynamical Theory

of the Electromagnetic Field, l’impalcatura fisica che egli aveva usato per erigere

l’architettura matematica fu tralasciata. Molti fra i successori di Maxwell

conservarono i modelli fisici e li presentarono come spiegazioni vere,

probabilmente perché non erano in grado di fare a meno di tali rappresentazioni

nel loro lavoro. La necessità di pensare nei termini di un mezzo che trasporta onde

elettromagnetiche stabilì ben presto, con loro soddisfazione, la “realtà e

sostanzialità dell’etere luminifero.” Queste rappresentazioni non possono però

essere considerate seriamente, essendo inadeguate e sperimentalmente non

verificabili.

L’incapacità di spiegare qualitativamente o materialmente i fenomeni

elettromagnetici contrasta nettamente con l’esatta descrizione quantitativa fornita

da Maxwell e dai suoi collaboratori. Esattamente come le leggi di Newton

avevano fornito agli scienziati i mezzi per lavorare con la materia e la forza senza

spiegare né l’una né l’altra, così le equazioni di Maxwell diedero agli scienziati la

capacità di compiere prodigi con i fenomeni elettrici nonostante una

comprensione piuttosto misera e incompleta della loro natura fisica. Le leggi

quantitative sono tutto quel che abbiamo sul piano di una spiegazione unificatrice,

intelligibile. Le formule matematiche sono precise e generali; l’interpretazione

qualitativa è vaga e incompleta. Gli elettroni, i campi elettrici e magnetici e le

onde dell’etere ci forniscono semplicemente nomi per le variabili che appaiono

nelle formule, o, come si espresse Helmholtz, nella teoria di Maxwell una carica

elettrica è semplicemente ciò che riceve un simbolo. La formulazione definitiva

sulla natura fisica dei fenomeni elettromagnetici si deve a Heinrich Hertz: “Alla

domanda: che cos’è la teoria di Maxwell? non conosco una risposta più breve o

più precisa della seguente: la teoria di Maxwell è il sistema di equazioni di

Maxwell.”

Se la comprensione fisica e il potere della ragione, a livello fisico, sui fenomeni

elettromagnetici sono lacunosi, qual è la natura della comprensione umana di

questa sezione della realtà? Su che cosa l’uomo fonda le sue pretese di aver

dominato la natura? Le leggi matematiche sono i soli mezzi per scandagliare e

padroneggiare questa grande regione del mondo fisico; di tali misteriosi

comportamenti le leggi matematiche sono l’unica conoscenza che l’uomo

possiede. Benché la risposta a questi problemi sia insoddisfacente per il profano

non iniziato a questi misteri delfici, gli scienziati hanno imparato ad

accontentarsene. Di fatto, messo di fronte a tanti misteri naturali, lo scienziato è

ben lieto di seppellirli sotto il peso di simboli matematici, di seppellirli così

accuratamente che molte generazioni di studiosi non si rendano conto di tale

scomparsa.

Con l’opera di Maxwell la fisica conobbe una nuova svolta. Prima di tale epoca

una concezione meccanica della natura era non soltanto popolare ma abbastanza

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soddisfacente, in quanto forniva una spiegazione fisica di fenomeni naturali. Per

molto tempo anche l’elettricità e il magnetismo furono raffigurati come le azioni

di fluidi benché gli scienziati non sapessero se essi fossero realmente tali. L’etere

era considerato un solido assai elastico e perciò veniva data una spiegazione

meccanica della propagazione della luce. L’introduzione delle onde

elettromagnetiche e l’identificazione della luce con queste onde distrusse la

validità di tali spiegazioni fisiche. Gli scienziati cominciarono a nutrire serie

apprensioni sull’intera filosofia meccanicistica della natura e infine, sia pure con

riluttanza, la abbandonarono.

La fisica passò allora da una fondazione meccanicistica a una matematica.

Mentre in precedenza la matematica era servita per rappresentare, studiare e far

progredire l’analisi meccanica dei fenomeni, oggi proprio la spiegazione

matematica è fondamentale. Di fatto, la spiegazione meccanica è stata

abbandonata tranne forse in settori molto limitati. L’essenza di ogni moderna

teoria fisica è un corpo di equazioni matematiche. Così le equazioni differenziali,

che all’epoca di Newton avevano una funzione ancillare nei confronti del pensiero

fisico, ne sono divenute le padrone.

Benché l’opera di Maxwell avesse l’effetto di sovvertire la filosofia

meccanicistica della natura, rafforzò la filosofia del determinismo, che pure si era

sviluppata parallelamente alla concezione meccanicistica. Per gli scienziati

dell’Ottocento l’opera di Maxwell fu il coronamento del progetto iniziato da

Copernico, Keplero e Galileo. Erano ora sussunti sotto esatte leggi matematiche

un numero tanto grande di fenomeni che non si poteva più dubitare del disegno

matematico dell’universo. Di fatto non era mai esistito un gruppo tanto orgoglioso

di scienziati. La realizzazione di tutti gli obiettivi fissati dai fiduciosi e

illimitatamente ottimistici scienziati del Settecento fu la gloria dei loro successori

dell’Ottocento.

Maxwell non fu coinvolto in tale acritico entusiasmo. Egli era troppo acuto per

divenire un fanatico delle proprie scoperte. Studioso di metafisica più penetrante

dei suoi collaboratori, egli dimostrò una volta di più la sua genialità resistendo

alla fede in un universo deterministico difesa da quasi tutti a quell’epoca.

Maxwell aveva compiuto studi fondamentali sul moto delle molecole in

connessione con la teoria dei gas e fu disturbato dall’idea che ogni corpo è

composto da molecole, ciascuna delle quali si muove con la velocità di una palla

di cannone e tuttavia non si discosta mai in misura percepibile dalla sua posizione

media. Egli fu condotto a stabilire una distinzione tra fenomeni stabili e instabili.

Un sasso fatto rotolare su un piano orizzontale è un fenomeno stabile perché una

piccola spinta al sasso produrrà un piccolo movimento. Un masso in equilibrio

sulla cima di una montagna è instabile perché una piccola spinta può provocare

una valanga. Similmente, il fiammifero che dà inizio all’incendio di una foresta,

la parola che scatena una guerra mondiale e la gemmula che fa di noi dei filosofi o

degli idioti sono fenomeni instabili. Tali fattori instabili, o punti singolari come li

chiamava Maxwell, erano ai suoi occhi pecche nel mondo deterministico. Leggi

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violate in questi casi ed effetti in altre circostanze trascurabili possono assumere

una funzione dominante.

Maxwell invitò i suoi colleghi scienziati a considerare con cautela le

implicazioni legate all’esistenza di punti singolari: “Se perciò quei cultori delle

scienze fisiche... sono indotti, nell’interesse per gli arcani della scienza, a studiare

le singolarità e le instabilità invece delle continuità e stabilità delle cose, la

promozione della conoscenza naturale può tendere a rimuovere quel pregiudizio

in favore del determinismo che sembra insorgere dall’assunzione che la scienza

fisica del futuro sarà una semplice immagine ingrandita di quella del passato.”

Maxwell, capo della propria generazione, era di fatto il profeta della

successiva. Alcuni contributi di Maxwell alla teoria dei gas contribuirono a

preparare la via per l’abbandono del determinismo. Le crepe o pecche che egli

vide in tale sistema delle cose si ampliarono ben presto, finché il mondo

deterministico cadde in pezzi. Ma questa catastrofe, con le sue disastrose

conseguenze, sarà da noi esaminata più avanti. Il fatto più grave fu che l’opera di

Maxwell, di qualità insuperata in molti settori della fisica matematica, fu troncata

dalla morte quando egli aveva soltanto quarantotto anni.

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XXI. La scienza della natura umana

L’umanità è dell’uomo il vero oggetto

di studio...

ALEXANDER POPE

“La più utile e la meno progredita fra tutte le scienze,” scrisse Rousseau, “è

quella dell’uomo.” Questo figlio di un artigiano si guardò attorno e non vide se

non una società umana malata e corrotta. Le ingiustizie politiche, il dominio del

ricco sul povero, il lusso dei pochi e la miseria indicibile dei molti, il vizio, la

cupidigia, le guerre, la riduzione in schiavitù di popoli a opera di conquiste

militari e il tradimento delle masse da parte dei loro capi lo sgomentarono.

Il comportamento dell’uomo si rivelava in netto contrasto con quello della

natura. In natura la legge e l’ordine erano evidenti. I pianeti seguivano le loro

orbite e non si discostavano mai da esse. Qualunque fenomeno i fisici studiassero,

vi trovavano regolarità e leggi matematiche che attestavano un disegno razionale

e un comportamento armonico.

La natura era ordinata, razionale e predicibile.

Ma l’uomo era una parte integrante dell’ordine naturale. Non era forse, come il

mondo fisico, una creazione di Dio? La corrente filosofia materialistica non

insegnava forse che corpo e mente fanno parte entrambi del mondo materiale?

Devono dunque esistere leggi universali, naturali, del comportamento umano. Gli

uomini, come i pianeti, devono essere soggetti a forze di attrazione e di repulsione

e anche il comportamento dell’uomo dovrebbe essere la risultante meccanica

dell’azione di tali forze. Analogamente dovrebbe esser possibile derivare leggi

economiche dall’interazione di forze economiche elementari. Lo sfruttamento

dell’uomo da parte dell’uomo, il caos negli affari politici, la diffusa povertà e

miseria: tutti questi mali sembravano caratteristici delle relazioni umane soltanto

perché l’uomo non aveva indagato le leggi naturali della società. Le vere leggi,

una volta ottenute, potevano sicuramente indicare la via a una vita migliore e a

istituzioni che sarebbero state stabili e giuste, in quanto accordantisi almeno con

l’“ordine naturale.” E se la società avesse potuto essere indotta a obbedire a tali

leggi naturali, i mali della civiltà sarebbero scomparsi.

Deve dunque esistere una scienza dell’uomo. Rousseau sottolineò però che

questa scienza non può essere studiata sperimentalmente perché altrimenti i

grandi filosofi sarebbero impegnati a escogitare gli esperimenti appropriati e i

grandi monarchi a eseguirli. Fortunatamente tali esperimenti non sono necessari

poiché la verità può essere conseguita attraverso il ragionamento deduttivo da

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primi principi. Hobbes espresse questo pensiero nella sua solita forma recisa. La

politica, l’economia, l’etica e la psicologia devono essere ridotte a scienze esatte.

L’umanità si era fondata solo sull’esperienza come fonte della conoscenza sociale

ed etica. Ma in questo modo possiamo conseguire solo prudenza, per quanto utile

questa possa essere. Per mezzo della scienza invece, insisteva Hobbes, possiamo

acquistare la sapienza, la quale è infallibile e ci consente la predizione. La

scienza, per Hobbes, significa una sola disciplina: “La geometria è l’unica scienza

che finora è piaciuto a Dio concedere all’umanità.” Kant era d’accordo sul fatto

che c’era il bisogno di una scienza della società e aggiunse che mancava un

Keplero o un Newton che scoprisse le leggi della civiltà.

Gli uomini arrivarono così alla convinzione che fosse necessario trovare la

scienza deduttiva degli affari umani. Gli scienziati umani si accinsero perciò a

identificare, isolate e astrarre le leggi universali all’opera nelle relazioni umane.

Come il detective che attende fiduciosamente di sbrogliare la matassa più

ingarbugliata trovando la femme, questi scienziati sociali si attendevano di

risolvere tutti i loro problemi trovando poche leggi fondamentali. Campi di

pensiero considerati in precedenza totalmente estranei e inaccessibili all’analisi

matematica furono riesaminati nell’intento di ripetere qui i successi ottenuti nelle

scienze esatte. Il vino, le donne e il canto, insieme alla ricchezza necessaria per

goderne, divennero oggetto di investigazioni matematiche. In questo capitolo ci

proponiamo di tracciare l’influenza del pensiero matematico sul corso di queste

investigazioni.

Ammesso che esistano veramente leggi sociali, in che modo gli scienziati

sociali potrebbero attendersi di scoprirle? La risposta fu fornita dall’esempio della

matematica. Si dovevano trovare dapprima assiomi fondamentali tali che il

pensiero e l’esperienza li riconoscessero così manifestamente propri della natura

umana che tutti gli scienziati li accettassero. Da questi assiomi sarebbero poi stati

dedotti, col ragionamento rigoroso, impeccabile, usato in matematica, teoremi sul

comportamento umano.

Poi, come i teoremi di matematica, integrati con gli assiomi del moto e della

gravitazione, produssero l’astronomia matematica, così i teoremi del

comportamento umano, combinati con assiomi speciali di etica, di politica o di

economia, avrebbero dovuto produrre scienze in questi campi. In queste nuove

scienze sociali avrebbero potuto essere formulate conclusioni anche quantitative,

consentendo così l’applicazione di tecniche dell’algebra alla deduzione di altre

verità.

La ricerca di verità assiomatiche su cui doveva essere costruita la scienza del

comportamento umano assunse l’aspetto di una corsa all’oro. In successione

abbastanza rapida apparve una serie di grandi opere che analizzavano la natura

umana al fine di scoprire principi fondamentali. Tra i classici seicenteschi e

settecenteschi sull’argomento furono l’Essay Concerning Human Understanding

(Saggio sull’intelletto umano) di Locke, i Principles of Human Knowledge

(Principi della conoscenza umana) di Berkeley, il Treatise of Human Nature

(Trattato sulla natura umana) e le Inquiries Concerning the Human

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Understanding (Ricerche sull’intelletto umano) di Hume e l’Introduction to

Principles of Morals and Legislation (Introduzione ai principi della morale e della

legislazione) di Bentham. L’Analysis of the Human Mind di James Mill, edita nel

1829, trasferì il movimento nel secolo seguente. In tutte queste opere gli autori

proposero quelli che essi ritenevano fossero gli assiomi della scienza della natura

umana e, seguendo il metodo deduttivo, derivarono le leggi che governano le

azioni e i pensieri degli uomini.

Alcuni fra gli assiomi del comportamento umano presentati in queste opere

meritano attenzione non soltanto di per sé ma anche perché indicano gli assunti

fondamentali e le idee produttive dell’epoca. Fu affermato che tutti gli uomini

nascono uguali; che la conoscenza e le convinzioni derivano da dati del senso; che

il perseguimento del piacere e la fuga dal dolore sono forze fondamentali che

determinano il comportamento umano; che la natura umana risponde in modi ben

noti e costanti a influenze culturali e ambientali; e che gli uomini agiscono sempre

in accordo con i propri interessi. Quest’ultimo assioma fu assai spesso

sottolineato come fondamentale e comparabile, nella sua universalità, alla legge

della gravitazione. Se gli uomini del nostro secolo possono temere che gli

interessi particolaristici siano una forza disgregatrice nella società, non così gli

uomini del Settecento.

Fissarono così Natura e Dio

il quadro generale e stabilirono

che amor di sé e degli altri fosse a un fine.

I vizi privati divennero benefici pubblici. Ovviamente non tutti gli assiomi

enumerati sopra furono accettati e difesi da tutti i teorici, ma furono senz’altro i

più popolari.

Sarebbe difficile passare in rassegna in breve spazio le varie deduzioni che

furono compiute nella scienza della natura umana vera e propria. Fortunatamente

ai nostri fini ciò non è necessario ma è sufficiente sapere che una tale scienza fu

edificata.

Al fine di ottenere risultati nei campi specifici dell’etica, della politica e

dell’economia, il programma generale richiedeva che alla scienza complessiva

della natura umana si aggiungessero assiomi peculiari ai campi specifici. Di quei

sistemi umani che furono sviluppati dagli uomini pervasi dallo spirito della

ragione, uno in particolare ebbe tanta influenza, sia direttamente sia

indirettamente, nella nostra civiltà del XX secolo, che val la pena di esaminarlo

un po’ da vicino. Questo sistema, edificato da Jeremy Bentham (1748-1832), non

era semplicemente razionale e deduttivo; esso osò essere quantitativo.

Se esiste una cosa come una mente matematica, Bentham la possedeva. Egli era

così estremamente logico ed esatto nel suo pensiero da mettere da parte un’opera

e iniziarne una nuova quando anche una sola proposizione gli sembrasse dubbia.

Cercò continuamente di classificare ogni conoscenza, di sistemare le idee nella

loro propria relazione logica – ad esempio assumendo il particolare sotto il

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generale – e di analizzare tutte le idee nei loro elementi costitutivi. Bentham è

stato giustamente definito un animale codificatore.

Anche le sue insufficienze, particolarmente nel campo romantico, erano quelle

comunemente associate ai matematici. Dopo cinquantasette anni trascorsi senza

alcun legame con la società delle donne, egli decise di sposarsi e ragionò

scrupolosamente la sua scelta. Fece poi per lettera la proposta di matrimonio a una

donna che non vedeva da sedici anni. La sua proposta fu rifiutata. La logica della

sua proposta rimase però la stessa, e pertanto, dopo altri ventidue anni, durante i

quali ne riesaminò attentamente l’impeccabilità, si rioffrì alla stessa donna,

sperando forse che nel frattempo avesse appreso un po’ di matematica e potesse

quindi rendersi conto della forza logica del suo caso. Evidentemente, però, la

donna era altrettanto certa della sua logica, o intuizione, poiché lo rifiutò di

nuovo.

Ma non soltanto con le donne Bentham ebbe il coraggio delle sue convinzioni

logiche. In un’età in cui le varie organizzazioni religiose erano ancora potenti, egli

affermò recisamente che erano tutte deleterie e combatté l’alleanza di Chiesa e

Stato. Quando si convinse della saggezza della democrazia, osò sostenere il

suffragio universale e l’abolizione della monarchia e della Camera dei Pari. Le

classi privilegiate furono attaccate nel suo Book of Fallacies. Nei suoi scritti

furono attaccati anche individui corrotti, tribunali corrotti e avvocati disonesti; un

pamphlet, The Elements of the Art of Packing (as applied to Special Juries)

furono diretti contro la Corona stessa a causa della pratica seguita nel fissare le

giurie.

L’assioma fondamentale della natura umana di Bentham, secondo cui il piacere

e il dolore sono le realtà che sottostanno alla natura umana e che la determinano, è

già stato menzionato. L’uomo persegue continuamente il piacere e cerca di evitare

il dolore. Le parole piacere e dolore erano usate, com’è ovvio, in senso molto lato.

Il malanimo ad esempio procura piacere ad alcune persone e dev’essere dunque

annoverato fra i piaceri.

Ora, un sistema di etica in accordo con la scienza della natura umana e di fatto

derivato da essa dev’essere costruito sulle forze motrici del piacere e del dolore.

Bentham postulò pertanto per la sua etica che quegli atti che accrescono la felicità

della gente sono giusti e quelli che la diminuiscono sono sbagliati. Poiché un atto

particolare può piacere ad alcune persone e nuocere ad altre, egli aggiunse che

“Misura del giusto e sbagliato è il massimo bene del massimo numero di

persone.”

Fino a questo punto Bentham riecheggiò e formulò in modo appropriato nel suo

sviluppo dell’etica un pensiero dominante allora assai diffuso. Egli procedette poi

a indagarne le conseguenze e ad affinarlo attraverso l’introduzione di concetti

matematici. Il suo obiettivo era quello di misurare il piacere e il dolore e di

“massimizzare la felicità.” A tal fine il Newton del mondo morale sviluppò il

“calcolo felicifico” (felicific calculus).

Egli elencò innanzitutto quattordici piaceri semplici, come senso, ricchezza,

abilità e potere, e dodici dolori semplici, fra cui, ad esempio, la privazione e

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l’ostilità. A ciascun atto che causi piacere o dolore può essere assegnata una

misura. Il valore matematico di un tale atto, disse Bentham, dipende da fattori

obiettivi, ossia la sua durata, intensità, certezza, vicinanza, purezza (libertà da altri

piaceri e dolori) e fecondità (tendenza a produrre altri piaceri e dolori). Ciascuno

di questi fattori contribuisce alla misura del piacere o del dolore prodotto

dall’atto. Nel valutare un atto si deve considerare però anche un altro fattore. Un

piacere o un dolore si esercitano su persone, e queste, essendo macchine molto

complesse, differiscono per sensibilità. Se, ad esempio, due individui posseggono

un milione, e mezzo milione viene preso all’uno e dato all’altro, quest’atto

procura meno piacere che dolore poiché la ricchezza di chi riceve il mezzo

milione si accresce di un terzo, mentre chi lo perde perde metà dei suoi averi.

Così la ricchezza è una misura di sensibilità per certi atti. Similmente

l’educazione, la razza, il sesso, il carattere e altri fattori determinano la sensibilità

della gente.

Il valore di un atto può essere ora calcolato come segue. La misura oggettiva

del piacere che esso dà è moltiplicata per la varia sensibilità delle persone

implicate e questi prodotti vengono poi sommari. Il numero ottenuto è considerato

positivo. Il dolore che questo stesso atto può indurre in persone è poi calcolato

nello stesso modo e considerato negativo. Il valore dell’atto risulta dalla somma di

questi numeri positivi e negativi. Con questo “calcolo” non soltanto otteniamo il

valore di un atto ma possiamo anche paragonare fra loro due diversi

comportamenti.

Le applicazioni pratiche vennero ben presto. L’aritmetica morale di Bentham fu

applicata da alcuni per stabilire se fosse giusto chiedere la vaccinazione

antivaiolosa. Poiché a quell’epoca c’erano bambini che morivano per il vaiolo, il

procedimento non era approvato universalmente. I proponenti della vaccinazione

sostenevano che se il 10 per cento dei bambini vaccinati morivano a causa della

vaccinazione mentre il 50 per cento del gruppo sarebbero morti altrimenti per la

malattia, allora l’inoculazione era giustificata poiché la sopravvivenza di un

numero maggiore era un bene per tutta la società.

Questo tipo di argomentazione, come pure l’intero approccio algebrico di

Bentham alla moralità, può darci l’impressione di un’intrusione della matematica

in campi che non sono di sua competenza. È certamente vero che le misure di

valore escogitate da Bentham non possono essere calcolate facilmente. Questa

deficienza dev’essere però tollerata. “I logici rigorosi sono visionari autorizzati.”

Ciò che conta è che Bentham portò audacemente il vessillo della ragione in campi

di pensiero dominati in precedenza da un tradizionalismo autoritario e che ricercò

un approccio razionalistico a un sistema di etica al servizio dell’uomo comune.

Con lui la scienza dell’etica fu fondata non su precetti religiosi o su

razionalizzazioni di modelli sociali esistenti bensì sulla scienza della natura

umana. Non la volontà di Dio bensì la natura dell’uomo dava origine alla nuova

etica. La virtù, in particolare, non doveva più essere remunerata dal cielo ma

doveva essere premio a se stessa. L’applicazione della filosofia di Bentham

sarebbe desiderabile anche oggi.

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I teorici dell’etica, esemplificati da Bentham, erano riusciti a realizzare il piano

fondamentale; essi avevano eretto cioè sistemi logici di etica utilizzando le leggi

della natura umana e assiomi speciali sul comportamento dell’uomo verso il suo

simile. I teorici politici procedevano a fare lo stesso. Spronati dalla fiducia di

David Hume sulla possibilità di fare della politica una scienza, essi ricercarono

assiomi per la loro scienza particolare e, ovviamente, varie scuole di pensiero

scelsero assiomi diversi. Alcuni, come Hobbes, cercarono assiomi che

giustificassero la monarchia assoluta; altri, come Voltaire, cercarono di assicurare

il dispotismo illuminato; altri ancora, come Bentham, argomentarono a favore

della democrazia.

Fra le varie teorie politiche che furono sviluppate, almeno due sono di

importanza incomparabile per i nostri tempi, ossia quelle di Locke e di Bentham.

Locke intraprese il compito di portare in luce le origini naturali e la raison d’être

dei governi, ossia il fondamento logico della loro esistenza; la storia reale della

loro origine non aveva alcuna importanza ai fini di questa ricerca. La sua

argomentazione prese l’avvio da una dottrina tratta dalla sua famosa teoria della

conoscenza. Tutti gli uomini nascono assolutamente privi di ogni conoscenza. Sia

il loro carattere sia le loro conoscenze sono acquistati attraverso l’esperienza.

Poiché, perciò, le differenze essenziali fra uomini sono dovute all’ambiente, è

giusto dire che tutti gli uomini nascono uguali. In questo ipotetico stato originario,

che nel Settecento fu chiamato stato di natura, tutti gli uomini posseggono diritti

naturali e inalienabili, come la libertà, e sono guidati dalle leggi della ragione. Al

fine di assicurare la protezione della vita, della libertà e della proprietà, gli uomini

stipularono un “contratto sociale”, che dava al governo il diritto di definire e di

punire i reati contro la società. Quando si impegnarono in questo contratto, gli

uomini accettarono di essere guidati dal volere della maggioranza; si supponeva

che il governo interpretasse tale volontà e agisse di conseguenza. Perciò se i capi,

e principalmente i legislatori, avessero tradito gli altri contraenti del patto, la

rivolta sarebbe stata giustificata. Un esame ragionato della natura del governo

rispondeva pertanto a domande come perché esso esisteva, da dove traeva il suo

potere, quando usurpava questo potere e che cosa si poteva fare nel caso di un

potere tirannico.

In nessun testo la filosofia di Locke del governo e dell’approccio razionale ad

esso è espressa in modo così succinto come in un famoso documento

“matematico” del Settecento, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, che cita

di fatto molte frasi di Locke:

Riteniamo che le seguenti verità siano evidenti, ossia che tutti gli uomini siano creati uguali,

che essi siano dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, che fra questi ci siano la vita, la

libertà e la ricerca della felicità. Che per assicurare questi diritti vengano istituiti fra gli uomini

dei governi, i quali traggono i loro poteri legittimi dal consenso dei governati. Che ogni volta

che una qualsiasi forma di governo diventi distruttiva nei confronti di questi fini, è diritto del

popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, fondandolo su tali principi e

organizzandone i poteri in forma tale che essi appaiano i più appropriati a realizzare la propria

sicurezza e felicità.

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L’argomentazione comincia, come si osserva subito, con l’asserzione di verità

evidenti, equivalenti agli assiomi che sono alla base di ogni sistema matematico.

Il documento procede poi enunciando fatti i quali dimostrano che il re non ha

fornito al popolo quei diritti che, secondo gli assiomi citati sopra, i governi

dovrebbero assicurare. Perciò, in virtù di un altro di questi assiomi, il popolo era

giustificato ad abolire questo governo e a istituirne un altro.

Le concezioni personali dell’autore del documento si spingevano ancor oltre.

Ogni generazione, disse Thomas Jefferson, dovrebbe stipulare il suo proprio

contratto sociale. Egli calcolò che ogni diciotto anni e otto mesi moriva la metà

delle persone che avevano più di ventun anni di età. Perciò ogni diciannove anni

dovrebbe esserci un nuovo contratto e una nuova costituzione. Molto più

importante della forma matematica della Dichiarazione d’Indipendenza è la

filosofia politica che essa esprime. Molto acuta è la frase di apertura.

Quando, nel corso degli eventi umani, si rende necessario per un popolo sciogliere i legami

politici che lo hanno unito a un altro e assumere fra le potenze della terra quel posto separato e

uguale a cui le leggi della natura e del Dio della natura lo qualificano, un doveroso rispetto per

le opinioni dell’umanità richiede che esso dichiari le cause che lo costringono alla separazione.

L’espressione chiave è “le leggi della natura”. In essa è espressa in modo

esplicito la convinzione settecentesca che l’intero mondo fisico, compreso

l’uomo, è ordinato a opera di leggi della natura. Questa convinzione era fondata

ovviamente sull’evidenza del disegno razionale del mondo svelato dai matematici

e dagli scienziati dell’èra newtoniana. Poiché tali leggi esistevano, esse dovranno

determinare gli ideali, il comportamento e le istituzioni degli uomini. Una legge

di governo valida doveva essere una legge naturale.

Altrettanto significative sono le parole “Dio della natura”. La volontà di Dio e

il suo sostegno sono stati invocati ovviamente in aiuto di molte cause diverse e

anche opposte. Qui, nondimeno, non si tratta della volontà di Dio quale è nota

all’uomo attraverso la Rivelazione o le Scritture; è Dio che parla attraverso la

natura. La Ragione svela la Sua volontà, poiché la ragione, essendo parte

dell’uomo, è parte della natura. Di fatto, i pensatori del Settecento identificavano

praticamente la “retta ragione" e la natura.

La Dichiarazione fu scritta da un piccolo gruppo di capi politici, i quali

cercavano di giustificare la rivolta nei confronti della Gran Bretagna. Questa

giustificazione ricevette il sostegno del popolo poiché ne esprimeva le

convinzioni. Come lo stesso Jefferson sottolineò, egli non aveva inventato nuove

idee o sentimenti ma aveva espresso semplicemente ciò che tutti pensavano. Fu

questa filosofia politica popolare, più della legge sul bollo o della tassa sul tè, a

promuovere la Rivoluzione americana. Di fatto, sia la Rivoluzione americana sia

la Rivoluzione francese furono considerate da molti il trionfo della natura e della

ragione sull’errore.

Un razionalismo di tipo matematico e la dottrina dei diritti naturali, applicati

alla politica, produssero una nuova filosofia del governo e infusero negli uomini

una determinazione alla rivolta contro l’ingiustizia. Ma la dottrina dei diritti

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naturali non andò molto lontano nell’Ottocento. Molti fra i capi della rivolta, e

particolarmente Hamilton, Madison e John Adams, erano interessati più alla

protezione della proprietà privata che ai diritti delle masse. Inoltre, molti

consulenti legali identificavano i diritti naturali con gli interessi della nascente

classe mercantile, la quale desiderava essere libera da interferenze del governo per

accumulare più denaro, oppure riservavano la dottrina ai diritti naturali degli

uomini liberi, convalidando così lo schiavismo. In Inghilterra il diritto naturale dei

manovali all’istruzione fu negato adducendo il motivo che essa li avrebbe resi

insoddisfatti della loro sorte, li avrebbe resi indocili e avrebbe consentito loro di

leggere libretti sediziosi, libri immorali e pubblicazioni contro il cristianesimo.

Inoltre, avendo ispirato la Rivoluzione francese, la dottrina dei diritti naturali fu

accusata dei mali che ne erano seguiti, come il Terrore e il governo dispotico di

Napoleone. Per tutte queste ragioni la dottrina perse prestigio e sostegno. Di

conseguenza il principio della democrazia, secondo cui i governi traggono i loro

poteri dal consenso dei governati, perse il suo fondamento teorico e l’attuazione

pratica della democrazia avrebbe potuto soffrirne. Fortunatamente la filosofia

della democrazia moderna fu nuovamente fondata da Bentham, il quale senti,

forse ancor più di Locke, il carattere cogente della ragione. La nuova filosofia si

chiama utilitarismo.

Bentham espose le sue concezioni sulla natura umana e sul sistema di etica

nella sua Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789). Questo

medesimo libro trattava della scienza del governo e fece di fatto della scienza

politica, distinta dall’arte del governo, una branca della filosofia morale. Bentham

mise da parte i diritti naturali e la volontà di Dio e ricercò per il governo una base

puramente razionale. Per lui la verità primaria ovvero l’assioma fondamentale in

campo politico era che un governo doveva ricercare la massima felicità per il

massimo numero di persone. Da questo principio fondamentale egli dedusse

molte conclusioni. La giustizia non è un fine in sé; essa è piuttosto il mezzo per

accrescere la quantità totale di felicità. La legge deve considerare le conseguenze

delle azioni, non i motivi, poiché quel che importa è solo l’effetto degli atti sulla

felicità della società. In criminologia Bentham contribuì con la deduzione che la

legge deve scoraggiare con punizioni gli atti che diminuiscono la felicità. Poiché

però la punizione significa dolore, essa dev’essere inflitta solo quando serve a

prevenire dolori maggiori.

Bentham ponderò poi questo apparente paradosso: i governanti ricercano

naturalmente la loro propria felicità mentre il governo dovrebbe ricercare la

massima felicità del massimo numero di persone. In che modo questi opposti

interessi possono essere riconciliati? Soltanto assicurando un’identità di interessi

fra governanti e governati. Questo risultato può essere ottenuto ponendo il potere

nelle mani di tutti. La democrazia è dunque la forma preferita di governo. Per

confermare l’argomentazione, Bentham si appellò all”“ininterrotta e notissima

esperienza degli Stati Uniti.” In tale paese, egli asserì, non c’erano corruzione né

dispendi inutili e nessuno dei mali che dominavano in Gran Bretagna.

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Il famoso discepolo di Bentham, James Mill, affrontò il problema di chi

dovrebbe costituire l’elettorato in una democrazia. Dopo aver eliminato i votanti i

cui interessi sono ben protetti da altri votanti, come, ad esempio, gli interessi delle

mogli lo sono, a giudizio di Mill, dai mariti, egli concluse che dovessero votare

soltanto gli uomini al di sopra dei quarant’anni.

Bentham può aver peccato nel valutare la situazione degli Stati Uniti ma la sua

argomentazione a favore della democrazia era molto efficace. L’americano medio

è un utilitarista anche quando non ha mai sentito questa parola. Il massimo bene

di Bentham per il massimo numero di persone e la filosofia lockiana dei diritti

naturali e del contratto sociale plasmarono la democrazia americana, e vennero

fusi in essa.

Non abbiamo bisogno di considerare oltre il corso delle ideologie politiche. I

teorici non furono complessivamente in grado di fondare una scienza del governo

dotata della stessa efficacia della teoria matematica del cielo. Essi non fecero

forse altro che giustificare e proclamare l’ascesa politica dell’uomo comune.

Grazie al loro tipo d’indagine razionale essi ebbero almeno il merito di isolare e

formulare i fini, gli ideali e gli slogan della tendenza democratica.

La piena realizzazione della democrazia non poteva verificarsi finché non si

fossero verificati mutamenti nella filosofia e nella forma delle istituzioni

economiche dell’uomo, poiché l’uomo che è politicamente libero ma

economicamente schiavo gode nel caso migliore soltanto un’illusione di libertà. I

grandi pensatori del Settecento già impegnati nel compito di riorganizzare tutto il

sapere furono ancor più sollecitati a mettere assieme un pensiero economico

dall’approssimarsi della Rivoluzione industriale.

La nuova scienza dell’economia seguì le linee razionali, matematicamente

ispirate, dei teorici dell’etica e della politica. Alla base di essa sarebbe stata la

scienza della natura umana. Ad essa furono aggiunti gli assiomi dell’economia

vera e propria. La deduzione delle leggi economiche ne sarebbe derivata

facilmente.

Le due scuole principali del pensiero economico del Settecento, i fisiocrati,

ispirati da François Quesnay, e i classicisti inglesi guidati da Adam Smith e più

tardi da John Stuart Mill, erano in accordo fra loro circa l’esistenza di verità

economiche assiomatiche. Essi erano d’accordo anche sul fatto che leggi eterne e

immutabili governano i fenomeni economici oltre che quelli naturali. (Il vocabolo

“fisiocrazia” significa governo della natura.) Era perciò possibile pervenire a una

scienza naturale della ricchezza. Gli economisti dovevano svelare le leggi e

proclamarle.

Gli assiomi adottati da queste scuole di pensiero sono familiari a tutti e sono

ancora, principalmente, le concezioni dominanti. Gli individui agiscono nel loro

proprio interesse. Ugualmente assiomatici sono i diritti alla libertà, alla proprietà e

alla sicurezza e la proposizione che la terra e (o) il lavoro sono le uniche fonti

della ricchezza.

Da tali assiomi non era difficile dedurre i teoremi del libero scambio e della

competizione senza restrizioni, dottrine incorporate nell’espressione laissez faire,

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laissez passer. Ogni interferenza con gli sforzi normali e naturali dell’uomo per

procurarsi i mezzi di sussistenza era un’interferenza col disegno divino

dell’universo ed era perciò presunzione. In particolare, il governo non doveva

interferire negli affari. Gli affari dovevano esser lasciati agli uomini d’affari, il cui

spirito illuminato avrebbe garantito un funzionamento efficace del sistema

economico. Il governo doveva limitarsi semplicemente a garantire e a proteggere i

diritti contrattuali. I fisiocrati, i quali ritenevano che la terra fosse la sola fonte di

ricchezza, erano i sostenitori di una sola tassa, sulla terra; Adam Smith, invece,

considerava unica fonte di ricchezza il lavoro e pertanto, nonostante la profonda

simpatia e interesse per i problemi dei lavoratori, preferiva una sola tassa sui

redditi.

In queste teorie economiche c’erano assiomi e deduzioni nello spirito

matematico ma non c’erano leggi che correggessero i mali economici della

società. Questi economisti, benché inconsciamente, stavano dalla parte delle classi

mercantili e manufatturiere. I teorici derivavano dall’atteggiamento razionalistico

del tempo semplicemente ciò di cui avevano bisogno per costruire una difesa

logica della dottrina del laissez faire. Di fatto, man mano che l’industrializzazione

progrediva rapidamente all’inizio dell’Ottocento, questa dottrina falliva

miseramente nel compito di mitigare le sofferenze della classe lavoratrice. Essa si

limitò a giustificare il fatto che i ricchi diventavano sempre più ricchi e che i

poveri diventavano poverissimi. Le disuguaglianze e le ingiustizie divennero così

stridenti che gli economisti si sentirono infine costretti a difendere l’esistenza di

grandi masse che lavoravano in fabbriche a salari da farne. Il loro metodo consiste

di nuovo nella ricerca di leggi naturali al fine di stabilire che tale era il disegno di

Dio e che era inevitabile che anche donne e bambini piccoli dovessero lavorare

duramente per sedici ore al giorno nelle fabbriche.

Thomas R. Malthus trovò la risposta nelle leggi della popolazione. Le

conclusioni che egli cercava erano così evidenti che egli poté scrivere il suo Essay

on the Principles of Population (Saggio sui principi della popolazione) senza aver

gettato un’occhiata sul mondo attorno a sé. Il libro fondò la fama di Malthus come

studioso autorevole e gli valse una cattedra di storia ed economia politica.

Malthus comincia così:

Penso di poter porre due postulati. [Le argomentazioni cominciano di solito con assiomi]

Primo, che il cibo è necessario all’esistenza dell’uomo. Secondo, che la passione fra i sessi è

necessaria e si conserverà press’a poco nel suo stato presente... Supponendo poi i miei postulati

come certi, dico che la capacità della popolazione di accrescersi è indefinitamente maggiore del

potere della terra di produrre mezzi di sussistenza.

Nel linguaggio di John Adams: l’uomo ha due desideri, il cibo e la sua donna.

Ma il secondo desiderio è così intenso da fargli dimenticare il primo ed egli

contrae sconsideratamente un matrimonio da cui nascono figli. Perciò la

moltiplicazione della popolazione supera di gran lunga la moltiplicazione dei

mezzi di sussistenza.

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Forse per acquistare qualcosa dell’autorità di una dimostrazione matematica,

Malthus afferma che la popolazione cresce in progressione geometrica mentre i

mezzi di sussistenza di una determinata area crescono solo in progressione

aritmetica. Egli stima che la popolazione si raddoppi ogni venticinque anni. In

assenza di altri fattori, essa si moltiplicherà in due secoli per 256, mentre nello

stesso tempo i mezzi di sussistenza cresceranno di un fattore 9.

Malthus si rese conto però che le popolazioni attuali non crescono in

progressione geometrica. Perché? La risposta è che l’inedia, la malattia, il vizio e

le guerre bloccano l’accrescimento delle popolazioni.

Questi mali apparenti sono in realtà, a lungo termine, benefici; essi sono risorse

della natura, atroci ma necessarie. Poiché questi eventi sono parte del piano

divino, nessuna legislazione può alleviare la miserabile sorte dell’uomo. Non può

esistere alcuna società in cui tutti i membri possano vivere nel benessere, nella

felicità e nell’agio. Malthus sottolineò la desiderabilità di una limitazione

dell’istruzione, in modo che la gente non avesse figli che non fosse in grado di

mantenere. Egli avrebbe aggiunto al decalogo un undicesimo comandamento:

“Non sposarti finché non avrai buone prospettive di poter mantenere sei figli.”

La giustificazione di condizioni sociali miserabili mediante il ricorso a leggi

naturali non ebbe termine con Malthus. Un altro famoso economista che raccolse

questa causa fu David Ricardo. Innanzitutto egli isolò e classificò i fattori che

hanno parte nella vita economica, ossia il capitale, il lavoro, il valore, l’utilità, i

noli, i salari, i profitti e così via. Ogni cosa negli affari, disse Ricardo, segue leggi

naturali inevitabili, implicanti questi fattori; tali leggi possono esser dedotte da

postulati. Ad esempio, era evidente che il prezzo di un bene era determinato

dall’offerta e dalla domanda. Questo postulato, applicato al bene manodopera,

implicava che anche questa avesse un prezzo naturale. Se i salari fossero saliti

oltre questo livello, i lavoratori avrebbero avuto famiglie più estese, con la

conseguenza di accrescere la quantità di mano d’opera disponibile, determinando

quindi una riduzione dei salari. Non aveva senso quindi aumentare i salari.

Ricardo compendiò queste considerazioni nella sua famosa legge dei salari: “Il

prezzo naturale del lavoro è quel prezzo che è necessario per consentire ai

lavoratori, uno per l’altro, di sostentarsi e di perpetuare il loro gruppo senza

aumenti o diminuzioni.” Era perciò naturale per Ricardo, come per Malthus, che

esistessero povertà, miseria e farne. Era naturale anche che lavoratore,

proprietario terriero e capitalista fossero in antagonismo fra loro. Tutte queste

leggi, e le condizioni che esse causavano, erano i decreti di una Provvidenza

lungimirante.

Col procedere dell’industrializzazione, la “scienza” dell’economia si rivelò

sempre più incapace di trattare i problemi principali della società. Di fatto, essa si

opponeva ai movimenti di riforma, ai sindacati, alla legislazione riparatrice e alle

istituzioni assistenziali, cosicché invece di servire l’uomo la scienza serviva i suoi

nemici.

Il movimento razionalistico in economia non si è però esaurito. I prodigi della

scienza fisica furono ancora più splendidi, e il potere della matematica ancor più

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evidente, nell’Ottocento che non nel Settecento. Eppure la teoria economica, pur

avendo adottato i metodi della matematica e della scienza, era in una confusione

ancora maggiore. Il difetto, secondo alcuni economisti, stava nel fatto che, pur

avendo usato il metodo matematico e avendo ricercato leggi naturali, essi non

avevano usato la matematica in una misura degna di nota. Forse essi avevano fatto

il passo più lungo della gamba. Poteva esser meglio mettere in pratica il metodo

del divide et impera.

Gli economisti tentarono allora di applicare l’approccio quantitativo, deduttivo

a fenomeni speciali invece che a interi settori, di compiere investigazioni parziali

invece che generali. Il primo obiettivo era in ciascun caso quello di trovare la

formula o le formule fondamentali che governavano il fenomeno particolare. Il

secondo era quello di usare queste formule e tecniche matematiche per dedurre

conclusioni. In questo tipo più limitato di comportamento gli economisti

ottennero successi molto maggiori.

Con la pubblicazione, nel 1838, delle Recherches sur lex principes

mathématiques de la théorie des richesses di Cournot, sorse una nuova scuola nel

pensiero economico, la Scuola matematica, nella quale rientra anche 1’opera di

Vilfredo Pareto nel nostro secolo. Per illustrare il metodo seguito da questa scuola

nell’affrontare problemi specifici, descriveremo brevemente il lavoro compiuto da

due americani contemporanei, Raymond Pearl e Lowell J. Reed, sul problema

importantissimo dell’incremento demografico.

A proposito di quanto segue dobbiamo tenere a mente che non abbiamo alcun

interesse particolare per la popolazione di Middletown nel 1947. Noi desideriamo

studiare le variazioni demografiche in generale per scoprire i fattori fondamentali

piuttosto che quelli accidentali. In accordo con l’impostazione matematica di un

problema, Pearl e Reed prendono l’avvio da assunti ragionevoli:

a) le condizioni fisiche costituiscono un limite superiore, indicato con L, alla

popolazione di una regione o di un paese;

b) il ritmo di accrescimento della popolazione è proporzionale alla popolazione

esistente;

c) il ritmo di accrescimento della popolazione è proporzionale alle possibilità

d’espansione della popolazione, ossia alla differenza fra L e la popolazione esistente.

Questi assiomi suggeriscono al matematico un’equazione differenziale che può

essere risolta facilmente. Il risultato è una formula generale per l’accrescimento

della popolazione. Se y sta per la popolazione di un paese t anni dopo una certa

data fissata, allora la formula è

(1) 𝑦 =L

1+a(2,718)𝑘𝑡

dove a e k sono numeri i cui valori dipendono dalla regione cui la formula (1) è

applicata.

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Il lettore non ha bisogno di darsi gran pena per capire i particolari della formula

(1). La figura 68 illustra la forma della curva corrispondente a questa formula.

Nota come curva logistica, essa rappresenta nella sua interezza un cosiddetto ciclo

di accrescimento. La linea spezzata indica in che modo la popolazione muterebbe

se crescesse indefinitamente secondo la progressione geometrica, come asseriva

Malthus.

Fig. 68. La curva di incremento demografico.

La formula (1) esprime una legge generale dell’incremento demografico, la

quale ci dice in che modo dovrebbero comportarsi grandi masse di popolazione.

Ma si comporteranno in tal modo? I valori di a e di k nella formula (1) furono

determinati, con appena un po’ d’algebra applicata alle statistiche demografiche

degli Stati Uniti dal 1790 al 1910, da Pearl e Reed. La formula generale per

l’incremento demografico degli Stati Uniti risultò allora essere la seguente

(2) 𝑌 =197,274

1+67,32(2,718)−0,0313𝑡

dove t è il numero degli anni a partire dal 1780 e y è la popolazione in milioni.

La figura 69 presenta la curva corrispondente alla formula (2). I cerchietti

rappresentano i dati reali. Le porzioni tratteggiate della curva prima dell’anno

1790 e dopo il 1910 rappresentano la tendenza richiesta dalla formula (2).

Possiamo vedere che i dati in nostro possesso per gli anni compresi fra il 1790 e il

1910 giacciono sulla curva della formula (2).

Con quanta precisione la formula rappresenta ciò che accadde dopo il 1910?

Secondo la formula, nel 1930 la popolazione degli Stati Uniti avrebbe dovuto

essere di 122 397 000 individui mentre il censimento diede 122 775 000

individui. Per l’anno 1950 la formula predisse una popolazione di 148 400 000

individui; il censimento diede invece 150 700 000. Pare dunque che fra la teoria e

i fatti ci sia un accordo molto buono.

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Dalla formula (2) possiamo dedurre varie altre conclusioni interessanti. La

formula dice che il limite superiore della popolazione è 197 274 000 individui e

che questo valore sarà quasi raggiunto nel 2100. Un’altra deduzione dalla formula

di Pearl-Reed è che gli Stati Uniti hanno superato il punto di più rapido

accrescimento nel 1914. Lo studio reale dell’incremento demografico dimostra

quindi che un approccio teorico, puramente razionale, al problema ha prodotto

una formula o legge che rappresenta i fatti, almeno nei loro aspetti più generali.

Neppure gli studi più ristretti nel campo dell’economia matematica, quali Fig.

69.

sono quelli esemplificati dall’opera di Pearl e Reed, sono stati sempre

produttivi, in gran parte perché non sono state trovate premesse corrette. Troppo

spesso dietro una mole enorme di simbolismo matematico si cela l’assenza di

qualsiasi contributo reale a un problema. Non c’è tuttavia alcun dubbio sul fatto

che l’approccio matematico deduttivo a problemi economici specifici ha prodotto

qualche conoscenza utile.

Un ottimismo illimitato a proposito dell’applicabilità e dell’efficacia della

matematica ha condotto ad alcune conclusioni bizzarre. Uno psicologo tentò di

derivare una formula per l’intensità delle emozioni e cominciò del tutto

naturalmente con l’amore. Egli ne concluse che l’amore fra un uomo e una donna

varia in modo direttamente proporzionale al tempo di associazione e in modo

inversamente proporzionale al cubo della distanza fra loro. In questa “legge”

abbiamo una formulazione matematica del detto popolare “lontan dagli occhi

lontan dal cuore.”

Un’altra formula matematica un pò sospetta fu derivata dal filosofo David

Hartley. Egli offrì una versione tascabile della sua filosofia morale e religiosa

Figura 69 Incremento demografico degli Stati Uniti.

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nella formula M = T2 : A, dove M è l’amore del mondo, T è il timor di Dio e A è

l’amor di Dio. È necessario aggiungere solo, disse Hartley, che man mano che

l’individuo invecchia, A aumenta diventando di fatto infinito. Ne segue che M,

l’amore del mondo, diminuisce fino ad approssimarsi a zero. Questo è il

compendio e la sostanza della verità morale.

Abbiamo esaminato l’influenza della matematica stessa e dello spirito razionale

generato dalla matematica sulla scienza dell’uomo. Nella misura in cui tale spirito

predisse, con eccessivo ottimismo, la scoperta di leggi naturali, universali, del

comportamento umano e la conseguente soluzione di tutti i problemi sociali, esso

era ovviamente sbagliato. L’uomo, nel complesso, non è riuscito a capire e a

predire il suo comportamento. Il suo corpo, le sue emozioni e i suoi desideri si

rifiutano apparentemente di obbedire a leggi rigide o di sottomettersi a una

regolamentazione matematica. Nessun pensatore, quanto meno, ha finora

realizzato un approccio quantitativo, deduttivo, a un’intera scienza sociale che ci

consenta di dirigere, controllare e predire fenomeni in tale campo. Il successo è

mancato particolarmente nel campo dell’economia.

Perché proprio l’uomo è il tallone di Achille dell’uomo? Una ragione

dell’inesistenza di una qualche scienza della società fu data da Hobbes molto

tempo fa. “Non ho alcun dubbio che se il fatto che i tre angoli di un triangolo

sono uguali a due angoli di un quadrato fosse stato contrario al diritto di dominio

di qualche uomo, tale dottrina sarebbe stata, se non discussa, almeno soppressa

bruciando tutti i libri di geometria, se la persona interessata ne fosse stata in

grado.”

Forse la critica più severa che può essere diretta contro gli studiosi

settecenteschi e ottocenteschi delle scienze sociali è che essi erano troppo

matematici e non sufficientemente scientifici. Essi desideravano trovare assiomi o

principi generali da cui derivare facilmente la scienza della politica o

dell’economia. Pochissimi, però, come Montesquieu, avrebbero esaminato la

società in sé, prima di tutto per controllare la correttezza dei loro assiomi e poi per

verificare le loro deduzioni.

Quali che possano essere i meriti e le insufficienze dell’approccio deduttivo

alle scienze sociali e psicologiche, un valore è preminente. Il concetto stesso di

una scienza dell’etica, della politica, dell’economia o della psicologia e lo stimolo

a creare tali scienze derivano direttamente dal fecondante razionalismo dell’età

newtoniana. Di conseguenza, la chiara luce della ragione ha quanto meno

irraggiato campi annebbiati dalla tradizione, dall'abitudine e dalla superstizione.

In particolare, il tentativo di affrontare in modo ragionevole il problema del

governo, invece di accettare semplicemente le istituzioni stabilite, aprì gli occhi

degli uomini a disuguaglianze, ingiustizie e crudeltà. Ciò che il razionalismo

greco fece per la matematica, lo spirito matematico lo fece a sua volta per questi

campi del pensiero vaghi, mal definiti, confusi: esso “costruì l’edificio della

Ragione sulle rovine dell'opinione.”

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XXII. La teoria matematica dell’ignoranza: l’approccio

statistico allo studio dell’uomo

Ciò che ovunque opprime 1’uomo pratico è il

gran numero di cose e di eventi che accadono

incessantemente attorno a lui, e il flusso dei quali

egli non può arrestare. Ciò di cui egli ha bisogno è

la comprensione dei grandi numeri.

THEODORE MERZ

Una buona regola del bridge, quando non si hanno buone carte, è di cominciare

dal seme più debole. Come vedremo, questa regola funziona bene anche per

“mani” scientifiche. Essa fu applicata con un successo notevole da cultori delle

scienze sociali quando si resero conto di non avere carte del seme di atout.

La tattica dei matematici e dei fisici può essere descritta in sintesi come a

priori e deduttiva. Riflettendo con cura su tutte le conoscenze disponibili su un

fenomeno, essi ottengono principi fondamentali generali che servono come

assiomi. Il ragionamento deduttivo produce poi nuove conclusioni e nuovo

sapere. In questo approccio “a tavolino” l’osservazione e la sperimentazione

possono contribuire ad arrivare ai primi principi o a verificare le deduzioni ma

l’agente effettivo è la mente, non i sensi.

L’approccio deduttivo, a priori, ha deluso gli scienziati sociali per ragioni

molto precise. La principale consiste forse nel fatto che i fenomeni che essi

studiano sono estremamente complessi. Anche in problemi relativamente limitati

sono in gioco tanti fattori che è impossibile isolarne gli elementi dominanti. In

che modo renderemmo ragione, ad esempio, di un periodo di prosperità

nazionale? Una tale felice situazione dipende da risorse naturali, dalla quantità di

mano d’opera disponibile, dai capitali presenti, dal commercio con l’estero, dallo

stato di guerra o di pace, da considerazioni psicologiche e da altre variabili. Non

sorprende quindi che nessuno abbia colto il nocciolo del problema. Se un

economista dovesse tentare di semplificare il problema facendo assunti su alcune

fra le variabili in gioco, renderebbe probabilmente il problema così artificiale da

separarlo totalmente dalla situazione reale.

In molti casi l’approccio deduttivo, a priori, non è stato possibile non essendoci

praticamente conoscenze su cui lavorare. Il trattamento di alcune malattie non può

essere prescritto senza conoscenza delle cause ed essendoci troppo poche

informazioni sui fattori che ne favoriscono la diffusione. Vaste parti della chimica

del corpo e del funzionamento del cervello sono misteri totali per i biologi. Il

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meccanismo dell’eredità fisica é quasi un libro chiuso. In questi campi è difficile

iniziare analisi.

In alcuni problemi è vero, paradossalmente, l’inverso, ossia non si sono potute

trovare le leggi fondamentali a causa dell’eccesso di informazioni disponibili. Un

gas è composto da molecole che si attraggono reciprocamente in accordo con la

ben nota forza di gravità. Le molecole sono inoltre soggette alle leggi newtoniane

del moto. Se un volume dato di gas contenesse soltanto due o tre molecole, il

comportamento del gas potrebbe essere predetto, così come gli scienziati sono in

grado di predire e predicono il comportamento dei pianeti. Ma in condizioni

normali un decimetro cubico di gas contiene circa 2 1022

(due seguito da 22

zeri) molecole. Ogni molecola esercita un effetto su tutte le altre in accordo con la

legge della gravitazione. È chiaro che non possiamo studiare il comportamento di

questo volume di gas sommando gli effetti di tutte le singole molecole l’una

sull’altra. Si rende pertanto necessario un metodo che consenta il trattamento di

un gran numero di molecole come se fossero un’unità.

Un altro motivo di insoddisfazione nei confronti dell’approccio deduttivo, a

priori, ai problemi sociali fu peculiare all’Ottocento. La Rivoluzione industriale

introdusse una produzione di fabbrica su vasta scala e condusse al crescere delle

popolazioni urbane. Da questi sviluppi emersero numerosi problemi sociali

connessi con variazioni di popolazione, disoccupazione, produzione e consumo in

grandi quantità di beni, assicurazione contro i rischi in imprese di grandi

proporzioni e malattie propagate da condizioni di vita non igieniche in quartieri

sovrappopolati. Questi problemi si presentarono in massa ai cultori di scienze

sociali, accumulandosi così rapidamente che, anche ammesso che essi avessero

potuti risolverli con un approccio deduttivo, ci sarebbe voluto molto più tempo di

quello che si sarebbe potuto risparmiare dopo. Questo metodo, anche quando fu

applicato da geni come Copernico, Keplero, Galileo e Newton, richiese più di un

secolo per produrre le leggi del moto e della gravitazione. Non ci si poteva certo

attendere che esso fornisse risultati più rapidamente nei campi sociale e medico.

Per tutte queste ragioni il metodo deduttivo non poteva essere applicato dai

cultori delle scienze sociali e sembrava necessario un nuovo metodo per

affrontare questo tipo di problemi. Se qualcuno si fosse soffermato a pensare

quanto si richiedeva a un nuovo metodo per ottenere leggi scientifiche, avrebbe

potuto disperare di riuscire mai a trovarlo. Esso doveva fornire risultati

rapidamente: doveva compendiare gli effetti di molte variabili agenti in una

situazione; doveva riuscire dove la comprensione mancava del tutto; doveva

racchiudere gli effetti di milioni e milioni di elementi inclusi in un fenomeno; e

doveva misurare gli effetti di fattori di per sé non misurabili. Nonostante queste

domande disordinate, fu creato un nuovo approccio ai problemi scientifici che

tenne conto di tutte.

Il nuovo approccio prendeva l’avvio dall’analisi della situazione. Qui,

ragionavano i sociologi, abbiamo fenomeni di cui non comprendiamo la natura

essenziale o, se la comprendiamo, come nel caso del moto delle molecole di un

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gas, essa non ci dà alcun vantaggio, e pertanto a fini pratici è come se la

ignorassimo. Non possediamo pertanto i principi fondamentali di carattere

generale che potrebbero servire di base a un approccio deduttivo. La nostra

debolezza sembra consistere d’altra parte nel fatto che ci troviamo di fronte a una

quantità enorme di meri fatti caotici che ci sopraffanno e che sottolineano la

nostra ignoranza.

A questo punto i sociologi si ricordarono delle regole del bridge. Non

possedendo i principi fondamentali che potevano servire come carte del seme di

atout, decisero di cominciare dal seme più debole. Se non possiamo capire in che

modo le precipitazioni incidono sulla vegetazione, essi dissero, misuriamo

nondimeno in quale misura incidono. Se non sappiamo perché la vaccinazione

previene numerosi decessi, classifichiamo i risultati di questa pratica. Se non

possiamo spiegare il fenomeno complesso della prosperità nazionale, stabiliamo

un coefficiente idoneo e facciamo il grafico della sua ascesa e diminuzione. Se

non comprendiamo il meccanismo dell’eredità in piante, animali o esseri umani,

facciamo riprodurre le specie e registriamo ciò che rivelano generazioni

successive. Facciamo del mondo il nostro laboratorio e facciamo statistiche su ciò

che vi avviene.

La semplice raccolta di statistiche non era un pensiero nuovo poiché statistiche

si trovano nella Bibbia e in documenti antichi. Di nuovo c’era la nozione, che pare

si sia affacciata per la prima volta al prospero mercante inglese di capi di vestiario

John Graunt, che la statistica potrebbe servire come arma importante

nell’affrontare i problemi delle scienze sociali. Graunt aveva studiato per

passatempo i dati dei decessi di talune città inglesi e aveva osservato che in esse si

avevano percentuali uguali di morti accidentali, di suicidi e di decessi per

malattia. Eventi che, considerati superficialmente, sembravano prodotti del caso,

rivelavano in realtà una regolarità sorprendente. Graunt scoprì anche l’eccesso

delle nascite di maschi su quelle di femmine. Su questa statistica egli fondò

un’argomentazione: poiché gli uomini sono soggetti ai casi dell’occupazione

professionale e al servizio di guerra, il numero degli uomini idonei al matrimonio

è press’a poco uguale al numero delle donne e pertanto la monogamia dev’essere

la forma naturale di matrimonio.

L’opera di Graunt fu sostenuta e incoraggiata dal suo amico Sir William Petty,

professore di anatomia e di musica e, più tardi, medico militare. Benché Petty non

facesse osservazioni singolari come quelle di Graunt, egli è degno di nota

specialmente perché il suo punto di vista era assai ampio. Le scienze sociali,

sottolineò, devono essere quantitative, come le scienze fisiche. Parlando dei suoi

scritti su argomenti medici, matematici, politici ed economici, egli disse: “Il

metodo da me usato non è ancora molto abituale, poiché, invece di usare soltanto

parole comparative e superlative, e argomenti intellettuali, ho adottato il sistema...

di esprimermi in termini di numero, peso e misura, di usare soltanto

argomentazioni sensate e di considerare solo quelle cause che hanno fondamenti

visibili in natura.” Egli diede alla scienza nascente della statistica il nome di

“aritmetica politica” e la definì “l’arte di ragionare mediante cifre su cose attinenti

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al governo.” Di fatto egli considerò l’insieme dell’economia politica esattamente

come un settore della statistica.

Quando questi inglesi vigili e lungimiranti parlarono a favore delle potenzialità

della statistica e quando un prete del Seicento si servì della statistica per

combattere la superstizione secondo cui le fasi della luna influirebbero sulla

salute, furono concepite nuove basi per la scienza. Il periodo di gestazione durò

circa un centinaio d’anni. In questo tempo la statistica venne a significare in

generale l’informazione quantitativa degna di nota su una nazione, essa fu

considerata cioè una disciplina di competenza di uomini politici. Ben poco fu

fatto fino alla prima parte dell’Ottocento per seguire i suggerimenti contenuti

nell’opera di Petty e di Graunt, ossia per ottenere leggi sulla base di dati. A

quest’epoca un gruppo efficiente di studiosi, consapevoli dell’insufficienza

dell’approccio deduttivo alle scienze sociali, e altrettanto coscienti delle

potenzialità della statistica, cominciarono ad affrontare i problemi principali.

Petty e Graunt furono gli scopritori di un nuovo filone di pensiero. Al fine di

ottenere oro puro, non è però sufficiente limitarsi ai scavare il metallo, per quanto

questo compito possa essere faticoso. L’oro dev’essere setacciato, lavato e

raffinato. Similmente, il semplice accumulo di statistiche vale in sé ben poco

poiché soltanto nei problemi semplici le conclusioni derivano facilmente dai dati

disponibili. L’estrazione di conoscenze da grandi quantità di dati ha luogo a opera

della matematica.

Il più semplice mezzo matematico per la distillazione di conoscenze da dati è la

media. Supponiamo che i dipendenti di una piccola società commerciale ricevano

i seguenti salari settimanali in dollari:

20, 30, 40, 50, 50, 50, 60, 70, 80, 90, 100, 1000, 2000.

Qual è il salario settimanale medio? Di solito si considera la somma di tutti

questi salari e la si divide per il numero dei salari. In questo esempio la somma è

3640 e il numero dei salari è 13. La media è perciò 280. Questo tipo di media è

chiamato la media aritmetica.

È chiaro che questa media non ci dà molte informazioni. Nessuna persona

riceve di fatto tale salario. Inoltre, delle tredici persone, solo due guadagnano una

cifra uguale o superiore. Gli altri dipendenti guadagnano tutti molto meno. In altri

termini, la media aritmetica non è un valore numerico rappresentativo se alcune

fra le quantità componenti sono molto grandi paragonare ad altre. In tali casi altri

tipi di media possono essere più prodighi di informazioni. Un altro valore medio

usato spesso, chiamato mediana, è il dato al di sopra e al di sotto del quale c’è un

numero di casi uguale. Nel nostro esempio ci sono tredici casi. Il salario mediano

è perciò 60, poiché ci sono sei persone che guadagnano di più e sei che

guadagnano di meno.

In quest’esempio la mediana sembra un valore più rappresentativo ma neppure

essa ci racconta tutta la storia. Se i salari delle sei persone che si trovano al di

sotto della mediana fossero anche molto inferiori ai valori indicati sopra e i salari

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delle sei persone al di sopra della mediana fossero molto superiori, la mediana

sarebbe la stessa. Una disparità tanto grande non si rifletterebbe in alcun modo

nella cifra mediana di 60. Neppure la mediana è perciò, spesso, una cifra

rappresentativa.

Un altro valore medio usato comunemente è la moda. È questo il valore che

compare più spesso nei dati. Nel nostro esempio la moda dei salari è il 50 perché

il maggior numero di persone riceve questo salario. Benché questo valore medio,

come gli altri, dia qualche indicazione sulla distribuzione dei salari, è anch’esso

inadeguato. In esso non si riflette infatti la variazione dei salari al di sopra e al di

sotto della moda.

Ciò che nessuna di queste medie ci dice è la distribuzione dei dati al di sopra e

al di sotto di esse. La media dipende da tutti i valori ma da essa non possiamo

inferire la natura della distribuzione. Ad esempio, se i due salari di 1000 e 2000

dollari fossero trasformati rispettivamente in 100 e 2900 la media resterebbe la

stessa ma la natura della distribuzione sarebbe molto diversa. Ciò che ci serve è

una qualche misura della dispersione dei dati attorno alla media. A tal fine gli

statistici usano una quantità chiamata scarto quadratico medio o deviazione

standard; esso è denotato con (sigma). Questa quantità viene calcolata come

segue. Innanzitutto, viene calcolata la differenza fra ogni dato e la media

aritmetica, ossia lo scarto del dato dalla media. Per evitare numeri negativi, questo

scarto viene elevato al quadrato. Si fa poi la media dei quadrati degli scarti

sommandoli e poi dividendoli per il numero dei dati. Si prende poi la radice

quadrata di questa media per controbilanciare in qualche misura la precedente

elevazione a quadrato. Detto in breve, la deviazione standard di un insieme di dati

è la radice quadrata della media dei quadrati delle singole deviazioni dalla media

dei dati.

Potremmo usare l’insieme dei salari elencati sopra per illustrare il calcolo di

una deviazione standard; per evitare però di complicare gli aspetti aritmetici del

calcolo useremo una serie di dati più semplici. Calcoliamo la deviazione standard

dei dati

1, 3, 4, 7, 10, 13, 18.

La media di questi dati è 8. Le deviazioni dalla media sono dunque

7, 5, 4, 1, 2, 5, 10.

I quadrati di queste deviazioni sono

49, 25, 16, 1, 4, 25, 100.

La somma di questi quadrati è 220. La media di questi quadrati è perciò 220

diviso 7, ossia approssimativamente 31,4. La radice quadrata di questo numero è

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press’a poco 5,6. Poiché quest’ultima cifra è grande rispetto alla media 8, anche la

dispersione dei dati dev’esser grande. Se avessimo eseguito un calcolo simile per i

dati concernenti i salari, avremmo ottenuto uno scarto quadratico medio di 556.

La media, lo ricordiamo, era 280. Anche in tal caso avremmo avuto ragione di

inferirne che la dispersione dei salari attorno alla media dev’essere grande.

Ovviamente, neppure due valori rappresentativi come la media e la deviazione

standard possono dirci quanto i dati stessi ma poiché la mente non può tener

presenti tutti i dati e lavorare con essi, queste cifre sono molto utili.

Un’alternativa al ricordo dell’intera serie di dati o all’uso esclusivo delle due

cifre rappresentative è fornita dal diagramma. Una persona abituata a leggere il

giornale non può non avere osservato che una presentazione grafica di dati dà

rilievo a fatti che altrimenti sarebbero ben lungi dall’essere evidenti. Le curve

dell’aumento e della diminuzione del costo della vita e dei prezzi delle materie

prime sono esempi comuni. Il ricorso a diagrammi ha reso possibili conclusioni

più significative di una semplice esposizione dell’aumento e della diminuzione.

Supponiamo di aver misurato la statura di tutti gli uomini in una certa

comunità. In corrispondenza a ogni statura ci sarebbe la frequenza con cui tale

statura si presenta. Se rappresentassimo graficamente le stature degli uomini come

ascisse e le frequenze corrispondenti come ordinate, otterremmo il diagramma

della distribuzione di queste frequenze. Un diagramma dei dati reali è presentato

nella figura 70, dove attraverso i dati è stata tracciata una curva. Non c’è dubbio

che il diagramma ci dà un’immagine che si imprime con facilità nella mente e che

ci offre in un sol colpo d’occhio gran parte dell’informazione contenuta nei dati

originali.

Fig. 70. La statura degli appartenenti a una certa comunità.

Ciò che è particolarmente significativo nella distribuzione delle stature, come

di molti altri caratteri che vedremo fra poco, è che la curva si avvicina a una

distribuzione ideale nota ai matematici come curva della frequenza normale (fig.

71). Di fatto, quanto più grande è il gruppo le cui stature sono incluse nel

diagramma, tanto più la curva si avvicina alla forma ideale, così come i poligoni

regolari si avvicinano tanto più al cerchio quanto maggiore e il numero dei loro

lati.

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Fig. 71. La curva della frequenza normale.

La curva della frequenza o della distribuzione normale è così comune e così

importante che riteniamo utile elencarne i caratteri principali. La curva è

simmetrica attorno a una linea verticale che rappresenta la frequenza massima nei

dati. Se seguiamo la curva verso destra e verso sinistra rispetto a questa linea, la

curva scende dapprima lentamente, poi molto rapidamente e infine, estendendosi

ulteriormente verso destra e verso sinistra, si avvicina all’asse orizzontale senza

mai raggiungerlo. Questa forma è stata paragonata a quella di una campana e la

curva è stata chiamata anche curva a campana.

L’ascissa corrispondente alla più grande ordinata o frequenza in ogni

distribuzione normale è certamente la moda della distribuzione, essendo la

quantità misurata che ricorre più spesso. Questa moda dev’essere anche la

mediana, poiché la simmetria del diagramma ci dice che è uguale il numero dei

casi che si presentano sia a sinistra sia a destra dell’ascissa. È quasi evidente che

la moda è anche la media perché due ascisse, una su ciascun lato della moda ed

equidistanti da essa, hanno la stessa frequenza e, nel calcolo della media, il valore

medio di tutte queste coppie di ascisse equidistanti sarà quello di mezzo. Perciò,

in una distribuzione normale moda, mediana e media coincidono.

La curva della frequenza normale è stata familiare ad astronomi e scienziati a

partire dal 1800 circa, presentandosi spesso in connessione con misurazioni.

Supponiamo che uno scienziato sia interessato alla lunghezza esatta di un pezzo di

filo metallico. In parte a causa del fatto che la mano e l’occhio non sono

perfettamente precisi e in parte a causa delle possibili variazioni di elementi della

situazione, come ad esempio la temperatura, lo scienziato misurerà questa

lunghezza non una sola volta bensì ad esempio cinquanta volte. Queste cinquanta

misurazioni saranno tutte diverse l’una dall’altra, talvolta in misura impercettibile

e tal altra sensibilmente. Un diagramma delle varie misurazioni messe in relazione

al numero di volte che ciascuna misura compare fra le cinquanta si avvicina alla

curva della frequenza normale. Di fatto, quanto maggiore è il numero delle

misurazioni eseguite tanto più la loro distribuzione di frequenza si avvicinerà a

questa curva.

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C’è una buona ragione per attendersi che un insieme di misurazioni eseguite

con precisione debba seguire una curva normale. Gli errori nella misurazione

dovrebbero esser dovuti a errori casuali compiuti dall’occhio o dalla mano o a

variazioni casuali negli strumenti usati. Questi errori dovrebbero distribuirsi a

entrambi i lati del valore vero e raggrupparsi attorno a questo valore, esattamente

come i tiri di un fuciliere a un bersaglio si raggrupperanno, se egli è un tiratore

scelto, attorno al centro rarefacendosi col crescere della distanza dal centro.

Il fatto che le misurazioni seguano una curva normale è assai utile agli

scienziati. In una distribuzione normale i dati si raggruppano attorno al valore

medio, il quale, come abbiamo or ora osservato, dovrebbe essere il valore vero.

Perciò il valore medio di un gran numero di misurazioni, se esse appaiono seguire

una curva normale, dovrebbe essere una buona approssimazione alla misura vera.

Se inoltre un’ampia serie di misurazioni non pare seguire una curva normale, ciò

significa che nelle misurazioni dev’essersi insinuato qualche elemento

perturbatore che dovrebbe essere eliminato. Ad esempio, se la lunghezza di un

pezzo di metallo fosse misurata in una stanza con temperatura crescente, i valori

crescerebbero senza dubbio rapidamente e non seguirebbero una curva normale.

La media di queste misurazioni sarebbe grossolanamente in errore e un

diagramma delle misurazioni rivelerebbe immediatamente questo fattore di

disturbo.

La curva normale è stata usata migliaia di volte per determinare distanze

astronomiche; per misurare massa, forza e velocità; e per stabilire le temperature

di fusione, di ebollizione e di congelamento e centinaia di altre quantità chimiche.

In virtù del suo impiego nell’eliminazione di errori di misurazione, la curva

normale è nota anche come “curva dell’errore.” La sua esistenza afferma la

conclusione, in apparenza paradossale ma nondimeno vera, che errori accidentali

nella misurazione non accadono a caso ma seguono tale curva. Gli esseri umani

non possono sbagliare neppure volendolo.

Nell’uso di distribuzioni normali è importante sapere quanti casi rientrino in

ogni parte assegnata della quantità misurata. Consideriamo, ad esempio, le diverse

stature di 100 000 americani. Abbiamo già visto come le frequenze delle varie

stature giacciano su una curva normale.

Supponiamo che la media e lo scarto quadratico medio di questa distribuzione

siano rispettivamente cm 170 e 5. Allora (fig. 72), nel caso ideale, il 68,2 per

cento delle stature misurate è compreso entro la deviazione standard 1, ovvero

entro 5 cm dalla media; il 68,2 per cento degli esseri umani ha cioè una statura

compresa fra 165 e 175 cm. Inoltre, il 95,4 per cento delle stature è compreso in 2

deviazioni standard ovvero entro 10 cm dalla media; e il 99,8 per cento delle

stature è compreso entro 3 deviazioni standard ovvero entro 15 cm dalla media.

La percentuale compresa all’interno di ogni numero frazionario dato di deviazioni

standard dalla media è stata anch’essa calcolata e può essere trovata in tavole.

Così una persona che studi una distribuzione normale e calcoli la media e la

deviazione standard può ottenere da queste due quantità tutte le informazioni che

desidera sulla distribuzione.

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Fig. 72. Le percentuali che cadono nelle varie parti di una distribuzione di

frequenza normale.

Attorno al 1833 l’astronomo, meteorologo e statistico belga L.-A.-J. Quételet

decise di studiare la distribuzione di caratteri e capacità umani alla luce della

curva di frequenza normale. Molti di questi dati, per inciso, erano tratti dalle

migliaia di misurazioni di parti del corpo umano compiute dagli artisti del

Rinascimento Alberti, Leonardo, Ghiberti, Dürer, Michelangelo e altri. Quételet

trovò ciò che centinaia di successori hanno da allora confermato. Quasi tutti i

caratteri mentali e fisici di esseri umani seguono la distribuzione della frequenza

normale. La statura, la grandezza di ogni membro, le dimensioni della testa, il

peso del cervello, l’intelligenza (misurata da test sull’intelligenza), la sensibilità

dell’occhio alle varie frequenze della parte visibile dello spettro elettromagnetico

sono tutti distribuiti in modo normale all’interno di un tipo “razziale” o

“nazionale” Lo stesso vale per animali, vegetali e minerali. La grandezza e il peso

dei pompelmi di qualsiasi varietà, la lunghezza delle spighe di grano di qualsiasi

specie e così via presentano una distribuzione normale.

Il fatto che caratteri e capacità umani seguano la stessa curva di distribuzione

degli errori di misurazione aveva per Quételet un’importanza grandissima. Egli

sostenne che tutti gli esseri umani, come il pan carré, sono fatti con una forma ma

differiscono fra loro solo a causa di variazioni accidentali che hanno luogo nel

processo di creazione. Perciò si applica la legge degli errori. La natura mira

all’uomo ideale ma manca il bersaglio, producendo così deviazioni da entrambi i

lati. D’altra parte, se non ci fosse un tipo cui gli uomini tendano a conformarsi,

potremmo misurare i loro caratteri (ad esempio la statura) senza trovare alcun

significato particolare nel diagramma o in una qualsiasi relazione numerica

definita fra i dati.

Quante più misurazioni Quételet eseguiva tanto più osservava che le variazioni

individuali sono cancellate e che i caratteri più importanti dell’umanità tendono a

essere nettamente definiti. La media di ciascuno di tali caratteri identifica l’uomo

ideale o “medio.” L’uomo medio era inoltre il baricentro attorno a cui ruotava la

società. I caratteri principali, egli dichiarò poi, risultano da cause generali; perciò

la società esiste ed è preservata. L’evidenza di un disegno razionale e di un

determinismo appariva inoltre altrettanto chiaramente nei fenomeni sociali che in

quelli fisici.

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Rimandiamo il giudizio sulle inferenze filosofiche di Quételet a un altro

capitolo. Accontentiamoci, per il momento, di osservare che l’applicabilità della

curva normale a problemi sociali e biologici ha condotto a conoscenze in questi

campi e alla determinazione di leggi. Oggi, di fatto, la convinzione che la

distribuzione di ogni capacità fisica o mentale debba seguire la curva normale è

così saldamente consolidata che ogni misurazione di un gran numero di persone

che non la segua appare sospetta. Se, ad esempio, l’esame di un grande gruppo di

studenti non produce una distribuzione di voti normale, non viene messa in

dubbio la conclusione che l’intelligenza deve avere una distribuzione normale ma

si dichiara non valido il test.

Gli studi grafici sulla distribuzione conducono ad alcune questioni stimolanti. I

caratteri mentali e fisici, come abbiamo visto, sono distribuiti secondo una curva

normale. Se però esprimiamo graficamente la distribuzione dei redditi – ossia

ciascuno dei vari redditi in relazione al numero delle persone che li posseggono –,

la curva sarà molto simile alla figura 73. Questa curva dice che la maggior parte

delle persone ha redditi che si trovano all’estremo più basso della scala dei redditi.

Di fatto gli studi indicano che il reddito più comune, il reddito modale, si trova in

coincidenza con la sussistenza pura e semplice. La curva indica anche che molte

persone sono molto al di sotto del livello di sussistenza e solo poche hanno redditi

molto superiori a quel livello.

Fig. 73. La distribuzione di frequenza del reddito.

Il diagramma rivela dunque immediatamente grandi differenze nei livelli di

reddito e richiama l’attenzione sulla disparità fra reddito, da un lato, e capacità

fisiche e mentali dall’altro. Questa disparità richiede quasi una spiegazione.

Perché la distribuzione dei redditi differisce così radicalmente dalle distribuzioni

delle capacità delle persone che posseggono i redditi?

Conclusioni valide, le quali sono non soltanto utili in problemi speciali ma

anche importanti teoricamente, possono esser tratte ovviamente da dati o da

diagrammi tratti da dati. Ma la crema di ogni spiegazione scientifica, dal punto di

vista moderno, è la formula matematica. Una conclusione espressa in una formula

è doppiamente valida. Non soltanto una formula è un risultato conciso e valido in

sé ma consente l’applicazione di tutte le tecniche matematiche dell’algebra, del

calcolo infinitesimale e di altri settori per la derivazione di nuove conclusioni.

Questo punto può essere inteso mediante un riferimento a un’illustrazione

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precedente. Il concetto della gravitazione universale è in sé una generalizzazione

che contiene un elevato livello d’informazione. Poiché però il suo comportamento

può essere stabilito con una formula, possiamo combinarlo con le leggi del moto e

derivarne le orbite dei pianeti attorno al Sole.

Ora, talvolta è possibile comprimere i dati in formule e quando ciò avviene il

processo acquista un significato. Illustreremo per il momento il processo

consistente nel rappresentare dati mediante una formula e a tal fine considereremo

un problema un po’ specializzato e leggermente semplificato.

Supponiamo di accingerci a studiare la variazione dei prezzi di generi

alimentari per un periodo di anni. Il livello dei prezzi dei generi alimentari, come

di quelli di altri beni, è misurato da un “indice”, che è grosso modo un prezzo

medio calcolato con metodi che qui non ci interessano. La tabella seguente elenca

gli indici (rappresentati da y) di prezzi al minuto di generi alimentari negli Stati

Uniti per vari anni. Nella tabella x sta per il numero di anni dopo il 1900; x = 1

corrisponde cioè al 1901 e così via.

x 1 3 5 7 9 11 13 15

y 71,5 75,0 76,4 82,0 89,0 92,0 100,0 101,3

La semplice osservazione non ci fornirà la formula che stabilisce una relazione

fra x e y. Il passo successivo consiste nel rappresentare graficamente queste

coppie di valori della x e della y, rappresentando sulle ascisse i valori della x e

sulle ordinate i valori della y (fig. 74). I punti inseriti nel grafico sembrano giacere

su una linea retta. Di fatto, la linea

Fig. 74. Diagramma dei dati concernenti i prezzi di generi alimentari.

che passa per i punti (3, 75), (9, 89) e (15, 100) passa molto vicina a tutti gli

altri punti. Errori inevitabili nella determinazione degli indici potrebbero render

ragione del fatto che gli altri punti non giacciono esattamente sulla linea.

Abbiamo dunque stabilito che la rappresentazione grafica della nostra funzione è

una linea retta.

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Trovare l’equazione corrispondente a tale linea è un semplice problema di

geometria analitica. Il risultato è la formula

y =7

3𝑥 + 68,

dove y è l’indice corrispondente a ogni anno dato x. Questa formula si adatta

tanto più ai dati noti quanto più i punti nella figura 74 si avvicinano alla linea

retta.

La formula rappresenta un risultato notevole. Senza alcuna conoscenza dei

fattori che incidono sull’ascesa e sul calo dei prezzi dei generi alimentari, è stata

ottenuta una legge che ne descrive l’andamento. La legge copre con certezza il

periodo dal 1900 al 1915 e, come altre leggi della scienza, può essere usata per

formulare predizioni, in questo caso sul livello dei prezzi dei generi alimentari per

qualche tempo dopo il 1915.

A questo punto si potrebbe esser tentati di andar oltre. La formula dà la vera

legge del comportamento del prezzo dei generi alimentari per tutti i tempi?

Certamente no. Di fatto esiste il problema fondamentale se i prezzi dei generi

alimentari seguano un modello immutabile. In ogni caso tali prezzi non salgono in

modo continuo e perciò la formula enunciata sopra può rappresentare nel caso

migliore la vera legge solo approssimativamente e solo per un breve periodo di

tempo. La legge non va oltre quest’ambito di rappresentatività, in parte perché è

fondata su un numero di casi limitato e in parte, forse, perché l’indice dei prezzi

dei generi alimentari può non essere attendibile.

Mentre il problema particolare del livello dei prezzi dei generi alimentari può

non condurre ad alcuna legge fondamentale, l’impostazione descritta sopra può

condurre a tali leggi là dove esse esistono, ossia là dove i dati seguono un modello

fissato. La tecnica consiste nel registrare graficamente i dati e nel trovare una

formula che esprima la forma geometrica della curva. Come ci si può attendere, il

processo può implicare aspetti matematici complicati quando la rappresentazione

grafica non è una linea retta.

Un esempio più significativo di una formula ottenuta da dati e presentata come

una vera legge economica fu fornito dal celebre studioso dell’economia politica

Vilfredo Pareto. Lo studio, compiuto da Pareto, della distribuzione dei redditi in

una data società lo condusse alla formula N = Axm, dove N rappresenta il numero

di persone che hanno un reddito uguale o più alto rispetto a una data quantità x,

mentre A e m sono due costanti che devono essere determinate dai dati per ogni

paese. Pareto trovò anche che m aveva press’a poco lo stesso valore,

approssimativamente -1,5 in ogni paese da lui studiato. L’invariabilità di questo

numero da paese a paese e da epoca a epoca apparve a Pareto e ad altri economisti

profondamente significativa.

Lo stesso Pareto attribuì l’esistenza della medesima legge di distribuzione dei

redditi in molti paesi non alla struttura economica della società bensì alla

distribuzione comune di talune qualità naturali negli uomini. Egli si valse della

costanza di questa legge per confutare Karl Marx, secondo il quale la tendenza

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della società capitalistica è quella di ridurre i redditi di un numero sempre

maggiore di persone. Pareto si servì inoltre di questa legge per sostenere che un

paese non dovrebbe tentare di far progredire le disuguaglianze dei redditi

attraverso la legislazione.

Possiamo porre ora per lo studio della distribuzione dei redditi a opera di Pareto

la stessa domanda che abbiamo posto per il comportamento dei prezzi dei generi

alimentari. Esiste una legge universale della distribuzione dei redditi e, se esiste, è

espressa dalla formula di Pareto? C’è più ragione di attendersi l’esistenza di una

tale legge nel caso dei redditi che in quello dei prezzi di generi alimentari.

Possiamo credere che i fattori principali che incidono sui redditi operino press’a

poco nello stesso modo in tutte le società e in tutti i tempi. La probabilità che sia

così è, a priori, almeno tanto grande quanto la probabilità che i pianeti seguano

traiettorie immutabili da un anno all’altro.

Di fatto ci sono state molte discussioni fra gli economisti sulla correttezza o

meno della legge di Pareto. Tale legge fu enunciata per la prima volta nel 1895 e

da allora è stata sottoposta a verifica sulla base di dati concernenti vari paesi. In

molte aree esaminate, come l’Inghilterra dell’Ottocento e dell’inizio del

Novecento, la formula si adatta molto bene ai dati. Le discordanze riscontrate in

altri casi non confutano necessariamente la legge poiché sussistono sempre dubbi

sull’attendibilità dei dati disponibili.

In realtà non possiamo mai esser certi che una legge ottenuta adattando una

formula a dati disponibili sia corretta. Dopo aver segnato su un diagramma gli

indici e il tempo, scegliamo una linea retta che passi per il maggior numero

possibile di punti e che si avvicini il più possibile agli altri. C’è però più di una

linea retta che passi per alcuni punti e che sia vicina ad altri. Se si sceglie una

linea invece di un’altra, muta anche la formula che viene derivata da essa. La

differenza può essere anche trascurabile a fini pratici ma questa circostanza non

può essere determinata in anticipo.

La formula potrebbe essere anche meno esatta di quanto non indichi la

discussione sopra. I punti segnati sul diagramma degli indici giacciono quasi su

una linea retta; fu allora supposto che il diagramma fosse veramente una linea

retta e le discrepanze furono attribuite a errori nel processo di raccolta dei dati. La

situazione vera potrebbe essere invece espressa dall’affermazione che i punti non

giacciono su una linea retta ma su una curva che passa esattamente attraverso di

essi, senza lasciarne fuori alcuno. In tal caso la formula trovata non sarebbe

certamente quella giusta anche se forse, a fini pratici, può essere ad essa

sufficientemente approssimata.

In che modo possiamo eliminare gli errori che si insinuano nel processo di

adattamento di una formula a dati? Noi tutti possiamo far sì che l’esperienza di

ieri e di oggi ci serva di guida per il futuro. Prediciamo per mezzo della formula

ottenuta e verifichiamo di nuovo le predizioni sulla base di ciò che di fatto accade.

Se la predizione risulta erronea possiamo servirci dei nuovi dati, insieme con i

vecchi, per trovare una formula che si adatti all’insieme ampliato dei dati.

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Nonostante le incertezze associate alla derivazione di formule da dati e alle

predizioni fondate su tali formule, non c’è alcun dubbio se non sul fatto che le

formule compendino e rappresentino i dati noti nella forma più desiderabile.

Inoltre, alcune di queste formule sono risultate applicabili così costantemente da

sembrare esprimere il comportamento invariabile della natura così come fanno le

leggi newtoniane del moto e della gravitazione. Le importanti implicazioni di

questo fatto saranno discusse in un altro capitolo.

In alcuni studi statistici il concetto stesso di formula non risulta applicabile e

nondimeno possiamo desiderare di acquistare una conoscenza dai dati a

disposizione. Consideriamo un problema studiato da Sir Francis Galton, cugino di

Darwin e fondatore della scienza dell’eugenetica o eugenica. Egli esaminò il

problema se la statura anormale sia ereditaria e il suo metodo fu sostanzialmente

il seguente: egli considerò un migliaio di padri e ne registrò la statura e poi la

statura dei loro figli. Nel caso che esistesse una formula applicabile, questa

avrebbe dovuto stabilire una relazione fra le due variabili, la statura dei padri e la

statura dei figli. Inoltre, per ciascun valore di una variabile, la formula dovrebbe

fornire solo un valore della seconda. Ad esempio, la formula y = 3x fornisce un

valore di y per ogni valore di x. Ora, a ogni statura di un padre corrispondevano

varie stature per i figli. Una formula era perciò fuori discussione. Galton

introdusse allora la nozione di correlazione. La correlazione fra due variabili è

una misura della relazione esistente fra di esse. Questa misura o numero è ottenuta

sostituendo i valori individuali delle variabili in un’espressione appositamente

costruita, nota come il coefficiente di correlazione, il quale può assumere valori

compresi fra -1 e +1.

Una correlazione di 1 indica una relazione diretta; quando una variabile

aumenta o diminuisce, l’altra fa lo stesso; quando una è più grande lo è anche

l’altra. Una correlazione di -1 significa che una variabile si comporta in modo

direttamente opposto all’altra; quando i valori della prima sono alti, quelli della

seconda sono bassi e viceversa. Una correlazione 0 significa che il

comportamento di una variabile non ha nulla a che fare col comportamento

dell’altra; esse procedono in modo indipendente l’una dall’altra. Una correlazione

di 3/4, ad esempio, significa che il comportamento di una variabile è simile a

quello dell’altra, pur non essendo esattamente uguale.

Galton trovò che esiste una correlazione positiva ben definita fra la statura dei

padri e quella dei figli. I padri alti hanno in generale figli alti. Galton trovò anche

che la deviazione dei figli dalla media del gruppo di appartenenza è minore di

quella dei padri: ossia i figli di padri alti non sono altrettanto alti. La loro statura

regredisce verso la media della razza. Galton ottenne risultati analoghi nel suo

studio dell’eredità dell’intelligenza. In media c’è una trasmissione ereditaria del

talento e delle attitudini ma i figli di padri grandi sono più mediocri dei padri.

(Questo studio dovrebbe essere letto da genitori che soffrono per la mediocrità

intellettuale dei loro figli.)

Come Quételet, Galton fu molto impressionato da quanto il suo studio gli

andava rivelando. Dopo aver trovato che i risultati da lui ottenuti in relazione alla

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statura e all’intelligenza si applicavano a molti altri caratteri umani, saltò alla

conclusione che la fisiologia umana è stabile e che tutti gli organismi viventi

tendono verso tipi.

L’aspetto più importante dell’opera di Galton va visto nella nozione di

correlazione, la quale si è rivelata enormemente utile. Lo studio del livello della

produzione industriale di un paese richiede la raccolta di dati complessi. Se però

esiste una correlazione elevata fra la produzione industriale e il numero di azioni

immesse alla borsa valori, si potrebbe usare questo dato, facilmente accessibile.

Se esiste una correlazione elevata fra l’intelligenza generale e l’abilità

matematica, ci si può attendere che persone dotate di una buona intelligenza

riescano bene in matematica. La conoscenza della correlazione esistente fra

successo nella scuola media e successo all’università o fra successo all’università

e successo finanziario più avanti nella vita può essere preziosa nella predizione

del futuro di gruppi di individui.

Nell’uso di metodi statistici ci si imbatte in difficoltà per risolvere le quali

possono esser d’aiuto, non la matematica, bensì diligenza e giudizio. Una

difficoltà del genere sorge dal significato dei termini usati in uno studio.

Supponiamo di voler studiare la disoccupazione negli Stati Uniti. Chi sono i

disoccupati? Il termine dovrebbe includere tutte quelle persone che non hanno un

lavoro ma vorrebbero averlo? Oppure quelle che lavorano due giorni la settimana

e vorrebbero un impiego a tempo pieno? Oppure l’ingegnere che non trova un

lavoro più adeguato alla sua preparazione della guida di un tassì? O le persone

incapaci di svolgere un lavoro?

Anche l’interpretazione di conclusioni statistiche è irta di difficoltà. Le

statistiche rivelano che ogni anno muore di cancro un numero sempre più elevato

di persone. Ciò significa che la vita moderna produce con maggiore probabilità il

cancro? No. Molte persone morivano di cancro cinquant’anni fa ma la causa del

decesso non veniva riconosciuta perché le tecniche mediche non erano tanto

avanzate. Oggi, inoltre, la gente vive più a lungo di cinquant’anni fa e poiché il

cancro è primariamente una malattia che colpisce le persone anziane, si presenta

più spesso. Molte fra le persone che anni fa morivano di tubercolosi avrebbero

potuto essere soggette al cancro se fossero vissute di più. Oggi, infine,

disponiamo di dati più attendibili. In altri termini, benché il cancro uccida oggi

più persone di quanto non facesse in passato, non possiamo concludere che la vita

moderna possiede una maggiore tendenza a generarlo e che le persone che vivono

oggi siano più soggette ad esso.

Purtroppo tali difficoltà nell’uso della statistica sono state spesso dissimulate o

eluse con interpretazioni di comodo da pubblicitari e propagandisti al fine di

fondate le loro asserzioni. Un tale cattivo uso della statistica ha indotto una

diffidenza ingiustificata e ha provocato definizioni sprezzanti. Gli statistici sono

stati descritti come uomini che tracciano linee precise partendo da ipotesi

indefinite per arrivare a conclusioni già scontate. C’è inoltre il modo di dire,

familiare in America: sono tutte bugie, dannate bugie, e statistiche.

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Gli abusi compiuti nell’uso della statistica non dovrebbero farci chiudere gli

occhi dinanzi alla sua efficacia in studi sulle variazioni demografiche, sulle

operazioni alla Borsa valori, sulla disoccupazione, sulle tabelle salariali, sul costo

della vita, sui tassi di natalità e di mortalità, sulla diffusione dell’alcoolismo e del

crimine, sulla distribuzione dei caratteri fisici e dell’intelligenza e sull’incidenza

delle malattie. Le statistiche sono alla base dell’assicurazione sulla vita, dei

sistemi previdenziali, dell’organizzazione sanitaria, della politica e delle lotterie.

Anche l’uomo d’affari ostinato si serve di metodi statistici per individuare i suoi

mercati migliori, per controllare i processi di produzione, per valutare l’efficacia

della sua pubblicità e per stimare l’interesse di un nuovo prodotto. L’approccio

statistico elimina le congetture casuali e le insidie di giudizi individuali

sostituendoli con conclusioni estremamente utili.

Di fatto è poco dire che i metodi statistici hanno avuto successo in numerosi

problemi. Essi sono stati decisivi nel trasformare in scienze campi speculativi e

arretrati e sono diventati un modo per affrontare problemi e per pensare

concretamente in tutti i campi. L’idea della misurazione pervade ora tutte le

attività della civiltà occidentale. Molto tempo fa il celebre dottor William Osler

affermò che la medicina sarebbe diventata una scienza quando i medici avessero

imparato a contare. E l’importanza degli studi statistici indusse Anatole France a

dire che chi non sa contare non conta. Le conclusioni matematiche dai dati che

interessano agli uomini politici plasmano di fatto la vita delle nazioni.

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XXIII. Predizione e probabilità

È notevole che una scienza che ha cominciato con lo

studio dei giochi d’azzardo debba essere elevata al rango

degli oggetti più importanti della conoscenza umana.

PIERRE-SIMON DE LAPLACE

Per un periodo di quarant’anni Girolamo Cardano, il professore di matematica

e di medicina del Rinascimento, così ricco di genio e così povero di principi,

giocò d’azzardo tutti i giorni. Fin dal principio della sua carriera egli stabilì che se

non avesse giocato per denaro non avrebbe avuto alcun compenso per il tempo

perduto, che avrebbe potuto impiegare altrimenti per imparare. Non volendo

perdere il suo tempo in imprese non proficue, egli studiò seriamente le probabilità

di gettare sette e di scegliere assi da un mazzo di carte. Per essere utile agli altri

giocatori, incluse i risultati dei suoi studi in un manuale intitolato Liber de ludo

aleae (Libro sul gioco d’azzardo). Quest’opera rappresenta i risultati non solo

delle sue meditazioni sull’argomento bensì anche della sua esperienza pratica.

Egli sottolinea, ad esempio, che la probabilità di ottenere una carta particolare

quando si taglia un mazzo aumenta considerevolmente se si strega la carta con

sapone. Così fu fondata quella branca della matematica che è oggi fondamentale

nella teoria dei gas, nell’attività delle società d’assicurazione e nella fisica

atomica.

Un centinaio di anni dopo un altro giocatore, il cavaliere di Méré, si imbatte in

un problema di probabilità e, non possedendo le capacità matematiche che

redimono l’opera di Cardano, lo inviò a quel prodigio della matematica che era

Blaise Pascal. L’alacrità con cui Pascal affrontò il problema è spiegata

probabilmente dalla speranza che una teoria della probabilità potesse risolvere i

problemi complessi e fondamentali che per tutta la vita tormentarono la sua

mente, affaticarono il suo corpo e torturarono la sua anima.

Nessuno fu mai travagliato da tante contraddizioni quanto Pascal. Convinzioni

e desideri conflittuali producevano in lui curiose stravaganze di comportamento e

lo facevano oscillare fra il sacro e il profano. I suoi sforzi letterari furono divisi

fra un’argomentazione seria su controversie teologiche, come il suo capolavoro

letterario, le Lettres provinciales (Lettere provinciali), e consigli sull’amore,

come il suo Discours sur les passions de l’amour. Profondamente turbato dalle

differenze esistenti fra le dottrine della Bibbia e il dogma della Chiesa cattolica, li

ignorò nondimeno entrambi quando cercò di sottrarre alla sorella la sua parte di

eredità. Assegnò a se stesso un premio che aveva offerto per una competizione fra

gli scienziati del tempo e poi si lagnò della loro mancanza di sincerità nella

ricerca della conoscenza. Suggerì alle persone di limitare il loro amore, anche

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l’amore per i figli, a un atto mentale e non emotivo; eppure non esitò a verificare

egli stesso sperimentalmente le sue conclusioni sulle passioni amorose. Pur

essendosi preoccupato del problema della via della salvezza, peccò abbastanza da

trovarsi in bisogno urgente di trovarla. La fervida gioia che si accompagnò alle

sue esperienze religiose fu quella di un santo, ma il suo comportamento verso gli

altri fu guastato dagli eccessi di un peccatore. Pur essendo ben noto come cultore

di primo piano della più razionale delle attività umane – la matematica –, sostenne

nondimeno che la verità viene dal cuore. Credeva nei miracoli per i quali si

poteva dimostrare che la loro probabilità era troppo piccola per giustificare la fede

in essi; e fu il difensore della fede che aiutò a fondare l’Età della Ragione.

Anche la vita scientifica di Pascal fu piena di conflitti. Il padre, che temeva per

la sua salute, gli impedì di studiare la matematica, ma a dodici anni egli chiese di

sapere di che cosa si trattava. La risposta del padre suscitò in lui un tale interesse

che cominciò a studiare febbrilmente l’argomento. Due anni dopo fu ammesso

alle riunioni scientifiche settimanali dei grandi matematici francesi dell’epoca. A

sedici anni dimostrò il famoso teorema che abbiamo esaminato a proposito della

geometria proiettiva. Aveva vissuto trentun anni della sua breve esistenza (morì a

trentanove) quando de Méré gli sottopose il problema della probabilità. Pascal si

mise in contatto con Fermat e, nello scambio di lettere che ne seguì, i due uomini

espressero risultati fondamentali in questo campo.

La potenziale utilità di una teoria della probabilità dovrebbe essere evidente.

Nulla è certo del nostro futuro, neppure ciò che accadrà fra un’ora. Il suolo su cui

poggiamo può andare in pezzi fra un minuto. Tali possibili calamità però non ci

turbano poiché sappiamo che le probabilità che esse si verifichino sono piccole. In

altri termini, è la probabilità che un evento si verifichi o no a determinare il nostro

atteggiamento e le nostre azioni in relazione all’evento.

Nel nostro uso quotidiano della nozione di probabilità ci basta sapere

semplicemente se essa è alta o bassa. I giudizi numerici di probabilità che si

danno solitamente sono inoltre di norma solo stime grossolane. Ma stime che

possono essere sbagliate di molto non sono sufficienti come base per le decisioni

in rischi importanti in campo tecnico, medico o commerciale. In tali situazioni è

necessario conoscere le probabilità numeriche esatte di eventi particolari. Questo

è il compito della matematica. Anche quando siamo incerti, la matematica ci dice

esattamente quant’è la misura della nostra incertezza. Tali probabilità numeriche

sono guide attendibili per l’azione.

Vediamo in che modo siano ottenute tali stime di probabilità. Ad esempio, qual

è la probabilità di ottenere un quattro gettando una volta sola un dado? Un modo

di risolvere questo problema può essere quello di gettare il dado 100000 volte e

contare quante volte il quattro appare. Il rapporto delle uscite di questo numero a

100 000 è la risposta o è molto vicino ad essa. Ma i matematici non adotteranno

un procedimento del genere a meno che vi siano costretti. Essi sono

essenzialmente pigri e preferiscono rimaner seduti a meditare sul problema

piuttosto che affaticare il loro braccio a gettare il dado, a meno che, come nel caso

di Cardano, la posta sia più che un esercizio intellettuale.

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Di fatto, Pascal e Fermat ragionarono così: un dado ha sei facce; poiché nulla,

nella forma del dado o nel modo di gettarlo, favorisce una faccia rispetto alle

altre, ognuna di esse ha uguali probabilità di rimanere di sopra; di queste sei

probabilità uguali soltanto una, cioè l’uscita del quattro, ci è favorevole, poiché

questa è la faccia che desideriamo che esca. La probabilità di un quattro è quindi

di 1/6. Se fossimo interessati all’uscita di un quattro o di un cinque, dovremmo

dire che la probabilità è di 2/6, poiché in questo caso ci sarebbero favorevoli. Se

invece fossimo interessati all’uscita di un qualunque numero che non fosse né il

quattro né il cinque, ci sarebbero quattro possibilità a noi favorevoli e la

probabilità sarebbe di 4/6.

In generale, la definizione di una misura quantitativa della probabilità è la

seguente: Se di n possibilità ugualmente probabili m sono favorevoli all’accadere

di un certo evento, la probabilità che l’evento abbia luogo è m/n e la probabilità

che esso non abbia luogo (n – m)/n. Assumendo questa definizione generale della

probabilità, se nessuna possibilità fosse favorevole, ossia se 1’evento fosse

impossibile, la probabilità del suo accadimento sarebbe di 0/n o, se tutte le n

possibilità fossero favorevoli, ossia se l’evento fosse certo, la probabilità sarebbe

n/n o 1. Perciò la misura numerica della probabilità può variare fra 0 e 1, fra

l’impossibilità e la certezza.

Come altra illustrazione di questa definizione consideriamo la probabilità di

scegliere un asso, senza ricorrere al sapone, da un mazzo di 52 carte. Qui ci sono

52 scelte ugualmente probabili, 4 delle quali sarebbero favorevoli. La probabilità

sarebbe perciò di 4/52 o di 1/13.

Si assiste spesso a discussioni sul significato dell’asserzione che la probabilità

di scegliere un asso da un mazzo di 52 carte è di 1/13. Ciò significa forse che se

una persona sceglie una carta dal mazzo per tredici volte (rimettendo ogni volta

nel mazzo la carta presa), una fra le carte scelte sarà un asso? No certo. Si

possono scegliere 30 o 40 carte senza pescare un solo asso. Quanto più alto è però

il numero delle scelte tanto più il rapporto fra il numero degli assi usciti e il

numero totale delle scelte si avvicinerà a 1/13. È. questa un’attesa ragionevole

poiché quanto maggiore è il numero delle scelte tanto più probabile e che ogni

carta esca circa lo stesso numero di volte di ogni altra carta.

Un errore comune è quello di supporre che se una persona pesca un asso,

diciamo alla primissima scelta, la probabilità di pescare un asso alla scelta

successiva sarà inferiore a 1/13. Di fatto la probabilità rimane ancora la stessa e

continuerebbe a essere di 1/13 anche se nelle tre ultime estrazioni fossero venuti

tre assi consecutivi. Una carta o una moneta non ha né memoria né coscienza e

ciò che è già accaduto non ha alcuna influenza sul futuro. Il punto essenziale circa

la probabilità di 1/13 è che essa ci dice che cosa accadrà in un numero grande di

scelte.

La definizione della probabilità che abbiamo esaminato è considerevolmente

semplice e applicabile con facilità. Supponiamo di dover dimostrare che la

probabilità che una persona attraversi sana e salva la strada sia di 1/2 perché

esistono due possibilità, di attraversare sani e salvi la strada e di non attraversarla

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sani e salvi, e che di queste due soltanto una è favorevole. Se questo

ragionamento fosse valido, il lettore sarebbe saggio a non darsi la pena di finire di

leggere questa pagina ma farebbe bene a mettere in ordine le sue cose. L’errore in

questo ragionamento consiste nel fatto che le due possibilità – attraversare la

strada incolumi e non attraversarla incolumi – non sono ugualmente probabili. È

questo il piccolo errore che può avere gravi conseguenze. La definizione di

Fermat e di Pascal può essere applicata soltanto se la situazione può essere risolta

in possibilità ugualmente probabili.

Essendo così importante per l’applicazione della definizione di probabilità che

le possibilità siano ugualmente probabili, dovremmo forse riconsiderare se le

probabilità che escano le varie facce di un dado siano uguali. Questo è

esattamente ciò che fanno alcuni giocatori di dadi, ossia controllare quante volte

escano le varie facce.

Ma se noi dovessimo gettare i dadi per verificare le conclusioni sui dadi cui

siamo giunti per mezzo della matematica probabilistica, potremmo fare a meno

della teoria. Di fatto, nel caso di un dado gettato in aria possiamo essere

abbastanza sicuri, anche senza esercitare alcuna verifica, che le possibilità sono

ugualmente probabili. Da un punto di vista logico si tratta ovviamente di

un’assunzione, ma di un’assunzione che è sostenuta dalla nostra conoscenza dei

cubi – anche se non direttamente dei dadi – non meno di quanto gli assiomi della

geometria siano sostenuti dall’esperienza. E là dove siamo certi che le possibilità

siano ugualmente probabili, applichiamo l’approccio di Pascal e di Fermat

descritto sopra.

Applichiamolo al problema della moneta lanciata in aria. Supponiamo che

vengano lanciate in aria due monete. Quali sono le probabilità di avere (a) due

volte testa, (b) una volta testa e una volta croce, e (c) due volte croce? Per

calcolare queste probabilità dobbiamo osservare innanzitutto che ci sono quattro

modi diversi, ugualmente probabili, in cui le due monete possono cadere. Questi

quattro modi sono: due volte testa, due volte croce, e altre due possibilità che

sono spesso erroneamente ridotte a una, e cioè testa nella prima moneta e croce

nella seconda, e croce nella prima moneta e testa nella seconda. Se però

consideriamo due monete diverse, come una moneta da 10 lire e una da 50, sarà

chiaro che il caso della testa nella moneta da 10 e croce in quella da 50 sarà

diverso dal caso di croce nella moneta da dieci e testa in quella da cinquanta.

Delle quattro possibilità solo una è dunque favorevole all’uscita di due teste. La

probabilità che vengano fuori due teste è dunque di 1/4. È similmente di l/4 la

probabilità che esca croce su entrambe le monete. La probabilità che escano una

testa e una croce è invece di 2/4 poiché due dei quattro modi in cui le monete

possono cadere possono produrre questo risultato.

Se una persona estende il problema del lancio della moneta al caso di tre

monete, deve analizzare dapprima le possibilità ugualmente probabili. Anche qui

la situazione risulterà più semplice se si ragionerà considerando tre monete

diverse, per esempio una moneta da 10, una da 50 e una da 100. Esiste,

ovviamente, una sola possibilità che in tutt’e tre le monete esca testa. Esistono

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però tre possibilità di due testa e una croce, poiché si può avere croce su ciascuna

delle tre monete, mentre le altre due saranno testa. Ci sono inoltre tre possibilità

inverse, di avere cioè tre volte croce e una volta testa, e una possibilità che esca

croce su tutt’e tre le monete. Il numero totale delle possibilità è otto. Le

probabilità delle varie uscite sono pertanto le seguenti: tre testa, 1/8; due testa e

una croce, 3/8; due croce e una testa, 3/8; tre croce, 1/8.

Potremmo considerare ora, per il momento come un semplice passatempo

intellettuale, le probabilità connesse al lancio di quattro monete, di cinque ecc. Le

possibilità divengono purtroppo molto più numerose man mano che aumenta il

numero delle monete. A questo punto Pascal venne in aiuto ai matematici con un

interessantissimo “triangolo aritmetico”, noto come triangolo di Pascal benché

fosse già stato usato da altri (tra cui Tartaglia, donde anche la denominazione di

“triangolo di Tartaglia”). Consideriamo la seguente disposizione triangolare di

numeri:

1

1 1

1 2 1

1 3 3 1

1 4 6 4 1

1 5 10 10 5 1

1 6 15 20 15 6 1

. . . . . . . .

Ciascun numero, in questo “triangolo”, è la somma dei due numeri

immediatamente sopra di esso (dove uno dei due numeri manca si deve inserire lo

zero). Così il 4, nella quinta riga, è la somma di 1 e di 3; il 6 è la somma di 3 e 3,

e così via. Potremmo pertanto costruire una riga dopo l’altra ricorrendo alla sola

aritmetica.

Il carattere realmente interessante del triangolo di Pascal è che esso ci dà

immediatamente le probabilità in gioco nel lancio di monete. Ad esempio, i

numeri che compaiono nella quarta riga, ossia, 1, 3, 3, 1, danno come totale 8 ed

è questo appunto il numero di modi in cui possono cadere tre monete. Inoltre, se

poniamo ciascuno dei numeri che compaiono in questa riga, come numeratori,

sull’8 usato come denominatore, ottenendo così 1/8, 3/8, 3/8 e 1/8, abbiamo le

probabilità legate alle diverse possibilità, ossia tre teste, due teste e una croce, due

croci e una testa e così via. Se volessimo conoscere le varie probabilità in gioco

nel lancio di cinque monete, dovremmo usare la sesta riga. La somma dei numeri

che compaiono in tale riga è 32; tale è il numero totale dei modi in cui le cinque

monete possono cadere. Se ora formiamo le frazioni 1/32, 5/32, 10/32 ...,

otteniamo le probabilità di cinque teste, quattro teste e una croce, tre teste e due

croci e così via. Il numero 1 al vertice del triangolo dovrebbe evidentemente

essere associato in qualche modo al lancio di zero monete. Esso fornisce di fatto

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la possibilità di conservare il nostro denaro se scommettiamo sulla caduta di zero

monete.

Storicamente, la teoria della probabilità fu iniziata per dare un aiuto ai giocatori

d’azzardo. Il diffusissimo interesse oggi esistente per la teoria della probabilità

non è però la testimonianza di una grandissima attività nel gioco d’azzardo. L’uso

intensivo di metodi statistici in problemi dell’industria, dell’economia, delle

assicurazioni, della medicina, della sociologia e della psicologia ha posto invece

problemi che non erano mai sorti in precedenti applicazioni della matematica e

che possono essere risolti solo da una teoria della probabilità. Al fine di poter

valutare la portata attuale della disciplina consideriamo alcuni usi di tale teoria.

Una fra le applicazioni più originali e sensazionali fu opera di Gregor Mendel,

abate di un monastero moravo, che nel 1865 fondò la scienza della genetica con i

suoi esperimenti meravigliosamente precisi sui piselli ibridi. Supponiamo che ci

siano due tipi di piselli di razza pura, verdi e gialli. Se i piselli vengono incrociati,

la seconda generazione sarà formata da piselli tutti verdi o tutti gialli. Mendel

spiega questo fatto dicendo che uno di questi colori è dominante sull’altro.

Supponiamo che il verde sia il colore dominante. Questi piselli verdi della

seconda generazione non sono in tutto uguali a quelli della prima; la prima

generazione è pura mentre la seconda è ibrida. Se incrociamo ulteriormente i

piselli della seconda generazione, possiamo attenderci mescolanze di geni, i

presunti portatori dei caratteri ereditari, nel modo seguente. Nel miscuglio di geni

di due piselli verdi ibridi si possono avere la mescolanza di verde con verde, di

giallo con giallo, di giallo con verde e di verde con giallo. Queste sono

precisamente possibili combinazioni di testa e croce nel lancio di due monete.

Perciò 1/4 della terza generazione dovrebbe essere un miscuglio verde-verde; 1/4

dovrebbe essere giallo-giallo; e 1/2 dovrebbe essere un miscuglio verde-giallo e

giallo-verde. Poiché però il verde è il colore dominante, tutti quei piselli della

terza generazione che contengono almeno alcuni geni verdi dovrebbero essere

verdi, mentre gli altri appariranno gialli. Perciò 3/4 dei piselli appariranno verdi e

1/4 gialli. Questa proporzione, predetta dalla teoria della probabilità, fu ottenuta

realmente da Mendel e, più tardi, da numerosi altri sperimentatori. La

determinazione di questa proporzione è la prima legge dell’eredità dei caratteri di

Mendel.

Mendel passò poi a considerare le proporzioni che dovrebbero risultare in

generazioni successive dall’incrocio di vari tipi della terza generazione, e inoltre

le proporzioni che dovrebbero apparire quando vengono incrociati insieme vari

caratteri indipendenti. In ciascun caso la teoria matematica della probabilità

predice ciò che ha luogo realmente.

Questa conoscenza è usata oggi con risultati pratici eccellenti da specialisti in

orticoltura e nell’allevamento di animali, i quali creano nuovi frutti e fiori,

allevano bovini più produttivi, migliorano ceppi di piante e di animali, coltivano

frumento indenne dalla malattia della ruggine, perfezionano i fagiolini senza filo e

producono tacchini ricchi di carne bianca e abbastanza piccoli da poter essere

contenuti nel frigorifero di casa.

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Particolarmente prezioso è l’uso della teoria della probabilità nello studio

dell’eredità umana. Gli scienziati non possono controllare gli accoppiamenti di

uomini e donne; ma anche nel caso che lo potessero, non potrebbero ottenere

risultati sperimentali con la rapidità e la facilità desiderate. Essi devono pertanto

dedurre i fatti dell’eredità da considerazioni come quelle illustrate sopra. Poiché

inoltre gli individui possono essere prevenuti nel loro giudizio di caratteri umani,

l’oggettività dell’approccio matematico è molto più importante in questo settore

che non nello studio di piante e di animali.

La teoria della probabilità decide inoltre praticamente ogni mossa compiuta dal

più grande settore economico degli Stati Uniti: quello delle assicurazioni.

Consideriamo il problema che una società di assicurazioni affronta esaminando il

caso di John Jones. Contro il pagamento da parte di lui di un premio annuo, la

società accetta di pagare 1000 dollari al termine di vent’anni oppure alla sua

morte se egli dovesse morire prima di quell’epoca. Quale dovrebbe essere il

premio annuale chiesto dalla società al signor Jones? Ciò dipende ovviamente da

quanto ci si può aspettare che il signor Jones continui a vivere.

Per determinare questa probabilità, la società potrebbe elencare le varie cause

di morte possibili: cancro, malattie cardiocircolatorie, diabete, incidenti

automobilistici, cadute e altro. Essa potrebbe poi tentare di stabilire quando queste

cause incideranno sulla vita di John Jones. Per rispondere a questa domanda la

società dovrebbe studiare l’ambiente familiare, la storia personale e le attività

quotidiane del signor Jones; essa dovrebbe studiare inoltre lo stato di tutti gli

organi del suo corpo. Con queste informazioni potrebbe cominciare a calcolare la

risposta. Dopo vari giorni di calcoli emergerebbe sicuramente soltanto un fatto,

ossia che i calcoli dovrebbero essere gettati nel cestino della carta straccia.

Nessuna analisi del signor Jones come individuo consentirà mai alla società di

prevedere quando le varie cause di morte agiranno su di lui.

La soluzione del problema è ottenuta in modo del tutto diverso. John Jones è

una delle centinaia di migliaia di persone di cui la società si occupa. Alla società

sarebbe sufficiente conoscere che cosa è probabile che accada all’uomo medio,

con un piccolo margine numerico di errore, per essere con le spalle coperte,

poiché essa potrebbe recuperare su Smith quel che perderà con Jones.

Quello che le società di assicurazione fecero fu di studiare gli atti di morte su

un gruppo casuale di 100 000 persone che erano vive a dieci anni di età. Ora,

questi documenti dicono, ad esempio, che di queste 100 000 persone 78 106 erano

ancora vive all’età di quarant’anni. Le società decisero quindi di considerare 78

106/ 100 000 come la probabilità che una persona di dieci anni viva fino a

quaranta. Analogamente, per ottenere la probabilità che una persona di

quarant’anni viva fino a sessanta, le società presero il numero delle persone

ancora vive a sessant’anni e lo divisero per il numero di quelle vive a quaranta.

L’approccio alla probabilità esemplificato dal procedimento delle società di

assicurazione è fondamentale. Essenzialmente, esso fa ricorso all’esperienza per i

dati primari a cui il ragionamento matematico viene poi applicato. Quest’uso

dell’esperienza per ottenere probabilità è, a rigore, fuori del campo della

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matematica. La matematica comincia solo una volta che le probabilità sono note e

si occupa di ragionare sui numeri così ottenuti. Ad esempio, se una società di

assicurazione vuole emettere una polizza con scadenza trentennale a una coppia di

sposi, è importante conoscere quale è la probabilità che entrambi vivano

trent’anni dall’inizio della polizza. Supponiamo che entrambi abbiano

quarant’anni. Ora la probabilità che una persona di quarant’anni viva fino a

settanta è circa 0,50, poiché su 78 106 persone in vita a quarant’anni di età 38 569

erano vive a settanta. È questa la probabilità che si ha di avere testa lanciando una

volta una sola moneta. La probabilità che entrambi i coniugi siano vivi a

settant’anni è uguale alla probabilità che si ha di avere due teste lanciando

insieme due monete; la probabilità che entrambi i coniugi arrivino a settant’anni è

di 0,25. Il problema che abbiamo visto è molto semplice, comune. Come ci si

potrebbe attendere, la matematica è usata per risolvere problemi di probabilità

molto più complicati di quelli che si pongono nel campo delle assicurazioni.

L’uso dell’esperienza per ottenere le probabilità fondamentali è inevitabile in

problemi medici. Supponiamo, ad esempio, che si sappia dalla registrazione di un

gran numero di casi che il 50 per cento delle persone afflitte da una malattia

muoiano in conseguenza di essa. La probabilità di morte in seguito a tale malattia

è allora posta pari a 1/2. Questa probabilità può essere ora applicata a un

problema pratico. Un medico che ritiene di aver trovato una nuova cura la

sperimenta su quattro pazienti, i quali guariscono tutti. Ciò significa che la nuova

cura è efficace e che dovrebbe essere applicata a tutti i casi?

A prima vista appare che la nuova cura è degna di nota. Là dove avremmo

dovuto attenderci due decessi non se ne è avuto neppure uno. Può darsi che, per

risolvere la questione, si decida di ricorrere alla teoria della probabilità. In un

gruppo particolare di quattro persone non è vero che due debbano morire. In un

gruppo così ristretto si possono avere quattro decessi o nessuno o un numero

qualsiasi compreso fra zero e quattro. Soltanto quando si consideri un numero

assai elevato di persone si avrà un 50 per cento di decessi. La situazione è

matematicamente equivalente a quella che si ha quando si lanciano monete. La

probabilità che ciascuna persona guarisca dalla malattia è la stessa che si ha di

aver testa quando si lancia una moneta. La probabilità che quattro persone

guariscano è uguale a quella di avere sempre testa nel lancio di quattro monete. Se

consultiamo la quinta riga del triangolo di Pascal, troviamo che la probabilità di

avere sempre testa lanciando quattro monete è 1/16. Questo numero esprime

dunque la probabilità che il medico si imbatta in un gruppo di quattro persone che

guarirebbero dalla malattia anche senza la sua cura. Questa probabilità significa

che, se noi considerassimo numerosissimi gruppi di quattro persone affette dalla

malattia, ogni sedici gruppi ci sarebbe un gruppo di persone che guarirebbero.

Ora, il medico che ha somministrato la sua cura a un gruppo di quattro persone

può essersi imbattuto proprio in quel gruppo di persone che sarebbero guarite

anche senza il suo trattamento. Poiché questo fatto non è in realtà molto

improbabile – molte volte un cavallo dato 100 a 1 vince una corsa – non è certa la

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conclusione che la nuova cura sia efficace. Prima di formulare una conclusione

bisognerebbe sperimentarla su un numero molto maggiore di casi.

I problemi che abbiamo considerato finora hanno implicato situazioni in cui

potevano presentarsi solo poche possibilità. Quando una persona getta un dado, ad

esempio, le possibilità quanto al risultato sono esattamente sei. Nel caso della

mortalità le possibilità sono soltanto due. In molti problemi di probabilità i

risultati possibili sono invece o infiniti o così grandi da risultare matematicamente

conveniente trattarli come infiniti. Supponiamo, ad esempio, che si eseguano

misurazioni di una lunghezza. Queste misurazioni sono solo alcune del numero

infinito di misurazioni diverse che potrebbero essere eseguite. Perciò il calcolo

della probabilità che la media delle misurazioni sia esatta deve tener conto del

numero infinito di possibilità. Similmente, la produzione di una macchina che

produce centinaia di migliaia di unità di un articolo non è uniforme; le variazioni

da unità a unità, per quanto piccole, sono così numerose che l’intera serie viene

trattata come se fosse parte di una serie infinita.

La teoria a cui si chiede di trattare problemi in cui il numero di possibili

risultati sia infinito – la teoria della probabilità continua – fu creata dal contadino,

aristocratico, politico e superbo matematico Pierre-Simon Laplace (1749-1827).

Cardano, Pascal e Fermat furono attratti allo studio della probabilità da problemi

concernenti giochi d’azzardo. Gli interessi di Laplace, altrettanto astratti, erano

nel cielo. Egli si servì della teoria della probabilità per ottenere una misura

dell’attendibilità dei risultati numerici derivati da dati d’osservazione e per

definire la probabilità che certi fenomeni astronomici fossero dovuti a cause ben

precise e non al puro caso. Forse non è più una sorpresa per noi il fatto che una

teoria matematica destinata a servire all’astronomo si dimostri utile in molte

professioni. Esamineremo nondimeno alcuni di questi usi al fine di vedere, ancora

una volta, quanto sia vasto il campo d’applicazione della matematica.

Dove le possibilità in un particolare fenomeno sono infinite, la distribuzione di

frequenza di queste varie possibilità è per lo più fortunatamente normale. È perciò

possibile applicare la conoscenza acquistata su tali distribuzioni ai problemi della

probabilità continua. È necessario solo compiere una lieve trasformazione nei fatti

che hanno riferimento alla curva normale al fine di poterla usare ai nostri fini.

Possiamo ricordare che una distribuzione normale è caratterizzata o fissata dalla

media e dalla deviazione standard. Inoltre, il 68,2 per cento dei casi si

distribuiscono entro una deviazione standard ovvero un dalla media; il 27,2 per

cento dei casi sono compresi nell’intervallo fra e 2 a partire dalla media; il 4,4

per cento dei casi cadono nell’intervallo compreso fra 2 e 3 a partire dalla

media; e i casi restanti, ossia lo 0,2 per cento, si trovano a più di 3 dalla media.

Queste asserzioni devono essere semplicemente trasformate in probabilità. Ad

esempio, la probabilità che un dato cada all’interno di 1 dalla media dev’essere

0,682, dato che il 68,2 per cento dei casi cadono in quest’intervallo. Un altro

modo di esprimere questo fatto è che in media 682 casi su 1000 cadranno entro

una deviazione standard dalla media. Trasformazioni simili devono essere

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compiute ovviamente anche per le percentuali che si presentano negli altri

intervalli. Poiché la curva della distribuzione di frequenza normale può essere

reinterpretata nel modo appena descritto, essa viene spesso indicata come la curva

di probabilità normale (fig. 75).

Fig. 75. La curva di probabilità normale.

Consideriamo uno o due esempi dell’uso della curva di probabilità normale. Le

frequenze delle stature di tutti gli americani medi riempiono praticamente una

distribuzione normale con una media di circa cm 170 e una deviazione standard di

circa cm 5. Qual è perciò la probabilità che un americano maschio scelto a caso

abbia una statura compresa fra cm 165 e 175? Poiché tutte le stature comprese fra

cm 165 e cm 175 cadono entro un dalla media e poiché 68,2 individui su cento

hanno stature comprese in quest’intervallo, la probabilità è 0,682. Analogamente,

la probabilità che un uomo scelto a caso abbia una statura compresa fra cm 170 e

cm 180 è 0,477 poiché l’intervallo compreso fra cm 170 e cm 180 è 2 a destra

della media e il 47,7 per cento degli individui ha una statura compresa in

quest’intervallo.

Si osservi che non rispondiamo alla domanda: qual è la probabilità che un

uomo scelto a caso abbia una statura di cm 172,72? La risposta a questa domanda

è zero perché questa è la probabilità di una possibilità tratta da un numero infinito.

Una tale questione non ha però alcuna importanza. Tutte le misurazioni sono

approssimate. Se l’errore nella misurazione della statura fosse, ad esempio, di cm

0,25 avrebbe più senso chiedersi: qual è la probabilità che un uomo, scelto a caso,

abbia una statura compresa fra cm 172,47 e cm 172,97? A questa domanda si può

dare una risposta riferendosi ai dati sulla curva normale, esattamente come

abbiamo fatto rispondendo alle domande poste nel paragrafo precedente.

Un problema più interessante concernente la probabilità sorge quando

cerchiamo di determinare, sulla base di un numero limitato di casi, ossia da un

campione, se le probabilità che nascano bambini o bambine siano esattamente

uguali. La statistica concernente una comunità presentò, su 3600 casi, 1890

nascite maschili e 1710 femminili. Questo scarto da un rapporto 50-50 indica che

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la nascita di maschi e quella di femmine non sono ugualmente probabili? Non

necessariamente poiché dire che la nascita di bambini e quella di bambine sono

ugualmente probabili, o che la probabilità che nasca un bambino di sesso

maschile è 1/2, significa soltanto che in un numero grandissimo di casi ci saranno

press’a poco tanti bambini quante bambine. Che cosa possiamo concludere,

quindi, dai dati concernenti 3600 casi?

Potremmo affrontare questo problema supponendo che la nascita di bambini e

quella di bambine siano ugualmente probabili e chiedendoci quindi quale sia la

probabilità di ottenere 1890 maschi su 3600 nascite. Ora, in 3600 nascite, i

possibili risultati sono finiti, ossia zero maschi, un maschio, due maschi e così via

fino a 3600 maschi. Poiché si suppone che la probabilità che nasca un bambino,

come la probabilità che nel lancio di una moneta venga testa, sia di 1/2, potremmo

ricorrere alla tremilaseicentounesima riga del triangolo di Pascal per ottenere la

probabilità che nascano 1890 maschi. Il calcolo dei termini di questo triangolo,

anche se accelerato grazie alle tecniche dell’algebra, sarebbe però alquanto

tedioso.

Consideriamo invece le 3600 nascite come un insieme tratto da un numero

molto grande (a rigore infinito) di insiemi, contenenti ciascuno 3600 nascite. Tra

questi numerosi insiemi alcuni darebbero zero bambini, altri un bambino e così

via. Se ora noi registrassimo su un diagramma il numero di insiemi corrispondenti

a ciascun numero di maschi, otterremmo una distribuzione di frequenza normale.

(Questo fatto potrebbe essere quasi previsto sulla base di uno studio di Pascal sul

triangolo, il Traité du triangle arithmétique. Ad esempio, la settima riga ci dice

che, nel lancio di sei monete, tre teste e tre croci si presentano 20/64 volte, mentre

le probabilità di altri risultati cadono simmetricamente a entrambi i lati di questo

risultato.) Assumendo che bambini e bambine siano ugualmente probabili, il

numero maggiore di insiemi conterrebbe 1800 maschi e 1800 femmine. Questo

numero di bambini, 1800, è allora il numero medio di maschi. Dobbiamo ora far

ricorso a una formula di statistica, che non preciseremo qui, per ottenere la

deviazione standard di questa distribuzione di frequenza. In questo caso = 30.

Ciò significa che il 68,2 per cento degli insiemi conterranno un numero di

bambini compreso fra 1770 e 1830. Nell’insieme di 3600 nascite osservato il

numero dei maschi era, come si è detto, 1890. Questo numero si troverebbe 3 a

destra della media. Ora, la probabilità di un evento che si trova a 3 o più a destra

della media è solo di 0,001 ovvero una possibilità su mille. Poiché questa

probabilità è di fatto piccola, il nostro assunto che la nascita di maschi e quella di

femmine siano ugualmente probabili dev’essere erroneo. Di fatto, i dati

concernenti molte migliaia di nascite dimostrano che il rapporto dei parti maschili

a quelli femminili è di 51 a 49; ciò può essere una prova del buon giudizio di Dio

ovvero del fatto che la donna vale un po’ meno dell’uomo.

Il problema che abbiamo appena esaminato equivale a chiedersi quale sia la

probabilità che un evento particolare, la nascita di 1890 maschi su 3600 parti,

cada entro un preciso intervallo dell’intera gamma di possibilità. Si può

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rispondere facilmente a questa domanda ricorrendo alla curva di probabilità

normale. Una domanda un po’ diversa è posta dal seguente tipo di problema.

Un produttore di spago vende il suo prodotto in gomitoli che pesano un

ettogrammo ciascuno in media. Egli sostiene che praticamente non esce dalla sua

fabbrica alcun gomitolo che si discosti di più di 0,1 ettogrammi dallo standard di

un ettogrammo. Un dettagliante compra 2500 gomitoli di questo filo, li pesa e

trova che pesano complessivamente 24,50 chilogrammi, con una media di 0,98

ettogrammi per ogni gomitolo. Il peso medio dei gomitoli è dunque nettamente

entro il limite di 0,1 ettogrammi che il produttore sostiene di rispettare. D’altra

parte, egli potrebbe produrre deliberatamente il suo spago in gomitoli di

ettogrammi 0,98, assicurandosi in tal modo un profitto occulto. Il produttore è

onesto? Ossia è probabile che una selezione casuale di 2500 gomitoli dalla

produzione complessiva pesi 0,02 ettogrammi meno della media?

La domanda concerne il comportamento delle medie di campioni. In che

misura la media di un campione dev’essere vicina alla media dell’intera

popolazione – ossia della produzione della fabbrica – per farci credere che esso

sia un campione di quella produzione? Si può rispondere a questa domanda

mediante uno studio della distribuzione di frequenza delle medie di tutti i possibili

campioni di 2500 unità ciascuno. Non possiamo sviluppare qui la teoria della

distribuzione delle medie. Sarà sufficiente dire che queste medie formano una

distribuzione normale; si potrebbe inoltre dimostrare che la media di questa

distribuzione di frequenza di medie è 1, la media dell’intera produzione, e si

potrebbe dimostrare chela deviazione standard di questa distribuzione di medie è

0,0006. Ora, il campione particolare ricevuto dal dettagliante presenta una media

di 0,98. Questa media differisce di 0,02 dalla media di 1 ed è perciò circa 30 volte

superiore a 0,0006 ovvero si trova circa 30 a sinistra della media dei campioni.

La probabilità che un dato cada a ben 30 dalla media è così piccola da essere

trascurabile. La probabilità che i 2500 gomitoli ricevuti dal dettagliante fossero un

campione casuale da una produzione di gomitoli del peso medio di un

ettogrammo non merita quindi alcuna fede. Sarebbe dunque pienamente

giustificata la conclusione che il produttore produce deliberatamente gomitoli di

spago dal peso medio inferiore a un ettogrammo.

Un’applicazione recente e interessantissima della teoria matematica della

probabilità fu quella destinata a “dimostrare” l’esistenza della percezione

extrasensoriale. Anche qui la dimostrazione si fonda sul rapporto fra il campione

e la popolazione completa. L’esistenza di una percezione extrasensoriale è stata

decisamente sostenuta dal professor J. B. Rhine e da altri fondandosi sul fatto che

taluni individui sono in grado di predire il numero e il colore di carte tratte da un

mazzo coperto in una percentuale di casi maggiore di quanto risulterebbe dalla

probabilità matematica. Ossia, se la probabilità di predizione corretta in un caso è

ad esempio 1/5, il soggetto dovrebbe essere in grado di indovinare correttamente

circa 1/5 delle carte coperte che gli vengono presentate. Ma supponiamo che in

800 tentativi il soggetto indovini 207 carte invece delle attese 160. La differenza

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in più è, in questo caso particolare, accidentale oppure è significativa? Un tale

numero inaspettatamente grande di risposte esatte è interpretato da Rhine nel

senso di una facoltà mentale insolita che consente al soggetto di leggere carte

coperte per mezzo della percezione extrasensoriale. Se le 47 risposte esatte in più

siano un argomento sufficiente a sostegno di tale convinzione rimane dubbio.

Rhine ha calcolato che la probabilità di indovinare 47 carte in più in un insieme di

800 tentativi è 1/250 000. Questa probabilità è così piccola che Rhine non

attribuisce le risposte esatte in più a mero caso.

In tutte le applicazioni che abbiamo esaminato finora, la teoria della probabilità

è servita per misurare il grado di probabilità di qualche evento o possibilità. Non

contenta di svolgere quest’umile servizio a beneficio della scienza e

dell’industria, la teoria divenne una padrona tirannica. Il problema che condusse a

compiere questo passo è già stato da noi menzionato in precedenza. Le molecole

di un gas si attraggono reciprocamente in accordo alla legge newtoniana della

gravitazione. Ogni tentativo di predire il moto, l’espansione, la contrazione o la

variazione di temperatura di un gas sulla base di questa legge newtoniana diventa

però disperatamente complesso a causa del gran numero di molecole. La

matematica non è in grado di risolvere esattamente il problema del moto di

neppure una molecola soggetta alle forze d’attrazione anche di poche altre.

Il difficile problema fu risolto da Clerk Maxwell e il metodo gli fu fornito dalla

teoria della probabilità. Il numero infinito di molecole in un volume di gas è

sostituito da una molecola ideale o rappresentativa la cui dimensione è la

dimensione più probabile di tutte le molecole nei gas, la cui velocità è la velocità

più probabile, la cui distanza dalle altre molecole è quella più probabile e così per

tutte le altre proprietà. Il comportamento più probabile di questa molecola ideale è

poi assunto come il comportamento del gas stesso. È sorprendente, ma nondimeno

vero, che le leggi ottenute in questo modo descrivono e predicono il

comportamento di gas esattamente come le leggi dell’astronomia predicono i moti

dei pianeti. Sostanzialmente, il comportamento più probabile dei gas risulta essere

quello reale.

Considereremo più avanti le esplosive implicazioni di quest’applicazione della

teoria della probabilità. Per il momento è sufficiente osservare che la teoria della

probabilità emerse così dalla sua semplice funzione esercitata nella valutazione di

dati e di ipotesi imponendosi alla considerazione come metodo primario per

ottenere leggi.

La funzione vitale che la teoria della probabilità è venuta ad assumere nel

lavoro scientifico e nel pensiero filosofico fu presagita nell’opera di Pascal. Egli

cominciò applicando la teoria al gioco d’azzardo e finì applicandola a Dio. Pascal

era a una svolta nella storia, all’epoca in cui la nuova scienza aveva cominciato a

scuotere vigorosamente la vecchia fede. Come ogni uomo pensante del suo

secolo, egli fu indotto a prender parte nel conflitto e a cercare una qualche

filosofia risolutiva. Intensamente religioso per natura, e autore di notevoli

contributi alla scienza e alla matematica, Pascal sentì il conflitto in modo più

acuto di qualsiasi altro. Vedendo egli così bene entrambi i lati, la sua mente

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divenne un campo di battaglia e in un passo estremamente affascinante egli

dichiarò apertamente la sua confusione:

Proprio ciò che vedo mi turba. Guardo da tutte le parti e non vedo altro che tenebre. La

natura non offre nulla che non sia soggetto a dubbio e a inquietudine; se io non vedessi in

nessun luogo alcun segno di un Dio, dovrei decidere che non esiste; se vedessi ovunque i segni

di un Creatore, dovrei riposare in pace nella mia fede; ma vedendo troppo per negare e troppo

poco per affermare fiduciosamente, sono in uno stato compassionevole e ho desiderato cento

volte che, se un Dio sostiene la natura, questa dovrebbe rivelarlo senza ambiguità o che, se i

segni di un Dio sono fallaci, la natura dovrebbe sopprimerli totalmente; dica l’intera verità o

nulla, in modo che io possa vedere da che parte stare.

Ma Dio si rifiutò di rivelarsi. Pascal si ricordò allora della sua opera sulla

probabilità e dei problemi sul gioco d’azzardo con essa risolti. La teoria

conteneva un messaggio per il problema della fede religiosa? La risposta gli

venne nella forma nota oggi come la scommessa di Pascal.

Il valore di un biglietto di una lotteria è il prodotto della probabilità di vincere e

del premio in gioco. Anche se la probabilità può essere piccola, se il premio è

molto grande il prezzo del biglietto è grande. Cosi, ragionò Pascal, benché la

probabilità che Dio esista e che la fede cristiana sia vera sia di fatto piccola, il

premio per tale fede è un’eternità di beatitudine. Il valore di questo biglietto per la

lotteria del cielo è dunque grande. D’altra parte, se la dottrina cristiana è falsa, il

valore perduto aderendo ad essa è al massimo il godimento di una breve vita.

Scommettiamo dunque sull’esistenza di Dio.

La scommessa di Pascal non era un’osservazione irriverente; era invece un

grido di disperazione. Il problema da lui affrontato si è ripresentato in seguito in

una forma solo leggermente diversa. Esso fu riaperto in tempi recenti dalla teoria

da lui creata.

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XXIV. Il nostro universo disordinato: la concezione

statistica della natura

Dunque è così: la Causa universale

agisce a un fine ma con varie leggi.

ALEXANDER POPE

Nell’universo ci sono legge e ordine oppure il suo comportamento è

semplicemente opera del caso e del capriccio? La Terra e gli altri pianeti

continueranno a compiere i loro moti attorno al Sole oppure qualche corpo

sconosciuto, venendo da grandi distanze, penetrerà nel nostro sistema planetario e

altererà il corso di ogni pianeta? Non può il Sole esplodere un giorno o l’altro,

come fanno quotidianamente altri soli, e ridurre noi tutti in cenere? L’uomo fu

insediato deliberatamente su un pianeta preparato apposta per lui oppure è solo il

prodotto insignificante di circostanze cosmiche accidentali?

La persona che pensa vorrebbe, più di ogni altra cosa, conoscere la risposta a

queste domande. Insignificanti al confronto sono i suoi piani grandiosi per una

associazione di nazioni, i suoi urgenti interessi monetari e le irritazioni della vita

quotidiana. Il desiderio insopprimibile di trovare risposte è la qualità che nobilita

l’uomo, e il suo sforzo incessante per conoscere se stesso, i prodigi della natura, la

struttura dell’universo e le forze che mantengono in moto tutte le attività

dell`universo dà un significato a vite che altrimenti resterebbero inevitabilmente

opache. Le risposte non saranno mai note interamente ma, grazie ai grandi

matematici, l’uomo possiede molti indizi significativi. Purtroppo questi indizi

ammettono più di un’interpretazione.

Una di queste interpretazioni ci è già familiare. Ragionando sulla base

dell’esistenza delle leggi matematiche scoperte durante l’èra newtoniana, i

pensatori del Settecento eressero il più vasto e influente sistema filosofico dei

tempi moderni. Esso propose un mondo che rivela un disegno razionale e un

ordine e che funziona secondo un piano. Le leggi matematiche resero manifesto il

disegno razionale, mentre l’infallibile realizzazione delle predizioni scientifiche

diede una prova del fatto che l’interpretazione matematica era aderente al disegno

razionale. Ovviamente le leggi che governano il moto dei pianeti e di altri oggetti

inanimati non chiariscono se anche l’uomo si adatti nel sistema delle cose. Ma,

dato che l’evidenza del disegno razionale era irrefutabile, si potevano nutrire

dubbi sul fatto che anche l’uomo vi fosse incluso?

Questa filosofia del determinismo domina ancora il nostro pensiero e le nostre

convinzioni e guida ancora le nostre azioni. Purtroppo l’ordine della natura, che

apparve estremamente semplice e armonioso ai fondatori della scienza moderna,

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appare ora spezzarsi nel turbine della statistica e della probabilità usate con tanta

efficacia dall’Ottocento e dal Novecento.

I matematici erano naturalmente orgogliosi delle nuove idee e tecniche da essi

introdotte per trattare i dati statistici. Essi erano anche soddisfatti della

conversione della nozione intuitiva di probabilità in un utile strumento per guidare

le azioni dell’uomo. Ma in quanto erano anche membri della comunità

intellettuale in cui operavano, la loro gioia fu di breve durata poiché proprio il

successo dei metodi statistici e della teoria della probabilità fece sgretolare sulle

loro teste la struttura ordinata della natura.

Se le formule e le leggi ottenute con i nuovi procedimenti fossero state

imprecise, sarebbero state abbandonate come surrogati non attendibili da usarsi

soltanto quando il procedimento sicuro consistente nel dedurre conclusioni da

assiomi matematici e scientifici completamente accettabili fosse fallito. E se esse

fossero state semplicemente rozze approssimazioni, ai nuovi metodi non sarebbe

stato attribuito alcun significato filosofico indebito. Così però non era. Esse erano,

di fatto, sorprendentemente precise ed efficaci, e perciò il discorso è rimasto in

sospeso.

Consideriamo il cuore del problema ed esaminiamo la sfida alla filosofia

deterministica lanciata dall’avvento dei metodi statistici. Ci concederemo il

privilegio di usare la tecnica platonica del dialogo, in modo che gli argomenti pro

e contro vengano esposti dal signor Determinismo e dal signor Probabilità a un

Alto Grado. Quest’ultimo, il personaggio giovane, aprirà la discussione

esponendo compiutamente il problema.

La considerazione che disturba di più, egli sottolinea, è che i metodi statistici e

la teoria della probabilità producono leggi del tutto attendibili là dove non

abbiamo ragione di attenderci alcuna legge. Consideriamo, ad esempio, la

distribuzione dell’intelligenza. Si scelga un ampio gruppo casuale di persone e se

ne misuri l’intelligenza con un test ben progettato; la distribuzione si avvicinerà

alla curva di frequenza normale. Quanto più ampio sarà il gruppo sottoposto al

test tanto più la curva sarà prossima a una distribuzione normale perfetta.

L’attribuzione apparentemente disordinata delle qualità varie e inesplicabili che

determinano l’intelligenza non rivela certo una legge; eppure la distribuzione

dell’intelligenza segue una curva che esprime regolarità e un rapporto invariabile.

Consideriamo inoltre il fenomeno dell’eredità. I cromosomi dei genitori si

mescolano liberamente nell’uovo fecondato e infinite trasformazioni hanno luogo

dalla concezione alla maturità; eppure la trasmissione di caratteri ereditari può

essere predetta con precisione dalla teoria della probabilità.

Eseguiamo ora numerose misurazioni di una lunghezza e registriamo

graficamente le varie misure in relazione alla frequenza con cui ciascuna di esse si

presenta. La rozzezza dell’occhio e della mano dovrebbero introdurre in queste

misurazioni un’irregolarità considerevole; eppure la curva rivelerà quasi una

distribuzione normale e quanto più grande sarà il numero delle misurazioni tanto

più la curva si avvicinerà a una distribuzione normale. Anche gli errori dell’uomo

seguono una legge. In breve, conclude il signor P., abbiamo il risultato

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sorprendente e spiacevole che sono descritti da leggi anche fenomeni che,

secondo ogni apparenza, non dovrebbero seguire alcuna legge.

Ma perché, chiede il vecchio signor D., dovrebbe turbarci l’esistenza di leggi

che coprono fenomeni per i quali non ci si attendeva alcuna legge? Perché non

dovremmo esser lieti per il fatto di avere un numero maggiore di leggi?

L’esistenza di altre leggi non rafforza forse gli argomenti a favore del

determinismo? Un disegno razionale evidentemente esiste ovunque, anche dove

non ce lo aspettiamo.

Proprio perciò la cosa mi preoccupa, risponde il signor P. Non soltanto non

abbiamo alcuna ragione di attenderci leggi in queste situazioni ma abbiamo ogni

ragione di non attendercene. Dal momento che possediamo leggi che governano

tali situazioni, quale importanza possiamo attribuire all’esistenza delle leggi

matematiche prodotte dalla scienza newtoniana? Perché inferire disegno razionale

e determinismo dall’esistenza di tali leggi?

Piano, piano, risponde il signor D. Supponiamo di mettere la cosa in questi

termini. Noi abbiamo evidentemente leggi matematiche le quali descrivono

fenomeni che, al meglio della nostra conoscenza, appaiono essere casuali e

disordinati, e per questa ragione lei mette in questione il significato di leggi che

abbiamo sempre considerato alla stregua di una prova del disegno razionale

dell’universo. Può darsi tuttavia che i fenomeni apparentemente disordinati

seguano leggi fisiche ma che essi appaiano alla nostra limitata intelligenza come

prodotti del caso solo a causa della loro grande complessità.

Il suo ragionamento sembra abbastanza ragionevole, risponde il signor P., il

quale cerca semplicemente di tener buono il suo oppositore con qualche parola

gentile. A un’attenta considerazione i moti delle molecole di gas appaiono

completamente irregolari; eppure i fisici credono che ciascuna molecola segua la

stessa legge fisica che mantiene la Terra nella sua orbita attorno al Sole.

Analogamente, si potrebbe sostenere che la distribuzione di qualità che governano

l’intelligenza e il processo della trasmissione ereditaria segua processi fisici

ordinati i quali determinano con precisione lo stato di ciascun individuo ma che

questi procedimenti siano troppo complessi per poter essere compresi dalla nostra

intelligenza. Lo stesso si potrebbe dire per fenomeni economici, per l’incidenza

delle cause di morte e per altri fenomeni che accadono apparentemente secondo

una legge. Così fenomeni che ci appaiono privi di un ordine possono essere

completamente determinati e le leggi matematiche ottenute da studi statistici

possono riflettere semplicemente l’esistenza di questi processi fisici ordinati

soggiacenti ai fenomeni.

Il signor D. è ora compiacentemente a guardia scoperta, mentre il signor P., che

conosce bene la sua teoria della probabilità, si appresta a portare il suo attacco.

Ma ora, signor D., consideriamo i seguenti fatti. Quando sei monete sono

lanciate simultaneamente in aria, si può avere testa in un numero qualsiasi di

monete da zero a sei. Noi non abbiamo alcuna possibilità di dire quale sarà il

numero esatto di monete che daranno testa perché il risultato è determinato da

troppi fattori noti e ignoti: la velocità del vento, la forza impartita alle monete

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dalla mano, la forma del pavimento su cui esse cadono e altri fattori. Supponiamo

allora che il risultato del lancio delle monete sia un prodotto del caso. Inoltre,

quanto maggiore è il numero dei lanci, tanto più è permesso al caso di svolgere

una funzione. Eppure, se queste sei monete vengono lanciate un gran numero di

volte, la teoria della probabilità ci consente di calcolare in anticipo quante volte si

avrà zero teste, quante volte una testa e così via fino all’ultima possibilità. Quanto

maggiore sarà il numero dei lanci tanto più i risultati saranno in accordo con le

predizioni della teoria. Perciò, prescindendo dal fatto che la caduta di una moneta

sia determinata o no da una serie di norme inviolabili, l’assunto che il solo caso

decida l’esito fornisce leggi matematiche che predicono il risultato.

Di fatto, continua il signor P., lei sa che i fisici dell’Ottocento ottennero alcune

leggi famosissime sul comportamento dei gas mediante un procedimento assai

simile a quello che ho appena descritto per il lancio delle monete. Essi aggirarono

le difficoltà connesse allo studio dei movimenti di miliardi e miliardi di molecole

in un gas operando con una molecola ideale, fittizia, la cui massa, velocità e altre

proprietà hanno i valori più probabili che possono presentarsi fra i valori di massa

e di velocità delle molecole nei gas. Eppure le leggi ottenute ragionando con

queste molecole ideali sono altrettanto applicabili di qualsiasi altra legge prodotta

dalla matematica e dalla scienza, nonostante che esse stabiliscano soltanto il

comportamento più probabile di un gas e non quello necessario. Perciò la

convinzione che molecole singole seguano un modello preassegnato non è

sostenuta affatto da un comportamento conforme a legge di masse di molecole. Di

fatto tale convinzione è ingiustificata.

Il signor D. ben lungi dall’essere disposto ad abbandonare le sue posizioni.

Lei è d’accordo, signor P., sul fatto che il moto delle molecole in un gas e la

caduta di una moneta possano seguire leggi precise, inevitabili, ma suppone per

ragioni di convenienza che ciascuna moneta cada a caso e che le molecole di un

gas abbiano i caratteri più probabili. Proprio perché questa supposizione di un

moto casuale e la sua matematica della probabilità consentono una predizione

esatta, non dovremmo perdere di vista l’esistenza di leggi fondamentali

soggiacenti ai fenomeni. Benché l’uso di argomentazioni probabilistiche per

fenomeni complessi sia conveniente e fecondo, esso non toglie credito di per sé

alle leggi soggiacenti. Di fatto, soltanto grazie al fatto che queste leggi sono

valide, le argomentazioni probabilistiche forniscono conclusioni ragionevoli e

utili.

Signor D., lei non valuta ancora appieno la forza del mio argomento. In realtà

lei vedrà che ha torto a credere nell’esistenza di leggi necessarie. Consideriamo,

ad esempio, la caduta di una moneta e consideriamone in particolare il peso, che

ha parte in qualsiasi legge newtoniana concepibile che ne descriva il moto.

Nel tempo in cui la moneta sta cadendo, il suo peso non si conserva costante.

La moneta è composta da un numero di molecole enorme ma continuamente

vario, poiché ogni oggetto solido acquista e perde continuamente molecole. Il

vento che soffia sulla moneta mentre essa cade è composto da miliardi e miliardi

di molecole, messe in moto non sappiamo come, le quali danzano tutte attorno

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alla moneta in modi alquanto diversi. La superficie del pavimento su cui la

moneta cade non ha un angolo fisso. Man mano che molecole di legno si

sottraggono ad esso o gli si aggiungono, la forma cambia, e quindi l’angolo a cui

la moneta percuote il pavimento non è preciso, né lo è la distanza di caduta.

Supponiamo di cercar di misurare la distanza fra il centro della moneta e la

superficie del pavimento. Dov’è il centro della moneta, la cui forma sta mutando

continuamente? Dove comincia la superficie del pavimento, dato che i suoi strati

di molecole sono del tutto irregolari? Useremo un regolo per misurare tale

distanza? Ma neppure la lunghezza del regolo è costante, come quella di qualsiasi

altra massa. Le molecole più esterne se ne separano e vi ritornano, alterandone

continuamente la lunghezza.

Ora che tocchiamo con mano quali siano le complessità nella struttura della

materia, insiste il signor P., non è un’audacia eccessiva la nostra quando parliamo

in generale di leggi scientifiche? Tutte le leggi del genere si occupano di materia,

di masse, superfici, lunghezze, pressioni, densità e altre proprietà che non sono

mai costanti, per nessun oggetto. Soltanto l’imprecisione delle nostre mani, dei

nostri occhi e dei nostri strumenti di misurazione ci inganna facendoci credere che

esistano cose come lunghezze e masse fisse e che sia lecito parlare di leggi

scientifiche esatte. Le leggi possono implicare massa, lunghezza, volume, peso e

altre qualità soltanto nella misura in cui usino valori medi per queste quantità. Le

leggi possono essere perciò soltanto compendi convenienti di stati fisici in realtà

irregolari in cui le variazioni si raggruppano attorno ad alcuni numeri medi. In

sintesi, signor D., il nostro esame del fatto che alcune leggi coprono in apparenza

fenomeni caotici ci ha condotto alla conclusione che ciò vale per tutte le leggi

scientifiche per quanto concerne l’esistenza di una natura ordinata?

Il punto centrale della sua argomentazione come la intendo io signor P., è che

quando esaminiamo la struttura della materia stessa troviamo che quantità

apparentemente costanti stanno mutando continuamente. Perciò lei chiede come si

possa parlare di leggi scientifiche definite, immutabili, dal momento che esse

sono tutte affermazioni convenienti circa effetti medi, esattamente come

un’affermazione sul reddito medio di un lavoratore è un’affermazione che non

concerne nessun lavoratore nella sua singolarità. Ma rifletta un momento, signor

P. Perché gettare il discredito su leggi generali, rivelatrici, ben verificate,

semplicemente a causa di talune irregolarità microscopiche che non hanno alcuna

influenza su alcuni degli eventi maggiori coperti da tali leggi?

Quel che lei dice potrebbe essere vero, signor D., se la situazione non fosse

molto peggiore di come l’ho descritta finora. Consideriamo un po’ più addentro la

natura della materia stessa ed esaminiamo le molecole stesse. Come lei sa, esse

sono fatte di atomi, e questi, a loro volta, sono composti da elettroni liberi e da un

nucleo dotato di una struttura assai complicata. E ora, signor D., si tenga ben

stretto mentre le dico una cosa o due a proposito del nucleo e degli elettroni. Lei

immagina probabilmente queste particelle come piccoli pezzi di materia esistenti

ciascuno in ogni determinata frazione di tempo in uno spazio ben definito: Questo

è quanto pensavano gli scienziati in passato. Oggi non ci si può più esprimere

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così, ma dobbiamo dire che ogni elettrone e ogni costituente del nucleo esistono

ovunque ma con maggiore o minore probabilità nelle varie posizioni. In effetti la

moderna teoria atomica dice che lei non è seduto nella sua poltrona in un angolo

di questa stanza, bensì che lei esiste ovunque, con un grado di probabilità che

varia da posto a posto e che è massimo per l’angolo in cui pensa di sedere. Una

teoria fantastica della materia, vero? Così fantastica come il concetto medievale di

inferno? Può darsi, visto che è stata proprio questa teoria a portare nel nostro

mondo l’inferno delle bombe atomiche.

E ora, signor D., dov’è la buona, antiquata, solida materia che obbedisce a leggi

matematiche precise, cogenti? Il sasso preso un tempo a calci dal dottor Johnson

per dimostrare la realtà della materia si è dissolto in una distribuzione diffusa di

probabilità matematiche. La scala innalzata un tempo da Descartes, Galileo,

Newton e Leibniz per dare la scalata al cielo poggia su una base continuamente

mobile, instabile.

Non riesco a vedere il rapporto, signor P. Lei mi sta dicendo semplicemente

che la struttura dell’atomo è così complessa, alla luce della nostra comprensione

presente, che gli scienziati hanno dovuto far ricorso ad argomentazioni

probabilistiche per padroneggiarla. Ma che cosa dimostra ciò? Lei ha

semplicemente spostato il discorso dal lancio di monete alla struttura dell’atomo.

Io non dubito del fatto che la struttura atomica sia complessa né metto in dubbio

l’opportunità di usare la teoria della probabilità nello studio di tale struttura.

Eppure l’esistenza di leggi per l’atomo, così come l’esistenza di leggi per la

distribuzione dell’intelligenza o per l’eredità di caratteri non nega in sé la

possibilità di un comportamento determinato delle particelle subatomiche. Il

dottor Einstein ha detto a proposito di quest’argomento: “Non crederò mai che

Dio giochi a dadi con il mondo.”

Può darsi, signor D., ma il mio argomento, che lei sostiene di non vedere, è che

non si può concludere che l’acquisizione di leggi operanti dimostri di per sé,

necessariamente, un disegno razionale, un ordine invariabile della natura e la

causalità: in sintesi il determinismo. Lei deve concederlo, a mio avviso. So

nondimeno che lei ritiene di avere ancora qualche asso nella manica. Lei sostiene

che l’esistenza di leggi che descrivono il comportamento della materia,

nonostante la struttura complessa di questa, è pur sempre una prova in più del

fatto che queste leggi implicano un disegno razionale.

Il signor P. ha esposto l’argomento del signor D. perché gli riusciva difficile

smettere di parlare anche dopo aver esposto le sue ragioni e anche perché, con la

grande sicurezza propria dei giovani, riteneva di poter esporre le argomentazioni

del signor D. meglio del suo stesso antagonista. Secondo il procedimento

parlamentare, e ancora il signor P. a prendere la parola, per illustrare i suoi

argomenti.

Mi lasci considerare una legge in vece sua, signor D., e vediamo quanto la cosa

le torni favorevole. Mi elenchi i dati relativi alla prosperità nazionale per gli

ultimi cinque anni e l’intensità delle macchie solari per quegli stessi anni. Lei

conosce ovviamente il procedimento statistico consistente nel trovare una formula

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adatta a un insieme di dati. Questo procedimento mi darà una formula, una legge

matematica che mette in relazione la prosperità nazionale e l’intensità delle

macchie solari. Quale conclusione dovremmo trarre a proposito dell’esistenza di

qualche connessione inevitabile fra le due variabili? Nessuna assolutamente, non

è vero? Eppure, in che cosa differisce questa formula dalle numerosissime altre

formule che, a quanto lei dice, proclamano leggi dell’universo?

Il signor D. si alza a questo punto, un po’ turbato, dalla sua poltrona (che esiste

ovunque con vario grado di probabilità).

La risposta è evidente, signor P. Le leggi scientifiche conserveranno la loro

validità indefinitamente, a differenza della formula adattata ai dati sulle macchie

solari e sulla prosperità nazionale. Consideriamo ad esempio le leggi di Keplero.

Tutte le osservazioni degli ultimi quattrocento anni le confermano. Non è

significativo che la Terra abbia seguito le medesime leggi per un periodo di tempo

tanto lungo?

Sono lieto che lei abbia scelto le leggi di Keplero come esempio, signor D.

Innanzitutto, vorrei ricordarle che le leggi di Keplero furono ottenute appunto in

origine adattando formule a dati di osservazione.

Dopo molti anni di grandi sforzi e dopo aver provato una cinquantina di tipi

diversi di curve, Keplero trovò che l’orbita di Marte è un’ellisse. Tutte le

osservazioni di Copernico e di Brahe gli erano favorevoli.

Fortunatamente per Keplero e per la storia della scienza, quelle osservazioni

non erano troppo buone. Oggi sappiamo, dalla teoria e da osservazioni più

precise, che la vera orbita non è un’ellisse ma che è distorta da ogni sorta di

perturbazioni dovute all’attrazione gravitazionale degli altri pianeti. Le leggi di

Keplero sono dunque descrizioni del comportamento medio dei pianeti. A rigore,

oggi non sono valide.

Di più, la sorte delle leggi di Keplero è stata quella stessa di tutte le leggi

scientifiche. Esse valgono per qualche tempo, dopo di che l’aumento generale

delle conoscenze scientifiche rende necessario qualche ritocco. Le leggi di

Keplero erano in sé un perfezionamento della teoria copernicana e Copernico,

come sappiamo, aveva perfezionato l’astronomia tolemaica. Le leggi di Keplero si

rivelarono buone descrizioni perché egli aveva il vantaggio di costruire su una

teoria precedente. Ma neppure la sua opera rappresenta l’ultima parola.

Forse no, si affretta a ribattere il signor D., cessando per un momento di

camminare nervosamente avanti e indietro. Ma lei ammette che la storia di quelle

leggi rivela un sempre maggiore perfezionamento. E tale perfezionamento, a che

cosa condurrà? Alle leggi vere, senza dubbio; e le leggi di Keplero, se non sono

l’ultima parola, non ne sono certo molto lontane. Ma come potremmo

approssimarci sempre più alle leggi vere se non ci fossero leggi vere verso cui

tendere?

La risposta, signor D., è che se la Terra nei suoi moti aderisce esattamente a un

modello, modello cui le leggi di Keplero si avvicinano così mirabilmente, tale

modello può essere ancora solo il comportamento più probabile; nessuna

necessità a noi nota costringe la Terra a continuare a fare la cosa più probabile più

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di quanto la necessità dica alle monete quanto spesso devono dare testa. Domani

la Terra potrebbe schiantarsi nel Sole. In altri termini, signor D., e se lei la smette

di camminare nervosamente potrà concentrarsi meglio, non stiamo mettendo in

discussione l’esistenza di leggi che funzionano bensì il significato che si deve

attribuire ad esse.

Mi spiace di averla disturbata camminando, signor P. Mi consenta di presentare

un importante argomento a favore delle leggi di Keplero e di altre leggi, un

argomento che non vale per le sue leggi statistiche, per le sue leggi ottenute

adattando formule a dati. Ricordiamoci che Galileo e Newton analizzarono con

successo i fenomeni del moto. Il risultato fu che possediamo una spiegazione

fisica del comportamento dei pianeti nei termini di una forza di gravitazione.

Questa forza mantiene i pianeti nelle loro orbite e ve li mantiene obbedendo alle

leggi di Keplero. Queste leggi sono di fatto una conseguenza matematica della

legge della gravitazione. Anche le perturbazioni nelle orbite dei pianeti sono

spiegate ora con l’azione di forze gravitazionali.

Signor D., sono imbarazzato per lei. Le sue spiegazioni non spiegano un bel

niente! Quanto poi alla sua teoria della gravitazione, lei sa bene che è solo una

finzione. Che cos’è questa forza di gravità che mantiene i pianeti nelle loro

orbite? Nessuna immaginazione o opera letteraria sforza il nostro intelletto quanto

il tentativo di capire in che modo il Sole esercita la sua attrazione sulla Terra.

Connessioni molto più ragionevoli potrebbero essere escogitate per mettere in

relazione le macchie solari e la prosperità nazionale. Tutto ciò che noi possediamo

in realtà sono solo formule e non abbiamo ragione di attribuire importanza

filosofica all’esistenza di queste formule più che all’esistenza di una formula che

metta in relazione macchie solari e prosperità nazionale.

Il signor D. cerca ancora una volta il conforto della comoda poltrona, della cui

esistenza reale comincia a dubitare. Il signor P. continua a declamare e decide di

sfruttare il vantaggio.

Ricapitoliamo un momento, egli riassume. La discussione fra noi non deve

concentrarsi su un punto? Sulla conoscenza di poche leggi della natura è stata

costruita una filosofia della natura. L’introduzione di metodi statistici e la teoria

della probabilità ci costringono ora a considerare quanto poco sia realmente

implicato nella scoperta, o vorrei dire costruzione, di poche leggi.

Il signor D. non seguiva più il discorso; si era perduto dietro i suoi pensieri. I

vari argomenti del suo loquace oppositore avevano evidentemente aperto la sua

mente all’esistenza di irregolarità e disordine anche alla base di fenomeni in

precedenza considerati rigorosamente soggetti a leggi precise. Lo sviluppo della

teoria atomica da parte di chimici e di fisici rivelava nuovi problemi e incertezze

in quel campo e rendeva manifesto al di là di ogni dubbio il fatto che la materia è

assai più complessa di quanto si fosse supposto. Lo sviluppo della teoria cinetica

del calore, che spiegava questo fenomeno nei termini della rapidità del moto delle

molecole, chiarì che il flusso di calore e di freddo non è altro che un effetto

d’assieme di moti irregolari di miliardi di molecole. La pressione costante di un

liquido non era una singola forza definita bensì semplicemente l’effetto d’assieme

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di un bombardamento irregolare delle pareti del recipiente da parte delle singole

molecole del liquido. Una superficie liscia di uno specchio era in realtà soltanto

un aggregato di molecole, ciascuna delle quali aveva un comportamento diverso,

anche se l’intero aggregato dà l’effetto preciso di riflettere la luce in modo

costante e in accordo con leggi matematiche. I suoni di voci umane e di strumenti

musicali, riprodotti quotidianamente con fedeltà quasi assoluta e così ben

rappresentati da formule matematiche, non erano altro che gli effetti medi di

movimenti irregolari d’insieme di molecole d’aria. L’uso da parte di Galton di

metodi statistici per trovare le leggi dell’eredità – dopo che non era riuscito a

trovarne o a intenderne il meccanismo – fece apparire anche tale fenomeno un

gioco del caso. Le forme e varietà di piante, animali e persino esseri umani erano

illimitate. Il tempo meteorologico era più contrario che compiacente. Non si

potevano predire, e tanto meno controllare, periodi di siccità, uragani e raffiche di

pioggia. Le stesse forze della natura che erano state oggetto di ammirazione per la

loro semplicità, ordine e invariabilità comprendevano anche ondate di marea,

eruzioni vulcaniche e terremoti tutti inattesi e inspiegabili. La natura appariva

d’improvviso imprevedibile, malvagia e capricciosa.

Così quello stesso mondo che il Settecento considerava rigidamente

determinato e progettato in accordo a leggi matematiche immutabili doveva essere

considerato ora evidentemente caotico, privo di leggi e imprevedibile. La realtà

appariva totalmente priva di ogni finalità, il racconto di un idiota, ricco di suoni e

di furia, privo di ogni significato. “L’uomo, in particolare, era solo un accidente

del concorso cieco e fortuito di eventi. Le leggi matematiche della scienza non

erano nulla di più che compendi convenienti, utili, degli effetti medi di eventi

disordinati. Questo atteggiamento nei confronti della natura e delle sue leggi,

secondo cui la natura sarebbe caotica e imprevedibile e le sue leggi non sarebbero

altro che descrizioni convenienti, temporanee di effetti medi, è noto come

concezione statistica della natura.

Questa concezione statistica e la concezione deterministica sono

immutabilmente opposte. Pur essendo entrambe d’accordo sull’esistenza e

sull’applicabilità delle leggi scientifiche, interpretano questi dati di fatto in modo

radicalmente diverso. Il determinismo asserisce che le leggi scientifiche sono

asserzioni concernenti il comportamento necessario, immutabile, universale di

oggetti naturali. La concezione statistica considera le leggi come affermazioni che

posseggono semplicemente un grado elevato di probabilità. Il determinista crede

in una connessione essenziale fra oggetti legati dalla legge, così come lo sono la

Terra e il Sole nelle leggi di Keplero. Il fautore della teoria statistica sostiene che

la legge è semplicemente un’osservazione di una situazione temporanea, una

giustapposizione accidentale non più significativa del fatto che io sto portando

una cravatta scura e che nello stesso tempo il mio vicino fuma un sigaro. Il

determinismo asserisce che lo stato presente della natura determina

inalterabilmente il futuro. Se io lancio in aria una palla, essa ricadrà seguendo una

traiettoria parabolica. La concezione statistica dice che essa non soltanto può

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cadere seguendo una traiettoria diversa da quella parabolica ma che può anche

volare direttamente nel Sole.

Un paio di esempi possono chiarire ulteriormente la differenza fra i due diversi

punti di vista. Supponiamo che un battitore di baseball colpisca una palla.

Secondo la concezione deterministica, le forze all’opera quando la mazza entra in

contatto con la palla costringono questa a seguire una traiettoria ben definita, la

quale potrebbe essere predeterminata e che è descritta dalle leggi matematiche del

moto. Dati pochi fatti quantitativi, il moto della palla potrebbe essere predetto con

certezza. Secondo la concezione statistica, potremmo dire che i miliardi di

molecole che formano la mazza, avvicinandosi ai miliardi di molecole

componenti la palla, nei loro moti casuali colpiranno probabilmente molte

molecole di questo secondo gruppo e impartiranno loro le proprie velocità. Poiché

ciò accadrà a molte fra le molecole che costituiscono la palla, la palla stessa sarà

messa probabilmente in movimento in quella direzione verso cui sono dirette la

maggior parte delle sue molecole in seguito al contatto con quelle della mazza. La

probabilità che la palla si muova in una direzione definita è così grande che non

potremmo attenderci un comportamento diverso, anche se esso è almeno

possibile. L’ago deve esistere nel pagliaio anche se la probabilità di trovarlo è

molto, molto piccola.

Un altro esempio può chiarire ulteriormente la distinzione fra le concezioni

deterministica e statistica. In tempi normali una nazione, considerata come

un’entità, presenta un modello di comportamento continuo, regolare. Le persone

vanno a lavorare; mangiano; uomini e donne si sposano e formano famiglie;

vecchi e giovani hanno i loro passatempi e divertimenti; vengono indette elezioni

e gli eletti assumono le rispettive cariche. Se conoscessimo sulla nazione solo

questi fatti, e se un tale comportamento potesse essere dedotto da assiomi molto

ragionevoli sugli esseri umani, saremmo tentati di asserire che il comportamento

delle nazioni e anche la vita stessa devono essere stati progettati e definiti da

qualche essere superiore e costretti a seguire questo disegno invariabile. Il

sostenitore della concezione statistica insisterà però per considerare la cosa più da

vicino. Che cosa si scopre quando si esamina il comportamento degli individui

stessi? Molte persone non vanno a lavorare; esse chiedono l’elemosina, si fanno

fare prestiti e rubano. Alcune persone non mangiano; esse muoiono di fame.

Alcuni non si sposano, oppure si sposano e non hanno figli. Alle elezioni soltanto

una parte della popolazione vota; degli altri, una parte se ne disinteressa e ad altri

non è consentito. In considerazione di questi fatti, che cosa diremo del

comportamento della popolazione considerata come un gruppo? Essa segue leggi

immutabili, predeterminate? Le affermazioni sul comportamento di gruppo non

sono semplicemente descrizioni di effetti generali, di massa, che celano ogni sorta

di azioni opposte, di irregolarità e addirittura di disordine? La concezione

statistica riconosce la variabilità e addirittura il carattere casuale di azioni

individuali. Essa si attende però che l’effetto complessivo di atti molteplici,

benché diversi da un individuo all’altro, produca nondimeno un risultato medio

nell’intera nazione. Essa concede però specificamente la possibilità che l’effetto

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di massa possa essere talvolta rivoluzionario e che possano prodursi mutamenti

profondi nel comportamento medio della gente.

La questione se sia nel vero la concezione deterministica o quella statistica

della natura non è un problema accademico. In un universo razionale e ordinato,

la vita ha un significato e un fine. La certezza di questo disegno razionale dà

all’uomo coraggio e una ragione per vivere e costruire. Essa rafforza anche la sua

fede in un essere supremo, poiché il più forte argomento razionale a favore

dell’esistenza di Dio è l’argomento fondato su un universo progettato

razionalmente. Una Provvidenza pensante, sovrumana o un grande architetto è un

antecedente quasi necessario di un mondo naturale che obbedisce a leggi

matematiche. L’esistenza di un Dio assicura a sua volta linfa vitale a vasti settori

della religione e dell’etica. D’altra parte, se è nel vero la concezione statistica

della natura, il mondo fisico e la funzione dell’uomo in esso sono irrazionali. Gli

eventi non servono naturalmente alcun fine e non conducono ad alcuna meta,

essendo semplicemente accidentali, legati al puro caso. L’intero cosmo potrebbe

andar distrutto anche domani in un cataclisma universale. La vita non offre altro

che i piaceri e i dolori, privi di alcun significato, del momento.

Indubbiamente fu l’importanza della posta in gioco a indurre i deterministi a

gettarsi nuovamente nella mischia. Nuove ragioni furono trovate per vedere il

disegno razionale, la causalità e il determinismo nelle leggi di Keplero, di Galileo

e di Newton. Ma lasciamo che il nostro signor D., “sanguinante ma invitto”, che

per tutto questo tempo è andato predisponendo in ordine di battaglia nuovi

argomenti, parli per sé.

C’è, egli dichiara, una distinzione essenziale fra leggi statistiche e formule del

tipo newtoniano. Le prime sono fondate su tabelle di dati o su argomenti

probabilistici; le ultime sono dedotte da assiomi matematici e scientifici

indubitabili, i quali esprimono sicuramente verità naturali, nonostante che la

struttura intima della materia sia complessa e in gran parte sconosciuta. Perciò

possiamo esser certi che le leggi newtoniane sono anche verità esatte e quindi

leggi genuine che la natura deve seguire.

Anche il signor P. era ovviamente preparato a difendersi nuovamente e

cominciò a parlare con la certezza che la discussione sarebbe arrivata presto a una

conclusione soddisfacente.

Il nocciolo del suo ragionamento, signor D., si fonda sulla verità degli assiomi.

Ma gli assiomi descrivono fatti intrinseci dell’universo oppure sono

semplicemente adattati all’esperienza, sostanzialmente nello stesso modo in cui

una legge dei prezzi al minuto dei generi alimentari è adattata ai prezzi reali?

Consideriamo, ad esempio, l’assioma di Newton sulla forza di gravità. Esso dice

che la forza con cui una massa ne attrae un’altra è uguale al prodotto delle masse

diviso per il quadrato della distanza esistente fra di esse. Questo assioma si è

sempre dimostrato del tutto preciso e le deduzioni basate su di esso hanno sempre

condotto a risultati numerici in accordo con le osservazioni, entro i limiti di

precisione di tali osservazioni. Eppure l’applicabilità di quest’assioma al moto

della Terra attorno al Sole, o della Luna attorno alla Terra, è stata accertata solo in

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seguito a molte osservazioni del cielo e a molte misurazioni di masse, distanze e

intervalli di tempo. Tale assioma potrebbe dunque non essere altro che una

descrizione buona ma approssimata del comportamento medio della natura. Di

fatto, prima che Newton si decidesse a favore di questa formula, altre formule

molto simili a questa erano state sperimentate e rifiutate in quanto non davano

risultati altrettanto precisi. Perché l’assioma di Newton dovrebbe essere l’ultima

parola? Evidentemente non si può essere più certi della verità di tali assiomi

scientifici di quanto lo si possa essere di una legge dei prezzi dei generi

alimentari.

Il signor D. si attendeva forse un tale ragionamento poiché fu pronto a

rispondere immediatamente.

Va bene, signor P., lei può dubitare della verità assoluta di leggi scientifiche

nella misura in cui esse dipendono da assiomi quali la legge della gravitazione di

Newton. Lei deve concedere però che i teoremi di matematica pura sono in sé

incontestabili poiché si fondano su assiomi che sono del tutto evidenti. Questi

assiomi non implicano inoltre alcuna misurazione. Vorrebbe forse mettere in

dubbio l’assioma che il tutto è maggiore di ogni sua parte o il teorema che la

somma degli angoli interni di un triangolo è 180°? Senza dubbio gli assiomi, e

perciò i teoremi di matematica pura sono verità assolute sulla natura e

costituiscono leggi ben precise. L’esistenza di queste leggi nella struttura

dell’universo rende molto probabile l’esistenza di altre leggi.

L’argomentazione sembrava incontrovertibile, ma il signor P. non era affatto

sgomento. Avendo completato recentemente gli studi, aveva imparato che erano

state create nuove geometrie, non euclidee, le quali si applicano allo spazio fisico

non meno bene della geometria euclidea. Si accinse perciò con fiducia a svuotare

le argomentazioni del suo oppositore.

È un argomento eccellente, signor D., ma purtroppo in ritardo di un secolo. Lei

ha sentito parlare, senza dubbio, della geometria non euclidea.11

Gli assiomi e i

teoremi della geometria non euclidea, che contraddicono quelli di Euclide, sono

una descrizione dello spazio fisico almeno altrettanto buona di quella di Euclide.

Non abbiamo la minima prova a favore della verità della geometria euclidea.

Nulla.

Come possiamo immaginarci senza difficoltà, il signor D. era frustrato. Ogni

argomento da lui esposto era stato velocemente demolito. Improvvisamente, però,

un lampo d’astuzia brillò nei suoi occhi e una leggera eccitazione si manifestò in

lui. Comincio a parlare con prudenza e con un leggero tono di ironia nella voce.

Ha mai sentito parlare, signor P., della teoria della probabilità? Non ammette

lei che le leggi di Keplero e di Newton, sulla cui generale applicabilità siamo

entrambi d’accordo, siano leggi semplicissime? Ora, qual è la probabilità che le

leggi di un universo disordinato, sorto in modo casuale, siano semplici? E

confrontiamo tale probabilità con la probabilità di trovare leggi semplici in un

11

Si veda il capitolo ventiseiesimo.

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universo che operi in accordo con un disegno razionale. Da quale probabilità lei si

lascerebbe guidare?

Il signor P. apprezzò anche troppo bene la forza dell’argomento. Le probabilità

erano contro di lui. Egli rifletté con cura e poi lentamente svolse l’argomento

opposto, ragionandolo apparentemente man mano che lo veniva esponendo.

Dopo migliaia di osservazioni del pianeta Marte, egli riprese, Keplero trovò che

la sua orbita è una semplice ellisse. Ciò non significa che le osservazioni di cui

disponeva giacessero tutte esattamente su un’ellisse; le piccole differenze furono

imputate a errori di misurazione e ignorate. Keplero, il quale riteneva che Dio

avesse usato la matematica per costruire l’universo, era soddisfatto dell’ellisse

perché essa gli fornì una legge semplice. Ma i matematici potrebbero sostenere

che tutto ciò che Keplero fece fu di scegliere una fra le molte curve che si

adattano ai dati all’interno del margine di errore d’osservazione. Se fosse stato

disposto a considerare una curva più complicata avrebbe potuto trovarne una che

si adattasse alle sue misure ancor più dell’ellisse. Keplero ebbe ragione nello

scegliere la curva più semplice e nell’attribuire gli scarti nei confronti di questa

curva a errori di misurazione? Evidentemente non possiamo esserne certi. Poiché

nessuna misurazione sarà mai esatta, quest’incertezza non sarà mai eliminata.

L’argomentazione a favore del disegno razionale fondato sulla semplicità delle

leggi scientifiche può essere ridotto a quanto segue: fra le molte formule che

descrivono un fenomeno naturale entro i limiti degli errori attribuibili alla

misurazione, l’uomo sceglie quella più semplice. Considerato in questo modo

l’argomento della semplicità riflette una preferenza della mente dell’uomo

piuttosto che un carattere della natura.

Benché si preparasse questa volta, in segreto, ad abbandonare la nave, il signor

D. avanzò timidamente, benché non senza qualche speranza, un altro argomento.

Vedo, egli afferma, almeno un altro argomento importante a favore della verità

e necessità delle leggi scientifiche, ossia la loro universale applicazione

nell’ingegneria pratica. Ponti, edifici, dighe, motori e centrali elettriche, costruiti

con l’aiuto indispensabile di queste leggi, si guardano bene dal crollare. Le

campate dei ponti reggono; i motori svolgono il lavoro per il quale sono stati

progettati. Se in queste leggi non ci fosse una grande misura di verità, se la natura

non fosse costretta a obbedire ad esse, perché esse dovrebbero applicarsi così

universalmente e con tanta efficacia?

Il suo ragionamento, signore, ha più forza sentimentale che logica. Per migliaia

di anni gli uomini hanno lavorato nell’ipotesi – che per essi era una convinzione –

che la Terra fosse piatta. Entro le aree geografiche ristrette popolate in quegli

anni, quest’ipotesi era abbastanza buona da dare risultati in accordo con

l’esperienza. L’ipotesi era ovviamente sbagliata. Analogamente, dopo Newton, gli

scienziati hanno utilizzato la sua legge quantitativa della gravitazione e ogni

progetto di ingegneria si è fondato su un suo uso assai esteso. Oggi, in

conseguenza della creazione della teoria della relatività, sappiamo che la legge

Newton non è esatta. Di più, la nuova teoria fa completamente a meno della forza

di gravità. Eppure, per oltre duecento anni, la legge della gravitazione è stata un

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dogma scientifico. Essa è usata ancor oggi dando risultati abbastanza buoni per la

maggior parte dei fini normali. Perciò l’applicabilità di una formula o di una

teoria ha assai poco a che fare con la verità o con l’esistenza di un piano razionale

nell’universo. Lei, signor D., ha commesso l’errore, un errore molto comune, di

credere che una teoria che funziona per molti anni debba essere vera, mentre la

sua condizione reale non è altro che quella di un’ipotesi di lavoro. Quest’errore fu

compiuto con la teoria tolemaica, con l’ipotesi della Terra piatta, con la geometria

euclidea, e col concetto di gravitazione. Di fatto l’uomo è sempre passato da una

descrizione della natura a un’altra; ma noi scopriamo i nostri errori lentamente e li

correggiamo inoltre tanto più lentamente in quanto per lunghi periodi di tempo ci

siamo cullati nell’illusione di avere scoperto leggi di natura. Fortunatamente

uomini come Copernico, Newton e Einstein ci impediscono di perderci

irrevocabilmente in convinzioni erronee.

Ovviamente, osserva il signor D., potrei abbandonare il mio argomento a

favore del determinismo fondato sull’universale applicabilità di tutte le leggi

scientifiche e fondarne uno ancora migliore sull’applicabilità di un semplice

teorema di matematica. Benché in apparenza la mia matematica non sia

aggiornata, signor P., so che in matematica costruiamo lunghe catene di

ragionamento puro che sono del tutto indipendenti dall’esperienza. Le conclusioni

cui arriviamo sono spesso molto lontane dagli assiomi. Ad esempio, la

proposizione di Euclide la quale asserisce che una tangente a un cerchio è

perpendicolare al raggio tirato al punto di contatto è molto lontana dagli assiomi

su cui in definitiva si fonda. Eppure il teorema è altrettanto in accordo con

l’esperienza quanto l’assioma. Perché il risultato di tanti passaggi di puro

ragionamento dovrebbe essere così in accordo con l’esperienza? Non è forse per

il fatto che la natura stessa è progettata razionalmente e secondo una legge? La

natura non consente contraddizioni, non più che la mente dell`uomo.

Dal momento che lei ha concezioni così ingenue, signor D., devo chiederle

come sa che le lunghe catene di ragionamento continueranno a produrre teoremi

in accordo con la natura. La natura non può comportarsi a volte come

un’automobile che segue la strada per chilometri senza che ci sia bisogno di

correzioni con lo sterzo, poi si allontana impercettibilmente dalla direzione

perfettamente rettilinea e termina infine in un fosso? Il fosso per il grazioso carro

del ragionamento potrebbe essere esattamente davanti e quando il veicolo

finalmente vi termina sarà adatto per il deposito dei rifiuti accademici, vicino a

quel biroccino a un cavallo: l’argomento fondato sull’ordine della natura.

È possibile che un tale spaventoso incidente avvenga, signor P., ma, finché ciò

non accade, l’esistenza di sviluppi matematici logici, complicati ed estesi, i cui

teoremi si applicano, con generalità ed efficacia, alla natura, così come gli

assiomi, dev’essere considerata un miracolo sotto ogni altra filosofia che non sia

il determinismo.

No davvero, signor D. Questo miracolo si spiega facilmente. In che modo

l’uomo ottenne i princípi di ragionamento che gli consentirono di dedurre le

centinaia di teoremi cui lei si riferisce? Supponiamo, ad esempio, che io

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ragionassi così: poiché tutti gli esseri umani sono fallibili, e poiché tutti i

matematici sono esseri umani, tutti i matematici sono fallibili. In che modo lei

potrebbe determinare se la logica da me usata è corretta? Non verificherebbe forse

i principi implicati mettendoli a confronto con la sua esperienza di classi di

oggetti familiari? In altri termini, signor D., l’uomo impara a ragionare studiando

il comportamento della natura. Egli trova quindi che le conclusioni dei suoi

procedimenti logici sono in accordo con la natura se sono in accordo con la natura

i suoi assiomi. Ma c’è qualche cosa di strano in questa concordanza? Quel che lei

chiama un principio di logica non è altro che una formulazione astratta del

comportamento visibile della natura.

Le difese del signor D. apparvero completamente frantumate. Vedendosi in una

situazione disperata, egli decise di attaccare.

Quale sostenitore della concezione statistica della natura, signor P., che

spiegazione ha per quell’elemento dell’organizzazione della natura che sembra

inconciliabile con la sua posizione? L’energia tende a dissiparsi, cosicché non può

essere imbrigliata per i bisogni dell’uomo; ad esempio, dopo che l’acqua sia

caduta da una certa altezza, si livella e non può più essere usata per la produzione

di energia. Poiché l’energia e disponibile all’uomo sotto forma di calore del Sole,

di carbone, di petrolio, di processi atomici e di cascate, appare che l’energia fu

creata specificamente in forma utilizzabile più di quanto non sia il prodotto di una

disposizione casuale di molecole. Di fatto, la probabilità che una disposizione

quale quella che esiste sulla Terra si sia verificata per caso è più piccola della

probabilità che una scelta arbitraria di un milione di individui produca un gruppo

di persone aventi tutte la medesima statura.

Il signor P. era su un terreno che gli era familiare e perciò si sentiva in grado di

ribattere con sicurezza.

La forza del suo ragionamento, signor D., risiede nel fatto che l’organizzazione

particolare dell’energia che si trova nel nostro pianeta è altamente improbabile. In

realtà è molto improbabile. Ma ora consideriamo una lotteria in cui si vendano

100 000 biglietti, uno dei quali è quello vincente. Le probabilità contrarie alla

vincita sono, per ogni biglietto, 99 999 contro 1. Eppure una persona vince, pur

avendo contro di sé una probabilità così sfavorevole. Concesso dunque che le

condizioni sulla nostra Terra costituiscono una condizione altamente improbabile,

questa condizione è possibile e si è verificata. Di essa non è necessariamente

responsabile un progetto cosciente. Pare inoltre che in cielo ci siano milioni di

pianeti sui quali non si è realizzata quella particolare organizzazione dell’energia

che si trova sulla Terra. Tanto meno sorprendente è dunque che essa si trovi su un

pianeta.

Nonostante il carattere inconfutabilmente definitivo di questa risposta, il

vecchio signor D. sentì ora di aver conseguito almeno una vittoria morale. Egli

aveva costretto il signor P. a concedere che la nostra Terra rappresenta un evento

altamente improbabile. Parendogli che la cosa migliore fosse terminare la

discussione nella posizione più favorevole che era riuscito a procurarsi nel corso

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della lunga conversazione, si scusò dicendo che doveva completare una

dimostrazione di una nuova legge sull’elettromagnetismo.

Forse potremo unirci a loro se riapriranno la loro discussione in futuro. Prima

però di passare a un altro argomento, desideriamo ricordare che fra le due

concezioni, quella che vede nel mondo un’organizzazione ordinata, ben definita, e

quella che vede in esso un caos in cui regna il puro caso, ci sono molti punti di

vista intermedi. Uno di tali punti di vista asserisce che la natura non è né soggetta

a leggi né caotica. La mente umana pensa nei termini di tali punti di vista e

assegna inconsciamente alla natura qualità ad essi conformi, esattamente come

l’uomo crea Dio a sua immagine e somiglianza. La mente possiede in sé il

desiderio di organizzare l’esperienza nella forma di leggi matematiche. Essa

possiede anche concetti come leggi quantitative esatte e forme geometriche esatte

e applica questi concetti all’esperienza, al fine di comprenderla. Le leggi che ne

risultano non esistono affatto nell’universo. Esse non sono altro che proiezioni

naturali del nostro desiderio, riflettendo la natura essenziale della mente e forse

anche le sue limitazioni, così come la descrizione che l’amante fa dell’amata

riflette l’amante.

Non è nostra intenzione esplorare tutte le scuole di pensiero sull’argomento

delle leggi naturali. Esse ricoprono tutta la gamma dal determinismo assoluto al

caos completo. Dobbiamo accontentarci di concludere qui con una riaffermazione

del tema principale, ossia che lo sviluppo di idee e metodi matematici ha

determinato gli atteggiamenti dominanti nei confronti della natura e, di

conseguenza, verso la religione e verso la società.

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XXV. I paradossi dell’infinito

Ammettiamo, in geometria, non soltanto grandezze infinite,

ossia grandezze maggiori di ogni grandezza assegnabile, ma

grandezze infinite infinitamente maggiori l’una dell’altra. Ciò

stupisce la nostra dimensione di cervello, che è lungo solo

circa sei pollici, largo cinque e profondo sei, nelle teste più

grandi.

VOLTAIRE

Tristram Shandy era irrimediabilmente confuso. Aveva cominciato a scrivere la

sua autobiografia e aveva trovato che, scrivendo per un’intera giornata, poteva

mettere per iscritto soltanto le esperienze di mezza giornata. Di conseguenza,

anche se avesse cominciato a scrivere alla sua nascita e anche se fosse vissuto per

sempre non avrebbe mai potuto mettere per iscritto tutta la sua vita, poiché ogni

volta avrebbe potuto affidare alla carta solo metà della sua vita. Eppure, se fosse

vissuto indefinitamente avrebbe dovuto essere in grado di narrare tutta la sua vita

poiché entro la fine del suo ventesimo anno avrebbe descritto i primi dieci, entro

la fine del quarantesimo avrebbe narrato le esperienze dei suoi primi vent’anni di

vita, e così via. Ogni anno della sua vita sarebbe stato perciò descritto in un

qualche tempo. Perciò, a seconda del modo in cui ragionava, avrebbe potuto

completare o no la sua autobiografia. Quanto più a lungo Tristram si rompeva la

testa su questo paradosso, tanto più confuso diveniva e tanto più lontano

sembrava da una soluzione.

L’incapacità di Tristram di risolvere il paradosso era di fatto prevedibile poiché

il suo problema implicava un’estensione di tempo infinita. I massimi matematici e

filosofi dall’Antichità greca in avanti si erano tormentati con problemi implicanti

quantità infinite e non si erano spinti molto avanti. Galileo, ad esempio, riconobbe

che il numero di tutti i numeri interi è infinito; ossia che il numero di tutti i

numeri interi è maggiore di ogni numero finito che possa essere indicato. Egli

riconobbe anche che il numero dei numeri pari anch’esso infinito. Quale di questi

due insiemi infiniti, egli si chiese, quello più grande? Da un lato sembrava che lo

fosse il primo, perché conteneva tutti i numeri del secondo insieme a molti altri.

D’altra parte, a ogni numero del primo insieme corrisponde esattamente un

numero nel secondo, come al 5 corrisponde il 10. Anche a ciascun numero del

secondo insieme ne corrisponde esattamente uno nel primo, come il 10

corrisponde al 5. In considerazione di questa corrispondenza biunivoca fra i due

insiemi dovrebbero esserci tanti numeri nel primo quanti nel secondo. Galileo

concluse che era impossibile stabilire confronti fra quantità infinite e abbandonò

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ogni ulteriore meditazione sull’argomento, affermando che infinità e indivisibilità

ci sono per loro natura incomprensibili. Anche Leibniz considerò la medesima

questione e concluse che la nozione di numero di tutti i numeri interi è in sé

contraddittoria e dovrebbe essere rifiutata.

Non molti anni prima che i problemi dell’infinito venissero finalmente

affrontati con successo, il massimo matematico dell’Ottocento, Karl Friedrich

Gauss, espresse un orrore delle quantità infinite: “Protesto contro l’uso di una

grandezza infinita... che non è mai lecito in matematica.”

Per quanto fosse grande il numero dei matematici che indietreggiarono dinanzi

al pensiero di quantità infinite o che lo ripudiarono, alla metà dell’Ottocento la

matematica non poté più fare a meno del concetto. Nel periodo compreso fra il

1600 e il 1850 la matematica aveva compiuto passi giganteschi. In questa età

eroica grandi avventurieri intellettuali avevano osato superare d’un balzo abissi di

difficoltà per raggiungere fini rivelati loro dal proprio genio e dalla propria

lungimiranza. Questi battistrada si aspettarono che altri costruissero i ponti

destinati a consentire i passi circoscritti dei pensatori più prudenti che sarebbero

seguiti.

Ma i ponti non furono costruiti tanto facilmente. I tentativi di colmare i vuoti

lasciati durante l’età eroica furono frustrati da paradossi, contraddizioni e altri

paradossi. Si sviluppò un bisogno imperativo di pensatori critici dotati di

immaginazione e di audacia di un altro genere, di quel tipo che sapesse mettere da

parte e addirittura infrangere l’intuizione e il “buon senso.” Questo bisogno fu

finalmente soddisfatto. Né gli studiosi più prudenti né i battistrada avrebbero

potuto però prevedere le rivelazioni sorprendenti e profonde prodotte dagli sforzi

critici.

Il primo successo nell’attacco ai problemi dell’infinito fu ottenuto da Georg

Cantor. Il padre lo aveva sollecitato allo studio dell’ingegneria, un’attività più

proficua dell’insegnamento, e Cantor aveva cominciato la sua carriera

occupandosi di problemi molto pratici; alla fine però si dedicò allo studio delle

regioni più astratte della matematica. La sua opera ebbe le accoglienze che

vengono riservate di solito all’innovazione e all’originalità: fu ignorata, messa in

ridicolo e addirittura insultata. Un suo collega matematico, Leopold Kronecker, lo

attaccò con malignità. Un po’ più mite e più tipica delle reazioni suscitate fu

l’osservazione compiuta nel 1908 da Henri Poincaré, il più famoso fra i

matematici della fine dell’Ottocento: “Le generazioni seguenti considereranno la

Mengenlehre [la teoria degli insiemi di Cantor] come una malattia da cui si è

guariti.” I matematici, diciamolo pure, sono spesso non meno illogici, non meno

mentalmente ristretti e non meno egoisti della maggior parte degli uomini. Come

altri uomini dalle idee ristrette, essi celano la loro ottusità dietro la cortina di modi

di pensare stabiliti, lanciando accuse di follia contro uomini che sarebbero

colpevoli di distruggere l’edificio ben ordinato della matematica. Tanto severi

furono gli attacchi scagliati contro la sua opera, che Cantor cominciò a dubitare di

sé, fu colpito da depressione e soffrì di esaurimento nervoso.

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Verso la fine della sua vita (mori nel 1918), il senso eccezionale della sua

logica ebbe finalmente qualche riconoscimento da parte di alcuni colleghi. È

confortante poter opporre all’affermazione di Poincaré citata sopra una fatta

appena poco tempo dopo da David Hilbert, il massimo matematico del nostro

secolo: “Nessuno ci scaccerà dal paradiso che Cantor ha creato per noi.” Oggi

l’opera di Cantor è accettata così generalmente e completamente che molti

profondi matematici si dedicano interamente alla soluzione di ulteriori problemi

che ne conseguono.

Vediamo ora in che modo Cantor affrontò il problema delle quantità infinite.

Gli esempi più familiari di insiemi infiniti sono l’insieme dei numeri interi,

l’insieme delle frazioni e dei numeri irrazionali come 2, 3 e . Ottenere il

numero degli oggetti contenuti in tali insiemi contandoli è impossibile poiché il

processo è infinito. D’altra parte, descriverli come infiniti serve a ben poco poiché

tutto ciò che tale espressione dice è che non sono finiti. Una tale descrizione

contiene altrettanta informazione quanto la frase: il Pithecanthropus erectus non è

una mucca. Dobbiamo sostituire, se possibile, una risposta positiva alla domanda

di quanti oggetti ci siano in un insieme infinito.

Cantor riconobbe ovviamente che il numero di oggetti contenuti in una classe o

insieme infinito non può essere ottenuto attraverso il conteggio. Egli riconobbe

anche il significato profondo di un’altra osservazione apparentemente

superficiale. Supponiamo di avere due classi di oggetti tali che a ciascun oggetto

nella prima classe corrisponda uno ed un solo oggetto nella seconda e viceversa.

Ad esempio, se una squadra di soldati, ciascuno dei quali avesse un fucile,

passasse davanti a noi, ci sarebbe esattamente una corrispondenza fra soldati e

fucili. Tecnicamente, la relazione fra le due classi, soldati e fucili, è descritta

dall’espressione corrispondenza biunivoca (uno a uno). È chiaro che due classi

che hanno fra loro una corrispondenza biunivoca devono contenere lo stesso

numero di oggetti. Inoltre non è necessario contare le classi per raggiungere

questa conclusione.

La grandezza di Cantor risiede nell’aver percepito l’importanza del principio di

corrispondenza biunivoca e nell’audacia da lui dimostrata nel perseguirne le

conseguenze. Se due classi infinite possono esser poste in una corrispondenza

biunivoca, allora, secondo Cantor, contengono la stesso numero di oggetti. Ad

esempio, la classe dei numeri interi positivi

1 2 3 4 5 6 …

e la classe dei numeri reciproci

1 1/2 1/3 1/4 1/5 1/6 …

sono fra loro in corrispondenza biunivoca in virtù del fatto che a ciascun

numero nella prima classe corrisponde uno e un solo numero nella seconda, ossia

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349

il suo reciproco. Analogamente, a ciascun numero contenuto nella seconda classe

corrisponde uno e un solo numero nella prima. Queste due classi contengono

dunque il medesimo numero di oggetti. Il numero di oggetti che rappresenta la

quantità di oggetti in queste classi particolari fu da Cantor designato con 0 (alef-

zero). Esso viene chiamato numero transfinito.

Dire che il numero degli interi positivi, così come il numero di ogni insieme di

oggetti in corrispondenza biunivoca con gli interi positivi, è 0 sembra non

rispondere alla domanda fondamentale di quanti sono gli oggetti contenuti in

ciascun insieme. Il lettore potrebbe dire che il simbolo 0 gli è estraneo e che non

gli dà alcuna informazione sul numero degli interi positivi. L’obiezione non è

valida. Questo numero contiene altrettanta informazione del numero un miliardo

di miliardi. Quest’ultimo numero non è nulla di più di un simbolo che rappresenta

la quantità di oggetti contenuti in una classe particolare, così come 0 rappresenta

il numero degli interi positivi.

Il lettore potrebbe ovviamente replicare che egli può contare gli oggetti

contenuti in un insieme di un miliardo di miliardi, mentre non può contare 0.

Perciò il primo numero significa qualcosa per lui, mentre così non è per il

secondo. La distinzione è corretta ma insignificante. Chi ha mai contato un

miliardo di miliardi di oggetti? Teoricamente è possibile farlo ma teoricamente è

anche possibile assegnare numeri a insiemi infiniti di oggetti. E come la

conoscenza del fatto che due insiemi diversi hanno ciascuno un miliardo di

miliardi di oggetti è precisa e ha un valore, così è precisa e ha un valore la

conoscenza che due insiemi infiniti contengono lo stesso numero di oggetti, un

fatto indicato dall’uso di un medesimo numero per indicare i due insiemi; di fatto,

forse, come vedremo, ha più valore della conoscenza del numero un miliardo di

miliardi.

L’argomentazione a favore della definizione di Cantor è ancora più forte. Non

ha altrettanto significato del numero tre. Questo numero significa qualcosa per noi

perché siamo in grado di evocare facilmente un gruppo di oggetti di cui questo

numero denota la quantità. Per un bambino che sta appena imparando a contare, il

numero tre è però privo di significato. Ma come il bambino comprende il

significato del tre associandolo a tre dita o a tre cubetti, così l’uomo può afferrare

il significato di 0 acquistando familiarità con insiemi contenenti 0 oggetti. La

teoria di Cantor gli consente di stabilire che cosa siano questi insiemi.

Avendo in mente la definizione di Cantor, riconsideriamo la difficoltà che

disorientò Galileo e che bloccò il suo pensiero sulle quantità infinite. Galileo, lo

ricordiamo, riconobbe la corrispondenza biunivoca fra l’insieme di interi positivi

e l’insieme di interi positivi pari e fu incapace di riconciliare questo fatto col fatto

che il primo insieme conteneva tutti i numeri contenuti nel secondo e molti altri

ancora.

La soluzione data da Cantor al dilemma e che l’insieme degli interi positivi e

l’insieme degli interi positivi pari contengono entrambi 0 oggetti, benché la

seconda collezione sia contenuta nella prima. Il numero dei numeri interi e il

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numero dei numeri interi pari è lo stesso perché le due classi di numeri sono fra

loro in corrispondenza biunivoca.

Non è assurdo che la classe degli interi positivi abbia tanti numeri quanti la

sottoclasse degli interi positivi pari? Eppure, se accettiamo come criterio per

decidere sull’uguaglianza numerica fra insiemi infiniti la corrispondenza

biunivoca, dobbiamo accettare anche quest’apparente assurdità. Apparentemente

siamo condotti a contraddizioni che rendono assurdo ogni nostro ragionamento.

Eppure dobbiamo accettare questa situazione e far fronte a un fatto sorprendente.

Nel concetto cantoriano dei numeri infiniti non c’è alcuna difficoltà logica. La

nostra convinzione dell’assurdità dell’affermazione che esistano tanti numeri

interi positivi pari quanti sono i numeri interi positivi è semplicemente

un’abitudine di pensiero che si è formata trattando insiemi finiti di oggetti. Ma

questo modo di pensare, che è utile per le classi finite, non è una guida attendibile

a una comprensione di insiemi infiniti. Ancora una volta, nella storia della

matematica, ci troviamo dinanzi a un conflitto fra pensiero logico e pensiero

tradizionale, e ancora una volta ci troviamo a un bivio. I matematici precantoriani

non furono in grado di sviluppare l’argomento dei numeri infiniti a causa della

loro incapacità di capire che si dovevano abbandonare alcuni modi di pensiero

abituali. Ma i pensatori critici dell’Ottocento non si lasciarono spaventare così

facilmente.

Di fatto essi presero il toro per le corna. Seguendo un suggerimento di

Bernhard Bolzano, professore di filosofia e notevole predecessore di Cantor nello

sviluppo della teoria di classi infinite, un insieme infinito fu definito come un

insieme che poteva esser posto in una corrispondenza biunivoca con una sua parte

mentre ciò non è possibile per un insieme finito. Cosi l’insieme dei numeri interi

positivi e infinito perché esiste una corrispondenza biunivoca fra l’intera classe e i

numeri pari, i quali sono solo una parte di tale classe.

Fig. 76. La corrispondenza biunivoca fra i punti di un segmento unitario e i

punti di una semiretta.

Tutti gli insiemi infiniti possono essere posti in una corrispondenza biunivoca

con gli interi positivi? La risposta è: no. L’insieme di tutti i numeri compresi fra 0

e 1, una classe che include numeri interi, frazioni e irrazionali, non può esser

posta in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi. La

dimostrazione di questo fatto è ottenuta facilmente dimostrando che ogni supposta

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corrispondenza fra gli interi positivi e l’insieme di tutti i numeri compresi fra 0 e

1 conduce a una contraddizione. Tralasciamo però i particolari.

Poiché la classe infinita di tutti i numeri compresi fra 0 e 1 non può esser posta

in una corrispondenza biunivoca con gli interi positivi, i due insiemi non possono

essere uguali in numero. Il numero dei numeri compresi fra 0 e 1 è rappresentato

dal numero transfinito C. Ogni classe di oggetti che possano essere posti in

connessione biunivoca con tutti i numeri compresi fra 0 e 1 deve dunque

contenere anch’essa C oggetti.

Un esempio di un insieme di C oggetti è fornito dai punti contenuti in un

segmento di linea. Consideriamo una linea e un punto fisso O su tale linea.

Associamo a ciascun punto sulla linea il numero che ne esprime la distanza da O,

aggiungendo la condizione che le distanze a destra di O devono essere positive e

quelle a sinistra negative. Esiste, dunque, una corrispondenza biunivoca fra i

numeri compresi fra 0 e 1 e i punti sulla linea a cui sono associati i numeri. Ciò

implica che il numero di questi punti sia C.

Abbiamo definito C come il numero dei numeri reali compresi fra 0 e 1.

Quest’insieme è in una corrispondenza biunivoca con tutti i numeri reali positivi.

Dimostreremo questo fatto geometricamente. L’insieme dei numeri reali è a sua

volta in corrispondenza biunivoca con i punti contenuti in una linea) come l’asse

X usato nella geometria analitica. Poniamo dunque che i punti sulla linea L (fig.

76) e a destra di O rappresentino tutti i numeri reali positivi e che OA sia il

segmento unitario cosicché i suoi punti siano in corrispondenza biunivoca con i

numeri reali compresi fra 0 e 1. Costruiamo un rettangolo come OABC e

tracciamo la diagonale OB. Sia ora P un punto a destra di O. Tracciamo il

segmento CP, il quale intersechi OB in Q. Da Q facciamo discendere una

perpendicolare a L, ottenendo in tal modo P'. In virtù della corrispondenza

determinata mediante la costruzione appena descritta, ogni punto P giacente su L

e a destra di O corrisponde a uno e un solo punto P' in OA. Inversamente, se

partiamo da un qualsiasi punto P' in OA e costruiamo una perpendicolare a OA in

P', questa perpendicolare intersecherà OB ad esempio in Q. Tracciamo poi la CQ

e là dove questa interseca la L avremo il punto P, corrispondente a P'. Poiché i

punti su OA sono in corrispondenza biunivoca con tutti i punti a destra di O e su

L, il numero dei punti contenuti nella OA, così come in tutta la semiretta, è C.

Espresso aritmeticamente, l’insieme dei numeri reali positivi si trova in una

corrispondenza biunivoca con i numeri reali compresi fra 0 e 1 e perciò il numero

dei numeri reali positivi è C.

Il numero dei punti contenuti in un segmento di linea e il numero dei punti

contenuti su un’intera semiretta è lo stesso benché il primo abbia solo una

lunghezza unitaria e la seconda abbia una lunghezza infinita. Di fatto OA potrebbe

avere lunghezza due o qualsiasi altra lunghezza finita e il nostro risultato sarebbe

lo stesso. Perciò il numero di punti contenuti in qualsiasi segmento di linea è

sempre C.

Questa conclusione, come altre stabilite sopra, sembra violare la nostra

intuizione. Quale diritto abbiamo però di attenderci che esista un maggior numero

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di punti sul maggiore di due segmenti di linea? Quale precisa conoscenza su punti

e linee sostiene una tale attesa? La geometria euclidea richiede che ogni segmento

di linea contenga un numero infinito di punti poiché ogni segmento, per quanto

piccolo, può essere bisecato, ma tale geometria non ci dice nulla sul numero di

punti contenuti in un segmento. La teoria di Cantor invece lo fa e ci dice che due

segmenti di linea quali si vogliano, indipendentemente dalla loro lunghezza,

posseggono lo stesso numero di punti. Questa conclusione è non soltanto

logicamente sana ma ci consente anche di risolvere alcune questioni imbarazzanti

circa la natura dello spazio, del tempo e del moto che hanno travagliato i filosofi

per oltre duemila anni.

Le nostre intuizioni dello spazio e del tempo suggeriscono che ogni lunghezza

e ogni intervallo di tempo, non importa quanto piccoli, possono essere sempre

ulteriormente suddivisi. La formulazione matematica di questi concetti tiene conto

di questa proprietà. Ad esempio, ogni segmento di linea può essere bisecato da

una precisa costruzione euclidea. La linea matematica contiene altre proprietà.

Ogni lunghezza consta di punti, ciascuno dei quali è privo di lunghezza; questi

numeri sono inoltre in relazione fra loro come i numeri del sistema dei numeri.

Ora, fra due numeri quali si vogliano esiste un numero infinito di altri numeri; ad

esempio, fra 1 e 2 ci sono 1 1/2, 1 1/4, 1 1/8, e così via. Perciò fra due punti quali

si vogliano su una linea c’è un numero infinito di altri punti. Similmente, il

concetto matematico di tempo considera il tempo composto da istanti, ciascuno

dei quali è privo di durata che si susseguono l’uno all’altro come i numeri del

sistema numerico. Perciò le dodici sono un istante ed esiste un istante

corrispondente a ciascun numero di secondi dopo le dodici che possiamo

nominare. È vero dunque; per gli istanti come per i punti su una linea, che esiste

un numero infinito di istanti fra due di essi quali si vogliano.

In questi concetti matematici di lunghezza e di tempo ci sono difficoltà che

furono segnalate per la prima volta dal filosofo greco Zenone ma che possono

essere risolte ora ricorrendo alla teoria delle classi infinite. Consideriamo una

formulazione a opera di Bertrand Russell del paradosso zenoniano di Achille e

della tartaruga.

Achille e la tartaruga fanno una corsa in cui alla tartaruga, che è lenta, viene

concesso di partire da una posizione più avanzata rispetto al punto di partenza di

Achille. Si conviene che la gara finirà quando Achille raggiungerà la tartaruga. In

ogni istante durante la gara Achille e la tartaruga si trovano in un qualche punto

del loro percorso e nessuno dei due si troverà due volte nello stesso punto. Poiché

essi corrono per lo stesso numero di istanti, la tartaruga passa attraverso tanti

punti distinti quanti Achille. D’altra parte, se Achille deve superare la tartaruga,

dovrà passare per un numero maggiore di punti di quelli per cui passerà la

tartaruga, dal momento che deve percorrere una distanza maggiore. Achille non

raggiungerà perciò mai la tartaruga.

Una parte di quest’argomentazione è valida. Dobbiamo convenire che

dall’inizio alla fine della gara la tartaruga passa per un numero di punti uguale al

numero dei punti per cui passa Achille poiché a ogni istante di tempo della gara

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ciascuno occupa esattamente una posizione. Esiste perciò una corrispondenza

biunivoca fra l’insieme infinito dei punti attraverso cui passa la tartaruga e

l’insieme infinito dei punti attraverso cui passa Achille. Non è però valida

l’asserzione che, dovendo percorrere una distanza maggiore per vincere la gara,

Achille dovrà passare per un numero di punti maggiore del numero dei punti per

cui passerà la tartaruga poiché, come ora sappiamo, il numero di punti sul

segmento di linea che Achille deve percorrere per vincere la gara è uguale al

numero di punti contenuti nel segmento percorso dalla tartaruga. Dobbiamo

nuovamente osservare che il numero di punti su un segmento di linea non ha nulla

a che fare con la sua lunghezza. In altri termini, è la teoria cantoriana delle classi

infinite a risolvere il problema e a salvare la nostra teoria matematica dello spazio

e del tempo.

Nella sua polemica contro la divisibilità infinita dello spazio e del tempo,

Zenone propose altri paradossi che confondevano i suoi avversari e ai quali si può

rispondere in modo soddisfacente solo nei termini delle moderne concezioni

matematiche dello spazio e del tempo e della teoria delle classi infinite.

Consideriamo una freccia in volo. In ogni istante essa si trova in una posizione

precisa. Nell’istante successivo, dice Zenone, essa si trova in un’altra posizione.

Quand’è che la freccia va da una posizione all’altra?

In che modo la freccia riesce ad arrivare a una nuova posizione nell’istante

immediatamente successivo? La risposta è che non esiste nessun istante

successivo, mentre il ragionamento suppone che ci sia. Gli istanti si succedono

l’uno all’altro come i numeri del sistema numerico e come non esiste alcun

numero immediatamente successivo in ordine di grandezza dopo il 2 o dopo il 2

1/2, così non c’è alcun istante immediatamente successivo dopo un istante dato.

Fra due istanti quali si vogliano è compreso un numero infinito di altri istanti.

Questa spiegazione si limita però semplicemente a scambiare una difficoltà con

un’altra. Prima che una freccia possa passare da una posizione a una posizione

vicina, deve passare attraverso un numero infinito di posizioni intermedie, in cui

ciascuna posizione corrisponde a uno degli infiniti istanti intermedi. In che modo

la freccia può riuscire ad arrivare a quella posizione vicina se deve passare per un

numero infinito di posizioni intermedie? Ciò non comporta alcuna difficoltà. Per

percorrere un’unità di lunghezza, un oggetto deve passare per un numero infinito

di posizioni ma il tempo richiesto per farlo potrebbe essere non più di un secondo,

poiché anche un secondo contiene un numero di istanti infinito.

Nel moto della freccia c’è però una difficoltà maggiore. In ogni istante del suo

volo la punta della freccia occupa una certa posizione. In tale istante la freccia

non può muoversi, poiché un istante non ha durata. In ogni istante, perciò, la

freccia è in quiete. Poiché quest’asserzione vale per ogni istante, la freccia che si

muove è sempre immobile. Questo paradosso è quasi sensazionale; esso appare

sfidare la logica stessa.

La teoria moderna degli insiemi infiniti rende possibile una soluzione

ugualmente sensazionale. Il movimento è una serie di stati di quiete. Il moto non è

altro che una corrispondenza fra posizioni e istanti di tempo, posizioni e istanti

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formando due insiemi infiniti. A ogni istante dell’intervallo durante il quale è in

“moto”, un oggetto occupa una posizione definita e si può dire che in quell’istante

esso è in quiete.

Questo concetto matematico di moto soddisfa la nostra concezione del

fenomeno fisico del moto? La nostra intuizione non suggerisce che il moto sia

qualcosa di più del trovarsi un oggetto in posizioni diverse in diversi istanti di

tempo? Anche qui non possiamo fidarci troppo della nostra intuizione. Una

pellicola cinematografica non è altro che una serie di pose proiettate sullo

schermo al ritmo di sedici al secondo. Il film consta, in altri termini, di immagini

immobili presentate all’occhio a un ritmo abbastanza rapido da dare l’illusione del

moto. Questo moto non è dunque altro che una serie di stati di quiete, La teoria

matematica del moto sarebbe più soddisfacente per la nostra intuizione perché

consente un numero infinito di stati di quiete in ogni intervallo di tempo. Poiché

anche questo concetto del moto risolve paradossi dovrebbe essere completamente

accettabile.

Anche l’algebra dei numeri transfiniti possiede alcuni caratteri sorprendenti che

ci aiutano a risolvere altre difficoltà relative alle nostre idee di tempo e di spazio.

Consideriamo le due classi di oggetti (a) e (b):

(a) 1 2 3 4 5 6 7 …

(b) 6 7 8 9 10 11 12 …

Le due classi sono chiaramente in un rapporto biunivoco poiché ciascun

numero nella classe (a) corrisponde a quello sottostante nella classe (b) e

viceversa. Le due classi contengono perciò lo stesso numero di oggetti. Questo

numero è 0 poiché esso è il numero degli interi positivi. La seconda classe

contiene nondimeno 5 numeri meno della prima. Ossia

(1) 0 – 5=0

Il fatto curioso rappresentato dall’equazione (1), ossia che se sottraiamo un

numero finito da una quantità infinita abbiamo ancora la stessa quantità infinita,

fu espresso più drammaticamente, anche se in modo meno stringato, dal poeta

romano Lucrezio, attorno al 50 a.C.

Completa tu pure quante generazioni ti aggrada

ché eterna sempre la morte paziente di prenderti attende

né per un tempo men lungo all’essere quegli sottratto

sarà, che la vita pur dianzi ha lasciato, che quegli che morte

ghermì in un tempo remoto, nel volger lontano degli anni!

Poiché la classe degli interi positivi può essere messa in una corrispondenza

biunivoca con la classe degli interi positivi pari, e poiché ci sono altrettanti interi

positivi pari quanti sono i positivi dispari, il numero di questi interi dispari, così

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come il numero degli interi pari, è 0. La classe di tutti gli interi positivi è

nondimeno esattamente uguale a quella degli interi positivi dispari e pari insieme.

Quest’ultima contiene 0 + 0 ovvero 2 0 oggetti, mentre la classe degli interi

positivi ne contiene 0. Perciò

(2) 0 = 2 0.

Ci interessa molto sapere se potremmo usare il fatto espresso nell’equazione (2)

per risolvere il dilemma di Tristram Shandy presentato all’inizio di questo

capitolo. Tristram era imbarazzato perché riusciva a mettere per iscritto in un

giorno solo metà delle esperienze di un giorno, cosicché anche se fosse vissuto un

numero di armi infinito evidentemente avrebbe potuto descrivere solo metà della

sua vita. D’altra parte, gli era altrettanto chiaro che, se fosse vissuto eternamente,

ogni anno della sua vita avrebbe finito per essere messo per iscritto in qualche

tempo. La teoria matematica delle quantità infinite sostiene quest’ultima

argomentazione. Se egli vivesse 2 0 anni, potrebbe mettere per iscritto 0 anni

della sua vita. Ma vivere 2 0 anni è uguale a vivere 0 anni e pertanto Tristram

potrebbe lasciare ai posteri la sua autobiografia completa.

Equazioni come la (1) e la (2) implicanti 0 ci sembrano scorrette perché

siamo abituati a pensare nei termini di ciò che vale per numeri finiti. Eppure in

esse non c’è niente di illogico. Proprietà valide per numeri finiti non valgono

necessariamente per numeri transfiniti, né è necessariamente vero l’inverso, La

logica di quest’asserzione non è diversa dalla logica consistente nel dire che,

benché cani e gatti siano animali a quattro zampe, ci sono asserzioni vere sui gatti

che non lo sono se riferite ai cani.

Il nostro breve esame del contributo di Cantor allo studio di quantità infinite ha

illustrato alcuni fra i risultati validi a cui la sua teoria ha condotto. Ci sono però

voci anche nell’altra colonna della partita doppia e anche queste meritano qualche

attenzione.

Il concetto fondamentale nello studio di quantità infinite è quello di una

collezione, una classe o insieme di oggetti, come per esempio un insieme di

numeri, un insieme di punti su una linea e un insieme di istanti nel tempo.

Purtroppo questo concetto, apparentemente semplice e fondamentale, è irto di

difficoltà che non abbiamo ancora considerato. Adduciamo alcuni esempi a

sostegno di quest’asserzione.

Il primo esempio è classico. In forme diverse esso appare in molti testi antichi,

compreso il Nuovo Testamento. San Paolo, nella sua Epistola a Tito, dice dei

cretesi: “Uno di essi, che è addirittura un loro profeta, disse: i cretesi sono sempre

bugiardi, male bestie, ventri pigri. Questa testimonianza è vera.” Questa calunnia

contro i cretesi è riportata più comunemente nel seguente modo: “Epimenide il

cretese afferma che i cretesi mentono sempre.” Se Epimenide però ha ragione, sta

dicendo una verità e non è vero perciò che i cretesi mentono sempre. D’altra

parte, secondo la sua asserzione, egli, in quanto cretese, è un bugiardo, e quindi la

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sua asserzione che tutti i cretesi sono bugiardi è una bugia. In entrambi i casi,

Epimenide si contraddice. Evidentemente egli non può fare l’affermazione che

tutti i cretesi sono bugiardi, anche se può essere così. La logica gli chiude la

bocca.

Consideriamo ora il dilemma dell’onesto barbiere del villaggio la cui insegna

proclamava orgogliosamente che benché egli non radesse coloro che si radevano

da sé radeva però tutti coloro che non si radevano da sé. Un giorno, mentre stava

insaponandosi il viso, gli balzò d’improvviso alla mente la domanda se egli stesse

radendosi da sé. In tal caso, egli sarebbe stato uno di coloro che si radevano da sé;

in accordo con la sua insegna non avrebbe dovuto radersi. Se d’altra parte non si

fosse raso da sé, sarebbe stato in contraddizione col suo annuncio in cui si diceva

che egli radeva tutti coloro che non si radevano da sé. In breve, se si radeva da sé

non avrebbe dovuto farlo; se non si radeva da sé avrebbe dovuto farlo. Il povero

barbiere aveva definito una classe di persone che lo includevano e non lo

includevano. Dovremo purtroppo lasciare il nostro barbiere, con la faccia

insaponata e il rasoio alzato, a cavarsela da sé in quest’impiccio.

Una difficoltà affine si trova nell’esempio seguente, piuttosto divertente. La

parola “monosillabo” non è monosillaba mentre la parola “polisillabo” è

polisillaba. La prima non è una descrizione di se stessa mentre la seconda lo è.

Conveniamo di chiamare eterologiche tutte le parole come monosillabo, che non

possono essere applicate come descrizioni di se stesse. Possiamo dire perciò che

ogni parola x è eterologica se x non è a sua volta x. Ma supponiamo che la parola

x sia eterologico. Stiamo dicendo allora che la parola eterologico è eterologica se

eterologico non è in sé eterologico. In altri termini, stiamo dicendo che qualcosa è

qualcosa se non è quel qualcosa. Quasi tutto ciò che si può dire a questo punto è

che qualcosa è sbagliato.

In tutti questi paradossi è implicata una classe distinta di oggetti, la classe dei

cretesi, la classe delle persone che devono essere rase e la classe delle parole

eterologiche. L’analisi dimostra che le affermazioni su queste classi sono in

contraddizione con se stesse. Eppure tali difficoltà furono introdotte nella

matematica dall’uso da parte di Cantor del concetto di classe. Non sorprende

pertanto che la sua opera suscitasse una tempesta di critiche e divenisse oggetto di

fiere controversie.

Spiace dover riferire che le difficoltà non sono state chiarite. Poiché esse

implicano problemi al limite fra logica e matematica, sono stati tentati vari

approcci diversi, ispirantisi ai due campi, ma nessuno si è finora dimostrato

soddisfacente. I matematici sono ora divisi in scuole di pensiero, ciascuna delle

quali sostiene una sua propria filosofia dei fondamenti della matematica.

Si dovrebbe aggiungere che non tutta la matematica è stata messa in

discussione. Inoltre, neppure quelle parti che sono soggette a controversia devono

essere abbandonate, nemmeno temporaneamente. Per fortuna c’è per queste parti

una sanzione pragmatica. Come la legittimità del calcolo infinitesimale veniva

dibattuta proprio mentre esso veniva usato per produrre leggi grandiose, così i

teoremi in discussione vengono applicati e si dimostrano assai utili. La storia del

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calcolo infinitesimale è incoraggiante anche per il fatto che, come le relative

difficoltà furono finalmente risolte, così possiamo aspettarci una soluzione di

quelle correnti.

I dubbi hanno almeno dato ai matematici l’opportunità di criticare la loro

propria opera. Il riconoscimento del fatto che ogni epoca ha il problema di

conferire rigore alle proprie creazioni condusse E. H. Moore, un eminente

matematico americano, a osservare: “Il rigore usato è stato finora sufficiente.”

Altri matematici espressero maggior scetticismo. Una dimostrazione, dice una

canzonatura, ci dice dove concentrare i nostri dubbi. La logica, dice un’altra, è

l’arte di sbagliare con fiducia.

Nonostante i paradossi cui l’opera di Cantor condusse e che rimangono ancora

da chiarire in modo del tutto soddisfacente, molti matematici si sono resi conto

che egli fece l’unico progresso reale che l’uomo è capace di fare. I matematici

creano mediante atti di intuizione, le cui conquiste vengono poi sancite dalla

logica. È l’igiene praticata dalla matematica a tenerne le idee sane e vigorose.

Inoltre l’intera struttura si fonda sostanzialmente su un terreno incerto, le

intuizioni dell’uomo. Qua e là un’intuizione è eliminata e sostituita da un pilastro

di pensiero solidamente costruito; questo pilastro si fonda nondimeno su una

qualche intuizione più profonda, forse meno chiaramente definita. Benché il

processo di sostituire intuizioni con pensieri precisi non muti la natura del terreno

su cui la matematica in ultima analisi si fonda, esso aggiunge però solidità e

altezza alla struttura.

Ci sentiamo costretti a concludere questo capitolo con un avvertimento. Enigmi

e paradossi sono stati tanto in primo piano che il lettore potrebbe considerare la

teoria dei numeri infiniti come un divertissement matematico. Un tale giudizio

sarebbe molto lontano dalla valutazione corretta. Dovremmo vedere piuttosto con

quanta precisione il pensiero sia stato applicato alla forma incerta di una fra le

intuizioni più vaghe e impalpabili. Rendendo precisa la nozione di quantità qual è

applicata a serie infinite di oggetti, Cantor sgombrò il terreno dalle numerosissime

dispute filosofiche che avevano avuto luogo dal tempo di Aristotele fino ai tempi

moderni.

La teoria dei numeri infiniti è soltanto una fra le creazioni dei pensatori critici

dell’Ottocento. Quasi bizzarra nei suoi contenuti, essa è nondimeno sia logica sia

utile. La prossima creazione matematica che esamineremo suonerà ancora più

fantastica ai non iniziati; eppure essa si è rivelata abbastanza legittima da

rivoluzionare il pensiero matematico, scientifico e filosofico. Si ha quasi

l’impressione che i matematici dell’Ottocento fossero costretti ad allontanarsi

sempre più dai normali canali di pensiero al fine di restituire alla matematica quel

rigore che i greci le diedero per primi ma che il Seicento aveva perduto di vista

nella fretta di tenere il passo con l’attività scientifica.

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XXVI. Nuove geometrie, nuovi mondi

Ho fatto scoperte tanto meravigliose da stupirmene io

stesso: dal nulla ho creato un mondo nuovo e diverso.

JÁNOS BOLYAY

Il primo uomo a sfidare Euclide fu Euclide stesso. Il creatore del sistema di

pensiero accettato più ampiamente e più diffusamente – la dimora della verità e il

luogo di nascita di filosofie e scienze – dubitò dei suoi risultati prima ancora di

averli resi noti al mondo. I dubbi di Euclide su se stesso segnarono l’inizio di un

attacco bimillenario, “dietro la scena”, all’ovvio.

È universalmente noto che la geometria euclidea si fonda su cinque postulati la

cui verità è tanto evidente che nessuna persona “sensata” oserebbe metterli in

dubbio. Partendo da questa solida base, una logica impeccabile produsse ulteriori

“verità”, altrettanto affascinanti e immediatamente accettabili degli assiomi. Due

millenni di applicazioni culminati nei successi dell’èra newtoniana aggiunsero

prove praticamente incontrovertibili della loro validità e attendibilità. Un secolo

dopo l’altro sostennero la logica con l’esperienza e il buon senso con la

tradizione, finché il sistema di Euclide acquistò una santità inviolata. Attorno

all’anno 1800 le persone colte avrebbero probabilmente preferito giurare sui

teoremi di Euclide che non su asserzioni contenute nella Bibbia.

Sia che una persona si appellasse all’esperienza, sia che accettasse la filosofia

kantiana, sia che inclinasse all’ovvio, la conclusione inevitabile sembrava essere

che Euclide era la verità e che la verità si identificava con Euclide. Nonostante

questa posizione invidiabile, che la geometria euclidea possedeva fin dal principio

e che il tempo accentuò, alcuni pensatori, incluso Euclide, non erano del tutto a

loro agio. Essi erano disturbati da due postulati apparentemente innocui.

Il primo di essi dice che un segmento di linea può essere esteso a piacere in

entrambe le direzioni. Il secondo è il postulato delle parallele, il quale dice che per

un punto P non giacente su una linea L passa una e una sola linea M (nel piano di

P e di L) che non incontri L per quanto M e L vengano prolungate (fig. 77). Se i

postulati della geometria euclidea sono accettati perché l’esperienza con lo spazio

fisico giustifica la nostra accettazione, allora tali postulati sono soggetti a qualche

dubbio. Nessun uomo ha un’esperienza diretta di ciò che accade nello spazio a più

di alcuni chilometri di distanza dalla Terra. Tutto ciò che possiamo dire in verità è

che tali postulati appaiono esser veri nelle regioni limitare in cui noi di fatto ci

muoviamo. Ma neppure qui possiamo esser certi delle nostre asserzioni poiché,

come abbiamo osservato nel capitolo sulla geometria proiettiva, noi non vediamo

mai linee parallele neppure nella parte di spazio che ci circonda immediatamente.

Quando noi seguiamo con lo sguardo linee che secondo la geometria di Euclide

sono definite parallele, tali linee ci paiono incontrarsi a distanza.

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Fig. 77. Il postulato delle parallele di Euclide (quinto postulato).

Euclide rivela la sua preoccupazione a proposito di questi postulati nel modo in

cui se ne serve. Egli non usa il quinto postulato, che è il più discutibile fra i due,

finché non ha dimostrato tutti i teoremi possibili senza di esso. Egli è altrettanto

prudente circa l’illimitata possibilità di estensione della linea retta. Un esame dei

teoremi della sua geometria dimostra che egli usa segmenti di linea (parti di linea

compresi fra due punti) ma non suppone mai di dover prendere l’avvio da una

linea retta infinita. Quando è necessario, estende un segmento in una direzione o

nell’altra ma solo nella misura richiesta dal teorema. Non se ne dovrebbe inferire

che Euclide dubitasse della verità di questi postulati; ma a causa delle loro

implicazioni, apparentemente gravi, egli avrebbe preferito senza dubbio derivarne

i contenuti come conseguenze di postulati più semplici.

Anche alcuni altri pensatori ipercritici di ogni epoca successiva a quella di

Euclide esitarono a usare come postulati proposizioni su cui pure anche un

ostinato mercante avrebbe scommesso il suo ultimo centesimo. Per eliminare ogni

preoccupazione, questi uomini cercarono di verificare tutti la stessa cosa. Essi si

concentrarono sul quinto postulato e cercarono o di dedurlo dagli altri postulati o

di trovarne un surrogato più accettabile. Centinaia di lodevoli tentativi da parte

dei migliori matematici si conclusero però con fallimenti. Nel 1800 il quinto

postulato era stato etichettato come lo scandalo della geometria.

Non sarebbe gradevole, e neppure troppo utile, passare in rassegna la maggior

parte degli sforzi. Merita però la nostra attenzione l’opera del gesuita Giovanni G.

Saccheri, professore di matematica all’Università di Pavia e audace studioso di

logica. Saccheri ebbe un’idea nuova fiammante. Il suo nuovo approccio al

problema del quinto postulato consisté in effetti nel seguente ragionamento: Data

una linea L e un punto P, allora o (a) per P passa esattamente una parallela a L

oppure (b) per P non passano parallele a L o (c) per P ci sono almeno due

parallele a L. L’alternativa (a) era il postulato delle parallele di Euclide.

Supponiamo che essa fosse sostituita dalla (b) e che quest’ultima, insieme con gli

altri quattro postulati di Euclide, dovesse condurre a teoremi contraddittòri. Allora

sicuramente la (b) non sarebbe corretta. Similmente, se l’uso della (c) e degli altri

postulati euclidei avesse condotto a teoremi contraddittòri, allora l’alternativa (c)

sarebbe stata inevitabilmente erronea. Ne sarebbe allora seguito che il postulato

delle parallele di Euclide è l’unico possibile.

Usando la (b) insieme con gli altri postulati euclidei, Saccheri dedusse teoremi

che si contraddicevano l’un l’altro. Egli non riuscì però a dedurre contraddizioni

dall’uso dei quattro postulati euclidei e dell’assioma alternativo postulante

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l’esistenza di almeno due parallele. Benché i suoi sforzi fossero precisi ed estesi, e

benché alcune sue deduzioni fossero di fatto strane se confrontate con risultati

analoghi ottenuti da Euclide, non emersero contraddizioni.

Saccheri era sulla soglia di una scoperta fondamentale, ma si rifiutò di

oltrepassarla. Lasceremo per il momento al lettore il compito di determinare la

conclusione che Saccheri avrebbe dovuto dedurre dall’impossibilità da lui

riscontrata di dedurre contraddizioni. Quanto a Saccheri, era così impreparato agli

strani teoremi che derivò dal suo insieme di postulati che stabilì che il quinto

postulato di Euclide doveva esser vero. Conformemente a queste opinioni, nel

1733 pubblicò i suoi risultati in un libro intitolato Euclides ab omni naevo

vindicatus (Euclide preservato da ogni macchia). Evidentemente quando un uomo

si propone di riscattarne un altro lo fa senza badare troppo per il sottile ai fatti.

Una spiegazione dell’insuccesso di Saccheri oltre che di molti altri è che, per

quanto grandi fossero i matematici che affrontarono il problema del quinto

postulato, nessuno fu abbastanza sottile da riconoscere e rifiutare un abito di

pensiero bimillenario. Ma nel mondo matematico dell’inizio dell’Ottocento ebbe

luogo nell’ambiente intellettuale un mutamento che portò con sé un esame critico

radicale delle convinzioni fondamentali. Questo mutamento spiega indubbiamente

come mai tre uomini – Gauss, Lobačevskij e Bolyai –, che non si conoscevano fra

loro, scoprissero la corretta interpretazione dell’opera di Saccheri press’a poco

nello stesso tempo; Lobačevskij e Bolyai pubblicarono i loro risultati a pochi anni

di distanza l’uno dall’altro.

Il più grande di questi tre uomini fu Carl Friedrich Gauss, la cui statura

intellettuale può essere paragonata a quella di Newton e di Archimede. Carl rivelò

una precocità incredibile in molti campi e una predilezione particolare per la

matematica. Quando, ancora giovanissimo, dimostrò che il poligono regolare di

17 lati potrebbe essere costruito con riga e compasso, ne fu così felice che

abbandonò l’intenzione di diventare un filologo per studiare la matematica. Egli

contribuì ben presto con opere magistrali a molti settori della disciplina e si mise

in luce anche come inventore e sperimentatore. Benché i suoi contributi non

fossero meno numerosi e meno profondi di quelli di altri matematici, Gauss era

estremamente modesto. “Se altri”, egli scrisse, “riflettessero con tanta profondità e

continuità sulle verità matematiche come ho fatto io, farebbero le mie stesse

scoperte.” Coloro che credono che il genio sia al 99 per cento sudore e anche

quelli che disperano nelle proprie abilità matematiche possono trovar conforto

nell’asserzione di Gauss.

Gauss era molto giovane quando il problema del postulato delle parallele

attrasse per la prima volta la sua attenzione. Dapprima si impegnò molto nel

tentativo di sostituirlo con un assioma più semplice, senza però riuscirvi. Seguì

poi la linea di pensiero di Saccheri, adottando un postulato delle parallele che

contraddiceva quello euclideo – sostanzialmente la terza alternativa di Saccheri –

e deducendo conseguenze dal nuovo postulato e dagli altri nove di Euclide. Come

Saccheri, pervenne a teoremi strani. Invece di lasciarsi spaventare dalla stranezza,

Gauss combatté il fuoco col fuoco. Egli trasse la conclusione nuovissima e

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sbalorditiva, che matematici grandi e quasi grandi non avevano considerato, che

possono esistere altre geometrie, altrettanto valide di quella di Euclide.

Gauss ebbe il coraggio intellettuale di creare una geometria non euclidea ma

non il coraggio morale di affrontare le folle, le quali ne avrebbero definito pazzo

il creatore, poiché gli scienziati dell’inizio dell’Ottocento vivevano all’ombra di

Kant, la cui solenne dichiarazione che non poteva esistere altra geometria oltre a

quella euclidea dominava il mondo intellettuale. L’opera di Gauss sulla geometria

non euclidea fu trovata fra le sue carte dopo la sua morte.

Degli altri due uomini cui spetta l’onore di aver creato una geometria non

euclidea, il primo fu il geniale Nikolaj Lobačevskij. Nato nel 1793 da una povera

famiglia russa, studiò all’Università di Kazan e all’età di ventitré anni vi ottenne

una cattedra. Anche Lobačevskij fu attratto dal problema dell’assioma delle

parallele. Egli dichiarò di essere stato colpito dal fatto che duemila anni di sforzi

dei massimi matematici non erano riusciti a produrre un assioma migliore. Così,

come Saccheri e Gauss, costruì una nuova geometria sulla base di un postulato

delle parallele che contraddiceva quello euclideo. I teoremi quasi incredibili cui

giunse non lo scoraggiarono, più di quanto avessero fatto con Gauss. Un

ragionamento logico lo aveva condotto ad essi e un ragionamento logico era una

guida ineccepibile. Così anche Lobačevskij affermò la conclusione radicale ma

inevitabile: ci sono geometrie diverse da quella di Euclide e altrettanto valide.

L’uomo che condivide con Lobačevskij l’onore della scoperta e il coraggio di

aver pubblicato la sua opera sulla geometria non euclidea è l’ungherese János

Bolyai. Come gli altri due fu favorito dagli dèi e inoltre fu incoraggiato e coltivato

dal padre Farkas, anch’egli matematico. Lo stesso Farkas era stato attratto dal

postulato delle parallele e aveva speso invano molti anni a lavorare su di esso.

Egli lo trasmise in eredità al figlio, il quale nel 1825, all’età di ventitré anni, vide

improvvisamente la luce. Ci sono postulati contraddicenti Euclide, egli dichiarò, i

quali possono servire nondimeno di base per nuove geometrie. János procedette a

costruirne una. Sollecitato dal padre, pubblicò la sua opera nel 1833 sotto forma

di un’appendice al testo del padre.

Come furono accolti i documenti fondamentali di Lobačevskij e Bolyai? In che

modo gli scienziati reagirono alla notizia sensazionale che ora la geometria

euclidea aveva rivali? In che modo i filosofi, nella loro razionalità, salutarono la

completa confutazione della filosofia dominante del tempo? Le opere di

Lobačevskij e di Bolyai furono ignorate completamente. Inoltre nel 1847

Lobačevskij fu congedato dall’Università, nonostante i suoi brillanti contributi e

una devozione disinteressata al suo lavoro. Se Bolyai fosse stato un professore, e

non un ufficiale dell’esercito austriaco, avrebbe potuto subire la stessa sorte.

Una trentina d’anni dopo la pubblicazione delle opere fondamentali di

Lobačevskij e di Bolyai, fu pubblicata postuma, insieme ad altri scritti, la

corrispondenza di Gauss sulla geometria non euclidea. Il nome di Gauss attrasse

l’attenzione sull’argomento e poco tempo dopo il mondo matematico cominciò a

leggere Lobačevskij e Bolyai.

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Fig. 78. La parallela di Euclide come linea limite unica.

Per apprezzare nel suo giusto valore la loro opera sul problema del postulato

delle parallele dobbiamo fare un passo indietro. Consideriamo una linea retta L

(fig. 78) e un punto P non giacente su di essa. Il quinto postulato di Euclide

afferma che per P passa una e una sola linea K che non incontri L. Ora sia Q un

punto su L. Man mano che Q si sposta verso destra, la linea PQ ruota in senso

antiorario attorno a P e sembra approssimarsi alla linea K. Analogamente, man

mano che Q si muove su L verso sinistra, la linea PQ ruota in senso orario attorno

a P e si avvicina di nuovo a K. In entrambi i casi, quindi, PQ si avvicina a una e

medesima linea limitante K.

Bolyai e Lobačevskij supposero invece che le due posizioni limitanti di PQ non

siano la stessa linea K bensì due linee diverse passanti per P, e che queste linee

limitanti, M e N (fig. 79), non incontrino L. Essi supposero inoltre che ogni linea

passante per P e compresa fra M e N, come la J, non incontri la L. Il postulato

delle parallele di Bolyai e di Lobačevskij afferma perciò l’esistenza di un insieme

infinito di parallele a L passanti per P. (Questi uomini riservarono la parola

“parallela” alle sole linee limitanti M e N, ma noi la useremo per denotare ogni

linea passante per P che non incontri L.)

Fig. 79. Il postulato delle parallele di Lobačevskij e di Bolyai.

Il lettore penserà forse, come i matematici dell’epoca di Bolyai e di

Lobačevskij, che si tratta di un assunto ridicolo. Il diagramma suggerisce che M e

N incontreranno L se tutt’e tre le linee vengono prolungate a sufficienza.

Ricordiamo, nondimeno, che Bolyai e Lobačevskij erano interessati a ritrovare un

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postulato che, descrivesse o no lo spazio in cui crediamo di vivere, fosse

un’alternativa logica a quello di Euclide. E poiché i teoremi che dovevano essere

derivati da tale assunto e dai restanti postulati euclidei sarebbero dipesi solo dal

ragionamento e non dall’accordo con figure, il fatto che l’assunto non

corrispondesse a sensazioni visuali è irrilevante.

Quali teoremi Bolyai e Lobačevskij riuscirono a provare con i loro assunti? È

ovvio che tutti i teoremi della geometria euclidea dimostrati senza ricorrere

all’uso del postulato euclideo delle parallele sono validi, automaticamente, anche

nella geometria di Bolyai e di Lobačevskij, poiché essi conservarono gli altri

postulati euclidei. Come esempi di tali teoremi possiamo citare: gli angoli retti

sono uguali; da un punto P si può tracciare solo una perpendicolare a una linea

retta; e, in un triangolo con lati uguali, gli angoli opposti a questi lati sono uguali.

La situazione è invece sorprendente per quei teoremi della geometria di Bolyai

e di Lobačevskij che dipendono dal loro postulato delle parallele e che perciò non

si trovano in Euclide. Questi teoremi, dimostrati, come tutti i teoremi matematici,

con i metodi di ragionamento deduttivo familiari al lettore, non traggono grande

utilità dalle figure, a differenza di quanto avviene nella geometria euclidea,

nell’illustrazione dei passaggi della dimostrazione o dei significati dei teoremi.

Particolarmente inaspettato è il teorema che la somma degli angoli di ogni

triangolo è sempre meno di 180°. Inoltre, di due triangoli, quello che ha l’area

maggiore ha una somma degli angoli minore. Ancor più sorprendente è il fatto

che la nuova geometria annulla un concetto vitale della geometria euclidea, ossia

che due figure geometriche possono avere la stessa figura ma dimensioni diverse.

Diciamo, in tal caso, che le due figure sono simili ma non congruenti. Nella nuova

geometria due triangoli simili devono essere anche congruenti. Come ultimo

esempio di un nuovo teorema, menzioniamo il seguente: la distanza fra due linee

parallele si approssima a zero in una direzione lungo le linee e diventa infinita

nell’altra direzione.

Bolyai e Lobačevskij erano riusciti a costruire una geometria nuova con molti

teoremi sorprendenti. Ma la loro opera era semplicemente un esercizio di logica e

niente di più? Dobbiamo innanzitutto renderci conto del fatto che centinaia di

deduzioni nella nuova geometria avevano prodotto teoremi tutti coerenti l’uno con

l’altro. Ciò significava che il vecchio postulato delle parallele non poteva essere

dedotto dagli altri nove postulati, altrimenti l’assunzione del nuovo teorema

avrebbe condotto sicuramente a contraddizioni nel sistema. Non era del resto una

novità il fatto che il quinto postulato di Euclide non poteva essere dedotto da altri

postulati euclidei. Questo fatto era già stato sospettato in precedenza.

La seconda implicazione nell’opera di Bolyai e di Lobačevskij era invece una

novità assoluta. Essa era che non potremmo sperare di stabilire la verità

incontrovertibile del postulato euclideo delle parallele dimostrando che ogni

alternativa condurrebbe a contraddizioni. Era chiaro perciò che nessuno dei due

sistemi usati da matematici anteriori per giustificare il postulato delle parallele

avrebbe mai avuto successo.

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Ma il massimo significato della nuova geometria fu del tutto inatteso. Benché si

trattasse indiscutibilmente di un esercizio logico, nella mente della gente

persisteva la conclusione: Ci sono geometrie diverse da quella di Euclide. Un

matematico in possesso di questa conoscenza era come bambino con in mano una

carabina ad aria compressa. La tentazione di usarla era troppo forte per resistere.

La geometria euclidea era nota come una descrizione esatta dello spazio fisico. La

geometria non euclidea di Bolyai e Lobačevskij, d’altra parte, non sembrava fosse

applicabile allo spazio fisico né fosse destinata a essere applicata ad esso ma

poteva esserlo?

Le prime reazioni a questa domanda sono generalmente negative. Se la

geometria euclidea è valida, come può esserlo anche questa nuova geometria in

conflitto con essa? Inoltre, come possono essere assurdi teoremi che si applicano

al nostro mondo familiare? Una breve riflessione indica che le prime reazioni

possono essere troppo frettolose. Quale garanzia abbiamo del fatto che la

geometria euclidea sia giusta? È vero che è stata usata per migliaia di anni. Essa

ha a suo favore anche abitudini di pensiero stabilite da molto tempo. Ma

ricordiamo anche le ragioni che aveva lo stesso Euclide per considerare con

preoccupazione il quinto postulato. Non era forse vero che esso fu

un’affermazione su regioni dello spazio lontanissimo dall’esperienza quotidiana

dell’uomo, uno spazio così vasto che le regioni accessibili sono al confronto

soltanto un punto sulla superficie della Terra? Chi di noi conosce la geometria

dell’universo in prossimità di Marte o anche solo 15 chilometri al di sopra della

superficie della Terra? Con quale diritto supponiamo che essa debba essere quella

stessa che sembra applicarsi sulla Terra? La geometria euclidea potrebbe non

esser meglio delle centinaia di leggi scientifiche che erano abbastanza utili al loro

tempo ma che dovettero infine essere abbandonate.

Dopo aver considerato attentamente questo problema, Gauss suggerì un criterio

per determinare la verità della geometria euclidea. La somma degli angoli di un

triangolo è di 180° nella geometria euclidea ma è meno di 180° nella nuova

geometria. La misurazione degli angoli di un triangolo avrebbe pertanto potuto

stabilire quale geometria si adatti al mondo fisico. Doveva essere scelto un

triangolo grandissimo, per due ragioni. Innanzitutto l’errore di misurazione è

maggiore in un triangolo più piccolo. In secondo luogo, un teorema della

geometria di Lobačevskij e di Bolyai dice che la somma degli angoli di un

triangolo si approssima a 180° man mano che le dimensioni di un triangolo si

riducono. Per un triangolo piccolo la somma potrebbe essere così prossima a 180°

che gli strumenti di misurazione potrebbero non essere sensibili alla differenza.

Gauss stesso esegui l’esperimento. Egli collocò tre osservatori sulla vetta di tre

montagne. Ciascun osservatore misurò l’angolo formato dalle sue linee visuali

dirette agli altri due osservatori. La somma degli angoli del triangolo risultò

inferiore di 2" a 180°, con una differenza così piccola da poter essere imputata a

errori di misurazione. Perciò l’esperimento non risultò decisivo.

L’aspetto irritante dell’esperimento del triangolo di Gauss consisteva nel fatto

che, anche nelle migliori condizioni sperimentali, esso non potrebbe mai

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dimostrare che lo spazio è euclideo poiché, anche se la somma degli angoli

dovesse dare 180°, si dovrebbe concedere la possibilità di errori di misurazione e

quindi la possibilità che la somma esatta sia inferiore a 180°. Di fatto

l’esperimento implicava due assunti ingiustificati, ciascuno dei quali avrebbe

potuto invalidare una conclusione tratta da esso. Il primo era che il triangolo

formato dalle tre vette di montagne fosse abbastanza grande da dare un risultato

decisivo. Il secondo assunto era che i raggi di luce che formavano i lati del

triangolo seguissero traiettorie rettilinee. I raggi possono in effetti incurvarsi

leggermente ma in misura percettibile.

Se l’esperimento di Gauss può esser messo da parte come un esperimento

interessante ma non conclusivo, merita ancora attenzione la questione più vasta

dell’applicabilità della geometria non euclidea. Il fatto sorprendente che emerge

da ogni tentativo di decidere quale delle due geometrie si adatti allo spazio fisico

è che entrambe si adattano ugualmente bene. Abbiamo già accennato che la

nuova geometria afferma che in un triangolo piccolo la somma degli angoli

dev’essere assai prossima a 180° e che quanto più piccolo è il triangolo tanto più

prossima a 180° dev’essere la somma degli angoli. Se applicassimo la geometria

non euclidea e, in base ad essa, usassimo somme degli angoli leggermente

inferiori a 180°, non ci imbatteremmo in alcun inconveniente dal punto di vista

pratico. Analogamente, nessun inconveniente insorgerebbe se supponessimo che,

dato un punto P e una linea L, per il punto P, e nel piano di P e di L, passa un

numero infinito di parallele a L.

Potremmo pensare che la nuova geometria non possa essere applicata al mondo

fisico perché essa asserisce che triangoli simili devono essere congruenti. Certo

sembra possibile costruire due triangoli fisici che siano simili ma non congruenti.

Di fatto, un triangolo potrebbe essere costruito molto grande e l’altro molto

piccolo. Per quanto grande sia però la precisione con cui i due triangoli vengono

costruiti, non potremmo esser certi che essi siano realmente simili, ossia che gli

angoli corrispondenti siano esattamente uguali. Il triangolo più piccolo potrebbe

avere una somma degli angoli più grande, in accordo con la nuova geometria non

euclidea, ma la differenza potrebbe non essere misurabile. Perciò, a tutti i fini

pratici non avrebbe alcuna importanza l’accettazione o meno di quanto afferma la

nuova geometria. In altri termini, non c’è alcun modo per stabilire quale

geometria si applichi allo spazio fisico ed entrambe possono essere applicate. I

nostri pregiudizi e le nostre abitudini di pensiero sono favorevoli alla geometria

euclidea, la quale è probabilmente anche un po’ più semplice della geometria non

euclidea. Queste ragioni preferenziali non confutano però l’applicabilità della

nuova geometria.

Indubbiamente a questo punto il lettore non è soddisfatto. Egli desidera forse

che gli vengano presentati altri argomenti, che dimostrino l’applicabilità della

geometria non euclidea al mondo fisico.

Torniamo a considerare per un momento la geometria euclidea. Immaginiamoci

un foglio di carta enorme, che si estenda indefinitamente in tutte le direzioni.

Questo foglio di carta è un’illustrazione fisica del piano matematico, il piano in

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cui valgono i teoremi della geometria euclidea. Supponiamo ora di modificare la

forma di questo enorme piano di carta incurvandone un po’ verso l’alto i lati

destro e sinistro (fig. 80), in modo che esso formi una superficie curva, la quale

continui nondimeno a estendersi indefinitamente in tutte le direzioni, come il

piano originario. Una tale superficie è nota come superficie cilindrica. In séguito

al mutamento di forma, la maggior parte delle linee rette del piano precedente

diventano linee curve le quali, come le linee rette del piano, sono le traiettorie più

brevi fra i punti che esse congiungono sulla superficie. Chiamiamo tali curve

geodetiche. Due linee rette che erano parallele nel piano diventano geodetiche

parallele, ossia geodetiche che non si incontrano nella superficie. I triangoli del

piano originario diventano figure formate da archi di geodetiche sulla superficie.

Chiameremo anche queste nuove figure “triangoli.” I cerchi del piano danno

origine a figure che chiameremo “cerchi”.

Fig. 80. Nuova interpretazione visiva della geometria euclidea.

Passiamo ora a un fatto davvero sensazionale. Ogni postulato della geometria

euclidea vale per le figure sulla superficie cilindrica, a una condizione: che

interpretiamo le parole linea, triangolo e cerchio come abbiamo suggerito sopra.

Perciò i teoremi della geometria euclidea che seguono dai postulati mediante un

ragionamento deduttivo, un processo del tutto indipendente dalle figure che

possiamo tracciare, valgono anche per figure sulla superficie incurvata. Per fare

un esempio, la somma degli angoli di un “triangolo” sulla superficie è di 180°.

Il lettore potrebbe obiettare a tale ragionamento che le linee rette e le figure

definite nei termini di linee rette non posseggono più il loro proprio significato;

esse hanno perduto la loro rettilinearità. Ora, però, traiamo vantaggio da un fatto

su cui abbiamo insistito per la prima volta nel capitolo quarto, ossia che i concetti

fondamentali della geometria, come punto e linea, sono indefiniti. Noi usiamo

soltanto le proprietà di questi concetti che sono formulate esplicitamente negli

assiomi. Perciò, se una nuova immagine fisica della linea ha, ad esempio, le

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proprietà richieste dai postulati, è possibile adottare questa nuova immagine. È

perciò logicamente giustificabile associare all’intera geometria euclidea

un’immagine fisica del tutto nuova.

L’argomentazione che abbiamo presentato ora per la nuova interpretazione

fisica della geometria euclidea si applica anche alla geometria non euclidea. E se

noi traiamo vantaggio dalla nostra libertà di scegliere l’interpretazione fisica della

linea e di altre figure, otteniamo un’interpretazione intuitivamente accettabile

della nuova geometria.

La figura 81 illustra una superficie nota come pseudosfera. Le curve che sulla

pseudosfera sono i percorsi più brevi fra punti sulla superficie – anche queste

curve speciali sono chiamate geodetiche – hanno le proprietà che le linee rette

posseggono nei postulati di Lobačevskij e Bolyai. Ad esempio il postulato che

due punti determinano una e una sola linea retta si applica anche a queste

geodetiche. Due punti sulla pseudosfera (C e D nella fig. 81) determinano una e

una sola geodetica, o percorso minimo, fra di essi. Similmente il postulato delle

parallele di Lobačevskij e Bolyai, il quale dice che per un punto P non giacente su

una linea L passa un numero infinito di linee che non incontrano L, si applica

anche alle geodetiche sulla pseudosfera.

Fig. 81. Interpretazione visiva della geometria non euclidea di Lobačevskij e di

Bolyai.

Poiché i postulati di Lobačevskij e di Bolyai si adattano alle geodetiche sulla

pseudosfera, ad esse devono applicarsi anche i teoremi, in quanto conseguenze

logiche dei postulati. Così il teorema secondo cui la somma degli angoli di un

triangolo è meno di 180° vale anche per il triangolo CDE formato dagli archi di

geodetica. Abbiamo perciò ottenuto una visualizzazione della geometria non

euclidea al costo di un mutamento minimo e giustificabile nell’immagine della

linea retta.

Avendo trovato un “senso” nella nuova geometria, torniamo a considerare il

problema originario. La nuova geometria può descrivere il mondo fisico in cui

viviamo? La risposta, come il lettore può avere immaginato, è che la geometria

dello spazio fisico dipende dal significato fisico che attribuiamo al concetto di

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linee rette. L’esperienza ci dice che se per linea retta si considera una cordicella

tesa, la geometria euclidea si applica ad essa assai bene. Non è però necessario né

desiderabile che per linea retta intendiamo una cordicella tesa in tutte le sue

applicazioni fisiche. Consideriamo per un momento persone che vivono in un

paese montano e che siano interessate alla geometria della superficie del loro

paese. L’interpretazione fisica più utile della linea retta è per esse quella della

geodetica, ossia la curva corrispondente alla distanza minima fra due punti. Il

primo fatto sorprendente a proposito di queste linee “rette” è che esse mutano

figura da una parte del paese all’altra, a seconda delle figure delle colline e delle

valli. A quali assiomi obbediscono queste “linee rette”? Quasi certamente non a

quelli euclidei. Ad esempio, la topografia di tale area può essere tale che ci siano

vari percorsi minimi fra alcune coppie di punti. Possono esserci molte geodetiche

passanti per un punto dato le quali non incontrino una geodetica particolare, e così

via.

Anche nelle misurazioni astronomiche la corda tesa non è l’interpretazione

pratica della linea retta. Qui dobbiamo servirci invece del raggio di luce. Ora, qual

è la geometria che meglio si adatta quando i raggi di luce vengono usati come

linee rette? Lasceremo che per il momento il lettore mediti da sé su questo

problema, che riprenderemo nel prossimo capitolo, e torniamo alla nostra

esperienza della geometria non euclidea. Ci sono infatti vari mondi matematici da

esaminare.

Lobačevskij e Bolyai concentrarono la loro attenzione sul postulato delle

parallele ma accettarono un altro postulato euclideo che è quasi altrettanto

discutibile, ossia quello che dice che un segmento di linea può essere esteso

indefinitamente in entrambe le direzioni. Anche qui ci imbattiamo in un assunto

che ha la pretesa di descrivere ciò che accade nello spazio a trilioni di chilometri

di distanza dalla nostra Terra. In che modo possiamo esser certi della sua verità,

ossia della sua applicabilità al mondo fisico?

Non molto tempo dopo l’opera di Bolyai e Lobačevskij sul concetto di

parallela, lo sguardo penetrante dei matematici fece luce sull’infinità della linea

retta e cercò di determinare la sapienza di quest’assioma. Il malaticcio e precoce

Bernhard Riemann (1826-1866), che aveva chiesto al padre, un pastore luterano

tedesco, il permesso di abbandonare il seminario e di studiare matematica, si

dedicò all’esame di possibili alternative a questo postulato.

Una fra le sue nuove idee fu che dobbiamo distinguere fra mancanza di limiti e

infinità. Ad esempio, l’equatore sulla Terra non ha un limite ma è finito. In

considerazione di questa distinzione, Riemann propose un’alternativa al postulato

di Euclide sull’infinità della linea retta, secondo la quale tutte le linee hanno una

lunghezza finita ma sono prive di un limite.

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369

Fig. 82. La base geometrica del postulato delle parallele di Riemann.

Questo pensiero fu seguito da riflessioni sul postulato delle parallele che erano

simili a quelle di Lobačevskij e di Bolyai ma che in questo caso condussero a una

conclusione diversa. Quando R si muove verso sinistra lungo L (fig. 82) e Q si

muove verso destra, i due punti devono in definitiva incontrarsi poiché Riemann

supponeva che la linea L sia finita. La linea PR ruoterà dunque attorno a P fino a

incontrare la linea PQ, senza però mai perdere il contatto con L. Ossia per P non

dovrebbe passare alcuna linea parallela a L. La figura 82 non ci dice in che modo

questa rotazione completa di PR attorno a P sia possibile con la nostra concezione

usuale della linea retta, ma il disegno non vuol far altro che suggerire il pensiero

di Riemann. Queste riflessioni suggerirono a Riemann l’opportunità di adottare,

assieme alla finitezza della linea retta, un postulato che negasse l’esistenza di

linee parallele.

Come se queste due discordanze da Euclide non fossero sufficienti, Riemann

ne propose una terza: invece di supporre che due punti determinino una e una sola

linea, Riemann adottò il postulato che due punti possono determinare più di una

linea.

Fig. 83, Tutte le linee perpendicolari a una linea retta si incontrano in un

punto.

Prima di procedere oltre ricordiamo al lettore che questi assiomi devono essere

accettati per il momento semplicemente come la base di uno sviluppo logico di

una nuova geometria. Considereremo invece più avanti la relazione fra questo

sistema alquanto arbitrario e il mondo reale.

La geometria di Riemann, come quella di Lobačevskij e di Bolyai, ha alcuni

teoremi in comune con Euclide. Il teorema che angoli retti siano uguali e il

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teorema che angoli opposti a lati uguali di un triangolo sono anch’essi uguali vale

in tutt’e tre le geometrie, poiché questi teoremi dipendono solo da assiomi comuni

a tutt’e tre le geometrie.

Alcuni teoremi della geometria di Riemann che differiscono da quelli di

Euclide sono sorprendenti. Ad esempio: tutte le linee perpendicolari a una linea

retta si incontrano in un punto (fig. 83). Un altro fatto che si presenta in questo

strano mondo è che due linee rette delimitano un’area (fig. 84). Come nella

geometria di Lobačevskij e di Bolyai, troviamo che triangoli che sono simili sono

anche congruenti. Altri due teoremi potrebbero quasi essere previsti. Il primo dice

che la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180° gradi, il secondo

dice che, di due triangoli, quello con superficie maggiore ha la somma degli

angoli maggiore.

Fig. 84. Due linee rette delimitano un’area.

Possiamo ora porre la medesima domanda che abbiamo sollevato in relazione

alla geometria di Lobačevskij e di Bolyai. La geometria di Riemann ha qualche

significato oltre a quello di un esercizio intellettuale per i matematici? Anche qui

la risposta è: sì. È possibile applicare la geometria di Riemann al mondo fisico

con la solita interpretazione della linea retta e non scoprire mai differenze fra le

asserzioni della geometria e la situazione fisica. L’argomentazione è anche in

questo caso esattamente la stessa che nel caso della geometria di Lobačevskij e di

Bolyai.

Modificando, inoltre, la nozione della linea retta, possiamo trovare altre

interpretazioni, intuitivamente soddisfacenti, della geometria di Riemann. Così

come avevamo potuto rappresentare la geometria euclidea su una superficie

cilindrica e la geometria di Lobačevskij e di Bolyai su una pseudosfera, così

possiamo rappresentare la geometria di Riemann sulla sfera che ci è familiare. La

curva che unisce due punti su una sfera col percorso più breve – ossia la curva che

sarà la nostra immagine della linea retta – è l’arco del cerchio massimo che passa

per i due punti. Per cerchio massimo intendiamo un cerchio il cui centro sia anche

il centro della sfera. Così, dei due cerchi che passano per A e per B (fig. 85), il

cerchio ABCDE è un cerchio massimo, mentre il cerchio ABFGH non lo è.

Vediamo se i postulati della geometria di Riemann si applicano alla sfera,

interpretando naturalmente la linea retta dei postulati nel senso del cerchio

massimo sulla sfera. In primo luogo, i cerchi massimi sono illimitati e di

lunghezza finita. In secondo luogo, sulla sfera non esistono linee parallele, poiché

tutti i cerchi massimi si incontrano. Di fatto, essi s’incontrano non una volta sola

bensì due. Ad esempio, i cerchi massimi ABCDE e MNPD si incontrano in N e D.

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L’assioma che due punti possono determinare più di una linea è anch’esso

realizzato sulla sfera. Per due punti quali N e D nella figura 85 passa più di un

cerchio massimo, mentre per due punti come A e B passa solo un cerchio

massimo.

Fig. 85. Un’interpretazione visiva della geometria di Riemann.

Poiché i postulati della geometria riemanniana descrivono correttamente fatti

concernenti la sfera, devono essere validi sulla sfera anche i teoremi derivati da

essi mediante un ragionamento deduttivo valido.

Fig. 86. Tutte le linee perpendicolari a un cerchio massimo di una sfera si

incontrano in un punto.

Esaminiamone alcuni. Un teorema dice che tutte le perpendicolari a una linea

retta si incontrano in un punto. Considerando il cerchio massimo L della figura 86

come la nostra linea retta, troviamo che tutte le perpendicolari a L si incontrano in

P. Se, ad esempio, L fosse l’equatore terrestre, P sarebbe il polo nord o sud.

Un altro teorema dice che la somma degli angoli di un triangolo è più di 180°.

Poiché le linee rette dei nostri postulati sono cerchi massimi, un triangolo è la

figura formata da archi di cerchi massimi. Un tale triangolo è illustrato da ABP

nella figura 86. Poiché due fra gli angoli di questo triangolo sono angoli retti, la

somma dei tre angoli è necessariamente maggiore di 180°. Questo fatto è vero per

ogni “triangolo” su una sfera.

Non e necessario insistere su un punto già chiaro. Ogni teorema della

geometria riemanniana può essere interpretato sulla sfera immaginando

semplicemente le linee rette che compaiono nei teoremi come cerchi massimi

della sfera. Possiamo perciò dare un significato geometrico e intuitivamente

soddisfacente alla geometria riemanniana. Questa geometria fornisce inoltre

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risposte esatte a problemi pratici e scientifici implicanti relazioni geometriche

sulla superficie della sfera. Essa è perciò, almeno in questa misura, una geometria

del mondo fisico. Di fatto ogni argomentazione a favore della tesi che il nostro

mondo fisico potrebbe essere non euclideo nel senso della geometria di Bolyai e

di Lobačevskij si applica altrettanto bene alla geometria riemanniana.

L’applicabilità delle geometrie non euclidee al mondo in cui viviamo sarà

discussa più avanti in relazione alla teoria della relatività.

Considerata retrospettivamente, la storia della creazione di geometrie non

euclidee è la storia della cecità degli esseri umani, grandi e piccoli. L’uomo vive

sulla superficie della Terra. Supponiamo che egli si accinga a costruire una

geometria per adattarla direttamente a questa superficie, invece di considerarla

come una superficie speciale nel mondo euclideo tridimensionale. Che tipo di

geometria svilupperebbe? La “linea” in questa geometria concernente la

superficie di una sfera dovrebbe manifestamente essere la curva che congiunge

due punti col percorso più breve, poiché questa curva dovrebbe essere la più utile.

Questa curva, come abbiamo visto, è il cerchio massimo che congiunge i punti.

D’altra parte, la linea retta nel senso familiare della geometria euclidea non

sarebbe scelta certo come la curva fondamentale in quanto essa non esiste neppure

sulla superficie di una sfera.

Quali postulati sceglierebbe un geometra per i suoi cerchi massimi? Certo

nessun postulato diverso da quelli scelti da Riemann, un sistema di postulati in cui

non esistono linee parallele e in cui la linea ha una lunghezza finita. In altri

termini, la geometria naturale, la geometria pratica, la geometria del buon senso

per noi mortali legati alla Terra è la geometria riemanniana.

Per migliaia di anni questa geometria è stata sotto il naso dell’uomo. Eppure,

durante tutti quegli anni i massimi matematici non hanno mai pensato a verificare

il loro approccio al quinto postulato confrontandolo con la geometria della sfera.

E come a coronare gli sviluppi di queste migliaia di anni, il grande Kant costruì la

sua profonda filosofia sulla verità incontrovertibile della geometria euclidea, e

quindi, di fatto, sull’impossibilità di concepire una qualsiasi altra geometria.

Eppure egli visse per tutta la vita se non in, almeno su, un mondo non euclideo.

Come si spiega dunque il fatto che, benché la geometria sia sorta da

misurazioni compiute sulla Terra, la geometria euclidea sia stata sviluppata per

prima? La risposta è che, a esseri umani che vivano in una regione limitata, la

Terra appare di fatto piatta e la distanza più breve fra due punti su una superficie

piana è veramente la linea retta, nel senso comunemente accettato del termine.

Adottando questa nozione della linea come di una corda tesa, ne seguivano

naturalmente i postulati e i teoremi della geometria euclidea. Una volta sviluppata

la geometria su superfici piane, la sfera doveva essere introdotta all’interno della

cornice costituita dalla geometria euclidea. Nessuno, neppure i greci, che pure

erano particolarmente appassionati della sfera, pensò ad affrontare lo studio della

geometria della sfera mediante un insieme di assunti designati direttamente in

funzione di una tale superficie. Questa storia dimostra che gli uomini sono

governati da abitudini di pensiero non meno che da abitudini fisiche, costumi e

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convenzioni sociali. Indubbiamente i precursori non fortunati di Lobačevskij e di

Bolyai non erano privi di abilità tecnica o della capacità di padroneggiare

difficoltà matematiche. Essi non riuscirono a risolvere il problema delle parallele

soltanto perché non riuscirono a spezzare un abito di pensiero: la geometria

euclidea. La storia di quest’inerzia mentale è un esempio eccellente di ciò che

Lecky, nella History of Rationalism in Europe, ha descritto come quello spirito,

quello Zeitgeist tipico di un’epoca, che predispone la gente a punti di vista o a

convinzioni indipendenti da argomenti pro o contro. Così fu per Kant e per tutti i

matematici fino all’Ottocento. La fede nella verità, nell’inattaccabilità,

nell’unicità della geometria euclidea impedì a chiunque persino di considerare la

possibilità di un’altra geometria, anche se una geometria non euclidea era

sciorinata proprio dinanzi agli occhi di tutti.

L’importanza della geometria non euclidea nella storia generale del pensiero

può difficilmente essere sopravvalutata. Come la teoria eliocentrica di Copernico,

la legge newtoniana della gravitazione e la teoria darwiniana dell’evoluzione, la

geometria non euclidea ha inciso profondamente sulla scienza, sulla filosofia e

sulla religione. È lecito dire che nessun evento più grandioso ha mai avuto luogo

nella storia del pensiero.

Innanzitutto la creazione della geometria non euclidea ha portato in chiara luce

una distinzione che è sempre stata implicita ma mai riconosciuta: quella fra uno

spazio matematico e uno spazio fisico. L’identificazione originaria di spazio

matematico e spazio fisico era stata determinata da un malinteso. Fuggevoli

visitatrici della nostra mente, le sensazioni della vista e dell’udito suggerivano che

i postulati della geometria euclidea fossero veri per lo spazio fisico. I teoremi

dedotti da tali postulati furono verificati con ulteriori sensazioni della vista e del

tatto e perfettamente confermati, almeno nella misura in cui potevano rivelarlo

queste sensazioni. La geometria euclidea fu perciò considerata una descrizione

esatta dello spazio fisico. Quest’abito di pensiero si consolidò a tal punto nel

corso dei secoli che la nozione stessa di nuova geometria venne a perdere ogni

significato. Geometria significa la geometria dello spazio fisico e tale geometria

era quella di Euclide. Con la creazione della geometria non euclidea, però,

matematici, scienziati e profani furono infine costretti a riconoscere che sistemi di

pensiero fondati su asserzioni sullo spazio fisico sono diversi da tale spazio fisico.

Questa distinzione è vitale per una comprensione degli sviluppi che hanno

avuto luogo nella matematica e nella scienza dopo il 1880. Dobbiamo dire ora che

uno spazio matematico assume la natura di una teoria scientifica. Esso è

applicabile allo studio dello spazio fisico finché si adatta ai dati di esperienza e

serve ai bisogni della scienza. Se però uno spazio matematico può essere

sostituito da un altro che sia in migliore accordo con la massa sempre crescente

dei risultati del lavoro scientifico, allora esso sarà soppiantato esattamente nello

stesso modo in cui la teoria tolemaica del moto dei corpi celesti cedette il posto

alla teoria copernicana. Né il lettore dovrà sorprendersi scoprendo che questa

possibilità si è realizzata all’epoca trattata nel prossimo capitolo.

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Dovremmo quindi considerare ogni teoria sullo spazio fisico come una

costruzione puramente soggettiva e non imputarla alla realtà oggettiva. L’uomo

costruisce una geometria, sia essa euclidea o non euclidea, e decide di considerare

lo spazio nei termini di essa. I vantaggi che ne consegue, anche se non può esser

certo che lo spazio possegga alcun carattere della struttura che egli ha costruito

nella propria mente, consistono nel fatto che egli diventa in grado di meditare

sullo spazio e usare la sua teoria nel lavoro scientifico. Questa concezione dello

spazio e della natura in generale non implica la negazione dell’esistenza di un

mondo fisico oggettivo. Essa equivale semplicemente a riconoscere che i giudizi e

le conclusioni dell’uomo sullo spazio sono puramente soggettivi.

La creazione della geometria non euclidea passò come un turbine di

devastazione nel regno della verità. Come la religione in società antiche, la

matematica occupava una posizione riverita e indiscussa nel pensiero occidentale.

Nel tempio della matematica riposava ogni verità, ed Euclide ne era il sommo

pontefice. Ma il culto, il suo pontefice massimo e tutti i suoi assistenti furono

spogliati della sanzione divina dall’opera di tre sacrileghi: Bolyai, Lobačevskij e

Riemann. È vero che, nell’intraprendere la loro ricerca, questi intelletti audaci

avevano in mente solo il problema logico di investigare le conseguenze di un

nuovo postulato delle parallele. Certo, in principio non si resero conto che stavano

sfidando la Verità stessa. E finché la loro opera fu considerata semplicemente un

ingegnoso gioco matematico, non si posero questioni serie. Nel momento in cui

questi uomini si resero però conto del fatto che le geometrie non euclidee

potrebbero essere descrizioni valide dello spazio fisico, si presentò loro un

problema inevitabile.

Come mai la matematica, che aveva sempre preteso di rivelare la verità a

proposito della quantità e dello spazio, ci offre ora varie geometrie

contraddittorie? Non più di una di esse potrebbe essere la verità. In realtà, fatto

ancor più sgradevole, la verità è forse diversa da tutte queste geometrie. La

creazione delle nuove geometrie costrinse perciò a riconoscere che tutti i postulati

matematici potrebbero esser soggetti a un “se”. Se i postulati della geometria

euclidea sono verità sul mondo fisico, allora lo sono anche i teoremi. Purtroppo,

però, non possiamo decidere sulla base di argomenti a priori che i postulati di

Euclide, o di qualsiasi altra geometria, sono verità.

Privando la matematica della sua condizione di insieme di verità, la creazione

delle geometrie non euclidee privò l’uomo delle verità più rispettate e forse anche

della speranza di raggiungere mai la certezza su qualcosa. Prima dell’Ottocento

ogni epoca aveva creduto nell’esistenza di una verità assoluta; gli uomini si

differenziavano solo nella scelta delle fonti. Aristotele, i Padri della Chiesa, la

Bibbia, la filosofia e la scienza avevano avuto tutti il loro momento come arbitri

di verità oggettive, eterne. Nel Settecento fu sostenuta la sola ragione, in virtù di

ciò che era stato prodotto nella matematica e nei settori matematici della scienza.

Il possesso di verità matematiche era stato confortante particolarmente per il fatto

che esse tenevano viva la speranza di altro che doveva ancora venire. Ora

purtroppo la speranza veniva distrutta. La fine del dominio della geometria

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euclidea fu la fine del dominio di ogni verità assoluta. Il filosofo può ancora

insistere sulla profondità del pensiero; l’artista può sostenere la validità di

un’intuizione manifestata dalla sua abilità tecnica; la persona pia può riempire la

più grande cattedrale degli echi dell’ispirazione divina; e il poeta romantico può

cullare il nostro intelletto in un torpore sonnolento e indurci a un’acritica

accettazione della sua allettante composizione. Forse queste sono tutte fonti di

verità e forse ce ne sono anche altre. Ma la persona razionale che ha afferrato la

lezione della geometria non euclidea è almeno diffidente nei confronti delle

insidie e, quand’anche accetti qualche verità, lo fa provvisoriamente, attendendosi

in ogni momento di poter aprire gli occhi. Paradossalmente, benché le nuove

geometrie impugnassero la capacità dell’uomo di conseguire verità, esse

forniscono l’esempio migliore del potere della mente umana, poiché, per produrre

queste nuove geometrie, la mente dovette sfidare e superare l’abitudine,

l’intuizione e le percezioni sensoriali.

La perdita del suo carattere sacrale da parte della verità sembra eliminare

un’antica questione concernente la natura della matematica stessa. La matematica

esiste indipendentemente dall’uomo, come le montagne e i mari, oppure e una

creazione interamente umana? ln altri termini, il matematico nel suo lavoro riporta

in luce diamanti che sono rimasti celati per secoli nelle tenebre oppure sta

producendo una pietra sintetica? Ancora alla fine dell’Ottocento, avendo dinanzi a

sé la storia della geometria non euclidea, l’illustre fisico Heinrich Hertz poté dire:

“Non ci si può liberare dell’impressione che queste formule matematiche abbiano

un’esistenza indipendente e un’intelligenza propria, che siano più sapienti di noi,

più sapienti anche dei loro scopritori, e che noi ricaviamo da esse più di quanto fu

posto in esse originariamente.” Nonostante quest’opinione, la matematica appare

il prodotto di menti umane, fallibili, più di quanto non sia l’eterna sostanza di un

mondo indipendente dall’uomo. Essa non è una struttura d’acciaio fondata sullo

strato roccioso della realtà oggettiva bensì un filo di ragnatela che oscilla insieme

ad altre speculazioni nelle regioni solo in parte esplorate della mente umana.

Se la creazione della geometria non euclidea scalzò rudemente la matematica

dal piedistallo della verità, le diede però anche la possibilità di vagare

liberamente. L’opera di Lobačevskij, di Riemann e di Bolyai, in effetti, diede ai

matematici la massima libertà. Poiché le geometrie non euclidee, le quali furono

investigate in origine per amore di quella che sembrava un’interessante finezza

logica, si dimostrarono importantissime, pare ora chiaro che i matematici

dovrebbero esplorare le possibilità implicite in ogni questione e in ogni insieme di

postulati finché tale indagine riveste qualche interesse; l’applicazione al mondo

fisico, un motivo dominante dell’investigazione matematica, potrebbe seguire in

un secondo tempo. A questo stadio nella sua storia la matematica si pulì i piedi

dalla terra che vi aderiva e si separò dalla scienza, cosi come la scienza si era

separata dalla filosofia, la filosofia dalla religione e la religione dall’animismo e

dalla magia. Si può ora dire con Georg Cantor che “L’essenza della matematica è

la sua libertà.”

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La posizione del matematico prima del 1830 era paragonabile a quella di un

artista la cui forza ispiratrice è l’amore assoluto per la sua arte ma che è indotto

dai dettami della necessità a limitarsi a disegnare copertine di settimanali. Libero

da una tale restrizione, l’artista potrebbe dare libero corso alla sua immaginazione

e alle sue attività e produrre opere memorabili. La geometria non euclidea ha

appunto questo effetto liberatore. La grandissima espansione delle attività

matematiche, oltre alla crescente enfasi sulla qualità estetica nell’opera dei

matematici a partire dalla metà dell’ultimo secolo, testimoniano l’influenza della

nuova geometria.

La geometria non euclidea, con la sua importanza senza precedenti nella storia

del pensiero, fu il coronamento di due millenni di vagheggiamenti in “inutili”

questioni logiche. La matematica fornì in tal modo un esempio di più della

sapienza del pensiero astratto, logico, non motivato da considerazioni

utilitaristiche, e un esempio di più della saggezza insita nell’occasionale rifiuto

dell’evidenza dei sensi, come Copernico ci chiese di fare nella sua teoria

eliocentrica, a favore di ciò che può essere prodotto dalla mente.

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XXVII. La teoria della relatività

La folle matematica da sola

era senza confini; troppo astratta

per formare catene materiali,

al puro spazio estatica lo sguardo

ora rivolge, or, trascorrendo intorno

al cerchio, ne determina il quadrato.

ALEXANDER POPE

C’è un vecchio detto che ammonisce: “Vigila sui tuoi amici, ché i tuoi nemici

avranno cura di se stessi.” Nella pratica scientifica tale detto può esser tradotto nel

modo seguente: sospetta l’ovvio; le verità oscure ti sfuggiranno in ogni modo.

Chiunque voglia sfidare l’ovvio deve nondimeno essere audace, poiché la sfida é

considerata quasi sempre un atto di follia. Una tale audacia è spesso dispiegata dal

genio, e forse proprio per questa ragione il genio appare tanto affine alla follia,

come sostengono vari motti popolari.

L’audacia del genio non è però inutile guasconeria. Essa ha un fine, che nei

campi matematico e scientifico è una descrizione logicamente coerente del

fenomeno investigato. La passione per una descrizione del genere è il

contrassegno dello scienziato; la capacità di discernere la via della ragione e il

coraggio di seguirla sono le pietre di paragone del suo genio.

In tempi moderni un uomo, il creatore della teoria della relatività, dispiegò in

modo preminente questi segni di grandezza. Con una vivacità superata solo dalla

sua modestia, Albert Einstein attaccò l’ovvio e rivoluzionò quasi tutti i settori del

pensiero scientifico e filosofico. Il suo attacco fu diretto contro concetti e assunti

tradizionali, e apparentemente validissimi, della scienza fisica.

Fra gli assunti, uno dei più fermamente accettati diceva che lo spazio e le figure

nello spazio obbediscono ai teoremi della geometria euclidea. Era vero,

ovviamente, che all’epoca in cui Einstein portò il suo attacco le geometrie non

euclidee esistevano già da circa settantacinque anni. Si riconosceva anche che non

esisteva nessuna garanzia a favore del carattere euclideo dello spazio fisico.

Nondimeno, nessuno dubitava del fatto che la geometria per il lavoro scientifico

dovesse essere quella di Euclide. La convinzione che lo spazio fisico sia euclideo

comporta la conseguente convinzione che esso sia omogeneo, ossia che lo spazio

sulla Terra e in prossimità di essa e lo spazio nelle regioni delle stelle più lontane

posseggano le medesime proprietà geometriche.

La fisica dell’Ottocento si fondava anche su certi assunti metafisici introdotti

da Newton e adottati senza riserve da scienziati successivi. Per poter valutare la

natura e la funzione di questi assunti, esaminiamo il più fondamentale fra i

processi fisici, ossia la misurazione della lunghezza. Supponiamo che un

passeggero si sposti da una posizione all’altra lungo la coperta di una nave in

movimento. Qual è la distanza dalla sua posizione iniziale a quella finale? A

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questa domanda si risponde facilmente. Il passeggero può determinare la distanza

usando un regolo. Supponiamo ora che il moto di questa persona sia nella stessa

direzione del moto della nave e che anche un osservatore che si trova su una nave

all’àncora lì vicino misuri la distanza fra la posizione iniziale e quella finale

dell’individuo che passeggia. La distanza ottenuta da questo secondo osservatore

sarà maggiore di quella ottenuta dal passeggero stesso poiché la nave,

muovendosi, avrà trasportato il passeggero per una certa distanza.

Ovviamente, non ci troviamo di fronte ad alcuna difficoltà insormontabile. Il

passeggero misurava una distanza relativa alla nave. L’osservatore che si trovava

sulla nave ferma misurava la distanza relativa al mare. Se entrambi tengono conto

del moto della nave, È possibile operare una correzione e i due osservatori si

troveranno in accordo. Bisogna nondimeno riconoscere che la misurazione della

distanza variava da una persona all’altra. Parlare della distanza da una posizione

iniziale a una posizione finale non ha senso se non specifichiamo chi ha misurato

tale distanza.

Ora, le leggi scientifiche più importanti implicano distanze direttamente o

indirettamente come nella determinazione di velocità, accelerazioni e forze. Le

leggi scientifiche dovrebbero perciò dipendere evidentemente dall’osservatore le

cui misurazioni sono usate nell’ambito di tale legge. Non era però questa

l’interpretazione usuale di una legge scientifica. Newton credeva che i nostri sensi

ci diano la certezza dell’esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti; egli

supponeva perciò che ci siano leggi assolute, anche se dobbiamo accontentarci di

una formulazione di queste leggi dipendente da un osservatore che si trova su

quella nave in movimento che si chiama Terra. Secondo Newton le leggi assolute

sono note a un osservatore sovrumano, Dio, le cui osservazioni dello spazio e del

tempo sono assolute. E la formulazione ideale delle leggi matematiche e

scientifiche di quest’universo è costituita dalle leggi che Dio può ottenere dalle

sue misurazioni assolute. Soltanto conoscendo il moto della Terra in relazione

all’osservatore fisso, Dio, l’uomo potrebbe tradurre le sue leggi nella loro vera

forma. Vediamo allora che il pensiero scientifico newtoniano si fondava in

definitiva su assunti metafisici implicanti Dio, lo spazio assoluto, il tempo

assoluto e leggi assolute.

Uno fra gli assunti più solidamente radicati nel pensiero scientifico della fine

dell’Ottocento era quello dell’esistenza di una forza di gravità. Secondo la prima

legge del moto di Newton, un corpo in quiete rimane in quiete e un corpo in

movimento continua a muoversi di moto uniforme lungo una linea retta finché su

di esso non agisca una forza. Se perciò non esistesse la forza di gravità, una palla

tenuta in mano e lasciata semplicemente libera rimarrebbe sospesa in aria.

Analogamente, se non esistesse una forza di gravità, i pianeti sarebbero

scaraventati via nello spazio lungo traiettorie rettilinee. Tali strani fenomeni non

hanno luogo. L’universo agisce come se esistesse una forza di gravità.

Benché Newton riuscisse a dimostrare che la medesima legge quantitativa

copriva tutti gli effetti terrestri e celesti dell’azione gravitazionale, la natura fisica

della forza di gravità non è mai stata intesa. In che modo il Sole, che si trova a

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150 milioni di chilometri dalla Terra, esercita la sua attrazione sulla Terra, e in

che modo la Terra esercita a sua volta un’attrazione sui vari oggetti che si trovano

in prossimità della sua superficie? Benché non ci fossero risposte a queste

domande, i fisici non se ne lasciavano turbare. La gravità era un concetto tanto

utile che essi non avevano difficoltà a ignorare numerose obiezioni ad esso. Di

fatto, se non fosse stato per altre e più pressanti questioni e difficoltà che sorsero

attorno al 1880, la soddisfazione dei fisici nei confronti della gravità non sarebbe

stata seriamente turbata.

Anche un altro problema posto dall’introduzione della forza di gravità era stato

tranquillamente messo da parte. Nel capitolo quattordicesimo abbiamo

sottolineato che ogni oggetto fisico possiede due proprietà apparentemente

distinte, massa e peso. La massa è la resistenza che un oggetto oppone a un

mutamento nella velocità o nella direzione del movimento. Il peso è la forza con

cui la Terra attrae un oggetto. La massa di un oggetto è costante mentre il suo

peso dipende dalla distanza dell’oggetto dal baricentro della Terra. Benché queste

due proprietà della materia siano distinte, il rapporto del peso alla massa di tutti

gli oggetti è sempre lo stesso in un determinato luogo. Questo fatto è così

sorprendente come se la produzione di carbone e la produzione di grano fossero

esattamente uguali fra loro ogni anno. Se la produzione di carbone e quella di

grano presentassero effettivamente questa relazione, dovremmo ricercarne una

spiegazione nella struttura economica della nazione. Analogamente si richiedeva

una spiegazione del rapporto costante del peso alla massa. Fino a Newton non ne

era ancora stata trovata una.

Dobbiamo ricordare ancora un assunto fisico prima di esaminare l’opera di

Einstein. I tentativi di spiegare la natura della luce risalgono fino all’epoca dei

greci. A partire dal Seicento la concezione più diffusa considerava la luce un moto

ondulatorio, il cui meccanismo doveva essere molto simile a quello del suono.

Non essendo possibile concepire un moto ondulatorio senza un mezzo che

trasportasse l’onda, gli scienziati giunsero alla conclusione che doveva esistere un

mezzo che trasportasse le onde luminose. Ma lo spazio attraverso cui la luce ci

perviene dalle stelle lontane è un vuoto e perciò non contiene alcuna sostanza

materiale che possa trasmetterci le onde. Gli scienziati dovettero perciò supporre

l’esistenza di una nuova “sostanza”, l’etere, che non potrebbe essere visto,

gustato, odorato, pesato o toccato. Inoltre, per ragioni che non ci interessano qui,

l’etere doveva essere un mezzo immobile, coesistente con tutto lo spazio

attraverso cui la Terra e altri corpi celesti si muovono. L’introduzione dell’etere

per trasportare le onde luminose immerse gli scienziati in un sonno profondo che

durò oltre due secoli. Ma attorno al 1880 le proprietà che dovevano essere

assegnate all’etere erano così contraddittorie che i fisici cominciarono a dubitare

del tutto della sua esistenza.

Nonostante i molti assunti dubbi e poco intesi che erano alla base della fisica

del tardo Ottocento, nessun gruppo di scienziati, in nessuna epoca, era mai stato

così sicuro del fatto che essa avesse scoperto le leggi dell’universo. Il Settecento

era stato ottimistico; l’Ottocento fu estremamente sicuro di sé. Due secoli di

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successi parziali avevano fatto girare a tal punto la testa a scienziati e filosofi che

le leggi del moto di Newton e la legge dell’attrazione gravitazionale furono

dichiarate conseguenze immediate delle leggi del pensiero e della pura ragione.

Parole come assunto o supposizione non apparivano nella letteratura scientifica

benché, come Newton aveva affermato espressamente, i concetti di gravitazione e

di etere fossero ipotesi e, in realtà, ipotesi non del tutto intese fisicamente. Ma ciò

che era inconcepibile per Newton era inconcepibile, in modo diverso, anche per

l’Ottocento.

La revisione radicale della fisica ebbe inizio, con auspici piuttosto funesti,

quando due fisici americani decisero di verificare sperimentalmente, nel 1881, la

conclusione che la Terra si muove attraverso un etere stazionario. Questi due

uomini, A. A. Michelson ed E. W. Morley, escogitarono un esperimento fondato

su un principio semplicissimo.

Un po’ di aritmetica ci dimostra che si impiega un tempo più lungo a percorrere

con una barca a remi una certa distanza avanti e indietro lungo il corso di un

fiume in presenza di una corrente che a percorrere la stessa distanza in assenza di

corrente. Ad esempio, se un uomo può percorrere a remi 4 chilometri allora in

acqua ferma, allora, in assenza di corrente, potrà percorrere in 6 ore 12 chilometri

nell’andata e altri 12 nel ritorno. Se invece c’è una corrente che si muove alla

velocità di 2 chilometri all’ora, l’uomo riuscirà a imprimere alla barca, nella

direzione della corrente, una velocità di 4 + 2 chilometri all’ora, mentre risalendo

la corrente la sua velocità sarà di 4 – 2 chilometri all’ora. A queste velocità il

tempo totale impiegato per coprire lo stesso percorso sarà di 2 + 6 = 8 ore. Il

principio qui in gioco è che se una velocità costante, come la velocità della

corrente, impedisce un moto per un periodo di tempo più lungo di quanto lo aiuta

(6 ore contro 2 ore nell’esempio), il risultato netto sarà una perdita di tempo.

Michelson e Morley si servirono di questo principio nel modo seguente. Da un

punto A (fig. 87) sulla Terra un raggio di luce fu inviato a uno specchio collocato

sulla Terra in B; la direzione da A a B era la direzione del moto della Terra attorno

al Sole. Ci si attendeva che il raggio viaggiasse attraverso l’etere fino a pervenire

in B alla velocità solita della luce e fosse poi riflesso nuovamente verso A. A

causa del moto della Terra, mentre il raggio di luce sta viaggiando verso B, lo

specchio ivi collocato si muove verso una nuova posizione B'. Il moto della Terra

fa dunque sì che il raggio raggiunga lo specchio con un po’ di ritardo. In B il

raggio viene riflesso verso A. Ma mentre il raggio sta viaggiando verso B, la Terra

trasporta A in A', e mentre il raggio sta tornando indietro, la Terra trasporta A' in

A". Il moto della Terra aiuta perciò il raggio di luce nel suo moto da B' ad A". Ma

la distanza percorsa da B' ad A" è più breve della distanza da A a B'. Il raggio di

luce è dunque aiutato dal moto della Terra per un periodo più breve di quanto ne

sia ritardato nella direzione inversa. In questa situazione il moto della Terra ha lo

stesso effetto della velocità della corrente nell’esempio citato sopra. Perciò, per il

principio descritto nel paragrafo precedente, il raggio di luce dovrebbe richiedere,

per percorrere la distanza da A a B' ad A", più tempo che se avesse percorso due

volte la distanza AB con la Terra stazionaria nell’etere. Ma nonostante l’uso di un

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dispositivo geniale e sensibilissimo noto come interferometro, Michelson e

Morley non furono in grado di scoprire l’aumento di tempo. Non c’era dunque,

evidentemente, alcun moto della Terra attraverso l’etere.

Fig. 87. L’esperimento di Michelson e Morley.

I fisici furono posti di fronte a un dilemma inevitabile. L’etere che era

necessario per rendere possibile il moto ondulatorio della luce doveva essere un

mezzo stazionario attraverso cui si muoveva la Terra. Eppure questa condizione

era in contraddizione col risultato dell’esperimento. Il fatto che la teoria fosse in

disaccordo con un tale esperimento fondamentale non poteva essere ignorato. A

quest’epoca i fisici si convinsero che la loro scienza avesse bisogno di una

revisione.

Pur essendo essi già abbastanza afflitti da problemi fondamentali, nel 1905

Einstein richiamò la loro attenzione su ulteriori difficoltà implicite nei concetti

fondamentali di simultaneità, lunghezza e tempo. Einstein sottolineò che, in

determinate circostanze, è teoricamente impossibile per due osservatori accordarsi

sulla simultaneità o meno di due fenomeni e che, a causa di ciò, gli osservatori

non si accorderanno neppure sulla distanza e sul tempo fra eventi. Vediamo

perché debbano presentarsi queste discordanze.

Supponiamo che un uomo che si trovi alla metà di un treno lunghissimo in

corsa a una velocità molto elevata veda simultaneamente due lampi di luce, uno

dei quali proveniente da un punto della carrozza di testa del treno l’altro dalla

carrozza di coda. Un osservatore che si trovi in prossimità del binario, press’a

poco in corrispondenza della metà del convoglio, vede anch’egli i due lampi di

luce ma non simultaneamente. Quello proveniente dalla carrozza di coda gli arriva

prima. La domanda che si pone è: i due lampi di luce sono stati emessi

simultaneamente?

Entrambi gli osservatori saranno d’accordo nel dire di no. Quanto all’uomo che

si trova a terra, poiché la sua posizione era esattamente intermedia fra i due lampi,

i due raggi di luce hanno dovuto percorrere la stessa distanza e perciò impiegare

lo stesso tempo per arrivare fino a lui. Poiché egli ha visto per primo il lampo

proveniente dalla carrozza di coda, tale lampo dev’essere stato emesso per primo.

L’uomo che si trova sul treno ragionerà nel senso che rispetto a lui la velocità del

raggio di luce proveniente dalla carrozza di coda è uguale alla velocità della luce

meno la velocità del treno. D’altra parte, rispetto a lui la velocità del raggio

proveniente dalla carrozza di testa è uguale alla velocità della luce più la velocità

del treno. Poiché entrambi i raggi hanno percorso, per arrivare sino a lui, metà

della lunghezza del treno, e poiché il raggio proveniente dalla carrozza di coda

doveva impiegare più tempo, esso dev’essere stato emesso per primo; solo così si

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spiega infatti l’arrivo simultaneo dei due raggi. In questa situazione pare dunque

non ci sia alcuna difficoltà.

I due osservatori erano d’accordo sull’ordine dei due lampi perché assumevano

entrambi che l’uomo a terra fosse in quiete rispetto all’etere mentre si supponeva

che l’uomo sul treno fosse in moto. Supponiamo, nondimeno, che l’uomo sul

treno adottasse il punto di vista non ortodosso che il treno fosse in quiete rispetto

all’etere e fosse la Terra a muoversi verso la coda del treno. Conformandosi a

questo punto di vista, l’uomo sul treno concluderebbe correttamente che i lampi

sono stati emessi simultaneamente. L’uomo a terra preferirebbe indubbiamente

persistere nella sua supposizione precedente, considerando se stesso e la Terra in

quiete rispetto all’etere e il lampo proveniente dalla carrozza di coda anteriore

rispetto a quello proveniente dalla carrozza di testa. Ci troviamo ora in una

posizione di disaccordo a proposito della simultaneità dei due lampi, disaccordo

originato dalla discordanza a proposito della questione su chi sia in quiete rispetto

all’etere.

Purtroppo l’uomo che si trova sul treno ha altrettanta ragione di credere che il

treno sia in quiete rispetto all’etere quanto l’uomo che si trova a Terra ha ragione

di credere che la Terra sia stazionaria nell’etere, poiché l’esperimento di

Michelson e Morley ci dimostra che non possiamo scoprire alcun moto attraverso

l’etere. Ne segue che due osservatori che si muovono l’uno relativamente

all’altro sono inevitabilmente in disaccordo sulla simultaneità di due eventi.

Se due osservatori sono in disaccordo sulla simultaneità di due eventi devono

essere in disaccordo anche sulla misura delle distanze. Supponiamo che un

osservatore su Marte e uno sulla Terra decidano di misurare la distanza fra la

Terra e il Sole. Poiché questa distanza è variabile, essi devono essere d’accordo

sull’opportunità di misurarla a un istante dato. Ma perché i due osservatori siano

d’accordo sull’istante dato, occorre che siano d’accordo sulla simultaneità di

accadimenti, come il battito dell’orologio, che segnano l’istante. E poiché due

osservatori che si muovano l’uno relativamente all’altro non saranno d’accordo

sulla simultaneità di tali accadimenti, essi otterranno misure diverse della distanza

dalla Terra al Sole “a un istante dato.”

Due osservatori che si muovano l’uno rispetto all’altro saranno in disaccordo

non soltanto sulla misura di distanze ma anche sulla misura di intervalli di tempo.

Se così non fosse, gli osservatori dovrebbero essere d’accordo sulla simultaneità

di eventi che contrassegnano l’inizio di intervalli così come di quelli che ne

contrassegnano la fine, cosa che non può essere.

Gli assunti che lo spazio è ovunque euclideo, che esistono lunghezze assolute,

un tempo assoluto e leggi assolute, che la forza di gravita opera nell’intero

universo, che esiste un etere stazionario che trasporta le onde luminose, e i

problemi sollevati da questi assiomi, stavano diventando troppo numerosi e

troppo gravosi perché la scienza potesse sopportarne facilmente l’onere. Quando

poi fu riconosciuto anche che la simultaneità, gli intervalli di tempo e le

lunghezze non hanno un significato unico, divenne evidente che tutte le difficoltà

non avrebbero potuto esser risolte da una teoria composita raffazzonata alla meno

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peggio. Cominciò ad annunciarsi, sia pure per segni indistinti, una rivoluzione

nella teoria fisica, così come si preannuncia una rivoluzione politica quando la

struttura economica e sociale di un paese non riesce a soddisfare i bisogni

fondamentali del suo popolo.

Nel 1905, all’età di venticinque anni, Einstein inaugurò l’intera serie di

mutamenti radicali di cui c’era bisogno per ristabilire su nuove basi la teoria

fisica. L’esperimento di Michelson e di Morley dimostrava che il moto della Terra

non incide sulla velocità della luce relativamente alla Terra. Poiché la scienza non

può opporsi a un fatto sperimentale, Einstein accettò l’assunto fondamentale che

la velocità della luce sia la stessa per tutti gli osservatori nell’universo

indipendentemente dal modo in cui essi possano muoversi l’uno rispetto all’altro.

Perciò da un punto di vista teoria fisica ed esperimento furono portati in accordo.

Egli accettò inoltre un altro assioma suggerito dall’esperienza, ossia che nessun

corpo fisico possiede una velocità superiore a quella della luce.

Einstein abolì i concetti di spazio e tempo assoluti di cui Newton aveva avuto

bisogno per definire le vere leggi dell’universo. Accettando il fatto che due

osservatori che si muovano l’uno relativamente all’altro saranno in disaccordo

circa le misurazioni di spazio e tempo, egli introdusse le nozioni di lunghezza

locale e di tempo locale. Due osservatori che siano in quiete l’uno relativamente

all’altro saranno d’accordo sulla distanza e sul tempo fra due eventi. Questa

distanza e questo tempo sono la distanza locale e il tempo locale per questi

osservatori. Due osservatori che siano in moto l’uno relativamente all’altro

otterranno misurazioni diverse della distanza e del tempo fra gli stessi due eventi.

Le misurazioni di ciascuno di essi saranno la sua lunghezza locale e il suo tempo

locale. In altri termini, gli uomini vivono in mondi spaziotemporali diversi.

Se, ad esempio, un marziano dovesse misurare gli intervalli di distanza e di

tempo fra due eventi che hanno luogo sulla Terra, troverebbe queste quantità

diverse rispetto alle indicazioni fornite dalle nostre misurazioni. A nostra volta

noi troveremmo le lunghezze su Marte e gli intervalli di tempo fra eventi su Marte

diversi da quelli ottenuti dai marziani.

È opportuno sottolineare che quando parliamo delle differenze che osservatori

diversi potrebbe ottenere nella misurazione di lunghezze non ci riferiamo

all’effetto della distanza sulla vista o all’effetto di illusioni ottiche. Anche se

Marte dovesse sfiorare la Terra mentre stiamo misurando lunghezze su di esso,

noi troveremmo ancora le lunghezze misurate da noi diverse da quelle misurate

dai marziani. Né, quando parliamo di disaccordo su intervalli di tempo,

intendiamo parlare di un effetto psicologico o emotivo. La teoria del tempo locale

dice che due osservatori in movimento l`uno rispetto all’altro e in possesso di

orologi identici registreranno gli intervalli di tempo in modo diverso perché tali

osservatori vivono in mondi temporali diversi.

Per considerare un esempio numerico, un osservatore sulla Terra troverebbe

una nave spaziale, in movimento con una velocità di 260 000 km al secondo,

lunga la meta di come la troverebbe un uomo che si trovasse su di essa. Inoltre, un

orologio che si trovasse su tale nave spaziale apparirebbe muoversi con velocità

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dimezzata all’osservatore terrestre, mentre sembrerebbe camminare normalmente

all’uomo che si trovasse su tale astronave. Un osservatore che si trovasse

sull’astronave trarrebbe le medesime conclusioni sulle dimensioni e sul tempo

concernenti oggetti ed eventi sulla Terra. Entrambi gli insiemi di misurazioni

sono corretti, ciascuno nel proprio mondo spaziotemporale.

In questa dottrina della lunghezza locale e del tempo locale abbiamo una fra le

nuove asserzioni più sensazionali della teoria della relatività. La lunghezza di una

stanza e la durata della nostra giornata di lavoro non sono quantità stabilite. Esse

sono una cosa per noi e una cosa diversa per un osservatore che si muova

relativamente a noi. La stranezza di queste idee non dovrebbe farci chiudere gli

occhi dinanzi al fatto che esse si accordano assai meglio con gli esperimenti e col

ragionamento sulla simultaneità, che abbiamo esaminato sopra, di quanto non

facciano i moti assoluti di Newton. Di fatto, se non fosse così, gli scienziati non le

accetterebbero neppure per un momento, relativo o assoluto.

In considerazione dell’abbandono dello spazio e del tempo assoluti, Einstein

dovette adottare un nuovo concetto di ciò che costituisce una legge matematica

dell’universo. La sua conclusione fu che non esistono leggi assolute nel senso di

leggi indipendenti da osservatori. Una legge dev’essere formulata nei termini

delle misurazioni di un particolare osservatore. Se un osservatore formula una

legge nei termini delle sue misurazioni dello spazio e del tempo, è ancora

possibile tradurre questa legge nella forma datale da un altro osservatore per

mezzo di formule che mettano in relazione misurazioni di lunghezza e di tempo

dei due osservatori e che implichino la loro velocità relativa. In ogni caso però le

leggi sono legate agli osservatori.

Pur avendo abbandonato lo spazio e il tempo assoluti e le leggi assolute,

Einstein si trovò a dover affrontare il problema se una quantità connessa con

misurazioni spaziotemporali sia uguale per tutti gli osservatori. Fu scoperta

un’importantissima quantità di questo tipo. Prima di esaminarla dobbiamo

ricordare un tipo di notazione da un capitolo precedente. Per rappresentare punti

sul piano bidimensionale sono usate due coordinate, x e y; per rappresentare punti

nello spazio tridimensionale si usano tre coordinate x, y e z. Per rappresentare

misurazioni spaziali e temporali connesse a eventi è d’uso ricorrere a quattro

lettere, x, y, z e t; le prime tre specificano la posizione nello spazio e la quarta

rappresenta il tempo. Quando si parla di due diversi punti o eventi si associano di

solito alle lettere indici numerici; così x1, y1, z1 e t1 rappresentano il primo evento

e x2, y2, z2 e t2 il secondo.

Ricordiamo ora un teorema della geometria analitica. La distanza fra due punti

in un piano, uno con coordinate (x1, y1) e l’altro (x2, y2), è data dall’espressione

(1) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2

la distanza fra due punti nello spazio (x1, y1, z1) e (x2, y2, z2) è data da

(2) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2 + (𝑧1 − 𝑧2)2

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A proposito dei due eventi (x1, y1, z1, t1) e (x2, y2, z2, t2), Einstein trovo che la

quantità

(3) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2 + (𝑧1 − 𝑧2)2 − 300 000 (𝑡1 − 𝑡2)2

dove si suppone che le distanze siano misurate in chilometri e il tempo in secondi,

sia uguale per tutti gli osservatori. Questa quantità assoluta è chiamata intervallo

spaziotemporale fra due eventi. Essa è chiaramente l’analogo, nel mondo di

eventi quadridimensionale, delle quantità date sopra dalla (1) e dalla (2). La cifra

300 000 è la velocità della luce in chilometri al secondo.

Evidentemente, per trovare una quantità assoluta, una quantità che sia la stessa

per tutti gli osservatori, si doveva formare un’espressione che implicasse sia la

distanza sia il tempo. In quest’espressione le misurazioni temporali sono trattate

in modo non diverso dalle misurazioni spaziali. Ora, spazio e tempo erano sempre

state considerate due entità diversissime e pertanto il fatto di trattare valori di

tempo alla stessa stregua di misurazioni di spazio, come fa la formula (3), sembra

un artificio escogitato specificamente per produrre una quantità assoluta. Nel

1908 però H. Minkowski, un matematico russo, ragionò in modo diverso. È vero,

egli convenne, che abbiamo accettato una nozione del tempo concepito come un

flusso continuo la quale è indipendente da ogni nozione di spazio. Nondimeno,

quando osserviamo eventi in natura, sperimentiamo tempo e spazio

simultaneamente. Inoltre il tempo, in sé, è sempre stato misurato per mezzo dello

spazio, ad esempio nei termini della distanza percorsa dalle lancette di un

orologio, dal moto di un pendolo nello spazio o dalla distanza percorsa da

un’ombra su una meridiana. Inoltre i nostri metodi di misurazione dello spazio

implicano necessariamente il tempo. Anche adottando il metodo più semplice di

misurazione delle distanze, quello consistente nell’applicazione di un regolo, nella

misurazione di una distanza trascorre del tempo. Nessuna misurazione è

istantanea. Perciò la concezione naturale di eventi dovrebbe essere nei termini di

una combinazione di spazio e tempo; ossia, secondo Minkowski, il mondo è un

continuo spaziotemporale quadridimensionale.

È vero che osservatori diversi possono ottenere misure diverse delle

componenti spazio e tempo dell’intervallo spaziotemporale fra due eventi. Ciò

non è però sorprendente. Consideriamo lo spazio tridimensionale in sé. Due

persone, in parti diverse del globo, vedono il medesimo spazio tridimensionale ma

l’una analizza la sua esperienza dello spazio in direzioni orizzontale e verticale

diverse dalle direzioni verticale e orizzontale dell’altra. Nondimeno continuiamo a

considerare lo spazio come un tutto tridimensionale e non come una

combinazione artificiale di estensioni orizzontale e verticale. Analogamente,

osservatori diversi possono decomporre lo spazio-tempo in componenti

spaziotemporali diverse. Questa decomposizione è altrettanto reale e necessaria,

per la persona che la compie, della distinzione fra orizzontale e verticale per una

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persona che sta scendendo una rampa di scale. Eppure è l’uomo a operare questa

differenziazione: la natura presenta spazio e tempo come un tutto inscindibile.

Einstein procedette a utilizzare la concezione di Minkowski secondo cui

l’universo dovrebbe essere considerato un mondo spaziotemporale

quadridimensionale. Le sensazionali innovazioni della teoria speciale della

relatività di Einstein non avevano risolto tutte le difficoltà enumerate all’inizio di

questo capitolo. Nessuna spiegazione si affacciava ancora circa il modo in cui la

gravità attrae oggetti verso la Terra e “mantiene” un pianeta nella sua orbita, o

perché massa e peso dovrebbero avere sempre un rapporto costante in una

determinata posizione. Nel frattempo perfezionamenti apportati ai moderni

strumenti astronomici cominciarono a sottoporre a verifica Newton. Questi

strumenti furono in grado di scoprire differenze fra le posizioni reali del pianeta

Mercurio e le posizioni predette dalla legge di gravitazione. La considerazione di

questi problemi condusse Einstein a creare e a pubblicare la sua teoria generale

della relatività. La nuova teoria conservò le idee principali della precedente ma,

estendendole, le realizzò ancor più.

L’idea che spazio e tempo dovrebbero essere considerate un’unità

quadridimensionale è usata nella sua teoria generale nel modo seguente. In

precedenza abbiamo detto che la formula (3) dev’essere considerata un intervallo

dello spazio-tempo in un mondo quadridimensionale. Essa è una generalizzazione

delle formule (1) e (2), le quali danno le distanze fra due posizioni rispettivamente

in un mondo bidimensionale e tridimensionale. Ora, le formule (1) e (2) furono

derivate sulla base della geometria euclidea e sono semplicemente modi algebrici

di esprimere la distanza. Poiché la formula (3) è sostanzialmente una

generalizzazione della (1) e della (2), anche lo spazio-tempo della teoria speciale

o ristretta della relatività di Einstein è euclideo. (Per l’esattezza della nostra

asserzione il segno meno in (3) dovrebbe essere un segno più, ma questo è un

semplice particolare.)

Supponiamo però di dover usare, invece della (3), un’espressione come la

seguente

(4) √2 (𝑥1 − 𝑥2)2 + 3 (𝑦1 − 𝑦2)2 + 7 (𝑧1 − 𝑧2)2 − 100 000 (𝑡1 − 𝑡2)2

Se si dovesse vedere nella formula (4) il valore numerico dell’intervallo

spaziotemporale fra gli stessi due eventi le cui coordinate (x1, y1, z1, t1) e (x2, y2, z2,

t2) sono implicate nella (3), allora il valore dell’intervallo fra questi eventi sarebbe

ovviamente diverso da quello dato dalla (3). In due e tre dimensioni il

procedimento analogo equivarrebbe a prendere per la distanza fra due punti un

numero diverso da quello dalle formule (1) e (2) della geometria euclidea. Qual è

il significato consistente nell’alterare il valore della distanza o dell’intervallo

spaziotemporale?

La scelta di una formula per la distanza stabilisce se abbiamo a che fare con un

mondo euclideo o non euclideo. Vediamo perché è così. Supponiamo di dover

usare le coordinate cartesiane tridimensionali esaminate nel capitolo dodicesimo

per descrivere le posizioni di punti matematici corrispondenti a New York e

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Chicago. Usando la formula (2) per calcolare la distanza fra New York e Chicago,

dovremmo ottenere ciò che si suppone la formula dia, ossia la lunghezza del

segmento di retta che congiunge le due città. Potremmo usare anche una formula

diversa, ad esempio quella che dà la lunghezza di quell’arco di cerchio massimo

sulla superficie della Terra che congiunge New York e Chicago.

Supponiamo ora che entrino in discussione tre città, New York, Chicago e

Richmond. Queste tre città sono i vertici di un triangolo. Se dovessimo usare la

formula (2) per calcolare i lati di questo triangolo, otterremmo lunghezze che

appartengono a un triangolo formato da segmenti di linea retta. D’altra parte, se

dovessimo usare la formula per la lunghezza dell’arco di cerchio massimo

compreso fra ciascuna coppia di vertici, otterremmo lunghezze che appartengono

a un triangolo formato da archi di cerchi massimi sulla superficie della sfera. In

altri termini, la scelta della formula per la distanza determinerebbe se dobbiamo

pensare il nostro triangolo come un triangolo piano o come un triangolo su una

sfera. Le proprietà dei due triangoli sono diverse, essendo uno un triangolo della

geometria euclidea e l’altro un triangolo della geometria non euclidea di Riemann.

La scelta della formula per la distanza determina così la geometria che è usata per

descrivere il mondo fisico.

Similmente, adottando una formula come la (4) invece della (3) per l’intervallo

fra due eventi nello spazio-tempo determiniamo la conseguenza che le figure

geometriche in quel mondo matematico quadridimensionale posseggono proprietà

diverse da quelle delle figure nella geometria euclidea; ossia, stabiliamo una

geometria non euclidea in tale spazio-tempo. Non intendiamo dire che la nuova

geometria sarà quella di Lobačevskij e quella di Riemann esaminata nel capitolo

precedente, ma sarà non euclidea nel senso che differirà da quella di Euclide.

La scelta di una formula per la distanza determina non soltanto la geometria ma

anche la forma della geodetica, ossia della curva che fornisce la distanza minima

fra due punti. Nella geometria euclidea la geodetica è il segmento di linea retta;

nella geometria di Rieimann essa è l’arco di un cerchio massimo; nella geometria

di Lobačevskij e di Bolyai essa è il tipo di curva presentato nella figura 81

(capitolo ventiseiesimo). Abbiamo visto ora come Einstein traesse profitto dalla

scelta di una formula per la “distanza”.

Dovremmo osservare innanzitutto che la posizione di un pianeta può essere

specificata usando quattro coordinate, tre per la sua posizione nello spazio e la

quarta per il tempo in cui esso occupa tale posizione. Le posizioni successive

giacciono su una curva in un mondo matematico quadridimensionale. Einstein

ebbe l’idea geniale di scegliere per l’intervallo spaziotemporale una formula tale

che la “traiettoria” di ciascun pianeta fosse una geodetica nella geometria

risultante.

Qual e il risultato ottenuto da quest’ingegnosa matematica? Ricordiamo che il

concetto di forza gravitazionale fu introdotto per render conto del fatto che i

pianeti si muovono su ellissi invece che sulle linee rette che dovrebbero seguire

secondo la prima legge del moto di Newton. Se ora correggiamo la prima legge

del moto di Newton formulandola nel senso che corpi non disturbati da forze si

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muovono lungo geodetiche nello spazio-tempo di Einstein, in questa prima legge

del moto abbiamo la descrizione del moto dei pianeti attorno al Sole, senza dover

introdurre una fittizia forza di gravità.

Ma la forza di gravità è stata usata anche per render ragione dell’attrazione

della Terra nei confronti di oggetti in prossimità di essa. Inoltre, una mela che

cada da un albero non segue la stessa traiettoria dei pianeti. In che modo Einstein

tratta questo fenomeno della gravitazione? Anche qui egli utilizzò la geodetica

dello spazio-tempo per eliminare la forza di gravità. In questa scelta di una

formula per l’intervallo dello spazio-tempo, sostituì i numeri 2, 3, 7 e -100 000

nella (4) con funzioni i cui valori variano da luogo a luogo nello spazio-tempo in

accordo con la massa presente. Poiché la massa della Terra differisce dalla massa

del Sole, la struttura del “campo” geometrico attorno alla Terra differisce da

quello in prossimità del Sole. Di conseguenza, la forma delle geodetiche varia da

“luogo” a “luogo” nello spazio-tempo. Ossia, scegliendo le funzioni appropriate

nella sua formula per l’intervallo spaziotemporale, Einstein conformò il suo

spazio-tempo in modo che la presenza di una massa nel mondo fisico

determinasse il carattere di tale spazio-tempo e delle geodetiche attorno alla

massa, in un modo molto simile a quello in cui la forma delle montagne in una

catena determina geodetiche diverse sulla superficie della Terra. In particolare,

oggetti vicini alla superficie della Terra seguono semplicemente le geodetiche

dello spazio-tempo in questa regione e neppure qui c’è bisogno di una forza di

gravità per rendere ragione delle traiettorie.

La spiegazione nei termini della geometria dello spazio-tempo di quelli che

erano considerati in precedenza effetti gravitazionali elimina un altro problema

non risolto, ossia perché il rapporto del peso alla massa sia costante per tutti i

corpi sulla Terra e in prossimità di essa. Interpretato in senso fisico, questo

rapporto costante è l’accelerazione con cui tutte le masse cadono verso la Terra12

e che, secondo la meccanica newtoniana, è causata dalla forza dell’attrazione

gravitazionale della Terra sulle masse. Perciò il rapporto costante del peso alla

massa significa che tutte le masse seguono lo stesso comportamento

spaziotemporale nella loro caduta verso la Terra. Ora, in accordo alla

riformulazione einsteiniana del fenomeno della gravitazione, quella che era

considerata in precedenza l’attrazione gravitazionale della Terra diventa l’effetto

della forma dello spazio-tempo in prossimità della Terra. Secondo la prima legge

del moto corretta, tutte le masse in caduta libera devono seguire le geodetiche

dello spazio-tempo. In altri termini, tutte le masse dovrebbero esibire in

prossimità della Terra il medesimo comportamento spaziotemporale, e così fanno.

La teoria della relatività risolve pertanto il problema del rapporto costante del

peso alla massa eliminando il peso come concetto scientifico e proponendo una

spiegazione ancor più soddisfacente degli effetti in precedenza attribuiti al peso.

A coronamento di questi risultati, la teoria della relatività risolve altri due

problemi che avevano frustrato gli sforzi degli scienziati. Il primo di questi

12

Si veda il capitolo quattordicesimo.

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389

concerne il moto del pianeta Mercurio. Questo pianeta non segue un’orbita

puramente ellittica attorno al Sole. Di fatto il perielio – ossia il punto dell’ellisse

in cui Mercurio è più vicino al Sole – avanza da una rivoluzione all’altra. Un

centinaio di anni fa l’astronomo francese Leverrier dimostrò che parte di questo

moto del perielio è dovuta all’attrazione gravitazionale degli altri pianeti. Una

spiegazione completa non fu raggiunta fino alla creazione della teoria della

relatività. L’orbita calcolata per Mercurio nello spazio-tempo della nuova teoria si

accorda, entro i limiti dell’errore sperimentale, col moto osservato. In altri

termini, otteniamo calcoli dei moti planetari più precisi con la nuova teoria che

con la teoria newtoniana.

Il secondo fra i problemi che turbavano gli scienziati era l’incurvamento

osservato di raggi di luce in prossimità del Sole nel loro viaggio dalle stelle alla

Terra. Un tale incurvamento avrebbe potuto essere spiegato come un’attrazione

gravitazionale del Sole sui raggi di luce se non fosse stato per il fatto che un

raggio di luce non possiede una massa. Se, in accordo con la prima legge del moto

riveduta, supponessimo semplicemente che i raggi di luce seguono nel loro moto

geodetiche della regione spaziotemporale attorno al Sole, l’incurvamento dei

raggi di luce non avrebbe bisogno di essere spiegato e le deviazioni misurate da

traiettorie rettilinee sarebbero in accordo con i calcoli basati sulla nuova teoria.

Più di una persona che esamini gli strani principi introdotti dalla teoria della

relatività e che infine si renda conto di quanto complesso sia il suo mondo

matematico può essere tentata di esclamare: “Lasciatemi il mio etere, la mia

gravitazione e il mio mondo newtoniano, semplice, intuitivo, che soddisfa il

senso. La vostra costruzione distorta può anche essere un pò più vicina

all’esperimento e al ragionamento esatto ma è una spiegazione troppo fantastica

per poter essere considerata seriamente.” Purtroppo le persone che vivono oggi

non hanno questa libertà di scelta. Due predizioni della teoria della relatività sono

ora indispensabili alla scienza.

La prima predizione è quella della relatività della massa. Una palla impugnata

da una persona ha ovviamente una massa definita. Se una persona scaglia la palla,

la massa della palla aumenta con la sua velocità. Questo accrescimento di massa

di un corpo in movimento diventa considerevole quando la velocità raggiunge una

frazione significativa della velocità della luce, che è di 300 000 chilometri al

secondo. Velocità del genere sono ora normali per elettroni in centinaia di varietà

di tubi elettronici e di tubi a raggi catodici e per altre “particelle” subatomiche in

vari tipi di macchine capaci di disintegrare l’atomo. La teoria di tutti questi

dispositivi deve tener conto dell’accrescimento relativistico della massa.

L’altra predizione della teoria che non può più essere ignorata da una persona

intelligente del nostro secolo afferma che una determinata quantità di energia è

fisicamente uguale a una quantità definita di massa; l’energia contenuta in

un’onda luminosa non è sostanzialmente diversa da quella contenuta in un pezzo

di legno. Oggi è ben nota l’esatta espressione quantitativa, secondo cui l’energia

contenuta in una data quantità di massa è uguale al prodotto della massa per il

quadrato della velocità della luce (in unità idonee). Oltre a stabilire questa

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formula, Einstein suggerì l’opportunità che i fisici esaminassero il fenomeno della

radioattività per scoprire una conversione fisica della massa in energia. Il suo

suggerimento si dimostrò esatto. I fisici riuscirono infine a controllare questa

conversione della materia in energia sotto forma di onde elettromagnetiche e

produssero la bomba atomica.

Nonostante le conferme, sorprendenti e drammatiche, della teoria, molte

persone considerano del tutto inaccettabile il suo universo non euclideo,

quadridimensionale. Nessuno è in grado di visualizzare un mondo del genere, ma

chiunque insista nel voler visualizzare i concetti di cui si occupano oggi la scienza

e la matematica si trova ancora nel medioevo del suo sviluppo intellettuale. Fin

quasi dal principio del lavoro sui numeri, i matematici hanno portato avanti un

ragionamento algebrico che è indipendente dall’esperienza sensoriale. Oggi essi

costruiscono e applicano con piena coscienza geometrie che esistono soltanto

nella mente dell’uomo e che non sono mai state pensate in relazione a una

visualizzazione. Non è stato ovviamente abbandonato ogni contatto con la

percezione sensoriale. Le conclusioni concernenti il mondo fisico predette da

riflessioni geometriche e algebriche devono essere in accordo con l’osservazione

e la sperimentazione se la struttura logica dev’essere utile alla scienza. Insistere

però sul fatto che ogni passo in una catena, anche di ragionamento geometrico,

deve avere un significato sensoriale, equivale a sottrarre alla matematica e alla

scienza due millenni di sviluppo.

Ma non si esauriscono certo qui gli argomenti a favore della teoria della

relatività. Nel capitolo precedente abbiamo visto che la geometria naturale della

superficie della Terra in una regione montuosa, ad esempio la catena delle

Montagne Rocciose, sarebbe non euclidea. Sulla superficie di una tale regione

non esistono linee rette, né cerchi, né altre linee familiari. Inoltre, il tipo di curva

che fornisce la minima distanza fra due punti può non assolvere la stessa funzione

fra altri due.

Nella nuova teoria ci viene chiesto di accettare i concetti di spazio e tempo

locali, una relatività del tempo e dello spazio finora ignote. Tutto ciò si può

certamente dire a difesa della conclusione che i mondi temporali di osservatori in

movimento l’uno relativamente all’altro sono diversi. Quello che potrebbe esser

definito il carattere soggettivo della nostra esperienza del tempo è stato

riconosciuto da molto tempo. Se dovessimo giudicare la durata sulla base delle

nostre sensazioni personali in proposito, ci sarebbe certamente un netto

disaccordo sulla quantità del tempo trascorso durante un certo intervallo. La

variazione nel tempo da un osservatore all’altro è perciò sorprendente solo

quando gli osservatori usino un dispositivo artificiale, come un orologio.

Abbiamo supposto che tutti gli osservatori che usino orologi identici otterrebbero

il medesimo risultato, ma ora dobbiamo riconoscere che anche un tale dispositivo

standardizzante non servirebbe a rendere il tempo indipendente dall’osservatore.

Un’altra idea ancora dovrebbe riconciliarli con i suggerimenti radicali di

Einstein. Consideriamo l’incredulità che deve aver regnato quando qualcuno disse

per la prima volta che la Terra è un globo e non una superficie piatta poggiante su

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fondamenta sconosciute. Quale spiegazione matematica avrebbe potuto

convincere la gente del fatto che oggetti che si trovavano sull’altra faccia della

Terra sarebbero rimasti su di essa senza cadere? Immaginiamoci inoltre la loro

perplessità quando appresero che la Terra e gli altri pianeti si rivolgono a una

velocità enorme attorno al Sole, ruotando nello stesso tempo attorno al loro asse,

contro l’evidenza dei loro sensi. Queste asserzioni della teoria copernicana, che

oggi sono luoghi comuni, devono essere state molto più sconvolgenti per gli

uomini del Cinquecento di quanto non siano per noi le sofisticate asserzioni della

teoria della relatività. La spiegazione data da Newton del perché la gente rimanga

sulla Terra invece di essere scagliata nello spazio e perché la Terra rimanga nella

sua orbita – la misteriosa forza di gravità – non era molto soddisfacente. Einstein,

d’altra parte, abolisce il bisogno di questa forza misteriosa e di altri assunti, senza

contraddire di fatto l’evidenza dei nostri sensi.

Né dovremmo disperare se le idee di Einstein ci sembrano difficili da accettare,

nonostante tutti gli argomenti in loro favore. Non è sorprendente che l’uomo

medio, il quale non può permettersi di spendere molto tempo a speculare sui

misteri di cui la natura ci ha circondati, sia stato molto sconcertato e confuso dalle

nuove idee matematiche e scientifiche su spazio, tempo, materia e gravitazione.

Egli può trarre consolazione dal fatto che questo smarrimento è poca cosa di

fronte al grave choc sperimentato dai filosofi che passano la loro vita a edificare

sistemi di pensiero corretti su questi argomenti.

Abbiamo spesso parlato della stretta relazione esistente fra matematica e

filosofia; proprio nella teoria della relatività troviamo un esempio par excellence

di una creazione matematica che ha rivoluzionato la filosofia moderna.

L’unione di spazio e tempo e l’influenza della materia sullo spazio-tempo

suggerita dalla teoria della relatività, idee che sarebbero parse bizzarre a filosofi

dei primi anni del Novecento, sono ora parte integrante di una filosofia della

natura sempre più diffusa. La natura ci si presenta come un tutto organico, con

spazio, tempo e materia frammisti insieme. In passato l’uomo ha analizzato la

natura, scegliendo certe proprietà che considerava le più importanti, dimenticando

che esse non erano altro che aspetti astratti di un tutto, e considerandole perciò

come entità distinte. Egli rimane ora sorpreso nel sentire che deve riunire questi

concetti da lui supposti separati per ottenere una sintesi di conoscenza coerente e

soddisfacente.

Aristotele fu il primo a formulare la dottrina filosofica secondo cui spazio,

tempo e materia sono componenti distinti dell’esperienza. Questa concezione fu

adottata successivamente da scienziati e utilizzata da Newton. Dopo di lui, noi ci

siamo abituati a tal punto a pensare lo spazio e il tempo come componenti

fondamentali e distinti del nostro mondo fisico e separati dalla materia, che

stentiamo a renderci conto che la concezione della natura è opera dell’uomo ed è

solo una di un certo numero di concezioni possibili. Ovviamente i filosofi

contemporanei, fra i quali è il defunto Alfred North Whitehead, non sostengono

che quest’analisi della natura sia inutile. Al contrario, essa si è dimostrata preziosa

e anzi essenziale. Dovremmo però esser consapevoli del fatto che essa è artificiale

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e non dovremmo confondere la nostra analisi con la natura stessa così come non

dobbiamo scambiare gli organi del corpo umano osservati per dissezione col

corpo vivente stesso.

La teoria della relatività sconvolge uno fra gli assunti filosofici fondamentali

della scienza, la relazione di causa ed effetto. Nella concezione usuale di questa

relazione, la causa di un effetto precede necessariamente quest’ultimo. In accordo

con la nuova teoria l’ordine dei due eventi non è più assoluto. Quando abbiamo

discusso la questione della simultaneità, abbiamo trovato che l’ordine di due

lampi di luce dipendeva dall’osservatore. Se questi due lampi fossero sostituiti da

due eventi i quali apparissero essere causa ed effetto a qualche osservatore, altri

osservatori potrebbero non osservare gli eventi in tale relazione, poiché per essi

l’evento chiamato effetto potrebbe verificarsi prima della causa. È pertanto

opportuna una revisione del concetto di causalità.

L’esistenza del libero arbitrio sembra legata strettamente alla causa e

all’effetto. Il libero arbitrio implica che un atto volontario della mente possa

causare un atto successivo del corpo. Per la persona che esercita il suo “libero

arbitrio”, questo può essere di fatto l’ordine degli eventi; per qualche osservatore

l’ordine degli eventi nel tempo può essere inverso, cosicché l’atto del corpo può

apparire come la causa dello stato mentale della persona. Quest’ultima concezione

può richiamarci alla mente la moderna teoria delle emozioni, secondo la quale, ad

esempio, non scappiamo via dal pericolo perché siamo spaventati ma siamo

spaventati perché scappiamo via. La questione del possesso o meno del libero

arbitrio da parte di esseri umani dev’essere evidentemente riconsiderata alla luce

della teoria della relatività.

Le dottrine rivoluzionarie della nuova teoria hanno concentrato l’attenzione

sulla nostra tendenza ad accettare modelli di pensiero per il fatto che essi ci sono

stati inculcati fin dalla nostra infanzia. Newton ci insegnò a pensare nei termini di

una forza di gravità che, partendo dal Sole, si spinge fino a milioni e centinaia di

milioni di chilometri nello spazio e mantiene i pianeti nelle loro orbite. Questo

concetto fu accolto con grande favore nel Settecento poiché consentiva predizioni

accurate. Noi abbiamo seguito queste indicazioni senza discuterle. Fra due o tre

generazioni i ragazzi sorrideranno certamente della nostra ingenuità e credulità.

Un altro processo mentale su cui il lavoro sulla relatività richiama l’attenzione

e che ostacola il progresso è quello consistente nel fare inconsciamente ipotesi.

Noi siamo colpevoli di supporre, ad esempio, senza badarci e senza esercitare un

giudizio critico, che il tempo, la distanza e la simultaneità siano uguali per tutte le

persone in quest’universo. I matematici e gli scienziati si rendono conto ora che si

deve fare più attenzione a supposizioni fatte implicitamente che a quelle che sono

state riconosciute e affermate esplicitamente.

Forse anche l’autore è colpevole a questo punto di un’assunzione ingiustificata,

ossia l’assunto che il lettore sia stato in grado di ingerire e assimilare con tanta

rapidità non soltanto le idee principali della teoria della relatività bensì anche le

loro implicazioni filosofiche. Passiamo perciò rapidamente in rassegna gli eventi

più importanti. La fisica dell’Ottocento era costruita sulle basi della geometria

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euclidea, delle idee di lunghezze assolute, tempo assoluto e simultaneità assoluta

di eventi, delle leggi del moto di Newton, della forza di gravità e del concetto di

etere. Ciascuna di queste pietre da costruzione implicava assunti, che si riteneva

fossero ben garantiti, sul mondo fisico. L’esperimento di Michelson e Morley

dimostrò che nell’uso dell’etere come veicolo di onde luminose era implicata

un’incoerenza nella teoria fisica. Einstein dimostrò successivamente che erano

altrettanto ingiustificate le assunzioni di lunghezze assolute, di un tempo assoluto

e di un’assoluta simultaneità. Seguì allora una rivoluzione nel pensiero fisico. Le

nozioni di lunghezza locale, tempo locale e ordine locale di eventi sostituirono le

corrispondenti nozioni assolute. La ricerca di nuove quantità assolute si concluse

con la consapevolezza del fatto che, per produrle, dobbiamo combinare spazio e

tempo. Minkowski ribadì poi che l’universo è naturalmente un’unità

spaziotemporale quadridimensionale e che è irreale, anche se talvolta necessario a

fini pratici, separare spazio e tempo. Einstein portò avanti quest’idea sviluppando

una geometria non euclidea che spiega gli effetti della forza di gravità newtoniana

nei termini dei percorsi naturali di corpi nel nuovo spazio-tempo.

Con questi sviluppi una grande tendenza nella storia della matematica e della

scienza perviene a un coronamento grandioso. In un capitolo precedente abbiamo

parlato della matematizzazione della scienza. Un passo estremamente

significativo in questa direzione fu fatto quando, nel Seicento, taluni scienziati

decisero di foggiare il loro pensiero e i loro procedimenti nei termini di relazioni

quantitative. I fenomeni del moto, delle forze, del suono, della luce e

dell’elettricità furono studiati tutti e applicati con successo solo una volta

compiuta questa trasmutazione in matematica. Molti settori della scienza

divennero allora semplici estensioni della matematica del numero.

È ora possibile apprezzare quanta parte della scienza sia stata matematizzata

sotto forma di geometria. Dal tempo di Euclide le leggi dello spazio fisico non

sono state altro che teoremi di geometria. Poi Ipparco, Tolomeo, Copernico e

Keplero compendiarono i moti dei corpi celesti in termini geometrici. Ponendo

l’occhio al suo cannocchiale, Galileo estese l’applicazione della geometria allo

spazio infinito e a molti milioni di corpi celesti. Quando Lobačevskij, Bolyai e

Riemann ci fecero vedere come si possano costruire vari mondi geometrici,

Einstein si impadronì dell’idea al fine di adattare il nostro mondo fisico a un

mondo quadridimensionale, matematico. Gravità, tempo e materia divennero

allora, insieme allo spazio, semplici parti della struttura della geometria. La

convinzione dei greci classici che la realtà possa essere intesa nel modo migliore

nei termini di proprietà geometriche e la dottrina rinascimentale di Descartes

secondo cui i fenomeni della materia e del moto possono essere spiegati nei

termini della geometria dello spazio hanno ricevuto una conferma assoluta.

La teoria della relatività è solo uno fra gli sviluppi matematici del Novecento

che stanno plasmando in modo determinante la nostra civiltà e la nostra cultura.

Per essere onesti nei confronti del nostro secolo dovremmo investigare uno

sviluppo affine che ha avuto forse un’influenza anche maggiore: la teoria

quantistica. Mentre la teoria della relatività è stata utilissima nel trattamento di

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fenomeni implicanti distanze, tempi e velocità enormi, la teoria quantistica ha

consentito agli scienziati di trattare il minuscolo mondo all’interno dell’atomo. La

scienza dell’immenso universo e dei regni infinitesimi sono state perciò entrambe

rivoluzionate. Purtroppo la scienza del nostro secolo si sta allontanando sempre

più dal “senso comune”, da concetti accessibili intuitivamente e da immagini

semplici, fisiche. La scienza fa ricorso sempre più a una matematica complicata

per la quale la spiegazione fisica è incompleta o addirittura contraddittoria,

benché tale spiegazione sia abbastanza reale da consentire la progettazione e la

produzione di bombe atomiche. È perciò impossibile, in un panorama conciso

come questo, tentare di spiegare i fenomeni quantistici. Ci spiace di doverci

limitare a una semplice menzione di passaggio di questo secondo sviluppo

importante di un secolo che è ancora in gran parte imprevedibile.

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XXVIII. Matematica: metodo e arte

La scienza della matematica pura, nei suoi

sviluppi moderni, può pretendere di essere la

creazione più originale dello spirito umano.

ALFRED NORTH WHITEHEAD

Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato alcune idee della matematica vera e

propria, le origini di queste idee nel loro tempo e le loro influenze su vari settori

della nostra cultura. In tempi moderni queste idee si sono moltiplicate a un ritmo

quasi fantastico. Corrispondentemente, le influenze di questa scienza sono

cresciute per numero, profondità e complessità. Si potrebbe considerare uno

qualsiasi dei campi che hanno goduto di uno stretto contatto con la matematica in

un qualche periodo da noi esaminato e tracciare la continuazione e l’estensione di

tale legame fino a oggi. Non disponiamo però né del tempo né dello spazio

necessari per un’esposizione particolareggiata delle relazioni della matematica

con l’arte, la scienza, la filosofia, la logica, le scienze sociali, la religione, la

letteratura e una decina di altre importanti attività e interessi umani. Speriamo che

quanto abbiamo visto sia sufficiente a sostenere la tesi di questo libro, ossia che la

matematica ha svolto una funzione dominante nella formazione della cultura

moderna.

Un argomento è stato però finora trascurato. La matematica è di per se stessa

un settore vivo, fiorente, della nostra cultura. Vari millenni di sviluppi hanno

prodotto un corpo imponente di pensiero i cui caratteri essenziali dovrebbero

essere familiari a ogni persona istruita. Benché la natura della matematica

moderna fosse in qualche misura preannunziata dai contributi dei greci, gli eventi

che hanno avuto luogo nei secoli scorsi e la creazione della geometria non

euclidea in particolare hanno alterato radicalmente il ruolo e la natura del

soggetto. Un esame della natura della matematica del Novecento non soltanto

correggerà un errore ma chiarirà forse perché la disciplina abbia guadagnato in

potere e in statura.

La matematica è soprattutto un metodo. Tale metodo è incarnato in ciascun

settore della matematica, come l’algebra dei numeri reali, la geometria euclidea o

le geometrie non euclidee. Esaminando la struttura comune di questi settori, i

caratteri salienti di questo metodo diventeranno chiari.

Ogni branca o sistema della matematica si occupa di una classe di concetti ad

esso propri; la geometria euclidea, ad esempio, si occupa di punti, linee, triangoli,

cerchi e così via. Definizioni precise dei concetti appartenenti a un sistema sono le

importanti fondamenta su cui viene costruita la delicata struttura superiore.

Purtroppo non tutti i concetti o termini possono essere definiti senza addentrarsi

in una successione infinita di definizioni. È vero che i significati dei termini non

definiti sono suggeriti da esempi fisici. La somma, uno fra i termini non definiti

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dell’algebra, può essere spiegata ricorrendo all’esempio del numero di mucche

che si otterrebbe facendo una mandria sola di due mandrie separate. Siffatte

spiegazioni in termini fisici non fanno parte però della matematica poiché questa

disciplina è logicamente autonoma e autosufficiente. Alcuni concetti possono

ovviamente essere definiti ricorrendo ad altri non definiti, così come possiamo

definire un cerchio nei termini di punto, piano e distanza, descrivendolo come

l’insieme di tutti i punti in un piano che si trovino a una distanza stabilita da un

punto dato.

Se alcuni termini non sono definiti e se le immagini e i processi fisici che noi

associamo solitamente a essi non fanno parte della matematica vera e propria,

quali fatti che li riguardino possiamo usare nel ragionamento? La risposta

dev’essere ricercata negli assiomi. Queste asserzioni, che accettiamo senza

dimostrazione, su termini definiti e non definiti sono l’unica base per qualsiasi

conclusione che possa esser tratta sui concetti in discussione.

Ma come sappiamo quali assiomi accettare, specialmente in considerazione del

fatto che essi implicano termini non definiti? Non ci troviamo nella posizione di

cani che girano vorticosamente in cerchio inseguendo la loro coda? Come nel

caso dei termini non definiti, è di solito l’esperienza a darci la risposta. Gli uomini

accettavano gli assiomi sui numeri e gli assiomi della geometria euclidea perché

l’esperienza di insiemi di oggetti e di figure fisiche garantiva per questi assiomi.

Anche qui dobbiamo far attenzione a non includere l’esperienza fisica nella

matematica come sua parte. La matematica comincia con l’affermazione di

assiomi, senza considerare da dove essi sono stati ottenuti. Fino all’Ottocento

l’esperienza fu l’unica fonte di assiomi. Le investigazioni nel campo della

geometria non euclidea furono però motivate da un desiderio di usare un assioma

delle parallele diverso da quello di Euclide. In questi casi i matematici andarono

deliberatamente contro l’esperienza.

Benché gli assiomi della geometria non euclidea apparissero contrari alla

normale esperienza umana, essi fornivano teoremi applicabili al mondo fisico. In

considerazione di questo fatto, si potrebbe ritenere che ci sia una libertà

considerevole nella scelta degli assiomi. È, questa, una verità parziale, poiché gli

assiomi di qualsiasi branca della matematica devono essere coerenti fra loro; in

caso contrario ne risulterebbe infatti solo confusione. Coerenza significa non solo

che gli assiomi non devono contraddirsi fra loro ma anche che non devono dare

origine a teoremi che si contraddicano fra loro.

La richiesta di coerenza ha cominciato ad assumere un grande significato in

anni recenti. Finché i matematici considerarono i loro assiomi e teoremi come

verità assolute, non venne loro in mente che non avrebbero mai potuto presentarsi

contraddizioni tranne che in séguito a un errore logico. La natura era coerente.

Poiché la matematica formulava nei suoi assiomi fatti naturali e ne deduceva altre

verità non derivabili immediatamente dalla natura, anche la matematica doveva

essere coerente. La creazione della geometria non euclidea fece però vedere ai

matematici che essi dovevano far da sé. Essi non stavano registrando la natura,

stavano interpretandola e ogni interpretazione poteva non soltanto essere sbagliata

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ma anche incoerente. Il problema della coerenza fu ulteriormente sottolineato

dalla scoperta di paradossi implicanti concetti fondamentali, una scoperta che

ebbe luogo nella scia dei contributi di Cantor.

Può darsi che sia possibile stabilire, per esame diretto di un insieme di assiomi,

che nessuno di essi contraddice l’altro. Ma in che modo possiamo esser certi del

fatto che nessuno delle centinaia di teoremi che possono essere dedotti dagli

assiomi sarà mai in contraddizione con un altro? La risposta a questa domanda è

lunga e a tutt’oggi, bisogna confessarlo, non è del tutto soddisfacente. Gran parte

del lavoro recente nel campo della matematica si è proposto l’obiettivo di stabilire

la coerenza di varie branche matematiche. I matematici non sono però riusciti a

dimostrare, almeno finora, che il sistema matematico comprendente gli assiomi e i

teoremi sui nostri comuni numeri reali sia coerente. Questa situazione e

estremamente imbarazzante. In anni recenti la coerenza ha sostituito la verità

come dio dei matematici e ora si rivela la probabilità che neppure questo dio

esista.

Oltre a essere coerenti fra loro, gli assiomi di un settore della matematica

devono essere semplici. La ragione di questa richiesta è chiara. Poiché gli assiomi

sono accettati senza dimostrazione, dobbiamo sapere con precisione che cosa

stiamo accettando. La semplicità ci assicura questa comprensione. È preferibile,

benché non essenziale, che gli assiomi di un sistema matematico siano

indipendenti l’uno dall’altro. In altri termini, non dovrebbe esser possibile

dedurre un assioma da uno o più altri assiomi. Quando un assioma risulta

deducibile da altri è preferibile presentarlo come un teorema, poiché in tal modo

riduciamo a un numero il più possibile piccolo le affermazioni accettate senza

dimostrazione. Infine, gli assiomi di un sistema matematico devono essere

fecondi; come semi selezionati con cura, devono fornire un buon raccolto, poiché

un obiettivo dell’attività matematica è quello di portare in luce le nuove

conoscenze implicite negli assiomi. Il contributo di Euclide alla matematica fu

prezioso perché egli scelse un piccolo numero di assiomi che fornirono centinaia

di teoremi.

Ammesso che sia stato scelto un insieme di assiomi che soddisfi tutte le

condizioni necessarie e desiderabili, in che modo il matematico sa quali teoremi

dimostrare e in che modo procede alla loro dimostrazione? Consideriamo ora

queste domande.

Esistono molte fonti di possibili teoremi. Fra queste l’esperienza è senza

dubbio la più feconda. L’osservazione di triangoli fisici o reali suggerisce molte

conclusioni probabili su triangoli matematici. La deduzione dagli assiomi

conferma poi queste conclusioni come teoremi matematici oppure ne dimostra

l’erroneità. L’esperienza dev’essere intesa ovviamente in un senso molto ampio.

Taluni teoremi sono stati suggeriti da osservazioni casuali. Problemi scientifici

postisi in laboratori o in osservatori e il problema artistico di raffigurare

pittoricamente la profondità su una superficie piana hanno condotto a teoremi

precisi.

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In una grande misura la matematica genera i suoi propri problemi. Vari teoremi

sorgono come una generalizzazione di osservazioni concernenti numeri e figure

geometriche. Chiunque abbia un po’ meditato sui numeri interi, ad esempio, ha

senza dubbio osservato che la somma dei primi due numeri dispari, ossia 1 + 3, è

il quadrato di due; che la somma dei primi tre numeri dispari, ossia 1 + 3 + 5, è il

quadrato di tre; e così via per i primi quattro, cinque, sei numeri dispari. Un

semplice calcolo suggerisce dunque una proposizione generale, ossia che la

somma dei primi n numeri dispari, dove n è un numero intero positivo, è il

quadrato di n. Ovviamente, questo possibile teorema non è dimostrato dai calcoli

eseguiti sopra, né potrebbe mai essere dimostrato da tali calcoli, poiché nessun

uomo mortale potrebbe mai compiere quell’insieme infinito di calcoli che si

richiederebbe per stabilire la conclusione per ogni n. I calcoli danno nondimeno al

matematico qualche cosa su cui lavorare.

Consideriamo un altro caso di generalizzazione come fonte di suggerimenti per

teoremi. Un triangolo è un poligono di tre lati. Ora, nella geometria euclidea la

somma degli angoli di un triangolo è di 180°. Non è naturale chiedersi se non si

possa trovare un teorema generale sulla somma degli angoli di ogni poligono? A

questa domanda risponde un teorema molto antico. Si trova la somma degli angoli

di un poligono qualsiasi sottraendo due al numero dei lati e moltiplicando poi il

risultato per 180°.

Abbiamo già visto in che modo il problema puramente logico di dedurre

l’asserzione contenuta nell’assioma delle parallele di Euclide da assiomi più

accettabili abbia condotto alla geometria non euclidea. Una volta affacciatasi

l’idea di tali geometrie, numerosi suggerimenti di teoremi furono ottenuti

ricercando gli analoghi di teoremi validi nella geometria euclidea. Ad esempio,

qual è l’analogo del teorema che dice che la somma degli angoli di un

quadrilatero è 360°?

Fig. 88. Le linee che congiungono i punti di mezzo dei lati di qualsiasi

quadrilatero formano un parallelogrammo.

Queste poche indicazioni sul modo in cui i matematici si assicurano

suggerimenti di teoremi non ci dicono tutto. Anche se ad esse aggiungessimo le

fonti più fortuite, come il puro caso, congetture approssimative o tentativi

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disordinati, avremmo lasciato fuori la fonte più preziosa di possibili teoremi:

l’immaginazione, l’intuizione, la penetrazione propria del genio creativo. La

maggior parte delle persone potrebbe osservare all’infinito un quadrilatero senza

accorgersi che se uniamo i punti di mezzo dei quattro lati (fig. 88) la figura che si

forma è un parallelogrammo. Una tale nozione non è il prodotto della logica bensì

di un’intuizione improvvisa.

Nei campi dell’algebra, del calcolo infinitesimale e specialmente dell’analisi

superiore, il buon matematico dipende dal tipo di ispirazione che noi associamo di

solito al musicista compositore. Il compositore sente di aver trovato un tema, una

frase che, opportunamente sviluppata e abbellita, produrrà una bella musica.

L’esperienza e la conoscenza della musica lo aiutano a svilupparla. Similmente, il

matematico indovina di avere una conclusione che seguirà dagli assiomi.

L’esperienza e la conoscenza possono guidare i suoi pensieri avviandoli nei canali

appropriati. Prima di raggiungere una formulazione corretta e soddisfacente del

nuovo teorema può darsi che si richiedano modificazioni di qualche tipo.

Sostanzialmente però il matematico e il compositore sono mossi da un afflato

divino che consente loro di “vedere” e “conoscere” l’edificio finale prima che sia

posta la prima pietra.

La conoscenza di ciò che si tratta di dimostrare è inestricabilmente connessa al

modo in cui dimostrarlo. Un esame dei fatti noti in una situazione può convincere

il matematico della possibilità di dimostrare un certo teorema. Finché egli non

sarà in grado di fornire una dimostrazione deduttiva di tale teorema, non potrà

però asserirlo o applicarlo. La distinzione fra la convinzione che un teorema sia

valido e una dimostrazione del teorema stesso è chiarita da molti esempi classici.

I greci proposero i tre famosi problemi della duplicazione del cubo, della

trisezione di un angolo e della quadratura del cerchio usando solo riga e

compasso. Nel corso di un periodo di due millenni molti matematici si convinsero

dell’impossibilità di realizzare queste costruzioni nelle condizioni assegnate ma il

problema fu considerato risolto solo quando, nell’Ottocento, furono fornite

precise dimostrazioni di tale impossibilità.

Un esempio eccellente di una congettura, la verità della quale sembra

indubitabile, è che ogni numero pari è la somma di due numeri primi. Ricordiamo

che un numero primo è un numero intero divisibile solo per se stesso e per 1; così

13 è un numero primo, mentre non lo è 9. In accordo con questa congettura, 2 è 1

+ 1; 4 è 2 + 2; 6 è 3 + 3; 8 è 3 + 5; 10 è 3 + 7. Potremmo continuare a sottoporre a

verifica indefinitamente quest’asserzione esaminando tutti i numeri pari e

troveremmo che la congettura è valida. Questa congettura non è però un teorema

matematico, poiché finora non ne é stata data alcuna dimostrazione.

Un teorema dev’essere stabilito al di là di ogni dubbio mediante un

ragionamento deduttivo procedente da assiomi e i matematici lavorano

letteralmente migliaia di ore per ottenere siffatte dimostrazioni. Nel nostro uso

quotidiano delle espressioni “esattezza matematica” e “precisione matematica”

rendiamo omaggio a questa instancabile ricerca di certezza.

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Molto lavoro matematico dev’essere evidentemente fatto per trovare metodi di

dimostrazione anche dopo che si sia data una risposta alla domanda: che cosa

dimostrare? Questo punto non ha bisogno di essere sottolineato per quei lettori

che si sono affaticati nel tentativo di dimostrare esercizi di geometria in cui è

fornita la proposizione da dimostrare e ci si attende che lo studente proceda con

successo da quel punto. Nella ricerca di un metodo di dimostrazione, come nella

ricerca di che cosa dimostrare, il matematico deve usare immaginazione,

intuizione e abilità creativa. Egli deve vedere possibili linee di attacco là dove

altri non le vedrebbero e deve avere la resistenza mentale di lottare con un

problema finché riesce a trovare una soluzione. Non sappiamo che cosa avvenga

nella sua mente mentre lavora sul problema, non più di quanto sappiamo con

precisione quali processi di pensiero ispirarono Keats a scrivere opere di fine

poesia o perché le mani e il cervello di Rembrandt fossero in grado di creare

quadri che suggeriscono una grande profondità psicologica. Non sappiamo

definire il genio. Possiamo dire solo che una capacità creativa nel campo della

matematica richiede qualità mentali di non comune eccellenza.

Forse abbiamo sfiancato il nostro Pegaso e lo abbiamo fatto volare troppo in

alto. Avendo suggerito un teorema e avendolo poi dimostrato, il matematico ha

realmente imparato qualcosa di nuovo? Dopo tutto, egli deriva dagli assiomi

soltanto ciò che pone in essi, poiché tutte le conclusioni da lui raggiunte sono

contenute implicitamente negli assiomi. I matematici adottano assiomi e

consumano secoli per dedurne teoremi i quali di fatto non sono altro che

elaborazioni di ciò che dicono gli assiomi. Per usare le parole del filosofo

Wittgenstein, la matematica non è altro che una grandiosa tautologia.

Ma quanto grandiosa! È letteralmente corretto definire la struttura logica della

matematica una tautologia ma quest’asserzione e altrettanto inadeguata quanto il

dire che la Venere di Milo è una gran bella donna. La definizione della

matematica come tautologia dice che la scelta di un insieme di assiomi è come

l’acquisto di un pezzo di terreno minerario: le ricchezze vi sono già presenti.

Questa definizione trascura però il paziente e duro lavoro di scavo che dev’essere

compiuto, il vaglio accurato del metallo prezioso dalla roccia, il valore e la

bellezza del tesoro ottenuto e il piacere e la soddisfazione per il risultato

conseguito.

La determinazione e dimostrazione di teoremi completa la struttura di una

branca della matematica. Una tale branca comprende allora termini, non definiti e

definiti, assiomi e teoremi, dimostrati sulla base di tali assiomi. Quest’analisi di

un sistema matematico descrive la struttura della matematica dei numeri e quella

di ciascuna delle varie geometrie. Ma per poter valutare più compiutamente il

nostro argomento si richiede un’investigazione un po’ più approfondita.

Ogni sistema matematico contiene termini non definiti: ad esempio le parole

punto e linea in un sistema geometrico. Nel nostro esame delle geometrie non

euclidee abbiamo trovato che possiamo attribuire alla parola linea significati fisici

considerevolmente diversi da quello della corda tesa che i matematici avevano in

mente quando costruirono queste geometrie. Il fatto che possiamo prenderci

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libertà del genere con termini non definiti, che possiamo dar loro interpretazioni

apparentemente ingiustificate, suggerisce che nei termini non definiti debba

esistere un qualche significato più profondo di quanto sia venuto in luce finora.

Dimentichiamoci per un momento della matematica e occupiamoci del campo,

meno logico, della diplomazia. A uno statista, in un congresso internazionale, si

pose il compito delicato di formare comitati destinati a svolgere varie funzioni;

egli decise allora che sarebbe stato opportuno formare questi comitati in accordo

con le condizioni seguenti:

a) Ogni coppia di nazioni doveva figurare in almeno un comitato.

b) Ogni coppia di nazioni doveva figurare in non più di un comitato.

c) Ogni coppia di comitati doveva avere almeno una nazione in

comune.

d) Ogni comitato doveva comprendere almeno tre nazioni.

Benché queste condizioni sembrassero sagge allo statista, egli temeva però che

esse potessero condurre a complicazioni indesiderabili che egli non avrebbe

potuto prevedere. Egli consultò allora un matematico, il quale gli indicò subito

alcune conseguenze.

(1) Ogni combinazione particolare di due nazioni apparirà in uno e un

solo comitato.

(2) Ogni coppia di comitati avrà una e una sola nazione in comune.

(3) Ci saranno molte combinazioni di tre nazioni che non appariranno in

alcun comitato.

Il matematico fu in grado di indicare subito queste conclusioni perché

riconobbe che le condizioni relative a nazioni e comitati erano precisamente

uguali alle seguenti proposizioni concernenti punti e linee:

(a') Ogni coppia di punti appare su almeno una linea.

(b') Ogni coppia di punti appare su non più di una linea.

(c') Ogni coppia di linee ha almeno un punto in comune.

(d') Ogni linea contiene almeno tre punti.

L’unica differenza fra i due insiemi consiste nel fatto che le parole punto e

linea sostituiscono nazione e comitato. Allora gli stessi teoremi che i matematici

avevano dedotto un tempo per punti e linee dalle condizioni (a') - (d') erano

trasferibili a nazioni e comitati perché, per stabilire i teoremi, tono stati usati solo

i fatti (a') - (d'). Il matematico non dovette far altro che sostituire punto e linea

con nazione e comitato nei teoremi matematici per ottenere le conseguenze che

presentò allo statista. Così l’assenza di significati ben definiti per i termini non

definiti punto e linea si dimostrò un grande vantaggio.

Dovrebbe ora esser chiaro un fatto di grande importanza: nella dimostrazione

deduttiva da assiomi formulati esplicitamente, il significato dei termini non

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definiti è irrilevante. Il matematico di oggi si rende conto che a punto, linea e altri

termini indefiniti si può attribuire qualsiasi significato fisico finché gli assiomi

che implicano questi termini conservano la loro validità per i significati fisici. Se

gli assiomi conservano la loro validità, allora anche i teoremi si applicano a queste

interpretazioni fisiche.

Si potrebbe avere l’impressione che la nostra nuova concezione della natura

della matematica le sottragga tutto il suo significato. Invece di essere

inseparabilmente congiunta a concetti fisici definiti e di fornirci una conoscenza

approfondita del mondo fisico, la matematica ci appare oggi affaccendata attorno

a parole vuote “che non significano nulla”. È vero invece l’inverso. La

matematica ha una molto maggiore ricchezza di significato, vastità di campo

d’azione e fecondità di applicazione di quanto si fosse mai sospettato prima. Oltre

ai significati fisici che erano associati in precedenza a concetti matematici e che

possono essere ancora conservati, si può trovare una varietà illimitata di nuovi

significati che soddisfino agli assiomi di sistemi matematici. In tali nuove

situazioni i teoremi di questi sistemi hanno nuovi significati e perciò nuove

applicazioni.

Eppure la matematica pura in sé non si occupa direttamente o primariamente

dei significati speciali che possono essere attribuiti ai termini non definiti. Essa si

occupa invece delle deduzioni che possono esser fatte dagli assiomi e dai concetti

definiti. La matematica applicata, d’altra parte, si occupa di quei significati fisici

dei concetti della matematica pura che rendono i teoremi utili nel lavoro

scientifico. La transizione dalla matematica applicata passa di solito inosservata.

La proposizione secondo cui l’area di un cerchio è r2 è un teorema della

matematica pura. La proposizione che dice che l’area di un campo di forma

circolare è moltiplicato per il quadrato di una certa lunghezza fisica è un

teorema di matematica applicata.

La distinzione che abbiamo stabilito fra matematica pura e applicata è

precisamente quella che Bertrand Russell aveva in mente quando fece

l’osservazione apparentemente frivola ma del tutto giustificata che la matematica

pura “è l’argomento in cui non conosciamo né ciò di cui stiamo parlando né se ciò

di cui stiamo parlando sia vero.” Ovviamente molte persone hanno concepito

pensieri del genere sulla matematica anche senza l’incoraggiamento di Russell, e

senza sapere quanto fossero veri o come giustificarli. I matematici non conoscono

ciò di cui stanno parlando perché la matematica pura non si occupa del significato

fisico. I matematici non sanno mai se ciò che stanno dicendo è vero perché, in

quanto puri matematici, non fanno alcuno sforzo per accertare se i loro teoremi

siano asserzioni vere sul mondo fisico. Di tali teoremi possiamo chiederci soltanto

se siano stati ottenuti applicando un ragionamento corretto.

Il carattere astratto di sistemi matematici e la loro relazione a significati fisici

possono essere illustrati adducendo come esempio una situazione simile in

musica. Quando Beethoven ebbe composto la Quinta Sinfonia, ne furono proposte

molte interpretazioni. Alcuni fra i suoi contemporanei vi lessero speranza,

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disperazione, vittoria, sconfitta, le lotte dell’uomo contro il destino. La musica,

come la matematica, esiste nondimeno senza alcuna di tali “applicazioni”.

Possiamo essere inclini a credere che il procedimento di dedurre conclusioni da

assiomi concernenti termini indefiniti sia peculiare alla matematica pura. Una

rapida digressione ci convincerà però del fatto che questo tipo di ragionamento

non è del tutto insolito. Consideriamo il processo di pensiero tipico dei giuristi. Il

giurista accetta come assioma, benché preferisca chiamarlo principio o norma, il

fatto che ogni Stato sovrano ha un potere di polizia. Lo Stato di New York,

secondo la definizione che di uno Stato si dà nell’unione americana, è sovrano in

questioni locali. Le attività industriali che si esauriscono all’interno dello Stato di

New York sono fatti puramente locali. New York ha perciò un potere di polizia su

industrie che operano all’interno dei confini dello Stato. L’uso di addetti agli

ascensori in edifici di New York è, per definizione legale, un’attività condotta per

intero entro i confini dello Stato. Perciò lo Stato di New York ha un potere di

polizia sull’impiego di addetti agli ascensori in edifici all’interno dello Stato e, in

particolare, sull’impiego di donne addette agli ascensori.

Usando alcuni assiomi su concetti o termini, il legislatore è arrivato a una

conclusione. Osserviamo, nondimeno, che nel ragionamento non è stata data né

usata alcuna definizione del potere di polizia. Il nostro legislatore ha usato

soltanto l’assioma che ogni Stato sovrano ha un potere di polizia. Perciò

l’espressione potere di polizia è stata usata come un termine non definito,

esattamente come il matematico usa il punto e la linea. Pur essendo d’accordo col

ragionamento fatto sopra, il lettore che non conosca la legge potrebbe associare il

potere di polizia con i poliziotti. L’interpretazione legale usuale del potere di

polizia è però quella del potere di provvedere alla sanità e al benessere generale.

Se consideriamo la storia del diritto, il potere di polizia non includeva la facoltà di

fissare i minimi di salario per le donne, cosicché il nostro ragionamento ci

avrebbe condotto alla conclusione che lo Stato di New York non può fissare un

salario minimo per le donne addette agli ascensori. Più tardi, però, una decisione

della corte dichiarò che il potere di polizia include la facoltà di fissare un salario

minimo per le donne addette agli ascensori negli edifici di New York. Così il

termine non definito potere di polizia può ricevere interpretazioni del tutto

contraddittorie; eppure la conclusione ottenuta dal ragionamento fatto sopra si

applica in entrambe le interpretazioni.

Abbiamo visto da quest’esempio che il legislatore, come il matematico, si

impegna in catene di ragionamento deduttivo su termini non definiti, e attribuisce

spesso un significato concreto a questi termini solo quando è pronto ad applicare

le sue conclusioni. Inoltre come, in situazioni diverse, il matematico attribuisce

significati fisici vari, a volte contraddittori, a una parola non definita, come linea,

così in diversi tempi la corte dà significati contraddittori a un termine non

definito, come potere di polizia.

L’analogia fra procedimento matematico e legale va oltre l’uso di termini non

definiti in catene di ragionamento deduttivo. I principi del diritto non sono

semplici assiomi; essi appartengono a sistemi, come gli assiomi della matematica,

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e sistemi diversi possono contenere principi contraddittori. Ad esempio, il diritto

legale dell’individuo a impegnarsi in un’impresa privata è un principio in un

sistema capitalistico di governo esattamente come l’assioma euclideo delle

parallele è un assioma nel sistema di geometria euclideo. Le differenze fra forme

di governo fasciste, democratiche e comuniste derivano da differenze in principi

fondamentali, esattamente come i diversi teoremi nelle varie geometrie derivano

da assiomi diversi. E precisamente come ciascuna geometria tenta di trattare lo

spazio fisico, ciascun sistema politico tenta di trattare l’ordine sociale.

Non soltanto i legislatori all’interno del sistema legale, ma anche i politici

all’interno dei partiti politici fanno uso dello schema matematico che abbiamo

appena descritto. Prima di ogni campagna elettorale i politici osano esser logici. I

dirigenti di ogni partito redigono un programma ciascuno dei cui elementi è, in un

senso reale, un assioma del credo politico di quel partito. Dalle proposizioni

contenute in questo programma dovrebbe esser possibile dedurre la posizione di

un partito nella futura legislazione. Fin qui tutto bene. Ciò che i politici mancano

di rilevare, e tanto meno di sottolineare, è il libero uso nei loro programmi di

termini non definiti come libertà, giustizia, americanismo, democrazia e simili.

Non c’è bisogno di dire che l’uso di termini non definiti in un tale contesto è

deliberato.

La nostra discussione sul significato di termini non definiti in sistemi

matematici dovrebbe aiutarci ad apprezzare l’astrattezza del pensiero matematico.

Quest’astrattezza risulta dal fatto che la matematica vera e propria lascia cadere i

significati fisici associati in origine con i termini non definiti. Il metodo

matematico è astratto anche in un altro senso. Estranea al guazzabuglio di

esperienze offerte dalla natura, la matematica si isola e si concentra su particolari

aspetti. E questa un’astrazione nel senso di delimitare il fenomeno investigato. Ad

esempio, la linea retta matematica ha soltanto poche proprietà se la si confronta

con le linee rette formate dallo spigolo di un tavolo o tracciate con una matita. Le

poche proprietà che la linea matematica possiede sono formulate negli assiomi; ad

esempio, essa è definita da due punti. Le linee fisiche, oltre a questa proprietà,

hanno colore e anche larghezza e profondità; esse sono composte inoltre da

molecole ciascuna delle quali ha una struttura complicata.

Potrebbe sembrare che un tentativo di studiare la natura concentrandosi su

poche proprietà degli oggetti fisici dovrebbe risultare inefficace. Eppure una parte

del segreto del potere della matematica risiede nell’uso di questo tipo di

astrazione. Grazie ad esso liberiamo la nostra mente dai particolari gravosi e

irrilevanti e siamo quindi in grado di ottenere risultati molto migliori che se

dovessimo tener presente l’intera immagine fisica. Il successo del procedimento

di astrarre aspetti particolari dalla natura si fonda sul principio del divide et

impera.

Il fatto di concentrarsi su pochi aspetti dell’esperienza presenta altri vantaggi

oltre a quello di delimitare il problema in studio. Lo scienziato sperimentale,

occupandosi in modo diretto di oggetti fisici, pensa di solito prevalentemente nei

termini di oggetti percepiti attraverso i sensi. Egli è incatenato al suolo. La

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matematica, astraendo concetti e proprietà dagli oggetti fisici, è capace di volare

sulle ali del pensiero al di là del mondo sensibile accessibile alla vista, all’udito e

al tatto. La matematica è pertanto in grado di “trattare” oggetti come fasci di

energia, che forse non potranno mai essere descritti qualitativamente perché sono

evidentemente al di là del regno della sensazione. La matematica può “spiegare”

ad esempio la gravitazione come una proprietà di uno spazio troppo esteso per

poter essere visualizzato. Analogamente, la matematica può trattare e “conoscere”

fenomeni misteriosi come l’elettricità, le onde radio e la luce, per i quali ogni

immagine fisica è principalmente speculativa e sempre inadeguata. Le astrazioni,

ossia le formule matematiche, sono i fatti più significativi e più utili che

possediamo su questi fenomeni.

L’astrazione di aspetti quantitativi da fenomeni fisici rivela spesso relazioni

insospettate perché le leggi quantitative risultano identiche per fenomeni

apparentemente privi di relazione fra loro. Quest’affermazione è illustrata come

meglio non si potrebbe dalla scoperta, a opera di Maxwell, che le onde

elettromagnetiche e le onde luminose soddisfano le stesse equazioni differenziali.

Tale scoperta suggerì immediatamente che luce e onde elettromagnetiche

posseggono le medesime proprietà fisiche, una relazione confermata da allora

migliaia di volte. Come scrisse Whitehead:

Nulla è più impressionante del fatto che man mano che la matematica si ritirò in misura

crescente nelle regioni superiori di un pensiero astratto sempre più spinto, tornò alla Terra con

un’importanza sempre crescente nell’analisi del fatto concreto... È ora pienamente stabilito il

paradosso secondo cui le astrazioni più spinte sono le vere armi con cui controllare il nostro

pensiero del fatto concreto.

Coloro che, ammettendo il paradosso, deplorano ancora il fatto che, per

conseguire il successo, le scienze fisiche debbano pagare il prezzo dell’astrattezza

matematica, devono riconsiderare che cosa vorrebbero ricercare in un’esposizione

scientifica della natura del mondo fisico. La risposta di Eddington è che una

conoscenza delle relazioni e della struttura matematiche è tutto ciò che la scienza

della fisica può darci. E Jeans sostenne che la descrizione matematica

dell’universo è la realtà ultima. Le immagini e i modelli che usiamo come ausilio

per la comprensione segnano, secondo lui, un allontanamento dalla realtà. Esse

sono simili a “immagini scolpite di uno spirito.” Noi andiamo oltre la formula

matematica solo a nostro rischio.

Abbiamo discusso la matematica come un metodo, un metodo applicato allo

studio di relazioni quantitative e spaziali e a concetti derivati da questi campi

originali di investigazione. La provincia della matematica non è più però

nettamente delimitata. La creazione della geometria non euclidea, come abbiamo

visto, liberò il matematico dalla servitù di dover produrre verità e lo lasciò libero

di adottare assiomi e di investigare idee che potrebbero non avere alcuna utilità

apparente nel padroneggiare o comprendere il mondo fisico. Il matematico è

pertanto costretto a chiedersi che cosa guidi la sua scelta dell’argomento e che

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cosa motivi la sua attività. Che cosa distingue il suo lavoro da enigmi a buon

mercato, da cruciverba o addirittura da sciocchezze gratuite? (Il lettore che

volesse rispondere immediatamente a questa domanda potrebbe essere un po’”

troppo frettoloso.) Da un centinaio d’anni circa i matematici sono infatti pervenuti

a riconoscere ciò che era stato sentito e asserito dai greci ma che era stato perso di

vista nei secoli intercorsi: la matematica è un’arte e il lavoro matematico deve

soddisfare richieste estetiche.

Molte persone indubbiamente sentono che l’inclusione della matematica fra le

arti è ingiustificata. L’obiezione più forte è che la matematica non ha alcun

significato emotivo. Quest’argomentazione non tiene conto naturalmente dei

sentimenti di avversione e di reazione che la matematica induce in talune persone.

Essa sottovaluta anche la gioia provata dai creatori della matematica quando

riescono a formulare le loro idee e a costruire dimostrazioni abili e geniali.

Perfino lo studente della matematica elementare prova soddisfazione quando

riesce a verificare esercizi stereotipi e quando dà prova di abilità nel vedere luce,

significato e ordine là dove prima c’erano oscurità e confusione.

È vero nondimeno che la matematica si appella in generale alle emozioni meno

della musica, della pittura e della poesia. E una persona è logicamente in grado di

insistere sul fatto che la funzione primaria dell’arte è quella di dare origine a

emozioni e di eccitare sentimenti. Secondo questo concetto d’arte, però, una

fotografia drammatica che afferri il nostro cuore sarebbe considerata più artistica

di numerosi grandi dipinti; la pittura astratta e gran parte della scultura

contemporanea sarebbero probabilmente ignorate e sussisterebbero dubbi sulla

condizione dell’architettura e della ceramica. Le nature morte di Picasso, studi

impressionistici, come quelli di Monet, di effetti atmosferici e luminosi, l’opera di

Seurat e di Cézanne e le “composizioni” dei cubisti non soddisferebbero neppur

essi le richieste citate. Di fatto l’arte pura dei tempi moderni pone l’accento

sull’aspetto teorico e formale della pittura, sull’uso della linea e della forma e su

problemi tecnici. Tali opere si rivolgono molto di più all’intelletto che alle

emozioni (si veda la tavola XXVII). Mentre la maggior parte dei dipinti del

Rinascimento, nonostante gli studi intellettuali implicati nella loro composizione,

agiscono direttamente sulle emozioni, le opere di artisti moderni devono

innanzitutto essere studiate, La richiesta che un’arte debba soprattutto eccitare le

emozioni sembra oggi particolarmente inadeguata.

Un’arte deve fornire uno sfogo all’istinto creativo dell’uomo. Uno sguardo

all’indietro allo sviluppo del nostro sistema numerico, ai perfezionamenti dei

metodi di calcolo, all’origine e all’espansione di nuovi settori ispirati dai problemi

dell’arte, delle scienze e della filosofia e ai perfezionamenti in standard di

ragionamento rigoroso dimostra che i matematici creano. La determinazione delle

asserzioni precise contenute nei teoremi, e le dimostrazioni che stabiliscono quei

teoremi, sono atti creativi. Come nelle arti, ogni particolare dell’opera finale non è

scoperto ma composto. Il processo creativo deve ovviamente produrre un’opera

che possegga disegno, armonia e bellezza. Queste qualità sono presenti anche

nella creazione matematica. Il disegno implica la presenza di modelli strutturali,

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di ordine, simmetria ed equilibrio. Molti teoremi matematici rivelano appunto un

tale disegno. Consideriamo, ad esempio, il seguente teorema di geometria piana;

fra tutti i poligoni di n lati aventi la stessa area, il poligono regolare di n lati, ossia

quello di lati uguali e angoli uguali, ha il perimetro minore.

La matematica ci dice dunque che un poligono regolare richiede un perimetro

minore rispetto a un poligono irregolare avente la stessa area e lo stesso numero

di lati. E ora, fra i poligoni regolari con un numero di lati diverso ma con

superficie uguale, quale ha il perimetro minore? La risposta è che fra i poligoni

regolari aventi la medesima area ha il perimetro minore quello che ha il maggior

numero di lati. Possiamo formare, ovviamente, poligoni regolari con un numero

qualsiasi di lati. Quale figura richiede allora il perimetro minimo per una

determinata superficie? Anche qui un senso intuitivo della costruzione razionale

ci suggerisce la risposta. Man mano che il numero di lati di un poligono regolare

aumenta, la figura si approssima a quella del cerchio. Il cerchio dovrebbe

comunque richiedere il perimetro minore. È questo, appunto, un teorema

matematico. Tali teoremi sono l’essenza dell’ordine e della razionalità.

La costruzione razionale in matematica non è puramente accidentale. Essa è

necessariamente presente in ogni struttura logica. Soltanto attraverso una

costruzione razionale consapevole Euclide riuscì a produrre l’intero sviluppo della

geometria euclidea dai pochi assiomi adottati in principio.

Un esempio eccellente di costruzione razionale deliberata usata come principio

nella creazione matematica può essere trovato nella costruzione di geometrie a più

di due dimensioni. Poiché x2 + y

2 = r

2 è l’equazione di un cerchio in un piano e x

2

+ y2 + z

2 = r

2 è l’equazione di una sfera nello spazio tridimensionale, x

2 + y

2 + z

2 +

w2 = r

2 è considerata l’equazione di una ipersfera nello spazio

quadridimensionale. Così il disegno strutturale della geometria analitica

bidimensionale e tridimensionale è trasferito intenzionalmente in dimensioni

superiori.

In ogni creazione artistica la relazione delle parti 1’una all’altra e delle parti al

tutto dev’essere armonica. Nelle creazioni matematiche l’armonia è in parte

intellettuale, sotto forma di coerenza logica. I teoremi di un qualsiasi sistema

matematico devono essere in completo accordo l’uno con l’altro. Ci sono però

anche altre armonie. L’intera struttura della geometria euclidea è in armonia con

la matematica del numero. Per mezzo di coordinate è possibile interpretare

concetti e teoremi geometrici algebricamente, e inversamente talune equazioni

algebriche hanno un’interpretazione geometrica. Le due creazioni sono pertanto

armoniche l’una rispetto all’altra.

I principali temi matematici sono stati armonizzati l’uno con l’altro. Nella

nostra breve rassegna abbiamo considerato quattro branche distinte della

geometria: la geometria euclidea, la geometria proiettiva e due geometrie non

euclidee. Al nostro esame, questi settori sono apparsi distinti e in alcuni casi in

contraddizione fra loro. Uno fra i contributi matematici più soddisfacenti degli

ultimi tempi ha nondimeno offerto la dimostrazione del fatto che è possibile

erigere una geometria proiettiva su una base assiomatica in modo tale che i

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teoremi delle altre tre geometrie risultino come teoremi specializzati della

geometria proiettiva. In altri termini, il contenuto di tutt’e quattro le geometrie è

ora incorporato in un tutto armonico.

La matematica ci offre ancora un altro genere di armonia. Il piano che la

matematica o impone alla natura o rivela in natura sostituisce il disordine con un

ordine armonico. È questo il contributo essenziale di Tolomeo, Copernico,

Newton ed Einstein.

È ovviamente del tutto possibile che un’opera creativa possegga tutti i caratteri

formali di un’opera d’arte senza nondimeno appartenere a tale categoria. Molti fra

coloro che hanno ascoltato musica moderna o che hanno osservato un quadro

moderno riferirebbero volentieri tale affermazione all’arte che viene prodotta

oggi. La verifica definitiva di un’opera d’arte è il suo contributo al piacere

estetico o alla bellezza. Fortunatamente, o purtroppo, si tratta di una verifica

soggettiva, la quale dipende dal grado di cultura in un settore specifico. Alla

domanda se la matematica possegga o no una sua bellezza può esser data perciò

una risposta solo da coloro che hanno una cultura in questa disciplina.

Tavola 16 Pablo Picasso, Tre musicisti (1921). A.E. Gallatin

Collection, Museum of Art, Filadelfia

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Di fatto, la ricerca di un piacere estetico ha sempre influenzato e promosso lo

sviluppo della matematica. Da una grande quantità di temi e di modelli che si

presentano al matematico, questi sceglie quelli che soddisfano un suo consapevole

o inconsapevole senso della bellezza. I greci del periodo classico investigarono la

geometria perché le sue forme e la sua struttura logica erano belle ai loro occhi.

Copernico, come abbiamo visto, sostenne la nuova concezione dei moti planetari

perché l’aspetto matematico della sua teoria gli diede un piacere estetico; Anche

Keplero apprezzò la teoria eliocentrica per questa ragione. “L’ho sentita vera nel

profondo della mia anima”, egli scrisse, “e ne contemplo la bellezza con un

piacere incredibile e affascinante.” Ispirato dall’opera di Copernico, anche

Keplero spese la maggior parte della sua vita nella ricerca di leggi matematiche

esteticamente soddisfacenti. Anche Newton si occupò con impegno della bellezza

come sanzione ultima della sua opera matematica e scientifica. Egli parla di Dio

come del garante della preservazione dell’armonia e della bellezza cosmica.

Possiamo trovare osservazioni e opinioni simili negli scritti della maggior parte

dei matematici.

Di fatto il senso estetico del vero matematico è più esigente della moglie più

bisbetica. Molte volte la ricerca di nuove dimostrazioni di teoremi già

correttamente stabiliti è intrapresa semplicemente perché le dimostrazioni

esistenti non hanno alcun fascino estetico. Ci sono dimostrazioni matematiche che

sono semplicemente convincenti; per usare un’espressione del famoso fisico

matematico Lord Raleigh, esse “costringono all’assenso.” Ci sono altre

dimostrazioni, le quali “allettano e affascinano l’intelletto. Esse suscitano gioia e

un desiderio intenso di dire: così sia, così sia.” Una dimostrazione eseguita con

eleganza è un poema in tutto tranne che nella forma in cui è scritta.

Lo studio, affascinante e irresistibile, di problemi matematici offre

assorbimento mentale, pace dell’animo in mezzo a infinite sollecitazioni, quiete

nell’attività, lotta senza conflitto, “rifugio dall’urgere di fatti contingenti”, e

quella sorta di bellezza che le montagne immutabili presentano ai sensi provati

dall’attuale caleidoscopio di eventi.

L’attrattiva offerta dal distacco e dall’obiettività del ragionamento matematico

e descritta superbamente da Bertrand Russell:

Lontano dalle passioni umane, lontano anche dai fatti miserandi della natura, le generazioni

hanno creato gradualmente un cosmo ordinato, dove il pensiero puro può abitare come nella

dimora naturale e dove almeno uno dei nostri impulsi più nobili può sfuggire dal tetro esilio del

mondo attuale.

Anche taluni profani si sono convinti del carattere artistico di opere

matematiche. Thoreau scrisse: “Le formulazioni più distinte e più belle di ogni

verità devono assumere infine la forma matematica.” Il lettore che rimane

indifferente a queste testimonianze può trovare almeno più intelligibili gli

atteggiamenti e gli sforzi dei matematici sapendo che questi uomini hanno

ricercato la bellezza.

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Dall’analisi che precede risulta che i criteri usuali di un’arte sono soddisfatti

dalla matematica. Molte persone si rifiutano nondimeno di riconoscere alla

matematica tale condizione, finendo però col riconoscergliela inconsapevolmente.

Nessuno parla di un talento o di una dote naturale per la storia o per l’economia e

neppure per la biologia. Quasi tutti parlano invece di un talento o di una genialità

per la matematica, fosse pure per dolersi della sua assenza. L’abilità matematica

viene dunque classificata insieme con l’abilità artistica.

Ci spiace di non poter proseguire oltre la nostra investigazione dell’argomento

natura e influenze della matematica. Se il tempo ci consentisse l’investigazione

dei settori più avanzati della matematica, potremmo esplorare un numero molto

maggiore di contributi della matematica alla nostra cultura. Purtroppo per

padroneggiare le idee matematiche ci vogliono anni di studio e non esiste alcuna

via regia che accorci materialmente il processo. Speriamo che il materiale

presentato qui abbia almeno dissipato l’impressione che la matematica sia un libro

chiuso, una storia raccontata in epoca greca e un capitolo secondario nella storia

dell’umanità e che abbia permesso di comprendere in qualche misura la posizione

che la matematica detiene nella nostra civiltà e nella nostra cultura.

La matematica non risolve purtroppo tutti i problemi affrontati dall’uomo. La

ragione, il metodo assiomatico e l’analisi quantitativa non forniscono un

approccio a tutti gli aspetti della vita. L’artista può usare la prospettiva

matematica ma una prospettiva corretta non è in sé un’arte. Benché i pensatori

settecenteschi fossero certi di poter scoprire le leggi della società e di risolvere

tutti i problemi sociali per mezzo della matematica, l’ordine sociale è purtroppo

ancor più confuso oggi di quanto non fosse nel Settecento. Né raccomanderemmo

la matematica come mezzo per risolvere i problemi degli idilli e del matrimonio,

anche se in un recente simposio ci sono stati antropologi che hanno caldeggiato

l’applicazione della matematica a questi problemi. Il campo d’azione della

matematica è limitato e la ragione per cui esso è limitato è espressa concisamente

nell’espressione: l’uomo è un animale razionale. La sua razionalità è una semplice

qualificazione della sua animalità. E poiché i desideri, le emozioni e gli istinti

dell’uomo sono parte della sua natura animale, e spesso rimangono non

soddisfatti da tale ragione, e talvolta addirittura le si oppongono, la sola ragione

non sarà sufficiente a guidare e a controllare tutte le attività dell’uomo. Queste

osservazioni non intendono ovviamente avvalorare la tesi che l’applicazione della

ragione agli affari dell’uomo abbia ormai raggiunto il punto di saturazione.

La matematica è variamente descritta come un corpo di conoscenza, come uno

strumento pratico, come una pietra angolare della filosofia, come la perfezione del

metodo logico, come la chiave alla conoscenza della natura, come la realtà della

natura, come un gioco intellettuale, come un’avventura nel campo della ragione e

come un’esperienza estetica. La nostra rassegna della matematica dovrebbe avere

indicato i motivi su cui si fondano tali descrizioni. Quando consideriamo il

numero di campi con i quali la matematica ha contatti e il numero di quelli sui

quali ci dà già una padronanza, totale o parziale, siamo tentati di definirla un

metodo di approccio all’universo delle esperienze fisiche, mentali ed emotive.

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Essa è il distillato più puro che il pensiero esatto abbia estratto dagli sforzi

dell’uomo per comprendere la natura, per impartire ordine alla confusione di

eventi che si verificano nel mondo fisico, per creare bellezza e per soddisfare la

naturale inclinazione del cervello sano a esercitarsi. Noi, vivendo in una civiltà

che si distingue primariamente per realizzazioni dovute alla matematica, siamo in

una posizione che ci consente di testimoniare l’esattezza di queste affermazioni.

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Elenco delle tavole

I Prassitele, Afrodite di Cnido

II Mirone, Discobolo

III Augusto di Prima Porta

IV Il Partenone

V Le orbite dei pianeti determinate alai cinque solidi regolari (Keplero)

VI Leonardo, Le proporzioni della figura umana

VII Mosaico protocristiano, Abramo con angeli

VIII Simone Martini, Annunciazione

IX Duccio da Boninsegna, La Maestà

X Duccio da Boninsegna, L’Ultima Cena

XI Giotto, L’accertamento delle stimmale

XII Giotto, Il Festino di Erode

XIII Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione

XIV Masaccio, Il tributo

XV Paolo Uccello, dal Miracolo dell’ostia profanata

XVI Paolo Uccello, Studio prospettico di un calice

XVII Piero della Francesca, Flagellazione di Gesù

XVIII Piero della Francesca, Resurrezione di Gesù

XIX Leonardo, Studio per l’Adorazione dei Magi

XX Leonardo, Cenacolo

XXI Sandro Botticelli, Allegoria della Calunnia

XXII Andrea Mantegna, San Giacomo condotto al martirio

XXIII Raffaello, Scuola d’Atene

XXIV Tintoretto, Trafugamento del corpo di San Marco

XXV Dürer, San Girolamo nel suo studio

XXVI William Hogarth, Falsa prospettiva

XXVII Pablo Picasso, Tre musicisti

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Sommario Prefazione .................................................................................................................................................. 5

I. Introduzione. Concezioni vere e false ................................................................................................. 9

II. Matematica ed empiria ...................................................................................................................... 17

III. La nascita dello spirito matematico ................................................................................................... 26

IV. Gli Elementi di Euclide ................................................................................................................. 40

V. Col metro fra le stelle ........................................................................................................................ 56

VI. La natura acquista la ragione ........................................................................................................ 67

VII. Intermezzo .................................................................................................................................... 79

VIII. La rinascita della spirito matematico ............................................................................................ 86

IX. L’armonia del mondo .................................................................................................................... 95

X. Pittura e prospettiva ........................................................................................................................ 109

XI. Una scienza figlia dell’arte: la geometria proiettiva ................................................................... 134

XII. Discorso sul metodo .................................................................................................................... 147

XIII. L’approccio quantitativo alla natura ........................................................................................... 166

XIV. La deduzione di leggi universali ............................................................................................. 178

XV. Fermati attimo fuggente: il calcolo infinitesimale ...................................................................... 193

XVI. L’influenza newtoniana: scienza e filosofia ............................................................................ 211

XVII. L’influenza newtoniana: la religione ...................................................................................... 230

XVIII. L’influenza newtoniana: letteratura ed estetica ...................................................................... 242

XIX. Il seno del sol maggiore .......................................................................................................... 255

XX. La padronanza delle onde dell’etere ........................................................................................... 270

XXI. La scienza della natura umana ................................................................................................ 285

XXII. La teoria matematica dell’ignoranza: l’approccio statistico allo studio dell’uomo ................ 300

XXIII. Predizione e probabilità .......................................................................................................... 316

XXIV. Il nostro universo disordinato: la concezione statistica della natura ....................................... 330

XXV. I paradossi dell’infinito ........................................................................................................... 346

XXVI. Nuove geometrie, nuovi mondi ............................................................................................... 358

XXVII. La teoria della relatività ...................................................................................................... 377

XXVIII. Matematica: metodo e arte .................................................................................................. 395

Bibliografia scelta ................................................................................................................................... 412


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