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Morris Kline
La matematica
nella cultura occidentale
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Titolo dell’opera originale
Mathematics in Western Culture
Traduzione dall’inglese di
Libero Sosio
88 figure e 27 tavole nel testo
La presente è una edizione speciale
realizzata da Giuliano Buceti a fini non commerciali.
E’ fatto divieto di fare uso di tutto o parte di questo testo senza la autorizzazione
dei detentori dei relativi diritti d’autore.
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Premessa
Dopo una tradizione ininterrotta di molti secoli, nella nostra epoca dell’istruzione
di massa la matematica ha cessato generalmente di essere considerata parte
integrante della cultura. L’isolamento degli scienziati ricercatori, la miseranda
scarsità di insegnanti dotati di un ascendente sui giovani e le generali tendenze
educative avverse a una disciplina intellettuale hanno contribuito al successo, nel
campo dell’istruzione, di un atteggiamento antimatematico. È merito soprattutto
del pubblico se un forte interesse per la matematica rimane nondimeno vivo.
Recentemente sono stati compiuti vari tentativi per soddisfare quest’interesse.
Insieme con H. Robbins, ho tentato di discutere il significato della matematica in
What is Mathematics? Il nostro libro si rivolgeva però a lettori che già
possedessero un certo livello di conoscenze matematiche. Qualcosa di più si
dovrebbe fare, a un livello meno tecnico, per il gran numero di persone che non
posseggono tali nozioni ma che nondimeno desiderano conoscere quale sia il
significato della matematica nella cultura umana.
Ho seguito per qualche tempo, con grande interesse, il lavoro del professor Morris
Kline nella preparazione del presente libro. Sono convinto che questo si
dimostrerà un contributo di primaria importanza e che servirà ad avvicinare alle
scienze matematiche persone che non hanno avuto ancora modo di apprezzare il
fascino e le possibilità di questa scienza.
R. Courant
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A Elizabeth e Judith
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Prefazione
Quando tutti questi studi avranno raggiunto il punto di intercomunione e di connessione
l'uno con l'altro, e perverranno a essere considerati nelle loro mutue affinità, allora, io
credo, e solo allora, il loro perseguimento avrà un valore ai nostri fini; altrimenti in
essi non c'è profitto.
PLATONE
Il fine di questo libro è quello di suggerire la tesi che la matematica è stata una
forza culturale di primo piano nella civiltà occidentale. Quasi tutti sanno che la
matematica è essenziale ai fini eminentemente pratici della progettazione in
ingegneria. Non tutti sembrano invece rendersi conto che la matematica sopporta
il carico principale del ragionamento scientifico e che essa è il centro vitale delle
principali teorie della scienza fisica. Ancor meno noto è il fatto che la matematica
ha determinato la direzione e il contenuto di buona parte del pensiero filosofico,
ha distrutto e ricostruito dottrine religiose, ha costituito il nerbo di teorie
economiche e politiche, ha plasmato i principali stili pittorici, musicali,
architettonici e letterari, ha procreato la nostra logica e ha fornito le risposte
migliori che abbiamo a domande fondamentali sulla natura dell’uomo e del suo
universo. Essendo l'incarnazione e la più efficace rappresentante dello spirito
razionale, la matematica ha invaso campi dominati dall’autorità, dalle usanze e
dall’abitudine, soppiantandole come arbitra del pensiero e dell’azione. Infine,
essendo una realizzazione umana incomparabilmente raffinata, offre soddisfazioni
e valori estetici almeno pari a quelli offerti da qualsiasi altro settore della nostra
cultura.
Benché la matematica abbia dato questi contributi non certo modesti alla nostra
vita e al nostro pensiero, le persone istruite rifiutano quasi universalmente la
matematica come oggetto d’interesse intellettuale. Questo atteggiamento è in un
certo senso giustificato. Le lezioni scolastiche e i libri di testo ci hanno presentato
la “matematica” come una serie di procedimenti tecnici apparentemente privi di
significato. Un tale materiale è rappresentativo della disciplina nella stessa misura
in cui un’enumerazione del nome, della posizione e della funzione di ogni osso
nello scheletro umano è rappresentativa di quell’essere vivo, pensante ed emotivo
che è l’uomo. Come una frase perde il suo significato o ne acquista uno non
intenzionale una volta strappata al suo contesto, così la matematica, staccata dal
suo ricco ambiente intellettuale nella cultura della nostra civiltà e ridotta a una
serie di tecniche, è stata grossolanamente distorta. Poiché il profano fa assai poco
uso della matematica tecnica, ha fatto resistenza al materiale spoglio e arido quale
viene presentato di solito. La conseguenza è che un argomento fondamentale, di
vitale importanza e tale da elevare lo spirito, viene trascurato e disprezzato da
persone peraltro di buon livello intellettuale. Di fatto l’ignoranza della matematica
viene considerata, a un certo livello della scala sociale, un fatto positivo.
In questo libro tracceremo un panorama della matematica principalmente per
dimostrare in che modo le sue idee abbiano contribuito a plasmare la vita e il
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pensiero del nostro secolo. Le idee saranno esposte nel loro ordine storico,
cosicché i nostri materiali si distribuiranno dagli inizi, nella Babilonia e in Egitto,
fino alla moderna teoria della relatività. Alcune persone potranno porre domande
circa la pertinenza dei materiali appartenenti ai periodi storici più antichi. La
cultura moderna consiste però proprio nell’accumulo e nella sintesi di contributi
forniti da molte civiltà anteriori. I greci, che per primi apprezzarono l’efficacia del
ragionamento matematico, concessero graziosamente agli dèi di usarlo nella
progettazione dell’universo e poi, incitando l’uomo a scoprire il disegno di questo
progetto, non soltanto diedero alla matematica un posto di primo piano nella loro
civiltà ma avviarono modelli di pensiero che sono una componente fondamentale
del nostro. Col passare del tempo e il susseguirsi delle civiltà, la matematica
venne acquistando ruoli nuovi e sempre più significativi. Molte di queste funzioni
e influenze della matematica sono ora profondamente integrate nella nostra
cultura. Anche i moderni contributi matematici sono apprezzati nel modo migliore
alla luce degli sviluppi anteriori.
Nonostante l’impostazione storica, questo libro non è una storia della
matematica. L'ordine storico è stato adottato perché è il più conveniente per la
presentazione logica dell'argomento e perché è il modo naturale per esaminare in
che modo le idee sorsero, quali furono le motivazioni che condussero alla loro
investigazione e in che modo tali idee influenzarono il corso di altre attività.
Un’importante conseguenza secondaria è che il lettore può ottenere qualche
indicazione sul modo in cui si è sviluppata la matematica nel suo complesso, sul
modo in cui i suoi periodi di attività e di quiescenza si sono articolati al corso
generale della storia della civiltà occidentale, e sul modo in cui la natura e i
contenuti della matematica hanno plasmato le civiltà che hanno contribuito al
sorgere della nostra attuale civiltà occidentale. Ci auguriamo che
quest’esposizione della matematica come forza plasmatrice della civiltà moderna
serva a gettar nuova luce sulla matematica e sui caratteri dominanti della nostra
epoca.
Nell’ambito ristretto di un volume non possiamo purtroppo far altro che
limitarci a illustrare semplicemente questa tesi. La relativa esiguità dello spazio ha
reso necessaria una selezione da una vasta letteratura. Le relazioni fra matematica
e arte, per fare un esempio, sono state esaminate solo per il periodo
rinascimentale. Il lettore che ha familiarità con la scienza moderna noterà che
quasi nulla è stato detto sulla funzione della matematica nella teoria atomica e
nucleare. Alcune importanti filosofie moderne della natura, in particolare quella di
Alfred North Whitehead, sono state appena menzionate. Speriamo nondimeno che
gli esempi scelti siano abbastanza importanti da riuscire convincenti oltre che
interessanti.
Il tentativo di mettere a fuoco pochi episodi nella vita della matematica ha reso
necessaria anche un’eccessiva semplificazione della storia. Nelle imprese
intellettuali, come in quelle politiche, gli esiti sono determinati da numerose forze
e da numerosi contributi individuali. Galileo non creò certo da solo l’approccio
quantitativo proprio della scienza moderna. Analogamente, il calcolo
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infinitesimale è una creazione, quasi in ugual misura, di Eudosso, di Archimede e
di una decina di matematici del Seicento, oltre che di Newton e di Leibniz.
Specialmente per la matematica è vero che, mentre l’opera creativa è compiuta da
individui, i risultati sono la conseguenza di secoli di pensiero e di sviluppo.
Non c’è dubbio che, invadendo le arti, la filosofia, la religione e le scienze
sociali, l'autore si è avventurato in campi in cui anche angeli – matematici,
ovviamente – avrebbero paura a posare il piede. Il rischio di errori – ci auguriamo
di lieve entità – dev’essere affrontato se vogliamo far vedere che la matematica
non è uno strumento arido, meccanico, bensì il corpo di un pensiero vivo,
inseparabilmente connesso con altri settori della nostra cultura, da essi dipendente
e per essi prezioso.
Forse quest’esposizione dei risultati ottenuti dalla ragione umana può servire in
qualche misura a rafforzare quegli ideali della nostra civiltà che corrono oggi il
pericolo di andar distrutti. I problemi più scottanti del momento sono forse quelli
politici ed economici. Eppure non è certo in tali campi che noi troviamo le prove
della capacità dell’uomo di padroneggiare le difficoltà che gli si presentano e di
costruire un mondo desiderabile. Una fiducia nella capacità dell’uomo a risolvere
i suoi problemi e indicazioni del metodo che egli ha usato finora con più successo
possono essere ottenute da uno studio della sua impresa intellettuale più grande e
più duratura: la matematica.
Mi è grato ricordare gli aiuti e i favori ricevuti da più parti. Desidero
ringraziare, per molte utili discussioni, numerosi colleghi del Washington Square
College of Arts and Science della New York University; il professor Chester L.
Riess, del Brooklyn College of Pharmacy, per le critiche generali e per
suggerimenti particolari concernenti la letteratura illuministica, e il signor John
Begg della Oxford University Press per consigli nella preparazione delle figure e
delle tavole. Il merito delle eccellenti illustrazioni va alla signora Beulah Marx.
Mia moglie Helen mi ha dato un aiuto inestimabile con letture critiche e con la
preparazione del manoscritto. Sono particolarmente grato ai signori Carroll G.
Bowen e John A. S. Cushman per aver sostenuto l’idea di questo libro e per aver
guidato il manoscritto attraverso l’iter della pubblicazione a Oxford.
Ho un debito di riconoscenza anche nei confronti dei seguenti editori e privati
che hanno concesso l’uso dei materiali citati qui sotto. La citazione da Alfred
North Whitehead, nell’ultimo capitolo, è tratta da Science and the Modern World,
The Macmillan Co., New York 1925. Il permesso di usare i grafici di suoni reali,
di Dayton C. Miller, è stato concesso dal Case Institute of Technology of
Cleveland, Ohio. La citazione da Edna St. Vincent Millay è dal “Sonnet xlv” in
Collected Poems, a cura di Norma Millay, editi da Harper and Bros., New York,
copyright 1956 di Norma Millay Ellis. Le citazioni da Bertrand Russell sono da
Mysticism and Logic, opera edita da W. W. Norton and Co., Inc., New York, e
George Allen and Unwin, Ltd., London. La citazione da Theodor Merz è tratta dal
volume II di A History af European Thought in the Nineteenth Century, edito da
William Blackwood and Sons, Ltd., Edinburgh and London.
Morris Kline
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Quando applicai per la prima volta la mente alla matematica, lessi la maggior
parte di ciò che ci viene offerto comunemente dagli autori matematici, e dedicai
un’attenzione particolare all’aritmetica e alla geometria perché si diceva che
fossero le discipline più semplici e aprissero per così dire la via a tutto il resto. In
nessuna delle due mi imbattei però in autori che mi soddisfacessero
completamente. Di fatto nelle loro opere imparavo molte proposizioni sui numeri
che mi venivano poi confermate dal calcolo. Quanto alle figure, in un certo senso
esibivano ai miei occhi un gran numero di verità e traevano conclusioni da certi
ragionamenti. Mi sembrava però che non rendessero sufficientemente chiaro alla
mente stessa perché queste cose siano così e in che modo essi le avessero
scoperte. Di conseguenza non mi sorprendeva che molte persone, anche
intelligenti e dotte, dopo aver gettato uno sguardo su queste scienze, le avessero o
abbandonate come vane e infantili o, considerandole molto difficili e complesse,
si scoraggiassero fin dall’inizio del loro studio... Ma quando, successivamente,
riflettei su come potesse essere che i più antichi cultori della filosofia nelle
epoche passate si rifiutassero di ammettere allo studio della sapienza chi non
fosse versato nelle matematiche..., fui confermato nel mio sospetto che essi
avessero conoscenza di una specie di matematica assai diversa da quella che ha
corso nel nostro tempo.
René Descartes
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I. Introduzione. Concezioni vere e false
Non varchi il vostro piede profano dell’albergo
delle Muse la soglia, voi figli della Guerra
e del Commercio; e voi, della Chiesa e del Dritto
demoni impuri, queste pagine non toccate.
Degradati, corrotti, abietti e limitati,
niuna definizione sfiora la sciocca mente
vostra, niun postulato ha per voi senso alcuno.
Nessun ardente assioma l’ottusa mente infiamma,
non toccano per voi le tangenti, né gli angoli
delle linee l’incontro genera, né i cerchi
nel piacere si uniscono dell’osculazione.
JOHN HOOKHMAN FRERE, GEORGE CANNING e GEORGE
ELLIS
L’affermazione che la matematica è stata una forza importante nel plasmare la
cultura moderna, oltre che un elemento vitale della stessa, appare a molte persone
incredibile o, quanto meno, fortemente esagerata. Questa incredulità è del tutto
comprensibile ed è il risultato di una concezione molto comune ma erronea sulla
vera natura della matematica.
Influenzata da ciò che ha imparato a scuola, la persona media considera la
matematica come un insieme di tecniche il cui uso è riservato allo scienziato,
all’ingegnere e forse al finanziere. La reazione a insegnamenti del genere si
esprime in un’avversione per la disciplina e nella decisione di ignorarla. Qualora
venga invitata a motivare questa decisione, una persona istruita è in grado di
citare autorità a sostegno. S. Agostino diceva: “Il buon cristiano dovrebbe
guardarsi dai matematici e da tutti coloro che fanno vane profezie. C’è il pericolo
che i matematici abbiano stretto un patto col diavolo per oscurare lo spirito e per
relegare l’uomo all’inferno.” E i giuristi romani disponevano, “a proposito di
malfattori, matematici e simili,” che “È proibito imparare l’arte della geometria e
prender parte a esercizi pubblici, un’arte altrettanto condannabile della
matematica.” Persino un grande filosofo moderno come Schopenhauer descrisse
l’aritmetica come la più bassa attività dello spirito, com’è dimostrato dal fatto che
può essere esercitata da una macchina.
Nonostante giudizi così autorevoli e nonostante l’opinione comune, per quanto
giustificata possa essere in relazione all’insegnamento che della matematica si fa
nelle scuole, la decisione del profano di ignorare la matematica è sbagliata.
L’argomento non si esaurisce in una serie di tecniche. Queste sono, di fatto,
l’aspetto meno importante e sono altrettanto poco adeguate a rappresentare la
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matematica quanto un miscuglio di colori è adeguato a rappresentare la pittura. Le
tecniche sono matematica spogliata di motivazione, ragionamento, bellezza e
significato. Se acquisteremo una certa comprensione della natura della
matematica, ci renderemo conto che l’asserzione della sua importanza nella vita e
nel pensiero moderni è almeno plausibile.
Consideriamo perciò a questo punto, sia pure in breve, la visione che si ha oggi
dell’argomento. Innanzitutto, la matematica è un metodo di ricerca noto come
pensiero postulazionale. Il metodo consiste nel formulare con la massima cura
definizioni dei concetti che devono essere discussi e nello stabilire in modo
esplicito gli assunti che dovranno costituire la base del ragionamento. Da queste
definizioni e assunti vengono dedotte conclusioni attraverso l’applicazione della
logica più rigorosa che l’uomo sia capace di usare. Questa caratterizzazione della
matematica fu espressa in modo un po’ diverso da un famoso autore seicentesco
di opere matematiche e scientifiche: “I matematici sono come gli amanti...
Concedete a un matematico il minimo principio, ed egli ne trarrà una conseguenza
che non potrete non concedergli, e da questa conseguenza un’altra.”
Descrivere la matematica esclusivamente come un metodo d’indagine è come
descrivere il Cenacolo di Leonardo come un’organizzazione di pittura su muro.
La matematica è dunque un campo di sforzi creativi. Nel divinare che cosa possa
essere dimostrato, così come nel costruire metodi di dimostrazione, i matematici
usano un alto ordine di intuizione e di immaginazione. Keplero e Newton, ad
esempio, erano dotati di prodigiose facoltà d’immaginazione, le quali
consentivano loro non soltanto di sottrarsi a una tradizione antichissima e rigida
ma anche di creare concetti nuovi e rivoluzionari. La misura in cui le facoltà
creative dell'uomo sono esercitate nella matematica potrebbe essere determinata
solo mediante un esame delle creazioni stesse. Poiché alcuni esami del genere
saranno dati nel corso della seguente esposizione, qui sarà sufficiente rilevare che
oggi il campo della matematica comprende un’ottantina di settori molto estesi.
Se la matematica è veramente un’attività creativa, quali motivi inducono
l’uomo a perseguirla? Il motivo più evidente, anche se non necessariamente il più
importante, all’origine delle investigazioni matematiche è stato il desiderio di
rispondere a domande poste direttamente da bisogni sociali. Transazioni
commerciali e finanziarie, la navigazione, il computo del calendario, la
costruzione di ponti, di dighe, di chiese e palazzi, la progettazione di fortificazioni
e di armi belliche e numerose altre occupazioni umane implicano problemi che
possono essere risolti nel modo migliore dalla matematica. Particolarmente nel
nostro tempo dominato dall’ingegneria è vero che la matematica è uno strumento
universale.
Un altro uso fondamentale della matematica, che ha acquistato un rilievo
eccezionale in tempi moderni, è stato quello di fornire un’organizzazione
razionale di fenomeni naturali. I concetti, metodi e conclusioni della matematica
sono il sostrato delle scienze fisiche. Il successo di questi settori è dipeso dalla
misura in cui essi hanno collaborato con la matematica. La matematica ha
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restituito la vita alle ossa aride di fatti sconnessi e, agendo come tessuto
connettivo, ha legato serie di osservazioni staccate in corpi di scienza.
La curiosità intellettuale e un interesse per il pensiero puro hanno dato a molti
matematici lo spunto iniziale nella ricerca di proprietà di numeri e di figure
geometriche e hanno prodotto alcuni fra i contributi più originali. Lo studio della
probabilità, oggi così importante, cominciò da un interrogativo postosi in un gioco
di carte, ossia la giusta divisione della posta in un gioco d'azzardo interrotto prima
della conclusione. Un altro contributo decisivo, non connesso in alcun modo con
esigenze sociali o con la scienza, fu dato dai greci del periodo classico, i quali
trasformarono la matematica in un sistema di pensiero astratto, deduttivo e
assiomatico. Di fatto, alcuni fra i massimi contributi al campo della matematica –
la geometria proiettiva, la teoria dei numeri, la teoria delle quantità infinite e la
geometria non euclidea, per citare solo quelle di cui avremo occasione di
occuparci – costituiscono risposte a sfide puramente intellettuali.
Oltre a tutti gli altri impulsi alla creazione, c’è la ricerca della bellezza.
Bertrand Russell, il maestro del pensiero matematico astratto, si esprime in
proposito senza riserve:
La matematica, considerata nel modo giusto, possiede... una bellezza suprema: una bellezza
fredda e austera, come quella della scultura, priva di richiamo per le parti della nostra natura più
debole, priva degli sgargianti ornamenti della pittura o della musica, eppure di una purezza
sublime, e capace di una severa perfezione quale soltanto l’arte più grande può rivelare. Il puro
spirito di gioia, l’esaltazione, il senso di qualcosa di più che umano che è la pietra di paragone
della massima eccellenza, si trova nella matematica non meno che nella poesia.
Oltre alla bellezza della struttura compiuta, l’indispensabile uso di
immaginazione e intuizione nella creazione di dimostrazioni e conclusioni
garantisce al creatore un’alta soddisfazione estetica. Se intuizione e
immaginazione, simmetria e proporzione, assenza di superfluità ed esatto
adattamento dei mezzi ai fini sono inclusi nella bellezza e sono tipici delle opere
d’arte, allora la matematica è un’arte che ha una bellezza propria.
Nonostante le chiare indicazioni fornite dalla storia a dimostrazione del fatto
che tutti i fattori citati sopra hanno motivato la creazione matematica, ci sono state
in proposito molte dichiarazioni erronee. Alcuni – spesso per giustificare il
proprio disinteresse per l’argomento – accusano i matematici di indulgere in
speculazioni inutili o di essere sciocchi e vani sognatori. A queste accuse si può
dare facilmente una risposta schiacciante. Anche studi puramente astratti, e non
solo quelli motivati da esigenze scientifiche e tecniche, si sono dimostrati di
grandissima utilità. La scoperta delle sezioni coniche (parabole, ellissi e iperboli),
che per duemila anni erano state considerate nulla di più dell’“inutile divertimento
di un cervello speculativo,” hanno reso possibile in secoli recenti la moderna
astronomia, la teoria del moto dei proietti e la legge della gravitazione universale.
È d’altra parte un errore asserire, come fanno un po’ troppo frettolosamente
alcuni autori attenti soprattutto agli aspetti sociali, che i matematici siano
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stimolati per intero o anche in larga misura da considerazioni pratiche, dal
desiderio di costruire ponti, radio e aerei. La matematica ha reso possibili tutte
queste cose, ma raramente i grandi matematici pensano ad esse mentre
perseguono le proprie idee. Alcuni erano del tutto indifferenti alle applicazioni
pratiche, forse per il fatto che queste vennero solo alcuni secoli dopo. Le
meditazioni matematiche idealistiche di Pitagora e di Platone hanno condotto a
contributi molto più significativi dell’atto intenzionale dei commercianti autori
dell’introduzione dei simboli + e -, nella quale un autore vide “una svolta nella
storia della matematica... determinata dalla comune eredità sociale...” È
indubbiamente vero che quasi tutti i grandi uomini si occupano dei problemi tipici
del loro tempo e che le convinzioni dominanti condizionano e limitano il loro
pensiero. Se Newton fosse nato due secoli prima sarebbe stato con ogni
probabilità un grande teologo. I grandi pensatori si conformano alle mode
intellettuali del loro tempo così come le donne alle mode negli abiti. Anche quei
geni creativi per i quali la matematica era semplicemente un’occupazione
secondaria perseguivano i problemi che erano al centro dell’interesse dei
matematici e degli scienziati di professione. Neppure questi “dilettanti” e
matematici si occuparono primariamente dell’utilità del loro lavoro.
Interessi pratici, scientifici, estetici e filosofici diedero tutti un contributo a
plasmare la matematica. Sarebbe impossibile separare i contributi e le influenze di
ciascuna di queste forze e darne una valutazione relativa, e tanto più sostenere
pretese concernenti l’importanza relativa di ciascuna. Da un lato il pensiero puro,
la risposta a interessi estetici e filosofici, ha improntato in modo decisivo il
carattere della matematica fornendo contributi insuperati, come la geometria
euclidea e la moderna geometria non euclidea. Dall’altro i matematici
raggiungono i loro vertici di pensiero puro non innalzandosi da sé con le proprie
forze bensì in virtù delle forze sociali. Se queste forze non potessero revitalizzare
i matematici, essi si esaurirebbero ben presto e potrebbero sostenere i loro studi in
un isolamento forse anche splendido per breve tempo ma destinato ben presto a
un collasso intellettuale.
Un altro carattere importante della matematica è il suo linguaggio simbolico.
Come la musica usa il simbolismo per la rappresentazione e la comunicazione di
suoni, così la matematica esprime simbolicamente relazioni quantitative e forme
spaziali. A differenza del linguaggio usuale del discorso, che è il prodotto della
consuetudine, oltre che di circostanze sociali e politiche, il linguaggio della
matematica è progettato in modo accurato, intenzionale e spesso ingegnoso.
Grazie alla sua concisione, esso consente alla mente di manipolare idee che,
espresse in linguaggio comune, sarebbero poco maneggevoli. Questa concisione
rende possibile l’efficacia del pensiero. Il bisogno di Jerome K. Jerome di
ricorrere al simbolismo algebrico, anche se a fini non matematici, rivela in modo
abbastanza chiaro l’utilità e la chiarezza impliciti in questo strumento:
Quando un giovane del XX secolo si innamorò, non fece tre passi indietro, non guardò
l’amata fissamente negli occhi e non le disse che era troppo bella per essere vera. Disse che
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sarebbe uscito e avrebbe considerato la cosa. E se fuori avesse incontrato un uomo e gli avesse
spaccato la testa – la testa dell'altro uomo, voglio dire – allora ciò avrebbe dimostrato che la sua
ragazza – la ragazza del primo tizio – era una ragazza graziosa. Se invece l’altro tizio avesse
spaccato la sua testa – non la sua propria, intendetemi, ma quella dell’altro tizio, l’altro tizio
rispetto al secondo tizio, perché naturalmente l’altro tizio sarebbe stato 1’altro tizio solo rispetto
a lui, non il primo tizio –, se dunque avesse spaccato la sua testa, allora la sua ragazza – non la
ragazza dell’altro tizio, bensì del primo... Insomma, se A avesse spaccato la testa di B, allora la
ragazza di A sarebbe stata graziosa; ma se B avesse spaccato la testa di A, allora la ragazza di A
non sarebbe stata graziosa, bensì lo sarebbe stata la ragazza di B.
Un ingegnoso simbolismo, mentre consente di manipolare con facilità idee
complicate, rende anche più difficile per il profano seguire o capire una
discussione matematica.
Il simbolismo usato nel linguaggio matematico è essenziale per distinguere
significati spesso confusi nel linguaggio comune. Ad esempio la parola è viene
usata in molti significati diversi. Nella frase “egli è qui" indica una posizione
fisica. Nella frase “un angelo è bianco” indica una proprietà degli angeli che non
ha nulla a che fare con una posizione o con 1’esistenza fisica. Nella frase “è corso
via” il vocabolo “è” serve a specificare il tempo del verbo. Nella frase “due e due
sono quattro” la forma del verbo essere serve a denotare l’uguaglianza numerica.
Nella frase “gli uomini sono mammiferi pensanti con due gambe”, la forma di “è”
implicata nella frase asserisce l’identità di due gruppi. Ai fini del discorso
ordinario è naturalmente superfluo introdurre parole diverse per tutti questi
significati di “è”. Queste ambiguità non provocano nessun equivoco. Le richieste
della matematica, cosi come quelle delle scienze e della filosofia, costringono chi
lavora in questi settori a usare una maggiore precisione.
Il linguaggio matematico è preciso, così preciso da disorientare spesso le
persone non abituate alla sua forma. Se un matematico dovesse dire: “Oggi non
ho visto una persona”, con questa frase potrebbe intendere che non ne ha visto
nessuna o che ne ha visto molte. Il profano intenderebbe semplicemente che non
ne ha visto nessuna. Questa precisione della matematica appare come pedanteria o
come ampollosità a chi non si renda conto del fatto che essa è invece essenziale a
un pensiero esatto; pensiero esatto e linguaggio esatto procedono infatti di pari
passo. Lo stile matematico tende alla brevità e alla perfezione formale. Se talvolta
la sua concisione è tale da sacrificare la chiarezza, la precisione va alla ricerca di
garanzie. Supponiamo di voler esprimere in termini generali il fatto illustrato
nella figura 1. Possiamo esser tentati di dire: “Abbiamo un triangolo rettangolo.
Se costruiamo due quadrati aventi ciascuno come lato un cateto del triangolo e se
costruiamo un quadrato avente come lato l’ipotenusa del triangolo, allora l’area
del terzo quadrato è uguale alla somma delle aree dei primi due.” Nessun
matematico accetterebbe però di esprimersi in quel modo. Egli preferirebbe una
forma come la seguente: “La somma dei quadrati costruiti sui cateti di un
triangolo rettangolo è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa.”
Quest’economia di parole favorisce la speditezza della presentazione e la scrittura
matematica è notevole per il fatto di racchiudere molto in poche parole. Eppure a
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volte qualsiasi lettore di scritti matematici vede la sua pazienza messa a dura
prova da quella che egli chiamerebbe avarizia di inchiostro e carta.
Fig. 1. Il teorema di Pitagora.
La matematica è più di un metodo, di un’arte e di un linguaggio. Essa è un
corpo di conoscenza avente un contenuto che serve allo studioso di scienze fisiche
e sociali, al filosofo, al logico e all’artista; un contenuto che influenza le dottrine
di statisti e teologi; che soddisfa la curiosità dell’uomo che scruta il cielo e di
quello che medita sulla dolcezza dei suoni musicali; un contenuto che ha plasmato
innegabilmente, anche se a volte in modo non avvertibile, il corso della storia
moderna.
La matematica è un corpo di conoscenza. Essa non contiene però verità. La
convenzione contraria, che la matematica sia cioè un insieme inattaccabile di
verità, che essa sia una sorta di rivelazione finale di Dio, così come le persone
devote considerano la Bibbia, è un errore popolare che è estremamente difficile
sradicare. Fino al 1850 anche molti matematici davano il loro assenso a questo
errore. Fortunatamente alcuni eventi dell’Ottocento, che ci proponiamo di
esaminare più avanti, dimostrarono ai matematici l’errore insito in questo
atteggiamento. Non soltanto nella matematica non c’è nulla di vero, ma taluni
teoremi accettati in alcuni settori contraddicono altri teoremi in altri settori. Ad
esempio, alcuni teoremi stabiliti in geometrie create nel corso dell’Ottocento
contraddicono quelli dimostrati da Euclide nel suo sviluppo della geometria.
Benché priva di verità, la matematica ha conferito all’uomo uno straordinario
potere sulla natura. La risoluzione di questo estremo paradosso nel pensiero
umano sarà uno fra i temi principali trattati in questo libro.
Dovendo distinguere la conoscenza matematica dalla verità, il XX secolo deve
distinguere anche fra matematica e scienza, poiché la scienza ricerca verità sul
mondo fisico. La matematica è stata di fatto un faro per le scienze e le ha aiutate
continuamente a raggiungere la posizione che esse occupano nella nostra presente
civiltà. È esatto asserire perfino che la scienza moderna trionfa in virtù della
matematica. Eppure vedremo che i due campi sono distinti.
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Nel suo aspetto più generale la matematica è uno spirito, lo spirito della
razionalità. È questo lo spirito che sfida, stimola, rinvigorisce e guida le menti
umane al pieno esercizio di se stesse. È questo lo spirito che cerca di influenzare
in modo decisivo la vita fisica, morale e sociale dell’uomo, che cerca di dare una
risposta ai problemi posti dalla nostra esistenza, che si sforza di comprendere e
controllare la natura e che si esercita nell’esplorazione e nel consolidamento delle
più profonde e somme implicazioni di conoscenze già ottenute. In questo libro ci
occuperemo in gran parte del modo di operare di questo spirito nel corso della
storia.
Un altro carattere della matematica è di estrema pertinenza con la nostra
esposizione. La matematica è una pianta viva, che ha avuto periodi di grande
fioritura e di appassimento in coincidenza con l’ascesa e la caduta di civiltà.
Creata in un periodo della preistoria, lottò per l’esistenza per lunghi secoli nella
preistoria e nella storia documentata. Riuscì finalmente a imporsi nel terreno, che
le era molto congeniale, della Grecia ed ebbe un periodo di grande rigoglio. In
questo periodo produsse un fiore perfetto, la geometria euclidea. Cominciarono
lentamente a dischiudersi anche i bocci di altri fiori e guardando con molta
attenzione si potrebbero discernere le linee principali della trigonometria e
dell’algebra; ma questi fiori avvizzirono col declino della civiltà greca e la pianta
rimase allo stato quiescente per un migliaio di anni.
Tale era lo stato della matematica quando la pianta fu trasportata nel continente
europeo e venne a trovarsi un’altra volta in un suolo fertile. Nel Seicento essa
riacquistò il vigore che aveva posseduto nel periodo aureo della Grecia e si
preparo a irraggiare una luce di uno splendore senza precedenti. Se possiamo
descrivere la matematica nota prima del Seicento come elementare, possiamo
anche affermare che la matematica elementare è infinitesimale se confrontata con
ciò che è stato creato da allora. Di fatto, un individuo che possedesse le
conoscenze che Newton aveva nel suo periodo migliore non sarebbe oggi
considerato un matematico poiché, contrariamente a quanto di solito si ritiene,
oggi si deve dire che la matematica comincia, non finisce, col calcolo
infinitesimale. Nel nostro secolo la materia ha assunto proporzioni così vaste che
nessun matematico può sostenere di padroneggiarla per intero.
Questo abbozzo della vita della matematica, per quanto breve, può nondimeno
indicare che la sua vitalità è dipesa in grande misura dalla vita culturale della
civiltà che le ha dato alimento. Di fatto la matematica è stata una parte tanto
grande di civiltà e di culture che molti storici vedono riflessi nella matematica di
un periodo i caratteri delle altre opere principali dell'epoca. Consideriamo, ad
esempio, il periodo classico della cultura greca, che durò pressappoco dal 600 a.C.
al 300 a.C. Nel sottolineare il ragionamento rigoroso mediante il quale stabilirono
le loro conclusioni, i matematici greci si preoccuparono non di garantire la
possibilità di applicazione a problemi pratici bensì di insegnare agli uomini a
pensare in termini astratti e di prepararli a contemplare l’ideale e il bello. Non
dovrebbe esser dunque una sorpresa la constatazione che quest’epoca è stata
16
insuperata nella bellezza della sua letteratura, nella qualità estremamente
razionale della sua filosofia e nell’idealità della sua scultura e architettura.
È vero anche che l’assenza di creazioni matematiche è indicativa del genere di
cultura di una civiltà. Lo dimostra il caso dei romani. Nella storia della
matematica i romani appaiono solo una volta e soltanto con una funzione negativa
per il suo progresso. Archimede, il più grande matematico e scienziato greco, fu
ucciso nel 211 a.C. da soldati romani apparsi improvvisamente mentre egli stava
studiando una figura geometrica tracciata sulla sabbia. Per Alfred North
Whitehead,
la morte di Archimede per opera di un soldato romano è simbolica di un mutamento storico
di prima grandezza; i greci, innamorati della teoria e della scienza astratta, furono soppiantati
alla guida del mondo europeo dai pratici romani. Lord Beaconsfield, in un suo romanzo, ha
definito un uomo pratico un uomo che pratica gli errori dei suoi antenati. I romani erano un
grande popolo ma erano afflitti dalla sterilità che si accompagna alla pura pratica. Essi non
fecero progredire le conoscenze dei loro avi e tutti i loro progressi furono limitati ai particolari
tecnici di secondo piano dell’ingegneria. Essi non erano abbastanza sognatori da pervenire a
nuovi punti di vista che potessero fornire un controllo più fondamentale delle forze della natura.
Nessun romano perse la vita per essere stato assorto nella contemplazione di una figura
matematica.
Di fatto Cicerone si vantava che i suoi concittadini, grazie agli dèi, non fossero
sognatori, come i greci, ma applicassero lo studio della matematica all’utile.
I pratici romani, che dedicarono le loro energie al governo e alla conquista, e
che sono forse simboleggiati nel modo migliore dagli archi solidi, se non
aggraziati, sotto cui le truppe vittoriose celebravano il loro ritorno in patria,
produssero ben poco di veramente creativo e originale. In breve, la cultura romana
fu una cultura derivata; la maggior parte dei contributi forniti durante il periodo
della supremazia romana furono opera di greci dell'Asia Minore, soggetti al
dominio politico di Roma.
Questi esempi ci dimostrano che il carattere generale di un’età è intimamente
collegato alla sua attività matematica. Questa relazione è valida specialmente al
nostro tempo. Senza voler sminuire i meriti dei nostri storici, economisti, filosofi,
scrittori, poeti, pittori e uomini politici, è possibile dire che altre civiltà hanno
prodotto nei vari campi uomini di ugual livello per capacità e risultati ottenuti.
D’altra parte, benché Euclide e Archimede siano stati indubbiamente pensatori di
livello eccezionale e benché i nostri matematici siano stati in grado di andare oltre
solo perché, come scrisse Newton, sono issati sulle spalle di tali giganti, soltanto
nella nostra epoca la matematica ha raggiunto la sua ampiezza e la sua
straordinaria elasticità di applicazione. L’attuale civiltà occidentale si distingue di
conseguenza da ogni altra civiltà nota alla storia per la misura in cui la
matematica ha influito sulla vita e sul pensiero contemporanei. Forse nel corso di
questo libro riusciremo a vedere quanto la nostra età debba alla matematica.
17
II. Matematica ed empiria
Non si deve immaginare che la matematica sia difficile e
confusa e ripugnante per il buon senso. Essa è
semplicemente l’etereizzazione del buon senso.
LORD KELVIN
La culla dell’umanità, come pure della cultura occidentale, fu il Vicino Oriente.
Mentre le tribù più irrequiete abbandonarono la loro patria per percorrere le
pianure dell`Europa, popolazioni affini rimasero indietro fondando civiltà e
culture. Molti secoli dopo i sapienti dell’Oriente si sarebbero assunti il compito di
educare i loro antichi parenti ancora in uno stato di ignoranza. Delle conoscenze
che i sapienti impartirono agli uomini occidentali, gli elementi della matematica
furono una parte integrante. Per ricostruire l’influenza della matematica sulla
cultura moderna, dobbiamo perciò volgerci innanzitutto a considerare le principali
civiltà del Vicino Oriente.
Dobbiamo ricordare per inciso che taluni semplici progressi nel campo della
matematica furono compiuti già presso civiltà primitive. Tali progressi furono
senza dubbio suggeriti da bisogni puramente pratici. Il baratto di cose di prima
necessità, che ha luogo anche nei tipi di società umana più primitivi, richiede già
qualche tipo di calcolo. Poiché il calcolo è facilitato dall’uso delle dita delle mani
e dei piedi, non sorprende che l’uomo primitivo, come i bambini, usasse le dita
per spuntare le cose contate. Tracce di questo antico modo di pensare si trovano
ancora in lingue moderne; in inglese il vocabolo digit (latino digitus = dito)
significa non solo cifra, numero, ma anche dito. L’uso delle dita spiega
indubbiamente l’adozione del nostro sistema di calcolo in decine, centinaia
(decine di decine), migliaia (decine di centinaia) e così via.
Anche le civiltà primitive svilupparono simboli speciali per i numeri. Queste
civiltà dimostrarono così di conoscere il fatto che tre pecore, tre mele e tre frecce
hanno molto in comune, ossia la quantità tre. Questa valutazione del numero
come un’idea astratta, astratta nel senso che non ha necessariamente una relazione
con oggetti fisici particolari, segnò uno fra i progressi maggiori nella storia del
pensiero. Ciascuno di noi, imparando la matematica, passa attraverso un tale
processo intellettuale consistente nel separare i numeri da oggetti fisici.
18
A civiltà primitive risale anche l’invenzione delle quattro operazioni
aritmetiche elementari, ossia somma, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Che
la conquista di queste operazioni non sia stata una cosa tanto semplice può essere
appreso anche da uno studio di popoli arretrati contemporanei. Quando i pastori di
molte tribù primitive vendono vari animali non chiedono una somma complessiva
per gli animali venduti ma esigono il pagamento capo per capo. La possibilità
alternativa di moltiplicare il numero di capi per il prezzo chiesto per il singolo
capo li disorienta e lascia loro il sospetto di poter essere imbrogliati.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che la geometria, come il sistema numerico, sia
stata promossa in civiltà primitive per soddisfare esigenze umane. I concetti
geometrici fondamentali derivarono dall’osservazione di figure formate da oggetti
fisici. È probabile che il concetto di angolo, ad esempio, sia derivato in origine
dagli angoli formati dai gomiti e dalle ginocchia. In molte lingue, incluso il
tedesco moderno, il vocabolo per indicare il lato di un angolo (Schenkel) significa
propriamente gamba.
Le principali civiltà del Vicino Oriente da cui derivarono la nostra cultura e la
nostra matematica furono la civiltà egizia e quella babilonese. Nei documenti più-
antichi di queste civiltà troviamo sistemi numerici ben sviluppati, un po’
d’algebra e una geometria semplicissima. Per i numeri da 1 a 9 gli egizi usavano
semplici lineette, come |, ||, |||, ecc. Per 10 essi introdussero il simbolo speciale ,
e c'erano simboli speciali anche per 100, 1000 e altri grandi numeri. Per numeri
intermedi essi combinavano questi simboli in un modo molto naturale. Il 21
veniva scritto ad esempio |.
Maggiore attenzione merita il metodo babilonese per scrivere le quantità. Per 1
i babilonesi scrivevano ; il 2 era rappresentato da ; il 4 da e così via fino
a nove. Il simbolo veniva usato per il 10. Il 33 veniva scritto quindi .
Particolarmente significativo è il numero . Qui il primo non significa 1
bensì 60 e l’intero gruppo rappresentato 60 + 10 + 10 + 1 ovvero 81. Così uno
stesso simbolo rappresentava valori diversi a seconda della sua posizione nel
numero. Il principio qui implicato è quello del valore della posizione ed è
precisamente quello in uso oggi. Nel numero 569, il 9 rappresenta 9 unità mentre
il 6 significa 6 volte 10 e il 5 significa 5 volte 10. In altri termini, la posizione di
una cifra nel numero determina il valore che la cifra rappresenta e questo valore è
un multiplo di 10, del quadrato di 10 o del cubo di 10 e così via a seconda della
posizione della cifra. Il numero dieci è chiamato la base del nostro sistema.
Poiché i babilonesi introdussero il valore di posizione in connessione con la
base sessanta, i greci e gli europei usarono questo sistema in tutti i calcoli
geometrici e astronomici fino al Cinquecento; esso sopravvive ancor oggi nella
divisione degli angoli e delle ore in 60 minuti, ciascuno dei quali si suddivide a
sua volta in 60 secondi. La base dieci fu sviluppata dagli indù e introdotta in
Europa nel Medioevo.
Il principio del valore di posizione è molto importante e merita perciò un po’ di
esame. Adottato in connessione con la base dieci, ha bisogno di soli dieci simboli
19
per rappresentare qualsiasi quantità, non importa quanto grande. Questa
rappresentazione è sistematica e concisa rispetto ad altri metodi, ad esempio
quello egizio. Ancor più importante è il fatto che il principio permise lo sviluppo
dei nostri moderni efficaci metodi di calcolo.
Dovremmo osservare anche che non è necessario usare il dieci come base. In
linea di massima qualsiasi numero intero potrebbe assolvere il compito altrettanto
bene. Supponiamo, ad esempio, che una persona usi il numero cinque. Essa
avrebbe bisogno allora di cinque simboli, ossia 1, 2, 3, 4, e 0. Per indicare la
quantità cinque tale persona dovrebbe scrivere 10; in questo caso l’1
significherebbe 1 volta 5, esattamente come l’1 nel 10 che ci è familiare significa
1 volta 10. Per esprimere il sei in base cinque si deve scrivere 11. Sette sarebbe
12. Undici sarebbe 21. Venticinque sarebbe espresso da 100 ovvero 1 volta 52 + 0
volte 5 + 0 unità. Per usare sistematicamente la base cinque, tale individuo
dovrebbe naturalmente avere imparato le corrispondenti tavole di addizione e di
moltiplicazione. Cosi 3 + 4 darebbero 12; 13 + 14 (in base cinque, equivalenti
cioè rispettivamente a 8 e 9) darebbero 32 e così via. La questione di quale sia la
base migliore è stata seriamente considerata e ci sono buone ragioni a favore del
dodici. L’abitudine decide però a favore del dieci, almeno finché si tratta di
numeri comuni.
Per usare il principio del valore di posizione col massimo vantaggio si richiede
uno zero perché dev’esserci un modo di distinguere ad esempio 503 da 53. I
babilonesi usavano un simbolo speciale per separare il 5 dal 3 nel primo caso ma
non riconobbero che tale simbolo poteva essere trattato anche come un numero;
non si resero conto, in altri termini, che lo zero indica una quantità e può essere
sommato, sottratto e usato in generale come altri numeri. Il numero zero dev’esser
distinto accuratamente dal concetto di niente. Il voto di uno studente in un corso
di matematica è niente se egli non ha mai frequentato quel corso. Se invece egli
ha frequentato il corso e il suo lavoro è stato giudicato di nessun valore, allora il
suo voto sarebbe zero.
Per le civiltà più antiche il calcolo con frazioni non era una cosa tanto semplice.
I babilonesi erano privi di una notazione adeguata. Così significa 30/60
oltre che 30; il valore corretto poteva essere inteso dal contesto. Gli egizi
considerarono necessario ridurre una frazione a una somma di frazioni in ciascuna
delle quali il numeratore era l’unità. Essi avrebbero espresso ad esempio la
frazione 5/8 nella forma 1/2 + 1/8 prima di fare calcoli con essa. Benché i metodi
moderni dell’uso di frazioni siano molto più efficienti, mettono ancora in
imbarazzo molti adulti.
Le antiche civiltà della Babilonia e dell'Egitto portarono la loro aritmetica oltre
l’uso di numeri interi e di frazioni. Sappiamo che babilonesi ed egizi erano in
grado di risolvere problemi implicanti quantità incognite, anche se ricorrendo a
metodi più rozzi e meno generali di quelli che impariamo nelle nostre scuole
secondarie. La Babilonia è considerata, di fatto, la fonte di una parte delle
conoscenze algebriche di Euclide.
20
Mentre i babilonesi svilupparono un’aritmetica e un’algebra superiori, si ritiene
comunemente che gli egizi li abbiano superati a loro volta nel campo della
geometria. Esistono molte speculazioni sui motivi di ciò. Una ragione addotta
dagli storici è che gli egizi non svilupparono mai metodi numerici convenienti,
particolarmente nel campo del calcolo con frazioni, e di conseguenza non
poterono progredire nel campo dell’algebra, insistendo perciò particolarmente
sulla geometria. Secondo un’altra concezione la geometria sarebbe un “dono del
Nilo”. Erodoto riferisce che nel XIV secolo a.C. il re Sesostri aveva diviso il
paese fra tutti gli egizi in modo che ciascuno di essi ricevesse un rettangolo di
uguali dimensioni e fosse tassato conformemente. Se un uomo avesse perduto
parte del suo terreno in conseguenza dell’inondazione annua del Nilo, doveva
riferirne al faraone, il quale gli avrebbe inviato un sovrintendente col compito di
misurare la perdita subita e concedere una riduzione proporzionata della tassa.
Così sarebbe sorta e fiorita in Egitto la scienza della geometria: da ge, che
significa terra, e metron, che significa misura. La ragione addotta da Erodoto per
spiegare l’importanza attribuita in Egitto alla geometria può essere corretta, ma
non tiene conto del fatto che nel XIV secolo a.C. la geometria aveva già in Egitto
millenni di vita.
La geometria egizia e babilonese era di tipo pratico-empirico. Le linee rette non
erano altro che tratti di corda tesi; la parola greca “ipotenusa”, di fatto, significa
“tesa contro”, presumibilmente contro i due cateti. Un piano era semplicemente la
superficie di un pezzo di terra piatta. Le formule usate da babilonesi ed egizi per il
volume di granai e per le aree di terreni erano state ottenute con metodi empirici,
provando e riprovando. Di conseguenza molte di tali formule erano decisamente
erronee. Ad esempio, una formula egizia per l’area di un cerchio era 3,16 volte il
quadrato del raggio. Questo risultato è erroneo, anche se abbastanza preciso per
gli usi che ne facevano gli egizi.
Gli egizi e i babilonesi fecero numerose applicazioni pratiche della loro
matematica. I loro papiri e, tavolette di argilla conservano promesse di pagamenti,
lettere di credito, ipoteche, pagamenti differiti e corrette ripartizioni di profitti. Se
l’aritmetica e l’algebra erano usate in tali transazioni commerciali, formule
geometriche fornivano le aree di campi e le quantità di grano immagazzinate in
granai cilindrici e piramidali.
Babilonesi ed egizi erano inoltre costruttori infaticabili. Anche nella nostra
epoca dei grattacieli, i loro templi e le loro piramidi ci appaiono come mirabili
opere di ingegneria. I babilonesi costruirono anche perfetti sistemi di irrigazione.
Attraverso canali scavati con grande abilità, i fiumi Tigri ed Eufrate, la linfa vitale
di questo popolo, fertilizzarono il paese e resero possibile, in quel clima caldo e
secco, lo sviluppo di un’agricoltura in grado di sostentare città fiorenti e popolose
come Ur e Babilonia.
È però un errore, lo ripetiamo ancora una volta, credere che in Egitto e nella
Babilonia la matematica fosse limitata alla soluzione di problemi pratici. Questa
convinzione è erronea per quei tempi come lo è per oggi. Se spingiamo più a
fondo l’investigazione, troviamo invece che l’espressione esatta di pensieri ed
21
emozioni, fossero esse artistiche, religiose, scientifiche o filosofiche, implicava
allora, come oggi, alcuni aspetti della matematica. Nella Babilonia e in Egitto
l’associazione della matematica con pittura, architettura, religione e con
l’investigazione della natura non era meno intima e vitale del suo uso nel
commercio, nell’agricoltura e nella costruzione.
Gli autori che attribuiscono alla matematica solo un valore utilitaristico trovano
spesso nella storia una motivazione pratica per attività matematiche che
logicamente non avrebbero potuto esistere. Le loro argomentazioni suonano come
segue: la matematica fu applicata al computo del calendario e alla navigazione; la
creazione della matematica fu dunque motivata da questi problemi pratici, così
come il bisogno di contare condusse al sistema dei numeri. Questo tipo di
argomentazione post hoc ergo propter hoc non ha una storia e pochissime
probabilità a suo favore. Nessun marinaio perdutosi in mare decise
improvvisamente che nelle stelle era la risposta al suo problema di navigazione;
né alcun agricoltore egizio, interessato numero di giorni che sarebbero trascorsi
prima dell’inondazione del Nilo, decise di stabilirlo in base all’osservazione del
corso del Sole.
Prima dell’uso dell’astronomia e della matematica per la navigazione e per il
computo del calendario, devono esserci stati secoli durante i quali uomini pieni di
meraviglia e di timore nei confronti della natura, uomini animati da impulsi
filosofici insopprimibili, osservarono pazientemente il movimento del Sole della
Luna e delle stelle. Questi veggenti, ossessionati dal mistero della natura,
superarono l’ostacolo della mancanza di strumenti e una matematica miseramente
inadeguata, per distillare dalle loro osservazioni i disegni tracciati dai corpi celesti
nei loro moti. Furono questi gli uomini che assai presto nella civiltà egizia
appresero che l’anno solare, l’anno delle stagioni, consta di circa 365 giorni.
La loro pazienza e la loro perseveranza ottennero risultati ancora maggiori. Essi
osservarono che la stella Sirio appariva in cielo al sorgere del Sole nel giorno
dell’anno in cui l’inondazione annuale del Nilo raggiungeva l’attuale regione del
Cairo. Quest'osservazione fu compiuta verosimilmente per molti anni prima che ci
si decidesse a riprodurre graficamente il movimento di Sirio in cielo al fine di
predire l’inondazione. Essendo però l’anno calendariale di 365 giorni più corto di
un quarto di giorno rispetto all’anno solare vero, dopo vari anni il calendario non
era più in grado di dire quando Sirio sarebbe apparso in cielo al sorgere del Sole.
Soltanto dopo 1460 anni, ossia 4 365, il calendario e la posizione di Sirio in
cielo sarebbero tornati a coincidere. Questo periodo di 1460 anni, chiamato ciclo
o periodo sotiaco, era noto anche agli astronomi egizi. Certo l’esistenza di tali
regolarità in cielo dovette essere riconosciuta prima che qualcuno potesse pensare
di applicarle.
Una volta che gli studi astronomici e matematici ebbero rivelato queste
regolarità, i babilonesi e gli egizi appresero a osservare gli aspetti del cielo. Essi
impararono a cacciare, a pescare, a seminare, a mietere, a danzare e a compiere
cerimonie religiose nei tempi indicati dal cielo. Ben presto costellazioni
22
particolari ricevettero i nomi delle attività autorizzate dalla loro comparsa. Il
Sagittario (il cacciatore) e i Pesci sono ancora in cielo.
Il cielo decideva dunque l’epoca in cui si dovevano compiere determinati
eventi. Ma un padrone così imperioso non avrebbe tollerato ritardi nel
compimento dei suoi ordini. L’egizio, che si procurava i mezzi di sussistenza
dissodando il suolo che il Nilo ricopriva di ricco limo durante la sua inondazione
annuale del paese, doveva essere pronto per l’epoca della piena. La sua
abitazione, gli attrezzi e il bestiame dovevano essere allontanati temporaneamente
da quell’area e si doveva predisporre tutto per poter procedere immediatamente
dopo la piena alla semina. Era quindi necessario predire esattamente l’arrivo
dell’inondazione. Non soltanto in Egitto ma in tutti i paesi era necessario
conoscere in anticipo il tempo della semina e l’arrivo dei giorni festivi e dei giorni
dei sacrifici.
Non era però possibile la predizione dei giorni utili per le varie operazioni
tenendo conto semplicemente dei giorni e delle notti trascorsi. Il calendario di 365
giorni perse infatti ben presto ogni relazione con le stagioni proprio a causa della
differenza di un quarto di giorno. La predizione di un giorno festivo o
dell’inondazione del Nilo, anche con pochi giorni di anticipo, richiedeva una
conoscenza precisa del moto dei corpi celesti e della matematica quale era
posseduta solo dai sacerdoti. Questi appassionati, conoscendo l’importanza del
calendario per la vita quotidiana e per poter compiere a tempo i preparativi
necessari, sfruttarono questa loro conoscenza come un mezzo per assicurarsi il
potere sulle masse non informate. Si ritiene di fatto che i sacerdoti egizi sapessero
che l’anno solare, ossia l’anno delle stagioni, fosse di 365 1/4 giorni ma che
tenessero nascosta deliberatamente questa notizia al popolo. Conoscendo anche
l’epoca dell’inondazione, i sacerdoti potevano asserire di essere loro a provocarla
con i loro riti, chiedendo perciò in cambio un pagamento al misero agricoltore. La
conoscenza della matematica e della scienza era uno strumento di potere allora
come lo è ancora oggi.
Se la meraviglia suscitata dai fenomeni celesti condusse alla matematica
attraverso la sua rispettabile parente, l’astronomia, il misticismo religioso, che era
anch’esso un’espressione della meraviglia suscitata dalla vita, dalla morte, dal
vento, dalla pioggia e dall’immagine complessiva della natura, si associò
anch’esso alla matematica attraverso la sua parente, ora screditata, l’astrologia. È
ovvio che l’importanza dell’astrologia nelle religioni antiche non dev’essere
giudicata sulla base del discredito di cui l’astrologia è oggi oggetto. In quasi tutte
queste religioni i corpi celesti, e specialmente il Sole, erano dèi che governavano i
fatti che avevano luogo sulla terra. La volontà e i disegni di questi dèi potevano
essere penetrati studiando le loro attività, le loro regolari apparizioni e scomparse,
le improvvise visite di meteore e le occasionali eclissi di Sole e di Luna. Era
altrettanto naturale per gli antichi sacerdoti elaborare formule per la divinazione
del futuro fondate sui moti dei pianeti e delle costellazioni quanto lo è per lo
scienziato moderno studiare e padroneggiare la natura con le sue tecniche.
23
Anche se i corpi celesti non fossero stati considerati dèi, un popolo
scientificamente immaturo avrebbe avuto buone ragioni per associare le posizioni
del Sole, della Luna e delle stelle con affari umani. La dipendenza dei raccolti dal
Sole e dal tempo in generale, l’accoppiamento degli animali in stagioni dell’anno
ben definite, la periodicità del flusso delle donne, che anche Aristotele e Galeno
ritennero governato dall’azione della Luna, e numerose altre associazioni simili
conferirono una forte credenza a una tale dottrina. Per gli egizi, in particolare,
l’inizio dell’inondazione del Nilo esattamente nel giorno in cui Sirio appariva in
cielo al sorgere del sole significava che l’inondazione era causata da Sirio.
Il misticismo religioso si espresse direttamente de more geometrico nella
costruzione e orientamento di splendidi templi e piramidi. Ogni grande città
babilonese si costruì una ziqqurat, ossia un tempio in forma di torre. Era questo
un imponente edificio costruito al di sopra di una successione di terrazze, cui si
accedeva grazie a vaste rampe di gradini, e che era ben visibile da molti
chilometri di distanza. Le piramidi e i templi egizi sono ben noti. Le piramidi, in
particolare, erano costruite con una cura speciale essendo sepolcri reali, e gli egizi
ritenevano che la costruzione secondo precise prescrizioni matematiche fosse
essenziale per la vita futura del defunto. L’orientamento di queste strutture
religiose in relazione ai corpi celesti è ben illustrata dal famoso tempio di
Ammone-Re a Karnak. L’edificio era orientato esattamente di fronte al tramonto
nel solstizio d’estate; quel giorno i raggi del sole entravano direttamente nel
tempio e illuminavano la parete di fondo.
Il misticismo religioso non trascurò inoltre le affascinanti proprietà dei numeri
come veicolo per l’espressione delle proprie idee. Un interesse particolare
suscitarono i numeri tre e sette. Poiché l'universo era stato evidentemente
costruito in un periodo di tempo ben definito perché non usare un numero
desiderabile come sette? Che dovesse trattarsi di giorni e non di periodi più lunghi
sembrava un buon compromesso fra il potere di Dio e la complessità della natura.
La scienza della cabala illustra fin dove i credenti erano disposti a spingersi per
spiegare il mistero dell’universo in termini di numeri. La tradizione attribuisce ai
sacerdoti babilonesi l’invenzione di questa scienza mistica e demoniaca dei
numeri che fu poi sviluppata dagli ebrei. Questa pseudo-scienza era fondata
sull’idea seguente, Ogni lettera dell’alfabeto era associata a un numero. Di fatto
greci ed ebrei usavano come simboli numerici le lettere dei loro alfabeti. A ogni
parola era associato il numero che era la somma dei numeri corrispondenti alle
lettere che formavano la parola. Due parole aventi lo stesso numero associato
erano considerate in relazione fra loro, e questa connessione fu usata per fare
predizioni. Così la morte di un uomo poteva essere profetizzata quando erano
uguali il numero associato al nome di un’impresa che egli progettava di compiere
e quello associato alla parola morte.
Gli interessi artistici dell’uomo gareggiavano con i suoi sentimenti religiosi
nello scoprire e utilizzare conoscenze matematiche. Mentre gli architetti
studiavano e applicavano la geometria alla progettazione e alla costruzione di
meravigliosi edifici pubblici, templi e palazzi reali, i pittori erano attratti da figure
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geometriche come mezzi per esprimere le loro concezioni della bellezza. Artisti
della città di Susa, in Persia, usarono seimila anni fa forme geometriche in uno
stile artistico convenzionale non meno sofisticato di quello della moderna arte
astratta. La loro ceramica veniva decorata con capri i cui quarti, anteriori e
posteriori, erano rappresentati da triangoli e le cui corna erano rappresentate da
ampi semicerchi, e con cicogne il cui corpo e il cui capo erano raffigurati sotto
forma di triangoli grandi e piccoli. La geometria non era, come sostenne Erodoto,
solo il dono del Nilo. Anche gli artisti fecero questo dono alla civiltà.
Le civiltà egizia e babilonese trassero ispirazione per l’attività matematica da
molti bisogni e interessi umani, ma non furono sufficientemente grandi per
comprendere veramente la matematica e per dare un vero contributo al suo
sviluppo. Esse accumularono semplici formule e numerose regole e tecniche
elementari le quali rispondevano tutte a domande sorte in situazioni particolari.
Non ci fu però uno sviluppo generale _di un argomento né i testi enunciano
princípi generali. Il papiro di Ahmes (o Ahmosa), da cui derivano la maggior
parte delle nostre conoscenze sulla matematica egizia, elabora semplicemente
problemi specifici, senza fornire alcuna spiegazione o ragione delle operazioni
svolte. È stato suggerito che i sacerdoti babilonesi ed egizi possedessero forse
princípi matematici generali, di cui potrebbero aver mantenuto segreta la
conoscenza. È questa pura speculazione, sostenuta in parte dal titolo del papiro di
Ahmes, Istruzioni per ottenere la conoscenza di tutte le cose oscure, e in parte dal
carattere generale della teocrazia egizia, con la sua trasmissione orale delle
conoscenze e il suo tentativo di sviluppare nel popolo una riverenza per la classe
dominante.
L’incapacità di costruire un importante corpo scientifico di conoscenza o di
includere i particolari in una sintesi di una certa ampiezza si avverte anche
nell’astronomia egizia e babilonese. In migliaia di anni di osservazioni non fu
elaborata alcuna teoria in grado di legare fra loro e illuminare le osservazioni.
È stata profusa un’insistenza eccessiva sulla matematica usata nella costruzione
delle piramidi e dei templi come prova della profondità della matematica antica.
Alcuni autori hanno sottolineato che gli spigoli di una piramide sono quasi
perfettamente della stessa lunghezza e che gli angoli retti sono vicinissimi a 90°.
Per ottenere tali risultati si richiedevano però non matematica bensì cura e
pazienza. Calcolatori precisi non sono necessariamente grandi matematici e tali
non furono neppure i costruttori di piramidi. Quel che affascina nella loro opera
sono l’organizzazione e le conoscenze ingegneristiche di sforzi di tali dimensioni.
Dal punto di vista moderno, la matematica egizia e quella babilonese erano
inadeguate da un altro punto di vista: le conclusioni venivano stabilite
empiricamente. Vediamo brevemente in che modo gli egizi e i babilonesi
pervenivano alle loro formule.
Supponiamo che un agricoltore voglia cintare un’area di 100 metri quadrati al
costo più basso possibile e che desideri che l’area abbia forma rettangolare. Per
mantenere basso il costo del recinto, egli deve rendere il perimetro il più piccolo
possibile. Ora, egli può tracciare un rettangolo avente un’area di 100 metri
25
quadrati usando dimensioni come 50 per 2, oppure 20 per 5, o ancora 8 per 12 1/2
e molte altre combinazioni. I perimetri dei vari rettangoli non sono affatto uguali,
nonostante che le aree siano tutte di 100 metri quadrati. Ad esempio, le
dimensioni 2 per 50 richiedono un perimetro di 104 metri; le dimensioni 5 per 20
richiedono un perimetro di soli 50 metri, e così via. Già da questi pochi calcoli
possiamo vedere che le differenze nei perimetri possono essere considerevoli in
corrispondenza col variare delle dimensioni.
Ora, l’agricoltore si trova in condizioni economiche non troppo floride. Se egli
conosce un po’ di aritmetica può provare con varie dimensioni che gli diano
un’area di 100 metri quadrati e scegliere quella col perimetro minore. Ma poiché
le possibilità sono infinite, egli non potrà mai provarle tutte e perciò non sarà in
grado di determinare la scelta migliore. Un agricoltore sveglio può osservare che
quanto più vicine sono le due dimensioni tanto minore sarà il perimetro richiesto.
Egli può sospettare pertanto che il quadrato di 10 metri di lato sia quello che
richiede il perimetro minore, ma non può esserne certo. Il suo procedimento per
prova ed errore lo ha condotto nondimeno a una conclusione probabile, ossia che
di tutti i rettangoli di una determinata area, il quadrato è quello che ha il perimetro
minore.
L’agricoltore userebbe indubbiamente questa congettura e la sua conclusione,
avendo il sostegno dell’aritmetica e di un’esperienza continua con aree
rettangolari, verrebbe tramandata alla posterità come un fatto matematico
attendibile. Ovviamente la conclusione non è affatto stabilita e a nessun moderno
studente di matematica verrebbe consentito di “dimostrarla” in questo modo. Il
più che si possa dire a favore di questo antico approccio alla conoscenza
matematica è che esso sostituisce l’intelligenza con la pazienza.
Un altro aspetto della matematica dei tempi antichi merita la nostra attenzione.
I sacerdoti monopolizzavano l’intero insegnamento, inclusa la matematica, per
asservirlo ai loro fini. La conoscenza dava il potere e, limitando la conoscenza,
essi riducevano la probabilità che qualcuno potesse sfidare la loro posizione.
Inoltre l’ignoranza genera il timore e il popolo timoroso si volge verso capi che lo
guidino e lo rassicurino, In tal modo i sacerdoti rafforzavano la loro posizione ed
erano in grado di mantenere il loro dominio sul popolo. Le teocrazie della
Babilonia e dell’Egitto reggono molto sfavorevolmente il confronto con civiltà in
cui non c’era una classe sacerdotale dominante. Vedremo che i pochi secoli
corrispondenti alla fioritura greca e gli ultimi secoli della nostra era moderna
produssero una conoscenza e un progresso infinitamente maggiori di quelli
realizzati nei millenni delle due antiche civiltà.
26
III. La nascita dello spirito matematico
Tutto ciò che noi greci riceviamo, lo miglioriamo e
perfezioniamo.
PLATONE
Di Talete si racconta che una volta, mentre passeggiava di sera, era così assorto
nell’osservazione delle stelle che cadde in un fosso. Una servetta tracia che lo
accompagnava esclamò: “Come puoi sapere che cosa accade in cielo se non vedi
che cosa c’è ai tuoi piedi? " Talete, nondimeno, fece molte cose simultaneamente
e con successo. Nello spazio di una vita, non solo fondò la matematica greca,
osservò le stelle e fece passeggiate con compagni congeniali discutendo sulla
natura ma creò anche la filosofia greca, fondò un’importante teoria cosmologica,
fece molti viaggi, diede notevoli contributi all’astronomia e realizzò un successo
enorme negli affari.
Come la maggior parte dei matematici greci, Talete apprese gli elementi
dell’algebra e della geometria dagli egizi e dai babilonesi. Di fatto molti studiosi
greci di queste discipline vennero dall’Asia Minore, che aveva ereditato la cultura
babilonese. Altri, nati nella madrepatria greca, si recarono a studiare in Egitto.
Nonostante l’influenza incontestabile dell’Egitto e della Babilonia sui greci, la
matematica prodotta dai greci differiva in modo radicale da quella anteriore. Di
fatto, dal punto di vista del nostro secolo, la matematica e, si potrebbe aggiungere,
la civiltà moderna ebbero inizio con i greci del periodo classico, che si estese dal
600 a.C. circa al 300 a.C.
La matematica pregreca è già stata da noi definita una raccolta di conclusioni
empiriche. Le sue formule erano il risultato di lunghi periodi di esperienze, così
come molte pratiche mediche e rimedi in uso oggi. Benché l’esperienza sia senza
dubbio un’ottima maestra, in molte situazioni essa sarebbe un modo
estremamente inefficace di ottenere conoscenze. Chi costruirebbe un ponte lungo
un chilometro per stabilire se un particolare cavo d’acciaio sia in grado di
sostenerlo? Il metodo per prova ed errore può avere il vantaggio di essere un
metodo diretto, ma può anche rivelarsi disastroso.
L’esperienza è l’unico modo di ottenere conoscenza? Non per esseri dotati di
una facoltà di raziocinio. Il ragionamento può seguire molte vie, fra cui quella
molto sperimentata dell’analogia. Gli egizi, ad esempio, credevano
nell’immortalità e perciò seppellivano i loro defunti con abiti, utensili, gioielli, e
altre cose che potessero esser loro utili nell’altro mondo. Il loro ragionamento era
che poiché la vita sulla terra aveva bisogno di tali oggetti, lo stesso valeva anche
per l’altra vita.
Il ragionamento per analogia è utile ma ha anch’esso i suoi limiti. In molti casi
non esiste una situazione analoga; difficilmente si sarebbero potuti inventare
27
aerei, radio e sommergibili ragionando per analogia. Oppure possono presentarsi
situazioni analoghe le cui differenze, per quanto piccole, possono comportare
grandi conseguenze. Benché gli esseri umani assomiglino alle scimmie
antropomorfe, talune conclusioni sugli uomini non possono esser tratte da uno
studio delle scimmie.
Un metodo di ragionamento usato più comunemente è noto come induzione.
Un agricoltore può osservare che grandi piogge avutesi in varie primavere
successive furono seguite da raccolti eccellenti. Egli ne conclude che grandi
piogge sono propizie ai raccolti. Ancora, una persona che abbia avuto esperienze
sfortunate trattando con avvocati conclude che tutti gli avvocati sono persone
indesiderabili. Il processo induttivo consiste essenzialmente nella conclusione che
qualcosa è sempre vera sulla base di un numero di casi limitato.
L’induzione è il metodo di ragionamento fondamentale nella scienza
sperimentale. Supponiamo che uno scienziato riscaldi una determinata quantità
d’acqua da 4° a 20° e veda che il volume occupato dall’acqua aumenti. Se è un
buon scienziato non trarrà alcuna conclusione ma ripeterà l’esperimento molte
volte. Supponiamo che egli osservi la medesima espansione ogni volta. Egli
dichiarerà allora che l’acqua si espande ogni volta che sia riscaldata da 4° a 20°.
Questa conclusione è ottenuta con un ragionamento induttivo.
Benché le conclusioni ottenute in virtù di un ragionamento induttivo sembrino
garantite dai fatti, esse non sono stabilite al di là di ogni dubbio. Sul piano della
logica, queste conclusioni non sono stabilite meglio della generalizzazione, tratta
dall’osservazione di quattrocento milioni di cinesi, che tutti gli esseri umani
hanno la pelle gialla. In altri termini, non possiamo essere certi di nessuna
conclusione ottenuta in virtù di un ragionamento induttivo. Esistono altre
limitazioni a questo tipo di ragionamento. Non possiamo concludere
induttivamente quale possa essere l’effetto sulla società di una legge non
sperimentata. Né possiamo concludere induttivamente, come fece un osservatore
acritico, che tutti gli indiani camminano in fila indiana per aver visto uno farlo!
I vari metodi per ottenere conclusioni, ciascuno indubbiamente utile in una
varietà di situazioni, posseggono un limite comune: anche se i fatti d’esperienza,
o i fatti su cui si fondano il ragionamento per analogia o per induzione, sono del
tutto corretti, la conclusione ottenuta non è certa e dove la certezza è d’importanza
vitale questi metodi sono praticamente inutilizzabili.
Fortunatamente esiste un metodo di ragionamento che garantisce la certezza
delle conclusioni ottenute. Il metodo noto come deduzione. Consideriamo alcuni
esempi. Se accettiamo fatti che tutte le mele sono deperibili e che l’oggetto che si
trova di fronte a noi è una mela, dobbiamo concludere che quest’oggetto è
deperibile. Un altro esempio è il seguente: se tutte le persone buone sono
caritatevoli e se io sono buono, allora devo essere caritatevole. E se io non sono
caritatevole, non sono buono. Di nuovo, dalle premesse che tutti i poeti sono
intelligenti e che nessuna persona intelligente si fa beffe della matematica,
possiamo trarre deduttivamente la conclusione inevitabile che nessun poeta si fa
beffe della matematica.
28
Non ha nessuna importanza, finché si tratta semplicemente del ragionamento,
se accettiamo o no le premesse. Quel che conta è che, se accettiamo le premesse,
dobbiamo accettare la conclusione. Purtroppo molte persone confondono la
accettabilità o la verità di una conclusione con la validità del ragionamento che
conduce a tale conclusione. Dalle premesse che tutti gli esseri intelligenti sono
esseri umani e che i lettori di questo libro sono esseri umani, possiamo concludere
che tutti i lettori di questo libro sono intelligenti. La conclusione è indubbiamente
vera ma il ragionamento deduttivo implicato non è valido perché la conclusione
non segue necessariamente dalle premesse. Una breve riflessione dimostra che,
benché tutti gli esseri intelligenti siano umani, possono esserci esseri umani non
intelligenti e nulla, nelle premesse, ci dice a quale gruppo di esseri umani
appartengano i lettori di questo libro.
Il ragionamento deduttivo consiste dunque in quei modi di derivare nuove
asserzioni da fatti accettati che forzano all’accettazione di asserzioni derivate.
Non indagheremo a questo punto la questione del perché noi sperimentiamo
questa convinzione mentale. Quel che ora importa è che l’uomo ha questo metodo
per arrivare a nuove conclusioni e che queste conclusioni sono indubitabili se i
fatti da cui partiamo sono anch’essi indubitabili.
La deduzione, come metodo per ottenere conclusioni, presenta molti vantaggi
sul metodo per prova ed errore o sul ragionamento per induzione o per analogia. Il
vantaggio principale è quello che abbiamo già menzionato, ossia che le
conclusioni sono incontestabili se tali sono le premesse. La verità, se in generale
può essere ottenuta, deve provenire da certezze e non da inferenze dubbie o
approssimative. In secondo luogo, in contrasto con la sperimentazione, la
deduzione può essere applicata senza ricorrere all’uso di equipaggiamenti
dispendiosi. Prima che il ponte venga costruito e prima che il cannone a lunga
gittata spari, si può applicare il ragionamento deduttivo per stabilire quale sarà
l’esito. Talvolta la deduzione presenta il vantaggio di essere l’unico metodo
disponibile. Il calcolo di distanze astronomiche non può essere eseguito
utilizzando un regolo fisso. Inoltre, mentre l’esperienza ci confina a piccole
porzioni di tempo e spazio, il ragionamento deduttivo può estendersi a infiniti
universi ed eternità.
Nonostante tutti i suoi vantaggi il ragionamento deduttivo non può però
soppiantare l’esperienza, l’induzione o il ragionamento per analogia. È vero che
quando le premesse possono essere garantite al cento per cento, un’ugual certezza
si può attribuire alle conclusioni della deduzione. Premesse così incontestabili non
sono pero sempre necessariamente disponibili. Nessuno, purtroppo, è stato in
grado di fornire le premesse da cui si possa dedurre una cura per il cancro. Ai fini
pratici, inoltre, la certezza garantita dalla deduzione è talvolta superflua. Un alto
grado di probabilità può essere sufficiente. Per secoli gli egizi hanno usato
formula matematiche tratte dall’esperienza. Se essi avessero atteso di avere una
dimostrazione deduttiva, le piramidi di el-Gizah non si ergerebbero oggi nel
deserto.
29
Ciascuno di questi vari modi di ottenere conoscenze presenta quindi vantaggi e
svantaggi. Nonostante ciò, i greci insistettero sulla tesi che tutte le conclusioni
matematiche devono essere stabilite solo col ragionamento deduttivo. Con la loro
insistenza su questo metodo, i greci mettevano da parte tutte le regole, le formule
e i procedimenti che erano stati ottenuti con l’esperienza, con l’induzione o con
ogni altro metodo non deduttivo e che erano stati accettati nel corpo della
matematica per millenni prima della loro civiltà. Sembrerebbe dunque che i greci
stessero distruggendo piuttosto che costruire; ma per il momento sospendiamo il
giudizio.
Perché i greci insistettero sull’uso esclusivo della dimostrazione in matematica?
Perché abbandonarono tali metodi pratici e fecondi per ottenere conoscenze come
l’induzione, l’esperienza e l’analogia? La risposta può essere trovata nella natura
della loto mentalità e della loro società.
I greci erano filosofi dotati. Essi si distinguevano dagli altri popoli in virtù del
loro amore per la ragione e del piacere che provavano nelle attività intellettuali.
Gli ateniesi colti erano tanto devoti alla filosofia quanto il nostro bel mondo lo è
ai night club; e l’Atene precristiana del V secolo a.C. era profondamente
interessata ai problemi della vita e della morte, dell’immortalità, della natura
dell’anima e della distinzione fra bene e male, così come l’America del XX secolo
lo è al progresso materiale. A differenza degli scienziati, i filosofi non ragionano
sulla base di esperimenti od osservazioni compiuti personalmente. Il loro
ragionamento si fonda piuttosto su concetti astratti e su vaste generalizzazioni. È
difficile infatti, dopo tutto, fare esperimenti con anime al fine di conseguire verità
sulla loro natura. Lo strumento naturale dei filosofi è il ragionamento deduttivo;
perciò i greci accordarono la preferenza a questo metodo quando si volsero alla
matematica.
I filosofi, inoltre, si occupano di verità, le poche immateriali manciate di
eternità che possono essere vagliate dalla sconcertante complessità di esperienze,
osservazioni e sensazioni. La certezza è l’elemento indispensabile della verità. Per
i greci, perciò, le conoscenze matematiche accumulate dagli egizi e dai babilonesi
erano un castello di sabbia. Bastava toccarlo perché si sbriciolasse. I greci
desideravano un palazzo costruito di un marmo indistruttibile, eterno.
La preferenza dei greci per la deduzione era, sorprendentemente, un aspetto
dell’amore ellenico per la bellezza. Come gli appassionati di musica odono la
musica come strutture, intervalli e contrappunto, così i greci vedevano la bellezza
come ordine, coerenza, compiutezza e determinatezza. La bellezza era
un’esperienza intellettuale oltre che emotiva. Di fatto, in ogni esperienza emotiva
i greci ricercavano l’elemento razionale. In un famoso elogio, Pericle esaltò gli
ateniesi morti in battaglia a Sarno non solo perché erano stati coraggiosi e
patriottici ma perché la loro morte era stata decretata dalla ragione. Le
argomentazioni deduttive esercitavano naturalmente un grande richiamo su
uomini che identificavano bellezza e ragione perché tali argomentazioni erano
intenzionali, coerenti e complete; proprio la convinzione delle conclusioni offre
infatti la bellezza della verità. Non stupisce dunque che i greci considerassero la
30
matematica un’arte, così come è un’arte anche l’architettura anche se i suoi
principi possono essere usati per costruire magazzini.
Un’altra spiegazione della preferenza testimoniata dai greci per la deduzione va
vista nell’organizzazione della loro società. I filosofi, i matematici e gli artisti
erano membri della classe sociale più elevata. Questo strato superiore o
disdegnava del tutto le imprese commerciali e il lavoro manuale o li considerava
come tristi necessità. Il lavoro nuoceva al corpo e sottraeva tempo alle attività
intellettuali e sociali e ai compiti civili.
Greci famosi si espressero in modo inequivocabile in termini sdegnosi nei
confronti del lavoro e delle attività mercantili. I pitagorici, un’influente scuola di
filosofi e mistici di cui parleremo più avanti, si vantavano di aver innalzato
l’aritmetica, lo strumento del commercio, al di sopra dei bisogni dei mercanti.
Essi ricercavano la conoscenza, non la ricchezza. L’aritmetica, disse Platone,
dovrebbe essere studiata per la conoscenza e non per i fini del commercio. Egli
dichiarò inoltre che la professione del negoziante è una degradazione per un uomo
libero e auspicò che l’uso mercantile dell’aritmetica fosse punito come un
crimine. Aristotele dichiarò che in uno Stato perfetto nessun cittadino dovrebbe
praticare alcuna arte meccanica. Lo stesso Archimede, autore peraltro di
straordinarie invenzioni pratiche, prediligeva le sue scoperte nel campo della
scienza pura e considerava ignobile e volgare ogni tipo di abilità connessa con i
bisogni quotidiani. I beoti avevano un disprezzo spiccatissimo per il lavoro.
Coloro che si contaminavano esercitando un’attività commerciale venivano
esclusi da uffici statali per dieci anni.
L'atteggiamento dei greci nei confronti del lavoro avrebbe potuto avere scarsa
influenza sulla loro cultura se essi non avessero posseduto una vasta classe di
schiavi su cui poter scaricare i compiti ingrati. Gli schiavi si occupavano degli
affari e dell’amministrazione delle famiglie, facevano lavori manuali e tecnici,
gestivano le industrie e praticavano anche le professioni più importanti come la
medicina. La base servile della società greca classica favorì un divorzio della
teoria dalla pratica e lo sviluppo dell’aspetto speculativo e astratto della scienza e
della matematica, con la conseguenza che sperimentazione e applicazioni pratiche
furono del tutto trascurate.
Se si considera che la classe superiore greca evitava le attività mercantili – in
opposizione con l'interesse che la moderna classe sociale superiore dimostra per la
finanza e per l’industria – non riesce difficile comprendere la preferenza
testimoniata per la deduzione. Se una persona non “vive” nel mondo che la
circonda, l’esperienza le insegnerà ben poco. Similmente, per ragionare in modo
induttivo o analogico un individuo dev’essere disposto a uscir fuori e osservare il
mondo reale. La sperimentazione sarebbe sicuramente estranea a pensatori che
disapprovano il lavoro manuale. Poiché i greci non erano indolenti, essi
adottarono naturalmente quel modo d’indagine che si adattava alle loro
inclinazioni e ai loro atteggiamenti sociali.
Jonathan Swift osservò e mise in ridicolo quest’isolamento della cultura greca,
come pure la sua influenza sulla natura astratta di quella che egli riteneva fosse la
31
pseudo-scienza del suo tempo. Quando Gulliver viene condotto a fare un giro
d’ispezione a Laputa, osserva:
Le loro case sono costruite molto male, le pareti sono sghembe, senza un angolo retto in
nessuna stanza, e questo difetto deriva dal disprezzo che essi hanno per la geometria pratica,
che spregiano come volgare e meccanica; le istruzioni che essi danno sono troppo raffinate per
gli intelletti dei loro operai, fatto che determina errori continui. E benché essi siano abbastanza
abili, quando abbiano un pezzo di carta, a maneggiare la riga, la matita e il compasso, tuttavia,
nelle azioni comuni e nel comportamento di vita non ho mai visto gente così goffa, maldestra e
inerte, né così lenta e perplessa nelle proprie concezioni su tutti gli altri argomenti che non
siano la matematica e la musica.
L’insistenza dei greci sul ragionamento deduttivo come sull’unico metodo di
dimostrazione in matematica fu nondimeno un contributo di prima grandezza.
Essa staccava la matematica dalla cassetta degli attrezzi del carpentiere, dal
ripostiglio degli arnesi dell’agricoltore e dal corredo dell’agrimensore e la inseriva
in un sistema di pensiero nella mente dell'uomo. La ragione dell’uomo, non i suoi
sensi, avrebbe deciso da questo momento in poi, che cosa fosse corretto. Con
questa decisione, la ragione fece il suo ingresso nella civiltà occidentale e i greci
rivelarono pertanto più chiaramente che in qualsiasi altro modo l’importanza
suprema che essi attribuivano alle facoltà razionali dell’uomo.
L’uso esclusivo della deduzione fu inoltre la fonte del sorprendente potere della
matematica e differenziò tale disciplina da tutti gli altri settori della conoscenza.
In particolare, sussiste qui una netta distinzione fra matematica e scienza, poiché
la scienza usa anche conclusioni ottenute per sperimentazione e per induzione. Le
conclusioni della scienza richiedono perciò occasionalmente revisioni e talvolta
devono essere completamente abbandonate, mentre le conclusioni della
matematica sono rimaste salde per migliaia di anni anche se in taluni casi il
ragionamento ha dovuto essere integrato.
Anche se i greci si fossero limitati a trasformare il carattere della matematica
facendone, da una scienza empirica qual era, un sistema deduttivo di pensiero, la
loro influenza sulla storia sarebbe stata ancora enorme. È questo pero solo il
primo dei loro contributi.
Un secondo contributo, di importanza vitale, dei greci consiste nell’aver reso la
matematica astratta. Le civiltà anteriori avevano cominciato a pensare ai numeri e
alle operazioni con i numeri un po’ astrattamente ma solo nel modo inconscio in
cui noi abbiamo imparato da bambini a pensare ai numeri e a manipolarli. Il
pensiero geometrico, prima dei greci, era ancor meno avanzato. Per gli egizi, ad
esempio, una linea retta era, in modo del tutto letterale, una corda tesa o una linea
tracciata nella sabbia. Un rettangolo era un recinto che limitava un campo.
I greci non soltanto riconobbero consapevolmente il concetto di numero ma
svilupparono anche l’aritmetica, l’aritmetica superiore o teoria dei numeri; nello
stesso tempo la mera abilità di calcolo, che essi chiamarono logistica e che non
implicava pressoché alcun apprezzamento delle astrazioni, veniva disprezzata
come un’abilità pratica nello stesso modo in cui oggi consideriamo dall’alto in
32
basso l’abilità nella dattilografia. Similmente, in geometria, i vocaboli punto,
linea, triangolo e simili divennero concetti mentali, suggeriti da oggetti fisici ma
diversi da essi nello stesso modo in cui il concetto di ricchezza differisce da
terreni, edifici e gioielli e come il concetto di tempo differisce da una misura del
passaggio del Sole in cielo.
I greci eliminarono la sostanza fisica dai concetti matematici e ne conservarono
i meri involucri. Perché lo fecero? Certo è molto più difficile meditare su
astrazioni-che non su oggetti concreti. Un vantaggio è però subito evidente: un
guadagno in generalità. Un teorema dimostrato per un triangolo astratto si applica
alla figura formata da tre bastoncini di fiammiferi, al recinto triangolare di un
pezzo di terra e al triangolo formato, in ogni istante, dalla Terra, dal Sole e dalla
Luna.
I greci preferivano il concetto astratto perché esso era, ai loro occhi,
permanente, ideale e perfetto mentre gli oggetti fisici hanno breve durata, sono
imperfetti e corruttibili. Il mondo fisico non aveva importanza, se non nella
misura in cui ne suggeriva uno ideale; l’uomo era molto più importante degli
uomini. La forte preferenza per l’astrazione risulterà evidente da un breve sguardo
alla dottrina del più grande filosofo della Grecia.
Platone nacque ad Atene attorno al 428 a.C. da una distinta e attiva famiglia
greca, in un periodo in cui la città era all’apogeo del suo potere. Ancora giovane
conobbe Socrate e più tardi lo sostenne nella difesa del governo aristocratico di
Atene. Quando il partito democratico assunse il potere, Socrate fu condannato a
bere la cicuta e Platone divenne persona non grata ad Atene. Convintosi che in
politica non c’era posto per una persona cosciente – la politica era naturalmente
diversa a quell’epoca –, decise di lasciare la città. Dopo aver molto viaggiato in
Egitto e dopo essere entrato in contatto con i pitagorici nell’Italia meridionale,
tornò ad Atene attorno al 387 a.C. e vi fondò la sua Accademia per la filosofia e la
ricerca scientifica. Platone dedicò gli ultimi anni della sua vita a insegnare, a
scrivere e a formare matematici. Tra i suoi discepoli, amici e seguaci furono i
massimi uomini del suo tempo e di molte generazioni successive e tra essi si
potrebbero trovare tutti i matematici degni di nota del IV secolo a.C.
Secondo Platone esiste un mondo della materia, la Terra e gli oggetti che si
trovano su di essa, che percepiamo con i sensi; esiste inoltre il mondo dello
spirito, di manifestazioni divine e di idee come la Bellezza, la Giustizia,
l’Intelligenza, la Bontà, la Perfezione e lo Stato. Queste astrazioni erano per
Platone ciò che Dio è per il mistico, il Nirvana per il buddhista, e lo Spirito santo
per il cristiano. Mentre i nostri sensi afferrano il transeunte e il concreto, soltanto
la mente può innalzarsi alla contemplazione di queste idee eterne. Dovere di ogni
uomo intelligente è usare la propria mente al conseguimento di questo fine,
poiché solo queste idee, e non gli affari quotidiani, sono degne di attenzione.
Queste idealizzazioni, che costituiscono il nucleo della filosofia di Platone, sono
esattamente allo stesso livello mentale dei concetti astratti della matematica.
Apprendere come meditare sulle une è al tempo stesso apprendere come meditare
sugli altri. Platone capì questa relazione.
33
Tavola I Prassitele, Afrodite di
Cnido, Vaticano
Per passare dalla conoscenza del mondo della materia al mondo delle idee, egli
disse, ci si deve preparare. La luce emanante dalle realtà più elevate, che risiedono
nella sfera del divino, acceca chi non è abituato a sopportarne la vista. Egli è, per
usare la famosa immagine di Platone, come uno che vive immerso continuamente
nell’oscurità profonda di una caverna e che viene trasportato improvvisamente
alla luce del sole. La matematica è il mezzo ideale per rendere graduale la
transizione dalle tenebre alla luce. Da un lato essa appartiene al mondo dei sensi,
poiché la conoscenza matematica concerne oggetti su questa Terra. Essa è, in
definitiva, la rappresentazione di proprietà della materia. D’altra parte,
considerata esclusivamente come un’idealizzazione, come uno studio
esclusivamente intellettuale, la matematica è di fatto distinta dagli oggetti fisici
che descrive. Inoltre, quando si redigono dimostrazioni, i significati fisici devono
esser lasciati fuori. Il pensiero matematico prepara perciò la mente a considerare
forme di pensiero superiori. Esso purifica la mente distogliendola dalla
contemplazione del sensibile e del perituro e avviandola alla contemplazione
dell’eterno. La via alla salvezza, e quindi alla comprensione del Vero, del Bello e
del Bene, passa per la matematica. Lo studio della matematica era un’iniziazione
alla mente di Dio. Per usare le parole di Platone, “la geometria solleverà l’anima
verso la verità e creerà lo spirito della filosofia...” La geometria si occupa infatti
non di cose materiali bensì di punti, linee, triangoli, quadrati e così via come
oggetti di puro pensiero.
Anche l’aritmetica, disse Platone, “ha un
effetto grandissimo ed eleva l’anima,
costringendola a ragionare su numeri astratti e
opponendosi all’introduzione nel ragionamento
di oggetti visibili o tangibili.” Egli suggeriva ai
“principali uomini di Stato di andare a imparare
l’aritmetica non per diletto ma proseguendo lo
studio fino a vedere la natura dei numeri con la
sola mente.”
Per ricapitolare la posizione di Platone: un
po’ di geometria e di calcolo sono sufficienti
per i bisogni pratici mentre le parti superiori e
più avanzate tendono a sollevare la mente al di
sopra delle considerazioni mondane e a renderla
capace di apprendere il fine ultimo della
filosofia, l’idea del Bene. Perciò Platone
raccomandava che i futuri filosofi-re fossero
istruiti per dieci anni, dai venti ai trent’anni di
età, nello studio delle scienze esatte: aritmetica,
geometria piana, geometria solida, astronomia e
armonia. Mettendo l’accento sulla matematica
come preparazione alla filosofia, Platone
parlava non soltanto per i suoi seguaci e per la
34
sua generazione ma per l’intero periodo
classico della Grecia.
La preferenza dei greci per le idealizzazioni
e per le astrazioni si espresse nella filosofia e
nella matematica, ma anche nell’arte. La
scultura greca del periodo classico non si
soffermò su esseri umani particolari bensì su
tipi ideali (tavole I e II). Questa idealizzazione
si estese alla standardizzazione dei rapporti
reciproci delle varie parti del corpo. Le
prescrizioni di questi rapporti date da Policleto
non trascurarono né un dito né un’unghia.
L’uso moderno in concorsi di bellezza di
assegnare il premio alla donna le cui misure si
avvicinano di più a una norma stabilita è una
prosecuzione dell’interesse dei greci per una
figura ideale.
I volti e gli atteggiamenti di figure greche
classiche ricoperte di vesti drappeggiate oppure
ignude, almeno fino al decadente Laocoonte,
non
rivelano
emozione o partecipazione. A giudicare
dall’espressione dei loro volti, gli dei e gli
uomini greci non pensavano né ridevano né
si tormentavano. Il loro contegno è calmo
anche in sculture che raffigurano azioni
drammatiche. I volti sono sereni come
potremmo aspettarci che fossero quelli
dell’uomo considerato astrattamente.
Emozioni particolari sono, dopo tutto,
eventi temporanei, mentre questi scultori
stavano dipingendo l’eterno nella natura
dell’uomo. Questo stile epico della scultura
contrasta nettamente con quello che si
osserva in numerosi busti e statue di capi
militari e politici eseguiti nel periodo
romano (tavola III).
I greci sottoposero a norme, come la loro
scultura, così anche la loro architettura. I
loro edifici, semplici e austeri, furono sempre
di forma rettangolare; anche i rapporti delle
loro dimensioni furono espressi in canoni
Tavola II Mirone, Discobolo,
Collezione Lancellotti, Roma
Tavola III Augusto da Prima
Porta, Vaticano
35
rigidi. Il Partenone ad Atene (tavola IV) è un esempio dello stile e delle
proporzioni che incontriamo in quasi tutti i templi greci. L’insistenza su
dimensioni ideali è, osserviamolo incidentalmente, strettamente affine
all’insistenza dei greci sulla forma, sulla forma in astratto, un concetto che non è
estraneo ai nostri giorni, in cui arte e astrazione sono praticamente sinonimi.
L’insistenza sulla matematica deduttiva e astratta creò la disciplina quale la
conosciamo oggi. Entrambi i caratteri citati le furono impartiti da filosofi. Benché
la matematica fosse nata dalla filosofia greca, molti matematici grandi e altri non
altrettanto grandi hanno manifestato un estremo disprezzo nei confronti di ogni
speculazione filosofica. Questo atteggiamento non è ovviamente altro che
un’espressione di ristrettezza. Questi matematici sono, nel loro proprio campo,
come fiumi possenti che abbattono le montagne per raggiungere il mare ma il cui
corso è poi limitato a strette gole. La forza ha consentito loro di penetrare in
profondità al di sotto della superficie che hanno cominciato a esplorare ma li ha
anche chiusi e presi in trappola fra alte pareti al di sopra delle quali non sono più
in grado di vedere. Questi matematici sprezzanti trascurano il fatto che i fiumi più
profondi e più possenti sono alimentati continuamente da tenui nubi, definite solo
in modo vago. Così anche le nubi del pensiero filosofico distillano la loro essenza
dando origine a fiumi matematici.
I greci diedero la loro impronta alla matematica in un modo ancora diverso, che
ebbe un effetto marcato sul suo sviluppo, ossia in virtù dell’accento posto sulla
geometria. Geometria piana e geometria solida furono esplorate a fondo. Non fu
Tavola IV Il Partenone di Atene
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però mai sviluppato un modo conveniente per rappresentare quantità né metodi
efficienti di calcolare con i numeri. Di fatto, nel computo essi non riuscirono a
utilizzare neppure le tecniche create dai babilonesi. L’algebra nel nostro senso
attuale di un simbolismo di grande efficacia e di numerosi procedimenti stabiliti
per la soluzione di problemi non era neppure considerata. Questa diversità
d’accento era così marcata che ci sentiamo costretti a ricercarne le ragioni. E le
ragioni sono varie.
Abbiamo già visto che nel periodo classico le attività artigianali, il commercio
e la finanza erano esercitati da schiavi. Perciò la gente istruita, che avrebbe potuto
produrre nuove idee e nuovi metodi per la manipolazione dei numeri, non si
occupava di tali problemi. Perché preoccuparsi dell’uso dei numeri nelle
misurazioni se non si misura o nel commercio se si detesta il commercio? Né i
filosofi hanno bisogno delle dimensioni numeriche fosse pure di un solo
rettangolo per speculare sulle proprietà di tutti i rettangoli.
Come la maggior parte dei filosofi, i greci osservavano le stelle. Essi
studiavano il cielo per scandagliare i misteri dell’universo. I greci del periodo
classico non si preoccuparono però dell’uso dell’astronomia nella navigazione e
nel computo del tempo. Ai loro fini figure e forme erano più importanti di
misurazioni e di calcoli; perciò la geometria fu favorita. Di queste forme, il
cerchio e la sfera, suggeriti evidentemente da un’osservazione superficiale del
Sole, della Luna e dei pianeti, ricevettero la maggiore attenzione. Anche il loro
interesse per l’astronomia condusse dunque i greci a favorire la geometria.
Il XX secolo cerca la realtà sbriciolando la materia, come testimoniano le
nostre teorie atomiche. I greci preferivano invece costruire la materia. Per
Aristotele e per altri filosofi greci la forma di un oggetto è la realtà che si trova in
esso. La materia come tale è primitiva e informe; essa ha importanza soltanto se
possiede una forma. Non stupisce pertanto se la geometria, lo studio delle forme,
attrasse in modo speciale l’attenzione dei greci.
Infine, i matematici greci furono condotti nel campo dei geometri dalla
soluzione di un problema matematico vitale. Abbiamo già parlato del fatto che la
civiltà babilonese, come altre civiltà anteriori, usava numeri interi e frazioni. I
babilonesi avevano familiarità anche con un terzo tipo di numeri, introdotto
mediante l’applicazione di un teorema sui triangoli rettangoli.
Figg. 2 e 3. Due triangoli rettangoli.
37
Esaminiamo innanzitutto il teorema. Se i cateti di un triangolo rettangolo sono
lunghi 3 e 4, l’ipotenusa, ovvero il lato opposto all’angolo retto (il lato AB nella
fig. 2), è lungo 5. Ora, il quadrato di 5, cioè 25, è la somma dei quadrati di 3 e di
4, ossia 52 = 3
2 + 4
2. Questa relazione fra i lati di un triangolo rettangolo, ossia
che il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti
sui cateti, è nota comunemente come teorema di Pitagora. I babilonesi e gli egizi
conoscevano sicuramente questo fatto se non una dimostrazione.
Supponiamo ora che entrambi i cateti di un triangolo rettangolo abbiano
lunghezza 1 (fig. 3). Quanto sarebbe lunga l’ipotenusa? Chiamiamo l’ipotenusa x.
Secondo il teorema di Pitagora la sua lunghezza dev’essere tale che
x2 = 1
2 + 1
2 = 2.
Perciò x, la lunghezza dell’ipotenusa, dev’essere un numero il cui quadrato sia
2. Indichiamo il numero il cui quadrato sia 2 con 2 e lo chiamiamo radice
quadrata di 2. Ma quale numero è uguale a 2? Ossia, quale numero, moltiplicato
per se stesso, dà 2?
La risposta, come la scuola matematica pitagorica scoprì con grande sgomento,
è che non esiste alcun numero intero o frazione il cui quadrato sia 2. 2 è un
nuovo tipo di numero e i pitagorici lo chiamarono irrazionale perché non può
essere espresso esattamente come un rapporto fra numeri interi, come potrebbero
essere 4/3 o 3/2. In opposizione a questo nuovo tipo di numero, i numeri interi e
le frazioni sono chiamati numeri razionali. Questi termini sono in uso ancor oggi.
I numeri irrazionali sono un argomento molto trascurato nella storia del
pensiero e un membro scomodo del nostro sistema numerico. Abbiamo visto poco
fa che numeri del genere devono essere usati per rappresentare lunghezze; essi
sono inoltre implicati, esplicitamente e implicitamente, in quasi tutta la
matematica. Ma come si possono sommare, sottrarre, moltiplicare o dividere tali
numeri? Ad esempio, come possiamo sommare 2 e 2? Come possiamo dividere
7 per 2?
I babilonesi avevano trovato una soluzione di ripiego, benché pratica, di queste
difficoltà. Essi approssimavano il valore di 2. Ad esempio, poiché il quadrato di
14/10 ovvero 1,4 è 1,96, e poiché 1,96 è quasi uguale a 2, 1,4 dev’essere quasi
uguale a 2. Un’approssimazione ancora migliore a 2 è l,41, poiché il quadrato
di 1,41 è 1,988.
Un’approssimazione a 2 usata dai babilonesi non consente un ragionamento
esatto con numeri irrazionali, poiché, quale che sia il numero di posizioni
decimali che siamo disposti a usare, non possiamo scrivere un numero razionale il
cui quadrato sia esattamente 2. Eppure, se la matematica deve giustificare la sua
pretesa di essere uno studio esatto, deve lavorare con 2 e non con una sua
approssimazione. Per la mente greca questa era una difficoltà vera e importante
come il problema del cibo per un naufrago gettato dalle onde su un banco
corallino.
38
Insoddisfatti del metodo poco rigoroso dei babilonesi, i greci si accinsero ad
affrontare la difficoltà logica a viso aperto. Per meditare con precisione sui
numeri irrazionali, essi concepirono l’idea di lavorare con tutti i numeri
geometricamente. Essi presero l’avvio nel modo seguente. Fu scelta una
lunghezza destinata a rappresentare il numero 1. Altri numeri furono poi
rappresentati nei termini di tale lunghezza.
Per rappresentare 2, ad esempio, essi usarono una lunghezza uguale
all’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti fossero entrambi uguali a 1. La
somma di 1 e di 2, ad esempio, era una lunghezza formata aggiungendo un
segmento unitario alla lunghezza che rappresentava 2. In questa forma
geometrica la somma di un numero intero e di un numero irrazionale non è più
difficile da concepire della somma di uno più uno.
Analogamente, il prodotto di due numeri, ad esempio 3 e 5, era espresso
geometricamente come l’area del rettangolo avente come dimensioni 3 e 5. Nel
caso di 3 e 5 l’uso dell’area come modo di riflettere sul prodotto può non offrire
grandi vantaggi. Ma si può anche concepire come un’area il prodotto di 3 e di 2.
Meditare su questo secondo rettangolo è più difficile che meditare sul primo;
eppure esso fornisce un modo esatto di lavorare col prodotto di un numero intero
e di un numero irrazionale oppure di due numeri irrazionali.
I greci non soltanto operavano geometricamente con numeri ma si spinsero fino
a risolvere, grazie a serie di costruzioni geometriche, equazioni implicanti
incognite. Le risposte a queste costruzioni erano segmenti lineari le cui lunghezze
erano i valori incogniti. La serietà della loro conversione dall’aritmetica alla
geometria può essere giudicata dal fatto che il prodotto di quattro numeri era
considerato inconcepibile nella Grecia classica perché non esisteva una figura
geometrica in grado di rappresentarlo, nel modo in cui un’area e un volume
rappresentavano rispettivamente il prodotto di due e tre numeri. Per inciso, in
conformità col pensiero greco parliamo ancor oggi di un numero come il 25 come
del quadrato di 5 e del 27 come del cubo di 3.
La predilezione dei greci per la geometria era così spiccata che, durante il suo
viaggio a Laputa, Gulliver fu di nuovo costretto a commentare:
Le conoscenze che avevo nel campo della matematica mi furono di grande aiuto
nell’acquisire la loro fraseologia, la quale dipendeva in grande misura da quella scienza e dalla
musica; e anche in quest’ultima non ero del tutto inesperto. Le loro idee concernono
continuamente linee e ligure. Se essi dovessero, ad esempio, esprimere il loro apprezzamento
per la bellezza di una donna, o di qualsiasi altro animale, la descriverebbero con rombi, cerchi,
parallelogrammi, ellissi e altri termini geometrici o con parole d’arte tratte dalla musica, che
non è necessario ripetere qui. Osservai nella cucina del re ogni sorta di strumenti matematici e
musicali, secondo la figura dei quali essi tagliavano i tranci di carne che venivano serviti alla
tavola di Sua Maestà.
Avendo i greci convertito idee aritmetiche in idee geometriche ed essendosi
dedicati allo studio della geometria, questa disciplina dominò la matematica fino
all’Ottocento, quando vennero finalmente risolte le difficoltà legate al trattamento
39
dei numeri irrazionali su una base esatta, puramente aritmetica. Se si considerano
la rozzezza e la complessità di operazioni aritmetiche eseguite geometricamente,
questa conversione fu, da un punto di vista pratico, molto sfavorevole. I greci non
soltanto non svilupparono il sistema numerico e l’algebra di cui hanno bisogno
l’industria, il commercio, la finanza e la scienza, ma impedirono anche i progressi
delle generazioni successive influenzandole ad adottare il più scomodo approccio
geometrico. Gli europei si abituarono a tal punto alle forme e agli usi greci che la
civiltà occidentale dovette attendere gli arabi prima che si avesse l’introduzione di
un sistema numerico, originario della lontana India.
Per quanto questa perversione del sistema numerico e dell’algebra a opera dei
greci possa apparire sfavorevole commisurata alla nostra concezione del
progresso, non si dovrebbe però continuare a invocare sulla testa dei greci la
condanna di cui sono stati talvolta oggetto. L’unico passo indietro fatto dai greci
fu in sé del tutto ragionevole; inoltre il danno fatto è generosamente
controbilanciato dal bene incomparabile degli altri risultati da loro ottenuti.
La maggior parte delle persone, descrivendo i contributi dei greci alla civiltà
moderna, si esprime in termini di arte, filosofia e letteratura. Non c’è dubbio che i
greci meritino il massimo elogio per quanto ci hanno trasmesso in questi campi.
La filosofia greca è viva e significativa oggi come lo era allora. L’architettura e la
scultura greche, e specialmente la scultura, sono per la media delle persone
istruite del XX secolo più belle delle creazioni del nostro tempo. Drammi greci si
rappresentano ancora nei nostri teatri. Nondimeno, il contributo dei greci che più
ha influito sul carattere della nostra civiltà attuale è la loro matematica.
Trasformando la natura della disciplina nel modo che abbiamo visto, i greci
furono in grado di offrirci il loro dono supremo. Passeremo ora a esaminarne i
caratteri.
40
IV. Gli Elementi di Euclide
Il solo Euclide
vide la nuda verità. Felice
chi, fosse pur da lungi e un giorno solo,
il suo pesante sandalo posare
udì sui sassi dell’acciottolato.
EDNA ST. VINCENT MILLAY
ln un periodo relativamente breve grandi intelletti, come Talete, Pitagora,
Eudosso, Euclide e Apollonio produssero una quantità prodigiosa di matematica
di livello assai elevato. La fama di questi uomini si diffuse in tutti gli angoli del
mondo mediterraneo e attrasse numerosi discepoli. Maestri e allievi si raccolsero
in scuole che, pur disponendo di pochi edifici, erano veri centri del sapere.
L’insegnamento di queste scuole dominò l’intera vita intellettuale dei greci;
perciò ci riferiremo ad esse in varie occasioni.
La scuola pitagorica fu la più influente nel determinare sia la natura sia i
contenuti della matematica greca. Il caposcuola, il leggendario Pitagora, era nato
nell’isola di Samo attorno al 569 a.C. Nei suoi numerosi viaggi in Egitto e in
India assimilò molta matematica e misticismo. Fondò poi a Crotone, una colonia
greca nel mezzogiorno d’Italia, una comunità che aderiva a dottrine sia mistiche
sia razionali. Per la parte mistica, il gruppo trasse ispirazione dalla religione greca
e considerò necessario purificare l’anima dalla contaminazione del fisico e
liberarla dalla prigione del corpo. Per conseguire questi fini, i pitagorici
osservavano il celibato e compivano rituali e purificazioni cerimoniali.
Ritenevano inoltre necessario osservare certi tabù. Non indossavano pertanto abiti
di lana, non mangiavano carne o fave se non in occasione di un sacrificio
religioso, non toccavano un gallo bianco, non passeggiavano per strade maestre,
non usavano ferro per attizzare il fuoco né lasciavano tracce di cenere su un
recipiente. Una volta liberatasi dal corpo, l’anima si reincarnava in un altro corpo.
Senofane racconta che una volta Pitagora, vedendo un uomo che percuoteva un
cane, gli gridò: “Fermati, smetti di percuoterlo; è l’anima di un amico. L’ho
riconosciuto udendo i suoi lamenti.”
La comunità si dedicava principalmente allo studio della filosofia, della scienza
e della matematica. Come se potesse prevedere gli usi terribili a cui alcune di
queste conoscenze avrebbero potuto essere destinate, essa vincolava i nuovi
membri al segreto e chiedeva loro di aderire alla setta per tutta la vita. Benché
l’appartenenza fosse limitata ai soli uomini, a udire le lezioni venivano ammesse
41
anche donne, poiché Pitagora riteneva che le donne avessero qualche valore. Il
carattere esoterico del gruppo e le sue regole mistiche e segrete suscitarono il
sospetto e l`ostilità della cittadinanza di Crotone, che infine scacciò i pitagorici e
diede alle fiamme i loro edifici. Pitagora si rifugiò a Metaponto, nell’attuale
Basilicata, e, secondo una leggenda, vi fu assassinato. I suoi seguaci si diffusero
in altri centri della Grecia e vi continuarono il suo insegnamento.
Su altre dottrine mistiche e speculative di Pitagora diremo di più in un capitolo
seguente, Ci limitiamo per ora a ricordare che ai pitagorici viene riconosciuto il
merito di aver dato alla matematica uno status speciale e indipendente. Essi
furono il primo gruppo a trattare concetti matematici come astrazioni e benché
Talete e gli altri ionici avessero stabilito alcuni teoremi per via deduttiva, i
pitagorici esplorarono questo procedimento in modo esclusivo e sistematico. Essi
distinsero la teoria matematica da attività come la geodesia e il calcolo e
dimostrarono i teoremi fondamentali della geometria piana e solida e
dell’aritmetica, la teoria dei numeri. Con loro sgomento, scoprirono e
dimostrarono anche l’irrazionalità della radice quadrata di due.
Molto più nota dei pitagorici fu l’Accademia di Platone, che ebbe in Aristotele
il suo miglior discepolo. (Quest’ultimo, quando lasciò l’Accademia dopo la morte
di Platone, fondò una propria scuola, il Liceo.) Abbiamo già detto che fra i
discepoli di Platone furono i più famosi filosofi, matematici e astronomi
dell’epoca. Sotto l’influenza di Platone essi misero l’accento sulla matematica
pura fino a ignorare tutte le applicazioni pratiche ed estesero in misura enorme il
corpo delle conoscenze. La scuola conservò la sua preminenza in filosofia ancora
molto tempo dopo che la sua posizione di guida nel campo della matematica e
della scienza era passata ad Alessandria. Quando l’imperatore Giustiniano la
chiuse, nel VI secolo d.C., essa era durata novecento anni.
L’opera delle molte scuole e di individui isolati che vivevano in tutto il bacino
mediterraneo, dall’Asia Minore alla Sicilia e all’Italia meridionale, fu unificata da
Euclide nel libro magistrale intitolato Elementi. Questa esposizione famosissima,
redatta attorno al 300 a.C., costituisce perciò la storia matematica di un’epoca,
oltre che la presentazione logica della geometria. Da pochi assiomi, scelti con
acutezza, Euclide dedusse tutti gli importanti risultati ottenuti dai maestri greci
del periodo classico, circa cinquecento teoremi. Suoi erano gli assiomi, la
disposizione, la forma della presentazione e il completamento di argomenti
sviluppati solo in parte.
Gran parte del materiale contenuto negli Elementi di Euclide ci è familiare
dalla scuola media. Prima però di passare a considerare il significato di questa
matematica per la nostra cultura, vorremmo passare in rassegna alcuni caratteri di
questo trattato, che fu il più influente e, per alcuni, il più rivoluzionario di tutta la
storia. Occupiamoci per il momento della struttura logica delle dimostrazioni di
Euclide.
La geometria, come sappiamo, si occupa di punti, di linee, di piani, di angoli, di
cerchi, di triangoli e simili. Per Euclide, e per i greci di cui egli presentò l’opera,
quei termini rappresentavano non gli oggetti fisici in sé bensì concetti astratti da
42
oggetti fisici. Di fatto soltanto poche proprietà dell’oggetto fisico sono riflesse
nell’astrazione matematica a cui esso dà origine. La corda tesa diede origine alla
linea retta matematica ma il colore della corda e il materiale di cui essa è
composta non sono proprietà della linea retta. Per indicare esattamente il
contenuto dei termini astratti da lui usati, Euclide cominciò con alcune
definizioni. Egli definì una linea retta come ciò che giace in modo uniforme fra i
suoi estremi. (È qui chiaramente evidente l’astrazione dalla corda tesa e dalla
livella del muratore.) Un punto, egli disse, è ciò che non ha parti. E così via,
passando ai triangoli, ai cerchi, ai poligoni e simili.
Nelle sue definizioni, Euclide si lasciò indurre in lungaggini non necessarie e
inopportune. Un sistema logico, autosufficiente, deve cominciare da qualche
parte. Non si può sperare di definire ogni concetto che esso usa, poiché la
definizione implica la descrizione di un concetto in termini di altri e di questi in
termini di altri ancora. Ovviamente, se il processo non dev’essere circolare, è
necessario prendere l’avvio da alcuni termini non definiti e definire gli altri nei
termini di questi. Ad esempio, la definizione data da Euclide del punto come di
ciò che non ha parti richiede necessariamente una definizione delle parti. Altri
autori, tentando di andare oltre Euclide, hanno definito il punto come una pura
posizione. E che cos’è allora la posizione? Indubbiamente in alcune sfere sociali
la posizione è tutto nella vita ma il concetto di posizione non chiarisce il
significato di punto.
Di nuovo, stiamo dicendo che non tutti i concetti possono essere definiti in un
sistema autonomo. È vero che tutti i concetti derivano da oggetti fisici definiti e
rappresentano oggetti fisici definiti, ma questi significati fisici non sono di alcuna
utilità nel processo della definizione formale, non essendo parte della matematica.
Sorprendentemente, l’incapacità di definire alcuni concetti di cui la geometria si
occupa non causa alcuna difficoltà, come vedremo fra poco.
Avendo definito, almeno per sua soddisfazione, i concetti di cui doveva
occuparsi, Euclide procedette al compito importante di stabilire fatti o teoremi su
di essi. Per intraprendere il processo deduttivo, egli aveva bisogno di premesse;
infatti, come Aristotele sottolinea,
Non tutto può essere dimostrato, altrimenti la catena della dimostrazione sarebbe infinita. Si
deve cominciare da qualche parte e si parte da cose ammesse ma indimostrabili. Questi sono
primi principi comuni a tutte le scienze e sono chiamati assiomi o postulati.
Nella scelta degli assiomi, Euclide dimostrò grande intuito e sicurezza di
giudizio. I matematici delle scuole principali avevano preso l’avvio da assiomi ad
essi accettabili. Col crescere dei contributi divenne sempre maggiore il pericolo
che venissero usati assiomi che non tutti i matematici riconoscessero
incontestabilmente veri per il mondo fisico. C’era inoltre una profusione inutile di
assiomi, una situazione disastrosa dal punto di vista logico, poiché è sempre
meglio presupporre il meno possibile e dimostrare tutte quelle asserzioni che
possono essere dedotte dagli assiomi già accettati. Il compito di Euclide
43
consisteva dunque nella ricerca di un insieme adeguato e universalmente
accettabile di assiomi per la geometria. Inoltre, poiché le investigazioni
geometriche dei greci erano una parte della loro ricerca della verità, questi
assiomi dovevano essere verità assolute, incontestabili.
Gli assiomi proposti da Euclide esprimono proprietà di punti, linee e altre
figure geometriche che sono possedute dai loro corrispettivi fisici. Le proprietà in
questione appaiono così chiaramente vere di tali oggetti fisici che tutti gli uomini
sono stati disposti ad ammetterli come base per ulteriori ragionamenti. Il merito
straordinario della scelta di Euclide risiede nel fatto che, benché i suoi assiomi
siano immediatamente accettabili, non sono però mere banalità, conducendo a
conseguenze profonde. Egli riuscì inoltre a contenerli in un numero molto
limitato, dieci, e garantire nondimeno la costruzione dell’intero sistema della
geometria.
All’unico fine di rassicurarci sul discernimento della scelta di Euclide,
richiamiamo alla mente uno o due suoi assiomi. Egli affermò che “dev’essere
sempre possibile tracciare una linea retta che congiunga due punti”, che
“dev’essere sempre possibile tracciare un cerchio con un centro dato e per un
punto dato”; e che “il tutto è maggiore di ciascuna delle sue parti.” Indubbiamente
questi assiomi sono incontestabili e accettabili da tutti gli uomini.
Dopo aver scelto i concetti di cui la geometria deve occuparsi e le verità
fondamentali su tali concetti, Euclide procedette a stabilire teoremi o conclusioni.
Il metodo della dimostrazione era, com’è ovvio, rigorosamente deduttivo. Al fine
di apprezzare appieno perché le successive generazioni stimarono la solidità delle
conclusioni di Euclide, consideriamo una delle sue dimostrazioni.
Un antico teorema ripreso da Euclide dice che “gli angoli alla base di un
triangolo isoscele sono uguali.” Questo teorema riveste un interesse particolare
perché, nonostante il suo carattere elementare, segnava il limite dello studio della
geometria nelle università medievali. Esso è stato chiamato il “pons asinorum” o
“ponte degli asini” perché gli sciocchi non erano in grado di intenderne la
dimostrazione e quindi, come asini dinanzi a un ponte, non riuscivano a procedere
oltre.
Fig. 4. Triangolo isoscele.
Prima di passare in rassegna la dimostrazione, esaminiamo il significato del
teorema. Se ABC (fig. 4) è un triangolo isoscele, due lati, ad esempio AC e BC,
44
sono uguali. Desideriamo dimostrare che gli angoli alla base A e B, ossia gli
angoli opposti ai lati uguali, sono uguali.
La dimostrazione ha inizio tracciando la linea CD, la quale biseca l’angolo C
del triangolo. La giustificazione di questo passo è la seguente.
Euclide aveva fatto vedere in precedenza che ogni angolo può essere bisecato.
Essendo C un angolo, anch’esso può dunque essere bisecato. Il ragionamento
deduttivo ha qui la forma seguente: tutte le mele sono rosse; questa è una mela;
dunque questa mela dev’essere rossa.
L’introduzione della linea CD divide il triangolo ABC in due triangoli ACD e
DCB. Di questi triangoli sappiamo, primo, che AC è uguale a CB, essendosi detto
che il triangolo originario è isoscele; secondo, che l’angolo ACD è uguale
all’angolo DCB poiché CD è la bisettrice dell’angolo; terzo, che, poiché il
segmento CD è comune ai due piccoli triangoli, questi triangoli hanno questo lato
uguale. Possiamo perciò asserire che il triangolo ADC è congruente col triangolo
DCB perché un teorema precedente stabilisce che ogni volta che due triangoli
hanno due lati e l’angolo incluso uguali sono congruenti. Possiamo asserire,
infine, che l’angolo in A è uguale all’angolo in B perché, per la definizione dei
triangoli congruenti, le parti corrispondenti sono uguali, e gli angoli in A e in B
sono siffatte parti corrispondenti.
Il teorema in questione è perciò dimostrato mediante varie argomentazioni
deduttive, ciascuna delle quali usa premesse incontestabili e fornisce una
conclusione incontrovertibile. Ovviamente non tutte le dimostrazioni in Euclide
sono così semplici. Nondimeno ogni dimostrazione, per quanto complessa possa
sembrare a tutta prima, consta solo di una serie di semplici argomentazioni
deduttive.
Non abbiamo bisogno di riesaminare uno per uno tutti i teoremi stabiliti da
Euclide. Sarà sufficiente ricordare che alcuni teoremi semplici sono dimostrati
attraverso un riferimento diretto agli assiomi e che tali teoremi semplici
forniscono stadi di avvicinamento verso la dimostrazione di teoremi più elaborati;
l’intera struttura risulta meravigliosamente e compattamente solidale. Di fatto
molti studenti considerano con irritazione il fatto che un così gran numero di
teoremi apparentemente complicati siano derivabili da pochi assiomi di evidenza
immediata.
Vediamo poi che i successivi argomenti toccati da Euclide riguardano proprietà
fondamentali delle dimensioni e forme di oggetti. L’argomento che gli interessava
di più era sotto quali condizioni due oggetti abbiano uguali dimensioni e ugual
figura, ossia quali condizioni si richiedono perché questi oggetti siano congruenti.
Supponiamo ad esempio che un agrimensore abbia due pezzi di terreno di forma
triangolare. Come potrà stabilirne l’uguaglianza? Deve misurare ogni lato, ogni
angolo e anche le aree di entrambi per stabilire che sono uguali? No, se può
disporre dei teoremi di Euclide. Due triangoli sono uguali da tutti i punti di vista
se, ad esempio, si sa che i lati dell’uno sono rispettivamente uguali ai lati
dell’altro. Questo fatto sembra poco più di una banalità ma il lettore potrà vedere
che non è così se si chiede quali siano le condizioni che si richiedono per esser
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certi della completa uguaglianza di due quadrilateri, ossia di due figure di quattro
lati. Questi problemi e altri affini si applicano, ovviamente, a ogni sorta di figure
geometriche.
Fig. 5. Due triangoli simili.
Euclide si chiese poi: se le figure non sono uguali, quali relazioni significative
possono avere l’una all’altra e quali proprietà geometriche possono avere in
comune? La relazione che egli scelse è la forma. Figure aventi dimensioni diverse
ma ugual forma, ossia figure simili, hanno in comune molte proprietà
geometriche. Applicata ai triangoli, ad esempio, la similitudine significa che gli
angoli di un triangolo sono uguali agli angoli corrispondenti dell’altro. Da questa
proprietà definitoria segue che il rapporto di due lati corrispondenti è costante.
Cosi, se ABC e A'B'C' sono triangoli simili (fig. 5), allora AB/A'B' è uguale a
BC/B'C'. Inoltre, se il rapporto di due lati corrispondenti è, per esempio, r, il
rapporto fra le due aree è r2.
Se le figure non hanno in comune né forma né dimensioni, che cosa si può dire
di esse? Esse possono avere ad esempio la medesima area ovvero, in termini
geometrici, possono essere equivalenti. Oppure possono essere iscrivibili nello
stesso cerchio. Il numero delle possibili relazioni e delle questioni che si possono
porre su ciascuna di esse è infinito. Euclide ne scelse solo alcune fondamentali.
Euclide applicò i concetti da lui studiati non solo a figure formate da linee rette
ma anche a cerchi e a sfere. L’interesse per queste figure era considerevole
perché, per i greci, il cerchio e la sfera erano figure perfette.
Dal punto di vista dell’attrazione estetica, un’altra classe di figure era per loro
altrettanto seducente. Fra i triangoli, il triangolo equilatero era degno di nota per il
fatto che i suoi lati hanno ugual lunghezza e che i suoi angoli hanno uguale
ampiezza. Tra le figure quadrilatere, il quadrato attraeva per la medesima ragione.
Si possono costruire anche figure piane di cinque, sei e più lati in modo che sia i
lati della figura sia gli angoli siano tutti uguali fra loro. Tali figure sono chiamate
poligoni regolari e furono studiate dettagliatamente. Complete superfici possono
essere formate con poligoni regolari, in modo che ogni superficie sia formata solo
da un tipo di poligono. Ad esempio, la superficie di un cubo è una superficie
completa costruita congiungendo sei quadrati lungo i loro lati. Tali superfici, di
cui quella citata del cubo è un esempio, sono chiamate poliedri regolari.
46
Fig. 6. I cinque poliedri regolari.
47
Una delle prime domande sorte in connessione con i poliedri regolari fu quella
del loro numero. Con un ragionamento magistrale, che non possiamo riprodurre
qui, Euclide dimostrò che devono esistere esattamente cinque tipi di poliedri
regolari. Essi sono illustrati nella figura 6. Platone ammirava a tal punto queste
figure da non poter concepire che Dio non ne avesse fatto uso. Egli sviluppò
perciò una scuola greca di pensiero secondo la quale tutti gli oggetti sono
composti da quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua, aggiungendo che le
particelle fondamentali del fuoco hanno la forma del tetraedro, quelle dell’aria la
forma dell’ottaedro, quelle dell’acqua la forma dell’icosaedro e quelle della terra
la forma del cubo. La quinta figura, quella del dodecaedro, fu da Dio riservata alla
forma dell’universo stesso.
Fig. 7. Una superficie conica e le sezioni ottenute mediante intersezione con
piani.
I greci studiarono in modo esauriente un’altra classe di curve. Abbiamo tutti
familiarità con la figura conica (quella del cono gelato). Se abbiamo due coni del
genere molto lunghi, collocati come nella figura 7, otteniamo quella che i
matematici chiamano superficie conica o a volte anche cono. Questa superficie
conica consta di due parti, le quali si estendono sopra e sotto O, procedendo
indefinitamente in entrambe le direzioni. Se una superficie conica viene
intersecata da un piano (una semplice superficie piana, come il ripiano di un
tavolo, privo però di spessore ed estendentesi indefinitamente in tutte le
direzioni), ne risulta una curva d’intersezione la cui forma dipende dalla posizione
del piano in relazione al cono. Così, quando il piano taglia via una parte del cono,
48
la curva d’intersezione è un’ellisse (DEF nella fig. 7) o un cerchio (ABC nella fig.
7). Se il piano d’intersezione è inclinato in modo dal tagliare due parti del cono, la
curva d’intersezione consta di due parti ed è chiamata iperbole (RST e R'S'T' nella
fig. 7). Se, infine il piano d’intersezione è parallelo a una delle linee del cono,
come la POP', l’intersezione si chiama parabola (GIK nella fig. 7).
Anche i fatti fondamentali concernenti le sezioni coniche furono raccolti e
organizzati da Euclide in un libro andato perduto. Un po’ dopo Euclide un altro
famoso matematico, Apollonio, scrisse sull’argomento un trattato che ci è
pervenuto e che lo ha reso quasi altrettanto famoso dell’autore degli Elementi.
Molte altre opere matematiche furono create e scritte in questo periodo classico
ma poche di esse sono sopravvissute. Se giudichiamo sulla base dei libri e dei
frammenti che possediamo è pressoché certo che questo periodo fu caratterizzato
da una grandissima attività creativa, da un intenso interesse per la matematica e da
uno splendore insuperato.
La matematica greca è altrettanto importante per i problemi che si pose e lasciò
senza risposta quanto per quelli che riuscì a risolvere. Fra i primi ce ne sono tre
famosissimi, noti anche ai profani. Essi sono la “quadratura del cerchio”, la
“duplicazione del cubo” e la “trisezione dell’angolo. Quadrare un cerchio
significa costruire un quadrato l’area del quale sia uguale all’area del cerchio
dato. Duplicare un cubo significa costruire lo spigolo di un cubo il cui volume sia
doppio rispetto a quello di un cubo dato. Infine, trisecare un angolo significa
dividere un angolo qualsiasi in tre parti uguali. Queste costruzioni devono essere
eseguite solo con una riga, ossia un regolo non graduato, e un compasso. Non
dev’essere usato alcun altro strumento.
Fig. 8. Le sezioni coniche.
Le ragioni di questa restrizione gettano luce sull’atteggiamento classico verso
la matematica. Riga e compasso sono la controparte fisica della linea retta e del
cerchio e i greci, in generale, avevano limitato la loro geometria alla
considerazione di queste due figure e delle figure derivabili direttamente da esse.
Anche le sezioni coniche, come si vedrà, si ottengono facendo passare un piano
per un cono, ed entrambe queste figure, piano e cono, possono essere generate da
una linea retta in movimento. Questa restrizione alla linea retta e al cerchio,
autoimposta e arbitraria, era motivata dal desiderio di mantenere la geometria
semplice, armoniosa e perciò esteticamente attraente.
Alcuni greci, tra cui particolarmente Platone, avevano altre ragioni, secondo
loro altrettanto gravi, per imporre tale limitazione. L’introduzione di strumenti più
49
complessi che potessero essere adeguati alla soluzione di problemi di costruzione
avrebbe richiesto un’abilità manuale secondo loro indegna di un pensatore.
Platone disse inoltre che, usando strumenti complicati, “il buono della geometria è
messo da parte e distrutto, poiché noi la riduciamo di nuovo al mondo del senso
invece di elevarla e impregnarla delle immagini eterne e incorporee di pensiero,
proprio come quando è usata da Dio, e per questa ragione Egli è sempre Dio.”
I tre problemi di costruzione erano molto popolari in Grecia. Il riferimento più
antico è ad Anassagora, che avrebbe trascorso il tempo passato in prigione
cercando di quadrare il cerchio. Nonostante i ripetuti tentativi dei migliori
matematici greci, i problemi non furono risolti, né lo sarebbero stati per i
successivi due millenni. Alla fine dell’Ottocento si stabilì infine che le costruzioni
non possono essere eseguite nelle condizioni date. Ciò nonostante c’è gente che vi
si cimenta ancora e spesso alcuni pretendono di aver raggiunto il successo.
Possiamo affermare, senza neppure esaminare il loro lavoro, che sono in errore o
hanno capito male i problemi.
I lunghi anni di fatiche spesi su questi problemi famosi confermano l’impegno,
il rigore, la pazienza e la perseveranza dei matematici. Questi problemi non hanno
alcuna importanza pratica, poiché le costruzioni possono essere eseguite
facilmente ricorrendo a strumenti solo di poco più complicati di riga e compasso.
Nondimeno, persone animate da un desiderio insopprimibile di affrontare sfide
intellettuali tentarono di realizzare le costruzioni teoriche.
Di fatto, la ricerca del ferro ha spesso portato alla scoperta di oro. Le sezioni
coniche, che prepararono la via all’astronomia moderna, furono scoperte durante
tentativi di eseguire le costruzioni famose, così come numerosi altri eleganti e
utili risultati matematici. Di fatto, se dovessimo fare un elenco delle idee
matematiche importanti conseguite affrontando problemi “non importanti”, di
nessun valore pratico, potremmo essere indotti a definire la matematica come lo
sviluppo del banale. (Più di un “educatore,” pur ignorando del tutto la disciplina e
la sua storia, non ha esitato a emettere un tale giudizio.) La storia degli sforzi
compiuti attorno a questi problemi di costruzione famosi dimostra quanto siano
ingiusti gli attacchi rivolti a questi greci “privi di senso pratico”, poiché questi
visionari fecero per l’avvento della nostra epoca scientifica assai più della
cosiddetta gente pratica.
Fig. 9.
Abbiamo già elogiato i greci per il fatto di aver reso astratta la matematica.
Sarebbe ora opportuno per la nostra valutazione della funzione della matematica
50
vedere esattamente che cosa quest’astrazione implichi, almeno nella geometria
euclidea.
Consideriamo una situazione piuttosto semplice. Supponiamo di scegliere una
coppia di punti fissi, A e B, e una linea L che non passi per A o per B ma che
giaccia sullo stesso piano (fig. 9). Supponiamo inoltre di voler trovare il punto P,
sulla linea L, tale che la distanza AP + PB sia minima; ossia, se Q è un qualsiasi
altro punto su L, allora AP + PB dev’essere meno di AQ + QB. È questo un
problema puramente geometrico. Non è difficile dimostrare che se P è scelto in
modo tale che AP e PB formino con la linea L angoli uguali, allora la distanza AP
+ PB è quella minima.
Fig. 10.
Consideriamo questo teorema dimostrato e vediamo in che modo possa essere
applicato a situazioni pratiche. Supponiamo che A e B siano le posizioni di due
città e che L sia un fiume. Un molo destinato a servire entrambe le città dev’essere
costruito lungo il fiume in modo tale che la distanza totale dal molo alla città A e
dal molo alla città B sia la più breve possibile. In quale punto, lungo il fiume, si
dovrebbe collocare il molo? Il nostro teorema generale ci fornisce la risposta: nel
punto P, in cui AP e PB formano col fiume angoli uguali.
Consideriamo un’altra situazione “pratica”: una palla da biliardo situata sul
tavolo nel punto A dev’essere colpita in modo tale da farla battere contro la
sponda L del biliardo e da farle colpire la palla in B. Una palla da biliardo si
comporta sempre in modo che gli angoli che la sua traiettoria fa dirigendosi verso
la sponda del biliardo sono uguali agli angoli che forma allontanandosene dopo
averla colpita. In altri termini, nella figura 10, l’angolo 1 è uguale all’angolo 2.
Ogni giocatore di biliardo conosce, almeno in modo inconscio, questo fatto e lo
sfrutta. Egli dirige cioè la palla nel punto P in modo che AP e PB formino angoli
uguali con la sponda. Quello che egli certamente non sa è che la traiettoria da lui
scelta, e che spera sarà presa dalla palla, è il cammino più breve che una palla
possa percorrere nell’andare da A a B rimbalzando contro la sponda del tavolo da
biliardo.
Le nostre illustrazioni ci fanno vedere come un teorema matematico ci fornisca
informazioni valide in due situazioni molto diverse e prive di relazioni fra loro.
Lo stesso teorema ammette, di fatto, numerose altre applicazioni. Il fatto che un
teorema sviluppato per rispondere a una domanda in un campo si riveli così
spesso vitale in un campo completamente diverso riempie di sorprese la storia
della matematica. Ovviamente, quest’ampia applicabilità della matematica è
51
pagata un certo prezzo, che è quello dell’astrazione, poiché per elaborare teoremi
validi per tutti i triangoli lavorando col triangolo ideale il matematico deve lottare
con pensieri elusivi e talvolta poco maneggevoli, invece di lavorare manualmente
con un triangolo fatto di legno.
C’è un altro punto molto importante da tenere a mente a proposito della
relazione fra i teoremi astratti della matematica e le loro applicazioni, ossia che il
teorema astratto formula il caso ideale, mentre la situazione fisica a cui esso si
applica può essere molto diversa dall’ideale. Supponiamo, ad esempio, di
tracciare un triangolo sulla superficie della Terra. Possiamo applicare a tale
triangolo i teoremi della geometria piana? In primo luogo, la Terra non e piana
bensì sferica. Inoltre la superficie della Terra è assai diversa da quella di una sfera
perfetta, ma è piuttosto irregolare. Per almeno due aspetti, quindi, questo triangolo
tracciato sulla superficie della Terra non corrisponde al triangolo ideale della
geometria piana. Nell’uso del teorema matematico è perciò probabile si insinui, in
questo caso, qualche errore. Nella misura in cui il triangolo fisico si avvicina
all’ideale, le conclusioni della matematica si applicheranno anche ad esso.
Qualora non si riconosca chiaramente questo fatto, l’applicazione può condurre a
gravi errori.
La creazione della geometria euclidea fu qualcosa più dell’introduzione di
alcuni teoremi utili ed eleganti. Essa generò uno spirito razionale. Nessun’altra
creazione umana ha dimostrato, più delle centinaia di dimostrazioni di Euclide, in
quale misura la conoscenza umana possa derivare dal solo ragionamento. La
deduzione di questi numerosi e profondi risultati insegnò ai greci e alle civiltà
successive il potere della ragione e diede loro la fiducia nei risultati ottenibili
mediante questa facoltà. Incoraggiato da quest’evidenza, l’uomo occidentale fu
ispirato ad applicare la ragione anche altrove. Teologi, logici, filosofi, uomini
politici e tutti i ricercatori della verità imitarono la forma e il modo di procedere
della geometria euclidea.
Fra gli stessi greci, la matematica fu posta come la norma di tutte le scienze.
Aristotele, in particolare, insisté sulla tesi che ogni scienza deve consistere nella
dimostrazione deduttiva di verità da pochi princípi fondamentali stabiliti con un
qualche metodo adatto alla scienza e aventi la funzione degli assiomi della
geometria euclidea. Il motto, spesso ripetuto, che era scritto sull’ingresso
dell’Accademia “Non entri qui chi ignora la geometria” compendia questa
considerazione per la matematica.
L’uomo occidentale apprese dagli Elementi di Euclide come debba procedere
un ragionamento perfetto, in che modo si possa acquistare familiarità con esso e
come sia possibile distinguere il ragionamento esatto da vaghe declamazioni che
hanno solo la pretesa di essere dimostrazioni. Nel corso dello sviluppo della
geometria, i greci pervennero a riconoscere principi generali di ragionamento, fra
cui le leggi sillogistiche sono ora quelle più diffusamente note. Essi scoprirono
anche metodi generali per affrontare i problemi. Si attribuisce ad esempio a
Platone il merito di aver definito il metodo analitico, che parte dalla conclusione
desiderata e ne deduce conseguenze finché si arriva a un fatto noto. La
52
dimostrazione corretta viene eseguita poi rovesciando le fasi esplorative. Il lettore
può sperimentare questo stesso metodo nella geometria euclidea cercando di
scoprire la dimostrazione di un teorema. Il metodo trascende ovviamente la
geometria. I geometri greci scoprirono anche, e se ne gloriarono, l’efficacia del
metodo indiretto di dimostrazione, consistente nello sviluppare le implicazioni di
varie alternative nell’attesa che tutte, meno quella giusta, portino a contraddizioni
e vengano così eliminate. I fondamenti logici su cui questo metodo poggia, noti ai
logici come principio di non contraddizione e del terzo escluso, furono formulati
da Aristotele.
La necessità di una definizione accurata, di assunti chiaramente formulati e di
dimostrazioni rigorose divenne evidente nel corso del lavoro sulla geometria.
Uomini come Socrate e Platone non soltanto posero l’accento su queste esigenze
ma contribuirono anche a rendere sempre più chiara e razionale la struttura della
matematica. In effetti, il grande esercizio nel campo della logica che la geometria
richiese ai greci condusse alla costruzione e alla sistematizzazione a opera di
Aristotele delle leggi di pensiero che sono oggi accettate e applicate da noi tutti.
Così la geometria greca può essere considerata una progenitrice della scienza
della logica.
Centinaia di generazioni, fino a poco tempo fa, hanno imparato come ragionare
studiando Euclide, un procedimento disapprovato da molti, secondo i quali
potremmo imparare la logica senza alcun bisogno di studiare la matematica.
L’argomento è altrettanto valido quanto l’affermazione che noi tutti possiamo
formarci il concetto di grandi dipinti e così ci sarebbero al mondo non meno
concetti di dipinti che dipinti stessi. Purtroppo però il concetto di un dipinto non
ha mai commosso nessuno.
L’importanza di Euclide trascende di gran lunga il valore che la sua opera può
avere come esercizio logico e come modello di ragionamento. Con lo sviluppo
della bella struttura e dell’elegante ragionamento geometrico, la matematica fu
trasformata da strumento per il progresso di altre attività in un’arte. Essa fu
apprezzata come tale dai greci. L’aritmetica, la geometria e l’astronomia
divennero per essi musica per l’anima e arte della mente.
Di fatto, nel pensiero greco riesce difficile separare interessi razionali, estetici e
morali. Leggiamo ripetutamente che la Terra dev’essere sferica perché la sfera ha
la forma più bella fra tutti i corpi ed è perciò divina e buona. Per la stessa ragione
Platone riteneva che il Sole, la Luna e le stelle fossero fissati rigidamente
ciascuno a una sfera in rotazione sul proprio asse attorno alla Terra. La traiettoria
di ogni corpo doveva inoltre essere un cerchio, poiché il cerchio condivideva il
fascino estetico con la sfera. Il cerchio e la sfera erano le traiettorie perfette che
rappresentavano l’ordine eterno, immutabile del cielo, in contrasto col moto in
linea retta, che dominava sul corpo imperfetto della Terra. Era stabilito, per
ragioni che erano anche estetiche e morali, che i corpi celesti si muovessero con
velocità uniforme, percorrendo distanze uguali in intervalli di tempo uguali.
Questo moto maestoso, regolare, uniforme era adatto ai corpi celesti. Di fatto,
sostenevano i pitagorici, non si può ammettere che i pianeti abbiano velocità
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incostanti: “anche nell’ambito umano, una tale irregolarità è incompatibile col
modo di agire ordinato di un aristocratico.” Le verità della poesia e le verità della
scienza erano una sola o, per parafrasare Aristotele, la finalità della natura e le sue
leggi segrete tendono tutte nella loro opera molteplice a una qualche forma di
bellezza.
La geometria, la filosofia, la logica e l’arte erano altrettante espressioni diverse
di un unico tipo di mente, di una visione dell’universo, ed è affascinante
ricostruire, come hanno fatto taluni storici, l’esistenza di caratteri comuni in tutte
queste fasi della cultura greca classica. Ad esempio, la natura chiara, trasparente e
semplice della geometria euclidea è una manifestazione matematica del medesimo
amore per la chiarezza e per l’ordine del disegno espressi dalle forme piane,
semplici, del tempio greco. Di un’infinita complessità è, al confronto, la cattedrale
gotica, con le sue innumerevoli strutture subordinate, interne ed esterne. Anche la
scultura greca del periodo classico è sorprendentemente semplice. Nessun
abbigliamento elaborato, nessun ornamento militare, fronzoli o abbellimenti
ingombrano la statua o distolgono dal tema principale.
Analogamente, le opere letterarie del periodo erano scritte in uno stile
semplice, chiaro, pratico, che faceva economia di immagini e di aggettivi. Per
percepire le qualità dello stile greco è sufficiente che mettiamo a confronto
l’usignolo il cui canto ha “magiche finestre incantate, aperte sulla spuma di mari
perigliosi, in paesi fatati sperduti nell’oblio” con l’uccello di Sofocle, il quale
“canta la sua chiara nota immerso in verdi radure ricoperte d’edera, protette tanto
dallo splendore del sole quanto dal soffio impetuoso dei venti.” La lucidità, la
semplicità e la misura erano gli ingredienti della bellezza. L’arte greca è l’arte
dell’intellettuale, l’arte di pensatori chiari ed è, di conseguenza, un’arte piana. La
geometria, l’architettura, la scultura e la letteratura raggiungono nondimeno una
bellezza e un’eleganza che trascendono la loro semplicità.
La geometria euclidea è descritta spesso come chiusa e finita. Questi aggettivi
sono usati in vari sensi. L’argomento è limitato, come abbiamo visto, a figure che
possano essere costruite con riga e compasso e a teoremi che possano essere
derivati da un insieme fissato di assiomi. Nessun nuovo assioma è introdotto nel
corso dell’esposizione. La geometria euclidea è finita anche nel senso che evita
l’infinito. La linea retta, ad esempio, non è considerata da Euclide nella sua
interezza. Egli dice che un segmento di linea può essere esteso quanto serve nelle
due direzioni, come se concedesse mal volentieri la necessità dell’estensione.
Analogamente, trattando dei numeri interi i greci consideravano quest’insieme
come potenzialmente infinito ossia infinito solo nel senso che a qualsiasi insieme
finito dato si possono aggiungere sempre altri numeri; essi non si sarebbero
occupati dell’intero insieme dei numeri interi come di un’entità in sé.
Queste caratteristiche di chiusura e di finitezza sono dominanti anche
nell’architettura greca. L’intera struttura di un tempio greco è piccola, a portata di
mano, completamente visibile all’osservatore. Essa suggerisce definitività,
compiutezza e precisione. L’occhio e la mente afferrano e racchiudono
immediatamente le sue proporzioni e la sua magnificenza. Il tempio greco può
54
essere confrontato con quello gotico anche sotto questi punti di vista.
Quest’ultimo non è quasi mai visualizzato nella sua interezza. Esso sembra
perdersi in tutte le direzioni e sfuggire a una comprensione completa. Esso
suggerisce grandi distanze e, attraverso le sue guglie, un’aspirazione spirituale.
L’immaginazione ne viene stimolata e l’individuo è intimorito da visioni senza
fine di archi sfuggenti e da alti altari visibili negli oscuri interni come da lontano,
mentre gli spazi immensi evocano impressioni dell’invisibile. Il senso della
finitezza è vinto quando l’alta struttura inghiotte l’individuo e lo perde negli spazi
bui.
Nella scienza greca il concetto di infinità è poco capito e apertamente evitato. Il
tipo di movimento più semplice per i greci non è, come per noi, quello rettilineo,
perché la linea retta non è percepibile nella sua interezza; il moto in linea retta
non è mai compiuto. I greci preferivano il moto circolare. Il concetto di un
processo senza fine li atterriva ed essi si ritraevano dinanzi “al silenzio degli spazi
infiniti.”
Anche in filosofia l’infinito veniva evitato. I paradossi dell’infinito, in alcuni
dei quali ci imbatteremo più avanti, si dimostrarono ostacoli insormontabili per il
pensiero filosofico greco. Aristotele dice che l’infinito è imperfetto, non finito e
perciò inconcepibile. Esso è informe e confuso. Bene e male erano fondati, di
fatto, sulle nozioni del limitato e determinato da una parte e dell’indeterminato e
dell’infinito dall’altra. Le qualità limitate e definite davano agli oggetti carattere e
perfezione. Soltanto quando gli oggetti erano distinti e definiti avevano una natura
e un significato. “Nulla di grande entra nella vita dei mortali senza una sventura,”
dice Sofocle.
Un altro carattere della matematica greca si trova nell’intera cultura ellenica.
La geometria euclidea è statica. Le proprietà del mutamento di figura non sono
investigate. Le figure sono date invece nella loro interezza e sono studiate come
tali. La tranquilla atmosfera del tempio greco riflette questo tema. Ivi la mente e
lo spirito sono in quiete. Così anche nella scultura greca le figure sono statiche,
indifferenti, psicologicamente calme. Esse hanno la stessa eccitazione emotiva di
un triangolo equilatero. Il Discobolo di Mirone (tavola II), che sta per compiere
un tremendo sforzo fisico, è calmo e imperturbabile come il proverbiale inglese
che sta prendendo il tè.
È stato spesso sottolineato anche il carattere di staticità del dramma greco. In
esso l’azione si riduce pressoché a nulla. All’inizio della tragedia ci viene
presentato un racconto completo degli avvenimenti anteriori, i quali pongono un
problema o una situazione per i personaggi implicati, e il dramma si occupa di
conflitti mentali e di fatti minori che si risolvono in uno scioglimento quasi
previsto.
Unita alla qualità statica del dramma greco è un’altra caratteristica che si trova
anche nella geometria euclidea. Le tragedie greche sottolineano le opere del fato o
necessità. I personaggi sembrano privi di volontà o del potere di prendere
decisioni ma sono sospinti da forze oscure. Cosi Edipo è spinto inesorabilmente
all’incesto e al parricidio. L’azione del fato è stata paragonata alla costrizione
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insita nell’uso del ragionamento deduttivo, in cui il matematico non è libero di
scegliere le conclusioni che devono essere tratte dalle premesse ma è costretto ad
accettare le conseguenze necessarie.
Nell’arte, geometria e filosofia greche è presente un altro carattere importante
che, pur essendo associato in generale a tali discipline, lo è in modo preminente
presso i greci. Le loro opere riflettono il tentativo da essi compiuto di considerare
l’universo sub specie aeternitatis. Essi ricercavano la conoscenza di ciò che è
universale ed eterno e non di ciò che è individuale e fugace. La sfera matematica è
eterna e le sue proprietà matematiche dureranno per sempre. Perciò la conoscenza
della sfera è molto desiderabile. Le bolle e i palloncini dai vivaci colori, per
quanto affascinanti possano essere, non sono degni di attenzione perché
scoppieranno ben presto. Così anche l’arte greca del periodo classico si sforzava
di evocare e raffigurare le qualità fondamentali, essenziali non di uomini bensì
dell’uomo. Ciò che importava in ogni persona erano le qualità dell’umanità in
generale che essa dispiegava. Abiti, relazioni individuali e attività quotidiane
erano tutti particolari accidentali e banali. Nelle loro speculazioni filosofiche, i
greci si sforzavano anche di definire e comprendere la forma perfetta di concetti e
qualità, poiché il perfetto è per la sua stessa natura eterno. Lo Stato perfetto era
degno di contemplazione; la democratizzazione della società greca era
difficilmente riconosciuta come un problema serio.
La matematica di cui abbiamo fatto finora l’esposizione e la cultura che essa
riflette appartengono al periodo greco classico. Esse non esauriscono affatto i
contributi della “civiltà del paese dell’aurora” alla matematica e alla nostra vita e
pensiero, poiché dobbiamo ancora esaminare l’epoca, assai importante, che si
estende dal 300 a.C. circa al 600 d.C. Prima di voltar pagina, ricordiamo che il
periodo che stiamo lasciando creò la matematica nel senso in cui intendiamo il
termine ancor oggi. L’insistenza sulla deduzione come metodo di dimostrazione
esclusivo, la preferenza per l’astratto in opposizione al particolare e la scelta di un
sistema di assiomi estremamente fecondo e accettabilissimo determinarono il
carattere della matematica moderna, mentre l’intuizione e la dimostrazione di
numerosi teoremi fondamentali la misero sulla strada giusta. Alla matematica era
associata la luce, che si irraggiava in realtà ben oltre, della ragione umana, accesa
per la prima volta dai greci. I loro documenti matematici proclamarono la
supremazia della mente negli affari umani e quindi un nuovo concetto di civiltà.
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V. Col metro fra le stelle
È notte fonda; sulla buia cima
il solitario osservatore il cielo
scruta e il suo sguardo vede da lontano
globi che son com’isole di luce...
A una stella vagante dalla chioma
arruffata: “Ritorna fra mill’anni,
in una notte come questa,” dice.
La stella tornerà. Essa ingannare
fosse pur di una sola ora la scienza
non oserà o i suoi calcoli smentire.
Molti uomini saranno ormai passati
ma insonne nella torre sarà l’uomo
ad attenderne vigile il ritorno.
E se gli uomini tutti ormai periti
fossero, in vece loro della stella
la verità vigilerà il ritorno.
SULLY PRUDHOMME
Per almeno quattro millenni la civiltà egizia seguì un modello molto rigido.
Nella religione, nella matematica, nella filosofia, nel commercio e nell’agricoltura
ciascuno imitava i suoi predecessori. Nessuna influenza esterna venne a turbare la
tranquillità della vita e a modificare abitudini consolidate, Poi, nel 325 a.C. circa,
Alessandro Magno conquistò questo grande paese, così come la Grecia e il Vicino
Oriente, e procedette a ellenizzare le sue conquiste. Egli fondò la città di
Alessandria e trasferì la capitale del mondo antico da Atene a questa nuova citta;
poi la cultura conquistatrice fu a sua volta conquistata. Da una fusione di culture
con centro ad Alessandria apparve una nuova civiltà, che diede un contributo
assai significativo e caratteristico alla matematica e alla civiltà occidentale.
Alessandria divenne il centro di tutto il mondo antico, essendo collocata in
posizione ideale nel punto di congiunzione dell’Asia, dell`Africa e dell’Europa.
Nelle vie della città, egizi autoctoni entrarono in contatto e commerciarono con
greci, ebrei, persiani, etiopi, siri, romani e arabi. Aristocratici, cittadini e schiavi si
mescolavano in una folla variopinta, di cui nessuna città al mondo, neppure la
moderna New York, può offrire un esempio altrettanto eterogeneo.
In quest’importante centro convennero mercanti e uomini d’affari da tutti gli
angoli del mondo. Nel porto erano navi che trasportavano vini dall’Italia, stagno
dal Galles e ambra dalla Svezia. Dal porto uscivano navi in partenza per la foce
del Gange e per Canton. I mercanti alessandrini non soltanto diffusero la cultura
greca nel mondo ma portarono indietro ad Alessandria conoscenze che erano state
57
acquisite in altri paesi. La città divenne quindi veramente cosmopolita, mentre le
ricchezze accumulate permisero l’espansione in varie direzioni; Furono eretti
splendidi edifici, statue, obelischi, mausolei, tombe, templi e sinagoghe. Agli
amanti del piacere, Alessandria offriva bazar, bagni, parchi, teatri, biblioteche, un
ippodromo, una pista per le corse e ricoveri per i ricchi.
Il merito di aver fatto di Alessandria il centro intellettuale del nuovo mondo
non va al fondatore della città, che morì mentre ancora era impegnato nelle sue
conquiste, bensì all’abilissimo Tolomeo I Sotere, il generale che assunse il
controllo dell’Egitto alla morte di Alessandro. Ben consapevole dell’importanza
culturale delle grandi scuole greche, come quelle fondate da Pitagora, da Platone e
da Aristotele, Tolomeo decise che Alessandria dovesse avere una scuola del
genere e che dovesse diventare il centro della cultura greca in questo nuovo
mondo. Egli eresse perciò una dimora delle Muse in cui venivano ospitati
studiosi.
Vicino al Museo, Tolomeo fondò una biblioteca destinata non soltanto a
preservare importanti manoscritti bensì anche a servire il pubblico. Si dice che
questa famosa biblioteca contenesse in un certo periodo 750.000 volumi. Il Museo
e la biblioteca costituivano insieme una sorta di università, anche se nessuna
università attuale può vantare il possesso di un numero di grandi intelletti così
elevato come quello degli ospiti del Museo.
Studiosi di tutti i paesi furono invitati ad Alessandria da Tolomeo e furono
sovvenzionati da lui. Nel Museo si raccolsero di conseguenza poeti, filosofi,
filologi, astronomi, geografi, fisici, storici, artisti e i matematici più famosi del
periodo alessandrino. Il gruppo principale di studiosi ospitati dal Museo era greco,
ma erano presenti anche membri distinti di molte altre nazioni. Fra i non greci il
più illustre era il dotto astronomo egizio Claudio Tolomeo.
Due fattori sembrano aver influito in modo vitale sul carattere della cultura che
sorse dal miscuglio di popoli e di studiosi e dall’allargarsi degli orizzonti fisici.
Gli interessi commerciali degli alessandrini, più vasti di quelli degli ateniesi,
portarono in primo piano problemi di geografia e di navigazione e diressero
l’attenzione verso i materiali, i metodi di produzione e il perfezionamento delle
abilità. In secondo luogo, poiché il commercio era praticato da uomini liberi, che
non erano socialmente segregati dagli studiosi, questi ultimi vennero a
conoscenza, trovandovisi anche implicati in prima persona, dei problemi che si
ponevano alla gente in generale. Gli studiosi furono quindi indotti ad associare i
fiorenti studi teorici con concrete investigazioni scientifiche e tecniche. I campi
tecnici furono studiati ed estesi; furono fondate scuole di addestramento e fecero
progressi la meccanica e altre scienze. Vennero coltivate con entusiasmo anche
arti disprezzate o ignorate nel periodo classico.
L’ingegnosità dei congegni meccanici inventati dagli alessandrini in risposta ai
nuovi interessi è sorprendente anche in relazione ai livelli moderni. Essi
progettarono clessidre ad acqua e meridiane perfezionate e le usarono con buoni
risultati in tribunale per fissare un limite di tempo alle arringhe degli avvocati.
Avevano ampia applicazione pompe, carrucole, cunei, taglie, ingranaggi e un
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congegno per la misurazione delle distanze non diverso da quello che si trova
nelle moderne automobili. Fra le invenzioni meccaniche c’erano nuovi strumenti
per le misurazioni astronomiche. Al matematico e inventore Erone (I secolo d.C.)
il periodo dovette una macchina automatica per spruzzare acqua santa che
funzionava introducendovi una moneta da cinque dracme. In modo simile
potevano essere fatti funzionare organi musicali. I templi riempivano di stupore il
pubblico con porte che si aprivano depositandovi monete.
Lo studio di gas e liquidi produsse un organo ad acqua, un cannone azionato da
aria compressa e un tubo per spruzzare fuoco liquido. I giardini pubblici furono
ornati da fontane con statue mobili messe in movimento dalla pressione
dell’acqua. La produzione di forza a vapore fu un altro sviluppo degli
alessandrini. Essa era usata per spingere automobili lungo le strade della città
nelle annuali parate religiose. Quando veniva prodotto da fuochi alimentati sotto
gli altari dei templi, il vapore animava gli dèi. Un pubblico intimorito osservava
dèi che sollevavano le mani per benedire gli adoratori, dèi che versavano lacrime
e statue che elargivano libagioni. Colombe meccaniche si libravano in aria e
discendevano per mezzo di un’azione inosservabile del vapore.
Gli alessandrini applicarono anche la conoscenza del suono e della luce a
congegni pratici. Il più spettacolare di questi dispositivi fu il grande specchio di
Archimede che concentrò i raggi del sole sulle navi romane che assediavano la
sua città natale, Siracusa. Si dice che le navi, sottoposte al calore intenso, si
incendiassero.
In contrasto con l’insegnamento gelosamente custodito e trasmesso solo
oralmente del periodo egizio precedente, i libri disseminarono liberamente il
nuovo sapere. Fortunatamente per gli alessandrini, il papiro egizio era meno caro
della pergamena, cosicché Alessandria divenne il centro del commercio librario
del mondo antico. Per la prima volta nella storia della scienza apparve qui
un’opera eccellente sulla scienza meccanica e metallurgica. I principi operanti nei
congegni azionati ad acqua e a vapore furono spiegati in trattati di pneumatica e di
idrostatica, mentre altri trattati spiegavano la costruzione di volte, di catapulte e di
gallerie. Geniali, per quell’epoca, erano le prescrizioni matematiche fornite da
Erone per lo scavo di gallerie sotto una montagna; l’applicazione delle norme
formulate da Erone consentiva di affrontare il lavoro da entrambe le parti e alle
due squadre impegnate nei lavori di incontrarsi a metà.
Nel mondo alessandrino la matematica aveva chiaramente un posto
importantissimo, ma non era la matematica nota agli scienziati della Grecia
classica. Nonostante quanto alcuni matematici possono dire circa la purezza del
loro pensiero e la loro indifferenza, o distacco, nei confronti dell’ambiente, il fatto
è che la civiltà ellenistica alessandrina produsse un tipo di matematica di carattere
quasi opposto rispetto a quella prodotta dal periodo greco classico. La nuova
matematica era pratica, mentre quella anteriore non aveva quasi alcun legame con
eventuali applicazioni. La nuova matematica misurava il numero dei granelli di
sabbia nell’universo e la distanza delle stelle più lontane, mentre la vecchia
matematica si rifiutava di misurare. La nuova matematica dava all’uomo la
59
capacità di viaggiare per terra e per mare; la vecchia lo preparava a sedersi
immobile e a contemplare con l’occhio della mente le astrazioni immateriali del
pensiero filosofico. I grandi matematici alessandrini – Eratostene, Archimede,
Ipparco, Tolomeo, Erone, Menelao, Diofanto e Pappo –, pur manifestando quasi
senza eccezione il genio greco per le astrazioni teoriche, furono sempre pronti ad
applicare le loro capacità a problemi pratici necessariamente importanti nella loro
civiltà.
Esempio tipico del nuovo greco fu Eratostene (275-194 a.C.), direttore della
biblioteca di Alessandria e genio universale. Versato negli studi classici della
matematica, della poesia, della filosofia e della storia, manifestò un sapere
profondo anche nei campi della geodesia e della geografia. Eratostene non
soltanto raccolse e integrò tutte le conoscenze storiche e geografiche disponibili
ma disegnò carte dell’intero universo noto ai greci. Egli escogitò anche un modo
semplice per misurare il raggio della Terra e per rappresentare graficamente
grandi estensioni di terreno. Le misurazioni astronomiche e la costruzione di
strumenti astronomici contribuirono ad accrescere la sua fama.
Eratostene perfezionò anche il calendario. La maggior parte delle antiche
civiltà non erano state in grado di registrare eventi celesti non conoscendo l’esatta
durata dell’anno solare. Ad esempio un antico calendario greco, che derivava con
ogni probabilità dai babilonesi, era fondato su un anno di dodici mesi,
comprendente ciascuno trenta giorni. L’insufficienza di questo calendario divenne
manifesta quando date che dovevano designare in origine determinati eventi
astronomici, come un equinozio, venivano troppo presto o troppo tardi.
Naturalmente gli dèi avevano da obiettare contro una così cattiva amministrazione
dei loro affari. Aristofane ne ricorda le lagnanze, che vengono trasmesse dalle
Nubi:
La Luna, attraverso noi nubi, i suoi saluti vi invia,
ma vuole altresì che diciamo che molto male è trattata
e che inopportuno ritiene che ancora i suoi giorni a scompiglio
mettiate e volgiate sossopra; e che quanti sono gli dèi
(i quali conoscono bene i giorni dei loro banchetti)
a causa dei computi vostri sbagliati dal sacro convito
rimangono esclusi e lei Luna con aspri toni riprendono.
Il calendario di Eratostene prevedeva un anno di 365 giorni e un giorno
intercalare ogni quattro anni. Questo calendario fu adottato più tardi dai romani ed
è essenzialmente quello in uso ancor oggi. Eratostene insisté inoltre sulla
datazione di tutti gli eventi mediante il calendario, opponendosi alla precedente
pratica greca di datare un fatto dal numero delle Olimpiadi dopo la caduta di Troia
o dalla pratica comune in altre civiltà di datare con riferimento agli anni di regno
di un sovrano. Eratostene operò ad Alessandria finché, in vecchiaia, fu colto da
cecità; allora mise fine alla sua vita rifiutandosi di assumere cibo.
L’uomo la cui opera compendia nel modo migliore il carattere del periodo
alessandrino è Archimede, uno fra i massimi geni dell’Antichità. Benché nato a
60
Siracusa, una città greca della Sicilia, studiò ad Alessandria. Tornato a Siracusa,
vi trascorse il resto della sua vita. Dotato di un intelletto sublime, caratterizzato da
una grande vastità di interessi sia pratici sia teorici, da una straordinaria abilità
meccanica e da una fertile immaginazione, superiore secondo Voltaire a quella di
Omero, fu grandemente rispettato e ammirato dai suoi contemporanei.
Le indicazioni più manifeste degli interessi pratici in Archimede ci sono date
dalle sue invenzioni originalissime. In gioventù costruì un planetario che
riproduceva i moti dei corpi celesti. Inventò una pompa per sollevare l’acqua da
un fiume; usò pulegge composte per il varo di una nave di Gerone di Siracusa; e
inventò ordigni militari e catapulte per proteggere Siracusa quando la città fu
attaccata dai romani. A quest’epoca applicò la proprietà di far convergere i raggi
di uno specchio curvo per incendiare le navi romane. Sviluppò anche l’uso della
leva per muovere grandi pesi.
Fra le sue scoperte scientifiche quella forse più famosa è il principio idrostatico
che va sotto il suo nome. È stato tramandato il racconto di come Archimede
sarebbe pervenuto alla sua scoperta. Il re di Siracusa aveva ordinato a un orefice
una corona d’oro. Quando la corona gli fu consegnata, Gerone sospettò che
all’oro fossero stati mescolati metalli più vili; perciò la mandò ad Archimede e gli
chiese di escogitare un metodo per verificarne il contenuto, naturalmente senza
distruggere la pregevole esecuzione. Archimede meditò sul problema e un giorno,
mentre stava facendo il bagno, osservò che il suo corpo era in parte sostenuto
dall’acqua. Subito afferrò il principio che gli avrebbe consentito di risolvere il
problema. Egli aveva scoperto che un corpo immerso nell’acqua riceve una spinta
dal basso all’alto pari al peso dell’acqua spostata. Potendosi misurare sia il peso
dell’acqua spostata sia il peso di un corpo in aria, il rapporto dei pesi è noto.
Questo rapporto è costante per un metallo dato qualunque sia la sua forma, e
differisce da metallo a metallo. Archimede non aveva dunque altro da fare che
determinare questo rapporto per un pezzo d’oro e confrontarlo poi col rapporto
risultante per la corona. La storia non ci ha purtroppo conservato l’esito di questo
confronto. Il principio scoperto da Archimede è fra le prime leggi universali della
scienza; egli lo incluse, insieme ad altri, nel suo libro Sui galleggianti.
Anche la sua opera teorica di matematica fu influenzata dallo spirito del
periodo alessandrino; egli dedicò infatti gran parte del suo tempo a problemi di
misurazione. Dimostrò che l’area di un cerchio è pari a metà della circonferenza
moltiplicata per il raggio (procedimento che dà la formula usuale r2) e determinò
poi il valore di . Il risultato di questi calcoli – che è compreso fra 3 1/7 e 3
10/71 fu in verità notevole per quell’epoca. Egli dimostrò anche molte altre
formule concernenti aree e volumi.
Sempre animato dallo spirito dell’epoca, Archimede intraprese un compito
ripugnante per i greci del periodo classico. Egli escogitò un sistema per esprimere
numeri grandissimi e, in un’esposizione finale del suo lavoro intitolata Arenario,
dimostrò come fosse possibile esprimere il numero di tutti i granelli di sabbia
contenuti nell’universo.
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Per quanto Archimede possa essere stato mosso dagli interessi pratici del suo
tempo, possedeva nondimeno l’amore tipico dei greci classici per la teoria
fondamentale. Fra tutti i risultati da lui ottenuti, era particolarmente orgoglioso di
un risultato teorico. Lo sappiamo dalla sua richiesta di iscrivere sulla sua tomba la
figura di una sfera, quella di un cilindro ad essa circoscritto e il rapporto 2/3.
Quest’episodio si riferisce alla sua grande scoperta che il rapporto del volume di
una sfera iscritta in un cilindro sta al volume del cilindro come due a tre, e che
anche il rapporto della superficie della sfera alla superficie del cilindro è di due a
tre.
La morte di Archimede, come la sua vita, compendia gli eventi del suo tempo.
Abbiamo già riferito che egli ricevette un’intimidazione da parte di uno dei soldati
romani che avevano appena preso Siracusa. Archimede era così assorto in
meditazione che non udì il soldato, il quale, non ricevendo risposta, lo uccise,
contravvenendo all’ordine che era stato impartito dal comandante romano,
Marcello, di non far nulla ad Archimede. Questi aveva allora settantacinque anni
ed era nel pieno possesso di tutte le sue facoltà. Quasi per riparare al misfatto, i
romani eressero ad Archimede una tomba molto elaborata su cui iscrissero il
famoso teorema cui abbiamo poco fa accennato.
Nel campo della matematica vera e propria, gli alessandrini crearono e
applicarono metodi di misurazione indiretta. I loro contributi più semplici in
questo campo furono formule per superfici e volumi di figure geometriche
particolari. Queste formule, sorprendentemente, non si trovano in Euclide poiché,
per quanto Euclide fosse vissuto all’inizio del periodo ellenistico, la sua opera
rappresentò di fatto la ricapitolazione e l’apogeo della matematica del periodo
classico. Che le aree di due triangoli simili stessero fra loro come i quadrati dei
lati corrispondenti era per Euclide di grande interesse, mentre che l’area di un
triangolo qualsiasi possa essere trovata direttamente moltiplicandone la base per
la metà dell’altezza ci è stato fatto conoscere dagli alessandrini.
L’introduzione di formule per aree e volumi è spesso sottovalutata. Come si
deve fare per trovare l’area di un pavimento? Si devono prendere quadratini di 10
cm di lato, disporli sull’intero pavimento e stabilire così che la sua area è di 10
metri quadrati, poiché questo è di fatto il significato di area? Ovviamente non si fa
così. Per ottenere l’area bisogna misurare lunghezza e larghezza, quantità di solito
facilmente determinabili, e poi moltiplicare fra loro i due numeri. Si tratta in
questo caso di una misurazione indiretta, poiché l’area è stata ottenuta misurando
lunghezze. È chiara l’estensione di quest’idea a volumi. Così anche le formule più
comuni della geometria che dobbiamo agli alessandrini e che ci consentono di
misurare con un procedimento indiretto aree e volumi, esprimendo queste quantità
in termini di lunghezze facilmente misurate, rappresentano un risultato pratico di
grandissima importanza.
Ma questo tipo di misurazione indiretta era in realtà un gioco da bambini per i
matematici ellenistici, i quali riuscirono infine a misurare indirettamente il raggio
della Terra, i diametri del Sole e della Luna e le distanze dalla Terra alla Luna, al
Sole, ai pianeti e alle stelle. Il fatto che si possano misurare siffatte lunghezze
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fisicamente inaccessibili e farlo, di più, con una precisione grande a piacere,
sembra, a tutta prima, incredibile. Non soltanto gli alessandrini trasformarono
quest’apparente impossibilità in realtà, ma lo fecero con una semplicità e con una
perfezione tali che non si sarebbero potute prevedere a questa data nello sviluppo
delle idee matematiche.
Quel settore della matematica che fu così genialmente applicato alla
rappresentazione grafica della Terra e del cielo fu creato nel II secolo a.C. da
Ipparco, il più grande astronomo del mondo antico. Alla base del sagace metodo
di Ipparco è un semplice teorema di geometria. Prima di considerare il teorema,
ricordiamo che due triangoli sono simili, per definizione, se gli angoli di uno sono
uguali, rispettivamente, agli angoli dell’altro. Per dimostrare che due triangoli
sono simili è sufficiente far vedere che due angoli di uno sono uguali,
rispettivamente, a due angoli dell’altro. Il terzo angolo dei due triangoli dovrà
allora essere uguale poiché in ogni triangolo la somma degli angoli è 180°. In
particolare, se ci occupiamo di triangoli rettangoli, poiché gli angoli retti dei due
triangoli sono uguali, per concludere che i triangoli sono simili sarà sufficiente
sapere che un angolo acuto dell’uno è uguale a un angolo acuto dell’altro.
Il teorema applicato da Ipparco afferma che, se due triangoli sono simili, il
rapporto fra le lunghezze di due lati di un triangolo è uguale al corrispondente
rapporto dell’altro. Così, se i triangoli ABC e A'B'C' sono simili (fig. 11), allora
BC/AB è uguale a B'C'/A'B'. Se i triangoli ABC e A'B'C' sono rettangoli e se
l’angolo A è uguale all’angolo A', allora, in considerazione della conclusione del
precedente paragrafo, sappiamo che i due triangoli sono simili. Possiamo perciò
affermare, con Ipparco, che il rapporto del lato opposto all’angolo A
all’ipotenusa del triangolo dev’essere lo stesso in ogni triangolo rettangolo
contenente l’angelo A. Questo rapporto di BC ad AB è così importante che gli è
stato dato il nome specifico di seno, e poiché il rapporto dipende dal valore
dell’angolo A si scrive sen A. Cosi, per definizione,
sin A =BC
AB=
lato opposto all′angolo A
ipotenusa
Fig. 11. Due triangoli rettangoli simili.
La discussione che dimostra che sen A è uguale in tutti i triangoli rettangoli
contenenti l’angolo A potrebbe essere applicata ad altri rapporti formati dai lati di
un triangolo rettangolo contenente A. Ad esempio, i rapporti
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cosin A =AC
AB =
lato adiacente all′angolo A
ipotenusa
e
tg A =BC
AC =
lato opposto all′angolo A
lato adiacente all′angolo A
sono uguali in tutti i triangoli rettangoli contenenti l’angolo A.
Possiamo vedere ora in che modo questi rapporti venissero usati da Ipparco per
misurare la Terra e il cielo. Il primo passo consiste nel trovare l’altezza di una
montagna. Per semplificare in qualche misura il problema supporremo che la
montagna abbia un fianco perpendicolare, BC nella figura 12, col punto C
esattamente al piede della montagna. Misuriamo dapprima sul terreno la distanza
facilmente accessibile AC e otteniamo, ad esempio, la lunghezza di dieci
chilometri. Misuriamo allora l’angolo A e sia, ad esempio, 17°. Possiamo dire
allora, tenendo a mente il significato dell’espressione tangente A, che
𝑡𝑔 17° = 𝐵𝐶
𝐴𝐶
Poiché AC è uguale a 10,
𝑡𝑔 17° = 𝐵𝐶
10
,
e, moltiplicando entrambi i membri di quest’uguaglianza per 10, apprendiamo
che
𝐵𝐶 = 10 × 𝑡𝑔 17 °
Se conosciamo la tg 17° potremmo ottenere immediatamente BC. Ora, tg 17°
ha lo stesso valore in tutti i triangoli rettangoli contenenti quest’angolo. Perciò,
per determinare questa quantità, possiamo scegliere il triangolo per noi più
conveniente.
Fig. 12. Calcolo dell’altezza di una montagna
Un falegname otterrebbe questa quantità molto semplicemente, costruendo un
piccolo triangolo rettangolo avente un angolo acuto di 17°, misurando i lati
opposto e adiacente, e calcolando poi il rapporto dei due lati. Un matematico
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seguirebbe un procedimento più sofisticato, e più esatto. Ipparco, essendo un
matematico oltre che un astronomo, escogitò un metodo per calcolare questi
rapporti per qualsiasi triangolo rettangolo ed elencò i risultati in tavole famose che
egli trasmise ai suoi successori e che sono ora incluse nei libri di testo.
Non abbiamo bisogno di seguire i calcoli di Ipparco nei particolari. Quel che ci
importa è che è possibile calcolare questi rapporti con tutta la precisione che
possiamo desiderare. Da questi calcoli sappiamo che tg 17° è, fino al quarto
decimale, 0,3057. Perciò BC, che è 10 tg 17°, è 3,057 chilometri. L’altezza di
una montagna può dunque esser trovata senza bisogno di riportare su di essa un
metro rigido.
Vediamo ora in che modo questo risultato possa essere usato per misurare le
dimensioni della Terra. Ricordiamo innanzitutto che i greci colti pensavano che la
Terra avesse forma perfettamente sferica. Benché questa conclusione fosse stata
ottenuta mediante argomentazioni di carattere estetico e filosofico più che
attraverso la circumnavigazione, era nondimeno una convinzione radicata
profondamente. Perciò la quantità essenziale che doveva essere misurata era il
raggio della sfera
Fig. 13. Calcolo del raggio della Terra.
Per misurare questa lunghezza possiamo procedere come segue. Saliamo su una
montagna, alta per esempio 4830 metri, e guardiamo verso l’orizzonte. Misuriamo
poi, con un qualsiasi strumento a nostra disposizione, 1’angolo compreso fra la
nostra linea visuale e la verticale, nella figura 13 l’angolo CAB. Quest’angolo
risulterà essere approssimativamente 87° 46’. Disponendo di questa misura
possiamo completare il diagramma nel modo indicato; r è il raggio della Terra. In
questa figura il raggio BC è perpendicolare alla linea visuale AC poiché AC è
tangente alla superficie della Terra e, secondo un teorema della geometria
euclidea, un raggio di un cerchio condotto al punto di tangenza di una tangente è
perpendicolare a tale tangente. Ora, seguendo Ipparco, prendiamo nota del
rapporto del lato opposto all’angolo da noi misurato all’ipotenusa del triangolo
rettangolo. Nei simboli del nostro diagramma, questo rapporto è 𝑟
𝑟+4830. Questo
rapporto è anche il sen A o sen 87° 46’. Perciò
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sen 87° 46’ = 𝑟
𝑟+4830 .
Avendo Ipparco già calcolato i rapporti dei seni, sapeva che sen 87° 46’ è, fino
a cinque decimali, 0,99924. Vediamo perciò che
0,99924 = 𝑟
𝑟+4830 .
Con un’operazione di algebra semplicissima, quale noi tutti abbiamo imparato
nella scuola media, è facile risolvere quest’equazione per r e ottenere per il raggio
della Terra il valore di km 6350. La precisione di questa misura potrebbe essere
accresciuta misurando l’angolo in questione fino al livello dei secondi.
Il lettore che trovi tediose queste poche righe dovrebbe tener presente che il
metodo descritto è un’alternativa allo scavo di una galleria fino al centro della
Terra e alla misurazione del raggio mediante l’applicazione di un regolo dal
centro alla superficie.
Fig. 14. Calcolo della distanza Terra-Luna.
Vediamo ora in che modo Ipparco trovò la distanza dalla Terra alla Luna o, più
esattamente, dal centro della Terra al centro della Luna. La nostra descrizione è
un po’ semplificata ma contiene l’essenziale del metodo di Ipparco. Supponiamo
che il calcolo sia fatto all’epoca in cui la linea che congiunge il centro della Terra
e il centro della Luna, la linea AB nella figura 14, intersechi la superficie della
Terra in un punto sull’equatore. Possiamo immaginare poi una linea tracciata da B
alla superficie della Terra in modo che sia esattamente tangente alla superficie,
diciamo in C. Ora, secondo il teorema di geometria citato sopra, la linea AC, che
rappresenta il raggio della Terra condotto al punto di tangenza C sulla superficie,
forma con la tangente in C un angolo retto. L’angolo CAB della nostra figura è la
latitudine di C. Per inciso, fu proprio Ipparco a fondare il sistema di individuare
punti sulla superficie della Terra per mezzo della latitudine e della longitudine, il
sistema usato universalmente ancor oggi. Ipparco conosceva dunque la latitudine
di C. Egli conoscenza anche CA, il raggio della Terra. Poteva dunque argomentare
che
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cosin 𝐴 = 𝐴𝐶
𝐴𝐵.
Un valore ragionevole per A nella figura qui sopra è 89° 3’; le tavole di Ipparco
gli dicevano inoltre che cosen 89° 3’ = 0,01658. La distanza AC, il raggio della
Terra, risultò di circa 6360 chilometri. Perciò
0,01658 =6360
𝐴𝐵.
Moltiplicando entrambi i membri di quest’equazione per AB e poi dividendoli
entrambi per 0,01658, otteniamo
𝐴𝐵 =6360
0,01658= 383 594.
La distanza dal centro della Terra al centro della Luna è dunque di circa
383.600 chilometri.
Uno sguardo all’indietro ci rivela che, partendo da una distanza facilmente
misurabile sulla superficie della Terra, siamo in grado di calcolare
successivamente l’altezza di una montagna, il raggio della Terra e la distanza
della Luna. Con queste conoscenze e col metodo di Ipparco potremmo procedere
a calcolare le distanze del Sole, di tutti i pianeti e delle stelle. Di fatto, Ipparco
esegui un gran numero di calcoli astronomici. La semplicità e, nello stesso tempo,
le grandi possibilità di applicazione della trigonometria dovrebbero essere
evidenti.
La matematica creata da Ipparco al fine di misurare la Terra e il cielo è usata da
allora per risolvere numerosi problemi pratici. Agrimensori, naviganti e cartografi
la usano costantemente. Di fatto, grazie all’efficacia dei metodi di Ipparco e di
altri metodi matematici qui non illustrati, i greci alessandrini fecero della
cartografia una scienza. Le loro carte offrirono la migliore conoscenza della Terra
fino al tempo delle grandi esplorazioni, nel Quattrocento e Cinquecento.
Fortunatamente, per le generazioni successive, l’astronomo Tolomeo compendiò
tutte le conoscenze geografiche accumulate dal mondo antico nella sua Geografia,
un’opera in otto volumi. Quest’opera diede la latitudine e la longitudine di circa
8000 località e fu il primo atlante e dizionario geografico del mondo.
La trigonometria è un esempio eccellente di un settore della matematica
l’investigazione del quale fu motivata da interessi sia pratici sia intellettuali:
agrimensura, cartografia e navigazione da un lato e curiosità circa le dimensioni
dell’universo dall’altro. Con essa i matematici alessandrini sottoposero a
triangolazioni l’universo e diedero precisione alla loro conoscenza sulla Terra e il
cielo. Essi procedettero poi a trarre partito da quest’opera in un modo su cui
riferiremo nel prossimo capitolo.
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VI. La natura acquista la ragione
SOCRATE. Benissimo. Cominciamo facendo una domanda.
PROTARCO. E quale?
SOCRATE. Dobbiamo affermare, Protarco, che tutte le cose e
quello che chiamiamo “universo” siano guidati
dall’irrazionale e dal caso o, al contrario, come affermavano
quelli prima di noi, che l’universo è ordinato e guidato da
una meravigliosa intelligenza e sapienza?
PROTARCO. Del tutto diverse, eccellente Socrate, sono le due
asserzioni, tanto che ciò che dicevi poco fa mi sembra una
bestemmia. Dire invece che la mente ordina tutte le cose è
degno della visione che abbiamo del mondo...
PLATONE, Filebo
Le persone che vogliono creare devono essere innanzitutto disposte a sognare.
Poiché i greci dotati di una mente filosofica concedevano spesso alle loro
speculazioni di scivolare nel sogno, essi furono ricompensati con una capacità
profetica di intuizione quale l’uomo non ha mai più raggiunto. La visione si
dimostrò così straordinaria da guidare la vita intellettuale di tutti i greci. Per la
civiltà occidentale il seguito fu molto significativo.
In parte la suddetta visione è ordinata in modo razionale; tutti i fenomeni
naturali seguono un piano preciso e invariabile. La visione rivelò anche che la
mente è il potere supremo e che perciò il piano della natura può essere reso
intelligibile dall’applicazione della mente agli eventi dell’universo.
I greci proiettarono il loro sogno nella realtà e divennero il primo popolo dotato
dell’audacia e della genialità di dare spiegazioni ragionate di fenomeni naturali.
L’impulso dei greci alla comprensione aveva in sé l’eccitazione di una ricerca e di
un’esplorazione. E mentre esploravano redigevano carte, come la geometria
euclidea, in modo che altri potessero trovare rapidamente la via che conduceva
alle frontiere raggiunte e contribuire alla conquista di nuove regioni.
Le civiltà anteriori, e particolarmente quella babilonese e quella egizia,
avevano compiuto innumerevoli osservazioni e avevano ottenuto molte utili
formule empiriche. Ma benché dovessero avere scoperto prove dell’esistenza di
un ordine in natura, non concepirono teorie generali e sognarono appena
dell’esistenza di un piano generale. Le complesse e varie azioni e reazioni in
natura celarono loro ogni indicazione di piano, di ordine e di legge. La natura
appariva e rimaneva capricciosa, misteriosa, e spesso terrificante. I greci
vedevano le cose in modo diverso. Spronati dal loro desiderio di conoscenza e dal
loro amore per la ragione, questi protagonisti del potere della mente confidavano
68
che un esame delle vie seguite dalla natura avrebbe rivelato l’ordine presente nel
mondo fisico.
La ricerca di un’interpretazione razionale della natura fu condotta innanzi
attivamente nei tempi più antichi della civiltà greca. Fu tipica la cosmologia di
Talete, il quale sosteneva che ogni cosa è in ultima analisi acqua e che bruma e
terra sono forme d’acqua. Egli credeva che l’universo fosse una massa d’acqua
con in mezzo una bolla; questa sarebbe il nostro mondo, con la terra galleggiante
sul fondo della bolla, mentre la pioggia proverrebbe dall’acqua di sopra. I corpi
celesti sarebbero acqua in uno stato incandescente; essi galleggerebbero
sull’acqua circostante la bolla. Mentre per gli egizi e per i babilonesi le stelle
erano divinità, per Talete erano il vapore di una pentola. Con la sua teoria sulla
costruzione dell’universo, Talete assunse un punto di vista estremamente
moderno. Egli non sostenne che la sua spiegazione descrivesse necessariamente la
realtà ma la presentò perché organizzava le osservazioni in uno schema razionale.
Tali analisi di fenomeni naturali sembrano superficiali e infantili se confrontate
con la complessità e la relativa profondità di teorie scientifiche moderne. Talete e
i filosofi ionici andarono nondimeno molto oltre il pensiero delle civiltà anteriori.
Questi uomini osarono quanto meno affrontare lo studio dell’universo e
rifiutarono ogni aiuto da dèi, spiriti, demoni, angeli o altri agenti inaccettabili a
una mente razionale. Le loro spiegazioni, essenziali e obiettive, scalzarono i
racconti mitici e sovrannaturali e la loro impostazione ragionata screditò le
spiegazioni fantastiche e acritiche dei poeti. Brillanti intuizioni scandagliarono la
natura dell’universo e la ragione le difese.
Con l’avvento dei pitagorici il programma della razionalizzazione della natura
si assicurò l’aiuto della matematica. I pitagorici furono colpiti dal fatto che
fenomeni fisicamente assai diversi presentano proprietà matematiche identiche.
La Luna e una palla di gomma hanno la stessa figura e hanno in comune tutte le
altre proprietà delle sfere. Analogamente un bidone delle immondizia e una botte
di ottimo vino possono avere lo stesso volume. Non è dunque evidente che al di
sotto delle diversità sono presenti relazioni matematiche e che queste devono
essere l’essenza dei fenomeni?
Per l’esattezza, i pitagorici trovarono quest’essenza nel numero e nelle relazioni
numeriche. Il numero era il primo principio nella spiegazione della natura e fu la
materia e la forma dell’universo. Filolao, un celebre pitagorico del V secolo a.C.,
disse: “Se non fosse per il numero e per la sua natura, nulla di ciò che esiste
sarebbe chiaro ad alcuno né in sé né in relazione ad altre cose... Si può osservare
che il potere del numero si esercita non soltanto negli affari dei demoni e degli dèi
ma in tutti gli atti e i pensieri degli uomini in tutti i lavori artigianali e nella
musica.”
La riduzione della musica, ad esempio, a semplici relazioni fra numeri divenne
possibile per i pitagorici quando essi scoprirono due fatti: primo, che il suono
causato da una corda pizzicata dipende dalla lunghezza della corda; e secondo,
che suoni armonici sono emessi da corde le cui lunghezze stanno fra loro come i
rapporti di numeri interi. Un suono armonico è emesso ad esempio pizzicando due
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corde ugualmente tese di cui una sia lunga il doppio dell’altra. L’intervallo
musicale fra le due note è ora chiamato un’ottava. Un’altra combinazione
armonica è formata pizzicando due corde le cui lunghezze stiano fra loro nel
rapporto di 3 a 2; in questo caso la corda più corta dà una nota chiamata la quinta
sopra quella data dalla più lunga. Di fatto, le lunghezze relative in ogni
combinazione armonica di corde pizzicate possono essere espresse come rapporti
di numeri interi.
I pitagorici ridussero a rapporti numerici anche i moti dei pianeti. Essi
ritenevano che i corpi che si muovono nello spazio producano suoni e che un
corpo che si muove velocemente emetta una nota più alta di un corpo che si
muova lentamente. Queste idee furono suggerite forse dal fischio di un oggetto
fatto ruotare velocemente all’estremità di una corda. Secondo l’astronomia
pitagorica, quanto maggiore è la distanza di un pianeta dalla Terra tanto più
veloce è il suo movimento. I suoni prodotti dai pianeti varierebbero perciò con la
loro distanza dalla Terra e sarebbero tutti armonici. Ma quest’“armonia delle
sfere”, come ogni armonia, si riduceva a semplici relazioni numeriche; lo stesso
vale anche per i moti dei pianeti.
Oltre a questi elementi più “sostanziali” della loro filosofia, i pitagorici
attribuirono affinità o interpretazioni molto interessanti ai singoli numeri. Essi
identificarono il numero uno con la ragione, poiché la ragione potrebbe produrre
solo un tutto coerente; il due fu identificato con l’opinione; il quattro con la
giustizia, essendo il primo numero che è il prodotto di due numeri uguali (per i
pitagorici l’uno non era un numero in senso pieno poiché l’unità era contrapposta
alla quantità); il cinque significava il matrimonio, essendo l’unione del primo
numero pari e del primo numero dispari; il sette era identificato con la salute, e
l’otto con l’amore e l’amicizia. Perché i pitagorici pensavano al quattro come a
quattro punti disposti a formare un quadrato e identificavano il quattro con la
giustizia, l’associazione del quadrato e della giustizia continua ancor oggi. Lo
square-shooter, in inglese, è ancor oggi l’uomo che agisce secondo giustizia.
Tutti i numeri pari erano considerati femminili, mentre i numeri dispari erano
considerati maschili. Da queste associazioni seguiva che i numeri pari
rappresentavano il male e i numeri dispari il bene. La difficoltà, con i numeri pari,
era che consentivano la bisezione in più e più numeri pari, come il 2 in l e l, il 4 in
2 e 2, l’8 in 4 e 4 e così via. Il processo della bisezione continua suggeriva
l’infinito, un pensiero orribile per i greci, i quali preferivano il definito e limitato.
I numeri dispari, d’altra parte, impedivano ai numeri pari di proseguire all’infinito
il processo di bisezione; essi impedivano ai numeri pari di frantumarsi. Essi stessi
inoltre resistevano alla bisezione poiché essa conduceva, nel caso di un numero
dispari, a volgari frazioni improprie.
Un numero era perfetto se era uguale alla somma dei suoi divisori, come 6 = 1
+ 2 + 3. Due numeri erano “amici” se l’uno era la somma dei divisori dell’altro.
Cosí 220 e 284 erano amici, come si vede facilmente se si controllano i loro
divisori. Tali numeri venivano scritti su pallottoline che venivano mangiate come
afrodisiaci. Il numero ideale era 10 perché era la somma dei numeri interi
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consecutivi 1, 2, 3 e 4. E poiché il 10 era ideale, i corpi mobili in cielo dovevano
essere in numero di 10. I pitagorici riuscivano a render conto facilmente di 9 corpi
celesti, poiché ritenevano che la Terra, il Sole, la Luna, la sfera delle stelle e gli
altri cinque pianeti noti a quell’epoca si muovessero attorno a un fuoco centrale
fisso. Essi asserivano l’esistenza di un decimo corpo mobile, che chiamavano
l’Antiterra. Questo corpo si trovava sempre dal lato del fuoco centrale opposto
alla Terra e perciò non era visibile. Il carattere ideale del 10 richiedeva anche che
ogni oggetto nell’universo fosse descrivibile in termini di 10 coppie di categorie,
come pari e dispari, limitato e illimitato, destro e sinistro, uno e molteplice,
maschio e femmina e buono e cattivo.
Queste stravaganze speculative dei pitagorici sono, in grande misura, vane,
ascientifiche e inutili. La loro ossessione dell’importanza del numero li indusse a
costruire una filosofia naturale che certamente aveva ben poche corrispondenze
con la natura. Purtroppo una parte di questa filosofia fu tramandata all’Europa
medievale, dove fu resa sacrosanta dal misticismo religioso. Nondimeno la tesi
principale dei pitagorici, ossia che la natura dovrebbe essere interpretata nei
termini di numeri e relazioni numeriche, che il numero è l’essenza della realtà,
domina la scienza moderna. La tesi pitagorica fu fatta rinascere e fu affinata
nell’opera di Copernico, di Keplero, di Galileo, di Newton e dei loro successori
ed è rappresentata oggi dalla tesi che la natura dev’essere studiata
quantitativamente. Questi scienziati relativamente moderni adottarono varie altre
convinzioni pitagoriche, ossia che l’universo è ordinato secondo perfette leggi
matematiche, che la ragione divina è l’organizzatrice della natura e che la ragione
umana, scandagliando la natura, cerca di discernerne il disegno divino. Vedremo
che proprio a questa filosofia va riconosciuto il merito del successo della scienza
moderna e che infine le relazioni numeriche hanno soppiantato la geometria, alla
quale i greci avevano concesso una posizione di privilegio.
Il principale pitagorico, subito dopo Pitagora, fu Platone, il quale condivideva
la convinzione che la realtà e l’intelligibilità del mondo fisico fossero accessibili
solo attraverso la matematica, poiché “Dio geometrizza eternamente.” Platone si
spinse oltre la maggior parte dei pitagorici. Egli desiderava non soltanto
comprendere la natura attraverso la matematica ma trascendere la natura al fine di
comprendere quel mondo ideale, matematicamente organizzato, che egli riteneva
fosse la realtà vera. Il sensibile, il caduco, l’imperfetto dovevano essere sostituiti
dall’astratto, eterno, perfetto. Egli sperava che pochi sguardi penetranti al mondo
fisico fornissero verità essenziali che avrebbero potuto essere poi sviluppate dalla
ragione, senza l’aiuto di ulteriori osservazioni. Da questo momento in avanti la
natura sarebbe stata sostituita interamente dalla matematica. Di fatto, egli criticò i
pitagorici perché investigavano i numeri delle armonie acustiche ma non erano
mai pervenuti alle armonie naturali dei numeri stessi. Egli dichiarò che il mero
studio dei suoni in quanto tali era inutile, mentre la riflessione su numeri
armonici, se perseguita avendo in vista il bello e il bene, aveva un valore
elevatissimo.
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L’atteggiamento di Platone nei confronti dell’astronomia illustra la sua
concezione di ogni tipo di scienza della natura. Secondo Platone la vera
astronomia non si occupa dei movimenti dei corpi celesti visibili. La disposizione
delle stelle in cielo e i loro moti apparenti sono in realtà meravigliosi e belli da
contemplare ma la mera osservazione e spiegazione dei moti non riguardano la
vera astronomia. Prima di poter attingere a quest’ultima, “dobbiamo lasciar stare
il cielo”, poiché la vera astronomia si occupa delle leggi del moto di stelle vere in
un cielo matematico di cui il cielo visibile è solo un’espressione imperfetta. Egli
incoraggiò la devozione a un’astronomia teorica i cui problemi affascinano la
mente, non l’occhio. La navigazione, il calendario e la misura del tempo erano
evidentemente estranei all’astronomia di Platone.
Non c’è dubbio che la riluttanza di Platone a osservare e a sperimentare
ostacolò lo sviluppo della scienza greca e generò una fiducia eccessiva sul potere
della mente di afferrare verità fondamentali e dedurne conseguenze logiche. Quel
che di buono conseguì a questa concezione della scienza naturale fu nondimeno di
valore inestimabile. Essa produsse il primo piano magistrale di quello stesso cielo
che preferiva lasciar stare.
I greci di questo periodo avevano osservato ciò che chiunque abbia cura di
registrare graficamente i moti dei pianeti può vedere. Visto dalla Terra, il loro
modo di procedere in cielo è disordinato e non c’è nulla che sembri ricondurlo a
una regola. Essi avanzano e retrocedono. Di fatto questi vagabondi del cielo (il
vocabolo pianeta significa in greco “viandante”) si rifiutano apparentemente di
seguire alcun corso ordinato.
Ora, una cosa è osservare e registrare accuratamente i moti dei pianeti come
avevano fatto per secoli gli egizi e i babilonesi, che erano semplici osservatori, e
una cosa del tutto diversa, e che segnava di fatto un grande passo avanti, era
chiedersi se non fosse possibile una teoria unificatrice dei moti dei corpi celesti
che rivelasse un piano al di là delle apparenti irregolarità. È questo il problema
che Platone propose all’Accademia, ossia escogitare uno schema matematico che,
attribuendo ai pianeti movimenti sistematici, riuscisse a render ragione del
disordine apparente dei loro moti quali ci si presentano. Egli descrisse il
problema, in un’espressione divenuta famosa, come “salvare i fenomeni (le
apparenze).”
Fig. 15. Abbozzo del sistema di Eudosso.
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La risposta al problema data da Eudosso, un discepolo dello stesso Platone, a
sua volta un grande maestro e uno fra i più importanti matematici greci, è la prima
importante teoria astronomica nota alla storia e segna un deciso progresso nel
programma di razionalizzare la natura.
Lo schema di Eudosso usava una serie di sfere concentriche al cui centro era la
Terra immobile. Per render ragione del moto complesso di ogni corpo, Eudosso
supponeva innanzitutto che esso fosse fissato a una sfera rotante con velocità
uniforme attorno a un asse passante per la Terra. Così il pianeta P (fig. 15) è
fissato alla sfera la cui sezione trasversale è AMB; questa sfera ruota attorno
all’asse AB. Eudosso immaginò poi quest’asse AB prolungato oltre A e B fino a
terminare su una seconda sfera, nei punti C e D nella figura 15, ai quali si
assumeva fosse fissato rigidamente. Si supponeva che questa seconda sfera
ruotasse a sua volta su un proprio asse, GF nella figura 15, trasportando nel
proprio moto il primo asse e la sfera ruotante su esso. Poiché due sfere non erano
sufficienti a descrivere il moto di ogni corpo celeste, Eudosso supponeva che
l’asse della seconda sfera venisse prolungato a sua volta nelle due direzioni fino a
raggiungere una terza sfera, la quale ruotava a sua volta su un proprio asse. Nel
caso dei pianeti, Eudosso usò quattro sfere ciascuno. Le velocità di rotazione e i
raggi di queste sfere erano adattati da Eudosso ai moti osservati dei pianeti stessi.
È ovviamente difficile farsi un’immagine visiva della traiettoria che ogni corpo
assumerebbe in seguito alla combinazione della rotazione di due o tre sfere. I moti
complicatissimi che ne risultano furono però precisamente quelli di cui Eudosso
aveva bisogno per descrivere le traiettorie dei cinque pianeti, del Sole, della Luna
e delle stelle quali apparivano dalla Terra. Per l’intero sistema era sufficiente un
totale di 27 sfere.
Il sistema di Eudosso per descrivere e predire i moti dei corpi celesti,
apparentemente vagabondi, era geniale e fece un’impressione enorme ai greci.
Esso introdusse in natura un ordine matematico e, nello stesso tempo, mise in
evidenza il potere della mente umana di concepire un tale ordine. È anche degno
di nota il fatto che Eudosso concepì il suo sistema come puramente matematico,
non attribuendo alle sfere alcun significato fisico. Esse erano fittizie e l’intero
progetto era solo una teoria destinata a salvare i moti osservati.
La costruzione di Eudosso non fu l’ultima parola nell’ambito dell’astronomia
greca. Vedremo fra poco che essa fu soppiantata da una teoria superiore. Ma
prima di abbandonare il periodo classico della cultura greca dobbiamo citare
un’altra prova significativa che questo periodo aveva accumulato a conferma della
razionalità della natura. I greci classici non avevano bisogno di scrutare lo spazio
per concludere che la natura era stata progettata matematicamente. Essi non
avevano da far altro che riflettere sul significato della geometria euclidea.
Euclide aveva iniziato la sua geometria con dieci assiomi. Alcuni di essi, come
quello che uguali aggiunti a uguali danno uguali, sono accettabili
immediatamente. Altri, come quello che due punti possono essere uniti da una e
una sola linea retta, furono suggeriti dall’osservazione del mondo fisico. Una
volta posti questi assiomi, i teoremi venivano dedotti con l’azione della sola
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mente. Ognuno delle centinaia di teoremi contenuti negli Elementi avrebbe potuto
essere dedotto da un Euclide seduto con gli occhi bendati in una torre d’avorio.
Nondimeno, ogni volta che uno di questi teoremi veniva applicato a una
situazione fisica, si trovava che esso la descriveva perfettamente. Il teorema
forniva una conoscenza precisa e attendibile proprio come se fosse stato inferito
direttamente dalla situazione. Che cosa avrebbero dovuto concludere i greci dal
fatto che un teorema, dedotto con un ragionamento puro implicante centinaia di
deduzioni successive dagli assiomi, si applicava perfettamente alla natura? Tale
fatto non dimostrava forse che la natura era stata progettata in accordo a un piano
razionale, che la natura si conformava a un intero corpo di conoscenza ragionata?
Non era questa una prova schiacciante dell’esistenza di un piano?
I greci studiarono numerosi altri fenomeni fisici e trovarono l’evidenza del
piano e della struttura matematica della natura. Illustriamo tale successo con un
esempio tratto dal campo dell’ottica.
Euclide scopri che l’angolo con cui un raggio di luce colpisce uno specchio è
sempre uguale all’angolo con cui ne viene riflesso; ossia l’angolo 1 è uguale
all’angolo 2 nella figura 16. Questo fatto, spesso descritto con la frase che
l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione, rivela legge e
comportamento matematico nel comportamento della natura.
Fig. 16. L’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione.
In questo fenomeno di ottica è implicita una seconda legge matematica.
Abbiamo già osservato in un altro contesto che se A e B sono due punti quali si
vogliano da un lato di una linea, allora, fra tutti i percorsi che vanno dal punto A
alla linea e di qui al punto B, il percorso più breve è quello che si ha quando il
punto è scelto in modo tale che i due segmenti AP e PB formino con la linea
angoli uguali.
E questo percorso più breve è esattamente quello seguito dalla luce.
Evidentemente dunque la natura conosce bene la geometria e la usa a suo
vantaggio.
Se i greci del periodo classico avevano prove eccellenti del piano matematico
della natura, i greci alessandrini avrebbero potuto sostenere, con ogni
giustificazione, di averne una dimostrazione incontrovertibile. La realizzazione
più alta di questi uomini fu la creazione della più precisa e influente teoria
astronomica dell’antichità. La figura centrale in quest’ambito fu Ipparco, l’uomo
che dimostrò l’uso della misurazione indiretta per calcolare dimensioni e distanze
dei corpi celesti. Nel corso delle sue investigazioni astronomiche egli perfezionò
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strumenti per l’osservazione, scoprì la precessione degli equinozi, determinò
l’angolo dell’inclinazione dell’eclittica, misurò irregolarità nel moto della Luna,
corresse stime anteriori della durata dell’anno (Ipparco stimò la durata dell’anno
solare 365 giorni, 5 ore e 55 minuti, con un eccesso di 6 1/2 minuti rispetto al
valore reale) e catalogò un migliaio circa di stelle. Questi contributi relativamente
minori furono sovrastati dalla costruzione di un sistema astronomico completo.
Ipparco riconobbe che lo schema di Eudosso, che supponeva i corpi celesti
fissati a sfere rotanti incentrate sul centro della Terra, non rendeva ragione di
molti fatti osservati da altri greci e dallo stesso Ipparco. La teoria di Eudosso
conteneva errori notevoli particolarmente nei moti di Marte e di Venere. A
differenza del sistema di Eudosso, Ipparco suppose che un pianeta P (fig. 17) si
muovesse in un cerchio con velocità costante e che il centro di questo cerchio, Q,
si muovesse con velocità costante su un altro cerchio con centro nella Terra.
Scegliendo opportunamente i raggi dei due cerchi e le velocità di Q e di P, egli fu
in grado di dare una descrizione esatta del moto di molti pianeti. Il moto di un
pianeta, secondo questo schema, è simile al moto della Luna secondo
l’astronomia moderna. La Luna compie la sua rivoluzione attorno alla Terra
mentre questa si rivolge attorno al Sole. Il moto della Luna attorno al Sole è
quindi simile al moto di un pianeta attorno alla Terra nel sistema di Ipparco.
Fig. 17. Abbozzo del sistema di Ipparco.
Nel caso di alcuni corpi celesti Ipparco ritenne necessario usare tre o quattro
cerchi, ciascuno mobile su un altro. In altri termini, il pianeta P si muoveva in
cerchio attorno al punto matematico Q, mentre Q si muoveva in cerchio attorno al
punto R e R si muoveva attorno alla Terra; inoltre ogni oggetto o punto si
spostava alla sua velocità costante. In altri casi Ipparco dovette supporre che il
centro del cerchio più interno o deferente non si trovasse esattamente nel centro
della Terra, bensì in prossimità di esso. Il moto in accordo con quest’ultima
costruzione geometrica era chiamato eccentrico, mentre, quando il centro del
deferente si trovava nel centro della Terra, il moto era chiamato epiciclico.
Ricorrendo a entrambi i tipi di costruzione e scegliendo opportunamente i raggi e
le velocità dei cerchi, Ipparco riuscì a descrivere abbastanza bene i moti della
Luna, del Sole e dei pianeti. Con la sua teoria diveniva possibile predire
un’eclisse di Luna con un margine di un’ora o due, mentre con minore precisione
venivano predette le eclissi di Sole.
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È degno di menzione il fatto che, dal punto di vista moderno, Ipparco stava
facendo un passo indietro poiché circa un secolo prima di lui un altro famoso
alessandrino, Aristarco, aveva suggerito la teoria che tutti i pianeti si muovessero
attorno al Sole. Ma osservazioni compiute per un periodo di centocinquant’anni
all’osservatorio di Alessandria, insieme a registrazioni babilonesi più antiche,
convinsero Ipparco di ciò che oggi sappiamo bene, ossia che una teoria
eliocentrica con i pianeti mobili in cerchi attorno al Sole non è possibile.
Invece di continuare a studiare ed eventualmente perfezionare l’idea di
Aristarco, Ipparco la abbandonò come eccessivamente speculativa. Altri
rifiutarono l’idea di Aristarco perché sembrava loro empio identificare la materia
corruttibile della Terra con i corpi celesti incorruttibili, considerando la Terra un
pianeta. Questa distinzione fra la Terra e gli altri corpi celesti era assai consolidata
nel pensiero greco e fu difesa, benché non dogmaticamente, anche da Aristotele.
Questa distinzione divenne una dottrina scientifica nella teologia cristiana e la
successiva eliminazione di questa convinzione erronea fu uno dei grandi successi
conseguiti dalla matematica e dalla scienza moderne.
Lo sviluppo della teoria astronomica greca raggiunse il suo culmine nell’opera
di Claudio Tolomeo, il quale era membro della famiglia reale di matematici, se
non dei sovrani politici d’Egitto. Di fatto, l’opera di Ipparco ci e nota perché è
sopravvissuta nell’Almagesto di Tolomeo, un’opera quasi importante come quella
di Euclide per l’influenza da essa esercitata sulle generazioni successive. Quanto
al suo contenuto matematico, l’Almagesto portò la trigonometria alla forma
definitiva che essa avrebbe conservato per più di un millennio. Nel campo
dell’astronomia offri un’esposizione completa della teoria geocentrica di epicicli
ed eccentrici, che divenne nota come teoria tolemaica. Essa era così precisa
quantitativamente e fu accettata per così lungo tempo che la gente fu indotta a
considerarla come una verità assoluta.
Questa teoria è la risposta greca finale al problema platonico della
razionalizzazione delle apparenze celesti ed è la prima grande sintesi scientifica.
Grazie al completamento, da parte di Tolomeo, dell’opera di Ipparco l’evidenza di
un piano nell’universo era ormai assoluta. L’universo si era rivelato razionale e i
principi che ne determinavano i moti erano matematici. Questa teoria
astronomica, trasformata nel Rinascimento da Copernico e Keplero e rifusa e
perfezionata da Newton, fornì l’evidenza principale per la dottrina più importante
della scienza moderna: quella dell’uniformità e immutabilità della natura.
Un uso più diretto della teoria fu fatto da un gruppo di pensatori del tutto
diverso. Poiché il sistema tolemaico faceva della Terra il centro dell’universo, era
del tutto naturale che la teologia cristiana, seguendo linee di pensiero razionali,
suggerisse la tesi che l’uomo è la creatura più importante di Dio e che il bene
dell’uomo è la cosa che più di tutte interessa a Dio. Questa conclusione teologica
acquistò il massimo rilievo mentre le argomentazioni matematiche su cui si
fondava passarono in secondo piano. Nondimeno, come la Chiesa riconobbe
chiaramente, la dottrina cristiana secondo cui l’uomo è l’oggetto più importante
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nell’universo, quello per il quale l’universo era stato creato qual era, poggiava
sulla teoria tolemaica.
I greci non portarono a compimento la razionalizzazione della natura. In questo
compito siamo ancora impegnati noi oggi. Essi lasciarono però documenti elevati
in questo senso nei campi dell’astronomia, della meccanica1 dell’ottica e nello
studio dello spazio e di figure nello spazio. In ciascuna di queste realizzazioni la
matematica fu o l’essenza o lo strumento essenziale.
Purtroppo la vita intellettuale greca fu troncata assai presto da eventi politici
che sfuggivano al controllo di matematici e filosofi. Nel periodo in cui
Alessandria era all’apogeo, il carro da guerra romano, percorsa la penisola
italiana, cominciava ad attaccare altri paesi affacciati sul Mediterraneo.
Intervenendo nella lotta familiare fra Cleopatra, che fu l’ultima rappresentante
della dinastia dei Tolomei, e il fratello Tolomeo XIII, Cesare riuscì ad assicurarsi
il controllo dell’Egitto. Egli tentò poi di distruggere la flotta egizia, all’ancora nel
porto di Alessandria, incendiandola. Ebbe inizio allora il più tragico olocausto
nella lunga storia della lotta dell’uomo contro la barbarie. Il fuoco si estese dal
mare alla città, distruggendo la grande biblioteca. Due secoli e mezzo di ricerca e
accumulo di libri e mezzo milione di codici che rappresentavano un brillante
compendio della cultura antica furono cancellati. I romani si ritirarono, ma solo
per tornare alla morte di Cleopatra, nel 31 a.C., e da quell’epoca le loro
interferenze e il loro dominio sul Museo di Alessandria si dimostrarono sempre
più distruttivi per la cultura che vi fioriva.
L’incendio di Alessandria potrebbe ben simboleggiare il disprezzo dei romani
per la conoscenza astratta. La storia dei romani ha un andamento
cronologicamente parallelo a quella dei greci ma non ci saremmo mai accorti
della loro presenza leggendo una storia anche vasta della matematica. I romani
erano gente pratica e se ne gloriavano. Essi intrapresero e realizzarono ambiziosi
progetti di ingegneria, come viadotti, magnifiche strade che sopravvivono ancor
oggi, ponti, edifici pubblici, ma si rifiutarono di considerare qualsiasi idea che
non si riferisse alle particolari applicazioni concrete di cui si stavano occupando
in un preciso momento. Il loro atteggiamento generale è illustrato da un problema
tratto da uno dei loro testi. Il problema chiede un metodo per determinare la
larghezza di un fiume quando il nemico sia già sulla riva opposta. Cicerone
ammetteva che, “poiché i greci tengono il geometra in sommo onore, nulla, presso
di loro, ha fatto progressi più brillanti della matematica.” Egli sosteneva però
orgogliosamente che “noi abbiamo stabilito come limite di quest’arte la sua utilità
nel misurare e nel contare.”
Abbiamo già visto come la matematica dei greci fosse in relazione col carattere
ideale della loro arte; così gli interessi pratici dei romani si manifestano nella loro
arte, concreta e piuttosto mondana. L’arte romana era programmatica, ad esempio
didattica o commemorativa, e la bellezza si abbassava a decorazione e
ornamentazione. Le sculture e i ritratti prendevano sempre per oggetto individui
1 Si veda il capitolo tredicesimo.
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concreti e si proponevano lo scopo di onorare o di divinizzare. Augusto, ad
esempio, fu scolpito come soldato, con la sua corazza (tavola III), e il bambino
piccolo accanto a lui simboleggia la fecondità di Roma. La contemplazione
dell’ideale e la devozione a figure divine e umane dalle proporzioni perfette
appartenevano ormai al passato. In architettura, Roma è rappresentata nel modo
migliore dai suoi edifici pubblici, come le terme, che avevano tutti finalità
pratiche.
La miopia spirituale dei romani produsse un’arte limitata, d’imitazione e di
seconda categoria. Per vari secoli essi furono in grado di sopperire a mancanza
d`ispirazione e di pensiero originale facendo assegnamento sui greci. Quando
Augusto intraprese un rilievo topografico dell’Impero, ricorse a specialisti di
Alessandria e anche Giulio Cesare, quando affrontò la riforma del calendario, si
valse dell’opera di un alessandrino. Quando le sorgenti del sapere si furono quasi
prosciugate, i romani cominciarono a rendersi conto dell’errore di adornare con
statue una fontana senza preoccuparsi della sua alimentazione. Ma era troppo
tardi.
La scarsissima importanza ottenuta dai romani nei campi della matematica,
della scienza, della filosofia e di molte arti è la risposta migliore che si può dare a
quella gente “pratica” che condanna il pensiero astratto che non sia motivato da
ragioni utilitarie. Una lezione che si può trarre dalla storia dei romani è
certamente che chi disprezza il lavoro altamente teorico di matematici e scienziati
e ne scredita l’inutilità ignora il modo in cui hanno avuto luogo importanti
sviluppi pratici. Di fatto, oggi tutte le grandi società industriali sanno di dover
spendere ingenti somme di denaro e anni di tempo in ricerche che non prospettano
alcuna utilità immediata, al fine di produrre nuove idee e nuove tecniche.
Il controllo dei romani sulla civiltà greca fu distruttivo per un’altra ragione.
Esso rese schiavi milioni di individui e ne tenne milioni di altri assoggettati. La
burocrazia romana soppresse ogni miglioramento sociale ed economico e
mantenne l’istruzione a un livello minimo. Nello stesso tempo, ricchezze enormi
furono sottratte ai paesi soggetti mediante la tassazione e avviate a Roma. La sorte
delle moltitudini divenne intollerabile. Fra queste persone miserabili l’appello
cristiano, con la sua enfasi sull’etica, la fratellanza e una ricompensa nell’altra
vita, si impose rapidamente e sottrasse alla cultura greca migliaia e infine milioni
di persone. Scontri sanguinosi nelle strade fra “pagani” e cristiani divennero
comuni. Purtroppo tutto il sapere greco fu identificato col paganesimo e perciò
severamente attaccato. Gli studiosi alloggiati nel Museo di Alessandria furono
perseguitati e scacciati dalla città.
Il destino di Ipazia, ultima rappresentante della scuola alessandrina, compendia
drammaticamente la fine di un’èra. Essendosi rifiutata di abbandonare la sua
religione greca, essa fu assalita da una plebaglia cristiana furiosa e fatta a pezzi
nelle strade di Alessandria. Il destino di Ipazia fu anche quello del pensiero greco.
Il colpo finale al Museo di Alessandria, che lo distrusse come se esso fosse
stato la copertina del grande libro degli antichi le cui pagine erano già state
disperse ai quattro venti, fu l’incendio del Museo a opera dei musulmani che
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conquistarono la città nel 640. L’intero Museo e i restanti manoscritti, salvati fino
a quel momento dagli altri nemici dell’illuminismo ellenistico, furono distrutti col
pretesto che se i rotoli contenevano qualcosa di contrario agli scritti di Maometto
erano erronei e in caso contrario erano superflui.
Benché il Museo fosse distrutto e gli studiosi dispersi, la cultura greca
sopravvisse e infine riemerse dando un contributo alla formazione della civiltà
occidentale. L’Europa apprese in definitiva dai greci le potenzialità della ragione
umana oltre che alcuni dei suoi prodotti più raffinati. L’Europa ereditò anche le
prove matematiche della razionalità della natura e la fiducia ad applicare la
ragione agli affari dell’uomo. La civiltà occidentale nacque quando lo spirito della
ragione prese possesso dell’uomo e questa civiltà conobbe progressi o regressi in
accordo con il variare della forza di tale spirito.
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VII. Intermezzo
D’altri pensieri non grava: la mente,
Ma serbala a Dio sol, Lui servi e temi.
JOHN MILTON
La Terra, scrisse un mercante alessandrino del VI secolo che aveva molto
viaggiato, è piatta. La parte abitata ha la forma di un rettangolo la cui lunghezza è
doppia della larghezza. La parte abitata è circondata dall’acqua, la quale è
circondata a sua volta da altra terra. A nord c’è un’alta montagna di forma conica
attorno a cui si rivolgono il Sole e la Luna. Di notte il Sole è nascosto dietro la
montagna; di giorno, ovviamente, è davanti ad essa. Il cielo è saldato ai suoi
estremi alle parti più esterne della Terra. Al di sopra del cielo e il firmamento, il
quale è diviso in due piani: in quello superiore sono i beati e Dio mentre quello
inferiore ospita gli angeli che recano assistenza all’uomo.
Cosi scrisse un uomo che pure respirava la stessa aria di Euclide, di Archimede,
di Ipparco e di Tolomeo. Questo mercante, di nome Cosma, che più tardi si fece
monaco, non apprese certo questi fatti sull’universo dai suoi viaggi. La topografia
dell’universo, egli disse, è fissata dalla Sacra Scrittura, della quale a un cristiano
non è lecito dubitare. Nella sua opera Topographia christiana, che fu molto
popolare sia fra le persone colte sia fra gli ignoranti fino al XII secolo, Cosma
elaborò questa cosmografia. Poiché la Bibbia ci dice che l’uomo vive “sulla faccia
della Terra”, non possono esistere antipodi. In realtà, se ci fossero antipodi, il
cielo dovrebbe circondare la Terra, mentre la Bibbia dice che la Terra è
saldamente fissata alle sue fondamenta.
Successivamente, altri pensatori aggiunsero importantissimi perfezionamenti
alla cosmologia di Cosma. Al centro dell’universo era, ovviamente, la Terra
immobile. Al di sopra della Terra erano la Luna, i pianeti e il Sole, ciascuno
fissato a una sfera. Queste otto sfere ruotavano attorno alla Terra di moto
circolare, l’unico tipo di moto possibile per corpi celesti. Le sfere e i corpi celesti
sarebbero fatti di materia tangibile ma incorruttibile, non soggetta alle leggi
fisiche della materia terrestre. Questi corpi celesti rimangono inoltre a distanze
fisse dalla Terra, poiché la materia di cui sono composti ha una disposizione
specifica a rimanere in quel luogo particolare. Sopra queste otto sfere ce ne sono
però altre due. La nona, che non trasporta alcun pianeta o stella, è il primo motore
di se stessa e delle altre otto sfere. Questa nona sfera si muove più velocemente
delle altre per compiere il suo viaggio attorno alla Terra in 24 ore; gli spiriti che la
muovono, infatti, essendo i più vicini al cielo, la decima sfera, sono più ardenti di
quelli che muovono le altre otto. La decima sfera è in quiete ed è abitata dagli
esseri già descritti da Cosma.
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Maggiori notizie si raccolgono sulla Terra stessa. La terra emersa si estende
press’a poco alla moderna Europa e Vicino Oriente, e Gerusalemme era
considerata il centro del mondo abitabile. All’interno della Terra era l’inferno, la
cui forma era quella di un imbuto, con i peccatori disposti in gironi lungo la
parete obliqua. Satana stava sul fondo. Sulla Terra c’era ancora il fiorito giardino
dell’Eden ma quest’area era purtroppo circondata da una parete di fuoco ed era
perciò inaccessibile. La Terra conteneva, oltre all’uomo, anche creature
meravigliose e mostruose. Le più importanti erano gli angeli e i diavoli, con i
demoni loro aiutanti. Fra le creature mortali simili all’uomo erano i satiri, i quali
avevano naso storto, corna in fronte e piedi caprini. Ben presto fu accertato che
esistevano molte varietà di satiri. Alcuni erano acefali; altri monocoli; altri
possedevano orecchie enormi; altri ancora avevano un piede solo. I mari
rivaleggiavano per le loro creature meravigliose con la terra, anche se questa era
infestata da draghi che davano abitualmente la caccia a elefanti.
La natura appariva di fatto meravigliosa e miracolosa a chi la contemplava.
Naturalmente, nessuno la contemplava, poiché non si sentiva alcuna esigenza di
farlo. Sant’Agostino disse: “Qualunque conoscenza si possa acquistare al di fuori
della Sacra Scrittura, se è dannosa dev’essere condannata, se è salutare vi è
contenuta.” Per assicurarsi tutta la conoscenza che si doveva avere bastava
dunque leggere le Sacre scritture e gli scritti dei primi Padri della Chiesa.
Affermazioni bibliche rispondevano anche alla questione fondamentale del perché
dell’esistenza del mondo fisico, degli animali e delle piante. Tutto ciò era stato
creato per servire all’uomo. Le piante e gli animali gli fornivano cibo e la pioggia
nutriva le sue colture. L’uomo era il centro dell’universo non solo
geograficamente ma anche nel senso dell’intenzionalità del progetto divino.
Benché il mondo della natura esistesse al fine di servire all’uomo, lo studio della
natura doveva essere evitato e la natura stessa doveva essere temuta perché Satana
governava la Terra e le sue corti erano onnipresenti. La scienza era in realtà
peccaminosa e la conoscenza ottenuta per suo mezzo veniva acquistata al prezzo
della dannazione eterna.
L’intera natura era stata creata per servire all’uomo, ma l’uomo esisteva solo
per morire e per riunirsi a Dio. La vita sulla Terra non aveva alcuna importanza
reale; quel che contava era solo l’altra vita.
L’uomo doveva perciò sottrarsi a questa sporca Terra e ascendere all’Empireo
divino. Egli doveva strappare la sua anima a una carne tenace responsabile del
peccato originale, svestendo ogni interesse e attaccamento terreno. Si doveva
rinunciare in grande misura ai ricchi doni della natura, ai cibi, agli abiti, al sesso,
poiché tutto ciò corrompeva l’anima. Con queste misure l’uomo medievale, certo
dei suoi peccati e dubbioso della salvezza, si preparava per l’altra vita e poteva
forse riuscire a procurarsi la grazia divina. Questo bisogno di purificare l’anima
cancellando la natura dai pensieri e dai sensi dell’uomo introdusse una nuova
dicotomia, una lotta senza fine fra la carne e lo spirito, fra il mondo e Dio.
Quest’esposizione della natura dell’uomo e del suo universo è un esempio del
tipo di sapere diffuso dalla fine del periodo ellenistico a buona parte del
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Medioevo. Per ragioni che abbiamo citato nel capitolo precedente, la civiltà greca
alessandrina degenerò rapidamente. I tardi pensatori alessandrini corruppero più
di quanto perfezionassero la loro eredità intellettuale. Essi trascurarono le scienze
e la matematica, si esaurirono in dispute metafisiche e cercarono di conciliare
Platone e Aristotele su argomenti su cui entrambi i filosofi erano ignoranti. Sotto
la crescente influenza del cristianesimo, parve importante agli alessandrini
esplorare il mondo invisibile, cercare metodi per liberare l’anima dal corpo e
discorrere con demoni e spiriti. Il risultato da loro ottenuto fu quello di
trasformare la filosofia in magia.
Il declino della cultura greca e romana fu accelerato dalla lotta condotta dalla
Chiesa contro il paganesimo. I capolavori greci e latini contenevano una mitologia
che doveva essere cancellata dalla mente degli uomini e una morale opposta
all’etica cristiana. Anche l’accento posto da greci e romani sulla vita in questo
mondo era considerato quanto meno un traviamento. Che cosa valgono la vita
fisica, la salute, la scienza, la letteratura e la filosofia paragonate alla salvezza
dell’anima? Perché leggete i poeti quando si devono ponderare i precetti dello
Spirito? Perché rendere gradevole e confortevole la vita sulla Terra dal momento
che essa non è altro che un preludio insignificante a una vita eterna che dev’essere
vissuta altrove? Perché cercare di rispondere a domande su fenomeni naturali
quando si devono ancora esplorare e capire la natura di Dio e la relazione a Dio
dell’anima umana? Mancava solo un passo alla conclusione che tutto il sapere
greco e romano era empio ed eretico. L’opposizione della Chiesa al paganesimo e
ai suoi ideali favorì così un atteggiamento anticlassico in tutti i paesi cristiani e
assorbì tutti gli interessi e le energie intellettuali in questioni teologiche.
La regione in cui il sapere e la cultura avevano raggiunto il loro livello più alto,
per sprofondare poi alle bassure più umilianti, comprendeva i paesi affacciati sul
Mare Mediterraneo. Osserviamo che finora Europa centrale e settentrionale non
hanno ancora svolto alcuna funzione. Qual era la situazione in Inghilterra,
Francia, Germania e altri paesi? In quale relazione stavano con le civiltà della
Grecia e di Roma e in che modo vennero a ereditare le ricchezze del pensiero
greco?
Le tribù germaniche che abitavano l’Europa nei primi secoli della nostra èra
erano ancora barbare. Esse vivevano nell’ignoranza e in una povertà definita
talvolta, con un eufemismo, semplicità virtuosa. Le attività artigianali erano
ignote. Il commercio aveva luogo mediante il baratto ed era integrato da scorrerie
ai danni di altre tribù e di regioni più civilizzate. L’organizzazione politica di ogni
tribù era primitiva e alla testa di ciascuna di esse era un guerriero valoroso. I
legami politici erano integrati da legami religiosi. Tutte queste tribù veneravano il
Sole, la Luna, il Fuoco, la Terra e divinità particolari che governavano gli affari
quotidiani della vita. Come le popolazioni più primitive, le tribù germaniche
credevano nella divinazione e praticavano sacrifici umani agli dèi.
Un’esposizione del sapere, delle arti e delle scienze dei germani è presto fatta.
Non c’è nulla. Questi uomini non conoscevano affatto l’uso delle lettere. Non
conoscendo la scrittura, era impossibile la tradizione da una generazione all’altra
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di scoperte, creazioni o esperienze. La trasmissione orale della conoscenza può
trasformare imprese banali in leggende e dare una parvenza di verità a fantasie e
superstizioni ma non può promuovere le arti e le scienze.
I barbari si civilizzarono gradualmente. La prima influenza di rilievo fu
esercitata da Roma, la quale conquistò varie regioni d’Europa e impose alcuni
suoi costumi e istituzioni alle aree conquistate. Quando cadde l’Impero romano,
assunse il controllo la Chiesa, l’unica potente organizzazione rimasta in Europa.
Al fine di convertite i pagani, la Chiesa introdusse e sostenne scuole, organizzò
comunità e fornì capi capaci. I barbari acquistarono così familiarità con la
scrittura, con istituzioni politiche, con la legge, l’etica e, naturalmente, la religione
cristiana. In tal modo l’Europa ricevette l’eredità di Roma.
Da una popolazione che non conosceva neppure i rudimenti dell’aritmetica non
ci si dovrebbero attendere progressi nella matematica e di fatto in questo caso la
storia non ha sorprese per noi. In nessuna delle civiltà che hanno contribuito alla
nostra, il sapere matematico esisteva a un livello così basso come nell’Europa
medievale. Dal 500 al 1400 non ci fu, nell’intero mondo cristiano, un solo
matematico degno di nota.
I progressi che si ebbero in questo periodo sono dovuti agli indù e agli arabi.
Abbiamo già avuto modo di vedere come gli indù applicassero il principio
babilonese del valore di posizione alla base dieci e come trasformassero il
simbolo di separazione dei babilonesi in uno zero di pieno diritto. A quanto
possiamo accertare gli indù furono del tutto originali anche nel creare un’altra
idea che si dimostrò in seguito estremamente importante. Fu questa il concetto di
numero negativo. In corrispondenza a ogni numero, come 5, essi introdussero un
nuovo numero -5 e chiamarono i vecchi numeri positivi per distinguerli dai nuovi,
che chiamarono negativi. Gli indù dimostrarono che questi nuovi numeri
potevano essere altrettanto utili di quelli positivi, usandoli per rappresentare
debiti. Di fatto, essi formularono le operazioni aritmetiche sui numeri negativi
avendo presente questa applicazione.
Questi e altri contributi indù furono accolti dagli arabi, i quali li trasmisero a
loro volta agli europei. Le idee non furono però accolte nel corpo delle
conoscenze matematiche fino al Seicento inoltrato. Le università europee del
periodo medievale insegnavano soltanto aritmetica e geometria, e l’aritmetica
consisteva in gran parte di semplici calcoli e complesse superstizioni. La
geometria era limitata pressoché solo ai primi tre libri di Euclide; a coloro che
aspiravano a diventare magistri non si chiedeva infatti di conoscere di più. Lo
stadio più avanzato che venne raggiunto in talune università era il teorema
elementarissimo che gli angoli di base di un triangolo isoscele sono uguali. Un
po’ di matematica era implicata anche nelle altre due discipline del quadrivio, la
musica e l’astronomia. Complessivamente, un dotto matematico dell’Europa
medievale di un migliaio di anni fa sapeva molto meno di un bambino di oggi che
abbia finito le elementari.
Ma anche se il livello della civiltà era così basso, la matematica svolse
nondimeno una funzione. Una funzione della matematica, anche se non sempre
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favorevole alla Chiesa, fu quella della redazione di previsioni astrologiche. Di
fatto, assai presto nel periodo medievale, la parola “matematica”, in quanto
distinta da “geometria”, significa astrologia e i professori di astrologia venivano
chiamati mathematici. A quell’epoca l’astrologia era anche in disgrazia presso gli
imperatori romani, cosicché troviamo leggi che condannavano l’arte della
matematica. Più tardi imperatori romani e cristiani, pur bandendo gli astrologi dai
loro regni, li usarono alle loro corti come consiglieri influenti. Se c’era qualcosa
di fondato in questa predizione del futuro, i governanti non desideravano
trascurarlo, né erano disposti a lasciare ad altri il controllo di questa conoscenza.
Nonostante la condanna morale e legale dell’astrologia, la disciplina fioriva
perché dal periodo alessandrino in poi i grandi medici, incluso Galeno, credevano
di poter stabilire i trattamenti medici appropriati consultando gli astri. Sulla base
di traduzioni arabe, vere e spurie, di Aristotele, si riteneva che i moti circolari,
regolari, delle stelle controllassero il corso ordinato della natura, come le stagioni,
il giorno e la notte, la crescita e la distruzione. I pianeti, d’altra parte, erranti nei
loro moti qual erano visti dalla Terra, governavano la vita variabile e
indeterminata dell’uomo. Ogni pianeta esercitava un’influenza su un organo
particolare del corpo. Marte governava la bile, il sangue e i reni; Mercurio
dominava il fegato e Venere gli organi genitali. Ogni segno dello zodiaco
governava qualche regione del corpo, come la testa, il collo, le spalle e le braccia.
L’associazione dei pianeti con le costellazioni in cui venivano a trovarsi
controllava le fortune umane. Matematici e medici studiavano pertanto nel modo
più accurato il moto delle stelle e dei pianeti e cercavano di stabilire correlazioni
fra le loro posizioni in cielo e il comportamento del corpo umano e degli eventi
umani.
A tal fine veniva richiesto un tale livello della matematica che i medici
dovevano conoscere abbastanza a fondo la disciplina. Essi erano di fatto astrologi
e matematici più di quanto fossero studiosi del corpo umano. Per vari secoli i
vocaboli medico e algebrista furono praticamente sinonimi. Quando, ad esempio,
Sansón Carrasco è disarcionato dal suo cavallo nel Don Chisciotte, viene mandato
a chiamare un algebrista perché gli bendi le ferite. Le università medievali
insegnavano di fatto agli studenti di medicina l’uso della matematica
nell’astrologia e il più famoso di questi centri era Bologna, che aveva una scuola
di matematica e medicina fin dal XII secolo. Anche Galileo insegnò astronomia a
studenti di medicina, in modo che potessero applicare le conoscenze astronomiche
all’astrologia.
È chiaro che nel periodo medievale l’astrologia non era considerata una
superstizione in cui potessero indulgere gli stupidi o ingenui. Essa era una
scienza, i cui princípi erano accettati altrettanto seriamente di quanto erano
accettate l’astronomia copernicana e la legge della gravitazione nell’Ottocento.
Ruggero Bacone, Cardano e Keplero la accettavano e mettevano le loro
conoscenze scientifiche e matematiche al suo servizio. La scienza dell’astrologia
è degenerata oggi nelle rubriche astrologiche sui quotidiani, negli oroscopi
mensili dispensati nei bazar da quattro soldi e nelle bilance automatiche della
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metropolitana che in cambio di una monetina rivelano a una persona il suo peso
esatto e il futuro. La scienza di ieri è diventata la superstizione di oggi.
Assai più comprensibile è per noi l’interesse dimostrato dalla Chiesa per la
matematica. In primo luogo astronomia, geometria e aritmetica erano utili ai fini
del calendario. Particolarmente importante era conoscere la data della Pasqua.
Ogni monastero in Europa aveva almeno un monaco in grado di determinarla.
La matematica era ugualmente preziosa per la Chiesa come preparazione per la
teologia. Tutto ciò che Platone e altri greci dell’epoca classica avevano visto nella
matematica come preparazione alla filosofia, lo accettava anche la Chiesa,
sostituendo semplicemente alla filosofia la teologia. Essa si premurava però di
avvertire che a tal fine non si richiedeva troppa matematica: giusto quanto era
bene per la mente e non di più. Questo interesse per il ragionamento da parte dei
teologi, i quali accettavano nondimeno tante nozioni per fede e si appellavano alle
Scritture e ai padri della Chiesa come garanti della verità, richiede un sia pur
piccolo esame da parte nostra.
I greci avevano molti dèi ed erano privi di una teologia. Il periodo medievale
ebbe un solo Dio e una teologia enorme. All’inizio del periodo medievale, la fede
era quasi l’unico sostegno di tale teologia. Sant’Agostino diceva: credo per capire.
Man mano però che i Padri della Chiesa venivano proponendo dottrine e che i
dotti cercavano di capirle ponendosi al tempo stesso il compito di riconciliare
asserzioni opposte o contrastanti, si ricorse alla ragione per procedere alle
necessarie riconciliazioni. Anche il ragionamento fortificò la fede con
l’argomentazione vera, la dialettica e la spiegazione. La ragione, similmente,
dimostrò l’accordo esistente fra sistemi filosofici e dottrine cristiane e tra fatti
osservati e interpretazioni cristiane.
Piuttosto tardi nel periodo medievale la ragione cominciò a soppiantare la fede
come principale sostegno della teologia cristiana. Questo movimento fu stimolato
dalla traduzione in latino dall’arabo di numerose opere greche. Divennero noti
così, in particolare, l’immenso sapere di Aristotele e la sua logica. Poiché la
teologia cristiana aveva già incorporato elementi dell’aristotelismo, i dotti della
Chiesa non potevano permettersi di ignorare il vasto corpo di conoscenza che si
era ora reso disponibile. La Chiesa affrontò quindi il compito di riconciliare
l’aristotelismo e la teologia cattolica e di armonizzare la metafisica con la
rivelazione. Le possibilità di una difesa completamente razionale del
cristianesimo furono intraprese dalla Scolastica, di cui San Tommaso d’Aquino è
il rappresentante più autorevole. L’Aquinate affrontò il compito di fornire una
salda struttura logica alla teologia e di combinare dottrina cattolica e filosofia
aristotelica in un sistema razionale. Il risultato dei suoi sforzi, la Summa
theologiae, offre la più vasta e profonda esposizione della filosofia cattolica che
sia mai stata costruita, mentre l’organizzazione del suo materiale meritò a
quest’opera l’appellativo di “Euclide spirituale.”
Questo breve cenno agli interessi razionali dei teologi cattolici, pur non
rendendo affatto giustizia all’alta levatura intellettuale delle loro opere, può
aiutare a capire perché la Chiesa tenesse vivo almeno un po’ di matematica nel
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Medioevo. Esiste nondimeno una relazione più vitale fra matematica e teologia
medievale. Abbiamo già indicato che la Chiesa aveva una filosofia della natura.
Questa filosofia asseriva, innanzitutto, che la natura era stata creata da Dio al fine
di servire l’uomo. Ogni evento, ogni essere aveva un fine preciso. Un secondo
dogma di questa filosofia era che la natura era intelligibile all’uomo. Le vie di Dio
e i suoi fini potevano essere compresi purché l’uomo si fosse sforzato con
sufficiente tenacia. La comprensione sarebbe venuta non dall’osservazione della
natura bensì da uno studio appropriato delle Scritture, la parola di Dio. La Chiesa
raccomandava inoltre ai suoi fedeli di cercare di comprendere i fini di Dio; il vero
oggetto di conoscenza dell’umanità era Dio. L’uomo comune non poteva
raggiungere una comprensione completa – le vie di Dio sono misteriose per alcuni
mortali – ma in esse c’erano significato, ragione e finalità. “Le vie di Dio sono
giuste e gli uomini devono giustificarle.”
Così i dotti del tardo Medioevo, e in particolare gli scolastici, non soltanto
fornirono l’atmosfera razionale in cui nacquero la matematica e la scienza
moderne bensì infusero nei grandi pensatori del Rinascimento la convinzione che
la natura fosse la creazione di Dio e che le vie di Dio potessero essere comprese.
Fu questo fondamentale articolo di fede a dominare e ispirare i matematici e gli
scienziati del Rinascimento, fu questa fede a sostenere le ricerche pazienti,
instancabili, ardue e difficili di Copernico, Brahe, Keplero, Galileo, Huygens e
Newton. È vero che questi uomini abbandonarono le Scritture e si rivolsero a
Euclide per le loro premesse e all’osservazione della natura per i loro dati
puramente scientifici ma per lo più non si proposero altro che di comprendere il
meraviglioso disegno divino. Essi erano, e rimasero, adepti ortodossi della
religione cristiana. È un’ironia della storia che le loro ricerche producessero leggi
in urto con le dottrine della Chiesa e che queste ricerche minassero in definitiva il
dominio esercitato dalla Chiesa sul pensiero.
Non possiamo lasciare il periodo medievale senza chiederci perché in esso la
matematica non fece progressi, almeno durante la parte finale. Nel rispondere a
questa domanda siamo inevitabilmente indotti a operare un confronto fra la civiltà
medievale e l’epoca romana, ugualmente sterile. Come già abbiamo visto, la
civiltà romana fu improduttiva nel campo della matematica perché era tanto
interessata ai risultati pratici da non riuscire a vedere oltre la punta del suo naso. Il
periodo medievale fu invece improduttivo perché non si occupò della civitatis
mundi bensì della civitas dei e della preparazione all’altro mondo. L’una civiltà
era troppo legata alla terra, l’altra al cielo. La praticità dei romani generò sterilità
mentre il misticismo della Chiesa ebbe come effetto un totale disinteresse per la
natura e il suo dogmatismo limitò l’intelletto e impedì lo spirito creativo. Ci sono
prove storiche sufficienti per vedere che la matematica non può fiorire in nessuno
di questi due climi. Come si verificò nel periodo greco, e come vedremo
riconfermato fra breve per un altro periodo, la matematica può prosperare nel
modo migliore in una civiltà desiderosa di allearsi al mondo della natura e, nello
stesso tempo, di permettere alla mente una libertà di pensiero illimitata, prometta
essa o no soluzioni immediate ai problemi dell’uomo e dell’universo.
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VIII. La rinascita della spirito matematico
La natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in
lei infusamente vive.
LEONARDO DA VINCI
Una figura affascinante e assai influente, e purtroppo assai poco nota, del
Rinascimento è Girolamo Cardano. Nel De vita propria, che è paragonabile
all’autobiografia del Cellini e che fa apparire al confronto il Cellini come un santo
e un recluso, il Cardano rivela candidamente i particolari più intimi e scottanti
della sua vita e dei suoi tempi.
Come ci viene raccontato nelle sue confessioni, la carriera di questo
straordinario furfante e studioso ebbe inizio in modo avventuroso, quando sua
madre tentò un aborto che però non riuscì. Il bambino, illegittimo e malaticcio,
nacque a Milano nel 1501. Egli si descrisse come dotato alla nascita solo di
miseria e di spregio. Piuttosto presto si preparò alle numerose carriere che
avrebbe seguito: quelle di matematico, medico, metafisico, truffatore, giocatore,
assassino e avventuriero. Nonostante un’infanzia miserabile, molte malattie,
infermità croniche e una povertà estrema, riuscì finalmente a laurearsi in medicina
all’università di Pavia.
Nei suoi primi quarant’anni di vita, la povertà continuò a inseguirlo;
un’infermità fisica gli impedì per molto tempo di soddisfare i suoi forti desideri
per i piaceri dell’amore, e la malattia continuò a sottrargli energie. Come per
sfogare sulla vita la sua rabbia, fu vendicativo e deliberatamente crudele nel suo
linguaggio e vantò la sua superiorità sui propri contemporanei.
Durante la maggior parte della sua vita praticò la medicina e la dissolutezza. A
tempo perso produsse alcune fra le migliori opere matematiche del Rinascimento.
La sua furfanteria si espresse anche nella sua attività; il più famoso risultato
apparso nella Ars magna, che è la sua massima opera matematica, era infatti una
scoperta di un altro grande matematico, Tartaglia, pubblicata da Cardano senza il
suo permesso. Durante molti anni della sua vita, Cardano fu professore di
matematica e di medicina in varie università italiane. Trascorse i suoi ultimi anni
come astrologo alla corte pontificia. Verso la fine della sua vita si rese conto che,
nonostante le sue infamie, era riuscito a diventar nonno, a procurarsi fama,
ricchezza, sapere, amici potenti e fede in Dio, alla cui bontà doveva i quindici
denti che ancora gli restavano in bocca. Si dice che abbia previsto la propria
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morte e che il giorno stabilito si sia suicidato per salvare la propria reputazione di
astrologo.
Cardano varcò la distanza fra il Medioevo e l’Era moderna. Nella sua
metafisica era ancora legato al medievalismo e alle fantasticherie. Fu il razionale
apologeta della chiromanzia, degli spiriti, dei portenti e dell’astrologia. Credeva
fermamente anche nella magia naturale, una “scienza” dalle possibilità un po’ più
ampie che non l’astrologia. Attraverso la magia naturale si imparava a conoscere
il carattere degli uomini, i modi e i fini della natura, il futuro, i modi in cui i corpi
celesti incorruttibili influenzano le azioni quotidiane e il destino dell’uomo, e
l’arte di prolungare la vita.
Nella sua sfrontatezza e nel rifiuto di dottrine autoritarie, così come nelle sue
ricerche matematiche, fisiche e mediche, Cardano simboleggiò la rivolta nei
confronti di un millennio di servitù intellettuale e il rinascere dell’interesse per il
mondo fisico. Le sue investigazioni propriamente scientifiche furono condotte in
uno spirito moderno ed erano del tutto scevre da misticismo e occultismo.
Nonostante l’uso generoso di creazioni di altri, le grandi opere di Cardano
sull’algebra e l’aritmetica furono i primi contributi importanti alla matematica
moderna e furono indubbiamente fra il meglio del Cinquecento.
L’Ars magna di Cardano, il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico
e il De humani corporis fabrica di Vesalio, che apparvero fra il 1543 e il 1545,
segnano, con tutta la chiarezza possibile alla parola scritta, la linea di
demarcazione fra pensiero medievale e moderno. Queste opere erano così
rivoluzionarie che è naturale ricercare quali forze spezzassero la civiltà medievale
e si fondessero a formarne una nuova.
La più antica influenza tendente a trasformare il pensiero e la vita nell’Europa
medievale fu l’introduzione di opere greche. Il primo contatto significativo con
queste opere ebbe luogo attraverso gli arabi. Nell’ultima parte del periodo
medievale alcuni dotti greci che risiedevano a Costantinopoli, il centro
dell’Impero bizantino ovvero dell’Impero romano d’Oriente, scoraggiati dalla
meschinità colà dominante, migrarono in Italia. Quelli che erano rimasti furono
scacciati a loro volta dalla conquista della città da parte dei turchi e anche questi
cercarono rifugio in Italia. Nel Quattrocento divenne possibile eseguire traduzioni
latine direttamente dai manoscritti greci che questi dotti avevano portato con sé.
Da quest’epoca in avanti l’influenza del sapere greco sul pensiero europeo fu
illimitata. Tutti i grandi scienziati del Rinascimento riconobbero nei greci la fonte
della loro ispirazione e confessarono di avere attinto dalle loro opere anche idee
specifiche. Il polacco Copernico, il tedesco Keplero, l’italiano Galileo, il francese
Descartes e l’inglese Newton ricevettero luce e calore dal sole della Grecia.
Altrettanto importante nel plasmare la civiltà moderna fu il sorgere di città e di
una classe mercantile. Le attività minerarie, la manifattura, l’allevamento del
bestiame su larga scala e grandi fattorie, gli antenati del big business di oggi,
divennero una parte importante della vita europea. La ricchezza genera ricchezza
e mondanità. I mercanti cercavano di godere delle cose materiali che trattavano;
chiedevano inoltre la libertà di avviare e svolgere commerci nell’ambito di un
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governo favorevole ai loro interessi. La Chiesa, d’altra parte, denunciava i profitti,
santificava la povertà e la vita semplice e metteva l’accento sulla negazione di
questo mondo a vantaggio di una vita ultraterrena. Inevitabilmente le popolazioni
urbane si irritarono e si ribellarono alle limitazioni imposte dalla Chiesa.
Desiderando espandere i loro interessi commerciali, i mercanti promossero le
esplorazioni geografiche che ebbero luogo nel Quattrocento e Cinquecento. Le
scoperte dell’America e di una via alla Cina circumnavigando l’Africa ampliarono
gli orizzonti dell’uomo e portarono all’Europa molte conoscenze su strani paesi,
credenze, religioni e modi di vita. Queste conoscenze sfidavano i dogmi del
Medioevo e stimolavano l’immaginazione dell’uomo.
In contrasto con le classi servili dell’Egitto, della Grecia e di Roma e con la
servitù del feudalesimo medievale, la nuova società possedeva una classe in
espansione di contadini e artigiani liberi. Lo stimolo al profitto attraverso il loro
lavoro fece sì che questi uomini pensassero con idee concernenti la loro attività
produttiva. I contadini che cercavano di aumentare il rendimento del proprio
lavoro e imprenditori aventi alle proprie dipendenze salariati iniziarono una
ricerca attiva di dispositivi in grado di consentire un risparmio di lavoro. Ne
risultò un crescente interesse per le macchine, i materiali e la natura. Questo
movimento sociale ed economico promosse la trasformazione della civiltà
europea dal feudalesimo e dall’indifferenza nei confronti dei fenomeni naturali
all’industrialismo e all’investigazione di problemi fisici. Le grandi invenzioni
pratiche scaturite dal lavoro degli artigiani furono più importanti di quanto si
sarebbe potuto prevedere. La carta fatta di cotone e più tardi di stracci sostituì la
costosa pergamena; i caratteri mobili sostituirono la copiatura a mano. Queste
invenzioni diedero ali al pensiero, consentendogli di diffondersi oltre i limiti di
nazioni e di religioni.
Una grande quantità di problemi scientifici fu suggerita da un altro evento
rinascimentale, l’introduzione della polvere da sparo nel Trecento. La polvere da
sparo rese possibili pallottole e palle di cannone che potevano colpire
efficacemente anche bersagli molto lontani. Per sviluppare queste armi e imparare
come usarle con efficacia i principi spesero somme sproporzionate all’importanza
scientifica dei fenomeni in gioco. Ma i bisogni della guerra hanno sempre indotto
le nazioni a profondere somme di denaro e sforzi inimmaginabili in tempo di
pace.
I dubbi sulla validità della scienza e della cosmologia della Chiesa, le obiezioni
alla soppressione della sperimentazione da parte della Chiesa e la riflessione su
problemi creati dal nuovo ordine economico, la degenerazione della corte papale a
un livello di moralità che i cristiani avrebbero descritto normalmente come
pagano e seri scismi intellettuali culminarono nella rivoluzione protestante. Gli
uomini che si ribellarono erano sostenuti dalla classe mercantile, ansiosa di
spezzare il potere della Chiesa, e da molti principi secolari, che desideravano
governare senza intralci.
La Riforma come tale non liberò dai ceppi la mente dell’uomo; essa servì
nondimeno, indirettamente, la causa del libero pensiero. Quando capi religiosi
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come Lutero, Calvino e Zwingli osarono sfidare il papato e le dottrine cattoliche,
la persona comune si sentì incoraggiata a fare lo stesso. I protestanti, essendo
ribelli, erano necessariamente più tolleranti e concessero pertanto la loro
protezione a pensatori che la Chiesa cattolica avrebbe voluto ridurre al silenzio.
Sia pure con riluttanza, anche i protestanti formularono interpretazioni razionali
delle Scritture per combattere le dottrine cattoliche, benché per Lutero la ragione
fosse “la prostituta del diavolo.” Di fatto i protestanti furono talvolta costretti a
sostenere che la diversità delle credenze è una conseguenza necessaria del libero
esame. Infine, in considerazione del fatto che la gente veniva chiamata a scegliere
fra le tesi cattoliche e protestanti, il pensiero indipendente veniva incoraggiato, sia
pure non intenzionalmente. Molti, scontenti di entrambe le parti, si volsero dalle
due fedi ad altre fonti di conoscenza, come la natura e i classici antichi.
Dovrebbe essere evidente anche da questo quadro frettoloso delle nuove forze
all’opera in Europa che nella civiltà occidentale stavano per imporsi mutamenti
fondamentali. Anche se può essere oggetto di discussione quale secolo segni la
svolta dal Medioevo all’Era moderna, non c’è dubbio sul fatto che l’Europa del
Quattrocento divenne un’arena di menti ribollenti che disputavano aspramente
sulle convinzioni religiose, sostenevano la ragione contro la tirannide scolastica e
l’autorità antiquata e contrapponevano la mondanità greca all’oltremondo
cattolico. Gli intelletti, costretti a speculare senza fine su un piccolo gruppo di
concetti e intralciati da un sapere limitato e dal dogmatismo, spezzarono infine i
loro legami. Uomini intolleranti di ogni controllo, pronti a criticare le norme di
condotta stabilite ed entusiasti della libertà degli antichi, si affermarono contro
autorità moleste. In seguito al descritto fermento intellettuale, uomini desiderosi
di apprendere e di divorare nuove idee cercarono una base più solida della
contestata teologia cattolica per poggiarvi e costruire e tentarono di sperimentare
nuovi approcci ai problemi dell’uomo, della natura e dell’ordine sociale.
Il materiale con cui costruire era già pronto. Dalle ricche scorte del sapere
greco, che erano rimaste quasi intatte per un millennio, gli europei derivarono un
nuovo spirito, nuovi ideali e una nuova visione dell’universo. Le opere greche
restituirono fiducia nei poteri sovrani della ragione umana e incoraggiarono
l’uomo del Rinascimento ad applicare tale facoltà ai problemi che si ponevano a
questo periodo. L’amore per una ricerca spassionata della verità era rinato e la
ricerca stessa era diretta ora verso le leggi della natura e non verso le affermazioni
divine spigolate dalla Scrittura, verso l’universo divino non verso Dio; come
destati da un lungo sonno, gli europei scoprivano un “brave new world”
brulicante di vita e di creature meravigliose, fra le quali l’uomo stesso si
presentava come un fenomeno biologico e fisico degno di osservazione e di
studio. Gli uomini guardarono con rinnovata curiosità il cielo e furono affascinati
dagli strani racconti di coloro che navigavano i mari ed esploravano nuovi paesi.
La bellezza, per tanto tempo condannata all’inferno come una dea pagana della
carne, fu riscoperta nella letteratura e nel mondo fisico e invece del peccato, della
morte e del giudizio gli uomini videro in essa la vita, il piacere e la gioia. La
dignità dell’uomo, che era stato denunciato fino a quest’epoca come un peccatore
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indegno, fu rafforzata. Soprattutto, lo spirito umano fu emancipato e incoraggiato
a percorrere liberamente l’universo.
Una fra le più importanti dottrine positive del Rinascimento proclamò l’idea del
“ritorno alla natura.” Ogni tipo di scienziato abbandonò le infinite spiegazioni
razionali sulla base di principi dogmatici dal significato vago e privi di legami con
l’esperienza e si volse alla natura come vera fonte di conoscenza. Questo ricorso
alla natura e all’osservazione era stato raccomandato molto tempo prima da
Ruggero Bacone ed era stato perseguito da pochi grandi e aperti pensatori
anteriori al Quattrocento, tra i quali possiamo nominare Guglielmo d’Occam,
Nicola Oresme e Giovanni Buridano. Questi uomini erano però troppo in anticipo
sui tempi e le loro voci non si udivano al di sopra dello strepito delle infinite
dispute teologiche. Questa corrente si ingrandì però via via, sia pure con lentezza,
e guadagnò forza.
Il movimento del ritorno alla natura era da poco cominciato quando alcuni
scienziati che erano ardentemente impegnati in esso concepirono un’idea ancor
più rivoluzionaria. Mentre i greci e gli scienziati dell’inizio del Rinascimento
ricercavano la conoscenza della natura, Francesco Bacone e Descartes osarono
suggerirne il dominio e sognarono la conquista dell’intero mondo naturale a opera
dell’uomo. Per Bacone il fine della scienza non era tanto una soddisfazione di
carattere speculativo, quanto l’instaurazione del regno dell’uomo sulla natura e
l’aumento delle comodità e della felicità dell’uomo. Descartes scrisse:
È possibile conseguire una conoscenza che sia utilissima nella vita e, invece di quella
filosofia speculativa che viene insegnata nelle scuole, trovare una filosofia pratica per mezzo
della quale, conoscendo la forza e l’azione del fuoco, dell’acqua, dell’aria, delle stelle, del cielo
e di tutti gli altri corpi che ci circondano cosi distintamente come conosciamo le varie abilità dei
nostri artigiani, possiamo nello stesso modo servircene in tutti quegli usi a cui sono adatti e
renderci così signori e padroni della natura.
La sfida lanciata da Bacone e da Descartes fu raccolta prontamente e gli
scienziati si dedicarono con ottimismo al compito di padroneggiare la natura.
Oggi, a distanza di tre secoli, gli eredi di questi pensatori e scienziati del
Rinascimento sono ancora all’opera con la visione di Bacone e Descartes ben
salda nella mente a spingerli sempre avanti.
Il movimento tendente a ricostruire l’intera conoscenza mediante l’applicazione
della ragione e il ritorno alla natura come fonte della verità portò naturalmente in
primo piano la disciplina che in passato aveva dato un contributo preminente al
conseguimento di entrambi questi obiettivi. Le menti audaci che cercavano di
stabilire nuovi sistemi di pensiero sulla base di talune conoscenze necessitanti
furono attratte dalla certezza della matematica, poiché le verità della matematica,
per quanto potessero essere state ignorate in epoca medievale, non erano mai state
realmente contestate o messe in dubbio dai veri dotti. Le dimostrazioni
matematiche avevano inoltre in sé una costrizione e una sicurezza che non
avevano l’uguale nella scienza, nella filosofia o nella religione. Descartes scrisse:
91
Fui deliziato particolarmente dalle matematiche in virtù della certezza ed evidenza dei loro
ragionamenti: ... Fui stupito dal fatto che fondazioni così forti e solide non reggessero strutture
più elevate erette su di esse.
Anche Leonardo scrisse che solo tenendo fermo alla matematica la mente può
penetrare con sicurezza nel labirinto del pensiero intangibile e incorporeo.
Per gli scienziati del Rinascimento, come per i greci, la matematica era più di
un approccio attendibile alla conoscenza; essa era la chiave che consentiva di
accedere al comportamento della natura. La convinzione che la natura sia
matematica e che ogni processo naturale sia soggetto a leggi matematiche
cominciò a diffondersi nel XII secolo, quando gli europei la conobbero per la
prima volta dagli arabi, che stavano a loro volta citando i greci. Ruggero Bacone,
per esempio, credeva che il libro della natura fosse scritto nel linguaggio della
geometria. Ai suoi tempi tale dottrina assumeva talvolta una forma piuttosto
insolita. Si riteneva, ad esempio, che la luce divina fosse la causa di tutti i
fenomeni e la forma di tutti i corpi. Le leggi matematiche dell’ottica erano dunque
le vere leggi della natura.
Anche Keplero affermò che la realtà del mondo consiste nelle sue relazioni
matematiche. Le leggi matematiche sarebbero la vera causa dei fenomeni. I
principi matematici sono i caratteri con cui Dio scrisse il mondo, disse Galileo;
senza il loro aiuto è impossibile intenderne umanamente parola e ci si aggira
invano in un oscuro labirinto. Di fatto, solo le proprietà del mondo fisico
esprimibili matematicamente sono davvero conoscibili. L’universo è matematico
nella sua struttura e nel suo comportamento e la natura agisce in accordo a leggi
inesorabili e immutabili.
Descartes, il padre del mondo moderno, riferì un’esperienza mistica che gli
aveva rivelato il segreto della natura. In un sogno che egli ricordò distintamente e
che, egli disse, aveva fatto il 10 novembre del 1619, emerse in modo chiaro la
verità che la matematica è l’“Apriti Sesamo.” Egli si svegliò convinto che la
natura è un grande sistema geometrico. Conseguentemente egli “non ammette né
spera in fisica altri princípi oltre a quelli presenti nella geometria o nella
matematica astratta poiché così tutti i fenomeni della natura vengono spiegati e se
ne può dare qualche dimostrazione.”
La natura doveva dunque essere analizzata e ridotta a leggi matematiche. Ma in
qual modo doveva cominciare questo processo? Quali fenomeni avrebbero dovuto
essere scelti per quest’investigazione? Quali concetti sono fondamentali e al
tempo stesso esprimibili matematicamente? A queste domande gli studiosi del
Rinascimento diedero risposte proprie.
A differenza dei greci, per i quali erano fondamentali gli oggetti e le loro
forme, mentre lo spazio interessava solo in quanto designava il limite o confine di
un oggetto, il nuovo scienziato scelse lo spazio in sé come concetto soggiacente a
tutti i fenomeni e in cui gli oggetti esistono o si estendono e si muovono (anche se
Descartes sosteneva l’esistenza di una qualche sorta di materia non percepibile là
92
dove non esiste la materia solida dell’esperienza). L’essenza degli oggetti
materiali è lo spazio, e gli oggetti sono essenzialmente pezzi di spazio, spazio
solidificato o geometria materializzata. Concesso questo principio, la materia era
descrivibile matematicamente attraverso la geometria dello spazio. Il tempo fu
introdotto come un altro concetto fondamentale. Gli oggetti esistono e si
muovono nel tempo, oltre che nello spazio. Galileo sottolineò che il tempo può
essere espresso matematicamente, poiché gli istanti del tempo non sono altro che
numeri e come i numeri si susseguono l’uno all’altro.
Quanto agli oggetti in sé, le loro proprietà fondamentali sono l’estensione e il
movimento. Le differenze fra corpi sono differenze di figura, di densità e di moto
delle loro particelle componenti, e queste proprietà sono reali ed esprimibili in
termini matematici. D’altra parte, qualità come il colore, il sapore, il suono non
sono reali ma sono reazioni del soggetto alle qualità reali, primarie. Queste qualità
secondarie possono essere trascurate in un’analisi del mondo reale, essendo solo
illusioni o mere apparenze.
Così l’estensione, o la figura nello spazio, e il moto nello spazio e nel tempo
sono la fonte di tutte le proprietà e sono le realtà fondamentali. Per usare le parole
di Descartes, “datemi l’estensione e il moto e io vi costruirò l’universo.” La
matematica, attraverso la geometria e il numero, esprime queste essenze degli
oggetti. Il moto degli oggetti, egli continuava, è dovuto all`azione meccanica di
forze che obbediscono a leggi necessarie ed esatte. La vita stessa, umana, animale
e vegetale, è soggetta a queste leggi. Da questa subordinazione Descartes esentò
soltanto Dio e l’anima umana. In sintesi, il mondo reale è la totalità di moti,
matematicamente esprimibili, di oggetti nello spazio e nel tempo e l’intero
universo è una grande macchina armoniosa, progettata matematicamente.
La nozione di causalità, il legame fra due eventi, uno dei quali sembra seguire
necessariamente dall’altro, ricevette una nuova formulazione. Il fatto che l’effetto
sembri seguire alla causa nel tempo è dovuto ai limiti della percezione sensoriale
umana. Causa sive ratio: la causa non è nient’altro che la ragione. Il significato di
questa dottrina è spiegato nel modo migliore da un’analogia. Dati gli assiomi
della geometria euclidea, le proprietà di un cerchio come la lunghezza della
circonferenza, l’area e le proprietà di angoli inscritti sono determinabili
immediatamente come conseguenze logiche necessarie. Di fatto si dice che
Newton si sia chiesto perché qualcuno si desse la pena di copiare i teoremi della
geometria euclidea, visto che essi sono implicati in modo manifesto dagli assiomi.
La maggior parte degli esseri umani impiega nondimeno molto tempo per scoprire
queste proprietà. Ma questa scoperta nel tempo, la quale sembra stabilire una
relazione fra assiomi e teoremi in una medesima sequenza temporale, come causa
ed effetto, è illusoria. Lo stesso vale per i fenomeni fisici. Per l’intelletto divino
tutti i fenomeni sono coesistenti e compresi in una struttura matematica. Sono i
sensi a riconoscere gli eventi uno a uno e a vedere in alcuni le cause di altri.
Possiamo ora intendere, disse Descartes, perché sia possibile la predizione
matematica del futuro; essa lo è perché le relazioni matematiche sono preesistenti.
L’elemento ultimo nella spiegazione fisica è la relazione matematica. Attorno al
93
1650 l’interpretazione matematica della natura divenne così popolare e di moda
da diffondersi in tutt’Europa ed esposizioni del suo principale rappresentante,
Descartes, adorne di rilegature raffinate e dispendiose, adornavano i tavoli da
toeletta delle signore.
Non abbiamo ancora menzionato un altro elemento di importanza vitale nel
Rinascimento. Gli scienziati di questo periodo erano nati ed erano stati educati in
un mondo religioso che aveva anche una filosofia della natura. Questa filosofia,
come sappiamo, diceva che l’universo è stato creato da Dio ed è l’opera delle Sue
mani; la sua natura razionale è inoltre accessibile all’uomo. L’accento cattolico
sulla razionalità della natura e sull’importantissima presenza di Dio era impresso
in ogni intellettuale del Quattrocento e del Cinquecento. Questi uomini
affrontarono perciò il compito di conciliare e fondere gli insegnamenti cattolici e
la concezione matematica della natura propria dei greci. La loro soluzione è forse
ovvia. Alla base dell’universo è un progetto razionale che lo rende comprensibile
all’uomo. Questa posizione di partenza era comune a entrambe le filosofie. Per
eseguire la conciliazione era sufficiente aggiungere che Dio aveva progettato e
creato l’universo in accordo con leggi matematiche. In altri termini, facendo di
Dio un matematico supremo divenne possibile considerare la ricerca delle leggi
matematiche della natura una ricerca religiosa. Lo studio della natura divenne lo
studio della parola di Dio, delle Sue vie e della Sua volontà. L’armonia del mondo
era opera di Dio e, aggiunse Descartes, le leggi della natura rimanevano costanti a
causa dell’eterna invariabilità della volontà divina.
Dio introdusse nel mondo quel rigoroso ordine matematico che gli uomini
comprendono solo a prezzo di grande fatica. La conoscenza matematica è verità
assoluta ed è altrettanto sacrosanta di ogni riga della Scrittura; anzi, di fatto, è
superiore poiché c’è molto disaccordo sulle Scritture mentre non può essercene
sulle verità matematiche. Né, disse Galileo, Dio ci si svela meno mirabilmente
nelle opere della natura che nelle Sacre Lettere.
Cosi l’enfasi cattolica su un universo razionalmente progettato da Dio e
l’accento pitagorico-platonico sulla matematica come realtà fondamentale del
mondo fisico furono fusi in un programma scientifico consistente essenzialmente
in quanto segue: la scienza doveva scoprire le relazioni matematiche soggiacenti a
ogni fenomeno naturale, rivelando così la grandezza e la gloria dell’opera di Dio.
Possiamo vedere che la scienza moderna derivò la sua ispirazione e iniziazione
da una filosofia che affermava il disegno matematico della natura. Il fine della
scienza era, similmente, un fine matematico, ossia la rivelazione di tale disegno.
Come si esprime Randall in Making of the Modern Mind, “la scienza nacque dalla
fede nell’interpretazione matematica della natura, una fede nutrita assai prima di
essere verificata empiricamente.”
La natura dell’attività scientifica quale era considerata dai pensatori del
Rinascimento è spesso intesa in modo scorretto. Molte persone attribuiscono la
nascita della scienza moderna all’introduzione della sperimentazione su vasta
scala e ritengono che le matematiche abbiano svolto solo occasionalmente la
funzione di un utile strumento. La realtà, come abbiamo indicato sopra, fu del
94
tutto opposta. Gli scienziati del Rinascimento si accostarono allo studio della
natura in qualità di matematici; essi cercavano cioè, e si attendevano di trovare,
principi razionali vasti, profondi, immutabili, attraverso l’intuizione o una
percezione sensibile immediata, in un modo molto simile a quello in cui Euclide
trovò presumibilmente i suoi assiomi. Dall’esperienza ci si attendeva scarso aiuto
o addirittura non ci si pensava neppure. Lo scienziato si attendeva di dedurre poi
nuove leggi da questi principi. Lo scienziato del Rinascimento era un teologo il
cui oggetto di studio era non Dio bensì la natura. Per Galileo, Descartes, Huygens
e Newton la parte deduttiva, matematica, dell’impresa scientifica appariva sempre
più ampia della sperimentazione. Galileo stimava un principio scientifico, anche
quando era stato ottenuto attraverso la sperimentazione, assai più in virtù del gran
numero di teoremi che ne scaturivano deduttivamente che non della conoscenza
che forniva di per sé. Egli confessò inoltre di sperimentare raramente e
soprattutto, quando pure lo faceva, per confutare coloro che non seguono la
matematica.
È vero che furono fatti anche esperimenti; la maggior parte di essi furono però
dovuti ad artigiani e a tecnici i quali non ricercavano significati ultimi e leggi
universali bensì conoscenze pratiche, comuni. Inoltre gli esperimenti che furono
compiuti attorno alla metà del Seicento non furono decisivi. Non soltanto la teoria
matematica precedette e dominò la sperimentazione nel periodo formativo della
scienza moderna ma, abbastanza stranamente, la sperimentazione fu considerata
antiscientifica. La svolta verso la sperimentazione fu un movimento
antirazionalistico, contrario alla speculazione interminabile e fino allora sterile di
uno spirito religioso declinante e al dogmatismo religioso che così spesso era
stato trovato in errore. Molto tempo dopo il Rinascimento, gli sperimentalisti e i
teorici si accorsero di stare perseguendo i medesimi obiettivi e unirono allora i
loro sforzi.
Quello che i grandi pensatori del Rinascimento considerarono il procedimento
proprio della scienza si dimostrò di fatto la direzione più feconda. La ricerca
razionale di leggi della natura produsse, all’epoca di Newton, risultati di pregio
sulla base delle più esigue conoscenze osservative e sperimentali. I grandi
progressi dei secoli XVI e XVII ebbero luogo nel campo dell’astronomia, dove
l’osservazione offri ben poco di nuovo, e in quello della meccanica, dove la teoria
matematica raggiunse ampiezza e perfezione sulla base di una sperimentazione
assai limitata. Lo scienziato è raffigurato di solito in un laboratorio ingombro di
equipaggiamenti e congegni complicati; in realtà, durante il Rinascimento, i
principali scienziati lavorarono con carta e penna.
95
IX. L’armonia del mondo
… come crear, distruggere, inventare,
salvare le apparenze, far mutare
la sfera col complesso articolato
di eccentrici e epicicli, d’orbe in orbe.
JOHN MILTON
Sul frontespizio del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico,
pubblicato nel 1543, anno della morte del suo autore, figurava la scritta apposta in
origine sull’ingresso dell’Accademia di Platone: “Non entri qui chi ignora la
geometria.” Il Rinascimento aveva dato i suoi primi frutti.
Forse gli intraprendenti mercanti delle città italiane ricevettero più di quanto si
aspettassero quando contribuirono alla rinascita della cultura greca. Essi si
proponevano semplicemente di promuovere un’atmosfera più libera e invece della
brezza che si aspettavano raccolsero tempesta. Lungi dal continuare ad abitare e
prosperare su un terreno solido, la terra firma, si trovarono aggrappati
precariamente a un globo in rapida rotazione che si muoveva attorno al Sole con
una velocità inconcepibile. Fu probabilmente un misero compenso per questi
mercanti il fatto che la medesima teoria che scosse la Terra e la mise in rotazione
liberasse anche la mente dell’uomo.
Le rinascenti università italiane furono il fertile suolo di queste fioriture del
pensiero. Qui fu inculcata a Niccolò Copernico la convinzione greca che la natura
è un armonioso miscuglio di leggi matematiche e qui anche egli acquistò
familiarità con l’ipotesi – anch’essa in origine greca – del moto planetario attorno
a un Sole in quiete. Nella mente di Copernico queste due idee si fusero.
L’armonia dell’universo richiedeva una teoria eliocentrica ed egli accettò di
muovere cielo e terra pur di stabilirla.
Copernico era nato in Polonia. Dopo aver studiato matematica e scienza
all’Università di Cracovia decise di recarsi a Bologna, dove si impartiva una
preparazione molto superiore. Qui egli studiò astronomia sotto la guida
dell’influente magister Domenico Maria da Novara, un importante pitagorico. Nel
1512 assunse l’incarico di canonico della cattedrale di Frauenburg, nella Prussia
Orientale; i suoi compiti erano quelli di amministratore delle proprietà della
Chiesa e di giudice di pace. Nei restanti trentun anni della sua vita spese però
molto tempo in una piccola torre annessa alla cattedrale a osservare
scrupolosamente i pianeti a occhio nudo e a compiere innumerevoli misurazioni
con rudimentali strumenti fatti in casa. Il tempo libero lasciatogli da tutte queste
96
attività fu da lui dedicato a perfezionare la sua nuova teoria dei moti dei corpi
celesti.
Dopo lunghi anni di osservazioni e di riflessione matematica, Copernico fece
infine circolare un manoscritto che descriveva la sua teoria e le sue ricerche. Il
papa Clemente VII approvò l’opera e ne chiese la pubblicazione. Copernico però
esitò. I papi del Rinascimento si succedevano abbastanza rapidamente e a un papa
liberale poteva succederne uno reazionario. Dieci anni dopo Copernico fu
convinto a consentire alla pubblicazione dal giovane matematico Retico, che se ne
assunse la cura tipografica. Copernico ricevette una copia del libro sul letto di
morte, dove giaceva paralizzato in seguito a un colpo apoplettico. È improbabile
che riuscisse a leggere il libro poiché non si riprese più. Morì poco dopo in quello
stesso anno 1543.
All’epoca in cui Copernico si dedicò a ricerche nel campo dell’astronomia, la
scienza era all’incirca nello stesso stato in cui l’aveva lasciata Tolomeo. Era
diventato però sempre più difficile accordare col cielo di Tolomeo le conoscenze
e le osservazioni della Terra e del cielo accumulate, in gran parte dagli arabi, nel
corso dei secoli. Al tempo di Copernico era necessario ricorrere a un totale di 77
cerchi matematici per render ragione del moto del Sole, della Luna e dei 5 pianeti
con lo schema epiciclico esaminato nel capitolo sesto. Non stupisce che
Copernico accettasse con slancio le possibilità incluse nell’idea greca del moto
planetario attorno a un Sole stazionario.
Già incorporate nella teoria tolemaica erano alcune altre idee greche che
Copernico adottò. Anch’egli credeva che il moto circolare fosse il moto naturale
dei corpi celesti e perciò si servì del cerchio come della curva fondamentale su cui
costruire la sua teoria. Egli suppose perciò che ciascun corpo, ossia la Luna o un
pianeta, si muovesse su un cerchio il cui centro fosse in moto su un altro cerchio.
Per alcuni di questi cerchi suppose che il centro dell’ultimo cerchio si muovesse
su un terzo cerchio e, dove si rivelò necessario, ne introdusse ancora un quarto.
Centro dell’ultimo cerchio egli suppose fosse il Sole, mentre Ipparco e Tolomeo
avevano supposto fosse la Terra. Per una ragione mistica simile a quella dei greci
egli conservò la nozione che ogni corpo o punto si muove lungo il proprio cerchio
a velocità costante, benché il moto apparente del corpo non sia costante. Un
mutamento di velocità, argomentò Copernico, potrebbe essere causato solo da un
mutamento nella forza motrice e poiché Dio, la causa del moto, era immutabile,
l’effetto non poteva non essere costante.
Copernico procedette poi a compiere ciò che pare non fosse mai stato tentato da
nessun greco; eseguì l’analisi matematica richiesta dall’ipotesi eliocentrica.
Usando semplicemente il Sole là dove Ipparco e Tolomeo avevano usato la Terra,
Copernico vide che poteva ridurre il numero totale dei cerchi richiesti da 77 a 31.
Più tardi, per garantirsi un accordo migliore con l’osservazione, perfezionò in
qualche misura la sua teoria collocando il Sole in prossimità, ma non in perfetta
coincidenza, col centro di questi insiemi di cerchi.
Quando Copernico si rese conto della straordinaria semplificazione matematica
resa possibile dall’ipotesi eliocentrica, la sua soddisfazione e il suo entusiasmo
97
furono illimitati. Egli aveva trovato una spiegazione che doveva quindi essere
preferita poiché Copernico, come tutti gli scienziati del Rinascimento, era
convinto che la “Natura si compiace della semplicità e non ricerca lo sfarzo di
cause superflue.” Copernico poteva inoltre gloriarsi di aver osato pensare in tutte
le sue implicazioni ciò che altri, compreso Archimede, avevano rifiutato come
assurdo.
Copernico non portò a termine l’impresa iniziata. Benché l’ipotesi di un Sole in
quiete semplificasse considerevolmente la teoria e i calcoli astronomici, le
traiettorie epicicliche dei pianeti non si adattavano perfettamente alle osservazioni
e i tentativi di Copernico di correggere la sua teoria, sempre sulla base di moti
circolari, non ebbero successo.
Il completamento e l’estensione dell’opera di Copernico, una cinquantina di
anni dopo, sarebbero stati realizzati dal tedesco Keplero. Come la maggior parte
dei giovani di quell’epoca che dimostravano interesse per il sapere, Keplero era
stato avviato al sacerdozio. Mentre studiava all’Università di Tubinga, ricevette
lezioni private sulla teoria copernicana da un insegnante di cui era diventato
amico. La semplicità di questa teoria colpì profondamente Keplero.
Quest’interesse suscitò forse sospetti nei superiori della Chiesa luterana, i quali
misero in dubbio la devozione di Keplero, ne troncarono bruscamente la carriera
ecclesiastica e gli assegnarono la cattedra di matematica e di morale all’Università
di Graz. I suoi compiti richiedevano la conoscenza dell’astrologia cosicché egli
venne a padroneggiare le regole di quest’“arte.” Egli verificò così in pratica le
predizioni che aveva fatto sul proprio destino.
Come attività estranea al curriculum, egli applicò la matematica al matrimonio.
Quando era a Graz aveva sposato una ricca ereditiera. Quando questa morì, egli
fece un elenco delle giovani donne candidate a sostituirla, classificò ciascuna sulla
base di una serie di qualità e fece una media dei punteggi. Poiché le donne sono
notoriamente meno razionali della natura, la candidata classificata al primo posto
si rifiutò di obbedire ai dettati della matematica e declino l’onore di diventare
Frau Kepler. Solo sostituendo un valore numerico più piccolo egli poté soddisfare
l’equazione del matrimonio.
L’interesse di Keplero per l’astronomia persistè ed egli lasciò Graz per
diventare un assistente dell’osservatore più famoso, Tycho Brahe. Alla morte di
Ticone, Keplero gli successe come astronomo ufficiale; parte dei suoi compiti
furono nuovamente di natura astrologica: gli fu chiesto infatti di redigere oroscopi
per dignitari della corte del suo datore di lavoro, l’imperatore Rodolfo II. Egli si
adattò a questo lavoro con la riflessione filosofica che la natura aveva fornito
mezzi di sussistenza a tutti gli animali. Era solito parlare dell’astrologia come
della figlia dell’astronomia che nutriva la propria madre.
Durante gli anni trascorsi come astronomo dell’imperatore Rodolfo, Keplero
svolse la parte più impegnativa del suo lavoro. È estremamente interessante
osservare che né lui né Copernico riuscirono mai a sbarazzarsi dello scolasticismo
da cui la loro epoca stava emergendo. Keplero, in particolare, mescolò nel suo
approccio all’astronomia scienza e matematica con teologia e misticismo così
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come combinò un’immaginazione prodigiosa con una cura estrema e una pazienza
straordinaria.
Colpito dalla bellezza e dalle relazioni armoniose del sistema copernicano,
decise di dedicarsi alla ricerca di qualsiasi ulteriore armonia geometrica che
potesse essere suggerita dai dati delle osservazioni di Brahe e inoltre di trovare le
relazioni matematiche che collegavano insieme tutti i fenomeni della natura. La
sua inclinazione a voler adattare l’universo a un modello matematico preconcepito
gli fece spendere però anni interi seguendo false tracce. Nella prefazione al suo
Mysterium cosmographicum (1596) Keplero scrive:
In questo piccolo libro, caro lettore, mi sono proposto di dimostrare che il Creatore Ottimo
Massimo, nella creazione di questo nostro mondo mobile e nella disposizione dei cieli, ha
guardato a quei cinque corpi regolari che hanno goduto di così gran fama dai tempi di Pitagora
e Platone sino ai nostri giorni, e che alla loro natura ha uniformato il numero e la proporzione
dei cieli, e i rapporti dei moti celesti.
Egli postulò pertanto che i raggi
delle orbite dei pianeti fossero i
raggi delle sfere associate ai
cinque solidi regolari nel modo
seguente. Il raggio più grande era
quello dell’orbita di Saturno. Egli
suppose che in una sfera di questo
raggio fosse inscritto un cubo. In
questo cubo era inscritta a sua
volta una sfera il cui raggio era
quello dell`orbita di Giove. In
questa sfera supponeva fosse
inscritto un tetraedro e in questo
un’altra sfera, il cui raggio era
quello dell’orbita di Marte, e così
via fino a utilizzare tutti e cinque i
solidi regolari (tavola V). Lo
schema richiedeva sei sfere, le
quali si adattavano perfettamente
al numero dei pianeti noti a
quell’epoca. La bellezza e
l’armonia dello schema lo convinsero a tal punto che per qualche tempo sostenne
che potevano esistere solo sei pianeti poiché c’erano solo cinque solidi regolari
che potevano determinarne le distanze.
Benché la pubblicazione di quest’ipotesi “scientifica” rendesse Keplero famoso
e costituisca una lettura affascinante ancor oggi, le deduzioni da tale ipotesi non
erano purtroppo in accordo con le osservazioni. Keplero abbandonò con riluttanza
Tavola V Le orbite dei pianeti come effetto
di Cinque Solidi Regolari, da L’Armonia del
Cosmo (1596) di Keplero
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quest’idea ma non prima di aver compiuto sforzi straordinari per applicarla in una
forma modificata.
Se il tentativo di usare i cinque solidi regolari per scoprire i segreti della natura
non ebbe un esito positivo, Keplero ebbe invece un grande successo negli sforzi
che compì più tardi per trovare relazioni matematiche armoniche. I suoi risultati
più famosi e importanti sono noti oggi come le tre leggi di Keplero dei moti
planetari. Queste leggi divennero così famose e così preziose per la scienza da
valere a Keplero il titolo di “legislatore del cielo.”
La prima di queste leggi dice che l’orbita di ogni pianeta non è un cerchio bensì
un’ellisse di cui il Sole non occupa il centro bensì un punto leggermente spostato,
noto come il fuoco dell’ellisse (fig. 18). La sostituzione dell’ellisse al cerchio
eliminò quel bisogno di più moti circolari sovrapposti l’uno all’altro che la teoria
epiciclica utilizzava per descrivere il moto di un pianeta. (È degno di nota il fatto
che Keplero utilizzò una conoscenza matematica che era stata sviluppata dai greci
quasi duemila anni prima.) La semplicità ottenuta grazie all’introduzione
dell’ellisse lo convinse a rinunciare ai tentativi di usare moti circolari uniformi.
Fig. 18. Illustrazione della prima e seconda legge di Keplero.
La seconda legge di Keplero concerne le velocità dei pianeti. Copernico, come
abbiamo visto, insisté sul principio della velocità costante, secondo il quale ogni
pianeta si muove sul suo cerchio di moto uniforme; il centro di questo cerchio si
muoveva con velocità costante su un altro cerchio e così via. Keplero tenne fermo
dapprima alla dottrina secondo cui ogni pianeta si muove lungo la propria ellisse a
una velocità costante ma le osservazioni lo costrinsero infine ad abbandonare
questa convinzione, per quanto grata gli fosse. Fu grande la sua gioia quando
scoprì che poteva sostituirla con una legge altrettanto elegante, la quale rafforzava
la sua convinzione che la natura fosse matematica.
Se MM' e NN' (fig. 18) sono le distanze percorse da un pianeta in intervalli di
tempo uguali, allora, secondo il principio della velocità costante, MM' e NN'
dovrebbero essere distanze uguali. Per la seconda legge di Keplero, tuttavia, MM'
e NN' sono in generale disuguali ma tali che, essendo O la posizione del Sole,
100
sono uguali le aree OMM' e ONN'. Keplero sostituì così a distanze uguali aree
uguali e il disegno matematico dell’universo rimaneva intatto. Strappare al cielo
un tale segreto era di fatto un trionfo, poiché la relazione descritta non è affatto
così facilmente discernibile come può apparire qui sulla carta. Keplero pubblicò
questa legge e la legge del moto ellittico nell’anno 1609, nel libro intitolato
Astronomia nova.
La terza legge di Keplero è altrettanto famosa delle prime due. Essa dice che il
quadrato del tempo di rivoluzione di ogni pianeta è proporzionale al cubo della
sua distanza media dal Sole; ossia, che il rapporto delle due quantità è il
medesimo per tutti i pianeti. Questa formula può essere usata per calcolare il
periodo di rivoluzione di ogni pianeta a partire dalla sua distanza media dal Sole
oppure, conoscendo il periodo di rivoluzione, per calcolare la distanza media dal
Sole.
È chiaro che concetti matematici e leggi matematiche sono l’essenza della
nuova teoria astronomica. Ciò che è però ancor più significativo è il fatto che la
sua eccellenza matematica la rese cara sia a Copernico sia a Keplero nonostante ci
fossero molti gravi argomenti in contrario. Di fatto, se Copernico o Keplero
fossero stati meno matematici e più scienziati, o uomini animati da una religiosità
cieca, o anche se fossero stati quelli che il mondo chiama uomini giudiziosi, non
avrebbero mai potuto tener duro. Le obiezioni scientifiche a una Terra in moto
erano numerose. Né era possibile spiegare come la grave materia della Terra
potesse essere messa e mantenuta in movimento, una questione di grande peso
posta da uomini secondo i quali soltanto i corpi celesti erano leggeri e potevano
pertanto esser mossi facilmente. La risposta migliore che Copernico potesse dare
era che per una sfera fosse naturale muoversi. Altrettanto difficile era rispondere
alla seguente obiezione: perché la rotazione della Terra non causa la proiezione di
oggetti nello spazio allo stesso modo in cui un oggetto fatto ruotare al capo di una
funicella tende a volar via? In particolare, perché la Terra stessa non si dissolve in
frantumi? La prima domanda rimaneva del tutto senza risposta. All’ultima
Copernico rispondeva che, essendo il moto naturale, non avrebbe potuto avere
l’effetto di distruggere il corpo. Egli contrattaccava a sua volta chiedendo come
mai il cielo non cadesse in pezzi sotto l’effetto del moto supposto dall’ipotesi
geocentrica. Del tutto senza risposta restava anche l’obiezione, legata alla prima
domanda, che se la Terra ha una rotazione da occidente a oriente, un oggetto
scagliato in aria dovrebbe ricadere a ovest rispetto alla posizione da cui è stato
lanciato. E ancora se, come avevano praticamente ritenuto tutti gli scienziati
dall’epoca dei greci, il moto di un oggetto è proporzionale al suo peso, perché la
Terra, nel Suo moto attorno al Sole, non si lasciava indietro gli oggetti di minor
peso? Anche l’aria che circonda la Terra dovrebbe essere lasciata indietro. Benché
Copernico non potesse render ragione del fatto che tutti gli oggetti che si trovano
sulla Terra si muovono con essa, si “sbarazzò” del moto dell’aria sostenendo che
essa partecipa della natura della terra e pertanto ruota in simpatia con la Terra.
Tutte le obiezioni scientifiche alla nuova teoria eliocentrica erano genuine e
derivavano dal fatto che quell’epoca accettava ancora la fisica aristotelica. Le
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obiezioni non potevano trovare risposte soddisfacenti e non le trovarono infatti
fino alla creazione della fisica newtoniana.
Le argomentazioni scientifiche contro il copernicanesimo furono compendiate
nel 1622 niente meno che da Francesco Bacone, il padre della scienza empirica:
Nel sistema di Copernico si trovano molti e grandi inconvenienti: poiché l’attribuzione alla
Terra di un triplice moto è assai scomoda, e altrettanto difficile è la separazione del Sole dalla
compagnia dei pianeti con i quali ha tante passioni in comune e così pure l’introduzione di una
così grande immobilità in natura, quale si ha rappresentando come immobili il Sole e le stelle...
Tutte queste sono speculazioni di uno che non si preoccupa delle finzioni che introduce in
natura purché i suoi calcoli tornino.
Benché le argomentazioni di Bacone non fossero particolarmente brillanti,
l’opposizione di un uomo della sua reputazione e abilità non poteva esser messa
facilmente da parte. Il conservatorismo di Bacone era dovuto, per inciso, alla sua
incapacità di apprezzare l’importanza della misurazione esatta, pur con tutta la sua
insistenza sull’osservazione.
Se Copernico e Keplero fossero stati uomini “pratici”, più “ragionevoli”, non
avrebbero mai sfidato i loro sensi. Noi non percepiamo né la rotazione né la
rivoluzione della Terra nonostante che la teoria copernicana ci assegni una
velocità elevatissima. D’altra parte percepiamo in apparenza il moto del Sole. Per
il famoso astronomo Tycho Brahe, grandissimo osservatore, queste e altre
argomentazioni erano una prova conclusiva del fatto che la Terra dev’essere
stazionaria. Per usare le parole di Henry More, “i sensi sostengono la causa di
Tolomeo.”
Se Copernico e Keplero avessero aderito alla religione in modo cieco e
ortodosso, non sarebbero stati disposti a investigare le possibilità di un’ipotesi
eliocentrica. La teologia medievale, sostenuta dal sistema tolemaico, vedeva
nell’uomo il centro dell’universo e la pupilla degli occhi di Dio, per il quale Dio
aveva creato appositamente il Sole, la Luna e le stelle. Ponendo il Sole al centro
dell’universo, la teoria eliocentrica negava questo dogma confortante. Essa faceva
apparire l’uomo come uno tra i numerosi possibili viandanti su molti pianeti che,
a loro volta, vagavano per un freddo cielo. Egli era un insignificante granello di
polvere su un globo roteante invece che un attore protagonista sulla scena
centrale. Era perciò improbabile che egli fosse nato per vivere gloriosamente e
raggiungere dopo la morte il paradiso o che egli fosse l’oggetto delle cure speciali
di Dio. Il sacrificio di Cristo per un essere insignificante come l’uomo appariva
vano. Il cielo come sede di Dio, la destinazione dei santi e di un Dio asceso dalla
Terra, e il paradiso cui i buoni potevano aspirare, veniva infranto dal passaggio di
una Terra in rapido movimento. In breve, la distruzione dell’ordine tolemaico
dell’universo smuoveva le pietre angolari dell’edificio cristiano e minacciava di
far crollare l’intera struttura.
La propensione di Copernico a combattere il pensiero religioso è in chiara
evidenza in un passo della lettera dedicatoria al papa Paolo III:
102
Se ci saranno ciarlatani che, pur essendo completamente digiuni di matematica, ardiranno
nondimeno tranciar giudizi su questioni matematiche fondandosi su qualche luogo della
scrittura sconvenientemente distorto ai loro fini, e oseranno trovare a ridire sulla mia opera e
criticarla, li ignorerò al punto di disprezzare il loro giudizio come temerario.
La religione, la scienza fisica, il senso comune e la stessa astronomia si
piegavano alla matematica per ordine di Copernico e di Keplero. Essi dovettero
combattere molte dottrine astronomiche stabilite o nella teoria tolemaica o in
abbellimenti medievali delle dottrine di Aristotele. Si riteneva, ad esempio, che i
pianeti, il Sole e la Luna fossero perfetti, inalterabili, incorruttibili, mentre la
Terra aveva le qualità contrarie. La nuova teoria classificava la Terra insieme agli
altri pianeti. L’ipotesi di una Terra in movimento richiede inoltre il moto delle
stelle relativamente alla Terra. Le osservazioni compiute da astronomi del
Cinquecento e del Seicento non riuscirono però a mettere in evidenza questo moto
relativo. Ora, nessuna ipotesi scientifica che sia in contraddizione anche con un
solo fatto è realmente sostenibile. Copernico e Keplero tennero nondimeno fermo
alla loro concezione eliocentrica. Questi amanti della matematica stavano
costruendo una bella teoria. Se la teoria non si adattava a tutti i fatti, tanto peggio
per i fatti.
Copernico, pur mantenendosi deliberatamente nel vago sulla questione del
moto della Terra relativamente alle stelle, si sbarazzò dapprima del problema
affermando che le stelle si trovano a una distanza infinita. Evidentemente non era
però troppo soddisfatto di quest’affermazione e quindi lasciò il problema ai
filosofi. La vera spiegazione, che le stelle sono lontanissimo dalla Terra, così
lontane da renderne il moto relativo non rilevabile, non era accettabile per i
“greci” del Rinascimento, i quali credevano ancora in un universo chiuso e
limitato. Le vere distanze erano molto oltre qualsiasi misura che essi potessero
concepire come ragionevole. Di fatto, il problema di render conto del moto delle
stelle relativamente alla Terra non fu risolto fino all’anno 1838, quando il
matematico Bessel misurò infine la parallasse della stella più vicina e trovò che
era di 0”,76.
In considerazione di tutti questi argomenti e forze che agivano contro la nuova
teoria, perché Copernico e Keplero la sostennero? Sapendo che le grandi
esplorazioni della loro epoca richiedevano un’astronomia più precisa, si sarebbe
tentati di assegnare la motivazione della loro opera al bisogno di informazioni
geografiche più attendibili e a tecniche di navigazione perfezionate. Copernico e
Keplero non si occuparono però affatto di questi problemi pratici, per quanto
urgenti. Ciò di cui questi uomini furono debitori nei confronti del loro tempo fu
l’opportunità di entrare in contatto col pensiero greco, un’opportunità fornita dalla
rinascita della cultura in Italia. Copernico, come abbiamo visto, studiò appunto in
Italia e Keplero beneficiò dell’opera di Copernico. Entrambi gli uomini dovettero
dunque al loro tempo un’atmosfera certamente più favorevole all’accettazione di
nuove idee di quella che c’era stata due secoli prima. Le esplorazioni geografiche,
103
la Rivoluzione protestante e tanti altri movimenti che avevano un largo seguito
stavano sfidando il conservatorismo e la compiacenza di sé, tanto che una nuova
teoria non aveva bisogno di affrontare l’urto della naturale opposizione al
mutamento.
Di fatto, Copernico e Keplero svilupparono le loro teorie, per quanto
rivoluzionarie, per soddisfare taluni interessi filosofici e religiosi.
Avendo tratto dal pitagorismo la convinzione che l’universo è una struttura
sistematica, armonica, la cui essenza è una legge matematica, essi si dedicarono a
scoprirne l’essenza, Le opere edite di Copernico forniscono indicazioni
inequivocabili, anche se indirette, delle ragioni che lo indussero a dedicarsi
all’astronomia. Egli apprezzò la sua teoria del moto planetario non per il fatto che
essa consente di perfezionare certe tecniche utili alla navigazione ma perché
rivela la vera armonia, simmetria e disegno dell’opera divina. Essa è una prova
meravigliosa e incontestabile della presenza di Dio. Descrivendo i risultati dei
suoi studi, che rimasero in fieri trent’anni, Copernico espresse la sua
soddisfazione:
Noi troviamo in quest’ordine la mirabile armonia del mondo e una relazione certa tra il moto
e la grandezza degli orbi, quale non si può trovare in altro modo.
Nella prefazione alla sua opera principale, il De revolutionibus, egli dice che il
Concilio Lateranense gli aveva chiesto di contribuire alla riforma del calendario,
che nel corso di un periodo di più secoli si era allontanato sempre più dalla realtà
astronomica. Pur scrivendo di aver considerato il problema, è evidente che non vi
si impegnò mai.
Anche Keplero manifestò quali erano i suoi interessi più profondi. Le sue opere
edite, il frutto delle sue fatiche, attestano la sincerità della ricerca dell’armonia e
della legge nelle creazioni del potere divino. Nella prefazione al Mysterium
cosmographicum egli scrisse:
Felice colui che si dedica allo studio del cielo; egli impara ad attribuir meno valore a ciò che
il mondo ammira di più; le opere di Dio sono per lui al di sopra di ogni altra cosa e il loro
studio fornirà le gioie più pure.
Un trattato maggiore, intitolato Harmonice mundi, edito da Keplero nel 1619,
esponeva di fatto un sistema di armonie celesti, una nuova “musica delle sfere”,
che faceva uso delle mutevoli velocità dei sei pianeti. Queste armonie venivano
sentite dal Sole, a cui Keplero attribuì un’anima esclusivamente a questo fine. Per
evitare che qualcuno consideri questo trattato una caduta nel misticismo poetico,
ci affrettiamo a dire che esso annunciava anche la famosa terza legge dei moti
planetari.
L’opera di Copernico e di Keplero fu l’opera di uomini che indagavano
l’universo alla ricerca di quell’armonia che, secondo le loro concezioni
scientifico-religiose, doveva immancabilmente esistere, ed esistere in una forma
104
matematica esteticamente soddisfacente. È vero che anche la teoria tolemaica
offriva leggi matematiche dell’universo e Copernico e Keplero ammisero che
poiché l’astronomia era geometria e la geometria era verità, entrambe le teorie
potevano esser vere poiché entrambe erano buona geometria. La nuova teoria era
però matematicamente più semplice e più armoniosa.
Per uomini convinti che un essere onnipotente che avesse progettato un
universo matematico avrebbe preferito certamente questi caratteri superiori, la
nuova teoria era necessariamente giusta. Di fatto soltanto un matematico che
avesse la certezza che l’universo sia ordinato in modo razionale e semplice
avrebbe avuto la fermezza mentale di opporsi alle dominanti convinzioni
filosofiche, religiose e scientifiche e la perseveranza di elaborare la parte
matematica di un’astronomia tanto rivoluzionaria. Soltanto uomini in possesso di
convinzioni incrollabili circa l’importanza della matematica nel disegno
dell’universo avrebbero osato sostenere la nuova teoria contro la potente
opposizione in cui si sarebbe sicuramente imbattuta. È un fatto storico che
Copernico si rivolse ai soli matematici perché si attendeva che solo questi lo
capissero e da questo punto di vista non andò deluso.
Ammesso che sia stata la superiore matematica della nuova teoria a indurre
Copernico e Keplero, e più tardi Galileo, a ripudiare convinzioni religiose,
argomenti scientifici, senso comune e abiti mentali ben consolidati, in che modo
la teoria contribuì a formare i tempi moderni?
Innanzitutto, la teoria copernicana ha fatto, per determinare il contenuto della
scienza moderna, più di quanto venga generalmente riconosciuto. La singola
legge scientifica più importante e più utile è la legge newtoniana della
gravitazione. Senza anticiparne qui la discussione, che rimandiamo a un luogo più
appropriato di questo libro, possiamo dire che la migliore prova sperimentale per
questa legge, quella da cui essa viene fondata, dipende per intero dalla teoria
eliocentrica.
In secondo luogo, questa teoria è responsabile di un nuovo orientamento nella
scienza e nel pensiero umano, un orientamento appena percepibile a quell’epoca
ma di primaria importanza oggi. Poiché i nostri occhi non vedono la rotazione e la
rivoluzione della Terra, la nuova teoria rifiutò l’evidenza dei sensi. Le cose non
sono quel che sembrano. I dati sensoriali potrebbero essere svianti e la ragione è
l’unica guida attendibile. Copernico e Keplero posero quindi il precedente che
guida la scienza moderna, ossia che nella comprensione e nell’interpretazione
dell’universo la ragione e la matematica sono più importanti dell’evidenza dei
sensi. Grandi parti della teoria elettrica e di quella atomica e l’intera teoria della
relatività non sarebbero mai state concepite se gli scienziati non fossero
addivenuti ad accettare quella fiducia totale nella ragione esemplificata per la
prima volta dalla teoria copernicana. In questo senso molto significativo
Copernico e Keplero aprirono l’Età della Ragione, oltre a svolgere la funzione
cardinale di scienziati e matematici, cioè di fornire una comprensione razionale
dell’universo.
105
Riducendo a proporzioni più modeste le ambizioni dell’Homo sapiens, la teoria
copernicana riapriva questioni a cui i custodi della civiltà occidentale avevano
dato una risposta dogmatica sulla base della teologia cristiana. Una volta c’era
stata una sola risposta; ora c’erano molte risposte a domande fondamentali come
le seguenti: Perché l’uomo desidera vivere e a qual fine? Perché dovrebbe esser
morale e ispirarsi nella sua vita a princìpi etici? Perché dovrebbe cercare di
preservare la razza? Una cosa è rispondere a tali domande nella convinzione che
l’uomo sia il figlio e pupillo di un Dio generoso, potente e provvidente; una cosa
del tutto diversa è rispondere ad esse sapendo che l’uomo è un granello di polvere
trasportato da un ciclone.
La teoria copernicana gettò tali domande in faccia a tutti gli esseri umani
pensanti, che proprio in quanto esseri pensanti non poterono respingere la sfida.
Le loro lotte per recuperare il loro equilibrio mentale, che era ancor più sconvolto
dall’opera matematica e scientifica seguita a Copernico e Keplero, forniscono la
chiave per la comprensione della storia del pensiero degli ultimi secoli.
Molti elementi si colgono nella letteratura postkepleriana, nella quale è
evidente l’agitazione creata dalle nuove e inquietanti idee. Il metafisico John
Donne, benché soddisfatto dello scolasticismo enciclopedico e sistematico in cui
era stato educato, fu costretto a riconoscere l’indesiderabile complessità a cui
aveva condotto la teoria tolemaica:
Pensiam gioisca il ciel della sua tonda
sferica proporzion che il tutto abbraccia,
eppure il corso vario e avviluppato,
osservato nei secoli, costringe
l’uomo a inventar tante eccentriche parti,
tante linee traverse e differenti
da sfigurare quella forma pura.
Benché le argomentazioni a favore del copernicanesimo fossero chiare a
Donne, egli poteva solo deplorare che il Sole e i pianeti non si muovessero più in
cerchio attorno alla Terra.
Anche Milton meditò sulla sfida lanciata alla teoria tolemaica ma non fece
alcuna scelta decisiva. Entrambe le teorie sono descritte nel Paradiso perduto.
Incapace di affrontare la nuova matematica sul suo terreno, egli ne rimproverò
invece i creatori. L’uomo dovrebbe ammirare, non interrogare, le opere di Dio.
Saggiamente decise l’Architetto divino
i suoi disegni di tenere per sé, segreti e sconosciuti all’uomo
e agli angeli, e accessibili soltanto
a colui che desideri ammirarli...
D’altri pensieri non gravar la mente,
ma serbala a Dio sol...
…umile e saggio;
quel che sol te concerne e l’esser tuo pensa...
106
Eppure anche Milton era inconsapevolmente indotto ad accettare uno spazio
più misterioso e più vasto, ad esempio, dello spazio compatto e minuziosamente
definito di Dante.
Le garbate rimostranze dei poeti, più moderati, la satira di Ben Jonson, le
argomentazioni scientifiche di Bacone e le espressioni di gelosia personale, di
scherno, dei professori, le confutazioni matematiche del brillante Cardano, il
risentimento degli astrologi che temevano per i loro mezzi di sussistenza, lo
scetticismo di Montaigne, il rifiuto totale da parte di Shakespeare e la menzione
condiscendente da parte di John Milton valsero a Copernico la fama di un nuovo
Duns Scoto, il dotto pazzo. Nel 1597 Galileo scrisse a Keplero, descrivendo
Copernico come un uomo che, “pur essendosi procurato fama immortale fra i
pochi, è nondimeno oggetto di ridicolo e di scherno presso i più.”
Ma l’opinione dei pochi prevalse. La rivoluzione culturale acquistò peso; la
gente fu costretta a pensare, a mettere in discussione i dogmi esistenti e a
riesaminare convinzioni accettate da molto tempo. Da queste critiche e dal
riesame emersero molti fra i principi filosofici, religiosi ed etici ora accettati
senza discussione nella civiltà occidentale. Ma il contributo di gran lunga più
importante della teoria eliocentrica ai tempi moderni è quello dato alla lotta per la
libertà di pensiero e d’espressione. Il trattamento ricevuto in principio dalla teoria
eliocentrica illustra una generalizzazione abbastanza sicura: la reazione al
mutamento è reazionaria. Poiché l’uomo è conservatore, una creatura abitudinaria,
e convinto della sua propria importanza, la nuova teoria fu decisamente sgradita.
Inoltre gli interessi costituiti di dotti e capi religiosi ben sistemati nelle posizioni
di potere indussero questi a opporsi. La lotta più importante nella storia, quella
per la libertà della mente umana, fu associata al problema del diritto a sostenere
l’eliocentrismo. Fra gli anticopernicani più violenti furono i protestanti, che pure
avevano rotto anch’essi col tradizionalismo.
Gli autonominatisi rappresentanti di Dio diedero l’avvio alla lotta con attacchi
non certo leali. Martin Lutero definì Copernico “un astrologo venuto fuori
recentemente” e “un pazzo che desidera sconvolgere l’intera scienza
dell’astronomia.” Calvino tuonò: “Chi ardirà porre l’autorità di Copernico al di
sopra di quella dello Spirito Santo?” Non dicono forse le Scritture che Giosuè
comandò al Sole e non alla Terra di fermarsi? Che il Sole si muove da un capo
all’altro del cielo? Che le fondazioni della Terra sono salde e non possono essere
scosse? Impariamo come si va al cielo e non come va il cielo, protestava un
cardinale. L’Inquisizione condannò la nuova teoria come “quella falsa dottrina
pitagorica, totalmente contraria alla Sacra Scrittura”, e nel 1616 l’Indice dei libri
proibiti bandiva tutte le pubblicazioni attinenti al copernicanesimo. Di fatto, se il
furore e l’alto livello dell’opposizione sono una buona indicazione
dell’importanza di un’idea, nessuna idea più importante di quella copernicana fu
più avanzata in futuro.
Lo spirito di ricerca fu così scosso in quest’epoca che quando Galileo scoprì i
quattro satelliti di Giove, alcuni scienziati e religiosi si rifiutarono di applicar
107
l’occhio al cannocchiale per vederli a loro volta. E molti che si lasciarono tentare
si rifiutarono di credere ai propri occhi. Fu questo atteggiamento di bigotteria a
rendere pericolosa l’adesione alla nuova ipotesi. Si rischiava la fine di Giordano
Bruno, che era stato mandato a morte dall’Inquisizione “nel modo più
misericordioso possibile e senza spargimento di sangue,” la terribile formula che
indicava la morte sul rogo.
Nonostante la precedente proibizione ecclesiastica di opere sul
copernicanesimo, il papa Urbano VIII consentì a Galileo di pubblicare un libro
sull’argomento; il papa riteneva infatti che nessuno avrebbe mai potuto
dimostrare che la teoria di Copernico fosse necessariamente vera. Nel 1632 uscì
dunque il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in cui Galileo metteva a
confronto le dottrine geocentriche e quelle eliocentriche. In omaggio alla Chiesa e
per superare senza ostacolo lo scoglio dei censori, Galileo incluse una prefazione
in cui si sosteneva che l’eliocentrismo era solo un prodotto dell’immaginazione.
Galileo scriveva però troppo bene e il papa cominciò a temere che le
argomentazioni a favore dell’eliocentrismo, come una bomba a scoppio ritardato,
potessero provocare gravi danni alla fede cattolica. La Chiesa insorse ancora una
volta contro un’eresia “più scandalosa, più detestabile e più perniciosa per la
cristianità di quelle contenute nei libri di Calvino, di Lutero e di altri eretici messi
insieme.” Galileo fu convocato a Roma dall’Inquisizione e costretto, sotto la
minaccia della tortura, a dichiarare che sull’erroneità del sistema copernicano non
possono sussistere dubbi, specialmente da parte dei cattolici.
La minaccia del rogo, della ruota, della forca e di vari e ingegnosi strumenti di
tortura contribuì indubbiamente molto più all’ortodossia che al progresso
scientifico. Sentendo parlare della persecuzione di cui era stato oggetto Galileo,
Descartes, che era individuo timoroso e apprensivo, rinunciò a sostenere la nuova
teoria e distrusse alcune sue opere che ne trattavano.
La teoria eliocentrica divenne nondimeno un’arma potente con cui combattere
contro la repressione della libertà di pensiero. La verità (almeno nel Seicento e
Settecento) della nuova teoria e la sua incomparabile semplicità attrassero sempre
più seguaci man mano che la gente si rese gradualmente conto che gli
insegnamenti dei capi religiosi potevano essere soggetti a errore. Divenne presto
impossibile per questi capi conservare la loro autorità su tutta l’Europa e fu
preparata la via al libero pensiero in tutti i campi. Certo l’emancipazione della
scienza dalla teologia data da questa controversia.
L’importanza di questa battaglia e il suo esito favorevole non dovrebbero andar
perduti per noi. Coloro che ancora posseggono e coloro che hanno perduto le
libertà acquistate in epoca così recente nella civiltà occidentale non possono non
apprezzare quanto era in gioco nella battaglia per far progredire la teoria
eliocentrica e quanto dobbiamo agli uomini di intelletto gigantesco e di coraggio
straordinario che intrapresero la lotta. Fortunatamente per noi, gli stessi roghi che
hanno consumato i martiri della libertà di pensiero hanno anche diradato le
tenebre del Medioevo. La lotta per imporre la teoria eliocentrica allentò anche la
stretta mortale del clericalismo sulla mente dell’uomo. Le argomentazioni
108
matematiche si rivelarono più cogenti di quelle teologiche e la battaglia per la
libertà di pensiero e di espressione fu finalmente vinta. La Dichiarazione
d’indipendenza scientifica è una collezione di teoremi matematici.
109
X. Pittura e prospettiva
Il mondo è il libro dove il Senno eterno
scrisse i propri concetti, e vivo tempio
dove, pingendo i gesti e ‘l proprio esempio,
di statue vive ornò l’imo e ‘l superno.
TOMMASO CAMPANELLA
Nel Medioevo la pittura, che aveva un po’ la funzione di ancella della Chiesa,
si concentrò sull’abbellimento delle idee e delle dottrine del cristianesimo. Verso
la fine di questo periodo anche i pittori cominciarono a interessarsi al mondo
naturale. Ispirati dalla nuova enfasi sull’uomo e sull’universo, gli artisti del
Rinascimento osarono porsi di fronte alla natura, studiarla in modo approfondito e
minuzioso e ritrarla realisticamente. I pittori rivissero la gloria e la felicità di un
mondo vivo e riprodussero belle forme che attestavano l’incanto dell’esistenza
fisica, il diritto inalienabile a soddisfare desideri naturali e i piaceri offerti dalla
terra, dal mare e dall’aria.
Per varie ragioni il problema di dipingere il mondo reale condusse i pittori del
Rinascimento alla matematica. La prima ragione è di ordine generale e potrebbe
operare in ogni epoca in cui l’artista cerchi di riprodurre i suoi oggetti
realisticamente. Privati di colore e di sostanza, gli oggetti collocati dai pittori sulla
tela sono corpi geometrici situati nello spazio. Il linguaggio per occuparsi di
questi oggetti idealizzati, le proprietà che essi posseggono in quanto
idealizzazioni e le relazioni esatte descritte dalle loro collocazioni relative nello
spazio sono tutti compresi nella geometria euclidea. Gli artisti hanno bisogno
soltanto di utilizzarla.
Gli artisti del Rinascimento si volsero alla matematica non soltanto perché
cercavano di riprodurre la natura bensì anche perché erano influenzati dalla
recuperata filosofia dei greci. Essi acquistarono piena familiarità con la dottrina
secondo cui la matematica è l’essenza del mondo reale, secondo cui l’universo è
ordinato e spiegabile razionalmente in termini geometrici. Perciò, come i filosofi
greci, essi ritenevano che, per penetrare il significato riposto, ossia la realtà
dell’argomento che cercavano di dispiegare sulla tela, fosse necessario ridurlo al
suo contenuto matematico. Un esempio molto interessante del tentativo
dell’artista di scoprire l’essenza matematica del suo tema si trova in uno degli
studi di Leonardo sulla proporzione. In esso egli cercò di adattare la struttura
dell’uomo ideale alle figure ideali, quelle del quadrato e del cerchio (tavola VI).
110
L’assoluta utilità della
matematica per una descrizione
esatta e la filosofia che vedeva
nella matematica l’essenza della
realtà sono soltanto due fra le
ragioni per cui gli artisti del
Rinascimento cercavano di
usare la matematica. C’era però
anche un’altra ragione. Gli
artisti del Basso Medioevo e del
Rinascimento erano anche
architetti e ingegneri ed erano
pertanto necessariamente inclini
alla matematica. Uomini
d’affari, principi secolari e
funzionari ecclesiastici
assegnavano tutti agli artisti
problemi di costruzione. Questi
progettavano e costruivano
chiese, ospedali, palazzi,
monasteri, ponti, fortezze,
dighe, canali, mura urbane e
macchine da guerra. Numerosi
disegni di tali progetti
d’ingegneria si trovano fra gli
appunti di Leonardo; questi,
offrendo i suoi servigi a
Ludovico il Moro, signore di Milano, gli promise di prestare presso di lui opera
come ingegnere, costruttore di opere militari e progettista di macchine belliche,
oltre che come architetto, scultore e pittore. Da un artista ci si attendeva anche una
soluzione dei problemi connessi al moto di una palla di cannone, un compito che
richiedeva conoscenze matematiche per quell’epoca relativamente approfondite.
Non è esagerato affermare che l’artista del Rinascimento era il miglior
matematico pratico e che nel Quattrocento fu anche il più dotto e compiuto
matematico teorico.
Il problema specifico che impegnò i talenti matematici dei pittori del
Rinascimento e di cui noi dobbiamo occuparci qui fu quello di dipingere
realisticamente sulla tela scene dotate della terza dimensione, quella della
profondità. Gli artisti risolsero questo problema creando un sistema di prospettiva
matematica totalmente nuovo e modificando di conseguenza l’intero stile della
pittura.
I vari sistemi usati in tutta la storia della pittura per organizzare i soggetti
sull’intonaco e sulla tela, ossia i vari sistemi di prospettiva, possono essere
suddivisi in due classi principali: concettuale e ottico. Un sistema concettuale
Tavola VI Leonardo da Vinci, Le proporzioni
della figura umana, Accademia, Venezia
111
intraprende l’organizzazione delle persone e degli oggetti in accordo a qualche
dottrina o principio che ha poco o nulla a che fare con la vera apparenza della
scena stessa. Ad esempio, la pittura e i rilievi egizi erano in gran parte concettuali.
La grandezza delle persone era spesso ordinata in relazione alla loro importanza
nella gerarchia politico-religiosa. Il faraone era di solito la persona più importante
ed era quello che aveva le dimensioni maggiori. La moglie del faraone gli seguiva
immediatamente come grandezza e i suoi servi erano ancora più piccoli. Vista di
profilo e frontale erano usate simultaneamente anche per parti diverse della
medesima figura. Al fine di indicare una serie di persone o di animali l’uno dietro
l’altro veniva ripetuta una medesima figura con piccoli spostamenti. La pittura
moderna, come la maggior parte della pittura giapponese e cinese, è anch’essa
concettuale (vedi più avanti tavola XXVII).
Un sistema di prospettiva ottico cerca invece di dare all’occhio la stessa
impressione che gli verrebbe dalla medesima scena nella realtà. Benché la pittura
greca e romana fosse primariamente ottica, l’influenza del misticismo cristiano
fece volgere gli artisti a un sistema concettuale che dominò per tutto il Medioevo.
Tavola 1 Primi Mosaici Cristiani, Abramo con gli angeli, San Vitale Ravenna
Gli artisti protocristiani e altomedievali si accontentavano di dipingere in
termini simbolici; i loro scenari e i soggetti trattati erano intesi cioè a illustrare
temi religiosi e a indurre sentimenti religiosi più che a rappresentare persone reali
112
nel mondo attuale e presente. Le persone e gli oggetti erano altamente stilizzati e
disegnati come se esistessero in uno spazio piano, bidimensionale. Figure che
avrebbero dovuto essere una dietro l’altra erano di solito l’una accanto all’altra o
l’una sopra l’altra. Erano tipici drappeggi rigidi e atteggiamenti angolosi. Lo
sfondo era quasi sempre in un colore uniforme, di solito oro, come per
sottolineare l’inesistenza di alcuna connessione col mondo reale.
Il mosaico protocristiano Abramo con angeli (tavola VII), un esempio tipico
dell’influenza bizantina, illustra la disintegrazione della prospettiva antica. Lo
sfondo è sostanzialmente neutro. La terra, l’albero e i cespugli sono artificiali e
privi di vita; l’albero ha inoltre una forma peculiare per adattarsi al bordo del
mosaico. Non c’è un primo piano, o una base su cui le figure e gli oggetti posino.
Le figure non hanno alcuna relazione l’una all’altra e, ovviamente, le relazioni
spaziali sono ignorate perché misure e grandezze sembravano prive di
importanza. Quella scarsa unità che caratterizza un’opera pittorica le è fornita
dallo sfondo d’oro e dal colore degli oggetti.
Benché residui di un sistema ottico usato dai romani fossero presenti talvolta
nella pittura medievale, predominava questo stile bizantineggiante. Un esempio
eccellente, che è considerato di fatto il vertice della pittura medievale, è
Tavola 2 Simone Martini: La Annunciazione, Uffizi, Firenze
113
l’Annunciazione (tavola VIII) di Simone Martini (1285-1344). Nella pittura si ha
un movimento dall’angelo alla Vergine e da questa di nuovo all’angelo.
Nonostante la leggiadria del colore, della superficie e la sinuosità della linea, le
figure in sé sono prive di emozione e non causano alcuna risposta emotiva nello
spettatore. L’effetto complessivo non si discosta da quello di un mosaico. Forse
l’unico aspetto sotto cui questa pittura costituisce un progresso verso il realismo
consiste nell’uso di un piano di base o di un pavimento su cui gli oggetti e le
figure poggiano e che si distingue dal fondo dorato.
Influenze tipiche del Rinascimento che avviarono gli artisti verso il realismo e
la matematica cominciarono a sentirsi verso la fine del Duecento, il secolo in cui
la conoscenza di Aristotele ebbe un impulso straordinario grazie a numerose
traduzioni dall’arabo e dal greco. I pittori si resero conto della mancanza di vita e
della irrealtà della pittura medievale e cercarono consapevolmente di modificarla.
Gli sforzi per avvicinarsi alla realtà si manifestarono nell’uso di persone reali
come soggetti di temi religiosi, nell’uso deliberato di linee rette, di superfici
multiple e di semplici forme geometriche, in esperimenti con posizioni non
ortodosse delle figure nel tentativo di esprimere emozioni e nella raffigurazione di
pieghe e panneggi realistici e non nel modo piatto e convenzionale proprio dello
stile medievale.
La differenza sostanziale fra arte del Medioevo e arte del Rinascimento
consiste nell’introduzione della terza dimensione, ossia nella resa dello spazio,
della distanza, del volume, della massa e degli effetti visivi. L’inclusione della
tridimensionalità nella pittura poteva essere ottenuta solo mediante un sistema
ottico di rappresentazione, e sforzi consapevoli in questa direzione furono
compiuti da Duccio (1255-1319) e da Giotto (1267-1336), all’inizio del Trecento.
Nelle loro opere apparvero vari elementi che sono degni di nota almeno come fasi
Tavola 3 Duccio Madonna in Majesty, Opera del Duomo, Siena
114
nello sviluppo di un sistema matematico. La Maestà di Duccio (tavola IX)
presenta vari caratteri interessanti. La composizione, innanzitutto, è
rigorosamente semplice e simmetrica. Le linee del trono sono fatte convergere a
coppie e suggeriscono pertanto un senso di profondità. Le figure a entrambi i lati
del trono poggiano presumibilmente su un solo piano ma sono dipinte in varie
serie sovrapposte. Questo modo di raffigurare la profondità è noto come
prospettiva terrazzata, un accorgimento assai comune nel Trecento. Il panneggio è
abbastanza naturale, come si può vedere nell’esempio delle pieghe sul ginocchio
della Vergine. È presente anche un qualche senso di solidità e spazialità e i volti
tradiscono qualche emozione. L’immagine contiene ancora nel suo complesso
molti elementi della tradizione bizantina. Nello sfondo e nei particolari c’è un uso
generoso d’oro. Il disegno ricorda quello dei mosaici. Il trono non è raffigurato
abbastanza di scorcio da suggerire la profondità; perciò la Vergine non appare
seduta su di esso.
Ancor più significativa è L’ultima Cena di Duccio (tavola X). La scena è
fornita da uno spazio parzialmente inscatolato, uno sfondo usato molto
comunemente durante il Trecento e che segna una transizione fra scene di interni
Tavola 4 Duccio da Boninsegna, L’ultima cena. Museo dell’Opera del Duomo,
Siena.
115
e scene di esterni. Le pareti e le linee del soffitto, viste un po’ di scorcio, si
allontanano, suggerendo la profondità. Le parti dello spazio sono ben integrate.
Vari particolari concernenti il modo di trattare il soffitto risultano importanti. Le
linee della parte di mezzo si uniscono in un’area che è detta punto di fuga per una
ragione che si chiarirà più avanti. Questa tecnica fu usata deliberatamente da
molti pittori del periodo come un accorgimento per dare il senso della profondità.
In secondo luogo, linee provenienti da ciascuna delle due sezioni estreme del
soffitto, collocate simmetricamente rispetto al centro, si incontrano a coppie in
punti giacenti su una linea verticale. Anche questo schema, noto come prospettiva
verticale o assiale, fu usato ampiamente per conseguire un effetto di profondità.
Nessuno dei due schemi fu usato sistematicamente da Duccio ma entrambi furono
sviluppati o applicati successivamente da altri pittori del Trecento. Sono degni di
nota anche suggerimenti del mondo reale, come i cespugli nella parte sinistra del
dipinto.
Duccio non trattò purtroppo l’intera scena in L’ultima Cena da un singolo
punto di vista. Le linee dei bordi del tavolo si avvicinano allo spettatore,
contrariamente a come l’occhio dovrebbe vederle. Il tavolo appare più alto nel
fondo che in primo piano e gli oggetti collocati su di esso non sembrano posati in
piano: di fatto essi sono troppo proiettati verso lo spettatore. C’è nondimeno un
senso di realismo, che è avvertibile particolarmente nei caratteri maggiori del
dipinto.
Si può dire che nell’opera di Duccio la tridimensionalità è ormai presente in
modo ben determinato. Le figure posseggono massa e volume e sono legate l’una
all’altra e alla composizione come a un tutto. Le linee sono usate in accordo a
taluni schemi particolari e i piani sono scorciati. Anche luce e ombra sono usate
per suggerire volume.
Tavola 5 Giotto, La morte di San Francesco, Santa Croce, Firenze
116
Padre della pittura moderna fu Giotto. Egli dipinse con riferimento immediato a
percezioni visive e a relazioni spaziali e i suoi risultati inclinarono a una copia
fotografica. Le sue figure possedevano massa, volume e vitalità. Egli scelse scene
familiari, distribuì le sue figure in composizioni equilibrate e le raggruppò in
modi gradevoli all’occhio.
Uno fra i dipinti migliori di Giotto, L’accertamento delle stimmate di San
Francesco (tavola XI), usa, come L’ultima Cena di Duccio, l’espediente popolare
di uno spazio parzialmente chiuso, come inscatolato. Lo spazio suggerisce una
scena tridimensionale localizzata in opposizione a una scena bidimensionale piana
non esistente in alcun luogo. L’equilibrio accurato degli oggetti e figure
componenti è chiaramente inteso ad attrarre l’occhio. Ugualmente chiare sono le
relazioni delle figure l’una all’altra benché nessuna abbia relazione allo sfondo. In
questo dipinto come in altri di Giotto le parti delle stanze o degli edifici raffigurati
sembrano restare sullo sfondo. Lo scorcio è usato per suggerire profondità.
Giotto non è solitamente coerente nel suo punto di vista. Nel Festino di Erode
(tavola XII), le due pareti dell’alcova a destra non sono ben coordinate, né il piano
del tavolo e quello del soffitto nella sala del banchetto. La tridimensionalità di
questo dipinto è nondimeno indiscutibile. Alquanto interessante e significativo è il
frammento di architettura a sinistra. Il mondo reale è introdotto anche quando non
abbia alcuna rilevanza col tema.
Giotto fu una figura chiave nello sviluppo della prospettiva ottica. Benché le
sue opere non ci diano raffigurazioni visivamente corrette e benché egli non
introducesse alcun principio nuovo, la sua opera attesta nel suo complesso grandi
progressi rispetto a quella dei suoi predecessori. Egli era ben consapevole dei
progressi da lui realizzati, tanto che spesso incluse nei suoi lavori particolari non
Tavola 6 Giotto, Il festino di Erode, Cappella Peruzzi, Santa Croce, Firenze.
117
necessari per dispiegarvi la propria abilità. È questa certamente la ragione che lo
indusse a inserire la torre nel Festino di Erode.
Progressi nella tecnica e nei principi possono essere riconosciuti ad Ambrogio
Lorenzetti (attivo tra il 1319 e il 1348). Egli è degno di menzione per
l’organizzazione dei suoi temi in aree realistiche, localizzate; le sue linee sono
vigorose e le sue figure robuste e umanizzate. Il progresso è evidente
nell’Annunciazione (tavola XIII). Il piano su cui le figure poggiano è ora definito
e chiaramente distinto dalla parete di fondo. Esso serve anche come misura della
dimensione degli oggetti e suggerisce uno spazio che si estende in profondità. Un
secondo progresso importante consiste nel fatto che le linee del pavimento,
allontanandosi dallo spettatore, si uniscono in un punto. Infine, le mattonelle sono
viste in uno scorcio tanto più spiccato quanto più sono sullo sfondo.
Complessivamente Lorenzetti trattò lo spazio e la tridimensionalità con più
maestria di ogni altro pittore del Trecento. Come Duccio e Giotto egli non riuscì
però a unire tutti gli elementi nei suoi dipinti. Nell’Annunciazione la parete e il
Tavola 7 Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, Accademia, Siena
118
pavimento non sono legati fra loro. C’è nondimeno un buon trattamento intuitivo,
benché non matematico, dello spazio e della profondità.
Con Lorenzetti raggiungiamo il livello massimo raggiunto dagli artisti del
Rinascimento prima dell’introduzione di un sistema di prospettiva matematico. I
passi compiuti finora verso lo sviluppo di un sistema ottico soddisfacente
dimostrano quanto gli artisti sentissero il problema e lottassero con esso. È
evidente che questi innovatori stavano andando a tastoni alla ricerca di una
tecnica efficace.
Nel Quattrocento gli artisti capirono finalmente che il problema della
prospettiva dev’essere studiato scientificamente e che la geometria era la chiave
del problema. Questa consapevolezza può essere stata affrettata dallo studio di
antichi scritti sulla prospettiva che erano stati riesumati di recente insieme all’arte
greca e romana. Il nuovo approccio era ovviamente motivato da molto di più che
dal desiderio di conseguire una somiglianza con la realtà. Il fine principale era la
comprensione della struttura dello spazio e la scoperta di alcuni fra i segreti della
natura. Che la matematica fosse il mezzo più efficace per scandagliare la natura e
la forma in cui si dovevano formulare le verità ultime era un’espressione della
filosofia del Rinascimento. Questi uomini, che esploravano la natura con tecniche
peculiari alla loro arte, avevano precisamente lo spirito e l’atteggiamento di quegli
altri investigatori della natura che fondarono la scienza moderna per mezzo della
loro matematica e dei loro esperimenti. Di fatto, durante il Rinascimento, l’arte fu
considerata una forma di conoscenza e una scienza. Essa aspirava allo status delle
quattro “arti” platoniche: aritmetica, geometria, armonia (musica) e astronomia.
Ci si attendeva che la geometria fornisse il marchio della rispettabilità.
Ugualmente seducente come fine nello sviluppo di un sistema scientifico di
prospettiva era la possibilità di conseguire l’unità del disegno.
La scienza della pittura fu fondata da Brunelleschi, il quale elaborò attorno al
1425 un sistema di prospettiva. Egli insegnò a Donatello, Masaccio, Filippo Lippi
e altri. La prima esposizione scritta, il Della pittura di Leon Battista Alberti, fu
edita nel 1435. In questo trattato l’Alberti scrisse che il primo requisito per il
pittore è conoscere la geometria. Le arti vengono apprese mediante la ragione e il
metodo; esse sono padroneggiate mediante la pratica. Per quanto concerne la
pittura, l’Alberti credeva che la natura potrebbe essere perfezionata con l’aiuto
della matematica e a tal fine patrocinò 1’uso del sistema di prospettiva
matematico noto come prospettiva lineare.
Il grande maestro della prospettiva e, sia detto incidentalmente, uno fra i
migliori matematici del Quattrocento, fu Piero della Francesca. Il suo testo De
perspectiva pingendi integrò considerevolmente il materiale dell’Alberti, pur
adottando un’impostazione leggermente diversa. In questo libro Piero si spinse fin
quasi all’identificazione della pittura con la prospettiva. Negli ultimi vent’anni
della sua vita scrisse tre trattati per dimostrare come il mondo visibile potesse
essere ridotto all’ordine matematico dai principi della prospettiva e della
geometria solida.
119
Il più famoso fra gli artisti che diedero un contributo importante alla scienza
della prospettiva fu Leonardo. Questa figura impressionante, di incredibile forza
fisica e di doti mentali impareggiabili, si preparava alla pittura mediante profondi
e vasti studi nei campi dell’anatomia, della prospettiva, della geometria, della
fisica e della chimica. Il suo atteggiamento nei confronti della prospettiva era
parte della sua filosofia dell’arte. Egli aprì il suo Trattato della pittura con le
parole: “Non mi legga chi non è matematico nelli mia principi.” Il fine della
pittura, egli insisteva, consiste nel riprodurre la natura, e il pregio di un dipinto
consiste nell’esattezza della riproduzione. Anche una creazione puramente
immaginaria deve apparire come apparirebbe se potesse esistere in natura. La
pittura è quindi una scienza e come tutte le scienze dev’essere fondata sulla
matematica poiché “nissuna umana investigazione si pò dimandare vera scienzia,
s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni.” Inoltre: “Chi biasima la
somma certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà silenzio
alle contradizioni delle sofistiche scienzie, colle quali s’impara uno eterno
gridore.” Leonardo scherniva “quelli che s’innamoran di pratica sanza scienzia.”
“Studia prima la scienzia e poi séguita la pratica, nata da essa scienzia.” Egli
descriveva la prospettiva come “briglia e timone della Pittura.”
Fig. 19. Dürer. Disegno di un uomo seduto.
Il più influente degli artisti che scrissero sulla prospettiva fu Albrecht Dürer.
Dürer apprese i principi della prospettiva dai maestri italiani e tornò poi in
Germania e proseguire i suoi studi. Il suo trattato, popolare e molto letto,
Underweysung der Mersung mit dem Zyrkel und Richtscheyd, cioè “Istruzione
della misurazione con compasso e riga” (1528), affermava che la base prospettica
di un quadro non dovrebbe essere disegnata a mano libera bensì costruita secondo
120
princìpi matematici. Di fatto i pittori del Rinascimento non esaurirono la
trattazione dei principi della prospettiva. Matematici posteriori, e particolarmente
Brook Taylor e J. H. Lambert, scrissero in materia opere definitive.
È lecito asserire che quasi tutti i grandi artisti del Quattrocento e dell’inizio del
Cinquecento cercarono di introdurre nelle loro pitture principi matematici e
armonie matematiche, e che considerarono una prospettiva realistica un fine
specifico e particolarmente importante.
Fig. 20. Dürer. Disegna di una donna coricata.
Signorelli, Bramante, Michelangelo e Raffaello, fra gli altri, dimostrarono un
profondo interesse per la matematica e per le sue applicazioni all’arte. Essi
ritrassero deliberatamente atteggiamenti difficili, svilupparono e trattarono lo
scorcio con una facilità meravigliosa e a volte soppressero addirittura la passione
e il sentimento per dare maggior risalto agli elementi scientifici presenti nella
propria opera. Questi maestri erano consapevoli del fatto che l’arte, pur
avvalendosi di un’immaginazione individuale, è soggetta a leggi.
Fig. 21. Dürer. Disegno di una brocca.
Il principio fondamentale del sistema matematico sviluppato da questi artisti
può essere spiegato nei termini usati dall’Alberti, da Leonardo e da Dürer. Questi
uomini immaginarono la tela dell’artista come uno schermo di vetro attraverso il
quale egli osserva la scena che dev’essere dipinta, esattamente come noi possiamo
osservare attraverso il vetro di una finestra una scena che ha luogo fuori di casa.
Da un occhio, che viene mantenuto fisso in una posizione, si immagina che
121
escano raggi di luce i quali raggiungono ogni punto della scena. Quest’insieme di
linee è chiamato una proiezione. Là dove ciascuna di queste linee interseca lo
schermo di vetro, si segna un punto sullo schermo. Quest’insieme di punti,
chiamato sezione, crea sull’occhio la medesima impressione della scena osservata
dal pittore. Questi artisti decisero quindi che la pittura realistica deve produrre
sulla tela disposizione, grandezza e posizioni relative di oggetti esattamente come
apparirebbero su uno schermo di vetro interposto fra l’occhio e la scena. Di fatto,
l’Alberti proclamò che la pittura è una sezione della proiezione.
Questo principio è illustrato in varie xilografie eseguite da Dürer. Le prime due
(figg. 19 e 20) presentano l’artista che tiene un occhio in un punto fisso mentre
traccia su uno schermo di vetro, o su una carta con una quadrettatura
corrispondente a quella che si osserva sullo schermo di vetro, i punti in cui linee
di luce congiungenti l’occhio e la scena intersecano lo schermo. La terza incisione
(fig. 21) ci fa vedere come l’artista possa tracciare il disegno corretto sullo
schermo di vetro anche quando si supponga che egli sia lontano dallo schermo.
In quest’incisione l’occhio che considera la scena è in effetti nel punto in cui la
fune è fissata alla parete. La quarta xilografia (fig. 22) presenta un disegno
tracciato su uno schermo.
Poiché la tela non è trasparente e poiché un artista può desiderare di dipingere
una scena che esiste solo nella sua immaginazione, non può dipingere una
“sezione” di Dürer solo tracciando punti. Egli deve avere regole che lo guidino.
Perciò gli autori di scritti sulla prospettiva derivarono dal principio della
proiezione e della sezione un insieme di teoremi che comprendono il sistema della
prospettiva lineare. È questo il sistema che è stato adottato da quasi tutti gli artisti
dal Rinascimento in poi.
Fig. 22. Dürer. Disegno di un liuto.
Quali sono i principali teoremi o regole della scienza matematica della
prospettiva? Supponiamo che la tela sia tenuta nella normale posizione verticale.
122
La perpendicolare che va dall’occhio alla tela, o il suo prolungamento, interseca la
tela in un punto detto punto di fuga principale (la ragione di questo nome sarà
presto chiara). La linea orizzontale che passa per il punto di fuga principale è
detta linea d’orizzonte perché, se lo spettatore guardasse attraverso la tela verso lo
spazio aperto, la linea d’orizzonte corrisponderebbe all’orizzonte reale. Questi
concetti sono illustrati alla figura 23. Questa figura presenta un corridoio
considerato da una persona il cui occhio si trova nel punto O (non segnato) che
giace su una linea perpendicolare alla pagina passante per il punto P. P è il
principale punto di fuga e la linea D2PD1 è la linea d’orizzonte.
Il primo teorema essenziale è che tutte le linee orizzontali nella scena che siano
perpendicolari al piano della tela devono essere tracciate sulla tela in modo da
incontrarsi nel punto di fuga principale. Così linee come AA', EE', DD' e altre (fig.
23) si incontrano in P. Può sembrare scorretto che linee che in realtà sono
parallele vengano disegnate in modo che si incontrino in un punto.
Fig. 23. Disegno di un corridoio secondo il sistema della prospettiva lineare.
Questo è però precisamente il modo in cui l’occhio vede linee parallele; basti
pensare all’esempio familiare delle rotaie ferroviarie che apparentemente
convergono in lontananza. È forse chiaro ora perché il punto P sia chiamato punto
di fuga. Esso è infatti il punto (inesistente nella scena reale) verso cui sembrano
fuggire tutte le linee parallele della scena.
Un altro teorema deducibile dal principio generale che la pittura dovrebbe
essere una sezione della proiezione è che ogni insieme di linee orizzontali
parallele le quali non siano perpendicolari al piano della tela ma lo intersechino
formando un qualche angolo devono essere disegnate in modo da convergere
verso un punto che giaccia sulla linea d’orizzonte, in una posizione dipendente
dall’angolo che queste linee fanno col piano della tela. Linee come la AB' e la EK
della figura 23, che nella scena reale sono parallele e formano un angolo di 45°
col piano della tela, si incontrano in un punto D1, che è chiamato punto di fuga
diagonale. La distanza PD1 dev’essere uguale alla distanza OP, ossia alla distanza
dall’occhio al punto di fuga principale. Linee similmente parallele, come BA' e
FL, che nella scena reale formano con la tela un angolo di 135°, devono essere
disegnate in modo da incontrarsi in un secondo punto diagonale, D2 nella figura
23, e anche PD2 dev’essere uguale a OP. Linee parallele della scena reale che si
123
innalzano o si abbassano man mano che si allontanano dallo spettatore devono
anch’esse incontrarsi in un punto, che sarà al di sopra o al di sotto della linea
dell’orizzonte. Questo punto sarebbe quello in cui una linea uscente dall’occhio e
parallela alle linee in questione intersecherebbe la tela.
Il terzo teorema che segue dal principio generale della proiezione e della
sezione è che linee parallele orizzontali della scena che siano parallele al piano
della tela devono essere disegnate orizzontali e parallele e che linee parallele
verticali devono essere disegnate verticali e parallele. Poiché tutti gli insiemi di
linee parallele appaiono convergenti all’occhio, questo terzo teorema non è in
armonia con la percezione visiva. Questa incoerenza sarà discussa più tardi.
Molto tempo prima della creazione del sistema della prospettiva lineare, gli
artisti si erano resi conto che oggetti lontani dovrebbero essere disegnati visti di
scorcio. Essi provavano però grandi difficoltà nel determinare l’esatta misura
dello scorcio. Il nuovo sistema fornì i teoremi richiesti, i quali potevano essere
dedotti anche dal principio generale che la pittura è una sezione della proiezione.
Nel caso delle mattonelle quadrate della figura 23, il trattamento appropriato delle
linee diagonali come AB', BA', EK e FL determina lo scorcio corretto.
Molti altri teoremi possono essere usati dall’artista esperto se desidera
conseguire il realismo consentito dal sistema della prospettiva lineare.
L’esposizione di questi risultati alquanto specializzati ci condurrebbe però troppo
lontano. C’è però un punto che è implicito in quanto abbiamo visto e che è
importante per il profano che osserva un dipinto disegnato in accordo col sistema
della prospettiva lineare. La posizione dell’occhio dell’artista è inseparabile dalla
struttura del dipinto. Per ottenere l’effetto corretto, lo spettatore dovrebbe
osservare il dipinto da tale posizione; in altri termini, l’occhio dello spettatore
dovrebbe trovarsi al livello del punto di fuga principale e proprio di fronte ad
esso, a una distanza uguale a quella del punto di fuga principale da ciascuno dei
Tavola 8 Masaccio, Il tributo. Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine, Firenze.
124
due punti di fuga diagonali. Di fatto sarebbe bene che i quadri fossero appesi in
modo da poter essere alzati o abbassati a seconda della statura dello spettatore.
Prima di esaminare alcuni grandi
dipinti disegnati secondo il sistema
della prospettiva lineare,
dovremmo sottolineare che il
sistema non fornisce una
riproduzione fedele di ciò che
l’occhio vede. Il principio che un
dipinto dev’essere una sezione di
una proiezione richiede, come s’è
già detto, che linee parallele
orizzontali che siano parallele al
piano della tela e linee parallele
verticali debbano essere disegnate
parallele. L’occhio che osserva tali
linee trova però che anch’esse
appaiono incontrarsi, esattamente
come altri insiemi di linee
parallele. Perciò, almeno da questo
punto di vista, il sistema della
prospettiva concorrente non è
visivamente corretto. Una critica
fondamentale consiste nel fatto che
l’occhio in generale non vede linee
rette. Il lettore può convincersi di
questo fatto immaginando di
osservare dall’aereo un binario
perfettamente rettilineo. In entrambe le direzioni le rotaie sembrano incontrarsi
all’orizzonte. Due linee rette possono però incontrarsi solo in un punto. Poiché le
rotaie si incontrano all’orizzonte in entrambe le direzioni, è chiaro che l’occhio
deve vederle curve. Già greci e romani avevano riconosciuto che linee rette
appaiono curve all’occhio, come disse di fatto Euclide nella sua Ottica. Il sistema
della prospettiva lineare ignora però questo fatto della percezione, né tiene conto
del fatto che noi vediamo in realtà con due occhi, ciascuno dei quali riceve
un’impressione leggermente diversa. Gli occhi, inoltre, non sono fissi ma si
muovono quando uno spettatore osserva una scena in tutti i suoi particolari. Il
sistema della prospettiva lineare ignora infine che la retina dell’occhio colpita dai
raggi di luce non è una lastra fotografica bensì una superficie curva e che la
visione è non solo un processo puramente fisiologico quanto una reazione del
cervello.
Considerando queste deficienze del sistema, perché gli artisti lo adottarono?
Esso segnava chiaramente un progresso considerevole sui sistemi, più o meno
gravemente inadeguati, noti nel Trecento. Più importante, per gli artisti del
Tavola 9 Paolo Uccello, Scena dal
Miracolo dell’ostia profanata. Galleria
Nazionale delle Marche, Urbino
125
Quattrocento e del Cinquecento, era il fatto che il sistema era completamente
matematico. Per uomini già impressionati dall’importanza della matematica nella
comprensione della natura, il raggiungimento di un sistema matematico
soddisfacente di prospettiva era tanto più gradito in quanto essi non ne
scorgevano tutte le deficienze. Di fatto, gli artisti ritenevano che esso fosse
altrettanto vero della geometria euclidea.
Esaminiamo ora la progenie nata dal matrimonio fra geometria e pittura. Uno
fra i primi pittori ad applicare la scienza della prospettiva iniziata da Brunelleschi
fu Masaccio (1401-1428). Benché
dipinti successivi attestino più
chiaramente l’influenza della nuova
scienza, Il tributo (tavola XIV) è
molto più realistico di qualsiasi
altra cosa dipinta in precedenza da
Masaccio. Vasari disse che
Masaccio fu il primo artista che
riuscì a realizzare un’imitazione
perfetta delle cose. Il
dipinto citato, in particolare,
presenta grande profondità,
spaziosità e naturalismo. Le singole
figure sono massicce; esse esistono
nello spazio e il loro corpo è più
reale di quanto fossero le figure
umane in Giotto.
Le persone poggiano saldamente
sul suolo. Masaccio fu anche il
primo a usare una tecnica
supplementare rispetto alla
geometria, ossia la prospettiva
aerea. Egli suggerì la distanza
diminuendo l’intensità del colore
oltre che le dimensioni degli oggetti più lontani sullo sfondo. Masaccio era di
fatto un maestro nel trattamento della luce e dell’ombra.
Tra coloro che più contribuirono allo sviluppo della scienza della prospettiva fu
Paolo Uccello (1397-1475). Il suo interesse per l’argomento era così intenso che
secondo Vasari “tutta la notte Paolo stava nello scrittoio per trovar i termini della
prospettiva” e quando la moglie lo chiamava a dormire egli rispondeva: “O che
dolce cosa è questa prospettiva!” Egli si appassionava nell’investigazione di
problemi difficili e fu tanto distratto dalla sua passione per una prospettiva esatta
che non riuscì ad applicarla pienamente alla pittura. La pittura era per lui solo
un’occasione per risolvere problemi e mettere in luce la sua padronanza della
prospettiva. Di fatto il suo successo non fu completo. Le sue figure sono
Tavola 10 Paolo Uccello, Studio
prospettico per un calice, Uffizi, Firenze
126
generalmente ammassate l’una all’altra e la sua padronanza della profondità fu
imperfetta.
Tavola 11 Piero della Francesca, Flagellazione di Gesù. Galleria Nazionale
delle Marche, Urbino
Purtroppo gli esempi migliori della prospettiva di Paolo Uccello sono stati
danneggiati a tal punto da non essere qui riproducibili. Una scena tratta dalla
sequenza intitolata Il miracolo dell’ostia profanata dà qualche indicazione sulla
sua opera (tavola XV). Il suo Studio prospettico per un calice (tavola XVI) attesta
la complessità di superfici, linee rette e curve implicate in un esatto disegno
prospettico.
L’artista che portò alla perfezione la scienza della prospettiva fu Piero della
Francesca (1416-1492). Questo pittore dalle alte doti intellettuali era appassionato
per la geometria e progettava matematicamente le sue opere fino all’ultimo
particolare. La collocazione di ciascuna figura era calcolata in modo da essere in
relazione esatta con altre figure e con l’organizzazione del dipinto nel suo
complesso. Egli usò anche forme geometriche per parti del corpo e per capi di
abbigliamento e amò superfici curve lisce e la solidità.
La flagellazione di Piero (tavola XVII) è un capolavoro di prospettiva. La
scelta del punto di fuga principale e l’esatto impiego dei princípi del sistema di
prospettiva lineare legano i personaggi che si trovano sullo sfondo a quelli in
primo piano, mentre gli oggetti sono adattati tutti allo spazio chiaramente
127
delimitato. Anche la diminuzione delle intarsiature nere nel pavimento di marmo
è calcolata con precisione. Un disegno nel libro di Piero sulla prospettiva dimostra
l’immenso lavoro preparatorio che costò questo dipinto. Qui come in altri dipinti,
Piero usò la prospettiva aerea per accrescere l’impressione di profondità. L’intero
dipinto è progettato con tanta cura che il movimento è sacrificato all’unità del
disegno.
La Resurrezione di Piero (tavola XVIII) è giudicata da alcuni critici una fra le
massime opere pittoriche di tutto il mondo. Il disegno è quasi architettonico. La
prospettiva è insolita: ci sono due punti di visione e perciò due punti di fuga
principali. Come risulta evidente dal fatto che vediamo dal di sotto il collo di due
soldati che dormono, un punto di fuga principale è alla metà del sarcofago.
L’occhio è poi trasportato inconsapevolmente nel secondo punto di fuga
principale, che si trova nel volto di Cristo. I due dipinti, ossia la parte inferiore e
quella superiore, sono separati da un confine naturale, il bordo superiore del
sarcofago, in modo che il mutamento del punto di vista non disturba. Facendo
salire le colline in modo piuttosto ripido, Piero unificò le due parti e nello stesso
tempo forni uno sfondo dall’apparenza naturale per quella superiore. È stato detto
talvolta che l’intenso amore di Piero per la prospettiva rese le sue pitture troppo
matematiche e perciò fredde e impersonali. Uno sguardo all’espressione grave,
Tavola 12 Piero della Francesca, Resurrezione di
Gesù, Pinacoteca comunale, Borgo San Sepolcro
128
spettrale e clemente di Cristo dimostra però che Piero era capace di esprimere
delicate sfumature di emozione.
Leonardo da Vinci (1452-1519) produsse molti eccellenti esempi di
prospettiva perfetta. Quest’uomo dotato di una mente veramente scientifica e di
una sottile genialità estetica fece numerosi studi dettagliati per ogni dipinto
Tavola XIII Leonardo. Studio per l’Adorazione dei Magi. Gabinetto dei
disegni e delle stampe, Uffizi, Firenze
Tavola XX Leonardo, Cenacolo. Refettorio di Santa Maria delle Grazie,
Milano.
129
(tavola XIX). La sua opera più nota e forse il dipinto più famoso di tutti è un
esempio eccellente di perfetta prospettiva. Il Cenacolo (tavola XX) è progettato in
modo tale da dare esattamente l’impressione che la scena reale farebbe
sull’occhio dello spettatore.
Questi si sente presente nella stanza in cui ha luogo l’ultima cena. Le linee rette
delle pareti, del pavimento e del soffitto che si allontanano dallo spettatore non
soltanto vanno chiaramente in profondità ma convergono in un punto
deliberatamente scelto nel capo del Cristo in modo da attrarre l’attenzione su di
lui. Si osservi, per inciso, che i dodici apostoli sono suddivisi in quattro gruppi di
tre ciascuno e che sono disposti simmetricamente ai due lati del Cristo. La figura
del Cristo forma un triangolo equilatero; questo elemento grafico era inteso a
esprimere l’equilibrio di senso, ragione e corpo. Si confronti il dipinto di
Leonardo con L’ultima Cena di Duccio (tavola X).
Alcuni altri esempi di dipinti che hanno un’eccellente struttura prospettica
indicheranno forse la diffusione e il richiamo della nuova scienza. Benché
Botticelli (1444-1510) sia noto soprattutto per dipinti come la Primavera e la
Nascita di Venere, in cui l’artista si esprime nel disegno, in linee rette e curve, e
dove il realismo non è un fine perseguito dal pittore, egli era capace anche di una
prospettiva eccellente. Una tra le sue opere più pregevoli, la Allegoria della
calunnia di Apelle (tavola XXI), dimostra la sua padronanza di questa scienza. Le
Tavola XIVI Sandro Botticelli la Allegoria della calunnia di Apelle
130
varie parti del trono e degli edifici sono ben eseguite e lo scorcio di tutti gli
oggetti è corretto.
Un pittore che dimostrò una grande abilità nella prospettiva fu Mantegna
(1431-1516). Con lui anatomia e prospettiva raggiunsero un livello ideale. Egli
scelse problemi difficili e usò la prospettiva per conseguire visioni realistiche e
Tavola XVI Andrea Mantegna, San Giacomo condotto al martirio. Chiesa degli
Eremitani, Padova.
131
audaci. In San Giacomo condotto al martirio (tavola XXII) scelse deliberatamente
un punto di vista eccentrico. Il punto di fuga principale si trova esattamente al di
sotto del dipinto e a destra del centro. L’intera scena è trattata con successo da
questo punto di vista insolito.
Il Cinquecento assisté al culminare dei grandi sviluppi del Rinascimento nel
campo della pittura realistica. I maestri dispiegarono una prospettiva e una forma
perfette e sottolinearono lo spazio e il colore. L’ideale della forma fu amato a tal
punto da rendere molti artisti indifferenti al contenuto. Il famoso discepolo di
Leonardo e Michelangelo, Raffaello (1483-1520), forni molti esempi eccellenti
degli ideali, dei livelli di qualità e delle realizzazioni che erano stati oggetto degli
sforzi dei secoli precedenti. La sua Scuola d’Atene (tavola XXIII) ritrae un
austero complesso architettonico in cui appaiono chiaramente una composizione
armonica, una padronanza della prospettiva e la precisione delle proporzioni.
Questo dipinto è interessante non soltanto per il suo superbo trattamento dello
spazio e della profondità ma anche perché evidenzia la venerazione che gli
intellettuali del Rinascimento avevano per i maestri greci. Platone e Aristotele, a
sinistra e a destra, sono le figure centrali. Alla sinistra di Platone è Socrate. In
primo piano a sinistra Pitagora sta scrivendo su un libro. In primo piano a destra
Euclide o Archimede si curva per dimostrare un teorema. A destra di questa
Tavola XXIII Raffaello, Scuola d’Atene. Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani
132
figura, Tolomeo tiene in mano una
sfera. Musici, aritmetici e grammatici
completano il quadro.
I maestri veneti del Cinquecento
subordinano la linea al colore, alla
luce e alle ombre. Anch’essi furono
però maestri della prospettiva.
L’espressione dello spazio è
pienamente tridimensionale e
organizzazione e prospettiva sono
sentite chiaramente. Un rappresentante
di questa scuola è Tintoretto (1514-
1594). Il Trafugamento del corpo di
San Marco (tavola XXIV) dimostra un
trattamento perfetto della profondità;
si osservi lo scorcio delle figure in
primo piano.
Consideriamo ancora un ultimo
esempio. Abbiamo già menzionato
Dürer (1471-1528) fra gli autori di
prospettiva che esercitarono una
grande influenza sui pittori a nord
delle Alpi. Il suo San Girolamo nel
suo studio (tavola XXV),
un’acquaforte, illustra l’abilità pratica
dello stesso Dürer. Il punto di fuga
principale è a destra in centro. Il
disegno ha l’effetto di dare allo
spettatore l’impressione di trovarsi
nella stessa stanza di San Girolamo, a
poca distanza da lui.
Il lettore può ora verificare la sua
acutezza nel campo della prospettiva
esaminando quante assurdità è in
grado di scoprire nell’incisione di
William Hogarth intitolata Falsa
prospettiva (tavola XXVI).
Tavola XXIV Tintoretto Trasferimento
del corpo di S. Marco, Palazzo Reale,
Venezia
Tavola XXV Durer, S. Jerome nel suo
studio
133
Gli esempi forniti sopra di dipinti che usarono il sistema di prospettiva lineare
potrebbero essere moltiplicati all’infinito. Essi sono però sufficienti a illustrare
come l’uso della prospettiva matematica abbia emancipato le figure dal fondo
dorato della pittura medievale e abbia dato loro la libertà di percorrere le strade e
le colline del mondo naturale. Gli esempi illustrano anche un valore secondario
nell’uso della prospettiva lineare, ossia quello di promuovere l’unità della
composizione del dipinto. La nostra esposizione della nascita di questo sistema
può anche aver fatto vedere come i teoremi della matematica vera e propria e una
filosofia della natura in cui la matematica fu dominante determinarono il corso
della pittura occidentale. Benché la pittura moderna si sia allontanata decisamente
da una descrizione realistica della natura, il sistema della prospettiva lineare è
insegnato ancora negli istituti artistici ed è applicato ogni volta che si ritenga
importante conseguire un effetto realistico.
Tavola XXVI Hogarth, Falsa Prospettiva
134
XI. Una scienza figlia dell’arte: la geometria proiettiva
La facoltà che mette in modo l’invenzione matematica non è
il ragionamento bensì l’immaginazione.
A. DE MORGAN
La creazione matematica più originale del Seicento, un secolo in cui la scienza
fornì la motivazione dominante per l’attività matematica, fu ispirata dall'arte della
pittura. Sviluppando il sistema della prospettiva lineare, i pittori introdussero
nuove idee geometriche e posero vari interrogativi che suggerirono una direzione
di ricerca del tutto nuova. Così gli artisti pagarono il loro debito alla matematica.
La prima fra le idee derivate dal lavoro sulla prospettiva è che esiste una
distinzione fra il mondo accessibile al senso del tatto e il mondo che si vede.
Dovrebbero esistere corrispondentemente due geometrie, una geometria del tatto e
una della visione. La geometria euclidea è tattile perché le sue asserzioni si
accordano col nostro senso del tatto ma non sempre col nostro senso della vista.
Euclide si occupa ad esempio di linee che non s’incontrano mai. L’esistenza di
tali linee può essere attestata dalla mano ma non dall’occhio. Noi non vediamo
mai linee parallele. Le rotaie ci appaiono congiungersi in lontananza.
Ci sono molte altre ragioni per caratterizzare la geometria euclidea come
geometria tattile. Ad esempio, essa tratta figure congruenti, o figure che possono
essere sovrapposte l’una all’altra. La sovrapposizione è un atto eseguito dalle
mani. Il mondo di Euclide, infine, era finito, un mondo virtualmente accessibile al
senso del tatto. Egli non considerava, ad esempio, una linea retta nella sua
interezza ma la concepiva piuttosto come un segmento che può essere esteso
quanto serve in entrambe le direzioni. Non fu fatto alcun tentativo di considerare
che cosa accada a grandi distanze da una figura data.
Poiché la geometria euclidea potrebbe essere considerata ragionevolmente
come una geometria che risolve i problemi creati dal senso del tatto, rimaneva da
investigare la geometria del senso della vista. Verso quest'obiettivo il lavoro sulla
prospettiva offriva un secondo suggerimento principale. L’idea fondamentale nel
sistema della prospettiva lineare è quello della proiezione e della sezione. Una
proiezione è un insieme di linee di luce che si suppone congiungano l’occhio e i
punti di un oggetto o di una scena; una sezione è il disegno formato
dall’intersezione di queste linee con una lastra di vetro collocata fra l’occhio e
l’oggetto considerato. Benché la sezione su una lastra di vetro vari per grandezza
e figura con la posizione e con l’angolo a cui la lastra è tenuta, ciascuna di queste
135
sezioni (fig. 24) crea sull’occhio la stessa impressione che creerebbe l’oggetto
stesso.
Fig. 24. Due sezioni diverse della medesima proiezione.
Questo fatto suggerisce vari grandi interrogativi matematici. Supponiamo di
considerare due diverse sezioni della medesima proiezione. Poiché esse creano
sull’occhio la medesima impressione, dovrebbero avere molte proprietà
geometriche in comune. Quali proprietà, esattamente, avranno in comune le
sezioni? E inoltre, quali proprietà hanno in comune l’oggetto e una sezione
determinata da esso? Infine, se due diversi osservatori considerano la medesima
scena, si formano due proiezioni diverse (fig. 25). Se si fa una sezione di ciascuna
di queste proiezioni, queste due sezioni, essendo determinate dalla medesima
scena, dovrebbero possedere proprietà geometriche comuni. Quali sono tali
proprietà?
Ancora un’altra direzione di ricerca fu suggerita ai matematici dal lavoro sulla
prospettiva. Gli artisti, abbiamo detto, non possono dipingere gli oggetti come
sono. Essi devono invece disegnare le linee parallele in modo che risultino
convergenti sulla tela; devono inoltre introdurre lo scorcio e altri accorgimenti al
fine di dare all’occhio l’illusione della realtà. Per mandare a effetto questo piano,
l’artista ha bisogno di teoremi che gli indichino la collocazione delle linee e gli
dicano inoltre quali altre linee ogni linea data debba intersecare. I matematici
furono perciò motivati alla ricerca di teoremi sull’intersezione di linee rette e
curve.
Il primo grande matematico che esplorò i suggerimenti forniti dal lavoro sulla
prospettiva fu l’architetto e ingegnere autodidatta Girard Desargues (1593-1662).
Ciò che lo spinse a intraprendere questi studi fu il desiderio di aiutare i suoi
colleghi nell’ingegneria, nella pittura e nell’architettura. “Confesso liberamente,”
scrisse, “di non aver mai provato piacere in studi o ricerche nel campo della fisica
o della geometria se non quando potevano servire come mezzi per arrivare a una
136
qualche sorta di conoscenza delle cause vicine... per il bene e comodità della vita,
nel conservare la salute, nella pratica di qualche arte..., avendo osservato che una
buona parte delle arti è fondata sulla geometria, fra le altre quella del taglio delle
pietre in architettura, quella delle meridiane solari, e quella della prospettiva in
particolare.” Egli cominciò con l’organizzare numerosi utili teoremi e divulgò
queste scoperte mediante conferenze e fogli volanti. Più tardi scrisse un opuscolo
sulla prospettiva che trovò ben poca attenzione.
Fig. 25. Sezioni di due diverse proiezioni della medesima scena.
Desargues progredì da questo lavoro a creazioni matematiche altamente
originali. Il suo contributo principale, la fondazione della geometria proiettiva,
apparve nel 1639 ma, come i servigi da lui resi agli artisti, non suscitò grande
interesse. Tutte le copie stampate di questo libro andarono perdute. Anche se
alcuni suoi contemporanei apprezzarono quest’opera, la maggior parte la
ignorarono o se ne fecero beffe. Dopo aver dedicato alcuni altri anni a problemi di
architettura e di ingegneria, Desargues si ritirò nelle sue proprietà. Due suoi
contemporanei, Philippe de La Hire e Blaise Pascal, studiarono e fecero
progredire il parto della mente di Desargues prima che l’argomento fosse avvolto
da un lungo periodo di oblio. Fortunatamente La Hire fece una copia manoscritta
del libro di Desargues e questa copia, scoperta accidentalmente due secoli dopo,
ci dice quale sia stato il contributo di Desargues.
Il fatto più sensazionale, anche se non il più significativo, della nuova
geometria di Desargues è che essa non contiene linee parallele. Così come la
rappresentazione di linee parallele sulla tela richiede che esse si incontrino in un
punto, così Desargues richiede che linee parallele nello spazio (nel senso di
Euclide) si incontrino in un punto che può essere infinitamente lontano ma di cui
si suppone nondimeno l’esistenza. Questo punto è la controparte, nello spazio
reale, del punto in cui le linee parallele, disegnate sulla tela, si intersecano.
L’aggiunta di questo “punto all’infinito” non rappresenta una contraddizione
rispetto alla geometria euclidea ma piuttosto una sua estensione, che la rende
conforme a ciò che l’occhio vede.
137
Fig. 26. Teorema di Derargues.
Il teorema fondamentale della geometria proiettiva, un teorema che è ora
fondamentale in tutta la matematica, deriva da Desargues e da lui prende il nome.
Esso illustra in che modo i matematici risposero alle domande poste dalla
prospettiva.
Supponiamo che l’occhio, collocato nel punto O, osservi un triangolo ABC (fig.
26). Le linee condotte da O ai vari punti sui lati del triangolo costituiscono, come
abbiamo visto, una proiezione. Una sezione di questa proiezione conterrà allora
un triangolo A'B'C', dove A' corrisponde ad A, B' a B e C' a C. I due triangoli ABC
e A'B'C' sono detti prospettici dal punto O. Desargues formula il suo teorema
come segue:
Le coppie di lati corrispondenti, AB e A'B', BC e B'C', e AC e A'C', di due triangoli
prospettici da un punto si incontrano, rispettivamente, in tre punti giacenti su una linea retta.
Con specifico riferimento alla nostra figura il teorema dice che se
prolunghiamo i lati AC e A'C' essi si incontreranno in un punto P; i lati AB e A'B',
prolungati a loro volta, si incontreranno in un punto Q; e i lati BC e B'C',
prolungati a loro volta, si incontreranno in un punto R. P, Q e R si troveranno su
una medesima linea retta. Il teorema conserva la sua validità sia che i triangoli
giacciano su uno stesso piano sia che si trovino su piani diversi.
Altrettanto tipico dei teoremi della geometria proiettiva è un teorema
dimostrato, all’età di sedici anni, dal precoce pensatore francese Pascal, di cui ci
occuperemo estesamente più avanti. Il teorema in questione fu inserito da Pascal
in un saggio sulle coniche, un saggio così brillante che Descartes non riusciva a
credere fosse stato scritto da una persona tanto giovane. Il teorema di Pascal,
come quello di Desargues, afferma una proprietà di una figura geometrica che è
comune a tutte le sezioni di ogni proiezione di tale figura. In linguaggio più
matematico esso formula una proprietà di una figura geometrica che è invariante
in proiezione e sezione.
138
Fig. 27. Teorema di Pascal.
Pascal intendeva dire quanto segue: si disegni un qualsiasi poligono di sei lati
(esagono) con i vertici su un cerchio e se ne indichino i vertici con le lettere A, B,
C, D, E, F (fig. 27). Si prolunghino una coppia di lati opposti, ad esempio AB e
DE, fino a farli incontrare in un punto P. Si prolunghi un’altra coppia di lati
opposti finché anch’essi si incontrino in un punto, e sia questo il punto Q. Si
prolunghi infine la terza coppia di lati, i quali si incontreranno in un punto R.
Allora, asserisce Pascal, P, Q e R giaceranno sempre su una medesima linea retta.
In altri termini
Se un esagono è inscritto in un cerchio, le coppie di lati opposti si intersecano,
rispettivamente, in tre punti, i quali giacciono su una linea retta.
I concetti della geometria proiettiva illuminano anche la matematica familiare.
Come abbiamo visto nel capitolo quarto, i greci sapevano che cerchio, parabola,
ellisse e iperbole sono sezioni di un cono (fig. 7 nel capitolo quarto). Se
immaginiamo un occhio collocato in O, il vertice del cono, e se immaginiamo
linee come la OA, sulla superficie del cono, le quali siano come linee di luce
condotte dall’occhio O a punti sul cerchio ABC, allora le linee formano una
proiezione e il cerchio, la parabola, l’ellisse e l’iperbole appaiono come sezioni
operate da vari piani che intersecano tale proiezione. Il lettore può verificare
queste asserzioni proiettando un fascio di luce su un pezzo di filo chiuso in
cerchio e osservando l’ombra proiettata dal filo su un foglio di carta. Facendo
ruotare il foglio di carta muterà la sezione e si avranno le varie sezioni coniche.
Poiché le quattro curve possono essere ottenute tutte come sezioni di un cono e
poiché il teorema di Pascal stabilisce un fatto concernente il cerchio che rimane
invariante alla proiezione e alla sezione, ne segue che il teorema di Pascal si
applica a tutte le coniche.
139
Consideriamo ora un ultimo teorema della geometria proiettiva. Il teorema di
Pascal ci dice qualcosa su un esagono che è inscritto in un cerchio. C.-J.
Brianchon, che lavorò alla rinascita della geometria proiettiva, all’inizio
dell’Ottocento, creò un teorema famoso che descrive una proprietà di un esagono
circoscritto a un cerchio. Il suo teorema stabilisce (fig. 28) che
Se un esagono è circoscritto a un cerchio, le linee che congiungono vertici opposti si
incontrano in un punto.
Come potremmo attenderci, il teorema di Brianchon si applica non solo al
cerchio ma anche a tutte le sezioni coniche.
I teoremi di Desargues, di Pascal e di Brianchon sono indicativi del tipo di
teoremi dimostrati nella geometria proiettiva e possono bastare come esempi.
Possiamo caratterizzare tutti i teoremi in questo campo dicendo che sono
incentrati sulle idee di proiezione e di sezione e che stabiliscono proprietà di
figure geometriche comuni a sezioni di una medesima proiezione o di proiezioni
diverse di un medesimo oggetto.
Mentre il mecenatismo artistico da parte di principi, secolari e clericali, rese
possibile la straordinaria attività nel campo della pittura e condusse
successivamente alla geometria proiettiva, i bisogni in espansione della borghesia
in rapida ascesa del periodo promossero l’interesse per la cartografia. La ricerca
di vie commerciali nel Cinquecento comportò estese esplorazioni geografiche e si
resero necessarie carte geografiche per facilitare le esplorazioni e per poter tenere
il passo con le scoperte.
Fig. 28. Teorema di Brianchon.
140
Non si deve inferire da quanto è stato detto che le civiltà precedenti non
avessero avuto carte. Di fatto greci, romani e arabi disegnarono carte che furono
accettate per secoli. Le esplorazioni dei secoli XV e XVI rivelarono però le
imprecisioni e l’insufficienza delle carte esistenti e crearono una richiesta per
carte migliori e più aggiornate.
La ripresa dell’idea che la Terra fosse una sfera richiedeva inoltre carte
disegnate secondo questa premessa. Si posero questioni come quella del modo in
cui un itinerario dovesse essere tracciato su una carta piana in modo che
corrispondesse alla distanza minore sulla sfera. La stampa di carte ebbe inizio
nella seconda metà del Quattrocento e i grandi centri commerciali di Anversa e
Amsterdam divennero ben presto centri della cartografia.
Benché gli interessi pratici dei cartografi siano alquanto lontani da quelli
estetici dei pittori, entrambe le attività stanno in stretta relazione fra loro
attraverso l’istanza intermedia della matematica. Matematicamente, il problema
del disegno di una carta equivale a quello di come proiettare figure da una sfera a
un foglio piano, il quale non è altro che la sezione della proiezione. I principi che
entrano in gioco sono dunque esattamente gli stessi delle scienze della prospettiva
e della geometria proiettiva. Nel Cinquecento i cartografi si servirono di queste
idee e di altre affini per sviluppare nuovi metodi, il più famoso dei quali fu quello
sviluppato dal cartografo fiammingo Gerardo Mercatore (1512-1594), noto ancora
oggi come proiezione di Mercatore. Nel secolo successivo La Hire, fra altri,
applicò ai problemi della cartografia alcune idee di Desargues.
Fig. 29. Il principio della proiezione gnomonica.
141
La difficoltà principale nella redazione di carte geografiche deriva dal fatto che
una sfera non può essere ridotta in piano senza gravi distorsioni della sua
superficie. Il lettore può avere una conferma di quanto diciamo se cerca di
sbucciare un’arancia a strisce o spicchi, tentando poi di distendere in piano le
strisce o spicchi di buccia senza stirarli o romperli. Per produrre una carta piana è
inevitabile distorcere o le distanze o le direzioni o le superfici; nessuna carta può
riprodurre esattamente le relazioni che esistono su una sfera. Quando si usa una
carta geografica, per ricavarne, ad esempio, le distanze, si deve conoscere la
relazione esistente fra le distanze misurate sulla carta e le distanze corrispondenti
sulla sfera. Perciò nel disegnare carte si devono usare metodi che stabiliscano
relazioni sistematiche fra la sfera e la superficie piana cosicché da osservazioni
compiute sulla carta piana si possano desumere conoscenze sulla sfera.
Fig. 30. Carta gnomonica dell’emisfero americano.
Menzioneremo alcuni fra i metodi più semplici della cartografia. Le spiegazioni
che daremo si riferiranno naturalmente solo ai principi geometrici implicati in
questi metodi. Per far vedere in che modo misurazioni eseguite su una carta
particolare possano essere convertite in informazioni corrispondenti sulla sfera
sarebbe necessario introdurre molta più matematica che non si possa fare qui.
142
Uno tra i sistemi cartografici più semplici è noto come proiezione gnomonica.
Immaginiamo che un occhio sia collocato al centro della Terra e che stia
guardando verso il doppio continente americano. Ogni linea visuale, una volta
superata la superficie della Terra, viene prolungata fino a raggiungere un punto su
un piano tangente alla superficie della Terra (fig. 29). Se questo punto si trova
sull’equatore otteniamo una carta come quella riprodotta nella figura 30.
Si osserverà che i meridiani appaiono come linee rette. Di fatto ogni cerchio
massimo sulla Terra, ossia ogni cerchio il cui centro coincida col centro della
Terra, come l’equatore o un meridiano, sarà rappresentato in questo sistema con
una linea retta. Questa proprietà è abbastanza importante. La distanza più breve
fra due punti, sulla superficie terrestre, è data dall’arco del cerchio massimo che
unisce tali punti. Quest’arco risulterà in proiezione un segmento di retta
congiungente le proiezioni dei due punti. Poiché le navi e gli aerei seguono
generalmente rotte che si identificano con cerchi massimi, queste rotte possono
essere facilmente rappresentate sulla carta sotto forma di linee rette. Tutti i punti
sulla carta hanno inoltre le giuste direzioni rispetto al centro e fra loro. Un
carattere negativo di questo metodo di proiezione cartografica è che le regioni che
si trovano ai bordi dell’emisfero rappresentato presentano grandissime distorsioni
nelle distanze, negli angoli e nelle aree. Per questa ragione la carta illustrata nella
figura 30 non può rappresentare l’intero emisfero.
Fig. 31. Il principio della proiezione stereografica.
Proiezione e sezione sono usate in modo diverso in un secondo metodo
cartografico noto come proiezione stereografica polare. Supponiamo che un
occhio sia collocato sull’equatore press’a poco in prossimità di Ceylon e che
osservi punti collocati sull’emisfero americano, che è diametralmente opposto
(fig. 31). Supponiamo che un piano intersechi la Terra fra i due emisferi indicati.
Una sezione delle linee visuali costituita dal piano ci darà una carta stereografica
dell’emisfero americano (fig. 32).
Il metodo della proiezione stereografica e utile perché preserva gli angoli. Se
cioè due curve si incontrano sulla sfera formando un angolo C, le immagini di
queste curve sulla carta si incontreranno formando un angolo C' che è uguale
all’angolo C. Ad esempio, i paralleli geografici intersecano sulla sfera i meridiani
formando angoli retti. Le proiezioni di queste curve si intersecano formando
143
angoli retti anche sulla carta piana. La proiezione stereografica non conserva
purtroppo le superfici. Le regioni in prossimità del centro della carta sono ridotte
a circa un quarto di quella che è la loro superficie sulla sfera. Le aree sono invece
quasi corrette in prossimità dei bordi della carta.
Fig. 32. Carla stereografica dell’emisfero americano.
Il metodo cartografico più noto è la proiezione di Mercatore. Il principio
applicato in questo metodo non può essere presentato in termini di proiezione e
sezione ma può essere descritto approssimativamente da una proiezione cilindrica
isogona o conforme. Quest’ultimo metodo, noto come una proiezione prospettica
cilindrica, usa un cilindro che circonda la Terra ed è tangente ad essa lungo un
cerchio massimo. Nella figura 33 questo cerchio è un equatore. Le linee che
costituiscono la proiezione hanno origine nel centro della Terra, il punto O nella
figura 33, e si estendono fino al cilindro. Così il punto P della superficie della
Terra è proiettato in P' sul cilindro. Il cilindro viene ora tagliato lungo una linea
verticale e ridotto in piano. Sulla carta piana i paralleli appaiono come linee
orizzontali e i meridiani come linee verticali. Nessun punto sulla carta corrisponde
ai poli nord e sud.
144
Fig. 33. Il principio della proiezione cilindrica prospettica.
La differenza sostanziale fra la proiezione prospettica cilindrica e la proiezione
di Mercatore consiste nella spaziatura dei paralleli specialmente nelle estreme
regioni boreale e australe.
Fig. 34. Proiezione di Mercatore dell’emisfero americano.
La figura 34 illustra la proiezione di Mercatore. L’importanza di questo sistema
è duplice. Innanzitutto, come nel caso della proiezione stereografica, essa
conserva gli angoli. In secondo luogo, nel dirigere una nave è conveniente seguire
145
una rotta con direzione costante rispetto all’ago della bussola; tale rotta, che
intersecherà i successivi meridiani sulla sfera sempre a uno stesso angolo, e nota
come rotta lossodromica. Essa appare come una linea retta su una carta eseguita
secondo la proiezione di Mercatore. Perciò su una carta del genere è
particolarmente facile tracciare la rotta di una nave e seguirla.
Osserviamo per inciso che una rotta su un cerchio massimo non implica che si
segua sempre una medesima direzione rispetto all’ago della bussola, tranne
quando il cerchio massimo è l’equatore o un meridiano. Perciò su una carta di
Mercatore la rotta su un cerchio massimo appare curva. È d’uso nella pratica della
navigazione approssimare a tale curva varie brevi linee lossodromiche, le quali
consentono così alla nave di mantenere una direzione costante rispetto all’ago
della bussola lungo ogni linea lossodromica e nello stesso tempo di trarre qualche
vantaggio dalla distanza minima permessa dalla rotta su un cerchio massimo.
Il metodo di proiezione cartografica di Mercatore è così comune che la maggior
parte delle persone non si rende conto delle distorsioni che esso introduce. La
Groenlandia appare grande quasi quanto l’America meridionale pur essendo di
fatto solo un nono di essa. Il Canada appare grande il doppio degli Stati Uniti, pur
avendo in realtà una superficie maggiore solo di un sesto. Nonostante queste
distorsioni, la carta è così utile nella navigazione per la ragione indicata sopra da
essere quella maggiormente usata.
Questi brevi cenni sui principi geometrici usati nei vari metodi della cartografia
non esauriscono la varietà dei metodi né danno alcuna indicazione sulle tecniche
matematiche che devono essere usate per interpretare le misurazioni eseguite sulle
carte per ottenere le distanze reali sulla sfera. Dovrebbe risultar chiaro,
nondimeno, che la matematica è essenziale alla cartografia e, in particolare, che
proiezione e sezione vi sono usate non meno che nello studio della prospettiva.
Come l’uso della proiezione e della sezione nella prospettiva diede origine a
questioni matematiche, lo stesso si verificò nella cartografia. In connessione con
le carte è importante, per ragioni pratiche, conoscere le proprietà comuni a una
regione sulla sfera e alla corrispondente regione sulla carta. Ad esempio, il fatto
che in un particolare metodo di proiezione cartografica siano preservati gli angoli
è molto utile. Perciò la cartografia, come la prospettiva, è stata la fonte di molti
nuovi problemi matematici.
Le idee esaminate in questo capitolo erano incentrate sulle nozioni di
proiezione e di sezione. I pittori furono condotti a tali nozioni dai loro sforzi per
costruire un sistema ottico di prospettiva soddisfacente. I matematici derivarono
da tali nozioni un campo d’investigazione del tutto nuovo: la geometria proiettiva.
I cartografi usarono le medesime nozioni per escogitare nuove proiezioni
cartografiche. Tutti e tre i campi sono perciò intimamente legati fra loro da un
concetto matematico fondamentale.
La geometria proiettiva vera e propria può essere applicata a taluni problemi
pratici; è stata coltivata nondimeno primariamente per l’interesse intrinseco che
l’uomo ha trovato in essa, per la sua bellezza, la sua eleganza, lo spazio che
concede all’intuizione nella scoperta di teoremi e il ragionamento rigorosamente
146
deduttivo che richiede per le dimostrazioni. Dopo essere stata temporaneamente
trascurata a favore della matematica applicata, questa disciplina fu investigata
attivamente nell’Ottocento e si rivelò la madre di molte nuove geometrie. Forse
perché la pittura ne colorò le idee, la “scienza figlia dell’arte” creata da Desargues
è oggi uno fra i settori più belli della matematica.
147
XII. Discorso sul metodo
Finché l’algebra e la geometria procedettero su sentieri
separati, il loro progresso fu lento e le loro applicazioni
limitare. Ma quando queste scienze si unirono, trassero
l’una dall’altra nuova vitalità e da allora in poi procedettero
con passo rapido verso la perfezione.
JOSEPH-LOUIS LAGRANGE
La matematica applicata nel senso moderno del termine non fu la creazione di
un ingegnere o di un matematico con propensioni per l’ingegneria. Dei due grandi
pensatori che fondarono questo settore, uno fu un profondo filosofo, l’altro un
giocatore d’azzardo nel regno delle idee. Il primo si dedicò a un pensiero critico e
profondo sulla natura della verità, sull’esistenza di Dio e sulla struttura fisica
dell’universo. Il secondo visse una vita comune come avvocato e come impiegato
statale, indulgendo di notte a baldorie mentali, creando e offrendo generosamente
al mondo teoremi da milioni di dollari. L’opera che i due uomini compirono in
molti campi resterà immortale.
Il profondo filosofo fu René Descartes (1596-1650), che era nato da genitori
moderatamente agiati a La Haye, in Francia. All’età di otto anni fu mandato a
compiere i suoi studi al collegio gesuita della Flèche, dove acquistò interesse alla
matematica. A diciassette anni, a conclusione dello studio dei consueti argomenti
scolastici, decise di imparare di più su di sé e sul mondo da esperienze di prima
mano. Cominciò questi studi dandosi a vita dissoluta a Parigi; si ritirò quindi in un
angolo tranquillo della città per un periodo di riflessione. Ad esso seguirono la
partecipazione a campagne militari, viaggi, di nuovo vita a Parigi, e poi ancora
guerra, e ancora Parigi, e infine la decisione di stabilirsi in qualche posto.
Pensando forse di poter conseguire un completo isolamento in Olanda, si
procurò una casa ad Amsterdam, dove visse in solitudine, se si prescinde dalla
compagnia della sua amante e di suo figlio, e dedicò la maggior parte dei
vent’anni successivi a scrivere. Qui egli compose le sue opere migliori e divenne
famoso non appena fu pubblicato il suo primo libro. Man mano che egli
continuava a scrivere cresceva, nel pubblico e in lui, l’impressione della
grandezza della sua opera. Profondi pensieri, espressi in opere di alto valore
letterario che rivelarono la chiarezza, la precisione e l’efficacia della lingua
francese, resero popolari sia Descartes sia la filosofia.
Dopo vent’anni di isolamento, Descartes fu convinto a fare il precettore della
regina Cristina di Svezia e si trasferì quindi a Stoccolma. La regina amava
148
cominciare la sua giornata alle cinque di mattina studiando in una biblioteca
gelida e Descartes fu costretto a vederla a quell’ora. Queste richieste erano però
eccessive per il cagionevole René. La sua carne era debole e il suo spirito
riluttante. Morì di polmonite nel 1650.
Quando Descartes era ancora alla Flèche, cominciò a chiedersi come mai fosse
così diffusa l’opinione di conoscere tante verità. In parte perché aveva una mente
critica e in parte perché viveva in un’epoca in cui la visione del mondo che aveva
dominato l’Europa per un millennio cominciava ad essere violentemente scossa,
Descartes non poteva essere soddisfatto dei dogmi pronunciati con tanta energia e
sicurezza dai suoi insegnanti e dai capi di sette diverse dalla propria. Egli senti
tanto più giustificati i suoi dubbi quando si rese conto di trovarsi in una fra le più
celebrate scuole d’Europa e di non essere uno studente di secondo piano. Alla fine
del suo curriculum di studi concluse che non c’era alcun corpo di conoscenza
sicuro. Tutta la sua istruzione lo aveva condotto alla scoperta dell’ignoranza
dell’uomo.
In verità egli riconobbe alcuni valori nel tipo di studi usuale. Consentì che
“l’eloquenza ha forza e bellezza incomparabili, che la poesia ha grazie e delizie
affascinanti”; ritenne nondimeno che queste qualità fossero doni di natura più che
frutti di studio. Riveriva la teologia perché indicava la via al cielo, cui anch’egli
aspirava, ma “poiché la via è non meno aperta al più ignorante che al più dotto e
poiché le verità rivelate che conducono al cielo sono al di sopra della nostra
comprensione,” non ebbe la presunzione di assoggettarle all’impotenza della
nostra ragione. La filosofia, egli ammise, “fornisce i mezzi per discorrere con
un’apparenza di verità su tutti gli argomenti e suscita l’ammirazione dei più
semplici.” Essa non ha nondimeno prodotto nulla che fosse incontestabile o al di
sopra di ogni dubbio, pur essendo stata coltivata per epoche intere dagli uomini
più eccellenti. Egli non presumeva perciò di poter avere maggior successo con la
filosofia tradizionale. “La giurisprudenza, la medicina e le altre scienze assicurano
ai loro cultori onori e ricchezze...” Nella misura però in cui esse attingevano i loro
principi alla filosofia, egli riteneva che non si potessero erigere soprastrutture
solide su fondamenta così vacillanti, e grazie al cielo egli non era costretto a far
mercimonio della scienza per migliorare la propria fortuna. “Quanto alla logica, i
suoi sillogismi e la maggior parte degli altri suoi precetti sono di qualche profitto
più nella comunicazione di ciò che già sappiamo o... nel parlare senza giudizio di
cose di cui non sappiamo nulla, che nell’investigazione di ciò che ci è ignoto...”
Numerosi “utilissimi precetti ed esortazioni alla virtù sono contenuti in trattati di
morale”, ma le disquisizioni degli antichi moralisti erano palazzi torreggianti e
splendidi fondati però solo su sabbia e fango. In tutti questi campi, la verità reale
o verificabile brillava per la sua assenza.
Durante gli anni trascorsi nell’esercito, in viaggi e a Parigi, Descartes ponderò
la questione di come si possono conseguire verità. Gradualmente gli si fece chiaro
un programma su come assicurarsele. Cominciò col mettere da parte tutte le
opinioni, i pregiudizi e le cosiddette conoscenze che aveva acquistato fino a quel
149
momento. Rifiutò inoltre ogni conoscenza fondata sull’autorità e smise ogni
nozione preconcetta.
Il rifiuto di ciò che è falso non era però in sé sufficiente a produrre la verità. Il
problema che egli pose poi a se stesso fu quello di trovare il metodo per stabilire
nuove verità. La risposta gli venne durante un sogno nel corso di una delle
campagne militari cui partecipò.
Le “lunghe catene di ragionamenti semplici e facili per mezzo dei quali i
geometri sono abituati a raggiungere le conclusioni delle loro dimostrazioni più
difficili” lo condussero a credere che “tutte le cose alla portata della conoscenza
dell’uomo sono reciprocamente connesse nello stesso modo...” Egli decise allora
che un sano corpo di filosofia potesse essere dedotto solo usando i metodi dei
geometri, poiché essi soli sono in grado di ragionare in modo chiaro e
irreprensibile e di pervenire a verità indubitabili. Avendo concluso che la
matematica “è uno strumento di conoscenza più efficace di qualsiasi altro che ci
sia stato lasciato in eredità da altri uomini,” egli cercò di distillare dallo studio
dell’argomento alcuni principi generali destinati a fornire il metodo per ottenere
una conoscenza esatta in tutti i campi o, com’egli lo chiamò, una “mathesis
universalis”. Egli si propose cioè di generalizzare e di estendere i metodi usati dai
matematici al fine di renderli applicabili a ogni tipo di investigazione.
Sostanzialmente, il metodo sarebbe stato una costruzione assiomatica, deduttiva
per ogni pensiero. Le conclusioni sarebbero state teoremi derivati da assiomi.
Guidato dai metodi dei geometri, Descartes formulò con cura le regole che lo
avrebbero diretto nella ricerca della verità. Egli decise, innanzitutto, di non
accettare come vero nulla che non fosse così chiaro e distinto al suo spirito da far
escludere ogni dubbio. Egli rifiutò pertanto i dati dei sensi e, conformemente,
tutte le qualità degli oggetti, come sapore e colore, che potevano essere le reazioni
individuali del soggetto e non caratteri intrinseci degli oggetti stessi. Il secondo
principio di questo metodo consisté nello scomporre grandi problemi in problemi
più piccoli. Il terzo stabiliva che egli avrebbe proceduto dal semplice al
complesso; e il quarto che avrebbe enumerato e verificato in modo così completo
le fasi del ragionamento deduttivo che nulla sarebbe stato omesso
inavvertitamente. Questi principi sono il nucleo del suo metodo.
Egli doveva però ancora trovare quelle verità semplici, chiare e distinte che
svolgessero nella sua filosofia quella stessa parte che gli assiomi svolgono nella
matematica vera e propria. I risultati di questa ricerca sono famosi. Dall’unica
fonte attendibile che i suoi dubbi lasciarono intatta – la coscienza di sé – egli
estrasse le pietre da costruzione della sua filosofia: a) penso, dunque sono; b) ogni
fenomeno deve avere una causa; c) un effetto non può essere maggiore della
causa; e d) le idee di perfezione, di spazio, di tempo e di moto sono innate alla
mente.
L’uomo, dubitando tanto e conoscendo così poco, non è un essere perfetto.
Eppure, secondo l’assioma d), la sua mente possiede l’idea di perfezione e, in
particolare, di un essere onnisciente, onnipotente, eterno e perfetto. In che modo si
formano queste idee? In base all’assioma c) l’idea di un essere perfetto non
150
potrebbe essere derivata o essere creata dalla mente imperfetta dell’uomo. Perciò
potrebbe essere ottenuta solo dall’esistenza di un essere perfetto, che è Dio. Perciò
Dio esiste.
Un Dio perfetto non ci ingannerebbe e quindi la nostra intuizione può essere
considerata abbastanza attendibile da fornirci alcune verità. Perciò gli assiomi
della matematica, ad esempio, che sono le nostre intuizioni più chiare, devono
essere verità. I teoremi della matematica non posseggono invece la semplicità e
l’evidenza degli assiomi. In che modo si può esser certi della loro verità? L’uomo
ragiona in un modo che egli ritiene infallibile ma quali garanzie ha del fatto che i
metodi di ragionamento conducano necessariamente a verità? Ricorrendo di
nuovo a un Dio che non ingannerebbe l’uomo, Descartes sostenne che anche le
conclusioni devono essere vere e devono perciò essere vere asserzioni sul mondo
reale. Da tali fondamenta Descartes procedette alla costruzione della sua filosofia
dell’uomo e dell’universo.
Il suo racconto della ricerca del metodo e dell’applicazione del metodo a
problemi di filosofia fu presentato nel suo famoso Discours de la méthode. La
supremazia della ragione umana, l’immutabilità delle leggi naturali, la dottrina
dell’estensione e del moto considerati come l’essenza di oggetti fisici, la
distinzione fra corpo e mente e quella fra qualità che sono reali e intrinseche in
oggetti e quelle presenti in essi solo in apparenza, essendo dovute di fatto alla
reazione della mente ai dati sensoriali, vengono elaborate in questi scritti e hanno
avuto una grande influenza nel determinare i caratteri del pensiero moderno.
Non è nostro intento soffermarci qui sulle vie filosofiche seguite da Descartes,
per quanto degne di studio esse siano. Ciò che concerne la nostra storia è che le
verità della matematica e il metodo matematico servirono da faro per un grande
pensatore che cercò a tastoni la sua via fra le tempeste intellettuali del Seicento.
La sua filosofia può essere caratterizzata di fatto come una filosofia
matematizzata. Essa è molto meno mistica, metafisica e teologica e molto più
razionale di quelle dei suoi predecessori medievali e rinascimentali. Egli esaminò
con somma cura il significato e il ragionamento impliciti in tutti gli stadi del suo
pensiero; insegnò agli uomini a guardare in se stessi alla ricerca della verità e
respinse la soggezione all’antichità e all’autorità. Con Descartes teologia e
filosofia si divisero.
Descartes riapplicò poi alla matematica il metodo che aveva astratto dalla
matematica e generalizzato; con esso egli riuscì a creare un metodo nuovo per
rappresentare e analizzare curve. Questa creazione, nota oggi come geometria
analitica, è la base di tutta la moderna matematica applicata. Si può prevedere che
essa continuerà a essere utile in futuro, mentre la filosofia di Descartes, come la
maggior parte delle filosofie, è legata a un’epoca particolare. Prima di esaminare
il pensiero di Descartes nella matematica vera e propria, dobbiamo soffermarci a
considerare gli sforzi ugualmente meritevoli e indipendenti del suo connazionale e
coinventore della geometria analitica, Pierre Fermat.
In contrasto con la vita avventurosa, romantica e tutta rivolta verso un fine di
Descartes, quella di Fermat fu monotona, molto convenzionale e pratica. Egli era
151
nato nel 1601 nella famiglia di un mercante francese di cuoio. Dopo aver studiato
legge a Tolosa, fu per la maggior parte della sua vita un funzionario dello Stato.
Anche la vita domestica di Fermat fu del tutto comune: sposatosi a trent’anni, si
dedicò tutto alla moglie e ai suoi cinque figli. Visse tranquillo; ignorando i grandi
problemi concernenti Dio, l’uomo e la natura dell’universo e si rilassò la notte
con il suo passatempo favorito, la matematica. Mentre la matematica serviva a
Descartes per risolvere problemi filosofici e scientifici e per padroneggiare la
natura, la disciplina offriva a Fermat bellezza, armonia e i piaceri della
contemplazione. Nonostante il breve tempo che poteva dedicare a
quest’argomento e l’atteggiamento edonistico con cui lo affrontava, a
sessantaquattro anni si era imposto come uno fra i più grandi matematici di tutti i
tempi.
I suoi contributi al calcolo infinitesimale furono di primo piano benché messi
un pò in ombra da quelli di Newton e di Leibniz. Con Pascal condivide l’onore di
aver creato la teoria matematica della probabilità e con Descartes quella della
creazione della geometria analitica. Da solo fondò uno dei grandi settori della
matematica, la teoria dei numeri. In tutti questi campi, questo “dilettante” ottenne
risultati brillanti e lasciò la sua impronta. Benché non fosse interessato a un
metodo universale in filosofia, Fermat ricercò un metodo generale per trattare le
curve. Qui le sue idee si incontrarono con quelle di Descartes.
Dobbiamo compiere una breve digressione per capire perché i grandi
matematici di questo tempo fossero così interessati allo studio delle curve. Nella
prima parte del Seicento, la matematica era ancora sostanzialmente un corpo di
geometria con appendici algebriche, e il cuore di questo corpus era il contributo di
Euclide. La geometria euclidea si limita a figure formate da linee rette e da cerchi;
nel Seicento però i progressi della scienza e della tecnica avevano prodotto il
bisogno di operare con molte figure nuove. Ellissi, parabole e iperboli divennero
importanti in quanto descrivevano le traiettorie dei pianeti e delle comete. Le
parabole erano anche traiettorie di proiettili come le palle di cannone. Il moto
della Luna fu studiato intensamente per contribuire alla determinazione della
posizione di navi in mare. I percorsi curvi dei raggi di luce attraverso l’atmosfera
interessavano ad astronomi e artisti, mentre la curvatura delle lenti fu studiata in
relazione al loro uso negli occhiali, nel telescopio, nel microscopio e per capire il
funzionamento dell’occhio umano. Di fatto, sia Descartes sia Fermat furono
molto interessati all’ottica. Descartes pubblicò un saggio sul passaggio della luce
attraverso lenti e Fermat introdusse varie lenti fondamentali, di una delle quali ci
occuperemo in un altro capitolo. Euclide non offriva purtroppo alcuna
informazione sulle curve implicate in questi e in numerosi altri problemi pratici e
le opere greche sopravvissute sulle sezioni coniche erano inadeguate.
Le opere greche non soltanto non fornivano le conoscenze desiderate su curve
importanti ma non mettevano neppure a disposizione metodi matematici di
generale applicazione per conseguire tali conoscenze. Ogni dimostrazione in
Euclide richiedeva nuove impostazioni, spesso ingegnose. I matematici greci, che
disponevano di molto tempo e che non avevano alcun interesse per le applicazioni
152
immediate, evidentemente non sentirono come un difetto questa mancanza di un
procedimento generale. Le molteplici esigenze pratiche e scientifiche del Seicento
misero invece sotto pressione i matematici, chiedendo loro di risolvere in breve
tempo problemi difficili.
A questo punto entrano in scena Descartes e Fermat. Essi erano decisamente
insoddisfatti dei metodi limitati usati nella geometria euclidea. Descartes criticò
esplicitamente la geometria degli antichi accusandola di essere troppo astratta e di
essere tanto legata a figure “da poter esercitare l’intelletto solo a prezzo di grande
fatica dell’immaginazione.” Egli criticò anche l’algebra, così totalmente soggetta
a regole e a formule “da risultarne un’arte piena di confusione e di oscurità, adatta
per mettere in imbarazzo, invece che una scienza idonea a coltivare la mente.”
D’altra parte, entrambi gli uomini riconobbero che la geometria forniva
informazioni e verità sul mondo reale. Essi apprezzarono anche il fatto che
l’algebra potesse essere usata per ragionare su quantità astratte e incognite, e
anche per meccanizzare il processo del ragionamento e minimizzare lo sforzo
richiesto per risolvere problemi. Essa è in potenza una scienza universale del
metodo. Descartes e Fermat si proposero perciò di attingere il meglio dalla
geometria e dall’algebra e di correggere con l’una i difetti dell’altra.
Possiamo comprendere nel modo migliore i risultati ottenuti da questi uomini
nel compito che si proposero seguendo il ragionamento di Descartes, anche se la
nostra esposizione può differire dalla sua nei particolari. Abbiamo visto che nel
suo studio generale del metodo egli aveva deciso di risolvere tutti i problemi
procedendo dal semplice al complesso. Ora, la figura più semplice nella
geometria è la linea retta. Egli cercò perciò di affrontare lo studio di curve
mediante linee rette e trovò il modo di realizzare questo progetto.
Sia data, disse Descartes, una curva come quella illustrata nella figura 35.
Questa curva può essere immaginata come generata da un punto P giacente su una
linea verticale PQ. Mentre la linea si muove verso destra, il punto P si muove su o
giù in accordo con la forma della curva. Ogni curva può essere studiata pertanto
studiando il moto di un punto P che si muove in alto o in basso lungo una linea
retta che si muove a sua volta orizzontalmente rispetto alle sue posizioni
precedenti. Fin qui tutto bene. Come si può, però, caratterizzare una curva col
comportamento di P?
Fig. 35. Curva generata dal moto di un segmento rettilineo di lunghezza
variabile.
153
A tal fine Descartes usò l’algebra, sapendo che il linguaggio algebrico è un
espediente semplice per aiutare la memoria e che abbraccia molti fatti in breve
spazio. Man mano che la linea verticale si muove verso destra (fig. 35), la sua
distanza da una posizione fissa in O, ad esempio, può essere usata per denotare la
sua posizione. Questa distanza è indicata con x. La posizione di P sulla linea in
movimento può essere specificata stabilendone la distanza al di sopra della linea
orizzontale OQ. Questa distanza può essere denotata con y. Così, per ciascuna
posizione di P ci saranno un valore di x e un valore di y. Due curve diverse aventi
un valore x uguale differiranno nei valori di y. Perciò quel che caratterizza una
curva è una qualche relazione fra x e y valida per i punti P su tale curva, relazione
che sarebbe diversa per una curva diversa.
Vediamo in che modo quest’idea si applichi a una curva semplice come una
linea retta che passi per il punto O e formi con l’orizzontale un angolo di 45° (fig.
36). Se la linea mobile QP si muove percorrendo una distanza x verso destra, il
punto P dovrà salire di una distanza y pari a x per raggiungere la linea retta,
poiché la geometria euclidea ci dice che OQP è un triangolo isoscele e che OQ
dev’essere perciò uguale a QP. Perciò
(1) y = x
è la relazione che caratterizza i punti della linea retta in questione. Così il punto
P per il quale la distanza OQ è 3 e la distanza PQ è 3 è un punto sulla linea poiché
il suo valore di x (= 3) e il suo valore di y (= 3) soddisfa l’equazione y = x.
Fig. 36. Una linea retta che forma un angolo di 45° con l’orizzontale.
Al fine di includere sulla linea punti come P' e nello stesso tempo di
distinguere P' da P, si è convenuto di usare numeri negativi per rappresentare le
distanze percorse da PQ a sinistra di O e le distanze QP al di sotto della linea
orizzontale OQ. Così i valori di x e di y di P' sono entrambi negativi e uguali e
continua a esser vera l’equazione y = x. D’altra parte, per il punto R, che non
giace sulla linea P'OP, il valore di y ovvero la distanza QR non è uguale a x; per
punti esterni alla linea non e dunque vero che y = x.
154
Fig. 37. Il sistema delle coordinate ortogonali.
Possiamo sistematizzare come segue le idee contenute nell’esame compiuto qui
sopra: Per esaminare l’equazione di una curva introduciamo una linea orizzontale
che sarà chiamata l’asse X (fig 37), un punto O su questa linea, chiamato origine,
è una linea verticale che passa per O ed è chiamata l’asse Y. Se P è un punto su
una curva, la sua posizione è descritta da due numeri. Il primo è la distanza da O
al piede, Q, della perpendicolare condotta da P all’asse X. Questo numero si
chiama valore x o ascissa di P. Il secondo numero è la distanza PQ ed è chiamato
valore y o ordinata di P. I due numeri sono chiamati le coordinate di P e vengono
scritti generalmente così (x, y).
Fig. 38. Un cerchio collocato su un sistema di coordinate ortogonali.
Si conviene che se P si trova a destra dell’asse Y il suo valore x è considerato
positivo, se invece si trova alla sua sinistra è negativo. Similmente, se P è al di
sopra dell’asse X, il suo valore y è considerato positivo, mentre se esso si trova al
di sotto il suo valore y è negativo. La curva viene allora descritta algebricamente
stabilendo un’equazione che sia valida per valori delle x e delle y di punti su
quella curva e solo per quei punti.
Per illustrare l’idea di Descartes con un altro esempio, vediamo di applicarla al
cerchio della figura 38. Supponiamo che il cerchio abbia il raggio 5. Supponiamo
che P sia un punto qualsiasi sulla curva e che x e y siano le sue coordinate. Il
155
teorema di Pitagora, secondo il quale la somma dei quadrati dei cateti è uguale al
quadrato dell’ipotenusa, ci dice che
(2) x2 + y
2 = 25.
Questa relazione vale per qualsiasi punto P sul cerchio; i valori x e y di ciascun
punto sono cioè tali che x2 + y
2 = 25. Ad esempio, il punto che ha le coordinate
(3,4) giace sul cerchio perché 32 + 4
2 = 25. (3,2) non sono invece le coordinate di
un punto sul cerchio perché 32 + 2
2 non fa 25. Diciamo che l’equazione (2) è
soddisfatta dalle coordinate di un punto se la sostituzione della sua ascissa a x e
della sua ordinata a y lascia il primo membro dell’equazione uguale al secondo.
Le coordinate di un punto giacente sulla circonferenza soddisfano l’equazione; le
coordinate di un punto che non giace sul cerchio non soddisfano l’equazione.
Abbiamo fatto vedere così in che modo una curva possa essere rappresentata da
un’equazione che caratterizza questa curva in un modo univoco. L’idea di
Descartes ci consente anche di rovesciare il procedimento. Supponiamo di partire
da un’equazione come
(3) y = x2.
Quale curva può essere associata a quest’equazione? Consideriamo la cosa
ancora una volta nei termini del comportamento del punto P sulla linea in
movimento PQ. Quando PQ si muove a destra di O la distanza OQ, che è il valore
x di P, è positiva. Ora, l’equazione (3) ci dice che il valore y di P, ovvero la
distanza PQ, dev’essere sempre uguale a x2. Quando x è positivo, lo è anche x
2. Il
punto P deve trovarsi perciò al di sopra dell’asse X. Inoltre, quando x è piccolo, lo
è anche x2, che aumenta rapidissimamente al crescere di x. Sappiamo perciò,
almeno approssimativamente, qual è la forma della curva per valori positivi di x
(fig. 39). Ora, quando PQ si muove a sinistra di O, il valore x di P è negativo; x2 è
però ancora positivo perché il quadrato di un numero negativo è positivo. P sarà
perciò al di sopra dell’asse X. Di più, il valore di x2 è identico per un determinato
valore negativo di x e per il corrispondente valore positivo della stessa x. Ad
esempio, x2 è 9 sia per x = - 3 sia per x = + 3. Il punto P si muoverà perciò nello
stesso modo alla sinistra dell’asse Y di come fa a destra. La curva completa è
illustrata nella figura 39, dove s’intende che la curva continua a salire
indefinitamente tanto a destra quanto a sinistra. La nostra analisi dell’equazione y
= x2 ci dimostra che la curva è simmetrica attorno all’asse Y. Si potrebbe
dimostrare che tale curva è una parabola.
Se desiderassimo ottenere un’immagine più precisa della curva, potremmo
scegliere valori di x, sostituirli nell’equazione y = x2, e calcolare i corrispondenti
valori di y. Così, quando x = 1, y = 1; quando x = 2, y = 4; quando x = 2 1/2, y =
25/4 e così via. Poiché ciascuna di queste coppie di coordinate, ad esempio (2, 4),
rappresenta un punto sulla curva, potremmo registrare questi punti e unirli con
156
una curva continua. Quante più coordinate calcoliamo, tanti più punti possiamo
registrare e con tanto maggior precisione può essere disegnata la curva.
Fig. 39. La curva di y = x
2.
Ecco dunque dinanzi a noi il nucleo dell’idea di Descartes e di Fermat. A ogni
curva corrisponde un’equazione e una sola, la quale descrive i punti di tale curva
e nessun altro punto. Inversamente, ogni equazione implicante x e y può essere
descritta come curva interpretando x e y come coordinate di punti. E precisamente
l’equazione di qualsiasi curva è un’uguaglianza algebrica la quale è soddisfatta
dalle coordinate di tutti i punti giacenti sulla curva ma non dalle coordinate di
qualsiasi altro punto. L’associazione di equazione e di curva è quindi l’idea
nuova. Combinando il meglio dell’algebra e il meglio della geometria, Descartes
e Fermat disponevano di un metodo nuovo e di grandissimo valore per lo studio
delle figure geometriche. È questa l’essenza dell’idea di Descartes presentata in
un’appendice al Discorso sul metodo a dimostrazione dei risultati a cui il suo
metodo generale in filosofia poteva condurre se applicato alla matematica. Di
fatto, in due o tre mesi, Descartes riuscì a risolvere ricorrendo a questo metodo
molti difficili problemi.
Oltre all’analisi di proprietà di singole curve, l’associazione di equazione e di
curva rende possibile una grande quantità di applicazioni scientifiche della
matematica. In questa connessione esamineremo un’applicazione della parabola
in cui l’equazione della curva si è dimostrata preziosa. Una parabola è sempre
simmetrica rispetto a una linea che è chiamata il suo asse. Nella figura 39
quest’asse di simmetria è l’asse Y. Nella figura 40 l’asse è la linea orizzontale su
cui giace il punto F. Tale punto, detto fuoco, è tale che se P è un punto qualsiasi
sulla parabola, la linea PF e la linea passante per P parallela all’asse, PD nella
figura 40, formano angoli uguali con la tangente PQ in P. Ossia l’angolo 1 è
uguale all’angolo 2.
Supponiamo ora che la parabola sia una sezione trasversale di una superficie
riflettente e che una piccola sorgente di luce sia collocata in F. I raggi di luce
emanati da F colpiranno la parabola e, fortunatamente per noi, saranno riflessi su
linee parallele all’asse. Così un raggio di luce tipico originantesi in F adotterà la
traiettoria FPD. L’effetto è che tutta la luce sarà concentrata nella direzione
157
dell’asse e produrrà un forte raggio di luce. In applicazioni pratiche di questo
principio usiamo una superficie ottenuta facendo ruotare la parabola sul suo asse;
un esempio familiare ci è fornito dai fari di un’automobile (si veda anche la fig.
44).
La medesima proprietà della parabola viene usata anche in senso inverso. Se la
parabola viene orientata in modo tale che il suo asse punti verso una stella
lontana, i raggi di luce arriveranno praticamente paralleli all’asse della parabola,
colpiranno la parabola e saranno riflessi nel punto F. In F ci sarà dunque una
grande concentrazione di luce, la quale consentirà agli scienziati di vedere più
chiaramente le stelle lontane. La parabola è usata perciò in alcuni tipi di telescopi.
Se invece di una stella si osservasse il Sole, i raggi di luce convergenti in F
produrrebbero un grande calore e incendierebbero un oggetto infiammabile che vi
fosse collocato. Questo effetto rende ragione del vocabolo fuoco (dal latino focus,
focolare).
Fig. 40. La proprietà di una parabola di far convergere nel fuoco i raggi
incidenti paralleli all’asse.
Poiché le applicazioni pratiche della matematica non ci interessano
primariamente in questo libro, ci limiteremo a menzionare di passaggio che tutte
le sezioni coniche posseggono proprietà simili a quella appena descritta per la
parabola. Queste curve sono perciò effettivamente usate in lenti, telescopi,
microscopi, macchine per radiografie, sale per concerti, antenne radio, riflettori e
centinaia di altri importanti dispositivi. Quando Keplero introdusse in astronomia
le sezioni coniche, esse divennero fondamentali in tutti i calcoli astronomici,
compresi quelli di eclissi e delle traiettorie di comete. Le sezioni coniche sono
usate anche nella progettazione di cavi e di carreggiate per ponti. In tutte queste
applicazioni, le equazioni di queste curve hanno reso possibili, o almeno hanno
facilitato, i calcoli. Là dove i metodi della geometria euclidea avrebbero richiesto
costruzioni elaborate e complesse e avrebbero fornito lunghezze misurabili solo
approssimativamente, l’equazione algebrica di Descartes è uno strumento molto
158
più semplice e fornisce risposte con tanti decimali quanti ne sono richiesti dai
singoli casi. La geometria analitica può anche essersi rivelata impari all’attesa di
Descartes, secondo il quale era destinata a risolvere tutti i problemi geometrici,
ma ne risolve molti di più di quanti egli avrebbe potuto considerarne nel Seicento.
Le idee realmente importanti hanno di solito l’effetto di suggerire nozioni e
relazioni insospettate. L’associazione, a opera di Descartes, di equazione e curva,
scoprì automaticamente un nuovo mondo di curve.
Per ogni equazione algebrica in x e in y esiste una curva che è descritta da tale
equazione. Poiché il numero delle equazioni che possono essere formulate è
illimitato, è illimitato anche il numero delle curve. Queste numerose curve,
scoperte solo attraverso le loro equazioni, si sono dimostrate utili a loro volta in
numerose e molteplici applicazioni.
L’associazione di equazione e di curva fece più che aprire un nuovo mondo di
curve; essa annunciò prospettive di nuovi spazi. L’estensione dell’idea allo spazio
tridimensionale si impose da sé immediatamente, e fu seguita dalla suggestiva
intuizione di estendere l’idea a dimensioni ancora superiori. Dobbiamo dare uno
sguardo a queste ramificazioni più recenti della geometria analitica poiché queste
estensioni sono alla base degli sviluppi scientifici più complessi e raffinati,
compresa la teoria della relatività.
Fig. 41. Sistema di coordinate ortogonali tridimensionale.
Considereremo dapprima l’estensione della geometria analitica allo spazio
tridimensionale. Abbiamo già visto che la posizione di un punto nel piano può
essere descritta da una coppia di numeri o coordinate. Sarà subito evidente che la
posizione di un punto nello spazio può essere specificata da un tripletto di numeri.
Sia A un piano, come il piano di questa pagina, e sia tenuto orizzontalmente.
Supponiamo che in questo piano la direzione in cui sono misurati i valori di x
positivi sia indicata da OX (fig. 41) e che la direzione in cui sono misurati valori
positivi di y sia indicata da OY.
159
Ora, ogni punto P nello spazio si trova o al di sopra o al di sotto del piano A di
una distanza che rappresenteremo con z; z è positivo per punti che si trovino al di
sopra di A e negativo per punti che si trovino al di sotto. Ad esempio, se P è 4
unità al di sopra di A, il suo valore z è 4. La posizione di P nello spazio è descritta
completamente osservando innanzitutto che esso si trova direttamente al di sopra
del punto R nel piano orizzontale. R ha coordinate x e y, trovandosi nel piano A.
Supponiamo che queste coordinate siano (3, 2). I numeri 3, 2 e 4 determinano
allora completamente la posizione di P e nessun altro punto nello spazio risponde
a questa descrizione. Chiamiamo perciò 3, 2 e 4 le coordinate di P e le scriviamo
nella forma (3, 2, 4). Per un punto che si trovi sul piano A, come ad esempio R, si
assegna una terza coordinata O così che le coordinate di R in questo sistema di
coordinate tridimensionale che stiamo ora costruendo sono (3, 2, 0). Il punto P'
con coordinate (3, 2, - 4) è anch’esso raffigurato nella figura 41. L’intersezione O
dei tre assi OX, OY e OZ è chiamata l’origine del sistema tridimensionale e ha le
coordinate (0, 0, 0).
Fig. 42. Una sfera collocata in un sistema di coordinate ortogonali
tridimensionale.
Per mezzo del nostro sistema di coordinate tridimensionale è possibile mettere
in relazione equazioni algebriche e figure geometriche nello spazio. Per illustrare
una tale relazione consideriamo la sfera. La sfera è per definizione l’insieme di
tutti i punti dello spazio equidistanti da un punto fisso chiamato il centro della
sfera. Supponiamo che tutti i punti della nostra sfera siano a 5 unità dal centro e
che la sfera sia collocata in modo che il suo centro sia all’origine di un sistema di
coordinate tridimensionale (fig. 42). Siano (x, y, z) le coordinate di un punto P
qualsiasi sulla sfera. Allora x e y sono i cateti di un triangolo rettangolo (che giace
nel piano orizzontale), la cui ipotenusa è OR. Per il teorema di Pitagora
160
x2 + y
2 = OR
2.
OR e z sono però i cateti del triangolo rettangolo ORP, la cui ipotenusa è OP o
5 unità. Allora
OR2 + z
2= 25.
Ma OR2 ha un valore dall’equazione precedente. Se sostituiamo questo valore,
otteniamo l’equazione
x2 + y
2 + z
2 = 25.
È questa l’equazione di una sfera, nel senso che il primo membro è uguale al
secondo quando e solo quando a x, y e z si sostituiscano le coordinate di un punto
sulla sfera. Il punto (0, 3, 4), ad esempio, soddisfa l’equazione, poiché
02 + 3
2 + 4
2 = 25
e perciò giace sulla sfera. La somiglianza dell’equazione della sfera a x2 + y
2 =
25, che è l’equazione del cerchio, dovrebbe essere osservata per essere esaminata
ulteriormente.
Il caso della sfera illustra un fatto nuovo importante. Un’equazione in x, y e z
rappresenta una superficie e ogni superficie è rappresentata da una tale equazione.
Senza dilungarci nei particolari, citeremo alcune equazioni e le superfici
corrispondenti perché tali esempi potranno aiutare il lettore a seguire il nostro
esame della geometria quadridimensionale.
Un’equazione della forma
3x + 4y + 5z = 6
(i numeri sono scelti a caso) rappresenta l’insieme di punti di un piano (fig. 43).
La somiglianza di quest’equazione con l’equazione di una linea retta che in un
sistema di coordinate bidimensionale è esemplificata da 3x + 4y = 6 è evidente.
Un’equazione della forma
x2 + y
2 = z
rappresenta un paraboloide (fig. 44). Il paraboloide presentato in questa figura
ha pressappoco la forma di un faro d’automobile. Quest’equazione è assai simile
alla y = x2, che rappresenta una parabola.
La sfera, il piano e il paraboloide sono gli analoghi, nello spazio
tridimensionale, del cerchio, della linea e della parabola, e questa relazione ci si
rivela quando confrontiamo le loro equazioni. Se avessimo a disposizione il
tempo di esaminare le equazioni di altre superfici, troveremmo che esse sono le
estensioni naturali delle equazioni di curve che hanno proprietà geometriche
simili.
161
Il linguaggio trasporta idee; un linguaggio ricco può anche suggerire nuove
idee. Ciò accade almeno nella matematica dove il linguaggio si dimostra spesso
più intelligente delle persone che lo inventano. Il linguaggio algebrico della
geometria analitica rivelò di possedere un potere inaspettato poiché dispensa dal
bisogno del pensiero geometrico.
Fig. 43. Il piano corrispondente all’equazione 3x + 4y + 5z = 6.
Consideriamo l’equazione x2 + y
2 = 25, che sappiamo ora rappresentare un
cerchio. Dov’è la figura arrotondata, la via senza fine, la bellezza della forma?
Tutto nella formula. L’algebra ha sostituito la geometria; la mente ha sostituito
l’“occhio.” Noi possiamo trovare tutte le proprietà del cerchio geometrico in
proprietà algebriche di quest’equazione. Questo fatto suggerì ai matematici la
possibilità di esplorare attraverso la rappresentazione algebrica di figure
geometriche un concetto proposto ancor prima dell’epoca di Descartes e di
Fermat ma fino a questo periodo inaccessibile: ossia la geometria
quadridimensionale.
Fig. 44. La superficie parabolica corrispondente all’equazione x
2 + y
2 = z.
Che cos’è una geometria quadridimensionale? Considerato visivamente, il
concetto non ha alcun significato. Ma noi possiamo immaginare quattro linee fra
loro perpendicolari, ossia quattro linee di cui ciascuna sia perpendicolare alle altre
162
tre. Un punto in uno spazio quadridimensionale può anche essere considerato
come rappresentato da quattro numeri o coordinate; tali numeri sarebbero le
distanze che devono essere percorse lungo i quattro assi per raggiungere tale
punto. Così le coordinate di un punto arbitrario possono essere scritte come (x, y,
z, w). È possibile, inoltre, immaginare particolari figure geometriche in uno spazio
quadridimensionale. Il modo più conveniente per introdurre e studiare queste
figure è attraverso il linguaggio della geometria analitica. Ad esempio, possiamo
formulare un’equazione come la seguente
x + y + z – w = 5.
Quest’equazione è soddisfatta da molti insiemi di valori di x, y, z, e w. Così i
valori x = 1, y = 6, z = 2 e w = 4 soddisfano quest’equazione e così i valori x = 1, y
= 5, z = 3 e w = 4. Ogni insieme di valori che soddisfa l’equazione appartiene a un
punto e la figura geometrica rappresentata dall’equazione è l’insieme di punti
ciascuna delle cui coordinate soddisfa l’equazione. Poiché l’equazione è
l’estensione a quattro lettere delle equazioni della linea retta e del piano,
chiamiamo questa figura un iperpiano. Similmente, possiamo parlare della figura
appartenente all’equazione
x2 + y
2 + z
2 + w
2 = 25
come di un’ipersfera, poiché quest’equazione è un’estensione a quattro lettere
delle equazioni del cerchio e della sfera. Le equazioni a quattro lettere sono la
descrizione algebrica di figure in uno spazio quadridimensionale.
Le figure della geometria quadridimensionale esistono nello stesso senso delle
figure a due e a tre dimensioni. L’iperpiano è altrettanto “reale” della linea retta e
del piano, e l’ipersfera è altrettanto “reale” del cerchio e della sfera. Lo stesso vale
per tutti gli altri oggetti della geometria a un numero di dimensioni superiore. La
difficoltà che i più provano ad accettare una geometria quadridimensionale e le
equazioni corrispondenti è dovuta al fatto di confondere costruzioni mentali e
visualizzazione. L’intera geometria, inclusa la geometria euclidea bi- e
tridimensionale, si occupa, come sottolineò Platone, di idee che esistono solo
nella mente. Fortunatamente possiamo visualizzare o descrivere graficamente le
idee bi- e tridimensionali per mezzo di disegni sulla carta e questi disegni ci
aiutano a ricordare e a organizzare i nostri pensieri. Ma i disegni non sono
l’argomento della geometria e non ci è consentito ragionare sulla base di essi. È
vero che la maggior parte delle persone, inclusi i matematici, si appoggiano a
questi disegni come a una stampella e sono incapaci a camminare quando la
stampella sia loro sottratta. Per fare un viaggio nei campi della geometria a un
numero di dimensioni superiore la stampella non è però disponibile. Nessuno,
nemmeno il matematico più dotato, può visualizzare strutture quadridimensionali;
egli deve fondarsi solo sulla sua mente. Le strutture sono trattate quindi per
mezzo delle loro equazioni.
163
Fig. 45. Sezioni bidimensionali dell’ellissoide.
Di fatto è possibile visualizzare sezioni di figure nello spazio
quadridimensionale. Il significato di quest’asserzione può essere spiegato in
riferimento a una situazione tridimensionale. Supponiamo di voler studiare
l’ellissoide (ad esempio la superficie di una palla da rugby) nei particolari. Per
aggirare la difficoltà di visualizzare l’intera figura, una difficoltà in questo caso
non troppo grande, un espediente matematico molto usato consiste nel prendere
sezioni piane dell’ellissoide e studiare queste. Da queste sezioni – ellissi come A e
B nella figura 45 – possiamo ottenere la conoscenza dell’intero ellissoide. Il
problema dello studio di una figura nello spazio tridimensionale è ridotto così a
quello dello studio di figure nello spazio bidimensionale.
In modo simile possiamo esaminare sezioni bi- e tridimensionali di figure
geometriche quadridimensionali e dedurre conoscenze su di esse dallo studio delle
sezioni. “Ma,” potrebbe obiettare il lettore, “sappiamo che cosa sono le sezioni
piane di un ellissoide perché possiamo visualizzare l’intera figura. Come
possiamo ottenere un risultato analogo per il nostro mondo quadridimensionale?”
La risposta è: per mezzo delle equazioni algebriche. Troviamo prima l’equazione
della sezione e ne otteniamo la forma con la nostra conoscenza della geometria
analitica ordinaria, bidimensionale e tridimensionale.
In modo ancora diverso siamo in grado di visualizzare figure di uno spazio
quadridimensionale. Per studiare una sezione ellittica dell’ellissoide possiamo
limitarci al piano su cui giace l’ellisse, cioè abbiamo bisogno di considerare solo
un mondo bidimensionale. Consideriamo ora una curva di un mondo
quadridimensionale. Se questa curva si trova su un piano può essere visualizzata
completamente, benché faccia parte di un mondo quadridimensionale.
Se possiamo studiare figure quadridimensionali in termini di sezioni bi- e
tridimensionali, perché ammettere in primo luogo il mondo quadridimensionale?
La risposta è che la vera relazione di queste sezioni l’una all’altra può esistere
164
solo in un tale mondo, così come la vera relazione delle sezioni A e B
dell’ellissoide della figura 45 può esistere solo nello spazio tridimensionale.
La nozione di una geometria quadridimensionale è di fatto molto utile nello
studio dei fenomeni fisici. C’è un punto di vista da cui il mondo fisico può e deve
essere considerato quadridimensionale. Qualsiasi fatto ha luogo in un certo posto
e in un certo tempo. Per descrivere questo fatto come distinto da altri fatti
dovremmo indicare la posizione e il tempo del suo verificarsi. La sua posizione
nello spazio può essere specificata da tre numeri, ossia le sue coordinate in uno
spazio analitico tridimensionale; il tempo del verificarsi può essere specificato
come un quarto numero. I numeri x, y, z e t, non uno di meno, servono pertanto a
specificare un evento in modo chiaro. I quattro numeri sono le coordinate di un
punto in un mondo spaziotemporale quadridimensionale. È quindi naturale
pensare al mondo degli eventi come a un mondo quadridimensionale e studiare gli
eventi fisici in tale luce.
Consideriamo, come evento specifico, il moto di un pianeta. Per situare un
pianeta in modo appropriato dobbiamo specificare non soltanto la posizione del
pianeta ma anche l’epoca in cui il pianeta occupa tale posizione. Per descrivere la
posizione del pianeta si richiedono dunque di fatto quattro numeri, i quali possono
essere considerati come la descrizione di un punto in una geometria
quadridimensionale. Anche le posizioni successive del pianeta possono essere
descritte come punti di un mondo quadridimensionale e l’intero moto del pianeta
nello spazio-tempo è descritto da una ipercurva. Non possiamo visualizzare o
disegnare una tale curva ma possiamo rappresentarla con un’equazione o, più
esattamente, con un insieme di equazioni a quattro lettere. Se le equazioni sono
scelte in modo corretto, esse includono una descrizione completa del moto,
esattamente come x2 + y
2 = 25 è una descrizione completa del cerchio. E come
possiamo dedurre fatti concernenti il cerchio dallo studio della sua equazione, così
possiamo dedurre fatti sul moto di un pianeta studiandone le equazioni
rappresentative.
Dovremmo forse cogliere quest’occasione per sottolineare che una grande
quantità di affermazioni assurde sono state scritte su ciò che accadrebbe se
vivessimo in un mondo avente quattro dimensioni spaziali. Molti autori hanno
dichiarato che in un mondo di quattro dimensioni spaziali la gente potrebbe
mangiare un uovo senza romperne il guscio, o uscire da una stanza senza passare
attraverso le pareti, il pavimento o il soffitto. Questi autori ragionano per analogia
con situazioni paragonabili in dimensioni inferiori. Per passare da un punto A
all’interno di un quadrato a un punto B all’esterno di esso (fig. 46) restando nel
piano della carta, bisogna attraversare il confine C. Ma possiamo evitare C se ci è
consentito di usare una terza dimensione e di uscire dal piano della carta.
Similmente, per passare da un punto A all’interno di un cubo a un punto B
all’esterno di esso (fig. 47), bisogna attraversare la superficie del cubo, finché
siamo confinati alle tre dimensioni.
Nondimeno, e qui interviene il ragionamento per analogia, se potessimo usare
una quarta dimensione potremmo evitare di attraversare la superficie del cubo.
165
Fig. 46 Fig. 47
Ora, speculazioni del genere sarebbero innocue se non dessero l’impressione
che i matematici credano nell’esistenza reale di un mondo a quattro dimensioni
spaziali e sperino un giorno di educare il nostro apparato visivo a percepire questo
mondo. I matematici non nutrono nessuna convinzione del genere né contemplano
un tale progetto.
Le nozioni di dimensione e di geometria di uno spazio a più di tre dimensioni
sono settori della matematica affascinanti. Questi argomenti ci portano però molto
oltre l’epoca e l’opera di Descartes e di Fermat. In questo capitolo l’argomento
che ci interessa e la loro opera e la lezione che ne può essere derivata. Qual è
allora tale lezione? In primo luogo, la matematica fu un’ispirazione e un faro nel
pensiero filosofico. In secondo luogo, un interesse filosofico per il metodo e un
piacere intellettuale nell’attività matematica produssero la geometria analitica da
cui praticamente dipendono tutte le applicazioni della matematica al mondo
fisico. La linea di sviluppo da Descartes a Newton a Einstein è così rettilinea
come potrebbe concepirla una idealizzazione matematica.
L’opera di Descartes accrebbe considerevolmente l’importanza della
matematica poiché egli fu il primo pensatore influente a dimostrare al mondo la
natura e il valore del metodo matematico nella ricerca della verità da parte
dell’uomo. Egli offrì a un mondo sperduto nella confusione che caratterizza la
fine di un’èra un piano di approccio ai problemi. Quanto il mondo traesse profitto
dell’opera di proselitismo svolta da Descartes a favore della causa del metodo
matematico apparirà evidente nello spazio di alcuni capitoli.
166
XIII. L’approccio quantitativo alla natura
Si aprirà l’accesso a una scienza vastissima e
importantissima, della quale queste nostre fatiche
costituiranno gli elementi e in cui ingegni più del mio
perspicaci penetreranno più riposti recessi.
GALILEO
Un giorno un giovane che era studente all’università di Pisa visitò la cattedrale.
La funzione religiosa doveva essere noiosa poiché, invece di ascoltare
attentamente, egli osservava le oscillazioni di una grande lampada sospesa. Il
giovane si accorse presto che il tempo impiegato dalla lampada a percorrere un
grande arco doveva essere uguale a quello che impiegava, via via, a percorrere
archi più piccoli. Per verificare quest’osservazione egli non usò il suo orologio da
taschino per la semplice ragione che non era ancora stato inventato, ma pensò di
usare il battito del suo polso. L’osservazione risultò corretta e un giovinetto si
trovò ad aver scoperto una legge scientifica che governa ogni moto pendolare: il
tempo richiesto da un pendolo a compiere un’oscillazione è indipendente
dall’ampiezza dell’oscillazione. Non molto tempo dopo questa legge fu usata per
progettare l’utile orologio che il giovane non possedeva. Fatto più importante, la
scoperta suggerì un nuovo concetto di attività scientifica che definisce la scienza
moderna e nello stesso tempo le conferisce il suo potere “magico”. È appunto
questo il concetto che intendiamo ora esaminare.
Il giovane che sognava a occhi aperti in chiesa, Galileo Galilei, figlio di un
musicista, era nato a Pisa nel 1564, l’anno della nascita di Shakespeare. All’età di
diciassette anni era entrato all’università di Pisa per studiarvi medicina e, sempre
a Pisa, apprese la matematica in lezioni private da un ingegnere. La lettura di
Euclide e di Archimede infiammò un genio naturale per la matematica e per la
scienza e perciò, col consenso del padre, egli si rivolse allo studio di questi settori.
La vastità degli interessi e delle attività di Galileo era innegabilmente grande,
anche per un’età di grandi geni. Egli ebbe sempre un profondo interesse per
congegni meccanici e aveva egli stesso una grande abilità meccanica. Tenne a
casa sua, a Padova dove insegnò matematica a partire dal 1592, un’officina in cui
passava gran parte del suo tempo; qui produsse tanti nuovi e ingegnosi dispositivi
da poter essere chiamato il padre delle moderne invenzioni. Il telescopio, o
perspective glasses (lenti prospettiche), come lo chiamò Ben Jonson, con cui
Galileo scoprì i satelliti di Giove e con cui vide confusamente gli anelli di
Saturno, con cui osservò la composizione stellare della Via Lattea, le fasi di
167
Venere e le montagne e valli della Luna, fu costruito da lui. Queste osservazioni,
per inciso, dimostravano che i corpi celesti possedevano le stesse proprietà della
Terra e costituivano perciò altre prove di un certo peso a favore della teoria
eliocentrica. Un’altra invenzione di Galileo fu il pulsilogio, un congegno che
utilizzava la sua legge del moto pendolare per indicare la rapidità del polso.
Benché le sue ricerche scientifiche oscurino le altre sue attività, Galileo fu una
figura letteraria di primo piano ed è un fatto riconosciuto che egli scrisse la
miglior prosa italiana del Seicento. Egli sperimentò varie forme letterarie, criticò
e scrisse poesie e fece una lettura su Dante. I suoi scritti scientifici sono famosi
non soltanto perché presentano le sue ricerche astronomiche e fisiche ma anche
perché sono classici della letteratura. L’interesse di Galileo per l’arte dello
scrivere fu integrata dalla sua passione per la pittura e per la musica, che lo
consolarono spesso nei suoi anni più travagliati.
La creazione più artistica e più feconda della versatile mente di Galileo fu un
grande piano per la lettura del libro della natura. In sostanza esso offriva un
concetto totalmente nuovo dei fini scientifici e della funzione della matematica
nel realizzarli. Anche se non si possono ignorare gli sforzi, parziali e in genere
abortiti, di suoi precursori, Galileo formulò esplicitamente il piano e lo mandò a
effetto stabilendo un certo numero di leggi fondamentali. Quando Galileo mori,
nel 1642, vecchio e famoso, la scienza moderna era già ben avviata; la sua genesi
dev’essere considerata opera quasi esclusiva di Galileo. In questo capitolo ci
occuperemo del piano escogitato da Galileo per studiare e padroneggiare la
natura.
Quasi tutte le persone del nostro secolo si rendono conto del fatto che qualcosa
di rivoluzionario ebbe luogo nel campo della scienza attorno all’anno 1600.
Perché l’attività scientifica avviata nel Seicento si rivelò così efficace? Coloro che
contribuirono in tale secolo allo sviluppo della scienza, Descartes, Galileo,
Newton, Huygens e Leibniz, erano intelletti maggiori di quelli delle civiltà
precedenti? È difficile sostenerlo. Il profondo Aristotele e il brillante Archimede
possedevano un’intelligenza non inferiore a quella di qualsiasi scienziato del
Seicento. Forse l’efficacia della scienza seicentesca fu dovuta all’accresciuto uso
dell’osservazione, dell’esperimento e dell’induzione, metodi raccomandati da
Ruggero e da Francesco Bacone? Evidentemente no. La svolta verso
l’osservazione e la sperimentazione può essere stata un’innovazione
rinascimentale ma era un metodo di approccio almeno familiare a scienziati greci.
Né il semplice uso della matematica in studi scientifici spiega gli affascinanti
risultati ottenuti dalla scienza moderna poiché, anche se gli scienziati seicenteschi
sapevano che il fine della loro opera doveva essere quello di scoprire le relazioni
matematiche esistenti fra i vari fenomeni, la ricerca di tali relazioni in natura non
era nuova per la scienza. La convinzione della struttura matematica della natura
era stata sottoposta a verifica già in tempi greci.
Il segreto del successo della scienza moderna fu nella scelta di un nuovo
obiettivo dell’attività scientifica. Questo nuovo obiettivo, definito da Galileo e
proseguito dai suoi successori, è quello di ottenere descrizioni quantitative di
168
fenomeni scientifici indipendentemente da qualsiasi spiegazione fisica. Il
carattere rivoluzionario di questo nuovo concetto scientifico sarà apprezzato più
compiutamente quando venga messo a confronto con l’attività scientifica dei
periodi precedenti.
Gli scienziati greci concentrarono il loro interesse sulla spiegazione del perché
i fenomeni abbiano luogo. Aristotele, ad esempio, spese molto tempo cercando di
spiegare perché corpi scagliati in alto ricadano a terra. Il matematico e ingegnere
greco Erone usò il principio secondo cui la natura ha orrore del vuoto per spiegare
altri fenomeni. Similmente, la fisica greca rese conto dell’assenza di forze
apparenti che causino il moto dei corpi celesti affermando che il moto circolare è
naturale e non c’è bisogno quindi di forze che lo avviino e che lo mantengano.
Altre “spiegazioni” ancora sembrano non aver la forza di penetrare i fenomeni di
cui si occupano. Ad esempio, secondo Platone, la Terra conserva la sua posizione
fissa al centro dell’universo “perché una cosa in equilibrio in mezzo a una
sostanza uniforme non avrà una causa che la faccia inclinare verso una direzione
più che verso un’altra.”
Anche l’Europa medievale si occupava del perché le cose accadono, ma le
spiegazioni erano sempre espresse nei termini della finalità di un fenomeno. Una
“spiegazione” della pioggia era che serviva a irrigare le coltivazioni. Le piante
coltivate crescevano per nutrire l’uomo e l’uomo viveva per servire Dio e
venerarLo. San Tommaso, seguendo Aristotele, discusse il moto dal punto di vista
del perché esso accade e disse che esso è l’atto di ciò che è in potenza e cerca di
passare all’atto. Per quanto queste spiegazioni possano apparirci soddisfacenti o
no, esse furono nondimeno le risposte date a domande che si posero nelle fasi più
antiche della attività scientifica.
Galileo fu il primo uomo a rendersi conto del fatto che tali speculazioni
concernenti le cause e le ragioni di eventi non avevano fatto molto progredire fino
allora la conoscenza scientifica e non avevano dato all’uomo un grande potere di
predizione e di controllo sul corso della natura. Per queste ragioni egli propose di
sostituirle con una descrizione quantitativa dei fenomeni.
La sua proposta può essere chiarita con un esempio. Nella semplice situazione
in cui una palla è lasciata cadere dalla mano di una persona, possiamo speculare
all’infinito sul perché la palla cade. Galileo ci insegnò a comportarci
diversamente. La distanza che la palla percorre dal suo punto di partenza aumenta
col passare del tempo dall’istante dell’inizio della caduta. In linguaggio
matematico, la distanza percorsa in caduta dalla palla e il tempo trascorso
dall’inizio della caduta sono chiamati variabili, mutando entrambi quando la palla
cade. Cerchiamo, disse Galileo, qualche relazione matematica fra queste variabili.
La risposta cercata da Galileo si scrive oggi in quella forma stenografica nota
come formula; per il caso in esame la formula è s = 1/2 at2 (s = 4,9t
2). Questa
formula dice che il numero di metri, s, che la palla percorre in caduta libera in t
secondi è 4,9 volte il numero dei secondi al quadrato. Ad esempio in 3 secondi la
169
palla percorre 4,9 32 ossia 44,1 metri, in 4 secondi la palla percorre 4,9 41
ossia 78,4 metri, e così via.
Si deve osservare, innanzitutto, che la formula è concisa, esatta e
quantitativamente completa. Per ciascun valore di una variabile si può calcolare
esattamente il valore corrispondente dell’altra. Questo calcolo può essere eseguito
per milioni di valori della variabile tempo, in realtà per un numero di valori
infinito, cosicché la semplice formula s = 4,9t2
contiene una quantità
d’informazione infinita.
La formula è un modo di rappresentare una relazione fra variabili.
La relazione in sé, la cui esistenza può essere riconosciuta su basi fisiche, è
chiamata oggi funzione o relazione funzionale. Tali relazioni sono valide
praticamente in ogni ambito. Poiché la pressione dell’atmosfera varia con
l’elevazione al di sopra della superficie della Terra, esiste una relazione
funzionale fra la pressione e l’altitudine. Similmente, il costo di un articolo
artigianale dipende, ovvero ne è una funzione, dal costo delle materie prime, della
mano d’opera e dalle spese generali. In quest’ultimo esempio sono implicate
quattro variabili, una delle quali, il costo dell’articolo, dipende dalle altre tre.
È molto importante rendersi conto del fatto che una formula matematica è una
descrizione di ciò che ha luogo e non una spiegazione di una relazione causale. La
formula s = 4,9t2
non dice nulla sul perché una palla cade o se nel passato siano
cadute palle o se continueranno a cadere in futuro. Essa dà semplicemente
un’informazione quantitativa su come una palla cade. E benché tali formule siano
usate per mettere in relazione fra loro variabili che gli scienziati suppongono
siano fra loro in relazione causale, è vero nondimeno che non c’è bisogno di
investigare né di capire la connessione causale al fine di trattare la situazione con
successo. Galileo se ne rese conto chiaramente quando mise l’accento sulla
descrizione matematica contro le meno felici investigazioni qualitativa e causale
della natura.
Galileo decise dunque di ricercate le formule matematiche che descrivono il
comportamento della natura. Quest’idea, come la maggior parte delle idee geniali,
può anche lasciare a tutta prima indifferente il lettore. Si ha infatti l’impressione
che si tratti di semplici formule matematiche non aventi alcun valore reale. Esse
non spiegano nulla ma si limitano a descrivere in un linguaggio preciso. Eppure
tali formule si sono rivelate la conoscenza più valida che l’uomo abbia mai
acquisito sulla natura. Vedremo che le più affascinanti conquiste, pratiche come
teoriche, della scienza moderna sono state realizzate principalmente attraverso la
conoscenza quantitativa, descrittiva, che è stata accumulata e manipolata e non
attraverso le spiegazioni metafisiche, teologiche e anche meccaniche delle cause
dei fenomeni. La storia della scienza moderna è la storia dell’eliminazione
graduale di dèi e demoni e della riduzione di nozioni vaghe sulla luce, il suono, la
forza, i processi chimici e altri concetti a numeri e a relazioni quantitative.
La decisione di ricercare le formule che descrivono fenomeni conduce a sua
volta alla domanda: quali quantità dovrebbero essere messe in relazione fra loro
170
mediante formule? Una formula stabilisce una relazione fra i valori numerici di
enti fisici variabili come la pressione e la temperatura. Questi enti devono essere
perciò misurabili. Il principio seguito successivamente da Galileo fu quello di
misurare ciò che è misurabile e di rendere misurabile ciò che non lo è ancora. Il
suo problema fu allora quello di isolare quegli aspetti dei fenomeni naturali che
sono fondamentali e capaci di misurazione.
Perseguendo quest’obiettivo, Galileo doveva dissodare un terreno nuovo. I suoi
predecessori medievali, seguendo Aristotele, si erano accostati alla natura nei
termini di concetti come origini, essenze, forma, qualità, causalità e fini. Queste
categorie non si prestano alla quantizzazione. Galileo procedette invece a sfruttare
una filosofia della natura fondata da lui stesso e da Descartes. Quest’ultimo aveva
già fissato nella materia in moto nello spazio e nel tempo il fenomeno
fondamentale della natura. Tutti gli effetti erano spiegabili nei termini degli effetti
meccanici di tali moti. La materia stessa era considerata, di fatto, un insieme di
atomi i cui moti determinano non soltanto il comportamento di un oggetto bensì
anche le sensazioni da esso prodotte.
Galileo cercò perciò di isolare i caratteri della materia in movimento che
potevano essere misurati e poi essere messi in relazione fra loro mediante leggi
matematiche. Analizzando i fenomeni naturali e riflettendo su di essi, egli decise
di concentrare la propria attenzione su concetti come lo spazio, il tempo, il peso,
la velocità, l’accelerazione, l’inerzia, la forza e la quantità di moto. Gli scienziati
successivi aggiunsero la potenza, l’energia e altri concetti. Nella scelta di queste
proprietà e concetti particolari, Galileo rivelò di nuovo il suo genio poiché quelli
che scelse non erano immediatamente discernibili come i più importanti né erano
facilmente misurabili. Alcuni, come l’inerzia, non sono neppure posseduti
manifestamente dalla materia e la loro esistenza doveva essere inferita da
osservazioni. Altri, come la quantità di moto, dovettero essere creati
appositamente. Eppure questi concetti si rivelarono estremamente significativi
nella razionalizzazione e nella conquista della natura.
Nell’approccio galileiano alla scienza c’è un altro elemento che si rivelò
altrettanto importante in seguito. La scienza doveva essere esemplata sul modello
matematico. Galileo e i suoi successori immediati sentirono con certezza che
avrebbero potuto trovare alcune leggi del mondo fisico le quali avrebbero potuto
apparire così incontestabilmente vere come l’assioma di Euclide che tra due punti
quali si siano può essere tracciata una linea retta. Forse la contemplazione, la
sperimentazione o l’osservazione avrebbero suggerito questi assiomi di fisica; ad
ogni modo, una volta che essi fossero stati scoperti, la loro verità sarebbe stata
evidente intuitivamente. Da tali intuizioni fondamentali, questi scienziati
seicenteschi speravano di dedurre numerose altre verità, esattamente nel modo in
cui i teoremi di Euclide seguivano dai suoi assiomi.
Al fine di valutare nel suo giusto valore il significato del progetto di Galileo è
necessario rendersi conto del fatto che la scienza non è una serie di esperimenti,
per quanto sia grande l’intelligenza o l’abilità con cui sono eseguiti, né è una serie
di fatti dedotti sperimentalmente o teoricamente. Il contenuto positivo di una
171
scienza è un corpo di teoria che racchiude, organizza, mette in relazione e
illumina una quantità di fatti apparentemente sconnessi in un modo coerente e
consistente e che è capace di condurre a nuove conclusioni sul mondo fisico. I
fatti o gli esperimenti singoli hanno poco valore di per sé. Il loro valore risiede
nella teoria che li unisce insieme. Le distanze dei pianeti dal Sole sono particolari
di dettaglio: la teoria eliocentrica è la conoscenza importante. Così un’altra
innovazione di Galileo consistè nel fare della teoria scientifica, il tessuto
connettivo fra i fatti, un corpo di leggi matematiche deducibile da un insieme di
leggi assiomatiche.
Il piano di Galileo conteneva, pertanto, tre elementi principali. Il primo era la
ricerca di descrizioni quantitative di fenomeni fisici e la loro inclusione in formule
matematiche. Il secondo era l’isolamento e la misurazione delle proprietà più
fondamentali dei fenomeni. Queste sarebbero state le variabili nelle formule. Il
terzo era la costruzione deduttiva della scienza sulla base di princípi fisici
fondamentali.
Per mettere in esecuzione questo piano, Galileo doveva trovare leggi
fondamentali. Noi possiamo ottenere una formula matematica che metta in
relazione il numero dei matrimoni nel Siam e il prezzo dei ferri di cavallo a New
York, poiché queste quantità variano di anno in anno. Una tale formula non ha
però alcun valore per la scienza poiché non comprende, né direttamente né
indirettamente, alcuna informazione utile. La ricerca di leggi fondamentali era un
altro compito immenso poiché ancora una volta Galileo doveva rompere con i
suoi predecessori. Il suo approccio allo studio della materia in movimento doveva
tener conto dei moti di rotazione e di rivoluzione della Terra e questi fatti in sé
invalidavano gran parte dell’unico sistema significante di meccanica che il mondo
rinascimentale possedeva, ossia la meccanica di Aristotele.
Trattando il comportamento degli oggetti sulla Terra, questo filosofo antico
aveva insegnato che ognuno di essi ha un luogo naturale e che lo stato naturale di
un corpo consiste nel rimanere in quiete nel proprio luogo naturale. Gli oggetti
gravi hanno il loro luogo naturale al centro della Terra, che coincide ovviamente
col centro dell’universo. Gli oggetti leggeri, come i gas, hanno il loro luogo
naturale in cielo. Gli oggetti che non si trovano nel loro luogo naturale e che non
sono disturbati da forze esterne ricercheranno tale luogo; così ha origine il moto
naturale. Ad esempio, un oggetto lasciato libero dalla mano ricercherà il centro
della Terra e si dirigerà verso di esso. Quando invece un oggetto e scagliato o
spinto, il moto risultante sarà violento.
Poiché la quiete è lo stato naturale, sia il moto naturale sia il moto violento
devono essere dovuti a una qualche forza che agisce in modo continuo, altrimenti
il moto cesserà. Ogni moto è inoltre soggetto a una resistenza continua. In ogni
caso, la velocità del moto può essere espressa dalla formula (in notazione
moderna) V = F/R, o, in parole, la velocità dipende direttamente dalla forza e
inversamente dalla resistenza. Nel caso del moto naturale la forza è il peso
dell’oggetto e la resistenza deriva dal mezzo in cui l’oggetto si muove. Perciò in
un mezzo dato i corpi più pesanti devono muoversi più velocemente perché F
172
nella formula V = F/R è più grande e quindi dev’esser tale anche V. Nel moto
violento la forza è applicata da mani umane o da qualche meccanismo fatto
dall’uomo e la resistenza è dovuta al peso. Per i corpi più leggeri la resistenza R è
dunque minore e perciò la velocità V è maggiore. Perciò i corpi più leggeri si
muovono più velocemente di corpi più pesanti quando venga applicata loro una
medesima forza.
Una teoria speciale si richiedeva per spiegare alcuni fenomeni. Ad esempio, un
corpo lasciato cadere acquista continuamente velocità. Ora la forza in questo moto
naturale è fornita dal peso e questa quantità, così come la resistenza del mezzo, è
costante. Perciò, per la formula V = F/R, la velocità dovrebbe essere costante.
L’accelerazione, o aumento di velocità, fu spiegata con l’azione dell’aria che,
spinta dal corpo, lo aggirerebbe spingendolo a sua volta. Si supponeva che
quest’aria esercitasse una spinta sulla parte posteriore del corpo, accrescendone
così la velocità. Persone dalla mentalità meno scientifica spiegavano che un corpo
si muoveva tanto più allegramente quanto più era vicino alla meta.
Queste leggi di Aristotele si componevano di due parti di osservazione e di otto
parti di princípi estetici e filosofici. Esse erano servite nondimeno di base, per
molti secoli, a innumerevoli volumi di religione, di filosofia e di scienza.
Possiamo esser certi che il compito di Galileo nel portare alla luce le leggi
fondamentali della natura, come la difesa della teoria eliocentrica da parte di
Copernico, furono resi infinitamente più difficili dal fatto di dover rompere con
duemila anni di pensiero costituito.
Secondo Aristotele, per tenere un corpo in movimento si richiede una forza.
Perciò per mantenere in movimento, anche su una superficie perfettamente liscia,
un’automobile o una palla, dovrebbe essere presente una qualche forza
propulsiva. Ma Galileo aveva di questo fenomeno una conoscenza molto più
profonda che non Aristotele. Di fatto un’automobile o una palla in movimento
sono ostacolate in qualche misura dalla resistenza dell’aria e sono ritardate
dall’attrito con la superficie su cui si muovono. Se questi impedimenti non fossero
presenti, non ci sarebbe bisogno di alcuna forza propulsiva per mantenere
l’automobile in movimento. Essa continuerebbe a muoversi alla stessa velocità
indefinitamente; inoltre seguirebbe una traiettoria in linea retta. Questa legge
fondamentale del moto, secondo cui un corpo non soggetto a forze continuerà a
muoversi indefinitamente a una velocità costante e in linea retta, legge che fu
scoperta da Galileo, è nota oggi come prima legge del moto di Newton. Essa è un
principio chiaramente più penetrante di quello che Aristotele produsse per la
medesima situazione. La legge dice che un corpo varierà la sua velocità solo nel
caso che su di esso agisca una forza. I corpi posseggono così la proprietà di
resistere alle variazioni di velocità. Questa proprietà della materia, ossia la
resistenza a variazioni di velocità, è la sua massa inerziale o semplicemente la sua
massa.
Prima di addentrarci più a fondo nell’esposizione delle idee di Galileo,
dobbiamo sottolineare che questo primissimo principio è in contraddizione con
quello di Aristotele. Ciò significa forse che Aristotele compì errori palesi o che le
173
sue osservazioni erano troppo rozze o troppo poche per fornire il principio
corretto? Niente di tutto questo. È improbabile che la semplice osservazione
potesse condurre Aristotele a correggere se stesso o altri a correggere Aristotele.
Aristotele era un realista e insegnava ciò che le osservazioni realmente
suggeriscono. Il metodo di Galileo era invece più sofisticato e conseguentemente
ebbe maggior successo. Galileo affrontò il problema da matematico. Egli
idealizzò il fenomeno ignorando alcuni fatti a favore di altri, esattamente come il
matematico idealizza la corda tesa e lo spigolo di una riga concentrando la sua
attenzione su alcune proprietà a esclusione di altre. Ignorando l’attrito e la
resistenza dell’aria e immaginando che il moto avesse luogo in un puro vuoto
euclideo, egli scoprì il principio corretto fondamentale. Il suo espediente consisté
nel geometrizzare il problema e ottenere poi la legge.
Possiamo chiederci, nondimeno: l’attrito e la resistenza dell’aria non sono forse
effetti reali? Essi non causano forse la perdita di velocità di un oggetto e infine il
suo arresto finale? Talvolta lo fanno; e quando ciò accade, attrito e resistenza
dell’aria dovrebbero esser presi in considerazione. Essi sono però effetti
addizionali che si sovrappongono al fenomeno fondamentale, secondo il quale un
oggetto in moto continua a muoversi indefinitamente con velocità costante.
Talvolta l’attrito e la resistenza dell’aria sono praticamente trascurabili, come
quando un pezzo di piombo di mezzo chilo cade al suolo da un’altezza di qualche
centinaio di metri. Il riconoscimento del fatto che queste forze addizionali sono
presenti consente anche di minimizzare il loro effetto. Olio, cuscinetti a sfere e
superfici lisce riducono l’attrito nel movimento dei meccanismi. Là dove l’effetto
può essere minimizzato, il riconoscimento della sua esistenza ci consente di
tenerne conto esplicitamente e quindi di predire il moto corretto. L’atteggiamento
che Galileo assume qui è precisamente quello del matematico quando tratta figure
ideali. La misurazione di triangoli reali produrrebbe somme di angoli varianti
forse fra 160° e 200°. Il fatto fondamentale è che la somma degli angoli di un
triangolo ideale è di 180° e nella misura in cui un triangolo reale si approssima al
triangolo ideale la somma dei suoi angoli si approssimerà a 180°. Il paradosso che
sta dietro ai successi della scienza moderna sta nel fatto che lo scienziato o
matematico appare distorcere un problema idealizzandolo al punto da offendere il
senso comune e procedere poi per ottenere la soluzione corretta. Un’esposizione
del successo avuto dall’approccio di Galileo si vedrà in quanto segue.
Che cosa si può dire sul moto di un corpo cui sia stata applicata una forza? Qui
Galileo fece una seconda scoperta fondamentale. L’applicazione continua di una
forza fa sì che un corpo acquisti o perda velocità. Chiamiamo l’acquisto o la
perdita di velocità per unità di tempo l’accelerazione (positiva o negativa) del
corpo. Così se un corpo acquista velocità al ritmo di 9 metri al secondo ogni
secondo, la sua accelerazione sarà di 9 metri al secondo o, in forma abbreviata, 9
m/sec2. La seconda legge del moto afferma che se una forza fa sì che un corpo
acquisti o perda velocità, allora la forza, espressa in qualche unità adatta, è uguale
al prodotto della massa del corpo e della sua accelerazione. Espressa in una
formula questa legge dice
174
(1) F = ma.
Questa formula è importantissima. Essa implica che una forza costante produca
un’accelerazione costante su una massa costante, poiché se F e m sono fisse,
anche a dev’esserlo. Ad esempio, una resistenza costante dell’aria determina una
perdita di velocità costante, e questa circostanza rende ragione del fatto che un
oggetto che rotoli o scivoli su una superficie piana perda continuamente velocità
fino a raggiungere velocità zero.
Inversamente, se un oggetto mobile possiede accelerazione, ossia se a nella
formula (1) non è zero, allora la forza F non può essere zero. Ora, un oggetto che
cada a terra da una qualche altezza possiede accelerazione; dev’essere perciò
all’opera una qualche forza. All’epoca di Galileo aveva già acquistato qualche
credito la nozione che questa forza dovesse essere una trazione da parte della
Terra. Senza perdere peraltro molto tempo a speculare su questa nozione, Galileo
investigò i fatti quantitativi concernenti i corpi in caduta libera.
Egli scoprì che, se si trascura la resistenza dell’aria, tutti i corpi che cadono
sulla superficie della Terra hanno la medesima accelerazione costante, ossia che
acquistano velocità allo stesso ritmo, di metri 9,8 al secondo per ciascun secondo.
Se il corpo viene lasciato cadere, ossia se gli si consente semplicemente di cadere
senza imprimergli un movimento, partirà con velocità zero. Alla fine del primo
secondo la sua velocità sarà di 9,8 metri al secondo; alla fine del secondo secondo
la sua velocità sarà di 9,8 metri per 2 ossia metri 19,6 al secondo e così via. Alla
fine di t secondi la sua velocità sarà di 9,8t per secondo; in simboli
(2) v = 9,8t.
Questa formula ci dice esattamente come la velocità di un corpo in caduta
libera aumenti col tempo. Essa ci dice anche che un corpo che cade per un tempo
più lungo avrà una velocità maggiore. È questo un fatto familiare poiché
moltissime persone hanno osservato che corpi lasciati cadere da altezze maggiori
colpiscono il suolo a velocità maggiori che non corpi lasciati cadere da altezze
minori.
Al fine di trovare la distanza percorsa da un corpo in caduta libera in un certo
tempo non possiamo moltiplicare la velocità per il tempo. Questo procedimento ci
darebbe la distanza corretta solo se la velocità fosse costante. Galileo dimostra
tuttavia che la formula corretta per la distanza percorsa dal corpo in caduta in t
secondi è
(3) s = 4,9t2,
175
dove s è il numero di metri che il corpo percorre in caduta libera in t secondi.
Ad esempio, in tre secondi, il corpo percorrerà in caduta libera 4,9 32 ovvero
metri 44,1.
Dividendo entrambi i membri della formula (3) per 4,9 e poi estraendo la radice
quadrata di entrambi i membri, otteniamo il risultato che il tempo richiesto da un
oggetto per percorrere in caduta libera una distanza A' data è indicato dalla
formula t = (s/4,9). Si osservi che la massa del corpo che cade non appare in
questa formula. Perciò tutti i corpi impiegano il medesimo tempo a percorrere una
distanza data. È questa la lezione che si suppone Galileo abbia imparato lasciando
cadere oggetti dal campanile di Pisa. La gente stenta ancora, nondimeno, a
credere che un pezzo di piombo e una piuma, lasciati cadere insieme da una certa
altezza nel vuoto, raggiungano il suolo nel medesimo tempo.
Un’altra formula utile può essere ottenuta combinando la (2) e la (3).
Dividendo per 9,8 entrambi i membri della formula (2) otteniamo
t = v/9,8.
Se sostituiamo questo valore di t nella formula (3), otteniamo
s = 4,9(v/9,8)2 = 4,9(v/9,8)(v/9,8),
o
(4) s = v2/19,6.
La formula (4) ci dice che, se conosciamo la velocità di un corpo in caduta
libera, possiamo calcolare la distanza che ha percorso per raggiungere tale
velocità.
Moltiplicando entrambi i membri per 19,6, otteniamo
v2 = 19,6s
ovvero
(5) v = 19,6s
La formula (5) fornisce la velocità acquistata da un oggetto al termine della
distanza s.
Consideriamo ancora un esempio del modo in cui le leggi del moto possono
essere usate per derivare una formula importante. Consideriamo il fenomeno di
una palla proiettata verticalmente verso l’alto. Ovviamente l’altezza della palla al
di sopra del suolo muta continuamente col trascorrere del tempo. Sia t il numero
di secondi in cui la palla si muove, cominciando a contare dal momento in cui
viene proiettata verso l’alto, e sia h l’altezza al di sopra del suolo raggiunta dalla
palla in t secondi. Una formula utile in tale situazione è quella che stabilisce una
relazione fra le variabili b e t.
Supponiamo che la palla sia gettata in aria con forza sufficiente a darle una
velocità di 30 metri al secondo nel momento in cui si stacca dalla mano. Se
176
nessun’altra forza agisse sulla palla, allora, secondo la prima legge del moto di
Newton, questa velocità resterebbe costante. In t secondi la palla percorrerebbe
verso l’alto una distanza uguale alla sua velocità moltiplicata per il numero dei
secondi trascorsi, ovvero, in questo caso, una distanza di 30t. Ma nello stesso
tempo che si muove verso l’alto, la palla è attratta verso la Terra, come fa ogni
palla che sia semplicemente lasciata cadere. Secondo la formula (3) la distanza di
cui la palla è attratta verso la Terra in t secondi e di 4,9t2 metri. Il moto della palla
è dunque la risultante di due moti separati che hanno luogo simultaneamente,
un’ascesa di 30t metri in t secondi e una caduta di 4,9t2 negli stessi t secondi.
L’altezza h della palla al di sopra del suolo in t secondi è dunque
(6) h = 30t – 4,9 t2.
La derivazione di formule come le (4), (5) e (6) illustra in piccolo come Galileo
sperasse di realizzare il suo programma di derivare le importanti leggi della natura
da poche leggi fondamentali. Possiamo vedere che il ragionamento matematico
sostenuto dagli assiomi fisici consente la derivazione deduttiva di leggi. Questi
esempi, così come altri che esamineremo fra breve, illustrano anche in che modo
un matematico possa sedersi in poltrona e ottenere decine di importanti leggi
naturali. I suoi strumenti, oltre a carta e penna, sono gli assiomi e i teoremi della
matematica e gli assiomi della fisica, come le leggi del moto. La deduzione
matematica, che è l’essenza del suo lavoro, produce la conoscenza del mondo
fisico.
Da queste dimostrazioni Galileo procedette a un’osservazione che incorporò in
un’altra legge del moto. Se un corpo è trasportato da un altro, come un passeggero
è trasportato da un aereo, il primo partecipa del moto del secondo. Questo fatto
sembra abbastanza ovvio. Ma se il passeggero dovesse essere improvvisamente
espulso dall’aereo, continuerebbe a possederne il moto orizzontale; di fatto, se
non ci fossero la resistenza dell’aria e l’attrazione della Terra verso il basso, egli
continuerebbe a viaggiare di conserva con l’aereo. Questa legge spiega perché gli
oggetti sulla Terra non siano lasciati indietro dalla sua rotazione e dalla sua
rivoluzione attorno al Sole.
Fig. 48. Due oggetti in caduta libera dotati di velocità orizzontali diverse
raggiungono il ruolo nello stesso tempo.
177
Il valore potenziale di questa legge per il moto dei proietti è abbastanza
evidente e Galileo lo mise ben presto a frutto. Studiando il moto dei proietti
osservò che il moto di un oggetto può risultare da due moti simultanei
indipendenti. Il significato di questa scoperta può essere chiarito con un esempio.
Un oggetto lasciato cadere da un aereo che voli orizzontalmente possiede due
moti. In accordo con la legge or ora descritta, uno di questi due moti è orizzontale
e ha la stessa direzione e velocità dell’aereo. Il secondo moto è verticale verso il
basso. La combinazione di questi due moti simultanei fa sì che l’oggetto cada
verso il basso descrivendo una curva che, come sottolineò Galileo, è parte di una
parabola. Il moto orizzontale e il moto verticale dell’oggetto in caduta sono
nondimeno indipendenti l’uno dall’altro. Se l’aereo si muovesse con una
maggiore velocità, il moto orizzontale dell’oggetto sarebbe più veloce, mentre il
moto verso il basso sarebbe sempre il medesimo. L’oggetto impiegherebbe
dunque lo stesso tempo a raggiungere il suolo, anche se in questo caso
compirebbe un maggiore percorso orizzontale. Così, l’oggetto che lasciasse
l’aereo nel punto O della figura 48 colpirebbe il suolo nel punto Q quando la
velocità dell’aereo fosse più elevata, o nel punto P quando fosse minore, ma il
tempo richiesto per raggiungere P o Q sarebbe lo stesso.
Galileo applicò questo principio dei moti indipendenti simultanei al moto di
una palla di cannone e dimostrò che la traiettoria è anche in questo caso parte di
una parabola e che la massima gittata è ottenuta sparando con un alzo di 45°.
Tutti questi risultati e molti altri furono esposti da Galileo nei Discorsi e
dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, un capolavoro a cui egli
lavorò per più di trent’anni. Con questo libro Galileo avviò la moderna scienza
fisica su un piano matematico, fondò la scienza della meccanica e costituì il
modello per il moderno pensiero scientifico. Purtroppo all’epoca in cui il
manoscritto era pronto per essere pubblicato, Galileo era già incorso nello sfavore
della Chiesa, la quale aveva proibito la pubblicazione di ogni sua opera. Egli
dovette allora disporre in segreto per la pubblicazione in Olanda, fingendo di non
aver avuto nulla a che fare con la stampa. Sostenne che una copia del manoscritto
era caduta per caso in mano all’editore olandese, che aveva proceduto senza il suo
permesso. Galileo morì pochi anni dopo la pubblicazione dell’opera, avvenuta nel
1638, e con lui morì anche lo spirito indipendente del pensiero italiano.
178
XIV. La deduzione di leggi universali
Vorrei che un dì Copernico, potesse
vedere come, grazie a lui, che un giorno
disperse un sogno, e i falsi meccanismi
spezzò dei cieli e ogni central certezza
bandì dall’universo…,
lo spirito dell’uomo
tenne fermo alla legge, passo passo
salì lento e sicuro, del suo regno
e del potere suo possesso prese.2
ALFRED NOYES
Fortunatamente per la scienza e per la matematica, in un paese con
un’atmosfera intellettuale più libera di quella italiana era nato un degno
successore di Galileo. Nel 1642, l’anno stesso della morte di Galileo, in una
fattoria che faceva parte di un villaggio inglese isolato, una donna rimasta vedova
da poco diede alla luce un bambino cagionevole e prematuro. Con un’origine così
insignificante e con un corpo così debole da far disperare per la sua vita, Isaac
Newton visse ottantacinque anni e si acquistò una fama non inferiore a quella di
nessun altro uomo.
Se si prescinde da un forte interesse per congegni meccanici, Newton, come
molti altri geni, non sembrò promettere da giovane nulla di particolare. Per la
ragione negativa che egli non dimostrava alcun interesse per l’agricoltura, la
madre lo inviò a Cambridge. Nonostante i vari vantaggi legati al suo soggiorno a
Cambridge, come l’opportunità di studiare le opere di Copernico, di Keplero e di
Galileo e la possibilità di ascoltare il famoso matematico Isaac Barrow, Newton
sembrò trarne poco profitto. Egli risultò troppo debole in geometria e una volta fu
sul punto di passare dallo studio della filosofia naturale a quello del diritto.
Quattro anni di studi si conclusero in modo altrettanto scialbo di come erano
cominciati e Newton fece ritorno a casa, a studiare.
La sua intelligenza quieta e riservata ebbe uno scoppio di luce quando, fra i
ventitré e i venticinque anni, Newton fece tre passi giganteschi che gli
assicurarono la fama e fecero progredire enormemente la scienza moderna. Il
primo fu la scoperta del segreto del colore, cui egli pervenne decomponendo la
2 Da ALFRED NOYES, Watchers of the Sky, copyright by Alfred Noyes 1922, 1949; versi riprodotti col
permesso degli editori J. B. Lippincott Company, New York, e Wm. Blackwood and Sons Ltd.,
Edinburgh and London, e del signor Hugh Noyes.
179
luce bianca; il secondo fu la creazione del calcolo infinitesimale, su cui ci
soffermeremo più avanti, e il terzo fu la dimostrazione dell’universalità della
legge della gravitazione.
Se avesse annunciato anche una sola di queste scoperte, si sarebbe procurato
immediatamente una fama duratura; ma Newton tenne tutto per sé. Quando la
peste che aveva infuriato a Londra si calmò, fece ritorno a Cambridge per
prendere il diploma di magister e poi divenne un fellow. Aveva ventisette anni
quando il suo insegnante, Barrow, si ritirò, e Newton, che era considerato ora
almeno un serio studioso di matematica, fu designato a succedergli. Come
insegnante non ebbe un successo paragonabile a quello che aveva avuto nelle sue
ricerche. A volte non aveva neppure un uditore. Il materiale originale da lui
presentato non fu neppure notato e tanto meno acclamato.
Infine egli pubblicò la sua opera sulla natura composta della luce bianca,
accompagnandola con una presentazione della sua filosofia della scienza. Sia la
filosofia sia l’opera sulla luce furono oggetto di critiche e alcuni scienziati le
rifiutarono entrambe in toto. Newton fu disgustato da quest’accoglienza e decise
di astenersi da ulteriori pubblicazioni. Quando, vari anni dopo, infranse la sua
risoluzione per annunciare altre scoperte, si trovò impigliato in controversie
scientifiche e in dispute in questioni di priorità che rafforzarono la sua
inclinazione a tenere per sé le sue ricerche. Se non fosse stato per le pressioni e
l’aiuto finanziario dell’astronomo Edmond Halley, i Philosophiae naturalis
principia mathematica (1687), che inclusero i frutti delle ricerche di Newton, non
avrebbero mai visto la luce.
Dopo la pubblicazione, egli ebbe finalmente un grande successo. I Principia
ebbero varie edizioni e le nozioni in essi contenute furono divulgate. Nel 1789
erano apparse dell’opera quaranta edizioni in inglese, diciassette in francese,
undici in latino, tre in tedesco e almeno una in portoghese e in italiano. Fra le
divulgazioni ce n’era una intitolata Neutonianismo per le dame (di Francesco
Algarotti), che ebbe anch’essa molte edizioni, Di fatto i Principia avevano
bisogno di volgarizzazioni poiché il libro è estremamente difficile e non è affatto
chiaro ai profani, nonostante asserzioni di educatori in contrario. I maggiori
matematici lavorarono per un secolo per chiarire completamente il materiale del
libro.
La fama di Newton si diffuse fino a divenire paragonabile a quella di Einstein
oggi. Newton diede il dovuto credito ai suoi predecessori: “Se io ho visto un po’
più lontano di altri è perché mi sono issato sulle spalle di giganti.” Né la sua opera
gli parve di importanza incomparabile: “Non so come posso apparire al mondo;
ma ai miei occhi mi sembra di essere stato solo come un bambino assorto nei suoi
giochi sulla riva del mare e di essermi divertito a trovare qua e là un sassolino più
liscio o una conchiglia più graziosi del comune, mentre il grande oceano della
verità stava tutto ancora da scoprire davanti a me.”
Fra i grandi contributi del periodo giovanile di Newton, la sua filosofia della
scienza e la sua opera sulla gravitazione sono quelle che hanno maggiore
attinenza con l’argomento di questo capitolo. La sua filosofia definiva in modo
180
più esplicito il programma scientifico avviato da Galileo: da fenomeni
chiaramente verificabili devono essere tratte leggi che descrivano il
comportamento della natura nel preciso linguaggio matematico. Attraverso
l’applicazione a queste leggi del ragionamento matematico, altre se ne possono
dedurre. Come Galileo, Newton desiderava sapere come l’Onnipotente avesse
costruito l’universo ma non era tanto presuntuoso da chiedersi quale fosse stato il
Suo fine né sperava di spiegare il meccanismo che stava dietro molti fenomeni.
Egli scrisse: “Dire che ogni specie di cose è dotata di una qualità occulta specifica
in virtù della quale essa agisce e produce effetti manifesti, equivale a non dire
nulla: Ma derivare dal moto dei fenomeni due o tre principi generali e
successivamente dire in che modo le proprietà e le azioni di tutte le cose corporee
seguano da quei principi manifesti, sarebbe un grandissimo passo avanti in
filosofia [scienza] anche se le cause di tali principi rimanessero ignote3: perciò
non esito a proporre i principi del moto menzionati sopra, i quali sono di
estensione molto generale, lasciando indeterminate le loro cause.”
In questo compito di descrivere la natura, il più famoso contributo di Newton
consiste nell’avere unificato il cielo e la Terra. Galileo aveva osservato il cielo
come nessun altro era riuscito mai a fare prima di lui ma i suoi successi nella
descrizione matematica della natura erano rimasti limitati a moti sulla superficie
della Terra o in prossimità di essa. Durante la vita di Galileo, il suo
contemporaneo Keplero aveva stabilito le sue tre famose leggi matematiche sui
moti dei corpi celesti e aveva perciò portato un’ulteriore conferma a favore della
teoria eliocentrica. Così, mentre uno scienziato stava costruendo la scienza dei
moti terrestri, l’altro perfezionava la teoria dei moti celesti. Le due branche della
scienza sembravano indipendenti l’una dall’altra. La sfida a trovare qualche
relazione fra esse stimolava i grandi scienziati. La soluzione fu trovata dal più
grande.
C’era una buona ragione per pensare che esistesse un qualche principio
unificante. Secondo la prima legge del moto di Galileo i corpi tendono a muoversi
in linea retta a meno che su di essi non agiscano forze. Perciò i pianeti, messi in
moto in qualche modo, dovrebbero muoversi in linea retta mentre, secondo
Keplero, essi si muovono su ellissi attorno al Sole. Qualche forza deve perciò
agire in modo da deviare continuamente i pianeti dalla loro traiettoria rettilinea,
così come un peso fatto ruotare all’estremo di una funicella non può fuggirsene in
linea retta perché la mano esercita su di esso una trazione. Il Sole stesso stava
agendo presumibilmente come una forza d’attrazione sui pianeti. Gli scienziati
dell’epoca di Newton si rendevano conto anche del fatto che la Terra attrae i corpi
verso di essa. Questa attrazione rendeva ragione della caduta verso terra di un
corpo lasciato libero da una mano; in mancanza di tale attrazione il corpo, non
ricevendo alcuna forza dalla mano che semplicemente lo lascia libero, dovrebbe,
secondo la prima legge del moto, rimanere sospeso in aria. Poiché sia la Terra sia
3 Il corsivo è di Newton.
181
il Sole attraggono corpi, l’idea di unificare entrambe le azioni sotto una sola teoria
fu proposta e discussa già all’epoca di Descartes.
Newton convertì un’idea comune in un problema matematico e, senza
determinare la natura fisica delle forze in gioco, risolse il problema con una
brillante tecnica matematica. Egli poté dimostrare che una medesima formula
matematica descrive sia l’azione del Sole sui pianeti sia l’azione della Terra su
oggetti in prossimità di essa. Poiché la medesima formula descriveva entrambe le
classi di fenomeni, Newton concluse che una medesima forza opera in entrambi i
casi. Si racconta che l’identità dell’attrazione della Terra su oggetti e
dell’attrazione del Sole sulla Terra sia stata rivelata a Newton dalla caduta di una
mela da un albero. Il matematico Gauss afferma invece che Newton raccontò
questa storiella per liberarsi di persone sciocche che gli chiedevano come avesse
scoperto la legge della gravitazione. In ogni modo questa mela, a differenza di
un’altra che aveva avuto una parte nella storia, migliorò la condizione dell’uomo.
Il ragionamento di Newton nel dimostrare che la medesima formula si applica a
corpi celesti e terreni è ora classica. Ne considereremo una versione un po’
semplificata, la quale può nondimeno fornircene l’essenziale. La traiettoria della
Luna attorno alla Terra è grosso modo un cerchio. Poiché la Luna, L nella figura
49, non segue una traiettoria rettilinea, come ad esempio LP, è attratta
evidentemente verso la Terra da qualche forza. Se LP è la distanza che sarebbe
percorsa dalla Luna in un secondo in assenza di alcuna forza gravitazionale agente
su di essa, allora PL' è la distanza di cui la Luna è attratta verso la Terra durante
quel secondo. Newton usò la distanza PL' come misura della forza d’attrazione
della Terra sulla Luna. La quantità corrispondente nel caso di un corpo vicino alla
superficie della Terra è di 4,9 metri poiché un corpo lasciato cadere è attratto
verso la Terra per uno spazio di metri 4,9 nel primo secondo. Newton desiderava
dimostrare che la stessa forza rende ragione sia di PL' sia dei 4,9 metri.
Fig. 49. L’effetto gravitazionale della Terra sulla Luna.
Calcoli approssimativi lo avevano condotto a pensare che la forza con cui due
corpi si attraggono dipenda dal quadrato della distanza fra i centri dei due corpi e
che questa forza diminuisca col crescere della distanza. La distanza fra il centro
182
della Luna e il centro della Terra è di circa 60 volte il raggio della Terra. Perciò
l’effetto della Terra sulla Luna dovrebbe essere 1/(60)2 dell’effetto che essa
esercita su un corpo in prossimità della superficie, della Terra, ossia la Luna
dovrebbe essere attratta verso la Terra di 1/(60) 2
di metri 4,9, ovvero di metri
0,00136 ogni secondo. Usando alcuni risultati numerici ottenuti per mezzo dei
rapporti trigonometrici, Newton trovò che la Luna è attratta verso la Terra
esattamente di tale distanza ogni secondo. Egli aveva ottenuto così una prova
importantissima del fatto che tutti i corpi nell’universo si attraggono
reciprocamente in accordo con la medesima legge.
Investigazioni più estese dimostrarono a Newton che la formula precisa per la
forza d’attrazione fra due corpi quali si vogliano è la seguente
(1) F = kMm/r2,
dove F è la forza d’attrazione, M e m sono le masse dei due corpi, r è la
distanza fra di essi e k è un valore uguale per tutti i corpi. Ad esempio, M
potrebbe essere la massa della Terra e m la massa di un oggetto vicino alla
superficie della Terra o su di essa. In questo caso r è la distanza dell’oggetto dal
centro della Terra. La formula (1) è ovviamente la legge della gravitazione.
Avendo ottenuto la forma corretta di questa legge attraverso lo studio del moto
della Luna, Newton dimostrò quindi che la legge poteva essere applicata a moti
sulla Terra o in prossimità di essa. Secondo questa legge, la Terra attrae ogni
corpo. Sentiamo questa attrazione della Terra su un corpo quando lo reggiamo. Se
M è la massa della Terra e m la massa del corpo, allora F nella formula (1) misura
l’attrazione della Terra sul corpo ovvero il peso del corpo. Osserviamo allora che
il peso è una forza mentre la massa è una qualità dell’oggetto concernente la
resistenza alla variazione di moto.
Newton fece bene attenzione a distinguere fra queste due qualità affini della
materia, ossia la massa e il peso. Mentre la massa di un corpo è costante, il suo
peso può variare. Ad esempio, se muta la distanza di un corpo dal centro della
Terra, cambia anche il peso del corpo. E precisamente, se un corpo di massa m è
portato a una distanza di circa 6380 km dalla superficie terrestre, la sua distanza
dal centro della Terra è raddoppiata. Ora, se nella formula (1) r rappresenta la sua
distanza originaria dal centro, 2r rappresenta la sua nuova distanza. Per calcolare
il peso della massa nella nuova posizione sostituiamo r con 2r. Il denominatore
nella formula (1) diventa (2r)2 o 4r
2. F sarà dunque solo un quarto del valore che
si ha quando il corpo si trova sulla Terra. Ossia, a 6380 km dalla superficie
terrestre un corpo di massa m peserà solo un quarto del suo peso alla superficie
della Terra. In sintesi, abbiamo dimostrato che, mentre la massa di un oggetto
rimane costante, il suo peso può essere modificato variandone la distanza dal
centro della Terra.
Consideriamo un “altra conseguenza della formula (1). Sia M la massa della
Terra e m la massa di un oggetto in prossimità della superficie. Se riscriviamo la
formula (1) nella forma seguente:
183
𝐹 = 𝑘𝑀
𝑟2 𝑚
e dividiamo entrambi i membri di quest’equazione per m, otteniamo:
(2) 𝑚
𝐹 =
𝑘𝑀
𝑟2
Ora, quale che sia l’oggetto in prossimità della superficie della Terra che
consideriamo, le quantità nel primo membro della formula (2) sono le stesse,
poiché r è circa 6380 km, M è la massa della Terra e k è un valore uguale per tutti
i corpi. Perciò per qualsiasi oggetto in prossimità della superficie della Terra il
rapporto F/m, ossia il rapporto del peso alla massa, è costante. Perciò le due
distinte proprietà della materia sono fra loro in una relazione quantitativa molto
semplice. Una spiegazione di questa relazione sorprendente rimase ignota fino
alla creazione della teoria della relatività. Poiché noi ci occupiamo quasi sempre
di oggetti prossimi alla superficie della Terra siamo tratti in errore da questa
relazione costante fra massa e peso e spesso li confondiamo. Ad esempio, se
cerchiamo di far partire un’automobile a spinta, siamo inclini ad attribuire la forza
che occorre spendere al peso dell’automobile, mentre di fatto è la massa che
resiste alla variazione di stato.
Dalla seconda legge del moto e dalla legge di gravitazione possiamo dedurre
ancora un’altra conseguenza. La seconda legge del moto dice che qualsiasi forza
agente su un corpo di massa m conferisce al corpo un’accelerazione. In
particolare, la forza di gravità esercitata dalla Terra su un corpo dovrebbe
conferirgli un’accelerazione. Ma la forza di gravità è
(3) 𝐹 = 𝑘𝑀𝑚
𝑟2 ,
mentre la relazione di una forza qualsiasi all’accelerazione da essa causata è
(4) F = ma.
Quando la forza F nella formula (4) è quella della gravità, possiamo uguagliare
i secondi membri delle formule (3) e (4) poiché i primi sono uguali; cioè
𝑚𝑎 =𝑘𝑀𝑚
𝑟2 ,
Possiamo dividere entrambi i membri di quest’ultima equazione per m e
otteniamo
184
(5) 𝑎 =𝑘𝑀
𝑟2 ,
Questo risultato dice che l’accelerazione conferita a un oggetto dalla forza di
gravità della Terra è sempre di kM/r2. Poiché k è una costante, M è la massa della
Terra e r è la distanza di un oggetto dal centro della Terra, la quantità kM/r2 è la
stessa per tutti i corpi in prossimità della superficie della Terra. Tutti i corpi
cadono perciò con la medesima accelerazione. È questo, ovviamente, il risultato
che Galileo aveva già ottenuto per inferenza dai suoi esperimenti e sulla base di
questo risultato egli dimostrò matematicamente che tutti i corpi che cadono da
una medesima altezza raggiungono il suolo nello stesso tempo. Per inciso, il
valore di a è misurato facilmente ed è di 9,8 al secondo.
Molti risultati più affascinanti possono essere ottenuti dalle leggi del moto e
della gravitazione. Per illustrare l’efficacia del ragionamento matematico,
dobbiamo derivare un’altra conclusione: calcoliamo la massa della Terra. A tal
fine abbiamo bisogno del valore di k, la costante della gravitazione universale, che
compare nella formula (1). Poiché questa quantità è sempre la stessa,
indipendentemente dalle masse che compaiono nella formula (1), essa può essere
ottenuta in laboratorio usando masse note m e M, una distanza nota r fra di esse e
misurando la forza di attrazione che fra di esse si esercita. Può allora essere
calcolata k, l’unica incognita presente nella formula. Questo esperimento fu
compiuto da molti fisici, il più famoso dei quali fu Henry Cavendish (1731-1810).
Egli giunse alla conclusione che le è la quantità estremamente piccola 6,67 10-8
,
ovvero 6,67 diviso un centimilionesimo, supponendo che le misurazioni siano
fatte in centimetri, grammi e secondi.
Possiamo ora usare la formula (5), in cui k è la quantità esaminata sopra, M è la
massa della Terra, r il raggio della Terra e a l’accelerazione dell’oggetto in
prossimità della Terra. Poiché tutte queste quantità, eccettuato M, sono ora note,
possiamo calcolare M. Il risultato è M = 6 1027
grammi, ossia 6 seguito da 27
zeri, ovvero ancora 6 1021
tonnellate massa.
Un interesse di questo calcolo risiede anche nel fatto che esso ci fornisce
qualche informazione sulla composizione della Terra. Poiché il raggio della Terra
è noto, il suo volume, supponendo che la sua forma sia esattamente sferica, può
essere calcolato in base alla formula per il volume di una sfera, V = 3/4r3. Ora, è
possibile misurare la massa di un metro cubo d’acqua; si può calcolare così quale
sarebbe la massa della Terra se essa fosse composta per intero d’acqua. La massa
della Terra calcolata sopra è 51/2 volte maggiore che se la Terra fosse composta
per intero d’acqua. I geologi ne traggono perciò la conclusione che l’interno della
Terra dev’essere composto da minerali pesanti. Fin qui i contributi di Newton alla
teoria della gravitazione possono essere compendiati nel modo seguente.
Studiando il moto della Luna, egli ne aveva inferito la forma corretta della legge
della gravitazione. Egli dimostrò poi che questa legge e le due leggi del moto
erano sufficienti a fondare conoscenze valide sui moti degli oggetti sulla Terra.
185
Egli aveva perciò realizzato uno degli obiettivi principali del programma di
Galileo, avendo dimostrato che le leggi del moto e della gravitazione sono
fondamentali. Come gli assiomi di Euclide, esse fungevano da base logica per la
deduzione dei altre leggi importanti. Quale trionfo sarebbe stato, di fatto, se si
fossero potute dedurre da esse anche le leggi del moto dei corpi celesti!
Anche questo trionfo fu riservato a Newton. Una serie veramente portentosa di
deduzioni da lui compiute dimostrò che tutt’e tre le leggi di Keplero seguono
dalle due leggi fondamentali del moto e dalla legge della gravitazione. Illustriamo
qui di seguito l’essenziale di una di queste derivazioni, ancora al fine di illustrare
l’efficacia della matematica nell’ottenere la conoscenza del mondo fisico in virtù
del processo deduttivo. La derivazione che presenteremo sarà una versione un po’
semplificata del procedimento reale di Newton; supporremo infatti che l’orbita di
ciascun pianeta sia circolare e non ellittica. Newton trattò l’orbita come un’ellisse
ma non c’è motivo qui di rendere più complicata la dimostrazione.
La terza legge di Keplero afferma che il quadrato del tempo di rivoluzione di
ciascun pianeta è proporzionale al cubo della sua distanza media dal Sole. La
formula che esprime questa terza legge è T2 = KD
3, dove T è il tempo di
rivoluzione o durata dell’anno del pianeta, D è la distanza media del pianeta dal
Sole e K è una costante, ossia è uguale per tutti i pianeti. Per derivare la terza
legge di Keplero abbiamo bisogno ancora di un fatto sul moto, un fatto che in sé è
facile da dimostrare ma che è estraneo al nostro argomento principale. Un oggetto
che si muove in cerchio è soggetto a una qualche forza che lo fa deviare dalla
traiettoria rettilinea che esso dovrebbe altrimenti seguire in base alla prima legge
del moto di Newton. Una misura di questa forza, comunemente detta forza
centripeta, è data dalla formula
(6) 𝐹 =𝜋𝑣2
𝑟
dove m è la massa del corpo, v la sua velocità e r il raggio dell’orbita circolare.
Tale forza agisce su ciascun pianeta ed è dovuta all’attrazione gravitazionale del
Sole. La formula (6) è però una corretta espressione della forza centripeta, derivi
essa o no dalla gravitazione.
Per procedere alla derivazione della legge di Keplero, osserviamo dapprima che
la velocità di un pianeta, supponendo che esso percorra un’orbita circolare a
velocità costante, è data dalla circonferenza del cerchio divisa per il tempo della
rivoluzione. Ossia
(7) 𝑣 =2𝜋𝑟
𝑇
Se sostituiamo questo valore di v nella formula (6), otteniamo un’espressione
per la forza centripeta F che agisce su un pianeta, e precisamente
(8) 𝐹 =𝑚
𝑟 (
2𝜋𝑟
𝑇)2 =
𝑚 4𝜋2𝑟2
𝑟 𝑇2=
𝑚 4𝜋2𝑟
𝑇2
186
Ora, questa forza centrifuga F è dovuta alla forza gravitazionale esercitata dal
Sole, la cui massa denotiamo con M. Questa è
(9) 𝐹 = 𝑘 𝑚 𝑀
𝑟2
Uguagliando le due forze date nelle formule (8) e (9), otteniamo
(10) 𝑘 𝑚 𝑀
𝑟2=
𝑚 4𝜋2𝑟
𝑇2
Possiamo dividere entrambi i membri di quest’equazione per m, cancellando
così questo fattore in entrambi. Se moltiplichiamo entrambi i membri per T2r
2 e
dividiamo per kM, otteniamo
(11) 𝑇2 = 4𝜋2
𝑘 𝑀 𝑟3
Osserviamo ora che M, la massa del Sole, e k, la costante gravitazionale, non
mutano nella derivazione, quale che sia il pianeta, m, da noi considerato. La
quantità 42/kM è perciò una costante e possiamo denotarla con K. Scrivendo D
invece di r, possiamo dire che
(12) T2 = KD
3
e questo risultato è la terza legge di Keplero. Così le famose leggi planetarie
che Keplero ottenne solo dopo anni di osservazioni e di tentativi possono essere
dimostrate in pochi minuti per mezzo delle leggi di Newton.
Un importante corollario di queste leggi dovrebbe essere istruttivo per il lettore
profano che ricerchi una spiegazione del potere della matematica. Il valore
principale delle leggi di Newton risiede, come abbiamo visto, nel fatto che esse si
applicano a molte diverse situazioni in cielo e in terra. Le stesse relazioni
quantitative compendiano caratteri comuni a tutto. La conoscenza delle formule
rappresenta perciò in realtà una conoscenza di tutte le situazioni comprese nelle
formule. La persona che considera una formula matematica deplorandone
l’astrattezza, aridità e inutilità non ne ha afferrato il vero valore.
L’opera di Galileo e di Newton non fu la fine bensì l’inizio di un programma
per la scienza. Lo stesso Newton formulò il programma nella prefazione dei suoi
Philosophia naturalis principia mathematica, l’opera classica che contiene i frutti
della sua brillante giovinezza:
Presentiamo quest’opera come i principi matematici della filosofia [scienza]; tutta la
difficoltà nella filosofia sembra infatti consistere in questo: dai fenomeni dei moti investigare le
forze della natura e poi da queste forze dimostrare gli altri fenomeni; e a questo fine sono
dirette le proposizioni generali nei libri I e II. Nel III libro diamo un esempio di ciò nella
spiegazione del sistema del mondo; in virtù di proposizioni matematicamente dimostrate nel I
libro, vi deriviamo infatti dai fenomeni celesti le forze di gravità con cui i corpi tendono verso il
Sole e verso i vari pianeti. Poi da queste forze, in virtù di altre proposizioni anch’esse
matematiche, deduciamo i moti dei pianeti, delle comete, della Luna e del mare. Vorrei poter
derivare i restanti fenomeni della natura mediante lo stesso tipo di ragionamento da principi
meccanici; sono infatti indotto da molte ragioni a sospettare che essi possano dipendere tutti da
187
certe forze mediante cui le particelle dei corpi, a opera di alcune cause finora sconosciute, sono
o reciprocamente attratte l’una verso l’altra, aggregandosi in figure regolari, oppure sono
respinte e si allontanano l’una dall’altra.
Come un masso che rotoli giù per una collina scoscesa, il movimento per
assicurare le leggi matematiche fondamentali e per dedurre le loro conseguenze
acquistò forza e infine causò una valanga. Mediante procedimenti simili a quelli
illustrati in questo capitolo, furono calcolate la massa del Sole e quella di ogni
pianeta con satelliti osservabili. L’idea della forza centrifuga, la forza opposta alla
forza centripeta di cui si è parlato sopra, fu applicata al moto della Terra e rese
ragione della grandezza del rigonfiamento equatoriale della Terra oltre che della
conseguente variazione di peso di un oggetto da un punto all’altro della superficie
terrestre. Dalla conoscenza degli scostamenti dalla sfericità osservati nei vari
pianeti divenne possibile calcolare i loro periodi di rotazione. Fu dimostrato che le
maree sono causate dall’attrazione gravitazionale del Sole e della Luna. Furono
calcolate le orbite delle comete e predetta con precisione la loro riapparizione.
Anche il loro passaggio improvviso e veloce in prossimità della Terra fu spiegato
come dovuto alla grande eccentricità della loro orbita ellittica. Per inciso, questo
lavoro matematico sul comportamento delle comete convinse la gente del fatto
che esse sono membri di pieno diritto di un universo razionale governato da leggi
e non visite divine intese a gettare il terrore nel cuore degli uomini o a mandare in
frantumi la Terra. Nello stesso tempo esso diede una prova incontestabile del
comportamento matematico della natura e dell’efficacia dell’approccio
quantitativo.
Il successo della ricerca di leggi si estese molto oltre il campo dell’astronomia.
Il fenomeno del suono studiato come un moto di molecole nell’aria fornì ora leggi
matematiche famose. Hooke misurò l’elasticità di solidi. Boyle, Mariotte, Galileo,
Torricelli e Pascal misurarono la pressione e la densità di liquidi e di gas. Van
Helmont usò la bilancia per pesare sostanze, un passo importante nella direzione
della chimica moderna, e, con Hales, diede inizio a studi quantitativi nel campo
della fisiologia, come la misurazione della temperatura corporea e della pressione
sanguigna. Harvey dimostrò, con argomentazioni quantitative, che il sangue
pompato dal cuore compie un circuito completo del corpo prima di tornare al
cuore. Gli studi quantitativi si estesero anche alla botanica, dove fu determinato il
ritmo di assorbimento e di evaporazione dell’acqua in piante. Römer misurò la
velocità della luce. Il freddo invernale e il caldo estivo furono identificati con
moti più o meno eccitati di molecole dell’aria attraentisi reciprocamente secondo
la legge della gravitazione. Ben presto furono scoperte leggi che collegavano fra
loro settori separati della scienza. Ad esempio, la chimica, l’elettricità, la
meccanica e i fenomeni del calore furono tutti collegati insieme mediante la legge
della conservazione dell’energia.
Tutto ciò fu solo l’inizio di quel vasto movimento scientifico senza precedenti
che ha plasmato il mondo moderno. Il corso del movimento continuò a sostenere
la convinzione di Newton della possibilità di derivare tutti i fenomeni naturali
188
dalle leggi del moto e della gravitazione. Uno o due esempi scelti dai risultati
superlativi ottenuti nel Settecento indicheranno la vastità del fronte su cui questo
programma fu portato innanzi.4
Benché ci fossero prove schiaccianti a favore di un ordine matematico
invariabile del cielo, all’epoca della morte di Newton, nel 1727, numerose
irregolarità, che rimanevano inspiegate, erano state osservate nei moti dei corpi
celesti. Ad esempio, benché la Luna rivolga sempre la stessa faccia alla Terra, la
regione vicina ai bordi diventa periodicamente più o meno visibile. Una maggiore
precisione nelle osservazioni aveva inoltre rilevato che la durata del mese lunare
medio diminuisce di circa 1/30 di secondo ogni secolo (tale era l’ordine di
precisione che osservazione e teoria erano pervenute a trattare). Infine erano state
osservate anche piccole variazioni nelle eccentricità delle orbite planetarie.
Queste e altre divergenze dalla legge e dall’ordine perfetti ponevano un grande
interrogativo: il sistema solare è stabile? Ossia queste irregolarità, per quanto
piccole, sarebbero gradualmente aumentate e, in virtù dei complicati effetti dei
corpi celesti l’uno sull’altro, avrebbero determinato infine uno squilibrio nel
sistema solare? Sotto l’effetto cumulativo di queste irregolarità non avrebbe
potuto accadere che un pianeta si perdesse nello spazio o che un giorno la Terra
andasse a schiantarsi nel Sole?
Newton era ben consapevole di molte di queste irregolarità, e nei suoi propri
studi aveva affrontato il moto della Luna. Questo corpo percorre un’orbita ellittica
un po’ nello stesso modo in cui un ubriaco segue una linea retta: si affretta e
rallenta e oscilla da una parte all’altra. Newton era convinto che questo
comportamento straordinario fosse dovuto in parte al fatto che oltre alla Terra
anche il Sole attrae la Luna e ne determina scostamenti da un percorso veramente
ellittico. Non avendo però alcuna dimostrazione del fatto che tutte le irregolarità
osservate nei moti della Luna e dei pianeti fossero dovute ad attrazioni
gravitazionali e non potendo dimostrare che l’effetto cumulativo non avrebbe
causato infine la disgregazione del sistema solare, Newton si sentì costretto a
ricorrere all’intervento di Dio per mantenere l’universo in funzione. Ma i
successori settecenteschi di Newton decisero di fondarsi meno sulla volontà di
Dio e più sul loro potere di deduzione.
L’orbita di ciascun pianeta attorno al Sole sarebbe un’ellisse solo se
nell’universo fossero presenti esclusivamente il pianeta e il Sole. Il sistema solare
contiene invece numerosi pianeti, alcuni con satelliti, i quali non soltanto si
muovono attorno al Sole ma si attraggono l’un l’altro in accordo alla legge della
gravitazione universale di Newton. I loro moti non possono perciò essere
veramente ellittici. Le loro orbite esatte sarebbero note se fosse possibile risolvere
il problema generale di determinare il moto di un numero di corpi a piacere,
ciascuno dei quali esercita una forza gravitazionale su tutti gli altri. Ma questo
problema è superiore alla capacità di qualsiasi matematico. Due fra i massimi
matematici del Settecento fecero però progressi straordinari in questa direzione. Il
4 Si vedano anche i capitoli diciannovesimo e ventesimo.
189
matematico Joseph-Louis Lagrange, nato a Torino, in una brillante esibizione di
genialità giovanile, affronto il problema matematico del moto della Luna sotto
l’attrazione del Sole e della Terra e lo risolse all’età di ventott’anni. Egli dimostrò
che la variazione nella parte della Luna visibile è dovuta ai rigonfiamenti
equatoriali sia della Terra sia della Luna. Fu dimostrato inoltre che l’attrazione del
Sole e della Luna sulla Terra è tale da perturbare l’asse di rotazione della Terra in
una misura calcolabile. Fu dimostrato così che lo spostamento dell’asse di
rotazione della Terra, con la conseguente precessione degli equinozi, un fatto
d’osservazione noto almeno dall’epoca dei greci, è una necessità matematica della
legge di gravitazione. Lagrange fece un altro notevole passo avanti con la sua
analisi matematica dei moti dei satelliti di Giove. L’analisi dimostrò che le
irregolarità osservate nei loro moti erano anch’esse un effetto della gravitazione.
Egli incorporò tutti questi risultati nella sua Mécanique analytique, un’opera che
estendeva, formalizzava e coronava l’opera di Newton sulla meccanica. Lagrange
si era lagnato una volta della grande fortuna di Newton per il fatto che esiste un
solo universo e che Newton ne aveva già scoperto le leggi matematiche. Lagrange
ebbe nondimeno l’onore di dimostrare al mondo la perfezione della teoria
newtoniana.
Il francese Pierre-Simon Laplace, che, come Lagrange, rivelò già in gioventù la
sua genialità, dedicò la vita al problema di applicare la legge di gravitazione di
Newton al sistema solare. Fra i risultati più spettacolari ottenuti da Laplace fu la
dimostrazione del fatto che le irregolarità nelle eccentricità delle orbite ellittiche
dei pianeti sono periodiche. Queste irregolarità presentano cioè oscillazioni
attorno a valori fissi e non si accrescono fino a spezzare in modo irreversibile
l’equilibrio dei moti celesti. In sintesi, l’universo è stabile. Laplace dimostrò
questo risultato nella sua opera fondamentale, la Mécanique céleste, in 5 volumi,
fra il primo e l’ultimo dei quali passano 26 anni.
La perfezione dell’ordine matematico dell’universo era divenuta, all’epoca
della morte di Laplace (cent’anni esatti dopo la morte di Newton), del tutto
evidente. Essa si rifletté nella famosa risposta di Laplace a Napoleone che, avendo
ricevuto una copia della Mécanique céleste, criticò Laplace per aver scritto
un’opera sul sistema dell’universo in cui non si faceva menzione di Dio. La
risposta di Laplace fu: “Non ho avuto bisogno di quest’ipotesi.” Il mondo si era
rivelato stabile e non c’era più bisogno di Dio, come aveva ritenuto Newton, per
correggerne le irregolarità o impedirne un comportamento aberrante.
Particolarmente degna di nota è una deduzione notevole dalla teoria
astronomica generale di Lagrange e Laplace. Si tratta della predizione puramente
teorica dell’esistenza e della posizione del pianeta Nettuno. Era stato supposto che
aberrazioni inspiegate nel moto del pianeta Urano fossero dovute all’attrazione
gravitazionale, su Urano, di un pianeta sconosciuto. Due astronomi, John Couch
Adams in Inghilterra e U.J.J. Leverrier in Francia, calcolarono l’orbita del
presunto pianeta sulla base delle irregolarità osservate e della teoria astronomica
generale. Gli osservatori si misero allora alla ricerca del pianeta nel tempo e nella
posizione determinati matematicamente da Adams e da Leverrier. Il pianeta fu
190
localizzato. Esso era appena osservabile con i telescopi dell’epoca e difficilmente
avrebbe potuto essere individuato se gli astronomi non lo avessero cercato nella
posizione indicata. Il problema risolto da Adams e da Leverrier era estremamente
difficile perché essi dovevano lavorare, per così dire, all’indietro. Invece di
calcolare gli effetti di un pianeta di cui si conoscessero massa e orbita, essi
dovevano dedurre massa e orbita di un pianeta sconosciuto sulla base degli effetti
da esso esercitati sul moto di Urano. Il loro successo fu perciò considerato un
grande trionfo della teoria e proclamato ai quattro venti come la dimostrazione
definitiva dell’universalità di applicazione della legge della gravitazione di
Newton.
Alla metà del Settecento l’infinita sapienza dell’approccio quantitativo di
Galileo e di Newton alla natura era chiaramente stabilita. Se essi avessero
affrontato il problema, forse insolubile, di analizzare la materia e le forze
qualitativamente, non avrebbero forse fatto avanzare la scienza oltre il punto
raggiunto dai pensatori medievali. Il problema della struttura della materia è
estremamente complesso; di fatto le ricerche moderne nel campo della teoria
atomica cominciano a rivelarci il grado quasi incredibile di questa complessità.
Galileo e Newton evitarono la discussione sulla struttura della materia ma
indicarono come misurarne le proprietà inerziali e gravitazionali in termini di
accelerazione, ossia in termini di spazio e di tempo. Anche la forza di gravità si
era rivelata un problema insolubile per l’analisi qualitativa. Di fatto, Newton
ammetteva che la natura di questa forza era per lui un mistero. Gli sembrava
inspiegabile come tale forza potesse superare 150 milioni di chilometri e attrarre
la Terra verso il Sole ed egli non formulò ipotesi in proposito. Newton sperava
che altri avrebbero studiato la natura di tale forza. Alcuni cercarono di spiegarla
per mezzo di pressioni esercitate da un qualche mezzo intermedio o con altri
processi, ma tutti i tentativi si rivelarono insoddisfacenti. Infine tutti i tentativi
furono abbandonati e la gravitazione fu accettata come una cosa incomprensibile.
Nonostante la totale ignoranza sulla natura fisica della gravità, Newton possedeva
una formulazione, significativa e utilizzabile, del modo in cui tale forza agiva. Il
paradosso della scienza moderna è che, pur accontentandosi di così poco, riesce a
ottenere risultati molto importanti.
L’opera di Galileo e di Newton ha altre implicazioni di importanza vitale.5 La
teoria copernicana aveva spazzato via gran parte del misticismo, della
superstizione e della teologia che offuscavano il cielo e aveva consentito all’uomo
di vederlo in una luce più razionale. La legge della gravitazione di Newton spazzò
via le ragnatele dagli angoli, dimostrando che i pianeti seguono lo stesso modello
di comportamento degli oggetti familiari che si muovono sulla Terra. Questo fatto
fornì un’ulteriore e schiacciante evidenza alla conclusione che i pianeti sono
composti di comune materia. L’identificazione della materia del cielo con la
crosta della Terra distrusse intere biblioteche di libri sulla natura dei corpi celesti.
In particolare, la distinzione affermata dai grandi pensatori greci e medievali fra il
5 Si vedano i capitoli sedicesimo, diciassettesimo, diciottesimo e ventunesimo.
191
cielo, perfetto, immutabile, incorruttibile, e la Terra, imperfetta e corruttibile, si
rivelò ora nel modo più chiaro un parto dell’immaginazione dell’uomo.
Al di là dell’identificazione della Terra e dei corpi celesti, l’opera di Galileo e
di Newton stabilì l’esistenza di leggi universali, matematiche. Queste leggi
descrivevano il comportamento di un granello di polvere come della stella più
lontana. Nessun angolo dell’universo si sottraeva alla loro validità. Così gli
argomenti a favore del disegno matematico dell’universo furono immensamente
rafforzati. Inoltre l’immutabile aderenza dei fenomeni naturali al disegno di
queste leggi confermava l’uniformità e l’invariabilità della natura e si
contrapponeva alla concezione medievale di una Provvidenza attiva al cui volere
l’universo sarebbe continuamente soggetto.
Il Seicento ereditò un mondo qualitativo soggetto al volere divino e inteso solo
nei termini di vie e fini del Creatore. Esso lasciò a sua volta all’umanità un
universo meccanico che operava immancabilmente in accordo con leggi
matematiche universali e invariabili. Sarà sempre più chiaro man mano che
procederemo nella nostra esposizione che il mutamento inaugurato in questo
periodo non fu altro che una rivoluzione culturale.
Ripercorrendo le fasi principali che hanno condotto a questo sconvolgimento
intellettuale, ci s’impone una lezione. Lo studio del cielo fornì la prima grande
sintesi scientifica sotto forma della teoria astronomica di Eudosso. Questa fu
seguita dal sistema quantitativo, di grande utilità pratica, di Ipparco e Tolomeo,
che esercitò nel corso dei secoli un’influenza grandissima. Un ulteriore studio del
cielo produsse l’astronomia rivoluzionaria di Copernico e di Keplero. Sulla base
di una teoria eliocentrica la legge universale della gravitazione divenne un’ipotesi
sostenibile. La validità della legge fu attestata inoltre dalla deduzione dalle leggi
di Keplero. Infine l’opera astronomica di Lagrange e di Laplace eliminò tutti i
dubbi sull’imperio delle leggi matematiche universali in natura. La lezione che si
può ricavare da questa storia è che l’eccentrico osservatore delle stelle può dirci
sul nostro mondo più di quanto non sia in grado di dirci l’“uomo d’affari” pratico.
Le nostre conoscenze migliori sul comportamento anche di quei fenomeni naturali
che pervadono il nostro ambiente immediato ci sono venute dalla contemplazione
del cielo e non dall’esame di problemi pratici. Il senso della legge, che predispone
gli uomini ad attribuire tutti i fenomeni, anche quelli completamente inspiegabili,
a un comportamento regolare invece che anormale della natura, questa tendenza a
sostituire la legge all’intervento soprannaturale, fu sviluppato distogliendo lo
sguardo dai problemi immediati dell’uomo e studiando il movimento delle stelle
più lontane.
L’opera di Copernico, Keplero, Galileo e Newton rese possibile la
realizzazione di molti sogni. Tra questi erano il sogno e la speranza di astrologi
antichi e medievali di predire le vie della natura. C’era anche il progetto proposto
da Bacone e da Descartes di padroneggiare la natura per far progredire il
benessere dell’uomo. L’uomo progrediva verso entrambi gli obiettivi, quello
scientifico e quello tecnologico. Le leggi universali resero possibile certamente la
predizione dei fenomeni in esse compresi. E il dominio della natura viene solo un
192
passo dopo la predizione poiché la conoscenza del corso immutabile della natura
rende possibile una sua utilizzazione in congegni tecnici.
Un altro programma ancora per lo studio e la comprensione della natura fu
realizzato nell’opera di Galileo e di Newton. La filosofia pitagorico-platonica che
le relazioni numeriche siano la chiave per la comprensione dell’universo, che tutte
le cose siano conoscibili attraverso il numero, è un elemento essenziale nel
procedimento galileiano di mettere in relazione aspetti quantitativi di fenomeni
mediante formule. Questa filosofia fu mantenuta viva per tutto il Medioevo anche
se per lo più, come nel caso degli stessi pitagorici, era parte di una più ampia
teoria mistica della creazione in cui il numero era considerato la forma e la causa
di tutti gli oggetti creati. Galileo e Newton spogliarono la dottrina pitagorica di
ogni associazione mistica e la rivestirono di uno stile che divenne una norma per
la scienza moderna.
193
XV. Fermati attimo fuggente: il calcolo infinitesimale
Quando Newton cader vide una mela,
riscosso dalla sua contemplazione
trovò – si dice (ché difficil cosa
dei pensieri e dei calcoli di un saggio
dare è i motivi) – una dimostrazione
che il globo della Terra ruota in cerchio
con naturale vortice, chiamato
da lui “universal gravitazione.”
Ei fu il solo mortale che affrontare
seppe, dai tempi biblici di Adamo,
un pomo e una caduta con successo.
LORD BYRON
La derivazione di leggi universali doveva indubbiamente attendere un’età
disposta a pensare nei termini che abbiamo visto nel capitolo precedente, e
pensatori come Descartes, Galileo e Newton in grado di determinare gli obiettivi e
i metodi della moderna attività scientifica. Essa doveva attendere però anche, e di
fatto sarebbe stato impossibile altrimenti, la creazione di uno strumento
indispensabile: il calcolo infinitesimale. Di tutti i filoni di pensiero esplorati dai
geni del Seicento questo si dimostrò il più ricco. Al di là del suo valore nella
derivazione di molte fra le leggi universali già discusse, il calcolo infinitesimale
fornì i mezzi per fondare molte nuove imprese scientifiche.
Contrariamente alla credenza popolare che un genio rompa radicalmente con la
sua età, tre fra le maggiori intelligenze del Seicento – Pierre Fermat, Isaac
Newton e Gottiried Wilhelm Leibniz –, lavorando ciascuno indipendentemente
dall’altro, si occuparono dei problemi connessi al calcolo infinitesimale. Fermat
lavorò in Francia, Newton in Inghilterra e Leibniz in Germania. Il terzo membro
di questo triumvirato di geni, che è nuovo per la nostra storia, era nato a Lipsia
nel 1646. All’età di quindici anni entrò all’Università di Lipsia con l’intento
chiarato di studiare legge e l’intenzione non dichiarata di studiare tutto. Un saggio
sul diritto scritto poco tempo dopo che egli ebbe lasciato Lipsia attrasse
l’attenzione dell’Elettore di Magonza che decise di valersi di Leibniz come
diplomatico. Purtroppo in questo periodo il tempo che egli poteva dedicare allo
studio fu limitato perché la povertà lo costrinse a servire come fattorino
straordinario per vari principi tedeschi. Nel 1676 fu nominato consigliere e
bibliotecario dell’Elettore di Hannover e questo lavoro, pur richiedendogli ancora
molti viaggi in missioni diplomatiche, gli concesse un po’ di tempo libero. Egli
194
riuscì quindi a scrivere articoli, saggi e lettere, che riempirono più di 25 volumi di
profondi contributi nei campi del diritto, della religione, della politica, della
storia, della filosofia, della filologia, della logica, dell’economia e, ovviamente,
della scienza e della matematica. Quest’uomo di doti e interessi universali riuniva
in sé “un’intera accademia.”
Numerosi validi matematici avevano già compiuto progressi in direzione del
calcolo infinitesimale. L’opera di Fermat, di Newton e di Leibniz fu, perciò, la
continuazione e il coronamento di una lunga serie di sforzi da parte dei loro
predecessori. Evidentemente, per quanto grandi siano i contributi del singolo
genio, lo spirito e la sostanza delle sue idee sono confinati alla sua propria età. Il
contributo del genio consiste nel percepire e fecondare le riflessioni della società e
restituisce i dividendi per i secoli a venire.
Quali che siano le conclusioni che possono essere formulate sulle relazioni del
genio con la sua età, non c’è dubbio che i concetti del calcolo infinitesimale erano
nel Seicento per così dire nell’aria, tanto che sorse una disputa fra gli amici di
Newton e quelli di Leibniz, sostenendo i primi che Leibniz doveva aver avuto
notizia delle idee di Newton e i secondi rigettando violentemente l’accusa. I
sentimenti suscitati dalla disputa erano così aspri e i principali pensatori
impegnati in quest’argomento, che pure è fra quelli più razionali, erano così
partigiani, che i matematici inglesi e quelli del Continente interruppero lo
scambio di idee e la corrispondenza per un secolo circa dopo la morte di Newton
e di Leibniz. Né il linguaggio usato da entrambe le parti per commentare l’opera
del competitore fu sempre sobrio e razionale e neppure cortese. Un’eccezione è
costituita da un’osservazione molto generosa di Leibniz, secondo cui, se si
considerava la matematica dall’inizio del mondo all’epoca di Newton, l’opera
dell’inglese era la metà migliore.
Nel periodo in cui furono attivi Fermat, Newton e Leibniz, i matematici europei
erano uniti nel tentativo di risolvere un intero gruppo di problemi implicanti un
tipo particolarissimo di difficoltà: il ritmo istantaneo di mutamento di variabili.
Prima di esaminare i contributi decisivi dei tre uomini dobbiamo chiarire la natura
del problema che essi si trovarono ad affrontare.
Per trattare variabili, ossia quantità che mutano continuamente, è necessario
distinguere fra mutamento e rapidità di mutamento. Quando una pallottola viene
proiettata in aria, la distanza percorsa e il tempo aumentano continuamente;
nell’istante in cui la pallottola colpisce una persona è importante la sua velocità,
ovvero la rapidità di variazione della distanza in relazione al tempo e non la
distanza percorsa e il tempo impiegato a percorrerla. Se quella velocità è di un
chilometro e mezzo all’ora, la pallottola cadrà innocua al suolo ai piedi della
persona. Se è invece di millecinquecento chilometri all’ora, la persona cadrà a
terra e il futuro non potrà più apportarle altri danni. Ovviamente le rapidità di
variazione delle quantità sono almeno altrettanto importanti del fatto che esse
variano.
Fra le rapidità di mutamento delle variabili dobbiamo distinguerne due tipi: la
rapidità media e la rapidità istantanea. Se una persona va in automobile da New
195
York a Filadelfia, le quali distano circa 150 chilometri, in tre ore, la sua velocità
media, ossia la sua rapidità media di variazione della distanza in relazione al
tempo, è di 50 km all’ora. Tale numero non rappresenta però necessariamente,
com’è ovvio, la sua velocità in nessun istante di tempo particolare durante il
viaggio, ad esempio alle tre. Supponiamo ora che a quest’istante, ossia
esattamente alle tre, il viaggiatore osservi il tachimetro della sua automobile e
veda che esso segna 56 km all’ora. Questa quantità è una velocità istantanea;
ossia è la sua rapidità di variazione della distanza in relazione al tempo alle tre ma
non necessariamente la velocità di un istante prima o un istante dopo. Possiamo
sostenere che non esiste una velocità istantanea perché in un istante non si ha un
passare del tempo e quindi non può esserci moto. Per ora ci appelliamo
semplicemente alla nostra esperienza fisica a sostegno dell’affermazione che una
persona che viaggia in automobile si muove a una velocità definita in ogni istante.
Un urto con un albero in uno qualsiasi di questi istanti convincerebbe sicuramente
il lettore che avesse dubbi in proposito.
Il bisogno di occuparsi della velocità istantanea si presenta primariamente
quando un oggetto si muove con velocità variabili; in caso contrario il concetto di
velocità media è sufficiente. Ora, le velocità variabili sono per l’appunto quelle in
cui si imbatterono gli scienziati seicenteschi. La seconda legge di Keplero, ad
esempio, afferma che un pianeta si muove non con una velocità costante, come
avevano creduto i greci e altri scienziati prerinascimentali, bensì con una velocità
continuamente varia. Similmente, secondo Galileo, i corpi in ascesa o in caduta in
prossimità della superficie della Terra si muovono con velocità continuamente
varia. Anche il pendolo e il moto dei proietti, che a quest’epoca furono studiati
intensamente, implicano velocità variabili. Per trattare tali moti mancava agli
scienziati una chiara comprensione delle velocità istantanee e, inoltre, un metodo
per calcolarle.
Dovrebbe esser chiaro che non possiamo ottenere una velocità istantanea come
otteniamo una velocità media poiché in un istante si percorre una distanza nulla e
trascorre un tempo nullo e dividere zero per zero non ha senso. Una breve
meditazione sull’argomento sarà sufficiente a convincere il lettore del fatto che
soltanto una soluzione insolita del problema della definizione e del calcolo di
velocità istantanee può aver successo. A questo problema applicarono la loro
genialità Fermat, Newton e Leibniz.
Consideriamo innanzitutto una versione semplificata del loro approccio
matematico. Abbiamo già visto che se un’automobile lascia New York alle 14 e
arriva a Filadelfia alle 17, la sua velocità media per il viaggio è data dalla distanza
percorsa, 150 chilometri, divisa per il tempo impiegato a percorrerla, 3 ore; ossia,
la velocità media è 50 chilometri orari. Che cosa possiamo dire sulla velocità alle
tre del pomeriggio? È chiaro che, benché la velocità media sia di 50 chilometri
orari, la velocità alle tre avrebbe potuto essere di 60 chilometri all’ora o quasi
qualsiasi altro numero. Possiamo tentare di rispondere alla domanda considerando
la velocità media per un breve periodo di tempo attorno alle tre. Così se
l’automobile percorre un chilometro nel minuto successivo alle tre, la velocità
196
media per tale minuto è di 1 km diviso per 1 minuto, ovvero 60 chilometri all’ora.
È questa la velocità media alle tre?
Benché un minuto sia un intervallo di tempo abbastanza breve, è ancora
possibile che la velocità media per questo minuto differisca considerevolmente
dalla velocità alle tre esatte perché l’automobile potrebbe aumentare o diminuire
la sua velocità durante questo minuto. Diminuiamo allora la durata dell’intervallo
di tempo attorno alle tre per il quale calcoliamo la velocità media. Ora, possiamo
calcolare la velocità media per 1 secondo, o per 1/10 di secondo o per 1/100 di
secondo e così via. Quanto più breve è l’intervallo di tempo per cui si calcola la
velocità media, tanto più la velocità media in quell’intervallo di tempo dovrebbe
avvicinarsi alla velocità istantanea alle tre.
Supponiamo che le velocità medie calcolate per intervalli di tempo sempre più
piccoli risultino essere di 62, 61 e 1/2, 61 e 1/4, 61 e 1/8 e così via man mano che
ci si avvicina alle tre. Poiché le velocità medie per intervalli di tempo sempre più
piccoli attorno alle tre dovrebbero essere stime sempre più precise della velocità
alle tre, definiamo la velocità istantanea alle tre il numero cui tendono le velocità
medie man mano che gli intervalli di tempo si approssimano a zero. Nel caso
delle velocità medie 62, 61 e 1/2, 61 e 1/4, 61 e 1/8 e così via, questi numeri
stanno presumibilmente tendendo a 61 e pertanto dovremmo considerare 61 la
velocità istantanea alle tre. Si osservi che la velocità istantanea non è definita
come il quoziente della distanza divisa per il tempo. Abbiamo invece introdotto
l’idea di prendere un numero cui tendono per approssimazione le velocità medie.
Possiamo ora considerare una descrizione più precisa del metodo per ottenere
una velocità istantanea. Consideriamo la formula che stabilisce una relazione fra
la distanza di un corpo in caduta libera e il tempo impiegato nella caduta e
calcoliamo la velocità istantanea di una palla esattamente tre secondi dopo che è
stata lasciata cadere: Secondo Galileo la relazione fra distanza percorsa in metri e
tempo impiegato in secondi è
(1) s = 4,9t2.
La distanza percorsa alla fine del terzo secondo, indicata con s3, è ottenuta
perciò sostituendo in questa formula il 3 al t. Abbiamo così
s3 = 4,9 32 = 44,1.
Ora, invece di calcolare velocità medie per vari intervalli di tempo attorno alla
fine del terzo secondo, come abbiamo fatto per la velocità dell’automobile attorno
alle tre, possiamo operare in modo più efficace come segue.
Supponiamo che h rappresenti un intervallo di tempo a piacere. Allora 3 + h la
rappresenta un nuovo intervallo di tempo, maggiore di 3 secondi della quantità h.
Al fine di stabilire quale distanza percorra la palla in caduta in 3 + h secondi,
sostituiamo questo valore del tempo nella formula (1). Sappiamo che la nuova
197
distanza non sarà 44,1 bensì un diverso valore di s. Indichiamolo con s3 + k, dove
k è la distanza addizionale percorsa negli h secondi addizionali. Allora
s3 + k = 4,9(3 + h)2.
Moltiplicando (3 + h) per se stesso (elevandolo al quadrato), otteniamo
s3 + k = 4,9(9 + 6h + h2).
Moltiplichiamo ora ciascun termine all’interno della parentesi per 4,9. Il
risultato è
(2) s3 + k = 44,1 + 29,4h + 4,9h2.
Al termine di tre secondi la distanza percorsa è
(3) s3 = 44,1.
Per ottenere le, ossia la variazione della distanza durante gli h secondi,
sottraiamo l’equazione (3) dall’equazione (2). Quest’operazione dà
(4) k = 29,4h + 4,9h2.
Ora, come la velocità media dell’automobile era stata ottenuta dividendo i 150
chilometri per le tre ore, così ora dividiamo k, la distanza percorsa, per h, il
numero dei secondi impiegati a percorrere tale distanza, per ottenere la velocità
media durante gli h secondi. Se, poi, dividiamo entrambi i membri della formula
(4) per h, otteniamo
(5) k/h = 29,4 + 4,9h.
Dalla formula (5) vediamo che la velocità media, k/h, nell’intervallo di h
secondi dopo il terzo secondo è una funzione di h, tale funzione essendo 29,4 +
4,9h. Man mano che h diventa sempre più piccolo, k/h rappresenta la velocità
media su un intervallo di tempo sempre più piccolo misurato a partire dalla fine
del terzo secondo. Abbiamo accettato sopra di prendere il numero cui tendono
queste velocità medie come la velocità istantanea alla fine del terzo secondo.
Ricerchiamo perciò il valore che più si approssima a k/h man mano che la si
avvicina a zero. Approssimandosi h a zero, anche 4,9 si approssima a zero; e,
come possiamo vedere dal secondo membro della formula (5), k/h si approssima a
29,4. Perciò la velocità istantanea alla fine del terzo secondo è 29,4 metri. È
questa la velocità che un corpo lasciato cadere nel vuoto raggiunge dopo tre
secondi.
Il lettore dovrebbe osservare che, per determinare il numero 29,4 come velocità
istantanea, guardiamo che cosa accade nel secondo membro della formula (5)
all’approssimarsi di h a zero. Il nostro ragionamento era stato che quanto più h
diventa piccolo tanto più 29,4 + 4,9 h si approssima a 29,4. Il processo mentale
non equivale alla sostituzione di h con zero anche se lo stesso risultato potrebbe
essere ottenuto mediante tale sostituzione nel caso di questa funzione semplice.
Vediamo perché il processo mentale non è il medesimo. Quando h è zero, k è
zero perché k è la distanza percorsa dalla palla durante il tempo h. Perciò quando
198
h è zero, k/h = 0/0, la quale è un’espressione priva di significato. Pertanto è
scorretto parlare di ottenere la velocità alla fine del terzo secondo sostituendo 0 a
h nell’espressione per k/h. Trovare invece il numero cui tendono per
approssimazione le velocità medie quando gli intervalli di tempo per i quali le
velocità medie sono calcolate si approssimano allo 0 è logicamente ineccepibile
ed è appunto questa l’idea introdotta per aggirare la difficoltà insita nel concetto
di velocità istantanea. Non sussiste ovviamente alcuna difficoltà nel calcolo delle
velocità medie, poiché esse riguardano tutte intervalli di tempo diversi da zero.
Possediamo ora un concetto di velocità istantanea. Questa è il numero cui
tendono per approssimazione le velocità medie man mano che gli intervalli di
tempo per i quali le velocità medie sono calcolate si approssimano a zero. Un
fatto altrettanto importante è che possediamo un metodo per calcolare la velocità
istantanea utilizzando la formula che mette in relazione la distanza e il tempo. Per
inciso, dovremmo osservare che, se avessimo calcolato la velocità alla fine di t
secondi invece che di 3 secondi, il nostro risultato sarebbe stato che la velocità v è
uguale a 9,8t. Possiamo così ottenere una formula per la velocità in qualsiasi
istante t.
Il procedimento che abbiamo appena esaminato è tipico della matematica. Al
fine di trattare il concetto di velocità istantanea, il matematico ha idealizzato
spazio e tempo in modo da poter parlare di qualcosa che esiste in un istante del
tempo e in un qualche punto dello spazio. Egli ottiene in tal modo la velocità in
un istante. L’immaginazione e l’intuizione del profano sono sollecitate
eccessivamente dalle nozioni di istante, punto e velocità istantanea; egli
preferirebbe quindi parlare di velocità in intervalli di tempo piccolissimi. Eppure
la matematica produce, attraverso la sua idealizzazione, non soltanto un concetto
bensì una formula per la velocità in un determinato istante, formula che è esatta e
applicabile più facilmente della nozione di velocità media in qualche intervallo
sufficientemente piccolo. L’immaginazione può essere affaticata ma l’intelletto
riceve un aiuto. È questo il paradosso della matematica, un paradosso in cui ci
siamo già imbattuti sotto altre forme e che consiste nel fatto che, là dove sembra
introdurre difficoltà, in realtà semplifica e rende facile un problema complesso.
Il metodo consistente nel definire e calcolare una velocità istantanea è oggi più
ampiamente applicabile di quanto apparisse in passato. Nulla nei suoi aspetti
matematici richiede che d rappresenti la distanza e t rappresenti il tempo. Queste
variabili possono avere un qualsiasi significato fisico e noi possiamo calcolare la
rapidità di variazione di una variabile rispetto all’altra per un valore della seconda
con lo stesso procedimento matematico che abbiamo usato per calcolare la
rapidità di variazione della distanza confrontata al tempo in un istante. Ad
esempio, se s rappresenta la velocità e t il tempo, possiamo calcolare la rapidità di
variazione della velocità confrontata al tempo in un istante; questo valore
istantaneo della variazione della velocità è l’accelerazione istantanea. Un altro
esempio è che la pressione nell’atmosfera varia con l’altezza al di sopra della
superficie della Terra; per questa funzione calcoliamo la legge della variazione di
pressione in relazione all’altezza per qualsiasi altezza data. Ora, se la variabile s
199
rappresenta il livello dei prezzi di certe merci e t rappresenta il tempo, allora
possiamo calcolare il ritmo della variazione del prezzo in relazione al tempo in un
qualche istante. Così il nostro metodo ci consente di definire e calcolare migliaia
di significanti e utili rapidità di variazione di una variabile in relazione a un’altra
per un valore della seconda variabile. Per inciso, tali rapidità di variazione sono
riferite tutte a velocità istantanee, benché il tempo possa non essere una delle
variabili implicate, perché i problemi originari del calcolo infinitesimale della
velocità e dell’accelerazione implicavano il tempo e si occupavano
dell’andamento della variazione in un istante di tempo. Il calcolo infinitesimale
può ora essere definito come la disciplina che tratta il concetto di rapidità
istantanea della variazione di una variabile rispetto all’altra e le varie applicazioni
di questo concetto.
La rapidità istantanea di variazione di una variabile rispetto a un’altra è indicata
solitamente con un simbolo speciale. Cosi, se le due variabili sono y e x, un
simbolo comunemente usato è Dxy, che si legge derivata di y rispetto a x. (Un
altro simbolo comune ma sviante è dy/dx.) Entrambi i simboli sono esempi
eccellenti della concisione del linguaggio matematico. In meno spazio di quello
che si richiede per una parola, il simbolo descrive il risultato dell’intera
operazione di trovare il ritmo istantaneo di variazione di una qualche variabile y
in relazione a un’altra variabile x. Evidentemente l’uso di tale simbolo rappresenta
un ulteriore passo avanti oltre l’uso della lettera x per rappresentare un’incognita.
La matematica superiore differisce da quella elementare in parte per quest’uso
molto efficace di simboli per concetti complessi.
Nell’applicazione del concetto di rapidità istantanea di variazione menzionato
finora siamo partiti dalla formula che mette in relazione due variabili e poi
abbiamo trovato la rapidità di variazione. Supponiamo che ci sia dato l’andamento
della variazione di una variabile in relazione all’altra: avrebbe qualche importanza
il processo inverso di trovare la formula che mette in relazione le due variabili?
Questo rovesciamento del processo ha ovviamente qualche importanza solo se si
conosce qualche importante legge di variazione da cui prendere l’avvio.
Fortunatamente quest’informazione può essere ottenuta facilmente in molti
fenomeni naturali e artificiali. Di qui procediamo alla formula e alla soluzione di
molti problemi. Esaminiamo un caso reale.
Supponiamo di voler trovare la formula che mette in relazione le due variabili,
ossia la distanza percorsa da un corpo in caduta libera e il tempo che esso impiega
a percorrere tale distanza. Dalle leggi di Newton segue logicamente, come
abbiamo visto nel capitolo precedente, che l’accelerazione di un corpo in caduta
libera è costante. La rapidità di variazione della velocità rispetto al tempo è cioè
lo stesso a ogni istante. Esperimenti semplici come quelli compiuti da Galileo
dimostrano che il valore di questa costante è di 9,8 metri/sec2. In simboli, se si
esprime con a l’accelerazione,
(6) a = 9,8.
200
Tutti i corpi che si trovano in aria al di sopra della Terra, l’aeroplano che vola
sopra le Montagne Rocciose, la pallottola sparata da un fucile e la palla scagliata
in alto, posseggono quest’accelerazione verso il basso.
Ora, a è la rapidità istantanea di variazione della velocità in relazione al tempo;
perciò possiamo pensarla come derivante da una formula che metta in relazione la
velocità v e il tempo t. Se potessimo trovare questa formula, essa ci darebbe
l’espressione per la velocità in termini del tempo. Possiamo ottenerla rovesciando
il procedimento mediante il quale si trova la rapidità di variazione. Il lettore può
accettare il fatto che la formula che mette in relazione velocità e tempo è
(7) v = 9,8t.
oppure può verificarla trovando la rapidità di variazione di v rispetto a t e vedrà
che da questa verifica risulta la formula (6). Ma la formula (7) non è la risposta al
nostro problema poiché essa ci dà la velocita a ogni istante in cui dura la caduta
del corpo nei termini del tempo di caduta, mentre noi stiamo cercando la relazione
fra distanza e tempo. La velocità è però la rapidità di variazione della distanza in
relazione al tempo. Perciò, per trovare la distanza percorsa dal corpo in caduta in t
secondi, dobbiamo trovare una nuova formula per la quale la formula (7)
rappresenti la rapidità istantanea della variazione. Rovesciando ancora una volta il
procedimento della ricerca di una rapidità di variazione otteniamo la formula che
mette in relazione s, la distanza percorsa dal corpo in caduta, e t, il numero dei
secondi. Il risultato è
(8) s = 4,9t2.
Il lettore può confermare questo risultato dimostrando che la rapidità di
variazione di s in relazione a t è la formula (7). Così, rovesciando due volte il
procedimento che si segue per trovare rapidità di variazione istantanee, possiamo
trovare la formula che mette in relazione la distanza percorsa da un corpo in
caduta libera e il tempo che esso impiega a percorrerla.
Un altro esempio di una classe di problemi in cui la rapidità di variazione è
l’informazione ottenuta con maggiore facilità può essere sufficiente per indicare
l’importanza del procedimento consistente nel trovare la formula sulla base della
rapidità di variazione. La seconda legge del moto di Newton, una legge usata
come base per le investigazioni più fondamentali in fisica, è un’asserzione su una
rapidità di variazione. Essa dice che la forza agente su un corpo è uguale alla
massa del corpo moltiplicata per l’accelerazione del moto del corpo. Quando la
forza è nota, la legge diventa un’asserzione sull’accelerazione o sulla rapidità di
variazione della velocità in relazione al tempo. Allora, procedendo in modo simile
a quello da noi seguito sopra nel passare dalla formula (6) alla formula (8),
possiamo trovare la formula che mette in relazione la distanza e il tempo nella
situazione in cui si applica la forza. Molto spesso una formula ottenuta
201
rovesciando una legge di variazione non potrebbe essere ottenuta in alcun altro
modo.
Le espressioni implicanti rapidità istantanee di variazione sono scritte di solito
sotto forma di equazioni, come ad esempio le (6) e (7), e sono chiamate equazioni
differenziali. Un’equazione differenziale esprime qualche fatto sulla rapidità
istantanea di variazione di una variabile in relazione a un’altra. Il procedimento
consistente nel trovare la formula che mette in relazione queste variabili operando
a partire dall’equazione differenziale è detto risoluzione di tale equazione. Grazie
alla risoluzione di una famosa equazione differenziale, Newton fu in grado di
dedurre così prontamente le leggi di Keplero. Poiché le equazioni differenziali si
sono dimostrate i mezzi più efficaci per formulare e sviluppare interi settori della
scienza, si ritiene spesso che la natura e Dio si “esprimano” nei termini di tali
equazioni.
Se ci occupassimo degli usi pratici del calcolo infinitesimale sarebbe utile
vedere come l’inversione del procedimento consistente nel trovare una rapidità di
variazione istantanea potrebbe essere applicata a trovare le lunghezze di curve,
superfici delimitate da curve, volumi delimitati da superfici e numerose altre
quantità non ottenibili in modo diverso. E’ atteso che almeno vedremo in che
modo il calcolo infinitesimale sia implicato in tali applicazioni.
Fig. 50. Superficie generata dal movimento di un segmento rettilineo di
lunghezza variabile.
Come semplice illustrazione consideriamo la superficie raffigurata nella figura
50. Possiamo concepire tale superficie come descritta da un segmento verticale m
movimento AB che cominci a muoversi nel punto P (con lunghezza zero) e si
muova verso destra. Per ogni posizione del segmento AB, la superficie descritta è
l’area tratteggiata della figura. Ora, man mano che AB si muove verso destra,
l’area descritta aumenta con una rapidità che è uguale alla lunghezza di AB.
Poiché AB muta di lunghezza da una posizione a un’altra, l’area descritta varia da
un punto all’altro ed entra in scena il concetto di rapidità di variazione istantanea.
Se volessimo completare quest’esposizione e vedere in che modo si possano
trovare in realtà l’area di questa figura e altre aree dovremmo addentrarci troppo
negli aspetti puramente tecnici del calcolo infinitesimale. Il riconoscimento della
202
relazione esistente fra il concetto generale di rapidità di variazione da un lato e la
determinazione di lunghezze, aree e volumi dall’altro è la massima singola
scoperta di Newton e di Leibniz nel calcolo infinitesimale.
Mentre una produzione efficiente di barattoli di latta é una motivazione
sufficiente, nella nostra civiltà, per lo studio di un’idea matematica, il calcolo
infinitesimale, come altri settori della matematica, merita attenzione per aver
svolto parti di primo piano nella creazione della civiltà e della cultura moderne.
L’uso delle tecniche del calcolo infinitesimale nella derivazione di leggi
scientifiche è già stato descritto. Il successo di Newton nell’ottenere leggi
universali che governano il moto stimolò inoltre gli scienziati a cercare leggi del
genere in altri settori della fisica. Di conseguenza leggi fondamentali
comprendenti ampie classi di fenomeni naturali furono trovate in campi come
l’elettricità, la luce, il calore e il suono. Non abbiamo però ancora considerato lo
sviluppo più significativo seguito alla creazione del calcolo infinitesimale.
Gli scienziati, come tutti gli uomini, non si accontentano facilmente. Una volta
ottenuto un successo, ne desiderano immediatamente uno maggiore. Gli scienziati
del Settecento, con un coraggio reso possibile dal possesso della potente arma del
calcolo infinitesimale, con appetiti aguzzati da successi iniziali e col gusto del
progresso scientifico coltivato dalla loro esperienza, osarono speculare sulla
possibilità di dedurre addirittura le leggi universali dei vari settori della fisica da
una singola legge sottostante forse al piano razionale dell’intero universo. Essi
speravano quanto meno di unificare varie branche della scienza sotto una legge
matematica generale da cui potessero essere dedotte le leggi separate dei vari
settori. Coraggio e abilità ebbero la meglio. Matematici e scienziati scoprirono un
principio interamente nuovo che non solo ha guidato da allora il corso di ampi
sviluppi scientifici ma che è stato accettato come dottrina fondamentale sulla
struttura dell’universo. Questa connessione fra il calcolo infinitesimale e la
struttura del cosmo abbisogna di qualche spiegazione.
Supponiamo che una palla sia lanciata verticalmente in aria e che noi
desideriamo trovare l’altezza massima che essa raggiunge al di sopra del suolo.
Per mezzo del calcolo infinitesimale il problema viene risolto facilmente.
Supponiamo, ad esempio, che l’altezza h della palla al di sopra del suolo sia data
dalla formula
(9) h = 39,2t – 4,9t2,
dove t è il numero di secondi trascorsi dall’istante in cui la palla è stata
lanciata. Poiché la palla non appena lanciata comincia a salire, ciò significa che h
aumenta con t. La velocità della palla però diminuisce poiché la gravitazione si
oppone alla velocità verso l’alto. La palla continuerà a salire finché la sua velocità
sarà zero. Ciò accadrà nel punto più alto del suo volo poiché altrimenti la palla
continuerebbe a salire. Quest’argomentazione suggerisce che se noi troviamo
l’istante in cui la velocità è zero conosceremo almeno l’istante in cui la palla si
trova alla sua altezza massima. Applicando il procedimento usato per trovare il
203
ritmo istantaneo di variazione di h rispetto a t alla formula (9) dovremmo trovare
che la velocità è data dalla formula
(10) v = 39,2 – 9,8t.
Abbiamo ammesso che la velocità v è uguale a zero nell’istante in cui la palla
tocca il punto più alto della sua traiettoria. Poniamo perciò v = 0 nella formula
(10) e osserviamo che il tempo t a cui la palla è nel punto più alto soddisfa
l’equazione
0 = 39,2 – 9,8t.
Evidentemente t = 4 soddisfa quest’equazione e pertanto la palla raggiunge il
punto più alto della sua traiettoria 4 secondi dopo aver lasciato il suolo. Qual è
l’altezza della palla in questo istante? La formula (9) ci dà l’altezza in qualsiasi
istante di tempo. Sostituiamo 4 a t nella formula e troviamo che
h = 39,2 4 – 4,9 42 = 78,4.
La massima altezza raggiunta dalla palla è pertanto metri 78,4 al di sopra del
suolo. Il punto importante di quest’esempio è che il calcolo infinitesimale ci
consente di trovare il valore massimo di una variabile, nell’esempio citato h,
mediante il concetto di rapidità di variazione istantanea. Lo stesso procedimento,
applicato a una variabile che abbia un valore minimo, ci consentirebbe di trovare
tale minimo.
A quest’epoca, nel Settecento, gli scienziati avevano osservato che in numerosi
fenomeni la natura si comporta in modo che qualche quantità sia o un massimo o
un minimo. Ad esempio, un raggio di luce che vada da un punto A a uno specchio
e poi a un punto B (si veda la fig. 16) potrebbe compiere parecchi percorsi
concepibili. In realtà. come scoprirono i greci, il raggio prende la via più breve.
Poiché in un’atmosfera uniforme la luce viaggia con velocita costante, la via più
breve è anche quella che richiede il minor tempo. In questo fenomeno la natura si
comporta perciò in modo che e la distanza e il tempo implicati siano minimi.
Fig. 51. I raggi di luce rifratti adottano la traiettoria che richiede meno tempo.
204
Quando la luce passa da un mezzo a un altro, ad esempio dall’aria all’acqua,
non muta soltanto la sua velocità, passando ad esempio da una quantità c1 a una
quantità c2, ma anche la direzione del raggio di luce (fig. 51). Di nuovo, il raggio
di luce potrebbe compiere percorsi diversi nel passaggio da A, nel primo mezzo, a
B nel secondo. Sia Snellius (Willebrord Snell), un professore di matematica
all’Università di Leida, sia Descartes dimostrarono però che il percorso seguito
dal raggio di luce è quello per cui c1 diviso per c2 è uguale a sen 1 diviso per sen
2. Fermat dimostrò poi che questo percorso è anche quello che richiede minor
tempo.
La luce segue la traiettoria che richiede il tempo minimo anche quando passa
per un mezzo di caratteristiche variabili come l’atmosfera al di sopra della Terra.
Questo comportamento della luce può essere attestato quasi quotidianamente.
L’atmosfera in prossimità della superficie della Terra è più densa di quella più
lontana. Ma la velocità di un raggio di luce è minore in un’atmosfera densa che
non in una rara. Perciò la luce proveniente dal Sole rimane nell’atmosfera più rara
il più a lungo possibile, probabilmente per trarre vantaggio dalla velocità
superiore che vi è possibile. La traiettoria curva della luce che ne risulta ci
consente di vedere il Sole dopo il tramonto, ossia quando il Sole si trova in realtà
al di sotto dell’orizzonte geometrico (fig. 52).
Fig. 52. La luce che attraversa un’atmosfera di densità variabile adotta la
traiettoria che richiede meno tempo.
Sulla base di tali fatti d’esperienza Fermat affermò il suo Principio del Minimo
Tempo, il quale dice che un raggio di luce che si muova da un punto all’altro
prenderà sempre la via che richiede il tempo minimo. Poiché il vero percorso è
quello che richiede il tempo minimo e poiché il calcolo infinitesimale può essere
applicato per determinare il valore di una variabile che minimizza o massimizza la
variabile con cui è in relazione, il principio di Fermat ci dice, in effetti, come il
calcolo infinitesimale possa essere usato per determinare i percorsi dei raggi di
luce. Il principio di Fermat si applica però soltanto al comportamento dei raggi di
luce. Ma che dire di altri fenomeni?
Altri casi in cui la natura obbedisce a un principio del minimo furono cercati e
trovati ben presto. Una palla fatta di gomma distribuita uniformemente e di
consistenza uniforme assume una forma sferica quando viene gonfiata. Lo stesso
fa una bolla di sapone. È un teorema matematico che di tutte le superfici
205
contenenti un volume dato la sfera ha la superficie minima. (Un greco del periodo
classico avrebbe dato la vita per poter dimostrare questa proprietà per un solido
così apprezzato come la sfera.) La palla e la bolla assumono pertanto, quando
vengono gonfiate, la forma che richiede la superficie minima in relazione al
volume dell’aria soffiata in esse. Ma perché esse dovrebbero decidere di obbedire
a questo teorema matematico? Assumendo una forma sferica la gomma e la
pellicola di sapone vengono distese su una superficie minima e perciò sono
sottoposte a una tensione minima. Evidentemente la natura, come gli esseri
umani, tende al minimo sforzo.
Tutti questi esempi potrebbero essere fatti rientrare in un principio generale?
Attorno alla metà del Settecento un fisico famoso, Pierre Louis Moreau de
Maupertuis, annunciò il Principio della minima azione. Questo principio, che
Maupertuis scoprì mentre stava lavorando alla teoria della luce, afferma che la
natura si comporta in modo da rendere il più possibile piccola una certa quantità
matematica complessa nota tecnicamente come azione ed equivalente al prodotto
della massa, della velocità e dello spazio percorso. Applicando il calcolo
infinitesimale alla formula per l’azione, se ne possono dedurre le prime due leggi
del moto di Newton, oltre ad altre leggi di meccanica e di ottica. Si può dire
perciò che i corpi che si muovono in accordo alle leggi di Newton, ad esempio i
pianeti, obbediscono a un principio del minimo. Maupertuis era inoltre riuscito a
portare le leggi della meccanica e della luce sotto un unico principio del minimo.
Maupertuis ricercò e sostenne questo principio per ragioni teologiche. Egli
riteneva che le leggi del comportamento della materia dovessero rivelare la
perfezione degna della creazione a opera di Dio. Il principio della minima azione
soddisfaceva questo criterio in quanto dimostrava l’economicità della natura. Egli
lo proclamò perciò non soltanto come una legge universale della natura bensì
anche come la prima prova scientifica dell’esistenza di Dio, essendo esso “un
principio così sapiente da esser degno solo dell’Essere supremo.”
Come Maupertuis, anche il grande matematico svizzero Eulero (Leonhard
Euler) ritenne che l’esistenza di un principio del minimo come la minima azione
non fosse casuale e difese perciò le tesi di Maupertuis. Il principio era una prova
del disegno consapevole di Dio. Evidentemente il Dio che era in passato
semplicemente il geometra degli scienziati greci e rinascimentali si stava ora
istruendo. In breve tempo sarebbe diventato, da semplice geometra qual era stato
in precedenza, un matematico raffinato, abile in tutte le discipline della
matematica.
In realtà Fermat, Maupertuis ed Eulero sbagliavano nel ritenere che la natura si
comporti sempre in modo da render minima qualche funzione. Ci sono situazioni,
ad esempio, in cui un raggio di luce prende un percorso che richiede il tempo
massimo rispetto al tempo richiesto da altre vie possibili. Perciò la corretta
formulazione del principio che questi uomini ricercavano è che la natura si
comporta in modo che qualche funzione sia o un massimo o un minimo.
Maupertuis non avrebbe perciò dovuto dire che la natura è economica bensì che la
natura spesso ricorre agli estremi.
206
Eppure, benché Maupertuis e i suoi colleghi possano aver compiuto errori su
qualche particolare, i loro successori dell’Ottocento e del Novecento hanno
ritenuto con fiducia che questi uomini fossero sulla strada giusta. Spogliato delle
associazioni teologiche, un principio del massimo e del minimo domina ora la
scienza fisica. Uno tra i fisici più eminenti del secolo scorso, Sir William Rowan
Hamilton, dimostrò che quasi tutte le leggi gravitazionali, ottiche, dinamiche ed
elettriche possono essere ottenute massimizzando o minimizzando una funzione
da lui creata e nota tecnicamente come integrale tempo del potenziale cinetico. La
funzione di Hamilton è apprezzata in parte perché tante leggi fisiche sono
comprese in essa e in parte perché queste leggi devono essere dedotte mediante
l’applicazione di un procedimento di massimizzazione o di minimizzazione.
Inoltre il più geniale matematico di questo secolo, Albert Einstein, ottenne il
successo più sensazionale, all’interno della sua creazione più importante, la teoria
della relatività, dimostrando che la traiettoria naturale di corpi nello spazio-tempo
è quella che massimizza una funzione chiamata l’intervallo. L’importanza di
quest’asserzione risiede nel fatto che rende ragione delle traiettorie osservate dei
pianeti. Il fine di abbracciare tutti i fenomeni in un principio, quello cioè secondo
cui il comportamento reale della natura consiste nel minimizzare o massimizzare
qualche quantità matematica generalissima, viene oggi perseguito attivamente. Lo
stesso Einstein si è impegnato sino alla fine della sua vita in questo compito di
comprimere tutte le conoscenze elettriche e meccaniche in una forma matematica
da cui le leggi della natura potessero essere dedotte mediante un procedimento di
minimizzazione o di massimizzazione.
Vediamo dunque che l’accento posto dagli scienziati su un principio del
massimo o del minimo non è diminuito. L’unico mutamento è che mentre tali
principi venivano in precedenza attribuiti alla provvidenza divina, sono ora
accettati e graditi per il fatto di essere esteticamente attraenti e scientificamente
utili. Alcuni famosi scienziati del nostro secolo, come Eddington e Jeans, hanno
nondimeno continuato a guardare a Dio come alla Causa prima e all’ultima ragion
d’essere.
Benché i grandi matematici e scienziati non perdessero tempo ad applicare il
calcolo infinitesimale all’architettura dell’universo, essi furono impediti per
generazioni nei loro tentativi di erigere una base logica adeguata alla loro
disciplina. Come la lacuna fra la concezione di una carrozza senza cavalli e la
moderna automobile fu superata mediante un centinaio di invenzioni importanti e
varie centinaia di invenzioni minori, così quella esistente fra il calcolo
infinitesimale di Newton e Leibniz e quella che è considerata oggi un’esposizione
soddisfacente dell’argomento fu superata grazie alle opere di centinaia di
matematici, grandi e piccoli. Ci vollero circa centocinquant’anni perché si
pervenisse a produrre una presentazione logica del calcolo infinitesimale.
La difficoltà principale sorge nella fase che dà la velocita istantanea. Possiamo
ricordare che dalla formula s = 4,9t2 abbiamo ottenuto l’espressione:
k/h = 29,4 + 4,9h
207
per la velocità media durante l’intervallo di tempo di h secondi: Come velocità
istantanea si convenne allora di prendere il numero cui tende per approssimazione
quest’espressione quando h si approssima a zero, ovvero il limite, come tale
valore e chiamato oggi nel calcolo, infinitesimale. Può sembrare ovvio al lettore
che il numero cui quest’espressione tende è il 29,4; tale fatto è forse evidente in
quest’esempio semplice, ma il concetto di limite è nondimeno sottile ed elusivo.
Esaminiamo alcune fra le difficoltà implicate in esso.
I numeri della sequenza 0, 1/4, 3/8, 7/16, 15/32 ... Sono crescenti e tendono ad
approssimarsi a 1 ma evidentemente non si avvicineranno mai all’unità perché
nessun termine di questa sequenza raggiungerà neppure il valore di 1/2. Se i
valori di k/h componessero questa sequenza in corrispondenza all’approssimarsi
di h a zero, quale sarebbe il limite ovvero il numero cui tenderebbe k/h?
Evidentemente si deve dire qualcosa di più sul modo in cui opera questa
impostazione. Si può dire che la sequenza di valori deve approssimarsi
moltissimo al limite. Ma la parola approssimarsi è vaga; il pianeta Marte è
prossimo alla Terra quando si trova a soli 80 milioni di km da essa. D’altra parte
una pallottola passa in prossimità di una persona quando la sfiora a una distanza
di pochi centimetri.
La difficoltà con cui i fondatori del calcolo infinitesimale avevano a che fare
era precisamente quella di dare una qualche definizione soddisfacente di ciò che
intendevano per velocità istantanea o per limite. I tentativi di alcuni fra i
ricercatori del primo Seicento di intendere e giustificare i loro contributi
frammentari all’argomento sono ridicoli se commisurati ai livelli moderni.
Nonostante la lunga tradizione della dimostrazione rigorosa in matematica, alcuni
matematici erano pronti a abbandonare la norma proprio perché sapevano di aver
messo le mani su un’idea di grande valore che desideravano far progredire ma che
non erano in grado di giustificare. Il rigore, disse Bonaventura Cavalieri, un
discepolo di Galileo che insegnò matematica all’Università di Bologna, è affare
della filosofia e non della geometria. Pascal argomentò che il cuore interviene per
assicurarci della correttezza di alcuni passaggi matematici. La “finesse” più che la
logica era necessaria al retto pensare, esattamente come l’apprezzamento della
grazia religiosa è superiore alla ragione.
Newton e Leibniz, pur avendo fatto compiere i progressi più significativi alla
tecnica del calcolo infinitesimale, non contribuirono molto a una rigorosa
fondazione logica dell’argomento. Non si possono leggere i particolari dei loro
scritti sul calcolo infinitesimale senza restare sorpresi dalla varietà di modi in cui
essi si affaticarono attorno alla versione corretta del concetto di limite, senza
peraltro realmente raggiungerlo. Molte volte essi cambiarono la loro impostazione
e contraddissero loro affermazioni precedenti. Nessuno dei due riuscì col concetto
di limite a far più che confondere se stesso, i suoi contemporanei e persino i suoi
successori. In un passo dei Principia, Newton formulò la versione corretta della
nozione di ritmo istantaneo di variazione ma evidentemente non riconobbe questo
fatto, visto che in scritti posteriori diede spiegazioni più mediocri della logica del
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suo procedimento. Leibniz tentò una giustificazione della sua opera in questo
campo mediante argomentazioni filosofiche sulla natura delle quantità h e k che
appaiono nel rapporto k/h quando si consente a h di tendere a zero; eppure egli
ritenne che, prescindendo da considerazioni metafisiche, il calcolo infinitesimale
fosse solo approssimativamente corretto ma in ogni caso utile in quanto gli errori
implicati erano troppo piccoli per avere una qualche incidenza pratica. Nella sua
esposizione matematica del calcolo infinitesimale, Leibniz dà solo regole e mai
dimostrazioni. Per descrivere i valori di k e h che costituiscono il numero cui k/h
tende quando h si approssima a zero, egli parla di h come della differenza in due
valori del tempo t che sono infinitamente vicini l’uno all’altro; similmente, k è la
differenza in due valori del genere della distanza s. In alcuni suoi scritti egli si
riferisce ai valori limitanti di k e di h come a quantità infinitamente piccole, o
quantità evanescenti, o quantità incipienti, contrapposte alle comuni quantità
esistenti. Per il limite di k/h Newton usò l’espressione “rapporto primo e ultimo.”
Tutte le espressioni del genere non fanno però altro che esprimere la difficoltà
implicata.
A causa della mancanza di rigore che caratterizza le più antiche opere sul
calcolo infinitesimale, conflitti e dispute sulla validità dell’intero argomento erano
destinate a durare a lungo. Il matematico Michel Rolle, un contemporaneo di
Newton, insegnò che il calcolo infinitesimale non era altro che una collezione di
ingegnosi errori. Poco tempo dopo la morte di Newton un buon matematico,
Colin Maclaurin, decise di conferire rigore al calcolo infinitesimale. Il suo libro,
edito nel 1742, era indubbiamente profondo ma anche illeggibile. Molte altre
esposizioni settecentesche del calcolo infinitesimale furono scritte col preciso
intento di fornirne la logica. I risultati ottenuti possono essere compendiati dalla
definizione data da Voltaire del calcolo infinitesimale come dell’“arte di numerare
e misurare esattamente una cosa di cui non si può concepire l’esistenza.” Due fra i
massimi matematici di tutti i tempi, Joseph-Louis Lagrange ed Eulero, che
scrissero entrambi le loro opere migliori un centinaio d’anni circa dopo quelle di
Newton e Leibniz, ritenevano ancora che il calcolo infinitesimale non fosse
rigoroso ma desse risultati corretti solo perché gli errori si eliminavano a vicenda.
Verso la fine del Settecento, d’Alembert esortò gli studiosi a proseguire lo studio
dell’argomento; alla fine avrebbero avuto fede. Fu una circostanza molto fortunata
il fatto che la matematica e la scienza fossero strettamente legate nell’èra
newtoniana e che il ragionamento fisico potesse guidare i matematici e tenerli
sulla retta via. Poiché i risultati che essi ottenevano erano utili e corretti nelle
applicazioni, essi conservarono la fiducia nei loro metodi e il coraggio per
procedere oltre. Di fatto, i procedimenti del calcolo infinitesimale funzionavano
tanto bene e procuravano vantaggi tanto grandi che a volte i matematici
chiudevano volontariamente gli occhi dinanzi al problema del rigore.
Sappiamo oggi che furono l’intuizione e argomentazioni di carattere fisico e
non la logica a guidare Newton e Leibniz sulla strada giusta. Un’incompletezza
nel pensiero dei creatori delle idee principali è quasi inevitabile. I pionieri
dell’avventura intellettuale fecero i loro grandi progressi su sentieri illuminati di
209
quando in quando da bagliori improvvisi e brevi di luce. Se essi avessero
indugiato per compiere piccole osservazioni, comportanti comunque un dispendio
di tempo, il loro progresso sarebbe stato limitato ai passi avanti raffinati,
manierati, degli accademici miopi. La storia del calcolo infinitesimale è
nondimeno rivelatrice poiché dimostra come hanno luogo i progressi in
matematica. La concezione popolare del matematico che ragiona perfettamente e
arriva direttamente alla conclusione non è mai così radicalmente diversa dalla
realtà storica come nel caso dei creatori del calcolo infinitesimale. Ovviamente,
molte dimostrazioni matematiche dovettero essere corrette perché qualche errore
fu fatto inconsciamente. È un segreto professionale, la cui divulgazione non
dovrebbe andar oltre il lettore di questo libro, che anche Euclide commise errori
che non furono scoperti fin verso la fine dell’Ottocento. Nel caso del calcolo
infinitesimale troviamo però un vasto corpo di matematica applicato ai problemi
scientifici più profondi e sfociante nella produzione delle leggi più importanti del
Settecento, benché per tutto il tempo i matematici, gli scienziati e altri intellettuali
fossero consapevoli degli insufficienti fondamenti della disciplina e addirittura
dubbiosi della sua correttezza. Dovrebbe essere anche confortante per noi
ricordare che quasi tutti i migliori matematici di due secoli concentrarono i loro
sforzi sul problema di conferire rigore al calcolo infinitesimale, fallendo però
miseramente.
Fortunatamente per la matematica e per il mondo, questa commedia degli errori
ebbe una conclusione felice. Il brillante matematico francese Augustin-Louis
Cauchy riuscì a formulare correttamente il concetto di limite e a dimostrare i
teoremi sui limiti che erano necessari per giustificare le tecniche. Cauchy
pubblicò un’opera definitiva, il Cours d’analyse, nel 1821. Sbaglieremmo però
nell’inferirne che i matematici si liberassero allora delle assurdità che erano state
scritte per centocinquant’anni prima di quella data e adottassero le idee di
Cauchy. Il libro di testo sul calcolo infinitesimale più usato negli Stati Uniti negli
ultimi cinquant’anni, che è ancor oggi molto popolare, potrebbe benissimo essere
stato scritto nel Settecento.
Contrariamente alla convinzione comune, il calcolo infinitesimale non è la
vetta della cosiddetta “matematica superiore.” Esso ne è, di fatto, solo il principio.
Ben presto dopo la sua creazione divenne la pietra angolare dell’analisi, una
branca della matematica molto più vasta dell’algebra e della geometria, che ha
servito, guidato e condotto la scienza in modo così egregio. Argomenti come
equazioni normali ed equazioni differenziali alle derivate parziali, serie infinite, il
calcolo delle variazioni, la geometria differenziale, il calcolo di funzioni di una
variabile complessa e la teoria del potenziale sono soltanto alcuni dei campi
dell’analisi. Con tali strumenti gli scienziati continuarono la loro ricerca di leggi
matematiche della natura e consolidarono il loro dominio su grandi parti di essa.
Alcune di queste imprese saranno oggetto dei capitoli seguenti.
Mentre venivano creati questi nuovi settori della matematica, una nuova cultura
stava sorgendo sulla base dei contributi dei secoli XVI e XVII. Abbandonando i
tronchi morti della conoscenza medievale che in precedenza avevano dato loro
210
alimento, la scienza, la filosofia, la religione, la letteratura, l’arte e l’estetica
cercarono il loro nutrimento nei fecondi contributi matematici a una nuova
interpretazione del cosmo. Le direzioni seguite da questi settori rinvigoriti della
nostra cultura saranno oggetto dei prossimi capitoli.
211
XVI. L’influenza newtoniana: scienza e filosofia
Vagate pure liberi su tutta
la scena umana: un grande labirinto
ma concepito non senza un disegno.
ALEXANDER POPE
Una votazione che fosse stata fatta nel Seicento per designare l’“uomo” più
influente dell’epoca avrebbe collocato sicuramente al primo posto il diavolo.
Secondo la scienza della demonologia, sviluppata e predicata dai teologi, il
diavolo e i suoi assistenti spiriti malvagi erano accusati di provocare guerre,
carestie, pesti e tempeste. Essi si divertivano a spaventare i bambini e a impedire
alla panna di latte agitata di trasformarsi in burro. Il diavolo era aiutato nel suo
lavoro da streghe, esseri umani “unti” che derivavano da lui i suoi poteri. Le
streghe potevano infettare la gente, trasformarsi in lupi e divorare il bestiame dei
loro vicini e anche avere relazioni carnali col diavolo stesso. Nei momenti d’ozio
cavalcavano manichi di scopa su e giù per i camini o in aria.
I danni perpetrati dal diavolo e dai suoi collaboratori, nonostante l’onnipotenza
di Dio, erano così mostruosi che i rappresentanti politici e spirituali di Dio non
trovarono una missione più importante o più santa di quella di sterminare questi
nemici dell’umanità. Tra questi campioni autonominatisi tali della società erano
persone che credevano fermamente nella stregoneria, come il re Giacomo I
d’Inghilterra, Lutero, Calvino, alcuni papi, John Wesley e, nel New England,
Cotton Mather. Sulla base delle prove più inconsistenti furono accusati di
stregoneria vecchi, giovani, donne e bambini. Per essere certi che nessuna persona
sospetta potesse farla franca, furono sollecitate, anche nel corso di funzioni
religiose, le accuse anonime. Venivano fatte passare regolarmente cassette nelle
quali i fedeli potevano introdurre biglietti recanti i nomi di persone sospette. Gli
accusati venivano imprigionati, torturati e costretti a confessare. Sia che
l’accusato confessasse sia che si rifiutasse di farlo, la tortura continuava fino alla
morte poiché la mancata confessione veniva interpretata come ostinazione mentre
la confessione imponeva naturalmente il castigo. Per alleggerire la coscienza dei
giudici, ad alcuni fra gli accusati che non avevano confessato veniva concesso un
certificato d’innocenza, ovviamente postumo.
Con un’adesione di una fermezza quasi incredibile a dottrine che oggi sono
considerate fantastiche, i giudici secolari e gli ecclesiastici condannavano
freddamente a morte streghe e maghi. Quanto fosse ritenuta pericolosa la
minaccia delle streghe nell’Europa del Seicento si può desumere da una delle
212
misure di “riforma”. Il papa Gregorio XV stabilì che dovessero essere punite col
carcere invece che con la morte quelle streghe che, con i loro poteri magici,
avessero prodotto divorzi, malattie o impotenza o avessero arrecato danno ad
animali o colture.
Benché la caccia alle streghe fosse responsabile della morte di molte migliaia
di persone innocenti nel Seicento, non fu certo il solo aspetto tetro della vita in
quell’età violenta. La gente viveva nel terrore continuo di ciò che, a quanto le
veniva detto, la attendeva dopo la morte. I preti affermavano che quasi tutti
sarebbero andati all’inferno dopo la morte e descrivevano con ricchezza di
particolari le torture spaventose, intollerabili che attendevano per tutta l’eternità i
dannati. Zolfo infuocato e fiamme intense bruciavano vittime che, invece di
consumarsi, rimanevano intatte e continuavano a soffrire queste torture che non
diminuivano mai. Dio era presentato non come il salvatore bensì come il flagello
dell’umanità, il potere che aveva creato l’inferno e le torture che hanno luogo in
esso e che gli affidava i peccatori, limitando il Suo amore solo a una piccola parte
del Suo gregge. I cristiani venivano esortati a spendere il loro tempo meditando
sulla dannazione eterna al fine di prepararsi alla vita dopo la morte. La gente
credulona, irriflessiva, per la quale la religione era l’unico sfogo, accettava
servilmente questo annuncio del suo destino come letteralmente vero. Non
sorprende che gli uomini si sentissero tenuti a “giustificare le vie di Dio!”
Durante il Seicento la libertà religiosa fu una rarità, ma, peggio ancora, furono
combattute regolarmente guerre per soffocare opinioni eterodosse all’interno dello
Stato e negli Stati vicini. Si insisteva a tal punto sulla totale uniformità di pensiero
da eliminare ogni forma di pensiero indipendente. Le Inquisizioni spagnola,
romana e messicana, il massacro della notte di San Bartolomeo in Francia, quello
del Piemonte in Italia e la Guerra dei Trent’Anni furono solo alcuni degli sforzi
“ispirati” per educare l’umanità. L’eresia, che comprendeva ogni atto sgradito alla
particolare Chiesa dominante in ogni paese o anche semplici parole contro il papa
negli Stati cattolici, veniva soffocata immediatamente e in modo spietato. Anche
in America ci furono quaccheri impiccati per l’audacia di essere andati nella
puritana Boston. Non soltanto non esisteva quasi libertà di religione, ma la
religione manteneva gli uomini nel terrore: terrore della punizione, terrore della
dannazione, terrore del diavolo, terrore di Dio e terrore della tortura dopo la
morte.
In una tale atmosfera reazionaria ci si può aspettare che la libertà di stampa
fosse così sconosciuta come la libertà religiosa. Dal 1543 fu un’infrazione colpita
dal codice penale negli Stati cattolici stampare, vendere, possedere, trasportare o
importare qualsiasi cosa stampata che non avesse avuto l’approvazione espressa
dell’Inquisizione. Un Indice dei libri proibiti elencò i libri che i fedeli non
dovevano leggere. Mai nulla fu più letale per la sorte delle lettere. Anche là dove
esisteva un certo grado di libertà religiosa, come in Prussia sotto Federico il
Grande, la libertà di stampa era considerata pericolosa per la classe dominante.
Mentre Federico ammetteva che “ogni uomo deve andare in cielo a modo suo,”
sosteneva fermamente che l’uomo non deve aver nulla da dire sul governo che
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regge la sua vita sulla terra. Perciò era rigorosamente imposta la censura di libri e
di articoli. I governi esortavano in apparenza i cittadini alla ricerca della verità,
ma li punivano quando l’avevano trovata. In seguito alle restrizioni sulla
diffusione della cultura, l’ignoranza delle masse era tanto profonda quanto diffusa
e la classe tradizionalmente colta “risolveva” ancora problemi teologici e
sguazzava in Aristotele.
La stessa democrazia era confinata a un concetto aristotelico nella filosofia
speculativa e non era proclamata un fine da conseguire in questo mondo. L’uomo
comune, servile, considerato una proprietà dei suoi padroni, non aveva ancora
imparato che poteva scuotere il diritto divino dei re. Le masse non godevano
inoltre di alcun diritto civile. La gente veniva sbattuta in prigione senza bisogno
che ci fossero accuse specifiche e doveva attendere anni prima che si facesse il
processo. I reati più comuni, come il furto di una pecora o di una piccola somma
di denaro, venivano puniti con la morte, e il carcere per debiti era una cosa
normale. Lo svago prediletto di gentildonne e gentiluomini, in Inghilterra e
altrove, consisteva nell’osservare la tortura e l’esecuzione di criminali operata con
i metodi più crudeli. Essere sventrato e squartato non era affatto a quei tempi un
modo di dire figurato.
Fortunatamente queste manifestazioni di depravazione intellettuale, sociale e
morale erano gli ultimi sussulti di una cultura che stava tramontando. Nel
Seicento la civiltà medievale era crollata completamente. Essa sarebbe stata
soppiantata nel mondo occidentale da una civiltà più illuminata, la quale si stava
proprio allora formando. Il modo in cui la matematica e la scienza contribuirono
alla formazione di questa nuova civiltà è certamente altrettanto degno di esame
del modo in cui esse produssero “miracoli” moderni come la radio e la
televisione.
Gli sconvolgimenti religiosi e sociali del Rinascimento e la rapida
accumulazione delle conoscenze apportate dalle esplorazioni geografiche e dalla
ricerca matematica e scientifica produssero dapprima solo confusione
intellettuale. In tutto questo periodo, però, un piccolo gruppo di scienziati e di
matematici, a cominciare da Copernico, e inclusi poi Keplero, Galileo, Descartes,
Fermat, Huygens, Newton e Leibniz, aveva lavorato assiduamente. Mentre
l’effetto ultimo della loro opera era stato quello di sostituire la decadenza
medievale con un nuovo ordine culturale, il fine di questi uomini era, dal loro
punto di vista, relativamente limitato. In accordo con la nuova concezione
galileiana del compito della scienza e con l’affermazione esplicita di Newton nei
suoi Philosophiae naturalis principia mathematica, esso consisteva nella scoperta
delle relazioni matematiche valide per l’universo fisico.
In vista di questo fine, le leggi del moto e della gravitazione furono il
contributo principale di Newton. Si trovò che queste leggi abbracciavano in sé
una varietà sorprendente di fenomeni. Le leggi di Keplero, fondate fino allora
sull’osservazione, furono riconosciute come deduzioni immediate dalle leggi
matematiche di Newton. Quando Newton e altri dopo di lui trovarono che la luce
poteva essere studiata con successo come un moto di corpuscoli e il suono come
214
un moto di molecole d’aria, le leggi di Newton si rivelarono efficaci anche in
questi studi. Molti altri campi scientifici cominciarono a fornire una formulazione
matematica. Leggi quantitative furono scoperte anche nei campi dell’elettricità e
del calore, per le forze agenti nei liquidi e nei gas e per molti fenomeni chimici.
Benché i maggiori successi venissero ottenuti nei campi dell’astronomia e della
fisica e, in minor misura, della chimica, la loro importanza fu accresciuta dalla
promessa di cose a venire.
Il perfezionamento del microscopio, attraverso studi matematici e fisici sulla
luce, aprì quasi letteralmente un nuovo mondo ai biologi. Il successo
dell’approccio quantitativo, insieme all’analisi in termini di forza e di moto,
suggerì ai fisiologi e agli psicologi di ricercare una soluzione dei loro problemi in
termini meccanici invece che in quelli di prodigi astrologici, anima, mente, spiriti,
umori e altre nozioni vaghe. Studi quantitativi sul flusso di acqua nei tubi
avrebbero chiarito secondo loro il caso della circolazione del sangue nelle arterie
e nelle vene. Di fatto la dimostrazione data da Harvey che il sangue circola in
tutto il corpo prima di tornare al cuore rafforzò questa concezione meccanicistica
perché paragonava il corpo a una macchina pompante, col cuore che fungeva da
pompa. Il lavoro sulla luce avrebbe spiegato gran parte della funzione corporea
della vista, mentre lo studio del suono avrebbe chiarito i problemi implicanti il
senso dell’udito. Due grandi opere, L’homme machine del famoso medico
francese Julien Offroy de La Mettrie e Le système de la nature del radicale barone
Paul Heinrich d’Holbach, si spinsero fino a spiegare in termini di materia e moto
la coscienza, i processi corporei e tutti i pensieri e azioni umani. Non molto tempo
dopo che Newton aveva studiato il cielo, La Mettrie pretese di avere scoperto il
calcolo della mente umana e l’economista francese François Quesnay annunciò
equazioni per la vita economica e sociale. Sembrava che fosse solo una questione
di tempo perché tutti i fenomeni, naturali, sociali e mentali, venissero ridotti sotto
leggi matematiche.
Il segreto dei successi già ottenuti e di quelli attesi con fiducia era chiaro ai
pensatori del Settecento. Uomini come il conte di Buffon, il principale naturalista
francese, e il marchese di Condorcet, il famoso metafisico, compresero che
l’introduzione di metodi quantitativi avrebbe concesso alla scienza un nuovo
potere di razionalizzare e padroneggiare la natura. Kant dichiarò, di fatto, che il
progresso di una scienza poteva essere determinato dalla misura in cui la
matematica era entrata a far parte del suo metodo e dei suoi contenuti. La
matematica divenne così la chiave celebrata alla conoscenza, la “regina delle
scienze.”
La valutazione del potere già sorprendente delle alleate, matematica e scienza,
imbevve gli uomini pensanti di entusiasmo per una vasta riorganizzazione
dell’intera conoscenza lungo le linee seguenti. Innanzitutto essi esaltarono la
ragione umana come lo strumento più efficace per il conseguimento di verità. In
secondo luogo, considerando il ragionamento matematico l’incarnazione delle
forme di pensiero più pure, profonde ed efficaci, la perfetta giustificazione delle
pretese delle facoltà mentali degli esseri umani, essi raccomandarono l’uso di
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metodi matematici e della matematica vera e propria per la derivazione della
conoscenza. In terzo luogo, gli investigatori in ogni campo di ricerca dovevano
ricercare le relative leggi naturali, matematiche. In particolare, i concetti e le
conclusioni della filosofia, della religione, della politica, dell’economia, dell’etica
e dell’estetica dovevano essere riformulati, ogni volta in accordo con le leggi
naturali del suo campo.
Il carattere principale di questo nuovo approccio alla conoscenza era una
fiducia illimitata nella ragione e nella validità dell’estensione di metodi
matematici in tutte le scienze fisiche e formali e, oltre di esse, a tutti i campi della
conoscenza. Questo programma coraggioso non ebbe, come vedremo, un successo
completo. Non tutti i problemi si dimostrarono assoggettabili a metodi
matematici, nonostante le attese e gli sforzi di molti grandi uomini. Ciò
nondimeno la disposizione razionalistica del periodo alterò permanentemente il
corso del pensiero in quasi tutti i campi. Eppure, come i principali esponenti,
ebbri di ragione, dell’Illuminismo settecentesco previdero, la matematica servì da
fulcro alla leva che ribaltò l’ordine del mondo esistente e da strumento principale
per la creazione di un mondo nuovo.
Era quasi prevedibile che uno fra gli sforzi maggiori dei pensatori
settecenteschi sarebbe stato quello di formulare un approccio matematico a tutti i
problemi. Descartes, come abbiamo visto, aveva cercato di ricostruire tutto il
sapere su una base incontestabile e aveva scelto il metodo deduttivo della
matematica come l’unico attendibile. Pur avendo considerato una “mathesis
universalis”, egli non offri però alcun simbolismo o tecnica con cui affrontare
problemi non matematici paragonabili alla sua introduzione dell’algebra per lo
studio delle curve.
Perseguendo un fine non meno vasto di quello di Descartes, il matematico e
filosofo Leibniz si pose un programma più ambizioso. Egli cercò di inventare un
linguaggio universale, tecnico, e un calcolo che fosse adeguato a comprendere e
condurre innanzi in modo efficace qualsiasi tipo di ricerca. Egli sperava in tal
modo che fosse possibile dare facilmente una risposta a tutte le questioni che si
ponevano all’umanità.
La matematica non solo fornì a Leibniz l’ispirazione per il suo progetto ma fu
anche il punto di partenza per la sua esecuzione. Questa disciplina aveva già un
linguaggio ideale e modi di operazione adatti ai suoi propositi. Perché, si chiedeva
Leibniz, non ampliare la portata del linguaggio matematico e dei meccanismi
matematici fino a includervi tutti gli studi? Egli propose perciò come primo passo
verso la sua scienza deduttiva universale la scomposizione di tutte le idee usate
nel pensiero in idee fondamentali, distinte e non sovrapponentisi, così come un
numero composto, come il 24, viene scomposto nei fattori primi 2 e 3. Dapprima
egli usò come simboli per le idee fondamentali numeri primi ma più tardi decise
di costruire un linguaggio speciale con simboli simili agli ideogrammi cinesi. Le
idee complesse dovevano essere rappresentate da combinazioni dei simboli
fondamentali, esattamente come una quantità a(b + c) rappresenta una quantità
algebrica complessa. Egli intendeva poi codificare le leggi del ragionamento in
216
modo che una persona potesse applicarle ai simboli e combinazioni di simboli al
fine di dedurre conclusioni altrettanto meccaniche ed efficaci di quelle della
matematica nell’algebra.
Di primo acchito il progetto di Leibniz sembra assurdo. L’attesa che tutti i
problemi in tutti i campi possono essere risolti sembra a una persona moderna
piuttosto utopistica. Eppure si possono addurre molti argomenti a favore di
Leibniz. La storia della matematica dimostra che l’introduzione di simbolismi e
operazioni sempre migliori ha reso comuni operazioni che sarebbero state
impossibili senza il perfezionamento delle tecniche esistenti. Per considerare
l’esempio più semplice, l’uso dei simboli arabo-indiani per i nostri numeri e la
notazione posizionale rendono possibile ai bambini delle elementari di oggi
l’esecuzione di operazioni che erano oltre le capacità di dotti matematici di epoca
greca, romana e medievale. Leibniz era nondimeno troppo ambizioso. Non
soltanto non riuscì mai a completare i suoi sforzi in queste direzioni, ma la sua
convinzione che tutte le idee potessero essere scomposte in un numero
relativamente piccolo di idee fondamentali non ha trovato conferma.
Eppure il suo programma condusse a qualche azione e a qualche risultato
nell’Ottocento. La logica stessa ha adottato i suoi metodi nel senso di usare
simboli per le idee e operazioni fondamentali che hanno luogo nel ragionamento e
nel senso di eseguire le sue investigazioni sulla natura e le forme del
ragionamento valido in questo linguaggio puramente simbolico. Leibniz è
pertanto il fondatore della scienza nota oggi come logica simbolica, una scienza
che è stata portata avanti attivamente nel nostro secolo da uomini della levatura
mentale di Bertrand Russell e di Alfred North Whitehead.
Se il tentativo di risolvere tutti i problemi con una sorta di calcolo universale
era destinato ad abortire, lo stesso non si può dire per le altre revisioni del sapere
intraprese dall’età di Newton. Il mutamento di maggior portata fu compiuto,
com’è ovvio, nelle scienze stesse. Quando Descartes, Galileo e Newton
stabilirono che il fine della scienza era quello di trovare le leggi matematiche
della natura, i due campi, la matematica e la scienza, assorbirono le forze. Quanto
maggiori erano i successi che coronavano gli sforzi combinati, tanto più stretta
diveniva l’alleanza. Nuovi settori della matematica furono creati per promuovere
la scienza e la scienza fornì i principali problemi alla matematica. Di fatto, i
migliori risultati matematici e scientifici furono ottenuti dalle medesime persone.
È infatti impossibile giudicare se Newton, Leibniz, gli esponenti della famiglia
Bernoulli, d’Alembert, Legendre, Lagrange, e Laplace fossero più grandi come
matematici o come scienziati. Gradualmente, però, una delle parti cominciò a
dominare l’alleanza e il Settecento assisté all’inizio di una nuova fase della
relazione, poiché in questo secolo la matematica cominciò ad assorbire la scienza.
Benché la scienza tenesse fermo con costanza al suo obiettivo di studiare e
scandagliare la natura, divenne però sempre più matematica nel contenuto, nel
linguaggio e nel metodo.
Fra le branche della scienza che diventavano sempre più matematiche,
raggiungendo al tempo stesso quella che sembrava agli uomini del Settecento la
217
perfezione nella rappresentazione e spiegazione della natura, il settore più
eminente e più sviluppato fu la scienza della meccanica. Galileo e Descartes
avevano proposto un programma e una filosofia, ossia che la natura constava di
materia in moto e che la scienza non aveva altro da fare che scoprire le leggi
matematiche di questi moti. Un secolo dopo questo programma era stato
trasformato in una realtà solida ed estremamente imponente. Attraverso l’opera
degli iniziatori e di decine di altre intelligenze di primo piano, lo studio dei moti
dei corpi sulla terra e specialmente dei corpi celesti aveva conseguito una
compiutezza e un carattere così chiaramente definitivo da convincere gli uomini
dell’Illuminismo della verità e della validità di questa filosofia della scienza. Nel
Settecento le due opere monumentali sulla meccanica, la Mécanique analytique di
Lagrange e la Mécanique céleste di Laplace, “dimostrarono” che la natura è
governata da leggi matematiche precise ed eterne, le quali comprendevano ogni
fenomeno del moto osservato dagli scienziati.
Nello stesso tempo, questi scienziati ridussero la meccanica a pure equazioni.
La scienza della meccanica si rivelò un paradiso in cui i matematici potevano
vagare liberamente e felicemente. In questo campo non c’erano più grandi
problemi non risolti che turbassero la loro mente e i fenomeni della natura non
erano altro che frutti che dovevano essere raccolti. Mentre il Seicento poteva
vantarsi delle sue brillanti creazioni matematiche, il Settecento poteva andar fiero
dei successi conseguiti dalla sua filosofia meccanica della natura e avrebbe potuto
essere descritto in modo esatto come l’età della meccanica matematica.
In concomitanza con il mutamento nel contenuto della scienza, ci furono
mutamenti nel linguaggio e nel modus operandi. Il linguaggio si identificò sempre
più con quello della matematica, col suo simbolismo preciso, univoco,
appropriato e universale. Anche la scienza cominciò a fare un uso molto più
ampio di concetti astratti o ideali. Di fatto, noi tutti astraiamo continuamente idee
dall’esperienza, anche se, come il personaggio di Molière che non riusciva a
credere di aver parlato in prosa per tutta la vita, spesso non ce ne rendiamo conto.
La forza di gravità era una fra le astrazioni più notevoli del Seicento. Altre
importanti astrazioni erano l’etere che pervadeva lo spazio, un altro concetto usato
ampiamente a partire dal Seicento, e la massa, un concetto scientifico. Fra le
famose astrazioni introdotte a partire dall’inizio del Seicento possiamo
menzionare i concetti di potenza e di energia.
La scienza era diventata più matematica nei suoi metodi grazie all’uso più
ampio della deduzione. Intendiamo dire con ciò che aveva adottato assiomi, come
la matematica fece durante il periodo greco, e che usava questi assiomi in
connessione con gli assiomi e i teoremi della matematica, per dedurre i propri
teoremi. Possiamo chiederci: quali assiomi, oltre a quelli puramente matematici,
sono alla base ad esempio del ragionamento in fisica? Assiomi del genere sono le
leggi del moto e della gravitazione di Newton e li abbiamo visti usare nel capitolo
precedente. Un altro esempio di quello che può essere considerato un assioma
fisico è l’affermazione della conservazione dell’energia. Questo assioma è
suggerito dall’osservazione che quando l’energia viene consumata in una forma,
218
riappare in un’altra. Se si usa energia muscolare per segare legna, nella sega e nel
legno ricompare energia sotto forma di calore. L’energia latente nel carbone è
usata per creare energia nella forma di elettricità. Sulla base di queste
osservazioni e di molte precise misurazioni, i fisici sono disposti ad accettare
come assiomatico il fatto che nei processi fisici e chimici l’energia non va mai
perduta ma semplicemente muta forma.
La conversione di un intero settore della scienza in una disciplina
essenzialmente matematica e l’uso crescente da parte della scienza del linguaggio,
delle conclusioni e dei procedimenti della matematica come l’astrazione e la
deduzione sono stati caratterizzati come la matematizzazione della scienza. Nel
Settecento sembrava chiaro che col tempo l’intera scienza sarebbe stata
matematizzata e che il progresso della scienza sarebbe stato sempre più rapido col
progredire dell’assorbimento della scienza da parte della matematica.
Nella loro investigazione della natura, gli scienziati del Rinascimento
cercarono e trovarono verità matematiche. La matematica era stata riconosciuta
naturalmente una fonte di tali verità fin dai tempi greci. Solo dopo il
Rinascimento, però, le leggi matematiche cominciarono a fare sull’universo
affermazioni così vaste da mettere in pericolo i titoli dei tradizionali signori
filosofici e religiosi del regno della verità. Di fatto la matematica stava rivelando
un nuovo ordine e piano razionale dell’universo, più maestoso di qualsiasi altro
mai suggerito prima. E con la matematica in piena parabola ascendente e diretta
ormai verso uno zenit di realizzazioni oltre l’immaginazione dell’uomo, sia la
filosofia sia la religione dovettero abbandonare sistemi di pensiero costruiti da
molto tempo e ricostruire alla luce del nuovo sapere matematico e scientifico.
I filosofi cominciarono la ricostruzione riproponendo l’interrogativo: in che
modo l’uomo perviene a conoscere verità? Anche i teologi si occuparono di
questo problema, poiché la nuova matematica e la scienza avevano distrutto tanta
parte di ciò che in passato era stato considerato conoscenza che, almeno fra gli
intellettuali, la fede religiosa ortodossa in Dio stava quasi scomparendo. Poiché la
dimostrazione dell’esistenza di Dio non poteva con ogni verosimiglianza derivare
da un teorema matematico o da un esperimento scientifico, alcuni videro la
necessità di trovare tale fede in una nuova teoria della conoscenza. Forse si poteva
dimostrare che il concetto di una divinità fosse innato nell’uomo e perciò
superiore a ogni dubbio.
In che modo l’uomo perviene a conoscere verità? In che modo acquisisce la
conoscenza in cui è disposto a credere ciecamente? In che modo rende ragione
della convinzione che si accompagna a tale sapere? I filosofi ponderarono questi
problemi e proposero risposte che scontentavano i teologi nella stessa misura in
cui riflettevano il nuovo modo di vedere dell’epoca.
Conformemente alle conoscenze che venivano acquisite dalla matematica e
dalla scienza, il filosofo Thomas Hobbes affermò per primo nel Leviathan (1651)
che fuori di noi c’è soltanto materia in movimento. I corpi esterni comprimono i
nostri organi di senso e, attraverso processi puramente meccanici, producono
sensazioni nel nostro cervello.
219
Tutta la nostra conoscenza deriva da queste sensazioni. Una sensazione può
indugiare nel cervello perché, come tutta la materia, possiede inerzia. La
sensazione viene chiamata allora immagine. Quando una successione di immagini
arriva, ne richiama altre già ricevute, cosi come, ad esempio, l’immagine di una
mela richiama quella di un albero. Il pensiero è l’organizzazione di catene di
immagini. Specificamente, si assegnano nomi a corpi e a proprietà di corpi non
appena essi si presentano sotto forma di immagini e il pensiero consiste nel
connettere questi nomi mediante asserzioni e nel cercare le relazioni che valgono
necessariamente fra queste asserzioni. La conoscenza consiste in regolarità
scoperte dal cervello quando esso organizza e mette in relazione le asserzioni.
Ora, l’attività matematica produce per l’appunto regolarità del genere poiché
attraverso la matematica il cervello sceglie e astrae relazioni necessarie che non
sono immediatamente evidenti in oggetti fisici in quanto tali. Perciò l’attività
matematica del cervello produce una conoscenza autentica del mondo fisico e la
conoscenza matematica è verità. Di fatto, la realtà ci è accessibile solo nella forma
della matematica.
Hobbes difese con tanta energia il diritto esclusivo della matematica alla verità
che anche i matematici obiettarono. In una lettera a uno tra i massimi fisici
dell’epoca, Christiaan Huygens, il matematico John Wallis scriveva di Hobbes:
Il nostro Leviatano sta attaccando e distruggendo furiosamente le nostre università (e non
soltanto le nostre bensì tutte) e specialmente i ministri del culto e il clero e tutta la religione,
come se il mondo cristiano non possedesse alcuna conoscenza solida e nessuno che non fosse
ridicolo nella filosofia e nella religione e come se gli uomini non potessero intendere la
religione senza aver prima inteso la filosofia, né la filosofia a meno che non conoscano la
matematica.
L’accento posto da Hobbes sul carattere puramente fisico della sensazione e
dell’azione del cervello nel ragionamento scandalizzò molti filosofi per i quali la
mente era più di una massa di materia che agiva meccanicamente e che cercavano
un sostegno per concetti della religione come Dio e l’anima. Nel suo Essay
concerning Human Understanding (Saggio sull’intelletto umano), edito nel 1690,
John Locke iniziò un po’ nel senso di Hobbes, ma diversamente da Descartes,
affermando che negli uomini non ci sono idee innate; gli uomini nascono con la
mente perfettamente vuota, come una tabula rasa. L’esperienza, attraverso gli
organi di senso, scrive su quelle tavolette e produce idee semplici. Alcune idee
semplici sono copie esatte di qualità realmente presenti nei corpi. Queste qualità,
che egli chiama primarie, sono esemplificate dalla solidità, dall’estensione, dalla
figura (forma), dal moto o quiete e dal numero. Tali proprietà esistono
indipendentemente dall’esistenza di un soggetto che le percepisca. Altre idee che
sorgono da sensazioni sono gli effetti delle proprietà reali di oggetti sulla mente
ma queste idee non corrispondono a proprietà reali. Fra queste qualità secondarie
sono il colore, il sapore, l’odore e il suono.
220
Benché la mente non possa inventare o immaginare alcuna idea semplice, essa
possiede la capacità di riflettere sulle idee semplici, di confrontarle e di unirle e di
formare in tal modo idee complesse. Qui Locke si allontanò da Hobbes. La mente
non conosce inoltre la realtà in sé ma soltanto idee della realtà e opera con esse.
La conoscenza concerne la connessione di idee, il loro accordo o contraddizione.
La verità consiste nella conoscenza che si adegua alla realtà delle cose.
La dimostrazione connette idee, stabilendo in tal modo verità. Fra le certezze
raggiunte dalla dimostrazione, quelle matematiche sono perfette. Locke preferiva
la conoscenza matematica perché, innanzitutto, si rendeva conto che le idee di cui
essa si occupa sono quelle più chiare e attendibili. La matematica stabilisce inoltre
relazioni fra idee mettendo in luce connessioni necessarie fra di esse e la mente
comprende tali connessioni nel modo migliore.
Locke non soltanto preferiva la conoscenza matematica del mondo fisico
prodotta dalla scienza ma rifiutò addirittura la conoscenza fisica diretta. Egli
sostenne che molti fatti concernenti la struttura della materia non sono chiari, e tra
questi comprese ad esempio le forze fisiche mediante cui gli oggetti si attraggono
o si respingono l’un l’altro. Inoltre, poiché noi non possiamo mai conoscere la
sostanza reale del mondo esterno bensì soltanto idee prodotte da sensazioni,
difficilmente la conoscenza fisica può essere soddisfacente. Egli era convinto,
nondimeno, che il mondo fisico che possiede le proprietà descritte dalla
matematica esiste, così come Dio e noi stessi.
La filosofia di Locke riflette in modo quasi perfetto i contenuti della scienza
newtoniana. La sua influenza sul pensiero popolare fu perciò enorme. La sua
filosofia pervase il Settecento quasi come quella cartesiana aveva dominato nel
Seicento.
Nelle loro teorie della conoscenza sia Hobbes sia Locke misero l’accento
primariamente sull’esistenza di un mondo di materia esterno agli esseri umani.
Mentre tutta la conoscenza derivava da questa sorgente, le verità su questo mondo
infine ottenute dalla mente, o cervello, erano le leggi della matematica. Il vescovo
George Berkeley, famoso come filosofo oltre che come ecclesiastico, individuò in
questo accento posto sulla materia e sulla matematica una minaccia alla religione
e a concetti come Dio e l’anima.6 Con argomentazioni geniali e acute egli
procedette ad attaccare sia Hobbes sia Locke e a presentare la propria teoria della
conoscenza. Nella sua opera filosofica principale, A Treatise concerning the
Principles of Human Knowledge, wherein the chief cause of error and difficulty in
the sciences, with the grounds of scepticism, atheism and irreligion, are inquired
into (Trattato sui principi della conoscenza umana, in cui si indagano le cause
principali dell’errore e delle difficoltà nelle scienze, con i fondamenti dello
scetticismo, dell’ateismo e dell’irreligione), Berkeley sferrò un attacco frontale.
Sia Hobbes sia Locke sostenevano che tutto ciò che noi conosciamo sono idee,
ma queste idee sono prodotte dall’azione di cose esterne, materiali, sulla nostra
mente. Berkeley ammise che le sensazioni o impressioni sensoriali derivino da
6 Si veda anche il prossimo capitolo.
221
esse ma contestò la convinzione che esse siano causate da oggetti materiali esterni
alla mente che percepisce. Poiché noi percepiamo soltanto le sensazioni e le idee,
non c’è ragione di credere che qualche cosa sia esterna a noi stessi. In risposta
all’argomentazione di Locke secondo cui le nostre idee delle qualità primarie di
oggetti materiali ne sarebbero copie esatte, Berkeley replicò che un’idea non può
essere uguale se non a un’altra idea.
In breve, Berkeley sostenne che, poiché conosciamo soltanto sensazioni e idee
formate da sensazioni ma non conosciamo gli oggetti esterni in sé, non c’è affatto
bisogno di supporre l’esistenza di un mondo esterno. Il mondo non esiste più di
quanto esistano le stelle che vediamo quando prendiamo una botta in testa. Un
mondo esterno di materia è un’astrazione priva di significato e incomprensibile.
Se esistessero corpi esterni, noi non saremmo in grado di conoscerli; e se non ne
esistessero, avremmo le stesse ragioni che abbiamo ora di pensare alla loro
esistenza. La mente e le sensazioni sono le uniche realtà. Così Berkeley si liberò
della materia.
Il lettore può rifiutare questa conclusione e forse tentare di confutarla, come
fece Samuel Johnson, dando un calcio a un sasso dall’apparenza molto solida, ma
la logica della posizione di Berkeley non ne viene certo invalidata. Al più essa
può essere rifiutata per la ragione descritta dal conte di Chesterfield in una lettera
al figlio:
Il dottor Berkeley, vescovo di Cloyne, un uomo molto degno, geniale e dotto, ha scritto un libro per
dimostrare che la materia non esiste e che nulla esiste se non nell'idea; che tu e io abbiamo solo
l’impressione di mangiare, di bere e di dormire... Le sue argomentazioni sono, a rigore, inconfutabili;
eppure io sono così lontano dall’esserne convinto che sono deciso a continuare a mangiare e a bere, ad
andare a passeggio e a cavalcare al fine di mantenere quella materia da cui immagino così erroneamente
che il mio corpo sia attualmente composto nella migliore condizione possibile. Il buon senso (che pur
essendo detto spesso senso comune è in verità poco comune) è il miglior senso che conosco.
Bisogna confessare che lo stesso Berkeley non disdegnava contatti occasionali
col mondo fisico la cui esistenza egli negava. La sua ultima opera, intitolata Siris:
A Chain of Philosophical Reflections concerning the Virtues of Tar-Water,
raccomandava di bere acqua in cui fosse stato immerso catrame come cura contro
il vaiolo, la consunzione, la gotta, la pleurite, l'asma, l’indigestione e molte altre
infermità. Tali errori occasionali non devono essere usati come argomenti contro
Berkeley. Il lettore che consulti i deliziosi Dialogues of Hylas and Philonous
(Dialoghi fra Hylas e Philonous) vi troverà una difesa estremamente abile e
piacevole della filosofia di Berkeley. In ogni modo, privando il materialismo della
sua materia, Berkeley riteneva di essersi liberato del mondo fisico e, con esso,
della scienza newtoniana.
Ma Berkeley doveva ancora fare i conti con la matematica. Com’è possibile
che la mente riesca a ottenere leggi che non soltanto descrivono ma anche
predicono il corso del mondo esterno? Che cosa si poteva fare per opporsi alla
credenza settecentesca, fortemente stabilita, nelle verità su un mondo esterno
offerte dalla matematica?
222
Egli procedette alla demolizione della matematica e fu abbastanza accorto da
attaccarla nel suo punto più debole. Il concetto fondamentale del calcolo
infinitesimale è quello del ritmo istantaneo di variazione di una funzione; ma,
come abbiamo detto in precedenza, questo concetto non fu inteso chiaramente e
perciò non fu presentato in modo irreprensibile né da Newton né da Leibniz.
Berkeley poté quindi attaccarlo con buone ragioni e con convinzione. In The
Analyst, del 1734, indirizzato a un matematico miscredente, egli non misurò certo
le parole. I ritmi istantanei di variazione furono da lui condannati in quanto “né
quantità finite né quantità infinitamente piccole né infine alcunché.” Questi ritmi
di variazione non erano altro che “gli spiriti di quantità svanite. Certo... colui che
riesce a digerire una seconda o una terza flussione [il nome tecnico adottato da
Newton per indicare il ritmo istantaneo di variazione] ... non ha bisogno, mi pare,
di essere schifiltoso su alcun punto della teologia.” Che il calcolo infinitesimale si
dimostrasse ciò nondimeno utile era spiegato da Berkeley col fatto che in qualche
modo gli errori si compensavano a vicenda. Benché le critiche di Berkeley al
calcolo infinitesimale fossero a quell’epoca giustificate, di fatto egli non si era
liberato di tutte le verità prodotte dalla matematica sul mondo fisico. Nondimeno,
avendo dato ai suoi avversari di che pensare, fissò su questo punto la sua
opposizione alla matematica.
La filosofia di Berkeley sembrerebbe essere tanto radicale quanto il pensiero
può esserlo sull’argomento della relazione dell’uomo al mondo fisico. Ma lo
scettico scozzese David Hume pensò che Berkeley non si fosse spinto abbastanza
avanti. Berkeley aveva accettato una mente pensante in cui esistevano le
sensazioni e le idee. Hume negò anche la mente. Nel suo Treatise of Human
Nature (Trattato sulla natura umana) (1739-1740) egli affermò che noi non
conosciamo né la mente né la materia. Entrambe sono finzioni. Noi non
percepiamo né l’una né l’altra: ciò che percepiamo sono solo impressioni
(sensazioni) e idee come immagini, ricordi e pensieri, che sono tutt’e tre solo
deboli effetti di impressioni. Esistono, è vero, impressioni e idee sia semplici sia
complesse, ma le ultime sono soltanto combinazioni di impressioni e idee
semplici. Si può perciò asserire che la mente è tutt’uno con il nostro insieme di
impressioni e di idee. Essa non è altro che un termine conveniente per dare un
nome a questo insieme.
A proposito della materia, Hume era d’accordo con Berkeley. Chi ci garantisce
che esista un mondo permanente di oggetti solidi? Tutto ciò che conosciamo sono
le nostre impressioni di un tale mondo. Per associazione di idee, mediante
somiglianza e contiguità per ordine o posizione, la memoria ordina il mondo
mentale delle idee così come la gravitazione presume di ordinare il mondo fisico.
Lo spazio o il tempo sono soltanto un modo e un ordine in cui le idee ci si
presentano. Analogamente, la causalità è soltanto una connessione abituale di
idee. Né lo spazio né il tempo né la causalità sono realtà oggettive. Credendo in
tali realtà, siamo ingannati dalla forza e dalla costanza delle nostre idee.
L’esistenza di un mondo esterno dotato di proprietà costanti è in realtà
un’inferenza ingiustificata. Non esiste alcuna prova dell’esistenza di qualcosa al
223
di là di impressioni e idee, le quali non appartengono a nulla e non rappresentano
nulla. Perciò non possono esistere leggi scientifiche concernenti un mondo fisico
oggettivo, permanente: tali leggi hanno semplicemente il significato di compendi
convenienti di impressioni. Poiché inoltre l’idea di causalità si fonda non su prove
scientifiche ma semplicemente su un abito mentale risultante dalla frequente
osservazione dell’ordine comune degli “eventi”, non abbiamo alcun modo di
sapere con certezza che le successioni che abbiamo osservato si ripresenteranno.
L’uomo stesso è solo un aggregato isolato di percezioni, ossia di impressioni e
di idee. Egli esiste solo in quanto tale. Ogni tentativo da parte sua di percepire se
stesso ha come risultato solo una percezione. Tutti gli altri uomini e il supposto
mondo esterno sono per ogni uomo solo percezioni e non c’è alcuna certezza che
esistano. Soltanto un ostacolo si opponeva allo scetticismo radicale di Hume,
ossia l’esistenza delle verità generalmente riconosciute della matematica pura.
Non potendo demolire queste verità, egli procedette a svuotarne il valore. I
teoremi della matematica pura, egli asserì, non sono altro che affermazioni
ridondanti, ripetizioni inutili di un medesimo fatto in modi diversi. Il 2 2 = 4
non è un fatto nuovo. Di fatto 2 2 è soltanto un altro modo di dire o scrivere 4.
Questa e altre affermazioni in aritmetica sono pure tautologie. Quanto ai teoremi
della geometria, essi non sono altro che ripetizioni in forma più elaborata degli
assiomi, i quali hanno a loro volta tanto significato quanto 2 2 = 4.
La soluzione data dunque da Hume del problema di come l’uomo ottenga la
verità è che egli non può ottenerla. Né i teoremi della matematica né l’esistenza di
Dio né l’esistenza del mondo esterno né la causalità né la natura né i miracoli
costituiscono verità. Hume distrusse così col ragionamento quanto il
ragionamento aveva costruito, mentre, nello stesso tempo, rivelava i limiti della
ragione.
L’opera di Hume non soltanto invalidava gli sforzi e i risultati della scienza e
della matematica ma sfidava il valore della ragione stessa. Alcuni filosofi, come
Rousseau, ne trassero l’inferenza ovvia, raccomandando l’abbandono della
ragione a favore di un approccio immaginativo e intuitivo alla vita. Per essi la
ragione era una forma di autoinganno, un’infelice illusione. L’uomo pensante non
era altro, dopo tutto, che un animale malato.
Ma una tale conclusione, una tale negazione della massima facoltà umana, era
inaccettabile per la maggiore parte dei pensatori del Settecento. La matematica e
altre manifestazioni della ragione umana avevano ottenuto tanti risultati da non
poter essere messe semplicemente da parte come aberrazioni. Il filosofo supremo
Immanuel Kant espresse di fatto la sua opposizione all’ingiustificata estensione, a
opera di Hume, della teoria gnoseologica di Locke. La ragione doveva essere
rimessa in trono. A Kant appariva indubitabile che l’uomo possiede idee e verità
che vanno al di là di mere amalgamazioni dell’esperienza sensoriale.
Kant intraprese perciò un approccio interamente nuovo al problema di come
l’uomo ottiene verità. Il suo primo passo consisté nel distinguere fra due tipi di
asserzioni o giudizi che ci danno la conoscenza. Il primo tipo, che egli chiamò
224
giudizi analitici e che è esemplificato dalla proposizione “tutti i corpi sono estesi”,
non contribuisce in modo reale alla conoscenza. L’affermazione che i corpi sono
estesi è semplicemente l’asserzione esplicita di una proprietà che i corpi hanno
per il semplice fatto di essere corpi e non dice nulla di nuovo. Perciò non
impariamo nulla quando ci viene detto che i corpi sono estesi, anche se tale
affermazione può forse servire a dare maggior enfasi al fatto. D’altra parte,
l’asserzione che tutti i corpi hanno un colore aggiunge qualcosa di nuovo alla
nostra conoscenza poiché aggiunge alla nostra informazione sui corpi un fatto che
non è inerente alla loro natura in quanto corpi. I giudizi di questo tipo furono
chiamati da Kant giudizi sintetici. Kant distinse anche fra la conoscenza ottenuta
direttamente dall’esperienza e la conoscenza ottenuta in qualche modo dalla
mente indipendentemente dall’esperienza. Quest’ultimo tipo di conoscenza fu da
lui chiamato a priori.
Secondo Kant, la verità non può provenire dalla sola esperienza poiché
l’esperienza è un miscuglio di sensazioni, privo di concetti e di organizzazione.
Le semplici osservazioni non forniranno perciò verità. Le verità, se esistono,
devono essere giudizi a priori e inoltre, per essere conoscenza autentica, devono
essere giudizi sintetici. Opponendosi a Hume e a Rousseau, Kant dimostrò
innanzitutto che l’uomo possiede verità, ossia giudizi sintetici a priori.
Una prova evidente era disponibile nel corpo della conoscenza matematica.
Quasi tutti gli assiomi e i teoremi della matematica erano per Kant giudizi
sintetici a priori. La proposizione che la linea retta è la distanza più breve fra due
punti è certamente sintetica poiché combina due idee, la rettilinearità e la distanza,
nessuna delle quali è implicata nell’altra. Essa è però anche a priori poiché né
l’esperienza con linee rette e neppure misurazioni potrebbero assicurare la verità
invariabile e universale che Kant associava a questa proposizione. Per Kant non
era perciò affatto dubbio che l’uomo possa avere giudizi sintetici a priori, ossia
verità autentiche.
Ma Kant gettò lo scandaglio ancora più in profondità. Perché, si chiese, era
disposto ad accettare come una verità l’asserzione che la linea retta è la distanza
più breve fra due punti? Come è possibile per la mente conoscere verità del
genere? Si potrebbe dare una risposta a questa domanda se si potesse rispondere
alla domanda di come sia possibile la matematica. La risposta data da Kant è che
la nostra mente possiede, indipendentemente dall’esperienza, le forme dello
spazio e del tempo. Kant chiamò queste forme intuizioni. Lo spazio è perciò
un’intuizione attraverso la quale la mente “vede” il mondo fisico al fine di
organizzare e comprendere le sensazioni. Poiché l’intuizione dello spazio ha la
sua origine nella mente, certi assiomi sullo spazio sono immediatamente
accettabili alla mente. La geometria procede quindi a esplorare le implicazioni
logiche di questi assiomi.
Perché allora i teoremi della geometria, che sono costrutti mentali, si applicano
al mondo fisico, esterno alla nostra mente? La risposta di Kant è che la forma
dello spazio che la mente possiede sotto forma di intuizione pura è l’unico modo
in cui essa può comprendere le relazioni spaziali. Noi percepiamo, organizziamo e
225
comprendiamo l’esperienza in accordo con questa forma spaziale; l’esperienza si
adatta cioè a questa forma come una pasta a uno stampo. Per questa ragione
dev’esserci un accordo fra la geometria euclidea e la nostra esperienza con figure
fisiche.
Più in generale, Kant argomentò che il mondo della scienza é un mondo di
impressioni sensoriali organizzate dalla mente in accordo con principi o categorie
innati. Le impressioni sensoriali si originano in un mondo reale ma purtroppo
questo mondo è inconoscibile. La mente stessa fornisce l’organizzazione e la
comprensione dell’esperienza. La realtà può essere conosciuta solo nei termini
delle categorie soggettive fornite dalla mente che percepisce.
Da questa succinta esposizione della teoria kantiana della conoscenza è
evidente che Kant fece dell’esistenza di verità matematiche un pilastro centrale
della sua filosofia. In particolare, egli faceva assegnamento sulle verità della
geometria euclidea. La sua incapacità a concepire alcun’altra geometria lo
convinse del fatto che non potesse essercene un’altra. Furono così giustificate le
verità di Euclide e l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori.
Purtroppo la creazione ottocentesca, la geometria non euclidea, distrusse le
argomentazioni di Kant. Né il problema di come l’uomo può raggiungere verità
ottenne una soluzione definitiva da contributi successivi del pensiero filosofico.
Di fatto, come vedremo più avanti, l’argomento fu reso ancora più intricato dai
creatori delle geometrie non euclidee. Ma benché i grandi pensatori settecenteschi
non riuscissero a risolvere il problema di come l’uomo pervenga a conoscere
verità, essi aprirono almeno gli sbarramenti che si frapponevano al pensiero e
permisero a nuove idee di fluire liberamente nella mente dell’umanità.
Benché i filosofi settecenteschi fossero in energico disaccordo fra loro sulla
questione di come l’uomo pervenga a conoscere verità, c’era ben poco contrasto
fra loro su che cosa sia vero. Poiché le leggi del moto e della gravitazione
estendevano il loro dominio su un numero sempre maggiore di fenomeni e poiché
i pianeti, le comete e le stelle continuavano a seguire traiettorie descritte con tanta
precisione dalla matematica, l’assunto di Descartes e di Galileo che l’universo sia
interpretabile in termini di materia, forza e movimento divenne una convinzione
nella mente di quasi tutti gli europei pensanti.
Poiché la materia in moto era la chiave per una descrizione matematica dei
corpi cadenti e del moto dei pianeti, gli scienziati stessi tentavano di estendere una
tale spiegazione materialistica a fenomeni la cui natura non comprendevano
affatto. Il calore, la luce, l’elettricità e il magnetismo erano considerati tipi di
materia imponderabili, dove imponderabile significa semplicemente che le densità
di questi tipi di materia erano troppo piccole per poter essere misurate. La materia
del calore, ad esempio, fu chiamata calorico. Si supponeva che un corpo
riscaldato si imbevesse di questa materia così come una spugna si imbeve
d’acqua. L’elettricità era, analogamente, materia allo stato fluido e quel fluido che
scorre nei fili era la corrente elettrica.
Dei tre concetti di materia, forza e moto, la forza agiva sulla materia e il moto
era una proprietà della materia; la materia era perciò fondamentale. I filosofi
226
proclamarono perciò che la materia si comporta in accordo con leggi matematiche
immutabili e che essa è la sola realtà. Questa è la dottrina del “materialismo”.
Hobbes la espresse nella sua forma più cruda:
L’universo, ossia l’intera massa di tutte le cose che sono, è corporeo, ossia è corpo, e ha le
dimensioni della grandezza, ossia lunghezza, larghezza e profondità; ogni parte del corpo è
inoltre, similmente, corpo, e ha le dimensioni analoghe, e dì conseguenza ogni parte
dell’universo è corpo, e ciò che non è corpo non è parte dell’universo; e poiché l’universo è
tutto, ciò che non è parte di esso non è nulla, e di conseguenza non è in alcun luogo.
Il corpo, egli continuava, è qualche cosa che occupa spazio, che è divisibile e
mobile e si comporta matematicamente.
Si può dire pertanto che il materialismo vede nella realtà semplicemente una
macchina complessa, un meccanismo di oggetti che si muovono nello spazio e nel
tempo. Poiché l’uomo stesso fa parte della natura fisica, tutto dell’uomo
dev’essere spiegabile in termini di materia, moto e matematica. Nel linguaggio di
Hobbes, tutto ciò che esiste è materia; tutto ciò che accade è movimento; la
coscienza è semplicemente l’urto di particelle materiali sulla sostanza cerebrale.
Altri esponenti della nuova filosofia, come La Mettrie, il cui Homme machine
affermò questa tesi nel modo più netto, e il barone d’Holbach, il cui libro Le
système de la nature fu chiamato la Bibbia del materialismo, andarono ancor
oltre. Il pensiero, così come la coscienza, fu considerato un moto molecolare. La
mente non può essere distinta dal cervello e perisce con esso. Il concetto di una
“sostanza” non fisica come l’anima dev’essere rifiutato completamente. Lo stato
morale dell’uomo è soltanto un aspetto speciale del suo stato fisico, un modo
d’azione particolare causato dalla sua organizzazione e dall’ambiente fisico.
Soltanto i pregiudizi ci impediscono di esaminare le influenze che determinano il
nostro comportamento morale. In sintesi, la materia é la causa e la spiegazione di
tutti i fenomeni ed è la sorprendente alternativa a Dio.
Prima di esaminare le conseguenze dirompenti del materialismo, dovremmo
cercare di chiarire quale sia la fonte della sua forza. L’attività scientifica
dell’osservazione e sperimentazione, oltre ai concetti scientifici di materia, forza e
moto, si combinarono con la matematica pura per produrre le prove a sostegno
della dottrina. Parrebbe però che una dottrina che asserisce la realtà fondamentale
della materia dovrebbe fondarsi più su basi scientifiche che su basi matematiche.
Eppure, come comprese chiaramente Newton, la forza del movimento
materialistico risiede non nella solida materia bensì nelle astrazioni immateriali
dell’eterea matematica. L’intero sistema della scienza naturale, fondato da Galileo
e da Descartes ed eretto da Newton, si fondava sulla forza universale della
gravitazione. Benché Newton avesse reso indispensabile la teoria di questa forza
universale, ammise di non conoscerne la natura. Di fatto egli sottolineò la
necessità di investigarne la natura fisica e il modus operandi, rifiutando come
premature e vaghe le sue stesse congetture sull’argomento. Con profetica
lungimiranza egli aderì rigorosamente alla formulazione matematica dell’azione
227
della gravità e alle conseguenze matematiche della formulazione. La matematica
era il segno in cui Newton condusse la sua conquista.
Ovviamente Newton e i suoi successori si attendevano che un giorno o l’altro si
pervenisse alla spiegazione fisica dell’azione della gravità. Taluni famosi
scienziati, come Huygens, Leibniz e Johann Bernoulli, si resero conto quanto
meno del fatto che una spiegazione mancava e che proprio a causa di questa
lacuna sul piano della teoria fisica essi erano costretti a trattare il comportamento
della gravità in modo totalmente matematico. Nel frattempo scienziati minori si
riferirono alla gravitazione come a un’“azione a distanza”, come se l’espressione
potesse sostituire in qualche modo una spiegazione fisica. Poco a poco la costante
ripetizione delle parole “azione a distanza”, le quali si limitavano semplicemente
a passar sopra il problema, attenuò la sensibilità critica facendo accettare la frase
come il surrogato di una spiegazione. Il significato fisico fu costretto e sacrificato
sull’altare della fecondità matematica. La natura e il modus operandi della forza
di gravitazione non furono mai spiegati.
Per questa ragione i materialisti che, per secoli dopo Newton, parlarono in
modo così disinvolto e sicuro dei fenomeni solidi, tangibili e osservabili della
natura, stavano di fatto proclamando al tempo stesso l’importanza di una nozione
più mistica e oscura della transustanziazione. Vantando il progresso della
concezione materialistica nella scienza, essi sottolineavano inconsapevolmente
l’importanza delle leggi matematiche poiché la filosofia materialistica, che
sembra derivare la sua forza principalmente dal trattamento scientifico della
materia, di fatto la deriva dalla matematica, la più astratta delle astrazioni
scientifiche. Il pitagorismo, con la sua enfasi sulle relazioni numeriche come
realtà ultima, veniva giustificato sotto l’aspetto del materialismo.
Nonostante che il materialismo disponesse solo di una base materiale
inadeguata, la convinzione che l’universo potesse essere spiegato completamente
in rapporto ai concetti meccanici di forza, materia e moto e delle loro relazioni
matematiche acquistò una tale presa sulle menti da divenire un luogo comune di
moda. Tale convinzione è ancora condivisa da molti che seguono,
consapevolmente o meno, il punto di vista degli immediati successori di Newton.
Essa è spesso espressa anche oggi benché sia divenuto chiaro che la natura è
molto più complessa di quanto non ritenessero gli scienziati meccanicisti del
Settecento. Essa è alla base della convinzione ottocentesca della perfettibilità
scientifica e della soluzione ultima di tutti i problemi, come la cura del cancro e la
creazione della vita con mezzi chimici.
Corollario del materialismo settecentesco fu il determinismo. Le formule
matematiche fornivano descrizioni veridiche di tanti fenomeni e si dimostrarono
tanto utili in applicazioni da rendere inevitabile la conclusione che il mondo fosse
stato progettato con precisione e che operava in accordo con queste formule. Il
corso del mondo appariva determinato interamente da leggi matematiche
armoniche, le quali prescrivevano per ogni evento un evento necessario che
doveva conseguirne. I principali esponenti di questa concezione furono i brillanti
228
matematici settecenteschi Lagrange e Laplace. Per Laplace il futuro era leggibile
altrettanto chiaramente quanto il passato.
Possiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa
del suo futuro. Un intelletto che conoscesse in ogni momento tutte le forze che animano la
natura e le posizioni reciproche degli esseri che lo compongono, se fosse abbastanza vasto da
sottoporre ad analisi i suoi dati, potrebbe condensare in una sola formula il movimento dei
massimi corpi dell’universo e quello dell’atomo più leggero: per un tale intelletto nulla
potrebbe essere incerto, e il futuro sarebbe presente dinanzi ai suoi occhi esattamente come il
passato.
L’Età della ragione è ormai conclusa. In filosofia abbiamo fatto grandi
progressi dal Settecento. Il determinismo continua però a essere il punto di vista
più diffuso. L’opinione più comune è che il mondo sia costruito in accordo con
leggi matematiche e che il suo futuro sia determinato da esse. Possiamo farci
un’idea della convinzione con cui la gente considera ancora questa dottrina
osservando il nostro stesso comportamento, che è in gran parte un riflesso del
pensiero settecentesco. Consideriamo, ad esempio, la reazione moderna a
un’eclisse. A differenza delle popolazioni primitive, non ci precipitiamo
all’aperto, non ci inginocchiamo tremando e non preghiamo gli dei perché
allontanino da noi la calamità presagita dall’evento incombente. Usciamo invece
con cronometri per verificare fino alla frazione di secondo la predizione che gli
scienziati hanno fatto dell’eclisse. Alla conclusione di tali eventi siamo ancor più
convinti della regolarità e della legalità del comportamento della natura.
Il punto di vista deterministico era così consolidato che i materialisti lo
applicavano persino alle azioni dell’uomo come parte della natura. Il
determinismo applicato all’uomo dichiara spietatamente: non esiste libero
arbitrio. La volontà umana è determinata da cause esterne, fisiche e fisiologiche.
Su quest’argomento Hobbes fu schietto ed esplicito: il libero arbitrio è una vuota
accozzaglia di parole, un’assurdità priva di significato. E Voltaire affermava nel
suo Philosophe ignorant:
Sarebbe davvero singolare che tutta la natura, tutti i pianeti, dovessero obbedire a leggi
eterne e che esistesse un piccolo animale, alto cinque piedi, che, in dispregio di queste leggi,
potesse agire a suo piacimento, unicamente in accordo al suo capriccio.
Questa conclusione era così sgradevole che persino i materialisti cercarono di
mitigarne la severità. Alcuni dissero che benché le azioni del corpo siano
determinate, i pensieri non lo sono. Questa risoluzione non era troppo confortante
perché assoggettava al determinismo i pensieri che conducono all’azione.
Secondo questa concezione, l’uomo è ancora un automa. Altri reinterpretarono il
significato della libertà in modo da conservarne una qualche parvenza. Voltaire
affermava elusivamente: “Essere liberi significa poter fare ciò che ci piace, non
poter volere ciò che ci piace.” Evidentemente, per esser liberi deve piacerci ciò
che vogliamo. Questa tesi poco felice fu sostenuta anche da Leibniz.
229
Con un atto volontario interromperemo la discussione di questo problema. Gli
argomenti più significativi pro e contro il libero arbitrio che sono stati presentati
finora dai filosofi potranno essere capiti a fondo soltanto dopo che avremo
passato in rassegna alcuni fra gli sviluppi matematici più recenti. Per il momento
possiamo ottenere qualche indicazione del successo di incursioni matematiche nel
territorio della filosofia dall’osservazione del famoso fisico ottocentesco Lord
Kelvin, secondo cui “la matematica è l’unica buona metafisica.”
230
XVII. L’influenza newtoniana: la religione
E come un giorno dal monte Sinai
Dio disse d’esser Uno,
oggi attraverso la scienza a noi
dice: Non c’è nessuno!
Muove la chimica la terra, è il cielo
meccanica celeste.
Spirito e mente nell’uomo sono
materia come il resto!
ARTHUR CLOUGH
Giordano Bruno aveva dichiarato che l’uomo non è più di una formica al
cospetto dell’infinito. A questa sfida alla dottrina cristiana secondo cui l’uomo
rappresenta il culmine della creazione e l’oggetto principale delle cure e della
sollecitudine di Dio si poteva rispondere nel Seicento soltanto in un modo: la
morte sul rogo. Il mondo della scienza venne in aiuto di Giordano Bruno con un
secolo di ritardo.
Man mano che, nel secolo seguente, venivano scoperte nuove leggi, tanto più la
natura appariva glorificata e la posizione dell’uomo più modesta. Il regno
matematico e meccanico dell’estensione e del moto si presentava come il mondo
reale mentre l’uomo come una propaggine accidentale e uno spettatore irrilevante.
Il fatto che la mente dell’uomo si fosse insinuata nel cuore dei fenomeni e avesse
escogitato le leggi matematiche che descrivevano e razionalizzavano la natura
passò sotto silenzio. L’accento fu posto di fatto sull’esistenza di leggi, mentre
l’uomo fu disprezzato perché la sua mente limitata era capace di individuarle solo
in modo graduale. In effetti la natura veniva letta lentamente, ma l’uomo veniva
considerato esterno alla natura. Era evidente che l’universo non teneva in alcuni
conto i fini, i desideri o i bisogni umani. Le buone intenzioni di Dio verso l’uomo
nei suoi progetti e nella sua organizzazione dell’universo apparivano una nozione
infondata, giustificata non più solidamente di un mito.
Come per l’uomo, così per Dio. L’èra newtoniana creò la meccanica celeste ma
distrusse il cielo, la sede di Dio e la dimora finale delle anime umane privilegiate.
L’opera di Copernico, di Keplero e di Galileo sulla teoria eliocentrica dimostrò
non soltanto che il cielo è governato da leggi matematiche più semplici di quelle
indicate dalla teoria tolemaica ma costrinse anche ad abbandonare le concezioni
ingenue sul cosmo che erano state integrate nella filosofia aristotelica e tomistica
e che erano state assunte dal cristianesimo. Più tardi Newton dimostrò che i corpi
celesti seguono le medesime leggi che osservano i corpi sulla Terra. Appariva
dunque certo che i corpi celesti fossero fatti della stessa materia che costituiva la
231
Terra. Questa scoperta abolì gran parte del mistero così come dei timori e delle
superstizioni associati ai pianeti.
Dio perse non soltanto la sua sede bensì anche la sua importanza. Per Descartes
era già chiaro che Dio, l’onnipotente, non poteva abolire l’estensione o le leggi
del moto. Newton, con Descartes, riconobbe a Dio l’atto della creazione ma ne
limitò le funzioni quotidiane. Dio impediva alle stelle di cadere l’una contro
l’altra e correggeva le irregolarità che insorgono nel moto dei pianeti e delle
comete. Huygens e Leibniz limitarono ancor più la funzione di Dio. Anch’essi gli
attribuirono l’atto iniziale della creazione; in tale circostanza egli aveva anche
stabilito l’ordine matematico dell’universo. Successivamente, tuttavia, le sue
relazioni attive col mondo cessavano. Di fatto era un insulto a Dio credere che la
sua creazione avesse bisogno di rettifiche.
In realtà Huygens e Leibniz ignoravano osservazioni astronomiche di
irregolarità che erano a quell’epoca inspiegate. Queste aberrazioni apparenti dalla
legge matematica, che Newton riteneva potessero compromettere l’equilibrio
dell’universo e richiedere l’intervento di Dio, divennero parte costitutiva
dell’ordine della natura quando Lagrange e Laplace dimostrarono che erano
semplicemente variazioni periodiche. L’universo era stabile; in esso non c’era
posto per il capriccio o per il caso. Con questo magistrale coronamento
matematico anche le misure correttive in precedenza richieste a Dio venivano rese
inutili e Dio veniva privato di un’altra funzione. Di fatto l’intervento della
Provvidenza negli affari della natura diventava impossibile mentre la preghiera
per l’intercessione a favore dell’uomo appariva futile.
Non molto tempo dopo Dio sarebbe stato reso del tutto inutile poiché Hume
attaccò la causalità e, di conseguenza, il bisogno di un creatore, o primo motore,
dell’universo. Il mondo divenne una macchina eterna, infinita, capace di muoversi
da sé, che esisteva già prima che esistesse quell’essere insignificante che era
l’uomo e che non serviva ad alcun fine evidente, tranne forse quello di deliziare i
matematici che scoprivano in modo lento ma sicuro i principi che lo
controllavano. Cosi Dio, che nel pensiero medievale non era semplicemente un
carpentiere cosmico ma il fine di ogni pensiero, attività e proposito nell’universo,
fu ridotto, nel caso migliore, solo a un mezzo in vista del conseguimento di un
fine; il fine stesso divenne l’operazione regolare, esatta di tutti i processi
dell’universo.
Non soltanto il contenuto ma anche lo spirito che impregnò le grandi opere
matematiche e scientifiche del Seicento e del Settecento minacciò il pensiero
religioso. Venendo esaltata la ragione, la fede fu screditata come una garante
assurda del vero e fu etichettata come credulità. La critica del razionalismo
disperse inoltre gran parte del mistero e del richiamo emotivo delle religioni
ortodosse, L’emozione stessa fu guardata con disapprovazione e considerata
sospetta. Il materialismo sommerse lo spiritualismo, distrusse l’anima e la sua vita
futura e svuotò l’enfasi cristiana sulla preparazione all’altra vita. Il determinismo
sfidò il libero arbitrio, giustificò i peccati dell’uomo e rimosse perciò il bisogno
232
della salvezza. Su tutti i fronti di battaglia la religione e il newtonianesimo si
affrontarono come contendenti.
Questo orientamento era contrario ai desideri e alle intenzioni dei grandi
scienziati seicenteschi, che erano uomini timorati di Dio. La loro opera scientifica
era un’espressione di sentimento religioso in quanto essi studiavano la natura per
percepire in essa le leggi e l’ordine divini. Per parafrasare James Thomson, essi
cercarono, prendendo l’avvio dalle semplici leggi del moto, di scoprire la mano
segreta della Provvidenza operante nell’universo. Ognuno dei grandi scienziati del
Seicento possedeva una combinazione di genio scientifico e matematico e di
ortodossia religiosa che oggi sono considerati incompatibili e possibili solo in un
periodo di transizione. Quando però questi uomini si resero conto della minaccia
che la loro opera poteva costituire per le convinzioni religiose, tentarono di
riconciliare le loro affermazioni intellettuali e spirituali. Robert Boyle, il padre
famoso della chimica moderna, dedicò gran parte del tempo da lui non trascorso
in laboratorio alla religione. Egli considerò anche il suo lavoro sperimentale come
un modo di servire Dio. Nel suo testamento lasciò fondi per combattere gli atei,
gli scettici e altri infedeli. Isaac Barrow, l’insegnante di Newton, si dimise per
dedicarsi a studi teologici. Lo stesso Newton si dedicò alla teologia e considerò il
consolidamento delle basi della religione più importante della sua attività
matematica e scientifica, poiché quest’ultima era limitata alla scoperta del disegno
divino nel solo mondo naturale. A tale fine contribuì con alcuni studi i quali
tentavano di dimostrare che le profezie di Daniele e la poesia dell’Apocalisse
avevano un senso e di armonizzare i dati dell’Antico Testamento con quelli della
storia. Egli giustificò spesso il lavoro scientifico duro e, a volte, arido solo perché
costituiva un sostegno per la religione fornendo prove dell’esistenza dell’ordine
divino nell’universo. La scienza era un’impresa altrettanto pia dello studio delle
Scritture.
Eloquentissima è l’esposizione newtoniana dell’argomento classico
dell’esistenza di Dio:
Lo scopo principale della filosofia naturale consiste nell’argomentare da fenomeni senza
fingere ipotesi e nel dedurre cause da effetti, fino ad arrivare alla primissima causa, la quale non
è certamente meccanica... Che cosa c’è in posti quasi vuoti di materia e a che cosa si deve il
fatto che il Sole e i pianeti gravitino gli uni verso gli altri, senza che esista materia densa fra di
loro? Da dove deriva il fatto che la natura non fa nulla invano, e da che cosa scaturiscono tutto
l’ordine e la bellezza che vediamo nel mondo? A qual fine esistono le comete e da che cosa
deriva il fatto che i pianeti si muovono tutti nella stessa direzione in orbite concentriche, mentre
le comete si muovono in tutte le direzioni in orbite molto eccentriche, e che cosa impedisce alle
stelle fisse di cadere le une sulle altre? In che modo i corpi degli animali vennero a essere
progettati con tanta arte, e a quali fini furono destinate le loro varie parti? L’occhio fu
progettato senza alcuna abilità nel campo dell’ottica e l’orecchio senza alcuna conoscenza dei
suoni? In che modo i movimenti del corpo seguono alla volontà e donde deriva l’istinto negli
animali? ... E poiché tutte queste cose sono sistemate nel modo giusto, non appare forse dai
fenomeni che esiste un essere incorporeo, vivo, intelligente, onnipresente, il quale, nello spazio
233
infinito, come nel suo sensorio, vede intimamente le cose stesse e le percepisce in modo totale;
e le comprende interamente mediante la loro presenza immediata a se stesso?
Nella seconda edizione dei Principia, Newton rispose alle sue stesse domande:
Questo sistema bellissimo del Sole, dei pianeti e delle comete potrebbe procedere solo dal
consiglio e dal dominio di un essere intelligente e potente. Quest’Essere governa tutte le cose,
non in qualità di anima del mondo bensì di Signore supremo di tutto.
L’Hymn di Joseph Addison formulò gli argomenti di Newton in termini poetici:
Lo spazioso firmamento,
l’alto, azzurro, etereo cielo
e la notte risplendente
l’alta origine proclamano.
Ogni giorno il Sol dispiega
il potere del creatore
e rivela a ogni paese
l’opra dell’Onnipotente...
Cosa importa se in silenzio
il terrestre oscuro globo
compie la sua rotazione
e se voce alcuna o suono
fra i radianti orbi non s’ode?
Della muta armonia lieti
che provien dalla ragione,
con gloriosa voce cantano
e splendor vivo: “Divina
è la man che ci ha creati.”
Newton era convinto anche del fatto che Dio fosse un abile matematico e
fisico. In una sua lettera egli dice:
La creazione di questo sistema [solare], perciò, con tutti i suoi moti, richiedeva una causa
che capisse e paragonasse insieme le quantità della materia nei vari corpi del Sole e dei pianeti,
e le potenze gravitazionali che ne risultavano; le varie distanze dei pianeti primari dal Sole, e di
quelli secondari [cioè i satelliti] da Saturno, da Giove e dalla Terra; e le velocità con cui questi
pianeti potevano rivolgersi attorno a quelle quantità di materia nei corpi centrali; e la
comparazione e l’aggiustamento di tutte queste cose insieme in una così grande varietà di corpi
presuppone che la causa non sia cieca o fortuita ma molto abile in meccanica e in geometria.
Leibniz scrisse molti articoli e libri per combattere la diffusa apostasia. La sua
Confessio Naturae contra atheistas cerca di dimostrare che l’ipotesi dell’esistenza
di Dio spiega taluni aspetti dei fenomeni naturali meglio di quanto non facciano la
descrizione scientifica in termini di materia, forza e moto, mentre i suoi Essais de
Théodicée riformulano l’argomento familiare secondo cui Dio è l’intelligenza che
ha creato questo mondo progettato con tanta cura.
La difesa della religione da parte di Boyle, di Newton, di Leibniz e di altri non
rimase senza effetto. Le persone che erano disposte favorevolmente nei confronti
della religione provarono un grande entusiasmo. Dio, il creatore, aveva costruito
234
un ciclo e una Terra più grandi di quanto l’uomo avesse mai sognato, un universo
che operava infallibilmente in accordo con leggi matematiche meravigliosamente
precise. Queste leggi rivelavano inoltre nuovi aspetti della natura divina, in
entrambi i sensi dell’espressione. Tali manifestazioni della maestà di Dio
potevano soltanto rinnovare la fede e dare un ulteriore motivo per esultare in essa.
Gli sforzi di questi uomini erano nondimeno votati all’insuccesso. Benché
matematici e scienziati affermassero e difendessero l’esistenza di Dio e
dell’anima, questi concetti venivano presentati come astrazioni intellettuali e non
come convinzioni profondamente sentite. Per accettare tali entità, la mente doveva
conoscerle in modo altrettanto chiaro e distinto di come conosceva le conclusioni
matematiche. Poiché Dio non era noto con tanta distinzione, ne seguiva la sua
inesistenza. La storia, almeno, scelse questa implicazione invece di quella che
Boyle, Newton e Leibniz avevano inteso sostenere nei loro scritti teologici.
Le loro opere non riuscirono ad arginare la marea che invase ampie parti degli
edifici religiosi esistenti. L’ingenua speranza che la filosofia meccanicistica della
natura proposta da Descartes e da Galileo e sviluppata da Boyle, Newton e
Leibniz avrebbe fornito una prova permanente dell’esistenza di un divino creatore
e avrebbe perciò sostenuto il cristianesimo, fu infranta dai loro successori,
L’opera matematica e scientifica dell’epoca fu trasformata nel fondamento di una
crociata intellettuale contro le religioni ortodosse e contribuì a sostenere tutte le
sfumature di opposizione a tali fedi. Il nome di Newton, in particolare, divenne un
simbolo dello spirito di rivolta contro la religione.
Le diserzioni dai ranghi della religione divennero sempre più diffuse. Ad
esempio, mentre tutti i grandi intelletti francesi del Seicento furono molto legati al
cattolicesimo, tutti quelli del secolo successivo gli si opposero. La posizione di
questi intellettuali passò successivamente da una difesa dell’ortodossia a una
razionalizzazione dell’ortodossia, dalla fede in un deismo cristiano, e poi in un
“deismo scientifico”, allo scetticismo e infine all’ateismo.
Per tracciare un panorama dell’influenza del newtonianesimo sulla religione
seguiremo queste correnti principali del Settecento. La fede era stata il principale
sostegno della religione ma la nuova scienza e la nuova matematica resero questo
periodo favorevole alla ragione. La religione dovette essere associata perciò in
qualche modo alla ragione. A questo fine alcuni sostennero che lo scopo della
teologia avrebbe dovuto essere quello di fondare la religione cristiana sulla
ragione invece che sulla rivelazione. Una tale base ne avrebbe garantito la verità
e, poiché ragione e natura erano in quell’età solitamente identificate, avrebbe
fornito anche una religione naturale.
Il movimento tendente a restituire al cristianesimo una base razionale è spesso
indicato come un supernaturalismo razionalistico e uno tra i suoi esponenti più
famosi fu John Locke. Nella sua Reasonableness of Christianity e nel Discourse
on Miracles egli sostenne che la religione è essenzialmente una scienza; ossia da
un insieme di assiomi ragionevoli possono esser dedotte ulteriori proposizioni le
quali sono non soltanto ragionevoli ma anche utili. Fra gli assiomi ragionevoli,
Locke ne propose tre: l’esistenza di un Dio onnipotente, un assioma ben sostenuto
235
dalla conoscenza della nostra esistenza e dalla sapienza che si manifesta in natura;
una vita virtuosa in obbedienza alla volontà di Dio; e l’esistenza di una vita futura
in cui Dio premierà il virtuoso e punirà il peccatore. Da questi assiomi segue che
l’uomo deve vivere in modo da meritare e conseguire il premio in cielo.
Poiché non tutto del cristianesimo si presta a essere razionalizzato, ci si doveva
aspettare qualche compromesso. Oltre alle verità in accordo con la ragione o
deducibili da assiomi ragionevoli, Locke ammise verità che sono al di sopra della
ragione e che sarebbero fornite dalla rivelazione. La resurrezione dei morti è una
tale verità. Dobbiamo esser certi però che una rivelazione provenga realmente da
Dio; nessuna rivelazione dev’essere perciò contraria alla nostra chiara conoscenza
intuitiva. La ragione dev’essere il giudice. La ragione è, di fatto, la rivelazione
con cui Dio ci comunica tutta la verità compresa nell`ambito delle nostre facoltà
naturali. In ogni caso la ragione è l’ultimo giudice e la guida migliore. Purtroppo
l’immoralità e l’astuzia dei preti impediscono alla ragione di farsi udire in materia
di religione.
Ma Locke si spinse ancor oltre nel suo compromesso. La religione, per la sua
stessa natura, deve implicare relazioni dell’uomo con una potenza superiore e
perciò deve contenere taluni elementi soprannaturali come i miracoli.
Evidentemente, se il soprannaturale in sé non può essere razionalizzato può
esserlo invece almeno l’ammissione di tali elementi.
È forse evidente dalla difesa dell’ortodossia a opera di Locke che due difficoltà
erano centrali, ossia la giustificazione sia della rivelazione sia dei miracoli.
Alcuni, che non erano convinti dagli argomenti di Locke, difendevano la
rivelazione sostenendo che non è in contraddizione con la ragione. Altri
adottarono la difesa negativa che la natura e, perciò, la ragione contengono
fenomeni inspiegati, i quali sarebbero perciò altrettanto sconcertanti della
rivelazione. Né l’una né l’altra, ad esempio, spiegano il diavolo. Altri ancora
sostenevano che Dio cerca di mettere a prova la nostra capacità di comprensione
mediante rivelazioni parziali e ciò spiega la loro mancanza di chiarezza.
I miracoli, che in epoche precedenti erano considerati la prova migliore
dell’esistenza di Dio, ora dovevano essere razionalizzati poiché erano in
contraddizione con l’ordine della natura. Alcuni pensatori decisero di accettare i
miracoli che fossero “nell’ambito” della ragione, o almeno non contrari ad essa.
Ad esempio, un morto poteva essere riportato in vita ma le donne non avrebbero
potuto ragionevolmente essere trasformate in pilastri di sale. Per molti i miracoli
erano in realtà eventi naturali solo apparentemente irrazionali, così come il
fenomeno della neve apparirebbe inspiegabile a un nativo dei tropici.
Come ci si potrebbe attendere, i tentativi di difendere l’ortodossia mediante il
ragionamento non soddisfecero tutti. La maggior parte delle persone illuminate
desideravano una religione, cristiana o no, completamente razionale, e poiché il
cristianesimo non poteva secondo loro esser reso del tutto tale, questi uomini
procedettero a definire e a erigere una nuova religione: il deismo.
È stato talvolta osservato che per i deisti la Ragione era Dio, i Principia di
Newton la Bibbia e Voltaire il Profeta. I deisti credevano nell’esistenza di una
236
religione naturale così come nell’esistenza delle leggi matematiche del cielo e
della Terra. Non era nondimeno necessario ricorrere alla rivelazione o alla Bibbia
al fine di cercare le dottrine di questa religione. Esse potevano essere trovate
studiando il mare, il cielo, i fiori, la Terra e gli uomini. Lo studio della creazione è
il modo migliore per studiare il Creatore. Da queste fonti naturali, invece che
dalle Scritture, verrebbero appresi direttamente taluni principi fondamentali e altri
verrebbero poi ottenuti da questi mediante una dimostrazione razionale. La
ragione umana, che affronta con successo lo studio della natura fisica, avrebbe
risolto anche questi problemi.
Per mezzo di argomentazioni troppo particolareggiate per poter essere ripetute
qui, i deisti pervennero a vari principi positivi. Dio conservava il suo posto come
progettista dell’universo. Egli era la fonte delle leggi universali scoperte da
Newton. C’era una vita futura in cui ciascuno sarebbe stato trattato secondo i suoi
meriti. La venerazione di Dio e il pentimento venivano incoraggiati perché
favorivano una vita migliore sulla Terra. Il peccato era una disobbedienza ai
comandi della ragione. Come indicano queste dottrine, i deisti credevano che
l’essenza della religione fosse la moralità.
Tali dottrine non si discostano eccessivamente dal cristianesimo. I deisti
sostenevano però anche che fra le dottrine cristiane erano valide solo quelle che
potevano essere difese dalla ragione. Ogni dottrina che fosse contaminata dalla
superstizione, dall’irrazionalità o dal mito doveva essere rifiutata. Poiché la
nascita virginale, la divinità di Cristo e il concetto del peccato originale non erano
spiegabili razionalmente, furono fra le prime dottrine a essere rifiutate. Furono
tralasciati come errori anche i miracoli, provvidenze specifiche e la rivelazione
soprannaturale. Il rifiuto di tali credenze portò naturalmente il deismo in conflitto
diretto col cristianesimo e benché i deisti accettassero un Dio, quantunque si
trattasse di un Dio che dovesse avere le carte in regola per svolgere la funzione di
signore dell’universo newtoniano, essi furono accusati di ateismo dai cristiani
ortodossi.
Voltaire, il geniale capofila dell’Illuminismo e devoto seguace della
matematica e della fisica newtoniane, fu il principale difensore del movimento
deista. Sostenuto dai suoi vivaci e numerosissimi scritti, il deismo divenne, fra la
gente colta, il più forte fra tutti i movimenti religiosi del Settecento. In America si
convertirono ad esso Thomas Jefferson e Benjamin Franklin. Tanto grande fu
l’influenza di questa religione razionale in America che nessuno fra i primi sette
presidenti degli Stati Uniti professò la religione cristiana, benché naturalmente nei
loro discorsi politici non mancassero i riferimenti al Dio cristiano. Il deismo calò
come movimento formale dopo il Settecento, ma rappresenta ancora
l’atteggiamento religioso prevalente fra la gente colta del Novecento.
Molti pensatori che desideravano fondare una religione naturale ed erano
perciò essenzialmente deisti fecero addirittura a meno di Dio. Essi sostennero che
la teologia naturale è in realtà una branca della scienza. L’esistenza di Dio come
agente essenziale alle opere dell’universo fu rifiutata come extrasperimentale.
Poiché inoltre l’universo poteva essere stato sempre com’era attualmente, non
237
c’era alcun bisogno di supporre un creatore. Dedurre l’esistenza di Dio dal
concetto di causa prima fu considerato come l’inferenza dell’azione di “un Essere
inconcepibile che compie un’operazione inconcepibile su materiali inconcepibili.”
Nessun fenomeno spiegabile richiedeva, d’altra parte, l’esistenza di Dio.
Con o senza Dio, il deismo tentò di essere completamente razionale. Di fatto,
esso provvedeva in qualche misura al desiderio dell’uomo di fede e mistero; è
stato osservato in proposito che i deisti erano razionalisti con la nostalgia della
religione. Perciò il deismo non soddisfece alcuni grandi pensatori, i quali furono
completamente scettici. Questi uomini, fra i quali erano i filosofi Hobbes, Hume,
Montaigne e Diderot, il matematico d’Alembert, che fu il principale assistente di
Diderot nella realizzazione dell’Encyclopédie, e lo storico Edward Gibbon,
preferivano vedere nella religione semplicemente un fenomeno storico che sorge
naturalmente presso ogni popolo, pur non essendo indispensabile.
Hobbes spiegò l’esistenza di religioni positive semplicemente come
superstizioni accettate. “Il timore di un potere invisibile inventato dalla mente o
immaginato dalle favole, qualora sia accettato pubblicamente, è religione; se non
è accettato, è superstizione.” Per “l’infedele Hume”, ad esempio, la religione era
semplicemente un modo di comportamento umano. A nessun elemento
soprannaturale contenuto in alcuna fede si doveva concedere il minimo credito. Il
suo disprezzo per le vaste costruzioni della teologia create gradualmente dalle
principali religioni era inequivocabile.
Se prendiamo in mano un qualsiasi volume di teologia, o di metafisica scolastica, ad
esempio, ci chiediamo: Contiene forse qualche ragionamento astratto concernente la quantità o
il numero? No. Contiene forse qualche ragionamento sperimentale concernente la realtà o
l’esistenza? No. Diamolo dunque alle fiamme, poiché non può contenere altro che sofismi e
illusioni.
Lo scetticismo è per lo più una fase intermedia e transitoria. Gli uomini lo
considerano una richiesta superiore alla loro capacità di conservare
indefinitamente un equilibrio precario. Nella Francia del Settecento lo scetticismo
non era altro che un preludio all’ateismo. All’inizio del secolo la negazione della
religione era una concezione tanto rara e audace che la questione se un
miscredente potesse morire in pace era molto discussa e l’ateo che fosse morto
con una parola di scherno faceva sensazione perché non aveva ceduto al rimorso;
più tardi però l’ateismo guadagnò molti seguaci. I materialisti francesi, i quali,
come i soprannaturalisti razionali e come i deisti, prendevano l’avvio dalla
struttura newtoniana dell’universo, negavano del tutto la religione.
Fu Laplace, il grande matematico francese, a trarre la conclusione ultima dalla
cosmologia newtoniana, facendo a meno di un creatore. Abbiamo già detto che
quando Napoleone gli chiese perché non avesse introdotto Dio nel suo libro sui
corpi celesti, la Mécanique céleste, Laplace rispose di non aver avuto bisogno di
tale “ipotesi”. Egli fu in grado di descrivere i moti dei corpi celesti ricorrendo solo
alla matematica e alle leggi di Newton. Laplace superò in tal modo Newton nel
238
fare economia di ipotesi, benché proprio Newton raccomandasse agli scienziati di
non servirsi di ipotesi non necessarie.
Può sembrare un paradosso che Newton riuscisse a “dimostrare” l’esistenza di
Dio sulla base delle sue scoperte matematiche mentre Laplace, pur confermando
in modo ancor più mirabile il disegno matematico dell’universo accessibile, non
vide alcun bisogno di Dio. Questo paradosso si spiega però facilmente con
l’osservazione di Pascal che la natura prova l’esistenza di Dio soltanto a coloro
che già credono in Lui.
L’atteggiamento di Pascal nei confronti della religione fu condiviso da molti
altri pensatori francesi di primo piano. Secondo Holbach l’idea di Dio non
corrisponde ad alcunché di reale. Originandosi dal timore e dalla sventura, essa è
creata dall’immaginazione per accattivarsi poteri fittizi. Su questa estrapolazione
dall’ignoranza si fondano insiemi di dogmi e vaste organizzazioni. La religione
distoglie la mente degli uomini dai mali inflitti loro dai governanti e serve solo a
perpetuare la loro miseria promettendo loro la felicità nell’altro mondo se
accettano di essere infelici in questo. L’ignoranza, disse Holbach, genera Dio, il
sapere lo distrugge. Dio non è altro che la natura; l’anima non è altro che corpo.
Gran parte del Système de la nature di Holbach, un’opera che ebbe vasta
diffusione e che fu chiamata la Bibbia dell’ateismo, argomenta contro l’esistenza
di Dio. In completo accordo con questa concezione, il medico Julien O. de La
Mettrie dichiarò che la religione è utile solo ai preti e ai politici. Poiché l’uomo
era in grado di capire la natura, non c’era più bisogno dei racconti primitivi,
superstiziosi, forniti dalle religioni costituite. Pur essendo disposto ad ammettere
l’esistenza di Dio, La Mettrie la considerava una pura ipotesi, di nessuna utilità
pratica. Di fatto essa era pericolosa e dannosa. Lungi dal costituire una garanzia
per la moralità, essa consentiva ai capi religiosi di fomentare guerre nel nome di
Dio. Così il materialismo culminò in Francia in una rivolta contro quella che era
considerata la tirannide spirituale di tutte le religioni.
In difesa del deismo, il pensiero religioso raggiunse un vertice troppo alto per
molta gente. Alcuni che si erano innalzati col loro intelletto fino a quelle altezze
furono presi da vertigini e si trovarono male in quell’atmosfera fredda e rarefatta.
Altri ancora, che pure avevano tentato di salire fino a quelle vette, non riuscirono
a trovare la via e preferirono essere guidati da una luce meno abbagliante. Il
bisogno di una guida fu espresso acutamente da Tennyson:
Di Dio potente figlio, Amore
imperituro, che per fede,
per sola fede, veneriamo;
la fede a credere ci aiuta
là dove mancano le prove...
Sol fede abbiamo; conoscenza
è infatti solo delle cose
che mano tocca ed occhio vede.
Eppur crediamo che da Te
provenga un raggio nella notte.
239
Fa che più grande sempre sia.
Mentre molti fra i perplessi si limitavano semplicemente a esprimere la loro
disperazione, altri agivano. I fratelli Wesley, il cardinale Newman e i capi del
Movimento di Oxford videro nel ritorno all’ortodossia religiosa l’unica salvezza
per la civiltà. Il movente delle loro azioni così come di quelle degli altri
movimenti religiosi del Settecento e dell’Ottocento può essere inteso nel modo
migliore come una reazione contro influenze scientifiche e matematiche.
Molti di noi considerano l’inclinazione settecentesca all’ateismo come un male.
Un fenomeno associato all’ateismo, ossia l’emergere della tolleranza e della
libertà di pensiero, è stato un bene di grandissima importanza. Non si può leggere
la storia del Medioevo e dell’inizio dell’Era moderna senza essere colpiti dal
potere controllato dalla religione. Nel nome di Dio taluni uomini venivano
mantenuti poveri, sporchi e ignoranti; altri venivano calpestati, torturati, bruciati
sul rogo, uccisi; l’autonomia di pensiero e di azione era scoraggiata, repressa o
soffocata.
La storia della persecuzione per motivi di divergenze religiose, che non fu
affatto limitata ai cristiani del Rinascimento, è in realtà una parte orribile e
vergognosa della storia umana. Uomini che avevano, a sostegno delle proprie
credenze religiose, soltanto la loro fede osarono uccidere i dissidenti con le torture
più ingegnose e diaboliche: lo stivaletto, la ruota, la flagellazione pubblica, il
fuoco lento, i marchi con ferro rovente e chiodi piantati nel corpo. Questi fanatici
devono aver meditato a lungo e con grande impegno per inventare mezzi di
tortura così “ingegnosi” da giustificarne l’esposizione nei musei. Fondandosi solo
su un giudizio privato, taluni uomini osarono affermare il loro accesso esclusivo
alla verità e costringere gli altri ad accettarla col ferro e col fuoco. Montaigne
descrisse la situazione con sottile ironia: “Si attribuisce evidentemente un grande
valore alle opinioni di una persona quando la si arrostisce a causa di esse.”
La tolleranza non fu un contributo diretto della matematica. Il movimento deve
la sua nascita piuttosto allo spirito razionalistico del Seicento e del Settecento. I
trionfi della ragione umana nella forma delle leggi matematiche universali
costituiscono nondimeno il nerbo del razionalismo. Inoltre la matematica, che sta
o cade col ragionamento più rigoroso di cui l’uomo sia capace, è diametralmente
opposta all’autorità, alla fede cieca, ai miracoli e all’accettazione irrazionale di
“verità.” Infine la scienza, che insegna l’osservazione della natura, la verifica
continua delle sue conclusioni e la disposizione ad accettare ogni teoria che si
adatti ai fatti, anche quando presenti un aspetto inverosimile, come le teorie
eliocentrica e relativistica, si fonda in gran parte sulla matematica. Questo
complesso dottrinale ha dato perciò un contributo vitale, anche se per taluni
aspetti indiretto, alla propagazione di uno spirito generoso.
La guerra fra il libero pensiero e la religione fu dichiarata all’epoca di
Copernico. La polvere sollevata dalla lotta non è ancor oggi totalmente ricaduta
ma siamo giunti almeno a riconoscere l’importanza della libertà di culto, di
240
parola, di stampa e d’indagine. Fortunatamente oggi ci appassioniamo per la
libertà e non per la teologia.
Un’ulteriore libertà fu conquistata attraverso i risultati matematici ottenuti
nell’èra newtoniana: la libertà dalla superstizione. Nella civiltà occidentale la
maggior parte delle persone sono convinte oggi che il corso della natura non
possa essere influenzato da demoni o spiriti misteriosi, da incantesimi o da errori
di comportamento di esseri umani. La convinzione dell’importanza dominante
della legge naturale ha praticamente abolito la convinzione che taluni atti banali
dell`uomo possano assicurare la buona sorte o prevenire calamità.
Che la religione si evolva è un fatto che non sempre viene riconosciuto. Non ci
sono nondimeno dubbi sul fatto che l’avvento del razionalismo ha avuto effetti
salutari anche sulla religione. La religione non si appropria più del campo della
scienza. L’opera di matematici e scienziati è perciò relativamente libera e le
scoperte della scienza sono riconosciute come la fonte migliore della nostra
conoscenza della natura. La teologia e la scienza sono ora considerate dai credenti
come reciprocamente compatibili e rafforzantisi a vicenda, mentre le conquiste
della scienza sono accettate come base per speculazioni teologiche razionali. Oggi
i teologi ripetono le argomentazioni proposte da Newton e da Leibniz per
dimostrare l’esistenza di Dio e i servizi resi dalla scienza in questa dimostrazione
sono liberamente riconosciuti. Le leggi matematiche della natura sono proclamare
come una prova del progetto razionale e armonico dell’universo, di cui Dio è il
creatore e il legislatore. Man mano che vengono scoperte nuove leggi, la scienza
viene salutata sempre più come rivelatrice dell’opera di Dio.
Prima del Settecento, le leggi morali avevano trovato generalmente la loro
sanzione nella religione. L’indebolimento e la negazione della religione
lasciarono queste leggi sospese in una sorta di vuoto. Inoltre, l’enfasi
materialistica sui piaceri mondani si opponeva alla sostanza dell’etica cristiana e
il determinismo inficiò le dottrine del peccato e della salvezza in quanto la
volontà veniva a essere strettamente legata al comportamento determinato della
materia. Poiché, secondo questa concezione, l’uomo non è un agente libero, non è
neppure responsabile delle sue azioni. La negazione del peccato riaprì a sua volta
il problema del perché il male esista sulla Terra (un problema non meno acuto per
i razionalisti che per i teologi). Il cristianesimo aveva spiegato il male col
racconto mitico del peccato dell’uomo e della caduta, ma questa “spiegazione”
venne meno col venir meno del peccato.
Sottoposte a un esame razionale, molte dottrine etiche apparvero infondate.
Una volta esaminata con la massima cura la natura di Dio, sorse un problema:
perché avrebbe dovuto favorire la virtù piuttosto che il vizio? Il dotto Terzo Conte
di Shaftesbury mise in ridicolo la teoria che la virtù fosse il prodotto di un patto
con potenze soprannaturali in grado di premiare il buono e punire il cattivo. Ancor
più radicale fu la convinzione di La Mettrie che il piacere sia non un peccato
bensì un’arte. Furono approvati in particolare i piaceri dei sensi.
Il codice morale potrebbe sopravvivere alla religione? Alcune risposte furono
tentate da pensatori settecenteschi. La ragione stessa fu raccomandata come guida
241
del comportamento. Locke, ad esempio, credeva che i principi della morale
fossero suscettibili di dimostrazione matematica. Bisogna seguire la ragione, il
Dio in noi, al fine di determinare il comportamento appropriato. La ragione che
abbiamo è sufficiente per guidarci purché ci diamo la pena di essere ragionevoli.
Di coloro che raccomandavano l’applicazione della ragione, alcuni aggiunsero
che l’uomo ha un senso morale che opera in armonia con la ragione. Questo senso
naturale del giusto e dell’ingiusto è indipendente dalla religione. Non è necessario
temere Dio o cercare ricompense in cielo. Di fatto una tale motivazione è non
cristiana. Il senso morale permette all’uomo di evitare il male e di scegliere il
bene, esattamente come il suo senso estetico lo predispone alla bellezza.
Altri, seguendo l’identificazione settecentesca di ragione e natura, dissero che
dovremmo studiare l’uomo allo stato di natura e imitarlo. Perciò i costumi dei
popoli primitivi, noti all’Europa attraverso le grandi esplorazioni, furono
considerati ideali. Poiché Magellano aveva scritto che i brasiliani non
conoscevano i vizi dei civilizzati e vivevano 140 anni, il modo di vita dei
brasiliani fu esaltato. Essendo i costumi dei cinesi più primitivi di quelli degli
europei, ne seguiva che i cinesi erano più morali e che la loro società era
esemplare. E quando l’esploratore Bougainville pubblicò un’esposizione
entusiastica della vita dei tahitiani, alcuni europei si convinsero che l’imitazione
di questa popolazione avrebbe restituito il Giardino dell’Eden. Perfino i
missionari gesuiti lodarono le virtù dell’uomo naturale non contaminato: il buon
selvaggio.
Molti filosofi decisero che la posizione dell’etica nei confronti della religione
doveva essere inversa rispetto a quella storica. Locke scrisse che le Scritture
confermano le leggi morali scoperte dalla ragione. Kant, fra gli altri, ritenne che la
morale costituisca la base della religione, e non viceversa. La Bibbia ha un valore
solo nella misura in cui coincide col codice morale e in cui lo integra e la
religione è utile solo in quanto addolcisce la pillola morale che l’uomo deve
ingoiare per vivere come membro non deteriore della società. Il cristianesimo
diventa, da questo punto di vista, niente di più di un “aiuto prezioso per la
polizia.” Matthew Arnold espresse un’opinione analoga definendo la religione
“una morale con un pizzico di emozione.”
Il codice dell’etica fu così compromesso dall’indebolirsi della religione da
richiedere una ricostruzione completa. La matematica fece ammenda fornendo un
piano. Era nato un nuovo Euclide, che avrebbe scritto le leggi morali per l’intera
società. Questa storia costituirà però l’argomento di un altro capitolo.
242
XVIII. L’influenza newtoniana: letteratura ed estetica
Arte che resta ignota è la natura;
intenzion non percepita è il caso;
armonia non intesa è la discordia...
ALEXANDER POPE
Durante i suoi viaggi a Laputa, Gulliver si imbatte in vari professori impegnati
in progetti per perfezionare il linguaggio del paese. Un progetto consisteva
nell’accorciare il discorso riducendo i polisillabi a monosillabi e tralasciando
verbi e participi dato che in realtà tutte le cose immaginabili non sono altro che
nomi. Un altro cercava di fare a meno di tutte le parole, costringendo la gente a
portare con sé gli oggetti e a mostrarli invece di dire le parole corrispondenti.
Benché quest’ultimo piano fosse difeso come un grande dono in quanto
contribuiva grandemente alla brevità e anche alla salute, le donne di Laputa si
opposero perché non consentiva loro di usare la lingua.
In questo passo, come in numerosi altri, Jonathan Swift usò la sua arma
migliore – la satira – per mettere in ridicolo la grandissima influenza esercitata
sulla letteratura della matematica dell’epoca. Come l’uomo di successo nella vita
economica è diventato nell’America del nostro secolo la figura più autorevole,
così i matematici, che erano in grado di rivelare e formulare l’ordine nella natura,
divennero gli arbitri del linguaggio, dello stile, dello spirito e del contenuto della
letteratura del Seicento e del Settecento. Le massime figure letterarie dell’epoca
stabilirono che le loro opere erano inferiori sotto tutti gli aspetti alle opere
matematiche e scientifiche e che la prosa e la poesia potevano essere migliorate
seguendo quegli esempi.
Gli scrittori diedero inizio alla ricostruzione standardizzando il linguaggio.
Simboli arbitrari destinati a restare fissati per sempre furono adottati per idee,
esattamente come i matematici usano la x come un simbolo arbitrario, fisso, per
indicare una quantità incognita. La standardizzazione della lingua inglese e di
altre lingue che ebbe luogo a quell’epoca potrebbe esser vista nei costanti
riferimenti alle ragazze come a ninfe, agli amanti come a cigni, nell’attribuzione
ai prati dell’aggettivo rugiadosi o roridi, alle fontane e ai fiumi dell’aggettivo
muschiosi, all’acqua dell’aggettivo limpida, mentre parole particolari venivano
associate ad nauseam.
A ulteriore imitazione della matematica, il discorso comune cominciò a usare
concetti astratti. Un cannone divenne un tubo puntato; gli uccelli divennero i
pennuti; i pesci una scagliosa progenie o una razza con pinne; l’oceano una
distesa d’acqua e il cielo una volta di lapislazzuli. I poeti, in particolare, si
concessero termini astratti come virtù, follia, gioia, prosperità, melanconia, orrore
e povertà, che personificavano e scrivevano con l’iniziale maiuscola. Sia la
243
standardizzazione sia la predilezione per le astrazioni spogliarono il linguaggio di
tutte le parole concrete, colorite, pittoresche e succulente.
Il movimento per la standardizzazione culminò in una delle pietre miliari della
lingua inglese, il Dictionary di Samuel Johnson. Johnson intraprese il compito di
dare norme a una lingua che era stata “prodotta per necessità e ampliata per
accidente.” Da spiegazione più o meno comprensiva dei significati delle parole,
Johnson trasformò il dizionario in una norma autoritaria dell’uso lecito e in un
arbitro di modi verbali. Mediante precise distinzioni esposte in modo chiaro,
spesso con l’aiuto di citazioni, egli stabilì significati esatti e l’uso appropriato di
parole. Era suo intento che questi significati e usi fossero fissati una volta per tutte
così come il vocabolo triangolo ha significato precisamente la medesima cosa per
migliaia di anni.
Questo mutamento del concetto di dizionario appare radicale nella storia dei
dizionari ma era quasi inevitabile nel Settecento. Johnson si accinse a fare per la
lingua inglese ciò che era già stato iniziato in tutti i settori di attività, ossia la
determinazione degli standard più ragionevoli, più efficaci e più permanenti. I
linguisti avevano insegnato fino allora che, nonostante le regole e le definizioni, la
lingua è necessariamente un fenomeno fluido e in evoluzione. Le parole mutano
di significato di anno in anno e da luogo a luogo, come il dizionario moderno
dimostra chiaramente includendo significati arcaici.
La standardizzazione della lingua era accompagnata da un esame critico
dell’efficacia della lingua comune. Jeremy Bentham, che era famoso per la sua
filosofia etica e politica, si occupò anche di questo problema. I nomi, egli disse,
sono meglio dei verbi. Un’idea incarnata in una parola “poggia sulla roccia"; una
materializzata in un verbo “sguscia fra le dita come un’anguilla.” La lingua ideale
dovrebbe esser simile all’algebra; le idee dovrebbero esservi rappresentate da
simboli come i numeri sono rappresentati da lettere. In tal modo parole ambigue o
inadeguate e metafore svianti sarebbero eliminate. Le idee sarebbero associate
mediante il minor numero possibile di relazioni sintattiche così come tutti i
numeri sono associati dalle poche operazioni: somma, moltiplicazione,
uguaglianza e così via. Due frasi potrebbero essere comparabili nello stesso modo
in cui lo sono due equazioni: ad esempio, quando un’equazione è ottenuta da
un’altra mediante la moltiplicazione per una costante. Il movimento per l’uso di
simboli in sostituzione di nomi e connettivi, cui aderì anche Bentham, fu messo in
relazione col piano di Leibniz per la simbolizzazione del linguaggio. Mentre
Leibniz cercava di facilitare il ragionamento, Bentham e altri si sforzarono di
raggiungere una maggiore precisione.
La riforma della lingua in sé fu però solo un’influenza matematica secondaria
sulla letteratura. Lo stile fu modificato radicalmente. Nell’età newtoniana fu
riconosciuto che le proposizioni in una discussione o dimostrazione matematica
sono concise, univoche, chiare ed esatte. Molti autori ritennero che il successo
ottenuto dalla matematica potesse essere attribuito quasi interamente a questo stile
spoglio e intatto e perciò decisero di imitarlo.
244
Nel Seicento i membri della Royal Society decisero che la riforma della prosa
inglese rientrava nelle competenze di quell’augusto consesso. Fu nominato un
comitato, comprendente Sprat, Waller, Dryden ed Evelyn, con l’incarico di
studiare la lingua. Gettando occhiate furtive all’Académìe Française, il comitato
suggerì la fondazione di un’accademia inglese per “il perfezionamento della
parola parlata e scritta.” Esso raccomando ai membri della Società di evitare
l’eloquenza e le stravaganze linguistiche nella descrizione dei propri esperimenti.
Essi dovevano rifiutare tutte “le amplificazioni, le digressioni e le ampollosità di
stile” e ricercare “un ritorno alla purezza e alla concisione primitive, quando gli
uomini comunicavano tante cose con un numero quasi uguale di parole.” Essi
dovevano usare “un modo di parlare preciso, spoglio, naturale; espressioni
positive, sensi chiari, una scioltezza nativa; portare tutte le cose il più vicino
possibile all’evidenza matematica7; e preferire il linguaggio degli artigiani, dei
contadini e dei mercanti a quello dei begli ingegni e degli studiosi.”
Uno dei grandi intellettuali di quest’epoca, Bernard Le Bovier de Fontenelle
(1657-1757), che fu anche tra i più famosi divulgatori della scienza, scrisse, in un
saggio sull’utilità della matematica e della fisica:
Lo spirito geometrico non è così legato alla geometria da non poterne essere separato e
trasportato in altri campi della conoscenza. Un’opera di etica, di politica, o di critica, e forse
anche un`opera di eloquenza, sarà più fine, a parità di tutto il resto, se sarà fatta dalla mano di
un geometra. L’ordine, la semplicità, la precisione, l’esattezza che dominano da qualche tempo
nei buoni libri, possono ben essere il frutto di quello spirito geometrico che è ora più diffuso di
quanto non sia mai stato in passato.
Gli uomini da noi citati nei capitoli precedenti come grandi matematici furono
additati nel Settecento come modelli letterari. Lo stile di Descartes fu esaltato per
la sua chiarezza, semplicità, leggibilità e perspicuità e il Cartesianesimo divenne,
oltre che una filosofia, anche uno stile. L’eleganza e la razionalità di Pascal,
specialmente nelle Lettres provinciales, furono salutate come superbi attributi di
uno stile letterario. In quasi tutti i campi si cercò di imitare, nella misura
consentita dall’argomento, le opere di Descartes, di Pascal, di Huygens, di Galileo
e di Newton.
In seguito a tali influenze, numerosi mutamenti ebbero luogo nello stile della
prosa. Le metafore furono bandite a favore di una precisa descrizione linguistica
di realtà oggettive. Locke disse, in proposito, che la metafora e il simbolismo
sono gradevoli ma non razionali. Il pedantesco stile fiorito della scuola con
complesse costruzioni di ispirazione latina fu abbandonato a favore di una prosa
semplice, più diretta. Furono banditi anche i voli impetuosi dell’immaginazione,
le espressioni vigorose, cariche di emotività, l’esuberanza poetica, l’entusiasmo e
le frasi sonore e altamente suggestive. Compito dello scrittore, scrisse Pope, è di
essere piú che spron, guida ai destrier delle Muse;
7 Il corsivo è mio.
245
controllarne il furor, non scatenarlo.
Gli scrittori dovevano comunicare fatti in uno stile che si accordasse con le alte
norme del pensiero logico. La chiarezza, la proporzione, l’istinto architettonico
per la forma, il ritmo, la struttura simmetrica e le cadenze, la rigida aderenza a
disegni d’insieme erano qualità del nuovo stile della prosa. La prosa divenne
sobria, tersa, precisa ed epigrammatica. La richiesta di una facile intelligibilità e
chiarezza esigeva che ogni frase o gruppo di parole venisse afferrato con facilità
dalla mente. Divennero perciò di moda frasi brevi; l’inversione fu disapprovata;
all’interno della frase l’ordine delle parole fu dettato dal pensiero. Le frasi
vennero organizzate anche in modo che la loro connessione illustrasse
chiaramente il processo del pensiero. Fine e legge dello stile della prosa divenne
“il rapporto facile e intelligibile fra menti.”
L’accento posto sugli elementi razionali nello stile a spese di quelli emotivi
favorì le qualità appropriate alla fine retorica, al ragionamento, alla narrativa e
scoraggiò l’espressione delle forti emozioni e passioni che ispirano la grande
poesia. L’Età della Ragione si espresse perciò nel modo più caratteristico in prosa,
nelle forme del romanzo, del diario, delle lettere, del giornale e del saggio, che
dominavano sulla lirica e sul dramma. Di fatto il romanzo sostituì abbastanza
bene la poesia come sfogo per la scrittura immaginativa mentre la poesia lirica
dell’epoca divenne prosaica, “prosa poetizzata.”
Nella prosa la satira divenne un genere preferito. L’adorazione della ragione
diede grande risalto a tutto ciò che era irrazionale e gli scrittori trovarono in ciò
un tema nuovo. Poiché nell’Ottocento natura e ragione venivano identificate, i
modi in cui l’uomo si era allontanato dallo stato di natura, ad esempio nel suo
desiderio di potere, potenza e posizione, furono facilmente individuati e attaccati.
Il più grande scrittore satirico di quell’epoca, Jonathan Swift, è molto letto ancor
oggi e ciò che scrisse è ancora acuto. Il racconto di ciò che Gulliver scoprì in
strani paesi è ogni volta una satira di qualche fase della civiltà europea del
Settecento. I minuscoli lillipuziani ci appaiono a tutta prima persone divertenti,
ignoranti e indifese, e noi siamo ben disposti a ridere di loro finché non ci
accorgiamo che l’ironia è diretta contro di noi. I tentativi di Gulliver di spiegare i
costumi e il modo di vita degli europei agli Houyhnhnm, i membri di élite di una
società di cavalli, hanno l’unico risultato di mettere in ridicolo gli europei.
Come abbiamo appena visto, l’Età della Ragione favorì la prosa nei confronti
della poesia. Lo spirito newtoniano impose inoltre una separazione netta fra prosa
e poesia, fra ciò che un individuo pensava come uomo di buon senso e di giudizio
e ciò che sentiva come poeta, fra la conoscenza della natura da un lato e i colori
della retorica, gli espedienti della fantasia e le illusioni delle favole dall’altro. La
prosa si occupa di fatti, la poesia di piaceri e fantasie. Un uomo può sentire in
termini poetici ma deve pensare in prosa. L’accento sulla facoltà del
ragionamento screditò così i concetti, le immagini e i valori poetici. Inoltre,
poiché nell’età newtoniana la verità consisteva nella conoscenza delle proprietà
matematiche chiare e distinte di oggetti e poiché tali non sono le verità della
246
poesia, queste ultime furono respinte come fittizie. Di fatto, per ottenere verità gli
uomini dovevano esorcizzare i fantasmi dell’immaginazione. La poesia poteva,
nel caso migliore, ornare e rendere gradevoli le verità astratte della matematica e
della scienza.
Le figure di primo piano deprecarono la poesia e alcuni le dichiararono
addirittura guerra. Locke scrisse che la poesia offre semplicemente immagini
gradevoli ma che queste non si conformano alla verità e alla ragione. La gente che
ha visto la luce della ragione non ha veramente bisogno di poesia; perciò nessuna
fatica o pensiero dovrebbero essere spesi per esaminare la verità contenuta in una
composizione poetica. Di fatto, il piacere della poesia sarebbe guastato
dall’applicazione della ragione ai suoi contenuti. Egli disse inoltre che se un
bambino ha inclinazioni poetiche, i genitori dovrebbero darsi da fare a reprimerle.
Newton diede la sua opinione sulla poesia citando il suo insegnante Barrow,
secondo il quale la poesia sarebbe una sorta di ingegnosa assurdità. Hume fu più
brutale. Secondo lui la poesia è l’opera di mentitori di professione i quali cercano
di divertire con finzioni. Bentham distinse la poesia dalla prosa col criterio che
nella prosa tutte le righe, tranne l’ultima, si estendono fino al margine mentre in
poesia alcune di esse sono più corte. La poesia, egli continuò, non dimostra nulla;
essa è piena di sentimento e di vaghe generalità. Le sciocche cantilene possono
soddisfare l’orecchio di un selvaggio ma non farebbero alcuna impressione su una
mente matura.
Pare che i poeti stessi, intimiditi da questa disapprovazione generale, abbiano
accondisceso ad accettare una posizione inferiore. Nell’Apology for Heroic Poetry
and Poetic License Dryden scrisse che dovremmo apprezzare le immagini della
poesia ma non lasciarci ingannare dalla finzione. Il più che Addison riuscisse a
dire in difesa della poesia fu che, se il mondo materiale fosse dotato solo di quelle
qualità che possiede di fatto, costituirebbe una figura poetica triste e
sconfortevole. Fortunatamente una Provvidenza benevola ha dato alla materia il
potere di produrre in noi un gran numero di deliziose qualità immaginarie così
che l’uomo possa essere confortato e deliziato da sensazioni gradevoli. Il dittatore
della letteratura settecentesca, Samuel Johnson, condannò la poesia con una lode
appena percettibile. La poesia, egli scrisse, è l’arte di unire il piacere con la verità,
chiamando l’immaginazione in aiuto della ragione.
Ovviamente la poesia ne risentì. Prevalse l’opinione che l’arte richiedesse
soltanto un punto d’osservazione limitato, una piccola immaginazione e poche
regole per raggiungere la perfezione. Anche i poeti accettarono la nozione che le
loro creazioni fossero non verità bensì solo finzioni gradevoli. Essi provvidero
semplicemente al piacere della gente; fornirono abbellimenti che si richiamavano
alla fantasia ma che non avevano alcun significato reale neppure per i poeti.
L’arte fu svalutata fino a diventare soltanto un passatempo minore; essa cercò
poi di giustificare la sua esistenza diventando più filosofica o più utile. Alcuni
poeti decisero di conseguenza che le funzioni della poesia dovessero essere quelle
di insegnare, di ragionare e di argomentare in rima. Pur non dovendo stimolare i
247
sentimenti, la poesia poteva purificare le passioni, moderare i timori e proporre
esempi di grandi virtù.
Non contenti di ridurre la poesia a un’attività minore, i critici del periodo si
sforzarono di raggiungere l’obiettività matematica sopprimendo tutti gli sforzi
personali o individualistici in questo campo. Essi stabilirono, innanzitutto, che un
poeta dovesse essere una sorta di matematico. Dryden dichiarò: “Un uomo
dovrebbe essere istruito in varie scienze e dovrebbe avere una mente razionale,
filosofica e, in qualche misura, matematica, per essere un poeta completo ed
eccellente...” Anche la giovane nazione americana cadde sotto le nuove influenze;
per usare le parole di Emerson:
Noi non ascoltiamo con la più grande considerazione i versi di un uomo che sia solo un
poeta né i suoi problemi se è solo un algebrista; ma se un uomo ha familiarità insieme con la
fondazione geometrica delle cose e col loro gaio splendore, la sua poesia è esatta e la sua
aritmetica musicale.
I matematici avrebbero presumibilmente apprezzato che l’arte, come la scienza,
possedesse leggi naturali che potessero essere dedotte dallo studio della natura.
Dryden scrisse, di fatto, che quelle cose che deliziano tutte le età sono
un’imitazione della natura. Anche Pope espresse la sua convinzione che
esistessero leggi naturali per la poesia. Nel suo Essay on Criticism egli scrisse:
Innanzitutto segui la natura
e alla sua norma che non muta mai
uniforme il giudizio. La natura
che mai non erra, che di viva luce
splende, chiara, immutabile e divina,
vita, forza e bellezza impartir deve,
e all'Arte essere fonte e norma e fine.
Abbastanza stranamente, “seguire la natura” non aveva precisamente lo stesso
significato che nelle scienze fisiche, quello cioè di obbedire alle leggi
matematiche della natura. Piuttosto, attraverso 1’associazione storicamente
giustificabile dei greci con la natura, seguire quest’ultima significò limitare la
forma dei classici greci. Perciò, scrisse Pope:
le norme ritrovate un dì lontano,
non create dall’uomo, son natura,
ma natura con metodo ordinata;
come la libertà, ristretta è solo
la natura alle leggi che in principio
l’ordine suo le diedero...
Quando dapprima il giovane Marone [Virgilio]
nella sua mente fervida un poema
concepì che immortal rendesse Roma,
superior della critica alla legge
poté sembrare, e sol dalla natura
248
attinger stabilì, ma quando volle
esaminare il tutto parte a parte,
che natura ed Omero eran la stessa
cosa si accorse...
Nondimeno, quando Pope tradusse l’Iliade di Omero, espresse Pope e non
Omero. Come Sir Leslie Stephen sottolinea in English Literature and Society in
the Eighteenth Century, “Quando leggiamo in un discorso di Agamennone, che
esorta i greci ad abbandonare l’assedio,
Dovere, sicurezza, amor ci impongono
di andare via. Della natura è questa
la voce, ed obbedienza a lei dobbiamo,
non c’è bisogno che ci venga detto che non stiamo ascoltando l’Agamennone di
Omero ma un Agamennone col parrucchino.” Né c'è bisogno che ci si dica che la
voce che stiamo ascoltando è quella del Settecento, intonata con le sue assunzioni
fondamentali: la validità del razionalismo e il dominio della legge naturale. Le
norme o leggi della poesia sorsero dunque da un’identificazione della natura,
degli antichi e della ragione, così che seguir 1’una cosa equivaleva a seguirle
tutte. Le regole dell’arte erano “natura con metodo ordinata.”
Pope, Addison e Johnson dettarono lo stile poetico in accordo con la filosofia
descritta sopra. Regole rigorose furono tratte dallo studio degli antichi, mentre le
traduzioni a opera di Dryden dei classici latini prescrissero le leggi della
traduzione metrica in inglese. Il verso, si pensava, potrebbe essere scritto
osservando semplicemente le norme: la lirica, l’epica, il sonetto, l’epistola, il
verso didattico, l’ode e l’epigramma possono essere costruiti osservando le leggi
che ne stabiliscono la forma; ordine, trasparenza ed equilibrio erano gli obiettivi
che si dovevano cercare di raggiungere. Era raccomandata anche l’attenzione alle
regole grammaticali e alla struttura della frase. I principi della forma nella poesia
furono paragonati ad assiomi matematici, poiché gli assiomi determinavano forma
e contenuto dei teoremi. Il distico di pentametri giambici a rima baciata acquistò
favore a causa del suo equilibrio e della sua simmetria e, per quanto eccessiva
possa sembrare quest’opinione, grazie al fatto che la sua forma era analoga a una
serie di proporzioni di uguaglianza. Tale forma di distico fu considerata l’essenza
della regolarità cadenzata. Per i critici letterari dell’epoca la bellezza consisteva in
un’aderenza a queste rigide regole di versificazione.
I poeti adottarono un codice che fu formulato come una serie di proposizioni
matematiche e seguirono meticolosamente le regole stabilite dalla critica. La
grande poesia fu ridotta a una scrittura corretta, ossia all’obbedienza al codice. La
poesia diventò temperata, ben regolata e intellettuale. I poeti adottarono la
versificazione formale e rigidamente regolata di Pope e sottolinearono gli ideali
neoclassici della chiarezza, della moderazione, dell’eleganza, della proporzione e
dell’universalità. Veniva osservata anche l’armonia del tema, della materia e della
forma.
249
Poiché oltre alla forma veniva prescritto anche lo spirito, i poeti, benché spesso
ironicamente, soppressero il sentimento. L’entusiasmo fu aborrito; l’emozione,
l’abbandono, l’estasi e la contemplazione mistica furono messi fuori legge.
L’immaginazione fu limitata severamente dalla ragione, dalla freddezza e dalla
prudenza, in accordo con l’ingiunzione di Dryden secondo cui l’immaginazione è
“una facoltà così selvaggia e sfrenata che, come uno spaniel abituato a correre
molto, deve essere legata a impedimenti, per tema che oltrepassi la giusta misura
del giudizio.” Così le grandi tragedie divennero le tragiche vittime della nuova
atmosfera letteraria del buon senso. L’unione del cuore e della testa, la sintesi di
pensiero e di sentimento, fu distrutta.
Nel Settecento fu quasi dimenticata la concezione della poesia come qualcosa
di maestoso, di spirituale e di divino. Quei pochi autori che persistettero a scrivere
composizioni poetiche appassionate dovettero contrabbandare le loro opere nel
mondo letterario o camuffandole o sostenendo di mettere in ridicolo i loro sforzi
nel momento stesso in cui li presentarono. Soltanto pochi uomini, tra cui
particolarmente Collins, Smart, Cowper e Blake, dei quali si supponeva che
avessero più che un grano di follia, osarono violare le regole e scrivere in accordo
ai dettami della propria ispirazione.
Se lo spirito della poesia del Settecento ne risultò impoverito, la sostanza
almeno ne fu arricchita. I maggiori poeti seicenteschi del periodo giovanile di
Newton scrissero poesie devote o liriche d’amore. Quasi tutti ignoravano la
matematica e la scienza. I pochi che trattarono questi argomenti parvero
inconsapevoli della grandissima importanza degli sviluppi dell’epoca. Altri
ancora misero addirittura in ridicolo la matematica. Nel 1663 Samuel Butler
scrisse in Hudibras:
In matematica più grande
fu di Ticone o di Erra Pater,
ché con geometriche misure
ei calcolare dei boccali
sapea la birra, e disvelare
di pane o burro con tangenti
e segni se mancava il peso,
e per virtù d’algebra dire
sapea del giorno a quale ora
battea i rintocchi l’orologio.
Dopo l’opera di Newton, il ridicolo si trasformò in un’ammirazione illimitata.
La poesia accolse giudizi entusiastici sulla nuova matematica e sulla nuova
scienza. Gli scrittori trovarono la ragione, l’ordine e il disegno matematico e il
vasto meccanismo dei temi naturali così interessanti da sostituire in loro
l’interesse per la nascita, l’amore e la morte di un essere così insignificante come
l’uomo. Nessuno fu così sfrenato nel suo entusiasmo per i nuovi prodigi del
mondo come Dryden.
250
Dall’armonia, dall’armonia del cielo
quest’universo ebbe principio;
da un’armonia a un’armonia,
attraverso la gamma delle note,
col diapason posto nell’uomo...
quando sospinte dalle sacre
leggi si mossero le sfere
cantando in lode del Creatore
di sopra il coro dei beati.
Sono famosi anche i versi che Alexander Pope scrisse come epitaffio per la
tomba di Newton, nell’Abbazia di Westminster:
Natura e le sue leggi eran nel buio
Dio disse: “Newton sia”, e luce fu.
È purtroppo impossibile passare qui in rassegna i contenuti della grande poesia
dell’età di Newton. Le citazioni occasionali che compaiono altrove nel libro e nei
motti dei capitoli possono forse dare qualche indicazione sui nuovi argomenti.
Ma per quanto i critici del Settecento difendessero la letteratura fredda,
meccanica e impersonale, non poterono abolire il cuore delle persone sensibili.
Nell’Ottocento si impose però la coscienza del fatto che il codice poetico era
irrimediabilmente inadeguato e che le immagini della poesia si erano estenuate.
Le regole della geometria descrittiva producono il bozzetto di un disegnatore, non
un’opera di architettura. Come si espresse Robert Burns riferendosi all’imitazione
degli antichi, il poeta non poteva “sperare di raggiungere il Parnaso a forza di
greco.”
La soppressione dello spirito era stata così drastica che i poeti dell’inizio
dell’Ottocento sentirono che ogni bellezza era stata bandita. Keats esecrò
Descartes e Newton per aver sgozzato la poesia e Blake li maledisse. A un pranzo,
nel 1817, Wordsworth, Lamb e Keats, fra altri, fecero un brindisi che suonava:
“Salute a Newton e abbasso la matematica.” Benché Blake, Coleridge,
Wordsworth, Byron, Keats e Shelley capissero quali risultati la matematica e la
scienza avessero raggiunto e li ammirassero, protestarono nondimeno contro
quanto era accaduto all’essenza della poesia. Shelley disse, a proposito dei limiti
imposti all’immaginazione, che “l’uomo, pur avendo asservito gli elementi,
rimaneva egli stesso uno schiavo.” Coleridge rifiutò l’universo meccanico come
un mondo morto. William Blake definì la ragione il diavolo, i cui sommi sacerdoti
erano Newton e Locke. “L’arte è l’albero della vita... La scienza è l’albero della
morte.” Egli considerò l’esposizione meccanica del mondo irrimediabilmente
inadeguata a rendere la natura.
Tigre, tigre, sguardo acceso
nelle selve della notte,
quale eterna mano o sguardo
251
introdur poté nel mondo
tale orribil simmetria?
Wordsworth sosteneva che la sola ragione produce mostri immorali e attaccò
gli scienziati che si profondano invece di volare e che considerano separatamente
natura e anima, perdendo in tal modo il senso della grandezza e del mistero.
Ora domina l’uomo
dove debole un tempo egli tremava;
la scienza avanza a passi da gigante,
ma in mitezza ed amor qualche guadagno
ha lo spirito nostro anche arricchito?
Reazione e rivolta, consapevoli e inconsapevoli, si mossero contro quella
macchina fisica materiale, priva di colore, che nel Settecento era chiamata natura.
Emozioni represse per un secolo infransero i ceppi e si ribellarono contro il
dominio sul pensiero e sui sentimenti esercitato dalla matematica e dalla scienza.
L’ordine perfetto dell’universo proclamato nel Settecento fu dichiarato
un’illusione, esistendo ancora misteri e contraddizioni non risolti dalla ragione. I
poeti affermarono l’importanza dei sensi, dei sentimenti e della coscienza propria
dell’uomo. La natura, essi dissero, dev’essere vissuta, non appresa attraverso
l’inadeguata spiegazione matematica data dagli scienziati. Godiamo direttamente
della natura, scrisse Wordsworth, invece di indulgere in orge razionalistiche.
Gran Dio! Se fossi stato
un pagano nutrito nell’antico
credo, deh avessi avuto almeno qualche
vago barlume per sentirmi meno
abbandonato...
La poesia fu liberata dai ceppi della tradizione meccanicistica. Le emozioni
furono richiamate in vita ed espresse; il mito e il simbolo ebbero nuova linfa.
L’immaginazione fu collocata al di sopra della ragione e da alcuni fu proclamata
addirittura la forma suprema di ragione poiché forniva verità intuitive. Si ingiunse
al poeta di essere più di un commentatore razionale. Egli fu indirizzato a
esercitare la sua genialità e ad esprimere la divinità che risiedeva nel suo petto.
Attraverso il legame fra la natura e l’anima dell’uomo, il mondo inerte poteva
essere teso vivo ed essere goduto direttamente. Paradiso,
boschetti elisi e campi fortunati:
perché solo una storia di perdute
cose, o mera invenzion di ciò che mai
non è esistito esser dovrebber? Quando
con amore e passione all’universo
il sagace intelletto sarà unito
dell’uom, gli sembreranno queste cose
un semplice prodotto quotidiano.
252
L’universo non è freddo bensì attivo e suscettibile di essere plasmato da un
potere all’interno dell’uomo. La poesia registra l’azione nobilitante e lo spirito del
poeta trasforma il mondo inanimato infondendogli la vita. Perciò, scrisse
Wordsworth,
Un amante son io dei prati e boschi
e dei monti e di quanto contempliamo
di questa verde terra; del possente
mondo dei suoni e della luce, a mezzo
da lor creato e da noi percepito;
ben disposto a veder nella natura
il linguaggio dei sensi, e dei più puri
pensieri miei l’ancora di salvezza,
la nutrice, la guida, la custode
del mio cuore e dell’anima e di tutto
l’essere mio morale...
Sapendo che giammai tradì natura
il cuor che l’ama...
La natura rimase il tema principale dei poeti ma fu una natura soffusa di
sentimento, viva e vibrante, ricca di colore, attraente per i sensi e misteriosa, e
non la natura ristretta alle catene di leggi astratte. I poeti dell’Ottocento scelsero le
esperienze concrete della natura, “sensazioni dolci, sentite nel sangue e col
cuore.” Essi gioirono dei suoni, della luce, degli odori e dello spettacolo della vita
stessa. Il sorgere e il tramonto del sole offuscarono l’analisi matematica della
luce; il fuoco vitale del Sole mise in ombra la sua attrazione gravitazionale nei
confronti di altre masse; e il vento selvaggio dell’ovest – “il soffio dell’essere
dell’autunno,” lo spirito incontrollabile spirante ovunque, e traente dal lungo
torpore l’azzurro Mediterraneo – spazzò via il moto meccanico, regolare, delle
molecole d’aria.
Benché i poeti romantici si ribellassero, non si liberarono completamente dalle
catene che costringevano il loro spirito. Di fatto, il progresso nel pensiero
matematico e scientifico compiuto durante l’Ottocento rafforzò le concezioni
dell’universo avanzate così ardentemente dai razionalisti settecenteschi e,
ovviamente, i poeti furono dolorosamente consapevoli di questo fatto. Quando i
loro slanci appassionati si furono un po’ acquietati, essi riaffrontarono
nuovamente il problema del significato dell’universo. Per tutto l’Ottocento essi
meditarono e furono divisi fra la spiegazione della natura fornita dalla matematica
e dalla scienza e quella fornita dai sensi. Matthew Arnold svelò ai suoi
contemporanei che il mondo,
...il quale sembra
stendersi innanzi a noi come un paese
di sogno, così vario, bello, nuovo,
non conosce in realtà gioia né amore,
né luce, né certezza, né sollievo
253
al dolore, né pace e noi siam come
sperduti in un profondo oscuro piano,
dai confusi clamori della lotta
percorso e della fuga, dove ignari
eserciti contendono di notte.
Il conflitto fra il cuore e la mente è ancora il tema principale della poesia.
Quanto più alte sono state le realizzazioni della ragione, tanto più è cresciuto il
turbamento dei poeti.
La letteratura non fu l’unica arte a essere fortemente influenzata dal dominio
quasi assoluto dello spirito matematico dell’età newtoniana. La pittura,
l’architettura, l’arte dei giardini e persino il disegno di mobili divennero oggetto
nel Settecento di rigide convenzioni e fissarono esplicitamente norme. I precetti
del pittore Sir Joshua Reynolds illustrano il carattere artistico dei tempi. Egli
sottolineo la fedeltà all’oggetto dipinto, la subordinazione del colore all’idea e il
sacrificio dei particolari agli elementi generali ed eterni. Fu chiesto inoltre al
pittore di rivolgersi non all’occhio bensì alla mente. In architettura e nelle arti
minori dominarono l’ordine, l’equilibrio, la simmetria e la rigorosa aderenza a
ben note forme geometriche semplici. Accademie artistiche formate sul modello
delle fortunate accademie scientifiche promulgarono i criteri dell’arte ed
esercitarono una grande influenza nello stabilire e nell’assicurare l’adesione allo
stile. Purtroppo la nostra breve rassegna delle influenze newtoniane non consente
estese disgressioni nella storia di queste arti.
Successivamente ai mutamenti nel carattere della letteratura, della pittura e
delle altre arti si ebbero mutamenti nella filosofia dell’estetica, i quali
razionalizzarono e giustificarono i nuovi atteggiamenti. La nuova tesi dell’estetica
fu che l’arte, come la scienza, era derivata dallo studio e dall’imitazione della
natura e che perciò, come la natura, era suscettibile di formulazione matematica.
Secondo Sir Joshua Reynolds,
È uno stesso gusto ad apprezzare una dimostrazione in geometria, a gioire della somiglianza
di un quadro al suo originale e a essere commosso per l’armonia di una musica. Tutti questi
fatti hanno basi inalterabili e fisse in natura.
Di più, scrisse Sir Joshua, l’essenza della bellezza è l’espressione di leggi
universali.
Come l’osservazione aveva prodotto le leggi di Keplero, così lo studio della
natura avrebbe rivelato le leggi dell’arte. Alcuni ritenevano invece che la ragione
da sola, indipendentemente dall’osservazione, potesse dedurre col metodo
geometrico a priori le leggi matematiche dell’estetica, poiché la bellezza, come la
verità, è appresa dalla facoltà razionale.
Così gli uomini studiarono la natura o applicarono le loro facoltà razionali a
ridurre l’arte a un sistema di regole e la bellezza a una serie di formule
caratterizzanti. Furono formulati precetti per raggiungere la bellezza e furono
compiute analisi della natura del sublime. Ci si attendeva che la ricerca della
254
bellezza in natura producesse non soltanto un ideale astratto di bellezza ma anche
i suoi caratteri principali. Disponendo di queste conoscenze, avrebbero potuto
essere create belle opere quasi a volontà, attraverso l’osservanza delle regole
d’arte così scoperte. Purtroppo la grande arte non viene ancora creata su una base
di produzione di massa; ciò si deve forse al fatto che nessun moderno capitalista
industriale ha messo a frutto le scoperte del Settecento.
I capitoli sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo hanno dato qualche
indicazione, almeno lo speriamo, sulla rivoluzione causata nella cultura dalla
matematica newtoniana.8 Alla morte di Newton i mutamenti erano già enormi e
l’influenza della scienza newtoniana sulla cultura artistica cominciava appena a
farsi sentire. Le implicazioni e le amplificazioni della matematica newtoniana
stanno ancora plasmando il nostro pensiero così come il nostro modo di vivere. Di
fatto, la settecentesca Età della Ragione contrassegnò semplicemente l’inizio di
una cultura essenzialmente moderna di contro a una precedente cultura
ecclesiastica e feudale.
In generale, la grande realizzazione di Newton e dei suoi contemporanei
consisté nell’avere iniziato una grande ricerca intellettuale sulla natura del mondo,
dell’uomo, della società e di quasi ogni istituzione e usanza dell`uomo. Quest’età
trasmise alle generazioni successive l’ideale di leggi universali, onnicomprensive.
Essa avviò inoltre la nostra civiltà a una ricerca dell’onniscienza, stimolò il
desiderio di organizzare il pensiero in sistemi costruiti sul modello matematico e
instillò una fede nel potere della matematica e della scienza. Il massimo
significato storico delle creazioni matematiche del Seicento e del Settecento è che
esse alimentarono lo spirito razionalistico che aveva soffuso quasi tutti i settori
della nostra cultura.
Sulla base dei successi sensazionali conseguiti dalla matematica e dalla scienza
newtoniane nei campi dell’astronomia e della meccanica gli intellettuali del
periodo illuministico espressero la convinzione che tutti i problemi dell’uomo
sarebbero stati ben presto risolti. Se questi uomini avessero avuto sentore delle
ulteriori meraviglie che la scienza e la matematica avrebbero rivelato ben presto,
sarebbero stati ancora meno riservati, se possibile, nelle loro attese. Oggi è
evidente che l’ottimismo nutrito da questi pensatori era ingiustificato. La loro
convinzione era nondimeno profetica, almeno nella misura di una semiverità,
poiché la matematica e la scienza avrebbero, se non risolto tutti i loro problemi,
almeno rifatto il mondo. Anche in quei campi in cui erano stati compiuti ben
pochi progressi verso la soluzione di problemi fondamentali, gli ideali dell’Età
della Ragione fornirono ancora i fini e la forza per conseguirli.
8 Si veda anche il capitolo ventunesimo, La scienza della natura umana.
255
XIX. Il seno del sol maggiore
La musica è il piacere che l’anima umana trae dal
contare senza avere coscienza di stare contando.
GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ
Può darsi, per improvvisare sulla storia, che Pitagora abbia trascorso varie ore,
seduto all’ombra degli olivi natii, a pizzicare le corde di una lira. In un qualche
modo del genere egli scopri che l’altezza dei suoni emessi da una corda pizzicata
dipende dalla sua lunghezza e che suoni armonici sono emessi da corde le cui
lunghezze stanno fra loro come numeri interi semplici. Dal tempo di Pitagora lo
studio della musica fu considerato di natura matematica e alla matematica fu
associato. Quest’associazione fu sancita formalmente nel curriculum del sistema
d’istruzione medievale, in cui aritmetica, geometria, sfera (astronomia) e musica
componevano il famoso quadrivio. I quattro argomenti erano inoltre legati
assieme in una descrizione che li presentava rispettivamente come numero puro,
stazionario, mobile e applicato.
Durante i molti anni trascorsi dall’età di Pitagora all’Ottocento, matematici e
musicisti, greci, romani, arabi ed europei, cercarono di comprendere la natura dei
suoni musicali e di estendere la relazione fra matematica e musica. Sistemi di
scale e teorie dell’armonia e del contrappunto furono sezionati e ricostruiti. Il
culmine di questa lunga serie di investigazioni, da un punto di vista matematico,
fu segnato dall’opera del matematico J.-B.-J. Fourier, il quale dimostrò che tutti i
suoni, vocali e strumentali, semplici e complessi, sono descrivibili completamente
in termini matematici. A causa dell’opera di Fourier neppure la bellezza elusiva di
una frase musicale si sottrae alla sottomissione a una formulazione matematica.
Mentre Pitagora si accontentò di pizzicare le corde di una lira, Fourier suonò
l’intera orchestra.
Benché Joseph Fourier, nato in Francia, ad Auxerre, nel 1768, fosse un ottimo
studente di matematica, desiderava con tutte le proprie forze diventare ufficiale di
artiglieria. Quando gli fu negato un brevetto da ufficiale perché era figlio di un
sarto, tornò a studiare a malincuore per farsi prete. Abbandonò questa via quando
la sua abilità matematica gli valse una cattedra proprio nella scuola militare che
aveva frequentato; per una posizione così modesta come quella di insegnante di
matematica non era infatti necessaria un’elevata condizione sociale.
Nel 1807, dopo anni di servizio politico e scientifico a Napoleone, presentò
all’Académie française un teorema di importanza senza precedenti per il
progresso delle scienze fisiche. Questo teorema fece progredire il dominio
256
matematico dei moti delle onde d’aria quanto Newton aveva portato avanti lo
studio dei moti dei corpi celesti. L’Ottocento era chiaramente avviato a realizzare
le grandiose speranze suscitate dal Settecento.
Fig. 53. Moto di molecole d’aria causata da un diapason in vibrazione.
Vedremo ora come l’opera di Fourier rese possibile una profonda analisi
matematica dei suoni musicali. Supponiamo che un violinista sia sulla scena di un
grande teatro e che tenti con l’archetto le corde del suo strumento. Alcune delle
note emesse durano solo una frazione di secondo; altre sono prolungate; alcune
sono forti, altre in sordina; alcune sono alte, altre basse. Persone sedute a una
trentina di metri di distanza odono tutti questi suoni esattamente come sono
emessi. Che cosa accade fisicamente quando il violinista suona e in che modo la
sua musica raggiunge il pubblico?
Per facilitare la spiegazione consideriamo dapprima il semplice suono emesso
da un diapason. Se un rebbio di un diapason viene colpito, il diapason oscillerà
rapidissimamente. Quando il rebbio si muove verso destra per la prima volta
comprime insieme le molecole d’aria contigue (fig. 53). Questa compressione è
chiamata condensazione. Poiché la pressione dell’aria tende a diventare uniforme,
le particelle d’aria condensate continuano a muoversi verso destra, dove c’è una
densità minore. Qui il processo continua e la condensazione seguita a spostarsi
verso destra.
Nel frattempo, però, il rebbio si è mosso verso sinistra andando oltre la sua
posizione originaria. Rimane pertanto relativamente vuota una regione nella
posizione precedentemente occupata dal rebbio. Le molecole d’aria situate a
destra di questa regione si precipitano in questo spazio meno popolato, creando
un’altra regione rarefatta in corrispondenza della regione occupata in precedenza.
Le molecole che si trovavano a destra si spostano ora a sinistra in questa regione
rarefatta, e così via. Se chiamiamo rarefazione la creazione di una regione
rarefatta, possiamo dire che ciò che sta ora accadendo è che una rarefazione sta
muovendo verso destra a partire dal rebbio. Ogni movimento del rebbio verso
destra e verso sinistra manda verso destra una condensazione e una rarefazione.
Abbiamo considerato i moti che hanno luogo a destra del rebbio. Di fatto,
condensazioni e rarefazioni si muovono in tutte le direzioni. Quando queste
condensazioni e rarefazioni raggiungono il nostro timpano, le vibrazioni che vi
257
inducono vi causano la sensazione di suono. È importante osservare che le
molecole d’aria non si muovono dal diapason all’orecchio. Ciascuna molecola si
muove avanti e indietro in una regione limitata attorno alla posizione da essa
occupata prima che venisse disturbata. Ciò che viene trasmesso è la successione
di condensazioni e rarefazioni, e queste costituiscono l’onda sonora.
A rigore, non tutte le molecole d’aria in una regione particolare si muovono
esattamente nello stesso modo; quel che ci interessa è però l’effetto netto dei loro
movimenti collettivi. Questo può essere descritto nei termini del moto di una
molecola tipica. Supponiamo che questa molecola si trovi originariamente in O
(fig. 54). Una condensazione ne determina lo spostamento a destra, in A. La
successiva rarefazione la fa muovere indietro, oltre la posizione originaria, fino in
B; la condensazione successiva la fa ora muovere verso O. La molecola ha
compiuto ora una vibrazione completa. Senza però fermarsi in O, la molecola,
sotto gli impulsi successivi provenienti dal diapason in vibrazione, prosegue a
muoversi avanti e indietro da B ad A e da A a B. Lo spostamento della molecola
dalla sua posizione originaria varia continuamente nel tempo durante il quale si
muove.
Fig. 54. Moto di una molecola d’aria tipica.
Il movimento della molecola d’aria tipica è illustrato chiaramente da uno
strumento delicatissimo chiamato fonodeik. Quando un suono viene prodotto in
prossimità di questo strumento, esso registra le vibrazioni dell’aria nella forma di
un diagramma che riproduce lo spostamento della molecola d’aria tipica. La
molecola si muove avanti e indietro lungo una linea retta. Il diagramma illustra lo
spostamento dalla posizione di quiete originaria sotto forma di distanza verticale,
mentre l’asse orizzontale sul diagramma rappresenta il tempo trascorso dall’inizio
del moto. La parte della curva da O a Q (fig. 55) rappresenta il moto della
molecola tipica durante una vibrazione completa del diapason; quella da Q a R il
moto durante un’altra vibrazione completa e così via. Se il diapason è percosso in
modo da far sì che la molecola d’aria tipica si muova per un massimo di 0,0025
centimetri prima da un lato della sua posizione originaria e poi dall’altro, il
fonodeik registra un diagramma con un’ampiezza, ossia con uno spostamento
massimo, di 0,0025 centimetri. Se il diapason compie 200 vibrazioni complete in
un secondo, lo stesso farà la molecola d’aria tipica; e il fonodeik registrerà in un
secondo 200 parti complete come quella da O a Q.
Abbiamo quindi un’immagine fisica di come il suono di un diapason si
propaghi nello spazio. È possibile rappresentare questo suono con una formula, e
in tal caso che cosa guadagniamo da una tale rappresentazione?
258
Fig. 55. Diagramma della spostamento in funzione del tempo di una molecola
d’aria tipica.
Il suono di un diapason è semplice se paragonato con suoni vocali e
strumentali, ma per il momento consideriamo il compito di rappresentare
matematicamente questo suono semplice. Ciò che cerchiamo e quindi una formula
che metta in relazione lo spostamento e il tempo impiegato da una molecola
tipica, nello stesso modo in cui esiste, come abbiamo visto, una formula che mette
in relazione la distanza percorsa da un corpo in caduta libera e il tempo impiegato
a percorrere tale distanza.
Fig. 56. Diagramma di y = sen x.
Il matematico ha la formula pronta. Egli ha nella sua scorta di relazioni fra
variabili la formula y = sen x, la quale possiede proprietà con le quali possiamo
familiarizzarci nel modo migliore osservandone la relativa rappresentazione
grafica. Come illustra la figura 56, i valori y di questa funzione aumentano da 0 a
1 quando x aumenta da 0 a 90; quando x, continuando a crescere, va oltre questo
valore, i valori di y diminuiscono fino a 0, diventando quindi negativi fino a
raggiungere il valore -1, e poi aumentano per assumere il valore 0 quando x
raggiunge il valore di 360. Nell’intervallo compreso fra x = 360 e x = 720, i valori
della y ripetono il loro comportamento da x = 0 a x = 360. In ciascun intervallo
successivo di 360 unità di valori della x, i valori della y ripetono di nuovo il
comportamento presentato nel primo intervallo di 360 unità della x. In altri
termini, la funzione è regolare o periodica, ovvero, come possiamo anche dire, il
ciclo di valori della y si ripete dopo ogni intervallo di 360 unità di valori della x.
Nel corso di questi secoli tale relazione fu ampliata in modo da assegnare a
qualsiasi valore della x, non importa quanto grande, un valore della y, come
illustra la figura 56. La formula y = sen x è quindi un nemico vecchio con un volto
nuovo che è tornato a tormentarci. A causa della sua origine dalle relazioni
259
introdotte per la misurazione dei triangoli, y = sen x è chiamata una funzione
trigonometrica.
Il lettore avrà probabilmente notato l’uso del vocabolo “seno” e lo avrà messo
in connessione con la matematica del periodo alessandrino. I valori della y della
funzione y = sen x, con x che varia da 0 a 90, sono precisamente i valori del
rapporto trigonometrico sen x, al variare di x da 0° a 90°. Nel corso dei secoli
passati da Ipparco all’epoca del matematico svizzero Eulero, i rapporti
trigonometrici, che in origine erano definiti per angoli in triangoli rettangoli,
furono separati dagli angoli e vennero a essere considerati esclusivamente come
relazioni fra variabili. Così y = sen x divenne una relazione fra due variabili y e x.
Fig. 57. Diagrammi di y = sen X e di y = 3 sen x.
Questa funzione non rappresenta interamente il suono di un diapason bensì una
modificazione semplicissima di esso. Un piccolo sforzo produrrà la modificazione
appropriata. Consideriamo y = 3 sen x. Questa formula differisce da y = sen x per
il fatto che per un medesimo valore della x il valore della y è nella prima
equazione tre volte maggiore che nella seconda. La figura 57 illustra il
comportamento di y = 3 sen x e lo mette a confronto con y = sen x. Possiamo
descrivere la curva di y = 3 sen x dicendo che essa ha una forma simile a quella
della curva comune del seno; la sua ampiezza, ovvero il suo valore massimo di y,
è però 3 unità, mentre l’ampiezza di y = sen x è 1. Similmente, il diagramma di y
= a sen x, dove a è un numero positivo scelto a piacere, ha la forma generale della
curva del seno ma con un’ampiezza di a unità.
Un’altra variazione semplice della funzione del seno è illustrata da y = sen 2x.
Potremmo supporre che questa funzione sia la stessa di y = 2 sen x e perciò che
essa sia un altro esempio del tipo appena analizzato. Vedremo però subito che non
è così. L’effetto del 2 nella formula y = sen 2x è immediatamente apprezzabile in
un diagramma. La figura 58 fa vedere come sen 2x assuma nell’intervallo da 0 a
180 l’intero ciclo di valori della y che sen x assume nell’intervallo da 0 a 360.
260
All’epoca in cui x raggiunge il 360, y = sen 2x passa per due cicli completi di
valori della y mentre y = sen x passa attraverso un ciclo solo. Si dice perciò che la
frequenza della prima funzione in 360 unità x sia 2. L’ampiezza di y = sen 2x è 1,
poiché il massimo valore numerico del seno di ogni quantità è 1.
Fig. 58. Diagramma di y = sen 2x.
Possiamo generalizzare il risultato visto sopra al caso della funzione y = sen bx,
dove b è un numero positivo scelto a piacere. La frequenza di y = sen 2x è 2.
Similmente, la frequenza di y = sen bx nell’intervallo di 360 unità della x è b: ciò
significa che nel passaggio della x da 0 a 360 i valori della y ripetono l’intero ciclo
di variazioni b volte. Come nel caso di y = sen 2x, l’ampiezza di y = sen bx è 1.
Fig. 59. Diagrammi di y = sen x e di y = 3 sen 2x.
Una variazione della funzione del seno che differisce sia in ampiezza sia in
frequenza dal comportamento di y = sen x è esemplificata da y = 3 sen 2x. In
questa funzione i valori della y sono tre volte maggiori dei valori ottenuti da y =
sen 2x per gli stessi valori di x. Perciò l’ampiezza di 3 sen 2x è 3 e la sua
frequenza in 360 unità di valori della x è 2 (fig. 59).
261
I risultati che abbiamo ottenuto finora possono essere compendiati
dall’affermazione che la funzione y = a sen bx, dove a e sono numeri positivi
scelti a piacere, ha l’ampiezza a e la frequenza b in 360 unità di valori della x.
Siamo ora preparati a rappresentarci matematicamente il suono del diapason.
Un confronto dei diagrammi che abbiamo esaminato finora col diagramma reale
del diapason suggerisce nozioni che il ragionamento teorico può confermare. La
funzione che mette in relazione lo spostamento e il tempo della tipica molecola
vibrante dell’aria ha la forma y = a sen bx. Per riprodurre il comportamento del
diapason dobbiamo semplicemente determinare i valori appropriati di a e di b.
Se l’ampiezza del moto di una molecola d’aria tipica, quando su di essa agisce
il diapason, è di 0,0025, allora questo numero dovrebbe essere il valore di a nella
formula y = a sen bx; e se il diapason, e perciò la molecola d’aria tipica, compie
200 vibrazioni al secondo, il diagramma del moto di questa molecola ha una
frequenza di 200 al secondo. Ma la frequenza di y = a sen bx è b in 360 unità,
ovvero b/360 in un’unità.9 Perciò b/360 dovrebbe essere uguale a 200. Si ha allora
b = 360 200 = 72 000. La formula che descrive il suono del diapason è pertanto
y = 0,0025 sen 72 000t,
dove abbiamo scritto t invece di x per tenere a mente che questa variabile
rappresenta valori del tempo.
Ovviamente pochissimi suoni musicali sono altrettanto semplici di quelli
emessi dal diapason. I suoni di un flauto si approssimano a quelli semplici di un
diapason, ma il flauto è l’eccezione, non la regola. Che cosa ha da dire la
matematica a proposito di suoni più complessi? In che modo rende ragione del
carattere dolce di alcuni suoni e di quello discordante di altri? Perché una
medesima nota emessa da un violino e da un pianoforte suona diversa
all’orecchio?
Una parte della risposta a queste domande risulta dall’osservazione dei
diagrammi dei vari suoni. I diagrammi di tutti i suoni musicali – tra questi sono
compresi anche i suoni comuni della voce umana – presentano una certa
regolarità. In altri termini, ogni curva dello spostamento in relazione al tempo si
ripete esattamente molte volte ogni secondo. Questa periodicità è esemplificata
dai diagrammi del suono del violino e di quello del clarinetto, oltre che dal
diagramma del suono della vocale a nella parola father (padre) (fig. 60).
I suoni che posseggono questa regolarità grafica sono complessivamente
gradevoli all’orecchio e sono distinguibili, ad esempio, dal rumore di una scatola
di latta fatta rotolare sulla strada: quest’ultimo rumore ha un diagramma
estremamente irregolare. Tutti i suoni che posseggono una regolarità grafica o
9 La frequenza di suoni reali si riferisce al numero di vibrazioni in una unità di tempo, di solito un
secondo. La frequenza in 360 unità è chiamata la frequenza circolare.
262
periodicità sono chiamati tecnicamente suoni musicali comunque vengano
prodotti.
Fig. 60. La periodicità di suoni vocali e strumentali (per gentile concessione di
Dayton C. Miller).
In termini “grafici” possediamo dunque il carattere distintivo fra suoni
gradevoli e sgradevoli, fra suoni musicali in senso ampio e rumori. Purtroppo
questo carattere della regolarità è posseduto da un numero così sterminato di
263
suoni musicali da rendere necessaria un’ulteriore analisi e caratterizzazione:
eppure questo compito è parso impossibile fino all’Ottocento. Poi entrò in scena
Fourier e disperse la confusione.
Formulato come un teorema di matematica pura, il contributo di Fourier
sembra abbastanza scialbo. Il teorema dice semplicemente che la formula che
rappresenta un suono periodico è una somma di semplici termini di seni della
forma a sen bx. Le frequenze di questi termini di seni sono inoltre tutti multipli
integrali di quello più basso, ossia il doppio, il triplo e così via.
Per illustrare il significato del teorema di Fourier, analizziamo uno dei suoni
offertici da un violinista compiacente, ad esempio quello rappresentato
graficamente nella figura 60 in alto. La formula che rappresenta tale diagramma è
essenzialmente10
y = 0,15 sen 180 000t + 0,05 sen 360 000 t + 0,025 sen 540 000 t.
Osserviamo innanzitutto che, in accordo col teorema di Fourier, la formula è
una somma di semplici termini di seni. In secondo luogo, la frequenza del primo
termine è 180000 in 360 unità di t, ossia in 360 secondi, che corrisponde a una
frequenza di 180 000/360 ovvero 500 al secondo. Analogamente, la frequenza del
termine successivo è di 1000 e quella del terzo termine è di 1500. Le frequenze
del secondo e del terzo termine sono perciò multipli interi della frequenza più
bassa. Il grafico di ciascuno di questi termini di seni semplici è illustrato nella
figura 61.
Or dunque, qual è il significato fisico del teorema di Fourier? In linguaggio
matematico, il teorema ci dice che la formula per ogni suono musicale è una
somma di termini della forma a sen bx. Poiché ciascuno di tali termini rappresenta
un suono semplice, diciamo il suono di un diapason con la opportuna frequenza e
ampiezza, il teorema dice che ciascun tuono musicale, per quanto complesso, è
semplicemente ana combinazione di suoni semplici come quelli emessi da un
diapason.
La deduzione matematica che ogni suono musicale complesso può essere
realmente costruito da suoni semplici è verificabile fisicamente. Gli esperimenti
dimostrano che una corda vibrante, come nel pianoforte e nel violino, si comporta
come se emettesse vari suoni semplici simultaneamente. Ciascun suono semplice
può essere di fatto rivelato da appositi strumenti.
Una prova ancor più notevole della natura composta dei suoni musicali è
fornita dal fatto che ogni suono musicale può essere duplicato con l’opportuna
combinazione di suoni semplici di diapason. Ad esempio, un suono il cui timbro è
praticamente indistinguibile dalla qualità del suono di violino esaminato in
precedenza, può essere prodotto suonando simultaneamente, con intensità
appropriata, tre diapason con frequenza di 500, 1000 e 1500 vibrazioni al
secondo. Questi tre diapason, che suonano simultaneamente, impongono le loro
proprie vibrazioni a una molecola d’aria tipica, in modo che il loro effetto sulle
10 Per semplicità abbiamo trascurato l’elemento relativamente poco importante della fase.
264
molecole d’aria è registrato dal fonodeik come un unico diagramma. Se ciascun
rebbio è messo in movimento nell’istante appropriato, il fonodeik registrerà la
stessa curva che registra per il suono complesso del violino. È perciò teoricamente
possibile eseguire l’intera Nona Sinfonia di Beethoven (compreso l’Inno alla
gioia) con diapason. È questa una delle implicazioni più sensazionali del teorema
di Fourier.
Fig. 61. Diagrammi dei termini di seno componenti nel suono di un violino.
Ogni suono complesso può esser quindi composto con un’opportuna
combinazione di suoni semplici. I suoni semplici sono chiamati i componenti
parziali o gli armonici del suono. Fra i componenti parziali, quello che ha la
frequenza più bassa è chiamato il primo componente o tono fondamentale. Il tono
immediatamente successivo è detto secondo componente e la sua frequenza è,
secondo il teorema di Fourier, doppia di quella del tono fondamentale; il tono che
presenta la frequenza immediatamente più alta è detto terzo componente e ha una
frequenza tripla della prima, e così via.
Questa scomposizione di suoni complessi in suoni parziali o armonici ci aiuta a
descrivere matematicamente la caratteristica principale di tutti i suoni musicali.
Ciascuno di tali suoni, semplice o complesso che sia, ha tre proprietà che servono
a distinguerlo da altri suoni musicali, ossia l’altezza, l’intensità e il timbro.
Quando diciamo, di un suono, che è alto o basso ci riferiamo al suo timbro. Ad
265
esempio le note di un pianoforte, andando dalla parte sinistra della tastiera verso
destra, salgono dai toni bassi a quelli alti. La seconda proprietà del suono,
l’intensità, è comprensibile immediatamente. Alcuni suoni sono così deboli da
riuscire impercettibili; altri ci spaventano per la loro intensità. Il timbro è infine
ciò che distingue un suono da altri suoni aventi la medesima intensità e altezza.
Quando un violinista e un flautista producono suoni della medesima altezza e
intensità, riconosciamo una differenza di timbro grazie alle differenze esistenti fra
i due strumenti.
Ciascuno di questi caratteri – intensità, altezza e timbro – può essere “spiegato”
matematicamente. Il più intenso fra due suoni ha una curva che presenta una
maggiore ampiezza. Poiché l’ampiezza di una curva è lo spostamento massimo
delle molecole d’aria che trasportano il suono, ne segue che l’intensità di un
suono dipende dal massimo spostamento subito dalle molecole d’aria vibranti;
quanto maggiore è questo spostamento, tanto più intenso è il suono. Questa
conclusione è facilmente accettabile poiché sappiamo per esperienza che per
ottenere da una chitarra un suono molto intenso dobbiamo far vibrare le corde con
più forza che per ottenerne un suono debole.
I suoni che hanno la stessa altezza producono diagrammi aventi la stessa
frequenza, mentre i diagrammi di suoni più alti hanno frequenze maggiori di
quelli di suoni più bassi. Così il diagramma del do di mezzo sul pianoforte ha una
frequenza di 261,6 al secondo e lo stesso suono un’ottava più in alto ha una
frequenza di 523,2 al secondo.
L’altezza di un suono complesso, ovvero la frequenza del suo diagramma, è
sempre quella del tono fondamentale. Consideriamo ad esempio la formula per il
suono del violino. Gli armonici hanno qui rispettivamente le frequenze di 500,
1000 e 1500. Ciò significa che il diagramma del secondo suono parziale compirà
due cicli completi mentre il diagramma del tono fondamentale avrà percorso il
suo primo ciclo. Similmente, il diagramma del terzo suono parziale compirà tre
cicli completi mentre il tono fondamentale compie il suo primo ciclo.
Fig. 62. Note diverse suonate dal flauto (per gentile concessione di Dayton C.
Miller).
Il diagramma composto ripeterà però il suo comportamento quando e solo
quando lo ripeterà il diagramma del tono fondamentale, ossia dopo 1/500 di
266
secondo. Ciò significa che le molecole d’aria cominceranno a ripetere il loro
comportamento dopo 1/500 di secondo. Poiché è questa frequenza a determinare
l’altezza di un suono, ci rendiamo conto del perché l’altezza del suono complesso
sia determinata dal tono fondamentale.
Il timbro di un suono musicale incide sulla figura o forma del diagramma. Se
un suono di una medesima altezza e intensità è prodotto successivamente da un
diapason, da un violino e da un clarinetto, i diagrammi corrispondenti ai diversi
strumenti hanno lo stesso periodo e la stessa altezza ma differiscono per la figura
(cfr. fig. 60), mentre i diagrammi di note diverse suonate dal medesimo strumento
presentano sempre la medesima figura generale (fig. 62). Ciò significa che
ciascuno strumento ha il suo timbro caratteristico.
La figura del diagramma dipende, a sua volta, in parte da quali armonici siano
presenti nel suono e in parte dall’intensità relativa di questi armonici. Il secondo
suono componente, la cui frequenza è doppia di quella del tono fondamentale, può
essere così debole da non avere quasi alcun effetto sul suono. Matematicamente
parlando, il diagramma del secondo suono componente può avere un’ampiezza
così piccola da non modificare quasi la figura del diagramma dell’intero suono.
Ad esempio, nelle note più alte di un flauto, tutti i suoni componenti eccettuato il
primo sono così deboli che i suoni composti sono praticamente semplici. Da
questo punto di vista i toni del flauto sono simili a quelli di una voce di soprano di
altezza simile. Il flauto è perciò usato spesso per accompagnare un soprano in arie
d’opera e la combinazione produce un effetto assai gradevole. Nella voce di un
baritono, gli armonici sono generalmente fortissimi nell’ordine sei, sette, cinque,
tre, otto ecc. Un tale suono è illustrato nella figura 60, dove la lettera a è stata
emessa da un baritono all’altezza di 159 cicli al secondo. In alcuni toni dell’oboe
(fig. 63), i suoni parziali quarto, quinto e sesto sono più intensi dei primi tre. Nel
suono di un clarinetto illustrato nella figura 60, i suoni parziali ottavo, nono e
decimo predominano; successivamente vengono il settimo, il primo e il terzo.
Fig. 63. Suono di un oboe (per gentile concessione di Daylon C. Miller).
Dovrebbe essere ora evidente che non soltanto la natura generale dei suoni
musicali bensì anche la loro struttura e le loro proprietà generali possono essere
267
caratterizzate matematicamente. Con un tratto della penna di Fourier una varietà
sterminata di suoni – la voce umana, i toni di un violino e il lamento di un gatto –
è ridotta a combinazioni elementari di suoni semplici e ciascuno di questi, a sua
volta, non è più complesso matematicamente di una funzione trigonometrica
semplice. Quelle formule matematiche tediose, astratte, che hanno tormentato
senza fine gli studenti delle scuole medie e dell’università, hanno in realtà con noi
un legame molto stretto, Noi diamo loro voce ogni volta che apriamo bocca e le
udiamo ogni volta che tendiamo l’orecchio.
Grazie a Fourier ci è ora chiara la natura di singoli suoni musicali. Ma che cosa
ha da dire la matematica su combinazioni armoniche di suoni, sull’essenza delle
belle composizioni musicali, sull’“anima” della musica? La risposta a questa
domanda richiederebbe molti volumi; tutto ciò che possiamo fare qui è leggerne la
prima pagina.
Gli accordi o combinazioni di toni più piacevoli, come scoprirono i pitagorici,
sono composti da suoni i rapporti delle cui frequenze si identificano con i rapporti
di numeri interi semplici. La terza maggiore, ad esempio, È costituita da una
coppia di toni, o, come si dice comunemente, da un intervallo, le cui frequenze
sono fra loro nel rapporto di 4 a 5; la quarta è una coppia di toni le cui frequenze
sono nel rapporto di 3 a 4; e la quinta consta di frequenze nel rapporto di 2 a 3.
Nessuna spiegazione del perché l’orecchio senta queste armonie come gradevoli
si è spinta molto oltre il riconoscimento delle relazioni numeriche esistenti fra le
altezze in gioco.
Poiché l’orecchio accetta come armoniche solo certe combinazioni di note, la
costruzione di una scala musicale soddisfacente è un problema piuttosto
complicato. Al fine di suonare accordi armonici, la scala deve fornire toni con i
rapporti di frequenza appropriati. Oltre a questa richiesta, altre ne sono poste
dall’introduzione della musica polifonica o contrappunto e dalla desiderabilità di
utilizzare varie chiavi per ottenere diversi effetti emotivi. Vari musicisti e
matematici hanno tentato di soddisfare tutte queste richieste.
Poiché non è possibile avere su strumenti come il pianoforte, in cui la
frequenza di ogni nota è fissata, una gamma illimitata o anche solo ampia di
frequenze, le difficoltà furono risolte con la costruzione della scala temperata. La
difesa di questa scala da parte di J.S. Bach e del figlio di lui, Karl Philipp
Emanuel Bach, condusse alla sua permanente adozione nella civiltà occidentale.
La scala temperata contiene dodici note; così, dal do al do2, che è un’ottava
sopra, ci sono dodici intervalli. Le frequenze delle undici note intermedie sono
fissate in modo che ciascuna abbia un rapporto costante con la precedente. Poiché
do al do2 ci sono dodici intervalli e poiché il rapporto delle frequenze di queste
due note è 2, il rapporto delle frequenze delle note consecutive è 1,0594, poiché
(1,0594)12
= 2. Nella scala temperata ogni intervallo, chiamato semitono, è di
conseguenza uguale. Ogni nota può dunque essere usata come la chiave di una
composizione. Gli intervalli che possono essere formati con le note di questa scala
non sono però esattamente quelli che abbiamo indicato come i più gradevoli. Al
fine di produrre l’accordo di quinta, in cui il rapporto fra le frequenze delle due
268
note è di 3 a 2, il meglio che si possa fare sulla scala temperata è scegliere due
note il cui rapporto di frequenza sia 1,498. L’intervallo della quarta, che dovrebbe
richiedere un rapporto di frequenza di 4 a 3, può essere approssimato col rapporto
di 1,335. Queste differenze, per quanto sembrino insignificanti, possono essere
nondimeno scoperte da un buon orecchio. Ovviamente il violinista, quando regola
la lunghezza e la tensione delle corde del suo strumento, e il cantante non hanno
bisogno di limitarsi alle frequenze della scala temperata. Il pianoforte, essendo
uno strumento fondamentale, ha però dettato la scala per la musica occidentale
negli ultimi due secoli.
La funzione della matematica nella musica si estende alla composizione stessa.
Maestri come Bach e Schönberg hanno costruito e patrocinato vaste teorie
matematiche per la composizione musicale. In tali teorie il modello creativo è
fornito non da un ineffabile sentimento spirituale bensì dalla fredda ragione.
Ma argomenti come gli accordi, le scale e le teorie della composizione esulano
dal nostro tema. La nostra rassegna delle relazioni fra matematica e cultura non ci
consente di soffermarci eccessivamente in queste direzioni. Le poche osservazioni
finora compiute indicano semplicemente quanto in profondità la matematica sia
penetrata nella sfera della musica dall’epoca in cui fu riconosciuto per la prima
volta che l’armonia delle sfere poteva essere ridotta a matematica.
Ovviamente l’analisi matematica dei suoni musicali ha una grande importanza
pratica. Un esempio sarà forse sufficiente a convincerci di questo fatto. Il telefono
cerca di riprodurre fedelmente i suoni. In considerazione della varietà di questi,
tale fine apparve dapprima quasi irraggiungibile con semplici congegni fisici. Il
teorema di Fourier ci dice però che tutti i suoni vocali sono semplicemente
combinazioni di suoni semplici di varia frequenza. Il problema è perciò
semplificato, riducendosi a quello della riproduzione di suoni semplici.
Un’ulteriore analisi dei diagrammi dei suoni umani reali per mezzo del teorema di
Fourier dimostra che per avere un’udibilità intelligibile si richiedono soltanto
suoni semplici con frequenze comprese fra 400 e 3000 cicli al secondo. La
progettazione del telefono fu perciò indirizzata verso la riproduzione di suoni
semplici con frequenze comprese nella gamma or ora citata. Furono ottenuti
progressi considerevoli nella qualità della riproduzione.
Anche i suoni musicali degli strumenti sono stati migliorati considerevolmente
grazie all’applicazione della matematica. L’analisi di corde vibranti ha fornito
conoscenze utili nella progettazione di pianoforti; l’analisi di membrane vibranti è
stata applicata alla costruzione di tamburi; e studi simili su colonne d’aria vibranti
hanno reso possibili grandi perfezionamenti nella costruzione di organi. L’analisi
armonica dei suoni musicali e usata anche dai costruttori di pianoforti, i quali
collocano i martelletti in modo tale da eliminare armonici indesiderati. La
matematica non soltanto offre un valido aiuto nella progettazione di questi
strumenti ma è spesso preferita all’orecchio per giudicare quale sia la struttura
perfetta di uno strumento. Molti produttori di strumenti convertono i suoni dei
loro strumenti in diagrammi per mezzo di congegni analoghi al fonodeik. Essi
269
giudicano poi la qualità degli strumenti da loro prodotti osservando in quale
misura questi grafici corrispondano ai grafici ideali per i suoni di tali strumenti.
È vero indubbiamente che, per quanto concerne la progettazione degli
strumenti musicali, l’esperienza ha dato un contributo maggiore di quello della
matematica. È invece nettamente vero l’inverso nella progettazione di strumenti
di riproduzione, come radio, grammofoni, cinema sonoro e sistemi di
amplificazione. Gli aspetti tecnici di tutti i componenti di questi strumenti
complessi si fondano in gran parte sull’analisi dei suoni musicali compiuta da
Fourier. Anche il profano che diventa un appassionato della high-fidelity impara
ben presto a parlare il linguaggio di Fourier. Se si considerano i molti contributi
della matematica alla produzione e alla riproduzione di idee musicali, il moderno
appassionato della musica deve evidentemente non meno a Fourier che a
Beethoven.
Ci sono anche corollari filosofici all’opera di Fourier. L’essenza della bella
musica non si può ovviamente ridurre a quanto ci viene rivelato dall’analisi di
Fourier. Attraverso il teorema di Fourier, questa grande arte si presta però
perfettamente alla descrizione matematica. La più astratta fra tutte le arti può
essere perciò trascritta nella più astratta fra tutte le scienze e la più ragionata fra
tutte le arti viene chiaramente riconosciuta affine alla musica della ragione.
270
XX. La padronanza delle onde dell’etere
Nell’aria è il mistero.
ANONIMO
Con la scoperta del pianeta Nettuno l’Ottocento ampliò in misura considerevole
il nostro universo materiale. Abbiamo già detto che il pianeta fu osservato dopo
che i matematici Adams e Leverrier ne avevano predetto l’esistenza e la
posizione. Ma quest’aggiunta al nostro universo di un pianeta molte volte più
grande della Terra non distolse l’umanità neppure per un istante dai suoi affari
quotidiani. Gli spiriti celesti di Copernico, di Keplero e di Newton si limitarono a
sorridere con indulgenza e a mormorare: “L’avevamo detto.”
Non molti anni dopo l’Ottocento assiste a un’altra scoperta, la quale, come
quella di Nettuno, non avrebbe potuto essere compiuta senza l’aiuto della
matematica. A differenza di Nettuno, questa nuova scoperta fu decisamente
inconsistente. La cosa scoperta non pesava, era invisibile e impalpabile, non
aveva sapore né odore; era ed è fisicamente ignota all’uomo. Eppure, a differenza
di Nettuno, questa “sostanza” inafferrabile ebbe effetti manifesti e addirittura
rivoluzionari sulla vita quotidiana di quasi tutti gli uomini, donne e bambini nella
civiltà occidentale. Essa rese possibili le comunicazioni attorno al mondo in un
batter d’occhio; ampliò la comunità politica dall’angolo della strada al pianeta
Terra; accelerò il ritmo della vita, promosse il diffondersi dell’istruzione, creò
nuove arti e industrie e rivoluzionò la guerra. Di fatto la vita intera ne risentì, in
tutti i suoi aspetti.
Il personaggio centrale in questa seconda scoperta fu uno scozzese, James
Clerk Maxwell, che era nato a Edimburgo nel 1831 e aveva poi studiato a
Cambridge, dove divenne successivamente professore. Benché fin da giovane
Maxwell manifestasse una grande attitudine al pensiero astratto – a scuola fu
molto brillante in matematica e pubblicò il suo primo saggio all’età di 15 anni –,
il suo più grande desiderio fu sempre quello di comprendere il funzionamento
fisico di fenomeni naturali e di congegni meccanici. Da ragazzo chiedeva sempre,
di tutto: “Come funziona?” Con sua grande soddisfazione la sua analisi teorica
della struttura dell’anello di Saturno, un suo lavoro giovanile, dovette essere
integrata con la costruzione di un modello. Era difficile attendersi che una persona
così insistente sulle spiegazioni fisiche fosse destinata a raggiungere un livello di
assoluta preminenza con un ragionamento puramente matematico su un fenomeno
misteriosissimo e fisicamente inesplicabile.
271
Al fine di apprezzare pienamente il problema affrontato da Maxwell, dobbiamo
fare un passo indietro. Varie migliaia di anni fa un pastore cretese, di nome
Magnete, osservò che i chiodi di ferro dei suoi sandali e la punta di ferro del suo
bastone erano attratti da un tipo particolare di roccia. Il pastore aveva scoperto la
magnetite o magnete naturale e aveva osservato che essa attrae il ferro. In Europa,
nel XII secolo, si apprese dai cinesi che un pezzo di magnetite può fungere da
bussola, ma il fenomeno del magnetismo non fu studiato estesamente finché il
medico di corte della regina Elisabetta d’Inghilterra, William Gilbert, ne investigò
le proprietà. Gilbert dovrebbe essere ricordato particolarmente per aver stabilito
che la Terra stessa è un magnete e per aver quindi reso ragione del
comportamento dell’ago della bussola. Nonostante tutti i suoi sforzi, Gilbert fece
ben pochi progressi verso la comprensione della natura reale dell’attrazione
esercitata da calamite e la sua opera non ebbe alcuna influenza sugli atteggiamenti
superstiziosi nei confronti dell’argomento. Prima e dopo quest’epoca la gente
credette che il comportamento della calamita fosse magico e supponeva che
questo magico potere avesse la facoltà di guarire quasi ogni malattia e anche di
riconciliare marito e moglie. Il fenomeno dell’attrazione magnetica è “spiegato”
oggi dicendo che la calamita crea attorno a sé un campo e che il ferro che
perviene all’interno di questo campo ne subisce l’azione.
Una scoperta molto simile e ad essa legata fu compiuta dallo scienziato greco
Talete. Talete osservò che un pezzo di ambra lucidata sfregato attrae oggetti
leggeri, come pagliuzze e foglie secche. L’ambra sfregata crea dunque
manifestamente, come un magnete, un campo che attrae taluni oggetti che cadono
dentro il campo verso l’ambra stessa. Per molto tempo i fenomeni associati
all’ambra e alla calamita furono considerati come una stessa cosa. Fu Gilbert a
mettere in evidenza le differenze; a tal fine egli chiamò “elettrico”, dal nome
greco dell’ambra, il potere d’attrazione dell’ambra sfregata.
Verso la fine del Settecento il professore di anatomia e medicina Luigi Galvani,
di Bologna, osservò che le gambe di una rana morta si contraggono quando gli
estremi di un arco di filo formato congiungendo due metalli diversi toccano le
terminazioni di un nervo. Il significato della sua scoperta fu valutato e usato da un
altro italiano, il comasco Alessandro Volta. Volta si rese conto che i due metalli
diversi producevano una forza, ora chiamata forza elettromotrice, alle estremità
del filo ed elaborò una combinazione di metalli più efficace, ossia una pila.
Sostituendo il nervo della rana con un filo e fissando i due capi del filo ai
terminali della sua pila, Volta dimostrò che la forza poteva essere utilizzata per far
scorrere nel filo piccole particelle di materia. Questo flusso di particelle, che
furono più tardi identificate con elettroni, è una corrente elettrica. Benché né
Galvani né Volta se ne rendessero conto, gli elettroni sono precisamente ciò che
appare sull’ambra sfregata e sono proprio questi elettroni ad attrarre particelle di
altri oggetti. La pila di Volta fece scorrere questi oggetti invece di lasciarli
raggruppati e immobili come sono sull’ambra sfregata.
Una relazione importantissima fra elettricità e magnetismo fu scoperta nel 1820
dal fisico danese Hans Christian Ørsted, che lavorava all’Università di
272
Copenaghen. Usando la nuova pila di Volta per costringere la corrente elettrica
lungo un filo, Ørsted trovò che il filo agiva come una calamita mentre la corrente
passava attraverso di esso, ossia che la corrente elettrica creava un campo
magnetico attorno al filo. Un tale campo attrae o respinge altre calamite
esattamente come fa il magnete naturale. Questa scoperta era di fatto accidentale
ma, come scrisse una volta Pasteur, “Il caso favorisce soltanto la mente
preparata.” Ørsted era degno di questa fortuna e poté esplorare appieno la sua
scoperta. Il fisico francese André-Marie Ampère dimostrò poi che due fili
paralleli che trasportano corrente si comportano come due calamite. Se la corrente
va nella stessa direzione i fili si attraggono, se va in direzione opposta si
respingono.
Sarebbe toccato all’autodidatta, ex apprendista legatore di libri, Michael
Faraday, che lavorava in Inghilterra, e al maestro di scuola Joseph Henry, della
Albany Academy di New York, scoprire l’altro legame essenziale fra elettricità e
magnetismo, preparando così la scena per il clamoroso ingresso di Maxwell. Se
un filo che trasporta corrente crea un campo magnetico, un campo magnetico non
indurrà corrente in un filo? La risposta, come questi uomini dimostrarono un
centinaio di anni fa, è: sì, purché il filo sia mosso nel campo del magnete al fine di
far variare il campo attorno al filo.
Fig. 64. Il principio di un generatore di elettricità.
Esaminiamo più da vicino l’essenza della scoperta di Faraday e di Henry.
Supponiamo che un filo cui sia stata assegnata una figura rettangolare (fig. 64) sia
fissato rigidamente a un asse R e che il filo e l’asse siano poi collocati nel campo
di un magnete. Se si fa ruotare l’asse, utilizzando ad esempio l’energia di una
caduta d’acqua o di un motore a vapore, ruoterà anche il circuito di filo.
Supponiamo anche che l’asse ruoti a velocità costante in senso antiorario e che il
filo BC inizi il suo movimento dalla sua posizione più bassa. Quando BC passa da
questa posizione verso una posizione orizzontale a destra un flusso di corrente
elettrica passa nel filo in direzione da C a B. Questo flusso cresce d’intensità
finché BC si avvicina alla posizione orizzontale e raggiunge un massimo in
coincidenza con quella posizione. Continuando BC a muoversi verso l’alto, il
flusso decresce come quantità e svanisce quando BC si trova nella posizione più
alta. Continuando BC a ruotare, nel filo riappare la corrente, questa volta però
nella direzione da B a C. Di nuovo il flusso aumenta d’intensità al ruotare del filo
273
e raggiunge un valore massimo per la nuova direzione quando BC viene a trovarsi
nuovamente in posizione orizzontale. Quando BC torna alla posizione più bassa, il
flusso di corrente diminuisce e infine scompare. Questo ciclo di mutamenti si
ripete a ogni rotazione completa dell’asse. La comparsa e il flusso di corrente in
un filo che viene mosso all’interno del campo di un magnete è il fenomeno noto
col nome di induzione elettromagnetica.
La corrente generata, come quella prodotta da una pila, è un flusso di miliardi
di particelle di materia piccolissime, invisibili, chiamate elettroni. Questo flusso
di elettroni è causato da una forza che appare nel filo simultaneamente con la
corrente e che passa per le medesime variazioni cui è soggetta la corrente; essa
cioè aumenta e diminuisce e poi si inverte per aumentare e diminuite nella nuova
direzione. Questa forza può essere paragonata alla pressione che fa scorrere
l’acqua in un tubo. La corrente stessa può essere paragonata al flusso dell’acqua.
Sia la quantità sia la forza del flusso creato dall’induzione elettromagnetica
variano col tempo; poiché stiamo occupandoci di quantità misurabili, possiamo
scoprire la relazione funzionale che vi interviene. La relazione fra corrente e
tempo è certamente periodica poiché la sequenza di variazioni si ripete a ogni
rotazione completa del circuito. Può essere eccessivo attendersi che in questo
fenomeno periodico, come in quelli che abbiamo visto nello studio dei suoni
musicali, si riveli utile la funzione sen x. Ma la natura non cessa mai di
accomodarsi alla matematica dell’uomo. La relazione fra la corrente I e il tempo t
risulta della forma
I = a sen bt,
dove l’ampiezza a dipende da fattori come l’intensità del magnete, e la
frequenza b dipende dalla velocità di rotazione del circuito. Se esso compie 60
rotazioni al secondo, il valore di b, tenendo conto delle nostre considerazioni sulla
frequenza esposte nel capitolo precedente, sarà di 60 360 ovvero 21 600. La
corrente che fornisce elettricità alla maggior parte delle abitazioni compie 60 cicli
sinusoidali di variazione completi in un secondo; per questa ragione è chiamata
corrente alternata a 60 cicli (o hertz).
La corrente elettrica può dunque essere concepita come un flusso di elettroni e
può essere rappresentata da una formula matematica. Ma in che modo il processo
dell’induzione elettromagnetica produce correnti elettriche? Questo fenomeno
rimane misterioso. In qualche modo il semplice movimento di un filo in un campo
magnetico induce nel filo una forza elettromotrice e questa forza causa il flusso di
una corrente. Nessuno sa però in che modo il campo magnetico crei quest’effetto
o in che modo un magnete attragga il ferro o l’acciaio. In nessuno dei due
fenomeni è stato possibile scoprire un agente causale materiale. In considerazione
della nostra profonda ignoranza sulla natura fisica dei campi, una spiegazione
dell’induzione elettromagnetica sembra ancor più fuori della portata dell’uomo
che non le stelle più lontane.
274
Fortunatamente, ciò che può essere fuori della portata fisica dell’uomo è
nondimeno alla portata della sua comprensione matematica. All’epoca di
Maxwell, i fisici dell’Ottocento erano riusciti a formulare matematicamente gli
aspetti quantitativi di vari fenomeni elettrici e magnetici che erano stati studiati
nei secoli precedenti. Il comportamento di campi associati a cariche elettriche
fisse, come quelle che appaiono sull’ambra sfregata, e il comportamento dei
campi che circondano i magneti furono espressi da due leggi note oggi come leggi
dell’elettricità statica e del magnetismo. Il fenomeno dell’induzione
elettromagnetica, osservato per la prima volta da Faraday e da Henry, fu espresso
in una terza legge, chiamata oggi legge di Faraday. Infine il comportamento dei
campi magnetici che circondano fili che trasportano corrente, lo studio dei quali è
stato condotto da Ørsted e Ampère, fu espresso in una quarta legge chiamata
legge di Ampère. Queste due ultime leggi sono chiamate leggi
dell’elettrodinamica perché descrivono il comportamento di correnti o campi
magnetici in moto. Tutte e quattro assumono la forma di equazioni differenziali,
le quali sono però troppo complicate per poter essere esaminate qui. Possiamo
nondimeno considerare in che modo Maxwell se ne servì.
Lavorando con queste leggi dell’elettromagnetismo, Maxwell eseguì una
deduzione da cui risultava evidente che queste leggi erano incoerenti con un’altra
legge della fisica matematica nota come equazione di continuità. Per un
matematico una contraddizione è intollerabile e Maxwell ricercò una soluzione
della difficoltà. Egli osservò che aggiungendo un nuovo termine alla legge di
Ampère si sarebbe conseguita la coerenza delle leggi dell’elettromagnetismo con
l’equazione di continuità e perciò decise di aggiungerlo.
Mai soddisfatto della sola matematica, Maxwell ricercò il significato fisico di
ciò che aveva fatto. Egli vide ben presto che il nuovo termine, che rappresentava
un campo elettrico variabile, aveva proprietà matematiche simili a quel termine
della legge di Ampère che rappresentava il flusso di corrente in un filo. Maxwell
interpretò audacemente la quantità da lui aggiunta. Le sue proprietà erano quelle
di una corrente. D’altra parte, il campo elettrico variabile di cui egli si occupava
esisteva nello spazio, mentre le correnti note in precedenza fluivano in fili.
Maxwell decise immediatamente che il nuovo termine rappresentava una corrente
o un’onda che fluiva attraverso lo spazio. A differenza delle correnti che si
spostavano in fili, quest’onda spaziale appariva priva di un contenuto materiale;
non gli era chiaro inoltre in che modo si spostasse fisicamente. Nondimeno,
convinto dalla matematica, Maxwell ne affermò l'esistenza e coniò per essa
l’espressione corrente di spostamento (displacement current). Ragionando
ulteriormente sull’argomento si convinse che un tale campo elettrico variabile,
come le correnti elettriche nei fili, dovesse essere accompagnato da un campo
magnetico. La combinazione di questi due campi è nota oggi come campo
elettromagnetico.
La soluzione delle equazioni differenziali corrette dell’elettromagnetismo
rivelò a Maxwell che i campi elettrici e magnetici, se generati nel modo
appropriato, si spostano nello spazio, in modo molto simile a quello delle onde; in
275
ogni punto dello spazio l’intensità di ogni campo varia sinusoidalmente col
tempo. I campi elettrici e magnetici che si spostano possono essere paragonati
ciascuno all’onda che si muove lungo una corda estesa orizzontalmente quando se
ne muove velocemente un capo su e giù. Maxwell fece così la prima delle sue
grandi scoperte, quella dell’esistenza di onde elettromagnetiche.
La sua scoperta successiva fu probabilmente un premio per la sua audacia. Egli
osservò che le sue equazioni corrette che descrivevano il comportamento delle
onde elettromagnetiche erano identiche alle equazioni ottenute in precedenza da
altri scienziati per il moto della luce. Inoltre, le sue onde elettromagnetiche
possedevano la stessa velocità delle onde luminose. Maxwell trasse senza esitare
la manifesta inferenza. Le onde elettromagnetiche sono della stessa natura delle
onde luminose. L’identità operava naturalmente in entrambi i sensi. La luce
doveva essere composta da onde elettromagnetiche. Perciò il sapere matematico e
fisico già ottenuto sulle onde elettromagnetiche doveva essere applicabile alla
luce, e inversamente le conoscenze concernenti la luce potevano essere applicate
allo studio di fenomeni elettromagnetici. In altri termini, due settori in precedenza
indipendenti della fisica furono identificati e il patrimonio di conoscenze su
ciascuno di essi fu praticamente raddoppiato.
Per completare l’interpretazione fisica della sua matematica, Maxwell doveva
ancora spiegare quale mezzo trasportasse le sue onde di recente scoperta. Al suo
tempo gli scienziati ammettevano che le onde luminose si muovessero in un
mezzo chiamato “etere”, una “sostanza” che, pur non essendo mai stata scoperta
sperimentalmente in alcun modo, si riteneva pervadesse tutto lo spazio e tutti i
corpi materiali. In considerazione della relazione da lui stesso stabilita fra onde
elettromagnetiche e luce, Maxwell suppose che anche queste onde spaziali fossero
propagate dai moti dell’etere. Tanti compiti erano già stati assegnati a questo
sfruttatissimo etere, che uno di più non faceva alcuna differenza.
La dichiarazione da parte di Maxwell dell’esistenza di nuovi fenomeni fisici,
che non erano mai stati supposti prima e che non potevano essere scoperti
sperimentalmente dagli scienziati di quell’epoca, fu di fatto un passo molto
audace. I fisici matematici più in vista di quell’epoca, Hermann von Helmholtz e
Lord Kelvin, si rifiutarono di credere in correnti di spostamento. Ma, per
definizione, il genio non si scoraggia facilmente. Convinto della realtà fisica delle
sue onde spaziali elettromagnetiche, Maxwell si spinse oltre e suggerì
l’apparecchiatura che poteva produrle. Ventitré anni dopo che Maxwell aveva
dedotto l’esistenza di onde spaziali e dieci anni dopo la sua morte, il fisico
tedesco Heinrich Hertz dimostrò l’esistenza di queste onde generandole e
rivelandole esattamente nel modo proposto da Maxwell.
Hertz ragionò che la corrente di spostamento o il campo elettrico variabile di
Maxwell doveva essere identico in natura con i campi che circondano cariche
elettriche stazionarie o elettroni. Egli escogitò perciò un modo per far muovere
cariche elettriche avanti e indietro su un filo in modo che anche il campo
associato con esse venisse posto in moto. Quando la frequenza del moto alterno
delle cariche era abbastanza elevata, una parte apprezzabile del campo si metteva
276
in moto nello spazio, esattamente come le onde si muovono lungo una fune
quando un suo capo è mosso su e giù con sufficiente velocità. A qualche distanza
il campo agiva su elettroni stazionari in un altro filo e li faceva muovere avanti e
indietro. Così una corrente, scoperta da Hertz, veniva indotta nel secondo filo. I
fili usati da Hertz erano la forma originaria delle moderne antenne: le antenne
trasmittenti su alte torri delle stazioni radiofoniche e le antenne riceventi che
erano collocate un tempo sui tetti delle abitazioni mentre sono oggi incorporate
negli apparecchi radio. La telegrafia senza fili, che implica semplicemente
interruzioni lunghe e brevi nell’emissione di onde elettromagnetiche, era appena
dietro l’angolo.
Fig. 65. Un’onda portante modulata in ampiezza.
La trasmissione senza fili di voci e musica presentava però un altro problema.
L’analisi matematica dei suoni musicali, esaminata nel capitolo precedente, aveva
dimostrato agli scienziati dell’Ottocento che questi suoni constano di onde d’aria
sinusoidali con frequenze fino ad alcune migliaia di cicli al secondo. Il lavoro sul
telefono aveva dimostrato che queste onde sonore potevano essere convertite in
correnti elettriche che possedevano esattamente le medesime proprietà
matematiche delle onde sonore. Queste correnti elettriche che rappresentavano
suoni musicali potevano essere convertite direttamente in onde elettromagnetiche
ed essere così trasmesse nello spazio? Ciò è teoricamente possibile ma per ragioni
ben note ai tecnici della radio è più facile irradiare correnti ad alta frequenza
277
dell’ordine di milioni di cicli al secondo che non le basse frequenze
corrispondenti a suoni vocali e strumentali. Era necessario un qualche sistema che
consentisse di convertire correnti di bassa frequenza in alte frequenze, o almeno
di associarle ad esse.
Vari sistemi del genere furono sviluppati. Attualmente è in uso un sistema noto
come modulazione di ampiezza. L’ampiezza di una corrente sinusoidale ad alta
frequenza, che può essere irradiata facilmente nello spazio, è fatta variare al di
sopra e al di sotto del suo valore normale esattamente come l’ampiezza dell’onda
sonora che dev’essere trasmessa. Quest’operazione viene compiuta, con gli
equipaggiamenti opportuni, in ogni stazione radiotrasmittente. La risultante
corrente ad alta frequenza, o corrente portante, ad ampiezza modulata fig. 65),
viene poi irradiata nello spazio, attraverso cui viaggia per centinaia e migliaia di
chilometri fino agli apparecchi riceventi. Ogni apparecchio ricevente “elimina” la
corrente portante, ossia converte le variazioni d’ampiezza nell’onda portante in
correnti elettriche a bassa frequenza portate dal filo, le quali variano col tempo
precisamente come l’ampiezza della corrente
Fig. 66. Un’onda portante modulata in frequenza.
ad alta frequenza. Le correnti a bassa frequenza operano allora come un
altoparlante, le cui vibrazioni creano onde sonore. Mediante questi processi le
voci e i suoni generati in uno studio radiofonico vengono riprodotti nelle nostre
abitazioni appena una frazione di secondo dopo, nonostante subiscano
trasformazioni intermedie tali da sfidare l’immaginazione più sfrenata.Le attuali
frequenze portanti per le onde radio a modulazione di ampiezza delle normali
stazioni radiotrasmittenti sono comprese fra 500 000 e 1 500 000 cicli al secondo.
La persona che “sintonizza” il suo apparecchio radio su una stazione particolare lo
regola in modo da fargli ricevere la frequenza portante di quella stazione.
In anni recenti è stato indagato e messo in uso un altro sistema per trasmettere
per via radio voci e musica, ossia quello della modulazione di frequenza. In
questo sistema viene variata la frequenza invece dell’ampiezza della corrente
sinusoidale ad alta frequenza, in accordo col suono che dev’essere trasmesso.
Supponiamo che la frequenza della corrente portante, ovvero dell’onda radio che
si propaga nello spazio, sia di 90 000 000 di cicli al secondo e che il suono che
dev’essere trasmesso sia di 100 cicli al secondo e di ampiezza 1. Se l’onda
278
portante non fosse modulata, continuerebbe naturalmente a oscillare al ritmo di 90
000 000 di cicli al secondo. Supponiamo però ora che questa frequenza venga
variata da 90 000000 a 90 002 000, poi di nuovo a 90 000 000 e quindi a 89 998
000 e poi di nuovo a 90 000 000. Questa sequenza di variazioni nella frequenza,
ovvero la modulazione della frequenza, riceve un ritmo tale da presentarsi 100
volte al secondo, cioè alla frequenza del suono musicale. La misura della
variazione nella frequenza portante, ossia 2000 cicli, è determinata dall'ampiezza
della nota musicale. Se quest’ampiezza fosse 2 invece di 1, la variazione nella
frequenza portante sarebbe doppia, ossia 4000 cicli, cosicché la frequenza
portante raggiungerebbe 4000 al di sopra e al di sotto di 90 000 000, ancora al
ritmo di 100 volte al secondo (fig. 66).
Frequenze ancora più elevate di quelle usate per le trasmissioni radiofoniche in
modulazione di frequenza sono usate nelle apparecchiature radar. Le onde
elettromagnetiche irradiate nello spazio variano sinusoidalmente d’intensità con
frequenze dell’ordine di 10 miliardi di volte al secondo. Tali onde sono emesse in
brevi impulsi che durano circa un milionesimo di secondo ciascuno (fig. 67). Se
questi impulsi colpiscono una superficie metallica, come un aereo o una nave,
sono riflessi all’emittente, che scopre in tal modo la presenza della superficie
riflettente.
Per quanto incredibili e stupefacenti siano queste frequenze, difficilmente
mettono a dura prova l’immaginazione umana se le si confronta con le frequenze
riscontrate nelle onde luminose. Ancor prima dell’epoca di Maxwell si riteneva
che la luce fosse una qualche sorta di moto ondulatorio. La dimostrazione data da
Maxwell del fatto che la luce ha carattere elettromagnetico rese chiaro che la
differenza essenziale fra la luce e le onde radio consiste nella frequenza di
variazione del moto dell’etere.
Fig. 67. Impulsi radar.
Le frequenze delle onde luminose sono dell’ordine di 1 seguito da 14 zeri al
secondo. In particolare, tutte le onde le cui frequenze sono comprese fra 4 1014
e
7 104 sono onde visibili: i nostri occhi rispondono infatti a queste varie
frequenze registrando diversi colori.
Man mano che, nella gamma indicata sopra, la luce ricevuta varia dalla
frequenza più piccola a quella più grande, le nostre sensazioni di colore, un
contributo fornito dai nervi e dal cervello, passano gradualmente dal rosso al
279
giallo, al verde, al blu e infine al viola. Il colore nella luce è pertanto analogo
all’altezza nel suono. E come combiniamo suoni semplici per produrre suoni
complessi, così possiamo combinare colori semplici per produrre nuovi colori. La
luce bianca, ad esempio, non è un “tono” cromatico semplice bensì un “accordo”
luminoso, un effetto composto di molti colori. Così la luce del sole contiene tutti i
colori, dal rosso al violetto, e l’effetto composto di tutti questi colori è la luce
bianca.
Numerosi pezzi del puzzle elettromagnetico furono ben presto composti
insieme. Si scoprì che i raggi ultravioletti e infrarossi, rivelabili i primi attraverso
l’annerimento di negativi fotografici e i secondi attraverso il loro effetto termico,
sono onde elettromagnetiche con frequenza rispettivamente superiore e inferiore a
quelle delle onde luminose. I raggi X, scoperti per la prima volta verso la fine
dell’Ottocento, furono identificati anch’essi con onde elettromagnetiche aventi
frequenze ancora più alte di quelle dei raggi ultravioletti. Infine anche i raggi
gamma, emessi da sostanze radioattive, risultarono essere onde elettromagnetiche,
con frequenze ancora più elevate di quelle dei raggi X.
L’affinità fra questi vari tipi di onde elettromagnetiche, scoperta dall’opera di
Maxwell, viene ora utilizzata continuamente. Ad esempio, le lampade elettriche
nelle nostre case convertono onde di 60 cicli, che viaggiano lungo fili, in onde di
luce, che si spostano nello spazio. L’essenziale identità dei molti tipi di onde è
usata nel modo più sensazionale nel recente miracolo della scienza che ha invaso
le nostre case: la televisione. Le variazioni di luce in una scena che dev’essere
trasmessa vengono trasformate in correnti elettriche, le quali vengono a loro volta
impresse su un’onda radio ad alta frequenza e irradiate nello spazio.
L’apparecchio ricevente, nelle nostre case, converte le onde radio in correnti
elettriche e le correnti elettriche in onde luminose in modo che l’occhio vede
precisamente la scena originale. In tal modo una forma di onda elettromagnetica è
convertita in una seconda e questa in una terza; poi la sequenza delle
trasformazioni viene rovesciata. Ogni volta che andiamo al cinema assistiamo alla
conversione di un tipo di onda elettromagnetica in un altro. La luce che passa
attraverso la colonna sonora, di varie gradazioni di nero, della pellicola, colpisce
una cellula fotoelettrica; questo congegno converte la luce trasmessa in una
corrente elettrica variabile e questa a sua volta attiva un altoparlante. In tal modo
le voci melliflue di maschi ardenti rivolte a bellezze incomparabili ci trasportano
in un’atmosfera romantica.
Questi risultati pratici sono di fatto spettacolari e rendono il miracolo un luogo
comune. Essi hanno avuto anche conseguenze sociali di grande portata e
incommensurabili, alcune delle quali sono state enunciate all’inizio di questo
capitolo. L’uso della radio per discorsi politici dovrebbe essere sufficiente a dare
un’idea efficace dell’importanza sociale della scienza dell’elettromagnetismo.
Ma nel contributo di Maxwell ci sono valori che proiettano i loro effetti
incalcolabili sulla società e sulla vita quotidiana. L’uomo non vive di solo pane e
politica. Egli desidera comprendere la natura e la sua relazione alla natura;
intende soddisfare la sua curiosità su fenomeni sempre presenti, come il suono e
280
la luce; e desidera metter ordine nelle diverse impressioni che una moltitudine di
eventi proietta sui suoi sensi. Tali valori sono ottenuti dalla spiegazione
matematica dei fenomeni fisici.
La teoria elettromagnetica di Maxwell supera addirittura la gravitazione
newtoniana nell’abbracciare una varietà di fenomeni apparentemente diversi in un
ampio insieme di leggi matematiche. Il comportamento del granello di sabbia e
della stella di maggior massa possono essere descritti e predetti applicando le
leggi sul moto di Newton. L’elettrone invisibile e la luce del sole possono essere
descritti e imbrigliati con le leggi elettromagnetiche di Maxwell. Le correnti
elettriche, gli effetti magnetici, le onde radio, le onde infrarosse, le onde
luminose, le onde ultraviolette, i raggi X e i raggi gamma, le onde sinusoidali con
frequenze dell’ordine di 60 cicli al secondo e di 1 seguito da 24 zeri sono
manifestazioni di un unico schema fisico-matematico soggiacente a tutti questi
fenomeni. Questa teoria, a un tempo così profonda e così comprensiva da sfidare
ogni immaginazione, ha rivelato l’esistenza nella natura di un piano e di un ordine
che parlano all’uomo con più eloquenza della natura stessa. Con essa la ragione
dell’uomo, la sola facoltà grazie alla quale egli si distingue dal resto del mondo
animale e sulla cui base può credere nella propria importanza, si è assicurata
un’altra vittoria. Ancora una volta l’uomo ha afferrato con la propria mente le
redini che controllano le impennate della natura.
La teoria elettromagnetica ci fornisce un altro esempio del potere della
matematica di svelare i segreti della natura. Fu possibile concepire e anche
immaginare in modo visibile il sottomarino e l’aeroplano già molto tempo prima
che i tecnici producessero modelli funzionanti. Difficilmente la nozione di
un’onda radio avrebbe potuto invece presentarsi anche nel volo più sfrenato della
fantasia e, qualora si fosse presentata, sarebbe stata abbandonata subito, appunto
come puramente fantastica. Le onde radio, la cui natura fisica non è ancora
compresa, furono scoperte, e si potrebbe quasi dire inventate, perché il
ragionamento matematico ne richiedeva l’esistenza. La scienza sta ora esplorando
sistematicamente altre grandi regioni del mondo elettromagnetico chiaramente
delineato nella teoria di Maxwell.
Particolarmente significativo è il fatto che non fu proprio il ragionamento
matematico comune a condurre alla predizione delle onde radio; fu, piuttosto,
l’insistenza sul ragionamento esatto. Il matematico, attribuendo il massimo valore
alla coerenza logica delle sue equazioni, non tollera la minima contraddizione. Né
egli consente a una comprensione fisica inadeguata, limitata da percezioni
sensoriali fallibili e finte, di distoglierlo dal fare tutto il necessario per eliminare
tale incoerenza. Impregnato dello spirito del ragionamento esatto, il matematico
non considera un’inutile stravaganza qualsiasi richiesta concernente l’esattezza. I
cosiddetti uomini pratici, e anche gli scienziati e ingegneri che confondono il
rigore matematico con la pedanteria, farebbero bene a meditare sull’opera di
Maxwell.
Ma molto di più possiamo apprendere anche da questa breve rassegna della
teoria elettromagnetica. Ammesso che, attraverso di essa, la matematica ha
281
padroneggiato un’altra parte del mondo fisico, e ammesso anche che la radio, i
motori, gli strumenti ottici e le macchine per radiografie, progettate e operanti
secondo questa teoria, non lasciano dubbi sul fatto che la matematica sta
occupandosi di fenomeni reali, dove e quali sono gli agenti fisici che producono
gli effetti descritti dalla matematica? Che cosa sono gli elettroni che fluiscono nei
fili e rendono incandescenti le lampadine? Che cosa sono i campi elettrici e
magnetici che attraggono e respingono oggetti e interagiscono l’uno sull’altro? In
particolare, che cos’è quella corrente di spostamento che viaggia attraverso lo
spazio e che si trova nell’aria che ci circonda? Benché i più grandi matematici e
fisici si siano tormentati su queste domande, esse rimangono senza risposta. I
fantasmi più misteriosi che siano mai stati concepiti sono più tangibili e
comprensibili delle spiegazioni fisiche architettate per i fenomeni
elettromagnetici. Gli elettroni, stazionari di campo e mobili, e l’etere non sono
altro che finzioni, vuote speculazioni. I fenomeni elettromagnetici sono non meno
misteriosi e paurosi delle presunte manifestazioni soprannaturali.
Anche l’uomo che fu più ispirato di tutti nel costruire un’immagine fisica
dell’induzione elettromagnetica, un’immagine che lo stesso Maxwell usò per
presentare il proprio pensiero, confessò di essere frustrato nel proprio tentativo di
intendere l’intero fenomeno fisicamente. In una lettera scritta a Maxwell nel 1857,
Faraday gli chiedeva se non potesse esprimere le conclusioni del suo lavoro
matematico “nel linguaggio comune in modo cosi compiuto, chiaro e definito
come nelle formule matematiche? In tal caso, non sarebbe un grande favore
esprimerle così per quelli come me? Tradurle dai loro geroglifici in modo che
anche noi possiamo svolgere su di esse un lavoro sperimentale... Se ciò è
possibile, non sarebbe un bene se i matematici, lavorando su questi argomenti, ci
dessero i risultati in questo modo popolare, utile, funzionale, oltre che in quello
che è loro proprio?” Purtroppo la richiesta di Faraday non è stata a tutt’oggi
esaudita.
In nessun caso la nostra ignoranza del mondo reale o della sua natura ultima è
più sgradevole che nel fenomeno della luce. È chiaro che quando la luce emessa
da una sorgente come il Sole o una lampadina elettrica perviene ai nostri occhi
qualche cosa attraversa lo spazio. Ma che cosa? Da tre secoli a questa parte gli
scienziati hanno investigato con serietà e costanza la natura della luce. Le prove
sperimentali vanno a sostegno di due teorie vaghe e contraddittorie; secondo l’una
la luce sarebbe un moto ondulatorio continuo nell’etere; secondo l’altra la luce
sarebbe un moto di particelle o corpuscoli, piccolissimi e impercettibili. Frequenti
spostamenti dell’opinione scientifica da una teoria all’altra hanno dato adito a
beffe continue: la teoria ondulatoria prevale nei giorni dispari del mese, quella
corpuscolare nei giorni pari.
È vero che Maxwell insisté sui modelli fisici di ogni fenomeno da lui
investigato. Egli descrisse ad esempio il flusso dell’elettricità come il flusso di un
fluido immaginario e studiò addirittura fluidi reali per trarne leggi matematiche
che potessero essere applicabili al flusso dell’elettricità. Inventò modelli
meccanici implicanti particelle e meccanismi al fine di rappresentare e studiare la
282
propagazione di campi elettrici e magnetici. Non dimenticò però mai che i fluidi e
i modelli meccanici erano semplicemente ausili al pensiero e infine li abbandonò,
pur conservando le equazioni matematiche da essi suggerite. Quando egli
presento, nel 1864, alla Royal Society il suo saggio classico A Dynamical Theory
of the Electromagnetic Field, l’impalcatura fisica che egli aveva usato per erigere
l’architettura matematica fu tralasciata. Molti fra i successori di Maxwell
conservarono i modelli fisici e li presentarono come spiegazioni vere,
probabilmente perché non erano in grado di fare a meno di tali rappresentazioni
nel loro lavoro. La necessità di pensare nei termini di un mezzo che trasporta onde
elettromagnetiche stabilì ben presto, con loro soddisfazione, la “realtà e
sostanzialità dell’etere luminifero.” Queste rappresentazioni non possono però
essere considerate seriamente, essendo inadeguate e sperimentalmente non
verificabili.
L’incapacità di spiegare qualitativamente o materialmente i fenomeni
elettromagnetici contrasta nettamente con l’esatta descrizione quantitativa fornita
da Maxwell e dai suoi collaboratori. Esattamente come le leggi di Newton
avevano fornito agli scienziati i mezzi per lavorare con la materia e la forza senza
spiegare né l’una né l’altra, così le equazioni di Maxwell diedero agli scienziati la
capacità di compiere prodigi con i fenomeni elettrici nonostante una
comprensione piuttosto misera e incompleta della loro natura fisica. Le leggi
quantitative sono tutto quel che abbiamo sul piano di una spiegazione unificatrice,
intelligibile. Le formule matematiche sono precise e generali; l’interpretazione
qualitativa è vaga e incompleta. Gli elettroni, i campi elettrici e magnetici e le
onde dell’etere ci forniscono semplicemente nomi per le variabili che appaiono
nelle formule, o, come si espresse Helmholtz, nella teoria di Maxwell una carica
elettrica è semplicemente ciò che riceve un simbolo. La formulazione definitiva
sulla natura fisica dei fenomeni elettromagnetici si deve a Heinrich Hertz: “Alla
domanda: che cos’è la teoria di Maxwell? non conosco una risposta più breve o
più precisa della seguente: la teoria di Maxwell è il sistema di equazioni di
Maxwell.”
Se la comprensione fisica e il potere della ragione, a livello fisico, sui fenomeni
elettromagnetici sono lacunosi, qual è la natura della comprensione umana di
questa sezione della realtà? Su che cosa l’uomo fonda le sue pretese di aver
dominato la natura? Le leggi matematiche sono i soli mezzi per scandagliare e
padroneggiare questa grande regione del mondo fisico; di tali misteriosi
comportamenti le leggi matematiche sono l’unica conoscenza che l’uomo
possiede. Benché la risposta a questi problemi sia insoddisfacente per il profano
non iniziato a questi misteri delfici, gli scienziati hanno imparato ad
accontentarsene. Di fatto, messo di fronte a tanti misteri naturali, lo scienziato è
ben lieto di seppellirli sotto il peso di simboli matematici, di seppellirli così
accuratamente che molte generazioni di studiosi non si rendano conto di tale
scomparsa.
Con l’opera di Maxwell la fisica conobbe una nuova svolta. Prima di tale epoca
una concezione meccanica della natura era non soltanto popolare ma abbastanza
283
soddisfacente, in quanto forniva una spiegazione fisica di fenomeni naturali. Per
molto tempo anche l’elettricità e il magnetismo furono raffigurati come le azioni
di fluidi benché gli scienziati non sapessero se essi fossero realmente tali. L’etere
era considerato un solido assai elastico e perciò veniva data una spiegazione
meccanica della propagazione della luce. L’introduzione delle onde
elettromagnetiche e l’identificazione della luce con queste onde distrusse la
validità di tali spiegazioni fisiche. Gli scienziati cominciarono a nutrire serie
apprensioni sull’intera filosofia meccanicistica della natura e infine, sia pure con
riluttanza, la abbandonarono.
La fisica passò allora da una fondazione meccanicistica a una matematica.
Mentre in precedenza la matematica era servita per rappresentare, studiare e far
progredire l’analisi meccanica dei fenomeni, oggi proprio la spiegazione
matematica è fondamentale. Di fatto, la spiegazione meccanica è stata
abbandonata tranne forse in settori molto limitati. L’essenza di ogni moderna
teoria fisica è un corpo di equazioni matematiche. Così le equazioni differenziali,
che all’epoca di Newton avevano una funzione ancillare nei confronti del pensiero
fisico, ne sono divenute le padrone.
Benché l’opera di Maxwell avesse l’effetto di sovvertire la filosofia
meccanicistica della natura, rafforzò la filosofia del determinismo, che pure si era
sviluppata parallelamente alla concezione meccanicistica. Per gli scienziati
dell’Ottocento l’opera di Maxwell fu il coronamento del progetto iniziato da
Copernico, Keplero e Galileo. Erano ora sussunti sotto esatte leggi matematiche
un numero tanto grande di fenomeni che non si poteva più dubitare del disegno
matematico dell’universo. Di fatto non era mai esistito un gruppo tanto orgoglioso
di scienziati. La realizzazione di tutti gli obiettivi fissati dai fiduciosi e
illimitatamente ottimistici scienziati del Settecento fu la gloria dei loro successori
dell’Ottocento.
Maxwell non fu coinvolto in tale acritico entusiasmo. Egli era troppo acuto per
divenire un fanatico delle proprie scoperte. Studioso di metafisica più penetrante
dei suoi collaboratori, egli dimostrò una volta di più la sua genialità resistendo
alla fede in un universo deterministico difesa da quasi tutti a quell’epoca.
Maxwell aveva compiuto studi fondamentali sul moto delle molecole in
connessione con la teoria dei gas e fu disturbato dall’idea che ogni corpo è
composto da molecole, ciascuna delle quali si muove con la velocità di una palla
di cannone e tuttavia non si discosta mai in misura percepibile dalla sua posizione
media. Egli fu condotto a stabilire una distinzione tra fenomeni stabili e instabili.
Un sasso fatto rotolare su un piano orizzontale è un fenomeno stabile perché una
piccola spinta al sasso produrrà un piccolo movimento. Un masso in equilibrio
sulla cima di una montagna è instabile perché una piccola spinta può provocare
una valanga. Similmente, il fiammifero che dà inizio all’incendio di una foresta,
la parola che scatena una guerra mondiale e la gemmula che fa di noi dei filosofi o
degli idioti sono fenomeni instabili. Tali fattori instabili, o punti singolari come li
chiamava Maxwell, erano ai suoi occhi pecche nel mondo deterministico. Leggi
284
violate in questi casi ed effetti in altre circostanze trascurabili possono assumere
una funzione dominante.
Maxwell invitò i suoi colleghi scienziati a considerare con cautela le
implicazioni legate all’esistenza di punti singolari: “Se perciò quei cultori delle
scienze fisiche... sono indotti, nell’interesse per gli arcani della scienza, a studiare
le singolarità e le instabilità invece delle continuità e stabilità delle cose, la
promozione della conoscenza naturale può tendere a rimuovere quel pregiudizio
in favore del determinismo che sembra insorgere dall’assunzione che la scienza
fisica del futuro sarà una semplice immagine ingrandita di quella del passato.”
Maxwell, capo della propria generazione, era di fatto il profeta della
successiva. Alcuni contributi di Maxwell alla teoria dei gas contribuirono a
preparare la via per l’abbandono del determinismo. Le crepe o pecche che egli
vide in tale sistema delle cose si ampliarono ben presto, finché il mondo
deterministico cadde in pezzi. Ma questa catastrofe, con le sue disastrose
conseguenze, sarà da noi esaminata più avanti. Il fatto più grave fu che l’opera di
Maxwell, di qualità insuperata in molti settori della fisica matematica, fu troncata
dalla morte quando egli aveva soltanto quarantotto anni.
285
XXI. La scienza della natura umana
L’umanità è dell’uomo il vero oggetto
di studio...
ALEXANDER POPE
“La più utile e la meno progredita fra tutte le scienze,” scrisse Rousseau, “è
quella dell’uomo.” Questo figlio di un artigiano si guardò attorno e non vide se
non una società umana malata e corrotta. Le ingiustizie politiche, il dominio del
ricco sul povero, il lusso dei pochi e la miseria indicibile dei molti, il vizio, la
cupidigia, le guerre, la riduzione in schiavitù di popoli a opera di conquiste
militari e il tradimento delle masse da parte dei loro capi lo sgomentarono.
Il comportamento dell’uomo si rivelava in netto contrasto con quello della
natura. In natura la legge e l’ordine erano evidenti. I pianeti seguivano le loro
orbite e non si discostavano mai da esse. Qualunque fenomeno i fisici studiassero,
vi trovavano regolarità e leggi matematiche che attestavano un disegno razionale
e un comportamento armonico.
La natura era ordinata, razionale e predicibile.
Ma l’uomo era una parte integrante dell’ordine naturale. Non era forse, come il
mondo fisico, una creazione di Dio? La corrente filosofia materialistica non
insegnava forse che corpo e mente fanno parte entrambi del mondo materiale?
Devono dunque esistere leggi universali, naturali, del comportamento umano. Gli
uomini, come i pianeti, devono essere soggetti a forze di attrazione e di repulsione
e anche il comportamento dell’uomo dovrebbe essere la risultante meccanica
dell’azione di tali forze. Analogamente dovrebbe esser possibile derivare leggi
economiche dall’interazione di forze economiche elementari. Lo sfruttamento
dell’uomo da parte dell’uomo, il caos negli affari politici, la diffusa povertà e
miseria: tutti questi mali sembravano caratteristici delle relazioni umane soltanto
perché l’uomo non aveva indagato le leggi naturali della società. Le vere leggi,
una volta ottenute, potevano sicuramente indicare la via a una vita migliore e a
istituzioni che sarebbero state stabili e giuste, in quanto accordantisi almeno con
l’“ordine naturale.” E se la società avesse potuto essere indotta a obbedire a tali
leggi naturali, i mali della civiltà sarebbero scomparsi.
Deve dunque esistere una scienza dell’uomo. Rousseau sottolineò però che
questa scienza non può essere studiata sperimentalmente perché altrimenti i
grandi filosofi sarebbero impegnati a escogitare gli esperimenti appropriati e i
grandi monarchi a eseguirli. Fortunatamente tali esperimenti non sono necessari
poiché la verità può essere conseguita attraverso il ragionamento deduttivo da
286
primi principi. Hobbes espresse questo pensiero nella sua solita forma recisa. La
politica, l’economia, l’etica e la psicologia devono essere ridotte a scienze esatte.
L’umanità si era fondata solo sull’esperienza come fonte della conoscenza sociale
ed etica. Ma in questo modo possiamo conseguire solo prudenza, per quanto utile
questa possa essere. Per mezzo della scienza invece, insisteva Hobbes, possiamo
acquistare la sapienza, la quale è infallibile e ci consente la predizione. La
scienza, per Hobbes, significa una sola disciplina: “La geometria è l’unica scienza
che finora è piaciuto a Dio concedere all’umanità.” Kant era d’accordo sul fatto
che c’era il bisogno di una scienza della società e aggiunse che mancava un
Keplero o un Newton che scoprisse le leggi della civiltà.
Gli uomini arrivarono così alla convinzione che fosse necessario trovare la
scienza deduttiva degli affari umani. Gli scienziati umani si accinsero perciò a
identificare, isolate e astrarre le leggi universali all’opera nelle relazioni umane.
Come il detective che attende fiduciosamente di sbrogliare la matassa più
ingarbugliata trovando la femme, questi scienziati sociali si attendevano di
risolvere tutti i loro problemi trovando poche leggi fondamentali. Campi di
pensiero considerati in precedenza totalmente estranei e inaccessibili all’analisi
matematica furono riesaminati nell’intento di ripetere qui i successi ottenuti nelle
scienze esatte. Il vino, le donne e il canto, insieme alla ricchezza necessaria per
goderne, divennero oggetto di investigazioni matematiche. In questo capitolo ci
proponiamo di tracciare l’influenza del pensiero matematico sul corso di queste
investigazioni.
Ammesso che esistano veramente leggi sociali, in che modo gli scienziati
sociali potrebbero attendersi di scoprirle? La risposta fu fornita dall’esempio della
matematica. Si dovevano trovare dapprima assiomi fondamentali tali che il
pensiero e l’esperienza li riconoscessero così manifestamente propri della natura
umana che tutti gli scienziati li accettassero. Da questi assiomi sarebbero poi stati
dedotti, col ragionamento rigoroso, impeccabile, usato in matematica, teoremi sul
comportamento umano.
Poi, come i teoremi di matematica, integrati con gli assiomi del moto e della
gravitazione, produssero l’astronomia matematica, così i teoremi del
comportamento umano, combinati con assiomi speciali di etica, di politica o di
economia, avrebbero dovuto produrre scienze in questi campi. In queste nuove
scienze sociali avrebbero potuto essere formulate conclusioni anche quantitative,
consentendo così l’applicazione di tecniche dell’algebra alla deduzione di altre
verità.
La ricerca di verità assiomatiche su cui doveva essere costruita la scienza del
comportamento umano assunse l’aspetto di una corsa all’oro. In successione
abbastanza rapida apparve una serie di grandi opere che analizzavano la natura
umana al fine di scoprire principi fondamentali. Tra i classici seicenteschi e
settecenteschi sull’argomento furono l’Essay Concerning Human Understanding
(Saggio sull’intelletto umano) di Locke, i Principles of Human Knowledge
(Principi della conoscenza umana) di Berkeley, il Treatise of Human Nature
(Trattato sulla natura umana) e le Inquiries Concerning the Human
287
Understanding (Ricerche sull’intelletto umano) di Hume e l’Introduction to
Principles of Morals and Legislation (Introduzione ai principi della morale e della
legislazione) di Bentham. L’Analysis of the Human Mind di James Mill, edita nel
1829, trasferì il movimento nel secolo seguente. In tutte queste opere gli autori
proposero quelli che essi ritenevano fossero gli assiomi della scienza della natura
umana e, seguendo il metodo deduttivo, derivarono le leggi che governano le
azioni e i pensieri degli uomini.
Alcuni fra gli assiomi del comportamento umano presentati in queste opere
meritano attenzione non soltanto di per sé ma anche perché indicano gli assunti
fondamentali e le idee produttive dell’epoca. Fu affermato che tutti gli uomini
nascono uguali; che la conoscenza e le convinzioni derivano da dati del senso; che
il perseguimento del piacere e la fuga dal dolore sono forze fondamentali che
determinano il comportamento umano; che la natura umana risponde in modi ben
noti e costanti a influenze culturali e ambientali; e che gli uomini agiscono sempre
in accordo con i propri interessi. Quest’ultimo assioma fu assai spesso
sottolineato come fondamentale e comparabile, nella sua universalità, alla legge
della gravitazione. Se gli uomini del nostro secolo possono temere che gli
interessi particolaristici siano una forza disgregatrice nella società, non così gli
uomini del Settecento.
Fissarono così Natura e Dio
il quadro generale e stabilirono
che amor di sé e degli altri fosse a un fine.
I vizi privati divennero benefici pubblici. Ovviamente non tutti gli assiomi
enumerati sopra furono accettati e difesi da tutti i teorici, ma furono senz’altro i
più popolari.
Sarebbe difficile passare in rassegna in breve spazio le varie deduzioni che
furono compiute nella scienza della natura umana vera e propria. Fortunatamente
ai nostri fini ciò non è necessario ma è sufficiente sapere che una tale scienza fu
edificata.
Al fine di ottenere risultati nei campi specifici dell’etica, della politica e
dell’economia, il programma generale richiedeva che alla scienza complessiva
della natura umana si aggiungessero assiomi peculiari ai campi specifici. Di quei
sistemi umani che furono sviluppati dagli uomini pervasi dallo spirito della
ragione, uno in particolare ebbe tanta influenza, sia direttamente sia
indirettamente, nella nostra civiltà del XX secolo, che val la pena di esaminarlo
un po’ da vicino. Questo sistema, edificato da Jeremy Bentham (1748-1832), non
era semplicemente razionale e deduttivo; esso osò essere quantitativo.
Se esiste una cosa come una mente matematica, Bentham la possedeva. Egli era
così estremamente logico ed esatto nel suo pensiero da mettere da parte un’opera
e iniziarne una nuova quando anche una sola proposizione gli sembrasse dubbia.
Cercò continuamente di classificare ogni conoscenza, di sistemare le idee nella
loro propria relazione logica – ad esempio assumendo il particolare sotto il
288
generale – e di analizzare tutte le idee nei loro elementi costitutivi. Bentham è
stato giustamente definito un animale codificatore.
Anche le sue insufficienze, particolarmente nel campo romantico, erano quelle
comunemente associate ai matematici. Dopo cinquantasette anni trascorsi senza
alcun legame con la società delle donne, egli decise di sposarsi e ragionò
scrupolosamente la sua scelta. Fece poi per lettera la proposta di matrimonio a una
donna che non vedeva da sedici anni. La sua proposta fu rifiutata. La logica della
sua proposta rimase però la stessa, e pertanto, dopo altri ventidue anni, durante i
quali ne riesaminò attentamente l’impeccabilità, si rioffrì alla stessa donna,
sperando forse che nel frattempo avesse appreso un po’ di matematica e potesse
quindi rendersi conto della forza logica del suo caso. Evidentemente, però, la
donna era altrettanto certa della sua logica, o intuizione, poiché lo rifiutò di
nuovo.
Ma non soltanto con le donne Bentham ebbe il coraggio delle sue convinzioni
logiche. In un’età in cui le varie organizzazioni religiose erano ancora potenti, egli
affermò recisamente che erano tutte deleterie e combatté l’alleanza di Chiesa e
Stato. Quando si convinse della saggezza della democrazia, osò sostenere il
suffragio universale e l’abolizione della monarchia e della Camera dei Pari. Le
classi privilegiate furono attaccate nel suo Book of Fallacies. Nei suoi scritti
furono attaccati anche individui corrotti, tribunali corrotti e avvocati disonesti; un
pamphlet, The Elements of the Art of Packing (as applied to Special Juries)
furono diretti contro la Corona stessa a causa della pratica seguita nel fissare le
giurie.
L’assioma fondamentale della natura umana di Bentham, secondo cui il piacere
e il dolore sono le realtà che sottostanno alla natura umana e che la determinano, è
già stato menzionato. L’uomo persegue continuamente il piacere e cerca di evitare
il dolore. Le parole piacere e dolore erano usate, com’è ovvio, in senso molto lato.
Il malanimo ad esempio procura piacere ad alcune persone e dev’essere dunque
annoverato fra i piaceri.
Ora, un sistema di etica in accordo con la scienza della natura umana e di fatto
derivato da essa dev’essere costruito sulle forze motrici del piacere e del dolore.
Bentham postulò pertanto per la sua etica che quegli atti che accrescono la felicità
della gente sono giusti e quelli che la diminuiscono sono sbagliati. Poiché un atto
particolare può piacere ad alcune persone e nuocere ad altre, egli aggiunse che
“Misura del giusto e sbagliato è il massimo bene del massimo numero di
persone.”
Fino a questo punto Bentham riecheggiò e formulò in modo appropriato nel suo
sviluppo dell’etica un pensiero dominante allora assai diffuso. Egli procedette poi
a indagarne le conseguenze e ad affinarlo attraverso l’introduzione di concetti
matematici. Il suo obiettivo era quello di misurare il piacere e il dolore e di
“massimizzare la felicità.” A tal fine il Newton del mondo morale sviluppò il
“calcolo felicifico” (felicific calculus).
Egli elencò innanzitutto quattordici piaceri semplici, come senso, ricchezza,
abilità e potere, e dodici dolori semplici, fra cui, ad esempio, la privazione e
289
l’ostilità. A ciascun atto che causi piacere o dolore può essere assegnata una
misura. Il valore matematico di un tale atto, disse Bentham, dipende da fattori
obiettivi, ossia la sua durata, intensità, certezza, vicinanza, purezza (libertà da altri
piaceri e dolori) e fecondità (tendenza a produrre altri piaceri e dolori). Ciascuno
di questi fattori contribuisce alla misura del piacere o del dolore prodotto
dall’atto. Nel valutare un atto si deve considerare però anche un altro fattore. Un
piacere o un dolore si esercitano su persone, e queste, essendo macchine molto
complesse, differiscono per sensibilità. Se, ad esempio, due individui posseggono
un milione, e mezzo milione viene preso all’uno e dato all’altro, quest’atto
procura meno piacere che dolore poiché la ricchezza di chi riceve il mezzo
milione si accresce di un terzo, mentre chi lo perde perde metà dei suoi averi.
Così la ricchezza è una misura di sensibilità per certi atti. Similmente
l’educazione, la razza, il sesso, il carattere e altri fattori determinano la sensibilità
della gente.
Il valore di un atto può essere ora calcolato come segue. La misura oggettiva
del piacere che esso dà è moltiplicata per la varia sensibilità delle persone
implicate e questi prodotti vengono poi sommari. Il numero ottenuto è considerato
positivo. Il dolore che questo stesso atto può indurre in persone è poi calcolato
nello stesso modo e considerato negativo. Il valore dell’atto risulta dalla somma di
questi numeri positivi e negativi. Con questo “calcolo” non soltanto otteniamo il
valore di un atto ma possiamo anche paragonare fra loro due diversi
comportamenti.
Le applicazioni pratiche vennero ben presto. L’aritmetica morale di Bentham fu
applicata da alcuni per stabilire se fosse giusto chiedere la vaccinazione
antivaiolosa. Poiché a quell’epoca c’erano bambini che morivano per il vaiolo, il
procedimento non era approvato universalmente. I proponenti della vaccinazione
sostenevano che se il 10 per cento dei bambini vaccinati morivano a causa della
vaccinazione mentre il 50 per cento del gruppo sarebbero morti altrimenti per la
malattia, allora l’inoculazione era giustificata poiché la sopravvivenza di un
numero maggiore era un bene per tutta la società.
Questo tipo di argomentazione, come pure l’intero approccio algebrico di
Bentham alla moralità, può darci l’impressione di un’intrusione della matematica
in campi che non sono di sua competenza. È certamente vero che le misure di
valore escogitate da Bentham non possono essere calcolate facilmente. Questa
deficienza dev’essere però tollerata. “I logici rigorosi sono visionari autorizzati.”
Ciò che conta è che Bentham portò audacemente il vessillo della ragione in campi
di pensiero dominati in precedenza da un tradizionalismo autoritario e che ricercò
un approccio razionalistico a un sistema di etica al servizio dell’uomo comune.
Con lui la scienza dell’etica fu fondata non su precetti religiosi o su
razionalizzazioni di modelli sociali esistenti bensì sulla scienza della natura
umana. Non la volontà di Dio bensì la natura dell’uomo dava origine alla nuova
etica. La virtù, in particolare, non doveva più essere remunerata dal cielo ma
doveva essere premio a se stessa. L’applicazione della filosofia di Bentham
sarebbe desiderabile anche oggi.
290
I teorici dell’etica, esemplificati da Bentham, erano riusciti a realizzare il piano
fondamentale; essi avevano eretto cioè sistemi logici di etica utilizzando le leggi
della natura umana e assiomi speciali sul comportamento dell’uomo verso il suo
simile. I teorici politici procedevano a fare lo stesso. Spronati dalla fiducia di
David Hume sulla possibilità di fare della politica una scienza, essi ricercarono
assiomi per la loro scienza particolare e, ovviamente, varie scuole di pensiero
scelsero assiomi diversi. Alcuni, come Hobbes, cercarono assiomi che
giustificassero la monarchia assoluta; altri, come Voltaire, cercarono di assicurare
il dispotismo illuminato; altri ancora, come Bentham, argomentarono a favore
della democrazia.
Fra le varie teorie politiche che furono sviluppate, almeno due sono di
importanza incomparabile per i nostri tempi, ossia quelle di Locke e di Bentham.
Locke intraprese il compito di portare in luce le origini naturali e la raison d’être
dei governi, ossia il fondamento logico della loro esistenza; la storia reale della
loro origine non aveva alcuna importanza ai fini di questa ricerca. La sua
argomentazione prese l’avvio da una dottrina tratta dalla sua famosa teoria della
conoscenza. Tutti gli uomini nascono assolutamente privi di ogni conoscenza. Sia
il loro carattere sia le loro conoscenze sono acquistati attraverso l’esperienza.
Poiché, perciò, le differenze essenziali fra uomini sono dovute all’ambiente, è
giusto dire che tutti gli uomini nascono uguali. In questo ipotetico stato originario,
che nel Settecento fu chiamato stato di natura, tutti gli uomini posseggono diritti
naturali e inalienabili, come la libertà, e sono guidati dalle leggi della ragione. Al
fine di assicurare la protezione della vita, della libertà e della proprietà, gli uomini
stipularono un “contratto sociale”, che dava al governo il diritto di definire e di
punire i reati contro la società. Quando si impegnarono in questo contratto, gli
uomini accettarono di essere guidati dal volere della maggioranza; si supponeva
che il governo interpretasse tale volontà e agisse di conseguenza. Perciò se i capi,
e principalmente i legislatori, avessero tradito gli altri contraenti del patto, la
rivolta sarebbe stata giustificata. Un esame ragionato della natura del governo
rispondeva pertanto a domande come perché esso esisteva, da dove traeva il suo
potere, quando usurpava questo potere e che cosa si poteva fare nel caso di un
potere tirannico.
In nessun testo la filosofia di Locke del governo e dell’approccio razionale ad
esso è espressa in modo così succinto come in un famoso documento
“matematico” del Settecento, la Dichiarazione d’Indipendenza americana, che cita
di fatto molte frasi di Locke:
Riteniamo che le seguenti verità siano evidenti, ossia che tutti gli uomini siano creati uguali,
che essi siano dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, che fra questi ci siano la vita, la
libertà e la ricerca della felicità. Che per assicurare questi diritti vengano istituiti fra gli uomini
dei governi, i quali traggono i loro poteri legittimi dal consenso dei governati. Che ogni volta
che una qualsiasi forma di governo diventi distruttiva nei confronti di questi fini, è diritto del
popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, fondandolo su tali principi e
organizzandone i poteri in forma tale che essi appaiano i più appropriati a realizzare la propria
sicurezza e felicità.
291
L’argomentazione comincia, come si osserva subito, con l’asserzione di verità
evidenti, equivalenti agli assiomi che sono alla base di ogni sistema matematico.
Il documento procede poi enunciando fatti i quali dimostrano che il re non ha
fornito al popolo quei diritti che, secondo gli assiomi citati sopra, i governi
dovrebbero assicurare. Perciò, in virtù di un altro di questi assiomi, il popolo era
giustificato ad abolire questo governo e a istituirne un altro.
Le concezioni personali dell’autore del documento si spingevano ancor oltre.
Ogni generazione, disse Thomas Jefferson, dovrebbe stipulare il suo proprio
contratto sociale. Egli calcolò che ogni diciotto anni e otto mesi moriva la metà
delle persone che avevano più di ventun anni di età. Perciò ogni diciannove anni
dovrebbe esserci un nuovo contratto e una nuova costituzione. Molto più
importante della forma matematica della Dichiarazione d’Indipendenza è la
filosofia politica che essa esprime. Molto acuta è la frase di apertura.
Quando, nel corso degli eventi umani, si rende necessario per un popolo sciogliere i legami
politici che lo hanno unito a un altro e assumere fra le potenze della terra quel posto separato e
uguale a cui le leggi della natura e del Dio della natura lo qualificano, un doveroso rispetto per
le opinioni dell’umanità richiede che esso dichiari le cause che lo costringono alla separazione.
L’espressione chiave è “le leggi della natura”. In essa è espressa in modo
esplicito la convinzione settecentesca che l’intero mondo fisico, compreso
l’uomo, è ordinato a opera di leggi della natura. Questa convinzione era fondata
ovviamente sull’evidenza del disegno razionale del mondo svelato dai matematici
e dagli scienziati dell’èra newtoniana. Poiché tali leggi esistevano, esse dovranno
determinare gli ideali, il comportamento e le istituzioni degli uomini. Una legge
di governo valida doveva essere una legge naturale.
Altrettanto significative sono le parole “Dio della natura”. La volontà di Dio e
il suo sostegno sono stati invocati ovviamente in aiuto di molte cause diverse e
anche opposte. Qui, nondimeno, non si tratta della volontà di Dio quale è nota
all’uomo attraverso la Rivelazione o le Scritture; è Dio che parla attraverso la
natura. La Ragione svela la Sua volontà, poiché la ragione, essendo parte
dell’uomo, è parte della natura. Di fatto, i pensatori del Settecento identificavano
praticamente la “retta ragione" e la natura.
La Dichiarazione fu scritta da un piccolo gruppo di capi politici, i quali
cercavano di giustificare la rivolta nei confronti della Gran Bretagna. Questa
giustificazione ricevette il sostegno del popolo poiché ne esprimeva le
convinzioni. Come lo stesso Jefferson sottolineò, egli non aveva inventato nuove
idee o sentimenti ma aveva espresso semplicemente ciò che tutti pensavano. Fu
questa filosofia politica popolare, più della legge sul bollo o della tassa sul tè, a
promuovere la Rivoluzione americana. Di fatto, sia la Rivoluzione americana sia
la Rivoluzione francese furono considerate da molti il trionfo della natura e della
ragione sull’errore.
Un razionalismo di tipo matematico e la dottrina dei diritti naturali, applicati
alla politica, produssero una nuova filosofia del governo e infusero negli uomini
una determinazione alla rivolta contro l’ingiustizia. Ma la dottrina dei diritti
292
naturali non andò molto lontano nell’Ottocento. Molti fra i capi della rivolta, e
particolarmente Hamilton, Madison e John Adams, erano interessati più alla
protezione della proprietà privata che ai diritti delle masse. Inoltre, molti
consulenti legali identificavano i diritti naturali con gli interessi della nascente
classe mercantile, la quale desiderava essere libera da interferenze del governo per
accumulare più denaro, oppure riservavano la dottrina ai diritti naturali degli
uomini liberi, convalidando così lo schiavismo. In Inghilterra il diritto naturale dei
manovali all’istruzione fu negato adducendo il motivo che essa li avrebbe resi
insoddisfatti della loro sorte, li avrebbe resi indocili e avrebbe consentito loro di
leggere libretti sediziosi, libri immorali e pubblicazioni contro il cristianesimo.
Inoltre, avendo ispirato la Rivoluzione francese, la dottrina dei diritti naturali fu
accusata dei mali che ne erano seguiti, come il Terrore e il governo dispotico di
Napoleone. Per tutte queste ragioni la dottrina perse prestigio e sostegno. Di
conseguenza il principio della democrazia, secondo cui i governi traggono i loro
poteri dal consenso dei governati, perse il suo fondamento teorico e l’attuazione
pratica della democrazia avrebbe potuto soffrirne. Fortunatamente la filosofia
della democrazia moderna fu nuovamente fondata da Bentham, il quale senti,
forse ancor più di Locke, il carattere cogente della ragione. La nuova filosofia si
chiama utilitarismo.
Bentham espose le sue concezioni sulla natura umana e sul sistema di etica
nella sua Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789). Questo
medesimo libro trattava della scienza del governo e fece di fatto della scienza
politica, distinta dall’arte del governo, una branca della filosofia morale. Bentham
mise da parte i diritti naturali e la volontà di Dio e ricercò per il governo una base
puramente razionale. Per lui la verità primaria ovvero l’assioma fondamentale in
campo politico era che un governo doveva ricercare la massima felicità per il
massimo numero di persone. Da questo principio fondamentale egli dedusse
molte conclusioni. La giustizia non è un fine in sé; essa è piuttosto il mezzo per
accrescere la quantità totale di felicità. La legge deve considerare le conseguenze
delle azioni, non i motivi, poiché quel che importa è solo l’effetto degli atti sulla
felicità della società. In criminologia Bentham contribuì con la deduzione che la
legge deve scoraggiare con punizioni gli atti che diminuiscono la felicità. Poiché
però la punizione significa dolore, essa dev’essere inflitta solo quando serve a
prevenire dolori maggiori.
Bentham ponderò poi questo apparente paradosso: i governanti ricercano
naturalmente la loro propria felicità mentre il governo dovrebbe ricercare la
massima felicità del massimo numero di persone. In che modo questi opposti
interessi possono essere riconciliati? Soltanto assicurando un’identità di interessi
fra governanti e governati. Questo risultato può essere ottenuto ponendo il potere
nelle mani di tutti. La democrazia è dunque la forma preferita di governo. Per
confermare l’argomentazione, Bentham si appellò all”“ininterrotta e notissima
esperienza degli Stati Uniti.” In tale paese, egli asserì, non c’erano corruzione né
dispendi inutili e nessuno dei mali che dominavano in Gran Bretagna.
293
Il famoso discepolo di Bentham, James Mill, affrontò il problema di chi
dovrebbe costituire l’elettorato in una democrazia. Dopo aver eliminato i votanti i
cui interessi sono ben protetti da altri votanti, come, ad esempio, gli interessi delle
mogli lo sono, a giudizio di Mill, dai mariti, egli concluse che dovessero votare
soltanto gli uomini al di sopra dei quarant’anni.
Bentham può aver peccato nel valutare la situazione degli Stati Uniti ma la sua
argomentazione a favore della democrazia era molto efficace. L’americano medio
è un utilitarista anche quando non ha mai sentito questa parola. Il massimo bene
di Bentham per il massimo numero di persone e la filosofia lockiana dei diritti
naturali e del contratto sociale plasmarono la democrazia americana, e vennero
fusi in essa.
Non abbiamo bisogno di considerare oltre il corso delle ideologie politiche. I
teorici non furono complessivamente in grado di fondare una scienza del governo
dotata della stessa efficacia della teoria matematica del cielo. Essi non fecero
forse altro che giustificare e proclamare l’ascesa politica dell’uomo comune.
Grazie al loro tipo d’indagine razionale essi ebbero almeno il merito di isolare e
formulare i fini, gli ideali e gli slogan della tendenza democratica.
La piena realizzazione della democrazia non poteva verificarsi finché non si
fossero verificati mutamenti nella filosofia e nella forma delle istituzioni
economiche dell’uomo, poiché l’uomo che è politicamente libero ma
economicamente schiavo gode nel caso migliore soltanto un’illusione di libertà. I
grandi pensatori del Settecento già impegnati nel compito di riorganizzare tutto il
sapere furono ancor più sollecitati a mettere assieme un pensiero economico
dall’approssimarsi della Rivoluzione industriale.
La nuova scienza dell’economia seguì le linee razionali, matematicamente
ispirate, dei teorici dell’etica e della politica. Alla base di essa sarebbe stata la
scienza della natura umana. Ad essa furono aggiunti gli assiomi dell’economia
vera e propria. La deduzione delle leggi economiche ne sarebbe derivata
facilmente.
Le due scuole principali del pensiero economico del Settecento, i fisiocrati,
ispirati da François Quesnay, e i classicisti inglesi guidati da Adam Smith e più
tardi da John Stuart Mill, erano in accordo fra loro circa l’esistenza di verità
economiche assiomatiche. Essi erano d’accordo anche sul fatto che leggi eterne e
immutabili governano i fenomeni economici oltre che quelli naturali. (Il vocabolo
“fisiocrazia” significa governo della natura.) Era perciò possibile pervenire a una
scienza naturale della ricchezza. Gli economisti dovevano svelare le leggi e
proclamarle.
Gli assiomi adottati da queste scuole di pensiero sono familiari a tutti e sono
ancora, principalmente, le concezioni dominanti. Gli individui agiscono nel loro
proprio interesse. Ugualmente assiomatici sono i diritti alla libertà, alla proprietà e
alla sicurezza e la proposizione che la terra e (o) il lavoro sono le uniche fonti
della ricchezza.
Da tali assiomi non era difficile dedurre i teoremi del libero scambio e della
competizione senza restrizioni, dottrine incorporate nell’espressione laissez faire,
294
laissez passer. Ogni interferenza con gli sforzi normali e naturali dell’uomo per
procurarsi i mezzi di sussistenza era un’interferenza col disegno divino
dell’universo ed era perciò presunzione. In particolare, il governo non doveva
interferire negli affari. Gli affari dovevano esser lasciati agli uomini d’affari, il cui
spirito illuminato avrebbe garantito un funzionamento efficace del sistema
economico. Il governo doveva limitarsi semplicemente a garantire e a proteggere i
diritti contrattuali. I fisiocrati, i quali ritenevano che la terra fosse la sola fonte di
ricchezza, erano i sostenitori di una sola tassa, sulla terra; Adam Smith, invece,
considerava unica fonte di ricchezza il lavoro e pertanto, nonostante la profonda
simpatia e interesse per i problemi dei lavoratori, preferiva una sola tassa sui
redditi.
In queste teorie economiche c’erano assiomi e deduzioni nello spirito
matematico ma non c’erano leggi che correggessero i mali economici della
società. Questi economisti, benché inconsciamente, stavano dalla parte delle classi
mercantili e manufatturiere. I teorici derivavano dall’atteggiamento razionalistico
del tempo semplicemente ciò di cui avevano bisogno per costruire una difesa
logica della dottrina del laissez faire. Di fatto, man mano che l’industrializzazione
progrediva rapidamente all’inizio dell’Ottocento, questa dottrina falliva
miseramente nel compito di mitigare le sofferenze della classe lavoratrice. Essa si
limitò a giustificare il fatto che i ricchi diventavano sempre più ricchi e che i
poveri diventavano poverissimi. Le disuguaglianze e le ingiustizie divennero così
stridenti che gli economisti si sentirono infine costretti a difendere l’esistenza di
grandi masse che lavoravano in fabbriche a salari da farne. Il loro metodo consiste
di nuovo nella ricerca di leggi naturali al fine di stabilire che tale era il disegno di
Dio e che era inevitabile che anche donne e bambini piccoli dovessero lavorare
duramente per sedici ore al giorno nelle fabbriche.
Thomas R. Malthus trovò la risposta nelle leggi della popolazione. Le
conclusioni che egli cercava erano così evidenti che egli poté scrivere il suo Essay
on the Principles of Population (Saggio sui principi della popolazione) senza aver
gettato un’occhiata sul mondo attorno a sé. Il libro fondò la fama di Malthus come
studioso autorevole e gli valse una cattedra di storia ed economia politica.
Malthus comincia così:
Penso di poter porre due postulati. [Le argomentazioni cominciano di solito con assiomi]
Primo, che il cibo è necessario all’esistenza dell’uomo. Secondo, che la passione fra i sessi è
necessaria e si conserverà press’a poco nel suo stato presente... Supponendo poi i miei postulati
come certi, dico che la capacità della popolazione di accrescersi è indefinitamente maggiore del
potere della terra di produrre mezzi di sussistenza.
Nel linguaggio di John Adams: l’uomo ha due desideri, il cibo e la sua donna.
Ma il secondo desiderio è così intenso da fargli dimenticare il primo ed egli
contrae sconsideratamente un matrimonio da cui nascono figli. Perciò la
moltiplicazione della popolazione supera di gran lunga la moltiplicazione dei
mezzi di sussistenza.
295
Forse per acquistare qualcosa dell’autorità di una dimostrazione matematica,
Malthus afferma che la popolazione cresce in progressione geometrica mentre i
mezzi di sussistenza di una determinata area crescono solo in progressione
aritmetica. Egli stima che la popolazione si raddoppi ogni venticinque anni. In
assenza di altri fattori, essa si moltiplicherà in due secoli per 256, mentre nello
stesso tempo i mezzi di sussistenza cresceranno di un fattore 9.
Malthus si rese conto però che le popolazioni attuali non crescono in
progressione geometrica. Perché? La risposta è che l’inedia, la malattia, il vizio e
le guerre bloccano l’accrescimento delle popolazioni.
Questi mali apparenti sono in realtà, a lungo termine, benefici; essi sono risorse
della natura, atroci ma necessarie. Poiché questi eventi sono parte del piano
divino, nessuna legislazione può alleviare la miserabile sorte dell’uomo. Non può
esistere alcuna società in cui tutti i membri possano vivere nel benessere, nella
felicità e nell’agio. Malthus sottolineò la desiderabilità di una limitazione
dell’istruzione, in modo che la gente non avesse figli che non fosse in grado di
mantenere. Egli avrebbe aggiunto al decalogo un undicesimo comandamento:
“Non sposarti finché non avrai buone prospettive di poter mantenere sei figli.”
La giustificazione di condizioni sociali miserabili mediante il ricorso a leggi
naturali non ebbe termine con Malthus. Un altro famoso economista che raccolse
questa causa fu David Ricardo. Innanzitutto egli isolò e classificò i fattori che
hanno parte nella vita economica, ossia il capitale, il lavoro, il valore, l’utilità, i
noli, i salari, i profitti e così via. Ogni cosa negli affari, disse Ricardo, segue leggi
naturali inevitabili, implicanti questi fattori; tali leggi possono esser dedotte da
postulati. Ad esempio, era evidente che il prezzo di un bene era determinato
dall’offerta e dalla domanda. Questo postulato, applicato al bene manodopera,
implicava che anche questa avesse un prezzo naturale. Se i salari fossero saliti
oltre questo livello, i lavoratori avrebbero avuto famiglie più estese, con la
conseguenza di accrescere la quantità di mano d’opera disponibile, determinando
quindi una riduzione dei salari. Non aveva senso quindi aumentare i salari.
Ricardo compendiò queste considerazioni nella sua famosa legge dei salari: “Il
prezzo naturale del lavoro è quel prezzo che è necessario per consentire ai
lavoratori, uno per l’altro, di sostentarsi e di perpetuare il loro gruppo senza
aumenti o diminuzioni.” Era perciò naturale per Ricardo, come per Malthus, che
esistessero povertà, miseria e farne. Era naturale anche che lavoratore,
proprietario terriero e capitalista fossero in antagonismo fra loro. Tutte queste
leggi, e le condizioni che esse causavano, erano i decreti di una Provvidenza
lungimirante.
Col procedere dell’industrializzazione, la “scienza” dell’economia si rivelò
sempre più incapace di trattare i problemi principali della società. Di fatto, essa si
opponeva ai movimenti di riforma, ai sindacati, alla legislazione riparatrice e alle
istituzioni assistenziali, cosicché invece di servire l’uomo la scienza serviva i suoi
nemici.
Il movimento razionalistico in economia non si è però esaurito. I prodigi della
scienza fisica furono ancora più splendidi, e il potere della matematica ancor più
296
evidente, nell’Ottocento che non nel Settecento. Eppure la teoria economica, pur
avendo adottato i metodi della matematica e della scienza, era in una confusione
ancora maggiore. Il difetto, secondo alcuni economisti, stava nel fatto che, pur
avendo usato il metodo matematico e avendo ricercato leggi naturali, essi non
avevano usato la matematica in una misura degna di nota. Forse essi avevano fatto
il passo più lungo della gamba. Poteva esser meglio mettere in pratica il metodo
del divide et impera.
Gli economisti tentarono allora di applicare l’approccio quantitativo, deduttivo
a fenomeni speciali invece che a interi settori, di compiere investigazioni parziali
invece che generali. Il primo obiettivo era in ciascun caso quello di trovare la
formula o le formule fondamentali che governavano il fenomeno particolare. Il
secondo era quello di usare queste formule e tecniche matematiche per dedurre
conclusioni. In questo tipo più limitato di comportamento gli economisti
ottennero successi molto maggiori.
Con la pubblicazione, nel 1838, delle Recherches sur lex principes
mathématiques de la théorie des richesses di Cournot, sorse una nuova scuola nel
pensiero economico, la Scuola matematica, nella quale rientra anche 1’opera di
Vilfredo Pareto nel nostro secolo. Per illustrare il metodo seguito da questa scuola
nell’affrontare problemi specifici, descriveremo brevemente il lavoro compiuto da
due americani contemporanei, Raymond Pearl e Lowell J. Reed, sul problema
importantissimo dell’incremento demografico.
A proposito di quanto segue dobbiamo tenere a mente che non abbiamo alcun
interesse particolare per la popolazione di Middletown nel 1947. Noi desideriamo
studiare le variazioni demografiche in generale per scoprire i fattori fondamentali
piuttosto che quelli accidentali. In accordo con l’impostazione matematica di un
problema, Pearl e Reed prendono l’avvio da assunti ragionevoli:
a) le condizioni fisiche costituiscono un limite superiore, indicato con L, alla
popolazione di una regione o di un paese;
b) il ritmo di accrescimento della popolazione è proporzionale alla popolazione
esistente;
c) il ritmo di accrescimento della popolazione è proporzionale alle possibilità
d’espansione della popolazione, ossia alla differenza fra L e la popolazione esistente.
Questi assiomi suggeriscono al matematico un’equazione differenziale che può
essere risolta facilmente. Il risultato è una formula generale per l’accrescimento
della popolazione. Se y sta per la popolazione di un paese t anni dopo una certa
data fissata, allora la formula è
(1) 𝑦 =L
1+a(2,718)𝑘𝑡
dove a e k sono numeri i cui valori dipendono dalla regione cui la formula (1) è
applicata.
297
Il lettore non ha bisogno di darsi gran pena per capire i particolari della formula
(1). La figura 68 illustra la forma della curva corrispondente a questa formula.
Nota come curva logistica, essa rappresenta nella sua interezza un cosiddetto ciclo
di accrescimento. La linea spezzata indica in che modo la popolazione muterebbe
se crescesse indefinitamente secondo la progressione geometrica, come asseriva
Malthus.
Fig. 68. La curva di incremento demografico.
La formula (1) esprime una legge generale dell’incremento demografico, la
quale ci dice in che modo dovrebbero comportarsi grandi masse di popolazione.
Ma si comporteranno in tal modo? I valori di a e di k nella formula (1) furono
determinati, con appena un po’ d’algebra applicata alle statistiche demografiche
degli Stati Uniti dal 1790 al 1910, da Pearl e Reed. La formula generale per
l’incremento demografico degli Stati Uniti risultò allora essere la seguente
(2) 𝑌 =197,274
1+67,32(2,718)−0,0313𝑡
dove t è il numero degli anni a partire dal 1780 e y è la popolazione in milioni.
La figura 69 presenta la curva corrispondente alla formula (2). I cerchietti
rappresentano i dati reali. Le porzioni tratteggiate della curva prima dell’anno
1790 e dopo il 1910 rappresentano la tendenza richiesta dalla formula (2).
Possiamo vedere che i dati in nostro possesso per gli anni compresi fra il 1790 e il
1910 giacciono sulla curva della formula (2).
Con quanta precisione la formula rappresenta ciò che accadde dopo il 1910?
Secondo la formula, nel 1930 la popolazione degli Stati Uniti avrebbe dovuto
essere di 122 397 000 individui mentre il censimento diede 122 775 000
individui. Per l’anno 1950 la formula predisse una popolazione di 148 400 000
individui; il censimento diede invece 150 700 000. Pare dunque che fra la teoria e
i fatti ci sia un accordo molto buono.
298
Dalla formula (2) possiamo dedurre varie altre conclusioni interessanti. La
formula dice che il limite superiore della popolazione è 197 274 000 individui e
che questo valore sarà quasi raggiunto nel 2100. Un’altra deduzione dalla formula
di Pearl-Reed è che gli Stati Uniti hanno superato il punto di più rapido
accrescimento nel 1914. Lo studio reale dell’incremento demografico dimostra
quindi che un approccio teorico, puramente razionale, al problema ha prodotto
una formula o legge che rappresenta i fatti, almeno nei loro aspetti più generali.
Neppure gli studi più ristretti nel campo dell’economia matematica, quali Fig.
69.
sono quelli esemplificati dall’opera di Pearl e Reed, sono stati sempre
produttivi, in gran parte perché non sono state trovate premesse corrette. Troppo
spesso dietro una mole enorme di simbolismo matematico si cela l’assenza di
qualsiasi contributo reale a un problema. Non c’è tuttavia alcun dubbio sul fatto
che l’approccio matematico deduttivo a problemi economici specifici ha prodotto
qualche conoscenza utile.
Un ottimismo illimitato a proposito dell’applicabilità e dell’efficacia della
matematica ha condotto ad alcune conclusioni bizzarre. Uno psicologo tentò di
derivare una formula per l’intensità delle emozioni e cominciò del tutto
naturalmente con l’amore. Egli ne concluse che l’amore fra un uomo e una donna
varia in modo direttamente proporzionale al tempo di associazione e in modo
inversamente proporzionale al cubo della distanza fra loro. In questa “legge”
abbiamo una formulazione matematica del detto popolare “lontan dagli occhi
lontan dal cuore.”
Un’altra formula matematica un pò sospetta fu derivata dal filosofo David
Hartley. Egli offrì una versione tascabile della sua filosofia morale e religiosa
Figura 69 Incremento demografico degli Stati Uniti.
299
nella formula M = T2 : A, dove M è l’amore del mondo, T è il timor di Dio e A è
l’amor di Dio. È necessario aggiungere solo, disse Hartley, che man mano che
l’individuo invecchia, A aumenta diventando di fatto infinito. Ne segue che M,
l’amore del mondo, diminuisce fino ad approssimarsi a zero. Questo è il
compendio e la sostanza della verità morale.
Abbiamo esaminato l’influenza della matematica stessa e dello spirito razionale
generato dalla matematica sulla scienza dell’uomo. Nella misura in cui tale spirito
predisse, con eccessivo ottimismo, la scoperta di leggi naturali, universali, del
comportamento umano e la conseguente soluzione di tutti i problemi sociali, esso
era ovviamente sbagliato. L’uomo, nel complesso, non è riuscito a capire e a
predire il suo comportamento. Il suo corpo, le sue emozioni e i suoi desideri si
rifiutano apparentemente di obbedire a leggi rigide o di sottomettersi a una
regolamentazione matematica. Nessun pensatore, quanto meno, ha finora
realizzato un approccio quantitativo, deduttivo, a un’intera scienza sociale che ci
consenta di dirigere, controllare e predire fenomeni in tale campo. Il successo è
mancato particolarmente nel campo dell’economia.
Perché proprio l’uomo è il tallone di Achille dell’uomo? Una ragione
dell’inesistenza di una qualche scienza della società fu data da Hobbes molto
tempo fa. “Non ho alcun dubbio che se il fatto che i tre angoli di un triangolo
sono uguali a due angoli di un quadrato fosse stato contrario al diritto di dominio
di qualche uomo, tale dottrina sarebbe stata, se non discussa, almeno soppressa
bruciando tutti i libri di geometria, se la persona interessata ne fosse stata in
grado.”
Forse la critica più severa che può essere diretta contro gli studiosi
settecenteschi e ottocenteschi delle scienze sociali è che essi erano troppo
matematici e non sufficientemente scientifici. Essi desideravano trovare assiomi o
principi generali da cui derivare facilmente la scienza della politica o
dell’economia. Pochissimi, però, come Montesquieu, avrebbero esaminato la
società in sé, prima di tutto per controllare la correttezza dei loro assiomi e poi per
verificare le loro deduzioni.
Quali che possano essere i meriti e le insufficienze dell’approccio deduttivo
alle scienze sociali e psicologiche, un valore è preminente. Il concetto stesso di
una scienza dell’etica, della politica, dell’economia o della psicologia e lo stimolo
a creare tali scienze derivano direttamente dal fecondante razionalismo dell’età
newtoniana. Di conseguenza, la chiara luce della ragione ha quanto meno
irraggiato campi annebbiati dalla tradizione, dall'abitudine e dalla superstizione.
In particolare, il tentativo di affrontare in modo ragionevole il problema del
governo, invece di accettare semplicemente le istituzioni stabilite, aprì gli occhi
degli uomini a disuguaglianze, ingiustizie e crudeltà. Ciò che il razionalismo
greco fece per la matematica, lo spirito matematico lo fece a sua volta per questi
campi del pensiero vaghi, mal definiti, confusi: esso “costruì l’edificio della
Ragione sulle rovine dell'opinione.”
300
XXII. La teoria matematica dell’ignoranza: l’approccio
statistico allo studio dell’uomo
Ciò che ovunque opprime 1’uomo pratico è il
gran numero di cose e di eventi che accadono
incessantemente attorno a lui, e il flusso dei quali
egli non può arrestare. Ciò di cui egli ha bisogno è
la comprensione dei grandi numeri.
THEODORE MERZ
Una buona regola del bridge, quando non si hanno buone carte, è di cominciare
dal seme più debole. Come vedremo, questa regola funziona bene anche per
“mani” scientifiche. Essa fu applicata con un successo notevole da cultori delle
scienze sociali quando si resero conto di non avere carte del seme di atout.
La tattica dei matematici e dei fisici può essere descritta in sintesi come a
priori e deduttiva. Riflettendo con cura su tutte le conoscenze disponibili su un
fenomeno, essi ottengono principi fondamentali generali che servono come
assiomi. Il ragionamento deduttivo produce poi nuove conclusioni e nuovo
sapere. In questo approccio “a tavolino” l’osservazione e la sperimentazione
possono contribuire ad arrivare ai primi principi o a verificare le deduzioni ma
l’agente effettivo è la mente, non i sensi.
L’approccio deduttivo, a priori, ha deluso gli scienziati sociali per ragioni
molto precise. La principale consiste forse nel fatto che i fenomeni che essi
studiano sono estremamente complessi. Anche in problemi relativamente limitati
sono in gioco tanti fattori che è impossibile isolarne gli elementi dominanti. In
che modo renderemmo ragione, ad esempio, di un periodo di prosperità
nazionale? Una tale felice situazione dipende da risorse naturali, dalla quantità di
mano d’opera disponibile, dai capitali presenti, dal commercio con l’estero, dallo
stato di guerra o di pace, da considerazioni psicologiche e da altre variabili. Non
sorprende quindi che nessuno abbia colto il nocciolo del problema. Se un
economista dovesse tentare di semplificare il problema facendo assunti su alcune
fra le variabili in gioco, renderebbe probabilmente il problema così artificiale da
separarlo totalmente dalla situazione reale.
In molti casi l’approccio deduttivo, a priori, non è stato possibile non essendoci
praticamente conoscenze su cui lavorare. Il trattamento di alcune malattie non può
essere prescritto senza conoscenza delle cause ed essendoci troppo poche
informazioni sui fattori che ne favoriscono la diffusione. Vaste parti della chimica
del corpo e del funzionamento del cervello sono misteri totali per i biologi. Il
301
meccanismo dell’eredità fisica é quasi un libro chiuso. In questi campi è difficile
iniziare analisi.
In alcuni problemi è vero, paradossalmente, l’inverso, ossia non si sono potute
trovare le leggi fondamentali a causa dell’eccesso di informazioni disponibili. Un
gas è composto da molecole che si attraggono reciprocamente in accordo con la
ben nota forza di gravità. Le molecole sono inoltre soggette alle leggi newtoniane
del moto. Se un volume dato di gas contenesse soltanto due o tre molecole, il
comportamento del gas potrebbe essere predetto, così come gli scienziati sono in
grado di predire e predicono il comportamento dei pianeti. Ma in condizioni
normali un decimetro cubico di gas contiene circa 2 1022
(due seguito da 22
zeri) molecole. Ogni molecola esercita un effetto su tutte le altre in accordo con la
legge della gravitazione. È chiaro che non possiamo studiare il comportamento di
questo volume di gas sommando gli effetti di tutte le singole molecole l’una
sull’altra. Si rende pertanto necessario un metodo che consenta il trattamento di
un gran numero di molecole come se fossero un’unità.
Un altro motivo di insoddisfazione nei confronti dell’approccio deduttivo, a
priori, ai problemi sociali fu peculiare all’Ottocento. La Rivoluzione industriale
introdusse una produzione di fabbrica su vasta scala e condusse al crescere delle
popolazioni urbane. Da questi sviluppi emersero numerosi problemi sociali
connessi con variazioni di popolazione, disoccupazione, produzione e consumo in
grandi quantità di beni, assicurazione contro i rischi in imprese di grandi
proporzioni e malattie propagate da condizioni di vita non igieniche in quartieri
sovrappopolati. Questi problemi si presentarono in massa ai cultori di scienze
sociali, accumulandosi così rapidamente che, anche ammesso che essi avessero
potuti risolverli con un approccio deduttivo, ci sarebbe voluto molto più tempo di
quello che si sarebbe potuto risparmiare dopo. Questo metodo, anche quando fu
applicato da geni come Copernico, Keplero, Galileo e Newton, richiese più di un
secolo per produrre le leggi del moto e della gravitazione. Non ci si poteva certo
attendere che esso fornisse risultati più rapidamente nei campi sociale e medico.
Per tutte queste ragioni il metodo deduttivo non poteva essere applicato dai
cultori delle scienze sociali e sembrava necessario un nuovo metodo per
affrontare questo tipo di problemi. Se qualcuno si fosse soffermato a pensare
quanto si richiedeva a un nuovo metodo per ottenere leggi scientifiche, avrebbe
potuto disperare di riuscire mai a trovarlo. Esso doveva fornire risultati
rapidamente: doveva compendiare gli effetti di molte variabili agenti in una
situazione; doveva riuscire dove la comprensione mancava del tutto; doveva
racchiudere gli effetti di milioni e milioni di elementi inclusi in un fenomeno; e
doveva misurare gli effetti di fattori di per sé non misurabili. Nonostante queste
domande disordinate, fu creato un nuovo approccio ai problemi scientifici che
tenne conto di tutte.
Il nuovo approccio prendeva l’avvio dall’analisi della situazione. Qui,
ragionavano i sociologi, abbiamo fenomeni di cui non comprendiamo la natura
essenziale o, se la comprendiamo, come nel caso del moto delle molecole di un
302
gas, essa non ci dà alcun vantaggio, e pertanto a fini pratici è come se la
ignorassimo. Non possediamo pertanto i principi fondamentali di carattere
generale che potrebbero servire di base a un approccio deduttivo. La nostra
debolezza sembra consistere d’altra parte nel fatto che ci troviamo di fronte a una
quantità enorme di meri fatti caotici che ci sopraffanno e che sottolineano la
nostra ignoranza.
A questo punto i sociologi si ricordarono delle regole del bridge. Non
possedendo i principi fondamentali che potevano servire come carte del seme di
atout, decisero di cominciare dal seme più debole. Se non possiamo capire in che
modo le precipitazioni incidono sulla vegetazione, essi dissero, misuriamo
nondimeno in quale misura incidono. Se non sappiamo perché la vaccinazione
previene numerosi decessi, classifichiamo i risultati di questa pratica. Se non
possiamo spiegare il fenomeno complesso della prosperità nazionale, stabiliamo
un coefficiente idoneo e facciamo il grafico della sua ascesa e diminuzione. Se
non comprendiamo il meccanismo dell’eredità in piante, animali o esseri umani,
facciamo riprodurre le specie e registriamo ciò che rivelano generazioni
successive. Facciamo del mondo il nostro laboratorio e facciamo statistiche su ciò
che vi avviene.
La semplice raccolta di statistiche non era un pensiero nuovo poiché statistiche
si trovano nella Bibbia e in documenti antichi. Di nuovo c’era la nozione, che pare
si sia affacciata per la prima volta al prospero mercante inglese di capi di vestiario
John Graunt, che la statistica potrebbe servire come arma importante
nell’affrontare i problemi delle scienze sociali. Graunt aveva studiato per
passatempo i dati dei decessi di talune città inglesi e aveva osservato che in esse si
avevano percentuali uguali di morti accidentali, di suicidi e di decessi per
malattia. Eventi che, considerati superficialmente, sembravano prodotti del caso,
rivelavano in realtà una regolarità sorprendente. Graunt scoprì anche l’eccesso
delle nascite di maschi su quelle di femmine. Su questa statistica egli fondò
un’argomentazione: poiché gli uomini sono soggetti ai casi dell’occupazione
professionale e al servizio di guerra, il numero degli uomini idonei al matrimonio
è press’a poco uguale al numero delle donne e pertanto la monogamia dev’essere
la forma naturale di matrimonio.
L’opera di Graunt fu sostenuta e incoraggiata dal suo amico Sir William Petty,
professore di anatomia e di musica e, più tardi, medico militare. Benché Petty non
facesse osservazioni singolari come quelle di Graunt, egli è degno di nota
specialmente perché il suo punto di vista era assai ampio. Le scienze sociali,
sottolineò, devono essere quantitative, come le scienze fisiche. Parlando dei suoi
scritti su argomenti medici, matematici, politici ed economici, egli disse: “Il
metodo da me usato non è ancora molto abituale, poiché, invece di usare soltanto
parole comparative e superlative, e argomenti intellettuali, ho adottato il sistema...
di esprimermi in termini di numero, peso e misura, di usare soltanto
argomentazioni sensate e di considerare solo quelle cause che hanno fondamenti
visibili in natura.” Egli diede alla scienza nascente della statistica il nome di
“aritmetica politica” e la definì “l’arte di ragionare mediante cifre su cose attinenti
303
al governo.” Di fatto egli considerò l’insieme dell’economia politica esattamente
come un settore della statistica.
Quando questi inglesi vigili e lungimiranti parlarono a favore delle potenzialità
della statistica e quando un prete del Seicento si servì della statistica per
combattere la superstizione secondo cui le fasi della luna influirebbero sulla
salute, furono concepite nuove basi per la scienza. Il periodo di gestazione durò
circa un centinaio d’anni. In questo tempo la statistica venne a significare in
generale l’informazione quantitativa degna di nota su una nazione, essa fu
considerata cioè una disciplina di competenza di uomini politici. Ben poco fu
fatto fino alla prima parte dell’Ottocento per seguire i suggerimenti contenuti
nell’opera di Petty e di Graunt, ossia per ottenere leggi sulla base di dati. A
quest’epoca un gruppo efficiente di studiosi, consapevoli dell’insufficienza
dell’approccio deduttivo alle scienze sociali, e altrettanto coscienti delle
potenzialità della statistica, cominciarono ad affrontare i problemi principali.
Petty e Graunt furono gli scopritori di un nuovo filone di pensiero. Al fine di
ottenere oro puro, non è però sufficiente limitarsi ai scavare il metallo, per quanto
questo compito possa essere faticoso. L’oro dev’essere setacciato, lavato e
raffinato. Similmente, il semplice accumulo di statistiche vale in sé ben poco
poiché soltanto nei problemi semplici le conclusioni derivano facilmente dai dati
disponibili. L’estrazione di conoscenze da grandi quantità di dati ha luogo a opera
della matematica.
Il più semplice mezzo matematico per la distillazione di conoscenze da dati è la
media. Supponiamo che i dipendenti di una piccola società commerciale ricevano
i seguenti salari settimanali in dollari:
20, 30, 40, 50, 50, 50, 60, 70, 80, 90, 100, 1000, 2000.
Qual è il salario settimanale medio? Di solito si considera la somma di tutti
questi salari e la si divide per il numero dei salari. In questo esempio la somma è
3640 e il numero dei salari è 13. La media è perciò 280. Questo tipo di media è
chiamato la media aritmetica.
È chiaro che questa media non ci dà molte informazioni. Nessuna persona
riceve di fatto tale salario. Inoltre, delle tredici persone, solo due guadagnano una
cifra uguale o superiore. Gli altri dipendenti guadagnano tutti molto meno. In altri
termini, la media aritmetica non è un valore numerico rappresentativo se alcune
fra le quantità componenti sono molto grandi paragonare ad altre. In tali casi altri
tipi di media possono essere più prodighi di informazioni. Un altro valore medio
usato spesso, chiamato mediana, è il dato al di sopra e al di sotto del quale c’è un
numero di casi uguale. Nel nostro esempio ci sono tredici casi. Il salario mediano
è perciò 60, poiché ci sono sei persone che guadagnano di più e sei che
guadagnano di meno.
In quest’esempio la mediana sembra un valore più rappresentativo ma neppure
essa ci racconta tutta la storia. Se i salari delle sei persone che si trovano al di
sotto della mediana fossero anche molto inferiori ai valori indicati sopra e i salari
304
delle sei persone al di sopra della mediana fossero molto superiori, la mediana
sarebbe la stessa. Una disparità tanto grande non si rifletterebbe in alcun modo
nella cifra mediana di 60. Neppure la mediana è perciò, spesso, una cifra
rappresentativa.
Un altro valore medio usato comunemente è la moda. È questo il valore che
compare più spesso nei dati. Nel nostro esempio la moda dei salari è il 50 perché
il maggior numero di persone riceve questo salario. Benché questo valore medio,
come gli altri, dia qualche indicazione sulla distribuzione dei salari, è anch’esso
inadeguato. In esso non si riflette infatti la variazione dei salari al di sopra e al di
sotto della moda.
Ciò che nessuna di queste medie ci dice è la distribuzione dei dati al di sopra e
al di sotto di esse. La media dipende da tutti i valori ma da essa non possiamo
inferire la natura della distribuzione. Ad esempio, se i due salari di 1000 e 2000
dollari fossero trasformati rispettivamente in 100 e 2900 la media resterebbe la
stessa ma la natura della distribuzione sarebbe molto diversa. Ciò che ci serve è
una qualche misura della dispersione dei dati attorno alla media. A tal fine gli
statistici usano una quantità chiamata scarto quadratico medio o deviazione
standard; esso è denotato con (sigma). Questa quantità viene calcolata come
segue. Innanzitutto, viene calcolata la differenza fra ogni dato e la media
aritmetica, ossia lo scarto del dato dalla media. Per evitare numeri negativi, questo
scarto viene elevato al quadrato. Si fa poi la media dei quadrati degli scarti
sommandoli e poi dividendoli per il numero dei dati. Si prende poi la radice
quadrata di questa media per controbilanciare in qualche misura la precedente
elevazione a quadrato. Detto in breve, la deviazione standard di un insieme di dati
è la radice quadrata della media dei quadrati delle singole deviazioni dalla media
dei dati.
Potremmo usare l’insieme dei salari elencati sopra per illustrare il calcolo di
una deviazione standard; per evitare però di complicare gli aspetti aritmetici del
calcolo useremo una serie di dati più semplici. Calcoliamo la deviazione standard
dei dati
1, 3, 4, 7, 10, 13, 18.
La media di questi dati è 8. Le deviazioni dalla media sono dunque
7, 5, 4, 1, 2, 5, 10.
I quadrati di queste deviazioni sono
49, 25, 16, 1, 4, 25, 100.
La somma di questi quadrati è 220. La media di questi quadrati è perciò 220
diviso 7, ossia approssimativamente 31,4. La radice quadrata di questo numero è
305
press’a poco 5,6. Poiché quest’ultima cifra è grande rispetto alla media 8, anche la
dispersione dei dati dev’esser grande. Se avessimo eseguito un calcolo simile per i
dati concernenti i salari, avremmo ottenuto uno scarto quadratico medio di 556.
La media, lo ricordiamo, era 280. Anche in tal caso avremmo avuto ragione di
inferirne che la dispersione dei salari attorno alla media dev’essere grande.
Ovviamente, neppure due valori rappresentativi come la media e la deviazione
standard possono dirci quanto i dati stessi ma poiché la mente non può tener
presenti tutti i dati e lavorare con essi, queste cifre sono molto utili.
Un’alternativa al ricordo dell’intera serie di dati o all’uso esclusivo delle due
cifre rappresentative è fornita dal diagramma. Una persona abituata a leggere il
giornale non può non avere osservato che una presentazione grafica di dati dà
rilievo a fatti che altrimenti sarebbero ben lungi dall’essere evidenti. Le curve
dell’aumento e della diminuzione del costo della vita e dei prezzi delle materie
prime sono esempi comuni. Il ricorso a diagrammi ha reso possibili conclusioni
più significative di una semplice esposizione dell’aumento e della diminuzione.
Supponiamo di aver misurato la statura di tutti gli uomini in una certa
comunità. In corrispondenza a ogni statura ci sarebbe la frequenza con cui tale
statura si presenta. Se rappresentassimo graficamente le stature degli uomini come
ascisse e le frequenze corrispondenti come ordinate, otterremmo il diagramma
della distribuzione di queste frequenze. Un diagramma dei dati reali è presentato
nella figura 70, dove attraverso i dati è stata tracciata una curva. Non c’è dubbio
che il diagramma ci dà un’immagine che si imprime con facilità nella mente e che
ci offre in un sol colpo d’occhio gran parte dell’informazione contenuta nei dati
originali.
Fig. 70. La statura degli appartenenti a una certa comunità.
Ciò che è particolarmente significativo nella distribuzione delle stature, come
di molti altri caratteri che vedremo fra poco, è che la curva si avvicina a una
distribuzione ideale nota ai matematici come curva della frequenza normale (fig.
71). Di fatto, quanto più grande è il gruppo le cui stature sono incluse nel
diagramma, tanto più la curva si avvicina alla forma ideale, così come i poligoni
regolari si avvicinano tanto più al cerchio quanto maggiore e il numero dei loro
lati.
306
Fig. 71. La curva della frequenza normale.
La curva della frequenza o della distribuzione normale è così comune e così
importante che riteniamo utile elencarne i caratteri principali. La curva è
simmetrica attorno a una linea verticale che rappresenta la frequenza massima nei
dati. Se seguiamo la curva verso destra e verso sinistra rispetto a questa linea, la
curva scende dapprima lentamente, poi molto rapidamente e infine, estendendosi
ulteriormente verso destra e verso sinistra, si avvicina all’asse orizzontale senza
mai raggiungerlo. Questa forma è stata paragonata a quella di una campana e la
curva è stata chiamata anche curva a campana.
L’ascissa corrispondente alla più grande ordinata o frequenza in ogni
distribuzione normale è certamente la moda della distribuzione, essendo la
quantità misurata che ricorre più spesso. Questa moda dev’essere anche la
mediana, poiché la simmetria del diagramma ci dice che è uguale il numero dei
casi che si presentano sia a sinistra sia a destra dell’ascissa. È quasi evidente che
la moda è anche la media perché due ascisse, una su ciascun lato della moda ed
equidistanti da essa, hanno la stessa frequenza e, nel calcolo della media, il valore
medio di tutte queste coppie di ascisse equidistanti sarà quello di mezzo. Perciò,
in una distribuzione normale moda, mediana e media coincidono.
La curva della frequenza normale è stata familiare ad astronomi e scienziati a
partire dal 1800 circa, presentandosi spesso in connessione con misurazioni.
Supponiamo che uno scienziato sia interessato alla lunghezza esatta di un pezzo di
filo metallico. In parte a causa del fatto che la mano e l’occhio non sono
perfettamente precisi e in parte a causa delle possibili variazioni di elementi della
situazione, come ad esempio la temperatura, lo scienziato misurerà questa
lunghezza non una sola volta bensì ad esempio cinquanta volte. Queste cinquanta
misurazioni saranno tutte diverse l’una dall’altra, talvolta in misura impercettibile
e tal altra sensibilmente. Un diagramma delle varie misurazioni messe in relazione
al numero di volte che ciascuna misura compare fra le cinquanta si avvicina alla
curva della frequenza normale. Di fatto, quanto maggiore è il numero delle
misurazioni eseguite tanto più la loro distribuzione di frequenza si avvicinerà a
questa curva.
307
C’è una buona ragione per attendersi che un insieme di misurazioni eseguite
con precisione debba seguire una curva normale. Gli errori nella misurazione
dovrebbero esser dovuti a errori casuali compiuti dall’occhio o dalla mano o a
variazioni casuali negli strumenti usati. Questi errori dovrebbero distribuirsi a
entrambi i lati del valore vero e raggrupparsi attorno a questo valore, esattamente
come i tiri di un fuciliere a un bersaglio si raggrupperanno, se egli è un tiratore
scelto, attorno al centro rarefacendosi col crescere della distanza dal centro.
Il fatto che le misurazioni seguano una curva normale è assai utile agli
scienziati. In una distribuzione normale i dati si raggruppano attorno al valore
medio, il quale, come abbiamo or ora osservato, dovrebbe essere il valore vero.
Perciò il valore medio di un gran numero di misurazioni, se esse appaiono seguire
una curva normale, dovrebbe essere una buona approssimazione alla misura vera.
Se inoltre un’ampia serie di misurazioni non pare seguire una curva normale, ciò
significa che nelle misurazioni dev’essersi insinuato qualche elemento
perturbatore che dovrebbe essere eliminato. Ad esempio, se la lunghezza di un
pezzo di metallo fosse misurata in una stanza con temperatura crescente, i valori
crescerebbero senza dubbio rapidamente e non seguirebbero una curva normale.
La media di queste misurazioni sarebbe grossolanamente in errore e un
diagramma delle misurazioni rivelerebbe immediatamente questo fattore di
disturbo.
La curva normale è stata usata migliaia di volte per determinare distanze
astronomiche; per misurare massa, forza e velocità; e per stabilire le temperature
di fusione, di ebollizione e di congelamento e centinaia di altre quantità chimiche.
In virtù del suo impiego nell’eliminazione di errori di misurazione, la curva
normale è nota anche come “curva dell’errore.” La sua esistenza afferma la
conclusione, in apparenza paradossale ma nondimeno vera, che errori accidentali
nella misurazione non accadono a caso ma seguono tale curva. Gli esseri umani
non possono sbagliare neppure volendolo.
Nell’uso di distribuzioni normali è importante sapere quanti casi rientrino in
ogni parte assegnata della quantità misurata. Consideriamo, ad esempio, le diverse
stature di 100 000 americani. Abbiamo già visto come le frequenze delle varie
stature giacciano su una curva normale.
Supponiamo che la media e lo scarto quadratico medio di questa distribuzione
siano rispettivamente cm 170 e 5. Allora (fig. 72), nel caso ideale, il 68,2 per
cento delle stature misurate è compreso entro la deviazione standard 1, ovvero
entro 5 cm dalla media; il 68,2 per cento degli esseri umani ha cioè una statura
compresa fra 165 e 175 cm. Inoltre, il 95,4 per cento delle stature è compreso in 2
deviazioni standard ovvero entro 10 cm dalla media; e il 99,8 per cento delle
stature è compreso entro 3 deviazioni standard ovvero entro 15 cm dalla media.
La percentuale compresa all’interno di ogni numero frazionario dato di deviazioni
standard dalla media è stata anch’essa calcolata e può essere trovata in tavole.
Così una persona che studi una distribuzione normale e calcoli la media e la
deviazione standard può ottenere da queste due quantità tutte le informazioni che
desidera sulla distribuzione.
308
Fig. 72. Le percentuali che cadono nelle varie parti di una distribuzione di
frequenza normale.
Attorno al 1833 l’astronomo, meteorologo e statistico belga L.-A.-J. Quételet
decise di studiare la distribuzione di caratteri e capacità umani alla luce della
curva di frequenza normale. Molti di questi dati, per inciso, erano tratti dalle
migliaia di misurazioni di parti del corpo umano compiute dagli artisti del
Rinascimento Alberti, Leonardo, Ghiberti, Dürer, Michelangelo e altri. Quételet
trovò ciò che centinaia di successori hanno da allora confermato. Quasi tutti i
caratteri mentali e fisici di esseri umani seguono la distribuzione della frequenza
normale. La statura, la grandezza di ogni membro, le dimensioni della testa, il
peso del cervello, l’intelligenza (misurata da test sull’intelligenza), la sensibilità
dell’occhio alle varie frequenze della parte visibile dello spettro elettromagnetico
sono tutti distribuiti in modo normale all’interno di un tipo “razziale” o
“nazionale” Lo stesso vale per animali, vegetali e minerali. La grandezza e il peso
dei pompelmi di qualsiasi varietà, la lunghezza delle spighe di grano di qualsiasi
specie e così via presentano una distribuzione normale.
Il fatto che caratteri e capacità umani seguano la stessa curva di distribuzione
degli errori di misurazione aveva per Quételet un’importanza grandissima. Egli
sostenne che tutti gli esseri umani, come il pan carré, sono fatti con una forma ma
differiscono fra loro solo a causa di variazioni accidentali che hanno luogo nel
processo di creazione. Perciò si applica la legge degli errori. La natura mira
all’uomo ideale ma manca il bersaglio, producendo così deviazioni da entrambi i
lati. D’altra parte, se non ci fosse un tipo cui gli uomini tendano a conformarsi,
potremmo misurare i loro caratteri (ad esempio la statura) senza trovare alcun
significato particolare nel diagramma o in una qualsiasi relazione numerica
definita fra i dati.
Quante più misurazioni Quételet eseguiva tanto più osservava che le variazioni
individuali sono cancellate e che i caratteri più importanti dell’umanità tendono a
essere nettamente definiti. La media di ciascuno di tali caratteri identifica l’uomo
ideale o “medio.” L’uomo medio era inoltre il baricentro attorno a cui ruotava la
società. I caratteri principali, egli dichiarò poi, risultano da cause generali; perciò
la società esiste ed è preservata. L’evidenza di un disegno razionale e di un
determinismo appariva inoltre altrettanto chiaramente nei fenomeni sociali che in
quelli fisici.
309
Rimandiamo il giudizio sulle inferenze filosofiche di Quételet a un altro
capitolo. Accontentiamoci, per il momento, di osservare che l’applicabilità della
curva normale a problemi sociali e biologici ha condotto a conoscenze in questi
campi e alla determinazione di leggi. Oggi, di fatto, la convinzione che la
distribuzione di ogni capacità fisica o mentale debba seguire la curva normale è
così saldamente consolidata che ogni misurazione di un gran numero di persone
che non la segua appare sospetta. Se, ad esempio, l’esame di un grande gruppo di
studenti non produce una distribuzione di voti normale, non viene messa in
dubbio la conclusione che l’intelligenza deve avere una distribuzione normale ma
si dichiara non valido il test.
Gli studi grafici sulla distribuzione conducono ad alcune questioni stimolanti. I
caratteri mentali e fisici, come abbiamo visto, sono distribuiti secondo una curva
normale. Se però esprimiamo graficamente la distribuzione dei redditi – ossia
ciascuno dei vari redditi in relazione al numero delle persone che li posseggono –,
la curva sarà molto simile alla figura 73. Questa curva dice che la maggior parte
delle persone ha redditi che si trovano all’estremo più basso della scala dei redditi.
Di fatto gli studi indicano che il reddito più comune, il reddito modale, si trova in
coincidenza con la sussistenza pura e semplice. La curva indica anche che molte
persone sono molto al di sotto del livello di sussistenza e solo poche hanno redditi
molto superiori a quel livello.
Fig. 73. La distribuzione di frequenza del reddito.
Il diagramma rivela dunque immediatamente grandi differenze nei livelli di
reddito e richiama l’attenzione sulla disparità fra reddito, da un lato, e capacità
fisiche e mentali dall’altro. Questa disparità richiede quasi una spiegazione.
Perché la distribuzione dei redditi differisce così radicalmente dalle distribuzioni
delle capacità delle persone che posseggono i redditi?
Conclusioni valide, le quali sono non soltanto utili in problemi speciali ma
anche importanti teoricamente, possono esser tratte ovviamente da dati o da
diagrammi tratti da dati. Ma la crema di ogni spiegazione scientifica, dal punto di
vista moderno, è la formula matematica. Una conclusione espressa in una formula
è doppiamente valida. Non soltanto una formula è un risultato conciso e valido in
sé ma consente l’applicazione di tutte le tecniche matematiche dell’algebra, del
calcolo infinitesimale e di altri settori per la derivazione di nuove conclusioni.
Questo punto può essere inteso mediante un riferimento a un’illustrazione
310
precedente. Il concetto della gravitazione universale è in sé una generalizzazione
che contiene un elevato livello d’informazione. Poiché però il suo comportamento
può essere stabilito con una formula, possiamo combinarlo con le leggi del moto e
derivarne le orbite dei pianeti attorno al Sole.
Ora, talvolta è possibile comprimere i dati in formule e quando ciò avviene il
processo acquista un significato. Illustreremo per il momento il processo
consistente nel rappresentare dati mediante una formula e a tal fine considereremo
un problema un po’ specializzato e leggermente semplificato.
Supponiamo di accingerci a studiare la variazione dei prezzi di generi
alimentari per un periodo di anni. Il livello dei prezzi dei generi alimentari, come
di quelli di altri beni, è misurato da un “indice”, che è grosso modo un prezzo
medio calcolato con metodi che qui non ci interessano. La tabella seguente elenca
gli indici (rappresentati da y) di prezzi al minuto di generi alimentari negli Stati
Uniti per vari anni. Nella tabella x sta per il numero di anni dopo il 1900; x = 1
corrisponde cioè al 1901 e così via.
x 1 3 5 7 9 11 13 15
y 71,5 75,0 76,4 82,0 89,0 92,0 100,0 101,3
La semplice osservazione non ci fornirà la formula che stabilisce una relazione
fra x e y. Il passo successivo consiste nel rappresentare graficamente queste
coppie di valori della x e della y, rappresentando sulle ascisse i valori della x e
sulle ordinate i valori della y (fig. 74). I punti inseriti nel grafico sembrano giacere
su una linea retta. Di fatto, la linea
Fig. 74. Diagramma dei dati concernenti i prezzi di generi alimentari.
che passa per i punti (3, 75), (9, 89) e (15, 100) passa molto vicina a tutti gli
altri punti. Errori inevitabili nella determinazione degli indici potrebbero render
ragione del fatto che gli altri punti non giacciono esattamente sulla linea.
Abbiamo dunque stabilito che la rappresentazione grafica della nostra funzione è
una linea retta.
311
Trovare l’equazione corrispondente a tale linea è un semplice problema di
geometria analitica. Il risultato è la formula
y =7
3𝑥 + 68,
dove y è l’indice corrispondente a ogni anno dato x. Questa formula si adatta
tanto più ai dati noti quanto più i punti nella figura 74 si avvicinano alla linea
retta.
La formula rappresenta un risultato notevole. Senza alcuna conoscenza dei
fattori che incidono sull’ascesa e sul calo dei prezzi dei generi alimentari, è stata
ottenuta una legge che ne descrive l’andamento. La legge copre con certezza il
periodo dal 1900 al 1915 e, come altre leggi della scienza, può essere usata per
formulare predizioni, in questo caso sul livello dei prezzi dei generi alimentari per
qualche tempo dopo il 1915.
A questo punto si potrebbe esser tentati di andar oltre. La formula dà la vera
legge del comportamento del prezzo dei generi alimentari per tutti i tempi?
Certamente no. Di fatto esiste il problema fondamentale se i prezzi dei generi
alimentari seguano un modello immutabile. In ogni caso tali prezzi non salgono in
modo continuo e perciò la formula enunciata sopra può rappresentare nel caso
migliore la vera legge solo approssimativamente e solo per un breve periodo di
tempo. La legge non va oltre quest’ambito di rappresentatività, in parte perché è
fondata su un numero di casi limitato e in parte, forse, perché l’indice dei prezzi
dei generi alimentari può non essere attendibile.
Mentre il problema particolare del livello dei prezzi dei generi alimentari può
non condurre ad alcuna legge fondamentale, l’impostazione descritta sopra può
condurre a tali leggi là dove esse esistono, ossia là dove i dati seguono un modello
fissato. La tecnica consiste nel registrare graficamente i dati e nel trovare una
formula che esprima la forma geometrica della curva. Come ci si può attendere, il
processo può implicare aspetti matematici complicati quando la rappresentazione
grafica non è una linea retta.
Un esempio più significativo di una formula ottenuta da dati e presentata come
una vera legge economica fu fornito dal celebre studioso dell’economia politica
Vilfredo Pareto. Lo studio, compiuto da Pareto, della distribuzione dei redditi in
una data società lo condusse alla formula N = Axm, dove N rappresenta il numero
di persone che hanno un reddito uguale o più alto rispetto a una data quantità x,
mentre A e m sono due costanti che devono essere determinate dai dati per ogni
paese. Pareto trovò anche che m aveva press’a poco lo stesso valore,
approssimativamente -1,5 in ogni paese da lui studiato. L’invariabilità di questo
numero da paese a paese e da epoca a epoca apparve a Pareto e ad altri economisti
profondamente significativa.
Lo stesso Pareto attribuì l’esistenza della medesima legge di distribuzione dei
redditi in molti paesi non alla struttura economica della società bensì alla
distribuzione comune di talune qualità naturali negli uomini. Egli si valse della
costanza di questa legge per confutare Karl Marx, secondo il quale la tendenza
312
della società capitalistica è quella di ridurre i redditi di un numero sempre
maggiore di persone. Pareto si servì inoltre di questa legge per sostenere che un
paese non dovrebbe tentare di far progredire le disuguaglianze dei redditi
attraverso la legislazione.
Possiamo porre ora per lo studio della distribuzione dei redditi a opera di Pareto
la stessa domanda che abbiamo posto per il comportamento dei prezzi dei generi
alimentari. Esiste una legge universale della distribuzione dei redditi e, se esiste, è
espressa dalla formula di Pareto? C’è più ragione di attendersi l’esistenza di una
tale legge nel caso dei redditi che in quello dei prezzi di generi alimentari.
Possiamo credere che i fattori principali che incidono sui redditi operino press’a
poco nello stesso modo in tutte le società e in tutti i tempi. La probabilità che sia
così è, a priori, almeno tanto grande quanto la probabilità che i pianeti seguano
traiettorie immutabili da un anno all’altro.
Di fatto ci sono state molte discussioni fra gli economisti sulla correttezza o
meno della legge di Pareto. Tale legge fu enunciata per la prima volta nel 1895 e
da allora è stata sottoposta a verifica sulla base di dati concernenti vari paesi. In
molte aree esaminate, come l’Inghilterra dell’Ottocento e dell’inizio del
Novecento, la formula si adatta molto bene ai dati. Le discordanze riscontrate in
altri casi non confutano necessariamente la legge poiché sussistono sempre dubbi
sull’attendibilità dei dati disponibili.
In realtà non possiamo mai esser certi che una legge ottenuta adattando una
formula a dati disponibili sia corretta. Dopo aver segnato su un diagramma gli
indici e il tempo, scegliamo una linea retta che passi per il maggior numero
possibile di punti e che si avvicini il più possibile agli altri. C’è però più di una
linea retta che passi per alcuni punti e che sia vicina ad altri. Se si sceglie una
linea invece di un’altra, muta anche la formula che viene derivata da essa. La
differenza può essere anche trascurabile a fini pratici ma questa circostanza non
può essere determinata in anticipo.
La formula potrebbe essere anche meno esatta di quanto non indichi la
discussione sopra. I punti segnati sul diagramma degli indici giacciono quasi su
una linea retta; fu allora supposto che il diagramma fosse veramente una linea
retta e le discrepanze furono attribuite a errori nel processo di raccolta dei dati. La
situazione vera potrebbe essere invece espressa dall’affermazione che i punti non
giacciono su una linea retta ma su una curva che passa esattamente attraverso di
essi, senza lasciarne fuori alcuno. In tal caso la formula trovata non sarebbe
certamente quella giusta anche se forse, a fini pratici, può essere ad essa
sufficientemente approssimata.
In che modo possiamo eliminare gli errori che si insinuano nel processo di
adattamento di una formula a dati? Noi tutti possiamo far sì che l’esperienza di
ieri e di oggi ci serva di guida per il futuro. Prediciamo per mezzo della formula
ottenuta e verifichiamo di nuovo le predizioni sulla base di ciò che di fatto accade.
Se la predizione risulta erronea possiamo servirci dei nuovi dati, insieme con i
vecchi, per trovare una formula che si adatti all’insieme ampliato dei dati.
313
Nonostante le incertezze associate alla derivazione di formule da dati e alle
predizioni fondate su tali formule, non c’è alcun dubbio se non sul fatto che le
formule compendino e rappresentino i dati noti nella forma più desiderabile.
Inoltre, alcune di queste formule sono risultate applicabili così costantemente da
sembrare esprimere il comportamento invariabile della natura così come fanno le
leggi newtoniane del moto e della gravitazione. Le importanti implicazioni di
questo fatto saranno discusse in un altro capitolo.
In alcuni studi statistici il concetto stesso di formula non risulta applicabile e
nondimeno possiamo desiderare di acquistare una conoscenza dai dati a
disposizione. Consideriamo un problema studiato da Sir Francis Galton, cugino di
Darwin e fondatore della scienza dell’eugenetica o eugenica. Egli esaminò il
problema se la statura anormale sia ereditaria e il suo metodo fu sostanzialmente
il seguente: egli considerò un migliaio di padri e ne registrò la statura e poi la
statura dei loro figli. Nel caso che esistesse una formula applicabile, questa
avrebbe dovuto stabilire una relazione fra le due variabili, la statura dei padri e la
statura dei figli. Inoltre, per ciascun valore di una variabile, la formula dovrebbe
fornire solo un valore della seconda. Ad esempio, la formula y = 3x fornisce un
valore di y per ogni valore di x. Ora, a ogni statura di un padre corrispondevano
varie stature per i figli. Una formula era perciò fuori discussione. Galton
introdusse allora la nozione di correlazione. La correlazione fra due variabili è
una misura della relazione esistente fra di esse. Questa misura o numero è ottenuta
sostituendo i valori individuali delle variabili in un’espressione appositamente
costruita, nota come il coefficiente di correlazione, il quale può assumere valori
compresi fra -1 e +1.
Una correlazione di 1 indica una relazione diretta; quando una variabile
aumenta o diminuisce, l’altra fa lo stesso; quando una è più grande lo è anche
l’altra. Una correlazione di -1 significa che una variabile si comporta in modo
direttamente opposto all’altra; quando i valori della prima sono alti, quelli della
seconda sono bassi e viceversa. Una correlazione 0 significa che il
comportamento di una variabile non ha nulla a che fare col comportamento
dell’altra; esse procedono in modo indipendente l’una dall’altra. Una correlazione
di 3/4, ad esempio, significa che il comportamento di una variabile è simile a
quello dell’altra, pur non essendo esattamente uguale.
Galton trovò che esiste una correlazione positiva ben definita fra la statura dei
padri e quella dei figli. I padri alti hanno in generale figli alti. Galton trovò anche
che la deviazione dei figli dalla media del gruppo di appartenenza è minore di
quella dei padri: ossia i figli di padri alti non sono altrettanto alti. La loro statura
regredisce verso la media della razza. Galton ottenne risultati analoghi nel suo
studio dell’eredità dell’intelligenza. In media c’è una trasmissione ereditaria del
talento e delle attitudini ma i figli di padri grandi sono più mediocri dei padri.
(Questo studio dovrebbe essere letto da genitori che soffrono per la mediocrità
intellettuale dei loro figli.)
Come Quételet, Galton fu molto impressionato da quanto il suo studio gli
andava rivelando. Dopo aver trovato che i risultati da lui ottenuti in relazione alla
314
statura e all’intelligenza si applicavano a molti altri caratteri umani, saltò alla
conclusione che la fisiologia umana è stabile e che tutti gli organismi viventi
tendono verso tipi.
L’aspetto più importante dell’opera di Galton va visto nella nozione di
correlazione, la quale si è rivelata enormemente utile. Lo studio del livello della
produzione industriale di un paese richiede la raccolta di dati complessi. Se però
esiste una correlazione elevata fra la produzione industriale e il numero di azioni
immesse alla borsa valori, si potrebbe usare questo dato, facilmente accessibile.
Se esiste una correlazione elevata fra l’intelligenza generale e l’abilità
matematica, ci si può attendere che persone dotate di una buona intelligenza
riescano bene in matematica. La conoscenza della correlazione esistente fra
successo nella scuola media e successo all’università o fra successo all’università
e successo finanziario più avanti nella vita può essere preziosa nella predizione
del futuro di gruppi di individui.
Nell’uso di metodi statistici ci si imbatte in difficoltà per risolvere le quali
possono esser d’aiuto, non la matematica, bensì diligenza e giudizio. Una
difficoltà del genere sorge dal significato dei termini usati in uno studio.
Supponiamo di voler studiare la disoccupazione negli Stati Uniti. Chi sono i
disoccupati? Il termine dovrebbe includere tutte quelle persone che non hanno un
lavoro ma vorrebbero averlo? Oppure quelle che lavorano due giorni la settimana
e vorrebbero un impiego a tempo pieno? Oppure l’ingegnere che non trova un
lavoro più adeguato alla sua preparazione della guida di un tassì? O le persone
incapaci di svolgere un lavoro?
Anche l’interpretazione di conclusioni statistiche è irta di difficoltà. Le
statistiche rivelano che ogni anno muore di cancro un numero sempre più elevato
di persone. Ciò significa che la vita moderna produce con maggiore probabilità il
cancro? No. Molte persone morivano di cancro cinquant’anni fa ma la causa del
decesso non veniva riconosciuta perché le tecniche mediche non erano tanto
avanzate. Oggi, inoltre, la gente vive più a lungo di cinquant’anni fa e poiché il
cancro è primariamente una malattia che colpisce le persone anziane, si presenta
più spesso. Molte fra le persone che anni fa morivano di tubercolosi avrebbero
potuto essere soggette al cancro se fossero vissute di più. Oggi, infine,
disponiamo di dati più attendibili. In altri termini, benché il cancro uccida oggi
più persone di quanto non facesse in passato, non possiamo concludere che la vita
moderna possiede una maggiore tendenza a generarlo e che le persone che vivono
oggi siano più soggette ad esso.
Purtroppo tali difficoltà nell’uso della statistica sono state spesso dissimulate o
eluse con interpretazioni di comodo da pubblicitari e propagandisti al fine di
fondate le loro asserzioni. Un tale cattivo uso della statistica ha indotto una
diffidenza ingiustificata e ha provocato definizioni sprezzanti. Gli statistici sono
stati descritti come uomini che tracciano linee precise partendo da ipotesi
indefinite per arrivare a conclusioni già scontate. C’è inoltre il modo di dire,
familiare in America: sono tutte bugie, dannate bugie, e statistiche.
315
Gli abusi compiuti nell’uso della statistica non dovrebbero farci chiudere gli
occhi dinanzi alla sua efficacia in studi sulle variazioni demografiche, sulle
operazioni alla Borsa valori, sulla disoccupazione, sulle tabelle salariali, sul costo
della vita, sui tassi di natalità e di mortalità, sulla diffusione dell’alcoolismo e del
crimine, sulla distribuzione dei caratteri fisici e dell’intelligenza e sull’incidenza
delle malattie. Le statistiche sono alla base dell’assicurazione sulla vita, dei
sistemi previdenziali, dell’organizzazione sanitaria, della politica e delle lotterie.
Anche l’uomo d’affari ostinato si serve di metodi statistici per individuare i suoi
mercati migliori, per controllare i processi di produzione, per valutare l’efficacia
della sua pubblicità e per stimare l’interesse di un nuovo prodotto. L’approccio
statistico elimina le congetture casuali e le insidie di giudizi individuali
sostituendoli con conclusioni estremamente utili.
Di fatto è poco dire che i metodi statistici hanno avuto successo in numerosi
problemi. Essi sono stati decisivi nel trasformare in scienze campi speculativi e
arretrati e sono diventati un modo per affrontare problemi e per pensare
concretamente in tutti i campi. L’idea della misurazione pervade ora tutte le
attività della civiltà occidentale. Molto tempo fa il celebre dottor William Osler
affermò che la medicina sarebbe diventata una scienza quando i medici avessero
imparato a contare. E l’importanza degli studi statistici indusse Anatole France a
dire che chi non sa contare non conta. Le conclusioni matematiche dai dati che
interessano agli uomini politici plasmano di fatto la vita delle nazioni.
316
XXIII. Predizione e probabilità
È notevole che una scienza che ha cominciato con lo
studio dei giochi d’azzardo debba essere elevata al rango
degli oggetti più importanti della conoscenza umana.
PIERRE-SIMON DE LAPLACE
Per un periodo di quarant’anni Girolamo Cardano, il professore di matematica
e di medicina del Rinascimento, così ricco di genio e così povero di principi,
giocò d’azzardo tutti i giorni. Fin dal principio della sua carriera egli stabilì che se
non avesse giocato per denaro non avrebbe avuto alcun compenso per il tempo
perduto, che avrebbe potuto impiegare altrimenti per imparare. Non volendo
perdere il suo tempo in imprese non proficue, egli studiò seriamente le probabilità
di gettare sette e di scegliere assi da un mazzo di carte. Per essere utile agli altri
giocatori, incluse i risultati dei suoi studi in un manuale intitolato Liber de ludo
aleae (Libro sul gioco d’azzardo). Quest’opera rappresenta i risultati non solo
delle sue meditazioni sull’argomento bensì anche della sua esperienza pratica.
Egli sottolinea, ad esempio, che la probabilità di ottenere una carta particolare
quando si taglia un mazzo aumenta considerevolmente se si strega la carta con
sapone. Così fu fondata quella branca della matematica che è oggi fondamentale
nella teoria dei gas, nell’attività delle società d’assicurazione e nella fisica
atomica.
Un centinaio di anni dopo un altro giocatore, il cavaliere di Méré, si imbatte in
un problema di probabilità e, non possedendo le capacità matematiche che
redimono l’opera di Cardano, lo inviò a quel prodigio della matematica che era
Blaise Pascal. L’alacrità con cui Pascal affrontò il problema è spiegata
probabilmente dalla speranza che una teoria della probabilità potesse risolvere i
problemi complessi e fondamentali che per tutta la vita tormentarono la sua
mente, affaticarono il suo corpo e torturarono la sua anima.
Nessuno fu mai travagliato da tante contraddizioni quanto Pascal. Convinzioni
e desideri conflittuali producevano in lui curiose stravaganze di comportamento e
lo facevano oscillare fra il sacro e il profano. I suoi sforzi letterari furono divisi
fra un’argomentazione seria su controversie teologiche, come il suo capolavoro
letterario, le Lettres provinciales (Lettere provinciali), e consigli sull’amore,
come il suo Discours sur les passions de l’amour. Profondamente turbato dalle
differenze esistenti fra le dottrine della Bibbia e il dogma della Chiesa cattolica, li
ignorò nondimeno entrambi quando cercò di sottrarre alla sorella la sua parte di
eredità. Assegnò a se stesso un premio che aveva offerto per una competizione fra
gli scienziati del tempo e poi si lagnò della loro mancanza di sincerità nella
ricerca della conoscenza. Suggerì alle persone di limitare il loro amore, anche
317
l’amore per i figli, a un atto mentale e non emotivo; eppure non esitò a verificare
egli stesso sperimentalmente le sue conclusioni sulle passioni amorose. Pur
essendosi preoccupato del problema della via della salvezza, peccò abbastanza da
trovarsi in bisogno urgente di trovarla. La fervida gioia che si accompagnò alle
sue esperienze religiose fu quella di un santo, ma il suo comportamento verso gli
altri fu guastato dagli eccessi di un peccatore. Pur essendo ben noto come cultore
di primo piano della più razionale delle attività umane – la matematica –, sostenne
nondimeno che la verità viene dal cuore. Credeva nei miracoli per i quali si
poteva dimostrare che la loro probabilità era troppo piccola per giustificare la fede
in essi; e fu il difensore della fede che aiutò a fondare l’Età della Ragione.
Anche la vita scientifica di Pascal fu piena di conflitti. Il padre, che temeva per
la sua salute, gli impedì di studiare la matematica, ma a dodici anni egli chiese di
sapere di che cosa si trattava. La risposta del padre suscitò in lui un tale interesse
che cominciò a studiare febbrilmente l’argomento. Due anni dopo fu ammesso
alle riunioni scientifiche settimanali dei grandi matematici francesi dell’epoca. A
sedici anni dimostrò il famoso teorema che abbiamo esaminato a proposito della
geometria proiettiva. Aveva vissuto trentun anni della sua breve esistenza (morì a
trentanove) quando de Méré gli sottopose il problema della probabilità. Pascal si
mise in contatto con Fermat e, nello scambio di lettere che ne seguì, i due uomini
espressero risultati fondamentali in questo campo.
La potenziale utilità di una teoria della probabilità dovrebbe essere evidente.
Nulla è certo del nostro futuro, neppure ciò che accadrà fra un’ora. Il suolo su cui
poggiamo può andare in pezzi fra un minuto. Tali possibili calamità però non ci
turbano poiché sappiamo che le probabilità che esse si verifichino sono piccole. In
altri termini, è la probabilità che un evento si verifichi o no a determinare il nostro
atteggiamento e le nostre azioni in relazione all’evento.
Nel nostro uso quotidiano della nozione di probabilità ci basta sapere
semplicemente se essa è alta o bassa. I giudizi numerici di probabilità che si
danno solitamente sono inoltre di norma solo stime grossolane. Ma stime che
possono essere sbagliate di molto non sono sufficienti come base per le decisioni
in rischi importanti in campo tecnico, medico o commerciale. In tali situazioni è
necessario conoscere le probabilità numeriche esatte di eventi particolari. Questo
è il compito della matematica. Anche quando siamo incerti, la matematica ci dice
esattamente quant’è la misura della nostra incertezza. Tali probabilità numeriche
sono guide attendibili per l’azione.
Vediamo in che modo siano ottenute tali stime di probabilità. Ad esempio, qual
è la probabilità di ottenere un quattro gettando una volta sola un dado? Un modo
di risolvere questo problema può essere quello di gettare il dado 100000 volte e
contare quante volte il quattro appare. Il rapporto delle uscite di questo numero a
100 000 è la risposta o è molto vicino ad essa. Ma i matematici non adotteranno
un procedimento del genere a meno che vi siano costretti. Essi sono
essenzialmente pigri e preferiscono rimaner seduti a meditare sul problema
piuttosto che affaticare il loro braccio a gettare il dado, a meno che, come nel caso
di Cardano, la posta sia più che un esercizio intellettuale.
318
Di fatto, Pascal e Fermat ragionarono così: un dado ha sei facce; poiché nulla,
nella forma del dado o nel modo di gettarlo, favorisce una faccia rispetto alle
altre, ognuna di esse ha uguali probabilità di rimanere di sopra; di queste sei
probabilità uguali soltanto una, cioè l’uscita del quattro, ci è favorevole, poiché
questa è la faccia che desideriamo che esca. La probabilità di un quattro è quindi
di 1/6. Se fossimo interessati all’uscita di un quattro o di un cinque, dovremmo
dire che la probabilità è di 2/6, poiché in questo caso ci sarebbero favorevoli. Se
invece fossimo interessati all’uscita di un qualunque numero che non fosse né il
quattro né il cinque, ci sarebbero quattro possibilità a noi favorevoli e la
probabilità sarebbe di 4/6.
In generale, la definizione di una misura quantitativa della probabilità è la
seguente: Se di n possibilità ugualmente probabili m sono favorevoli all’accadere
di un certo evento, la probabilità che l’evento abbia luogo è m/n e la probabilità
che esso non abbia luogo (n – m)/n. Assumendo questa definizione generale della
probabilità, se nessuna possibilità fosse favorevole, ossia se 1’evento fosse
impossibile, la probabilità del suo accadimento sarebbe di 0/n o, se tutte le n
possibilità fossero favorevoli, ossia se l’evento fosse certo, la probabilità sarebbe
n/n o 1. Perciò la misura numerica della probabilità può variare fra 0 e 1, fra
l’impossibilità e la certezza.
Come altra illustrazione di questa definizione consideriamo la probabilità di
scegliere un asso, senza ricorrere al sapone, da un mazzo di 52 carte. Qui ci sono
52 scelte ugualmente probabili, 4 delle quali sarebbero favorevoli. La probabilità
sarebbe perciò di 4/52 o di 1/13.
Si assiste spesso a discussioni sul significato dell’asserzione che la probabilità
di scegliere un asso da un mazzo di 52 carte è di 1/13. Ciò significa forse che se
una persona sceglie una carta dal mazzo per tredici volte (rimettendo ogni volta
nel mazzo la carta presa), una fra le carte scelte sarà un asso? No certo. Si
possono scegliere 30 o 40 carte senza pescare un solo asso. Quanto più alto è però
il numero delle scelte tanto più il rapporto fra il numero degli assi usciti e il
numero totale delle scelte si avvicinerà a 1/13. È. questa un’attesa ragionevole
poiché quanto maggiore è il numero delle scelte tanto più probabile e che ogni
carta esca circa lo stesso numero di volte di ogni altra carta.
Un errore comune è quello di supporre che se una persona pesca un asso,
diciamo alla primissima scelta, la probabilità di pescare un asso alla scelta
successiva sarà inferiore a 1/13. Di fatto la probabilità rimane ancora la stessa e
continuerebbe a essere di 1/13 anche se nelle tre ultime estrazioni fossero venuti
tre assi consecutivi. Una carta o una moneta non ha né memoria né coscienza e
ciò che è già accaduto non ha alcuna influenza sul futuro. Il punto essenziale circa
la probabilità di 1/13 è che essa ci dice che cosa accadrà in un numero grande di
scelte.
La definizione della probabilità che abbiamo esaminato è considerevolmente
semplice e applicabile con facilità. Supponiamo di dover dimostrare che la
probabilità che una persona attraversi sana e salva la strada sia di 1/2 perché
esistono due possibilità, di attraversare sani e salvi la strada e di non attraversarla
319
sani e salvi, e che di queste due soltanto una è favorevole. Se questo
ragionamento fosse valido, il lettore sarebbe saggio a non darsi la pena di finire di
leggere questa pagina ma farebbe bene a mettere in ordine le sue cose. L’errore in
questo ragionamento consiste nel fatto che le due possibilità – attraversare la
strada incolumi e non attraversarla incolumi – non sono ugualmente probabili. È
questo il piccolo errore che può avere gravi conseguenze. La definizione di
Fermat e di Pascal può essere applicata soltanto se la situazione può essere risolta
in possibilità ugualmente probabili.
Essendo così importante per l’applicazione della definizione di probabilità che
le possibilità siano ugualmente probabili, dovremmo forse riconsiderare se le
probabilità che escano le varie facce di un dado siano uguali. Questo è
esattamente ciò che fanno alcuni giocatori di dadi, ossia controllare quante volte
escano le varie facce.
Ma se noi dovessimo gettare i dadi per verificare le conclusioni sui dadi cui
siamo giunti per mezzo della matematica probabilistica, potremmo fare a meno
della teoria. Di fatto, nel caso di un dado gettato in aria possiamo essere
abbastanza sicuri, anche senza esercitare alcuna verifica, che le possibilità sono
ugualmente probabili. Da un punto di vista logico si tratta ovviamente di
un’assunzione, ma di un’assunzione che è sostenuta dalla nostra conoscenza dei
cubi – anche se non direttamente dei dadi – non meno di quanto gli assiomi della
geometria siano sostenuti dall’esperienza. E là dove siamo certi che le possibilità
siano ugualmente probabili, applichiamo l’approccio di Pascal e di Fermat
descritto sopra.
Applichiamolo al problema della moneta lanciata in aria. Supponiamo che
vengano lanciate in aria due monete. Quali sono le probabilità di avere (a) due
volte testa, (b) una volta testa e una volta croce, e (c) due volte croce? Per
calcolare queste probabilità dobbiamo osservare innanzitutto che ci sono quattro
modi diversi, ugualmente probabili, in cui le due monete possono cadere. Questi
quattro modi sono: due volte testa, due volte croce, e altre due possibilità che
sono spesso erroneamente ridotte a una, e cioè testa nella prima moneta e croce
nella seconda, e croce nella prima moneta e testa nella seconda. Se però
consideriamo due monete diverse, come una moneta da 10 lire e una da 50, sarà
chiaro che il caso della testa nella moneta da 10 e croce in quella da 50 sarà
diverso dal caso di croce nella moneta da dieci e testa in quella da cinquanta.
Delle quattro possibilità solo una è dunque favorevole all’uscita di due teste. La
probabilità che vengano fuori due teste è dunque di 1/4. È similmente di l/4 la
probabilità che esca croce su entrambe le monete. La probabilità che escano una
testa e una croce è invece di 2/4 poiché due dei quattro modi in cui le monete
possono cadere possono produrre questo risultato.
Se una persona estende il problema del lancio della moneta al caso di tre
monete, deve analizzare dapprima le possibilità ugualmente probabili. Anche qui
la situazione risulterà più semplice se si ragionerà considerando tre monete
diverse, per esempio una moneta da 10, una da 50 e una da 100. Esiste,
ovviamente, una sola possibilità che in tutt’e tre le monete esca testa. Esistono
320
però tre possibilità di due testa e una croce, poiché si può avere croce su ciascuna
delle tre monete, mentre le altre due saranno testa. Ci sono inoltre tre possibilità
inverse, di avere cioè tre volte croce e una volta testa, e una possibilità che esca
croce su tutt’e tre le monete. Il numero totale delle possibilità è otto. Le
probabilità delle varie uscite sono pertanto le seguenti: tre testa, 1/8; due testa e
una croce, 3/8; due croce e una testa, 3/8; tre croce, 1/8.
Potremmo considerare ora, per il momento come un semplice passatempo
intellettuale, le probabilità connesse al lancio di quattro monete, di cinque ecc. Le
possibilità divengono purtroppo molto più numerose man mano che aumenta il
numero delle monete. A questo punto Pascal venne in aiuto ai matematici con un
interessantissimo “triangolo aritmetico”, noto come triangolo di Pascal benché
fosse già stato usato da altri (tra cui Tartaglia, donde anche la denominazione di
“triangolo di Tartaglia”). Consideriamo la seguente disposizione triangolare di
numeri:
1
1 1
1 2 1
1 3 3 1
1 4 6 4 1
1 5 10 10 5 1
1 6 15 20 15 6 1
. . . . . . . .
Ciascun numero, in questo “triangolo”, è la somma dei due numeri
immediatamente sopra di esso (dove uno dei due numeri manca si deve inserire lo
zero). Così il 4, nella quinta riga, è la somma di 1 e di 3; il 6 è la somma di 3 e 3,
e così via. Potremmo pertanto costruire una riga dopo l’altra ricorrendo alla sola
aritmetica.
Il carattere realmente interessante del triangolo di Pascal è che esso ci dà
immediatamente le probabilità in gioco nel lancio di monete. Ad esempio, i
numeri che compaiono nella quarta riga, ossia, 1, 3, 3, 1, danno come totale 8 ed
è questo appunto il numero di modi in cui possono cadere tre monete. Inoltre, se
poniamo ciascuno dei numeri che compaiono in questa riga, come numeratori,
sull’8 usato come denominatore, ottenendo così 1/8, 3/8, 3/8 e 1/8, abbiamo le
probabilità legate alle diverse possibilità, ossia tre teste, due teste e una croce, due
croci e una testa e così via. Se volessimo conoscere le varie probabilità in gioco
nel lancio di cinque monete, dovremmo usare la sesta riga. La somma dei numeri
che compaiono in tale riga è 32; tale è il numero totale dei modi in cui le cinque
monete possono cadere. Se ora formiamo le frazioni 1/32, 5/32, 10/32 ...,
otteniamo le probabilità di cinque teste, quattro teste e una croce, tre teste e due
croci e così via. Il numero 1 al vertice del triangolo dovrebbe evidentemente
essere associato in qualche modo al lancio di zero monete. Esso fornisce di fatto
321
la possibilità di conservare il nostro denaro se scommettiamo sulla caduta di zero
monete.
Storicamente, la teoria della probabilità fu iniziata per dare un aiuto ai giocatori
d’azzardo. Il diffusissimo interesse oggi esistente per la teoria della probabilità
non è però la testimonianza di una grandissima attività nel gioco d’azzardo. L’uso
intensivo di metodi statistici in problemi dell’industria, dell’economia, delle
assicurazioni, della medicina, della sociologia e della psicologia ha posto invece
problemi che non erano mai sorti in precedenti applicazioni della matematica e
che possono essere risolti solo da una teoria della probabilità. Al fine di poter
valutare la portata attuale della disciplina consideriamo alcuni usi di tale teoria.
Una fra le applicazioni più originali e sensazionali fu opera di Gregor Mendel,
abate di un monastero moravo, che nel 1865 fondò la scienza della genetica con i
suoi esperimenti meravigliosamente precisi sui piselli ibridi. Supponiamo che ci
siano due tipi di piselli di razza pura, verdi e gialli. Se i piselli vengono incrociati,
la seconda generazione sarà formata da piselli tutti verdi o tutti gialli. Mendel
spiega questo fatto dicendo che uno di questi colori è dominante sull’altro.
Supponiamo che il verde sia il colore dominante. Questi piselli verdi della
seconda generazione non sono in tutto uguali a quelli della prima; la prima
generazione è pura mentre la seconda è ibrida. Se incrociamo ulteriormente i
piselli della seconda generazione, possiamo attenderci mescolanze di geni, i
presunti portatori dei caratteri ereditari, nel modo seguente. Nel miscuglio di geni
di due piselli verdi ibridi si possono avere la mescolanza di verde con verde, di
giallo con giallo, di giallo con verde e di verde con giallo. Queste sono
precisamente possibili combinazioni di testa e croce nel lancio di due monete.
Perciò 1/4 della terza generazione dovrebbe essere un miscuglio verde-verde; 1/4
dovrebbe essere giallo-giallo; e 1/2 dovrebbe essere un miscuglio verde-giallo e
giallo-verde. Poiché però il verde è il colore dominante, tutti quei piselli della
terza generazione che contengono almeno alcuni geni verdi dovrebbero essere
verdi, mentre gli altri appariranno gialli. Perciò 3/4 dei piselli appariranno verdi e
1/4 gialli. Questa proporzione, predetta dalla teoria della probabilità, fu ottenuta
realmente da Mendel e, più tardi, da numerosi altri sperimentatori. La
determinazione di questa proporzione è la prima legge dell’eredità dei caratteri di
Mendel.
Mendel passò poi a considerare le proporzioni che dovrebbero risultare in
generazioni successive dall’incrocio di vari tipi della terza generazione, e inoltre
le proporzioni che dovrebbero apparire quando vengono incrociati insieme vari
caratteri indipendenti. In ciascun caso la teoria matematica della probabilità
predice ciò che ha luogo realmente.
Questa conoscenza è usata oggi con risultati pratici eccellenti da specialisti in
orticoltura e nell’allevamento di animali, i quali creano nuovi frutti e fiori,
allevano bovini più produttivi, migliorano ceppi di piante e di animali, coltivano
frumento indenne dalla malattia della ruggine, perfezionano i fagiolini senza filo e
producono tacchini ricchi di carne bianca e abbastanza piccoli da poter essere
contenuti nel frigorifero di casa.
322
Particolarmente prezioso è l’uso della teoria della probabilità nello studio
dell’eredità umana. Gli scienziati non possono controllare gli accoppiamenti di
uomini e donne; ma anche nel caso che lo potessero, non potrebbero ottenere
risultati sperimentali con la rapidità e la facilità desiderate. Essi devono pertanto
dedurre i fatti dell’eredità da considerazioni come quelle illustrate sopra. Poiché
inoltre gli individui possono essere prevenuti nel loro giudizio di caratteri umani,
l’oggettività dell’approccio matematico è molto più importante in questo settore
che non nello studio di piante e di animali.
La teoria della probabilità decide inoltre praticamente ogni mossa compiuta dal
più grande settore economico degli Stati Uniti: quello delle assicurazioni.
Consideriamo il problema che una società di assicurazioni affronta esaminando il
caso di John Jones. Contro il pagamento da parte di lui di un premio annuo, la
società accetta di pagare 1000 dollari al termine di vent’anni oppure alla sua
morte se egli dovesse morire prima di quell’epoca. Quale dovrebbe essere il
premio annuale chiesto dalla società al signor Jones? Ciò dipende ovviamente da
quanto ci si può aspettare che il signor Jones continui a vivere.
Per determinare questa probabilità, la società potrebbe elencare le varie cause
di morte possibili: cancro, malattie cardiocircolatorie, diabete, incidenti
automobilistici, cadute e altro. Essa potrebbe poi tentare di stabilire quando queste
cause incideranno sulla vita di John Jones. Per rispondere a questa domanda la
società dovrebbe studiare l’ambiente familiare, la storia personale e le attività
quotidiane del signor Jones; essa dovrebbe studiare inoltre lo stato di tutti gli
organi del suo corpo. Con queste informazioni potrebbe cominciare a calcolare la
risposta. Dopo vari giorni di calcoli emergerebbe sicuramente soltanto un fatto,
ossia che i calcoli dovrebbero essere gettati nel cestino della carta straccia.
Nessuna analisi del signor Jones come individuo consentirà mai alla società di
prevedere quando le varie cause di morte agiranno su di lui.
La soluzione del problema è ottenuta in modo del tutto diverso. John Jones è
una delle centinaia di migliaia di persone di cui la società si occupa. Alla società
sarebbe sufficiente conoscere che cosa è probabile che accada all’uomo medio,
con un piccolo margine numerico di errore, per essere con le spalle coperte,
poiché essa potrebbe recuperare su Smith quel che perderà con Jones.
Quello che le società di assicurazione fecero fu di studiare gli atti di morte su
un gruppo casuale di 100 000 persone che erano vive a dieci anni di età. Ora,
questi documenti dicono, ad esempio, che di queste 100 000 persone 78 106 erano
ancora vive all’età di quarant’anni. Le società decisero quindi di considerare 78
106/ 100 000 come la probabilità che una persona di dieci anni viva fino a
quaranta. Analogamente, per ottenere la probabilità che una persona di
quarant’anni viva fino a sessanta, le società presero il numero delle persone
ancora vive a sessant’anni e lo divisero per il numero di quelle vive a quaranta.
L’approccio alla probabilità esemplificato dal procedimento delle società di
assicurazione è fondamentale. Essenzialmente, esso fa ricorso all’esperienza per i
dati primari a cui il ragionamento matematico viene poi applicato. Quest’uso
dell’esperienza per ottenere probabilità è, a rigore, fuori del campo della
323
matematica. La matematica comincia solo una volta che le probabilità sono note e
si occupa di ragionare sui numeri così ottenuti. Ad esempio, se una società di
assicurazione vuole emettere una polizza con scadenza trentennale a una coppia di
sposi, è importante conoscere quale è la probabilità che entrambi vivano
trent’anni dall’inizio della polizza. Supponiamo che entrambi abbiano
quarant’anni. Ora la probabilità che una persona di quarant’anni viva fino a
settanta è circa 0,50, poiché su 78 106 persone in vita a quarant’anni di età 38 569
erano vive a settanta. È questa la probabilità che si ha di avere testa lanciando una
volta una sola moneta. La probabilità che entrambi i coniugi siano vivi a
settant’anni è uguale alla probabilità che si ha di avere due teste lanciando
insieme due monete; la probabilità che entrambi i coniugi arrivino a settant’anni è
di 0,25. Il problema che abbiamo visto è molto semplice, comune. Come ci si
potrebbe attendere, la matematica è usata per risolvere problemi di probabilità
molto più complicati di quelli che si pongono nel campo delle assicurazioni.
L’uso dell’esperienza per ottenere le probabilità fondamentali è inevitabile in
problemi medici. Supponiamo, ad esempio, che si sappia dalla registrazione di un
gran numero di casi che il 50 per cento delle persone afflitte da una malattia
muoiano in conseguenza di essa. La probabilità di morte in seguito a tale malattia
è allora posta pari a 1/2. Questa probabilità può essere ora applicata a un
problema pratico. Un medico che ritiene di aver trovato una nuova cura la
sperimenta su quattro pazienti, i quali guariscono tutti. Ciò significa che la nuova
cura è efficace e che dovrebbe essere applicata a tutti i casi?
A prima vista appare che la nuova cura è degna di nota. Là dove avremmo
dovuto attenderci due decessi non se ne è avuto neppure uno. Può darsi che, per
risolvere la questione, si decida di ricorrere alla teoria della probabilità. In un
gruppo particolare di quattro persone non è vero che due debbano morire. In un
gruppo così ristretto si possono avere quattro decessi o nessuno o un numero
qualsiasi compreso fra zero e quattro. Soltanto quando si consideri un numero
assai elevato di persone si avrà un 50 per cento di decessi. La situazione è
matematicamente equivalente a quella che si ha quando si lanciano monete. La
probabilità che ciascuna persona guarisca dalla malattia è la stessa che si ha di
aver testa quando si lancia una moneta. La probabilità che quattro persone
guariscano è uguale a quella di avere sempre testa nel lancio di quattro monete. Se
consultiamo la quinta riga del triangolo di Pascal, troviamo che la probabilità di
avere sempre testa lanciando quattro monete è 1/16. Questo numero esprime
dunque la probabilità che il medico si imbatta in un gruppo di quattro persone che
guarirebbero dalla malattia anche senza la sua cura. Questa probabilità significa
che, se noi considerassimo numerosissimi gruppi di quattro persone affette dalla
malattia, ogni sedici gruppi ci sarebbe un gruppo di persone che guarirebbero.
Ora, il medico che ha somministrato la sua cura a un gruppo di quattro persone
può essersi imbattuto proprio in quel gruppo di persone che sarebbero guarite
anche senza il suo trattamento. Poiché questo fatto non è in realtà molto
improbabile – molte volte un cavallo dato 100 a 1 vince una corsa – non è certa la
324
conclusione che la nuova cura sia efficace. Prima di formulare una conclusione
bisognerebbe sperimentarla su un numero molto maggiore di casi.
I problemi che abbiamo considerato finora hanno implicato situazioni in cui
potevano presentarsi solo poche possibilità. Quando una persona getta un dado, ad
esempio, le possibilità quanto al risultato sono esattamente sei. Nel caso della
mortalità le possibilità sono soltanto due. In molti problemi di probabilità i
risultati possibili sono invece o infiniti o così grandi da risultare matematicamente
conveniente trattarli come infiniti. Supponiamo, ad esempio, che si eseguano
misurazioni di una lunghezza. Queste misurazioni sono solo alcune del numero
infinito di misurazioni diverse che potrebbero essere eseguite. Perciò il calcolo
della probabilità che la media delle misurazioni sia esatta deve tener conto del
numero infinito di possibilità. Similmente, la produzione di una macchina che
produce centinaia di migliaia di unità di un articolo non è uniforme; le variazioni
da unità a unità, per quanto piccole, sono così numerose che l’intera serie viene
trattata come se fosse parte di una serie infinita.
La teoria a cui si chiede di trattare problemi in cui il numero di possibili
risultati sia infinito – la teoria della probabilità continua – fu creata dal contadino,
aristocratico, politico e superbo matematico Pierre-Simon Laplace (1749-1827).
Cardano, Pascal e Fermat furono attratti allo studio della probabilità da problemi
concernenti giochi d’azzardo. Gli interessi di Laplace, altrettanto astratti, erano
nel cielo. Egli si servì della teoria della probabilità per ottenere una misura
dell’attendibilità dei risultati numerici derivati da dati d’osservazione e per
definire la probabilità che certi fenomeni astronomici fossero dovuti a cause ben
precise e non al puro caso. Forse non è più una sorpresa per noi il fatto che una
teoria matematica destinata a servire all’astronomo si dimostri utile in molte
professioni. Esamineremo nondimeno alcuni di questi usi al fine di vedere, ancora
una volta, quanto sia vasto il campo d’applicazione della matematica.
Dove le possibilità in un particolare fenomeno sono infinite, la distribuzione di
frequenza di queste varie possibilità è per lo più fortunatamente normale. È perciò
possibile applicare la conoscenza acquistata su tali distribuzioni ai problemi della
probabilità continua. È necessario solo compiere una lieve trasformazione nei fatti
che hanno riferimento alla curva normale al fine di poterla usare ai nostri fini.
Possiamo ricordare che una distribuzione normale è caratterizzata o fissata dalla
media e dalla deviazione standard. Inoltre, il 68,2 per cento dei casi si
distribuiscono entro una deviazione standard ovvero un dalla media; il 27,2 per
cento dei casi sono compresi nell’intervallo fra e 2 a partire dalla media; il 4,4
per cento dei casi cadono nell’intervallo compreso fra 2 e 3 a partire dalla
media; e i casi restanti, ossia lo 0,2 per cento, si trovano a più di 3 dalla media.
Queste asserzioni devono essere semplicemente trasformate in probabilità. Ad
esempio, la probabilità che un dato cada all’interno di 1 dalla media dev’essere
0,682, dato che il 68,2 per cento dei casi cadono in quest’intervallo. Un altro
modo di esprimere questo fatto è che in media 682 casi su 1000 cadranno entro
una deviazione standard dalla media. Trasformazioni simili devono essere
325
compiute ovviamente anche per le percentuali che si presentano negli altri
intervalli. Poiché la curva della distribuzione di frequenza normale può essere
reinterpretata nel modo appena descritto, essa viene spesso indicata come la curva
di probabilità normale (fig. 75).
Fig. 75. La curva di probabilità normale.
Consideriamo uno o due esempi dell’uso della curva di probabilità normale. Le
frequenze delle stature di tutti gli americani medi riempiono praticamente una
distribuzione normale con una media di circa cm 170 e una deviazione standard di
circa cm 5. Qual è perciò la probabilità che un americano maschio scelto a caso
abbia una statura compresa fra cm 165 e 175? Poiché tutte le stature comprese fra
cm 165 e cm 175 cadono entro un dalla media e poiché 68,2 individui su cento
hanno stature comprese in quest’intervallo, la probabilità è 0,682. Analogamente,
la probabilità che un uomo scelto a caso abbia una statura compresa fra cm 170 e
cm 180 è 0,477 poiché l’intervallo compreso fra cm 170 e cm 180 è 2 a destra
della media e il 47,7 per cento degli individui ha una statura compresa in
quest’intervallo.
Si osservi che non rispondiamo alla domanda: qual è la probabilità che un
uomo scelto a caso abbia una statura di cm 172,72? La risposta a questa domanda
è zero perché questa è la probabilità di una possibilità tratta da un numero infinito.
Una tale questione non ha però alcuna importanza. Tutte le misurazioni sono
approssimate. Se l’errore nella misurazione della statura fosse, ad esempio, di cm
0,25 avrebbe più senso chiedersi: qual è la probabilità che un uomo, scelto a caso,
abbia una statura compresa fra cm 172,47 e cm 172,97? A questa domanda si può
dare una risposta riferendosi ai dati sulla curva normale, esattamente come
abbiamo fatto rispondendo alle domande poste nel paragrafo precedente.
Un problema più interessante concernente la probabilità sorge quando
cerchiamo di determinare, sulla base di un numero limitato di casi, ossia da un
campione, se le probabilità che nascano bambini o bambine siano esattamente
uguali. La statistica concernente una comunità presentò, su 3600 casi, 1890
nascite maschili e 1710 femminili. Questo scarto da un rapporto 50-50 indica che
326
la nascita di maschi e quella di femmine non sono ugualmente probabili? Non
necessariamente poiché dire che la nascita di bambini e quella di bambine sono
ugualmente probabili, o che la probabilità che nasca un bambino di sesso
maschile è 1/2, significa soltanto che in un numero grandissimo di casi ci saranno
press’a poco tanti bambini quante bambine. Che cosa possiamo concludere,
quindi, dai dati concernenti 3600 casi?
Potremmo affrontare questo problema supponendo che la nascita di bambini e
quella di bambine siano ugualmente probabili e chiedendoci quindi quale sia la
probabilità di ottenere 1890 maschi su 3600 nascite. Ora, in 3600 nascite, i
possibili risultati sono finiti, ossia zero maschi, un maschio, due maschi e così via
fino a 3600 maschi. Poiché si suppone che la probabilità che nasca un bambino,
come la probabilità che nel lancio di una moneta venga testa, sia di 1/2, potremmo
ricorrere alla tremilaseicentounesima riga del triangolo di Pascal per ottenere la
probabilità che nascano 1890 maschi. Il calcolo dei termini di questo triangolo,
anche se accelerato grazie alle tecniche dell’algebra, sarebbe però alquanto
tedioso.
Consideriamo invece le 3600 nascite come un insieme tratto da un numero
molto grande (a rigore infinito) di insiemi, contenenti ciascuno 3600 nascite. Tra
questi numerosi insiemi alcuni darebbero zero bambini, altri un bambino e così
via. Se ora noi registrassimo su un diagramma il numero di insiemi corrispondenti
a ciascun numero di maschi, otterremmo una distribuzione di frequenza normale.
(Questo fatto potrebbe essere quasi previsto sulla base di uno studio di Pascal sul
triangolo, il Traité du triangle arithmétique. Ad esempio, la settima riga ci dice
che, nel lancio di sei monete, tre teste e tre croci si presentano 20/64 volte, mentre
le probabilità di altri risultati cadono simmetricamente a entrambi i lati di questo
risultato.) Assumendo che bambini e bambine siano ugualmente probabili, il
numero maggiore di insiemi conterrebbe 1800 maschi e 1800 femmine. Questo
numero di bambini, 1800, è allora il numero medio di maschi. Dobbiamo ora far
ricorso a una formula di statistica, che non preciseremo qui, per ottenere la
deviazione standard di questa distribuzione di frequenza. In questo caso = 30.
Ciò significa che il 68,2 per cento degli insiemi conterranno un numero di
bambini compreso fra 1770 e 1830. Nell’insieme di 3600 nascite osservato il
numero dei maschi era, come si è detto, 1890. Questo numero si troverebbe 3 a
destra della media. Ora, la probabilità di un evento che si trova a 3 o più a destra
della media è solo di 0,001 ovvero una possibilità su mille. Poiché questa
probabilità è di fatto piccola, il nostro assunto che la nascita di maschi e quella di
femmine siano ugualmente probabili dev’essere erroneo. Di fatto, i dati
concernenti molte migliaia di nascite dimostrano che il rapporto dei parti maschili
a quelli femminili è di 51 a 49; ciò può essere una prova del buon giudizio di Dio
ovvero del fatto che la donna vale un po’ meno dell’uomo.
Il problema che abbiamo appena esaminato equivale a chiedersi quale sia la
probabilità che un evento particolare, la nascita di 1890 maschi su 3600 parti,
cada entro un preciso intervallo dell’intera gamma di possibilità. Si può
327
rispondere facilmente a questa domanda ricorrendo alla curva di probabilità
normale. Una domanda un po’ diversa è posta dal seguente tipo di problema.
Un produttore di spago vende il suo prodotto in gomitoli che pesano un
ettogrammo ciascuno in media. Egli sostiene che praticamente non esce dalla sua
fabbrica alcun gomitolo che si discosti di più di 0,1 ettogrammi dallo standard di
un ettogrammo. Un dettagliante compra 2500 gomitoli di questo filo, li pesa e
trova che pesano complessivamente 24,50 chilogrammi, con una media di 0,98
ettogrammi per ogni gomitolo. Il peso medio dei gomitoli è dunque nettamente
entro il limite di 0,1 ettogrammi che il produttore sostiene di rispettare. D’altra
parte, egli potrebbe produrre deliberatamente il suo spago in gomitoli di
ettogrammi 0,98, assicurandosi in tal modo un profitto occulto. Il produttore è
onesto? Ossia è probabile che una selezione casuale di 2500 gomitoli dalla
produzione complessiva pesi 0,02 ettogrammi meno della media?
La domanda concerne il comportamento delle medie di campioni. In che
misura la media di un campione dev’essere vicina alla media dell’intera
popolazione – ossia della produzione della fabbrica – per farci credere che esso
sia un campione di quella produzione? Si può rispondere a questa domanda
mediante uno studio della distribuzione di frequenza delle medie di tutti i possibili
campioni di 2500 unità ciascuno. Non possiamo sviluppare qui la teoria della
distribuzione delle medie. Sarà sufficiente dire che queste medie formano una
distribuzione normale; si potrebbe inoltre dimostrare che la media di questa
distribuzione di frequenza di medie è 1, la media dell’intera produzione, e si
potrebbe dimostrare chela deviazione standard di questa distribuzione di medie è
0,0006. Ora, il campione particolare ricevuto dal dettagliante presenta una media
di 0,98. Questa media differisce di 0,02 dalla media di 1 ed è perciò circa 30 volte
superiore a 0,0006 ovvero si trova circa 30 a sinistra della media dei campioni.
La probabilità che un dato cada a ben 30 dalla media è così piccola da essere
trascurabile. La probabilità che i 2500 gomitoli ricevuti dal dettagliante fossero un
campione casuale da una produzione di gomitoli del peso medio di un
ettogrammo non merita quindi alcuna fede. Sarebbe dunque pienamente
giustificata la conclusione che il produttore produce deliberatamente gomitoli di
spago dal peso medio inferiore a un ettogrammo.
Un’applicazione recente e interessantissima della teoria matematica della
probabilità fu quella destinata a “dimostrare” l’esistenza della percezione
extrasensoriale. Anche qui la dimostrazione si fonda sul rapporto fra il campione
e la popolazione completa. L’esistenza di una percezione extrasensoriale è stata
decisamente sostenuta dal professor J. B. Rhine e da altri fondandosi sul fatto che
taluni individui sono in grado di predire il numero e il colore di carte tratte da un
mazzo coperto in una percentuale di casi maggiore di quanto risulterebbe dalla
probabilità matematica. Ossia, se la probabilità di predizione corretta in un caso è
ad esempio 1/5, il soggetto dovrebbe essere in grado di indovinare correttamente
circa 1/5 delle carte coperte che gli vengono presentate. Ma supponiamo che in
800 tentativi il soggetto indovini 207 carte invece delle attese 160. La differenza
328
in più è, in questo caso particolare, accidentale oppure è significativa? Un tale
numero inaspettatamente grande di risposte esatte è interpretato da Rhine nel
senso di una facoltà mentale insolita che consente al soggetto di leggere carte
coperte per mezzo della percezione extrasensoriale. Se le 47 risposte esatte in più
siano un argomento sufficiente a sostegno di tale convinzione rimane dubbio.
Rhine ha calcolato che la probabilità di indovinare 47 carte in più in un insieme di
800 tentativi è 1/250 000. Questa probabilità è così piccola che Rhine non
attribuisce le risposte esatte in più a mero caso.
In tutte le applicazioni che abbiamo esaminato finora, la teoria della probabilità
è servita per misurare il grado di probabilità di qualche evento o possibilità. Non
contenta di svolgere quest’umile servizio a beneficio della scienza e
dell’industria, la teoria divenne una padrona tirannica. Il problema che condusse a
compiere questo passo è già stato da noi menzionato in precedenza. Le molecole
di un gas si attraggono reciprocamente in accordo alla legge newtoniana della
gravitazione. Ogni tentativo di predire il moto, l’espansione, la contrazione o la
variazione di temperatura di un gas sulla base di questa legge newtoniana diventa
però disperatamente complesso a causa del gran numero di molecole. La
matematica non è in grado di risolvere esattamente il problema del moto di
neppure una molecola soggetta alle forze d’attrazione anche di poche altre.
Il difficile problema fu risolto da Clerk Maxwell e il metodo gli fu fornito dalla
teoria della probabilità. Il numero infinito di molecole in un volume di gas è
sostituito da una molecola ideale o rappresentativa la cui dimensione è la
dimensione più probabile di tutte le molecole nei gas, la cui velocità è la velocità
più probabile, la cui distanza dalle altre molecole è quella più probabile e così per
tutte le altre proprietà. Il comportamento più probabile di questa molecola ideale è
poi assunto come il comportamento del gas stesso. È sorprendente, ma nondimeno
vero, che le leggi ottenute in questo modo descrivono e predicono il
comportamento di gas esattamente come le leggi dell’astronomia predicono i moti
dei pianeti. Sostanzialmente, il comportamento più probabile dei gas risulta essere
quello reale.
Considereremo più avanti le esplosive implicazioni di quest’applicazione della
teoria della probabilità. Per il momento è sufficiente osservare che la teoria della
probabilità emerse così dalla sua semplice funzione esercitata nella valutazione di
dati e di ipotesi imponendosi alla considerazione come metodo primario per
ottenere leggi.
La funzione vitale che la teoria della probabilità è venuta ad assumere nel
lavoro scientifico e nel pensiero filosofico fu presagita nell’opera di Pascal. Egli
cominciò applicando la teoria al gioco d’azzardo e finì applicandola a Dio. Pascal
era a una svolta nella storia, all’epoca in cui la nuova scienza aveva cominciato a
scuotere vigorosamente la vecchia fede. Come ogni uomo pensante del suo
secolo, egli fu indotto a prender parte nel conflitto e a cercare una qualche
filosofia risolutiva. Intensamente religioso per natura, e autore di notevoli
contributi alla scienza e alla matematica, Pascal sentì il conflitto in modo più
acuto di qualsiasi altro. Vedendo egli così bene entrambi i lati, la sua mente
329
divenne un campo di battaglia e in un passo estremamente affascinante egli
dichiarò apertamente la sua confusione:
Proprio ciò che vedo mi turba. Guardo da tutte le parti e non vedo altro che tenebre. La
natura non offre nulla che non sia soggetto a dubbio e a inquietudine; se io non vedessi in
nessun luogo alcun segno di un Dio, dovrei decidere che non esiste; se vedessi ovunque i segni
di un Creatore, dovrei riposare in pace nella mia fede; ma vedendo troppo per negare e troppo
poco per affermare fiduciosamente, sono in uno stato compassionevole e ho desiderato cento
volte che, se un Dio sostiene la natura, questa dovrebbe rivelarlo senza ambiguità o che, se i
segni di un Dio sono fallaci, la natura dovrebbe sopprimerli totalmente; dica l’intera verità o
nulla, in modo che io possa vedere da che parte stare.
Ma Dio si rifiutò di rivelarsi. Pascal si ricordò allora della sua opera sulla
probabilità e dei problemi sul gioco d’azzardo con essa risolti. La teoria
conteneva un messaggio per il problema della fede religiosa? La risposta gli
venne nella forma nota oggi come la scommessa di Pascal.
Il valore di un biglietto di una lotteria è il prodotto della probabilità di vincere e
del premio in gioco. Anche se la probabilità può essere piccola, se il premio è
molto grande il prezzo del biglietto è grande. Cosi, ragionò Pascal, benché la
probabilità che Dio esista e che la fede cristiana sia vera sia di fatto piccola, il
premio per tale fede è un’eternità di beatitudine. Il valore di questo biglietto per la
lotteria del cielo è dunque grande. D’altra parte, se la dottrina cristiana è falsa, il
valore perduto aderendo ad essa è al massimo il godimento di una breve vita.
Scommettiamo dunque sull’esistenza di Dio.
La scommessa di Pascal non era un’osservazione irriverente; era invece un
grido di disperazione. Il problema da lui affrontato si è ripresentato in seguito in
una forma solo leggermente diversa. Esso fu riaperto in tempi recenti dalla teoria
da lui creata.
330
XXIV. Il nostro universo disordinato: la concezione
statistica della natura
Dunque è così: la Causa universale
agisce a un fine ma con varie leggi.
ALEXANDER POPE
Nell’universo ci sono legge e ordine oppure il suo comportamento è
semplicemente opera del caso e del capriccio? La Terra e gli altri pianeti
continueranno a compiere i loro moti attorno al Sole oppure qualche corpo
sconosciuto, venendo da grandi distanze, penetrerà nel nostro sistema planetario e
altererà il corso di ogni pianeta? Non può il Sole esplodere un giorno o l’altro,
come fanno quotidianamente altri soli, e ridurre noi tutti in cenere? L’uomo fu
insediato deliberatamente su un pianeta preparato apposta per lui oppure è solo il
prodotto insignificante di circostanze cosmiche accidentali?
La persona che pensa vorrebbe, più di ogni altra cosa, conoscere la risposta a
queste domande. Insignificanti al confronto sono i suoi piani grandiosi per una
associazione di nazioni, i suoi urgenti interessi monetari e le irritazioni della vita
quotidiana. Il desiderio insopprimibile di trovare risposte è la qualità che nobilita
l’uomo, e il suo sforzo incessante per conoscere se stesso, i prodigi della natura, la
struttura dell’universo e le forze che mantengono in moto tutte le attività
dell`universo dà un significato a vite che altrimenti resterebbero inevitabilmente
opache. Le risposte non saranno mai note interamente ma, grazie ai grandi
matematici, l’uomo possiede molti indizi significativi. Purtroppo questi indizi
ammettono più di un’interpretazione.
Una di queste interpretazioni ci è già familiare. Ragionando sulla base
dell’esistenza delle leggi matematiche scoperte durante l’èra newtoniana, i
pensatori del Settecento eressero il più vasto e influente sistema filosofico dei
tempi moderni. Esso propose un mondo che rivela un disegno razionale e un
ordine e che funziona secondo un piano. Le leggi matematiche resero manifesto il
disegno razionale, mentre l’infallibile realizzazione delle predizioni scientifiche
diede una prova del fatto che l’interpretazione matematica era aderente al disegno
razionale. Ovviamente le leggi che governano il moto dei pianeti e di altri oggetti
inanimati non chiariscono se anche l’uomo si adatti nel sistema delle cose. Ma,
dato che l’evidenza del disegno razionale era irrefutabile, si potevano nutrire
dubbi sul fatto che anche l’uomo vi fosse incluso?
Questa filosofia del determinismo domina ancora il nostro pensiero e le nostre
convinzioni e guida ancora le nostre azioni. Purtroppo l’ordine della natura, che
apparve estremamente semplice e armonioso ai fondatori della scienza moderna,
331
appare ora spezzarsi nel turbine della statistica e della probabilità usate con tanta
efficacia dall’Ottocento e dal Novecento.
I matematici erano naturalmente orgogliosi delle nuove idee e tecniche da essi
introdotte per trattare i dati statistici. Essi erano anche soddisfatti della
conversione della nozione intuitiva di probabilità in un utile strumento per guidare
le azioni dell’uomo. Ma in quanto erano anche membri della comunità
intellettuale in cui operavano, la loro gioia fu di breve durata poiché proprio il
successo dei metodi statistici e della teoria della probabilità fece sgretolare sulle
loro teste la struttura ordinata della natura.
Se le formule e le leggi ottenute con i nuovi procedimenti fossero state
imprecise, sarebbero state abbandonate come surrogati non attendibili da usarsi
soltanto quando il procedimento sicuro consistente nel dedurre conclusioni da
assiomi matematici e scientifici completamente accettabili fosse fallito. E se esse
fossero state semplicemente rozze approssimazioni, ai nuovi metodi non sarebbe
stato attribuito alcun significato filosofico indebito. Così però non era. Esse erano,
di fatto, sorprendentemente precise ed efficaci, e perciò il discorso è rimasto in
sospeso.
Consideriamo il cuore del problema ed esaminiamo la sfida alla filosofia
deterministica lanciata dall’avvento dei metodi statistici. Ci concederemo il
privilegio di usare la tecnica platonica del dialogo, in modo che gli argomenti pro
e contro vengano esposti dal signor Determinismo e dal signor Probabilità a un
Alto Grado. Quest’ultimo, il personaggio giovane, aprirà la discussione
esponendo compiutamente il problema.
La considerazione che disturba di più, egli sottolinea, è che i metodi statistici e
la teoria della probabilità producono leggi del tutto attendibili là dove non
abbiamo ragione di attenderci alcuna legge. Consideriamo, ad esempio, la
distribuzione dell’intelligenza. Si scelga un ampio gruppo casuale di persone e se
ne misuri l’intelligenza con un test ben progettato; la distribuzione si avvicinerà
alla curva di frequenza normale. Quanto più ampio sarà il gruppo sottoposto al
test tanto più la curva sarà prossima a una distribuzione normale perfetta.
L’attribuzione apparentemente disordinata delle qualità varie e inesplicabili che
determinano l’intelligenza non rivela certo una legge; eppure la distribuzione
dell’intelligenza segue una curva che esprime regolarità e un rapporto invariabile.
Consideriamo inoltre il fenomeno dell’eredità. I cromosomi dei genitori si
mescolano liberamente nell’uovo fecondato e infinite trasformazioni hanno luogo
dalla concezione alla maturità; eppure la trasmissione di caratteri ereditari può
essere predetta con precisione dalla teoria della probabilità.
Eseguiamo ora numerose misurazioni di una lunghezza e registriamo
graficamente le varie misure in relazione alla frequenza con cui ciascuna di esse si
presenta. La rozzezza dell’occhio e della mano dovrebbero introdurre in queste
misurazioni un’irregolarità considerevole; eppure la curva rivelerà quasi una
distribuzione normale e quanto più grande sarà il numero delle misurazioni tanto
più la curva si avvicinerà a una distribuzione normale. Anche gli errori dell’uomo
seguono una legge. In breve, conclude il signor P., abbiamo il risultato
332
sorprendente e spiacevole che sono descritti da leggi anche fenomeni che,
secondo ogni apparenza, non dovrebbero seguire alcuna legge.
Ma perché, chiede il vecchio signor D., dovrebbe turbarci l’esistenza di leggi
che coprono fenomeni per i quali non ci si attendeva alcuna legge? Perché non
dovremmo esser lieti per il fatto di avere un numero maggiore di leggi?
L’esistenza di altre leggi non rafforza forse gli argomenti a favore del
determinismo? Un disegno razionale evidentemente esiste ovunque, anche dove
non ce lo aspettiamo.
Proprio perciò la cosa mi preoccupa, risponde il signor P. Non soltanto non
abbiamo alcuna ragione di attenderci leggi in queste situazioni ma abbiamo ogni
ragione di non attendercene. Dal momento che possediamo leggi che governano
tali situazioni, quale importanza possiamo attribuire all’esistenza delle leggi
matematiche prodotte dalla scienza newtoniana? Perché inferire disegno razionale
e determinismo dall’esistenza di tali leggi?
Piano, piano, risponde il signor D. Supponiamo di mettere la cosa in questi
termini. Noi abbiamo evidentemente leggi matematiche le quali descrivono
fenomeni che, al meglio della nostra conoscenza, appaiono essere casuali e
disordinati, e per questa ragione lei mette in questione il significato di leggi che
abbiamo sempre considerato alla stregua di una prova del disegno razionale
dell’universo. Può darsi tuttavia che i fenomeni apparentemente disordinati
seguano leggi fisiche ma che essi appaiano alla nostra limitata intelligenza come
prodotti del caso solo a causa della loro grande complessità.
Il suo ragionamento sembra abbastanza ragionevole, risponde il signor P., il
quale cerca semplicemente di tener buono il suo oppositore con qualche parola
gentile. A un’attenta considerazione i moti delle molecole di gas appaiono
completamente irregolari; eppure i fisici credono che ciascuna molecola segua la
stessa legge fisica che mantiene la Terra nella sua orbita attorno al Sole.
Analogamente, si potrebbe sostenere che la distribuzione di qualità che governano
l’intelligenza e il processo della trasmissione ereditaria segua processi fisici
ordinati i quali determinano con precisione lo stato di ciascun individuo ma che
questi procedimenti siano troppo complessi per poter essere compresi dalla nostra
intelligenza. Lo stesso si potrebbe dire per fenomeni economici, per l’incidenza
delle cause di morte e per altri fenomeni che accadono apparentemente secondo
una legge. Così fenomeni che ci appaiono privi di un ordine possono essere
completamente determinati e le leggi matematiche ottenute da studi statistici
possono riflettere semplicemente l’esistenza di questi processi fisici ordinati
soggiacenti ai fenomeni.
Il signor D. è ora compiacentemente a guardia scoperta, mentre il signor P., che
conosce bene la sua teoria della probabilità, si appresta a portare il suo attacco.
Ma ora, signor D., consideriamo i seguenti fatti. Quando sei monete sono
lanciate simultaneamente in aria, si può avere testa in un numero qualsiasi di
monete da zero a sei. Noi non abbiamo alcuna possibilità di dire quale sarà il
numero esatto di monete che daranno testa perché il risultato è determinato da
troppi fattori noti e ignoti: la velocità del vento, la forza impartita alle monete
333
dalla mano, la forma del pavimento su cui esse cadono e altri fattori. Supponiamo
allora che il risultato del lancio delle monete sia un prodotto del caso. Inoltre,
quanto maggiore è il numero dei lanci, tanto più è permesso al caso di svolgere
una funzione. Eppure, se queste sei monete vengono lanciate un gran numero di
volte, la teoria della probabilità ci consente di calcolare in anticipo quante volte si
avrà zero teste, quante volte una testa e così via fino all’ultima possibilità. Quanto
maggiore sarà il numero dei lanci tanto più i risultati saranno in accordo con le
predizioni della teoria. Perciò, prescindendo dal fatto che la caduta di una moneta
sia determinata o no da una serie di norme inviolabili, l’assunto che il solo caso
decida l’esito fornisce leggi matematiche che predicono il risultato.
Di fatto, continua il signor P., lei sa che i fisici dell’Ottocento ottennero alcune
leggi famosissime sul comportamento dei gas mediante un procedimento assai
simile a quello che ho appena descritto per il lancio delle monete. Essi aggirarono
le difficoltà connesse allo studio dei movimenti di miliardi e miliardi di molecole
in un gas operando con una molecola ideale, fittizia, la cui massa, velocità e altre
proprietà hanno i valori più probabili che possono presentarsi fra i valori di massa
e di velocità delle molecole nei gas. Eppure le leggi ottenute ragionando con
queste molecole ideali sono altrettanto applicabili di qualsiasi altra legge prodotta
dalla matematica e dalla scienza, nonostante che esse stabiliscano soltanto il
comportamento più probabile di un gas e non quello necessario. Perciò la
convinzione che molecole singole seguano un modello preassegnato non è
sostenuta affatto da un comportamento conforme a legge di masse di molecole. Di
fatto tale convinzione è ingiustificata.
Il signor D. ben lungi dall’essere disposto ad abbandonare le sue posizioni.
Lei è d’accordo, signor P., sul fatto che il moto delle molecole in un gas e la
caduta di una moneta possano seguire leggi precise, inevitabili, ma suppone per
ragioni di convenienza che ciascuna moneta cada a caso e che le molecole di un
gas abbiano i caratteri più probabili. Proprio perché questa supposizione di un
moto casuale e la sua matematica della probabilità consentono una predizione
esatta, non dovremmo perdere di vista l’esistenza di leggi fondamentali
soggiacenti ai fenomeni. Benché l’uso di argomentazioni probabilistiche per
fenomeni complessi sia conveniente e fecondo, esso non toglie credito di per sé
alle leggi soggiacenti. Di fatto, soltanto grazie al fatto che queste leggi sono
valide, le argomentazioni probabilistiche forniscono conclusioni ragionevoli e
utili.
Signor D., lei non valuta ancora appieno la forza del mio argomento. In realtà
lei vedrà che ha torto a credere nell’esistenza di leggi necessarie. Consideriamo,
ad esempio, la caduta di una moneta e consideriamone in particolare il peso, che
ha parte in qualsiasi legge newtoniana concepibile che ne descriva il moto.
Nel tempo in cui la moneta sta cadendo, il suo peso non si conserva costante.
La moneta è composta da un numero di molecole enorme ma continuamente
vario, poiché ogni oggetto solido acquista e perde continuamente molecole. Il
vento che soffia sulla moneta mentre essa cade è composto da miliardi e miliardi
di molecole, messe in moto non sappiamo come, le quali danzano tutte attorno
334
alla moneta in modi alquanto diversi. La superficie del pavimento su cui la
moneta cade non ha un angolo fisso. Man mano che molecole di legno si
sottraggono ad esso o gli si aggiungono, la forma cambia, e quindi l’angolo a cui
la moneta percuote il pavimento non è preciso, né lo è la distanza di caduta.
Supponiamo di cercar di misurare la distanza fra il centro della moneta e la
superficie del pavimento. Dov’è il centro della moneta, la cui forma sta mutando
continuamente? Dove comincia la superficie del pavimento, dato che i suoi strati
di molecole sono del tutto irregolari? Useremo un regolo per misurare tale
distanza? Ma neppure la lunghezza del regolo è costante, come quella di qualsiasi
altra massa. Le molecole più esterne se ne separano e vi ritornano, alterandone
continuamente la lunghezza.
Ora che tocchiamo con mano quali siano le complessità nella struttura della
materia, insiste il signor P., non è un’audacia eccessiva la nostra quando parliamo
in generale di leggi scientifiche? Tutte le leggi del genere si occupano di materia,
di masse, superfici, lunghezze, pressioni, densità e altre proprietà che non sono
mai costanti, per nessun oggetto. Soltanto l’imprecisione delle nostre mani, dei
nostri occhi e dei nostri strumenti di misurazione ci inganna facendoci credere che
esistano cose come lunghezze e masse fisse e che sia lecito parlare di leggi
scientifiche esatte. Le leggi possono implicare massa, lunghezza, volume, peso e
altre qualità soltanto nella misura in cui usino valori medi per queste quantità. Le
leggi possono essere perciò soltanto compendi convenienti di stati fisici in realtà
irregolari in cui le variazioni si raggruppano attorno ad alcuni numeri medi. In
sintesi, signor D., il nostro esame del fatto che alcune leggi coprono in apparenza
fenomeni caotici ci ha condotto alla conclusione che ciò vale per tutte le leggi
scientifiche per quanto concerne l’esistenza di una natura ordinata?
Il punto centrale della sua argomentazione come la intendo io signor P., è che
quando esaminiamo la struttura della materia stessa troviamo che quantità
apparentemente costanti stanno mutando continuamente. Perciò lei chiede come si
possa parlare di leggi scientifiche definite, immutabili, dal momento che esse
sono tutte affermazioni convenienti circa effetti medi, esattamente come
un’affermazione sul reddito medio di un lavoratore è un’affermazione che non
concerne nessun lavoratore nella sua singolarità. Ma rifletta un momento, signor
P. Perché gettare il discredito su leggi generali, rivelatrici, ben verificate,
semplicemente a causa di talune irregolarità microscopiche che non hanno alcuna
influenza su alcuni degli eventi maggiori coperti da tali leggi?
Quel che lei dice potrebbe essere vero, signor D., se la situazione non fosse
molto peggiore di come l’ho descritta finora. Consideriamo un po’ più addentro la
natura della materia stessa ed esaminiamo le molecole stesse. Come lei sa, esse
sono fatte di atomi, e questi, a loro volta, sono composti da elettroni liberi e da un
nucleo dotato di una struttura assai complicata. E ora, signor D., si tenga ben
stretto mentre le dico una cosa o due a proposito del nucleo e degli elettroni. Lei
immagina probabilmente queste particelle come piccoli pezzi di materia esistenti
ciascuno in ogni determinata frazione di tempo in uno spazio ben definito: Questo
è quanto pensavano gli scienziati in passato. Oggi non ci si può più esprimere
335
così, ma dobbiamo dire che ogni elettrone e ogni costituente del nucleo esistono
ovunque ma con maggiore o minore probabilità nelle varie posizioni. In effetti la
moderna teoria atomica dice che lei non è seduto nella sua poltrona in un angolo
di questa stanza, bensì che lei esiste ovunque, con un grado di probabilità che
varia da posto a posto e che è massimo per l’angolo in cui pensa di sedere. Una
teoria fantastica della materia, vero? Così fantastica come il concetto medievale di
inferno? Può darsi, visto che è stata proprio questa teoria a portare nel nostro
mondo l’inferno delle bombe atomiche.
E ora, signor D., dov’è la buona, antiquata, solida materia che obbedisce a leggi
matematiche precise, cogenti? Il sasso preso un tempo a calci dal dottor Johnson
per dimostrare la realtà della materia si è dissolto in una distribuzione diffusa di
probabilità matematiche. La scala innalzata un tempo da Descartes, Galileo,
Newton e Leibniz per dare la scalata al cielo poggia su una base continuamente
mobile, instabile.
Non riesco a vedere il rapporto, signor P. Lei mi sta dicendo semplicemente
che la struttura dell’atomo è così complessa, alla luce della nostra comprensione
presente, che gli scienziati hanno dovuto far ricorso ad argomentazioni
probabilistiche per padroneggiarla. Ma che cosa dimostra ciò? Lei ha
semplicemente spostato il discorso dal lancio di monete alla struttura dell’atomo.
Io non dubito del fatto che la struttura atomica sia complessa né metto in dubbio
l’opportunità di usare la teoria della probabilità nello studio di tale struttura.
Eppure l’esistenza di leggi per l’atomo, così come l’esistenza di leggi per la
distribuzione dell’intelligenza o per l’eredità di caratteri non nega in sé la
possibilità di un comportamento determinato delle particelle subatomiche. Il
dottor Einstein ha detto a proposito di quest’argomento: “Non crederò mai che
Dio giochi a dadi con il mondo.”
Può darsi, signor D., ma il mio argomento, che lei sostiene di non vedere, è che
non si può concludere che l’acquisizione di leggi operanti dimostri di per sé,
necessariamente, un disegno razionale, un ordine invariabile della natura e la
causalità: in sintesi il determinismo. Lei deve concederlo, a mio avviso. So
nondimeno che lei ritiene di avere ancora qualche asso nella manica. Lei sostiene
che l’esistenza di leggi che descrivono il comportamento della materia,
nonostante la struttura complessa di questa, è pur sempre una prova in più del
fatto che queste leggi implicano un disegno razionale.
Il signor P. ha esposto l’argomento del signor D. perché gli riusciva difficile
smettere di parlare anche dopo aver esposto le sue ragioni e anche perché, con la
grande sicurezza propria dei giovani, riteneva di poter esporre le argomentazioni
del signor D. meglio del suo stesso antagonista. Secondo il procedimento
parlamentare, e ancora il signor P. a prendere la parola, per illustrare i suoi
argomenti.
Mi lasci considerare una legge in vece sua, signor D., e vediamo quanto la cosa
le torni favorevole. Mi elenchi i dati relativi alla prosperità nazionale per gli
ultimi cinque anni e l’intensità delle macchie solari per quegli stessi anni. Lei
conosce ovviamente il procedimento statistico consistente nel trovare una formula
336
adatta a un insieme di dati. Questo procedimento mi darà una formula, una legge
matematica che mette in relazione la prosperità nazionale e l’intensità delle
macchie solari. Quale conclusione dovremmo trarre a proposito dell’esistenza di
qualche connessione inevitabile fra le due variabili? Nessuna assolutamente, non
è vero? Eppure, in che cosa differisce questa formula dalle numerosissime altre
formule che, a quanto lei dice, proclamano leggi dell’universo?
Il signor D. si alza a questo punto, un po’ turbato, dalla sua poltrona (che esiste
ovunque con vario grado di probabilità).
La risposta è evidente, signor P. Le leggi scientifiche conserveranno la loro
validità indefinitamente, a differenza della formula adattata ai dati sulle macchie
solari e sulla prosperità nazionale. Consideriamo ad esempio le leggi di Keplero.
Tutte le osservazioni degli ultimi quattrocento anni le confermano. Non è
significativo che la Terra abbia seguito le medesime leggi per un periodo di tempo
tanto lungo?
Sono lieto che lei abbia scelto le leggi di Keplero come esempio, signor D.
Innanzitutto, vorrei ricordarle che le leggi di Keplero furono ottenute appunto in
origine adattando formule a dati di osservazione.
Dopo molti anni di grandi sforzi e dopo aver provato una cinquantina di tipi
diversi di curve, Keplero trovò che l’orbita di Marte è un’ellisse. Tutte le
osservazioni di Copernico e di Brahe gli erano favorevoli.
Fortunatamente per Keplero e per la storia della scienza, quelle osservazioni
non erano troppo buone. Oggi sappiamo, dalla teoria e da osservazioni più
precise, che la vera orbita non è un’ellisse ma che è distorta da ogni sorta di
perturbazioni dovute all’attrazione gravitazionale degli altri pianeti. Le leggi di
Keplero sono dunque descrizioni del comportamento medio dei pianeti. A rigore,
oggi non sono valide.
Di più, la sorte delle leggi di Keplero è stata quella stessa di tutte le leggi
scientifiche. Esse valgono per qualche tempo, dopo di che l’aumento generale
delle conoscenze scientifiche rende necessario qualche ritocco. Le leggi di
Keplero erano in sé un perfezionamento della teoria copernicana e Copernico,
come sappiamo, aveva perfezionato l’astronomia tolemaica. Le leggi di Keplero si
rivelarono buone descrizioni perché egli aveva il vantaggio di costruire su una
teoria precedente. Ma neppure la sua opera rappresenta l’ultima parola.
Forse no, si affretta a ribattere il signor D., cessando per un momento di
camminare nervosamente avanti e indietro. Ma lei ammette che la storia di quelle
leggi rivela un sempre maggiore perfezionamento. E tale perfezionamento, a che
cosa condurrà? Alle leggi vere, senza dubbio; e le leggi di Keplero, se non sono
l’ultima parola, non ne sono certo molto lontane. Ma come potremmo
approssimarci sempre più alle leggi vere se non ci fossero leggi vere verso cui
tendere?
La risposta, signor D., è che se la Terra nei suoi moti aderisce esattamente a un
modello, modello cui le leggi di Keplero si avvicinano così mirabilmente, tale
modello può essere ancora solo il comportamento più probabile; nessuna
necessità a noi nota costringe la Terra a continuare a fare la cosa più probabile più
337
di quanto la necessità dica alle monete quanto spesso devono dare testa. Domani
la Terra potrebbe schiantarsi nel Sole. In altri termini, signor D., e se lei la smette
di camminare nervosamente potrà concentrarsi meglio, non stiamo mettendo in
discussione l’esistenza di leggi che funzionano bensì il significato che si deve
attribuire ad esse.
Mi spiace di averla disturbata camminando, signor P. Mi consenta di presentare
un importante argomento a favore delle leggi di Keplero e di altre leggi, un
argomento che non vale per le sue leggi statistiche, per le sue leggi ottenute
adattando formule a dati. Ricordiamoci che Galileo e Newton analizzarono con
successo i fenomeni del moto. Il risultato fu che possediamo una spiegazione
fisica del comportamento dei pianeti nei termini di una forza di gravitazione.
Questa forza mantiene i pianeti nelle loro orbite e ve li mantiene obbedendo alle
leggi di Keplero. Queste leggi sono di fatto una conseguenza matematica della
legge della gravitazione. Anche le perturbazioni nelle orbite dei pianeti sono
spiegate ora con l’azione di forze gravitazionali.
Signor D., sono imbarazzato per lei. Le sue spiegazioni non spiegano un bel
niente! Quanto poi alla sua teoria della gravitazione, lei sa bene che è solo una
finzione. Che cos’è questa forza di gravità che mantiene i pianeti nelle loro
orbite? Nessuna immaginazione o opera letteraria sforza il nostro intelletto quanto
il tentativo di capire in che modo il Sole esercita la sua attrazione sulla Terra.
Connessioni molto più ragionevoli potrebbero essere escogitate per mettere in
relazione le macchie solari e la prosperità nazionale. Tutto ciò che noi possediamo
in realtà sono solo formule e non abbiamo ragione di attribuire importanza
filosofica all’esistenza di queste formule più che all’esistenza di una formula che
metta in relazione macchie solari e prosperità nazionale.
Il signor D. cerca ancora una volta il conforto della comoda poltrona, della cui
esistenza reale comincia a dubitare. Il signor P. continua a declamare e decide di
sfruttare il vantaggio.
Ricapitoliamo un momento, egli riassume. La discussione fra noi non deve
concentrarsi su un punto? Sulla conoscenza di poche leggi della natura è stata
costruita una filosofia della natura. L’introduzione di metodi statistici e la teoria
della probabilità ci costringono ora a considerare quanto poco sia realmente
implicato nella scoperta, o vorrei dire costruzione, di poche leggi.
Il signor D. non seguiva più il discorso; si era perduto dietro i suoi pensieri. I
vari argomenti del suo loquace oppositore avevano evidentemente aperto la sua
mente all’esistenza di irregolarità e disordine anche alla base di fenomeni in
precedenza considerati rigorosamente soggetti a leggi precise. Lo sviluppo della
teoria atomica da parte di chimici e di fisici rivelava nuovi problemi e incertezze
in quel campo e rendeva manifesto al di là di ogni dubbio il fatto che la materia è
assai più complessa di quanto si fosse supposto. Lo sviluppo della teoria cinetica
del calore, che spiegava questo fenomeno nei termini della rapidità del moto delle
molecole, chiarì che il flusso di calore e di freddo non è altro che un effetto
d’assieme di moti irregolari di miliardi di molecole. La pressione costante di un
liquido non era una singola forza definita bensì semplicemente l’effetto d’assieme
338
di un bombardamento irregolare delle pareti del recipiente da parte delle singole
molecole del liquido. Una superficie liscia di uno specchio era in realtà soltanto
un aggregato di molecole, ciascuna delle quali aveva un comportamento diverso,
anche se l’intero aggregato dà l’effetto preciso di riflettere la luce in modo
costante e in accordo con leggi matematiche. I suoni di voci umane e di strumenti
musicali, riprodotti quotidianamente con fedeltà quasi assoluta e così ben
rappresentati da formule matematiche, non erano altro che gli effetti medi di
movimenti irregolari d’insieme di molecole d’aria. L’uso da parte di Galton di
metodi statistici per trovare le leggi dell’eredità – dopo che non era riuscito a
trovarne o a intenderne il meccanismo – fece apparire anche tale fenomeno un
gioco del caso. Le forme e varietà di piante, animali e persino esseri umani erano
illimitate. Il tempo meteorologico era più contrario che compiacente. Non si
potevano predire, e tanto meno controllare, periodi di siccità, uragani e raffiche di
pioggia. Le stesse forze della natura che erano state oggetto di ammirazione per la
loro semplicità, ordine e invariabilità comprendevano anche ondate di marea,
eruzioni vulcaniche e terremoti tutti inattesi e inspiegabili. La natura appariva
d’improvviso imprevedibile, malvagia e capricciosa.
Così quello stesso mondo che il Settecento considerava rigidamente
determinato e progettato in accordo a leggi matematiche immutabili doveva essere
considerato ora evidentemente caotico, privo di leggi e imprevedibile. La realtà
appariva totalmente priva di ogni finalità, il racconto di un idiota, ricco di suoni e
di furia, privo di ogni significato. “L’uomo, in particolare, era solo un accidente
del concorso cieco e fortuito di eventi. Le leggi matematiche della scienza non
erano nulla di più che compendi convenienti, utili, degli effetti medi di eventi
disordinati. Questo atteggiamento nei confronti della natura e delle sue leggi,
secondo cui la natura sarebbe caotica e imprevedibile e le sue leggi non sarebbero
altro che descrizioni convenienti, temporanee di effetti medi, è noto come
concezione statistica della natura.
Questa concezione statistica e la concezione deterministica sono
immutabilmente opposte. Pur essendo entrambe d’accordo sull’esistenza e
sull’applicabilità delle leggi scientifiche, interpretano questi dati di fatto in modo
radicalmente diverso. Il determinismo asserisce che le leggi scientifiche sono
asserzioni concernenti il comportamento necessario, immutabile, universale di
oggetti naturali. La concezione statistica considera le leggi come affermazioni che
posseggono semplicemente un grado elevato di probabilità. Il determinista crede
in una connessione essenziale fra oggetti legati dalla legge, così come lo sono la
Terra e il Sole nelle leggi di Keplero. Il fautore della teoria statistica sostiene che
la legge è semplicemente un’osservazione di una situazione temporanea, una
giustapposizione accidentale non più significativa del fatto che io sto portando
una cravatta scura e che nello stesso tempo il mio vicino fuma un sigaro. Il
determinismo asserisce che lo stato presente della natura determina
inalterabilmente il futuro. Se io lancio in aria una palla, essa ricadrà seguendo una
traiettoria parabolica. La concezione statistica dice che essa non soltanto può
339
cadere seguendo una traiettoria diversa da quella parabolica ma che può anche
volare direttamente nel Sole.
Un paio di esempi possono chiarire ulteriormente la differenza fra i due diversi
punti di vista. Supponiamo che un battitore di baseball colpisca una palla.
Secondo la concezione deterministica, le forze all’opera quando la mazza entra in
contatto con la palla costringono questa a seguire una traiettoria ben definita, la
quale potrebbe essere predeterminata e che è descritta dalle leggi matematiche del
moto. Dati pochi fatti quantitativi, il moto della palla potrebbe essere predetto con
certezza. Secondo la concezione statistica, potremmo dire che i miliardi di
molecole che formano la mazza, avvicinandosi ai miliardi di molecole
componenti la palla, nei loro moti casuali colpiranno probabilmente molte
molecole di questo secondo gruppo e impartiranno loro le proprie velocità. Poiché
ciò accadrà a molte fra le molecole che costituiscono la palla, la palla stessa sarà
messa probabilmente in movimento in quella direzione verso cui sono dirette la
maggior parte delle sue molecole in seguito al contatto con quelle della mazza. La
probabilità che la palla si muova in una direzione definita è così grande che non
potremmo attenderci un comportamento diverso, anche se esso è almeno
possibile. L’ago deve esistere nel pagliaio anche se la probabilità di trovarlo è
molto, molto piccola.
Un altro esempio può chiarire ulteriormente la distinzione fra le concezioni
deterministica e statistica. In tempi normali una nazione, considerata come
un’entità, presenta un modello di comportamento continuo, regolare. Le persone
vanno a lavorare; mangiano; uomini e donne si sposano e formano famiglie;
vecchi e giovani hanno i loro passatempi e divertimenti; vengono indette elezioni
e gli eletti assumono le rispettive cariche. Se conoscessimo sulla nazione solo
questi fatti, e se un tale comportamento potesse essere dedotto da assiomi molto
ragionevoli sugli esseri umani, saremmo tentati di asserire che il comportamento
delle nazioni e anche la vita stessa devono essere stati progettati e definiti da
qualche essere superiore e costretti a seguire questo disegno invariabile. Il
sostenitore della concezione statistica insisterà però per considerare la cosa più da
vicino. Che cosa si scopre quando si esamina il comportamento degli individui
stessi? Molte persone non vanno a lavorare; esse chiedono l’elemosina, si fanno
fare prestiti e rubano. Alcune persone non mangiano; esse muoiono di fame.
Alcuni non si sposano, oppure si sposano e non hanno figli. Alle elezioni soltanto
una parte della popolazione vota; degli altri, una parte se ne disinteressa e ad altri
non è consentito. In considerazione di questi fatti, che cosa diremo del
comportamento della popolazione considerata come un gruppo? Essa segue leggi
immutabili, predeterminate? Le affermazioni sul comportamento di gruppo non
sono semplicemente descrizioni di effetti generali, di massa, che celano ogni sorta
di azioni opposte, di irregolarità e addirittura di disordine? La concezione
statistica riconosce la variabilità e addirittura il carattere casuale di azioni
individuali. Essa si attende però che l’effetto complessivo di atti molteplici,
benché diversi da un individuo all’altro, produca nondimeno un risultato medio
nell’intera nazione. Essa concede però specificamente la possibilità che l’effetto
340
di massa possa essere talvolta rivoluzionario e che possano prodursi mutamenti
profondi nel comportamento medio della gente.
La questione se sia nel vero la concezione deterministica o quella statistica
della natura non è un problema accademico. In un universo razionale e ordinato,
la vita ha un significato e un fine. La certezza di questo disegno razionale dà
all’uomo coraggio e una ragione per vivere e costruire. Essa rafforza anche la sua
fede in un essere supremo, poiché il più forte argomento razionale a favore
dell’esistenza di Dio è l’argomento fondato su un universo progettato
razionalmente. Una Provvidenza pensante, sovrumana o un grande architetto è un
antecedente quasi necessario di un mondo naturale che obbedisce a leggi
matematiche. L’esistenza di un Dio assicura a sua volta linfa vitale a vasti settori
della religione e dell’etica. D’altra parte, se è nel vero la concezione statistica
della natura, il mondo fisico e la funzione dell’uomo in esso sono irrazionali. Gli
eventi non servono naturalmente alcun fine e non conducono ad alcuna meta,
essendo semplicemente accidentali, legati al puro caso. L’intero cosmo potrebbe
andar distrutto anche domani in un cataclisma universale. La vita non offre altro
che i piaceri e i dolori, privi di alcun significato, del momento.
Indubbiamente fu l’importanza della posta in gioco a indurre i deterministi a
gettarsi nuovamente nella mischia. Nuove ragioni furono trovate per vedere il
disegno razionale, la causalità e il determinismo nelle leggi di Keplero, di Galileo
e di Newton. Ma lasciamo che il nostro signor D., “sanguinante ma invitto”, che
per tutto questo tempo è andato predisponendo in ordine di battaglia nuovi
argomenti, parli per sé.
C’è, egli dichiara, una distinzione essenziale fra leggi statistiche e formule del
tipo newtoniano. Le prime sono fondate su tabelle di dati o su argomenti
probabilistici; le ultime sono dedotte da assiomi matematici e scientifici
indubitabili, i quali esprimono sicuramente verità naturali, nonostante che la
struttura intima della materia sia complessa e in gran parte sconosciuta. Perciò
possiamo esser certi che le leggi newtoniane sono anche verità esatte e quindi
leggi genuine che la natura deve seguire.
Anche il signor P. era ovviamente preparato a difendersi nuovamente e
cominciò a parlare con la certezza che la discussione sarebbe arrivata presto a una
conclusione soddisfacente.
Il nocciolo del suo ragionamento, signor D., si fonda sulla verità degli assiomi.
Ma gli assiomi descrivono fatti intrinseci dell’universo oppure sono
semplicemente adattati all’esperienza, sostanzialmente nello stesso modo in cui
una legge dei prezzi al minuto dei generi alimentari è adattata ai prezzi reali?
Consideriamo, ad esempio, l’assioma di Newton sulla forza di gravità. Esso dice
che la forza con cui una massa ne attrae un’altra è uguale al prodotto delle masse
diviso per il quadrato della distanza esistente fra di esse. Questo assioma si è
sempre dimostrato del tutto preciso e le deduzioni basate su di esso hanno sempre
condotto a risultati numerici in accordo con le osservazioni, entro i limiti di
precisione di tali osservazioni. Eppure l’applicabilità di quest’assioma al moto
della Terra attorno al Sole, o della Luna attorno alla Terra, è stata accertata solo in
341
seguito a molte osservazioni del cielo e a molte misurazioni di masse, distanze e
intervalli di tempo. Tale assioma potrebbe dunque non essere altro che una
descrizione buona ma approssimata del comportamento medio della natura. Di
fatto, prima che Newton si decidesse a favore di questa formula, altre formule
molto simili a questa erano state sperimentate e rifiutate in quanto non davano
risultati altrettanto precisi. Perché l’assioma di Newton dovrebbe essere l’ultima
parola? Evidentemente non si può essere più certi della verità di tali assiomi
scientifici di quanto lo si possa essere di una legge dei prezzi dei generi
alimentari.
Il signor D. si attendeva forse un tale ragionamento poiché fu pronto a
rispondere immediatamente.
Va bene, signor P., lei può dubitare della verità assoluta di leggi scientifiche
nella misura in cui esse dipendono da assiomi quali la legge della gravitazione di
Newton. Lei deve concedere però che i teoremi di matematica pura sono in sé
incontestabili poiché si fondano su assiomi che sono del tutto evidenti. Questi
assiomi non implicano inoltre alcuna misurazione. Vorrebbe forse mettere in
dubbio l’assioma che il tutto è maggiore di ogni sua parte o il teorema che la
somma degli angoli interni di un triangolo è 180°? Senza dubbio gli assiomi, e
perciò i teoremi di matematica pura sono verità assolute sulla natura e
costituiscono leggi ben precise. L’esistenza di queste leggi nella struttura
dell’universo rende molto probabile l’esistenza di altre leggi.
L’argomentazione sembrava incontrovertibile, ma il signor P. non era affatto
sgomento. Avendo completato recentemente gli studi, aveva imparato che erano
state create nuove geometrie, non euclidee, le quali si applicano allo spazio fisico
non meno bene della geometria euclidea. Si accinse perciò con fiducia a svuotare
le argomentazioni del suo oppositore.
È un argomento eccellente, signor D., ma purtroppo in ritardo di un secolo. Lei
ha sentito parlare, senza dubbio, della geometria non euclidea.11
Gli assiomi e i
teoremi della geometria non euclidea, che contraddicono quelli di Euclide, sono
una descrizione dello spazio fisico almeno altrettanto buona di quella di Euclide.
Non abbiamo la minima prova a favore della verità della geometria euclidea.
Nulla.
Come possiamo immaginarci senza difficoltà, il signor D. era frustrato. Ogni
argomento da lui esposto era stato velocemente demolito. Improvvisamente, però,
un lampo d’astuzia brillò nei suoi occhi e una leggera eccitazione si manifestò in
lui. Comincio a parlare con prudenza e con un leggero tono di ironia nella voce.
Ha mai sentito parlare, signor P., della teoria della probabilità? Non ammette
lei che le leggi di Keplero e di Newton, sulla cui generale applicabilità siamo
entrambi d’accordo, siano leggi semplicissime? Ora, qual è la probabilità che le
leggi di un universo disordinato, sorto in modo casuale, siano semplici? E
confrontiamo tale probabilità con la probabilità di trovare leggi semplici in un
11
Si veda il capitolo ventiseiesimo.
342
universo che operi in accordo con un disegno razionale. Da quale probabilità lei si
lascerebbe guidare?
Il signor P. apprezzò anche troppo bene la forza dell’argomento. Le probabilità
erano contro di lui. Egli rifletté con cura e poi lentamente svolse l’argomento
opposto, ragionandolo apparentemente man mano che lo veniva esponendo.
Dopo migliaia di osservazioni del pianeta Marte, egli riprese, Keplero trovò che
la sua orbita è una semplice ellisse. Ciò non significa che le osservazioni di cui
disponeva giacessero tutte esattamente su un’ellisse; le piccole differenze furono
imputate a errori di misurazione e ignorate. Keplero, il quale riteneva che Dio
avesse usato la matematica per costruire l’universo, era soddisfatto dell’ellisse
perché essa gli fornì una legge semplice. Ma i matematici potrebbero sostenere
che tutto ciò che Keplero fece fu di scegliere una fra le molte curve che si
adattano ai dati all’interno del margine di errore d’osservazione. Se fosse stato
disposto a considerare una curva più complicata avrebbe potuto trovarne una che
si adattasse alle sue misure ancor più dell’ellisse. Keplero ebbe ragione nello
scegliere la curva più semplice e nell’attribuire gli scarti nei confronti di questa
curva a errori di misurazione? Evidentemente non possiamo esserne certi. Poiché
nessuna misurazione sarà mai esatta, quest’incertezza non sarà mai eliminata.
L’argomentazione a favore del disegno razionale fondato sulla semplicità delle
leggi scientifiche può essere ridotto a quanto segue: fra le molte formule che
descrivono un fenomeno naturale entro i limiti degli errori attribuibili alla
misurazione, l’uomo sceglie quella più semplice. Considerato in questo modo
l’argomento della semplicità riflette una preferenza della mente dell’uomo
piuttosto che un carattere della natura.
Benché si preparasse questa volta, in segreto, ad abbandonare la nave, il signor
D. avanzò timidamente, benché non senza qualche speranza, un altro argomento.
Vedo, egli afferma, almeno un altro argomento importante a favore della verità
e necessità delle leggi scientifiche, ossia la loro universale applicazione
nell’ingegneria pratica. Ponti, edifici, dighe, motori e centrali elettriche, costruiti
con l’aiuto indispensabile di queste leggi, si guardano bene dal crollare. Le
campate dei ponti reggono; i motori svolgono il lavoro per il quale sono stati
progettati. Se in queste leggi non ci fosse una grande misura di verità, se la natura
non fosse costretta a obbedire ad esse, perché esse dovrebbero applicarsi così
universalmente e con tanta efficacia?
Il suo ragionamento, signore, ha più forza sentimentale che logica. Per migliaia
di anni gli uomini hanno lavorato nell’ipotesi – che per essi era una convinzione –
che la Terra fosse piatta. Entro le aree geografiche ristrette popolate in quegli
anni, quest’ipotesi era abbastanza buona da dare risultati in accordo con
l’esperienza. L’ipotesi era ovviamente sbagliata. Analogamente, dopo Newton, gli
scienziati hanno utilizzato la sua legge quantitativa della gravitazione e ogni
progetto di ingegneria si è fondato su un suo uso assai esteso. Oggi, in
conseguenza della creazione della teoria della relatività, sappiamo che la legge
Newton non è esatta. Di più, la nuova teoria fa completamente a meno della forza
di gravità. Eppure, per oltre duecento anni, la legge della gravitazione è stata un
343
dogma scientifico. Essa è usata ancor oggi dando risultati abbastanza buoni per la
maggior parte dei fini normali. Perciò l’applicabilità di una formula o di una
teoria ha assai poco a che fare con la verità o con l’esistenza di un piano razionale
nell’universo. Lei, signor D., ha commesso l’errore, un errore molto comune, di
credere che una teoria che funziona per molti anni debba essere vera, mentre la
sua condizione reale non è altro che quella di un’ipotesi di lavoro. Quest’errore fu
compiuto con la teoria tolemaica, con l’ipotesi della Terra piatta, con la geometria
euclidea, e col concetto di gravitazione. Di fatto l’uomo è sempre passato da una
descrizione della natura a un’altra; ma noi scopriamo i nostri errori lentamente e li
correggiamo inoltre tanto più lentamente in quanto per lunghi periodi di tempo ci
siamo cullati nell’illusione di avere scoperto leggi di natura. Fortunatamente
uomini come Copernico, Newton e Einstein ci impediscono di perderci
irrevocabilmente in convinzioni erronee.
Ovviamente, osserva il signor D., potrei abbandonare il mio argomento a
favore del determinismo fondato sull’universale applicabilità di tutte le leggi
scientifiche e fondarne uno ancora migliore sull’applicabilità di un semplice
teorema di matematica. Benché in apparenza la mia matematica non sia
aggiornata, signor P., so che in matematica costruiamo lunghe catene di
ragionamento puro che sono del tutto indipendenti dall’esperienza. Le conclusioni
cui arriviamo sono spesso molto lontane dagli assiomi. Ad esempio, la
proposizione di Euclide la quale asserisce che una tangente a un cerchio è
perpendicolare al raggio tirato al punto di contatto è molto lontana dagli assiomi
su cui in definitiva si fonda. Eppure il teorema è altrettanto in accordo con
l’esperienza quanto l’assioma. Perché il risultato di tanti passaggi di puro
ragionamento dovrebbe essere così in accordo con l’esperienza? Non è forse per
il fatto che la natura stessa è progettata razionalmente e secondo una legge? La
natura non consente contraddizioni, non più che la mente dell`uomo.
Dal momento che lei ha concezioni così ingenue, signor D., devo chiederle
come sa che le lunghe catene di ragionamento continueranno a produrre teoremi
in accordo con la natura. La natura non può comportarsi a volte come
un’automobile che segue la strada per chilometri senza che ci sia bisogno di
correzioni con lo sterzo, poi si allontana impercettibilmente dalla direzione
perfettamente rettilinea e termina infine in un fosso? Il fosso per il grazioso carro
del ragionamento potrebbe essere esattamente davanti e quando il veicolo
finalmente vi termina sarà adatto per il deposito dei rifiuti accademici, vicino a
quel biroccino a un cavallo: l’argomento fondato sull’ordine della natura.
È possibile che un tale spaventoso incidente avvenga, signor P., ma, finché ciò
non accade, l’esistenza di sviluppi matematici logici, complicati ed estesi, i cui
teoremi si applicano, con generalità ed efficacia, alla natura, così come gli
assiomi, dev’essere considerata un miracolo sotto ogni altra filosofia che non sia
il determinismo.
No davvero, signor D. Questo miracolo si spiega facilmente. In che modo
l’uomo ottenne i princípi di ragionamento che gli consentirono di dedurre le
centinaia di teoremi cui lei si riferisce? Supponiamo, ad esempio, che io
344
ragionassi così: poiché tutti gli esseri umani sono fallibili, e poiché tutti i
matematici sono esseri umani, tutti i matematici sono fallibili. In che modo lei
potrebbe determinare se la logica da me usata è corretta? Non verificherebbe forse
i principi implicati mettendoli a confronto con la sua esperienza di classi di
oggetti familiari? In altri termini, signor D., l’uomo impara a ragionare studiando
il comportamento della natura. Egli trova quindi che le conclusioni dei suoi
procedimenti logici sono in accordo con la natura se sono in accordo con la natura
i suoi assiomi. Ma c’è qualche cosa di strano in questa concordanza? Quel che lei
chiama un principio di logica non è altro che una formulazione astratta del
comportamento visibile della natura.
Le difese del signor D. apparvero completamente frantumate. Vedendosi in una
situazione disperata, egli decise di attaccare.
Quale sostenitore della concezione statistica della natura, signor P., che
spiegazione ha per quell’elemento dell’organizzazione della natura che sembra
inconciliabile con la sua posizione? L’energia tende a dissiparsi, cosicché non può
essere imbrigliata per i bisogni dell’uomo; ad esempio, dopo che l’acqua sia
caduta da una certa altezza, si livella e non può più essere usata per la produzione
di energia. Poiché l’energia e disponibile all’uomo sotto forma di calore del Sole,
di carbone, di petrolio, di processi atomici e di cascate, appare che l’energia fu
creata specificamente in forma utilizzabile più di quanto non sia il prodotto di una
disposizione casuale di molecole. Di fatto, la probabilità che una disposizione
quale quella che esiste sulla Terra si sia verificata per caso è più piccola della
probabilità che una scelta arbitraria di un milione di individui produca un gruppo
di persone aventi tutte la medesima statura.
Il signor P. era su un terreno che gli era familiare e perciò si sentiva in grado di
ribattere con sicurezza.
La forza del suo ragionamento, signor D., risiede nel fatto che l’organizzazione
particolare dell’energia che si trova nel nostro pianeta è altamente improbabile. In
realtà è molto improbabile. Ma ora consideriamo una lotteria in cui si vendano
100 000 biglietti, uno dei quali è quello vincente. Le probabilità contrarie alla
vincita sono, per ogni biglietto, 99 999 contro 1. Eppure una persona vince, pur
avendo contro di sé una probabilità così sfavorevole. Concesso dunque che le
condizioni sulla nostra Terra costituiscono una condizione altamente improbabile,
questa condizione è possibile e si è verificata. Di essa non è necessariamente
responsabile un progetto cosciente. Pare inoltre che in cielo ci siano milioni di
pianeti sui quali non si è realizzata quella particolare organizzazione dell’energia
che si trova sulla Terra. Tanto meno sorprendente è dunque che essa si trovi su un
pianeta.
Nonostante il carattere inconfutabilmente definitivo di questa risposta, il
vecchio signor D. sentì ora di aver conseguito almeno una vittoria morale. Egli
aveva costretto il signor P. a concedere che la nostra Terra rappresenta un evento
altamente improbabile. Parendogli che la cosa migliore fosse terminare la
discussione nella posizione più favorevole che era riuscito a procurarsi nel corso
345
della lunga conversazione, si scusò dicendo che doveva completare una
dimostrazione di una nuova legge sull’elettromagnetismo.
Forse potremo unirci a loro se riapriranno la loro discussione in futuro. Prima
però di passare a un altro argomento, desideriamo ricordare che fra le due
concezioni, quella che vede nel mondo un’organizzazione ordinata, ben definita, e
quella che vede in esso un caos in cui regna il puro caso, ci sono molti punti di
vista intermedi. Uno di tali punti di vista asserisce che la natura non è né soggetta
a leggi né caotica. La mente umana pensa nei termini di tali punti di vista e
assegna inconsciamente alla natura qualità ad essi conformi, esattamente come
l’uomo crea Dio a sua immagine e somiglianza. La mente possiede in sé il
desiderio di organizzare l’esperienza nella forma di leggi matematiche. Essa
possiede anche concetti come leggi quantitative esatte e forme geometriche esatte
e applica questi concetti all’esperienza, al fine di comprenderla. Le leggi che ne
risultano non esistono affatto nell’universo. Esse non sono altro che proiezioni
naturali del nostro desiderio, riflettendo la natura essenziale della mente e forse
anche le sue limitazioni, così come la descrizione che l’amante fa dell’amata
riflette l’amante.
Non è nostra intenzione esplorare tutte le scuole di pensiero sull’argomento
delle leggi naturali. Esse ricoprono tutta la gamma dal determinismo assoluto al
caos completo. Dobbiamo accontentarci di concludere qui con una riaffermazione
del tema principale, ossia che lo sviluppo di idee e metodi matematici ha
determinato gli atteggiamenti dominanti nei confronti della natura e, di
conseguenza, verso la religione e verso la società.
346
XXV. I paradossi dell’infinito
Ammettiamo, in geometria, non soltanto grandezze infinite,
ossia grandezze maggiori di ogni grandezza assegnabile, ma
grandezze infinite infinitamente maggiori l’una dell’altra. Ciò
stupisce la nostra dimensione di cervello, che è lungo solo
circa sei pollici, largo cinque e profondo sei, nelle teste più
grandi.
VOLTAIRE
Tristram Shandy era irrimediabilmente confuso. Aveva cominciato a scrivere la
sua autobiografia e aveva trovato che, scrivendo per un’intera giornata, poteva
mettere per iscritto soltanto le esperienze di mezza giornata. Di conseguenza,
anche se avesse cominciato a scrivere alla sua nascita e anche se fosse vissuto per
sempre non avrebbe mai potuto mettere per iscritto tutta la sua vita, poiché ogni
volta avrebbe potuto affidare alla carta solo metà della sua vita. Eppure, se fosse
vissuto indefinitamente avrebbe dovuto essere in grado di narrare tutta la sua vita
poiché entro la fine del suo ventesimo anno avrebbe descritto i primi dieci, entro
la fine del quarantesimo avrebbe narrato le esperienze dei suoi primi vent’anni di
vita, e così via. Ogni anno della sua vita sarebbe stato perciò descritto in un
qualche tempo. Perciò, a seconda del modo in cui ragionava, avrebbe potuto
completare o no la sua autobiografia. Quanto più a lungo Tristram si rompeva la
testa su questo paradosso, tanto più confuso diveniva e tanto più lontano
sembrava da una soluzione.
L’incapacità di Tristram di risolvere il paradosso era di fatto prevedibile poiché
il suo problema implicava un’estensione di tempo infinita. I massimi matematici e
filosofi dall’Antichità greca in avanti si erano tormentati con problemi implicanti
quantità infinite e non si erano spinti molto avanti. Galileo, ad esempio, riconobbe
che il numero di tutti i numeri interi è infinito; ossia che il numero di tutti i
numeri interi è maggiore di ogni numero finito che possa essere indicato. Egli
riconobbe anche che il numero dei numeri pari anch’esso infinito. Quale di questi
due insiemi infiniti, egli si chiese, quello più grande? Da un lato sembrava che lo
fosse il primo, perché conteneva tutti i numeri del secondo insieme a molti altri.
D’altra parte, a ogni numero del primo insieme corrisponde esattamente un
numero nel secondo, come al 5 corrisponde il 10. Anche a ciascun numero del
secondo insieme ne corrisponde esattamente uno nel primo, come il 10
corrisponde al 5. In considerazione di questa corrispondenza biunivoca fra i due
insiemi dovrebbero esserci tanti numeri nel primo quanti nel secondo. Galileo
concluse che era impossibile stabilire confronti fra quantità infinite e abbandonò
347
ogni ulteriore meditazione sull’argomento, affermando che infinità e indivisibilità
ci sono per loro natura incomprensibili. Anche Leibniz considerò la medesima
questione e concluse che la nozione di numero di tutti i numeri interi è in sé
contraddittoria e dovrebbe essere rifiutata.
Non molti anni prima che i problemi dell’infinito venissero finalmente
affrontati con successo, il massimo matematico dell’Ottocento, Karl Friedrich
Gauss, espresse un orrore delle quantità infinite: “Protesto contro l’uso di una
grandezza infinita... che non è mai lecito in matematica.”
Per quanto fosse grande il numero dei matematici che indietreggiarono dinanzi
al pensiero di quantità infinite o che lo ripudiarono, alla metà dell’Ottocento la
matematica non poté più fare a meno del concetto. Nel periodo compreso fra il
1600 e il 1850 la matematica aveva compiuto passi giganteschi. In questa età
eroica grandi avventurieri intellettuali avevano osato superare d’un balzo abissi di
difficoltà per raggiungere fini rivelati loro dal proprio genio e dalla propria
lungimiranza. Questi battistrada si aspettarono che altri costruissero i ponti
destinati a consentire i passi circoscritti dei pensatori più prudenti che sarebbero
seguiti.
Ma i ponti non furono costruiti tanto facilmente. I tentativi di colmare i vuoti
lasciati durante l’età eroica furono frustrati da paradossi, contraddizioni e altri
paradossi. Si sviluppò un bisogno imperativo di pensatori critici dotati di
immaginazione e di audacia di un altro genere, di quel tipo che sapesse mettere da
parte e addirittura infrangere l’intuizione e il “buon senso.” Questo bisogno fu
finalmente soddisfatto. Né gli studiosi più prudenti né i battistrada avrebbero
potuto però prevedere le rivelazioni sorprendenti e profonde prodotte dagli sforzi
critici.
Il primo successo nell’attacco ai problemi dell’infinito fu ottenuto da Georg
Cantor. Il padre lo aveva sollecitato allo studio dell’ingegneria, un’attività più
proficua dell’insegnamento, e Cantor aveva cominciato la sua carriera
occupandosi di problemi molto pratici; alla fine però si dedicò allo studio delle
regioni più astratte della matematica. La sua opera ebbe le accoglienze che
vengono riservate di solito all’innovazione e all’originalità: fu ignorata, messa in
ridicolo e addirittura insultata. Un suo collega matematico, Leopold Kronecker, lo
attaccò con malignità. Un po’ più mite e più tipica delle reazioni suscitate fu
l’osservazione compiuta nel 1908 da Henri Poincaré, il più famoso fra i
matematici della fine dell’Ottocento: “Le generazioni seguenti considereranno la
Mengenlehre [la teoria degli insiemi di Cantor] come una malattia da cui si è
guariti.” I matematici, diciamolo pure, sono spesso non meno illogici, non meno
mentalmente ristretti e non meno egoisti della maggior parte degli uomini. Come
altri uomini dalle idee ristrette, essi celano la loro ottusità dietro la cortina di modi
di pensare stabiliti, lanciando accuse di follia contro uomini che sarebbero
colpevoli di distruggere l’edificio ben ordinato della matematica. Tanto severi
furono gli attacchi scagliati contro la sua opera, che Cantor cominciò a dubitare di
sé, fu colpito da depressione e soffrì di esaurimento nervoso.
348
Verso la fine della sua vita (mori nel 1918), il senso eccezionale della sua
logica ebbe finalmente qualche riconoscimento da parte di alcuni colleghi. È
confortante poter opporre all’affermazione di Poincaré citata sopra una fatta
appena poco tempo dopo da David Hilbert, il massimo matematico del nostro
secolo: “Nessuno ci scaccerà dal paradiso che Cantor ha creato per noi.” Oggi
l’opera di Cantor è accettata così generalmente e completamente che molti
profondi matematici si dedicano interamente alla soluzione di ulteriori problemi
che ne conseguono.
Vediamo ora in che modo Cantor affrontò il problema delle quantità infinite.
Gli esempi più familiari di insiemi infiniti sono l’insieme dei numeri interi,
l’insieme delle frazioni e dei numeri irrazionali come 2, 3 e . Ottenere il
numero degli oggetti contenuti in tali insiemi contandoli è impossibile poiché il
processo è infinito. D’altra parte, descriverli come infiniti serve a ben poco poiché
tutto ciò che tale espressione dice è che non sono finiti. Una tale descrizione
contiene altrettanta informazione quanto la frase: il Pithecanthropus erectus non è
una mucca. Dobbiamo sostituire, se possibile, una risposta positiva alla domanda
di quanti oggetti ci siano in un insieme infinito.
Cantor riconobbe ovviamente che il numero di oggetti contenuti in una classe o
insieme infinito non può essere ottenuto attraverso il conteggio. Egli riconobbe
anche il significato profondo di un’altra osservazione apparentemente
superficiale. Supponiamo di avere due classi di oggetti tali che a ciascun oggetto
nella prima classe corrisponda uno ed un solo oggetto nella seconda e viceversa.
Ad esempio, se una squadra di soldati, ciascuno dei quali avesse un fucile,
passasse davanti a noi, ci sarebbe esattamente una corrispondenza fra soldati e
fucili. Tecnicamente, la relazione fra le due classi, soldati e fucili, è descritta
dall’espressione corrispondenza biunivoca (uno a uno). È chiaro che due classi
che hanno fra loro una corrispondenza biunivoca devono contenere lo stesso
numero di oggetti. Inoltre non è necessario contare le classi per raggiungere
questa conclusione.
La grandezza di Cantor risiede nell’aver percepito l’importanza del principio di
corrispondenza biunivoca e nell’audacia da lui dimostrata nel perseguirne le
conseguenze. Se due classi infinite possono esser poste in una corrispondenza
biunivoca, allora, secondo Cantor, contengono la stesso numero di oggetti. Ad
esempio, la classe dei numeri interi positivi
1 2 3 4 5 6 …
e la classe dei numeri reciproci
1 1/2 1/3 1/4 1/5 1/6 …
sono fra loro in corrispondenza biunivoca in virtù del fatto che a ciascun
numero nella prima classe corrisponde uno e un solo numero nella seconda, ossia
349
il suo reciproco. Analogamente, a ciascun numero contenuto nella seconda classe
corrisponde uno e un solo numero nella prima. Queste due classi contengono
dunque il medesimo numero di oggetti. Il numero di oggetti che rappresenta la
quantità di oggetti in queste classi particolari fu da Cantor designato con 0 (alef-
zero). Esso viene chiamato numero transfinito.
Dire che il numero degli interi positivi, così come il numero di ogni insieme di
oggetti in corrispondenza biunivoca con gli interi positivi, è 0 sembra non
rispondere alla domanda fondamentale di quanti sono gli oggetti contenuti in
ciascun insieme. Il lettore potrebbe dire che il simbolo 0 gli è estraneo e che non
gli dà alcuna informazione sul numero degli interi positivi. L’obiezione non è
valida. Questo numero contiene altrettanta informazione del numero un miliardo
di miliardi. Quest’ultimo numero non è nulla di più di un simbolo che rappresenta
la quantità di oggetti contenuti in una classe particolare, così come 0 rappresenta
il numero degli interi positivi.
Il lettore potrebbe ovviamente replicare che egli può contare gli oggetti
contenuti in un insieme di un miliardo di miliardi, mentre non può contare 0.
Perciò il primo numero significa qualcosa per lui, mentre così non è per il
secondo. La distinzione è corretta ma insignificante. Chi ha mai contato un
miliardo di miliardi di oggetti? Teoricamente è possibile farlo ma teoricamente è
anche possibile assegnare numeri a insiemi infiniti di oggetti. E come la
conoscenza del fatto che due insiemi diversi hanno ciascuno un miliardo di
miliardi di oggetti è precisa e ha un valore, così è precisa e ha un valore la
conoscenza che due insiemi infiniti contengono lo stesso numero di oggetti, un
fatto indicato dall’uso di un medesimo numero per indicare i due insiemi; di fatto,
forse, come vedremo, ha più valore della conoscenza del numero un miliardo di
miliardi.
L’argomentazione a favore della definizione di Cantor è ancora più forte. Non
ha altrettanto significato del numero tre. Questo numero significa qualcosa per noi
perché siamo in grado di evocare facilmente un gruppo di oggetti di cui questo
numero denota la quantità. Per un bambino che sta appena imparando a contare, il
numero tre è però privo di significato. Ma come il bambino comprende il
significato del tre associandolo a tre dita o a tre cubetti, così l’uomo può afferrare
il significato di 0 acquistando familiarità con insiemi contenenti 0 oggetti. La
teoria di Cantor gli consente di stabilire che cosa siano questi insiemi.
Avendo in mente la definizione di Cantor, riconsideriamo la difficoltà che
disorientò Galileo e che bloccò il suo pensiero sulle quantità infinite. Galileo, lo
ricordiamo, riconobbe la corrispondenza biunivoca fra l’insieme di interi positivi
e l’insieme di interi positivi pari e fu incapace di riconciliare questo fatto col fatto
che il primo insieme conteneva tutti i numeri contenuti nel secondo e molti altri
ancora.
La soluzione data da Cantor al dilemma e che l’insieme degli interi positivi e
l’insieme degli interi positivi pari contengono entrambi 0 oggetti, benché la
seconda collezione sia contenuta nella prima. Il numero dei numeri interi e il
350
numero dei numeri interi pari è lo stesso perché le due classi di numeri sono fra
loro in corrispondenza biunivoca.
Non è assurdo che la classe degli interi positivi abbia tanti numeri quanti la
sottoclasse degli interi positivi pari? Eppure, se accettiamo come criterio per
decidere sull’uguaglianza numerica fra insiemi infiniti la corrispondenza
biunivoca, dobbiamo accettare anche quest’apparente assurdità. Apparentemente
siamo condotti a contraddizioni che rendono assurdo ogni nostro ragionamento.
Eppure dobbiamo accettare questa situazione e far fronte a un fatto sorprendente.
Nel concetto cantoriano dei numeri infiniti non c’è alcuna difficoltà logica. La
nostra convinzione dell’assurdità dell’affermazione che esistano tanti numeri
interi positivi pari quanti sono i numeri interi positivi è semplicemente
un’abitudine di pensiero che si è formata trattando insiemi finiti di oggetti. Ma
questo modo di pensare, che è utile per le classi finite, non è una guida attendibile
a una comprensione di insiemi infiniti. Ancora una volta, nella storia della
matematica, ci troviamo dinanzi a un conflitto fra pensiero logico e pensiero
tradizionale, e ancora una volta ci troviamo a un bivio. I matematici precantoriani
non furono in grado di sviluppare l’argomento dei numeri infiniti a causa della
loro incapacità di capire che si dovevano abbandonare alcuni modi di pensiero
abituali. Ma i pensatori critici dell’Ottocento non si lasciarono spaventare così
facilmente.
Di fatto essi presero il toro per le corna. Seguendo un suggerimento di
Bernhard Bolzano, professore di filosofia e notevole predecessore di Cantor nello
sviluppo della teoria di classi infinite, un insieme infinito fu definito come un
insieme che poteva esser posto in una corrispondenza biunivoca con una sua parte
mentre ciò non è possibile per un insieme finito. Cosi l’insieme dei numeri interi
positivi e infinito perché esiste una corrispondenza biunivoca fra l’intera classe e i
numeri pari, i quali sono solo una parte di tale classe.
Fig. 76. La corrispondenza biunivoca fra i punti di un segmento unitario e i
punti di una semiretta.
Tutti gli insiemi infiniti possono essere posti in una corrispondenza biunivoca
con gli interi positivi? La risposta è: no. L’insieme di tutti i numeri compresi fra 0
e 1, una classe che include numeri interi, frazioni e irrazionali, non può esser
posta in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi. La
dimostrazione di questo fatto è ottenuta facilmente dimostrando che ogni supposta
351
corrispondenza fra gli interi positivi e l’insieme di tutti i numeri compresi fra 0 e
1 conduce a una contraddizione. Tralasciamo però i particolari.
Poiché la classe infinita di tutti i numeri compresi fra 0 e 1 non può esser posta
in una corrispondenza biunivoca con gli interi positivi, i due insiemi non possono
essere uguali in numero. Il numero dei numeri compresi fra 0 e 1 è rappresentato
dal numero transfinito C. Ogni classe di oggetti che possano essere posti in
connessione biunivoca con tutti i numeri compresi fra 0 e 1 deve dunque
contenere anch’essa C oggetti.
Un esempio di un insieme di C oggetti è fornito dai punti contenuti in un
segmento di linea. Consideriamo una linea e un punto fisso O su tale linea.
Associamo a ciascun punto sulla linea il numero che ne esprime la distanza da O,
aggiungendo la condizione che le distanze a destra di O devono essere positive e
quelle a sinistra negative. Esiste, dunque, una corrispondenza biunivoca fra i
numeri compresi fra 0 e 1 e i punti sulla linea a cui sono associati i numeri. Ciò
implica che il numero di questi punti sia C.
Abbiamo definito C come il numero dei numeri reali compresi fra 0 e 1.
Quest’insieme è in una corrispondenza biunivoca con tutti i numeri reali positivi.
Dimostreremo questo fatto geometricamente. L’insieme dei numeri reali è a sua
volta in corrispondenza biunivoca con i punti contenuti in una linea) come l’asse
X usato nella geometria analitica. Poniamo dunque che i punti sulla linea L (fig.
76) e a destra di O rappresentino tutti i numeri reali positivi e che OA sia il
segmento unitario cosicché i suoi punti siano in corrispondenza biunivoca con i
numeri reali compresi fra 0 e 1. Costruiamo un rettangolo come OABC e
tracciamo la diagonale OB. Sia ora P un punto a destra di O. Tracciamo il
segmento CP, il quale intersechi OB in Q. Da Q facciamo discendere una
perpendicolare a L, ottenendo in tal modo P'. In virtù della corrispondenza
determinata mediante la costruzione appena descritta, ogni punto P giacente su L
e a destra di O corrisponde a uno e un solo punto P' in OA. Inversamente, se
partiamo da un qualsiasi punto P' in OA e costruiamo una perpendicolare a OA in
P', questa perpendicolare intersecherà OB ad esempio in Q. Tracciamo poi la CQ
e là dove questa interseca la L avremo il punto P, corrispondente a P'. Poiché i
punti su OA sono in corrispondenza biunivoca con tutti i punti a destra di O e su
L, il numero dei punti contenuti nella OA, così come in tutta la semiretta, è C.
Espresso aritmeticamente, l’insieme dei numeri reali positivi si trova in una
corrispondenza biunivoca con i numeri reali compresi fra 0 e 1 e perciò il numero
dei numeri reali positivi è C.
Il numero dei punti contenuti in un segmento di linea e il numero dei punti
contenuti su un’intera semiretta è lo stesso benché il primo abbia solo una
lunghezza unitaria e la seconda abbia una lunghezza infinita. Di fatto OA potrebbe
avere lunghezza due o qualsiasi altra lunghezza finita e il nostro risultato sarebbe
lo stesso. Perciò il numero di punti contenuti in qualsiasi segmento di linea è
sempre C.
Questa conclusione, come altre stabilite sopra, sembra violare la nostra
intuizione. Quale diritto abbiamo però di attenderci che esista un maggior numero
352
di punti sul maggiore di due segmenti di linea? Quale precisa conoscenza su punti
e linee sostiene una tale attesa? La geometria euclidea richiede che ogni segmento
di linea contenga un numero infinito di punti poiché ogni segmento, per quanto
piccolo, può essere bisecato, ma tale geometria non ci dice nulla sul numero di
punti contenuti in un segmento. La teoria di Cantor invece lo fa e ci dice che due
segmenti di linea quali si vogliano, indipendentemente dalla loro lunghezza,
posseggono lo stesso numero di punti. Questa conclusione è non soltanto
logicamente sana ma ci consente anche di risolvere alcune questioni imbarazzanti
circa la natura dello spazio, del tempo e del moto che hanno travagliato i filosofi
per oltre duemila anni.
Le nostre intuizioni dello spazio e del tempo suggeriscono che ogni lunghezza
e ogni intervallo di tempo, non importa quanto piccoli, possono essere sempre
ulteriormente suddivisi. La formulazione matematica di questi concetti tiene conto
di questa proprietà. Ad esempio, ogni segmento di linea può essere bisecato da
una precisa costruzione euclidea. La linea matematica contiene altre proprietà.
Ogni lunghezza consta di punti, ciascuno dei quali è privo di lunghezza; questi
numeri sono inoltre in relazione fra loro come i numeri del sistema dei numeri.
Ora, fra due numeri quali si vogliano esiste un numero infinito di altri numeri; ad
esempio, fra 1 e 2 ci sono 1 1/2, 1 1/4, 1 1/8, e così via. Perciò fra due punti quali
si vogliano su una linea c’è un numero infinito di altri punti. Similmente, il
concetto matematico di tempo considera il tempo composto da istanti, ciascuno
dei quali è privo di durata che si susseguono l’uno all’altro come i numeri del
sistema numerico. Perciò le dodici sono un istante ed esiste un istante
corrispondente a ciascun numero di secondi dopo le dodici che possiamo
nominare. È vero dunque; per gli istanti come per i punti su una linea, che esiste
un numero infinito di istanti fra due di essi quali si vogliano.
In questi concetti matematici di lunghezza e di tempo ci sono difficoltà che
furono segnalate per la prima volta dal filosofo greco Zenone ma che possono
essere risolte ora ricorrendo alla teoria delle classi infinite. Consideriamo una
formulazione a opera di Bertrand Russell del paradosso zenoniano di Achille e
della tartaruga.
Achille e la tartaruga fanno una corsa in cui alla tartaruga, che è lenta, viene
concesso di partire da una posizione più avanzata rispetto al punto di partenza di
Achille. Si conviene che la gara finirà quando Achille raggiungerà la tartaruga. In
ogni istante durante la gara Achille e la tartaruga si trovano in un qualche punto
del loro percorso e nessuno dei due si troverà due volte nello stesso punto. Poiché
essi corrono per lo stesso numero di istanti, la tartaruga passa attraverso tanti
punti distinti quanti Achille. D’altra parte, se Achille deve superare la tartaruga,
dovrà passare per un numero maggiore di punti di quelli per cui passerà la
tartaruga, dal momento che deve percorrere una distanza maggiore. Achille non
raggiungerà perciò mai la tartaruga.
Una parte di quest’argomentazione è valida. Dobbiamo convenire che
dall’inizio alla fine della gara la tartaruga passa per un numero di punti uguale al
numero dei punti per cui passa Achille poiché a ogni istante di tempo della gara
353
ciascuno occupa esattamente una posizione. Esiste perciò una corrispondenza
biunivoca fra l’insieme infinito dei punti attraverso cui passa la tartaruga e
l’insieme infinito dei punti attraverso cui passa Achille. Non è però valida
l’asserzione che, dovendo percorrere una distanza maggiore per vincere la gara,
Achille dovrà passare per un numero di punti maggiore del numero dei punti per
cui passerà la tartaruga poiché, come ora sappiamo, il numero di punti sul
segmento di linea che Achille deve percorrere per vincere la gara è uguale al
numero di punti contenuti nel segmento percorso dalla tartaruga. Dobbiamo
nuovamente osservare che il numero di punti su un segmento di linea non ha nulla
a che fare con la sua lunghezza. In altri termini, è la teoria cantoriana delle classi
infinite a risolvere il problema e a salvare la nostra teoria matematica dello spazio
e del tempo.
Nella sua polemica contro la divisibilità infinita dello spazio e del tempo,
Zenone propose altri paradossi che confondevano i suoi avversari e ai quali si può
rispondere in modo soddisfacente solo nei termini delle moderne concezioni
matematiche dello spazio e del tempo e della teoria delle classi infinite.
Consideriamo una freccia in volo. In ogni istante essa si trova in una posizione
precisa. Nell’istante successivo, dice Zenone, essa si trova in un’altra posizione.
Quand’è che la freccia va da una posizione all’altra?
In che modo la freccia riesce ad arrivare a una nuova posizione nell’istante
immediatamente successivo? La risposta è che non esiste nessun istante
successivo, mentre il ragionamento suppone che ci sia. Gli istanti si succedono
l’uno all’altro come i numeri del sistema numerico e come non esiste alcun
numero immediatamente successivo in ordine di grandezza dopo il 2 o dopo il 2
1/2, così non c’è alcun istante immediatamente successivo dopo un istante dato.
Fra due istanti quali si vogliano è compreso un numero infinito di altri istanti.
Questa spiegazione si limita però semplicemente a scambiare una difficoltà con
un’altra. Prima che una freccia possa passare da una posizione a una posizione
vicina, deve passare attraverso un numero infinito di posizioni intermedie, in cui
ciascuna posizione corrisponde a uno degli infiniti istanti intermedi. In che modo
la freccia può riuscire ad arrivare a quella posizione vicina se deve passare per un
numero infinito di posizioni intermedie? Ciò non comporta alcuna difficoltà. Per
percorrere un’unità di lunghezza, un oggetto deve passare per un numero infinito
di posizioni ma il tempo richiesto per farlo potrebbe essere non più di un secondo,
poiché anche un secondo contiene un numero di istanti infinito.
Nel moto della freccia c’è però una difficoltà maggiore. In ogni istante del suo
volo la punta della freccia occupa una certa posizione. In tale istante la freccia
non può muoversi, poiché un istante non ha durata. In ogni istante, perciò, la
freccia è in quiete. Poiché quest’asserzione vale per ogni istante, la freccia che si
muove è sempre immobile. Questo paradosso è quasi sensazionale; esso appare
sfidare la logica stessa.
La teoria moderna degli insiemi infiniti rende possibile una soluzione
ugualmente sensazionale. Il movimento è una serie di stati di quiete. Il moto non è
altro che una corrispondenza fra posizioni e istanti di tempo, posizioni e istanti
354
formando due insiemi infiniti. A ogni istante dell’intervallo durante il quale è in
“moto”, un oggetto occupa una posizione definita e si può dire che in quell’istante
esso è in quiete.
Questo concetto matematico di moto soddisfa la nostra concezione del
fenomeno fisico del moto? La nostra intuizione non suggerisce che il moto sia
qualcosa di più del trovarsi un oggetto in posizioni diverse in diversi istanti di
tempo? Anche qui non possiamo fidarci troppo della nostra intuizione. Una
pellicola cinematografica non è altro che una serie di pose proiettate sullo
schermo al ritmo di sedici al secondo. Il film consta, in altri termini, di immagini
immobili presentate all’occhio a un ritmo abbastanza rapido da dare l’illusione del
moto. Questo moto non è dunque altro che una serie di stati di quiete, La teoria
matematica del moto sarebbe più soddisfacente per la nostra intuizione perché
consente un numero infinito di stati di quiete in ogni intervallo di tempo. Poiché
anche questo concetto del moto risolve paradossi dovrebbe essere completamente
accettabile.
Anche l’algebra dei numeri transfiniti possiede alcuni caratteri sorprendenti che
ci aiutano a risolvere altre difficoltà relative alle nostre idee di tempo e di spazio.
Consideriamo le due classi di oggetti (a) e (b):
(a) 1 2 3 4 5 6 7 …
(b) 6 7 8 9 10 11 12 …
Le due classi sono chiaramente in un rapporto biunivoco poiché ciascun
numero nella classe (a) corrisponde a quello sottostante nella classe (b) e
viceversa. Le due classi contengono perciò lo stesso numero di oggetti. Questo
numero è 0 poiché esso è il numero degli interi positivi. La seconda classe
contiene nondimeno 5 numeri meno della prima. Ossia
(1) 0 – 5=0
Il fatto curioso rappresentato dall’equazione (1), ossia che se sottraiamo un
numero finito da una quantità infinita abbiamo ancora la stessa quantità infinita,
fu espresso più drammaticamente, anche se in modo meno stringato, dal poeta
romano Lucrezio, attorno al 50 a.C.
Completa tu pure quante generazioni ti aggrada
ché eterna sempre la morte paziente di prenderti attende
né per un tempo men lungo all’essere quegli sottratto
sarà, che la vita pur dianzi ha lasciato, che quegli che morte
ghermì in un tempo remoto, nel volger lontano degli anni!
Poiché la classe degli interi positivi può essere messa in una corrispondenza
biunivoca con la classe degli interi positivi pari, e poiché ci sono altrettanti interi
positivi pari quanti sono i positivi dispari, il numero di questi interi dispari, così
355
come il numero degli interi pari, è 0. La classe di tutti gli interi positivi è
nondimeno esattamente uguale a quella degli interi positivi dispari e pari insieme.
Quest’ultima contiene 0 + 0 ovvero 2 0 oggetti, mentre la classe degli interi
positivi ne contiene 0. Perciò
(2) 0 = 2 0.
Ci interessa molto sapere se potremmo usare il fatto espresso nell’equazione (2)
per risolvere il dilemma di Tristram Shandy presentato all’inizio di questo
capitolo. Tristram era imbarazzato perché riusciva a mettere per iscritto in un
giorno solo metà delle esperienze di un giorno, cosicché anche se fosse vissuto un
numero di armi infinito evidentemente avrebbe potuto descrivere solo metà della
sua vita. D’altra parte, gli era altrettanto chiaro che, se fosse vissuto eternamente,
ogni anno della sua vita avrebbe finito per essere messo per iscritto in qualche
tempo. La teoria matematica delle quantità infinite sostiene quest’ultima
argomentazione. Se egli vivesse 2 0 anni, potrebbe mettere per iscritto 0 anni
della sua vita. Ma vivere 2 0 anni è uguale a vivere 0 anni e pertanto Tristram
potrebbe lasciare ai posteri la sua autobiografia completa.
Equazioni come la (1) e la (2) implicanti 0 ci sembrano scorrette perché
siamo abituati a pensare nei termini di ciò che vale per numeri finiti. Eppure in
esse non c’è niente di illogico. Proprietà valide per numeri finiti non valgono
necessariamente per numeri transfiniti, né è necessariamente vero l’inverso, La
logica di quest’asserzione non è diversa dalla logica consistente nel dire che,
benché cani e gatti siano animali a quattro zampe, ci sono asserzioni vere sui gatti
che non lo sono se riferite ai cani.
Il nostro breve esame del contributo di Cantor allo studio di quantità infinite ha
illustrato alcuni fra i risultati validi a cui la sua teoria ha condotto. Ci sono però
voci anche nell’altra colonna della partita doppia e anche queste meritano qualche
attenzione.
Il concetto fondamentale nello studio di quantità infinite è quello di una
collezione, una classe o insieme di oggetti, come per esempio un insieme di
numeri, un insieme di punti su una linea e un insieme di istanti nel tempo.
Purtroppo questo concetto, apparentemente semplice e fondamentale, è irto di
difficoltà che non abbiamo ancora considerato. Adduciamo alcuni esempi a
sostegno di quest’asserzione.
Il primo esempio è classico. In forme diverse esso appare in molti testi antichi,
compreso il Nuovo Testamento. San Paolo, nella sua Epistola a Tito, dice dei
cretesi: “Uno di essi, che è addirittura un loro profeta, disse: i cretesi sono sempre
bugiardi, male bestie, ventri pigri. Questa testimonianza è vera.” Questa calunnia
contro i cretesi è riportata più comunemente nel seguente modo: “Epimenide il
cretese afferma che i cretesi mentono sempre.” Se Epimenide però ha ragione, sta
dicendo una verità e non è vero perciò che i cretesi mentono sempre. D’altra
parte, secondo la sua asserzione, egli, in quanto cretese, è un bugiardo, e quindi la
356
sua asserzione che tutti i cretesi sono bugiardi è una bugia. In entrambi i casi,
Epimenide si contraddice. Evidentemente egli non può fare l’affermazione che
tutti i cretesi sono bugiardi, anche se può essere così. La logica gli chiude la
bocca.
Consideriamo ora il dilemma dell’onesto barbiere del villaggio la cui insegna
proclamava orgogliosamente che benché egli non radesse coloro che si radevano
da sé radeva però tutti coloro che non si radevano da sé. Un giorno, mentre stava
insaponandosi il viso, gli balzò d’improvviso alla mente la domanda se egli stesse
radendosi da sé. In tal caso, egli sarebbe stato uno di coloro che si radevano da sé;
in accordo con la sua insegna non avrebbe dovuto radersi. Se d’altra parte non si
fosse raso da sé, sarebbe stato in contraddizione col suo annuncio in cui si diceva
che egli radeva tutti coloro che non si radevano da sé. In breve, se si radeva da sé
non avrebbe dovuto farlo; se non si radeva da sé avrebbe dovuto farlo. Il povero
barbiere aveva definito una classe di persone che lo includevano e non lo
includevano. Dovremo purtroppo lasciare il nostro barbiere, con la faccia
insaponata e il rasoio alzato, a cavarsela da sé in quest’impiccio.
Una difficoltà affine si trova nell’esempio seguente, piuttosto divertente. La
parola “monosillabo” non è monosillaba mentre la parola “polisillabo” è
polisillaba. La prima non è una descrizione di se stessa mentre la seconda lo è.
Conveniamo di chiamare eterologiche tutte le parole come monosillabo, che non
possono essere applicate come descrizioni di se stesse. Possiamo dire perciò che
ogni parola x è eterologica se x non è a sua volta x. Ma supponiamo che la parola
x sia eterologico. Stiamo dicendo allora che la parola eterologico è eterologica se
eterologico non è in sé eterologico. In altri termini, stiamo dicendo che qualcosa è
qualcosa se non è quel qualcosa. Quasi tutto ciò che si può dire a questo punto è
che qualcosa è sbagliato.
In tutti questi paradossi è implicata una classe distinta di oggetti, la classe dei
cretesi, la classe delle persone che devono essere rase e la classe delle parole
eterologiche. L’analisi dimostra che le affermazioni su queste classi sono in
contraddizione con se stesse. Eppure tali difficoltà furono introdotte nella
matematica dall’uso da parte di Cantor del concetto di classe. Non sorprende
pertanto che la sua opera suscitasse una tempesta di critiche e divenisse oggetto di
fiere controversie.
Spiace dover riferire che le difficoltà non sono state chiarite. Poiché esse
implicano problemi al limite fra logica e matematica, sono stati tentati vari
approcci diversi, ispirantisi ai due campi, ma nessuno si è finora dimostrato
soddisfacente. I matematici sono ora divisi in scuole di pensiero, ciascuna delle
quali sostiene una sua propria filosofia dei fondamenti della matematica.
Si dovrebbe aggiungere che non tutta la matematica è stata messa in
discussione. Inoltre, neppure quelle parti che sono soggette a controversia devono
essere abbandonate, nemmeno temporaneamente. Per fortuna c’è per queste parti
una sanzione pragmatica. Come la legittimità del calcolo infinitesimale veniva
dibattuta proprio mentre esso veniva usato per produrre leggi grandiose, così i
teoremi in discussione vengono applicati e si dimostrano assai utili. La storia del
357
calcolo infinitesimale è incoraggiante anche per il fatto che, come le relative
difficoltà furono finalmente risolte, così possiamo aspettarci una soluzione di
quelle correnti.
I dubbi hanno almeno dato ai matematici l’opportunità di criticare la loro
propria opera. Il riconoscimento del fatto che ogni epoca ha il problema di
conferire rigore alle proprie creazioni condusse E. H. Moore, un eminente
matematico americano, a osservare: “Il rigore usato è stato finora sufficiente.”
Altri matematici espressero maggior scetticismo. Una dimostrazione, dice una
canzonatura, ci dice dove concentrare i nostri dubbi. La logica, dice un’altra, è
l’arte di sbagliare con fiducia.
Nonostante i paradossi cui l’opera di Cantor condusse e che rimangono ancora
da chiarire in modo del tutto soddisfacente, molti matematici si sono resi conto
che egli fece l’unico progresso reale che l’uomo è capace di fare. I matematici
creano mediante atti di intuizione, le cui conquiste vengono poi sancite dalla
logica. È l’igiene praticata dalla matematica a tenerne le idee sane e vigorose.
Inoltre l’intera struttura si fonda sostanzialmente su un terreno incerto, le
intuizioni dell’uomo. Qua e là un’intuizione è eliminata e sostituita da un pilastro
di pensiero solidamente costruito; questo pilastro si fonda nondimeno su una
qualche intuizione più profonda, forse meno chiaramente definita. Benché il
processo di sostituire intuizioni con pensieri precisi non muti la natura del terreno
su cui la matematica in ultima analisi si fonda, esso aggiunge però solidità e
altezza alla struttura.
Ci sentiamo costretti a concludere questo capitolo con un avvertimento. Enigmi
e paradossi sono stati tanto in primo piano che il lettore potrebbe considerare la
teoria dei numeri infiniti come un divertissement matematico. Un tale giudizio
sarebbe molto lontano dalla valutazione corretta. Dovremmo vedere piuttosto con
quanta precisione il pensiero sia stato applicato alla forma incerta di una fra le
intuizioni più vaghe e impalpabili. Rendendo precisa la nozione di quantità qual è
applicata a serie infinite di oggetti, Cantor sgombrò il terreno dalle numerosissime
dispute filosofiche che avevano avuto luogo dal tempo di Aristotele fino ai tempi
moderni.
La teoria dei numeri infiniti è soltanto una fra le creazioni dei pensatori critici
dell’Ottocento. Quasi bizzarra nei suoi contenuti, essa è nondimeno sia logica sia
utile. La prossima creazione matematica che esamineremo suonerà ancora più
fantastica ai non iniziati; eppure essa si è rivelata abbastanza legittima da
rivoluzionare il pensiero matematico, scientifico e filosofico. Si ha quasi
l’impressione che i matematici dell’Ottocento fossero costretti ad allontanarsi
sempre più dai normali canali di pensiero al fine di restituire alla matematica quel
rigore che i greci le diedero per primi ma che il Seicento aveva perduto di vista
nella fretta di tenere il passo con l’attività scientifica.
358
XXVI. Nuove geometrie, nuovi mondi
Ho fatto scoperte tanto meravigliose da stupirmene io
stesso: dal nulla ho creato un mondo nuovo e diverso.
JÁNOS BOLYAY
Il primo uomo a sfidare Euclide fu Euclide stesso. Il creatore del sistema di
pensiero accettato più ampiamente e più diffusamente – la dimora della verità e il
luogo di nascita di filosofie e scienze – dubitò dei suoi risultati prima ancora di
averli resi noti al mondo. I dubbi di Euclide su se stesso segnarono l’inizio di un
attacco bimillenario, “dietro la scena”, all’ovvio.
È universalmente noto che la geometria euclidea si fonda su cinque postulati la
cui verità è tanto evidente che nessuna persona “sensata” oserebbe metterli in
dubbio. Partendo da questa solida base, una logica impeccabile produsse ulteriori
“verità”, altrettanto affascinanti e immediatamente accettabili degli assiomi. Due
millenni di applicazioni culminati nei successi dell’èra newtoniana aggiunsero
prove praticamente incontrovertibili della loro validità e attendibilità. Un secolo
dopo l’altro sostennero la logica con l’esperienza e il buon senso con la
tradizione, finché il sistema di Euclide acquistò una santità inviolata. Attorno
all’anno 1800 le persone colte avrebbero probabilmente preferito giurare sui
teoremi di Euclide che non su asserzioni contenute nella Bibbia.
Sia che una persona si appellasse all’esperienza, sia che accettasse la filosofia
kantiana, sia che inclinasse all’ovvio, la conclusione inevitabile sembrava essere
che Euclide era la verità e che la verità si identificava con Euclide. Nonostante
questa posizione invidiabile, che la geometria euclidea possedeva fin dal principio
e che il tempo accentuò, alcuni pensatori, incluso Euclide, non erano del tutto a
loro agio. Essi erano disturbati da due postulati apparentemente innocui.
Il primo di essi dice che un segmento di linea può essere esteso a piacere in
entrambe le direzioni. Il secondo è il postulato delle parallele, il quale dice che per
un punto P non giacente su una linea L passa una e una sola linea M (nel piano di
P e di L) che non incontri L per quanto M e L vengano prolungate (fig. 77). Se i
postulati della geometria euclidea sono accettati perché l’esperienza con lo spazio
fisico giustifica la nostra accettazione, allora tali postulati sono soggetti a qualche
dubbio. Nessun uomo ha un’esperienza diretta di ciò che accade nello spazio a più
di alcuni chilometri di distanza dalla Terra. Tutto ciò che possiamo dire in verità è
che tali postulati appaiono esser veri nelle regioni limitare in cui noi di fatto ci
muoviamo. Ma neppure qui possiamo esser certi delle nostre asserzioni poiché,
come abbiamo osservato nel capitolo sulla geometria proiettiva, noi non vediamo
mai linee parallele neppure nella parte di spazio che ci circonda immediatamente.
Quando noi seguiamo con lo sguardo linee che secondo la geometria di Euclide
sono definite parallele, tali linee ci paiono incontrarsi a distanza.
359
Fig. 77. Il postulato delle parallele di Euclide (quinto postulato).
Euclide rivela la sua preoccupazione a proposito di questi postulati nel modo in
cui se ne serve. Egli non usa il quinto postulato, che è il più discutibile fra i due,
finché non ha dimostrato tutti i teoremi possibili senza di esso. Egli è altrettanto
prudente circa l’illimitata possibilità di estensione della linea retta. Un esame dei
teoremi della sua geometria dimostra che egli usa segmenti di linea (parti di linea
compresi fra due punti) ma non suppone mai di dover prendere l’avvio da una
linea retta infinita. Quando è necessario, estende un segmento in una direzione o
nell’altra ma solo nella misura richiesta dal teorema. Non se ne dovrebbe inferire
che Euclide dubitasse della verità di questi postulati; ma a causa delle loro
implicazioni, apparentemente gravi, egli avrebbe preferito senza dubbio derivarne
i contenuti come conseguenze di postulati più semplici.
Anche alcuni altri pensatori ipercritici di ogni epoca successiva a quella di
Euclide esitarono a usare come postulati proposizioni su cui pure anche un
ostinato mercante avrebbe scommesso il suo ultimo centesimo. Per eliminare ogni
preoccupazione, questi uomini cercarono di verificare tutti la stessa cosa. Essi si
concentrarono sul quinto postulato e cercarono o di dedurlo dagli altri postulati o
di trovarne un surrogato più accettabile. Centinaia di lodevoli tentativi da parte
dei migliori matematici si conclusero però con fallimenti. Nel 1800 il quinto
postulato era stato etichettato come lo scandalo della geometria.
Non sarebbe gradevole, e neppure troppo utile, passare in rassegna la maggior
parte degli sforzi. Merita però la nostra attenzione l’opera del gesuita Giovanni G.
Saccheri, professore di matematica all’Università di Pavia e audace studioso di
logica. Saccheri ebbe un’idea nuova fiammante. Il suo nuovo approccio al
problema del quinto postulato consisté in effetti nel seguente ragionamento: Data
una linea L e un punto P, allora o (a) per P passa esattamente una parallela a L
oppure (b) per P non passano parallele a L o (c) per P ci sono almeno due
parallele a L. L’alternativa (a) era il postulato delle parallele di Euclide.
Supponiamo che essa fosse sostituita dalla (b) e che quest’ultima, insieme con gli
altri quattro postulati di Euclide, dovesse condurre a teoremi contraddittòri. Allora
sicuramente la (b) non sarebbe corretta. Similmente, se l’uso della (c) e degli altri
postulati euclidei avesse condotto a teoremi contraddittòri, allora l’alternativa (c)
sarebbe stata inevitabilmente erronea. Ne sarebbe allora seguito che il postulato
delle parallele di Euclide è l’unico possibile.
Usando la (b) insieme con gli altri postulati euclidei, Saccheri dedusse teoremi
che si contraddicevano l’un l’altro. Egli non riuscì però a dedurre contraddizioni
dall’uso dei quattro postulati euclidei e dell’assioma alternativo postulante
360
l’esistenza di almeno due parallele. Benché i suoi sforzi fossero precisi ed estesi, e
benché alcune sue deduzioni fossero di fatto strane se confrontate con risultati
analoghi ottenuti da Euclide, non emersero contraddizioni.
Saccheri era sulla soglia di una scoperta fondamentale, ma si rifiutò di
oltrepassarla. Lasceremo per il momento al lettore il compito di determinare la
conclusione che Saccheri avrebbe dovuto dedurre dall’impossibilità da lui
riscontrata di dedurre contraddizioni. Quanto a Saccheri, era così impreparato agli
strani teoremi che derivò dal suo insieme di postulati che stabilì che il quinto
postulato di Euclide doveva esser vero. Conformemente a queste opinioni, nel
1733 pubblicò i suoi risultati in un libro intitolato Euclides ab omni naevo
vindicatus (Euclide preservato da ogni macchia). Evidentemente quando un uomo
si propone di riscattarne un altro lo fa senza badare troppo per il sottile ai fatti.
Una spiegazione dell’insuccesso di Saccheri oltre che di molti altri è che, per
quanto grandi fossero i matematici che affrontarono il problema del quinto
postulato, nessuno fu abbastanza sottile da riconoscere e rifiutare un abito di
pensiero bimillenario. Ma nel mondo matematico dell’inizio dell’Ottocento ebbe
luogo nell’ambiente intellettuale un mutamento che portò con sé un esame critico
radicale delle convinzioni fondamentali. Questo mutamento spiega indubbiamente
come mai tre uomini – Gauss, Lobačevskij e Bolyai –, che non si conoscevano fra
loro, scoprissero la corretta interpretazione dell’opera di Saccheri press’a poco
nello stesso tempo; Lobačevskij e Bolyai pubblicarono i loro risultati a pochi anni
di distanza l’uno dall’altro.
Il più grande di questi tre uomini fu Carl Friedrich Gauss, la cui statura
intellettuale può essere paragonata a quella di Newton e di Archimede. Carl rivelò
una precocità incredibile in molti campi e una predilezione particolare per la
matematica. Quando, ancora giovanissimo, dimostrò che il poligono regolare di
17 lati potrebbe essere costruito con riga e compasso, ne fu così felice che
abbandonò l’intenzione di diventare un filologo per studiare la matematica. Egli
contribuì ben presto con opere magistrali a molti settori della disciplina e si mise
in luce anche come inventore e sperimentatore. Benché i suoi contributi non
fossero meno numerosi e meno profondi di quelli di altri matematici, Gauss era
estremamente modesto. “Se altri”, egli scrisse, “riflettessero con tanta profondità e
continuità sulle verità matematiche come ho fatto io, farebbero le mie stesse
scoperte.” Coloro che credono che il genio sia al 99 per cento sudore e anche
quelli che disperano nelle proprie abilità matematiche possono trovar conforto
nell’asserzione di Gauss.
Gauss era molto giovane quando il problema del postulato delle parallele
attrasse per la prima volta la sua attenzione. Dapprima si impegnò molto nel
tentativo di sostituirlo con un assioma più semplice, senza però riuscirvi. Seguì
poi la linea di pensiero di Saccheri, adottando un postulato delle parallele che
contraddiceva quello euclideo – sostanzialmente la terza alternativa di Saccheri –
e deducendo conseguenze dal nuovo postulato e dagli altri nove di Euclide. Come
Saccheri, pervenne a teoremi strani. Invece di lasciarsi spaventare dalla stranezza,
Gauss combatté il fuoco col fuoco. Egli trasse la conclusione nuovissima e
361
sbalorditiva, che matematici grandi e quasi grandi non avevano considerato, che
possono esistere altre geometrie, altrettanto valide di quella di Euclide.
Gauss ebbe il coraggio intellettuale di creare una geometria non euclidea ma
non il coraggio morale di affrontare le folle, le quali ne avrebbero definito pazzo
il creatore, poiché gli scienziati dell’inizio dell’Ottocento vivevano all’ombra di
Kant, la cui solenne dichiarazione che non poteva esistere altra geometria oltre a
quella euclidea dominava il mondo intellettuale. L’opera di Gauss sulla geometria
non euclidea fu trovata fra le sue carte dopo la sua morte.
Degli altri due uomini cui spetta l’onore di aver creato una geometria non
euclidea, il primo fu il geniale Nikolaj Lobačevskij. Nato nel 1793 da una povera
famiglia russa, studiò all’Università di Kazan e all’età di ventitré anni vi ottenne
una cattedra. Anche Lobačevskij fu attratto dal problema dell’assioma delle
parallele. Egli dichiarò di essere stato colpito dal fatto che duemila anni di sforzi
dei massimi matematici non erano riusciti a produrre un assioma migliore. Così,
come Saccheri e Gauss, costruì una nuova geometria sulla base di un postulato
delle parallele che contraddiceva quello euclideo. I teoremi quasi incredibili cui
giunse non lo scoraggiarono, più di quanto avessero fatto con Gauss. Un
ragionamento logico lo aveva condotto ad essi e un ragionamento logico era una
guida ineccepibile. Così anche Lobačevskij affermò la conclusione radicale ma
inevitabile: ci sono geometrie diverse da quella di Euclide e altrettanto valide.
L’uomo che condivide con Lobačevskij l’onore della scoperta e il coraggio di
aver pubblicato la sua opera sulla geometria non euclidea è l’ungherese János
Bolyai. Come gli altri due fu favorito dagli dèi e inoltre fu incoraggiato e coltivato
dal padre Farkas, anch’egli matematico. Lo stesso Farkas era stato attratto dal
postulato delle parallele e aveva speso invano molti anni a lavorare su di esso.
Egli lo trasmise in eredità al figlio, il quale nel 1825, all’età di ventitré anni, vide
improvvisamente la luce. Ci sono postulati contraddicenti Euclide, egli dichiarò, i
quali possono servire nondimeno di base per nuove geometrie. János procedette a
costruirne una. Sollecitato dal padre, pubblicò la sua opera nel 1833 sotto forma
di un’appendice al testo del padre.
Come furono accolti i documenti fondamentali di Lobačevskij e Bolyai? In che
modo gli scienziati reagirono alla notizia sensazionale che ora la geometria
euclidea aveva rivali? In che modo i filosofi, nella loro razionalità, salutarono la
completa confutazione della filosofia dominante del tempo? Le opere di
Lobačevskij e di Bolyai furono ignorate completamente. Inoltre nel 1847
Lobačevskij fu congedato dall’Università, nonostante i suoi brillanti contributi e
una devozione disinteressata al suo lavoro. Se Bolyai fosse stato un professore, e
non un ufficiale dell’esercito austriaco, avrebbe potuto subire la stessa sorte.
Una trentina d’anni dopo la pubblicazione delle opere fondamentali di
Lobačevskij e di Bolyai, fu pubblicata postuma, insieme ad altri scritti, la
corrispondenza di Gauss sulla geometria non euclidea. Il nome di Gauss attrasse
l’attenzione sull’argomento e poco tempo dopo il mondo matematico cominciò a
leggere Lobačevskij e Bolyai.
362
Fig. 78. La parallela di Euclide come linea limite unica.
Per apprezzare nel suo giusto valore la loro opera sul problema del postulato
delle parallele dobbiamo fare un passo indietro. Consideriamo una linea retta L
(fig. 78) e un punto P non giacente su di essa. Il quinto postulato di Euclide
afferma che per P passa una e una sola linea K che non incontri L. Ora sia Q un
punto su L. Man mano che Q si sposta verso destra, la linea PQ ruota in senso
antiorario attorno a P e sembra approssimarsi alla linea K. Analogamente, man
mano che Q si muove su L verso sinistra, la linea PQ ruota in senso orario attorno
a P e si avvicina di nuovo a K. In entrambi i casi, quindi, PQ si avvicina a una e
medesima linea limitante K.
Bolyai e Lobačevskij supposero invece che le due posizioni limitanti di PQ non
siano la stessa linea K bensì due linee diverse passanti per P, e che queste linee
limitanti, M e N (fig. 79), non incontrino L. Essi supposero inoltre che ogni linea
passante per P e compresa fra M e N, come la J, non incontri la L. Il postulato
delle parallele di Bolyai e di Lobačevskij afferma perciò l’esistenza di un insieme
infinito di parallele a L passanti per P. (Questi uomini riservarono la parola
“parallela” alle sole linee limitanti M e N, ma noi la useremo per denotare ogni
linea passante per P che non incontri L.)
Fig. 79. Il postulato delle parallele di Lobačevskij e di Bolyai.
Il lettore penserà forse, come i matematici dell’epoca di Bolyai e di
Lobačevskij, che si tratta di un assunto ridicolo. Il diagramma suggerisce che M e
N incontreranno L se tutt’e tre le linee vengono prolungate a sufficienza.
Ricordiamo, nondimeno, che Bolyai e Lobačevskij erano interessati a ritrovare un
363
postulato che, descrivesse o no lo spazio in cui crediamo di vivere, fosse
un’alternativa logica a quello di Euclide. E poiché i teoremi che dovevano essere
derivati da tale assunto e dai restanti postulati euclidei sarebbero dipesi solo dal
ragionamento e non dall’accordo con figure, il fatto che l’assunto non
corrispondesse a sensazioni visuali è irrilevante.
Quali teoremi Bolyai e Lobačevskij riuscirono a provare con i loro assunti? È
ovvio che tutti i teoremi della geometria euclidea dimostrati senza ricorrere
all’uso del postulato euclideo delle parallele sono validi, automaticamente, anche
nella geometria di Bolyai e di Lobačevskij, poiché essi conservarono gli altri
postulati euclidei. Come esempi di tali teoremi possiamo citare: gli angoli retti
sono uguali; da un punto P si può tracciare solo una perpendicolare a una linea
retta; e, in un triangolo con lati uguali, gli angoli opposti a questi lati sono uguali.
La situazione è invece sorprendente per quei teoremi della geometria di Bolyai
e di Lobačevskij che dipendono dal loro postulato delle parallele e che perciò non
si trovano in Euclide. Questi teoremi, dimostrati, come tutti i teoremi matematici,
con i metodi di ragionamento deduttivo familiari al lettore, non traggono grande
utilità dalle figure, a differenza di quanto avviene nella geometria euclidea,
nell’illustrazione dei passaggi della dimostrazione o dei significati dei teoremi.
Particolarmente inaspettato è il teorema che la somma degli angoli di ogni
triangolo è sempre meno di 180°. Inoltre, di due triangoli, quello che ha l’area
maggiore ha una somma degli angoli minore. Ancor più sorprendente è il fatto
che la nuova geometria annulla un concetto vitale della geometria euclidea, ossia
che due figure geometriche possono avere la stessa figura ma dimensioni diverse.
Diciamo, in tal caso, che le due figure sono simili ma non congruenti. Nella nuova
geometria due triangoli simili devono essere anche congruenti. Come ultimo
esempio di un nuovo teorema, menzioniamo il seguente: la distanza fra due linee
parallele si approssima a zero in una direzione lungo le linee e diventa infinita
nell’altra direzione.
Bolyai e Lobačevskij erano riusciti a costruire una geometria nuova con molti
teoremi sorprendenti. Ma la loro opera era semplicemente un esercizio di logica e
niente di più? Dobbiamo innanzitutto renderci conto del fatto che centinaia di
deduzioni nella nuova geometria avevano prodotto teoremi tutti coerenti l’uno con
l’altro. Ciò significava che il vecchio postulato delle parallele non poteva essere
dedotto dagli altri nove postulati, altrimenti l’assunzione del nuovo teorema
avrebbe condotto sicuramente a contraddizioni nel sistema. Non era del resto una
novità il fatto che il quinto postulato di Euclide non poteva essere dedotto da altri
postulati euclidei. Questo fatto era già stato sospettato in precedenza.
La seconda implicazione nell’opera di Bolyai e di Lobačevskij era invece una
novità assoluta. Essa era che non potremmo sperare di stabilire la verità
incontrovertibile del postulato euclideo delle parallele dimostrando che ogni
alternativa condurrebbe a contraddizioni. Era chiaro perciò che nessuno dei due
sistemi usati da matematici anteriori per giustificare il postulato delle parallele
avrebbe mai avuto successo.
364
Ma il massimo significato della nuova geometria fu del tutto inatteso. Benché si
trattasse indiscutibilmente di un esercizio logico, nella mente della gente
persisteva la conclusione: Ci sono geometrie diverse da quella di Euclide. Un
matematico in possesso di questa conoscenza era come bambino con in mano una
carabina ad aria compressa. La tentazione di usarla era troppo forte per resistere.
La geometria euclidea era nota come una descrizione esatta dello spazio fisico. La
geometria non euclidea di Bolyai e Lobačevskij, d’altra parte, non sembrava fosse
applicabile allo spazio fisico né fosse destinata a essere applicata ad esso ma
poteva esserlo?
Le prime reazioni a questa domanda sono generalmente negative. Se la
geometria euclidea è valida, come può esserlo anche questa nuova geometria in
conflitto con essa? Inoltre, come possono essere assurdi teoremi che si applicano
al nostro mondo familiare? Una breve riflessione indica che le prime reazioni
possono essere troppo frettolose. Quale garanzia abbiamo del fatto che la
geometria euclidea sia giusta? È vero che è stata usata per migliaia di anni. Essa
ha a suo favore anche abitudini di pensiero stabilite da molto tempo. Ma
ricordiamo anche le ragioni che aveva lo stesso Euclide per considerare con
preoccupazione il quinto postulato. Non era forse vero che esso fu
un’affermazione su regioni dello spazio lontanissimo dall’esperienza quotidiana
dell’uomo, uno spazio così vasto che le regioni accessibili sono al confronto
soltanto un punto sulla superficie della Terra? Chi di noi conosce la geometria
dell’universo in prossimità di Marte o anche solo 15 chilometri al di sopra della
superficie della Terra? Con quale diritto supponiamo che essa debba essere quella
stessa che sembra applicarsi sulla Terra? La geometria euclidea potrebbe non
esser meglio delle centinaia di leggi scientifiche che erano abbastanza utili al loro
tempo ma che dovettero infine essere abbandonate.
Dopo aver considerato attentamente questo problema, Gauss suggerì un criterio
per determinare la verità della geometria euclidea. La somma degli angoli di un
triangolo è di 180° nella geometria euclidea ma è meno di 180° nella nuova
geometria. La misurazione degli angoli di un triangolo avrebbe pertanto potuto
stabilire quale geometria si adatti al mondo fisico. Doveva essere scelto un
triangolo grandissimo, per due ragioni. Innanzitutto l’errore di misurazione è
maggiore in un triangolo più piccolo. In secondo luogo, un teorema della
geometria di Lobačevskij e di Bolyai dice che la somma degli angoli di un
triangolo si approssima a 180° man mano che le dimensioni di un triangolo si
riducono. Per un triangolo piccolo la somma potrebbe essere così prossima a 180°
che gli strumenti di misurazione potrebbero non essere sensibili alla differenza.
Gauss stesso esegui l’esperimento. Egli collocò tre osservatori sulla vetta di tre
montagne. Ciascun osservatore misurò l’angolo formato dalle sue linee visuali
dirette agli altri due osservatori. La somma degli angoli del triangolo risultò
inferiore di 2" a 180°, con una differenza così piccola da poter essere imputata a
errori di misurazione. Perciò l’esperimento non risultò decisivo.
L’aspetto irritante dell’esperimento del triangolo di Gauss consisteva nel fatto
che, anche nelle migliori condizioni sperimentali, esso non potrebbe mai
365
dimostrare che lo spazio è euclideo poiché, anche se la somma degli angoli
dovesse dare 180°, si dovrebbe concedere la possibilità di errori di misurazione e
quindi la possibilità che la somma esatta sia inferiore a 180°. Di fatto
l’esperimento implicava due assunti ingiustificati, ciascuno dei quali avrebbe
potuto invalidare una conclusione tratta da esso. Il primo era che il triangolo
formato dalle tre vette di montagne fosse abbastanza grande da dare un risultato
decisivo. Il secondo assunto era che i raggi di luce che formavano i lati del
triangolo seguissero traiettorie rettilinee. I raggi possono in effetti incurvarsi
leggermente ma in misura percettibile.
Se l’esperimento di Gauss può esser messo da parte come un esperimento
interessante ma non conclusivo, merita ancora attenzione la questione più vasta
dell’applicabilità della geometria non euclidea. Il fatto sorprendente che emerge
da ogni tentativo di decidere quale delle due geometrie si adatti allo spazio fisico
è che entrambe si adattano ugualmente bene. Abbiamo già accennato che la
nuova geometria afferma che in un triangolo piccolo la somma degli angoli
dev’essere assai prossima a 180° e che quanto più piccolo è il triangolo tanto più
prossima a 180° dev’essere la somma degli angoli. Se applicassimo la geometria
non euclidea e, in base ad essa, usassimo somme degli angoli leggermente
inferiori a 180°, non ci imbatteremmo in alcun inconveniente dal punto di vista
pratico. Analogamente, nessun inconveniente insorgerebbe se supponessimo che,
dato un punto P e una linea L, per il punto P, e nel piano di P e di L, passa un
numero infinito di parallele a L.
Potremmo pensare che la nuova geometria non possa essere applicata al mondo
fisico perché essa asserisce che triangoli simili devono essere congruenti. Certo
sembra possibile costruire due triangoli fisici che siano simili ma non congruenti.
Di fatto, un triangolo potrebbe essere costruito molto grande e l’altro molto
piccolo. Per quanto grande sia però la precisione con cui i due triangoli vengono
costruiti, non potremmo esser certi che essi siano realmente simili, ossia che gli
angoli corrispondenti siano esattamente uguali. Il triangolo più piccolo potrebbe
avere una somma degli angoli più grande, in accordo con la nuova geometria non
euclidea, ma la differenza potrebbe non essere misurabile. Perciò, a tutti i fini
pratici non avrebbe alcuna importanza l’accettazione o meno di quanto afferma la
nuova geometria. In altri termini, non c’è alcun modo per stabilire quale
geometria si applichi allo spazio fisico ed entrambe possono essere applicate. I
nostri pregiudizi e le nostre abitudini di pensiero sono favorevoli alla geometria
euclidea, la quale è probabilmente anche un po’ più semplice della geometria non
euclidea. Queste ragioni preferenziali non confutano però l’applicabilità della
nuova geometria.
Indubbiamente a questo punto il lettore non è soddisfatto. Egli desidera forse
che gli vengano presentati altri argomenti, che dimostrino l’applicabilità della
geometria non euclidea al mondo fisico.
Torniamo a considerare per un momento la geometria euclidea. Immaginiamoci
un foglio di carta enorme, che si estenda indefinitamente in tutte le direzioni.
Questo foglio di carta è un’illustrazione fisica del piano matematico, il piano in
366
cui valgono i teoremi della geometria euclidea. Supponiamo ora di modificare la
forma di questo enorme piano di carta incurvandone un po’ verso l’alto i lati
destro e sinistro (fig. 80), in modo che esso formi una superficie curva, la quale
continui nondimeno a estendersi indefinitamente in tutte le direzioni, come il
piano originario. Una tale superficie è nota come superficie cilindrica. In séguito
al mutamento di forma, la maggior parte delle linee rette del piano precedente
diventano linee curve le quali, come le linee rette del piano, sono le traiettorie più
brevi fra i punti che esse congiungono sulla superficie. Chiamiamo tali curve
geodetiche. Due linee rette che erano parallele nel piano diventano geodetiche
parallele, ossia geodetiche che non si incontrano nella superficie. I triangoli del
piano originario diventano figure formate da archi di geodetiche sulla superficie.
Chiameremo anche queste nuove figure “triangoli.” I cerchi del piano danno
origine a figure che chiameremo “cerchi”.
Fig. 80. Nuova interpretazione visiva della geometria euclidea.
Passiamo ora a un fatto davvero sensazionale. Ogni postulato della geometria
euclidea vale per le figure sulla superficie cilindrica, a una condizione: che
interpretiamo le parole linea, triangolo e cerchio come abbiamo suggerito sopra.
Perciò i teoremi della geometria euclidea che seguono dai postulati mediante un
ragionamento deduttivo, un processo del tutto indipendente dalle figure che
possiamo tracciare, valgono anche per figure sulla superficie incurvata. Per fare
un esempio, la somma degli angoli di un “triangolo” sulla superficie è di 180°.
Il lettore potrebbe obiettare a tale ragionamento che le linee rette e le figure
definite nei termini di linee rette non posseggono più il loro proprio significato;
esse hanno perduto la loro rettilinearità. Ora, però, traiamo vantaggio da un fatto
su cui abbiamo insistito per la prima volta nel capitolo quarto, ossia che i concetti
fondamentali della geometria, come punto e linea, sono indefiniti. Noi usiamo
soltanto le proprietà di questi concetti che sono formulate esplicitamente negli
assiomi. Perciò, se una nuova immagine fisica della linea ha, ad esempio, le
367
proprietà richieste dai postulati, è possibile adottare questa nuova immagine. È
perciò logicamente giustificabile associare all’intera geometria euclidea
un’immagine fisica del tutto nuova.
L’argomentazione che abbiamo presentato ora per la nuova interpretazione
fisica della geometria euclidea si applica anche alla geometria non euclidea. E se
noi traiamo vantaggio dalla nostra libertà di scegliere l’interpretazione fisica della
linea e di altre figure, otteniamo un’interpretazione intuitivamente accettabile
della nuova geometria.
La figura 81 illustra una superficie nota come pseudosfera. Le curve che sulla
pseudosfera sono i percorsi più brevi fra punti sulla superficie – anche queste
curve speciali sono chiamate geodetiche – hanno le proprietà che le linee rette
posseggono nei postulati di Lobačevskij e Bolyai. Ad esempio il postulato che
due punti determinano una e una sola linea retta si applica anche a queste
geodetiche. Due punti sulla pseudosfera (C e D nella fig. 81) determinano una e
una sola geodetica, o percorso minimo, fra di essi. Similmente il postulato delle
parallele di Lobačevskij e Bolyai, il quale dice che per un punto P non giacente su
una linea L passa un numero infinito di linee che non incontrano L, si applica
anche alle geodetiche sulla pseudosfera.
Fig. 81. Interpretazione visiva della geometria non euclidea di Lobačevskij e di
Bolyai.
Poiché i postulati di Lobačevskij e di Bolyai si adattano alle geodetiche sulla
pseudosfera, ad esse devono applicarsi anche i teoremi, in quanto conseguenze
logiche dei postulati. Così il teorema secondo cui la somma degli angoli di un
triangolo è meno di 180° vale anche per il triangolo CDE formato dagli archi di
geodetica. Abbiamo perciò ottenuto una visualizzazione della geometria non
euclidea al costo di un mutamento minimo e giustificabile nell’immagine della
linea retta.
Avendo trovato un “senso” nella nuova geometria, torniamo a considerare il
problema originario. La nuova geometria può descrivere il mondo fisico in cui
viviamo? La risposta, come il lettore può avere immaginato, è che la geometria
dello spazio fisico dipende dal significato fisico che attribuiamo al concetto di
368
linee rette. L’esperienza ci dice che se per linea retta si considera una cordicella
tesa, la geometria euclidea si applica ad essa assai bene. Non è però necessario né
desiderabile che per linea retta intendiamo una cordicella tesa in tutte le sue
applicazioni fisiche. Consideriamo per un momento persone che vivono in un
paese montano e che siano interessate alla geometria della superficie del loro
paese. L’interpretazione fisica più utile della linea retta è per esse quella della
geodetica, ossia la curva corrispondente alla distanza minima fra due punti. Il
primo fatto sorprendente a proposito di queste linee “rette” è che esse mutano
figura da una parte del paese all’altra, a seconda delle figure delle colline e delle
valli. A quali assiomi obbediscono queste “linee rette”? Quasi certamente non a
quelli euclidei. Ad esempio, la topografia di tale area può essere tale che ci siano
vari percorsi minimi fra alcune coppie di punti. Possono esserci molte geodetiche
passanti per un punto dato le quali non incontrino una geodetica particolare, e così
via.
Anche nelle misurazioni astronomiche la corda tesa non è l’interpretazione
pratica della linea retta. Qui dobbiamo servirci invece del raggio di luce. Ora, qual
è la geometria che meglio si adatta quando i raggi di luce vengono usati come
linee rette? Lasceremo che per il momento il lettore mediti da sé su questo
problema, che riprenderemo nel prossimo capitolo, e torniamo alla nostra
esperienza della geometria non euclidea. Ci sono infatti vari mondi matematici da
esaminare.
Lobačevskij e Bolyai concentrarono la loro attenzione sul postulato delle
parallele ma accettarono un altro postulato euclideo che è quasi altrettanto
discutibile, ossia quello che dice che un segmento di linea può essere esteso
indefinitamente in entrambe le direzioni. Anche qui ci imbattiamo in un assunto
che ha la pretesa di descrivere ciò che accade nello spazio a trilioni di chilometri
di distanza dalla nostra Terra. In che modo possiamo esser certi della sua verità,
ossia della sua applicabilità al mondo fisico?
Non molto tempo dopo l’opera di Bolyai e Lobačevskij sul concetto di
parallela, lo sguardo penetrante dei matematici fece luce sull’infinità della linea
retta e cercò di determinare la sapienza di quest’assioma. Il malaticcio e precoce
Bernhard Riemann (1826-1866), che aveva chiesto al padre, un pastore luterano
tedesco, il permesso di abbandonare il seminario e di studiare matematica, si
dedicò all’esame di possibili alternative a questo postulato.
Una fra le sue nuove idee fu che dobbiamo distinguere fra mancanza di limiti e
infinità. Ad esempio, l’equatore sulla Terra non ha un limite ma è finito. In
considerazione di questa distinzione, Riemann propose un’alternativa al postulato
di Euclide sull’infinità della linea retta, secondo la quale tutte le linee hanno una
lunghezza finita ma sono prive di un limite.
369
Fig. 82. La base geometrica del postulato delle parallele di Riemann.
Questo pensiero fu seguito da riflessioni sul postulato delle parallele che erano
simili a quelle di Lobačevskij e di Bolyai ma che in questo caso condussero a una
conclusione diversa. Quando R si muove verso sinistra lungo L (fig. 82) e Q si
muove verso destra, i due punti devono in definitiva incontrarsi poiché Riemann
supponeva che la linea L sia finita. La linea PR ruoterà dunque attorno a P fino a
incontrare la linea PQ, senza però mai perdere il contatto con L. Ossia per P non
dovrebbe passare alcuna linea parallela a L. La figura 82 non ci dice in che modo
questa rotazione completa di PR attorno a P sia possibile con la nostra concezione
usuale della linea retta, ma il disegno non vuol far altro che suggerire il pensiero
di Riemann. Queste riflessioni suggerirono a Riemann l’opportunità di adottare,
assieme alla finitezza della linea retta, un postulato che negasse l’esistenza di
linee parallele.
Come se queste due discordanze da Euclide non fossero sufficienti, Riemann
ne propose una terza: invece di supporre che due punti determinino una e una sola
linea, Riemann adottò il postulato che due punti possono determinare più di una
linea.
Fig. 83, Tutte le linee perpendicolari a una linea retta si incontrano in un
punto.
Prima di procedere oltre ricordiamo al lettore che questi assiomi devono essere
accettati per il momento semplicemente come la base di uno sviluppo logico di
una nuova geometria. Considereremo invece più avanti la relazione fra questo
sistema alquanto arbitrario e il mondo reale.
La geometria di Riemann, come quella di Lobačevskij e di Bolyai, ha alcuni
teoremi in comune con Euclide. Il teorema che angoli retti siano uguali e il
370
teorema che angoli opposti a lati uguali di un triangolo sono anch’essi uguali vale
in tutt’e tre le geometrie, poiché questi teoremi dipendono solo da assiomi comuni
a tutt’e tre le geometrie.
Alcuni teoremi della geometria di Riemann che differiscono da quelli di
Euclide sono sorprendenti. Ad esempio: tutte le linee perpendicolari a una linea
retta si incontrano in un punto (fig. 83). Un altro fatto che si presenta in questo
strano mondo è che due linee rette delimitano un’area (fig. 84). Come nella
geometria di Lobačevskij e di Bolyai, troviamo che triangoli che sono simili sono
anche congruenti. Altri due teoremi potrebbero quasi essere previsti. Il primo dice
che la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180° gradi, il secondo
dice che, di due triangoli, quello con superficie maggiore ha la somma degli
angoli maggiore.
Fig. 84. Due linee rette delimitano un’area.
Possiamo ora porre la medesima domanda che abbiamo sollevato in relazione
alla geometria di Lobačevskij e di Bolyai. La geometria di Riemann ha qualche
significato oltre a quello di un esercizio intellettuale per i matematici? Anche qui
la risposta è: sì. È possibile applicare la geometria di Riemann al mondo fisico
con la solita interpretazione della linea retta e non scoprire mai differenze fra le
asserzioni della geometria e la situazione fisica. L’argomentazione è anche in
questo caso esattamente la stessa che nel caso della geometria di Lobačevskij e di
Bolyai.
Modificando, inoltre, la nozione della linea retta, possiamo trovare altre
interpretazioni, intuitivamente soddisfacenti, della geometria di Riemann. Così
come avevamo potuto rappresentare la geometria euclidea su una superficie
cilindrica e la geometria di Lobačevskij e di Bolyai su una pseudosfera, così
possiamo rappresentare la geometria di Riemann sulla sfera che ci è familiare. La
curva che unisce due punti su una sfera col percorso più breve – ossia la curva che
sarà la nostra immagine della linea retta – è l’arco del cerchio massimo che passa
per i due punti. Per cerchio massimo intendiamo un cerchio il cui centro sia anche
il centro della sfera. Così, dei due cerchi che passano per A e per B (fig. 85), il
cerchio ABCDE è un cerchio massimo, mentre il cerchio ABFGH non lo è.
Vediamo se i postulati della geometria di Riemann si applicano alla sfera,
interpretando naturalmente la linea retta dei postulati nel senso del cerchio
massimo sulla sfera. In primo luogo, i cerchi massimi sono illimitati e di
lunghezza finita. In secondo luogo, sulla sfera non esistono linee parallele, poiché
tutti i cerchi massimi si incontrano. Di fatto, essi s’incontrano non una volta sola
bensì due. Ad esempio, i cerchi massimi ABCDE e MNPD si incontrano in N e D.
371
L’assioma che due punti possono determinare più di una linea è anch’esso
realizzato sulla sfera. Per due punti quali N e D nella figura 85 passa più di un
cerchio massimo, mentre per due punti come A e B passa solo un cerchio
massimo.
Fig. 85. Un’interpretazione visiva della geometria di Riemann.
Poiché i postulati della geometria riemanniana descrivono correttamente fatti
concernenti la sfera, devono essere validi sulla sfera anche i teoremi derivati da
essi mediante un ragionamento deduttivo valido.
Fig. 86. Tutte le linee perpendicolari a un cerchio massimo di una sfera si
incontrano in un punto.
Esaminiamone alcuni. Un teorema dice che tutte le perpendicolari a una linea
retta si incontrano in un punto. Considerando il cerchio massimo L della figura 86
come la nostra linea retta, troviamo che tutte le perpendicolari a L si incontrano in
P. Se, ad esempio, L fosse l’equatore terrestre, P sarebbe il polo nord o sud.
Un altro teorema dice che la somma degli angoli di un triangolo è più di 180°.
Poiché le linee rette dei nostri postulati sono cerchi massimi, un triangolo è la
figura formata da archi di cerchi massimi. Un tale triangolo è illustrato da ABP
nella figura 86. Poiché due fra gli angoli di questo triangolo sono angoli retti, la
somma dei tre angoli è necessariamente maggiore di 180°. Questo fatto è vero per
ogni “triangolo” su una sfera.
Non e necessario insistere su un punto già chiaro. Ogni teorema della
geometria riemanniana può essere interpretato sulla sfera immaginando
semplicemente le linee rette che compaiono nei teoremi come cerchi massimi
della sfera. Possiamo perciò dare un significato geometrico e intuitivamente
soddisfacente alla geometria riemanniana. Questa geometria fornisce inoltre
372
risposte esatte a problemi pratici e scientifici implicanti relazioni geometriche
sulla superficie della sfera. Essa è perciò, almeno in questa misura, una geometria
del mondo fisico. Di fatto ogni argomentazione a favore della tesi che il nostro
mondo fisico potrebbe essere non euclideo nel senso della geometria di Bolyai e
di Lobačevskij si applica altrettanto bene alla geometria riemanniana.
L’applicabilità delle geometrie non euclidee al mondo in cui viviamo sarà
discussa più avanti in relazione alla teoria della relatività.
Considerata retrospettivamente, la storia della creazione di geometrie non
euclidee è la storia della cecità degli esseri umani, grandi e piccoli. L’uomo vive
sulla superficie della Terra. Supponiamo che egli si accinga a costruire una
geometria per adattarla direttamente a questa superficie, invece di considerarla
come una superficie speciale nel mondo euclideo tridimensionale. Che tipo di
geometria svilupperebbe? La “linea” in questa geometria concernente la
superficie di una sfera dovrebbe manifestamente essere la curva che congiunge
due punti col percorso più breve, poiché questa curva dovrebbe essere la più utile.
Questa curva, come abbiamo visto, è il cerchio massimo che congiunge i punti.
D’altra parte, la linea retta nel senso familiare della geometria euclidea non
sarebbe scelta certo come la curva fondamentale in quanto essa non esiste neppure
sulla superficie di una sfera.
Quali postulati sceglierebbe un geometra per i suoi cerchi massimi? Certo
nessun postulato diverso da quelli scelti da Riemann, un sistema di postulati in cui
non esistono linee parallele e in cui la linea ha una lunghezza finita. In altri
termini, la geometria naturale, la geometria pratica, la geometria del buon senso
per noi mortali legati alla Terra è la geometria riemanniana.
Per migliaia di anni questa geometria è stata sotto il naso dell’uomo. Eppure,
durante tutti quegli anni i massimi matematici non hanno mai pensato a verificare
il loro approccio al quinto postulato confrontandolo con la geometria della sfera.
E come a coronare gli sviluppi di queste migliaia di anni, il grande Kant costruì la
sua profonda filosofia sulla verità incontrovertibile della geometria euclidea, e
quindi, di fatto, sull’impossibilità di concepire una qualsiasi altra geometria.
Eppure egli visse per tutta la vita se non in, almeno su, un mondo non euclideo.
Come si spiega dunque il fatto che, benché la geometria sia sorta da
misurazioni compiute sulla Terra, la geometria euclidea sia stata sviluppata per
prima? La risposta è che, a esseri umani che vivano in una regione limitata, la
Terra appare di fatto piatta e la distanza più breve fra due punti su una superficie
piana è veramente la linea retta, nel senso comunemente accettato del termine.
Adottando questa nozione della linea come di una corda tesa, ne seguivano
naturalmente i postulati e i teoremi della geometria euclidea. Una volta sviluppata
la geometria su superfici piane, la sfera doveva essere introdotta all’interno della
cornice costituita dalla geometria euclidea. Nessuno, neppure i greci, che pure
erano particolarmente appassionati della sfera, pensò ad affrontare lo studio della
geometria della sfera mediante un insieme di assunti designati direttamente in
funzione di una tale superficie. Questa storia dimostra che gli uomini sono
governati da abitudini di pensiero non meno che da abitudini fisiche, costumi e
373
convenzioni sociali. Indubbiamente i precursori non fortunati di Lobačevskij e di
Bolyai non erano privi di abilità tecnica o della capacità di padroneggiare
difficoltà matematiche. Essi non riuscirono a risolvere il problema delle parallele
soltanto perché non riuscirono a spezzare un abito di pensiero: la geometria
euclidea. La storia di quest’inerzia mentale è un esempio eccellente di ciò che
Lecky, nella History of Rationalism in Europe, ha descritto come quello spirito,
quello Zeitgeist tipico di un’epoca, che predispone la gente a punti di vista o a
convinzioni indipendenti da argomenti pro o contro. Così fu per Kant e per tutti i
matematici fino all’Ottocento. La fede nella verità, nell’inattaccabilità,
nell’unicità della geometria euclidea impedì a chiunque persino di considerare la
possibilità di un’altra geometria, anche se una geometria non euclidea era
sciorinata proprio dinanzi agli occhi di tutti.
L’importanza della geometria non euclidea nella storia generale del pensiero
può difficilmente essere sopravvalutata. Come la teoria eliocentrica di Copernico,
la legge newtoniana della gravitazione e la teoria darwiniana dell’evoluzione, la
geometria non euclidea ha inciso profondamente sulla scienza, sulla filosofia e
sulla religione. È lecito dire che nessun evento più grandioso ha mai avuto luogo
nella storia del pensiero.
Innanzitutto la creazione della geometria non euclidea ha portato in chiara luce
una distinzione che è sempre stata implicita ma mai riconosciuta: quella fra uno
spazio matematico e uno spazio fisico. L’identificazione originaria di spazio
matematico e spazio fisico era stata determinata da un malinteso. Fuggevoli
visitatrici della nostra mente, le sensazioni della vista e dell’udito suggerivano che
i postulati della geometria euclidea fossero veri per lo spazio fisico. I teoremi
dedotti da tali postulati furono verificati con ulteriori sensazioni della vista e del
tatto e perfettamente confermati, almeno nella misura in cui potevano rivelarlo
queste sensazioni. La geometria euclidea fu perciò considerata una descrizione
esatta dello spazio fisico. Quest’abito di pensiero si consolidò a tal punto nel
corso dei secoli che la nozione stessa di nuova geometria venne a perdere ogni
significato. Geometria significa la geometria dello spazio fisico e tale geometria
era quella di Euclide. Con la creazione della geometria non euclidea, però,
matematici, scienziati e profani furono infine costretti a riconoscere che sistemi di
pensiero fondati su asserzioni sullo spazio fisico sono diversi da tale spazio fisico.
Questa distinzione è vitale per una comprensione degli sviluppi che hanno
avuto luogo nella matematica e nella scienza dopo il 1880. Dobbiamo dire ora che
uno spazio matematico assume la natura di una teoria scientifica. Esso è
applicabile allo studio dello spazio fisico finché si adatta ai dati di esperienza e
serve ai bisogni della scienza. Se però uno spazio matematico può essere
sostituito da un altro che sia in migliore accordo con la massa sempre crescente
dei risultati del lavoro scientifico, allora esso sarà soppiantato esattamente nello
stesso modo in cui la teoria tolemaica del moto dei corpi celesti cedette il posto
alla teoria copernicana. Né il lettore dovrà sorprendersi scoprendo che questa
possibilità si è realizzata all’epoca trattata nel prossimo capitolo.
374
Dovremmo quindi considerare ogni teoria sullo spazio fisico come una
costruzione puramente soggettiva e non imputarla alla realtà oggettiva. L’uomo
costruisce una geometria, sia essa euclidea o non euclidea, e decide di considerare
lo spazio nei termini di essa. I vantaggi che ne consegue, anche se non può esser
certo che lo spazio possegga alcun carattere della struttura che egli ha costruito
nella propria mente, consistono nel fatto che egli diventa in grado di meditare
sullo spazio e usare la sua teoria nel lavoro scientifico. Questa concezione dello
spazio e della natura in generale non implica la negazione dell’esistenza di un
mondo fisico oggettivo. Essa equivale semplicemente a riconoscere che i giudizi e
le conclusioni dell’uomo sullo spazio sono puramente soggettivi.
La creazione della geometria non euclidea passò come un turbine di
devastazione nel regno della verità. Come la religione in società antiche, la
matematica occupava una posizione riverita e indiscussa nel pensiero occidentale.
Nel tempio della matematica riposava ogni verità, ed Euclide ne era il sommo
pontefice. Ma il culto, il suo pontefice massimo e tutti i suoi assistenti furono
spogliati della sanzione divina dall’opera di tre sacrileghi: Bolyai, Lobačevskij e
Riemann. È vero che, nell’intraprendere la loro ricerca, questi intelletti audaci
avevano in mente solo il problema logico di investigare le conseguenze di un
nuovo postulato delle parallele. Certo, in principio non si resero conto che stavano
sfidando la Verità stessa. E finché la loro opera fu considerata semplicemente un
ingegnoso gioco matematico, non si posero questioni serie. Nel momento in cui
questi uomini si resero però conto del fatto che le geometrie non euclidee
potrebbero essere descrizioni valide dello spazio fisico, si presentò loro un
problema inevitabile.
Come mai la matematica, che aveva sempre preteso di rivelare la verità a
proposito della quantità e dello spazio, ci offre ora varie geometrie
contraddittorie? Non più di una di esse potrebbe essere la verità. In realtà, fatto
ancor più sgradevole, la verità è forse diversa da tutte queste geometrie. La
creazione delle nuove geometrie costrinse perciò a riconoscere che tutti i postulati
matematici potrebbero esser soggetti a un “se”. Se i postulati della geometria
euclidea sono verità sul mondo fisico, allora lo sono anche i teoremi. Purtroppo,
però, non possiamo decidere sulla base di argomenti a priori che i postulati di
Euclide, o di qualsiasi altra geometria, sono verità.
Privando la matematica della sua condizione di insieme di verità, la creazione
delle geometrie non euclidee privò l’uomo delle verità più rispettate e forse anche
della speranza di raggiungere mai la certezza su qualcosa. Prima dell’Ottocento
ogni epoca aveva creduto nell’esistenza di una verità assoluta; gli uomini si
differenziavano solo nella scelta delle fonti. Aristotele, i Padri della Chiesa, la
Bibbia, la filosofia e la scienza avevano avuto tutti il loro momento come arbitri
di verità oggettive, eterne. Nel Settecento fu sostenuta la sola ragione, in virtù di
ciò che era stato prodotto nella matematica e nei settori matematici della scienza.
Il possesso di verità matematiche era stato confortante particolarmente per il fatto
che esse tenevano viva la speranza di altro che doveva ancora venire. Ora
purtroppo la speranza veniva distrutta. La fine del dominio della geometria
375
euclidea fu la fine del dominio di ogni verità assoluta. Il filosofo può ancora
insistere sulla profondità del pensiero; l’artista può sostenere la validità di
un’intuizione manifestata dalla sua abilità tecnica; la persona pia può riempire la
più grande cattedrale degli echi dell’ispirazione divina; e il poeta romantico può
cullare il nostro intelletto in un torpore sonnolento e indurci a un’acritica
accettazione della sua allettante composizione. Forse queste sono tutte fonti di
verità e forse ce ne sono anche altre. Ma la persona razionale che ha afferrato la
lezione della geometria non euclidea è almeno diffidente nei confronti delle
insidie e, quand’anche accetti qualche verità, lo fa provvisoriamente, attendendosi
in ogni momento di poter aprire gli occhi. Paradossalmente, benché le nuove
geometrie impugnassero la capacità dell’uomo di conseguire verità, esse
forniscono l’esempio migliore del potere della mente umana, poiché, per produrre
queste nuove geometrie, la mente dovette sfidare e superare l’abitudine,
l’intuizione e le percezioni sensoriali.
La perdita del suo carattere sacrale da parte della verità sembra eliminare
un’antica questione concernente la natura della matematica stessa. La matematica
esiste indipendentemente dall’uomo, come le montagne e i mari, oppure e una
creazione interamente umana? ln altri termini, il matematico nel suo lavoro riporta
in luce diamanti che sono rimasti celati per secoli nelle tenebre oppure sta
producendo una pietra sintetica? Ancora alla fine dell’Ottocento, avendo dinanzi a
sé la storia della geometria non euclidea, l’illustre fisico Heinrich Hertz poté dire:
“Non ci si può liberare dell’impressione che queste formule matematiche abbiano
un’esistenza indipendente e un’intelligenza propria, che siano più sapienti di noi,
più sapienti anche dei loro scopritori, e che noi ricaviamo da esse più di quanto fu
posto in esse originariamente.” Nonostante quest’opinione, la matematica appare
il prodotto di menti umane, fallibili, più di quanto non sia l’eterna sostanza di un
mondo indipendente dall’uomo. Essa non è una struttura d’acciaio fondata sullo
strato roccioso della realtà oggettiva bensì un filo di ragnatela che oscilla insieme
ad altre speculazioni nelle regioni solo in parte esplorate della mente umana.
Se la creazione della geometria non euclidea scalzò rudemente la matematica
dal piedistallo della verità, le diede però anche la possibilità di vagare
liberamente. L’opera di Lobačevskij, di Riemann e di Bolyai, in effetti, diede ai
matematici la massima libertà. Poiché le geometrie non euclidee, le quali furono
investigate in origine per amore di quella che sembrava un’interessante finezza
logica, si dimostrarono importantissime, pare ora chiaro che i matematici
dovrebbero esplorare le possibilità implicite in ogni questione e in ogni insieme di
postulati finché tale indagine riveste qualche interesse; l’applicazione al mondo
fisico, un motivo dominante dell’investigazione matematica, potrebbe seguire in
un secondo tempo. A questo stadio nella sua storia la matematica si pulì i piedi
dalla terra che vi aderiva e si separò dalla scienza, cosi come la scienza si era
separata dalla filosofia, la filosofia dalla religione e la religione dall’animismo e
dalla magia. Si può ora dire con Georg Cantor che “L’essenza della matematica è
la sua libertà.”
376
La posizione del matematico prima del 1830 era paragonabile a quella di un
artista la cui forza ispiratrice è l’amore assoluto per la sua arte ma che è indotto
dai dettami della necessità a limitarsi a disegnare copertine di settimanali. Libero
da una tale restrizione, l’artista potrebbe dare libero corso alla sua immaginazione
e alle sue attività e produrre opere memorabili. La geometria non euclidea ha
appunto questo effetto liberatore. La grandissima espansione delle attività
matematiche, oltre alla crescente enfasi sulla qualità estetica nell’opera dei
matematici a partire dalla metà dell’ultimo secolo, testimoniano l’influenza della
nuova geometria.
La geometria non euclidea, con la sua importanza senza precedenti nella storia
del pensiero, fu il coronamento di due millenni di vagheggiamenti in “inutili”
questioni logiche. La matematica fornì in tal modo un esempio di più della
sapienza del pensiero astratto, logico, non motivato da considerazioni
utilitaristiche, e un esempio di più della saggezza insita nell’occasionale rifiuto
dell’evidenza dei sensi, come Copernico ci chiese di fare nella sua teoria
eliocentrica, a favore di ciò che può essere prodotto dalla mente.
377
XXVII. La teoria della relatività
La folle matematica da sola
era senza confini; troppo astratta
per formare catene materiali,
al puro spazio estatica lo sguardo
ora rivolge, or, trascorrendo intorno
al cerchio, ne determina il quadrato.
ALEXANDER POPE
C’è un vecchio detto che ammonisce: “Vigila sui tuoi amici, ché i tuoi nemici
avranno cura di se stessi.” Nella pratica scientifica tale detto può esser tradotto nel
modo seguente: sospetta l’ovvio; le verità oscure ti sfuggiranno in ogni modo.
Chiunque voglia sfidare l’ovvio deve nondimeno essere audace, poiché la sfida é
considerata quasi sempre un atto di follia. Una tale audacia è spesso dispiegata dal
genio, e forse proprio per questa ragione il genio appare tanto affine alla follia,
come sostengono vari motti popolari.
L’audacia del genio non è però inutile guasconeria. Essa ha un fine, che nei
campi matematico e scientifico è una descrizione logicamente coerente del
fenomeno investigato. La passione per una descrizione del genere è il
contrassegno dello scienziato; la capacità di discernere la via della ragione e il
coraggio di seguirla sono le pietre di paragone del suo genio.
In tempi moderni un uomo, il creatore della teoria della relatività, dispiegò in
modo preminente questi segni di grandezza. Con una vivacità superata solo dalla
sua modestia, Albert Einstein attaccò l’ovvio e rivoluzionò quasi tutti i settori del
pensiero scientifico e filosofico. Il suo attacco fu diretto contro concetti e assunti
tradizionali, e apparentemente validissimi, della scienza fisica.
Fra gli assunti, uno dei più fermamente accettati diceva che lo spazio e le figure
nello spazio obbediscono ai teoremi della geometria euclidea. Era vero,
ovviamente, che all’epoca in cui Einstein portò il suo attacco le geometrie non
euclidee esistevano già da circa settantacinque anni. Si riconosceva anche che non
esisteva nessuna garanzia a favore del carattere euclideo dello spazio fisico.
Nondimeno, nessuno dubitava del fatto che la geometria per il lavoro scientifico
dovesse essere quella di Euclide. La convinzione che lo spazio fisico sia euclideo
comporta la conseguente convinzione che esso sia omogeneo, ossia che lo spazio
sulla Terra e in prossimità di essa e lo spazio nelle regioni delle stelle più lontane
posseggano le medesime proprietà geometriche.
La fisica dell’Ottocento si fondava anche su certi assunti metafisici introdotti
da Newton e adottati senza riserve da scienziati successivi. Per poter valutare la
natura e la funzione di questi assunti, esaminiamo il più fondamentale fra i
processi fisici, ossia la misurazione della lunghezza. Supponiamo che un
passeggero si sposti da una posizione all’altra lungo la coperta di una nave in
movimento. Qual è la distanza dalla sua posizione iniziale a quella finale? A
378
questa domanda si risponde facilmente. Il passeggero può determinare la distanza
usando un regolo. Supponiamo ora che il moto di questa persona sia nella stessa
direzione del moto della nave e che anche un osservatore che si trova su una nave
all’àncora lì vicino misuri la distanza fra la posizione iniziale e quella finale
dell’individuo che passeggia. La distanza ottenuta da questo secondo osservatore
sarà maggiore di quella ottenuta dal passeggero stesso poiché la nave,
muovendosi, avrà trasportato il passeggero per una certa distanza.
Ovviamente, non ci troviamo di fronte ad alcuna difficoltà insormontabile. Il
passeggero misurava una distanza relativa alla nave. L’osservatore che si trovava
sulla nave ferma misurava la distanza relativa al mare. Se entrambi tengono conto
del moto della nave, È possibile operare una correzione e i due osservatori si
troveranno in accordo. Bisogna nondimeno riconoscere che la misurazione della
distanza variava da una persona all’altra. Parlare della distanza da una posizione
iniziale a una posizione finale non ha senso se non specifichiamo chi ha misurato
tale distanza.
Ora, le leggi scientifiche più importanti implicano distanze direttamente o
indirettamente come nella determinazione di velocità, accelerazioni e forze. Le
leggi scientifiche dovrebbero perciò dipendere evidentemente dall’osservatore le
cui misurazioni sono usate nell’ambito di tale legge. Non era però questa
l’interpretazione usuale di una legge scientifica. Newton credeva che i nostri sensi
ci diano la certezza dell’esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti; egli
supponeva perciò che ci siano leggi assolute, anche se dobbiamo accontentarci di
una formulazione di queste leggi dipendente da un osservatore che si trova su
quella nave in movimento che si chiama Terra. Secondo Newton le leggi assolute
sono note a un osservatore sovrumano, Dio, le cui osservazioni dello spazio e del
tempo sono assolute. E la formulazione ideale delle leggi matematiche e
scientifiche di quest’universo è costituita dalle leggi che Dio può ottenere dalle
sue misurazioni assolute. Soltanto conoscendo il moto della Terra in relazione
all’osservatore fisso, Dio, l’uomo potrebbe tradurre le sue leggi nella loro vera
forma. Vediamo allora che il pensiero scientifico newtoniano si fondava in
definitiva su assunti metafisici implicanti Dio, lo spazio assoluto, il tempo
assoluto e leggi assolute.
Uno fra gli assunti più solidamente radicati nel pensiero scientifico della fine
dell’Ottocento era quello dell’esistenza di una forza di gravità. Secondo la prima
legge del moto di Newton, un corpo in quiete rimane in quiete e un corpo in
movimento continua a muoversi di moto uniforme lungo una linea retta finché su
di esso non agisca una forza. Se perciò non esistesse la forza di gravità, una palla
tenuta in mano e lasciata semplicemente libera rimarrebbe sospesa in aria.
Analogamente, se non esistesse una forza di gravità, i pianeti sarebbero
scaraventati via nello spazio lungo traiettorie rettilinee. Tali strani fenomeni non
hanno luogo. L’universo agisce come se esistesse una forza di gravità.
Benché Newton riuscisse a dimostrare che la medesima legge quantitativa
copriva tutti gli effetti terrestri e celesti dell’azione gravitazionale, la natura fisica
della forza di gravità non è mai stata intesa. In che modo il Sole, che si trova a
379
150 milioni di chilometri dalla Terra, esercita la sua attrazione sulla Terra, e in
che modo la Terra esercita a sua volta un’attrazione sui vari oggetti che si trovano
in prossimità della sua superficie? Benché non ci fossero risposte a queste
domande, i fisici non se ne lasciavano turbare. La gravità era un concetto tanto
utile che essi non avevano difficoltà a ignorare numerose obiezioni ad esso. Di
fatto, se non fosse stato per altre e più pressanti questioni e difficoltà che sorsero
attorno al 1880, la soddisfazione dei fisici nei confronti della gravità non sarebbe
stata seriamente turbata.
Anche un altro problema posto dall’introduzione della forza di gravità era stato
tranquillamente messo da parte. Nel capitolo quattordicesimo abbiamo
sottolineato che ogni oggetto fisico possiede due proprietà apparentemente
distinte, massa e peso. La massa è la resistenza che un oggetto oppone a un
mutamento nella velocità o nella direzione del movimento. Il peso è la forza con
cui la Terra attrae un oggetto. La massa di un oggetto è costante mentre il suo
peso dipende dalla distanza dell’oggetto dal baricentro della Terra. Benché queste
due proprietà della materia siano distinte, il rapporto del peso alla massa di tutti
gli oggetti è sempre lo stesso in un determinato luogo. Questo fatto è così
sorprendente come se la produzione di carbone e la produzione di grano fossero
esattamente uguali fra loro ogni anno. Se la produzione di carbone e quella di
grano presentassero effettivamente questa relazione, dovremmo ricercarne una
spiegazione nella struttura economica della nazione. Analogamente si richiedeva
una spiegazione del rapporto costante del peso alla massa. Fino a Newton non ne
era ancora stata trovata una.
Dobbiamo ricordare ancora un assunto fisico prima di esaminare l’opera di
Einstein. I tentativi di spiegare la natura della luce risalgono fino all’epoca dei
greci. A partire dal Seicento la concezione più diffusa considerava la luce un moto
ondulatorio, il cui meccanismo doveva essere molto simile a quello del suono.
Non essendo possibile concepire un moto ondulatorio senza un mezzo che
trasportasse l’onda, gli scienziati giunsero alla conclusione che doveva esistere un
mezzo che trasportasse le onde luminose. Ma lo spazio attraverso cui la luce ci
perviene dalle stelle lontane è un vuoto e perciò non contiene alcuna sostanza
materiale che possa trasmetterci le onde. Gli scienziati dovettero perciò supporre
l’esistenza di una nuova “sostanza”, l’etere, che non potrebbe essere visto,
gustato, odorato, pesato o toccato. Inoltre, per ragioni che non ci interessano qui,
l’etere doveva essere un mezzo immobile, coesistente con tutto lo spazio
attraverso cui la Terra e altri corpi celesti si muovono. L’introduzione dell’etere
per trasportare le onde luminose immerse gli scienziati in un sonno profondo che
durò oltre due secoli. Ma attorno al 1880 le proprietà che dovevano essere
assegnate all’etere erano così contraddittorie che i fisici cominciarono a dubitare
del tutto della sua esistenza.
Nonostante i molti assunti dubbi e poco intesi che erano alla base della fisica
del tardo Ottocento, nessun gruppo di scienziati, in nessuna epoca, era mai stato
così sicuro del fatto che essa avesse scoperto le leggi dell’universo. Il Settecento
era stato ottimistico; l’Ottocento fu estremamente sicuro di sé. Due secoli di
380
successi parziali avevano fatto girare a tal punto la testa a scienziati e filosofi che
le leggi del moto di Newton e la legge dell’attrazione gravitazionale furono
dichiarate conseguenze immediate delle leggi del pensiero e della pura ragione.
Parole come assunto o supposizione non apparivano nella letteratura scientifica
benché, come Newton aveva affermato espressamente, i concetti di gravitazione e
di etere fossero ipotesi e, in realtà, ipotesi non del tutto intese fisicamente. Ma ciò
che era inconcepibile per Newton era inconcepibile, in modo diverso, anche per
l’Ottocento.
La revisione radicale della fisica ebbe inizio, con auspici piuttosto funesti,
quando due fisici americani decisero di verificare sperimentalmente, nel 1881, la
conclusione che la Terra si muove attraverso un etere stazionario. Questi due
uomini, A. A. Michelson ed E. W. Morley, escogitarono un esperimento fondato
su un principio semplicissimo.
Un po’ di aritmetica ci dimostra che si impiega un tempo più lungo a percorrere
con una barca a remi una certa distanza avanti e indietro lungo il corso di un
fiume in presenza di una corrente che a percorrere la stessa distanza in assenza di
corrente. Ad esempio, se un uomo può percorrere a remi 4 chilometri allora in
acqua ferma, allora, in assenza di corrente, potrà percorrere in 6 ore 12 chilometri
nell’andata e altri 12 nel ritorno. Se invece c’è una corrente che si muove alla
velocità di 2 chilometri all’ora, l’uomo riuscirà a imprimere alla barca, nella
direzione della corrente, una velocità di 4 + 2 chilometri all’ora, mentre risalendo
la corrente la sua velocità sarà di 4 – 2 chilometri all’ora. A queste velocità il
tempo totale impiegato per coprire lo stesso percorso sarà di 2 + 6 = 8 ore. Il
principio qui in gioco è che se una velocità costante, come la velocità della
corrente, impedisce un moto per un periodo di tempo più lungo di quanto lo aiuta
(6 ore contro 2 ore nell’esempio), il risultato netto sarà una perdita di tempo.
Michelson e Morley si servirono di questo principio nel modo seguente. Da un
punto A (fig. 87) sulla Terra un raggio di luce fu inviato a uno specchio collocato
sulla Terra in B; la direzione da A a B era la direzione del moto della Terra attorno
al Sole. Ci si attendeva che il raggio viaggiasse attraverso l’etere fino a pervenire
in B alla velocità solita della luce e fosse poi riflesso nuovamente verso A. A
causa del moto della Terra, mentre il raggio di luce sta viaggiando verso B, lo
specchio ivi collocato si muove verso una nuova posizione B'. Il moto della Terra
fa dunque sì che il raggio raggiunga lo specchio con un po’ di ritardo. In B il
raggio viene riflesso verso A. Ma mentre il raggio sta viaggiando verso B, la Terra
trasporta A in A', e mentre il raggio sta tornando indietro, la Terra trasporta A' in
A". Il moto della Terra aiuta perciò il raggio di luce nel suo moto da B' ad A". Ma
la distanza percorsa da B' ad A" è più breve della distanza da A a B'. Il raggio di
luce è dunque aiutato dal moto della Terra per un periodo più breve di quanto ne
sia ritardato nella direzione inversa. In questa situazione il moto della Terra ha lo
stesso effetto della velocità della corrente nell’esempio citato sopra. Perciò, per il
principio descritto nel paragrafo precedente, il raggio di luce dovrebbe richiedere,
per percorrere la distanza da A a B' ad A", più tempo che se avesse percorso due
volte la distanza AB con la Terra stazionaria nell’etere. Ma nonostante l’uso di un
381
dispositivo geniale e sensibilissimo noto come interferometro, Michelson e
Morley non furono in grado di scoprire l’aumento di tempo. Non c’era dunque,
evidentemente, alcun moto della Terra attraverso l’etere.
Fig. 87. L’esperimento di Michelson e Morley.
I fisici furono posti di fronte a un dilemma inevitabile. L’etere che era
necessario per rendere possibile il moto ondulatorio della luce doveva essere un
mezzo stazionario attraverso cui si muoveva la Terra. Eppure questa condizione
era in contraddizione col risultato dell’esperimento. Il fatto che la teoria fosse in
disaccordo con un tale esperimento fondamentale non poteva essere ignorato. A
quest’epoca i fisici si convinsero che la loro scienza avesse bisogno di una
revisione.
Pur essendo essi già abbastanza afflitti da problemi fondamentali, nel 1905
Einstein richiamò la loro attenzione su ulteriori difficoltà implicite nei concetti
fondamentali di simultaneità, lunghezza e tempo. Einstein sottolineò che, in
determinate circostanze, è teoricamente impossibile per due osservatori accordarsi
sulla simultaneità o meno di due fenomeni e che, a causa di ciò, gli osservatori
non si accorderanno neppure sulla distanza e sul tempo fra eventi. Vediamo
perché debbano presentarsi queste discordanze.
Supponiamo che un uomo che si trovi alla metà di un treno lunghissimo in
corsa a una velocità molto elevata veda simultaneamente due lampi di luce, uno
dei quali proveniente da un punto della carrozza di testa del treno l’altro dalla
carrozza di coda. Un osservatore che si trovi in prossimità del binario, press’a
poco in corrispondenza della metà del convoglio, vede anch’egli i due lampi di
luce ma non simultaneamente. Quello proveniente dalla carrozza di coda gli arriva
prima. La domanda che si pone è: i due lampi di luce sono stati emessi
simultaneamente?
Entrambi gli osservatori saranno d’accordo nel dire di no. Quanto all’uomo che
si trova a terra, poiché la sua posizione era esattamente intermedia fra i due lampi,
i due raggi di luce hanno dovuto percorrere la stessa distanza e perciò impiegare
lo stesso tempo per arrivare fino a lui. Poiché egli ha visto per primo il lampo
proveniente dalla carrozza di coda, tale lampo dev’essere stato emesso per primo.
L’uomo che si trova sul treno ragionerà nel senso che rispetto a lui la velocità del
raggio di luce proveniente dalla carrozza di coda è uguale alla velocità della luce
meno la velocità del treno. D’altra parte, rispetto a lui la velocità del raggio
proveniente dalla carrozza di testa è uguale alla velocità della luce più la velocità
del treno. Poiché entrambi i raggi hanno percorso, per arrivare sino a lui, metà
della lunghezza del treno, e poiché il raggio proveniente dalla carrozza di coda
doveva impiegare più tempo, esso dev’essere stato emesso per primo; solo così si
382
spiega infatti l’arrivo simultaneo dei due raggi. In questa situazione pare dunque
non ci sia alcuna difficoltà.
I due osservatori erano d’accordo sull’ordine dei due lampi perché assumevano
entrambi che l’uomo a terra fosse in quiete rispetto all’etere mentre si supponeva
che l’uomo sul treno fosse in moto. Supponiamo, nondimeno, che l’uomo sul
treno adottasse il punto di vista non ortodosso che il treno fosse in quiete rispetto
all’etere e fosse la Terra a muoversi verso la coda del treno. Conformandosi a
questo punto di vista, l’uomo sul treno concluderebbe correttamente che i lampi
sono stati emessi simultaneamente. L’uomo a terra preferirebbe indubbiamente
persistere nella sua supposizione precedente, considerando se stesso e la Terra in
quiete rispetto all’etere e il lampo proveniente dalla carrozza di coda anteriore
rispetto a quello proveniente dalla carrozza di testa. Ci troviamo ora in una
posizione di disaccordo a proposito della simultaneità dei due lampi, disaccordo
originato dalla discordanza a proposito della questione su chi sia in quiete rispetto
all’etere.
Purtroppo l’uomo che si trova sul treno ha altrettanta ragione di credere che il
treno sia in quiete rispetto all’etere quanto l’uomo che si trova a Terra ha ragione
di credere che la Terra sia stazionaria nell’etere, poiché l’esperimento di
Michelson e Morley ci dimostra che non possiamo scoprire alcun moto attraverso
l’etere. Ne segue che due osservatori che si muovono l’uno relativamente
all’altro sono inevitabilmente in disaccordo sulla simultaneità di due eventi.
Se due osservatori sono in disaccordo sulla simultaneità di due eventi devono
essere in disaccordo anche sulla misura delle distanze. Supponiamo che un
osservatore su Marte e uno sulla Terra decidano di misurare la distanza fra la
Terra e il Sole. Poiché questa distanza è variabile, essi devono essere d’accordo
sull’opportunità di misurarla a un istante dato. Ma perché i due osservatori siano
d’accordo sull’istante dato, occorre che siano d’accordo sulla simultaneità di
accadimenti, come il battito dell’orologio, che segnano l’istante. E poiché due
osservatori che si muovano l’uno relativamente all’altro non saranno d’accordo
sulla simultaneità di tali accadimenti, essi otterranno misure diverse della distanza
dalla Terra al Sole “a un istante dato.”
Due osservatori che si muovano l’uno rispetto all’altro saranno in disaccordo
non soltanto sulla misura di distanze ma anche sulla misura di intervalli di tempo.
Se così non fosse, gli osservatori dovrebbero essere d’accordo sulla simultaneità
di eventi che contrassegnano l’inizio di intervalli così come di quelli che ne
contrassegnano la fine, cosa che non può essere.
Gli assunti che lo spazio è ovunque euclideo, che esistono lunghezze assolute,
un tempo assoluto e leggi assolute, che la forza di gravita opera nell’intero
universo, che esiste un etere stazionario che trasporta le onde luminose, e i
problemi sollevati da questi assiomi, stavano diventando troppo numerosi e
troppo gravosi perché la scienza potesse sopportarne facilmente l’onere. Quando
poi fu riconosciuto anche che la simultaneità, gli intervalli di tempo e le
lunghezze non hanno un significato unico, divenne evidente che tutte le difficoltà
non avrebbero potuto esser risolte da una teoria composita raffazzonata alla meno
383
peggio. Cominciò ad annunciarsi, sia pure per segni indistinti, una rivoluzione
nella teoria fisica, così come si preannuncia una rivoluzione politica quando la
struttura economica e sociale di un paese non riesce a soddisfare i bisogni
fondamentali del suo popolo.
Nel 1905, all’età di venticinque anni, Einstein inaugurò l’intera serie di
mutamenti radicali di cui c’era bisogno per ristabilire su nuove basi la teoria
fisica. L’esperimento di Michelson e di Morley dimostrava che il moto della Terra
non incide sulla velocità della luce relativamente alla Terra. Poiché la scienza non
può opporsi a un fatto sperimentale, Einstein accettò l’assunto fondamentale che
la velocità della luce sia la stessa per tutti gli osservatori nell’universo
indipendentemente dal modo in cui essi possano muoversi l’uno rispetto all’altro.
Perciò da un punto di vista teoria fisica ed esperimento furono portati in accordo.
Egli accettò inoltre un altro assioma suggerito dall’esperienza, ossia che nessun
corpo fisico possiede una velocità superiore a quella della luce.
Einstein abolì i concetti di spazio e tempo assoluti di cui Newton aveva avuto
bisogno per definire le vere leggi dell’universo. Accettando il fatto che due
osservatori che si muovano l’uno relativamente all’altro saranno in disaccordo
circa le misurazioni di spazio e tempo, egli introdusse le nozioni di lunghezza
locale e di tempo locale. Due osservatori che siano in quiete l’uno relativamente
all’altro saranno d’accordo sulla distanza e sul tempo fra due eventi. Questa
distanza e questo tempo sono la distanza locale e il tempo locale per questi
osservatori. Due osservatori che siano in moto l’uno relativamente all’altro
otterranno misurazioni diverse della distanza e del tempo fra gli stessi due eventi.
Le misurazioni di ciascuno di essi saranno la sua lunghezza locale e il suo tempo
locale. In altri termini, gli uomini vivono in mondi spaziotemporali diversi.
Se, ad esempio, un marziano dovesse misurare gli intervalli di distanza e di
tempo fra due eventi che hanno luogo sulla Terra, troverebbe queste quantità
diverse rispetto alle indicazioni fornite dalle nostre misurazioni. A nostra volta
noi troveremmo le lunghezze su Marte e gli intervalli di tempo fra eventi su Marte
diversi da quelli ottenuti dai marziani.
È opportuno sottolineare che quando parliamo delle differenze che osservatori
diversi potrebbe ottenere nella misurazione di lunghezze non ci riferiamo
all’effetto della distanza sulla vista o all’effetto di illusioni ottiche. Anche se
Marte dovesse sfiorare la Terra mentre stiamo misurando lunghezze su di esso,
noi troveremmo ancora le lunghezze misurate da noi diverse da quelle misurate
dai marziani. Né, quando parliamo di disaccordo su intervalli di tempo,
intendiamo parlare di un effetto psicologico o emotivo. La teoria del tempo locale
dice che due osservatori in movimento l`uno rispetto all’altro e in possesso di
orologi identici registreranno gli intervalli di tempo in modo diverso perché tali
osservatori vivono in mondi temporali diversi.
Per considerare un esempio numerico, un osservatore sulla Terra troverebbe
una nave spaziale, in movimento con una velocità di 260 000 km al secondo,
lunga la meta di come la troverebbe un uomo che si trovasse su di essa. Inoltre, un
orologio che si trovasse su tale nave spaziale apparirebbe muoversi con velocità
384
dimezzata all’osservatore terrestre, mentre sembrerebbe camminare normalmente
all’uomo che si trovasse su tale astronave. Un osservatore che si trovasse
sull’astronave trarrebbe le medesime conclusioni sulle dimensioni e sul tempo
concernenti oggetti ed eventi sulla Terra. Entrambi gli insiemi di misurazioni
sono corretti, ciascuno nel proprio mondo spaziotemporale.
In questa dottrina della lunghezza locale e del tempo locale abbiamo una fra le
nuove asserzioni più sensazionali della teoria della relatività. La lunghezza di una
stanza e la durata della nostra giornata di lavoro non sono quantità stabilite. Esse
sono una cosa per noi e una cosa diversa per un osservatore che si muova
relativamente a noi. La stranezza di queste idee non dovrebbe farci chiudere gli
occhi dinanzi al fatto che esse si accordano assai meglio con gli esperimenti e col
ragionamento sulla simultaneità, che abbiamo esaminato sopra, di quanto non
facciano i moti assoluti di Newton. Di fatto, se non fosse così, gli scienziati non le
accetterebbero neppure per un momento, relativo o assoluto.
In considerazione dell’abbandono dello spazio e del tempo assoluti, Einstein
dovette adottare un nuovo concetto di ciò che costituisce una legge matematica
dell’universo. La sua conclusione fu che non esistono leggi assolute nel senso di
leggi indipendenti da osservatori. Una legge dev’essere formulata nei termini
delle misurazioni di un particolare osservatore. Se un osservatore formula una
legge nei termini delle sue misurazioni dello spazio e del tempo, è ancora
possibile tradurre questa legge nella forma datale da un altro osservatore per
mezzo di formule che mettano in relazione misurazioni di lunghezza e di tempo
dei due osservatori e che implichino la loro velocità relativa. In ogni caso però le
leggi sono legate agli osservatori.
Pur avendo abbandonato lo spazio e il tempo assoluti e le leggi assolute,
Einstein si trovò a dover affrontare il problema se una quantità connessa con
misurazioni spaziotemporali sia uguale per tutti gli osservatori. Fu scoperta
un’importantissima quantità di questo tipo. Prima di esaminarla dobbiamo
ricordare un tipo di notazione da un capitolo precedente. Per rappresentare punti
sul piano bidimensionale sono usate due coordinate, x e y; per rappresentare punti
nello spazio tridimensionale si usano tre coordinate x, y e z. Per rappresentare
misurazioni spaziali e temporali connesse a eventi è d’uso ricorrere a quattro
lettere, x, y, z e t; le prime tre specificano la posizione nello spazio e la quarta
rappresenta il tempo. Quando si parla di due diversi punti o eventi si associano di
solito alle lettere indici numerici; così x1, y1, z1 e t1 rappresentano il primo evento
e x2, y2, z2 e t2 il secondo.
Ricordiamo ora un teorema della geometria analitica. La distanza fra due punti
in un piano, uno con coordinate (x1, y1) e l’altro (x2, y2), è data dall’espressione
(1) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2
la distanza fra due punti nello spazio (x1, y1, z1) e (x2, y2, z2) è data da
(2) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2 + (𝑧1 − 𝑧2)2
385
A proposito dei due eventi (x1, y1, z1, t1) e (x2, y2, z2, t2), Einstein trovo che la
quantità
(3) √(𝑥1 − 𝑥2)2 + (𝑦1 − 𝑦2)2 + (𝑧1 − 𝑧2)2 − 300 000 (𝑡1 − 𝑡2)2
dove si suppone che le distanze siano misurate in chilometri e il tempo in secondi,
sia uguale per tutti gli osservatori. Questa quantità assoluta è chiamata intervallo
spaziotemporale fra due eventi. Essa è chiaramente l’analogo, nel mondo di
eventi quadridimensionale, delle quantità date sopra dalla (1) e dalla (2). La cifra
300 000 è la velocità della luce in chilometri al secondo.
Evidentemente, per trovare una quantità assoluta, una quantità che sia la stessa
per tutti gli osservatori, si doveva formare un’espressione che implicasse sia la
distanza sia il tempo. In quest’espressione le misurazioni temporali sono trattate
in modo non diverso dalle misurazioni spaziali. Ora, spazio e tempo erano sempre
state considerate due entità diversissime e pertanto il fatto di trattare valori di
tempo alla stessa stregua di misurazioni di spazio, come fa la formula (3), sembra
un artificio escogitato specificamente per produrre una quantità assoluta. Nel
1908 però H. Minkowski, un matematico russo, ragionò in modo diverso. È vero,
egli convenne, che abbiamo accettato una nozione del tempo concepito come un
flusso continuo la quale è indipendente da ogni nozione di spazio. Nondimeno,
quando osserviamo eventi in natura, sperimentiamo tempo e spazio
simultaneamente. Inoltre il tempo, in sé, è sempre stato misurato per mezzo dello
spazio, ad esempio nei termini della distanza percorsa dalle lancette di un
orologio, dal moto di un pendolo nello spazio o dalla distanza percorsa da
un’ombra su una meridiana. Inoltre i nostri metodi di misurazione dello spazio
implicano necessariamente il tempo. Anche adottando il metodo più semplice di
misurazione delle distanze, quello consistente nell’applicazione di un regolo, nella
misurazione di una distanza trascorre del tempo. Nessuna misurazione è
istantanea. Perciò la concezione naturale di eventi dovrebbe essere nei termini di
una combinazione di spazio e tempo; ossia, secondo Minkowski, il mondo è un
continuo spaziotemporale quadridimensionale.
È vero che osservatori diversi possono ottenere misure diverse delle
componenti spazio e tempo dell’intervallo spaziotemporale fra due eventi. Ciò
non è però sorprendente. Consideriamo lo spazio tridimensionale in sé. Due
persone, in parti diverse del globo, vedono il medesimo spazio tridimensionale ma
l’una analizza la sua esperienza dello spazio in direzioni orizzontale e verticale
diverse dalle direzioni verticale e orizzontale dell’altra. Nondimeno continuiamo a
considerare lo spazio come un tutto tridimensionale e non come una
combinazione artificiale di estensioni orizzontale e verticale. Analogamente,
osservatori diversi possono decomporre lo spazio-tempo in componenti
spaziotemporali diverse. Questa decomposizione è altrettanto reale e necessaria,
per la persona che la compie, della distinzione fra orizzontale e verticale per una
386
persona che sta scendendo una rampa di scale. Eppure è l’uomo a operare questa
differenziazione: la natura presenta spazio e tempo come un tutto inscindibile.
Einstein procedette a utilizzare la concezione di Minkowski secondo cui
l’universo dovrebbe essere considerato un mondo spaziotemporale
quadridimensionale. Le sensazionali innovazioni della teoria speciale della
relatività di Einstein non avevano risolto tutte le difficoltà enumerate all’inizio di
questo capitolo. Nessuna spiegazione si affacciava ancora circa il modo in cui la
gravità attrae oggetti verso la Terra e “mantiene” un pianeta nella sua orbita, o
perché massa e peso dovrebbero avere sempre un rapporto costante in una
determinata posizione. Nel frattempo perfezionamenti apportati ai moderni
strumenti astronomici cominciarono a sottoporre a verifica Newton. Questi
strumenti furono in grado di scoprire differenze fra le posizioni reali del pianeta
Mercurio e le posizioni predette dalla legge di gravitazione. La considerazione di
questi problemi condusse Einstein a creare e a pubblicare la sua teoria generale
della relatività. La nuova teoria conservò le idee principali della precedente ma,
estendendole, le realizzò ancor più.
L’idea che spazio e tempo dovrebbero essere considerate un’unità
quadridimensionale è usata nella sua teoria generale nel modo seguente. In
precedenza abbiamo detto che la formula (3) dev’essere considerata un intervallo
dello spazio-tempo in un mondo quadridimensionale. Essa è una generalizzazione
delle formule (1) e (2), le quali danno le distanze fra due posizioni rispettivamente
in un mondo bidimensionale e tridimensionale. Ora, le formule (1) e (2) furono
derivate sulla base della geometria euclidea e sono semplicemente modi algebrici
di esprimere la distanza. Poiché la formula (3) è sostanzialmente una
generalizzazione della (1) e della (2), anche lo spazio-tempo della teoria speciale
o ristretta della relatività di Einstein è euclideo. (Per l’esattezza della nostra
asserzione il segno meno in (3) dovrebbe essere un segno più, ma questo è un
semplice particolare.)
Supponiamo però di dover usare, invece della (3), un’espressione come la
seguente
(4) √2 (𝑥1 − 𝑥2)2 + 3 (𝑦1 − 𝑦2)2 + 7 (𝑧1 − 𝑧2)2 − 100 000 (𝑡1 − 𝑡2)2
Se si dovesse vedere nella formula (4) il valore numerico dell’intervallo
spaziotemporale fra gli stessi due eventi le cui coordinate (x1, y1, z1, t1) e (x2, y2, z2,
t2) sono implicate nella (3), allora il valore dell’intervallo fra questi eventi sarebbe
ovviamente diverso da quello dato dalla (3). In due e tre dimensioni il
procedimento analogo equivarrebbe a prendere per la distanza fra due punti un
numero diverso da quello dalle formule (1) e (2) della geometria euclidea. Qual è
il significato consistente nell’alterare il valore della distanza o dell’intervallo
spaziotemporale?
La scelta di una formula per la distanza stabilisce se abbiamo a che fare con un
mondo euclideo o non euclideo. Vediamo perché è così. Supponiamo di dover
usare le coordinate cartesiane tridimensionali esaminate nel capitolo dodicesimo
per descrivere le posizioni di punti matematici corrispondenti a New York e
387
Chicago. Usando la formula (2) per calcolare la distanza fra New York e Chicago,
dovremmo ottenere ciò che si suppone la formula dia, ossia la lunghezza del
segmento di retta che congiunge le due città. Potremmo usare anche una formula
diversa, ad esempio quella che dà la lunghezza di quell’arco di cerchio massimo
sulla superficie della Terra che congiunge New York e Chicago.
Supponiamo ora che entrino in discussione tre città, New York, Chicago e
Richmond. Queste tre città sono i vertici di un triangolo. Se dovessimo usare la
formula (2) per calcolare i lati di questo triangolo, otterremmo lunghezze che
appartengono a un triangolo formato da segmenti di linea retta. D’altra parte, se
dovessimo usare la formula per la lunghezza dell’arco di cerchio massimo
compreso fra ciascuna coppia di vertici, otterremmo lunghezze che appartengono
a un triangolo formato da archi di cerchi massimi sulla superficie della sfera. In
altri termini, la scelta della formula per la distanza determinerebbe se dobbiamo
pensare il nostro triangolo come un triangolo piano o come un triangolo su una
sfera. Le proprietà dei due triangoli sono diverse, essendo uno un triangolo della
geometria euclidea e l’altro un triangolo della geometria non euclidea di Riemann.
La scelta della formula per la distanza determina così la geometria che è usata per
descrivere il mondo fisico.
Similmente, adottando una formula come la (4) invece della (3) per l’intervallo
fra due eventi nello spazio-tempo determiniamo la conseguenza che le figure
geometriche in quel mondo matematico quadridimensionale posseggono proprietà
diverse da quelle delle figure nella geometria euclidea; ossia, stabiliamo una
geometria non euclidea in tale spazio-tempo. Non intendiamo dire che la nuova
geometria sarà quella di Lobačevskij e quella di Riemann esaminata nel capitolo
precedente, ma sarà non euclidea nel senso che differirà da quella di Euclide.
La scelta di una formula per la distanza determina non soltanto la geometria ma
anche la forma della geodetica, ossia della curva che fornisce la distanza minima
fra due punti. Nella geometria euclidea la geodetica è il segmento di linea retta;
nella geometria di Rieimann essa è l’arco di un cerchio massimo; nella geometria
di Lobačevskij e di Bolyai essa è il tipo di curva presentato nella figura 81
(capitolo ventiseiesimo). Abbiamo visto ora come Einstein traesse profitto dalla
scelta di una formula per la “distanza”.
Dovremmo osservare innanzitutto che la posizione di un pianeta può essere
specificata usando quattro coordinate, tre per la sua posizione nello spazio e la
quarta per il tempo in cui esso occupa tale posizione. Le posizioni successive
giacciono su una curva in un mondo matematico quadridimensionale. Einstein
ebbe l’idea geniale di scegliere per l’intervallo spaziotemporale una formula tale
che la “traiettoria” di ciascun pianeta fosse una geodetica nella geometria
risultante.
Qual e il risultato ottenuto da quest’ingegnosa matematica? Ricordiamo che il
concetto di forza gravitazionale fu introdotto per render conto del fatto che i
pianeti si muovono su ellissi invece che sulle linee rette che dovrebbero seguire
secondo la prima legge del moto di Newton. Se ora correggiamo la prima legge
del moto di Newton formulandola nel senso che corpi non disturbati da forze si
388
muovono lungo geodetiche nello spazio-tempo di Einstein, in questa prima legge
del moto abbiamo la descrizione del moto dei pianeti attorno al Sole, senza dover
introdurre una fittizia forza di gravità.
Ma la forza di gravità è stata usata anche per render ragione dell’attrazione
della Terra nei confronti di oggetti in prossimità di essa. Inoltre, una mela che
cada da un albero non segue la stessa traiettoria dei pianeti. In che modo Einstein
tratta questo fenomeno della gravitazione? Anche qui egli utilizzò la geodetica
dello spazio-tempo per eliminare la forza di gravità. In questa scelta di una
formula per l’intervallo dello spazio-tempo, sostituì i numeri 2, 3, 7 e -100 000
nella (4) con funzioni i cui valori variano da luogo a luogo nello spazio-tempo in
accordo con la massa presente. Poiché la massa della Terra differisce dalla massa
del Sole, la struttura del “campo” geometrico attorno alla Terra differisce da
quello in prossimità del Sole. Di conseguenza, la forma delle geodetiche varia da
“luogo” a “luogo” nello spazio-tempo. Ossia, scegliendo le funzioni appropriate
nella sua formula per l’intervallo spaziotemporale, Einstein conformò il suo
spazio-tempo in modo che la presenza di una massa nel mondo fisico
determinasse il carattere di tale spazio-tempo e delle geodetiche attorno alla
massa, in un modo molto simile a quello in cui la forma delle montagne in una
catena determina geodetiche diverse sulla superficie della Terra. In particolare,
oggetti vicini alla superficie della Terra seguono semplicemente le geodetiche
dello spazio-tempo in questa regione e neppure qui c’è bisogno di una forza di
gravità per rendere ragione delle traiettorie.
La spiegazione nei termini della geometria dello spazio-tempo di quelli che
erano considerati in precedenza effetti gravitazionali elimina un altro problema
non risolto, ossia perché il rapporto del peso alla massa sia costante per tutti i
corpi sulla Terra e in prossimità di essa. Interpretato in senso fisico, questo
rapporto costante è l’accelerazione con cui tutte le masse cadono verso la Terra12
e che, secondo la meccanica newtoniana, è causata dalla forza dell’attrazione
gravitazionale della Terra sulle masse. Perciò il rapporto costante del peso alla
massa significa che tutte le masse seguono lo stesso comportamento
spaziotemporale nella loro caduta verso la Terra. Ora, in accordo alla
riformulazione einsteiniana del fenomeno della gravitazione, quella che era
considerata in precedenza l’attrazione gravitazionale della Terra diventa l’effetto
della forma dello spazio-tempo in prossimità della Terra. Secondo la prima legge
del moto corretta, tutte le masse in caduta libera devono seguire le geodetiche
dello spazio-tempo. In altri termini, tutte le masse dovrebbero esibire in
prossimità della Terra il medesimo comportamento spaziotemporale, e così fanno.
La teoria della relatività risolve pertanto il problema del rapporto costante del
peso alla massa eliminando il peso come concetto scientifico e proponendo una
spiegazione ancor più soddisfacente degli effetti in precedenza attribuiti al peso.
A coronamento di questi risultati, la teoria della relatività risolve altri due
problemi che avevano frustrato gli sforzi degli scienziati. Il primo di questi
12
Si veda il capitolo quattordicesimo.
389
concerne il moto del pianeta Mercurio. Questo pianeta non segue un’orbita
puramente ellittica attorno al Sole. Di fatto il perielio – ossia il punto dell’ellisse
in cui Mercurio è più vicino al Sole – avanza da una rivoluzione all’altra. Un
centinaio di anni fa l’astronomo francese Leverrier dimostrò che parte di questo
moto del perielio è dovuta all’attrazione gravitazionale degli altri pianeti. Una
spiegazione completa non fu raggiunta fino alla creazione della teoria della
relatività. L’orbita calcolata per Mercurio nello spazio-tempo della nuova teoria si
accorda, entro i limiti dell’errore sperimentale, col moto osservato. In altri
termini, otteniamo calcoli dei moti planetari più precisi con la nuova teoria che
con la teoria newtoniana.
Il secondo fra i problemi che turbavano gli scienziati era l’incurvamento
osservato di raggi di luce in prossimità del Sole nel loro viaggio dalle stelle alla
Terra. Un tale incurvamento avrebbe potuto essere spiegato come un’attrazione
gravitazionale del Sole sui raggi di luce se non fosse stato per il fatto che un
raggio di luce non possiede una massa. Se, in accordo con la prima legge del moto
riveduta, supponessimo semplicemente che i raggi di luce seguono nel loro moto
geodetiche della regione spaziotemporale attorno al Sole, l’incurvamento dei
raggi di luce non avrebbe bisogno di essere spiegato e le deviazioni misurate da
traiettorie rettilinee sarebbero in accordo con i calcoli basati sulla nuova teoria.
Più di una persona che esamini gli strani principi introdotti dalla teoria della
relatività e che infine si renda conto di quanto complesso sia il suo mondo
matematico può essere tentata di esclamare: “Lasciatemi il mio etere, la mia
gravitazione e il mio mondo newtoniano, semplice, intuitivo, che soddisfa il
senso. La vostra costruzione distorta può anche essere un pò più vicina
all’esperimento e al ragionamento esatto ma è una spiegazione troppo fantastica
per poter essere considerata seriamente.” Purtroppo le persone che vivono oggi
non hanno questa libertà di scelta. Due predizioni della teoria della relatività sono
ora indispensabili alla scienza.
La prima predizione è quella della relatività della massa. Una palla impugnata
da una persona ha ovviamente una massa definita. Se una persona scaglia la palla,
la massa della palla aumenta con la sua velocità. Questo accrescimento di massa
di un corpo in movimento diventa considerevole quando la velocità raggiunge una
frazione significativa della velocità della luce, che è di 300 000 chilometri al
secondo. Velocità del genere sono ora normali per elettroni in centinaia di varietà
di tubi elettronici e di tubi a raggi catodici e per altre “particelle” subatomiche in
vari tipi di macchine capaci di disintegrare l’atomo. La teoria di tutti questi
dispositivi deve tener conto dell’accrescimento relativistico della massa.
L’altra predizione della teoria che non può più essere ignorata da una persona
intelligente del nostro secolo afferma che una determinata quantità di energia è
fisicamente uguale a una quantità definita di massa; l’energia contenuta in
un’onda luminosa non è sostanzialmente diversa da quella contenuta in un pezzo
di legno. Oggi è ben nota l’esatta espressione quantitativa, secondo cui l’energia
contenuta in una data quantità di massa è uguale al prodotto della massa per il
quadrato della velocità della luce (in unità idonee). Oltre a stabilire questa
390
formula, Einstein suggerì l’opportunità che i fisici esaminassero il fenomeno della
radioattività per scoprire una conversione fisica della massa in energia. Il suo
suggerimento si dimostrò esatto. I fisici riuscirono infine a controllare questa
conversione della materia in energia sotto forma di onde elettromagnetiche e
produssero la bomba atomica.
Nonostante le conferme, sorprendenti e drammatiche, della teoria, molte
persone considerano del tutto inaccettabile il suo universo non euclideo,
quadridimensionale. Nessuno è in grado di visualizzare un mondo del genere, ma
chiunque insista nel voler visualizzare i concetti di cui si occupano oggi la scienza
e la matematica si trova ancora nel medioevo del suo sviluppo intellettuale. Fin
quasi dal principio del lavoro sui numeri, i matematici hanno portato avanti un
ragionamento algebrico che è indipendente dall’esperienza sensoriale. Oggi essi
costruiscono e applicano con piena coscienza geometrie che esistono soltanto
nella mente dell’uomo e che non sono mai state pensate in relazione a una
visualizzazione. Non è stato ovviamente abbandonato ogni contatto con la
percezione sensoriale. Le conclusioni concernenti il mondo fisico predette da
riflessioni geometriche e algebriche devono essere in accordo con l’osservazione
e la sperimentazione se la struttura logica dev’essere utile alla scienza. Insistere
però sul fatto che ogni passo in una catena, anche di ragionamento geometrico,
deve avere un significato sensoriale, equivale a sottrarre alla matematica e alla
scienza due millenni di sviluppo.
Ma non si esauriscono certo qui gli argomenti a favore della teoria della
relatività. Nel capitolo precedente abbiamo visto che la geometria naturale della
superficie della Terra in una regione montuosa, ad esempio la catena delle
Montagne Rocciose, sarebbe non euclidea. Sulla superficie di una tale regione
non esistono linee rette, né cerchi, né altre linee familiari. Inoltre, il tipo di curva
che fornisce la minima distanza fra due punti può non assolvere la stessa funzione
fra altri due.
Nella nuova teoria ci viene chiesto di accettare i concetti di spazio e tempo
locali, una relatività del tempo e dello spazio finora ignote. Tutto ciò si può
certamente dire a difesa della conclusione che i mondi temporali di osservatori in
movimento l’uno relativamente all’altro sono diversi. Quello che potrebbe esser
definito il carattere soggettivo della nostra esperienza del tempo è stato
riconosciuto da molto tempo. Se dovessimo giudicare la durata sulla base delle
nostre sensazioni personali in proposito, ci sarebbe certamente un netto
disaccordo sulla quantità del tempo trascorso durante un certo intervallo. La
variazione nel tempo da un osservatore all’altro è perciò sorprendente solo
quando gli osservatori usino un dispositivo artificiale, come un orologio.
Abbiamo supposto che tutti gli osservatori che usino orologi identici otterrebbero
il medesimo risultato, ma ora dobbiamo riconoscere che anche un tale dispositivo
standardizzante non servirebbe a rendere il tempo indipendente dall’osservatore.
Un’altra idea ancora dovrebbe riconciliarli con i suggerimenti radicali di
Einstein. Consideriamo l’incredulità che deve aver regnato quando qualcuno disse
per la prima volta che la Terra è un globo e non una superficie piatta poggiante su
391
fondamenta sconosciute. Quale spiegazione matematica avrebbe potuto
convincere la gente del fatto che oggetti che si trovavano sull’altra faccia della
Terra sarebbero rimasti su di essa senza cadere? Immaginiamoci inoltre la loro
perplessità quando appresero che la Terra e gli altri pianeti si rivolgono a una
velocità enorme attorno al Sole, ruotando nello stesso tempo attorno al loro asse,
contro l’evidenza dei loro sensi. Queste asserzioni della teoria copernicana, che
oggi sono luoghi comuni, devono essere state molto più sconvolgenti per gli
uomini del Cinquecento di quanto non siano per noi le sofisticate asserzioni della
teoria della relatività. La spiegazione data da Newton del perché la gente rimanga
sulla Terra invece di essere scagliata nello spazio e perché la Terra rimanga nella
sua orbita – la misteriosa forza di gravità – non era molto soddisfacente. Einstein,
d’altra parte, abolisce il bisogno di questa forza misteriosa e di altri assunti, senza
contraddire di fatto l’evidenza dei nostri sensi.
Né dovremmo disperare se le idee di Einstein ci sembrano difficili da accettare,
nonostante tutti gli argomenti in loro favore. Non è sorprendente che l’uomo
medio, il quale non può permettersi di spendere molto tempo a speculare sui
misteri di cui la natura ci ha circondati, sia stato molto sconcertato e confuso dalle
nuove idee matematiche e scientifiche su spazio, tempo, materia e gravitazione.
Egli può trarre consolazione dal fatto che questo smarrimento è poca cosa di
fronte al grave choc sperimentato dai filosofi che passano la loro vita a edificare
sistemi di pensiero corretti su questi argomenti.
Abbiamo spesso parlato della stretta relazione esistente fra matematica e
filosofia; proprio nella teoria della relatività troviamo un esempio par excellence
di una creazione matematica che ha rivoluzionato la filosofia moderna.
L’unione di spazio e tempo e l’influenza della materia sullo spazio-tempo
suggerita dalla teoria della relatività, idee che sarebbero parse bizzarre a filosofi
dei primi anni del Novecento, sono ora parte integrante di una filosofia della
natura sempre più diffusa. La natura ci si presenta come un tutto organico, con
spazio, tempo e materia frammisti insieme. In passato l’uomo ha analizzato la
natura, scegliendo certe proprietà che considerava le più importanti, dimenticando
che esse non erano altro che aspetti astratti di un tutto, e considerandole perciò
come entità distinte. Egli rimane ora sorpreso nel sentire che deve riunire questi
concetti da lui supposti separati per ottenere una sintesi di conoscenza coerente e
soddisfacente.
Aristotele fu il primo a formulare la dottrina filosofica secondo cui spazio,
tempo e materia sono componenti distinti dell’esperienza. Questa concezione fu
adottata successivamente da scienziati e utilizzata da Newton. Dopo di lui, noi ci
siamo abituati a tal punto a pensare lo spazio e il tempo come componenti
fondamentali e distinti del nostro mondo fisico e separati dalla materia, che
stentiamo a renderci conto che la concezione della natura è opera dell’uomo ed è
solo una di un certo numero di concezioni possibili. Ovviamente i filosofi
contemporanei, fra i quali è il defunto Alfred North Whitehead, non sostengono
che quest’analisi della natura sia inutile. Al contrario, essa si è dimostrata preziosa
e anzi essenziale. Dovremmo però esser consapevoli del fatto che essa è artificiale
392
e non dovremmo confondere la nostra analisi con la natura stessa così come non
dobbiamo scambiare gli organi del corpo umano osservati per dissezione col
corpo vivente stesso.
La teoria della relatività sconvolge uno fra gli assunti filosofici fondamentali
della scienza, la relazione di causa ed effetto. Nella concezione usuale di questa
relazione, la causa di un effetto precede necessariamente quest’ultimo. In accordo
con la nuova teoria l’ordine dei due eventi non è più assoluto. Quando abbiamo
discusso la questione della simultaneità, abbiamo trovato che l’ordine di due
lampi di luce dipendeva dall’osservatore. Se questi due lampi fossero sostituiti da
due eventi i quali apparissero essere causa ed effetto a qualche osservatore, altri
osservatori potrebbero non osservare gli eventi in tale relazione, poiché per essi
l’evento chiamato effetto potrebbe verificarsi prima della causa. È pertanto
opportuna una revisione del concetto di causalità.
L’esistenza del libero arbitrio sembra legata strettamente alla causa e
all’effetto. Il libero arbitrio implica che un atto volontario della mente possa
causare un atto successivo del corpo. Per la persona che esercita il suo “libero
arbitrio”, questo può essere di fatto l’ordine degli eventi; per qualche osservatore
l’ordine degli eventi nel tempo può essere inverso, cosicché l’atto del corpo può
apparire come la causa dello stato mentale della persona. Quest’ultima concezione
può richiamarci alla mente la moderna teoria delle emozioni, secondo la quale, ad
esempio, non scappiamo via dal pericolo perché siamo spaventati ma siamo
spaventati perché scappiamo via. La questione del possesso o meno del libero
arbitrio da parte di esseri umani dev’essere evidentemente riconsiderata alla luce
della teoria della relatività.
Le dottrine rivoluzionarie della nuova teoria hanno concentrato l’attenzione
sulla nostra tendenza ad accettare modelli di pensiero per il fatto che essi ci sono
stati inculcati fin dalla nostra infanzia. Newton ci insegnò a pensare nei termini di
una forza di gravità che, partendo dal Sole, si spinge fino a milioni e centinaia di
milioni di chilometri nello spazio e mantiene i pianeti nelle loro orbite. Questo
concetto fu accolto con grande favore nel Settecento poiché consentiva predizioni
accurate. Noi abbiamo seguito queste indicazioni senza discuterle. Fra due o tre
generazioni i ragazzi sorrideranno certamente della nostra ingenuità e credulità.
Un altro processo mentale su cui il lavoro sulla relatività richiama l’attenzione
e che ostacola il progresso è quello consistente nel fare inconsciamente ipotesi.
Noi siamo colpevoli di supporre, ad esempio, senza badarci e senza esercitare un
giudizio critico, che il tempo, la distanza e la simultaneità siano uguali per tutte le
persone in quest’universo. I matematici e gli scienziati si rendono conto ora che si
deve fare più attenzione a supposizioni fatte implicitamente che a quelle che sono
state riconosciute e affermate esplicitamente.
Forse anche l’autore è colpevole a questo punto di un’assunzione ingiustificata,
ossia l’assunto che il lettore sia stato in grado di ingerire e assimilare con tanta
rapidità non soltanto le idee principali della teoria della relatività bensì anche le
loro implicazioni filosofiche. Passiamo perciò rapidamente in rassegna gli eventi
più importanti. La fisica dell’Ottocento era costruita sulle basi della geometria
393
euclidea, delle idee di lunghezze assolute, tempo assoluto e simultaneità assoluta
di eventi, delle leggi del moto di Newton, della forza di gravità e del concetto di
etere. Ciascuna di queste pietre da costruzione implicava assunti, che si riteneva
fossero ben garantiti, sul mondo fisico. L’esperimento di Michelson e Morley
dimostrò che nell’uso dell’etere come veicolo di onde luminose era implicata
un’incoerenza nella teoria fisica. Einstein dimostrò successivamente che erano
altrettanto ingiustificate le assunzioni di lunghezze assolute, di un tempo assoluto
e di un’assoluta simultaneità. Seguì allora una rivoluzione nel pensiero fisico. Le
nozioni di lunghezza locale, tempo locale e ordine locale di eventi sostituirono le
corrispondenti nozioni assolute. La ricerca di nuove quantità assolute si concluse
con la consapevolezza del fatto che, per produrle, dobbiamo combinare spazio e
tempo. Minkowski ribadì poi che l’universo è naturalmente un’unità
spaziotemporale quadridimensionale e che è irreale, anche se talvolta necessario a
fini pratici, separare spazio e tempo. Einstein portò avanti quest’idea sviluppando
una geometria non euclidea che spiega gli effetti della forza di gravità newtoniana
nei termini dei percorsi naturali di corpi nel nuovo spazio-tempo.
Con questi sviluppi una grande tendenza nella storia della matematica e della
scienza perviene a un coronamento grandioso. In un capitolo precedente abbiamo
parlato della matematizzazione della scienza. Un passo estremamente
significativo in questa direzione fu fatto quando, nel Seicento, taluni scienziati
decisero di foggiare il loro pensiero e i loro procedimenti nei termini di relazioni
quantitative. I fenomeni del moto, delle forze, del suono, della luce e
dell’elettricità furono studiati tutti e applicati con successo solo una volta
compiuta questa trasmutazione in matematica. Molti settori della scienza
divennero allora semplici estensioni della matematica del numero.
È ora possibile apprezzare quanta parte della scienza sia stata matematizzata
sotto forma di geometria. Dal tempo di Euclide le leggi dello spazio fisico non
sono state altro che teoremi di geometria. Poi Ipparco, Tolomeo, Copernico e
Keplero compendiarono i moti dei corpi celesti in termini geometrici. Ponendo
l’occhio al suo cannocchiale, Galileo estese l’applicazione della geometria allo
spazio infinito e a molti milioni di corpi celesti. Quando Lobačevskij, Bolyai e
Riemann ci fecero vedere come si possano costruire vari mondi geometrici,
Einstein si impadronì dell’idea al fine di adattare il nostro mondo fisico a un
mondo quadridimensionale, matematico. Gravità, tempo e materia divennero
allora, insieme allo spazio, semplici parti della struttura della geometria. La
convinzione dei greci classici che la realtà possa essere intesa nel modo migliore
nei termini di proprietà geometriche e la dottrina rinascimentale di Descartes
secondo cui i fenomeni della materia e del moto possono essere spiegati nei
termini della geometria dello spazio hanno ricevuto una conferma assoluta.
La teoria della relatività è solo uno fra gli sviluppi matematici del Novecento
che stanno plasmando in modo determinante la nostra civiltà e la nostra cultura.
Per essere onesti nei confronti del nostro secolo dovremmo investigare uno
sviluppo affine che ha avuto forse un’influenza anche maggiore: la teoria
quantistica. Mentre la teoria della relatività è stata utilissima nel trattamento di
394
fenomeni implicanti distanze, tempi e velocità enormi, la teoria quantistica ha
consentito agli scienziati di trattare il minuscolo mondo all’interno dell’atomo. La
scienza dell’immenso universo e dei regni infinitesimi sono state perciò entrambe
rivoluzionate. Purtroppo la scienza del nostro secolo si sta allontanando sempre
più dal “senso comune”, da concetti accessibili intuitivamente e da immagini
semplici, fisiche. La scienza fa ricorso sempre più a una matematica complicata
per la quale la spiegazione fisica è incompleta o addirittura contraddittoria,
benché tale spiegazione sia abbastanza reale da consentire la progettazione e la
produzione di bombe atomiche. È perciò impossibile, in un panorama conciso
come questo, tentare di spiegare i fenomeni quantistici. Ci spiace di doverci
limitare a una semplice menzione di passaggio di questo secondo sviluppo
importante di un secolo che è ancora in gran parte imprevedibile.
395
XXVIII. Matematica: metodo e arte
La scienza della matematica pura, nei suoi
sviluppi moderni, può pretendere di essere la
creazione più originale dello spirito umano.
ALFRED NORTH WHITEHEAD
Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato alcune idee della matematica vera e
propria, le origini di queste idee nel loro tempo e le loro influenze su vari settori
della nostra cultura. In tempi moderni queste idee si sono moltiplicate a un ritmo
quasi fantastico. Corrispondentemente, le influenze di questa scienza sono
cresciute per numero, profondità e complessità. Si potrebbe considerare uno
qualsiasi dei campi che hanno goduto di uno stretto contatto con la matematica in
un qualche periodo da noi esaminato e tracciare la continuazione e l’estensione di
tale legame fino a oggi. Non disponiamo però né del tempo né dello spazio
necessari per un’esposizione particolareggiata delle relazioni della matematica
con l’arte, la scienza, la filosofia, la logica, le scienze sociali, la religione, la
letteratura e una decina di altre importanti attività e interessi umani. Speriamo che
quanto abbiamo visto sia sufficiente a sostenere la tesi di questo libro, ossia che la
matematica ha svolto una funzione dominante nella formazione della cultura
moderna.
Un argomento è stato però finora trascurato. La matematica è di per se stessa
un settore vivo, fiorente, della nostra cultura. Vari millenni di sviluppi hanno
prodotto un corpo imponente di pensiero i cui caratteri essenziali dovrebbero
essere familiari a ogni persona istruita. Benché la natura della matematica
moderna fosse in qualche misura preannunziata dai contributi dei greci, gli eventi
che hanno avuto luogo nei secoli scorsi e la creazione della geometria non
euclidea in particolare hanno alterato radicalmente il ruolo e la natura del
soggetto. Un esame della natura della matematica del Novecento non soltanto
correggerà un errore ma chiarirà forse perché la disciplina abbia guadagnato in
potere e in statura.
La matematica è soprattutto un metodo. Tale metodo è incarnato in ciascun
settore della matematica, come l’algebra dei numeri reali, la geometria euclidea o
le geometrie non euclidee. Esaminando la struttura comune di questi settori, i
caratteri salienti di questo metodo diventeranno chiari.
Ogni branca o sistema della matematica si occupa di una classe di concetti ad
esso propri; la geometria euclidea, ad esempio, si occupa di punti, linee, triangoli,
cerchi e così via. Definizioni precise dei concetti appartenenti a un sistema sono le
importanti fondamenta su cui viene costruita la delicata struttura superiore.
Purtroppo non tutti i concetti o termini possono essere definiti senza addentrarsi
in una successione infinita di definizioni. È vero che i significati dei termini non
definiti sono suggeriti da esempi fisici. La somma, uno fra i termini non definiti
396
dell’algebra, può essere spiegata ricorrendo all’esempio del numero di mucche
che si otterrebbe facendo una mandria sola di due mandrie separate. Siffatte
spiegazioni in termini fisici non fanno parte però della matematica poiché questa
disciplina è logicamente autonoma e autosufficiente. Alcuni concetti possono
ovviamente essere definiti ricorrendo ad altri non definiti, così come possiamo
definire un cerchio nei termini di punto, piano e distanza, descrivendolo come
l’insieme di tutti i punti in un piano che si trovino a una distanza stabilita da un
punto dato.
Se alcuni termini non sono definiti e se le immagini e i processi fisici che noi
associamo solitamente a essi non fanno parte della matematica vera e propria,
quali fatti che li riguardino possiamo usare nel ragionamento? La risposta
dev’essere ricercata negli assiomi. Queste asserzioni, che accettiamo senza
dimostrazione, su termini definiti e non definiti sono l’unica base per qualsiasi
conclusione che possa esser tratta sui concetti in discussione.
Ma come sappiamo quali assiomi accettare, specialmente in considerazione del
fatto che essi implicano termini non definiti? Non ci troviamo nella posizione di
cani che girano vorticosamente in cerchio inseguendo la loro coda? Come nel
caso dei termini non definiti, è di solito l’esperienza a darci la risposta. Gli uomini
accettavano gli assiomi sui numeri e gli assiomi della geometria euclidea perché
l’esperienza di insiemi di oggetti e di figure fisiche garantiva per questi assiomi.
Anche qui dobbiamo far attenzione a non includere l’esperienza fisica nella
matematica come sua parte. La matematica comincia con l’affermazione di
assiomi, senza considerare da dove essi sono stati ottenuti. Fino all’Ottocento
l’esperienza fu l’unica fonte di assiomi. Le investigazioni nel campo della
geometria non euclidea furono però motivate da un desiderio di usare un assioma
delle parallele diverso da quello di Euclide. In questi casi i matematici andarono
deliberatamente contro l’esperienza.
Benché gli assiomi della geometria non euclidea apparissero contrari alla
normale esperienza umana, essi fornivano teoremi applicabili al mondo fisico. In
considerazione di questo fatto, si potrebbe ritenere che ci sia una libertà
considerevole nella scelta degli assiomi. È, questa, una verità parziale, poiché gli
assiomi di qualsiasi branca della matematica devono essere coerenti fra loro; in
caso contrario ne risulterebbe infatti solo confusione. Coerenza significa non solo
che gli assiomi non devono contraddirsi fra loro ma anche che non devono dare
origine a teoremi che si contraddicano fra loro.
La richiesta di coerenza ha cominciato ad assumere un grande significato in
anni recenti. Finché i matematici considerarono i loro assiomi e teoremi come
verità assolute, non venne loro in mente che non avrebbero mai potuto presentarsi
contraddizioni tranne che in séguito a un errore logico. La natura era coerente.
Poiché la matematica formulava nei suoi assiomi fatti naturali e ne deduceva altre
verità non derivabili immediatamente dalla natura, anche la matematica doveva
essere coerente. La creazione della geometria non euclidea fece però vedere ai
matematici che essi dovevano far da sé. Essi non stavano registrando la natura,
stavano interpretandola e ogni interpretazione poteva non soltanto essere sbagliata
397
ma anche incoerente. Il problema della coerenza fu ulteriormente sottolineato
dalla scoperta di paradossi implicanti concetti fondamentali, una scoperta che
ebbe luogo nella scia dei contributi di Cantor.
Può darsi che sia possibile stabilire, per esame diretto di un insieme di assiomi,
che nessuno di essi contraddice l’altro. Ma in che modo possiamo esser certi del
fatto che nessuno delle centinaia di teoremi che possono essere dedotti dagli
assiomi sarà mai in contraddizione con un altro? La risposta a questa domanda è
lunga e a tutt’oggi, bisogna confessarlo, non è del tutto soddisfacente. Gran parte
del lavoro recente nel campo della matematica si è proposto l’obiettivo di stabilire
la coerenza di varie branche matematiche. I matematici non sono però riusciti a
dimostrare, almeno finora, che il sistema matematico comprendente gli assiomi e i
teoremi sui nostri comuni numeri reali sia coerente. Questa situazione e
estremamente imbarazzante. In anni recenti la coerenza ha sostituito la verità
come dio dei matematici e ora si rivela la probabilità che neppure questo dio
esista.
Oltre a essere coerenti fra loro, gli assiomi di un settore della matematica
devono essere semplici. La ragione di questa richiesta è chiara. Poiché gli assiomi
sono accettati senza dimostrazione, dobbiamo sapere con precisione che cosa
stiamo accettando. La semplicità ci assicura questa comprensione. È preferibile,
benché non essenziale, che gli assiomi di un sistema matematico siano
indipendenti l’uno dall’altro. In altri termini, non dovrebbe esser possibile
dedurre un assioma da uno o più altri assiomi. Quando un assioma risulta
deducibile da altri è preferibile presentarlo come un teorema, poiché in tal modo
riduciamo a un numero il più possibile piccolo le affermazioni accettate senza
dimostrazione. Infine, gli assiomi di un sistema matematico devono essere
fecondi; come semi selezionati con cura, devono fornire un buon raccolto, poiché
un obiettivo dell’attività matematica è quello di portare in luce le nuove
conoscenze implicite negli assiomi. Il contributo di Euclide alla matematica fu
prezioso perché egli scelse un piccolo numero di assiomi che fornirono centinaia
di teoremi.
Ammesso che sia stato scelto un insieme di assiomi che soddisfi tutte le
condizioni necessarie e desiderabili, in che modo il matematico sa quali teoremi
dimostrare e in che modo procede alla loro dimostrazione? Consideriamo ora
queste domande.
Esistono molte fonti di possibili teoremi. Fra queste l’esperienza è senza
dubbio la più feconda. L’osservazione di triangoli fisici o reali suggerisce molte
conclusioni probabili su triangoli matematici. La deduzione dagli assiomi
conferma poi queste conclusioni come teoremi matematici oppure ne dimostra
l’erroneità. L’esperienza dev’essere intesa ovviamente in un senso molto ampio.
Taluni teoremi sono stati suggeriti da osservazioni casuali. Problemi scientifici
postisi in laboratori o in osservatori e il problema artistico di raffigurare
pittoricamente la profondità su una superficie piana hanno condotto a teoremi
precisi.
398
In una grande misura la matematica genera i suoi propri problemi. Vari teoremi
sorgono come una generalizzazione di osservazioni concernenti numeri e figure
geometriche. Chiunque abbia un po’ meditato sui numeri interi, ad esempio, ha
senza dubbio osservato che la somma dei primi due numeri dispari, ossia 1 + 3, è
il quadrato di due; che la somma dei primi tre numeri dispari, ossia 1 + 3 + 5, è il
quadrato di tre; e così via per i primi quattro, cinque, sei numeri dispari. Un
semplice calcolo suggerisce dunque una proposizione generale, ossia che la
somma dei primi n numeri dispari, dove n è un numero intero positivo, è il
quadrato di n. Ovviamente, questo possibile teorema non è dimostrato dai calcoli
eseguiti sopra, né potrebbe mai essere dimostrato da tali calcoli, poiché nessun
uomo mortale potrebbe mai compiere quell’insieme infinito di calcoli che si
richiederebbe per stabilire la conclusione per ogni n. I calcoli danno nondimeno al
matematico qualche cosa su cui lavorare.
Consideriamo un altro caso di generalizzazione come fonte di suggerimenti per
teoremi. Un triangolo è un poligono di tre lati. Ora, nella geometria euclidea la
somma degli angoli di un triangolo è di 180°. Non è naturale chiedersi se non si
possa trovare un teorema generale sulla somma degli angoli di ogni poligono? A
questa domanda risponde un teorema molto antico. Si trova la somma degli angoli
di un poligono qualsiasi sottraendo due al numero dei lati e moltiplicando poi il
risultato per 180°.
Abbiamo già visto in che modo il problema puramente logico di dedurre
l’asserzione contenuta nell’assioma delle parallele di Euclide da assiomi più
accettabili abbia condotto alla geometria non euclidea. Una volta affacciatasi
l’idea di tali geometrie, numerosi suggerimenti di teoremi furono ottenuti
ricercando gli analoghi di teoremi validi nella geometria euclidea. Ad esempio,
qual è l’analogo del teorema che dice che la somma degli angoli di un
quadrilatero è 360°?
Fig. 88. Le linee che congiungono i punti di mezzo dei lati di qualsiasi
quadrilatero formano un parallelogrammo.
Queste poche indicazioni sul modo in cui i matematici si assicurano
suggerimenti di teoremi non ci dicono tutto. Anche se ad esse aggiungessimo le
fonti più fortuite, come il puro caso, congetture approssimative o tentativi
399
disordinati, avremmo lasciato fuori la fonte più preziosa di possibili teoremi:
l’immaginazione, l’intuizione, la penetrazione propria del genio creativo. La
maggior parte delle persone potrebbe osservare all’infinito un quadrilatero senza
accorgersi che se uniamo i punti di mezzo dei quattro lati (fig. 88) la figura che si
forma è un parallelogrammo. Una tale nozione non è il prodotto della logica bensì
di un’intuizione improvvisa.
Nei campi dell’algebra, del calcolo infinitesimale e specialmente dell’analisi
superiore, il buon matematico dipende dal tipo di ispirazione che noi associamo di
solito al musicista compositore. Il compositore sente di aver trovato un tema, una
frase che, opportunamente sviluppata e abbellita, produrrà una bella musica.
L’esperienza e la conoscenza della musica lo aiutano a svilupparla. Similmente, il
matematico indovina di avere una conclusione che seguirà dagli assiomi.
L’esperienza e la conoscenza possono guidare i suoi pensieri avviandoli nei canali
appropriati. Prima di raggiungere una formulazione corretta e soddisfacente del
nuovo teorema può darsi che si richiedano modificazioni di qualche tipo.
Sostanzialmente però il matematico e il compositore sono mossi da un afflato
divino che consente loro di “vedere” e “conoscere” l’edificio finale prima che sia
posta la prima pietra.
La conoscenza di ciò che si tratta di dimostrare è inestricabilmente connessa al
modo in cui dimostrarlo. Un esame dei fatti noti in una situazione può convincere
il matematico della possibilità di dimostrare un certo teorema. Finché egli non
sarà in grado di fornire una dimostrazione deduttiva di tale teorema, non potrà
però asserirlo o applicarlo. La distinzione fra la convinzione che un teorema sia
valido e una dimostrazione del teorema stesso è chiarita da molti esempi classici.
I greci proposero i tre famosi problemi della duplicazione del cubo, della
trisezione di un angolo e della quadratura del cerchio usando solo riga e
compasso. Nel corso di un periodo di due millenni molti matematici si convinsero
dell’impossibilità di realizzare queste costruzioni nelle condizioni assegnate ma il
problema fu considerato risolto solo quando, nell’Ottocento, furono fornite
precise dimostrazioni di tale impossibilità.
Un esempio eccellente di una congettura, la verità della quale sembra
indubitabile, è che ogni numero pari è la somma di due numeri primi. Ricordiamo
che un numero primo è un numero intero divisibile solo per se stesso e per 1; così
13 è un numero primo, mentre non lo è 9. In accordo con questa congettura, 2 è 1
+ 1; 4 è 2 + 2; 6 è 3 + 3; 8 è 3 + 5; 10 è 3 + 7. Potremmo continuare a sottoporre a
verifica indefinitamente quest’asserzione esaminando tutti i numeri pari e
troveremmo che la congettura è valida. Questa congettura non è però un teorema
matematico, poiché finora non ne é stata data alcuna dimostrazione.
Un teorema dev’essere stabilito al di là di ogni dubbio mediante un
ragionamento deduttivo procedente da assiomi e i matematici lavorano
letteralmente migliaia di ore per ottenere siffatte dimostrazioni. Nel nostro uso
quotidiano delle espressioni “esattezza matematica” e “precisione matematica”
rendiamo omaggio a questa instancabile ricerca di certezza.
400
Molto lavoro matematico dev’essere evidentemente fatto per trovare metodi di
dimostrazione anche dopo che si sia data una risposta alla domanda: che cosa
dimostrare? Questo punto non ha bisogno di essere sottolineato per quei lettori
che si sono affaticati nel tentativo di dimostrare esercizi di geometria in cui è
fornita la proposizione da dimostrare e ci si attende che lo studente proceda con
successo da quel punto. Nella ricerca di un metodo di dimostrazione, come nella
ricerca di che cosa dimostrare, il matematico deve usare immaginazione,
intuizione e abilità creativa. Egli deve vedere possibili linee di attacco là dove
altri non le vedrebbero e deve avere la resistenza mentale di lottare con un
problema finché riesce a trovare una soluzione. Non sappiamo che cosa avvenga
nella sua mente mentre lavora sul problema, non più di quanto sappiamo con
precisione quali processi di pensiero ispirarono Keats a scrivere opere di fine
poesia o perché le mani e il cervello di Rembrandt fossero in grado di creare
quadri che suggeriscono una grande profondità psicologica. Non sappiamo
definire il genio. Possiamo dire solo che una capacità creativa nel campo della
matematica richiede qualità mentali di non comune eccellenza.
Forse abbiamo sfiancato il nostro Pegaso e lo abbiamo fatto volare troppo in
alto. Avendo suggerito un teorema e avendolo poi dimostrato, il matematico ha
realmente imparato qualcosa di nuovo? Dopo tutto, egli deriva dagli assiomi
soltanto ciò che pone in essi, poiché tutte le conclusioni da lui raggiunte sono
contenute implicitamente negli assiomi. I matematici adottano assiomi e
consumano secoli per dedurne teoremi i quali di fatto non sono altro che
elaborazioni di ciò che dicono gli assiomi. Per usare le parole del filosofo
Wittgenstein, la matematica non è altro che una grandiosa tautologia.
Ma quanto grandiosa! È letteralmente corretto definire la struttura logica della
matematica una tautologia ma quest’asserzione e altrettanto inadeguata quanto il
dire che la Venere di Milo è una gran bella donna. La definizione della
matematica come tautologia dice che la scelta di un insieme di assiomi è come
l’acquisto di un pezzo di terreno minerario: le ricchezze vi sono già presenti.
Questa definizione trascura però il paziente e duro lavoro di scavo che dev’essere
compiuto, il vaglio accurato del metallo prezioso dalla roccia, il valore e la
bellezza del tesoro ottenuto e il piacere e la soddisfazione per il risultato
conseguito.
La determinazione e dimostrazione di teoremi completa la struttura di una
branca della matematica. Una tale branca comprende allora termini, non definiti e
definiti, assiomi e teoremi, dimostrati sulla base di tali assiomi. Quest’analisi di
un sistema matematico descrive la struttura della matematica dei numeri e quella
di ciascuna delle varie geometrie. Ma per poter valutare più compiutamente il
nostro argomento si richiede un’investigazione un po’ più approfondita.
Ogni sistema matematico contiene termini non definiti: ad esempio le parole
punto e linea in un sistema geometrico. Nel nostro esame delle geometrie non
euclidee abbiamo trovato che possiamo attribuire alla parola linea significati fisici
considerevolmente diversi da quello della corda tesa che i matematici avevano in
mente quando costruirono queste geometrie. Il fatto che possiamo prenderci
401
libertà del genere con termini non definiti, che possiamo dar loro interpretazioni
apparentemente ingiustificate, suggerisce che nei termini non definiti debba
esistere un qualche significato più profondo di quanto sia venuto in luce finora.
Dimentichiamoci per un momento della matematica e occupiamoci del campo,
meno logico, della diplomazia. A uno statista, in un congresso internazionale, si
pose il compito delicato di formare comitati destinati a svolgere varie funzioni;
egli decise allora che sarebbe stato opportuno formare questi comitati in accordo
con le condizioni seguenti:
a) Ogni coppia di nazioni doveva figurare in almeno un comitato.
b) Ogni coppia di nazioni doveva figurare in non più di un comitato.
c) Ogni coppia di comitati doveva avere almeno una nazione in
comune.
d) Ogni comitato doveva comprendere almeno tre nazioni.
Benché queste condizioni sembrassero sagge allo statista, egli temeva però che
esse potessero condurre a complicazioni indesiderabili che egli non avrebbe
potuto prevedere. Egli consultò allora un matematico, il quale gli indicò subito
alcune conseguenze.
(1) Ogni combinazione particolare di due nazioni apparirà in uno e un
solo comitato.
(2) Ogni coppia di comitati avrà una e una sola nazione in comune.
(3) Ci saranno molte combinazioni di tre nazioni che non appariranno in
alcun comitato.
Il matematico fu in grado di indicare subito queste conclusioni perché
riconobbe che le condizioni relative a nazioni e comitati erano precisamente
uguali alle seguenti proposizioni concernenti punti e linee:
(a') Ogni coppia di punti appare su almeno una linea.
(b') Ogni coppia di punti appare su non più di una linea.
(c') Ogni coppia di linee ha almeno un punto in comune.
(d') Ogni linea contiene almeno tre punti.
L’unica differenza fra i due insiemi consiste nel fatto che le parole punto e
linea sostituiscono nazione e comitato. Allora gli stessi teoremi che i matematici
avevano dedotto un tempo per punti e linee dalle condizioni (a') - (d') erano
trasferibili a nazioni e comitati perché, per stabilire i teoremi, tono stati usati solo
i fatti (a') - (d'). Il matematico non dovette far altro che sostituire punto e linea
con nazione e comitato nei teoremi matematici per ottenere le conseguenze che
presentò allo statista. Così l’assenza di significati ben definiti per i termini non
definiti punto e linea si dimostrò un grande vantaggio.
Dovrebbe ora esser chiaro un fatto di grande importanza: nella dimostrazione
deduttiva da assiomi formulati esplicitamente, il significato dei termini non
402
definiti è irrilevante. Il matematico di oggi si rende conto che a punto, linea e altri
termini indefiniti si può attribuire qualsiasi significato fisico finché gli assiomi
che implicano questi termini conservano la loro validità per i significati fisici. Se
gli assiomi conservano la loro validità, allora anche i teoremi si applicano a queste
interpretazioni fisiche.
Si potrebbe avere l’impressione che la nostra nuova concezione della natura
della matematica le sottragga tutto il suo significato. Invece di essere
inseparabilmente congiunta a concetti fisici definiti e di fornirci una conoscenza
approfondita del mondo fisico, la matematica ci appare oggi affaccendata attorno
a parole vuote “che non significano nulla”. È vero invece l’inverso. La
matematica ha una molto maggiore ricchezza di significato, vastità di campo
d’azione e fecondità di applicazione di quanto si fosse mai sospettato prima. Oltre
ai significati fisici che erano associati in precedenza a concetti matematici e che
possono essere ancora conservati, si può trovare una varietà illimitata di nuovi
significati che soddisfino agli assiomi di sistemi matematici. In tali nuove
situazioni i teoremi di questi sistemi hanno nuovi significati e perciò nuove
applicazioni.
Eppure la matematica pura in sé non si occupa direttamente o primariamente
dei significati speciali che possono essere attribuiti ai termini non definiti. Essa si
occupa invece delle deduzioni che possono esser fatte dagli assiomi e dai concetti
definiti. La matematica applicata, d’altra parte, si occupa di quei significati fisici
dei concetti della matematica pura che rendono i teoremi utili nel lavoro
scientifico. La transizione dalla matematica applicata passa di solito inosservata.
La proposizione secondo cui l’area di un cerchio è r2 è un teorema della
matematica pura. La proposizione che dice che l’area di un campo di forma
circolare è moltiplicato per il quadrato di una certa lunghezza fisica è un
teorema di matematica applicata.
La distinzione che abbiamo stabilito fra matematica pura e applicata è
precisamente quella che Bertrand Russell aveva in mente quando fece
l’osservazione apparentemente frivola ma del tutto giustificata che la matematica
pura “è l’argomento in cui non conosciamo né ciò di cui stiamo parlando né se ciò
di cui stiamo parlando sia vero.” Ovviamente molte persone hanno concepito
pensieri del genere sulla matematica anche senza l’incoraggiamento di Russell, e
senza sapere quanto fossero veri o come giustificarli. I matematici non conoscono
ciò di cui stanno parlando perché la matematica pura non si occupa del significato
fisico. I matematici non sanno mai se ciò che stanno dicendo è vero perché, in
quanto puri matematici, non fanno alcuno sforzo per accertare se i loro teoremi
siano asserzioni vere sul mondo fisico. Di tali teoremi possiamo chiederci soltanto
se siano stati ottenuti applicando un ragionamento corretto.
Il carattere astratto di sistemi matematici e la loro relazione a significati fisici
possono essere illustrati adducendo come esempio una situazione simile in
musica. Quando Beethoven ebbe composto la Quinta Sinfonia, ne furono proposte
molte interpretazioni. Alcuni fra i suoi contemporanei vi lessero speranza,
403
disperazione, vittoria, sconfitta, le lotte dell’uomo contro il destino. La musica,
come la matematica, esiste nondimeno senza alcuna di tali “applicazioni”.
Possiamo essere inclini a credere che il procedimento di dedurre conclusioni da
assiomi concernenti termini indefiniti sia peculiare alla matematica pura. Una
rapida digressione ci convincerà però del fatto che questo tipo di ragionamento
non è del tutto insolito. Consideriamo il processo di pensiero tipico dei giuristi. Il
giurista accetta come assioma, benché preferisca chiamarlo principio o norma, il
fatto che ogni Stato sovrano ha un potere di polizia. Lo Stato di New York,
secondo la definizione che di uno Stato si dà nell’unione americana, è sovrano in
questioni locali. Le attività industriali che si esauriscono all’interno dello Stato di
New York sono fatti puramente locali. New York ha perciò un potere di polizia su
industrie che operano all’interno dei confini dello Stato. L’uso di addetti agli
ascensori in edifici di New York è, per definizione legale, un’attività condotta per
intero entro i confini dello Stato. Perciò lo Stato di New York ha un potere di
polizia sull’impiego di addetti agli ascensori in edifici all’interno dello Stato e, in
particolare, sull’impiego di donne addette agli ascensori.
Usando alcuni assiomi su concetti o termini, il legislatore è arrivato a una
conclusione. Osserviamo, nondimeno, che nel ragionamento non è stata data né
usata alcuna definizione del potere di polizia. Il nostro legislatore ha usato
soltanto l’assioma che ogni Stato sovrano ha un potere di polizia. Perciò
l’espressione potere di polizia è stata usata come un termine non definito,
esattamente come il matematico usa il punto e la linea. Pur essendo d’accordo col
ragionamento fatto sopra, il lettore che non conosca la legge potrebbe associare il
potere di polizia con i poliziotti. L’interpretazione legale usuale del potere di
polizia è però quella del potere di provvedere alla sanità e al benessere generale.
Se consideriamo la storia del diritto, il potere di polizia non includeva la facoltà di
fissare i minimi di salario per le donne, cosicché il nostro ragionamento ci
avrebbe condotto alla conclusione che lo Stato di New York non può fissare un
salario minimo per le donne addette agli ascensori. Più tardi, però, una decisione
della corte dichiarò che il potere di polizia include la facoltà di fissare un salario
minimo per le donne addette agli ascensori negli edifici di New York. Così il
termine non definito potere di polizia può ricevere interpretazioni del tutto
contraddittorie; eppure la conclusione ottenuta dal ragionamento fatto sopra si
applica in entrambe le interpretazioni.
Abbiamo visto da quest’esempio che il legislatore, come il matematico, si
impegna in catene di ragionamento deduttivo su termini non definiti, e attribuisce
spesso un significato concreto a questi termini solo quando è pronto ad applicare
le sue conclusioni. Inoltre come, in situazioni diverse, il matematico attribuisce
significati fisici vari, a volte contraddittori, a una parola non definita, come linea,
così in diversi tempi la corte dà significati contraddittori a un termine non
definito, come potere di polizia.
L’analogia fra procedimento matematico e legale va oltre l’uso di termini non
definiti in catene di ragionamento deduttivo. I principi del diritto non sono
semplici assiomi; essi appartengono a sistemi, come gli assiomi della matematica,
404
e sistemi diversi possono contenere principi contraddittori. Ad esempio, il diritto
legale dell’individuo a impegnarsi in un’impresa privata è un principio in un
sistema capitalistico di governo esattamente come l’assioma euclideo delle
parallele è un assioma nel sistema di geometria euclideo. Le differenze fra forme
di governo fasciste, democratiche e comuniste derivano da differenze in principi
fondamentali, esattamente come i diversi teoremi nelle varie geometrie derivano
da assiomi diversi. E precisamente come ciascuna geometria tenta di trattare lo
spazio fisico, ciascun sistema politico tenta di trattare l’ordine sociale.
Non soltanto i legislatori all’interno del sistema legale, ma anche i politici
all’interno dei partiti politici fanno uso dello schema matematico che abbiamo
appena descritto. Prima di ogni campagna elettorale i politici osano esser logici. I
dirigenti di ogni partito redigono un programma ciascuno dei cui elementi è, in un
senso reale, un assioma del credo politico di quel partito. Dalle proposizioni
contenute in questo programma dovrebbe esser possibile dedurre la posizione di
un partito nella futura legislazione. Fin qui tutto bene. Ciò che i politici mancano
di rilevare, e tanto meno di sottolineare, è il libero uso nei loro programmi di
termini non definiti come libertà, giustizia, americanismo, democrazia e simili.
Non c’è bisogno di dire che l’uso di termini non definiti in un tale contesto è
deliberato.
La nostra discussione sul significato di termini non definiti in sistemi
matematici dovrebbe aiutarci ad apprezzare l’astrattezza del pensiero matematico.
Quest’astrattezza risulta dal fatto che la matematica vera e propria lascia cadere i
significati fisici associati in origine con i termini non definiti. Il metodo
matematico è astratto anche in un altro senso. Estranea al guazzabuglio di
esperienze offerte dalla natura, la matematica si isola e si concentra su particolari
aspetti. E questa un’astrazione nel senso di delimitare il fenomeno investigato. Ad
esempio, la linea retta matematica ha soltanto poche proprietà se la si confronta
con le linee rette formate dallo spigolo di un tavolo o tracciate con una matita. Le
poche proprietà che la linea matematica possiede sono formulate negli assiomi; ad
esempio, essa è definita da due punti. Le linee fisiche, oltre a questa proprietà,
hanno colore e anche larghezza e profondità; esse sono composte inoltre da
molecole ciascuna delle quali ha una struttura complicata.
Potrebbe sembrare che un tentativo di studiare la natura concentrandosi su
poche proprietà degli oggetti fisici dovrebbe risultare inefficace. Eppure una parte
del segreto del potere della matematica risiede nell’uso di questo tipo di
astrazione. Grazie ad esso liberiamo la nostra mente dai particolari gravosi e
irrilevanti e siamo quindi in grado di ottenere risultati molto migliori che se
dovessimo tener presente l’intera immagine fisica. Il successo del procedimento
di astrarre aspetti particolari dalla natura si fonda sul principio del divide et
impera.
Il fatto di concentrarsi su pochi aspetti dell’esperienza presenta altri vantaggi
oltre a quello di delimitare il problema in studio. Lo scienziato sperimentale,
occupandosi in modo diretto di oggetti fisici, pensa di solito prevalentemente nei
termini di oggetti percepiti attraverso i sensi. Egli è incatenato al suolo. La
405
matematica, astraendo concetti e proprietà dagli oggetti fisici, è capace di volare
sulle ali del pensiero al di là del mondo sensibile accessibile alla vista, all’udito e
al tatto. La matematica è pertanto in grado di “trattare” oggetti come fasci di
energia, che forse non potranno mai essere descritti qualitativamente perché sono
evidentemente al di là del regno della sensazione. La matematica può “spiegare”
ad esempio la gravitazione come una proprietà di uno spazio troppo esteso per
poter essere visualizzato. Analogamente, la matematica può trattare e “conoscere”
fenomeni misteriosi come l’elettricità, le onde radio e la luce, per i quali ogni
immagine fisica è principalmente speculativa e sempre inadeguata. Le astrazioni,
ossia le formule matematiche, sono i fatti più significativi e più utili che
possediamo su questi fenomeni.
L’astrazione di aspetti quantitativi da fenomeni fisici rivela spesso relazioni
insospettate perché le leggi quantitative risultano identiche per fenomeni
apparentemente privi di relazione fra loro. Quest’affermazione è illustrata come
meglio non si potrebbe dalla scoperta, a opera di Maxwell, che le onde
elettromagnetiche e le onde luminose soddisfano le stesse equazioni differenziali.
Tale scoperta suggerì immediatamente che luce e onde elettromagnetiche
posseggono le medesime proprietà fisiche, una relazione confermata da allora
migliaia di volte. Come scrisse Whitehead:
Nulla è più impressionante del fatto che man mano che la matematica si ritirò in misura
crescente nelle regioni superiori di un pensiero astratto sempre più spinto, tornò alla Terra con
un’importanza sempre crescente nell’analisi del fatto concreto... È ora pienamente stabilito il
paradosso secondo cui le astrazioni più spinte sono le vere armi con cui controllare il nostro
pensiero del fatto concreto.
Coloro che, ammettendo il paradosso, deplorano ancora il fatto che, per
conseguire il successo, le scienze fisiche debbano pagare il prezzo dell’astrattezza
matematica, devono riconsiderare che cosa vorrebbero ricercare in un’esposizione
scientifica della natura del mondo fisico. La risposta di Eddington è che una
conoscenza delle relazioni e della struttura matematiche è tutto ciò che la scienza
della fisica può darci. E Jeans sostenne che la descrizione matematica
dell’universo è la realtà ultima. Le immagini e i modelli che usiamo come ausilio
per la comprensione segnano, secondo lui, un allontanamento dalla realtà. Esse
sono simili a “immagini scolpite di uno spirito.” Noi andiamo oltre la formula
matematica solo a nostro rischio.
Abbiamo discusso la matematica come un metodo, un metodo applicato allo
studio di relazioni quantitative e spaziali e a concetti derivati da questi campi
originali di investigazione. La provincia della matematica non è più però
nettamente delimitata. La creazione della geometria non euclidea, come abbiamo
visto, liberò il matematico dalla servitù di dover produrre verità e lo lasciò libero
di adottare assiomi e di investigare idee che potrebbero non avere alcuna utilità
apparente nel padroneggiare o comprendere il mondo fisico. Il matematico è
pertanto costretto a chiedersi che cosa guidi la sua scelta dell’argomento e che
406
cosa motivi la sua attività. Che cosa distingue il suo lavoro da enigmi a buon
mercato, da cruciverba o addirittura da sciocchezze gratuite? (Il lettore che
volesse rispondere immediatamente a questa domanda potrebbe essere un po’”
troppo frettoloso.) Da un centinaio d’anni circa i matematici sono infatti pervenuti
a riconoscere ciò che era stato sentito e asserito dai greci ma che era stato perso di
vista nei secoli intercorsi: la matematica è un’arte e il lavoro matematico deve
soddisfare richieste estetiche.
Molte persone indubbiamente sentono che l’inclusione della matematica fra le
arti è ingiustificata. L’obiezione più forte è che la matematica non ha alcun
significato emotivo. Quest’argomentazione non tiene conto naturalmente dei
sentimenti di avversione e di reazione che la matematica induce in talune persone.
Essa sottovaluta anche la gioia provata dai creatori della matematica quando
riescono a formulare le loro idee e a costruire dimostrazioni abili e geniali.
Perfino lo studente della matematica elementare prova soddisfazione quando
riesce a verificare esercizi stereotipi e quando dà prova di abilità nel vedere luce,
significato e ordine là dove prima c’erano oscurità e confusione.
È vero nondimeno che la matematica si appella in generale alle emozioni meno
della musica, della pittura e della poesia. E una persona è logicamente in grado di
insistere sul fatto che la funzione primaria dell’arte è quella di dare origine a
emozioni e di eccitare sentimenti. Secondo questo concetto d’arte, però, una
fotografia drammatica che afferri il nostro cuore sarebbe considerata più artistica
di numerosi grandi dipinti; la pittura astratta e gran parte della scultura
contemporanea sarebbero probabilmente ignorate e sussisterebbero dubbi sulla
condizione dell’architettura e della ceramica. Le nature morte di Picasso, studi
impressionistici, come quelli di Monet, di effetti atmosferici e luminosi, l’opera di
Seurat e di Cézanne e le “composizioni” dei cubisti non soddisferebbero neppur
essi le richieste citate. Di fatto l’arte pura dei tempi moderni pone l’accento
sull’aspetto teorico e formale della pittura, sull’uso della linea e della forma e su
problemi tecnici. Tali opere si rivolgono molto di più all’intelletto che alle
emozioni (si veda la tavola XXVII). Mentre la maggior parte dei dipinti del
Rinascimento, nonostante gli studi intellettuali implicati nella loro composizione,
agiscono direttamente sulle emozioni, le opere di artisti moderni devono
innanzitutto essere studiate, La richiesta che un’arte debba soprattutto eccitare le
emozioni sembra oggi particolarmente inadeguata.
Un’arte deve fornire uno sfogo all’istinto creativo dell’uomo. Uno sguardo
all’indietro allo sviluppo del nostro sistema numerico, ai perfezionamenti dei
metodi di calcolo, all’origine e all’espansione di nuovi settori ispirati dai problemi
dell’arte, delle scienze e della filosofia e ai perfezionamenti in standard di
ragionamento rigoroso dimostra che i matematici creano. La determinazione delle
asserzioni precise contenute nei teoremi, e le dimostrazioni che stabiliscono quei
teoremi, sono atti creativi. Come nelle arti, ogni particolare dell’opera finale non è
scoperto ma composto. Il processo creativo deve ovviamente produrre un’opera
che possegga disegno, armonia e bellezza. Queste qualità sono presenti anche
nella creazione matematica. Il disegno implica la presenza di modelli strutturali,
407
di ordine, simmetria ed equilibrio. Molti teoremi matematici rivelano appunto un
tale disegno. Consideriamo, ad esempio, il seguente teorema di geometria piana;
fra tutti i poligoni di n lati aventi la stessa area, il poligono regolare di n lati, ossia
quello di lati uguali e angoli uguali, ha il perimetro minore.
La matematica ci dice dunque che un poligono regolare richiede un perimetro
minore rispetto a un poligono irregolare avente la stessa area e lo stesso numero
di lati. E ora, fra i poligoni regolari con un numero di lati diverso ma con
superficie uguale, quale ha il perimetro minore? La risposta è che fra i poligoni
regolari aventi la medesima area ha il perimetro minore quello che ha il maggior
numero di lati. Possiamo formare, ovviamente, poligoni regolari con un numero
qualsiasi di lati. Quale figura richiede allora il perimetro minimo per una
determinata superficie? Anche qui un senso intuitivo della costruzione razionale
ci suggerisce la risposta. Man mano che il numero di lati di un poligono regolare
aumenta, la figura si approssima a quella del cerchio. Il cerchio dovrebbe
comunque richiedere il perimetro minore. È questo, appunto, un teorema
matematico. Tali teoremi sono l’essenza dell’ordine e della razionalità.
La costruzione razionale in matematica non è puramente accidentale. Essa è
necessariamente presente in ogni struttura logica. Soltanto attraverso una
costruzione razionale consapevole Euclide riuscì a produrre l’intero sviluppo della
geometria euclidea dai pochi assiomi adottati in principio.
Un esempio eccellente di costruzione razionale deliberata usata come principio
nella creazione matematica può essere trovato nella costruzione di geometrie a più
di due dimensioni. Poiché x2 + y
2 = r
2 è l’equazione di un cerchio in un piano e x
2
+ y2 + z
2 = r
2 è l’equazione di una sfera nello spazio tridimensionale, x
2 + y
2 + z
2 +
w2 = r
2 è considerata l’equazione di una ipersfera nello spazio
quadridimensionale. Così il disegno strutturale della geometria analitica
bidimensionale e tridimensionale è trasferito intenzionalmente in dimensioni
superiori.
In ogni creazione artistica la relazione delle parti 1’una all’altra e delle parti al
tutto dev’essere armonica. Nelle creazioni matematiche l’armonia è in parte
intellettuale, sotto forma di coerenza logica. I teoremi di un qualsiasi sistema
matematico devono essere in completo accordo l’uno con l’altro. Ci sono però
anche altre armonie. L’intera struttura della geometria euclidea è in armonia con
la matematica del numero. Per mezzo di coordinate è possibile interpretare
concetti e teoremi geometrici algebricamente, e inversamente talune equazioni
algebriche hanno un’interpretazione geometrica. Le due creazioni sono pertanto
armoniche l’una rispetto all’altra.
I principali temi matematici sono stati armonizzati l’uno con l’altro. Nella
nostra breve rassegna abbiamo considerato quattro branche distinte della
geometria: la geometria euclidea, la geometria proiettiva e due geometrie non
euclidee. Al nostro esame, questi settori sono apparsi distinti e in alcuni casi in
contraddizione fra loro. Uno fra i contributi matematici più soddisfacenti degli
ultimi tempi ha nondimeno offerto la dimostrazione del fatto che è possibile
erigere una geometria proiettiva su una base assiomatica in modo tale che i
408
teoremi delle altre tre geometrie risultino come teoremi specializzati della
geometria proiettiva. In altri termini, il contenuto di tutt’e quattro le geometrie è
ora incorporato in un tutto armonico.
La matematica ci offre ancora un altro genere di armonia. Il piano che la
matematica o impone alla natura o rivela in natura sostituisce il disordine con un
ordine armonico. È questo il contributo essenziale di Tolomeo, Copernico,
Newton ed Einstein.
È ovviamente del tutto possibile che un’opera creativa possegga tutti i caratteri
formali di un’opera d’arte senza nondimeno appartenere a tale categoria. Molti fra
coloro che hanno ascoltato musica moderna o che hanno osservato un quadro
moderno riferirebbero volentieri tale affermazione all’arte che viene prodotta
oggi. La verifica definitiva di un’opera d’arte è il suo contributo al piacere
estetico o alla bellezza. Fortunatamente, o purtroppo, si tratta di una verifica
soggettiva, la quale dipende dal grado di cultura in un settore specifico. Alla
domanda se la matematica possegga o no una sua bellezza può esser data perciò
una risposta solo da coloro che hanno una cultura in questa disciplina.
Tavola 16 Pablo Picasso, Tre musicisti (1921). A.E. Gallatin
Collection, Museum of Art, Filadelfia
409
Di fatto, la ricerca di un piacere estetico ha sempre influenzato e promosso lo
sviluppo della matematica. Da una grande quantità di temi e di modelli che si
presentano al matematico, questi sceglie quelli che soddisfano un suo consapevole
o inconsapevole senso della bellezza. I greci del periodo classico investigarono la
geometria perché le sue forme e la sua struttura logica erano belle ai loro occhi.
Copernico, come abbiamo visto, sostenne la nuova concezione dei moti planetari
perché l’aspetto matematico della sua teoria gli diede un piacere estetico; Anche
Keplero apprezzò la teoria eliocentrica per questa ragione. “L’ho sentita vera nel
profondo della mia anima”, egli scrisse, “e ne contemplo la bellezza con un
piacere incredibile e affascinante.” Ispirato dall’opera di Copernico, anche
Keplero spese la maggior parte della sua vita nella ricerca di leggi matematiche
esteticamente soddisfacenti. Anche Newton si occupò con impegno della bellezza
come sanzione ultima della sua opera matematica e scientifica. Egli parla di Dio
come del garante della preservazione dell’armonia e della bellezza cosmica.
Possiamo trovare osservazioni e opinioni simili negli scritti della maggior parte
dei matematici.
Di fatto il senso estetico del vero matematico è più esigente della moglie più
bisbetica. Molte volte la ricerca di nuove dimostrazioni di teoremi già
correttamente stabiliti è intrapresa semplicemente perché le dimostrazioni
esistenti non hanno alcun fascino estetico. Ci sono dimostrazioni matematiche che
sono semplicemente convincenti; per usare un’espressione del famoso fisico
matematico Lord Raleigh, esse “costringono all’assenso.” Ci sono altre
dimostrazioni, le quali “allettano e affascinano l’intelletto. Esse suscitano gioia e
un desiderio intenso di dire: così sia, così sia.” Una dimostrazione eseguita con
eleganza è un poema in tutto tranne che nella forma in cui è scritta.
Lo studio, affascinante e irresistibile, di problemi matematici offre
assorbimento mentale, pace dell’animo in mezzo a infinite sollecitazioni, quiete
nell’attività, lotta senza conflitto, “rifugio dall’urgere di fatti contingenti”, e
quella sorta di bellezza che le montagne immutabili presentano ai sensi provati
dall’attuale caleidoscopio di eventi.
L’attrattiva offerta dal distacco e dall’obiettività del ragionamento matematico
e descritta superbamente da Bertrand Russell:
Lontano dalle passioni umane, lontano anche dai fatti miserandi della natura, le generazioni
hanno creato gradualmente un cosmo ordinato, dove il pensiero puro può abitare come nella
dimora naturale e dove almeno uno dei nostri impulsi più nobili può sfuggire dal tetro esilio del
mondo attuale.
Anche taluni profani si sono convinti del carattere artistico di opere
matematiche. Thoreau scrisse: “Le formulazioni più distinte e più belle di ogni
verità devono assumere infine la forma matematica.” Il lettore che rimane
indifferente a queste testimonianze può trovare almeno più intelligibili gli
atteggiamenti e gli sforzi dei matematici sapendo che questi uomini hanno
ricercato la bellezza.
410
Dall’analisi che precede risulta che i criteri usuali di un’arte sono soddisfatti
dalla matematica. Molte persone si rifiutano nondimeno di riconoscere alla
matematica tale condizione, finendo però col riconoscergliela inconsapevolmente.
Nessuno parla di un talento o di una dote naturale per la storia o per l’economia e
neppure per la biologia. Quasi tutti parlano invece di un talento o di una genialità
per la matematica, fosse pure per dolersi della sua assenza. L’abilità matematica
viene dunque classificata insieme con l’abilità artistica.
Ci spiace di non poter proseguire oltre la nostra investigazione dell’argomento
natura e influenze della matematica. Se il tempo ci consentisse l’investigazione
dei settori più avanzati della matematica, potremmo esplorare un numero molto
maggiore di contributi della matematica alla nostra cultura. Purtroppo per
padroneggiare le idee matematiche ci vogliono anni di studio e non esiste alcuna
via regia che accorci materialmente il processo. Speriamo che il materiale
presentato qui abbia almeno dissipato l’impressione che la matematica sia un libro
chiuso, una storia raccontata in epoca greca e un capitolo secondario nella storia
dell’umanità e che abbia permesso di comprendere in qualche misura la posizione
che la matematica detiene nella nostra civiltà e nella nostra cultura.
La matematica non risolve purtroppo tutti i problemi affrontati dall’uomo. La
ragione, il metodo assiomatico e l’analisi quantitativa non forniscono un
approccio a tutti gli aspetti della vita. L’artista può usare la prospettiva
matematica ma una prospettiva corretta non è in sé un’arte. Benché i pensatori
settecenteschi fossero certi di poter scoprire le leggi della società e di risolvere
tutti i problemi sociali per mezzo della matematica, l’ordine sociale è purtroppo
ancor più confuso oggi di quanto non fosse nel Settecento. Né raccomanderemmo
la matematica come mezzo per risolvere i problemi degli idilli e del matrimonio,
anche se in un recente simposio ci sono stati antropologi che hanno caldeggiato
l’applicazione della matematica a questi problemi. Il campo d’azione della
matematica è limitato e la ragione per cui esso è limitato è espressa concisamente
nell’espressione: l’uomo è un animale razionale. La sua razionalità è una semplice
qualificazione della sua animalità. E poiché i desideri, le emozioni e gli istinti
dell’uomo sono parte della sua natura animale, e spesso rimangono non
soddisfatti da tale ragione, e talvolta addirittura le si oppongono, la sola ragione
non sarà sufficiente a guidare e a controllare tutte le attività dell’uomo. Queste
osservazioni non intendono ovviamente avvalorare la tesi che l’applicazione della
ragione agli affari dell’uomo abbia ormai raggiunto il punto di saturazione.
La matematica è variamente descritta come un corpo di conoscenza, come uno
strumento pratico, come una pietra angolare della filosofia, come la perfezione del
metodo logico, come la chiave alla conoscenza della natura, come la realtà della
natura, come un gioco intellettuale, come un’avventura nel campo della ragione e
come un’esperienza estetica. La nostra rassegna della matematica dovrebbe avere
indicato i motivi su cui si fondano tali descrizioni. Quando consideriamo il
numero di campi con i quali la matematica ha contatti e il numero di quelli sui
quali ci dà già una padronanza, totale o parziale, siamo tentati di definirla un
metodo di approccio all’universo delle esperienze fisiche, mentali ed emotive.
411
Essa è il distillato più puro che il pensiero esatto abbia estratto dagli sforzi
dell’uomo per comprendere la natura, per impartire ordine alla confusione di
eventi che si verificano nel mondo fisico, per creare bellezza e per soddisfare la
naturale inclinazione del cervello sano a esercitarsi. Noi, vivendo in una civiltà
che si distingue primariamente per realizzazioni dovute alla matematica, siamo in
una posizione che ci consente di testimoniare l’esattezza di queste affermazioni.
412
Bibliografia scelta
ARMITAGE, ANGUS, Copernicus, W. W. Norton, New York 1938
– Sun, Stand Thou Still, Henry Schuman, New York 1947; brossura col titolo
The World of Copernicus, New American Library, New York 1951 (trad. it.
Niccolò Copernico e l’astronomia moderna, Einaudi, Torino 1956)
BALL, W. W. ROUSE, A Short Account of the History of Mathematics, Macmillan,
New York, 4a ed. 1908; Dover Publications, New York 1960
BECKER, CARL L., The Declaration of Independence, Harcourt, Brace, New York
1922
– The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers, Yale University
Press, New Haven 1932
BELL, ARTHUR E., Newtonian Science, Edward Arnold, London 1961
BELL, ERIC T., Men of Mathematics, Simon & Schuster, New York 1937; brossura
ivi 1961 (trad. it. I grandi matematici, Sansoni, Firenze 1966)
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418
Elenco delle tavole
I Prassitele, Afrodite di Cnido
II Mirone, Discobolo
III Augusto di Prima Porta
IV Il Partenone
V Le orbite dei pianeti determinate alai cinque solidi regolari (Keplero)
VI Leonardo, Le proporzioni della figura umana
VII Mosaico protocristiano, Abramo con angeli
VIII Simone Martini, Annunciazione
IX Duccio da Boninsegna, La Maestà
X Duccio da Boninsegna, L’Ultima Cena
XI Giotto, L’accertamento delle stimmale
XII Giotto, Il Festino di Erode
XIII Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione
XIV Masaccio, Il tributo
XV Paolo Uccello, dal Miracolo dell’ostia profanata
XVI Paolo Uccello, Studio prospettico di un calice
XVII Piero della Francesca, Flagellazione di Gesù
XVIII Piero della Francesca, Resurrezione di Gesù
XIX Leonardo, Studio per l’Adorazione dei Magi
XX Leonardo, Cenacolo
XXI Sandro Botticelli, Allegoria della Calunnia
XXII Andrea Mantegna, San Giacomo condotto al martirio
XXIII Raffaello, Scuola d’Atene
XXIV Tintoretto, Trafugamento del corpo di San Marco
XXV Dürer, San Girolamo nel suo studio
XXVI William Hogarth, Falsa prospettiva
XXVII Pablo Picasso, Tre musicisti
419
Sommario Prefazione .................................................................................................................................................. 5
I. Introduzione. Concezioni vere e false ................................................................................................. 9
II. Matematica ed empiria ...................................................................................................................... 17
III. La nascita dello spirito matematico ................................................................................................... 26
IV. Gli Elementi di Euclide ................................................................................................................. 40
V. Col metro fra le stelle ........................................................................................................................ 56
VI. La natura acquista la ragione ........................................................................................................ 67
VII. Intermezzo .................................................................................................................................... 79
VIII. La rinascita della spirito matematico ............................................................................................ 86
IX. L’armonia del mondo .................................................................................................................... 95
X. Pittura e prospettiva ........................................................................................................................ 109
XI. Una scienza figlia dell’arte: la geometria proiettiva ................................................................... 134
XII. Discorso sul metodo .................................................................................................................... 147
XIII. L’approccio quantitativo alla natura ........................................................................................... 166
XIV. La deduzione di leggi universali ............................................................................................. 178
XV. Fermati attimo fuggente: il calcolo infinitesimale ...................................................................... 193
XVI. L’influenza newtoniana: scienza e filosofia ............................................................................ 211
XVII. L’influenza newtoniana: la religione ...................................................................................... 230
XVIII. L’influenza newtoniana: letteratura ed estetica ...................................................................... 242
XIX. Il seno del sol maggiore .......................................................................................................... 255
XX. La padronanza delle onde dell’etere ........................................................................................... 270
XXI. La scienza della natura umana ................................................................................................ 285
XXII. La teoria matematica dell’ignoranza: l’approccio statistico allo studio dell’uomo ................ 300
XXIII. Predizione e probabilità .......................................................................................................... 316
XXIV. Il nostro universo disordinato: la concezione statistica della natura ....................................... 330
XXV. I paradossi dell’infinito ........................................................................................................... 346
XXVI. Nuove geometrie, nuovi mondi ............................................................................................... 358
XXVII. La teoria della relatività ...................................................................................................... 377
XXVIII. Matematica: metodo e arte .................................................................................................. 395
Bibliografia scelta ................................................................................................................................... 412