Note e discussioni
La memoria dei memorialistidi Giovanni Falaschi
In un’antologia che ho curato di recente per una collana scolastica degli Editori Riuniti (1984) ho sintetizzato il decorso molto accidentato della memorialistica partigiana in questi termini: alla memorialistica della prima ondata, successiva alla Liberazione, sarebbe succeduta gradualmente una tendenza in cui le testimonianze sono più orientate dal punto di vista storiografico e, in particolare, gli autori sono più attenti al contenuto oggettivo della loro ricostruzione, e ancora, in poche parole, tengono più presenti anche le testimonianze altrui e si appoggiano su documenti. Ovviamente io volevo esprimere una tendenza generale, senza negare l’esistenza, magari anche nella memorialistica della prima ondata, di testimonianze fondate sul ricordo personale e, in più, esibenti una documentazione di natura, per esempio, politi- co-militare. In sostanza, io ritenevo opportuno affermare una cosa banale, non perché rivolgendosi agli studenti medi si devono dire delle cose banali, ma al contrario: perché rivolgendomi a lettori che supponevo ignari di questo problema dovevo dare in modo sintetico e preciso l’informazione che ritenevo essenziale essi dovessero possedere per rendersi conto di un fenomeno nelle sue linee generali. E proprio in termini generali scrivevo che gli autori di testimonianze partigiane più vicini a noi “sono più attenti agli aspetti documentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avveni
menti di cui furono in qualche modo protagonisti e perciò si sentono in dovere di precisare, confutare o confermare le affermazioni altrui” . Non sono così ingenuo da ritenere che la memorialistica recente sia stata scritta solo per confutare o correggere quanto testimoniato da altri, né tanto meno che prima di esporre un fatto il narratore sia andato: a. a controllare tutti i documenti eventualmente esistenti sul fatto stesso, t b. a leggersi tutte le ricostruzioni storiche di esso e, naturalmente, del suo contesto. Citavo, come uno dei testi significativi di questa attenzione ai documenti, le Lettere a Milano di G. Amendola (1973), ma anche Da Empoli a Genova di R. Scappini (1981). Tutto il mio discorso, e in particolare l’interpretazione di quel libro di Amendola, non sono piaciuti a G. Grassi il quale, nell’ultimo numero di questa rivista (156) ha citato, contro le mie opinioni, un passo dall’introduzione di Amendola a quel libro del 1973: “La rievocazione degli avvenimenti che ho vissuto — scriveva Amendola — è fondata sui documenti ritrovati e sui miei ricordi senza che, tranne rare eccezioni, io abbia fatto alcuno sforzo particolare per controllare i ricordi e confrontarli con altre fonti. Non ho perciò utilizzato alcuna nota bibliografica, in appoggio a questa o a quella versione dei fatti da me sostenuta. Potrei facilmente disporre di numerose pezze di appoggio fornite dai libri. Ma non sarebbe una documentazione bibliografica esauriente, e criticamente controllata. Ho preferito per-
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ciò rinunciarvi del tutto, anche per non appesantire il racconto con un ingombrante apparato di note” (il passo in corsivo non è citato dal Grassi). In sostanza, conclude il Grassi con una certa fretta, proprio Amendola, che io citavo come esempio di una memorialistica diversa da quella caratteristica della prima ondata, mi smentisce palesemente. In realtà, ammesso e non concesso che io attribuissi a tutte le memorie più recenti quei caratteri di perfetta documentazione, confutazione di tesi storiografiche e cosi via, Amendola mi dà perfettamente ragione perché:
1. parla di “documenti ritrovati”;2. egli stesso è sicuro che ciò che raccon
ta nel libro potrebbe essere facilmente confortato da ciò che è stato scritto in altri libri;
3. dice di aver rinunciato a documentare i fatti con altre fonti non perché quelle fonti gli sfuggano, ma perché non è sicuro che le pezze su cui potrebbe appoggiarsi siano tutte le pezze disponibili;
4. dichiara di avervi rinunciato per motivi materiali, evidentemente perché, ben cosciente che il proprio lavoro era di enorme mole (ben 763 pagine), non intende appesantirlo ulteriormente. Con questo, Amendola vuol dire appunto che avrebbe potuto appesantire il testo, cioè avrebbe potuto citare numerose, anche se non tutte, le testimonianze altrui, ma non lo ha fatto. E invece
5. Amendola lo ha fatto: nella nota bibliografica in appendice al volume, e che è lunga quasi sette pagine, Amendola cita le sue fonti bibliografiche pur avendo rinunciato a menzionarle tutte nelle note a piè di pagina. Ancora di più:
6. in coerenza con quanto aveva scritto nell’introduzione avverte in questa bibliografia che essa costituisce “L’elenco di una parte dei libri da lui letti sull’argomento, e che sono, perciò, entrati inevitabilmente a concorrere, assieme ai suoi ricordi, nel dare degli eventi cui ha partecipato una certa rappresentazione” .
7. Le citazioni vanno fatte sempre per intero. Poco sotto il passo dell’introduzione amendoliana citata dal Grassi l’autore continuava: “Nel corso degli anni ho letto, naturalmente, molto di quello che è stato pubblicato sulla storia della resistenza. Non posso perciò negare che nel rievocare dal fondo della memoria i ricordi di quei giorni, di quei fatti, di quelle persone [...] io abbia utilizzato, inavvertitamente, i frutti delle letture compiute nel corso degli anni” . In conclusione: se dovessi scegliere un’altra volta un testo fondamentale per esemplificare il rapporto fra memoria personale e fonte documentaria, e magari anche ricostruzione storiografica altrui, credo che sceglierei di nuovo questo di Amendola; e la sua rappresentatività in questo senso spero sia chiara a tutti dopo quanto ho detto sopra.
Voglio tuttavia cogliere l’occasione per discutere in termini generali, ma non generici, la questione della natura delle fonti resistenziali costituite da memorie, e quella della loro utilizzazione da parte degli storici. Ringrazio quindi il Grassi per avermene dato l’occasione e trovo che sia un suo merito quello di aver fatto la pur breve rassegna della memorialistica uscita negli ultimissimi anni, perché un problema della memorialistica come genere esiste. Non pretendo in questa sede, e per questa occasione, di risolvere il problema, ma solo di impostarlo articolando quanto avevo scritto sinteticamente e che ha suscitato il dissenso del Grassi. Mi basta, come direbbe Fenoglio, fissare i paracarri; poi sarà fatta la strada.
Il fatto straordinario
Alle origini della testimonianza scritta sta uno scatto automatico per cui il raccontato- re, protagonista o testimone di fatti straordinari, vuole che rimanga memoria di quei medesimi fatti e di lui stesso che li ha vissuti. I memorialisti della Resistenza possono essere
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accomunati in questo senso agli antichi cronisti e agli storici che presero la penna per raccontare i fatti accaduti nella loro vita e che per la loro eccezionalità erano degni di essere conosciuti anche dai posteri. Io sono un lettore di testi storici e di cronache del Ri- nascimento: vi leggo il passaggio degli eserciti nemici nel territorio dello Stato cui appartiene lo storico, la visita degli ambasciatori, gli scontri tra fazioni opposte, i fatti del contado, il diffondersi di voci paurose e incontrollabili, accadimenti di fatti naturali inusuali: la neve d’aprile, i fiumi che ghiacciano, delitti compiuti da misteriosi personaggi stranieri. E fatti privati: la morte dei congiunti, l’andata in guerra, l’inizio del lavoro, i matrimoni, le nascite. Tutti gli storici scelgono delle date, cioè periodizzano, e spesso scelgono date traumatiche, come quelle che hanno fatto registrare i più profondi cambiamenti nello Stato. A Firenze: il 1492 (anno della morte di Lorenzo), il 1527 (anno dell’inizio dell’assedio della città), a Roma, ancora il 1527 (il Sacco). I testimoni della Resistenza raccontano i fatti accaduti nel periodo del grande rivolgimento dello Stato nazionale di questo secolo, il 1943-45; scelgono dunque anch’essi una data traumatica. Sono stati gli storici contemporanei studiosi della Resistenza che non hanno dato profondità e spessore a queste memorie, non le hanno viste, cioè, per quelle che sono: testimonianze nate per un bisogno automatico di documentare fatti eccezionali, straordinari, e testimonianze che segnano la presenza umana in mezzo alla catastrofe della guerra. Testimonianze, solo per questo, razionali e pedagogiche, accomunabili alle antiche forme e generi letterari con cui le comunità trasmettevano alle generazioni future le proprie conoscenze storiche, dalle fiabe al racconto orale, alle cronache di ogni livello e tipo. Sono stati forse gli storici contemporanei che hanno perduto la memoria e, insieme, il senso profondo di questi documenti. Gli scrittori hanno fatto di meglio. Fenoglio è riuscito a capire
che la propria esperienza somigliava all’esperienza bellica narrata dai poemi epici e che sta a fondamento delle varie identità nazionali. Per questo ha tentato la costruzione del romanzo epico; c’è riuscito per quanto poteva riuscirgli avendo a disposizione una lingua così complessa come quella italiana. (Ma questo è un altro discorso perché non è di Fenoglio che devo parlare).
Chi frequenta gli istituti storici della Resistenza avrà notato che i libri più polverosi sono le cronache stese a caldo subito dopo la guerra. Gli storici direi che ne diffidano perché si fidano di più dei documenti politici, sindacali e militari che non delle testimonianze. È questo un modo vecchio di fare storia perché si ritiene che il documento militare o politico sia più oggettivo, e perciò più veritiero, della testimonianza scritta con un linguaggio comune da un protagonista; ma in realtà il documento politico o il resoconto militare danno dei fatti un’interpretazione che è insita nello stesso linguaggio politico e sindacale con cui quei fatti sono trasmessi, cosicché attraverso i resoconti militari e i documenti politici si è fatta storia soprattutto dei fatti militari e dei raggruppamenti politici attivi nella Resistenza. Certo qualche eccezione non manca, ma come sempre serve a confermare la regola.
Voglio muovermi un’obiezione e apro a caso un bel libro di memorie, Banditi, di Pietro Chiodi. Alla p. 14 della ristampa ei- naudiana del 1975, sotto la data del 27 luglio 1943, leggo: “È una magnifica giornata. Si respira a pieni polmoni. Sono al Liceo e guardo dalla vetrata il giardino. Non mi ero mai accorto che il Liceo fosse così splendente e pieno di luce. Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere verso di Lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio” . Che senso ha per uno storico que-
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sto pezzo? Al massimo che il professor Pietro Chiodi, insegnante al Liceo di Alba, di anni (mi pare) ventotto, scrive patria con la maiuscola (educazione “risorgimentale”), è antifascista, ha un senso dell’impegno civile prima di tutto come fatto etico. Per la storia di Chiodi è già qualcosa. Ma mi voglio fermare su un particolare che appare trascurabile, ed è contenuto nelle prime righe del passo. Dunque: la mattina del 27 luglio 1943 un insegnante di provincia, ma non per questo è un provinciale, guarda il giardino del liceo dove insegna e lo trova “splendente e pieno di luce” come non mai. Il particolare appare del tutto trascurabile, non interessante né per la piccola né per la grande storia. E invece ha un grande significato, perché esistono delle date in cui accade qualcosa che ci fa sembrare che il mondo giri su altri cardini e che all’improvviso si aprano davanti agli uomini delle strade mai battute; accorgersene significa che il desiderio di esse era stato rimosso, e le cose, i luoghi e le persone appaiono all’improvviso sotto una luce diversa, in questo caso migliore. Credo che questo accada soprattutto da giovani. In quelle due righe di Chiodi c’è secondo me l’inizio del cammino compiuto da una generazione verso la propria maturità. Il vedere che fa Chiodi il giardino del liceo sotto una nuova luce dev’essere assimilato alla scoperta dell’ambiente caratteristica della Resistenza; ha scritto giustamente Domenico Tarizzo: “Un popolo di ciechi ha cominciato a vedere, gli italiani scoprono la montagna, il bosco, il fondovalle”. Che le cose abbiano una luce nuova è ovviamente una conseguenza della prospettiva; così quell’innocente dettaglio con cui si iniziava il passo contiene proprio il senso della nuova esperienza. Che sia necessario anche un mutamento di prospettiva da parte degli storici della Resistenza?
Sotto la data del 10 novembre 1943, il partigiano ligure, avvocato ebreo, Pino Levi Ca- vaglione, attivo nei Castelli Romani, annota di aver dormito con tre contadini che puzza- vano (o, come scrive lui, “che non facevano
certo il bagno ogni giorno e forse neppure ogni mese”); annota anche che non ha potuto farne a meno, ma polemizza col suo compagno Fabio che non riesce ad adattarsi alla nuova vita di partigiano. Che importanza si deve annettere a questa pagina di diario? Secondo me molta, ma il diario, fatto pubblicare da Pavese per la prima volta nel 1945, è rimasto inutilizzato dagli storici di problemi sociali. Invece di diari come questo ha bisogno la storia dei rapporti di classe durante la Resistenza, perché non ci si può limitare ai soli documenti di natura sindacale e politica. Studiare queste memorie significa scoprire le trasformazioni individuali, le reazioni dei giovani intellettuali borghesi o piccoli borghesi di fronte al mondo contadino o a quello operaio. È in questa chiave che vanno lette le parti in cui gli stessi autori annotano che i genitori non potrebbero rinoscere in loro il ragazzo borghese d’un tempo. Il fatto è che della Resistenza si è studiato di più il conflitto militare (ed era ovvio) e i conflitti politici che non quelli sociali, e quando si sono studiati i conflitti sociali si è inteso vedere, all’occor- renza, lo scontro di classe che passava per fascismo/antifascismo ma non la diversificazione di classe alPinterno della Resistenza; e quando si è fatto anche questo si è considerato, come tavole di riscontro dei conflitti sociali fra antifascisti, i programmi politici elaborati per l’emancipazione delle classi subalterne. Questa almeno è la linea di tendenza, e in questo consiste la stragrande maggioranza del materiale di studio sui rapporti di classe.
Sotto la data 10 dicembre 1943 Emanuele Artom annota: “Mi sono comprato un bacile di alluminio che costa quaranta lire e che mi servirà per tre usi: secchio per attingere acqua dal pozzo, catino per lavarmi e catino per lavare gli indumenti. Mi sono già lavato tre fazzoletti, lavoro in cui riesco piuttosto bene” . Non è il diario di un marito d’altri tempi lasciato dalla moglie, né quello di uno studente che abita una stanza in affitto in città. È il diario d’un commissario politico giel-
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lista, ebreo, morto sotto le torture. Eppure il suo diario è pieno di annotazioni che superficialmente potrebbero apparire trascurabili. Prende la penna in mano e ci racconta minutamente quello che sta facendo, e mentre scrive, al freddo, si mette a pensare ai topi che sono in casa, quindi alle trappole che non ha messo, e ci spiega le ragioni per cui non le ha messe, con molta precisione. Annota un’altra volta che gli è caduta la secchia nel pozzo, che non sapeva accendere il fuoco e neppure un fiammifero. Sono annotazioni prive di carattere storico? Sono minutissimi frammenti di una biografia che sarebbe altrimenti trascurabile se non si sapesse, dallo stesso diario, dei rapporti politici tenuti dall’autore? Queste osservazioni minute acquistano un grande significato se le rivediamo ancora una volta come risultato di un impatto duro fra un giovane borghese e gli operai comunisti in cui lo stesso si trovò ad agire. Era un conflitto di abitudini e di capacità (annota Artom: “Questi comunisti sono molto più pratici e industriosi di noi: oggi io ho lasciato la secchia in fondo al pozzo; questo ai comunisti non capita perché sono capaci di lavorare con le mani”), di cultura e di mentalità. Alla luce di questo diario e di altri simili il blocco costituito da quello che comunemente si chiama movimento partigiano si disarticola e ci si rende conto bene che gli esiti politici del dopoguerra hanno anche la loro radice dentro il movimento resistenziale (o meglio: risultano molto più chiari i termini delle differenze interne al movimento partigiano che già si conoscono da tempo). Questo della natura di fonte storica delle memorie più antiche, anche ovviamente ben oltre le indicazioni che do qui, mi pare una questione essenziale.
Le memorie: letteratura o fonte storica?
Negli anni sessanta, in uno scambio di opinioni fra scrittori sulle pagine di un quotidia
no (che per questa occasione non ho avuto il tempo di rileggere), se ben mi ricordo Calvino sosteneva che il nostro maggiore scrittore è Galileo. Cassola gli rispondeva che invece è Dante. Certamente aveva ragione Cassola, ma la sua risposta era in un certo modo troppo facile, perché la preferenza espressa da Calvino conteneva un atteggiamento nuovo, più sottile e moderno: letteratura non è soltanto fiction ma è un risultato artistico che si raggiunge, quando si raggiunge, occupandosi anche di astronomia (e quindi di storia politico-militare, di zoologia, di psicanalisi ecc.). Grandi scrittori sono, oltre a Galileo, Machiavelli e Guicciardini. Anche questa può sembrare una banalità, ma non lo è (o perlomeno non è inutile richiamarla in questa occasione) se è vera la mia impressione e cioè che gli storici si sono tenuti più lontani del dovuto da molta memorialistica proprio per il forte contenuto emotivo che l’ha ispirata (mi riferisco soprattutto a quella della prima ondata, ma non soltanto a quella). In sostanza mi pare che molti ragionino in questo modo: se un memorialista riporta dati (di qualunque natura: politica, militare, sindacale), e ancor più se riproduce documenti, allora costituisce una buona fonte per lo storico, ma se ricostruisce sul filo della memoria, e se, in definitiva, ci dà la sua immagine privata dei fatti, allora è uno scrittore: così come è uno scrittore se parla di fatti minuti, che sembrano non interessare la “vera” storia, che è quella degli avvenimenti d’interesse non solo personale, dato che generalmente gli storici si interessano dei minuti fatti personali quando si riferiscono a grandi personaggi. Allora la secchia caduta nel pozzo al maldestro Artom, il suo non saper accendere il fuoco, i fazzoletti da lui lavati per la prima volta, il sonno di Levi Cavaglione in promiscuità con contadini che puzzano non hanno nessuna rilevanza per lo storico. Ma io credo di aver dimostrato che invece ce l’hanno, basta essere storici in maniera diversa.
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Alla collaborazione fra storici e studiosi di letteratura non solo ci credo, ma la ritengo indispensabile; non sono del resto degli storici anche gli studiosi di letteratura, o almeno una parte di essi (storici delle forme linguistiche, delle strutture narrative, delle ideologie ecc.)? Quello in cui credo meno è che esistano gli storici-storici che si occupano dei fatti e i letterati che si occupano di quello che gli storici-storici non riescono a far rientrare nell’ambito dei fatti (comunque gli studiosi di letteratura sono ovviamente in torto, dato che siamo quattro o cinque in Italia a occuparci di problemi letterari legati alla Resistenza mentre si sprecano gli studi su letterati minimi del passato).
La memoria dei memorialisti
Se è chiaro da quello che ho detto sopra il modo in cui anche le vecchie cronache scritte a caldo dopo la Liberazione e i diari debbano essere considerate fonti documentarie per lo storico e non solo campo d’indagine per gli studiosi di letteratura, si può tentare di buttar giù qualche appunto sulla tecnica di questi testi e sul loro mutamento nel tempo.
Alcuni diari furono effettivamente scritti nella forma in cui ci sono rimasti durante la guerra di liberazione e sotto la data indicata esattamente dallo scrivente. È il caso di Ar- tom, il quale morì come si sa durante le guerra e perciò non rimise certamente le mani sulle pagine scritte. Altri, come Bianco, prendevano scheletrici appunti che poi sono passati alle stampe in quella forma concisa in cui furono scritti. In molti diari, però, si legge sotto una data precisa di avvenimenti che certamente non lasciavano spazio all’autore per stendere effettivamente in quella stessa data i propri ricordi: un partigiano in fuga, un altro preso prigioniero e poi avventurosamente scampato, non avevano certo il modo di scrivere a tambur battente dei loro casi. Finita la guerra, restò nella loro mente la memoria dei
fatti e del tempo in cui avvennero, e ne scrissero datandoli esattamente. Alcuni partigiani giravano con un taccuino dove registravano, nelle pause giornaliere, quello che avevano vissuto, e poi ampliarono (parlo di quelli che lo fecero effettivamente) quelle sintesi vergate in fretta. Fenoglio, pare, fece proprio così.
Una traccia da seguire nello studio delle forme letterarie legate alla Resistenza sarebbe dunque propria quella della forma-diario. Il diario autentico dovrebbe essere considerato quello pubblicato nella forma precisa in cui fu scritto durante la Resistenza questo indipendentemente dalla data di pubblicazione: l’anno scorso, per esempio, è uscita La vita indivisibile di Piero Calamandrei (Editori Riuniti), un diario che certamente l’autore non avrebbe mai pubblicato in quella forma (lo hanno fatto, giustamente, Bilenchi e Cec- chi dopo la sua morte) ma che pensava di rielaborare per un romanzo autobiografico. Dunque, accanto al fenomeno del diario vero a proprio c’è la rielaborazione degli appunti o la stesura a memoria di certi fatti accaduti in date precise. Questo potrebbe essere il confine tra il diario autentico e quella che si può chiamare la memorialistica resistenziale.
Per mettere ordine in questo intrecciarsi di generi (ai diari, alle memorie e alle ricostruzioni più letterarie vanno aggiunte le ricostruzioni storiografiche fatte dai protagonisti) ritengo indispensabile una definizione del rapporto fra autori e fatti. Ora, non c’è dubbio che chi scrive, a qualunque distanza di tempo, miri a raccontare la verità, solo che proprio il passare del tempo fa mutare il rapporto con la verità. Nell’immediato dopoguerra, quando i memorialisti scrivono, nelle loro brevi prefazioni, “questi sono i fatti così come li ho vissuti”, non indicano tanto lo sforzo della memoria quanto la possibilità che il lettore pensi che i casi non siano veri. L’io-narrante, insomma, conosce la verità e il suo vero problema non è tanto quello di
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documentarsi su di essa ma di costituire con il proprio scritto un documento per gli altri. Tant’è vero che nell’immediato dopoguerra mi sembra predominante il caso di testi costituiti dal solo materiale memoriale, privi cioè del supporto di documenti di altra natura (circolari militari e così via, anche se non è assente il caso di memorie che esibiscono materiale documentario).
Col passare del tempo, confondendosi o annebbiandosi la memoria dei fatti, un autore, così personalmente depauperato, non può fare a meno delle ricostruzioni date da altri: dovendo verbalizzare un ricordo non può non ricorrere alle forme di altre verbaliz- zazioni, cioè, per esempio, a ciò che hanno scritto altri su quei casi o magari a ciò che altri testimoni riferiscono oralmente sui medesimi. Questo è un processo che va ammesso in via generale e che si intuisce non poter essere stato che così. La cosa interessante non è questa, quanto il grado di coscienza che hanno alcuni autori di questo processo di perdita di memoria e della necessità di recuperarla in qualche modo. Voglio fare alcuni esempi. Quando Mario Spinella, nella sua Memoria della Resistenza, scrive, nel 1972, che con le pagine, stese più di dieci anni avanti, vuole offrire una “testimonianza”, e di non proporsi “né fini letterari né di documentazione storica” e che per questo esse hanno “limiti, oggettivi e soggettivi”, vuol dire semplice- mente che ha scritto quello che si ricordava, ma esplicitamente ci avverte dell’esistenza di documentazioni a cui non ha fatto ricorso; ed è a causa di quelle documentazioni, e del progresso delle ricostruzioni storiche verificatosi col passare del tempo, che egli parla dei “limiti” del proprio lavoro. Nessuno dei memorialisti della prima ondata avrebbe mai potuto scrivere che esistevano dei documenti tali da permettere di ricostruire i fatti meglio di quanto non facesse lui raccontando a memoria. E inoltre, Spinella usa fin dal titolo non il più preciso e univoco memorie, ma l’ambiguo “memoria”, che vuol dire piutto
sto atto del ricordare la Resistenza che non oggettività del ricordo. Non so se il titolo risale ai primi anni sessanta, quando il testo fu steso, o al 1974 quando il libro fu pubblicato. È molto singolare tuttavia la coincidenza che in quello stesso 1974, sul “Corriere della Sera”esca un racconto di Calvino in cui si legge: “Da anni non ho più smosso questi ricordi rintanati come anguille nelle pozze della memoria. Ero sicuro che in qualsiasi momento mi bastava rimestare nell’acqua bassa per vederli affiorare con un colpo di coda. Al più avrei dovuto sollevare qualcuno dei grossi sassi che fanno da argine fra il presente e il passato, per scoprire le piccole caverne dietro la fronte dove s’acquattano le cose dimenticate” (Ricordo di una battaglia, 25 aprile 1974). Allo scrittore impegnato nel mettere a fuoco un episodio bellico si mostrano le stratificazioni di ricordi di fatti successivi accumulatisi su quel fatto antico: ricordare è possibile solo raccontando gli ostacoli che si frappongono al ricordo; il contenuto del ricordo diventa il fatto più la difficoltà di ricostruirlo. E proprio questa difficoltà di ricostruire gli episodi fa sì che i memorialisti più vicini a noi abbiano bisogno delle testimonianze altrui se vogliono evitare di raccontare il gioco della memoria, come fa Calvino, o di rischiare a priori il limite di cui parla Spinella che è implicito nella ricostruzione a memoria dei fatti accaduti tanto tempo prima. Ritorniamo ora al punto da cui siamo partiti, cioè ad Amendola. Il suo è il caso certo di uno che di libri sulla Resistenza ne ha letti molti, ma la sua situazione, proprio in quei primi anni settanta, è del tutto simile a quella di Calvino e Spinella almeno nello sforzo di ricordare. Solo che quello che in questi ultimi autori, lettori non abituali di libri politici né di ricostruzioni storiche, è costituito dall’accumulo di altri ricordi, in Amendola è piuttosto costituito dall’accumulo anche dei libri letti. Di questo Amendola si rende ben conto quando dice che “nel rievocare dal fondo della memoria i ricordi
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di quei giorni, di quei fatti, di quelle persone” può avere utilizzato, “inavvertitamente, i frutti delle letture compiute nel corso degli anni” . Non solo quindi Amendola riproduce documenti e li alterna con ciò che ricorda personalmente, ma addirittura ha una coscienza precisa delle interferenze esercitate sulla memoria dalle testimonianze altrui. Non solo: egli sa anche che una volta che un fatto viene verbalizzato in modo sbagliato, cioè ne viene data una versione erronea, l’individuo può memorizzare quella verbalizzazione conti
nuando a ripetere la versione sbagliata. Si confrontino per questo le pp. 385-86 del suo libro dove confuta (e la confutazione dei racconti altrui era una delle caratteristiche che io, nelle mie pur scarne annotazioni, affermavo potessero avere le memorie più recenti) la versione di un fatto resa da uno dei due protagonisti (l’altro era proprio Amendola). Sintomaticamente il paragrafo dedicato dall’autore all’episodio si intitola Gli inganni della memoria.
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Si è svolto a Milano dal 22 al 24 aprile il convegno internazionale di studi, promosso dall'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia su
L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE E NELLA RESISTENZA
Nel fascicolo 160, luglio-settembre 1985, saranno ospitati alcuni contributi, assieme con altri presentati in convegni organizzati su temi analoghi dagli Istituti associati.
La polìtica americana del dopoguerraVerso una nuova interpretazione?
di Giampaolo Valdevit
Strategies o f Containment. A Critical Appraisal o f Postwar American National Security Policy di John Lewis Gaddis (New York-Oxford, Oxford UP, 1982, pp. 432) è da un lato il primo tentativo di ricondurre in una direzione interpretativa unitaria la vasta e multiforme produzione del cosiddetto postrevisionismo, una prospettiva di indagine sul problema delle origini della guerra fredda, che ha cominciato a essere operante all’interno della storiografia americana dall’inizio degli anni settanta, mentre veniva inaridendosi il dibattito fra studiosi di ispirazione ortodossa e di tendenza revisionista. Dall’altro lato lo studio di Gaddis si proietta beri al di là del circoscritto orizzonte temporale sul quale si è per lo più soffermata l’attenzione della storiografia postrevisionista (la seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra); in esso viene infatti ricostruito l’intero sviluppo della politica estera americana da Roosevelt a Carter.
Ci troviamo di fronte, pertanto, a una riscrittura della storia della politica estera americana fra guerra e dopoguerra secondo una prospettiva che appare, nelle sue linee generali ormai consolidata; nello stesso tempo viene proposta una direzione di indagine capace di collegare con linearità gli sviluppi del primo dopoguerra a quelli dei decenni successivi.
L’elemento unificante, il filo conduttore del percorso interpretativo, nella duplice veste che si è indicata, è costituito dall’analisi
della strategia del contenimento, una strategia che ingloba in sé aspetti politico-diplomatici, economici, militari e ideologici, e che si articola, nel corso del trentennio postbellico, in una serie di codici strategici o geopolitici. Gaddis presenta tale strategia principalmente come “risposta ad una sfida all’ordine internazionale in atto”; ma tutto lo svolgersi del discorso la fa apparire non tanto come una difesa, una reazione a iniziative dell’Unione Sovietica. Nel corso della seconda guerra mondiale e nel primo dopoguerra l’ordine internazionale è infatti in via di ridefinizione in conseguenza di una complessa interazione di fenomeni, che non sono esclusivamente ascrivibili alle iniziative dell’uno o dell’altro degli stati che si avviano ad assumere il rango di superpotenze. Perciò la strategia del contenimento sembra nascere piuttosto dallo sforzo di adeguare la politica estera americana al sistema internazionale bipolare che sta allora emergendo. Con Rassestarsi, poi, di esso il contenimento tenderà a divenire il modulo di comportamento americano nella realtà internazionale, secondo le varianti che Gaddis viene via via ad illustrare.
È duplice — si è detto — la veste in cui questo studio si presenta, duplici le intenzioni che esso si propone. Quanto al primo aspetto — il tentativo di dare sistemazione organica ad un decennio di produzione storiografica postrevisionista — è lo stesso Gaddis a sottolineare nell’introduzione l’inversione di tendenza rispetto al generale atteg-
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giamento di tale storiografia, rispetto all’inclinazione — da più parti rimproverata — a soffermarsi su aspetti particolari, su vicende circoscritte della politica estera americana, alla riluttanza a tracciare quadri di analisi e di interpretazione generale, pur avendo distrutto poco alla volta le fondamenta sulle quali si reggevano le interpretazioni precedenti. Rispetto a un orientamento di ricerca in cui hanno per lo più militato studiosi inclini a “spaccare il capello in quattro” (splitters), Gaddis ravvisa l’esigenza di ritornare alla tendenza che fu propria dei revisionisti, e cioè a “considerare le questioni in blocco” (Jumpers) o quanto meno di “raddrizzare l’equilibrio” fra splitters e lumpers a favore di questi ultimi.
Nel procedere in tale direzione Gaddis riepiloga i momenti salienti della politica estera americana fra guerra e primo dopoguerra in un quadro che compone politica interna e politica estera, percezioni delle iniziative sovietiche e reazioni ad esse, relazioni fra vari apparati burocratici e di governo. Si tratta solo dei punti nodali di un processo che egli è andato analiticamente ricostruendo in varie sedi a partire dal suo saggio del 1972 (The United States and the Origins o f the Cold War 1941-1947, New York, Columbia UP), uno dei primi contributi di rilievo in senso postrevisionista.
La percezione di un nuovo ordine internazionale e degli interessi americani su scala mondiale affiora — esordisce Gaddis — a Washington già nel corso della guerra; ed è proprio questa a far prevalere la tendenza a ricercare soluzioni di compromesso ai problemi che si pongono all’interno della “Grande Alleanza”. Il disegno di Roosevelt è dunque quello di integrare l’Unione Sovietica nel sistema internazionale e la tendenza alla trattativa permane anche al di là della fine della guerra. Ma al compromesso, alla fragilità che esso ha dimostrato, Truman di fatto preferisce il qui pro quo, la contropartita immediata, sulla base della negotiation from
strength, nell’ipotesi di possedere gli strumenti (la bomba atomica, l’aiuto economico) in grado di costringere l’Unione Sovietica alla trattativa. È una prospettiva che si fonda sulla consapevolezza degli Stati Uniti come potenza leader in campo mondiale, attrezzata ideologicamente a rivestire il ruolo che le assegnano le conseguenze della guerra (la crisi del sistema multilaterale, il declino dell’Europa come centro della politica internazionale), come “potenza imperiale” — se vogliamo rispolverare un termine caro alla storiografia revisionista — in grado di stabilire le regole (le nuove regole) del gioco delle relazioni internazionali.
La validità dell’ “imperial framework of analysis” è stata in seguito ribadita da Gaddis (The Emerging Post-Revisionist Synthesis on the Origins o f the Cold War, “Diplomatic History”, 7, summer 1983, pp. 182-83); più recentemente, poi, un altro studioso americano, Melvyn Leffler, ha illustrato come fosse una percezione degli interessi su scala mondiale alla base delle concezioni americane in tema di sicurezza nazionale, anche se appare datata la conclusione che ne ha tratto, cioè che se l’Unione Sovietica non fosse esistita sarebbe stato necessario crearla (The American Conception o f National Security and the Beginnings o f the Cold War, 1945-48, “American Historical Review”, 89, aprii 1984, pp. 346-81). Il fatto è che tali concezioni non si determinano nel vuoto, astraendo dall’andamento delle relazioni internazionali che, dalla fine della guerra, fa dell’Unione Sovietica l’altra superpotenza.
L’impermeabilità sovietica alla trattativa— come la definisce Kennan in un documento chiave, il long telegram del febbraio 1946— ovvero l’indisponibilità sovietica a esercitare una posizione subordinata nel contesto internazionale, ad accettare passivamente le regole del gioco imposte dagli Stati Uniti, testimonia 1’esistenza di due mondi autosufficienti, rappresenta in certo qual modo l’atto di nascita della nuova realtà bipolare. Secon
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do un’impostazione che risale al suo volume del 1972, Gaddis presenta la guerra fredda come il risultato di un’interazione all’interno del nuovo sistema internazionale. In tal modo, in consonanza con l’orientamento postrevisionista, egli mette da parte l’interrogativo: “chi scatenò la guerra fredda?”, un interrogativo cui la storiografia ortodossa e quella revisionista hanno dato risposte contrapposte e che costituisce ancora una tentazione ricorrente nella storiografia americana. A tale proposito, intervenendo sul già ricordato saggio di Leffler, Gaddis ha ribadito che “il problema centrale per chi studia la guerra fredda non è se i due maggiori antagonisti hanno cercato ed ottenuto [lo status di] grande potenza, ma come si sono adoperati a cercarlo e cos’hanno fatto una volta ottenutolo” (comment a The American Conception o f National Security, cit., p. 384).
Dal delinearsi, dunque, della nuova realtà internazionale, dalla percezione della bipolarità — un tema, questo, che meriterebbe un’indagine assai più approfondita di quando non si sia fatto fin qui — si sviluppa la strategia del contenimento, cioè la nuova modalità di presenza degli Stati Uniti in un contesto internazionale dominato da due superpotenze che iniziano a dar prova di un’in- componibilità di interessi.
Nell’individuare gli strumenti concettuali della nuova strategia, Gaddis privilegia il ruolo di George Kennan, capo del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato dal 1947 al 1949, al quale egli attribuisce un diritto di primogenitura — che ad alcuni è apparso forzato — nella formulazione della politica del contenimento. In conseguenza di una concezione disarmonica del potere internazionale, Kennan rifiuta l’approccio universalistico, wilsoniano, a favore di una visione particolaristica che sappia dar vita a un equilibrio capace di evitare il formarsi di una potenza dominante a livello internazionale. Il cardine di tale equilibrio è offerto dalla de
finizione dei cinque centri di potere industriale e militare (USA, URSS, Inghilterra, Europa centrale e Giappone) e dal correlato obiettivo volto a impedire che altri centri si aggiungano a quello — l’Unione Sovietica, ovviamente — che già si trova in campo contrapposto agli Stati Uniti. Ne consegue una concezione selettiva del contenimento, che privilegia l’Europa occidentale ed il Giappone, due aree rese vulnerabili dalle condizioni di instabilità interna. Da qui ha origine il disegno volto a restaurare il balance o f power in Europa attraverso l’aiuto economico, il Piano Marshall cioè, che Gaddis finalizza, con una certa forzatura, alla creazione di un’Europa occidentale intesa come terza forza. Kennan — va infine aggiunto — non fa del contenimento un fine in sé della politica estera americana, ma lo considera piuttosto come uno strumento che induca l’Unione Sovietica ad accettare le regole del gioco, un’aspettativa che non può non collegarsi all’immagine di un bipolarismo non consolidato o irrevocabilmente irrigidito.
Ciò, direi, fa di Kennan un uomo di passaggio e del suo pensiero qualcosa che si sottrae alla possibilità di interpretazioni univoche e nettamente orientate. Si ha invece, talvolta, l’impressione che Gaddis voglia accentuare la linearità e la fissità del pensiero di Kennan, la limpidezza della sua visione nel proporre una chiara selettività di impegni, e tenda a sottovalutare i germi di corruzione che nascono al suo stesso interno (un esempio alle pp. 57-58), e che non sembrano estranei alla creazione di quel gap “fra la concezione e la sua messa in atto” cui Gaddis ha accennato in alcuni lavori precedenti {The Strategy o f Containment in Containment: Documents on American Policy and Strategy, 1945-1950, a c. di T. Etzold e J.L. Gaddis, New York, Columbia UP, 1978, pp. 25-37). Tutto ciò rischia talvolta di confondere l’andamento di quel processo che nel 1949 porterà l’amministrazione Truman ad abbandonare la concezione della risposta
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asimmetrica (nello stesso anno Kennan rassegnerà le dimissioni).
In realtà la strategia americana fra 1947 e 1949 non sembra univocamente definibile sulla base della teoria del contenimento nella versione di Kennan. È certamente fuor di dubbio la centralità della ricostruzione economica dell’Europa occidentale e del Giappone, che non costituisce però — come dimostra il già ricordato saggio di Leffler — un primato di Kennan bensì una prospettiva alla quale concorrono lo stato maggiore americano e i comandi in loco. Ma la politica estera americana si muove anche in direzione estranee quando non opposte ai progetti di Kennan. È lo stesso Gaddis a ricordare che la retorica di Truman considera il comuniSmo internazionale come un monolite (anche se si senta di sfruttare le spaccature al suo interno); che a Washington si continua a fare affidamento sul potere deterrente costituito dalla superiorità in campo nucleare, che si aumenta la presenza navale nel Mediterraneo, si promuovono covert operations dedicando crescente attenzione alle tecniche della guerra psico- gica.
Ma, soprattutto, viene accantonata l’ipotesi di Kennan, che la strategia del contenimento possa indurre l’Unione Sovietica a Oodificare il proprio atteggiamento nelle relazioni internazionali, ad abbandonare la propria versione dell’universalismo a favore del particolarismo. Sotto infatti alcune decisioni americane a ridurre ogni margine residuo in tale direzione, a proporre il ritorno, in forme irrigidite, al principio della negotiation from strength: la creazione della Nato, la orazione dello Stato tedesco occidentale, il mantenimento delle truppe americane in Giappone, la decisione di costruire la bomba all’idrogeno.
Col 1950 si consolida quindi la nuova premessa di base della strategia americana, che segna a tutti gli effetti la nascita della nuova realtà bipolare: l’accento non è posto più sul
l’analisi delle intenzioni sovietiche (di sferrare un attacco), ma sulla capacità di farlo. Gaddis colloca dunque un tornante per la politica estera americana all’inizio del 1950, in consonanza con una periodizzazione ormai largamente accettata. Si delinea un nuovo codice del contenimento — il secondo dei cinque analizzati nel volume — che ha come fulcro il documento del National Security Council NSC 68 dell’aprile 1950. Ne sono elementi costitutivi la concezione della “difesa perimetrale” , la risposta simmetrica, il rigido mantenimento del balance o f power, la parallela perdita di qualsiasi distinzione fra aree periferiche ed aree centrali per la sicurezza americana, la proliferazione di impegni, il build up militare, la fine della diplomazia. Adoperando come collante la retorica anticomunista che permea l’amministrazione Truman, il NSC 68 definisce l’interesse americano in funzione della minaccia sovietica; ne consegue che “tutti gli interessi [appaiono] vitali, tutti gli strumenti utilizzabili, tutti i metodi legittimi” (p. 96).
Due mesi dopo la redazione del documento la guerra di Corea fa sì che “i sostenitori del NSC 68 non dovettero lavorare con l’impegno che era stato previsto al fine di strappare il consenso [su tale documento]” (p. 109). L’attacco in Corea induce a porre in atto le prospettive segnalate dal NSC 68: l’incremento del bilancio militare, l’invio di truppe americane in Europa, il riarmo tedesco; ma allo stesso tempo esso fa “impantanare [gli USA] in una guerra periferica con un avversario di secondo piano” (p. 117). Per quanto, nel giugno 1951, si firmi in Corea l’armistizio, la teoria della risposta simmetrica comincia ad incontrare oppositori all’interno degli Stati Uniti. La tendenza a moltiplicare gli impegni e quindi anche i costi economici, la mancanza di una precisa relazione fra mezzi e fini, di una scelta sul what to do first fa dubitare delle capacità deterrenti di tale impostazione strategica, un interrogativo la cui soluzione Truman ed Ache-
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son affidano alla nuova amministrazione repubblicana che subentra nel gennaio 1953.
Fin qui, dunque, il volume di Gaddis ha l’aspetto di un bilancio storiografico sotto forma di rilettura complessiva della politica estera americana nell’immediato dopoguerra. È un bilancio — va sottolineato — ancora aperto a nuovi apporti; in un intervento più recente nel quale ha cercato di fare il punto sul postrevisionismo, su quanto esso è stato tributario e, alternativamente, innovatore rispetto all’ortodossia e al revisionismo, lo stesso Gaddis ha espresso il dubbio che la storiografia americana sia arrivata al “momento del decollo verso una sintesi originale” ed ha ribadito che “molto rimane da fare” ed in varie direzioni: la percezione dell’avversario, la percezione americana del balance o f power, il ruolo delle burocrazie, gli “internal determinants of foreign policy”, la ricerca comparata in prospettiva sincronica e diacronica, l’impatto della politica americana nelle altre società, la natura del sistema internazionale (The Emerging Post-Revisionist Synthesis, cit., pp. 183-90).
L’altra parte del volume, quella in cui si esaminano le articolazioni della strategia del contenimento da Eisenhower a Carter, si colloca — come si è già detto — in un’altra prospettiva. Per quanto riguarda tale periodo la disponibilità delle fonti d’archivio è ovviamente molto limitata (l’accesso ad esse è garantito quasi unicamente dalle biblioteche presidenziali) e la produzione storiografica è, per ampiezza, assolutamente incomparabile rispetto a quella che si riferisce alle origini della guerra fredda. Più costante è stato invece l’interesse degli studiosi di scienza della politica, una disciplina verso la quale Gaddis cerca di lanciare un ponte che possa collegarla alla storia contemporanea, pur senza rinchiudere quest’ultima entro modelli che tendono a cancellare o ad appiattire i processi. La chiave di tale operazione è data appunto dall’assunzione della strategia del conteni
mento ad elemento conduttore della politica estera americana nell’intero arco del dopoguerra. Si tratta di un percorso articolato e che si compone di varie tessere.
Nel seguire gli sviluppi della strategia del contenimento dai primi anni cinquanta alla fine degli anni settanta Gaddis individua tre diversi codici; il new look di Eisenhower e Dulles, la teoria della risposta flessibile seguita da Kennedy e Johnson e la “distensione” che caratterizza gli anni settanta.
Il new look di Eisenhower e Dulles si pone innanzitutto il problema del rapporto fra mezzi e fini della strategia americana, un rapporto che, dopo l’abbandono dell’impostazione di Kennan, è rimasto privo di una configurazione precisa. La premessa di base sulla quale il new look si fonda è una concezione rigida del bipolarismo, che proviene dal NSC 68: uno zero sum view o f the world, come la definisce Gaddis, per cui un vantaggio di una delle due superpotenze significa automaticamente una perdita dell’altra e viceversa. L’immagine della minaccia sovietica agli Stati Uniti, che era già presente nella formulazione di Kennan nonché nella linea di condotta di Truman e Acheson, acquista carattere permanente, diventa un connotato immodificabile della realtà internazionale uscita dalla seconda guerra mondiale. Oltre a ciò la minaccia sovietica non è vista — come fino ad allora era avvenuto — in chiave geopolitica bensì in chiave ideologica: in altre parole, è l’ideologia comunista che spinge l’Unione Sovietica sulla via della rivoluzione su scala mondiale, verso il sovvertimento delle regole dello zero sum game.
Ne consegue un’inversione del rapporto fra mezzi e fini della strategia del contenimento. Mentre per Truman e Acheson il contenimento era una risposta che aveva lo scopo di rimuovere la minaccia sovietica (e da questo punto di vista non dava come immodificabile la realtà bipolare), per la nuova amministrazione americana al potere dal 1953 al 1960 la minaccia sovietica appare co
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me uno strumento — anzi lo strumento — utile a precisare gli scopi della strategia americana. Da questo punto di vista è solo apparentemente paradossale l’affermazione di Dulles per cui gli Stati Uniti avrebbero avuto “interesse ad essere minacciati” purché ciò avesse contribuito a mantenere VAmerican way o f life (p. 136).
Il contenimento — è implicito in tale approccio — non aveva funzionato perché era una semplice reazione all’iniziativa avversaria; per la nuova amministrazione si tratta invece di riprendere in mano l’iniziativa, di rideterminare i principi fondamentali dell’impostazione strategica americana, della cosiddetta deterrenza. Essa privilegia la risposta asimmetrica e ciò dà corso alla teoria della massive retaliation, una teoria che alla minaccia avversaria contrappone la certezza della risposta, ma l’incertezza circa la natura di essa, in modo che l’avversario non possa più confidare di avere in mano l’iniziativa. L’uso dell’arma nucleare viene in effetti previsto in una varietà di circostanze (fra l’altro, come risposta a un attacco convenzionale in funzione tattica, in Corea e in Indocina). Le stesse alleanze, che si tende a disporre in modo da “accerchiare” l’Unione Sovietica, assumono una funzione deterrente; ed è in questo quadro la collocazione di armamenti nucleari tattici in Europa occidentale. Lo sviluppo degli armamenti nucleari rende però obsoleta questa strategia; come nota nel 1957 un allora oscuro studioso di politica internazionale, Henry Kissinger, la guerra nucleare può non estendersi solo a patto che la controparte accetti di non farlo. La dottrina della massive retaliation — aggiunge Gaddis — contiene elementi di incertezza, e sono proprio questi a minarne la credibilità. Essa viene infatti compromessa se la minaccia di ricorrere all’arma nucleare viene sistematica- mente seguita dalla rinuncia ad usarla. Inoltre l’incertezza della dottrina impedisce di distinguere fenomeni dissuadibili da fenomeni non dissuadibili, realtà vulnerabili da realtà
invulnerabili all’attacco nucleare. In altre parole la deterrenza può funzionare solo se il comportamento da dissuadere non costituisce un impegno totale ed è sottoposto ad una direzione centrale (p. 180).
Ne consegue che l’aspetto dove la deterrenza mostra il limite più plateale è quello che si riferisce ai rapporti con i movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo. È qui che lo zero sum view o f the world, sul quale la deterrenza si regge, rivela un’estrema difficoltà a tradursi in atto. Il sostegno alle forze locali non comuniste e più in generale il tentativo di canalizzare i movimenti di liberazione nazionale in direzione anticomunista — che sono altri aspetti del new look — non funziona. Esso rivela in molti casi un’asimmetricità di progetti, di scopi, di prospettive, che porta progressivamente a considerare il nazionalismo, il neutralismo come sinonimo di asservimento all’Unione Sovietica. Pertanto l’aspetto più frequente che la deterrenza assume in tali contesti sono le covert operations, gli interventi della Cia, alla quale Eisenhower fornisce ampia copertura ed appoggio (sono finora noti i casi dell’Iran, Guatemala, Indonesia e Cuba nel corso degli anni cinquanta, le operazioni paramilitari contro il Nord Vietnam, le infiltrazioni di rifugiati in Europa orientale).
Tutto ciò logora Pimmagine degli Stati Uniti a livello mondiale e postula una ridefinizione della politica, un tema centrale nella campagna per le elezioni presidenziali del 1960, vinte dal partito democratico.
L’esigenza di garantire la stabilità ma senza impedire la diversità, di conciliare gli interessi americani con i processi di modernizzazione: è la “nuova frontiera” di Kennedy. Il nuovo presidente americano, peraltro, non altera lo schema concettuale dello zero sum game, per quanto il comuniSmo internazionale non appaia più come un monolite (la spaccatura fra Mosca e Pechino è ormai netta e l’ideologia comincia a fungere non più da elemento di unificazione ma di divisione).
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La percezione della minaccia appare quindi contrarsi, tende a confondersi l’oggetto del contenimento; e a ciò indubbiamente contribuiscono le ampie oscillazioni sovietiche fra disponibilità alla trattativa e irrigidimenti (crisi di Berlino, Cuba, ripresa degli esperimenti nucleari nell’atmosfera). Non di meno rimane la percezione della fragilità del balance o f power mondiale: da qui il timore di essere umiliati, di apparire deboli (ed è degno di nota che nei momenti di svolta, anche in seguito con Kissinger, questa preoccupazione diventa centrale nella politica estera americana).
L’inadeguatezza dell’opzione nucleare a garantire gli obiettivi del contenimento in determinati contesti spingono l’amministrazione Kennedy verso una nuova formulazione della simmetria, attenta ad eliminare, a controllare i rischi, a privilegiare l’iniziativa e quindi ad espandere i mezzi. È da ciò che si sviluppa la teoria della “risposta flessibile”, di una risposta cioè che preveda la possibilità di vari escalatory steps prima di ricorrere all’arma nucleare; da qui il rafforzamento delle risposte convenzionali (anche all’interno della Nato), l’addestramento di special forces, l’attenzione alle tecniche antiguerriglia o controinsurrezionali, una nuova enfasi sui mezzi non militari del contenimento (l’assistenza tecnica, economica) soprattutto in Asia, in Medio Oriente ed in America Latina. Sono gli anni dell’Alleanza per il Progresso in America Latina, dei peace corps nel Terzo Mondo, della creazione dell’Agency of International Development: la filosofia comune è costituita dal tentativo di porre le società del Terzo Mondo in grado di sopportare processi di modernizzazione senza ricorrere a soluzioni comuniste.
Nel campo della strategia nucleare la “risposta flessibile” provoca un build up militare secondo l’equazione più armi = più flessibilità. Inizialmente la decisione è collegata alla ricerca della superiorità strategica; ma mano a mano che, nel corso degli anni ses
santa, l’equilibrio strategico diventa un fenomeno irreversibile, si delinea la concezione della mutual assured destruction come cardine della strategia nucleare elaborata dal segretario alla difesa McNamara. La deterrenza viene ora a fondarsi sulla capacità di resistere a un attacco di sorpresa e di scatenare una rappresaglia che provochi la distruzione reciproca (è quello che viene comunemente definito “l’equilibrio del terrore”). Il Mad quindi privilegia l’obiettivo di impedire un attacco piuttosto che quello di limitarne i danni e fa della vulnerabilità delle popolazioni un elemento di stabilità (su questi temi, per il lettore italiano, è utile il rinvio al recente volume di Carlo M. Santoro, Lo stile dell’aquila. Studi di politica estera americana, Milano, Angeli, 1984, cap. VI).
Tornando alla strategia della “risposta flessibile”, essa è deputata a stabilire una precisa graduazione, una calibratura di impegni. È nel Vietnam che tale strategia viene sperimentata: come scrive Gaddis, “la politica americana in Vietnam virtualmente riflesse in un microcosmo tutti gli aspetti della risposta flessibile e li applicò in pratica” (p. 237). Ed è il Vietnam quindi a rappresentare il case study di essa, a testimoniare il suo sostanziale fallimento. È qui che si crea il maggiore divario fra intenzioni ed esiti. La deterrenza, la stabilità del balance o f power, l’integrità degli impegni, la credibilità, il consenso interno — tutti obiettivi che l’escalation mira a conseguire — vengono totalmente smentiti, al punto che l’unica prospettiva sicura è quella di evitare la sconfitta, Tunica alternativa è fra continuare la guerra o porle termine, vincere o perdere. Tale obiettivo assorbe l’amministrazione americana al punto tale — secondo Gaddis — da farle smarrire la percezione di una più articolata strategia, da provocare anzi un vuoto di strategia. I rapporti con gli alleati della Nato, la spaccatura fra Unione Sovietica e Cina, PAmerica Latina, il Medio Oriente (dove cresce negli anni sessanta l’influenza sovietica) ricevono
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attenzione occasionale, mentre la crisi di credibilità si ripercuote pesantemente all’interno.
Alla fine degli anni sessanta quindi il contenimento non è più una strategia, cioè “una calcolata relazione di mezzi e fini” . È in quest’epoca che, col passaggio dall’amministrazione democratica a quella repubblicana, con la presenza di Kissinger alla guida della politica estera, si determina una svolta, un fenomeno che già altri hanno posto in luce, Hoffman innanzitutto. Si tratta — precisa però Gaddis — non di una rottura netta con le impostazioni precedenti, ma piuttosto della combinazione di vecchi e nuovi approcci (percepibile soprattutto se si considera la messa in atto della nuova strategia più che la sua enunciazione teorica).
Per quanto riguarda gli aspetti nuovi, essi si compendiano in quella che viene chiamata la distensione, una concezione la cui paternità viene attribuita, con una certa forzatura, a Kennan. La distensione si fonda su una raffigurazione degli interessi sovietici in chiave geopolitica (e da qui deriva l’apertura del dialogo con la Cina). Inoltre la distensione provoca l’abbandono della concezione dell’equilibrio fra le due superpotenze fondato sul binomio — meccanicamente e sistematicamente applicabile — espansione/conteni- mento, una concezione che aveva fatto degli Stati Uniti il perno del balance o f power, recuperando in tal modo, nonostante le affermazioni contrarie, i postulati universalistici. A tale concezione si sostituisce la visione di una piena interdipendenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, una visione del potere mondiale a carattere multidimensionale (pentagonale, dirà Kissinger), in cui è centrale comunque il rapporto fra le due superpotenze, un rapporto fatto di “limitazioni reciproche, coesistenza, cooperazione”: integrare l’Unione Sovietica, quindi, nell’ordine mondiale stabilendo un codice di comportamento uniforme per le due superpotenze, che valga anche a controllare i fenomeni che i
politologi chiamano di “diffusione di potenza” . Nel campo della strategia nucleare emerge la teoria della sufficienza strategica (trattato Salt 1 del 1972), che prevede comunque un rafforzamento soprattutto dei sistemi di difesa.
Per altri aspetti la strategia di Kissinger continua a battere strade note: perdura il timore di essere umiliati, di apparire deboli; anzi, il rigido mantenimento del balance o f power assume la funzione, per così dire, di precondizione alla messa in atto della nuova concezione dell’ordine mondiale. Per raggiungerla — è il pensiero, l’ossessione di Kissinger — l’equilibrio di potere fra Stati Uniti e Unione Sovietica deve essere congelato in tutte le aree ed in tutti i settori in cui sia in atto un confronto, diretto o indiretto, fra le due superpotenze: e si moltiplicano gli interventi contro tutto ciò che si muove contro o al di fuori di questa logica (l’Unione Sovietica, a dire il vero, non dimostra di concorrervi). Sono noti infatti l’ostilità di Kissinger verso l’eurocomunismo, gli interventi volti a destabilizzare il regime di Allende in Cile, la tendenza ad abbracciare certe cause perse (il regime bianco in Rhodesia, le colonie portoghesi, lo scià in Iran), a lasciarsi cogliere di sorpresa in certe crisi locali (la guerra fra India e Pakistan nel 1971, la guerra del 1973 in Medio Oriente, l’invasione turca di Cipro nel 1974), mentre la guerra del Vietnam continua ancora per alcuni anni.
Per Gaddis tutto ciò rappresenta il costo di una teoria, alla quale egli attribuisce peraltro il merito di avere dato una coerenza concettuale alla politica estera americana. In realtà, però, l’ispirazione che sta alla base di essa, per tutto il corso degli anni settanta, non appare univoca. Senza dubbio la prospettiva di un nuovo ordine mondiale fondato sul negoziato con l’Unione Sovietica viene tracciata e aperta, ma al contempo l’andamento di quest’ultimo e la messa in atto di questa prospettiva risultano pesantemente condizionati da approcci di più lontana ascendenza e che ri
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velano scarsa comunanza con la distensione. In definitiva, quella svolta che si è aperta alla fine degli anni sessanta non sembra ancora avere prodotto risultati definitivi (e non sembra fuori di luogo ricordare che siamo privi delle conoscenze e degli strumenti che ci permettano di valutare il contributo sovietico in tale processo); l’alternarsi di simmetria e asimmetria, che ha seguito lo sviluppo della politica estera americana dalla fine degli anni quaranta, è ormai avviato all’esaurimento, conclude Gaddis. Ed è questo un dato che appare largamente assodato anche dalla politologia (rimando ancora al volume di Santoro, Lo stile dell’aquila, cit., capp. II e VI soprattutto).
Siamo dunque alla soglia dei problemi dell’oggi, e le questioni che solleva Gaddis nelle ultime pagine del volume si riferiscono soprattutto alla crisi di governabilità del sistema americano: 1’ “amnesia delle istituzioni”, i meccanismi di funzionamento del bipartitismo, la “tirannia dei mezzi”, la credibilità di
una strategia, soprattutto all’esterno. Gaddis ci conduce a questi interrogativi ripercorrendo un processo che si snoda nell’arco quasi di un quarantennio, in un’analisi lineare e serrata che costituisce — come si è detto — il primo contributo d’assieme di una tendenza della storiografia americana alla quale non molti in Italia hanno dedicato attenzione. Mi sembra che ci siano dunque sufficienti motivi per caldeggiarne, anche da questo modesto pulpito, una traduzione. Ne potrà trarre vantaggio non soltanto la comunità degli studiosi (quelli di storia diplomatica e delle relazioni internazionali innanzitutto), ma in generale il dibattito sul problema della pace, del disarmo, degli armamenti nucleari e così via, un dibattito che sembra svilupparsi in maniera discontinua e nella minaccia di essere soffocato da prospettive dotate di modesta angolatura, da preoccupazioni di corto respiro e collegate a fenomeni contingenti.
Giampaolo Valdevit
STO R IA URBANAAnno Vili - N. 28, luglio-settembre 1984
RicercheEduardo Grottanelli, Un episodio del processo di costruzione della città di Milano: la riorganizzazione dei servizi annonari 1860-1890; Âgnes Sâgvâri, Evoluzione delle capitali dell’Europa orientale: Budapest fra ’800 e ’900] Francisco Javier Monclüs, José Luis Oyón, Colonizzazione agricola e "urbanistica rurale" nel secolo XX in Spagna. L’esperienza dell’Istituto Nazionale di Colonizzazione.
DiscussioniLucio Gambi, Chiose alla definizione di centro storico.
FontiJuan Luis Pinon Pallares, Luis C. Alonso de Armino Perez, Gli studi di storia urbana in Spagna (1970-1980)] Alan F. J. Artibise, Paul-André Linteau, La storia urbana nel Canada, una rassegna critica degli studi] Danilo Samsa, Fonti per la storia della città e del territorio: Lombardia e Veneto, 1816-1916. Spoglio della stampa periodica milanese di argomento economico, tecnico, scientifico e di varia cultura (parte quinta).
STU D I ECONOMICI E SOCIALIRivista di vita economica/Centro Studi « G. Toniolo »
XIX, 1984 - n. 2
Tommaso Fanfani, Gli Annali dell'economia italiana] Emilio Gerelli, La previsione degli aspetti ambientali] Romano Molesti, Costo di produzione e categorie economiche] Giovanni Panati, Territorio e processi decisionali economici.
Note e rassegneP.P. Coccorese, Sviluppo e cicli economici] Il territorio ideale e l ’ambiente della periferia romana] L’impiego delle risorse idriche nel milanese.
Relazioni e bilanci delle aziende di creditoNote aziendali, Sviluppo integrato della montagna. Il progetto etruschi.
Recensioni
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“Laboratorio di storia”La proposta didattica degli istituti della Resistenza
di Laura Capobianco, Guido D ’Agostino
Il laboratorio di storia a scuola: un luogo fisico, materialmente attrezzato ed al tempo stesso una consapevole attitudine mentale e professionale; sede, occasione e strumento di incontri finalmente ravvicinati fra storia- scienza e storia-materia; insieme di pratiche di insegnamento e di apprendimento/com- prensione in cui possano raccordarsi l’analisi delle procedure e la ricerca diretta, ed in cui il saper fare di docenti e discenti è finalizzato alla riproduzione del “gesto storiografico”, alla “trascrizione” in termini didattici del lavoro storico.
Questo, in sintesi, il senso della proposta precisata e ribadita nei tre giorni del convegno nazionale su “Didattica della storia: ricerca e laboratorio” organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, con la vasta rete degli istituti associati sparsi in tutta Italia, e dal Comune di Venezia (Assessorato alla Pubblica Istruzione) con il patrocinio dell’Irrsae veneto, tenutosi dal 24 al 26 gennaio 1985 a Venezia nella Scuola grande di San Giovanni Evangelista e nelle aule della Facoltà di architettura.
L’importante appuntamento veneziano ha sicuramente rappresentato il punto di approdo rispetto ad un percorso durato oltre cinque anni, (e naturalmente quello di avvio per una nuova fase), le cui tappe salienti sono state rievocate nella relazione introduttiva svolta dal co-autore di queste note. Qui si può ritornare brevemente sul momento in
cui, dopo il seminario di Rimini dell’autunno 1983 — prevalentemente incentrato sulla storia contemporanea e sul rapporto tra storia e scienze sociali nella prospettiva della riforma della scuola secondaria superiore — ci si è avviati al convegno nazionale che doveva appunto riprendere e svilupparne riflessioni, temi e risultati.
In effetti, sin dai primissimi mesi del 1984, il lavoro coordinato dalla Commissione didattica nazionale, con il gruppo di progettazione e l’appoggio di iniziative locali e dello stesso Laboratorio di Bologna, ha ruotato attorno all’ipotesi di un discorso che per un verso ponesse al centro il tema ricer- ca/didattica, a cui apparivano collegati la nuova professionalità docente, il laboratorio ed i possibili collegamenti con l’esterno, e per l’altro riprendesse la problematica del rapporto fra storia e scienze sociali, della storia contemporanea, della politica scolastica, della formazione, per approdare alle pratiche di ricerca didattica su aree di confine tra storie settoriali e singole scienze sociali. A metà anno, le prospettive di composizione unitaria di tale discorso complesso ed ambizioso apparivano lontane ed anzi fortemente compromesse, prima che attorno all’opzione del laboratorio nel senso più ricco e coraggioso del termine, e della corrispondente pratica, si riannodassero i fili interrotti e si riprendesse con convinzione il lavoro preparatorio di quello che è poi stato il convegno di gennaio a Venezia.
Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase. 158
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Occorre ribadire, a questo punto, ad onta dei contrasti e delle differenze emerse (che hanno fatto parlare della “due anime”, nel dibattito e nella pratica didattica prevalenti negli istituti associati), che quel che ha consentito di superare V impasse è stata ed è la persuasione assoluta e da tutti condivisa del fatto che attraverso la didattica del laboratorio — e lo ha ben espresso Scipione Guarra- cino — si supera la forma lezione-ripetizione, a favore di un apprendimento come processo di formazione di abilità, le quali a loro volta rendono praticabile la costruzione di materiali strutturati al termine di ogni unità lavorativa. Tale strutturazione inoltre porta a sostituire la valutazione finale ed esterna con verifiche interne al processo di apprendimento stesso di cui, naturalmente, vanno esplicitate tutte le fasi e le procedure. Una proposta, in definitiva, attraverso la quale si travalica oggettivamente il ruolo dei programmi e delle loro appendici, i manuali.
Semmai, e un po’ paradossalmente, in verità, si potrebbe osservare che a Venezia, per il carattere dato all’incontro, per le modalità assunte e l’accordo previo raggiunto sui temi da discutere, sia rimasto sullo sfondo proprio il confronto diretto e serrato fra le due “anime”, e sia stato invece divaricato al massimo il complesso della possibilità e delle “offerte” . Così, mentre l’Istituto campano ha proposto un progetto complessivo comprendente fasi e sequenze che vanno dalla fondazione dei prerequisiti nella fascia d’età della scuola dell’obbligo all’approdo ultimo della scuola superiore, il Laboratorio nazionale di didattica dalla storia di Bologna ha proposto uno schema comprensivo di tutti i momenti e le operazioni di costituzione di una singola unità didattica.
La relazione di Aurora Delmonaco (Icsr) ha dunque delineato un percorso di gradualità didattica rispetto agli obiettivi di formazione logica, operativa e disciplinare. Dalle esperienze realizzate dagli insegnanti della Sezione didattica dell’Istituto campano sono
stati ricavati nessi curricolari costruendo così un modello complessivo, flessibile, ma ancorato ad idee guida capaci di orientare con sicurezza le scelte cognitive. Il punto di riferimento di sicura efficacia è l’ambito territorialmente determinato da cui l’azione didattic si svolge (il locale, nell’accezione tanto corrente quanto equivoca e soprattutto male interpretata) e che partendo dal vicino nello spazio e dal presente (il vicino nel tempo) permette di cogliere i fenomeni che per l’ampiezza della loro onda d’urto sono impropriamente definiti “generali” . La metodologia si fonda su operazioni di ricerca che consentono la progressiva espansione degli ambiti indagati e la successiva variazione dei sistemi d’indagine, dal sapere storico spontaneo al- l’individuazione/costruzione della storia come scienza epistemicamente fondata. Progetto ampio, articolato le cui singole fasi, oltre che i contenuti specifici ed i collegamenti, sono ancora in fase di messa a punto e verifica, ma che costituisce tuttavia una precisa indicazione rispetto alla prospettiva di una proposta forte e unificante a livello nazionale, e dotato probabilmente anche di una sua “spendibilità” in sedi ufficiali, “ministeriali”.
L’unità didattica su “Quota 90 e la politica monetaria del fascismo negli anni Venti” (Scipione Guarracino - Landis) parte da un primo livello di conoscenza dei fatti, acquisita attraverso i manuali da cui consegue come necessità intrinseca una fase di apprendimento dei termini-chiave del linguaggio economico, quale si ricava da strumenti del tipo dizionari, repertori, enciclopedie, sommari. È a questo punto possibile la formulazione dei problemi emersi nel primo livello di conoscenza, e desumere da testi di economia (corsi istituzionali, manuali) concetti e regole che nella fase successiva — contestualizzazione — vengono utilizzati per la lettura di testi storici a carattere generale. Tutto ciò prelude all’analisi dello specifico caso italiano, problematizzato attraverso la lettura di un testo-base (ad esempio, Candeloro) smonta-
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to nei suoi elementi costitutivi, ciascuno rapportato a fonti dirette corrispondenti. Il risultato di questo confronto viene messo in comparazione con modelli di spiegazione presenti nel giudizio dei contemporanei e nella storiografia recente, e di qui sbocca nella ricerca di tipologie tra i diversi modelli di spiegazione impiegati. Assai positiva per quanto concerne l’uso concreto delle scienze sociali, l’indicazione di Guarracino appare anche più complessa di quanto non sia in realtà necessario, visto che alcuni passaggi sono probabilmente superflui e vanno comunque graduati secondo la fase dell’apprendimento e le precedenti esperienze del discente. Va anche precisato che le procedure messe a frutto rappresentano una peculiare modalità didattica che non sempre coincide con il corrispondente procedimento proprio della ricerca storica, soprattutto sul terreno dell’impiego delle fonti.
L’unità didattica sugli aspetti della famiglia italiana degli anni cinquanta egualmente realizzata all’interno del Landis (Raffaella Lamberti e Luisa Cigognetti), con un intento ancora più dichiarato di autoformazione per gli insegnanti coinvolti; più che un risultato conclusivo, si tratta degli itinerari di bordo, traccianti i percorsi compiuti, le esclusioni e le motivazioni. Il lavoro si è fondato su due testi base (Barbagli, sulla famiglia; Sorlin, sul cinema) usati come indicatori di concettualizzazione da esplicitare, approfondire attraverso fonti diverse, questionari, censimenti, materiali filmici. Il progetto tende a verificare l’ipotesi di fondo secondo la quale la famiglia italiana negli anni cinquanta ha subito mutamenti rilevabili, riflesso di quella particolare fisionomia dell’epoca che alcuni hanno definito di sviluppo repressivo. Parte essenziale della ricerca è stata la realizzazione di un audiovisivo con brani da films di famosi registi di quegli anni e dalle “Settimane Incom”, riorganizzati per settori indicativi dei modelli di consumo, delle forme dell’abitare, dei rapporti con i figli, della percezione
ed espressione della corporeità, con alla base, come criterio di analisi, quelli estrapolati dalla sociologia del cinema di Pierre Sorlin. Un’unità didattica complessa e articolata, nella quale l’intreccio fra storia e sociologia appare felice e fecondo, ma che certamente trova nell’impiego del visivo l’indicazione più efficace e il momento più nuovo suscettibili di produrre innovazione in didattica. Tuttavia, anche se non appare come una mera appendice al discorso storico, l’immagine non sempre risulta integrata nel contesto e pienamente, autonomamente significativa (alcuni interni di abitazioni, ad esempio, non rimandano automaticamente agli anni in questione, né tantomeno danno il senso delle trasformazioni in atto). Alcune di tali imperfezioni possono comunque sicuramente essere corrette in prosieguo del lavoro, così come l’intenzionalità e la fruibilità del tutto sul piano didattico appariranno più compiutamente.
Accenniamo appena, per ragioni di spazio e di competenza, agli altri prodotti della sezione “cinema, audiovisivi e didattica”, per segnalare Effetto cinema 2 (Giovanna Gri- gnaffini, per l’assessorato alla Cultura della Provincia di Bologna); Dentro la televisione (Claudio Bertasso e Peppino Ortoleva, per l’assessorato allTstruzione della Provincia di Torino); Vita e lavoro dei fornaciai a Beina- sco (Marcella Filippa, Enrico Balteri e Luisa Passerini).
Da presupposti alquanto diversi nasce l’intervento di Antonio Brusa, Luciana Benigno e Franca Farinasso. Viene intanto riaffermata l’irriducibilità fra ricerca e didattica e la sfiducia professata nell’insegna- tore-ricercatore; l’ipotesi quindi di unità didattica prospettata privilegia il ruolo centrale dell’operatività e del possesso di tecniche atte a smontare i risultati della ricerca e a rimontarli attraverso il confronto con modelli interpretativi “altri” . Tutto il discorso di Brusa appare organizzato intorno ad una successione di esercizi applicativi graduati per difficoltà progressive, che non as-
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sumono immediatamente come punto di riferimento il discente e le fasi del suo apprendimento, ma piuttosto rimpianto tecnico e operativo da mettere in campo.
All’esatto opposto rispetto al discorso di Brusa si colloca la ricerca d’ambiente realizzata nella II sperimentale dell’Istituto tecnico statale per geometri “G. Massari” di Mestre. Essa è fondata sul presupposto che sia l’insegnante stesso a farsi ricercatore e a fornire allo studente le fonti e il percorso guidato, nonché sull’adeguatezza della ricerca stessa all’età dei ragazzi, e sull’inserimento del processo educativo nella tensione trasformatrice, e viceversa.
Lo schema dell’intervento esposto da Chiara Puppini è centrato sui momenti della lettura-base informativa, con questionario per la raccolta dei dati, e sulla successiva individuazione di tre ambiti di ricerca sulle trasformazioni relative al verde, allo spazio urbano e alla politica, partendo da fonti e metodologie diverse perché adeguate alle coppie di docenti operatori (con materie diverse) che via via guidavano gli allievi. Le tre ricerche sono quindi confluite in un’unica mostra esposta al Centro civico di Mestre, servendo da sfondo a dibattiti e manifestazioni promossi dagli assessorati dei rami coinvolti.
Ancora in tema di sperimentazione si sono avuti gli interventi illustrativi di P. Paimeri, coordinatore del ciclo sperimentale dello “Stefanini” di Mestre, sicuramente di grosso interesse anche se apparsi collegati ad una realtà alquanto circoscritta.
Infine, nel workshop — autentica “vetrina” di operatività — presentatori, relatori, correlatori (A. De Bernardi, M. Gusso, I. Mattozzi e V. Lombardi) operatori e insegnanti, si sono ritrovati per il momento di più intensa e fattiva partecipazione dell’intero convegno.
Ha concluso Guido Quazza con un intervento di grande spessore etico e politico nel quale ha sottolineato l’eccezionale impegno degli istituti nel settore didattico e formativo, e lo straordinario rilievo culturale ma an
che politico e civile del rinnovato profilo professionale legato alla figura dell’inse- gnante-ricercatore.
Come si vede il senso profondo e più apprezzato dell’iniziativa è consistito in definitiva, proprio nella varietà e molteplicità dell’“offerta” , per così dire, essenziale e positiva risorsa contro l’appiattimento contenutistico dei programmi, uniformi e universali, ministeriali. Pure, la necessaria flessibilità che consente l’adeguamento alla grande varietà di situazioni che la condizione scolastica propone, richiede poi un altrettanto necessario ubi consistam unitario, da ricercare in direzione di una operatività coordinata, programmata e verificabile, scandita da curricoli che non siano nuove gabbie, ma elementi modulari di progressione logica ed epi- stemologica-disciplinare.
Solo un contesto del genere, tra l’altro, può aiutare a superare le false contrapposizioni tra saperi e discipline emergenti e quelli consolidati. Nel caso che ci riguarda più da vicino, tra scienze sociali e storia, consente di pescare con profitto in quella vasta area disciplinare “di confine” che dà vantaggi reali e sul versante contenutistico e su quello metodologico, senza intaccare il piano dello “specifico” storico.
Oggi, di fronte ad una riforma che avanza con il passo del gambero, si vede che poco o nulla si rinnova per aggiunzioni se resta fermo l’ideale conoscitivo di tipo universalistico, mentre occorre passare a tutt’altra visione delle cose e dei problemi a riguardo, ancorata al relativismo scientifico ed al sapere per relazioni, sconfiggendo alle radici il concetto stesso delle quantità indispensabili delle nozioni da apprendere. Oltretutto, un insegnamento fondato su questi presupposti risulta gratificante e creativo, ridà ai docenti e agli allievi il gusto di fare e costruire il proprio sapere, come si era intuito circa diciassette anni fa e come dopo si è fatto finta, un po’ tutti, di dimenticare.
Laura Capobianco, Guido D ’Agostino