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La memoria dei memorialisti - Portale della rete degli istituti per la ... · se gli storici...

Date post: 18-Feb-2019
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Note e discussioni La memoria dei memorialisti di Giovanni Falaschi In un’antologia che ho curato di recente per una collana scolastica degli Editori Riuniti (1984) ho sintetizzato il decorso molto acci- dentato della memorialistica partigiana in questi termini: alla memorialistica della pri- ma ondata, successiva alla Liberazione, sa- rebbe succeduta gradualmente una tendenza in cui le testimonianze sono più orientate dal punto di vista storiografico e, in particolare, gli autori sono più attenti al contenuto ogget- tivo della loro ricostruzione, e ancora, in po- che parole, tengono più presenti anche le te- stimonianze altrui e si appoggiano su docu- menti. Ovviamente io volevo esprimere una tendenza generale, senza negare l’esistenza, magari anche nella memorialistica della pri- ma ondata, di testimonianze fondate sul ri- cordo personale e, in più, esibenti una docu- mentazione di natura, per esempio, politi- co-militare. In sostanza, io ritenevo opportu- no affermare una cosa banale, non perché ri- volgendosi agli studenti medi si devono dire delle cose banali, ma al contrario: perché ri- volgendomi a lettori che supponevo ignari di questo problema dovevo dare in modo sinte- tico e preciso l’informazione che ritenevo es- senziale essi dovessero possedere per rendersi conto di un fenomeno nelle sue linee genera- li. E proprio in termini generali scrivevo che gli autori di testimonianze partigiane più vi- cini a noi “sono più attenti agli aspetti docu- mentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avveni- menti di cui furono in qualche modo prota- gonisti e perciò si sentono in dovere di preci- sare, confutare o confermare le affermazioni altrui”. Non sono così ingenuo da ritenere che la memorialistica recente sia stata scritta solo per confutare o correggere quanto testi- moniato da altri, né tanto meno che prima di esporre un fatto il narratore sia andato: a. a controllare tutti i documenti eventualmente esistenti sul fatto stesso, t b. a leggersi tutte le ricostruzioni storiche di esso e, natural- mente, del suo contesto. Citavo, come uno dei testi significativi di questa attenzione ai documenti, le Lettere a Milano di G. Amen- dola (1973), ma anche Da Empoli a Genova di R. Scappini (1981). Tutto il mio discorso, e in particolare l’interpretazione di quel libro di Amendola, non sono piaciuti a G. Grassi il quale, nell’ultimo numero di questa rivista (156) ha citato, contro le mie opinioni, un passo dall’introduzione di Amendola a quel libro del 1973: “La rievocazione degli avve- nimenti che ho vissuto — scriveva Amendola — è fondata sui documenti ritrovati e sui miei ricordi senza che, tranne rare eccezioni, io abbia fatto alcuno sforzo particolare per controllare i ricordi e confrontarli con altre fonti. Non ho perciò utilizzato alcuna nota bibliografica, in appoggio a questa o a quella versione dei fatti da me sostenuta. Potrei fa- cilmente disporre di numerose pezze di ap- poggio fornite dai libri. Ma non sarebbe una documentazione bibliografica esauriente, e criticamente controllata. Ho preferito per- Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase. 158
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Note e discussioni

La memoria dei memorialistidi Giovanni Falaschi

In un’antologia che ho curato di recente per una collana scolastica degli Editori Riuniti (1984) ho sintetizzato il decorso molto acci­dentato della memorialistica partigiana in questi termini: alla memorialistica della pri­ma ondata, successiva alla Liberazione, sa­rebbe succeduta gradualmente una tendenza in cui le testimonianze sono più orientate dal punto di vista storiografico e, in particolare, gli autori sono più attenti al contenuto ogget­tivo della loro ricostruzione, e ancora, in po­che parole, tengono più presenti anche le te­stimonianze altrui e si appoggiano su docu­menti. Ovviamente io volevo esprimere una tendenza generale, senza negare l’esistenza, magari anche nella memorialistica della pri­ma ondata, di testimonianze fondate sul ri­cordo personale e, in più, esibenti una docu­mentazione di natura, per esempio, politi- co-militare. In sostanza, io ritenevo opportu­no affermare una cosa banale, non perché ri­volgendosi agli studenti medi si devono dire delle cose banali, ma al contrario: perché ri­volgendomi a lettori che supponevo ignari di questo problema dovevo dare in modo sinte­tico e preciso l’informazione che ritenevo es­senziale essi dovessero possedere per rendersi conto di un fenomeno nelle sue linee genera­li. E proprio in termini generali scrivevo che gli autori di testimonianze partigiane più vi­cini a noi “sono più attenti agli aspetti docu­mentari, all’esattezza storica dei fatti, poiché scrivono dopo che sono state pubblicate da altri delle ricostruzioni storiche degli avveni­

menti di cui furono in qualche modo prota­gonisti e perciò si sentono in dovere di preci­sare, confutare o confermare le affermazioni altrui” . Non sono così ingenuo da ritenere che la memorialistica recente sia stata scritta solo per confutare o correggere quanto testi­moniato da altri, né tanto meno che prima di esporre un fatto il narratore sia andato: a. a controllare tutti i documenti eventualmente esistenti sul fatto stesso, t b. a leggersi tutte le ricostruzioni storiche di esso e, natural­mente, del suo contesto. Citavo, come uno dei testi significativi di questa attenzione ai documenti, le Lettere a Milano di G. Amen­dola (1973), ma anche Da Empoli a Genova di R. Scappini (1981). Tutto il mio discorso, e in particolare l’interpretazione di quel libro di Amendola, non sono piaciuti a G. Grassi il quale, nell’ultimo numero di questa rivista (156) ha citato, contro le mie opinioni, un passo dall’introduzione di Amendola a quel libro del 1973: “La rievocazione degli avve­nimenti che ho vissuto — scriveva Amendola — è fondata sui documenti ritrovati e sui miei ricordi senza che, tranne rare eccezioni, io abbia fatto alcuno sforzo particolare per controllare i ricordi e confrontarli con altre fonti. Non ho perciò utilizzato alcuna nota bibliografica, in appoggio a questa o a quella versione dei fatti da me sostenuta. Potrei fa­cilmente disporre di numerose pezze di ap­poggio fornite dai libri. Ma non sarebbe una documentazione bibliografica esauriente, e criticamente controllata. Ho preferito per-

Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase. 158

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ciò rinunciarvi del tutto, anche per non appe­santire il racconto con un ingombrante appa­rato di note” (il passo in corsivo non è citato dal Grassi). In sostanza, conclude il Grassi con una certa fretta, proprio Amendola, che io citavo come esempio di una memorialisti­ca diversa da quella caratteristica della prima ondata, mi smentisce palesemente. In realtà, ammesso e non concesso che io attribuissi a tutte le memorie più recenti quei caratteri di perfetta documentazione, confutazione di te­si storiografiche e cosi via, Amendola mi dà perfettamente ragione perché:

1. parla di “documenti ritrovati”;2. egli stesso è sicuro che ciò che raccon­

ta nel libro potrebbe essere facilmente con­fortato da ciò che è stato scritto in altri li­bri;

3. dice di aver rinunciato a documentare i fatti con altre fonti non perché quelle fonti gli sfuggano, ma perché non è sicuro che le pezze su cui potrebbe appoggiarsi siano tutte le pezze disponibili;

4. dichiara di avervi rinunciato per motivi materiali, evidentemente perché, ben co­sciente che il proprio lavoro era di enorme mole (ben 763 pagine), non intende appesan­tirlo ulteriormente. Con questo, Amendola vuol dire appunto che avrebbe potuto appe­santire il testo, cioè avrebbe potuto citare nu­merose, anche se non tutte, le testimonianze altrui, ma non lo ha fatto. E invece

5. Amendola lo ha fatto: nella nota bi­bliografica in appendice al volume, e che è lunga quasi sette pagine, Amendola cita le sue fonti bibliografiche pur avendo rinuncia­to a menzionarle tutte nelle note a piè di pa­gina. Ancora di più:

6. in coerenza con quanto aveva scritto nell’introduzione avverte in questa bibliogra­fia che essa costituisce “L’elenco di una par­te dei libri da lui letti sull’argomento, e che sono, perciò, entrati inevitabilmente a con­correre, assieme ai suoi ricordi, nel dare degli eventi cui ha partecipato una certa rappre­sentazione” .

7. Le citazioni vanno fatte sempre per in­tero. Poco sotto il passo dell’introduzione amendoliana citata dal Grassi l’autore conti­nuava: “Nel corso degli anni ho letto, natu­ralmente, molto di quello che è stato pubbli­cato sulla storia della resistenza. Non posso perciò negare che nel rievocare dal fondo della memoria i ricordi di quei giorni, di quei fatti, di quelle persone [...] io abbia utilizza­to, inavvertitamente, i frutti delle letture compiute nel corso degli anni” . In conclusio­ne: se dovessi scegliere un’altra volta un testo fondamentale per esemplificare il rapporto fra memoria personale e fonte documenta­ria, e magari anche ricostruzione storiografi­ca altrui, credo che sceglierei di nuovo que­sto di Amendola; e la sua rappresentatività in questo senso spero sia chiara a tutti dopo quanto ho detto sopra.

Voglio tuttavia cogliere l’occasione per di­scutere in termini generali, ma non generici, la questione della natura delle fonti resisten­ziali costituite da memorie, e quella della lo­ro utilizzazione da parte degli storici. Rin­grazio quindi il Grassi per avermene dato l’occasione e trovo che sia un suo merito quello di aver fatto la pur breve rassegna del­la memorialistica uscita negli ultimissimi an­ni, perché un problema della memorialistica come genere esiste. Non pretendo in questa sede, e per questa occasione, di risolvere il problema, ma solo di impostarlo articolando quanto avevo scritto sinteticamente e che ha suscitato il dissenso del Grassi. Mi basta, co­me direbbe Fenoglio, fissare i paracarri; poi sarà fatta la strada.

Il fatto straordinario

Alle origini della testimonianza scritta sta uno scatto automatico per cui il raccontato- re, protagonista o testimone di fatti straordi­nari, vuole che rimanga memoria di quei me­desimi fatti e di lui stesso che li ha vissuti. I memorialisti della Resistenza possono essere

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accomunati in questo senso agli antichi cro­nisti e agli storici che presero la penna per raccontare i fatti accaduti nella loro vita e che per la loro eccezionalità erano degni di essere conosciuti anche dai posteri. Io sono un lettore di testi storici e di cronache del Ri- nascimento: vi leggo il passaggio degli eserci­ti nemici nel territorio dello Stato cui appar­tiene lo storico, la visita degli ambasciatori, gli scontri tra fazioni opposte, i fatti del con­tado, il diffondersi di voci paurose e incon­trollabili, accadimenti di fatti naturali inu­suali: la neve d’aprile, i fiumi che ghiaccia­no, delitti compiuti da misteriosi personaggi stranieri. E fatti privati: la morte dei con­giunti, l’andata in guerra, l’inizio del lavoro, i matrimoni, le nascite. Tutti gli storici scel­gono delle date, cioè periodizzano, e spesso scelgono date traumatiche, come quelle che hanno fatto registrare i più profondi cambia­menti nello Stato. A Firenze: il 1492 (anno della morte di Lorenzo), il 1527 (anno dell’i­nizio dell’assedio della città), a Roma, anco­ra il 1527 (il Sacco). I testimoni della Resi­stenza raccontano i fatti accaduti nel periodo del grande rivolgimento dello Stato naziona­le di questo secolo, il 1943-45; scelgono dun­que anch’essi una data traumatica. Sono sta­ti gli storici contemporanei studiosi della Re­sistenza che non hanno dato profondità e spessore a queste memorie, non le hanno vi­ste, cioè, per quelle che sono: testimonianze nate per un bisogno automatico di documen­tare fatti eccezionali, straordinari, e testimo­nianze che segnano la presenza umana in mezzo alla catastrofe della guerra. Testimo­nianze, solo per questo, razionali e pedagogi­che, accomunabili alle antiche forme e generi letterari con cui le comunità trasmettevano alle generazioni future le proprie conoscenze storiche, dalle fiabe al racconto orale, alle cronache di ogni livello e tipo. Sono stati for­se gli storici contemporanei che hanno per­duto la memoria e, insieme, il senso profon­do di questi documenti. Gli scrittori hanno fatto di meglio. Fenoglio è riuscito a capire

che la propria esperienza somigliava all’espe­rienza bellica narrata dai poemi epici e che sta a fondamento delle varie identità nazio­nali. Per questo ha tentato la costruzione del romanzo epico; c’è riuscito per quanto pote­va riuscirgli avendo a disposizione una lin­gua così complessa come quella italiana. (Ma questo è un altro discorso perché non è di Fe­noglio che devo parlare).

Chi frequenta gli istituti storici della Resi­stenza avrà notato che i libri più polverosi sono le cronache stese a caldo subito dopo la guerra. Gli storici direi che ne diffidano per­ché si fidano di più dei documenti politici, sindacali e militari che non delle testimonian­ze. È questo un modo vecchio di fare storia perché si ritiene che il documento militare o politico sia più oggettivo, e perciò più veritie­ro, della testimonianza scritta con un lin­guaggio comune da un protagonista; ma in realtà il documento politico o il resoconto militare danno dei fatti un’interpretazione che è insita nello stesso linguaggio politico e sindacale con cui quei fatti sono trasmessi, cosicché attraverso i resoconti militari e i do­cumenti politici si è fatta storia soprattutto dei fatti militari e dei raggruppamenti politici attivi nella Resistenza. Certo qualche ecce­zione non manca, ma come sempre serve a confermare la regola.

Voglio muovermi un’obiezione e apro a caso un bel libro di memorie, Banditi, di Pietro Chiodi. Alla p. 14 della ristampa ei- naudiana del 1975, sotto la data del 27 luglio 1943, leggo: “È una magnifica giornata. Si respira a pieni polmoni. Sono al Liceo e guardo dalla vetrata il giardino. Non mi ero mai accorto che il Liceo fosse così splenden­te e pieno di luce. Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere ver­so di Lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, di affidato, in parte, anche a me, alla mia intel­ligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sa­crificio” . Che senso ha per uno storico que-

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sto pezzo? Al massimo che il professor Pietro Chiodi, insegnante al Liceo di Alba, di anni (mi pare) ventotto, scrive patria con la maiu­scola (educazione “risorgimentale”), è anti­fascista, ha un senso dell’impegno civile pri­ma di tutto come fatto etico. Per la storia di Chiodi è già qualcosa. Ma mi voglio fermare su un particolare che appare trascurabile, ed è contenuto nelle prime righe del passo. Dun­que: la mattina del 27 luglio 1943 un inse­gnante di provincia, ma non per questo è un provinciale, guarda il giardino del liceo dove insegna e lo trova “splendente e pieno di lu­ce” come non mai. Il particolare appare del tutto trascurabile, non interessante né per la piccola né per la grande storia. E invece ha un grande significato, perché esistono delle date in cui accade qualcosa che ci fa sembrare che il mondo giri su altri cardini e che all’im­provviso si aprano davanti agli uomini delle strade mai battute; accorgersene significa che il desiderio di esse era stato rimosso, e le co­se, i luoghi e le persone appaiono all’improv­viso sotto una luce diversa, in questo caso mi­gliore. Credo che questo accada soprattutto da giovani. In quelle due righe di Chiodi c’è secondo me l’inizio del cammino compiuto da una generazione verso la propria maturi­tà. Il vedere che fa Chiodi il giardino del liceo sotto una nuova luce dev’essere assimilato al­la scoperta dell’ambiente caratteristica della Resistenza; ha scritto giustamente Domenico Tarizzo: “Un popolo di ciechi ha cominciato a vedere, gli italiani scoprono la montagna, il bosco, il fondovalle”. Che le cose abbiano una luce nuova è ovviamente una conseguen­za della prospettiva; così quell’innocente det­taglio con cui si iniziava il passo contiene pro­prio il senso della nuova esperienza. Che sia necessario anche un mutamento di prospetti­va da parte degli storici della Resistenza?

Sotto la data del 10 novembre 1943, il par­tigiano ligure, avvocato ebreo, Pino Levi Ca- vaglione, attivo nei Castelli Romani, annota di aver dormito con tre contadini che puzza- vano (o, come scrive lui, “che non facevano

certo il bagno ogni giorno e forse neppure ogni mese”); annota anche che non ha potuto farne a meno, ma polemizza col suo compa­gno Fabio che non riesce ad adattarsi alla nuova vita di partigiano. Che importanza si deve annettere a questa pagina di diario? Se­condo me molta, ma il diario, fatto pubblica­re da Pavese per la prima volta nel 1945, è ri­masto inutilizzato dagli storici di problemi sociali. Invece di diari come questo ha biso­gno la storia dei rapporti di classe durante la Resistenza, perché non ci si può limitare ai soli documenti di natura sindacale e politica. Studiare queste memorie significa scoprire le trasformazioni individuali, le reazioni dei giovani intellettuali borghesi o piccoli bor­ghesi di fronte al mondo contadino o a quello operaio. È in questa chiave che vanno lette le parti in cui gli stessi autori annotano che i ge­nitori non potrebbero rinoscere in loro il ra­gazzo borghese d’un tempo. Il fatto è che del­la Resistenza si è studiato di più il conflitto militare (ed era ovvio) e i conflitti politici che non quelli sociali, e quando si sono studiati i conflitti sociali si è inteso vedere, all’occor- renza, lo scontro di classe che passava per fa­scismo/antifascismo ma non la diversifica­zione di classe alPinterno della Resistenza; e quando si è fatto anche questo si è considera­to, come tavole di riscontro dei conflitti so­ciali fra antifascisti, i programmi politici ela­borati per l’emancipazione delle classi subal­terne. Questa almeno è la linea di tendenza, e in questo consiste la stragrande maggioranza del materiale di studio sui rapporti di classe.

Sotto la data 10 dicembre 1943 Emanuele Artom annota: “Mi sono comprato un bacile di alluminio che costa quaranta lire e che mi servirà per tre usi: secchio per attingere ac­qua dal pozzo, catino per lavarmi e catino per lavare gli indumenti. Mi sono già lavato tre fazzoletti, lavoro in cui riesco piuttosto bene” . Non è il diario di un marito d’altri tempi lasciato dalla moglie, né quello di uno studente che abita una stanza in affitto in cit­tà. È il diario d’un commissario politico giel-

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lista, ebreo, morto sotto le torture. Eppure il suo diario è pieno di annotazioni che superfi­cialmente potrebbero apparire trascurabili. Prende la penna in mano e ci racconta minu­tamente quello che sta facendo, e mentre scrive, al freddo, si mette a pensare ai topi che sono in casa, quindi alle trappole che non ha messo, e ci spiega le ragioni per cui non le ha messe, con molta precisione. An­nota un’altra volta che gli è caduta la secchia nel pozzo, che non sapeva accendere il fuoco e neppure un fiammifero. Sono annotazioni prive di carattere storico? Sono minutissimi frammenti di una biografia che sarebbe altri­menti trascurabile se non si sapesse, dallo stesso diario, dei rapporti politici tenuti dal­l’autore? Queste osservazioni minute acqui­stano un grande significato se le rivediamo ancora una volta come risultato di un impat­to duro fra un giovane borghese e gli operai comunisti in cui lo stesso si trovò ad agire. Era un conflitto di abitudini e di capacità (annota Artom: “Questi comunisti sono molto più pratici e industriosi di noi: oggi io ho lasciato la secchia in fondo al pozzo; que­sto ai comunisti non capita perché sono ca­paci di lavorare con le mani”), di cultura e di mentalità. Alla luce di questo diario e di altri simili il blocco costituito da quello che comu­nemente si chiama movimento partigiano si disarticola e ci si rende conto bene che gli esi­ti politici del dopoguerra hanno anche la loro radice dentro il movimento resistenziale (o meglio: risultano molto più chiari i termini delle differenze interne al movimento parti­giano che già si conoscono da tempo). Que­sto della natura di fonte storica delle memo­rie più antiche, anche ovviamente ben oltre le indicazioni che do qui, mi pare una questio­ne essenziale.

Le memorie: letteratura o fonte storica?

Negli anni sessanta, in uno scambio di opi­nioni fra scrittori sulle pagine di un quotidia­

no (che per questa occasione non ho avuto il tempo di rileggere), se ben mi ricordo Calvi­no sosteneva che il nostro maggiore scrittore è Galileo. Cassola gli rispondeva che invece è Dante. Certamente aveva ragione Cassola, ma la sua risposta era in un certo modo trop­po facile, perché la preferenza espressa da Calvino conteneva un atteggiamento nuovo, più sottile e moderno: letteratura non è sol­tanto fiction ma è un risultato artistico che si raggiunge, quando si raggiunge, occupando­si anche di astronomia (e quindi di storia po­litico-militare, di zoologia, di psicanalisi ecc.). Grandi scrittori sono, oltre a Galileo, Machiavelli e Guicciardini. Anche questa può sembrare una banalità, ma non lo è (o perlomeno non è inutile richiamarla in que­sta occasione) se è vera la mia impressione e cioè che gli storici si sono tenuti più lontani del dovuto da molta memorialistica proprio per il forte contenuto emotivo che l’ha ispi­rata (mi riferisco soprattutto a quella della prima ondata, ma non soltanto a quella). In sostanza mi pare che molti ragionino in que­sto modo: se un memorialista riporta dati (di qualunque natura: politica, militare, sinda­cale), e ancor più se riproduce documenti, al­lora costituisce una buona fonte per lo stori­co, ma se ricostruisce sul filo della memoria, e se, in definitiva, ci dà la sua immagine pri­vata dei fatti, allora è uno scrittore: così co­me è uno scrittore se parla di fatti minuti, che sembrano non interessare la “vera” sto­ria, che è quella degli avvenimenti d’interes­se non solo personale, dato che generalmen­te gli storici si interessano dei minuti fatti personali quando si riferiscono a grandi per­sonaggi. Allora la secchia caduta nel pozzo al maldestro Artom, il suo non saper accen­dere il fuoco, i fazzoletti da lui lavati per la prima volta, il sonno di Levi Cavaglione in promiscuità con contadini che puzzano non hanno nessuna rilevanza per lo storico. Ma io credo di aver dimostrato che invece ce l’hanno, basta essere storici in maniera di­versa.

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Alla collaborazione fra storici e studiosi di letteratura non solo ci credo, ma la ritengo indispensabile; non sono del resto degli stori­ci anche gli studiosi di letteratura, o almeno una parte di essi (storici delle forme linguisti­che, delle strutture narrative, delle ideologie ecc.)? Quello in cui credo meno è che esista­no gli storici-storici che si occupano dei fatti e i letterati che si occupano di quello che gli storici-storici non riescono a far rientrare nell’ambito dei fatti (comunque gli studiosi di letteratura sono ovviamente in torto, dato che siamo quattro o cinque in Italia a occu­parci di problemi letterari legati alla Resi­stenza mentre si sprecano gli studi su letterati minimi del passato).

La memoria dei memorialisti

Se è chiaro da quello che ho detto sopra il modo in cui anche le vecchie cronache scritte a caldo dopo la Liberazione e i diari debbano essere considerate fonti documentarie per lo storico e non solo campo d’indagine per gli studiosi di letteratura, si può tentare di but­tar giù qualche appunto sulla tecnica di que­sti testi e sul loro mutamento nel tempo.

Alcuni diari furono effettivamente scritti nella forma in cui ci sono rimasti durante la guerra di liberazione e sotto la data indicata esattamente dallo scrivente. È il caso di Ar- tom, il quale morì come si sa durante le guer­ra e perciò non rimise certamente le mani sul­le pagine scritte. Altri, come Bianco, prende­vano scheletrici appunti che poi sono passati alle stampe in quella forma concisa in cui fu­rono scritti. In molti diari, però, si legge sot­to una data precisa di avvenimenti che certa­mente non lasciavano spazio all’autore per stendere effettivamente in quella stessa data i propri ricordi: un partigiano in fuga, un al­tro preso prigioniero e poi avventurosamente scampato, non avevano certo il modo di scri­vere a tambur battente dei loro casi. Finita la guerra, restò nella loro mente la memoria dei

fatti e del tempo in cui avvennero, e ne scris­sero datandoli esattamente. Alcuni partigia­ni giravano con un taccuino dove registrava­no, nelle pause giornaliere, quello che aveva­no vissuto, e poi ampliarono (parlo di quelli che lo fecero effettivamente) quelle sintesi vergate in fretta. Fenoglio, pare, fece pro­prio così.

Una traccia da seguire nello studio delle forme letterarie legate alla Resistenza sareb­be dunque propria quella della forma-diario. Il diario autentico dovrebbe essere conside­rato quello pubblicato nella forma precisa in cui fu scritto durante la Resistenza questo in­dipendentemente dalla data di pubblicazio­ne: l’anno scorso, per esempio, è uscita La vita indivisibile di Piero Calamandrei (Edito­ri Riuniti), un diario che certamente l’autore non avrebbe mai pubblicato in quella forma (lo hanno fatto, giustamente, Bilenchi e Cec- chi dopo la sua morte) ma che pensava di rie­laborare per un romanzo autobiografico. Dunque, accanto al fenomeno del diario ve­ro a proprio c’è la rielaborazione degli ap­punti o la stesura a memoria di certi fatti ac­caduti in date precise. Questo potrebbe esse­re il confine tra il diario autentico e quella che si può chiamare la memorialistica resi­stenziale.

Per mettere ordine in questo intrecciarsi di generi (ai diari, alle memorie e alle ricostru­zioni più letterarie vanno aggiunte le rico­struzioni storiografiche fatte dai protagoni­sti) ritengo indispensabile una definizione del rapporto fra autori e fatti. Ora, non c’è dub­bio che chi scrive, a qualunque distanza di tempo, miri a raccontare la verità, solo che proprio il passare del tempo fa mutare il rap­porto con la verità. Nell’immediato dopo­guerra, quando i memorialisti scrivono, nelle loro brevi prefazioni, “questi sono i fatti così come li ho vissuti”, non indicano tanto lo sforzo della memoria quanto la possibilità che il lettore pensi che i casi non siano veri. L’io-narrante, insomma, conosce la verità e il suo vero problema non è tanto quello di

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documentarsi su di essa ma di costituire con il proprio scritto un documento per gli altri. Tant’è vero che nell’immediato dopoguerra mi sembra predominante il caso di testi costi­tuiti dal solo materiale memoriale, privi cioè del supporto di documenti di altra natura (circolari militari e così via, anche se non è assente il caso di memorie che esibiscono ma­teriale documentario).

Col passare del tempo, confondendosi o annebbiandosi la memoria dei fatti, un auto­re, così personalmente depauperato, non può fare a meno delle ricostruzioni date da altri: dovendo verbalizzare un ricordo non può non ricorrere alle forme di altre verbaliz- zazioni, cioè, per esempio, a ciò che hanno scritto altri su quei casi o magari a ciò che al­tri testimoni riferiscono oralmente sui mede­simi. Questo è un processo che va ammesso in via generale e che si intuisce non poter es­sere stato che così. La cosa interessante non è questa, quanto il grado di coscienza che han­no alcuni autori di questo processo di perdita di memoria e della necessità di recuperarla in qualche modo. Voglio fare alcuni esempi. Quando Mario Spinella, nella sua Memoria della Resistenza, scrive, nel 1972, che con le pagine, stese più di dieci anni avanti, vuole offrire una “testimonianza”, e di non pro­porsi “né fini letterari né di documentazione storica” e che per questo esse hanno “limiti, oggettivi e soggettivi”, vuol dire semplice- mente che ha scritto quello che si ricordava, ma esplicitamente ci avverte dell’esistenza di documentazioni a cui non ha fatto ricorso; ed è a causa di quelle documentazioni, e del progresso delle ricostruzioni storiche verifi­catosi col passare del tempo, che egli parla dei “limiti” del proprio lavoro. Nessuno dei memorialisti della prima ondata avrebbe mai potuto scrivere che esistevano dei documenti tali da permettere di ricostruire i fatti meglio di quanto non facesse lui raccontando a me­moria. E inoltre, Spinella usa fin dal titolo non il più preciso e univoco memorie, ma l’ambiguo “memoria”, che vuol dire piutto­

sto atto del ricordare la Resistenza che non oggettività del ricordo. Non so se il titolo ri­sale ai primi anni sessanta, quando il testo fu steso, o al 1974 quando il libro fu pubblica­to. È molto singolare tuttavia la coincidenza che in quello stesso 1974, sul “Corriere della Sera”esca un racconto di Calvino in cui si legge: “Da anni non ho più smosso questi ri­cordi rintanati come anguille nelle pozze del­la memoria. Ero sicuro che in qualsiasi mo­mento mi bastava rimestare nell’acqua bassa per vederli affiorare con un colpo di coda. Al più avrei dovuto sollevare qualcuno dei grossi sassi che fanno da argine fra il presen­te e il passato, per scoprire le piccole caverne dietro la fronte dove s’acquattano le cose di­menticate” (Ricordo di una battaglia, 25 aprile 1974). Allo scrittore impegnato nel mettere a fuoco un episodio bellico si mo­strano le stratificazioni di ricordi di fatti suc­cessivi accumulatisi su quel fatto antico: ri­cordare è possibile solo raccontando gli osta­coli che si frappongono al ricordo; il conte­nuto del ricordo diventa il fatto più la diffi­coltà di ricostruirlo. E proprio questa diffi­coltà di ricostruire gli episodi fa sì che i me­morialisti più vicini a noi abbiano bisogno delle testimonianze altrui se vogliono evitare di raccontare il gioco della memoria, come fa Calvino, o di rischiare a priori il limite di cui parla Spinella che è implicito nella ricostru­zione a memoria dei fatti accaduti tanto tem­po prima. Ritorniamo ora al punto da cui siamo partiti, cioè ad Amendola. Il suo è il caso certo di uno che di libri sulla Resistenza ne ha letti molti, ma la sua situazione, pro­prio in quei primi anni settanta, è del tutto si­mile a quella di Calvino e Spinella almeno nello sforzo di ricordare. Solo che quello che in questi ultimi autori, lettori non abituali di libri politici né di ricostruzioni storiche, è co­stituito dall’accumulo di altri ricordi, in Amendola è piuttosto costituito dall’accu­mulo anche dei libri letti. Di questo Amen­dola si rende ben conto quando dice che “nel rievocare dal fondo della memoria i ricordi

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di quei giorni, di quei fatti, di quelle perso­ne” può avere utilizzato, “inavvertitamente, i frutti delle letture compiute nel corso degli anni” . Non solo quindi Amendola riproduce documenti e li alterna con ciò che ricorda personalmente, ma addirittura ha una coscien­za precisa delle interferenze esercitate sulla me­moria dalle testimonianze altrui. Non solo: egli sa anche che una volta che un fatto viene verbalizzato in modo sbagliato, cioè ne viene data una versione erronea, l’individuo può memorizzare quella verbalizzazione conti­

nuando a ripetere la versione sbagliata. Si confrontino per questo le pp. 385-86 del suo libro dove confuta (e la confutazione dei rac­conti altrui era una delle caratteristiche che io, nelle mie pur scarne annotazioni, affer­mavo potessero avere le memorie più recenti) la versione di un fatto resa da uno dei due protagonisti (l’altro era proprio Amendola). Sintomaticamente il paragrafo dedicato dal­l’autore all’episodio si intitola Gli inganni della memoria.

Giovanni Falaschi

Si è svolto a Milano dal 22 al 24 aprile il convegno internazionale di studi, promosso dall'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia su

L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE E NELLA RESISTENZA

Nel fascicolo 160, luglio-settembre 1985, saranno ospitati alcuni contributi, as­sieme con altri presentati in convegni organizzati su temi analoghi dagli Istituti associati.

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La polìtica americana del dopoguerraVerso una nuova interpretazione?

di Giampaolo Valdevit

Strategies o f Containment. A Critical Ap­praisal o f Postwar American National Secu­rity Policy di John Lewis Gaddis (New York-Oxford, Oxford UP, 1982, pp. 432) è da un lato il primo tentativo di ricondurre in una direzione interpretativa unitaria la vasta e multiforme produzione del cosiddetto po­strevisionismo, una prospettiva di indagine sul problema delle origini della guerra fred­da, che ha cominciato a essere operante al­l’interno della storiografia americana dall’i­nizio degli anni settanta, mentre veniva inari­dendosi il dibattito fra studiosi di ispirazione ortodossa e di tendenza revisionista. Dall’al­tro lato lo studio di Gaddis si proietta beri al di là del circoscritto orizzonte temporale sul quale si è per lo più soffermata l’attenzione della storiografia postrevisionista (la secon­da guerra mondiale e l’immediato dopoguer­ra); in esso viene infatti ricostruito l’intero sviluppo della politica estera americana da Roosevelt a Carter.

Ci troviamo di fronte, pertanto, a una ri­scrittura della storia della politica estera americana fra guerra e dopoguerra secondo una prospettiva che appare, nelle sue linee generali ormai consolidata; nello stesso tem­po viene proposta una direzione di indagine capace di collegare con linearità gli sviluppi del primo dopoguerra a quelli dei decenni successivi.

L’elemento unificante, il filo conduttore del percorso interpretativo, nella duplice ve­ste che si è indicata, è costituito dall’analisi

della strategia del contenimento, una strate­gia che ingloba in sé aspetti politico-diplo­matici, economici, militari e ideologici, e che si articola, nel corso del trentennio postbelli­co, in una serie di codici strategici o geopoli­tici. Gaddis presenta tale strategia principal­mente come “risposta ad una sfida all’ordine internazionale in atto”; ma tutto lo svolgersi del discorso la fa apparire non tanto come una difesa, una reazione a iniziative dell’U­nione Sovietica. Nel corso della seconda guerra mondiale e nel primo dopoguerra l’ordine internazionale è infatti in via di ride­finizione in conseguenza di una complessa interazione di fenomeni, che non sono esclu­sivamente ascrivibili alle iniziative dell’uno o dell’altro degli stati che si avviano ad assu­mere il rango di superpotenze. Perciò la stra­tegia del contenimento sembra nascere piut­tosto dallo sforzo di adeguare la politica este­ra americana al sistema internazionale bipo­lare che sta allora emergendo. Con Rassestar­si, poi, di esso il contenimento tenderà a dive­nire il modulo di comportamento americano nella realtà internazionale, secondo le va­rianti che Gaddis viene via via ad illustrare.

È duplice — si è detto — la veste in cui questo studio si presenta, duplici le intenzio­ni che esso si propone. Quanto al primo aspetto — il tentativo di dare sistemazione organica ad un decennio di produzione sto­riografica postrevisionista — è lo stesso Gad­dis a sottolineare nell’introduzione l’inver­sione di tendenza rispetto al generale atteg-

Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase. 158

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giamento di tale storiografia, rispetto all’in­clinazione — da più parti rimproverata — a soffermarsi su aspetti particolari, su vicende circoscritte della politica estera americana, alla riluttanza a tracciare quadri di analisi e di interpretazione generale, pur avendo di­strutto poco alla volta le fondamenta sulle quali si reggevano le interpretazioni prece­denti. Rispetto a un orientamento di ricerca in cui hanno per lo più militato studiosi incli­ni a “spaccare il capello in quattro” (split­ters), Gaddis ravvisa l’esigenza di ritornare alla tendenza che fu propria dei revisionisti, e cioè a “considerare le questioni in blocco” (Jumpers) o quanto meno di “raddrizzare l’e­quilibrio” fra splitters e lumpers a favore di questi ultimi.

Nel procedere in tale direzione Gaddis rie­piloga i momenti salienti della politica estera americana fra guerra e primo dopoguerra in un quadro che compone politica interna e politica estera, percezioni delle iniziative so­vietiche e reazioni ad esse, relazioni fra vari apparati burocratici e di governo. Si tratta solo dei punti nodali di un processo che egli è andato analiticamente ricostruendo in varie sedi a partire dal suo saggio del 1972 (The United States and the Origins o f the Cold War 1941-1947, New York, Columbia UP), uno dei primi contributi di rilievo in senso postrevisionista.

La percezione di un nuovo ordine interna­zionale e degli interessi americani su scala mondiale affiora — esordisce Gaddis — a Washington già nel corso della guerra; ed è proprio questa a far prevalere la tendenza a ricercare soluzioni di compromesso ai pro­blemi che si pongono all’interno della “Grande Alleanza”. Il disegno di Roosevelt è dunque quello di integrare l’Unione Sovieti­ca nel sistema internazionale e la tendenza al­la trattativa permane anche al di là della fine della guerra. Ma al compromesso, alla fragi­lità che esso ha dimostrato, Truman di fatto preferisce il qui pro quo, la contropartita im­mediata, sulla base della negotiation from

strength, nell’ipotesi di possedere gli stru­menti (la bomba atomica, l’aiuto economi­co) in grado di costringere l’Unione Sovietica alla trattativa. È una prospettiva che si fonda sulla consapevolezza degli Stati Uniti come potenza leader in campo mondiale, attrezza­ta ideologicamente a rivestire il ruolo che le assegnano le conseguenze della guerra (la cri­si del sistema multilaterale, il declino del­l’Europa come centro della politica interna­zionale), come “potenza imperiale” — se vo­gliamo rispolverare un termine caro alla sto­riografia revisionista — in grado di stabilire le regole (le nuove regole) del gioco delle re­lazioni internazionali.

La validità dell’ “imperial framework of analysis” è stata in seguito ribadita da Gaddis (The Emerging Post-Revisionist Synthesis on the Origins o f the Cold War, “Diplomatic History”, 7, summer 1983, pp. 182-83); più recentemente, poi, un altro studioso america­no, Melvyn Leffler, ha illustrato come fosse una percezione degli interessi su scala mon­diale alla base delle concezioni americane in tema di sicurezza nazionale, anche se appare datata la conclusione che ne ha tratto, cioè che se l’Unione Sovietica non fosse esistita sarebbe stato necessario crearla (The Ameri­can Conception o f National Security and the Beginnings o f the Cold War, 1945-48, “Ame­rican Historical Review”, 89, aprii 1984, pp. 346-81). Il fatto è che tali concezioni non si determinano nel vuoto, astraendo dall’anda­mento delle relazioni internazionali che, dal­la fine della guerra, fa dell’Unione Sovietica l’altra superpotenza.

L’impermeabilità sovietica alla trattativa— come la definisce Kennan in un documen­to chiave, il long telegram del febbraio 1946— ovvero l’indisponibilità sovietica a eserci­tare una posizione subordinata nel contesto internazionale, ad accettare passivamente le regole del gioco imposte dagli Stati Uniti, te­stimonia 1’esistenza di due mondi autosuffi­cienti, rappresenta in certo qual modo l’atto di nascita della nuova realtà bipolare. Secon­

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do un’impostazione che risale al suo volume del 1972, Gaddis presenta la guerra fredda come il risultato di un’interazione all’inter­no del nuovo sistema internazionale. In tal modo, in consonanza con l’orientamento postrevisionista, egli mette da parte l’inter­rogativo: “chi scatenò la guerra fredda?”, un interrogativo cui la storiografia ortodos­sa e quella revisionista hanno dato risposte contrapposte e che costituisce ancora una tentazione ricorrente nella storiografia ame­ricana. A tale proposito, intervenendo sul già ricordato saggio di Leffler, Gaddis ha ri­badito che “il problema centrale per chi stu­dia la guerra fredda non è se i due maggiori antagonisti hanno cercato ed ottenuto [lo status di] grande potenza, ma come si sono adoperati a cercarlo e cos’hanno fatto una volta ottenutolo” (comment a The Ameri­can Conception o f National Security, cit., p. 384).

Dal delinearsi, dunque, della nuova realtà internazionale, dalla percezione della bipola­rità — un tema, questo, che meriterebbe un’indagine assai più approfondita di quan­do non si sia fatto fin qui — si sviluppa la strategia del contenimento, cioè la nuova modalità di presenza degli Stati Uniti in un contesto internazionale dominato da due su­perpotenze che iniziano a dar prova di un’in- componibilità di interessi.

Nell’individuare gli strumenti concettuali della nuova strategia, Gaddis privilegia il ruolo di George Kennan, capo del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato dal 1947 al 1949, al quale egli attribuisce un di­ritto di primogenitura — che ad alcuni è ap­parso forzato — nella formulazione della po­litica del contenimento. In conseguenza di una concezione disarmonica del potere inter­nazionale, Kennan rifiuta l’approccio uni­versalistico, wilsoniano, a favore di una vi­sione particolaristica che sappia dar vita a un equilibrio capace di evitare il formarsi di una potenza dominante a livello internazionale. Il cardine di tale equilibrio è offerto dalla de­

finizione dei cinque centri di potere indu­striale e militare (USA, URSS, Inghilterra, Europa centrale e Giappone) e dal correlato obiettivo volto a impedire che altri centri si aggiungano a quello — l’Unione Sovietica, ovviamente — che già si trova in campo con­trapposto agli Stati Uniti. Ne consegue una concezione selettiva del contenimento, che privilegia l’Europa occidentale ed il Giappo­ne, due aree rese vulnerabili dalle condizioni di instabilità interna. Da qui ha origine il di­segno volto a restaurare il balance o f power in Europa attraverso l’aiuto economico, il Piano Marshall cioè, che Gaddis finalizza, con una certa forzatura, alla creazione di un’Europa occidentale intesa come terza for­za. Kennan — va infine aggiunto — non fa del contenimento un fine in sé della politica estera americana, ma lo considera piuttosto come uno strumento che induca l’Unione So­vietica ad accettare le regole del gioco, un’a­spettativa che non può non collegarsi all’im­magine di un bipolarismo non consolidato o irrevocabilmente irrigidito.

Ciò, direi, fa di Kennan un uomo di pas­saggio e del suo pensiero qualcosa che si sot­trae alla possibilità di interpretazioni univo­che e nettamente orientate. Si ha invece, tal­volta, l’impressione che Gaddis voglia accen­tuare la linearità e la fissità del pensiero di Kennan, la limpidezza della sua visione nel proporre una chiara selettività di impegni, e tenda a sottovalutare i germi di corruzione che nascono al suo stesso interno (un esem­pio alle pp. 57-58), e che non sembrano estranei alla creazione di quel gap “fra la concezione e la sua messa in atto” cui Gaddis ha accennato in alcuni lavori precedenti {The Strategy o f Containment in Containment: Documents on American Policy and Strate­gy, 1945-1950, a c. di T. Etzold e J.L. Gad­dis, New York, Columbia UP, 1978, pp. 25-37). Tutto ciò rischia talvolta di confon­dere l’andamento di quel processo che nel 1949 porterà l’amministrazione Truman ad abbandonare la concezione della risposta

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asimmetrica (nello stesso anno Kennan rasse­gnerà le dimissioni).

In realtà la strategia americana fra 1947 e 1949 non sembra univocamente definibile sulla base della teoria del contenimento nel­la versione di Kennan. È certamente fuor di dubbio la centralità della ricostruzione eco­nomica dell’Europa occidentale e del Giap­pone, che non costituisce però — come di­mostra il già ricordato saggio di Leffler — un primato di Kennan bensì una prospetti­va alla quale concorrono lo stato maggiore americano e i comandi in loco. Ma la poli­tica estera americana si muove anche in di­rezione estranee quando non opposte ai progetti di Kennan. È lo stesso Gaddis a ri­cordare che la retorica di Truman conside­ra il comuniSmo internazionale come un monolite (anche se si senta di sfruttare le spaccature al suo interno); che a Washing­ton si continua a fare affidamento sul pote­re deterrente costituito dalla superiorità in campo nucleare, che si aumenta la presenza navale nel Mediterraneo, si promuovono covert operations dedicando crescente at­tenzione alle tecniche della guerra psico- gica.

Ma, soprattutto, viene accantonata l’ipo­tesi di Kennan, che la strategia del conteni­mento possa indurre l’Unione Sovietica a Oodificare il proprio atteggiamento nelle re­lazioni internazionali, ad abbandonare la propria versione dell’universalismo a favore del particolarismo. Sotto infatti alcune deci­sioni americane a ridurre ogni margine resi­duo in tale direzione, a proporre il ritorno, in forme irrigidite, al principio della negotia­tion from strength: la creazione della Nato, la orazione dello Stato tedesco occidentale, il mantenimento delle truppe americane in Giappone, la decisione di costruire la bomba all’idrogeno.

Col 1950 si consolida quindi la nuova pre­messa di base della strategia americana, che segna a tutti gli effetti la nascita della nuova realtà bipolare: l’accento non è posto più sul­

l’analisi delle intenzioni sovietiche (di sferra­re un attacco), ma sulla capacità di farlo. Gaddis colloca dunque un tornante per la politica estera americana all’inizio del 1950, in consonanza con una periodizzazione or­mai largamente accettata. Si delinea un nuo­vo codice del contenimento — il secondo dei cinque analizzati nel volume — che ha come fulcro il documento del National Security Council NSC 68 dell’aprile 1950. Ne sono elementi costitutivi la concezione della “dife­sa perimetrale” , la risposta simmetrica, il ri­gido mantenimento del balance o f power, la parallela perdita di qualsiasi distinzione fra aree periferiche ed aree centrali per la sicu­rezza americana, la proliferazione di impe­gni, il build up militare, la fine della diplo­mazia. Adoperando come collante la retorica anticomunista che permea l’amministrazione Truman, il NSC 68 definisce l’interesse ame­ricano in funzione della minaccia sovietica; ne consegue che “tutti gli interessi [appaio­no] vitali, tutti gli strumenti utilizzabili, tutti i metodi legittimi” (p. 96).

Due mesi dopo la redazione del documen­to la guerra di Corea fa sì che “i sostenitori del NSC 68 non dovettero lavorare con l’im­pegno che era stato previsto al fine di strap­pare il consenso [su tale documento]” (p. 109). L’attacco in Corea induce a porre in at­to le prospettive segnalate dal NSC 68: l’in­cremento del bilancio militare, l’invio di truppe americane in Europa, il riarmo tede­sco; ma allo stesso tempo esso fa “impanta­nare [gli USA] in una guerra periferica con un avversario di secondo piano” (p. 117). Per quanto, nel giugno 1951, si firmi in Co­rea l’armistizio, la teoria della risposta sim­metrica comincia ad incontrare oppositori all’interno degli Stati Uniti. La tendenza a moltiplicare gli impegni e quindi anche i costi economici, la mancanza di una precisa rela­zione fra mezzi e fini, di una scelta sul what to do first fa dubitare delle capacità deter­renti di tale impostazione strategica, un in­terrogativo la cui soluzione Truman ed Ache-

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son affidano alla nuova amministrazione re­pubblicana che subentra nel gennaio 1953.

Fin qui, dunque, il volume di Gaddis ha l’aspetto di un bilancio storiografico sotto forma di rilettura complessiva della politica estera americana nell’immediato dopoguer­ra. È un bilancio — va sottolineato — an­cora aperto a nuovi apporti; in un interven­to più recente nel quale ha cercato di fare il punto sul postrevisionismo, su quanto esso è stato tributario e, alternativamente, in­novatore rispetto all’ortodossia e al revisio­nismo, lo stesso Gaddis ha espresso il dub­bio che la storiografia americana sia arriva­ta al “momento del decollo verso una sinte­si originale” ed ha ribadito che “molto ri­mane da fare” ed in varie direzioni: la per­cezione dell’avversario, la percezione ameri­cana del balance o f power, il ruolo delle bu­rocrazie, gli “internal determinants of fo­reign policy”, la ricerca comparata in pro­spettiva sincronica e diacronica, l’impatto della politica americana nelle altre società, la natura del sistema internazionale (The Emerging Post-Revisionist Synthesis, cit., pp. 183-90).

L’altra parte del volume, quella in cui si esaminano le articolazioni della strategia del contenimento da Eisenhower a Carter, si col­loca — come si è già detto — in un’altra pro­spettiva. Per quanto riguarda tale periodo la disponibilità delle fonti d’archivio è ovvia­mente molto limitata (l’accesso ad esse è ga­rantito quasi unicamente dalle biblioteche presidenziali) e la produzione storiografica è, per ampiezza, assolutamente incomparabile rispetto a quella che si riferisce alle origini della guerra fredda. Più costante è stato in­vece l’interesse degli studiosi di scienza della politica, una disciplina verso la quale Gaddis cerca di lanciare un ponte che possa collegar­la alla storia contemporanea, pur senza rin­chiudere quest’ultima entro modelli che ten­dono a cancellare o ad appiattire i processi. La chiave di tale operazione è data appunto dall’assunzione della strategia del conteni­

mento ad elemento conduttore della politica estera americana nell’intero arco del dopo­guerra. Si tratta di un percorso articolato e che si compone di varie tessere.

Nel seguire gli sviluppi della strategia del contenimento dai primi anni cinquanta alla fine degli anni settanta Gaddis individua tre diversi codici; il new look di Eisenhower e Dulles, la teoria della risposta flessibile se­guita da Kennedy e Johnson e la “distensio­ne” che caratterizza gli anni settanta.

Il new look di Eisenhower e Dulles si pone innanzitutto il problema del rapporto fra mezzi e fini della strategia americana, un rapporto che, dopo l’abbandono dell’impo­stazione di Kennan, è rimasto privo di una configurazione precisa. La premessa di base sulla quale il new look si fonda è una conce­zione rigida del bipolarismo, che proviene dal NSC 68: uno zero sum view o f the world, come la definisce Gaddis, per cui un vantag­gio di una delle due superpotenze significa automaticamente una perdita dell’altra e vi­ceversa. L’immagine della minaccia sovietica agli Stati Uniti, che era già presente nella for­mulazione di Kennan nonché nella linea di condotta di Truman e Acheson, acquista ca­rattere permanente, diventa un connotato immodificabile della realtà internazionale uscita dalla seconda guerra mondiale. Oltre a ciò la minaccia sovietica non è vista — come fino ad allora era avvenuto — in chiave geo­politica bensì in chiave ideologica: in altre parole, è l’ideologia comunista che spinge l’Unione Sovietica sulla via della rivoluzione su scala mondiale, verso il sovvertimento delle regole dello zero sum game.

Ne consegue un’inversione del rapporto fra mezzi e fini della strategia del conteni­mento. Mentre per Truman e Acheson il con­tenimento era una risposta che aveva lo sco­po di rimuovere la minaccia sovietica (e da questo punto di vista non dava come immo­dificabile la realtà bipolare), per la nuova amministrazione americana al potere dal 1953 al 1960 la minaccia sovietica appare co­

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me uno strumento — anzi lo strumento — utile a precisare gli scopi della strategia ame­ricana. Da questo punto di vista è solo appa­rentemente paradossale l’affermazione di Dulles per cui gli Stati Uniti avrebbero avuto “interesse ad essere minacciati” purché ciò avesse contribuito a mantenere VAmerican way o f life (p. 136).

Il contenimento — è implicito in tale ap­proccio — non aveva funzionato perché era una semplice reazione all’iniziativa avversa­ria; per la nuova amministrazione si tratta invece di riprendere in mano l’iniziativa, di rideterminare i principi fondamentali del­l’impostazione strategica americana, della cosiddetta deterrenza. Essa privilegia la ri­sposta asimmetrica e ciò dà corso alla teoria della massive retaliation, una teoria che alla minaccia avversaria contrappone la certezza della risposta, ma l’incertezza circa la natura di essa, in modo che l’avversario non possa più confidare di avere in mano l’iniziativa. L’uso dell’arma nucleare viene in effetti pre­visto in una varietà di circostanze (fra l’altro, come risposta a un attacco convenzionale in funzione tattica, in Corea e in Indocina). Le stesse alleanze, che si tende a disporre in mo­do da “accerchiare” l’Unione Sovietica, as­sumono una funzione deterrente; ed è in que­sto quadro la collocazione di armamenti nu­cleari tattici in Europa occidentale. Lo svi­luppo degli armamenti nucleari rende però obsoleta questa strategia; come nota nel 1957 un allora oscuro studioso di politica interna­zionale, Henry Kissinger, la guerra nucleare può non estendersi solo a patto che la con­troparte accetti di non farlo. La dottrina del­la massive retaliation — aggiunge Gaddis — contiene elementi di incertezza, e sono pro­prio questi a minarne la credibilità. Essa vie­ne infatti compromessa se la minaccia di ri­correre all’arma nucleare viene sistematica- mente seguita dalla rinuncia ad usarla. Inol­tre l’incertezza della dottrina impedisce di di­stinguere fenomeni dissuadibili da fenomeni non dissuadibili, realtà vulnerabili da realtà

invulnerabili all’attacco nucleare. In altre parole la deterrenza può funzionare solo se il comportamento da dissuadere non costitui­sce un impegno totale ed è sottoposto ad una direzione centrale (p. 180).

Ne consegue che l’aspetto dove la deter­renza mostra il limite più plateale è quello che si riferisce ai rapporti con i movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo. È qui che lo zero sum view o f the world, sul quale la deterrenza si regge, rivela un’estre­ma difficoltà a tradursi in atto. Il sostegno alle forze locali non comuniste e più in gene­rale il tentativo di canalizzare i movimenti di liberazione nazionale in direzione anticomu­nista — che sono altri aspetti del new look — non funziona. Esso rivela in molti casi un’a­simmetricità di progetti, di scopi, di prospet­tive, che porta progressivamente a considera­re il nazionalismo, il neutralismo come sino­nimo di asservimento all’Unione Sovietica. Pertanto l’aspetto più frequente che la deter­renza assume in tali contesti sono le covert operations, gli interventi della Cia, alla quale Eisenhower fornisce ampia copertura ed ap­poggio (sono finora noti i casi dell’Iran, Guatemala, Indonesia e Cuba nel corso degli anni cinquanta, le operazioni paramilitari contro il Nord Vietnam, le infiltrazioni di ri­fugiati in Europa orientale).

Tutto ciò logora Pimmagine degli Stati Uniti a livello mondiale e postula una ridefi­nizione della politica, un tema centrale nella campagna per le elezioni presidenziali del 1960, vinte dal partito democratico.

L’esigenza di garantire la stabilità ma sen­za impedire la diversità, di conciliare gli inte­ressi americani con i processi di modernizza­zione: è la “nuova frontiera” di Kennedy. Il nuovo presidente americano, peraltro, non altera lo schema concettuale dello zero sum game, per quanto il comuniSmo internazio­nale non appaia più come un monolite (la spaccatura fra Mosca e Pechino è ormai net­ta e l’ideologia comincia a fungere non più da elemento di unificazione ma di divisione).

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La percezione della minaccia appare quindi contrarsi, tende a confondersi l’oggetto del contenimento; e a ciò indubbiamente contri­buiscono le ampie oscillazioni sovietiche fra disponibilità alla trattativa e irrigidimenti (crisi di Berlino, Cuba, ripresa degli esperi­menti nucleari nell’atmosfera). Non di meno rimane la percezione della fragilità del balan­ce o f power mondiale: da qui il timore di es­sere umiliati, di apparire deboli (ed è degno di nota che nei momenti di svolta, anche in seguito con Kissinger, questa preoccupazio­ne diventa centrale nella politica estera ame­ricana).

L’inadeguatezza dell’opzione nucleare a garantire gli obiettivi del contenimento in de­terminati contesti spingono l’amministrazio­ne Kennedy verso una nuova formulazione della simmetria, attenta ad eliminare, a con­trollare i rischi, a privilegiare l’iniziativa e quindi ad espandere i mezzi. È da ciò che si sviluppa la teoria della “risposta flessibile”, di una risposta cioè che preveda la possibilità di vari escalatory steps prima di ricorrere al­l’arma nucleare; da qui il rafforzamento del­le risposte convenzionali (anche all’interno della Nato), l’addestramento di special for­ces, l’attenzione alle tecniche antiguerriglia o controinsurrezionali, una nuova enfasi sui mezzi non militari del contenimento (l’assi­stenza tecnica, economica) soprattutto in Asia, in Medio Oriente ed in America Lati­na. Sono gli anni dell’Alleanza per il Pro­gresso in America Latina, dei peace corps nel Terzo Mondo, della creazione dell’Agency of International Development: la filosofia comune è costituita dal tentativo di porre le società del Terzo Mondo in grado di soppor­tare processi di modernizzazione senza ricor­rere a soluzioni comuniste.

Nel campo della strategia nucleare la “ri­sposta flessibile” provoca un build up milita­re secondo l’equazione più armi = più flessi­bilità. Inizialmente la decisione è collegata alla ricerca della superiorità strategica; ma mano a mano che, nel corso degli anni ses­

santa, l’equilibrio strategico diventa un feno­meno irreversibile, si delinea la concezione della mutual assured destruction come cardi­ne della strategia nucleare elaborata dal se­gretario alla difesa McNamara. La deterren­za viene ora a fondarsi sulla capacità di resi­stere a un attacco di sorpresa e di scatenare una rappresaglia che provochi la distruzione reciproca (è quello che viene comunemente definito “l’equilibrio del terrore”). Il Mad quindi privilegia l’obiettivo di impedire un attacco piuttosto che quello di limitarne i danni e fa della vulnerabilità delle popolazio­ni un elemento di stabilità (su questi temi, per il lettore italiano, è utile il rinvio al recen­te volume di Carlo M. Santoro, Lo stile del­l’aquila. Studi di politica estera americana, Milano, Angeli, 1984, cap. VI).

Tornando alla strategia della “risposta flessibile”, essa è deputata a stabilire una precisa graduazione, una calibratura di im­pegni. È nel Vietnam che tale strategia viene sperimentata: come scrive Gaddis, “la politi­ca americana in Vietnam virtualmente rifles­se in un microcosmo tutti gli aspetti della ri­sposta flessibile e li applicò in pratica” (p. 237). Ed è il Vietnam quindi a rappresentare il case study di essa, a testimoniare il suo so­stanziale fallimento. È qui che si crea il mag­giore divario fra intenzioni ed esiti. La deter­renza, la stabilità del balance o f power, l’in­tegrità degli impegni, la credibilità, il consen­so interno — tutti obiettivi che l’escalation mira a conseguire — vengono totalmente smentiti, al punto che l’unica prospettiva si­cura è quella di evitare la sconfitta, Tunica alternativa è fra continuare la guerra o porle termine, vincere o perdere. Tale obiettivo as­sorbe l’amministrazione americana al punto tale — secondo Gaddis — da farle smarrire la percezione di una più articolata strategia, da provocare anzi un vuoto di strategia. I rapporti con gli alleati della Nato, la spacca­tura fra Unione Sovietica e Cina, PAmerica Latina, il Medio Oriente (dove cresce negli anni sessanta l’influenza sovietica) ricevono

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attenzione occasionale, mentre la crisi di cre­dibilità si ripercuote pesantemente all’in­terno.

Alla fine degli anni sessanta quindi il con­tenimento non è più una strategia, cioè “una calcolata relazione di mezzi e fini” . È in que­st’epoca che, col passaggio dall’amministra­zione democratica a quella repubblicana, con la presenza di Kissinger alla guida della politica estera, si determina una svolta, un fenomeno che già altri hanno posto in luce, Hoffman innanzitutto. Si tratta — precisa però Gaddis — non di una rottura netta con le impostazioni precedenti, ma piuttosto del­la combinazione di vecchi e nuovi approcci (percepibile soprattutto se si considera la messa in atto della nuova strategia più che la sua enunciazione teorica).

Per quanto riguarda gli aspetti nuovi, essi si compendiano in quella che viene chiamata la distensione, una concezione la cui paterni­tà viene attribuita, con una certa forzatura, a Kennan. La distensione si fonda su una raffi­gurazione degli interessi sovietici in chiave geopolitica (e da qui deriva l’apertura del dialogo con la Cina). Inoltre la distensione provoca l’abbandono della concezione del­l’equilibrio fra le due superpotenze fondato sul binomio — meccanicamente e sistemati­camente applicabile — espansione/conteni- mento, una concezione che aveva fatto degli Stati Uniti il perno del balance o f power, re­cuperando in tal modo, nonostante le affer­mazioni contrarie, i postulati universalistici. A tale concezione si sostituisce la visione di una piena interdipendenza fra Stati Uniti e Unione Sovietica, una visione del potere mondiale a carattere multidimensionale (pentagonale, dirà Kissinger), in cui è centra­le comunque il rapporto fra le due superpo­tenze, un rapporto fatto di “limitazioni reci­proche, coesistenza, cooperazione”: integra­re l’Unione Sovietica, quindi, nell’ordine mondiale stabilendo un codice di comporta­mento uniforme per le due superpotenze, che valga anche a controllare i fenomeni che i

politologi chiamano di “diffusione di poten­za” . Nel campo della strategia nucleare emerge la teoria della sufficienza strategica (trattato Salt 1 del 1972), che prevede co­munque un rafforzamento soprattutto dei si­stemi di difesa.

Per altri aspetti la strategia di Kissinger continua a battere strade note: perdura il ti­more di essere umiliati, di apparire deboli; anzi, il rigido mantenimento del balance o f power assume la funzione, per così dire, di precondizione alla messa in atto della nuova concezione dell’ordine mondiale. Per rag­giungerla — è il pensiero, l’ossessione di Kis­singer — l’equilibrio di potere fra Stati Uniti e Unione Sovietica deve essere congelato in tutte le aree ed in tutti i settori in cui sia in at­to un confronto, diretto o indiretto, fra le due superpotenze: e si moltiplicano gli inter­venti contro tutto ciò che si muove contro o al di fuori di questa logica (l’Unione Sovieti­ca, a dire il vero, non dimostra di concorrer­vi). Sono noti infatti l’ostilità di Kissinger verso l’eurocomunismo, gli interventi volti a destabilizzare il regime di Allende in Cile, la tendenza ad abbracciare certe cause perse (il regime bianco in Rhodesia, le colonie porto­ghesi, lo scià in Iran), a lasciarsi cogliere di sorpresa in certe crisi locali (la guerra fra In­dia e Pakistan nel 1971, la guerra del 1973 in Medio Oriente, l’invasione turca di Cipro nel 1974), mentre la guerra del Vietnam conti­nua ancora per alcuni anni.

Per Gaddis tutto ciò rappresenta il costo di una teoria, alla quale egli attribuisce peraltro il merito di avere dato una coerenza concet­tuale alla politica estera americana. In realtà, però, l’ispirazione che sta alla base di essa, per tutto il corso degli anni settanta, non ap­pare univoca. Senza dubbio la prospettiva di un nuovo ordine mondiale fondato sul nego­ziato con l’Unione Sovietica viene tracciata e aperta, ma al contempo l’andamento di que­st’ultimo e la messa in atto di questa prospet­tiva risultano pesantemente condizionati da approcci di più lontana ascendenza e che ri­

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La politica americana nel dopoguerra 105

velano scarsa comunanza con la distensione. In definitiva, quella svolta che si è aperta alla fine degli anni sessanta non sembra ancora avere prodotto risultati definitivi (e non sem­bra fuori di luogo ricordare che siamo privi delle conoscenze e degli strumenti che ci per­mettano di valutare il contributo sovietico in tale processo); l’alternarsi di simmetria e asimmetria, che ha seguito lo sviluppo della politica estera americana dalla fine degli anni quaranta, è ormai avviato all’esaurimento, conclude Gaddis. Ed è questo un dato che appare largamente assodato anche dalla poli­tologia (rimando ancora al volume di Santo­ro, Lo stile dell’aquila, cit., capp. II e VI so­prattutto).

Siamo dunque alla soglia dei problemi del­l’oggi, e le questioni che solleva Gaddis nelle ultime pagine del volume si riferiscono so­prattutto alla crisi di governabilità del siste­ma americano: 1’ “amnesia delle istituzioni”, i meccanismi di funzionamento del bipartiti­smo, la “tirannia dei mezzi”, la credibilità di

una strategia, soprattutto all’esterno. Gaddis ci conduce a questi interrogativi ripercorren­do un processo che si snoda nell’arco quasi di un quarantennio, in un’analisi lineare e serrata che costituisce — come si è detto — il primo contributo d’assieme di una tendenza della storiografia americana alla quale non molti in Italia hanno dedicato attenzione. Mi sembra che ci siano dunque sufficienti motivi per caldeggiarne, anche da questo modesto pulpito, una traduzione. Ne potrà trarre van­taggio non soltanto la comunità degli studio­si (quelli di storia diplomatica e delle relazio­ni internazionali innanzitutto), ma in genera­le il dibattito sul problema della pace, del di­sarmo, degli armamenti nucleari e così via, un dibattito che sembra svilupparsi in manie­ra discontinua e nella minaccia di essere sof­focato da prospettive dotate di modesta an­golatura, da preoccupazioni di corto respiro e collegate a fenomeni contingenti.

Giampaolo Valdevit

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STO R IA URBANAAnno Vili - N. 28, luglio-settembre 1984

RicercheEduardo Grottanelli, Un episodio del processo di costruzione della città di Mila­no: la riorganizzazione dei servizi annonari 1860-1890; Âgnes Sâgvâri, Evoluzio­ne delle capitali dell’Europa orientale: Budapest fra ’800 e ’900] Francisco Ja­vier Monclüs, José Luis Oyón, Colonizzazione agricola e "urbanistica rurale" nel secolo XX in Spagna. L’esperienza dell’Istituto Nazionale di Colonizzazione.

DiscussioniLucio Gambi, Chiose alla definizione di centro storico.

FontiJuan Luis Pinon Pallares, Luis C. Alonso de Armino Perez, Gli studi di storia urbana in Spagna (1970-1980)] Alan F. J. Artibise, Paul-André Linteau, La sto­ria urbana nel Canada, una rassegna critica degli studi] Danilo Samsa, Fonti per la storia della città e del territorio: Lombardia e Veneto, 1816-1916. Spo­glio della stampa periodica milanese di argomento economico, tecnico, scien­tifico e di varia cultura (parte quinta).

STU D I ECONOMICI E SOCIALIRivista di vita economica/Centro Studi « G. Toniolo »

XIX, 1984 - n. 2

Tommaso Fanfani, Gli Annali dell'economia italiana] Emilio Gerelli, La previsio­ne degli aspetti ambientali] Romano Molesti, Costo di produzione e categorie economiche] Giovanni Panati, Territorio e processi decisionali economici.

Note e rassegneP.P. Coccorese, Sviluppo e cicli economici] Il territorio ideale e l ’ambiente del­la periferia romana] L’impiego delle risorse idriche nel milanese.

Relazioni e bilanci delle aziende di creditoNote aziendali, Sviluppo integrato della montagna. Il progetto etruschi.

Recensioni

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Comitato scientifico: Mario Arcelli, Gino Barbieri, Vincenzo Giura, Siro Lombardini,Guido Menegazzi, Giuseppe Mira, Giovanni Padroni, Antonio Petino, Rino Ricci, Vitaliano Rovigatti.

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“Laboratorio di storia”La proposta didattica degli istituti della Resistenza

di Laura Capobianco, Guido D ’Agostino

Il laboratorio di storia a scuola: un luogo fi­sico, materialmente attrezzato ed al tempo stesso una consapevole attitudine mentale e professionale; sede, occasione e strumento di incontri finalmente ravvicinati fra storia- scienza e storia-materia; insieme di pratiche di insegnamento e di apprendimento/com- prensione in cui possano raccordarsi l’analisi delle procedure e la ricerca diretta, ed in cui il saper fare di docenti e discenti è finalizzato alla riproduzione del “gesto storiografico”, alla “trascrizione” in termini didattici del la­voro storico.

Questo, in sintesi, il senso della proposta precisata e ribadita nei tre giorni del conve­gno nazionale su “Didattica della storia: ri­cerca e laboratorio” organizzato dall’Istitu­to nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, con la vasta rete degli istituti associati sparsi in tutta Italia, e dal Comune di Venezia (Assessorato alla Pub­blica Istruzione) con il patrocinio dell’Irrsae veneto, tenutosi dal 24 al 26 gennaio 1985 a Venezia nella Scuola grande di San Giovan­ni Evangelista e nelle aule della Facoltà di architettura.

L’importante appuntamento veneziano ha sicuramente rappresentato il punto di appro­do rispetto ad un percorso durato oltre cin­que anni, (e naturalmente quello di avvio per una nuova fase), le cui tappe salienti so­no state rievocate nella relazione introdut­tiva svolta dal co-autore di queste note. Qui si può ritornare brevemente sul momento in

cui, dopo il seminario di Rimini dell’autun­no 1983 — prevalentemente incentrato sulla storia contemporanea e sul rapporto tra sto­ria e scienze sociali nella prospettiva della ri­forma della scuola secondaria superiore — ci si è avviati al convegno nazionale che do­veva appunto riprendere e svilupparne rifles­sioni, temi e risultati.

In effetti, sin dai primissimi mesi del 1984, il lavoro coordinato dalla Commissio­ne didattica nazionale, con il gruppo di pro­gettazione e l’appoggio di iniziative locali e dello stesso Laboratorio di Bologna, ha ruo­tato attorno all’ipotesi di un discorso che per un verso ponesse al centro il tema ricer- ca/didattica, a cui apparivano collegati la nuova professionalità docente, il laboratorio ed i possibili collegamenti con l’esterno, e per l’altro riprendesse la problematica del rapporto fra storia e scienze sociali, della storia contemporanea, della politica scola­stica, della formazione, per approdare alle pratiche di ricerca didattica su aree di confi­ne tra storie settoriali e singole scienze socia­li. A metà anno, le prospettive di composi­zione unitaria di tale discorso complesso ed ambizioso apparivano lontane ed anzi forte­mente compromesse, prima che attorno al­l’opzione del laboratorio nel senso più ricco e coraggioso del termine, e della corrispon­dente pratica, si riannodassero i fili interrot­ti e si riprendesse con convinzione il lavoro preparatorio di quello che è poi stato il con­vegno di gennaio a Venezia.

Italia Contemporanea”, marzo 1985, fase. 158

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108 Laura Capobianco, Guido D’Agostino

Occorre ribadire, a questo punto, ad onta dei contrasti e delle differenze emerse (che hanno fatto parlare della “due anime”, nel dibattito e nella pratica didattica prevalenti negli istituti associati), che quel che ha con­sentito di superare V impasse è stata ed è la persuasione assoluta e da tutti condivisa del fatto che attraverso la didattica del laborato­rio — e lo ha ben espresso Scipione Guarra- cino — si supera la forma lezione-ripetizio­ne, a favore di un apprendimento come pro­cesso di formazione di abilità, le quali a loro volta rendono praticabile la costruzione di materiali strutturati al termine di ogni unità lavorativa. Tale strutturazione inoltre porta a sostituire la valutazione finale ed esterna con verifiche interne al processo di apprendi­mento stesso di cui, naturalmente, vanno esplicitate tutte le fasi e le procedure. Una proposta, in definitiva, attraverso la quale si travalica oggettivamente il ruolo dei pro­grammi e delle loro appendici, i manuali.

Semmai, e un po’ paradossalmente, in ve­rità, si potrebbe osservare che a Venezia, per il carattere dato all’incontro, per le modalità assunte e l’accordo previo raggiunto sui temi da discutere, sia rimasto sullo sfondo pro­prio il confronto diretto e serrato fra le due “anime”, e sia stato invece divaricato al mas­simo il complesso della possibilità e delle “offerte” . Così, mentre l’Istituto campano ha proposto un progetto complessivo com­prendente fasi e sequenze che vanno dalla fondazione dei prerequisiti nella fascia d’età della scuola dell’obbligo all’approdo ultimo della scuola superiore, il Laboratorio nazio­nale di didattica dalla storia di Bologna ha proposto uno schema comprensivo di tutti i momenti e le operazioni di costituzione di una singola unità didattica.

La relazione di Aurora Delmonaco (Icsr) ha dunque delineato un percorso di graduali­tà didattica rispetto agli obiettivi di forma­zione logica, operativa e disciplinare. Dalle esperienze realizzate dagli insegnanti della Sezione didattica dell’Istituto campano sono

stati ricavati nessi curricolari costruendo così un modello complessivo, flessibile, ma anco­rato ad idee guida capaci di orientare con si­curezza le scelte cognitive. Il punto di riferi­mento di sicura efficacia è l’ambito territo­rialmente determinato da cui l’azione didattic si svolge (il locale, nell’accezione tanto cor­rente quanto equivoca e soprattutto male in­terpretata) e che partendo dal vicino nello spazio e dal presente (il vicino nel tempo) per­mette di cogliere i fenomeni che per l’ampiez­za della loro onda d’urto sono impropria­mente definiti “generali” . La metodologia si fonda su operazioni di ricerca che consento­no la progressiva espansione degli ambiti in­dagati e la successiva variazione dei sistemi d’indagine, dal sapere storico spontaneo al- l’individuazione/costruzione della storia co­me scienza epistemicamente fondata. Proget­to ampio, articolato le cui singole fasi, oltre che i contenuti specifici ed i collegamenti, so­no ancora in fase di messa a punto e verifica, ma che costituisce tuttavia una precisa indica­zione rispetto alla prospettiva di una propo­sta forte e unificante a livello nazionale, e do­tato probabilmente anche di una sua “spendi­bilità” in sedi ufficiali, “ministeriali”.

L’unità didattica su “Quota 90 e la politica monetaria del fascismo negli anni Venti” (Scipione Guarracino - Landis) parte da un primo livello di conoscenza dei fatti, acquisi­ta attraverso i manuali da cui consegue come necessità intrinseca una fase di apprendimen­to dei termini-chiave del linguaggio economi­co, quale si ricava da strumenti del tipo di­zionari, repertori, enciclopedie, sommari. È a questo punto possibile la formulazione dei problemi emersi nel primo livello di cono­scenza, e desumere da testi di economia (cor­si istituzionali, manuali) concetti e regole che nella fase successiva — contestualizzazione — vengono utilizzati per la lettura di testi storici a carattere generale. Tutto ciò prelu­de all’analisi dello specifico caso italiano, problematizzato attraverso la lettura di un testo-base (ad esempio, Candeloro) smonta-

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Laboratorio di storia 109

to nei suoi elementi costitutivi, ciascuno rap­portato a fonti dirette corrispondenti. Il ri­sultato di questo confronto viene messo in comparazione con modelli di spiegazione presenti nel giudizio dei contemporanei e nel­la storiografia recente, e di qui sbocca nella ricerca di tipologie tra i diversi modelli di spiegazione impiegati. Assai positiva per quanto concerne l’uso concreto delle scienze sociali, l’indicazione di Guarracino appare anche più complessa di quanto non sia in realtà necessario, visto che alcuni passaggi sono probabilmente superflui e vanno co­munque graduati secondo la fase dell’ap­prendimento e le precedenti esperienze del discente. Va anche precisato che le procedure messe a frutto rappresentano una peculiare modalità didattica che non sempre coincide con il corrispondente procedimento proprio della ricerca storica, soprattutto sul terreno dell’impiego delle fonti.

L’unità didattica sugli aspetti della fami­glia italiana degli anni cinquanta egualmente realizzata all’interno del Landis (Raffaella Lamberti e Luisa Cigognetti), con un intento ancora più dichiarato di autoformazione per gli insegnanti coinvolti; più che un risultato conclusivo, si tratta degli itinerari di bordo, traccianti i percorsi compiuti, le esclusioni e le motivazioni. Il lavoro si è fondato su due testi base (Barbagli, sulla famiglia; Sorlin, sul cinema) usati come indicatori di concet­tualizzazione da esplicitare, approfondire at­traverso fonti diverse, questionari, censi­menti, materiali filmici. Il progetto tende a verificare l’ipotesi di fondo secondo la quale la famiglia italiana negli anni cinquanta ha subito mutamenti rilevabili, riflesso di quella particolare fisionomia dell’epoca che alcuni hanno definito di sviluppo repressivo. Parte essenziale della ricerca è stata la realizzazio­ne di un audiovisivo con brani da films di fa­mosi registi di quegli anni e dalle “Settimane Incom”, riorganizzati per settori indicativi dei modelli di consumo, delle forme dell’abi­tare, dei rapporti con i figli, della percezione

ed espressione della corporeità, con alla base, come criterio di analisi, quelli estrapolati dal­la sociologia del cinema di Pierre Sorlin. Un’unità didattica complessa e articolata, nella quale l’intreccio fra storia e sociologia appare felice e fecondo, ma che certamente trova nell’impiego del visivo l’indicazione più efficace e il momento più nuovo suscettibili di produrre innovazione in didattica. Tuttavia, anche se non appare come una mera appendi­ce al discorso storico, l’immagine non sempre risulta integrata nel contesto e pienamente, autonomamente significativa (alcuni interni di abitazioni, ad esempio, non rimandano au­tomaticamente agli anni in questione, né tan­tomeno danno il senso delle trasformazioni in atto). Alcune di tali imperfezioni possono co­munque sicuramente essere corrette in prosie­guo del lavoro, così come l’intenzionalità e la fruibilità del tutto sul piano didattico appari­ranno più compiutamente.

Accenniamo appena, per ragioni di spazio e di competenza, agli altri prodotti della se­zione “cinema, audiovisivi e didattica”, per segnalare Effetto cinema 2 (Giovanna Gri- gnaffini, per l’assessorato alla Cultura della Provincia di Bologna); Dentro la televisione (Claudio Bertasso e Peppino Ortoleva, per l’assessorato allTstruzione della Provincia di Torino); Vita e lavoro dei fornaciai a Beina- sco (Marcella Filippa, Enrico Balteri e Luisa Passerini).

Da presupposti alquanto diversi nasce l’intervento di Antonio Brusa, Luciana Be­nigno e Franca Farinasso. Viene intanto riaffermata l’irriducibilità fra ricerca e di­dattica e la sfiducia professata nell’insegna- tore-ricercatore; l’ipotesi quindi di unità di­dattica prospettata privilegia il ruolo centra­le dell’operatività e del possesso di tecniche atte a smontare i risultati della ricerca e a ri­montarli attraverso il confronto con modelli interpretativi “altri” . Tutto il discorso di Brusa appare organizzato intorno ad una successione di esercizi applicativi gradua­ti per difficoltà progressive, che non as-

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sumono immediatamente come punto di rife­rimento il discente e le fasi del suo apprendi­mento, ma piuttosto rimpianto tecnico e operativo da mettere in campo.

All’esatto opposto rispetto al discorso di Brusa si colloca la ricerca d’ambiente realiz­zata nella II sperimentale dell’Istituto tecni­co statale per geometri “G. Massari” di Me­stre. Essa è fondata sul presupposto che sia l’insegnante stesso a farsi ricercatore e a for­nire allo studente le fonti e il percorso guida­to, nonché sull’adeguatezza della ricerca stessa all’età dei ragazzi, e sull’inserimento del processo educativo nella tensione trasfor­matrice, e viceversa.

Lo schema dell’intervento esposto da Chiara Puppini è centrato sui momenti della lettura-base informativa, con questionario per la raccolta dei dati, e sulla successiva in­dividuazione di tre ambiti di ricerca sulle tra­sformazioni relative al verde, allo spazio ur­bano e alla politica, partendo da fonti e me­todologie diverse perché adeguate alle coppie di docenti operatori (con materie diverse) che via via guidavano gli allievi. Le tre ricerche sono quindi confluite in un’unica mostra esposta al Centro civico di Mestre, servendo da sfondo a dibattiti e manifestazioni pro­mossi dagli assessorati dei rami coinvolti.

Ancora in tema di sperimentazione si sono avuti gli interventi illustrativi di P. Paimeri, coordinatore del ciclo sperimentale dello “Stefanini” di Mestre, sicuramente di grosso interesse anche se apparsi collegati ad una realtà alquanto circoscritta.

Infine, nel workshop — autentica “vetrina” di operatività — presentatori, relatori, corre­latori (A. De Bernardi, M. Gusso, I. Mattozzi e V. Lombardi) operatori e insegnanti, si sono ritrovati per il momento di più intensa e fatti­va partecipazione dell’intero convegno.

Ha concluso Guido Quazza con un inter­vento di grande spessore etico e politico nel quale ha sottolineato l’eccezionale impegno degli istituti nel settore didattico e formati­vo, e lo straordinario rilievo culturale ma an­

che politico e civile del rinnovato profilo professionale legato alla figura dell’inse- gnante-ricercatore.

Come si vede il senso profondo e più ap­prezzato dell’iniziativa è consistito in defini­tiva, proprio nella varietà e molteplicità dell’“offerta” , per così dire, essenziale e po­sitiva risorsa contro l’appiattimento conte­nutistico dei programmi, uniformi e univer­sali, ministeriali. Pure, la necessaria flessibi­lità che consente l’adeguamento alla grande varietà di situazioni che la condizione scola­stica propone, richiede poi un altrettanto ne­cessario ubi consistam unitario, da ricercare in direzione di una operatività coordinata, programmata e verificabile, scandita da cur­ricoli che non siano nuove gabbie, ma ele­menti modulari di progressione logica ed epi- stemologica-disciplinare.

Solo un contesto del genere, tra l’altro, può aiutare a superare le false contrapposi­zioni tra saperi e discipline emergenti e quelli consolidati. Nel caso che ci riguarda più da vicino, tra scienze sociali e storia, consente di pescare con profitto in quella vasta area di­sciplinare “di confine” che dà vantaggi reali e sul versante contenutistico e su quello me­todologico, senza intaccare il piano dello “specifico” storico.

Oggi, di fronte ad una riforma che avanza con il passo del gambero, si vede che poco o nulla si rinnova per aggiunzioni se resta fermo l’ideale conoscitivo di tipo universalistico, mentre occorre passare a tutt’altra visione delle cose e dei problemi a riguardo, ancorata al relativismo scientifico ed al sapere per rela­zioni, sconfiggendo alle radici il concetto stes­so delle quantità indispensabili delle nozioni da apprendere. Oltretutto, un insegnamento fondato su questi presupposti risulta gratifi­cante e creativo, ridà ai docenti e agli allievi il gusto di fare e costruire il proprio sapere, come si era intuito circa diciassette anni fa e come do­po si è fatto finta, un po’ tutti, di dimenticare.

Laura Capobianco, Guido D ’Agostino


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