Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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La nascita della tragedia
La produzione filosofica di Nietzsche si sviluppa in tre periodi diversi mantenendo un’unità
essenziale di fondo
Facendo attenzione a non perdere il senso unitario dell’opera di Nietzsche, la possiamo suddividere
in tre grandi fasi o periodi:
1. le opere del periodo giovanile (1872-1876), che comprendono La nascita della tragedia dallo
spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo (1872), le quattro Considerazioni inattuali, La
filosofia nell’epoca tragica dei Greci (1873) e Su verità e menzogna in senso extramorale;
2. le opere della prima maturità o del periodo “illuminista” (1878-1882), che comprendono Umano,
troppo umano (1878), Aurora (1881), La gaia scienza (1882), Gli idilli di Messina e alcuni
frammenti minori;
3. le opere più oscure e controverse della seconda maturità (1883-1889), che comprendono Così
parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male (1885), La genealogia della morale (1886), Ecce
homo (1888), L’anticristo (1888) e i numerosi aforismi che dovevano comporre La volontà
di potenza.
La decadenza dell’epoca moderna rispecchia l’ingannevole ricerca dell’ordine iniziata dai
greci contro il caos, rappresentato da Dioniso
Nella prima e più importante sua opera giovanile - La nascita della tragedia dallo spirito della
musica. Ovvero: grecità e pessimismo - Nietzsche affronta il tema dell’origine della nostra civiltà.
Secondo Nietzsche l’epoca moderna è un’epoca di decadenza: il motivo però della decadenza non
deriva come tradizionalmente si pensa dal confronto con un presunto modello, per esempio l’età
classica, in quanto la decadenza è già insita nell’età classica. È falsa pertanto l’immagine dell’età
classica come di un mondo razionale dominato dalla serenità, dall’armonia e dalla compostezza di
cui Apollo è il simbolo. Se fosse infatti vera questa immagine, come spiegare la celebre risposta
data da Sileno al re Mida? Scrive Nietzsche:
L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di
Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la
cosa migliore e più desiderabile per l’uomo.
Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa con
queste parole:
Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te
è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato,
non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire al più presto.
Dunque già nel mondo classico vi era la percezione che la razionalità dell’apollineo nascondesse
un’altra dimensione, quella irrazionale del caos che si manifesta nell’eccesso, nel delirio,
nell’ebbrezza, nello spirito orgiastico, il cui simbolo era Dioniso: un dio, secondo la mitologia,
giunto in Grecia dall’Oriente dopo che il sole era tramontato. Mentre Apollo era dunque il dio del
giorno, Dioniso era quello della notte: una contrapposizione che dava vita ad altre coppie di opposti,
come finito-infinito, stabilità-divenire, forma-caos e sogno-ebbrezza. E mentre nell’età classica la
luce del giorno mostrava un mondo apollineo, il buio della notte con le feste dionisiache
nascondeva un mondo caratterizzato da «un’esaltata sfrenatezza sessuale, le cui onde spazzavano
via ogni senso della famiglia e i suoi venerandi canoni». Quelli dionisiaci erano infatti riti orgiastici
durante i quali un uomo, in un primo tempo, e poi successivamente un capro, venivano sgozzati e
divorati. Ma per quale motivo lo spirito greco ebbe bisogno di trasfigurare la potenza della vitalità
dionisiaca nelle forme razionali dell’apollineo? Perché i Greci, secondo Nietzsche, avevano bisogno
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di respingere la paura e la sofferenza procurata dall’irrazionalità della vita. La stessa invenzione
degli dei andava in questa direzione:
Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli
dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei dell’Olimpo. (La nascita
della tragedia)
Detto altrimenti, i greci avevano scoperto che la verità era spaventosa: per questo la vollero
abbellire ricorrendo all’armonia tranquillizzante, certo, ma anche statica e bugiarda propria
dell’apollineo che ammiriamo nella scultura, nell’architettura e nella poesia epica. Per illustrare
questo concetto Nietzsche ricorre al mito di Edipo che, venuto a conoscenza di aver ucciso il padre
e sposato la madre, si cava gli occhi: non vuole cioè più vedere perché la verità è fonte di
insopportabile sofferenza. Chi dunque - osserva Nietzsche - vuole intraprendere il percorso che
conduce alla verità si deve innanzitutto chiedere: quanta verità sono in grado di sopportare?
Il carattere peculiare e il valore della tragedia greca stanno nella fusione dell’elemento
apollineo con quello dionisiaco
Mentre dunque la scultura, l’architettura e la poesia epica sono manifestazioni dell’apollineo poiché
abbelliscono la natura spaventosa della realtà, il dionisiaco trova la sua espressione più compiuta
nella musica. Soltanto nella musica infatti l’artista riesce a comunicare tutto «il suo dolore e la sua
contraddizione». «Cattiva musica» è invece quella dell’opera lirica in quanto associando le parole
alla musica - osserva Nietzsche - «il compositore spezza in se medesimo ogni forza dionisiaca che
in lui prende corpo». Sebbene il contrasto tra apollineo e dionisiaco sia insanabile, con la nascita
della tragedia greca i due aspetti comparvero accoppiati: ne sono un esempio le opere di Eschilo e
Sofocle. Il rito dionisiaco sfociò infatti nella tragedia e diede vita al coro che narra le peripezie
dell’eroe, dando voce all’indistinto e al magmatico. Al coro si contrapposero gli attori che
rappresentavano l’apollineo, cioè la reazione razionale all’indistinto e al magmatico. Questa
mescolanza di apollineo e dionisiaco produceva nello spettatore un effetto di eccitazione, tanto che
Nietzsche paragona la tragedia greca a «un vino nobile, riscaldante e insieme conciliante la
meditazione». Si tratta di un risultato straordinario in quanto la tragedia greca fonde insieme la
sensibilità apollinea e quella dionisiaca:
• l’artista apollineo usa infatti un linguaggio comprensibile, ma la sua comunicazione è
superficiale;
• l’artista dionisiaco invece è un artista ebbro, incapace di comunicare attraverso un linguaggio
comprensibile perché travolto dal dolore e dalla disperazione.
La vera arte consiste dunque nel tradurre in un linguaggio comprensibile, come l’artista apollineo sa
fare, quelle strazianti urla di dolore e di disperazione che l’artista dionisiaco sente dentro di sé ma
che non sa esprimere. Se ciò non accade l’arte è solo finzione, un inutile ornamento, un passatempo
domenicale. Tuttavia la mescolanza tra apollineo e dionisiaco che diede origine alla tragedia greca
non durò a lungo: già con Euripide, infatti, sotto l’influenza della visione razionale di Socrate,
l’apollineo ebbe il sopravvento. Da allora gli attori occuparono sempre di più la scena fino a far
scomparire il coro. La tragedia lasciò così il posto alla commedia, facendo venire meno la
rappresentazione della profondità istintuale della vita.
MAPPA CONCETTUALE
La tragedia, sintesi di dionisiaco e apollineo
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Allorché con Socrate inizia l’esaltazione dell’anima e della razionalità in contrapposizione alla
vita ha inizio la decadenza del mondo occidentale
Con Socrate ha dunque inizio la decadenza della civiltà. Socrate separa infatti la coscienza
individuale dal corpo; poi, riprendendo un termine già presente nella tradizione greca, ma non con
lo stesso significato, chiama la coscienza individuale psyché, anima. Nasce così il tipo umano al
quale apparteniamo: l’uomo psicologico, l’uomo cioè lacerato dalla distinzione pensiero-vita.
Inoltre, che cos’era la maieutica di Socrate se non un inganno? Dopo avere infatti lodato il suo
interlocutore per l’argomento di cui si dichiarava esperto, Socrate gli chiedeva di definire
razionalmente il suo sapere. Poi con ironia ne mostrava tutti i limiti fino a che l’interlocutore
provava vergogna per essersi dichiarato esperto dell’argomento. Il procedimento sembrava
innocente, mentre in realtà era il modo con cui Socrate faceva passare il suo messaggio: è bene solo
ciò che è razionale. E l’ironia altro non era che la prova che Socrate fosse ben cosciente
dell’inganno che il suo procedimento nascondeva: il bene infatti non esiste, è solo un concetto della
mente. In breve, secondo Nietzsche, Socrate era un uomo che non amava la vita: per questo «volle
morire » combattendo e distruggendo il fascino del dionisiaco. Platone poi porterà a maturazione il
pensiero di Socrate con la formulazione della teoria delle idee-valori, come la bellezza e la giustizia,
di cui il bene è il fondamento. Da allora la metafisica violenta l’umanità. Con Socrate si afferma
dunque la concezione tutta occidentale che l’uomo debba comprendere la vita per mezzo di concetti
e non vivendola seguendo i propri istinti. (TESTO Apollineo e dionisiaco). La conseguenza è
devastante: da Socrate in poi l’uomo è uno straniero sulla terra.
L’ORIGINE IRRAZIONALE DELLA VERITÀ
Per la mentalità greca delle origini la verità era irrazionale, come dimostra lo spirito dionisiaco
evocato da Nietzsche ma anche l’oracolo di Delfi e i misteri eleusini. A Delfi una sacerdotessa, la
Pizia, entrando in trance balbettava frasi sconnesse, incomprensibili e ambigue che i sacerdoti del
tempio interpretavano trascrivendole in versi, poiché la poesia era ritenuta il linguaggio degli dei. A
Eleusi invece si svolgevano riti in cui, probabilmente per l’assunzione di sostanze allucinogene, i
partecipanti avevano una potente visione che non consisteva, secondo Aristotele, «nell’apprendere
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qualche cosa, ma nel provare delle emozioni». Che la verità fosse associata a stati alterati della
coscienza era dunque normale per i greci. Per questo la tesi della verità razionale sostenuta da
Socrate fu per l’epoca, come sostiene Nietzsche, una vera rivoluzione culturale le cui conseguenze
giungono fino ai giorni nostri.
Nietzsche prevede il ritorno di Dioniso e ne riconosce le tracce nella visione pessimistica di
Schopenhauer, di cui rifiuta però l’insistenza sull’ascetismo La nascita della tragedia non è solo il racconto di un momento del nostro passato ma è anche uno
sguardo gettato sul futuro. Nietzsche preconizza infatti il ritorno del mondo di Dioniso con il
superamento della decadente pretesa della cultura occidentale di risolvere tutti gli enigmi
dell’universo con la scienza. Quando ciò accadrà verranno spazzate via anche le assurde idee di
democrazia e socialismo con cui l’Occidente crede di poter sanare le laceranti contraddizioni del
vivere umano. Ne sono segni premonitori la filosofia di Schopenhauer e Wagner, mentre Feuerbach
e Comte (la cui filosofia null’altro è se non «un vangelo da birreria») sono gli ultimi esponenti della
cultura socratica. Ciò che dunque accomuna Schopenhauer e Nietzsche è il ritenere che la vita sia
dominata dalla volontà, una cieca forza irrazionale da cui scaturiscono il dolore e la disperazione.
Diversa è però la soluzione che prospettano:
• Schopenhauer invita all’ascetismo, cioè alla rinuncia, come suggeriscono Buddha e la morale
cristiana;
• Nietzsche propone invece di accettare la vita così com’è, diventando discepoli di Dioniso, il dio
dell’ebbrezza, della gioia e di tutte le passioni.
Detto altrimenti, mentre per Schopenhauer occorre liberarsi dalla volontà, per Nietzsche occorre
liberare la volontà. L’apollineo e il dionisiaco non stanno infatti sullo stesso piano: il dionisiaco è
l’elemento originario, autentico, mentre l’apollineo è solo un freno al dionisiaco. Ma come giungere
a questa verità? Per mezzo dell’arte, risponde Nietzsche, perché l’arte ha la capacità di intuire la
vita per quella che è, eterna lotta tra la gioia e il dolore, tra la vita e la morte. E tra le arti, come già
per Schopenhauer, riveste un ruolo particolare la musica. Ne è un esempio Wagner in cui - secondo
Nietzsche - palpita lo spirito musicale della tragedia greca (entrando così in contraddizione con
l’accusa lanciata nei confronti dell’opera lirica di spezzare con le parole la forza dionisiaca della
musica; contraddizione che porterà Nietzsche in età matura a ripudiare Wagner e a giudicare
decadente la sua musica). Dopo aver assistito nel 1868 a un concerto di musica wagneriana (il
preludio del Tristano e l’ouverture dei Maestri Cantori), Nietzsche scrive: «Mi risulta del tutto
impossibile rimanere freddamente critico di fronte a quella musica che fa vibrare ogni fibra, ogni
nervo del mio essere». Tale era l’ammirazione del giovane Nietzsche per Wagner da dedicargli La
nascita della tragedia.
FILOSOFI a CONFRONTO
Quanto c’è di Schopenhauer nel giovane Nietzsche? La lettura dell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer suscitò in
Nietzsche una grande impressione, tanto da scrivere:
Lasciai che quel genio energico e tenebroso cominciasse ad agire su di me. A ogni pagina:
rinuncia, rifiuto, rassegnazione levavano alta la voce; avevo davanti a me uno specchio nel quale
vidi […] il mondo, la vita e il mio stesso animo. Qui, simile al sole, mi fissava il grande occhio
dell’arte, staccato da tutto, qui io vedevo [...] inferno e paradiso. (Sguardo retrospettivo sui miei due
anni a Lipsia)
Tracce di questa grande impressione sono presenti in tutta l’opera La nascita della tragedia, quasi
che Nietzsche volesse, per così dire, rendere omaggio a Schopenhauer descrivendo la civiltà greca
ricorrendo a toni, temi e termini che ricordano Il mondo come volontà e rappresentazione.
SCHOPENHAUER NIETZSCHE
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Arte
L’arte è una consolazione provvisoria dalla
vita, un «breve incantesimo» che riflette il
gioco tragico della vita.
L’arte ha la capacità di intuire la vita per
quella che è, eterna lotta tra la gioia e il
dolore, tra la vita e la morte.
Tragedia
La tragedia è l’espressione più alta della
poesia, poiché in essa «viene in luce la
spaventosa lotta della volontà con se stessa» e
viene dipinto «il quadro delle sofferenze
umane».
La tragedia greca fonde insieme la
sensibilità apollinea e quella dionisiaca,
comunica cioè attraverso il linguaggio
comprensibile dell’apollineo la natura
spaventosa della realtà.
Musica
La musica consiste nell’intuire la volontà
stessa, il cuore irrazionale delle cose. Con la
musica la possibilità dell’intuizione
dell’autentica realtà giunge così al culmine.
La vitalità irrazionale del dionisiaco trova
la sua espressione più compiuta nella
musica. Di conseguenza, «senza la
musica la vita sarebbe un errore».
Volontà La volontà è un «cieco e irresistibile impeto»
di vivere che domina tutta la realtà.
La volontà di potenza è una terrestre
energia vitale che consiste nel volere ciò
che si è.
Soluzione Occorre liberarsi dalla volontà. Occorre liberare la volontà.
La filosofia della storia
La storia per Nietzsche può trasformarsi in malattia se idolatra i fatti, ma può essere utile se si
fa critica e spinge all’azione
La seconda opera del periodo giovanile di cui ci occupiamo fa parte delle Considerazioni inattuali
del 1874. Ricordiamo che le Considerazioni inattuali dovevano essere dodici, ma Nietzsche ne
scrisse e pubblicò solo quattro, di cui la seconda - intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la
vita - è la più importante e originale. Il titolo complessivo degli scritti deriva dal fatto che Nietzsche
cercava di porsi in modo critico rispetto alle mode, alle tendenze e ai miti del suo tempo. Sull’utilità
e il danno della storia per la vita è l’unica opera in cui Nietzsche si occupa espressamente di
filosofia della storia. In essa Nietzsche si scaglia contro la cultura storicistica che costituisce per
l’uomo una vera e propria malattia in quanto ne indebolisce le potenzialità creatrici. Occorre
pertanto combattere le illusioni storicistiche e l’idolatria del fatto, cioè quel perverso meccanismo
che porta a considerare i fatti come verità oggettive, mentre i fatti, avendo sempre bisogno
dell’interprete, sono “stupidi”. In breve, secondo Nietzsche «non esistono i fatti ma solo le
interpretazioni dei fatti». Ciò non significa che la storia sia di per sé nociva per l’uomo: la storia per
essere utile all’uomo deve però essere al servizio della vita. Ma come? Per spiegarlo Nietzsche
distingue tre tipi di storia: la storia monumentale, quella antiquaria e quella critica.
1. La storia monumentale - Questo primo tipo di storia deriva dal guardare al passato per
rintracciarvi i modelli e i maestri in grado di soddisfare le proprie aspirazioni. È quindi proprio
dell’uomo attivo che usa la storia per combattere la rassegnazione. Osservando i monumenti del
passato comprende infatti che la vera grandezza è stata possibile e perciò potrà esserlo ancora.
Questo tipo di storia, tuttavia, tende ad alterare il passato poiché ne dimentica la maggior parte per
far emergere solo alcune circostanze che, opportunamente abbellite, vengono rappresentate come
modelli. Inoltre può spingere a un’identificazione cieca con i grandi del passato e quindi al
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fanatismo o, peggio, alla paralisi nel momento in cui si giunge alla convinzione che quanto di
grande è successo nel passato non possa più essere eguagliato.
2. La storia antiquaria - Questo secondo tipo di storia consiste nel guardare con amore alle radici da
cui proveniamo ed è pertanto caratterizzata da una sorta di pietà nei confronti del passato. Ne
consegue un tipo di storia utile alla vita perché ci fa sentire eredi di un tempo meritevole di essere
conservato e venerato. Anche la storia antiquaria, però, può diventare un pericolo, perché tende a
limitare il nostro campo visivo alla tradizione a cui sentiamo di appartenere distaccandoci dal
presente. Se dominata dunque da una “furia collezionistica”, la storia antiquaria non è più ravvivata
dalla freschezza del presente; ne consegue la paralisi dell’azione, al pari della storia monumentale.
3. La storia critica - Questo terzo tipo di storia è proprio di chi soffre e ha bisogno di liberarsi,
infrangere e dissolvere il passato per poter vivere ancora: la storia critica porta infatti il passato
davanti a un tribunale e lo condanna. Il pericolo che comporta questo atteggiamento è quello di
pensare che sia possibile spezzare completamente le catene che ci legano al passato. Occorre invece
tener conto del passato ma senza farci condizionare da esso. Dimenticare è infatti importante per
poter agire liberi dai ricordi: il raggiungimento della felicità richiede infatti una certa dose di
incoscienza che i ricordi tendono a frenare. Nietzsche non si scaglia quindi contro la storia in sé, ma
contro quella che considera la malattia della storia. L’uomo moderno, infatti - schiacciato dalla
troppa conoscenza del passato e dal senso di futilità di ogni agire umano che ne deriva - rimane
come paralizzato rinunciando a costruire il proprio destino. La storia può quindi essere utile
all’uomo soltanto se ognuno di questi tre tipi di storia rimane nei propri confini e se si integrano tra
di loro.
In conclusione, la cultura moderna appare a Nietzsche caratterizzata da un esagerato sapere storico
che la rende schiava dell’inazione e della rinuncia alle imprese importanti.
MAPPA CONCETTUALE
La cultura storicista, malattia della storia
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LA FALSA IMMAGINE NEOCLASSICA DI APOLLO
È con il neoclassicismo che si diffonde l’idea dell’età classica come di un mondo formale e
razionale ben rappresentato dalle sue statue bianche dagli occhi vuoti, secondo un pregiudizio che
risale al critico tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). In realtà, se risaliamo a
com’erano effettivamente queste statue scopriamo che erano policrome, con colori sgargianti. La
statua qui ricostruita in bronzo è quella di Apollo Parnopios di Fidia (ca. 460 a.C.) che ci è nota solo
nella copia romana. Anche le statue in bronzo avevano infatti inserti di rame e di altri materiali che
ne vivacizzavano l’espressione. Come si può notare il volto sereno di Apollo muta nella
ricostruzione a colori rivelandoci quel tratto dionisiaco che il bianco nascondeva.
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Nietzsche “illuminista”
Nelle prime opere della maturità Nietzsche prende le distanze da Schopenhauer e Wagner,
espressioni di quel movimento romantico che considera essenzialmente retorico
Perché Nietzsche divenne “illuminista”? La definizione può sembrare azzardata; così viene però
tradizionalmente definito il Nietzsche delle opere della prima maturità filosofica - Umano, troppo
umano (1878), Aurora (1881), La gaia scienza (1882) - in cui ripudia contemporaneamente il suo
maestro e il suo amico, Schopenhauer e Wagner. Schopenhauer viene descritto come il filosofo
della rassegnazione e in quanto tale «null’altro che l’erede dell’interpretazione cristiana». «Oh -
esclama Nietzsche - come diversamente parlò a me Dioniso! Oh, quanto era lungi da me proprio
codesto spirito di rassegnazione». Ancora più significativo è il distacco di Nietzsche da Wagner. Lo
strappo è netto. Wagner viene accusato di essere il «tipico decadente», di avere cioè quella malattia
che «ammala tutto ciò che tocca». Ancora, Wagner «è un genio istrionico» che «lusinga ogni istinto
nichilistico e lo camuffa con la musica, blandisce ogni cristianità, ogni forma di espressione
religiosa della décadence». Colpisce però il contemporaneo ripudio da parte di Nietzsche - tra gli
anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento - tanto del suo maestro quanto del suo amico: perché? Il
motivo va ricercato nel fatto che in quel periodo Nietzsche matura la convinzione che il pensiero di
Schopenhauer e la musica di Wagner siano espressioni del Romanticismo, a suo modo di vedere un
movimento culturale impregnato solo di falso pessimismo e di retorica della disperazione.
La consonanza con l’Illuminismo porta Nietzsche a condannare diverse dottrine del suo
tempo, in particolare la mai morta morale cristiana
Nietzsche però non si limita a condannare il Romanticismo. Per lui tutta la cultura occidentale
dell’Ottocento è giunta ad assurde conclusioni:
• l’idealismo ha per esempio inventato un “antimondo”;
• il positivismo pretende invece di ingabbiare con una povera rete concettuale una realtà tanto
complessa come la storia dell’umanità;
• per non parlare del socialismo, che pensa di redimere le masse per mezzo delle masse o
dell’evoluzionismo che dimentica che «i deboli tornano sempre a soverchiare i forti».
Nel contempo Nietzsche dichiara di avvertire una profonda consonanza con l’Illuminismo, e in
particolare con Voltaire, di cui fu grande ammiratore e a cui dedicò la prima edizione di Umano,
troppo umano, pubblicata proprio nel centenario della morte del pensatore francese. Inoltre
Nietzsche riprende con forza, anche se in modo del tutto personale, la lezione illuminista della
critica alle false credenze, al fanatismo e alle paure indotte dall’ignoranza e della superstizione.
Insomma, Nietzsche giunto alla maturità si propone lo stesso obiettivo degli illuministi: liberare
l’umanità dagli antichi pregiudizi e sgombrare il campo dagli idoli del passato. L’ammirazione nei
confronti dell’Illuminismo e tale che in Umano, troppo umano scrive: «Possiamo portare avanti di
nuovo la bandiera dell’Illuminismo». Il bersaglio preferito di Nietzsche “illuminista” è
essenzialmente la morale cristiana a cui muove due principali critiche.
• La prima riguarda il carattere terreno e nient’affatto divino o soprannaturale delle regole
riguardanti la condotta morale. Secondo Nietzsche infatti, l’istinto morale non è altro che la volontà
del gregge espressa dal singolo individuo.
• La seconda critica riguarda il “miracolo” dell’altruismo che secondo Nietzsche null’altro è se non
una forma particolare di egoismo, nel senso che l’altruista ricerca il plauso della comunità di
appartenenza. Anche nelle sue manifestazioni “estreme”, come nel caso del santo e dell’asceta vi è
sempre una convenienza personale, come l’essere ammirati. In breve, secondo Nietzsche l’ordine
sociale «sconfigge sempre la vita e la soggioga a sé».
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L’uomo folle annuncia la morte di Dio
La morte di Dio è la presa di coscienza da parte dell’Occidente della fine di secolari certezze
religiose e metafisiche basate su inganni e menzogne
È nel contesto della progressiva secolarizzazione della cultura occidentale che si inserisce il
discorso sulla morte di Dio, l’intuizione filosofica più celebre di Nietzsche. La secolarizzazione
infatti sgretola la grande spiegazione cristiana della vita fino a che l’uomo giunge alla convinzione
che di vita ce ne sia una sola, quella terrena: ma se così è perché sacrificarla per dei valori
inesistenti o per un’immaginaria felicità ultraterrena? Questa presa di coscienza viene definita da
Nietzsche “la morte di Dio”, una svolta storica per comprendere la quale occorre partire dalla
definizione di Dio. Per Nietzsche Dio è un concetto che riassume in sé più concetti:
• Dio è innanzitutto il simbolo della metafisica, l’essere al di là dell’essere;
• Dio è poi il giudice che alla fine dei tempi giudicherà la nostra vita;
• nel contempo Dio è il criterio in base al quale il giudizio verrà emesso;
• in breve, Dio è la verità socratica, cioè razionale, diventata con il cristianesimo divina.
Pertanto, possiamo apprendere questo concetto indifferentemente dal catechismo o dalla filosofia
socratica: il cristianesimo infatti null’altro è che la versione popolare del socratismo. In entrambi i
casi, infatti, la verità è intesa quale termine ultimo non oltrepassabile, che si chiami Dio o verità
razionale, poco importa. Tuttavia nel momento in cui finalmente l’uomo scopre che è lui l’inventore
di questo termine ultimo non oltrepassabile Dio muore. E con Dio muore anche tutta la favola
socratica e cristiana, cioè la descrizione del mondo con i criteri che abitualmente usiamo per
spiegare la vita e lenire il dolore. In breve, con Dio muore «la menzogna più lunga della storia».
Scrive Nietzsche:
Anche noi odierni ricercatori della verità, noi atei e antimetafisici, anche noi prendiamo ancora il
nostro fuoco dall’incendio che fu appiccato da una fede millenaria, da quella cristiana che fu anche
la fede di Platone, cioè che Dio è verità, che la verità è divina... Ma come, ma come, se questo
diventa sempre più inverosimile, se nulla si palesa divino, fuorché l’errore, la cecità, la menzogna,
e se Dio stesso si rivela il nostro più lungo errore. (La gaia scienza)
E in Umano, troppo umano Nietzsche aggiunge:
Quando in una mattina di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è
mai possibile! Ciò si fa per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere figlio di Dio.
L’annuncio della morte di Dio a opera di un folle trova gli uomini impreparati alle
drammatiche conseguenze di quell’evento
La scoperta della morte di Dio viene annunciata ne La gaia scienza «dall’uomo folle», simbolo del
filosofo-profeta :
«Avete sentito di quell’uomo folle - scrive Nietzsche - che accese una lanterna alla chiara luce del
mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché
proprio lì si trovavano raccolti molti uomini di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi
risa». Le risa sono quelle dei filosofi atei dell’Ottocento, ottimisti a tal punto da non comprendere
la gravità della morte di Dio. Resosi dunque conto della superficialità di questi uomini, l’uomo
folle «balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? - gridò - Ve
lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo! - voi e io. Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come
abbiamo fatto? Come abbiamo potuto svuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci
dette la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa Terra
dalla catena del suo Sole?”». Fuor di metafora, la morte di Dio produce tre spaventose catastrofi:
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• il mare si svuota, perché non possiamo più saziare la sete d’infinito che c’è in noi;
• si cancella l’orizzonte, perché sparisce ogni valore che possa fungere da riferimento alle nostre
azioni;
• la Terra si stacca dal Sole, perché sparisce la fonte che illuminava e scaldava la nostra mente.
Deluso per non essere stato compreso, «l’uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo ai suoi
ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che
andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo
enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato alle
orecchie degli uomini”». Il fatto che l’uomo folle sia giunto anzitempo significa che la massa non
ha ancora coscienza della morte di Dio. Per Nietzsche, infatti, è evidente che con la
secolarizzazione la civiltà occidentale, abbia “ucciso” Dio nel cuore e nella mente degli uomini:
pochi però se ne sono accorti. Per questo l’uomo pazzo getta l’inutile lanterna per terra. Nietzsche
comprende cioè che deve abbandonare la luce della ragione con cui ha cercato il Dio ucciso dagli
uomini. Detto altrimenti, Nietzsche comprende che l’Illuminismo anche nelle sue forme più laiche
ripropone gli stessi schemi e le stesse forme di pensiero su cui si basa il ragionamento socratico e la
fede cristiana. Per uscire dunque dalla gabbia metafisica e religiosa in cui è imprigionato
l’Illuminismo, occorre intraprendere una nuova strada, segnata da un linguaggio sempre più
enigmatico fino al delirio della pazzia. Ha così inizio la terza fase del pensiero di Nietzsche,
quella più oscura e controversa.
LA SIMBOLOGIA DELL’UOMO FOLLE
L’uomo folle annuncia
la morte di Dio
L’uomo folle rappresenta il filosofo-profeta, colui cioè che comprende
che la secolarizzazione ha posto fine alle certezze su cui si fondano la
religione e la metafisica.
Dio è un concetto che
riassume in sé più
concetti
- È il simbolo della metafisica, l’essere al di là dell’essere.
- È il giudice che alla fine dei tempi giudicherà la nostra vita.
- È il criterio in base al quale il giudizio verrà emesso.
- In breve, è la verità socratica, cioè razionale, diventata con il
cristianesimo divina.
Coloro che ridono
all’annuncio della
morte di Dio
Sono i filosofi atei dell’Ottocento, ottimisti a tal punto da non
comprendere la gravità della morte di Dio.
La morte di Dio
produce tre spaventose
catastrofi
- Il mare si svuota, perché non possiamo più saziare la sete d’infinito che
c’è in noi.
- Si cancella l’orizzonte, perché sparisce ogni valore che possa fungere
da riferimento alle nostre azioni.
- La Terra si stacca dal Sole, perché sparisce la fonte che illuminava e
scaldava la nostra mente.
L’uomo folle è giunto
anzitempo
La massa non ha ancora coscienza della morte di Dio, pochi se ne sono
accorti.
L’uomo pazzo getta
l’inutile lanterna per
terra
L’Illuminismo (rappresentato dalla lanterna, la luce della ragione) anche
nelle sue forme più laiche ripropone gli stessi schemi e le stesse forme di
pensiero su cui si basa il ragionamento socratico e la fede cristiana.
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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Zarathustra predica il superuomo
L’ultima fase dell’opera di Nietzsche presenta i suoi testi più ardui e le dottrine più audaci
come quella del nichilismo
Per alcuni commentatori la terza fase del pensiero di Nietzsche rappresenta l’apice della sua
produzione filosofica, per altri rappresenta invece l’inizio del declino che terminerà con la follia. Di
questo periodo che va grossomodo dal 1883 al 1889, le opere centrali sono Così parlò Zarathustra e
La volontà di potenza. Del resto, già dal punto di vista formale, entrambe le opere sono di per sé
anomale. Così parlò Zarathustra, molto più degli scritti di Nietzsche che abbiamo incontrato fino a
ora, non è un’opera filosofica tradizionale, ma si presenta piuttosto come un libro profetico,
“messianico”, il cui modello esplicito è il Nuovo Testamento. La volontà di potenza è invece
un’opera mai scritta da Nietzsche. Si tratta infatti di una collezione postuma di aforismi selezionati
dalla sorella Elisabeth. A queste opere possiamo aggiungere anche Ecce homo, che si presenta come
una peculiare biografia filosofica, il testamento spirituale di Nietzsche scritto nel periodo in cui
cade nel baratro della pazzia. La morte di Dio divide la storia dell’umanità: «Chiunque nascerà
dopo di noi apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa». Ma per entrare in
questa più alta dimensione storica occorre superare il trauma della morte di Dio. Nel momento in
cui infatti l’uomo prende coscienza che tutto quello in cui fino ad allora ha creduto è solo una
menzogna, si verifica quel crollo culturale che Nietzsche chiama nichilismo, l’uomo cioè si
abbandona alla sola certezza che gli rimane, quella del nulla. Esistono però secondo Nietzsche due
forme di nichilismo:
• una passiva, di chi non sa reagire al torpore esistenziale della coscienza moderna;
• l’altra attiva di chi reagisce e riconosce in sé solo un momento di passaggio necessario ma, allo
stesso tempo, transitorio.
Ed è questo atteggiamento attivo di colui che nell’immanenza reagisce al nichilismo che
rappresenta il punto di partenza della predicazione di Zarathustra.
Il superuomo rappresenta l’uomo che afferma se stesso e distrugge ogni valore, superando
così la decadenza
Zarathustra, il profeta di Dioniso dai “piedi leggeri”, non piange la morte di Dio: la interpreta
invece come un’occasione. Non essendo infatti oppresso dalla trascendenza, guarda alla vita con la
leggerezza dell’immanenza. Il suo messaggio è incarnato dal superuomo: così viene definito l’uomo
che va oltre se stesso per essere se stesso. In breve, l’uomo che dice sì alla vita. L’andare oltre
consiste infatti in un viaggio a ritroso per ritrovare l’autentica dimensione umana, quella originaria,
dionisiaca, istintiva e amorale. Da qui la paradossale esortazione di Zarathustra: «Divieni ciò che
sei». Il superuomo non è dunque un personaggio concreto, nel senso di un individuo o di un gruppo
di individui, ma uno stadio superiore dell’umanità. E quando questo stadio sarà raggiunto l’uomo
apparirà come ci appaiono i nostri antenati scimmieschi, «un ghigno o una dolorosa vergogna».
Inteso dunque come umanità, «l’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo »; e ancora, «Io
sono colui che deve superare sempre se stesso»: sono cioè come quella scimmia che deve superare
se stessa per diventare il meglio di se stessa, cioè uomo. Nel suo primo discorso, Zarathustra
descrive il passaggio dall’uomo al superuomo attraverso tre metamorfosi: l’uomo cioè inizialmente
è un cammello, poi diventa un leone e infine si trasforma in un fanciullo.
• Il cammello rappresenta l’uomo che trasporta i pesi della tradizione, e cioè Dio e la morale del “tu
devi”.
• Il leone rappresenta l’uomo che incomincia a liberarsi dei pesi del “tu devi”, anche se rimane
ancora legato a una visione morale negativa: il suo “io voglio” infatti si limita a essere espressione
di una libertà che si “libera da” ma non è ancora “libera di”.
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
12
• Il fanciullo invece rappresenta il superuomo in quanto vive la vita per quello che è con gioia,
libertà e spensieratezza apprezzandone ogni aspetto terreno.
Sempre attento ai propri istinti, il bambino ubbidisce a una sola legge: la sua volontà. È un egoista,
certo, ma di un egoismo «sano e puro che sgorga da un’anima possente» perché non è condizionata
dalla morale. Nietzsche ribalta così la normale sequenza temporale invitandoci a immaginare un
fanciullo, il superuomo, che viene dopo l’età adulta. Il superuomo cioè non è colui che ritorna alla
fanciullezza ma colui che vive una nuova fanciullezza in quanto oltrepassa se stesso per essere se
stesso. Lo spirito del superuomo è dunque nobile in quanto sa opporsi alla decadenza e al declino
della coscienza storica dell’uomo moderno, affetta secondo Nietzsche dalla «malattia delle catene»,
cioè dal risentimento per i tanti secoli di soggezione cieca a una legge morale che ora gli si rivela
priva di ogni fondatezza tanto da affermare: «La mia verità è spaventosa perché sinora si è chiamata
verità la menzogna». Caratteristica del superuomo è la trasvalutazione (“reinterpretazione”) di tutti i
valori che consiste nel porsi al di là del bene e del male e quindi al di là della “gabbia” in cui ci
tiene prigionieri la morale della mortificazione. Alla rinuncia alla vita proposta dai vecchi valori si
contrappone così l’affermazione di tutto ciò che è terrestre e corporeo in quanto l’uomo è corpo:
«Corpo io sono in tutto e per tutto - esclama Zarathustra - e l’anima non è altro che una parola per
indicare qualcosa del corpo». Non bisogna dunque «nascondere la testa nella sabbia delle cose
celesti, ma portarla fieramente, testa terrestre, che crea il senso della terra». «Vi scongiuro o fratelli
- prosegue Zarathustra - siate fedeli alla terra e non crediate a coloro che vi parlano di speranze
ultraterrene. Essi sono manipolatori di veleni».
L’eterno ritorno, “l’abissale pensiero”
L’intuizione dell’eterno ritorno significa per Nietzsche la distruzione di ogni prospettiva
teleologica e l’apertura a una condizione degna degli dei
Nell’estate del 1881 Nietzsche si trova in Svizzera, nella valle dell’Engadina, dove nei pressi di
Silvaplana vi è un bellissimo lago. Un giorno d’agosto, dopo aver percorso un sentiero che lo
costeggia, si siede su di una pietra per riposarsi, e lì ha una visione del tempo che lo spaventa e lo
affascina nel contempo: l’eterno ritorno. Il mondo, pensa, è composto da un numero finito di
elementi che non avendo avuto un inizio non avranno mai fine. Dunque, questi elementi devono per
forza riaggregarsi nello stesso modo un numero infinito di volte: il tempo è cioè circolare e non
lineare, come se fosse una sorta di freccia lanciata verso la salvezza finale. Detto altrimenti, il
tempo non si muove verso un fine ma senza fine. Ne consegue che io sarò seduto su questa pietra
per un numero infinito di volte, così come per un infinito numero di volte rivivrò tutti i fatti della
mia vita. In realtà, l’idea della circolarità del tempo non è del tutto nuova - già i greci ne parlavano,
così come è presente nella cultura di molte civiltà - ma a Nietzsche appare con una profondità
talmente nuova da far dire a Zarathustra: questo è «il più abissale dei miei pensieri». L’eterno
ritorno dunque viene considerato da Nietzsche come la chiave di volta di tutta la sua filosofia in
quanto distrugge ogni idea teleologica, cioè il pensare che la vita abbia un fine. E se la vita non ha
un fine non ha neanche un senso. Ma se così stanno le cose, osserva Nietzsche, che motivo c’è di
sacrificare l’oggi per il domani? Ogni momento della vita va invece vissuto nella consapevolezza
che sia eterno perché eternamente ritornerà; non va cioè posto in relazione con il momento
successivo, secondo quella che Gianni Vattimo definisce «la struttura edipica del tempo» (nel senso
che ogni attimo è come se fosse un figlio che uccide l’attimo precedente, il padre, per essere poi a
sua volta ucciso dal figlio, l’attimo successivo). In breve, secondo Nietzsche la dottrina dell’eterno
ritorno fa parte del progetto di “trasformarci in dei”: l’unica alternativa al nulla che abbiamo dopo la
morte di Dio. Le caratteristiche infatti che per millenni abbiamo attribuito alla divinità, come
l’eternità, ci appartengono.
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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FILOSOFI a CONFRONTO
Tempo lineare, tempo circolare
Greci
Secondo la concezione religiosa orfica che ebbe una grande influenza sulla filosofia
greca, il tempo è simile a una ruota in perenne movimento. Attraverso il ciclo delle
rinascite successive e la trasmigrazione da un corpo all’altro si stabiliva così
un’alternanza tra vita e morte. In questo modo l’anima espiava la colpa originaria fino
a raggiungere la perfezione.
Altre
civiltà
L’idea del tempo ciclico è anche presente nella filosofia indiana e in quella buddhista,
così come nella concezione del tempo delle civiltà precolombiane dei Maya e degli
Aztechi. Agostino Il tempo è un’estensione dell’anima umana, cioè uno spazio
interiore dell’anima umana che si “dilata” articolandosi in tre dimensioni: passato
come ricordo, presente come intuizione, futuro come attesa.
Agostino
teorizza cioè una visione lineare del tempo in cui gli accadimenti sono orientati al fine
ultimo della storia, la venuta di Cristo. Esiste inoltre anche una logica temporale per
cui gli eventi non possono ripetersi in modo ciclico: Gesù è morto una volta sola.
Trattandosi di Dio, eterno presente, è per sua natura un evento irripetibile.
Nietzsche
Il mondo è composto da un numero finito di elementi che non avendo avuto un inizio
non avranno mai fine. Dunque, questi elementi devono per forza riaggregarsi nello
stesso modo un numero infinito di volte: il tempo è cioè circolare e non lineare, come
se fosse una sorta di freccia lanciata verso la salvezza finale. Detto altrimenti, il tempo
non si muove verso un fine ma senza fine.
L’infinita ripetizione degli eventi non deve terrorizzare l’uomo ma indurlo ad accettare
pienamente la vita
Nietzsche approfondisce il tema dell’eterno ritorno nell’opera La gaia scienza (1882) e in Così parlò
Zarathustra (1885). Ne La gaia scienza la riflessione è introdotta dalle parole di un demone:
Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue
solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una
volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni
piacere e ogni pensiero e ogni sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e grande della tua vita
dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e
questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra
dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta - e tu con essa, granello di polvere!».
Quale sarebbe la reazione se venissimo a scoprire che siamo destinati a rivivere infinite volte la
nostra vita? Molto probabilmente saremmo terrorizzati, osserva Nietzsche:
Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?
Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe stata la tua risposta:
«Tu sei un dio, e mai intesi cosa più divina!»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te,
quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, o forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti
ogni volta e in ogni caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli altre volte?»
graverebbe sul tuo agire come il peso più grande!
Anche in Così parlò Zarathustra Nietzsche si sofferma su questo aspetto. La scena è drammatica:
nel momento infatti in cui Zarathustra comprende che rivivrà infinite volte prova ribrezzo per la sua
condizione e stramazza a terra come morto:
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
14
Ahi, ahi, - ribrezzo, ribrezzo, ribrezzo - ahimè! Ma Zarathustra non aveva finito di pronunciare
queste parole che stramazzò come morto e a lungo giacque come morto. Quando ritornò in sé, era
pallido e tremava; rimase sdraiato e per un pezzo non volle né mangiare né bere. Simile stato durò
sette giorni.
Ma perché l’eterno ritorno ci spaventa così tanto? Per la semplice ragione - risponde Nietzsche - che
non amiamo abbastanza noi stessi e la nostra vita. Zarathustra in modo metaforico e profetico
spiega il concetto di eterno ritorno e il superamento dell’iniziale spavento con due visioni
collegate:
• la prima visione è quella della linea del passato e di quella del futuro che si incontrano nell’attimo
presente, dimostrando come quello che è stato è necessariamente collegato con quello che sarà e
viceversa;
• nella seconda visione vede invece un pastore addormentato nella cui bocca si annida un serpente
arrotolato (il tempo circolare dell’eterno ritorno). Zarathustra, preso dallo spavento, esorta allora il
pastore a mordere il serpente: un gesto deciso e sprezzante che dimostra, allo stesso tempo,
l’accettazione e la sfida a questa nuova figura della temporalità. Il pastore segue il consiglio di
Zarathustra e una volta dominato, attraverso il morso metaforico, il pensiero dell’eterno ritorno, si
trasfigura in un uomo nuovo che ride perché si è liberato da ogni angoscia:
Il pastore poi morse come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa
del serpente e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce,
che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Chi è quest’uomo nuovo che ride come non ha mai riso nessuno? Il superuomo naturalmente, quel
fanciullo che ha scoperto la “felicità del circolo” che scaturisce dalla massima accettazione della
vita.
Simbolo dell’eterno ritorno presente in molte mitologie è l’Uroboro (dal greco ourà, coda, e boròs,
mordace), il serpente che divora la coda.
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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Rigenerandosi però continuamente, la coda fa assumere al serpente la forma di un cerchio.
Nell’immagine, una rappresentazione antica dell’Uroboro.
L’Anticristo e la volontà di potenza
La critica al cristianesimo si concentra sulla malsana e dannosa morale della rinuncia che ne
costituisce l’essenza
Nel 1888 Nietzsche finisce di scrivere l’Anticristo, che in origine doveva essere il primo libro di
un’opera colossale intitolata La volontà di potenza. Un mese prima però di impazzire cambia idea in
quanto gli sembra di non avere più nulla da dire sull’argomento, e l’Anticristo viene pubblicato
come opera a sé. Circa il titolo, occorre precisare che in tedesco Antichrist non significa come in
italiano qualcuno, in particolare Satana, che si oppone a Cristo, ma anche chi è genericamente
nemico del cristianesimo. Ed è con quest’ultimo significato che va inteso il titolo. Nietzsche infatti
non si scaglia tanto contro Cristo ma contro il cristianesimo. Addirittura Cristo è visto come una
figura positiva, una sorta di “santo anarchico” tradito dai suoi seguaci: «È esistito un solo cristiano -
scrive Nietzsche - ed è morto in croce»; e ancora, «Cristo negava tutto ciò che oggi viene definito
cristiano». Il bersaglio polemico dell’Anticristo è dunque il cristianesimo. Il motivo di tanta
acredine va ricercato nel fatto che secondo Nietzsche con il cristianesimo si è affermata la morale
della rinuncia fondata sul no alla vita; ma la morale della rinuncia altro non è che la morale degli
schiavi che ha soppiantato la morale degli aristocratici, fondata sul sì alla vita. Il risultato è stato
dunque il diffondersi di ideali come il disinteresse, il sacrifico di sé e soprattutto la compassione:
«Nulla è più malsano - osserva Nietzsche - della compassione cristiana». E con disprezzo aggiunge:
«Il Dio cristiano è la divinità degli infermi», «un Dio degenerato fino a contraddire la vita, invece di
esserne la trasfigurazione e l’eterno sì. In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla
volontà di vivere. Dio, la formula di ogni calunnia dell’al di qua, di ogni menzogna dell’al di là». La
morale della rinuncia ha dunque dominato la storia dell’umanità - salvo rare eccezioni come il
Rinascimento (di cui Nietzsche apprezza la visione eroica e gioiosa della vita) - fino al «furore
espressivo» del Romanticismo, frutto però non dell’abbondanza ma della povertà dello spirito.
La volontà di potenza o di vigore è invece l’affermazione dell’energia vitale e comporta
l’accettazione gioiosa del proprio destino
Alle virtù del cristianesimo Nietzsche contrappone le virtù della terra, come la fierezza, la gioia,
l’amicizia, l’amore, la salute e la disciplina dell’intellettuale superiore; tutte virtù che scaturiscono
da quella terrestre energia vitale che Nietzsche chiama volontà di potenza:
Volete un nome per questo mondo? Una soluzione per i suoi enigmi? Una luce anche per voi? [...]
Questo mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza - e
nient’altro! (Frammenti postumi)
La volontà di potenza consiste nel volere ciò che si è: «Che cosa ti dice la tua coscienza? Divieni
ciò che sei». Devi cioè amare il tuo destino: «Amor fati, sia questo d’ora innanzi il mio amore». E
in che cosa consiste l’essenza dell’uomo? Nella vanità, nell’egoismo e nel desiderio di godimento,
risponde Nietzsche. Spirito veramente libero è quindi soltanto colui che è se stesso, non colui che si
fa condizionare dalla verità socratica e cristiana. Inoltre, la volontà di potenza trova la sua massima
espressione nel superuomo che si libera del peso del passato, trasformando con slancio creativo il
macigno del “così fu” nella piuma del “così volli”:
Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida - finché la volontà che crea non
dica anche: “ma così volli che fosse!”. Finché la volontà che crea non dica anche: “ma così
voglio! Così vorrò!” (Così parlò Zarathustra)
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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Il termine volontà in Nietzsche non va dunque inteso in senso psicologico, cioè come la capacità di
tendere a qualche cosa che ci manca, ma come un impulso che ci spinge a essere quello che
veramente siamo: un impulso presente nell’edera che si arrampica, nel ragno che tesse la tela e
nell’uomo che scrive un libro. In breve, la volontà di potenza non consiste nella volontà di dominare
sugli altri ma nell’affermare se stessi. Per questo alcuni traducono il termine tedesco Macht non con
potenza ma con vigore, così da rendere più evidente il senso autentico dell’espressione.
FILOSOFI a CONFRONTO
Che cos’è la volontà?
Kant
La volontà è lo strumento che ci consente di agire. La volontà pura, non dettata
cioè da motivazioni empiriche, coincide con la volontà buona in quanto sceglie di
agire in conformità al dovere prescritto dalla legge morale.
Hegel
La volontà non è altro che l’intelligenza stessa nella misura in cui determina il
proprio oggetto, senza più prenderlo “da fuori”. La volontà, quindi, non è altra
cosa rispetto al pensiero, ma è il pensiero stesso che, invece di trovare i propri
oggetti come già dati, li “produce”.
Schopenhauer La volontà è un “cieco e irresistibile impeto” di vivere che domina non solo
l’uomo ma tutta la realtà.
Nietzsche La volontà è un impulso che ci spinge a essere quello che veramente siamo.
La volontà di potenza conduce all’affermazione delle migliori energie terrestri e al dominio di
una aristocrazia dello spirito
Libera da ogni vincolo morale, la volontà di potenza può anche sfociare nella sopraffazione e nella
violenza, come scrive Nietzsche non solo nei Frammenti postumi, ma anche con inequivocabile
chiarezza in Al di là del bene e del male:
La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più
debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie.
E ancora:
Trattenersi reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire un’eguaglianza
tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo può [...] divenire una buona costumanza tra
individui, ove siano date le condizioni. [...] Ma appena questo principio volesse guadagnare
ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si mostrerebbe
immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e
decadenza.
La sopraffazione e la violenza però non hanno come fine quello del dominio di una razza sulle altre,
come sostenne il nazismo, ma sono solo un modo di manifestare quello che si è. È vero che
Nietzsche in Genealogia della morale parla di «razze nobili» e di «una magnifica bestia bionda che
vaga bramosa di preda e di vittoria»; immediatamente dopo però ci offre esempi - come «la nobiltà
romana, araba, germanica, giapponese» - che non lasciano dubbi circa il fatto che la nobiltà di cui
parla Nietzsche sia una nobiltà di spirito e non genetica. La volontà di potenza trova infine la sua
espressione più alta nell’arte, che Nietzsche intende in senso ampio come forza creatrice, tanto da
definire il mondo “un’opera d’arte che genera se stessa”.
MAPPA CONCETTUALE
Il superuomo di Nietzsche
Appunti F. Nietzsche – prof. Leandro Petrucci
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SUPERUOMINI A CONFRONTO
D’Annunzio
Il superuomo è l’evoluzione del personaggio dell’esteta, come appare ad esempio nell’Andrea
Sperelli del Piacere. Per il superuomo la ricerca della bellezza non porta a un rifiuto della realtà, ma
a un dominio su di essa: il culto del bello infatti caratterizza un’élite di uomini superiori che deve
imporsi sui meschini borghesi della società di massa. Il superuomo appare energico, aggressivo,
sprezzante nei confronti del conformismo democratico ed egualitario del suo tempo. La più chiara
teorizzazione del superuomo è espressa da D’Annunzio nel romanzo Le vergini delle rocce (1895),
dove il protagonista Claudio Cantelmo è intenzionato addirittura a generare il futuro re di Roma,
destinato a compiere la missione imperiale dell’Italia.
Nazismo
L’uomo superiore è identificato con l’appartenente alla pura razza ariana, sulla base delle teorie
razziste di fine Ottocento riprese in modo acritico da Hitler. Come affermava Hitler, «tutta quanta la
cultura umana, tutte le creazioni dell’arte, della scienza e della tecnica che oggi vediamo davanti a
noi, sono quasi esclusivamente il prodotto dell’ariano […] egli è il Prometeo dell’umanità dalla cui
fronte radiosa scoccò in ogni tempo la divina scintilla del genio». L’ariano si caratterizza per la
volontà di portare il suo Paese, la Germania, al dominio sulle altre nazioni ricorrendo alla potenza
militare. Inoltre l’ariano si sente parte del Volk, del popolo, e ne segue i valori, fra cui occupa un
posto importante la famiglia. Disprezza gli elementi inferiori come gli ebrei (considerati
Untermenschen, “sottouomini”) e gli aderenti a dottrine di origine ebraica, come il socialismo. È
nemico dell’egualitarismo e della democrazia.
Fumetto
Il Superman della DC Comics è un extraterrestre proveniente dal pianeta Krypton. Ha una forza
fisica incredibile, può volare e vedere attraverso i muri. Superman ha però scelto di mettere i suoi
poteri a servizio della comunità per difenderla dalla criminalità o da eventi negativi. Come altri
supereroi dopo di lui, si nasconde dietro un’identità ben poco eroica (il timido giornalista Clark
Kent), sensibile e attenta agli altri, ed è vulnerabile anche sul piano fisico: il contatto con la
kryptonite, un minerale che si trova sul suo pianeta d’origine, lo può infatti privare dei suoi poteri
straordinari.