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La notet i Ausd hwczi - Rebecca libri...sti due estremi. Il testo fu scritto e pubbli-cato subito:...

Date post: 14-Jun-2021
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La notte di Auschwitz Jo Koopman Diario inedito di un ebreo olandese Introduzione di Piero Stefani Traduzione dal neerlandese di Alba Maria Tarozzi EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA OOPMAN La notte di Auschwitz_impa.indd 3 22/11/17 09.55
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Page 1: La notet i Ausd hwczi - Rebecca libri...sti due estremi. Il testo fu scritto e pubbli-cato subito: apparve a dispense tra l’agosto del 1945 e il marzo del 1946 sul mensile clandestino

La notte di Auschwitz

Jo Koopman

Diario inedito di un ebreo olandese

Introduzione di Piero Stefani

Traduzione dal neerlandese di Alba Maria Tarozzi

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

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Introduzione

Un discepolo chiese una volta al pro-prio maestro in che modo si dovesse ave-re timore di Dio. La scena è ambientata nell’Europa orientale, in un Paese ricco di grandi foreste. Il rabbi domandò al suo se-guace se si fosse mai imbattuto in un lupo. La risposta fu affermativa. Il maestro lo incalzò chiedendogli se allora fosse stato consapevole di aver avuto paura. Si sentì rispondere di no, in quella situazione egli aveva provato solo paura senza pensare di averla. Il rabbi concluse affermando che proprio quello era il modo in cui bisogna aver timore di Dio.1

Presa alla lettera, questa storia rappre-senta un mondo completamente diverso da quello in cui si colloca l’esperienza vis-

1 Cf. M. Buber, «I racconti dei chassidim», in Storie e leggende chassidiche, Mondadori, Mila-no 2008, 1156.

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suta ad Auschwitz dall’ebreo olandese Jo Koopman. Basti dire che nelle pagine da lui scritte Dio è del tutto assente: non lo si afferma, non lo si nega, non ci si inter-roga sul suo silenzio e tanto meno si prova timore nei suoi confronti, semplicemen-te lo si ignora. Tuttavia, per altri versi, lo scambio di battute tra maestro e discepolo esprime bene la differenza che intercorre tra il vivere in presa diretta un’esperien-za e l’atto di rifletterci sopra. Tutti coloro che sono entrati ad Auschwitz hanno in-contrato un lupo dalle enormi fauci. La maggior parte di loro ne è rimastra strito-lata. Alcuni però, pur restandone segnati, sono scampati alla bocca spalancata della morte. Per loro si è aperta, dopo, la pos-sibilità di rielaborare la propria esperien-za. Si sono percorse più vie. Molti hanno cercato semplicemente di ricominciare, facendo sprofondare il ricordo nell’oscu-rità dell’abisso. Tuttavia, giù, nel fondale, il relitto restò. Non di rado ci sono voluti decenni, ma poi, a poco a poco, qualcosa è ritornato in superficie. Allora è emerso il bisogno di comunicare con la parola o

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con lo scritto quanto si era vissuto. Altri hanno invece avvertito l’esigenza di parla-re e scrivere subito. In tal caso a non essere pronti a recepire furono, il più delle vol-te, nell’ordine gli ascoltatori, gli editori e i potenziali lettori. Invero, la vicenda legata alle pagine di Koopman non si attaglia, al-meno per qualche verso, a nessuno di que-sti due estremi. Il testo fu scritto e pubbli-cato subito: apparve a dispense tra l’agosto del 1945 e il marzo del 1946 sul mensile clandestino della Resistenza neerlandese Het Baken (Il faro). In seguito non fu più ripubblicato. Nel 1975 apparve una sua traduzione inglese. In tal modo la vicenda del deportato olandese giunse presto a un numero ristretto di lettori per poi essere avvolta in un sostanziale oblio proprio nel periodo in cui uscivano moltissimi altri scritti dedicati alla Shoah.

Koopman fu tra gli ultimi a essere de-portato ad Auschwitz, vi giunse nel set-tembre del 1944. Non sono quindi molti i mesi che separano l’inizio di quell’espe-rienza estrema dalla stesura delle pagine che la narrano. L’atmosfera del testo ri-

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sente ancora della cronaca, allora non era giunto il tempo né della storia né della me-moria. Lo prova il fatto che nel racconto non c’è soluzione di continuità tra il luogo in cui la morte era la ferrea norma e le lo-calità nelle quali la vita tornò a scorrere in maniera più paragonabile alle esperienze che capitano a noi tutti. Le pagine dedica-te a Cernovcy (la città della Bucovina nel- l’ordine asburgica, romena, sovietica e ucraina in cui nacquero Paul Celan e Aha-ron Appelfeld) e a Odessa sono pari per lunghezza a quelle riservate ad Auschwitz. Nell’orizzonte della cronaca il viaggio di ritorno è esperienza accostabile ai giorni e alle notti su cui incombeva la selezione. Entrambe le realtà, succedutesi nel giro di non molte settimane, fanno parte del vis-suto di Koopman.

Il titolo originario del libro, Wandelende Joden («Ebrei erranti»), evoca un’espressio-ne corale legata a un lungo passato. Pro-prio questa scelta lessicale lascia traspa-rire quanto allora fosse poco percepita la differenza abissale tra la Shoah e le prece-denti persecuzioni abbattutesi sul popolo

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ebraico. Non a caso all’editore italiano è parso opportuno mutare titolo, proponen-done uno drammatico volto a evidenziare più l’oscurità della notte che il baluginare della luce di un nuovo giorno. Ormai ci è precluso di raccogliere in un’unica espres-sione Auschwitz, Cernovcy e Odessa.

La dimensione cronachistica delle pa-gine di Koopman non attesta né una man-canza di riflessione né tanto meno una scarsa sensibilità. Le considerazioni da compiere sono di tutt’altra natura. L’oriz-zonte in cui va collocato il testo è infatti ben espresso da queste parole di Vladimir Jankélévitch (risalenti agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso): «le fabbriche di sterminio e in particolare Auschwitz, la più grande di tutte, hanno in comune con tutte le cose molto importanti il fatto che le loro conseguenze durature non appaio-no subito, ma si sviluppano con il tempo e non cessano di estendersi».2 Per dirla con Nietzsche: «le azioni vogliono tempo,

2 V. Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1987, 11.

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anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate».3 Per leggere oggi nel modo giusto le cronachistiche pagi-ne di Koopman occorre tener presente che esse sono state vergate presto, in una stagione in cui il primato spettava ancora all’immediatezza del vissuto.

Al lettore di questo libro scritto in modo piano e diretto è richiesto – e non paia un paradosso – uno sforzo di com-prensione mediato. Dalla Shoah ci separa una distanza crescente, si tratta di un las-so temporale riempito da testimonianze, scritti, spettacoli, film, ricerche storiche, opere artistiche, musei, viaggi di istruzio-ne. Tuttavia il lettore, anche in virtù della parte migliore di questo grande lavorio culturale, è sollecitato quasi ad annullare la distanza e ad accostarsi alle pagine di Koopman recependole come espressione di uno stato germinale in cui la cronaca non era ancora giunta a essere né storia, né memoria. Sotto molti aspetti lo scritto-

3 Si tratta del famoso aforisma 125 della Gaia Scienza.

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re e il lettore si trovano perciò su sponde diverse; la linea retta che nella narrazio-ne collega Auschwitz, Cernovcy e Odessa oggi può essere colta in modo simpateti-co soltanto alla luce di una serie di opera-zioni culturali. La semplicità ha lasciato il posto alla complessità, l’immediatezza alla mediazione. Nel leggere il testo non è ne-cessario avere sempre davanti agli occhi la distanza, basta presupporla.

Si prospetta l’opportunità di compiere un’operazione ermeneutica; in essa non vi è nulla di archeologico. Se letto sotto una determinata angolatura il testo di Ko-opman può aiutarci, più di molti altri, a misurarci con il nostro presente e con un nostro probabile futuro. Pur senza mettere in discussione l’irripetibile peculiarità del-la Shoah, ci sono aspetti che possono esse-re convenientemente accostati al nostro mondo attuale. Ai nostri giorni le persone erranti sono moltitudini. Non è azzardato pensare che, con il trascorrere del tempo, si moltiplicheranno le testimonianze ora-li e scritte di chi oggi è in fuga. All’inizio del XXI secolo non c’è alcuno Stato tota-

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litario impegnato a compiere un’immane deportazione sistematica di un’intera po-polazione per spostarla in lager costruiti con lo scopo preciso di sfruttare, esaurire e sterminare milioni di persone. Nel no-stro mondo globalizzato le guerre, uno svi-luppo economico fortemente sperequato, i mutamenti climatici, la povertà e le im-magini della prosperità producono però le condizioni perché ci sia una nuova pre-senza di masse erranti (in parte anch’esse racchiuse, almeno temporaneamente, in campi di raccolta gestiti non di rado in modo aberrante). A essere paragonabile alla Shoah è non il fenomeno in se stesso, bensì i modi in cui esso viene e verrà nar-rato.4 Si inizia sempre dalla cronaca con una serie di fatti raccontati con un profilo letterario semplice e immediato, solo con il tempo si giunge a proporre riflessioni più approfondite e a misurarsi con la sto-

4 Su questa linea sono sviluppate alcune riflessioni presenti in L’età del transito e del con-flitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra 1939-2015, a cura di M. Bacchi – N. Roveri, il Mulino, Bologna 2016.

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ria e la memoria. Attualmente la portata storica di quanto sta avvenendo ai nostri giorni è colta in modo largamente indefi-nito; la viviamo senza comprenderla fino in fondo. Con il tempo assumerà un diver-so spessore e forse la nostra epoca sarà vi-sta come uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Forse giungerà anche il tempo in cui i nostri nipoti si chiederanno: come fu possibile? Colta in questa luce, l’imme-diatezza dello scrivere di Koopman ci aiu-ta a capire.

La notte di Auschwitz si chiude con una tonalità minore. Dopo la descrizione del-le festose accoglienze riservate ai reduci in Francia, quando si giunge in patria, nei Paesi Bassi, il tono si fa più sommesso; ar-rivati a casa la grande esperienza comin-cia lasciare il posto ad altri stati d’animo: «Non fu toccante ma ben deludente, dopo un viaggio così lungo e pieno di emozioni, il nostro arrivo in Olanda; preferiamo per questo tacerne. Il nostro gruppo si sciolse, ognuno solo ormai con i suoi problemi. Io ritrovai mia moglie e i miei figli sani e sal-vi, ma per tanti altri non fu così e sarebbe

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stato per loro ben difficile ricostruirsi una vita; per alcuni temo che questo sia stato impossibile». Il verbo al passato precoce-mente utilizzato in questa chiusa scritta ai primi del 1946 («sia stato impossibile») getta una spessa ombra sulla gioia del ri-torno; già allora c’erano realtà percepite come irrecuperabili. La ragione di fondo di ciò è stata evidenziata con la consueta lucidità da Primo Levi nella pagina finale della Tregua: «I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tre-gua, una parentesi di illimitata disponibi-lità, un dono provvidenziale ma irripetibi-le del destino».5

Piero Stefani

5 P. Levi, La tregua, in Opere I, Einaudi, Tori-no 1997, 394.

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Prefazione

Jo(zeph) Koopman nasce ad Amster-dam nel 1906 da genitori ebrei osservan-ti, che vivono modestamente in un rione popolare ebraico del centrocittà. Il padre Levi ha un carretto e vende frutta e ver-dura. Tra i quindici e i sedici anni, il gio-vane aiuta la famiglia e, fuori casa, doven-dosi destreggiare nel mondo del lavoro, si emancipa, aderendo al socialismo. Sposa Alida Breeuwer, una donna non ebrea, dalla quale, tra il ’33 e il ’43, ha tre figli e due figlie. Negli anni Trenta, dopo la cri-si del ’29, la vita è dura e si devono fare i salti mortali per tirare a campare. Ma il peggio viene dopo lo scoppio della secon-da guerra mondiale e l’invasione tedesca del ’39, negli anni Quaranta. A decorrere dall’estate del ’41 le carte d’identità degli ebrei vengono contrassegnate con una «J». Nel maggio del ’42 diviene obbligatoria la

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stella di David sugli indumenti. Il padre di Jo, denunciato da una vicina di casa, viene arrestato e la moglie lo segue. Sono depor-tati ad Auschwitz e muoiono nelle camere a gas, come quasi tutti gli altri membri del-la famiglia. L’Olanda è il Paese dell’Euro-pa occidentale in cui si è registrata la più alta percentuale di ebrei deportati che non hanno fatto ritorno: dei centoquaranta-mila ebrei che contava l’Olanda in quegli anni ne sono morti oltre centomila.

Jo spedisce moglie e figli ad Amersfo-ort, in provincia di Utrecht. Quanto a sé, si trasferisce sotto falsa identità a Ein-dhoven, entra nella Resistenza clandesti- na, opera in seno a un gruppo che fabbri-ca falsi documenti d’identità e reperisce nascondigli per i ricercati. Viene, però, ri-conosciuto e denunciato due volte da un suo ex compagno del servizio militare. È arrestato il primo luglio del 1944, invia- to al campo di transito di Westerbork, as-similabile a quello francese di Drancy e al nostro di Fossoli, quindi caricato sul-l’ultimo convoglio per Auschwitz il 3 set-tembre.

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Nel momento critico della ritirata preci-pitosa dei tedeschi è nell’ospedale del cam- po di concentramento e non si accoda alle schiere di detenuti evacuati con marce for-zate verso destinazioni improbabili. Assie-me a un migliaio scarso di altri internati viene liberato dai russi il 27 gennaio 1945.

Rimpatriato al termine di un lungo viag-gio attraverso l’Europa orientale, si iscrive al Partij van de Arbeid (Partito socialista del lavoro) e ricopre con successo rilevanti incarichi pubblici ad Amersfoort, nell’Est del Paese. Nei primi anni Cinquanta stu-dia e si laurea in economia a Rotterdam. Nel 1957 diviene deputato del Partij van de Arbeid al Parlamento olandese. Tutta-via, l’attività parlamentare non lo soddisfa. Nelle aule della politica si respira un’aria chiusa, gli atteggiamenti sono ingessati e si spreca un tempo infinito ad accapigliar-si a proposito di argomenti futili, lontani dal reale e dalle effettive preoccupazioni dei cittadini. Lascia l’arena pubblica nel 1963 per dedicarsi a consulenze economi-che ad alto livello tecnico in Bangladesh, Brasile, Ghana e Kenya.

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Dopo la morte della moglie, si è rispo-sato con Henriette Beekman nel 1976. È deceduto ad Amsterdam nel 1987, ed è se-polto in Israele accanto alla moglie Ali.

La sua relazione, che noi italiani acco-stiamo spontaneamente a Se questo è un uomo e La tregua di Primo Levi, è più conci-sa, stringata e assai meno «letteraria» delle due pubblicazioni del torinese. Merita at-tenzione di per sé in quanto testimonianza originale e genuina, ma vale la pena pure paragonarla agli altri tanti libri di ricordi dei sopravvissuti agli orrori dei campi di concentramento e sterminio.

È parzialmente uscita a dispense nei Paesi Bassi, tra l’agosto 1945 e il marzo 1946, su un mensile clandestino della Re-sistenza che dopo non è più stato pubbli-cato: Het Baken (Il faro). Il titolo originale è Wandelende Joden, ossia «Ebrei erranti». Successivamente, nel 1975, è stata oggetto di una traduzione in inglese a cura di Curt Wolters, intitolata A handful of men.

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