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LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE

Date post: 20-Jan-2017
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1 LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE Tesi di laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa Dimitri Antonfranco Piccolillo Relatore: Adam Erik Arvidsson Correlatore: Franco Guzzi
Transcript

1

LA NUOVA AGRICOLTURA: TRADIZIONE E

INNOVAZIONE

Tesi di laurea magistrale in Comunicazione Pubblica e d’Impresa

Dimitri Antonfranco Piccolillo

Relatore: Adam Erik Arvidsson

Correlatore: Franco Guzzi

2

A mio padre e mia madre.

Grazie di tutto.

3

Indice

Ringraziamenti p.5

Introduzione p.7

1. Dall’Unità al Boom! p.13

1.1 Il sogno dell’industrializzazione

1.2 Contadino o operaio?

1.3 Verso la Grande Guerra

1.4 Tra le due Guerre

1.5 La ricostruzione

2. Terreno fertile (1982 - 2014) p.35

2.1 Odio la città.

2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi?

2.3 Arretratezza tecnologica

2.4 I giovani

2.5 Le prospettive future

3. Agricoltura postmoderna p.63

3.1 Parole liquide

3.2 Insieme, a breve termine

3.3 La fine di un’epoca?

4. Per una nuova agricoltura p.80

4.1 Nuove ideologie

4.2 ICT e agricoltura

4.3 Nuovi modelli

4.4 Vacci piano!

4

4.5 AFN: Alternative Food Networks

4.6 Nuovi metodi

5. Rural Hub p.102

5.1 Rural Social Innovation

Conclusioni p.110

Bibliografia p.115

5

Ringraziamenti

Le persone che hanno reso possibile la realizzazione di questo elaborato di tesi sono molte e

non necessariamente legate alla vera e propria stesura dello stesso; semplicemente è grazie a

loro se sono riuscito ad arrivare a questo punto e terminare il mio percorso di studi accademici.

Ci tengo a ringraziare particolarmente i professori Arvidsson, Guzzi e Ruotolo per la

professionalità, la simpatia e la disponibilità concessami e Brigida Orria per i consigli, le dritte

e le correzioni (spero di averne fatto buon uso).

Grazie a Mattia ed Ester per avermi fatto vedere cosa vuol dire fare il contadino oggi.

Grazie ai miei compagni di studi, senza i quali non sarei mai riuscito a farcela: Andrea Visentin,

Simonluca Pastore e Andrea De Luca per le iniezioni di fiducia, le chiacchere, le birre in

Colonne, le risate, le cazzate, le cene “benessere” (che di benessere non avevano niente) e

quelle vegetariane (che un po’ di benessere invece ce l’avevano). Tiziana Gammarota, Eliana

Iacovelli, Federica Bertocco, Silvia Ciavarella e Alessandra Consalvo per i confronti, i discorsi,

le risate, gli scazzi, gli incidenti e il dramma di non riuscire mai a vedersi all’orario previsto.

Tutti gli altri iscritti al mio stesso corso di laurea: siete stati e siete fantastici!

Grazie ai miei coinquilini per avermi dato la serenità necessaria a completare questo lavoro.

Grazie a quei pazzi dei miei “Problemici”, per essere sempre stati presenti, per essere sempre

in sbattimento e sempre dispersi per la città e per il mondo. Vi voglio bene.

Grazie alla mia famiglia per l’amore e la fiducia con cui mi hanno permesso di arrivare fin qui.

Nonostante gli sforzi e le difficoltà mi avete dato tutto.

Grazie a Matilde per l’amore, la pazienza, la fiducia, i bronci, le tensioni, la leggerezza, la

calma, le ricette, i viaggi, le passeggiate…ti amo come non è possibile amare nient’altro.

6

7

Introduzione

In certi casi non basta un solo e semplice sguardo a quello che abbiamo davanti agli occhi per

capire quale sarà la strada che percorreremo.

A volte è necessario guardare anche indietro.

A volte anche intorno.

L'agricoltura è stata segnata per molti anni dall'impossibilità di vedere quale strada scegliere:

sempre in balia di modelli economici da inseguire, sviluppi industriali da soddisfare e benessere

cittadino da raggiungere. Come se non bastasse, termini come arretratezza e povertà erano, e

ancora oggi permangono in certi casi, in cima alla lista di parole necessarie a descrivere la

situazione delle società rurali, delle persone e, in certi casi, anche del paesaggio1

Oggi stiamo assistendo ad un ritorno di interesse per il mondo agricolo da parte dei giovani,

dei media e di quelli che ne erano scappati in favore di un mondo veloce, dinamico e cittadino.

L'agricoltura non è più così mal vista dai cittadini, anzi, sembra che si stiano invertendo i ruoli.

Perché?

La domanda non è priva di risposte, anzi: la molteplicità di motivi dietro a questa scelta è

vastissima e di certo non basta un elaborato di tesi di laurea magistrale per poterla affrontare

come si deve. Motivi di tempo, di tecnica, di capacità e conoscenza limitano il lavoro dietro a

questo elaborato ad un discorso sì approfondito, ma solo di qualche livello sotto lo strato più

superficiale.

Tanto ci sarebbe da dire, tanto da leggere. Ma soprattutto tanto ci sarebbe da guardare con la

pazienza di chi non ha fretta.

Da gustare con la calma di chi non è teso.

«Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza

conquistare come una malinconia le membra, invidiare l'anarchia dolce di chi inventa di

momento in momento la strada»2

1 Si pensi al futurismo, che deprecava le campagne in ogni occasione e incitava all’abbandono delle stesse in

favore dell’urbanizzazione. 2 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p. 13.

8

L'argomento non solo è importante, ma è fondamentale: il settore primario è in subbuglio.

Qualcosa sta succedendo.

Che cosa è? Come sta cambiando? Come si svilupperà?

Vedremo più avanti tutti questi aspetti, di sicuro è già da adesso importante notare come il

problema sia da inserirsi in un contesto più generale che ha a che fare con ambiti

interdisciplinari, dal momento che insieme all’agricoltura stanno cambiando le persone, la

società, l'economia.

Tutti questi aspetti che cambiano non possono non influenzare anche il settore primario,

trasformandolo, arricchendolo, diversificandolo. E finalmente è un cambiamento che riguarda

tutta Italia, Nord e Sud, seppure qualche differenza rimanga ancora.

Obiettivo della tesi è cercare di identificare i motivi dietro a questo rinnovato interesse per il

settore e cercare di visualizzare quale strada può percorre l'agricoltura per acquistare il prestigio

che merita non solo in un'ottica economica, ma anche sociale e culturale.

Per far ciò ho cercato di analizzare la realtà agricola e rurale da più punti di vista, nel tentativo

di individuare man mano le chiavi necessarie alla comprensione del fenomeno in atto.

Nel primo capitolo affronto l'argomento da un punto di vista storico. Il materiale da cui ho

attinto è limitato in quanto la difficoltà di reperimento di alcuni testi mi ha parzialmente

vincolato. Il lavoro dietro al primo capitolo è dunque articolato su tre testi principali, arricchiti

via via da informazioni trovate sul web.

In questo capitolo cerco di narrare brevemente i punti salienti della storia dell'agricoltura

italiana a partire dall'evento che più ha influito nella ridefinizione in negativo del settore:

l'industrializzazione.

L'analisi storica si rende necessaria dal momento che molti degli aspetti che stanno oggigiorno

caratterizzando il ritorno all'agricoltura sono in realtà di vecchia data e hanno contraddistinto

il mondo rurale per diversi secoli, se non addirittura millenni.

Cercherò di far risaltare quei fenomeni che appunto sono alla base non solo dei problemi

dell'uomo postmoderno, ma che ne rappresentano anche la soluzione: economia del dono e

comunità in primo luogo.

Altri oggetti dell'analisi storica saranno il rapporto conflittuale che intercorre tra le istituzioni

e il mondo rurale e la figura del contadino-operaio.

9

Per quanto riguarda il primo aspetto, vedremo come l'ambito rurale sia stato penalizzato e abbia

sempre cercato di fuoriuscire dalle maglie e dai vincoli statali ed extra-statali imposti nell'ottica

di rendere l'agricoltura il "motore dell'industrializzazione" di stampo anglosassone. Questo

atteggiamento è particolarmente importante in quanto rappresenta ancora oggi un "filone di

pensiero" di diversi agricoltori e di diversi commentatori.

Per quanto riguarda il contadino-operaio, invece, vedremo come questo abbia rappresentato un

modo tutto italiano di affrontare l'industrializzazione. Questa figura rappresenta in maniera

perfetta quanto l'attaccamento alla terra sia stato importante per gli agricoltori italiani, tanto da

non riuscire a rinunciarvi praticamente mai, andandosi a configurare quasi come una forma di

"ribellione civile" al tentativo di strappare l'uomo dalla terra per farne un cittadino. Questa

specifica tipologia è ancora in auge, anche se la sua presenza si è notevolmente ridimensionata.

Il secondo capitolo invece sarà contraddistinto da un'analisi più economico-statistica della

realtà agricola nel passaggio dagli anni '80 del Novecento ad oggi e oltre. In questo capitolo,

nello specifico, cercherò di evidenziare quali mutamenti sono in atto nella composizione delle

aziende, nella tipologia delle stesse e delle persone che vi lavorano.

Anche qui cercherò di far venire a galla dei concetti che rappresentano il motore della neo-

ruralità. In primo luogo il fenomeno della de-urbanizzazione, che ha portato ad un vero e

proprio "contro-esodo" dalle città alle campagne (e al mare e alle montagne), per quanto il

fenomeno sia parzialmente oscurato dalla forte immigrazione di persone provenienti dai Paesi

più colpiti da povertà e guerre.

Oltre a ciò cercherò di evidenziare gli sviluppi del settore agricolo, primo fra tutti quello

relativo all'aumento della concentrazione di terreni. Una caratteristica che ha sempre

contraddistinto l'Italia dal resto d'Europa è stato appunto "l'arcipelago di minifondi" in cui era

suddivisa la terra. Questo comportava un'enorme impoverimento delle terre, che nella maggior

parte dei casi andavano (e molte ancora lo fanno) ad aumentare il divario tra superficie

coltivabile e superficie coltivata. Oggi questo divario esiste ancora, ed anzi è forse più

accentuato che in passato, a causa dei proprietari che non vogliono disfarsi dei possedimenti

ma allo stesso tempo non vogliono sfruttarli per fini agricoli. Vedremo però come siano in atto

dei tentativi di accorpamento dei terreni e come questo sia portatore di benefici non solo per

l'azienda, ma anche per la comunità.

Altri aspetti che cercherò di evidenziare nel corso di questo capitolo riguardano le potenzialità

offerte dalla specializzazione dell'agricoltura - fenomeno che sta ottenendo sempre più

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successo e che rappresenta una delle soluzioni italiane alla produttività dell'agricoltura nel

nostro Paese - e le due principali difficoltà che caratterizzano l'agricoltura italiana: l'arretratezza

economica e la carenza dei giovani attivi. Questi due problemi vanno a braccetto e cercherò,

per quanto possibile, di eviscerarne le caratteristiche, i motivi e le possibili risoluzioni, in vista

del forte incremento di occupazione nel settore registrato nel I trimestre del 2015.

Infine verrà dato uno sguardo d'insieme alle politiche messe in atto dall'Europa per favorire lo

sviluppo delle aree rurali e come queste possano positivamente influire nella definizione di tali

politiche.

Il terzo capitolo è affrontato da un punto di vista sociologico. Il perno saranno gli

sconvolgimenti che l'industrializzazione e il conseguente allontanamento dalla terra e forme di

società rurali ha causato nell'uomo, trasformandolo in un uomo "liquido", senza legami sia in

termini locali che affettivi. Cercherò di far risaltare come le ansie derivate da questo processo

siano una delle fonti del riavvicinamento dell'uomo a forme sociali andate perdute nel corso

degli ultimi due secoli.

Cercherò inoltre di dare una definizione di postmodernità: intendendola come fase di passaggio

e non punto di arrivo, il tentativo di analisi verterà sulle caratteristiche di tale epoca storica.

Una di queste è appunto il mondo del lavoro, trasformatosi da garanzia a fonte di infinite

preoccupazioni. In particolare cercherò di fare il punto sul concetto di collaborazione,

evidenziando come esso sia particolarmente necessario per garantire una vita dignitosa, sia

nella sfera personale che in quella lavorativa. Questo concetto tornerà poi in discussione nel

capitolo successivo dove cercherò di approfondire le nuove tipologie lavorative basate sulla

collaborazione.

La parte finale del terzo capitolo sarà tesa invece all'analisi storica del capitalismo.

Evidenziandone i cicli che lo contraddistinguono, seguendo in questo il lavoro di

Arrighi, vorrei cercare di mettere in luce come, appunto, il periodo storico in cui viviamo sia

sostanzialmente giunto a un punto di non ritorno e come sia oggi necessario un cambiamento

di rotta, necessario anche in quanto la crisi economica con cui ancora stiamo facendo i conti ha

messo in ginocchio definitivamente le poche certezze rimaste, andando ad acuire i fenomeni

tipici della postmodernità e portandoli alle estreme conseguenze.

Il quarto capitolo può essere considerato il "cuore" di questo lavoro. In esso cerco di tracciare

il percorso che l'agricoltura sta, faticosamente, intraprendendo per riuscire a diventare davvero

quel "volano" dell'economia che in tanti si auspicano possa essere. Per prima cosa partirò da

un'analisi della crescita di una cultura che poco ha a che fare con il mondo agricolo: la cultura

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hacker. Questo in funzione del fatto che, nell'ottica di ridefinizione del settore agricolo, questa

particolare cultura può giocare un ruolo di primo piano, sia dal punto di vista teorico, in quanto

molti aspetti si basano proprio sui principi di collaborazione e di comunità, sia dal punto di

vista applicativo che, come vedremo, sta ottenendo consensi anche in ambito politico. Le scelte

e gli strumenti messi in gioco dall'Unione Europea per favorire la rinascita dell'agricoltura

vertono proprio nel voler accrescere la presenza dell'ICT nel mondo rurale, con risvolti che

potrebbero essere positivi sia per il comparto produttivo che per quello sociale. L'ICT in

generale, come cercherò di dimostrare, è foriero di diverse innovazioni "dal basso", grazie alla

possibilità di mettere in relazione le persone in quanto tali, prima di tutto, e in secondo luogo i

produttori e i consumatori, in un'ottica di disintermediazione, che può portare ad un maggior

coinvolgimento nelle attività produttive e nelle attività rurali in generale.

Successivamente verterò l'attenzione all'analisi dei nuovi modelli economici basati sul

downshifting. Vivere più lentamente diventa il nuovo paradigma per uscire dalla crisi

economica e sociale che stiamo attraversando. L'entrata in gioco sulla scena internazionale di

nuovi attori economici ha portato necessariamente a chiedersi se il modello di sviluppo

applicato fino ad oggi sia corretto e se sia possibile definire nuove modalità. In quest'ottica

"ripensare il Sud", sia in termini italiani che internazionali, potrebbe essere un vantaggio non

indifferente nella definizione di tale modello, che vede messi in primo piano quei concetti,

sviluppati nei precedenti capitoli, che erano andati perduti nel corso degli ultimi secoli.

Rimettere l'uomo al centro, creare un nuovo umanesimo dovrebbe essere la priorità per poter

garantire una vita dignitosa. In quest'ottica l'agricoltura potrebbe dunque rappresentare la

chiave necessaria a far sì che questo possa avvenire, in quanto i suoi ritmi esulano da quelli

cittadini, che si sono imposti come dominanti.

Da questo punto di vista dunque la decrescita rappresenta forse il miglior esempio perseguibile,

per quanto criticabile. La rivalutazione generale di ciò che è sempre stato definito "arretrato",

se coniugato con quanto esiste invece di "moderno" potrebbe dunque rappresentare il definitivo

superamento di pregiudizi e preconcetti sul vivere sociale e sul mondo rurale.

La parte finale del capitolo sarà tesa all'analisi di questa riconcettualizzazione che vede negli

Alternative Food Networks la massima espressione. Cercherò di mostrare cosa essi siano, cosa

rappresentano e come potrebbero giovare alla produzione agricola e ai consumatori,

evidenziandone le caratteristiche salienti e le varie forme che si sono sviluppate per ora,

essendo il fenomeno ancora particolarmente nuovo.

Infine cercherò di evidenziare i tratti salienti di questi metodi dell'agricoltura che, anche

attraverso l'apporto della Carta di Milano, sta tentando di ricollocarsi in una varietà di ambiti

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che non coprono solo ed esclusivamente l'agricoltura tout-court ma anche, e soprattutto, ambiti

legati ai servizi alle persone.

L'ultimo capitolo sarà invece un veloce excursus su Rural Hub, un'azienda agricola innovativa

con sede a Calvanico, in provincia di Salerno. Chiamarla "azienda agricola" è particolarmente

riduttivo, ma rimando al capitolo stesso per un'analisi più approfondita del caso, in cui si

cercherà di mostrare come esso sia la summa di tutto ciò che ho cercato di riassumere in queste

brevi pagine di introduzione. Nello specifico ne analizzerò le peculiarità a partire dal Manifesto

redatto nel 2014 grazie al contributo del team multiculturale e multidisciplinare che sta dietro

a questa startup (un altro sinonimo riduttivo per definire Rural Hub), mettendo in evidenza

quelle caratteristiche che ho affrontato nel testo.

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Dall’Unità al Boom!3

Partire da un’analisi storica dell’agricoltura italiana è d’obbligo ai fini di una ricerca che vuole

andare ad indagare i motivi dietro all’accresciuto interesse per il settore agricolo e a

comprenderne gli sviluppi futuri. Sicuramente a questo fine la storia dell’agricoltura andrebbe

analizzata nella sua totalità, a partire dal mondo primitivo, per ricercare in profondità le

motivazioni nascoste dietro alcuni processi, sia di produzione che di comunità.

Non è questa la sede, purtroppo, per un discorso così approfondito ma, per carpire tutte le

sfaccettature nascoste di un’attività fondamentale e fondante della nostra società e per capirne

gli sviluppi futuri, partire da “l’inizio della fine” è sicuramente un buon proposito.

La rivoluzione industriale (che a grandi linee coincise in Italia con l’unificazione) è il momento

storico con cui si identifica una svolta nell’agire umano. L’industrializzazione coincise con

l’abbandono delle campagne ed anzi, fu il motore principale che scatenò l’esodo verso le città.

Vero e proprio punto di svolta, l’industrializzazione e gli sforzi tesi a realizzarla furono

portatori di enormi sconvolgimenti, a livello sociale prima di tutto. Questi sconvolgimenti

sociali hanno radici profonde e ben radicate nella terra e nel lavoro agricolo, in quanto il

processo industriale ha comportato «il sistematico smantellamento delle residue economie

caratterizzate principalmente dalla produzione di valori d'uso e dalla sopravvivenza di forme

di scambio non esclusivamente mercantili, in cui il dono e la reciprocità avevano ancora un

ruolo significativo»4. Un processo che è andato acuendosi sempre più, fino a portare alle

estreme conseguenze di standardizzazione, individualismo, difficoltà relazionali, paure,

insicurezze…

Ma andiamo con ordine.

3 Tutti i dati presenti in questo capitolo, salvo diversa indicazione, sono tratti da C. Daneo, Breve storia

dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 4 M. Pallante, Ricchezza ecologica, Manifestolibri srl, Roma, 2009, p.21.

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1.1 Il sogno dell’industrializzazione

Verso la metà dell’Ottocento l’Italia era, per chiunque si occupasse di economia pubblica, un

aggregato di deboli strutture economiche agricole ed artigiane.

In un quadro di sempre maggiore internazionalizzazione, l’Inghilterra liberale, liberista ed

economicamente avanzata veniva vista come l’esempio da seguire, macinando consensi nelle

classi dirigenti europee.

Nella nostra piccola realtà italiana si faceva strada l’idea e la convinzione che il

congiungimento in un unico Stato avrebbe potuto rappresentare la soluzione necessaria per

poter avviare uno sviluppo basato proprio sull’esempio britannico.

Libertà di commercio, unificazione delle leggi e degli ordinamenti erano ciò che più faceva

gola alla classe dirigente. Il problema era come riuscire ad avvicinarsi agli standard produttivi

inglesi, dal momento che ancora mancava una struttura imprenditoriale degna di questo nome

e la quasi totalità della forza lavoro era concentrata in agricoltura.

Il primo censimento della popolazione, eseguito sul finire del 1861, indicò infatti come la quota

di addetti all’agricoltura in Italia fosse intorno al 70% della popolazione lavorativa.

Sembrava dunque già scontato che fosse questo spazio rurale a dover tracciare la strada per

quell’industrializzazione tanto agognata. Quello spazio rurale abitato dai tre quarti della

popolazione attiva e da cui uscivano almeno i due terzi della produzione commerciale

rappresentava dunque la chiave di volta dell’economia nazionale al momento dell’Unità.

Attorno all’agricoltura avrebbero dunque dovuto via via crescere commerci e manifatture lungo

vie di traffico sempre più efficienti e diffuse.

I problemi, purtroppo, erano parecchi, primo fra tutti il rapporto tra superficie agricola totale

(S.A.T.) e superficie agricola utilizzata (S.A.U.): sui 26 milioni di ettari della superficie

agricola totale, non più di due milioni erano organizzati in imprese in cui fosse in atto una

crescita tecnologica e produttiva: meno dell’8% del totale. Oltre a questo, le necessità

dell’autoconsumo, l’impossibilità economica di procedere a trasformazioni colturali, la

mancanza di conoscenze tecniche diffuse, rendevano l’agricoltura italiana degli anni settanta

dell’Ottocento una attività particolarmente arretrata e di sussistenza.

In sostanza, come fa notare tale situazione non corrispondeva alle speranze ed alle esigenze di

crescita complessiva dell’economia: l’Italia post-unitaria era composta, da un lato, da attività

agricole prevalentemente precapitalistiche e spesso di pura sussistenza e, dall’altro, da poche

industrie che potessero aspirare ad essere competitive sul piano internazionale e che comunque

non sempre potevano contare su un florido mercato interno. Ad eccezione del Piemonte, forte

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dell’attenzione riservatagli da Cavour, il resto d’Italia era dunque un classico esempio di

arretratezza economica5.

Nonostante ciò6 l’agricoltura italiana riusciva comunque a fruttare al commercio estero del

regno il 55% delle sue esportazioni.

Si configurava già allora con evidenza un problema che anche i giovani neo rurali di oggi, e gli

agricoltori in generale, avvertono: l’abbandono istituzionale. Mentre oggi, seppur con

difficoltà, si provano a sviluppare sistemi alternativi scevri della presenza statale, subito dopo

l’unificazione era chiaro come questa situazione di lontananza delle istituzioni fosse avvertito

come problema principale. Una scarsa attenzione verso il piccolo agricoltore e al settore in

generale, quello costituito dalla vastità di piccole aziende in possesso di piccoli e piccolissimi

appezzamenti di terreno, non certo quello dei grandi proprietari terrieri che addirittura si videro

consolidare i propri privilegi, insieme a quelli degli «improduttivi latifondisti»7.

Questo è stato infatti più volte considerato il motivo del ritardo nei tentativi con cui l’Italia

cercò di mettersi al passo con l’industrializzazione del resto d’Europa. «La mancanza di

dinamismo dell’agricoltura, si è sostenuto, si tradusse in bassi livelli di accumulazione del

capitale con conseguenti scarsi livelli di dinamismo industriale»8.

Sono in molti gli storici e i commentatori che affermano, o hanno affermato, come

l’inefficienza dell’agricoltura italiana, dominata in vaste aree da proprietari assenteisti,

rappresentava un peso morto per l’economia, con il risultato che un’alta percentuale della

popolazione produceva a malapena il necessario per la propria sopravvivenza, dedicandosi

quindi quasi esclusivamente a pratiche di auto-consumo e sussistenza.

Come afferma Paul Corner:

«Per Emilio Sereni, gran parte dell’agricoltura italiana era “una palla di piombo al piede del

capitalismo italiano”: anche Pietro Grifone sostiene che il perdurare di una larga fascia di

strutture agricole legate alla sussistenza costituì una delle tare d’origine dello Stato italiano

5 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.75. 6 «E nonostante la coltivazione della terra fosse retta quasi esclusivamente da zappa, falcetto e aratro in legno».

Ibidem. 7 Ibidem, p.83. Vedremo più avanti come la lentezza dello sviluppo agricolo sia dovuta alle difficoltà dello Stato

di investire risorse in tale settore. Risorse che potevano andare in qualsiasi direzione desiderata: dall’istruzione e

formazione, agli apporti strettamente legati a forme di aiuti economici. Invece le politiche agricole hanno

tendenzialmente preferito la strada della calmierizzazione dei prezzi e delle strette doganali, che hanno provocato

non pochi problemi economici. 8 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992.

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moderno. E’ facile arguire come dietro tali osservazioni fosse sempre presente il modello

britannico; il presupposto implicito era che la rivoluzione industriale si dovesse basare sulla

rivoluzione agricola e che il tentativo di affrontare la prima senza la seconda si risolvesse in

una partenza irrimediabilmente perdente»9.

Nell’ultimo decennio del secolo XIX la situazione era già particolarmente grave.

Dall’idealizzazione iniziale dell’agricoltura, quando cioè la si considerava foriera dello

sviluppo economico nazionale, si passò ad una presa di coscienza in senso opposto: il settore

agricolo era evidentemente non soltanto incapace di fornire l’eccedente necessario alla

popolazione urbana, ma non sembrava neppure più in grado di sostenere la vita e la

riproduzione dei suoi stessi addetti.

La situazione che si venne a configurare sfociò presto in una crisi agraria, che vedeva

contrapposte due forze: da una parte, i contadini declassati, affamati e sottoccupati, ammassati

nelle campagne; dall’altra i grandi (e spesso improduttivi) proprietari terrieri, arroccati nella

sicurezza datagli da una sorta di “paternalismo proprietario”, come viene chiamato da Corner

l’interesse esclusivo di cui questi proprietari godevano da parte dello Stato.

La crisi avviò presto un clima di tensione che vide la nascita di scioperi e forme di

“organizzazione di resistenza agraria” dovunque, innescando di conseguenza situazioni non

controllabili non solo da parte dello Stato. La progressione di questi scioperi infatti pose tutta

la possidenza agraria di fronte a problemi di gestione sociale ed economica inediti e che non

sapevano assolutamente come gestire. Gli scioperi agrari si moltiplicavano nonostante gli

arresti, le diffide e i continui interventi dell’esercito, inoltre le astensioni dal lavoro e le

agitazioni si concentravano proprio nelle zone dove produttività e trasformazioni agronomiche

erano più elevate: la valle padana, la bassa emiliana e la Puglia10.

Al Nord Italia il clima minaccioso scaturito dalle spinte salariali e dalle rivendicazioni

bracciantili, che proseguivano nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, costringevano i

possidenti ad un trasformismo agrario in cui dovevano impegnare capacità imprenditoriali e

capitali. Al Sud invece i possidenti assistevano impotenti a quella forma di sciopero passivo

rappresentato dall’avvio di una emigrazione di massa.

9 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p. 9. 10 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.

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Le risposte di Nord e Sud Italia a questi fenomeni furono dunque, necessariamente, diverse e,

insieme, convergenti e divergenti. Convergevano infatti nell’opporsi ad ogni mutamento delle

condizioni economiche e normative dei contadini, mentre divergevano nei modi economici da

mettere in opera per ricostruire i margini di rendita e di profitto erosi insieme dai costi salariali

e dall’andamento sfavorevole dei prezzi. Nel Nord infatti prevalse la scelta di un incremento

della produttività attraverso gli investimenti; mentre al Sud si consolidò la scelta di una

riduzione dei costi attraverso il ritorno al pascolo brado a scapito delle colture.

Tuttavia circostanze diverse concorsero alla risoluzione della vicenda: il raddrizzamento della

congiuntura economica internazionale e la pressione delle vicende sociali e politiche interne

portarono, alla fine del secolo, non soltanto i valori fondiari italiani a cessare la loro caduta e

ad iniziarne la risalita, ma ad offrire sbocchi crescenti alle produzioni agricole ed agricolo

manifatturiere, sia nel mercato interno che internazionale. Inoltre, grazie anche al governo

giolittiano, il periodo che dal 1896/97 si svolse fino alla vigilia della Prima Guerra Mondiale

fu contrassegnato da imponenti trasformazioni agrarie che avrebbero dato ad una parte delle

campagne italiane un aspetto ed un assetto più moderni, funzionali alla crescita che in quegli

anni avveniva in tutta l’attrezzatura economica nazionale.

Fra il 1890 e il 1900 l’agricoltura italiana assumeva, nelle sue linee di fondo, i caratteri che

l’avrebbero contraddistinta fino ai giorni nostri. O, quantomeno, veniva a collocarsi nella

traiettoria in cui alcune scelte tecniche, produttive ed organizzative, sarebbero divenute mature

e praticamente irreversibili.

18

1.2 Contadino o operaio?

Uno degli aspetti più importanti che venne creandosi sul finire del XIX secolo è rappresentato

da quella figura professionale che contraddistingue una modalità tutta italiana di affrontare

l’industrializzazione:

«La separazione di una forza lavoro agricola dalla terra costituisce uno dei concetti cardinali

del modello “classico” dell’industrializzazione. Secondo questo modello, per industrializzarsi,

una nazione deve sperimentare la “liberazione” di manodopera dall'agricoltura, con

conseguente urbanizzazione e proletarizzazione. Ma l'applicazione di questo concetto

(palesemente basato sull'esperienza britannica) al caso italiano è soggetta ad alcune riserve»11.

In Italia infatti emerse un tipo di lavoratore particolare, il contadino-operaio, la cui principale

caratteristica era un tenace rifiuto di esser liberato dalla terra. Questa figura rappresenta una

sorta di modello di sviluppo specificamente italiano che, con forme e modalità diverse, ha

mantenuto un ruolo particolarmente importante nella realtà agricola italiana, tanto da essere

oggi tornato in auge presso le nuove generazioni di agricoltori (e non solo).

Questa nuova figura emerse nel momento in cui le famiglie contadine furono sempre più

coinvolte nell’attività manifatturiera. Le donne contadine incominciarono a recarsi alle

manifatture della seta mentre i loro uomini rimanevano a lavorare le terre. Inizialmente si trattò

di una necessità di sopravvivenza: la povertà opprimente imposta dai contratti di mezzadria

veniva alleviata attraverso il lavoro in fabbrica e, soprattutto, molti contadini poterono evitare

di essere espulsi dalle campagne.

Questa situazione si sovverte nel momento in cui gli imprenditori iniziarono a investire nelle

regioni rurali e a lasciare le città. Data la diffusa povertà e l’eccesso di popolazione in rapporto

alle necessità agricole, «le campagne costituivano un enorme serbatoio di manodopera, formato

da gente alla disperata ricerca di un lavoro, e ch'era pronta a impegnarsi per gran parte

dell'anno»12.

11 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.77. Come vedremo, questo ha delle

implicazioni tuttora, in quanto il tentativo di esportare un modello produttivo di tipo industriale al resto del mondo

si sta rivelando fallimentare, e questo sta portando alla definizione di nuove forme economiche. Il problema

dell’Italia, da questo punto di vista, è stato il dover affrontare questo processo di industrializzazione in una fase

storica in cui il nostro Paese non era ancora maturo per essa. Oggi però questa situazione può giocare a nostro

vantaggio nella definizione di una “nuova economia rurale” applicabile anche al resto del mondo. 12 Ibidem, p.82.

19

In questa prima fase del contratto tra le famiglie contadine e l'industria diffusa, la possibilità di

realizzare guadagni al di fuori dell'agricoltura rappresentò la chiave della sopravvivenza sulla

terra, e della riproduzione della famiglia. Trovar lavoro in un qualche tipo di attività

manifatturiera era l'unica alternativa all'emigrazione stagionale, cosa che imponeva

l’abbandono delle campagne da parte degli uomini, «i quali si trasferivano per brevi periodi in

Svizzera o in Francia per lavorarvi come braccianti o muratori, o cercavano una occupazione

stagionale nei cantieri edili di Milano, lasciando le donne a badare alla terra»13. All’inizio del

nuovo secolo la situazione si fece diversa: le famiglie contadine furono in grado di acquistare

sempre più terra, anche se di solito si trattò di piccoli appezzamenti, ma continuarono a

dividersi fra il lavoro agricolo e quello extra-agricolo, alcuni familiari dedicandosi al primo,

altri al secondo. La sopravvivenza e la riproduzione della famiglia contadina erano dunque in

buona parte dovute agli introiti non-agricoli. Ma, seppur cruciale ai fini della sopravvivenza, il

lavoro manifatturiero continuava ad occupare, all'interno dell'economia familiare, un posto

subordinato rispetto al lavoro agricolo. Inoltre, pare che il lavoro in fabbrica non mise in

pericolo neanche i modelli d'autorità tradizionali, e non minacciò l'esistenza della famiglia

contadina ma anzi, andò a rinforzarli: i salari industriali permisero dunque la sopravvivenza e

il consolidamento della famiglia contadina secondo le linee tradizionali, dando poi a queste la

possibilità di comprare i piccoli appezzamenti di cui sopra.

Ciò che colpisce è non solo la lenta evoluzione di un particolare tipo di forza lavoro rural-

industriale, con caratteristiche molto diverse da quelle del proletariato di Manchester o

Birmingham nel XIX secolo, ma soprattutto il fatto che tale forza lavoro fece tutto quanto era

possibile per evitare lo stesso destino, mantenendo stretti i legami con la terra, anche nel

momento in cui la terra non costituiva più la prima fonte dell’economia familiare.

Queste caratteristiche tipiche portano Corner ad affermare che l’industrializzazione italiana

non fu così forzata e artificiale come si sarebbe supposto dalle premesse con cui è partita.

Questo è dettato dal fatto che l’attività economica non fu generata dallo Stato italiano ma che,

anzi, essa era già avviata da tempo grazie ad un «processo di ampio respiro [che] aveva già

incrementato notevolmente la produzione agricola, favorendo la creazione di importanti legami

commerciali con il resto dell’Europa, la nascita di una classe commerciale e imprenditoriale e

la realizzazione di alti livelli di accumulazione»14. Secondo Corner, in particolare, questi

13 Ibidem. 14 Ibidem, p.90

20

sviluppi sono da considerarsi spontanei e diedero l’avvio alla costituzione di una base non solo

economica, ma anche culturale e sociale, necessaria alla crescita successiva.

21

1.3 Verso la Grande Guerra

L'agricoltura alla vigilia della Prima Guerra Mondiale appariva dunque definita e collocata in

un suo spazio economico ormai delimitato. Il suo cammino, per quanto distorto da politiche

tariffarie aggressive e da una serie di preferenze “industrialiste” - che erano ormai parte

costitutiva e condizione per l'inserimento dell'Italia nella dimensione europea delle nazioni

industrializzate - era segnato. Fino al 1914, come testimonia Federico, l’agricoltura fu lasciata

sostanzialmente a se stessa, ad eccezione per le politiche doganali15 e questo ebbe degli effetti

particolarmente positivi per quanto riguarda la produttività. Il valore lordo della produzione

agricola fra il 1871-75 e il 1911-15, infatti, passò da 5,8 a 8 miliardi di vecchie lire, con un

aumento del 38%. Un risultato sicuramente importante, ma purtroppo parzialmente oscurato

dal successo delle attività industriali, il cui valore crebbe nello stesso periodo del 158%,

facendo passare la quota dell'agricoltura sulla formazione del reddito nazionale dal 58 al 42 per

cento16.

Si trattava indubbiamente di un'agricoltura ben diversa da quella degli anni settanta

dell’Ottocento, quando essa era parsa la struttura portante dell'Italia riunificata nonché il

“volano” dell’economia e dell’industrializzazione. Spenti i sentimenti patriottici (e forse un po’

ipocriti) che animavano il dibattito sul ruolo dell’agricoltura, alla vigilia della Grande Guerra

essa mostrava infatti immediatamente, nonostante i progressi conseguiti, i suoi limiti e le sue

deficienze: troppo debole nelle strutture e negli apparati per pretendere un ruolo dirigente,

rivelava proprio nei processi di ammodernamento ristretti ed esitanti, la sua incapacità anche

soltanto di tenere il passo con la crescita dell’insieme della società nazionale.

Segno inequivocabile di questa lentezza era l’andamento dell’interscambio con il resto del

mondo. Nel periodo che intercorre tra il 1870 e il 1875, infatti, su un'esportazione di merci pari

a poco più di un miliardo di lire, la metà era rappresentata da prodotti dell'agricoltura. Neanche

cinquant'anni dopo i prodotti della terra e degli allevamenti contribuivano invece al valore

totale delle esportazioni per meno del 30 per cento. Inoltre, se nei primi anni settanta

l'interscambio agricolo (anche escludendo la seta) risultava seppur di poco attivo, nel 1909-13

era divenuto passivo per circa 250 milioni (un quinto del deficit complessivo): da fattore di

equilibrio, l'agricoltura diveniva componente di rilievo del crescente squilibrio dei conti con

15 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.116. 16 Ibidem.

22

l'estero17. Inoltre, ma questo è possibile affermarlo solo oggi, la situazione rendeva evidenti

anche le difficoltà di gestione di un sistema rurale che rimaneva praticamente sconosciuto.

Nonostante questo però, non si deve necessariamente pensare ad un fallimento del settore. Pur

con tutte le difficoltà del caso, iniziarono a emergere anche nel settore agricolo gruppi

imprenditoriali tecnicamente preparati che, di fatto, stavano sperimentando altre vie di

aggregazione con caratteristiche particolari. Espressione vistosa di queste tipologie di

aggregazione fu la nascita e lo sviluppo dei Consorzi agrari, delle associazioni padronali e di

alcuni consorzi di bonifica. Questi si caratterizzarono principalmente quali strumenti

dell'attivismo innovatore di un capitalismo agrario vagamente liberale. I loro compiti non si

limitavano alla diffusione di moderne tecniche ed efficaci strumenti agronomici, ma

investivano scelte politiche settoriali, assumendosi la rappresentanza degli interessi agricoli

nella loro globalità. Chiunque puntasse ad una riqualificazione dell'agricoltura nel contesto

dello sviluppo economico di quel periodo era schierato tra le fila di queste associazioni. Ma

nonostante gli sforzi le difficoltà ad agire risultavano enormi, tanto che la loro attività non

riuscì a coagulare istanze e forze politico-economiche tali da allargare un'area di consenso nello

stesso mondo rurale.

Un mondo rurale che ancora non riusciva a dimostrarsi coeso. Queste associazioni si trovarono

infatti in mezzo alle asprezze, esistenti ormai da diversi anni, tra la maggioranza dei proprietari

agricoli, da un lato, e dei piccoli contadini tagliati fuori dalle possibilità di sviluppo, dall'altro.

Di certo queste associazioni ebbero l’indiscusso merito di caratterizzarsi come realtà

economica non indifferente, e di favorire particolarmente lo sviluppo del settore. Come

testimonia Daneo, infatti:

«Se non riuscivano ad essere una forza politica di rilievo, i Consorzi agrari e la loro Federazione erano

diventati in breve tempo una forza economica non trascurabile: basti ricordare che nel 1910-13 la

Federazione dei consorzi agrari distribuiva quasi la metà dei concimi chimici e degli antiparassitari, un

terzo delle macchine agricole, quote notevoli di sementi e mangimi, oltre a procurare finanziamenti ai

soci in stretta collaborazione con le Banche Popolari»18.

Anche Federico sottolinea l’importanza di queste associazioni, evidenziando in particolare

proprio l’apporto economico alla società:

17 Ibidem. 18 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.98.

23

«Le cooperative sono associazioni permanenti di agricoltori, con lo scopo di svolgere

collettivamente compiti come l’acquisto e la gestione di input industriali, la lavorazione,

l’imballaggio e la vendita di prodotti, la raccolta di depositi bancari, la concessione di crediti

ecc. [...] Le prime cooperative nel senso moderno del termine furono create nel XIX secolo. [...]

Per comprendere la differenza nella diffusione delle cooperative è opportuno considerarne

vantaggi e svantaggi dal punto di vista del singolo agricoltore. Lo svantaggio consiste nella

perdita di autonomia che l’adesione a una cooperativa comporta. Il principale vantaggio

consiste nella possibilità di sfruttare le economie di scala»19.

Nonostante la loro creazione nel corso del XIX però, il loro processo di affermazione, per

quanto rapido, ha dovuto aspettare l’inizio del XIX secolo per trovare una dimensione valida

in cui svilupparsi. L’accresciuto interesse degli agricoltori per le nuove tecniche favorì in

questo senso il diffondersi di queste realtà.

Non va però scordato che il discorso in questione è quasi principalmente esclusiva del Nord

Italia. Un discorso diverso va invece fatto per il Mezzogiorno, non solo per la mancanza di un

processo di industrializzazione che offrisse alternative (reali o presunte) alla scarsa

occupazione in agricoltura, ma anche, e soprattutto, per la carenza o la totale assenza di

trasformazioni agrarie.

Anno dopo anno i contadini poveri o senza terra si addensavano ai margini del latifondo, in

concorrenza fra loro, privi di potere contrattuale, mancanti di quelle sollecitazioni culturali e

politiche che i processi di sviluppo e le lotte sociali avevano innescato nel Nord.

Camillo Daneo, cita, parlando del meridione, un’inchiesta parlamentare condotta nel 1911-12

dal senatore Faina, il quale affermò: «Nel moto di tutte le classi sociali per la conquista di un

miglioramento economico, al contadino non si presentavano che tre vie: o rassegnarsi alla sua

miseria, o ribellarsi, o emigrare. Preferì emigrare»20. Va fatto presente che questa emigrazione

(che non coinvolse le Puglie) però contribuì a riversare nelle Casse Postali delle famiglie del

Mezzogiorno circa 500 milioni di lire intorno al 1910-13. Un cifra ancor più considerevole se

confrontata con l’ammontare dell’esportazione agricola meridionale che, nel 1913, non

raggiunse i 400 milioni di lire21.

19 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, pp.109-111. 20 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980, p.105. 21 Ibidem.

24

Ormai, alle soglie della Grande Guerra, pur con tutti gli squilibri, le contraddizioni e i ritardi

del caso, l'agricoltura italiana era fondamentalmente integrata in un'economia monetaria in

sviluppo, subendone tutte le oscillazioni congiunturali. Ma si trattava pur sempre di

un'agricoltura che era ben lungi dal rendersi tecnicamente e socialmente omogenea a quella

degli altri Paesi europei centro-settentrionali, nei confronti dei quali vedeva crescere un

distacco e un indebolimento importante, di cui si sarebbero viste le conseguenze negative

nell'immediato dopoguerra.

25

1.4 Tra le due Guerre

La Grande Guerra fu fatta e sopportata dai contadini. Ma nonostante questo la produzione

agricola fra il 1909/13 e il 1915/18 subì una contrazione limitata.

Alla fine della guerra il tessuto agrario italiano non si presentava tecnicamente ed

agronomicamente sconvolto, anzi, nel 1919/20 poteva essere registrato uno stato soddisfacente

della produttività granaria e lattifera, ed anche le produzioni legnose agrarie (vite, olivo,

frutteti) avevano risentito in misura trascurabile della congiuntura bellica22. Gli

sconvolgimenti, e gravi, furono d'altra natura.

L'agricoltura fu colpita da una crisi strutturale profonda che riguardava gli uomini, i gruppi, le

classi sociali ed i loro reciproci rapporti. Come cita Daneo:

«Soprattutto già nel corso della guerra - a citare Arrigo Serpieri - “per mantenere ferma la

resistenza, per mantenere alto lo spirito dei combattenti e della popolazione nell'interno del

Paese, la classe dirigente... ritenne opportuno ricorrere sempre più largamente a promesse di

larghi compensi agli attuali sacrifici... Per quanto riguarda le classi lavoratrici rurali ebbe

soprattutto, fin dai primi anni, larghissima diffusione ed appoggio la formula "la terra ai

contadini". E Serpieri, scrivendo ormai in pieno regime fascista, si affrettava a commentare: «è

del pari evidente che - diffuse con la formula vaga e allettatrice "la terra ai contadini" - mentre

ancora si combatteva e mentre già nelle classi rurali si diffondevano sentimenti di ostilità e di

odio contro la borghesia - quelle idee dovevano necessariamente fomentare in impulsi e

aspirazioni e pretese pericolosissime all'ordine sociale e nazionale»23.

I contadini, insomma, avrebbero presentato il conto alla fine della guerra: “la terra ai contadini”

era stata la formulata usata per motivare i contadini arruolati durante la guerra ed ora era giunta

l’ora di riscattarla.

Ma la terra era troppo frammentata per sorreggere le famiglie multiple, e i salari pagati nelle

occupazioni manifatturiere alternative erano troppo alti per non condizionare le scelte. La

pluriattività che era stata nel XIX secolo una necessità, dal 1920-30, diventò un comportamento

acquisito e consolidato. Tanto che, forti delle esperienze maturate, alcune famiglie diedero il

via ad una piccola attività economica familiare, sfruttando quelle abilità tecniche che avevano

22 Ibidem. 23 Ibidem, p.110

26

imparato nel periodo in cui frequentavano le manifatture rurali. Le famiglie dunque

continuavano a resistere alla tentazione di abbandonare la terra e di trasferirsi definitivamente

in città, mantenendo vivo il modello operaio-contadino.

Va detto però che negli anni venti le famiglie a base rurale godevano di vantaggi economici

considerevoli rispetto alle famiglie urbane: tra questi vantaggi c’era il possesso o l'uso della

casa, di solito ampia, e in grado di ospitare la famiglia multipla. Se erano in affitto, le famiglie

pagavano poco, perché i canoni per le case rurali rimanevano bassi, e la clausola contrattuale

che imponeva canoni molto più elevati a coloro che vivevano nella casa colonica ma non

lavoravano nell'agricoltura era in effetti inapplicabile. Questo perché tutti, in momenti diversi,

davano una mano nella cura della terra o degli animali. Inoltre, il podere annesso alla casa, per

quanto piccolo, era anch'esso chiaramente un vantaggio, in quanto soddisfaceva bisogni

elementari della famiglia24.

Ma non ci volle molto perché serpeggiassero accuse da più parti rivolte all’arricchimento degli

agricoltori in quanto detentori di un provvisorio monopolio dei prodotti alimentari i cui prezzi

erano costantemente cresciuti nel corso della guerra.

Di fatto questa accusa divenne presto un argomento usuale e quasi popolare.

Agli occhi dei cittadini il fatto che i produttori di generi alimentari si fossero arricchiti dalla

situazione in atto sembrava la cosa più ovvia, e in effetti non avevano tutti i torti.

Va fatta presente però la distinzione esistente fra i diversi strati sociali e anche fra le diverse

zone rurali.

Chi veramente aveva approfittato dell’alta congiuntura dei prezzi agrari aveva tutto l’interesse

a negare il fenomeno in blocco, appellandosi a una sorta di omertà rurale, o a riversare tutta la

colpa su dei non ben definiti “contadini arricchiti”. E se è pur vero che i prezzi dei prodotti

venduti dagli agricoltori aumentarono, tra il 1914 e il 1919, di 3,9 volte, quelli dei prodotti

venduti dagli industriali agli agricoltori (macchine, attrezzi e concimi) erano aumentati di 4,6

volte.

In sostanza, la forbice dei prezzi si era aperta a sfavore dell’agricoltura. Chi si era veramente

arricchito era chi possedeva la terra, i grandi proprietari; i redditi reali dei braccianti invece

erano notevolmente peggiorati.

24 Ibidem.

27

Ma la situazione poneva anche i proprietari in una cattiva posizione, nel segno dello spavento:

dovunque contadini e braccianti smobilitati affluivano nelle Leghe sindacali, si riunivano in

organismi di lotta, occupavano terreni più o meno incolti e partecipavano a scioperi agrari da

cui i proprietari sembravano uscire sminuiti e sconfitti. Fu così che i proprietari terrieri

iniziarono a perdere interesse nell'agricoltura, un po’ perché attratti dalle possibilità offerte

dall’industria urbana, e un po’ perché costretti dalle agitazioni a vendere i propri possedimenti.

In questa situazione di “liberazione” delle terre, il numero dei piccoli proprietari registrò una

crescita spettacolare. Ma se le circostanze dell'immediato dopoguerra, con il brusco rialzo dei

prezzi agricoli, parvero particolarmente propizie, le illusioni a riguardo ebbero breve durata.

Nel giro di un anno o due all'acquisto della terra vi fu una caduta dei prezzi agricoli. Inoltre la

situazione di “tutti contro tutti”, creatasi con l’inasprirsi delle “lotte agrarie” di cui sopra, venne

riportata all’ordine dal cosiddetto fascismo agrario che, in breve tempo, distrusse le

organizzazioni sindacali e cooperative createsi, spesso grazie all’eliminazione fisica dei

dirigenti locali. Riportando conseguentemente la situazione ad uno status quo gradito ai più

facoltosi, grazie anche all’esproprio delle terre precedentemente “liberate”.

Non c’è dubbio quindi che gli anni Venti segnarono un punto di svolta nel mondo agricolo

italiano. Da una parte videro la nascita di una contrapposizione forte tra città e campagna che

solo oggi, come vedremo, si sta iniziando a risolvere. Dall’altra videro un'ampia

differenziazione delle priorità delle famiglie contadino-operaie. Alcune infatti continuarono a

mantenere al primo posto l’agricoltura, pur affidandosi al sostentamento del reddito industriale,

altre, possidenti di poco più di un orto (la quasi totalità, a ben vedere) posero la priorità al

lavoro nelle industrie e al reddito così ricavato.

La tendenza generale andava nel senso di una certa perdita d'importanza dell'agricoltura, in

quanto troppa terra poteva significare che il lavoro agricolo e il lavoro industriale rischiavano

di diventare incompatibili.

Malgrado l'industrializzazione crescente, la forma sociale e il modello della pluriattività

perdurarono al di là della fase in cui erano strettamente necessari alla sopravvivenza. La

famiglia contadina continuò a vivere sulla terra, anche se l'importanza relativa di questa

iniziava il suo declino.

Questa fase di transizione venne a gravare sulle nuove generazioni. Cresciuti in famiglie a base

rurale, questi uomini fecero per la prima volta l'esperienza del lavoro in fabbrica, pur

continuando, all'occorrenza, a dare una mano nei campi. Anche se spesso l’aiuto che davano

28

era puramente economico, al fine di permettere ai genitori di acquistare la terra o di rimborsare

i debiti contratti25.

Queste nuove generazioni “in bilico” tra rurale e urbano, da un lato gettarono le basi per un

abbandono massiccio delle campagne, dall’altro giocarono un ruolo centrale nella definizione

della nuova società industriale italiana. Avendo fatto la loro prima esperienza della fabbrica

durante la guerra o nei primi anni venti, infatti, avevano imparato un mestiere. Dopo aver

passato svariati anni alle dipendenze del “padrone”, era praticamente scontato che fossero i

primi a prendere in considerazione il conseguimento dell'indipendenza nel lavoro non-agricolo,

dopo che la famiglia aveva raggiunto l'autonomia nell'agricoltura26.

Ma nonostante tutte le difficoltà e le novità sociologiche, nelle aree rurali la situazione rimase

abbastanza stabile: le famiglie contadine conservarono la propria compattezza, continuarono a

mantenere un qualche contatto con la terra rifiutando l’urbanizzazione. Le piccole aziende

familiari permisero alle famiglie contadine di restare rurali, di salvare quei fattori che

contribuivano a ridurre il costo della vita, come l’auto-consumo, e a tenere insieme la famiglia.

Il processo di nuclearizzazione delle famiglie iniziata dall’unificazione e proseguita fino alla

fine della Prima Guerra Mondiale, infatti, subì un forte arresto nel periodo tra le due Guerre.

Questo è riconducibile a tre fattori principali.

Il primo è riconducibile al fatto che il processo di urbanizzazione rallentò bruscamente sia per

i motivi economici di cui sopra, sia per gli interventi fascisti rivolti a “sfollare le città”.

Il secondo invece è individuato nel rallentamento della nuclearizzazione familiare, fenomeno

da imputarsi a quei processi di acquisto della terra iniziati a verificarsi subito dopo la fine della

guerra, che portarono alla creazione di una nuova classe di agricoltori/imprenditori:

«guardando al processo storicamente, sembra più esatto suggerire che queste famiglie

attraversarono un processo di virtuale proletarizzazione, ma conservarono una fisionomia

25 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992. 26 Ibidem. Si consideri inoltre il ruolo giocato dal “vil denaro” nella definizione di questa situazione, portando gli

individui abituati al lavoro in fabbrica indiscutibilmente sulla via dell’emancipazione familiare. Afferma Corner

che: «Inevitabilmente, una presenza ingente di guadagni salariali creava tensioni nella famiglia contadina.

Sappiamo che nei membri salariati della famiglia crebbe la riluttanza a far confluire i propri guadagni in un fondo

centrale, preferendo essi tenere il denaro per sé. A contatto con il mondo dell'industria, i gusti mutarono; e la cosa

poté rispecchiarsi in un'accentuazione delle divisioni in seno alla famiglia. Qualche volta, tutto ciò costituì il primo

passo sulla via della dissoluzione della famiglia multipla. Ma, in linea generale, parrebbe che le famiglie

resistessero validamente a queste tensioni, preferendo le garanzie offerte dal fatto di metter insieme almeno una

parte delle risorse ai rischi impliciti nella separazione, e riconoscendo il nesso essenziale tra un miglioramento del

tenore di vita e la famiglia numerosa. A questo proposito occorre ricordare che a partire dal 1927 la crisi economica

rese più difficile alla ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro.

29

sufficientemente diversa da quella del proletariato urbano da permetter loro di emergere, a

distanza, come piccoli imprenditori»27.

Il terzo aspetto è quello più naturale e che anche nell’età contemporanea stiamo vivendo: la

crisi. Come testimonia Corner: «a partire dal 1927 la crisi economica rese più difficile alla

ristretta famiglia nucleare, separata dalla famiglia multipla, guardare con fiducia al futuro»28.

Ritornare nella sicurezza del nucleo famigliare permetteva di poter affrontare la vita con un po’

più di serenità, perlomeno economica, dal momento che parte dei costi affrontati in città erano

azzerati dall’autoconsumo e dalla partecipazione di una comunità rurale in cui, al momento del

bisogno, l’aiuto non era neanche necessario chiederlo29.

Nel frattempo, sotto l’egida fascista, la ripartizione delle colture, l'andamento della produzione,

la consistenza del patrimonio zootecnico, l'impiego di concimi chimici, indicavano, fino al

1925/26, l'apparente buona salute dell'agricoltura: la produzione granaria crebbe da una media

di 46 milioni di quintali ad una di 60 circa30.

Ma ben presto l'ondata della crisi economica mondiale del 1929 si rovesciò sull'Italia spazzando

via il precario equilibrio raggiunto nei conti con l'estero dopo la rivalutazione della lira

avvenuta nel 192631. La caduta brusca delle esportazioni, accompagnata dal crollo dei prezzi

sul mercato internazionale, fu il primo segnale. Nel 1929 l'esportazione italiana di prodotti

alimentari era stata pari a 3,6 miliardi di lire; nel 1930 scese a 3,3; nel 1931 a 2,9 — con una

discesa nel giro di due anni di quasi il 20 per cento32.

Con la crisi economica seguita alla rivalutazione, l'industria rallentò il passo, e la

disoccupazione aumentò bruscamente. Molti appartenenti alla generazione “in bilico”, trovatisi

disoccupati, si diedero alla produzione autonoma, tornando in famiglia, mentre i piccoli

proprietari terrieri si trovarono costretti ad andarsene dai propri possedimenti per insolvenza o,

27 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.97. 28 Ibidem, p.94. 29 A tal proposito ci tengo a portare come esempio il contesto rurale in cui mia nonna è nata e ha vissuto dal 1928

al 1986. Mi racconta spesso, infatti, di come l’aiutarsi era all’ordine del giorno a Carloforte (provincia di Carbonia-

Iglesias, in Sardegna), soprattutto quando si affrontavano momenti particolarmente complessi. In quei momenti

si pensava alla sopravvivenza della comunità, per cui il panettiere donava i suoi prodotti al pescatore in cambio

di qualche pesce, e così facendo tutto il paese cercava di sostentare ogni abitante attraverso logiche di dono.

L’importanza del dono nelle comunità rurali verrà poi affrontato più dettagliatamente nel quarto capitolo. 30 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980. 31 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009. 32 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.

30

nel migliore dei casi, a rivenderli e tornare ad essere braccianti. Chi invece mantenne le

proprietà agricole fu spesso costretto ad emarginarsi dal mercato e tornare alle pratiche di

autoconsumo per la sopravvivenza, dal momento che la grande depressione aveva gravemente

colpito i guadagni dei contadini. Come afferma Federico, infatti:

«La grande depressione non colpì tanto la produzione agricola, rimasta più o meno costante o

addirittura aumentata, quanto i prezzi. Le ragioni di scambio dei prodotti agricoli diminuirono di circa

un terzo dal 1928 fino ai minimi del 1932-1933. Quasi tutti i Paesi reagirono nel breve periodo

aumentando i dazi. [...] Questa misura “tradizionale” però si dimostrò insufficiente ad arrestare la caduta

dei prezzi, e quindi i governi ricorsero a strumenti nuovi, almeno per l’Europa in tempo di pace:

l’imposizione di restrizioni quantitative all’importazione (quote) e il controllo totale del mercato»33.

All’entrata in guerra al fianco della Germania nazista nel 1940, l’Italia presentava dunque una

situazione agricola particolarmente provata dalla crisi e dai tentativi dello Stato di sistemare le

cose. Tuttavia l’organizzazione dell’agricoltura su base paramilitare, iniziata nel 1935/36,

sembrava, almeno sulla carta, compatta e totalitaria. E sulla carta rimase: la destinazione delle

risorse all’approvvigionamento bellico si fece immediatamente sentire sulla produzione

agricola che, già indebolita dalla crisi prebellica e dall’assenza di più di un milione e mezzo di

contadini e braccianti spediti al fronte, venne a mancare anche di fertilizzanti chimici e minerali

mentre molte macchine rimasero ferme per scarsità di carburanti34.

33 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.118. 34 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.

31

1.5 La ricostruzione

In quale misura la Seconda Guerra Mondiale danneggiò il patrimonio fondiario ed agrario

italiano non fu mai misurato con esattezza, ma forse non era neanche possibile farlo. Di certo

la situazione si presentava particolarmente difficile: la produzione diminuiva e i prezzi

aumentavano, con un ritmo inflazionistico che mai prima di allora era stato conosciuto35. Fra

il 1939 e il 1946 i prezzi all’ingrosso aumentarono di 33 volte e nuovamente si tornò a parlare

di “arricchimento contadino”. Quando nella realtà dei fatti la situazione creatasi era frutto dello

stato di distruzione in cui versava il territorio agricolo italiano con danni stimati da

Confindustria nel 1947 intorno ai 400 miliardi36.

Il 1946 segnò una tendenza alla ripresa.

Anche se gli sforzi dello Stato furono tesi principalmente alla ricostruzione del settore

industriale, non mancarono studi ed indagini conoscitive per un efficace ripristino e

trasformazione delle strutture agrarie. Da queste indagini emerse il quadro di un'agricoltura (e

dei contadini in essa) povera, arretrata, precaria. Al centro si collocavano i problemi della

proprietà e dell'uso della terra; ed erano, insieme, tecnici e politici. Dal punto di vista tecnico

il problema era evidentemente legato al fatto che i tre quarti dell'agricoltura italiana erano

ancora sottoposti a pratiche colturali le cui tecnologie di base erano estremamente arretrate. Da

un punto di visto politico, la «ruralizzazione» fascista, per quanto demagogica, aveva ottenuto

- attraverso le leggi contro l'urbanesimo e lo scoraggiamento dell'emigrazione - non solo il

risultato di sovraffollare le campagne, ma anche quello di allargare l'area delle piccole

coltivazioni parcellari e dei piccoli coltivatori precari. Si era così consolidato il modello di un

arcipelago capitalistico composto per la maggior parte da attività legate alla sopravvivenza

familiare.

35 Questo ebbe come effetto quello di acuire le difficoltà già marcate nel settore e di protrarne l’effetto anche a

molti anni dopo la fine della guerra. Le difficoltà strutturali mantennero il predominio sulla situazione economica

che invocava una riformulazione in toto del settore, ma che trovava scontri a più livelli. Come afferma Federico,

infatti: «gli effetti della Seconda Guerra Mondiale furono qualitativamente simili ma più gravi di quelli della

prima. Il passaggio all’economia bellica fu molto più facile che nel 1914, in quanto in tutti i principali Stati

belligeranti, compresi gli Stati Uniti, il mercato dei prodotti agricoli era già, parzialmente o totalmente, sotto il

controllo dello Stato. L’intervento statale non potè però evitare un crollo della produzione agricola in Europa

dell’ordine del 20-30%. La produzione aumentò invece negli Stati Uniti, che rifornivano i propri alleati, compresa

l’Unione Sovietica. [...] Il ritorno alla pace non portò cambiamenti significativi nelle politiche agrarie. In Europa,

la memoria delle privazioni belliche e la Guerra Fredda rendevano l’opzione di smantellare le strutture di controllo

e di affidarsi al libero mercato dei prodotti agricoli piuttosto impopolare anche fra i consumatori, oltre che,

prevedibilmente, fra i produttori» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna,

2009, p.122). 36 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Mondadori, Milano, 1980.

32

Di questa agricoltura si effettuò la “ricostruzione”37 fra il 1946 e il 1950. Come già detto però

tutte le priorità furono indirizzate alla riattivazione dell'apparato industriale e i problemi

dell'agricoltura, una volta accertata la ripresa delle principali coltivazioni, non furono più

considerati come fondamentali. «Anzi le campagne, negli anni in cui più intensa fu la

riconversione industriale accompagnata da numerosi licenziamenti, furono guardate come

rifugio provvisorio per la nuova disoccupazione: i primi ad essere licenziati erano appunto

“quei lavoratori che hanno possibilità di impiego nell'agricoltura su terreni di loro

proprietà”»38.

Con il 1950/51 tutta l'economia italiana, e l'agricoltura in essa, entrava in una nuova fase di

espansione produttiva e tecnologica, guidata da una congiuntura internazionale favorevole e

sorretta da un crescente volume di investimenti pubblici e privati.

Fra il 1950 e il 1952 diversi provvedimenti governativi favorirono il rilancio produttivo e

l'ammodernamento tecnologico, se non dell'agricoltura nel suo insieme, perlomeno di quei suoi

comparti e settori capaci di utilizzare le occasioni offerte dai finanziamenti pubblici.

L'iniziativa di maggior rilievo fu senza dubbio lo stralcio di riforma fondiaria. Esso venne

approvato nel 1950 e la realizzazione avvenne attraverso la costituzione di enti appositi, i quali

rapidamente censirono le grandi proprietà espropriabili in tutto o in parte.

L’operazione ebbe risultati economici e sociali eccezionali, tali che nel 1955 oltre 1 milione e

100.000 ettari andarono ad allargare il settore contadino dell’agricoltura. Inoltre gli

investimenti nel settore salirono vertiginosamente dai 241 miliardi del 1951 ai 434 miliardi del

1955, allargando le opere di bonifica e di miglioramenti fondiario39. Gli sviluppi di maggior

rilievo si ebbero però nei settori tecnologici e produttivi subordinati al settore industriale che

in quel periodo stava realizzando il suo “miracolo”, passando da un valore aggiunto pari a 3564

miliardi nel 1951 a 8197 miliardi nel 1961, con una crescita pari al 130% circa. Mentre il valore

aggiunto del solo settore agricolo, per quanto in crescita, si fermava a 3103 miliardi nel 1961,

con un aumento del 49% dal 195140.

37 Le virgolette sono d’obbligo dal momento che la ricostruzione in questione avvenne solo per i comparti

produttivi ritenuti fondamentali. Quelli minori dovettero principalmente affidarsi alla buona volontà dei

conduttori. 38 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.165. 39 Ibidem. 40 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009.

33

Il dato più clamoroso è quello legato alla forza lavoro del settore agricolo, che passò da

8.641.000 addetti nel 1951 a 6.207.000 nel 1961.

Vi era in quel periodo in Italia un clima di euforia diffusa a cui però teneva il passo la

convinzione che, nonostante lo sviluppo produttivo, i progressi tecnologici e lo sfollamento,

occorresse una correzione di indirizzi.

Tra il ‘58 e il ‘65 l’economia italiana si trovò ad affrontare una situazione particolarmente

travagliata: per molti aspetti, infatti, la crescita impetuosa poneva più problemi della precedente

stagnazione. Il contributo fondamentale era dato sicuramente dall'eccezionale sviluppo

dell'industria, che accentuava la dipendenza dell'agricoltura nell'assetto economico-sociale del

paese, nonché la quasi auspicata sua irrilevanza. Come scrive Daneo infatti:

«Sempre più spesso si poté leggere anche sulla stampa specializzata che l'agricoltura era ormai

destinata a ridimensionarsi ed a concentrarsi, e che i problemi residui sarebbero stati semmai di

ordine assistenziale, per facilitare lo svuotamento delle sacche di arretratezza.

Non tutti, ovviamente, erano d'accordo su questi giudizi; anzi da più parti si continuò a

sottolineare l'opportunità politica di non sottovalutare il “mondo rurale” — tanto che un

portavoce della Coldiretti, Valentino Crea, qualche anno dopo alla domanda se fosse «finita

l'era della politica dell'assistenza e dei sussidi» non esitava a rispondere: «Noi non lo crediamo,

perché l'agricoltura italiana, anzi il mondo rurale, ha un alto valore sociale per poter essere

abbandonato a se stesso»41.

Secondo Barberis, inoltre, questa nuova crisi agraria risultava parzialmente fittizia, in quanto

oltre un milione di aziende agricole risultavano delle part time farm che, similarmente a quanto

avvenuto tra il 1861 e il 1919, mantenevano alta quella caratteristica tutta italiana del

contadino-operaio (ora trasformato in operaio-contadino), ancora riluttante all’idea di

abbandonare definitivamente la terra. Il numero di tali soggetti e delle loro famiglie allargate

(che risultavano nel 1961 pari al 19,4% del totale delle famiglie italiane per calare poi al 16,9%

nel 1971) era esiguo ma importante, soprattutto perché è ciò che differenzia la struttura sociale

ed economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati. Non solo nel settore

agricolo42. L’industria italiana infatti, nella sua grande maggioranza, si trova a dover produrre

41 C. Daneo, Breve storia dell’agricoltura italiana (1860-1970), Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1980, p.193. 42 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009.

Come testimonia inoltre Corner: «una delle caratteristiche principali che differenziano la struttura sociale ed

economica italiana da quella degli altri Paesi capitalistici avanzati è precisamente la persistenza e vitalità di un

ampio settore di piccole imprese industriali e artigiane, molte delle quali a carattere familiare, svolgenti una

34

beni dalla domanda altamente variabile, con una tecnologia fortemente rigida e ad alta intensità

di lavoro. «In queste condizioni non è un caso che essa sia caratterizzata, in misura più

accentuata di quanto si osserva in altri Paesi, dalla presenza di un vasto settore di piccole

imprese: queste ultime infatti permettono di recuperare importanti margini di flessibilità al

sistema, tramite la capacità di adattamento dei micro-imprenditori, della famiglia come unità

produttiva, del lavoro a domicilio e del lavoro "nero" in genere»43.

In questo contesto, il mantenimento di un collegamento tra l'industria e l'agricoltura per

l'autoconsumo conserva tutta la sua attualità.

funzione attiva nel processo di accumulazione nazionale e quindi non definibili tout-court come imprese

"marginali", "residuali" o "pre-moderne". Secondo i dati dei censimenti industriali, nei venti anni compresi tra il

1951-1971, gli occupati nelle imprese manifatturiere con meno di 100 addetti nel nostro Paese restano

costantemente superiori alla metà del totale occupati (e il loro peso è ancora maggiore se, invece delle imprese si

considerano gli stabilimenti o le "unità locali" con meno di 100 addetti). Questo dato è assolutamente privo di

riscontro in altri Paesi industriali avanzati (Giappone escluso). Nel valutare tale dato inoltre, va tenuto presente

che l'entità dell'occupazione relativa alle piccole imprese sfugge in parte consistente alle statistiche ufficiali,

essendo spesso costituita da "lavoro nero" e, in particolare, da lavoro a domicilio, che risulta, da numerose

ricerche, una realtà grandemente diffusa nel nostro Paese (a differenza, ancora una volta, degli altri Paesi

industriali occidentali)» (P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.128). 43 P. Corner, Dall’agricoltura all’industria, Milano, edizioni Unicopli, 1992, p.130.

35

Terreno fertile

«Ruralità e agricoltura sono due termini che sono usati talora come sinonimi; rus era la campagna dei

latini, agricoltura è la coltivazione del suolo. Agricoltura fa dunque specifico riferimento a un insieme

di attività economiche; ruralità rimanda invece a un particolare ambiente antropico, in contrapposizione

a quello urbano»44.

Dopo aver visto velocemente i processi in atto nel mondo agricolo nel primo secolo di vita

dell’Italia unita è necessario vedere anche come il settore si stia evolvendo oggi.

Molti aspetti, come vedremo, sono cambiati, altri si spera che cambino. Altri ancora invece

sono rimasti quasi immutati, come per esempio la rilevanza del contadino operaio.

Se il capitolo precedente voleva essere un modo per inquadrare storicamente l’agricoltura e

mostrare alcuni aspetti salienti dell’attività agricola, il presente capitolo ha invece più a che

fare con l’ambito economico/statistico. Si intende qui infatti mostrare i cambiamenti avvenuti

nel corso degli ultimi 30 anni, facendo leva su quegli aspetti che maggiormente rappresentano

il futuro del mondo rurale: i giovani, lo sviluppo tecnologico, i piani comunitari.

Ritengo che sia necessario, ai fini di una maggiore completezza del discorso di tesi generale,

chiarire quali sono i movimenti in atto in Italia, di modo da render più facile identificare quei

fenomeni di sviluppo che affronteremo più avanti.

In particolare, cosa che mi preme mettere in luce da subito, è la questione della

disurbanizzazione e del conseguente incremento della popolazione rurale45.

44 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.XV. 45 I motivi sociologici dietro a questo fenomeno li affronteremo nel prossimo capitolo.

36

2.1 Odio la città

Il nuovo millennio si apre all’insegna di un nuovo fenomeno sociologico: mentre nei Paesi

emergenti dell’Asia, dell’America Latina, perfino dell’Africa il processo di urbanizzazione

avanza prepotentemente dando vita a forme esasperate di urbanismo, nell’occidente più

sviluppato si intravedono chiari segnali di disurbanizzazione e si assiste al fenomeno della

rinascita rurale. Quest’ultima ha la sua manifestazione più vistosa nel ripopolamento delle aree

rurali a scapito di quelle urbane. Anche in Italia, come in molti altri Paesi occidentali, al declino

demografico delle aree urbane si contrappone la ripresa di quelle rurali. Secondo la

classificazione che riporta Corrado Barberis, presidente dell’INSOR (Istituto Nazionale di

Sociologia Rurale), elaborata negli anni Ottanta:

«Gli oltre ottomila comuni italiani sono distinti in rurali e urbani, ai quali vengono aggregati

anche gli intermedi. Al mondo rurale sono assegnati i comuni con almeno il 75% di superficie

a verde e una densità demografica non superiore a 300 abitanti per chilometro quadrato; al loro

interno vengono distinti i comuni ruralissimi, così chiamati perché la loro superficie a verde

raggiunge una percentuale superiore al 90%, e i comuni rurali di montagna. Sono stati

classificati urbani, oltre che i capoluoghi di provincia e i grossi centri con più di 50000 abitanti,

i comuni contrassegnati sia da una bassa quota di superficie a verde (meno del 75%) sia da una

densità elevata (oltre 300 abitanti). Nella categoria dei comuni intermedi sono stati inseriti tutti

i rimanenti comuni: sia quelli che, pur presentando un’alta percentuale di superficie a verde

(oltre il 75%), non possono essere considerati rurali in ragione della loro elevata densità (oltre

300 abitanti), sia quelli che, avendo una bassa percentuale di superficie verde (meno del 75%)

non possono essere considerati urbani a causa della loro bassa densità (meno di 300 abitanti)»46.

Sulla base di questa classificazione, è possibile esaminare l’evoluzione demografica dei diversi

tipi di comuni negli ultimi tre decenni del secolo scorso e nel primo quinquennio 2000.

All’inizio degli anni ‘80 l’Italia era ancora in piena crescita demografica. Il censimento svoltosi

nel 1981 aveva contato 2.420.000 italiani in più rispetto al 1971, con una variazione percentuale

del 4,47%. A questa crescita contribuivano tutti i tipi di comuni, ma quelli urbani e semi urbani

in misura maggiore di quelli rurali. Mentre la popolazione di questi ultimi risultava aumentata

46 Ibidem, p.29.

37

del 2,8%, era cresciuta del 4,3% quella dei comuni urbani e addirittura del 10,9% quella dei

comuni intermedi47.

Dieci anni dopo la situazione appariva assai diversa.

Il censimento del 1991 evidenziava che l’Italia era ormai largamente investita dai fenomeni di

crescita zero e del declino demografico urbano. Nel 1991 vennero contati soltanto 221.000

abitanti in più, con una variazione dello 0,4%. Complessivamente i comuni urbani avevano

perso nel corso di quel decennio 685.000 abitanti (-2,4%): una perdita che sarebbe stata ancora

più grave se i centri urbani più piccoli non avessero compensato con i loro 473.000 abitanti in

più (7,1%) l’emorragia demografica dei grossi centri capoluogo e non, la cui popolazione

risultava diminuita di 1.158.000 abitanti (-5,3%).

In una simile situazione di stazionarietà demografica e declino urbano, il risultato dei comuni

rurali appariva sorprendente. Tra il 1981 e il 1991 i comuni rurali vedevano aumentare la loro

popolazione di 503.000 abitanti, con una variazione del 2,4%, di poco inferiore a quella del

1981 (2,8%).

Si deve concludere che gli anni ‘80 hanno segnato una netta inversione di tendenza per quanto

riguarda le dinamiche demografiche. La crescita della popolazione, che nel corso degli anni

settanta tendeva a concentrarsi nei comuni urbani, ha cominciato a spostarsi nei comuni semi

urbani e rurali. Le nuove tendenze demografiche manifestatesi nel corso degli anni ‘80 sono

proseguite durante il successivo decennio novanta, come confermano i risultati del censimento

della popolazione svoltosi nel 2001. Anche nel corso dell’ultimo periodo intercensuario la

popolazione italiana è rimasta stazionaria: nel 2001 si sono contati solo 221.000 abitanti in più

rispetto al 1991, corrispondenti a una variazione dello 0,4%. I comuni urbani,

complessivamente considerati, hanno continuato a perdere popolazione, avendo rilevato il

censimento 593.000 cittadini in meno (-2,1%). Particolarmente pesante è stato il

ridimensionamento demografico subito dall’insieme delle città capoluogo e dei grossi centri

con oltre 50.000 abitanti, che hanno perso 952.000 abitanti (-4,6%).

Nel 2001 pare invece consolidata la ripresa demografica rurale segnalata dai due censimenti

precedenti, avendo guadagnato i comuni rurali, complessivamente considerati (cioè compresi

anche i comuni montani) 462.000 abitanti, con una variazione positiva del 2,1%, solo

leggermente inferiore a quella del 1991.

E’ dunque andato avanti nel corso degli anni novanta il processo di redistribuzione territoriale

della crescita demografica dai comuni urbani verso quelli semi urbani e rurali. Ormai i comuni

47 Ibidem.

38

rurali non montani sono quelli che, in termini assoluti, vantano gli incrementi demografici più

consistenti: 496.000 abitanti in più nel decennio 1991-2001, un guadagno superiore a quello

ottenuto dai comuni intermedi (349.000) e dai comuni urbani minori (359.000).

39

2.2 La fine dell’arcipelago dei minifondi

Dalla fine degli anni ‘70 ad oggi la situazione agricola italiana ha subito importanti modifiche

che hanno causato una flessione del numero di aziende presenti sul territorio. Il censimento

agricolo dell’Istat del 1982 registrava la presenza di poco più di 3.000.000 di attività agricole.

L’enormità del numero di aziende presenti, però, fa capire anche come queste fossero

composte, per la maggior parte, da terreni inferiori all’ettaro (se non al quarto di ettaro). Una

situazione del genere presentava perciò un grande numero di terreni poco produttivi o di attività

i cui fini economici erano tendenti allo zero.

Questa situazione, non poi così differente dal generale stato dell’agricoltura in tutto il corso del

XX secolo, era dunque ancora prevalentemente di sussistenza e poco sarebbe potuta durare.

Difatti il censimento successivo, avvenuto nel 1990, registrava un calo di più di 200.000

aziende nel settore, diminuite ancora nel decennio successivo di altre 500.000. All’inizio del

nuovo millennio il numero di attività agricole su suolo italiano erano già calate a 2.300.000

circa.

Questa tendenza non ha smesso di interessare il settore e, nel 2010, il numero di imprese è

calato ancora fino ad arrivare a quota 1.600.000 unità circa. In totale, in un solo decennio sono

scomparse ben più di 900.000 aziende. Di queste la maggior parte hanno chiuso

definitivamente a causa di leggi di mercato sfavorevoli per le aziende più piccole e per il

pensionamento (o la morte) degli agricoltori più anziani.

Un cospicuo numero (quasi 200.000) invece è scomparso a tavolino, perché semplicemente

troppo piccole per definirle aziende e perché banalmente non rispettavano i canoni imposti

dall’Unione Europea per fini statistici48.

Oltre al numero di aziende, si è avuta una diminuzione progressiva della SAT (Superficie

Agricola Totale) e della SAU (Superficie Agricola Utilizzata), anche se in modo non

proporzionale. Ciò ha portato ad un aumento della dimensione media aziendale, corrispondente

ad un graduale cambiamento della struttura agricola italiana. L’aumento progressivo della

dimensione media aziendale è un fenomeno che ha interessato tutte le circoscrizioni del

territorio nazionale, a dimostrazione del fatto che la riorganizzazione della struttura agricola è

un fenomeno che coinvolge in modo omogeneo tutto il territorio. I picchi maggiori si sono

48 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.

40

verificati nelle isole con variazioni percentuali, tra il 2000 e il 2010, pari al 72% in Sicilia e al

99% in Sardegna.

Fig. 1. Evoluzione della dimensione media aziendale. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT, 2014.

Fig. 2. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in

ettari). Fonte: 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, 2013.

41

Fig.3. Aziende e relativa superficie totale per forma di conduzione. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura,

2013.

Come registrato dall’Istat, ancora nel 2010 il 50% delle aziende aveva meno di 2 ettari di SAU.

Questo, almeno parzialmente, pare relativo anche all’incremento di attività non direttamente

collegate alla coltivazione della terra o al pascolo: un numero crescente di aziende pare infatti

volgere le proprie attenzioni ad attività remunerative legate al turismo. Purtroppo questo dato

è, come detto, parziale, in quanto la stragrande maggioranza del calo di SAU è legata al fatto

che milioni di ettari giacciono in stato di abbandono e continuano a vegetare fuori da ogni

organizzazione o azienda agraria: lasciti di una proprietà che risulta spesso assente perché

impegnata in attività più remunerative o considerate migliori dal punto di vista lavorativo. C’è

di buono che questi ettari siano finiti a costituire boschi spontanei o altre aree vegetali piuttosto

che essere cancellati per opere di urbanizzazione e, quindi, cementificazione49.

49 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013

42

Fig.4. Aziende e relativa SAU per forma di conduzione e titolo di possesso dei terreni (superficie in ettari). Fonte:

ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.

Fig.5. Uso del suolo (superficie in milioni di ettari), anno 2010. Fonte: elaborazione ISTAT su dati MIPAAF

(POPULUS) 2010. ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.

Fig.6. SAU e SAT. Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.

Ma nonostante questa diminuzione, non manca un certo entusiasmo di fronte ai processi in

corso: come ha evidenziato il Sole 24 Ore quando venne dato alle stampe il 6° censimento

generale dell’agricoltura, era (ed è tuttora) in atto un processo di professionalizzazione del

settore agrario50. Questo sarebbe dato dal fatto che, all’uscita dal mercato delle aziende più

piccole, è corrisposto un aumento delle aziende con più di 30 ettari.

50 Impresa e territori, http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2012-07-12/istat-cala-numero-aziende-

151028.shtml?uuid=Abo1bp6F&fromSearch&refresh_ce, ultimo accesso 18/06/15.

43

Altra particolarità legata alla sempre maggiore professionalizzazione del settore agricolo è data

dalla variazione della struttura fondiaria e dalla diminuzione della presenza di quel

caratteristico “contadino-operaio”, che comunque ha mantenuto (e, anche se parzialmente,

continua a mantenere) un ruolo particolarmente rilevante nel settore. Mentre nel 1970 le duplici

attività raggiungevano la maggiore espansione e i conduttori di una seconda attività risultavano

quasi 1.200.000, i conduttori di aziende agricole con prevalente attività esterna si riducono nel

2000 a 604.000, in attesa di contrarsi ulteriormente a meno di 316.000 (19,7% del totale) nel

2010. Questo fenomeno pare sia dovuto al fatto che la propensione ad assumere una seconda

attività diminuisce infatti all’aumentare delle dimensioni aziendali51.

Come rilevato dall’INEA nel Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014,

«L’ammontare medio aziendale dei ricavi provenienti da altre attività produttive presenti

nell’azienda agricola e complementari a quelle agricole ordinarie è piuttosto contenuto in

termini assoluti, sfiorando i 2.200 Euro ad azienda nel 2012; l’aumento registrato rispetto

all’anno precedente, seppure leggero, lascia intravedere una crescita di interesse degli operatori

agricoli verso attività di diversificazione produttiva, specie in un contesto come quello attuale

caratterizzato da una marcata instabilità dei mercati agricoli. Il loro peso appare rilevante

soprattutto nell’area settentrionale e centrale del paese, anche grazie alla presenza dell’attività

agrituristica, mentre è del tutto limitato al Sud Italia»52.

Certo è da rilevare che il fenomeno della professionalizzazione, e quindi della maggior

concentrazione di SAU e della conseguente creazione di aziende più strutturate, è ben lungi

dall’essersi definitivamente affermato. Secondo una ricerca svolta da Confagricoltura, infatti,

nel 2013 fra le aziende di superficie inferiore ai 2 ettari, le individuali sono 99,2%; fra quelle

di superficie dai 50 ettari in su, le individuali scendono al 70%.

E’ comunque evidente che la crescita delle conduzioni societarie testimonia come

l’affermazione di imprese più grandi, meglio organizzate, con maggior propensione

all’investimento, sia un fenomeno ancora in atto ma che pare in continua crescita53.

51 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013. 52 INEA, Rapporto sullo stato dell’agricoltura 2014, p.17. 53 Ibidem.

44

Fig.7. Conduttori totali ed alternanti secondo classi di SAU (per alternanti si intendono i soggetti esercitanti attività

prevalentemente esterna all’azienda). Fonte: ISTAT, 6° Censimento dell’agricoltura, 2013.

La differenziazione delle tipologie di conduzione delle aziende agricole ha rappresentato

un’incidenza importante nel decennio intercorso tra il censimento 2000 e quello 2010 e

continua a crescere il numero di aziende che privilegiano forme di conduzione diverse da quella

individuale, prima la prevalente (se non addirittura l’unica) forma di conduzione privilegiata.

Per fermarci all’analisi data dal censimento 2010, il numero di aziende costituite da forme

societarie sono passate dalle 32.000 circa del 2000 alle quasi 48.000 del 2010, con importanti

conseguenze anche sulla produttività: come rilevato dall’ISTAT queste nuove forme societarie

hanno circa 257.000€ di reddito annuo ciascuna, contro i 21.300€ delle aziende individuali.

6840€ di prodotto standard per ettaro contro 3398€; 392€ a giornata contro 159.

Solo le società di capitali riescono, con 7.609€ ad ettaro e 407€ a giornata, a superare questi

risultati, che restano nettamente più elevati rispetto a quelli di altri piccoli colossi: quali, ad

esempio, le cooperative54.

In generale questo processo continua ad aver luogo e il numero di aziende individuali è

costantemente in calo, nonostante continui a rappresentare la quasi totalità delle aziende

agricole. Nello specifico, le regioni in cui si è verificato il maggior incremento delle forme

societarie sono la Valle d’Aosta, la Lombardia, l’Emilia Romagna e il Friuli Venezia Giulia.

Leggendo questi dati assieme a quelli dell’aumento della dimensione media delle aziende, si

può mettere quindi in luce una graduale tendenza al cambiamento della struttura agricola, con

un crescente orientamento verso forme giuridiche diverse al quella della proprietà individuale.

Fa eccezione, a questo proposito, la Calabria, unica regione in cui si manifesta un aumento

della forma individuale, insieme con le altre forme giuridiche, a scapito delle società.

54 Ibidem.

45

Fig.8. Evoluzione delle forme societarie in agricoltura. Fonte: Elaborazione Confagricoltura su dati

UNIONCAMERE, 2013.

Fig.9. Forme giuridiche in Italia nel 2013 per regione. Fonte: elaborazione Confagricoltura su dati Union camere,

2013.

46

2.3 Arretratezza tecnologica

Il secolo scorso è stato caratterizzato da una grande crescita della produzione agricola a livello

globale, anche se concentrata principalmente nei Paesi maggiormente sviluppati e

industrializzati. Un aumento della produzione e dell’offerta che ha controbilanciato la forte

crescita della domanda globale degli alimenti consentendo un andamento relativamente stabile

dei prezzi. Questa crescita produttiva è avvenuta in concomitanza con un netto declino della

forza lavoro agricola ed una sostanziale stabilità della superficie agricola coltivata. Tale

crescita produttiva si è ottenuta grazie ad una ancora maggiore crescita della produttività delle

risorse agricole. Tanto rilevante è stato questo incremento di produttività, che il tema principale

su cui gli economisti si sono più a lungo soffermati è proprio la sua spiegazione55.

Certamente, l’intensificazione capitalistica ha avuto un ruolo in agricoltura come nel resto

dell’economia. Ma proprio il confronto con il resto dell’economia ha messo in evidenza come

nel comparto agricolo deve essere subentrato qualcosa di ulteriore. Questo viene identificato

nel continuo e incessante progresso tecnologico; nell’aver trasformato una serie continua di più

o meno rivoluzionari passi in avanti della conoscenza scientifica di interesse agricolo

(soprattutto dei processi biologici) in conoscenza pratica, cioè capace di generare tecnologia e,

infine, di portare innovazioni nel contesto produttivo agricolo. Questa capacità ha consentito

all’agricoltura mondiale, e soprattutto della parte più ricca, di sfuggire alla trappola della

scarsità alimentare in cui una forte crescita demografica ed economica rischiava di gettarla.

Fig.10. Produttività della terra e del lavoro agricolo: tasso di crescita annuo medio (in %), 1960.2005. Fonte:

elaborazione INEA su dati Alston e al. (2010). INEA, Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche

del processo di innovazione, 2013.

Questo fenomeno è estendibile anche all’area italiana, nella quale emerge una crescita in

dinamica e intensità non diversa da quanto emerso a livello globale nei primi anni del

55 C. Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.

47

dopoguerra (favorita dalla rapida intensificazione capitalistica e dalla rapida uscita dalle

condizioni di arretratezza in cui versava il settore agricolo italiano), a cui fa seguito una

flessione dell’andamento e una successiva sostanziale stagnazione.

Fig.11. Produttività agricola parziale e totale (TFP) e spesa in ricerca agricola (in termini reali) in Italia: tasso di

crescita annuo medio (in %), 1960-2002. Fonte: elaborazione INEA su banca dati AGREFIT (2009-2011). INEA,

Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di innovazione, 2013.

La stagnazione italiana, nello specifico, è indice di una arretratezza importante del settore dal

punto di vista tecnico e tecnologico con il resto dell’Europa e del mondo. L’Italia infatti tende

a collocarsi tra i Paesi follower e il ritardo acquisito nei confronti dei Paesi leader è da attribuire

al fatto che non è riuscita ad acquisire un ruolo da protagonista nella produzione di conoscenza

ed innovazione tecnologica di interesse agricolo. Questa situazione è messa in luce anche da

Barberis, il quale afferma che:

«Dal punto di vista della dimensione complessiva dell'offerta l'agricoltura italiana è rimasta

sostanzialmente uguale a se stessa negli ultimi vent'anni. Ma se si guarda al reddito complessivo

messo a punto dal settore agricolo non è pessimismo riconoscere una sostanziale perdita di

valore in termini di mercato della sua produzione, e ancora più deludente appare il risultato del

reddito netto, considerato il maggior peso, nelle attività di coltivazione e di allevamento, dei

mezzi tecnici impiegati, i cui prezzi si sono accresciuti a ritmi ben più sostenuti di quelli

realizzati dall'azienda»56.

56 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.171.

48

Il giudizio di Barberis cambia però quando si sofferma a valutare l’organizzazione aziendale e

la produttività dei singoli fattori; da questa valutazione egli afferma (e conferma) che il settore

primario italiano non ha smesso di attraversare momenti di significativa e intensa

trasformazione.

Ma nonostante quest’ultima valutazione, è innegabile che il comparto agricolo viva una

situazione particolarmente difficoltosa dal punto di vista tecnologico. Questa arretratezza

tecnologica è sicuramente attribuibile alle forme societarie principali dell’agricoltura italiana,

quelle imprese individuali spesso mal gestite (o gestite sono a fini di autoconsumo).

Non si vuol far qui di tutta l’erba un fascio (molte aziende individuali sono comunque portatrici

di innovazioni), ma è tuttavia innegabile che, come afferma Giovanni Federico, «la lentezza

del progresso nelle aree di piccola proprietà contadina è attribuita all’innato conservatorismo

dei contadini e alla loro ostilità per ogni innovazione»57.

Allo stesso tempo è anche innegabile che l’agroalimentare italiano presenta comunque delle

eccellenze mondiali che sono tali anche in virtù di performance produttive e di livelli

tecnologici di prim’ordine. In comparti quali vino, olio d’oliva, ortofrutta e colture protette,

allevamenti intensivi, l’Italia mostra, anche solo in porzioni o nicchie di questi comparti, un

primato tecnologico mondiale. Ciò è tanto più vero se si considera che il dato nazionale

nasconde sempre differenze territoriali molto spiccate, tali per cui è certamente possibile

rintracciare anche in Italia aree con una agricoltura che, almeno nei rispettivi comparti di punta,

risulta essere sulla frontiera tecnologica a livello internazionale e su questo elemento fonda una

porzione essenziale della propria competitività.

Come evidenzia la ricerca dell’INEA58, le complicazioni italiane sono dovute al fatto che il

settore agricolo del nostro paese ha operato la scelta di orientare la propria strategia competitiva

verso il primato assoluto della food safety, ossia la qualità alimentare e ambientale. Questa

vocazione alla qualità dovrebbe essere capace di ampliarsi anche in altri ambiti: sostenibilità

ambientale, produzione di beni pubblici e servizi di interesse collettivo, sviluppo rurale. Ma

questi fronti sono ben lungi dall’essere ancora sviluppati e definiti, perché chiamano in causa

un nuovo fronte tecnologico per l’agricoltura stessa, che si troverebbe ad essere “garante” degli

aspetti visti sopra, in quanto argomenti direttamente correlati al suo sviluppo. Uno sviluppo

che solo le nuove generazioni di agricoltori possono essere in grado di affrontare.

57 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.85. 58 I. Di Paolo e A. Vagnozzi (a cura di), Il sistema della ricerca agricola in Italia e le dinamiche del processo di

innovazione, INEA, Roma, 2014.

49

2.4 I giovani

Il tema dell’occupazione giovanile in agricoltura risente di una forte ambiguità delle statistiche,

in quanto esiste un problema di raffronto dei dati per la soglia di età in cui si è considerati

giovani: fino a 35 anni per le principali fonti di informazione statistica e fino a 40 anni per le

azioni di Politica Agricola Comune (PAC) implementate a livello europeo. Questa è una nota

necessaria al fine di capire il mondo dell’occupazione giovanile in agricoltura che altrimenti,

considerando cioè una fascia di età fino ai 30 anni come per gli altri settori, sarebbe fortemente

compromesso. La rivoluzione dell’agricoltura sembra dunque

«Guidata da una percentuale significativa di giovani, se diamo al termine un’accezione molto

larga, adatta a un paese che fatica ad effettuare il ricambio generazionale. [...] Se estendiamo la

definizione di giovani agli under 40 la percentuale [di aziende] arriva all’8%. Le imprese junior

funzionano bene: creano in media il 35% di valore aggiunto in più di quelle gestite da agricoltori

sopra i 40 anni, grazie ad un maggior grado di dinamismo e creatività, di attitudine al rischio e

di propensione all’innovazione e all’export. Ma anche grazie a una più elevata sensibilità per le

tematiche sociali e ambientali»59.

Esaminando i dati del 6° Censimento generale dell’agricoltura e confrontandoli con quelli del

Censimento precedente, si può notare come il numero dei giovani agricoltori ha subito una

variazione negativa pari al 40%, passando da 273.182 a 161.716 (tabella 3.4). Allo stesso modo

la diminuzione percentuale ha interessato anche le altre due classi (40-64 e over 65) con

diminuzioni percentuali pari, rispettivamente, al 36% e al 38%.

Fig.12.

Capi d’azienda per classi di età (censimenti 2000 e 2010) Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2000-2010.

INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013.

59 A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo

editoriale L’Espresso, 2013 (progetto redazionale), p.14.

50

Dunque, la forte riduzione di aziende che si è registrata nel periodo intercensuario ha colpito

fortemente anche le aziende condotte da giovani.

Rispetto ad una riduzione complessiva delle aziende del 34,4%(da poco più di 2.500.000 a

1.620.000), è proprio la classe di capi azienda più giovani a mostrare la contrazione

percentualmente più rilevante (-40,8%), a fronte di una media complessiva del 37,5%. Per i

giovani la maggior diminuzione riguarda la classe inferiore ai 19 anni; tale fenomeno potrebbe

essere letto come un ritardo dell’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, dovuto ad un

aumento del livello medio di istruzione, fenomeno peraltro generalizzato a tutte le tipologie di

lavoro.

Eppure, considerando nel giusto modo la mobilità tra le classi di età, e ipotizzando che non vi

siano fuoriuscite dalle classi se non per motivi di età, emerge che dei 161.716 agricoltori “under

40”, 108.870 sono i “veri” nuovi entrati, pari a circa il 60%.

Questo dato, sebbene sia apparentemente alto, non può essere pienamente soddisfacente in

quanto va letto contemporaneamente ai 220.336 usciti dalla fascia dei giovani. Ciò indica che

appena il 50% di coloro che oltrepassano la fascia di età dei giovani sono stati “sostituiti” da

nuovi entrati nel mondo agricolo.

Appare quindi evidente (ma del resto era forse addirittura scontato) che in Italia esiste un grave

problema di ricambio generazionale nel settore agricolo, nonostante negli ultimi anni i dati

relativi alle variazioni congiunturali mostrino un leggero aumento del numero di imprese

condotte da “under 35”60.

Per quanto riguarda l’istruzione, emerge come la percentuale di conduttori senza titolo di studio

cresce progressivamente, passando dalle categorie più giovani a quelle più anziane, fino a

raggiungere il 57,2% nel caso del classe oltre i 75 anni, che include ancora circa il 17% del

totale dei conduttori. In modo simmetrico si può leggere la frequenza dei diversi titoli di studio

per singole classi di età. Il titolo di laurea è prevalente nelle classi più basse, ma resta molto

basso (raggiunge il 14% nella classe tra 25 e 29 anni, mettendo assieme laurea specialistica con

altre lauree). Il livello di licenza superiore è il più frequente nelle classi fino a 29 anni, per poi

cedere la prima posizione alla licenza media (51% nella classe tra 40-49 anni; 42,8% nella

classe successiva). A partire dalla classe dai 60 anni in su, è la licenza elementare a prevalere,

fino a raggiungere il 74,7% nella classe di età superiore ai 75 anni.

60 Aa.vv., I Giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, INEA, Roma, 2013.

51

Fig.13. Capi azienda per titolo di studio e classi di età. Fonte: elaborazione INEA su dati ISTAT 2010. INEA, I

giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, 2013.

L’INEA rileva che tra le lauree e i diplomi pesano in modo significativo i titoli non specialistici

rispetto a quelli conseguiti in campo agrario. Ciò rivela, da un lato, la scarsa importanza che si

dà ad una preparazione di tipo tecnico per la conduzione di un’azienda agraria, dall’altro, la

probabile significativa presenza di aziende part time, di tipo residenziale e hobbistico. Tuttavia,

la presenza di un significativo numero di diplomati e laureati anche in discipline non agrarie,

va comunque visto come un fattore di crescita della formazione dei conduttori aziendali che

può avere importanti ripercussioni sul loro livello imprenditoriale e manageriale.

Eppure dai dati del censimento qualcosa è cambiato e in anni più recenti si constata come non

solo l’occupazione agricola giovanile cresce, ma cresce solo in questo settore, mentre nel resto

del sistema economico si registrano tassi di disoccupazione sempre più elevati, soprattutto nel

caso dei giovani.

Allo stesso tempo altri dati sembrano convergere: l’aumento degli studenti nelle facoltà di

agraria, l’accresciuto interesse per gli aspetti ambientali e naturali del lavoro in agricoltura, il

riconoscimento di attività secondarie complementari a quella agricola vera e propria, l’aumento

del sostegno offerto dalle politiche agrarie e anche dalle politiche sociali e economiche per

attività imprenditoriali in agricoltura e nelle aree rurali, tutto questo sembra sostenere e

52

rafforzare l’idea di un rinnovato interesse da parte dei giovani verso il mondo agricolo e la

possibilità di avviare attività imprenditoriali in agricoltura.

Già il Censimento del 2010 evidenziava come la particolarità dell’agricoltura italiana sia data

dalla specializzazione delle sue aziende - identificando con questo termine le aziende che

ricevono almeno due terzi dei propri introiti da un unico indirizzo produttivo. Una

specializzazione che non è solo un vezzo ma anzi è presupposto della sopravvivenza del settore

nel nostro paese. Delle 261.627 aziende professionali identificate dall’ISTAT, 227.033

risultano specializzate (86,8%); 19.449 (7,4%) bi-specializzate, cioè che raggiungono il

traguardo dei due terzi grazie a due prodotti anziché ad uno solo. A queste si aggiungono altre

10.501 aziende (4,0%) interessate a diverse combinazioni di colture permanenti e 15.145

(5,8%) promiscue classiche.

Barberis fa notare che: «nella corsa alla specializzazione, i giovani svolgono un ruolo di punta,

non di retroguardia, spingendosi fino all’88% delle aziende da loro interessate e confermando

una propensione per attività di non piccolo cabotaggio. Non vi è attività, infatti, nella quale la

presenza dei giovani non sia contrassegnata da un aumento delle dimensioni economiche

medie»61.

Ciò non toglie che, purtroppo, il primo elemento ad emergere dal censimento 2010, come

sottolineato dall’INEA, fosse la riduzione generalizzata in tutte le regioni della presenza di

conduttori giovani. Il limitato ricambio generazionale pare coincidere anche con una limitata

fuoriuscita dal settore di imprenditori oltre i 65 anni con una progressiva senilizzazione delle

imprese agricole che porta certamente ad una minore dipendenza del reddito del conduttore da

quello di impresa, grazie al subentrare di redditi da pensione e quindi ad una minor propensione

al rischio ed all’innovazione.

La Rete Rurale Nazionale, nel tracciare l’Atlante dei Giovani Agricoltori, evidenzia differenti

aspetti particolarmente interessanti. La RRN infatti denuncia una domanda crescente di beni

naturali - aree naturalizzate, biodiversità, aree verdi pubbliche, attenzione alla compatibilità

ecologica ecc. - ed evidenzia come, ancora una volta, l’agricoltura specializzata possa ricoprire

un ruolo fondamentale nel soddisfare questo bisogno della società civile, indicando come tale

situazione possa creare anche, e soprattutto, nuove potenzialità di sviluppo per le aziende

61 Corrado Barberis (a cura di), 6° Censimento dell’agricoltura, ISTAT, Roma, 2013.

53

agricole attraverso attività connesse e convergenti. In particolare evidenzia come siano in

aumento esperienze di accordi tra enti pubblici e privati per il mantenimento del verde, della

viabilità, dei servizi al cittadino come agri-asili o punti vendita. Lo sviluppo di queste attività,

secondo la Rete Rurale Nazionale, è merito proprio delle aziende condotte dai giovani. Aziende

che «nascono da esigenze di una migliore residenzialità e qualità della vita rispetto a quella

della città, piuttosto che dalla ricerca di una occupazione stabile in agricoltura, ma che spesso

si trasformano in una attività di impresa a tempo pieno»62.

E nello stesso documento la RRN afferma come

«anche nel caso delle aree di agricoltura specializzata l’incentivazione della presenza di aziende

condotte da giovani riveste una particolare importanza per accelerare il cambiamento delle

pratiche convenzionali verso quelle maggiormente sostenibile, sia per la maggiore sensibilità

dei giovani agricoltori per la questione ambientale e per la sicurezza alimentare e sul lavoro, sia

per il maggior grado di scolarità dei giovani agricoltori che consente un più rapido adattamento

delle tecniche eco-compatibili alle diverse condizioni ambientali pur mantenendo una elevata

produttività dei fattori di produzione»63.

La specializzazione delle aziende sembra dunque essere da più parti definita non solo come

l’attività fondante dell’agricoltura italiana, come visto sopra, ma anche quella su cui puntare

per il futuro, in un’ottica di rispetto dell’ambiente, di legame col territorio e di sostenibilità.

Pare dunque evidente come la presenza di giovani agricoltori sia legata non solo al futuro, in

termini quantitativi delle imprese agricole e quindi della capacità produttiva del nostro Paese,

ma sempre più alle prospettive di sostenibilità e qualità di queste attività ed al tempo stesso

della vitalità delle aree rurali.

Giovani imprenditori è sinonimo di nuove famiglie, presenza di una domanda attiva di servizi,

mezzi di comunicazione e informazione moderni, beni relazionali. Tutti fattori che

contribuiscono alla crescita delle risorse umane e sociali di un territorio, alla sua qualità, alla

capacità di elaborare in modo originale le sollecitazioni anche culturali che provengono

dall’esterno pur mantenendo identità e tradizione, gli elementi distintivi sui quali è stata

costruita la competitività delle produzioni di qualità nazionali.

In particolare le aziende giovani sono quelle maggiormente propense agli investimenti

produttivi (pur di fronte al problema dell’accesso alla terra), agli aspetti della multifunzionalità,

62 C. Zazzarini Bonelli (responsabile del documento), L’Atlante dei giovani agricoltori, Rete Rurale Nazionale,

Roma, 2010, p. 152. 63 Ibidem.

54

all’innovazione tecnologica e organizzativa, oltre che ad una diversificazione del reddito con

ricorso al part-time. Le aziende condotte da giovani perseguono con maggiore convinzione ed

interesse i processi di allargamento delle funzioni produttive con l’offerta di servizi quali

l’agriturismo, il contoterzismo e l’attività di trasformazione dei prodotti agricoli aziendali.

Spesso le imprese condotte da giovani sono caratterizzate da una forte presenza

intergenerazionale. Tale stato comporta un coinvolgimento dell’intera famiglia nell’attività

agricola (come ci fosse un ritorno alla famiglia allargata presente, e spesso vincente, nella

cultura rurale italiana novecentesca) e un certo grado di flessibilità nell’affrontare gli

andamenti del mercato.

55

2.5 Le prospettive future

Alla luce dei dati riguardanti il settore visti finora, l’agricoltura italiana è parallelamente in

stallo e in fermento.

Da un lato infatti, c’è la difficoltà delle aziende più piccole e “vecchie”, il calo dei consumi da

parte dei consumatori e una diminuzione di produttività, dall’altro invece ci sono aziende più

grandi che stanno dando spazio ai giovani, incrementando la produttività e inserendosi in settori

produttivi legati principalmente all’altissima qualità e all’eccellenza.

Il tentativo delle istituzioni è quello di incrementare nel settore agricolo la presenza dei giovani,

i quali si dimostrano già notevolmente interessati ad un ritorno alla ruralità e all’abbandono

sistematico delle città per le zone periurbane o rurali. O, in molti casi, anche all’introduzione

delle campagne nelle città attraverso pratiche di agricoltura urbana innovative.

Evidente risulta anche l’interesse dello Stato stesso sull’argomento (almeno sulla carta). Come

dichiarato da Maurizio Martina (Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali) nella

prefazione al rapporto INEA sullo stato dell’agricoltura nel 2014 infatti:

«Il Governo ha mostrato un rinnovato impegno e una nuova attenzione al settore. Con le misure

di “Campolibero”, inserite all’interno del dl Competitività, abbiamo agito lungo tre direttrici:

credito, lavoro e competitività. Abbiamo attivato mutui a tasso zero per under 40 che investano

nei settori della produzione, della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e

detrazioni al 19% per under 35 che affittano terreni da coltivare. Attraverso l’Ismea agiamo per

dare maggiori opportunità alle start up agricole con il fondo di garanzia, che rende più semplice

accedere a prestiti, e con mutui fino a 30 anni per il primo insediamento in agricoltura, con

abbattimento della quota di interessi di 40mila euro. Vogliamo favorire l’inserimento dei

giovani nel settore primario, per questo è stato introdotto uno sgravio di 1/3 della retribuzione

lorda per le assunzioni di lavoratori tra i 18 e i 35 anni. Per la prima volta estendiamo al mondo

agricolo le deduzioni Irap al 50%, con contratti a tempo determinato per la durata di almeno tre

anni e per almeno 150 giornate all’anno. I giovani che tengono la strada dell'impresa potranno

usufruire anche dei crediti d'imposta per la competitività di Campolibero, quelli al 40% per

investimenti fino a 400mila euro per innovazione e reti d'impresa e soprattutto quello fino a

50mila euro per l'e-commerce di prodotti agroalimentari»64.

64 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014, p. V.

56

Questa intenzionalità non è diversa dall’atteggiamento dello Stato all’indomani dell’Unità

d’Italia, quando affermava che l’agricoltura era il motore necessario al Paese per entrare nel

mondo dell’industrializzazione. Ora l’agricoltura viene vista come possibilità concreta per

uscire dalla crisi economica, come testimonia anche il rapporto del Censis in cui si afferma che

la “rinascita” a tutto tondo del settore agricolo, oltre che a livello identitario, prende forma

anche nella sua potenzialità di proporsi come forza propulsiva in grado di trainare l’economia

italiana fuori dallo stallo dal quale non sembra in grado di smuoversi. Secondo il Censis «alla

possibilità che l’agricoltura possa rappresentare un volano per ridare slancio e crescita al Paese,

crede l’82% degli italiani, diviso tra un 31% che ritiene fermamente che il settore possa essere

il nostro valore aggiunto in termini di competitività, ed un 51% che lo vede, almeno in prima

battuta, come fonte di occupazione di qualità e ricchezza»65.

E non è solo questione di crederci.

Anche i dati sull’occupazione resi noti dall’ISTAT in un comunicato stampa FLASH diramato

a marzo 2015 e recante i dati del IV trimestre 2014 e gennaio 2015 mostrano come l’agricoltura

sia attualmente il settore produttivo con il maggior tasso di crescita occupazionale: «nel quarto

trimestre 2014, alla sostenuta crescita tendenziale dei dipendenti (+0,9%, pari a 147.000 unità)

si associa il lieve aumento degli indipendenti (+0,2%, pari a 9.000 unità). Il numero di occupati

in agricoltura aumenta rispetto a un anno prima (+7,1%, pari a 57.000 unità), sia tra i dipendenti

sia tra gli indipendenti. Nell’industria in senso stretto, a ritmi meno sostenuti rispetto agli ultimi

due trimestri, prosegue la crescita tendenziale dell’occupazione (+0,6%, pari a 28.000 unità),

che coinvolge esclusivamente i dipendenti. Continua invece, per il diciottesimo trimestre e in

modo accentuato, la flessione degli occupati nelle costruzioni (-7,0%, pari a meno 109.000

unità). L’occupazione cresce con maggiore intensità nel terziario (+1,2%, pari a 180.000 unità

su base annua), a sintesi dell’aumento dei dipendenti (+1,5%, pari a 175.000 unità) e della

sostanziale stabilità degli indipendenti. L’incremento, concentrato nel Centro-nord, interessa

principalmente gli occupati nei comparti di informazione e comunicazione, credito e

assicurazioni, e quello dei servizi alle famiglie»66. Questo processo è stato poi recentemente

aggiornato con i dati relativi al I trimestre 2015, in cui si evidenzia come il tasso di crescita

dell’occupazione stia continuando ad aumentare. I dati dell’ISTAT riportati dalla CIA

(Confederazione Italiana Agricoltori) confermano questo trend: «mentre industria e costruzioni

65 Un futuro per l’Italia: perché ripartire dall’agricoltura, Sintesi del rapporto, Censis, Roma, 2014, p.2. 66 Fonte ISTAT, marzo 2015.

57

arretrano, l'agricoltura mette a segno 45.000 nuovi occupati, soprattutto per effetto della spinta

proveniente dalle aziende agricole del Nord Italia (+16%) e del Mezzogiorno (+4,4%). In

controtendenza il Centro Italia dove gli occupati agricoli diminuiscono dell'11,5%»67. Secondo

Scanavino, presidente della CIA, I dati dell'Istat sull'occupazione «dimostrano ancora una volta

che l'agricoltura è uno dei settori più importanti e strategici su cui puntare per avviare una

ripresa consolidata del sistema economico nazionale»68.

Questa situazione è probabilmente dovuta anche al fatto che tradizionalmente l’agricoltura è

un settore definito anticiclico69, ossia un settore che, per le sue caratteristiche «sarebbe in grado

di assorbire e attutire gli shock macroeconomici sia in un senso che nell’altro»70 e che, dunque,

finirebbe con l’andare in controtendenza rispetto al ciclo economico generale: crescendo di

meno quando l’economia tira e soffrendo di meno nelle fasi di recessione.

Interventi di politica economica a sostegno dei giovani in agricoltura sono però necessari al

fine di mantenere alto l’interesse per il settore e la produttività dello stesso, che, come visto, è

caratterizzato da una marcata senilizzazione del tessuto sociale. A questo proposito sono state

studiate novità importanti per quanto riguarda il Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020

(QFP), con la riforma del quadro normativo della Politica Agricola Comune (PAC) di respiro

europeo.

Per la prima volta nella storia della PAC viene dato agli stati membri un ampio margine di

flessibilità, delegando loro una quantità corposa di scelte per l’implementazione nazionale, con

ricadute di portata significativa a livello aziendale, settoriale e territoriale. Si tratta di questioni

strettamente interconnesse tra loro e con gli altri strumenti della PAC (OCM e Sviluppo rurale)

che vanno a definire, da un lato, la strategia di contesto e, dall’altro lato, le condizioni di accesso

ai pagamenti diretti per il singolo agricoltore71.

67 Lavoro: boom occupati in agricoltura nel I trimenstre 2015, ultima modifica 03/06/15, http://www.cia.it/news. 68 Ibidem. Scanavino poi prosegue affermando: «quella agricola, è un'attività unica in termini di virtuose relazioni

economiche e sociali con i territori di riferimento. Non solo sempre di più oggi gli agricoltori sono tra i principali

protagonisti dei processi di cambiamento e delle sfide globali della società moderna: assicurano il cibo,

contribuiscono all'educazione alimentare con effetti positivi sulla salute e in termini di lotta agli sprechi,

gestiscono capillarmente le risorse naturali come suolo e acqua, forniscono un contributo importante alla

salvaguardia ambientale e al mantenimento della biodiversità. Per tutte queste ragioni è urgente che oggi le

imprese agricole siano messe al centro dell'agenda economica nazionale. Nonostante mille difficoltà, dopo un

anno non facile che ha visto crollare i redditi agricoli italiani e ridursi il valore aggiunto, i dati odierni dimostrano

che il settore è vitale e pronto a raccogliere la sfida della ripresa. Ecco perché ora va valorizzato con un progetto

organico di rilancio. 69 Come evidenziato nel rapporto Fao-Ocse Agricotural Outlook 2009-2018. 70 F. De Filippis, D. Romano (a cura di), Crisi economica e agricoltura, Edizioni Tellus, Roma, 2010, p.5. 71 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014.

58

Le risorse messe in campo per il settore ammontano complessivamente a 26,9 miliardi di Euro

e agli Stati membri è stata data facoltà di applicare il regime di pagamento di base definendo il

contesto territoriale entro cui applicarlo sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori. La

scelta dell’Italia è fortemente orientata alla identificazione di un'unica regione che corrisponde

all’intero territorio nazionale. L'Italia come “regione unica” presenta notevoli punti di forza.

Innanzitutto, definisce un level-play field, fissando condizioni e criteri omogenei per tutte le

aziende, evitando cosi distorsioni della concorrenza. Ma anche a livello di governance

rappresenta una scelta tesa alla semplificazione amministrativa. Inoltre, la scelta di una tale

regionalizzazione – la più estesa possibile – determina chiaramente un’amplificazione degli

effetti della convergenza interna del valore dei diritti, rispetto a quanto si sarebbe osservato nel

caso di individuazione di contesti territoriali più limitati e circoscritti. Questo determinerà

verosimilmente una maggiore redistribuzione dei pagamenti tra territori, settori produttivi e

aziende agricole. Il processo di convergenza, che viene avviato in questa fase di

programmazione dovrebbe portare, nel lungo periodo e comunque dopo il 2020, ad un valore

unitario uniforme in tutta Italia72.

Per quanto riguarda i giovani agricoltori, è stato istituito un sostegno al reddito a coloro i quali

iniziano ad esercitare l’attività agricola. Questo dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore,

favorire l’insediamento iniziale e l’adeguamento strutturale delle loro aziende. L’istituzione di

questo sostegno è obbligatoria da parte degli Stati membri e sarà a base annuale e in rapporto

al numero di ettari, oltre che aggiuntivo al pagamento di base già previsto per tutti gli

agricoltori. Tale pagamento consente di accompagnare i giovani agricoltori, di età inferiore ai

40 anni, esclusivamente nella fase iniziale del ciclo di vita dell'impresa, venendo erogato per

un periodo massimo di cinque anni dal momento dell’insediamento.

Un aspetto importante della riforma della PAC è rappresentato dall’introduzione di un

pagamento legato al rispetto di determinati vincoli di natura paesaggistico-ambientale imposti

all’attività agricola, definito “Pagamento Ecologico”. Nella stessa direzione punta anche il

greening con cui si intende valorizzare alcune pratiche positive per l’ambiente tramite

pagamenti diretti: diversificazione delle colture, mantenimento dei prati permanenti,

72 Ibidem.

59

mantenimento o introduzione di aree di interesse ecologico sono tra le attività di greening con

cui le aziende godranno dei suddetti sostegni economici.

In Italia, secondo studi condotti dall’INEA, l’obbligo della diversificazione colturale

interesserà il 3,8% delle aziende italiane (circa 61 mila unità di cui 26 mila unità sono

interessate alla sola diversificazione, mentre 35 mila unità sono toccate anche dall’introduzione

di aree di interesse ecologico). A queste corrispondono circa 1,9 milioni di ettari a seminativo,

pari al 27,8% del totale. Lo scarso numero di aziende coinvolte è prevalentemente dovuto

all’applicazione della soglia di 10 ettari di superficie a seminativo, che rende la norma

applicabile a meno del 10% delle aziende italiane (157 mila unità). Da questa percentuale sono

poi state escluse le categorie che non sono tenute ad applicare la diversificazione, ovvero le

aziende biologiche e le aziende con superficie prevalentemente dedicata alla produzione di

erba, colture sommerse o a riposo e, delle oltre 135 mila aziende restanti, sono state escluse le

quasi 75 mila che soddisfano già i criteri della diversificazione.

C’è da dire che questo obbligo di diversificazione potrebbe andare a ledere quella specificità

della nostra agricoltura, che ha fatto della colture specializzate, come visto precedentemente,

un suo punto di forza. La soglia di 10 ettari, da questo punto di vista pare essere una buona

soluzione per mantenere viva la forte specializzazione delle PMI agricole, che costituiscono

appunto la maggioranza di attività agricole presenti sul territorio.

Per quanto riguarda il mantenimento dei prati permanenti, le superfici coinvolte ammontano a

oltre 3 milioni di ettari, al netto di quelle biologiche, e riguardano circa

250.000 aziende. La superficie a prati e pascoli potenzialmente interessata da questo obbligo

corrisponde al 90% del totale e al 24% della SAU. Poiché il rapporto tra i terreni a prati

permanenti e la superficie agricola totale non dovrà ridursi oltre il 5%, la superficie totale da

mantenere corrisponderà a circa 2,93 milioni di ettari.

Per quanto riguarda invece l’obbligo di introdurre aree di interesse ecologico, una stima

approssimativa delle aziende potenzialmente interessate da questo requisito ambientale può

essere fatta utilizzando i terreni a riposo come variabile che approssima la consistenza delle

aree d’interesse ecologico.

Un’altra novità rilevante della proposta per la politica di sviluppo rurale 2014-2020 consiste

nella possibilità concessa agli Stati membri di inserire dei sottoprogrammi tematici che

contribuiscano alla realizzazione delle priorità dell’Unione in materia di sviluppo rurale e

rispondano a specifiche esigenze riscontrate. Tra questi vi rientrano anche i giovani agricoltori.

60

Indicativamente, le misure e gli interventi di particolare rilevanza per quest’ultimo tipo di

sottoprogramma tematico sono:

- Aiuto all’avviamento di attività imprenditoriale per i giovani agricoltori (come abbiamo

già visto);

- Investimenti in immobilizzazioni materiali;

- Trasferimento di conoscenze e azioni di informazione;

- Servizi di consulenza e assistenza alla gestione delle attività agricole;

- Cooperazione;

- Investimenti in attività agricole73.

Tutte queste novità politiche ed economiche messe in campo con la Riforma della PAC vertono

quindi a dare particolare enfasi al sostegno alla transizione e al mantenimento dei livelli di

reddito, al riequilibrio territoriale, al supporto dei settori in crisi (come la zootecnia), alla

sostenibilità, qualità e salubrità dei prodotti alimentari e, finalmente, all’avvio di modelli di

semplificazione e governance74.

Per quanto riguarda lo sviluppo rurale non si prevede più un piano strategico nazionale, ma

l’elaborazione da parte degli Stati membri di programmi di sviluppo rurale a livello nazionale

o regionale. L’Italia, che ha optato per un’attuazione regionalizzata delle politiche di sviluppo

rurale, prevede tuttavia un programma nazionale per il pacchetto di misure per la gestione del

rischio in agricoltura (assicurazioni agevolate; fondi di mutualizzazione e stabilizzazione del

reddito) per la gestione delle risorse idriche e la biodiversità, interventi che si prestano meglio

a una programmazione a livello nazionale, piuttosto che a livello regionale.

L’attenzione alla ruralità è messa in gran conto dalla PAC che, come strategia generale intende

operare al rafforzamento del sistema produttivo, ponendosi come obiettivo principale la tenuta

e il rilancio delle produzioni agricole e dei sistemi agroalimentari, che soprattutto nel

Mezzogiorno e nelle aree interne del paese rappresentano una riserva di sviluppo che non è

ancora stata sfruttata a pieno. Il settore agro-alimentare, infatti, nonostante l’incremento

nell’ultimo decennio delle dimensioni aziendali e delle produzioni di qualità, mantiene ancora

73 Fonte INEA, I giovani e il ricambio generazionale nell’agricoltura italiana, Roma, 2013. 74 Ibidem.

61

delle criticità nell’assetto organizzativo complessivo con riguardo ai seguenti aspetti: i rapporti

di integrazione orizzontale e verticale dentro le filiere, la debolezza di fronte al mercato,

l’accesso al credito, la carenza di alcune infrastrutture essenziali per la competitività, il sistema

della ricerca e del trasferimento tecnologico, l’instabilità dei redditi agricoli.

«La nuova programmazione dello sviluppo rurale intende focalizzare l’attenzione su queste

criticità, pur non trascurando il tema dell’ammodernamento aziendale. All’interno di questo

obiettivo sono ricompresi incentivi per la ristrutturazione e il miglioramento organizzativo delle

singole aziende, per il rafforzamento delle filiere agro-alimentari e delle reti di impresa e per la

diversificazione delle attività aziendali. Inoltre si agirà in particolare con misure dirette a

orientare i comportamenti aziendali verso pratiche più sostenibili, che vanno oltre le normali

pratiche agricole e forestali, compensando gli operatori per i maggiori costi o i minori redditi

che ciò comporta. Tali misure hanno finalità multiple in quanto stimolano pratiche che riducono

gli impieghi di input (quali acqua e energia), migliorano la qualità dei suoli, mantengono il

paesaggio rurale, consentono lo stoccaggio di carbonio»75.

Tra le altre cose, obiettivo è anche quello di mettere in sicurezza il territorio per prevenire gli

effetti disastrosi dei fenomeni naturali, promuovere la diversità naturale e culturale delle aree

rurali e rilanciare lo sviluppo e il lavoro attraverso l’uso di risorse potenziali sottoutilizzate.

In conclusione, dunque, pare che l’attenzione delle istituzioni al settore agricolo sia vivo e le

soluzioni messe in campo a livello Europeo e nazionale siano delle più valide. Come sempre

bisognerà aspettare per vedere se effettivamente i risultati attesi si verificheranno o meno.

Sicuramente i nostri agricoltori non stanno con le mani in mano: rimboccarsi le maniche e darsi

da fare è ormai un atteggiamento comune dei nuovi agricoltori 2.0, che anzi, stanno cercando

nuovi stimoli dando nuovi input alla creazione di comunità forti in cui le possibilità di sviluppo

siano autonome e non dettate da leggi di mercato.

Certo la maggiore attenzione anche mediatica riservata al settore gioca un ruolo di forza in

questo frangente e, come vedremo nel prossimo capitolo, tanti sono i fattori che portano alla

rivalutazione della campagna e delle aree rurali, così come sono molte le possibilità di

applicazione di nuove forme lavorative che possono rendere, finalmente e per davvero,

l’agricoltura italiana un settore non solo all’avanguardia, ma anche, e forse soprattutto, volano

75 Aa.vv., Rapporto sullo stato dell’agricoltura, INEA, Roma, 2014, p. 96.

62

di una crescita e della creazione di un nuovo modo di fare impresa. Un modo che non ci si

sarebbe aspettato.

63

Agricoltura postmoderna

Alla luce di quanto è stato detto finora, è fondamentale prendere in considerazione non solo gli

aspetti storici ed economici passati, presenti e le prospettive future, ma anche gli aspetti

culturali e sociali che contraddistinguono l’uomo di oggi. Questo perché parte della

“rivoluzione verde” è dettata proprio dalla crisi dell’uomo in quanto tale, che ha origini lontane

e che, simbolicamente, viene spesso a coincidere con l’avvento dell’industrializzazione

secondo diversi autori. Tra questi Baumann, che afferma:

«La “grande trasformazione” che partorì il nuovo ordine industriale fu la separazione dei

lavoratori dai loro mezzi di sussistenza. Quel momento fatidico fu parte di un più generale

distacco: produzione e scambio cessarono di essere iscritti in un più generale, onnicomprensivo,

indivisibile modo di vita, creando in tal modo le condizioni perché il lavoro - insieme alla terra

e al denaro - fosse considerato una semplice merce e come tale trattato»76.

Questa separatezza diede ai lavoratori libertà di movimento e quindi la possibilità di essere

collocati a diversi utilizzi, ricombinati, riaccorpati in altri ordinamenti. Inoltre, permise una

separazione delle attività produttive dal resto degli obiettivi di vita permettendo di «congelare

la fatica fisica e mentale in un fenomeno a sé stante: una “cosa” che poté essere trattata come

tutte le cose, vale a dire da gestire, muovere, unire ad altre cose o fare a pezzi»77. Senza questa

separazione sarebbe stato impossibile separare l'idea di lavoro dalla “totalità” alla quale

apparteneva “naturalmente”, ossia la terra e il lavoro nei campi, e condensarla in un soggetto

autonomo.

Il nuovo ordine industriale e la rete concettuale che permise la proclamazione dell'avvento di

una diversa società, ossia una società industriale, come abbiamo visto, nacquero in Gran

Bretagna. Questa si distinse dai suoi vicini europei per aver distrutto il proprio ceto rurale e

con esso il legame naturale fra terra, fatica umana e ricchezza. «Si dovette dapprima rendere i

contadini esseri inutili, sradicati e “senza padrone” perché potessero essere visti come dei

contenitori o dei possessori mobili di una capacità lavorativa di pronto utilizzo e perché quel

potere fosse definito una potenziale fonte di ricchezza in sé e per sé»78.

76 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.163. 77 Ibidem. 78 Ibidem.

64

L’industrializzazione, lo “sradicamento” dei contadini dalle campagne, l’urbanizzazione,

hanno avuto dei risvolti particolarmente negativi da un punto di vista sociale, in quanto

crearono i presupposti per cui venne a mancare poi improvvisamente la struttura portante della

società fino ad allora: la comunità.

Col passare degli anni il fenomeno si è acuito e l’individualismo preconizzato da Nietzsche è

diventato parte fondante della società civile. Ora è evidente come l'insicurezza attanaglia tutti

noi, immersi come siamo in un impalpabile e imprevedibile mondo fatto di liberalizzazione,

flessibilità, competitività ed incertezza. Eppure ciascuno di noi consuma la propria ansia da

solo, vivendola come un problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida

alle doti e capacità individuali. Il problema sta nel fatto che cerchiamo la salvezza individuale

da problemi comuni. E come fa notare giustamente Baumann, «tale strategia ha ben poche

speranze di sortire gli effetti desiderati, dal momento che non intacca le radici stesse

dell'insicurezza; inoltre, è precisamente questo ripiegare sulle nostre risorse e capacità

individuali che alimenta nel mondo quell'insicurezza che tentiamo di rifuggire»79.

Quando i lavoratori erano legati alla terra, c'era una comunità relativamente stabile che

assisteva al meglio delle sue capacità gli indigenti nei momenti difficili, ma con l'avvento della

rivoluzione industriale la popolazione divenne più fluida e si concentrò in città grandi e

impersonali. Una legislazione sociale accompagnò questo processo di urbanizzazione e

industrializzazione, mentre lo stato andava assumendo il ruolo che veniva svolto in precedenza

dalla famiglia e dal villaggio. In un senso importante, allora, lo stato sociale rimpiazzò le

tradizionali relazioni socioeconomiche che erano esistite un tempo nelle comunità fondate

sull'agricoltura. Ora che i continui tagli al welfare hanno imposto in tutti i Paesi occidentali un

drastico ridimensionamento di questa struttura sociale80, sono le singole persone a doversi

necessariamente rimettere in gioco nella costituzione di nuove comunità, nuove “reti

protettive” della socialità.

79 Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Editori Laterza, Roma-Bari, 2001, prefazione, p.V. 80 Si vedano a questo proposito: R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli,

Milano, 2012, p.275, in cui l’autore afferma « Quello che oggi in Gran Bretagna è definito "conservatorismo

moderno" enfatizza […] le virtù della vita nelle comunità locali e l'idea che i poveri debbano essere aiutati dalle

associazioni del volontariato anziché dai burocrati dello stato assistenziale; questo localismo è ciò che il primo

ministro David Cameron chiama la "Big Society", la Grande società, e intende dire grande di cuore, ma scarsa

quanto a finanziamenti statali»; e A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press,

New York, 2013, p.149: «welfare is perhaps the component of a functioning economy that is most lacking today.

Two decades of neoliberal policies have been preoccupied with the dismantling ofwelfare systems. And what

remains of the welfare systems developed in industrial society is exceptionally bad at meeting the needs that arise

with more diffuse production processes that blur the distinction between life and work and create a greater number

of unstable working conditions and more mobile and project-based careers».

65

Ecco quindi che il rinnovato interesse di un ritorno all’agricoltura, la crescita di occupazione

nel settore e in generale l’accresciuta diffusione dell’argomento sono da imputarsi sicuramente

anche all’evoluzione dell’uomo postmoderno, indentificato da più autori con la metafora del

vagabondo: giunto come a un punto di non ritorno, decide di ritornare da dove era partito, alle

sue origini.

La terra e l’agricoltura in generale rappresentano l’attività primaria dell’uomo e questo,

separandosene, ha come perso una parte del suo essere.

Il vivere lento, la collaborazione, la comunità, ma anche solo il saper ridere e scherzare seduti

intorno a una tavola coi frutti del proprio lavoro, sono elementi che hanno caratterizzato la vita

di uomini e donne per migliaia di anni. Solo recentemente (200/300 anni) l’evoluzione della

società ha portato a staccarci da quelle che sono le nostre origini culturali.

Ora le cose stanno iniziando a cambiare.

66

3.1 Parole liquide

Voce all'ultima fila! Siamo qui per lo spettacolo... Il giudice è già al suo posto? Parole liquide. / E'

davvero qui dove si arriva?! Punto di non ritorno, parete implosa nella parte non detta. / E' per questo

che abbiamo atteso e sperato, corso contro il vento, lottato e combattuto... guerre mondiali, spasmi

nucleari, cibo per le cavallette. / Radiazioni extra-coniugali, distorsioni domestiche, parole liquide. / E'

qui che la notte ha, progressivamente, perso ogni sua malizia virginale, oltre il territorio il cielo, oltre il

cielo il sole, oltre il sole...non c’è tempo. / E se l'uomo viene dall'uomo, Grande Madre che hanno fatto

a tuo figlio? Ripeto: che hanno fatto a tuo figlio? / Venduto all'asta al miglior offerente, infamato per

trenta denari, niente di nuovo sotto le costellazioni, ma Orione è fertile ora! / Le pareti hanno occhi

negli antichi domini dei Faraoni. / e tu sei come me...solo più all'interno. / E vuoi l'amore per bruciare

e il dolore per fuggire, / ma nessuno di noi due piangerà l'anima. / Comunque non prima che il cerchio

sia veramente chiuso. / Le auto in coda sono più che altro luci, più che altro facce dietro i finestrini, nei

sedili posteriori i bambini. Ora di cena nella casa a occidente, parole liquide. / Riuscirà il nostro eroe?

/ a uccidere i cattivi prima dell'alba. Eventualmente sia... / Luce nel risveglio gravidanza e gestazione

della filosofia nuova. / Giorno e mese uno anno zero. Fine! Dell'era del silenzio, parole liquide. //81

La liquidità è ciò che diversi autori hanno stabilito essere il carattere principale dell’uomo

contemporaneo e postmoderno. Questo perché i liquidi non mantengono di norma una forma

propria, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Mentre i corpi solidi hanno dimensioni

spaziali ben definite ma neutralizzano l'impatto, riducendone il significato, del tempo (in

quanto resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono irrilevante), i liquidi invece non

conservano mai a lungo la propria forma e sono anzi sempre inclini a cambiarla. Ciò che conta

per un corpo liquido è il flusso temporale più che lo spazio che si trova ad occupare. Uno spazio

che in pratica occupa solo per un momento.

Oggi l’uomo è caratterizzato dalla liquidità: si perde la forma definita e si diventa mutevoli. Si

perde lo spazio in cui essere/esistere per acquistare un flusso temporale in cui divenire

continuamente.

Ora nulla è più irraggiungibile e noi tutti diventiamo inevitabilmente membri di una comunità

mondiale costruita dalle relazioni comunicative che passano dai media. «Essi ci sradicano dal

81 Neffa, Parole liquide, contenuta in 107 Elementi, 1998, Polygram Italia s.r.l., Universal. L’inserimento nel testo

di una strofa di questo artista è legata alla natura stessa delle sue liriche, da cui traspare un’idea appunto liquida

del pensiero, una frammentazione dei concetti, messi lì in maniera approssimativa e superficiale e articolati in

maniera non lineare: non diversamente appunto da come appare l’uomo liquido postmoderno. In quest’ottica,

dunque, il testo di Neffa appare come un riassunto di tutte le immagini, le situazioni e i pensieri che caratterizzano

l’uomo contemporaneo.

67

localismo così come il danaro e il commercio ci hanno sradicati dalla comunità fondata

sull’autoconsumo locale. Nello stesso tempo diventiamo vicini a persone ed eventi molto

lontani e lontani da persone ed eventi molto vicini. [...] Si allentano antichi legami di

appartenenza a favore di un’appartenenza senza luogo»82.

La “postmodernità” è lo spazio storico (o flusso storico, sarebbe forse meglio dire) in cui si

inserisce l’uomo liquido. Gli autori non sono concordi nelle specifiche che il termine

“postmoderno” rappresenta: taluni lo indicano come punto di arrivo della modernità (quindi

del processo partito dalla rivoluzione industriale) e affermano come l’uomo sia già, di fatto,

uscito dalla postmodernità intesa come periodo storico; altri invece affermano come la

postmodernità sia sostanzialmente un modo per indicare un punto di svolta, un passaggio

sostanzialmente, dalla modernità industriale alla nuova epoca in cui stiamo per entrare83.

Personalmente mi piace ritenere che la postmodernità sia effettivamente solo un “passaggio di

riflessione” per l’uomo, che dalla rivoluzione industriale ha subìto tanti cambiamenti, tante

“mutazioni” (socialmente intese) e ancora fatica a trovare una propria dimensione nella società

contemporanea (o forse la presa di coscienza della mancanza di possibilità di trovare una

propria dimensione è proprio ciò che rappresenta l’uomo “postmoderno”).

Giddens, nel tentativo di dare chiarezza al termine, afferma:

«Il termine postmodernità viene spesso usato come sinonimo di postmodernismo, di società

postindustriale, ecc. Se l'idea di società postindustriale, che dobbiamo in ogni caso a Daniel

Bell, è ben definita, altrettanto non può dirsi degli altri due concetti sopra citati. Farò una

distinzione tra i due. Il termine postmodernismo, ammesso che significhi qualcosa, si presta

meglio a descrivere stili o movimenti in ambito letterario, pittorico, artistico e architettonico.

Esso riguarda aspetti di riflessione estetica sulla natura della modernità. Anche se a volte è

designato in maniera piuttosto vaga, il modernismo è, o è stato, una prospettiva ben precisa in

questi vari campi ed è stato forse sostituito da altre correnti di tipo postmodernista. [...] Il

termine postmodernità indica invece qualcos'altro, almeno a suo modo di intendere questo

concetto»84.

82 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p.61. 83 Questo dibattito è affrontato da più autori. Nello specifico, quelli consultati da me sono stati Baumann, Giddens,

Sennett, Lyotard, Berardinelli e Vattimo. 84 Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna, 1994, p.53

68

A cosa si riferisce dunque normalmente il concetto di postmodernità?

Oltre al senso generico di vivere in un periodo di marcata diversità rispetto al passato, questo

termine presenta diversi significati: la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza; il fatto

che la “storia” è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere

plausibilmente alcuna versione di “progresso”; e infine la nascita di un nuovo programma

sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazioni ecologiche e forse i

nuovi movimenti sociali in genere.

Sostanzialmente, ci troviamo in un momento storico in cui tutto pare un po’ confuso. Le

definizioni per il termine si sprecano e non tutte sono conformi agli stessi standard. Non esiste

solo il termine postmodernità, in quanto altri autori definiscono l’epoca in cui viviamo nei più

svariati modi possibili (da neo-modernità a surmodernità, comunque tutti concetti che

richiamano ancora un passato da cui non siamo usciti).

Ad un livello macro, però, è innegabile che tutte le definizioni possibili di postmodernità siano

pressoché inutili prese singolarmente. In quanto postmodernità è proprio tutto l’insieme delle

definizioni che ne vengono date perché è una summa di ciò che è stato, ed è ancora per certi

versi, il modernismo e la società che veniva definita “moderna”. La postmodernità rappresenta

realmente un momento di profonda riflessione dell’uomo per potersi proiettare al di fuori di

ciò che è passato come una enorme tempesta nel corso degli ultimi due secoli.

La modernità insomma, più che giungere a compimento ed essere superata, sta iniziando a

comprendere se stessa: «siamo nel mezzo di una fase di radicalizzazione della modernità»85.

In questa prospettiva perciò la società del XXI secolo non è meno “moderna” di quella del XX:

semplicemente è moderna in modo diverso. Ciò che la rende altrettanto moderna di quanto lo

fosse un secolo fa è ciò che differenzia la modernità da tutte le altre forme storiche di

coabitazione umana: la compulsiva e ossessiva, continua, irrefrenabile, sempre incompleta

modernizzazione; l'incontenibile e inestinguibile sete di distruzione creativa, o creatività

distruttiva, che dir si voglia, tesa alla creazione di una futura maggiore capacità di far meglio

la medesima cosa: accrescere la produttività e la competitività.

Ciò che differenzia particolarmente la situazione attuale, rendendola nuova e diversa, dalla

“vecchia modernità” è sostanzialmente ascrivibile a due elementi principali, ben evidenziati da

Baumann:

85 Ibidem, p.57.

69

«Il primo è il crollo graduale e il rapido declino dell'illusione proto moderna: della convinzione

che la strada lungo la quale procediamo abbia un fine, […] uno stato di perfezione da

raggiungere domani, tra un anno o nel prossimo millennio, una qualche sorta di buona società,

di società giusta, di società priva di conflitti in tutti o alcuni dei suoi numerosi aspetti postulati.

[...] Il secondo mutamento fondamentale consiste nella deregolamentazione e privatizzazione

dei compiti e doveri propri della modernizzazione. Quella che in passato soleva essere

considerata un'opera espletata dalla ragione umana, considerata come lascito e proprietà

collettiva delle specie umane, è stata frammentata («individualizzata»), rimessa al coraggio e

alla determinazione dei singoli, lasciata alla gestione dei singoli individui e a risorse

amministrate individualmente. Sebbene l'idea del miglioramento (o di qualsiasi ulteriore

modernizzazione dello status quo) tramite l'azione legislativa della società nel suo complesso

non sia stata completamente abbandonata, l'enfasi (nonché l'onere della responsabilità) si è

decisamente spostata verso l'autoaffermazione dell'individuo»86.

L’individualismo è, l’abbiamo detto, una delle conseguenze del nuovo corso della società

contemporanea. Ed è un fenomeno permanente e largamente diffuso sia nella sfera personale,

che in quella lavorativa. Un sempre maggior numero di persone è portato ad avere una libertà

di sperimentazione senza precedenti, con l’onere di sopportarne le conseguenze.

Tutto si riduce all’individuo. Tocca all'individuo scoprire cosa è capace di fare, portare tale

capacità al limite estremo e scegliere i fini a cui tale capacità può essere meglio applicata, cioè

la maggiore soddisfazione possibile. Ma per fare in modo che le possibilità restino infinite, non

è permesso a nessuno di pietrificarsi in una realtà perenne. «Meglio che restino liquide e fluide,

con tanto di data di scadenza, onde evitare il pericolo che impediscano di cogliere altre

opportunità e distruggano sul nascere l'avventura che sta per iniziare»87.

86 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.20. 87 Ibidem, p.61.

70

3.2 Insieme, a breve termine

Quando la Thatcher affermò che “la società non esiste”, fece al contempo un’acuta riflessione

sulla mutevole natura del capitalismo, una dichiarazione di intenti e una profezia

autorealizzante: di lì a poco si procedette allo smantellamento dei sistemi normativi e

previdenziali. In sostanza, nessuna responsabilità può più essere imputata alla società:

condanna e redenzione sono dipesi esclusivamente dall’attività dell’individuo, da ciò che esso

compie nella sua vita e da come decide di condurla. La vita diventa un insieme di attività a

breve termine per l’autoaffermazione dell’individuo.

Il lavoro moderno è sempre più lavoro a breve termine, nella misura in cui le assunzioni a

tempo determinato e il lavoro flessibile e/o part-time si vanno a sostituire a carriere lavorative

svolte all'interno di un'unica azienda o istituzione. E così come il lavoro, anche le relazioni

sociali soffrono di questa patologia: quando le persone non rimangono a lungo in una

istituzione, la loro conoscenza di questa, così come l'identificazione con essa, si indeboliscono.

Insieme, le relazioni superficiali e i deboli legami istituzionali fanno in modo che la gente si

faccia gli affari propri, non si lasci coinvolgere in problemi che non la riguardano direttamente

e in particolare non entra in relazione con quanti nell'istituzione svolgono compiti di altro

genere. Oltre a ciò, anche le forze culturali oggi remano contro la pratica della collaborazione

impegnativa.

Nessuna occupazione è ormai più garantita in eterno, nessuna capacità professionale ha la

certezza di mantenere il suo valore di mercato. L'esperienza accumulata può trasformarsi in un

batter d'occhio in zavorra e l’impressione è che imboccare oggi la strada di una carriera

prestigiosa può rivelarsi domani un atto suicida. I mezzi di sostentamento, la posizione sociale,

il riconoscimento della propria utilità e dignità possono venire bruscamente disdetti da un

giorno all'altro, come del resto avvenuto in diverse occasioni più o meno mediaticamente

importanti.

Assieme alla “stabile precarietà” si sono logorate e assottigliate anche quelle reti di protezione

per così dire “di riserva”, tessute in casa a proprie spese e costituite dalle comunità familiari o

dai vicini, come abbiamo visto. Responsabile di ciò è in parte la nuova prassi delle relazioni

interpersonali, oggi impregnata dello spirito consumista che assegna al partner e agli amici

soltanto il ruolo di potenziale fonte di piacere: una prassi che di certo non offre il vantaggio di

consolidare i legami, e meno che mai quei legami supposti come durevoli e vissuti in quanto

tali.

71

Secondo tale prassi, conviene stringere legami considerati da entrambe le parti “a scadenza”,

legami che possano essere ricontrattati su richiesta di una delle parti, non garantiscano diritti

acquisiti e non creino obblighi per il periodo successivo alla disdetta.

L'altra parte di responsabilità va attribuita al lento ma inesorabile e irreversibile processo di

oblio delle “qualità sociali”: la capacità di stringere e curare i rapporti interpersonali. Come

afferma Baumann:

«Un'attività un tempo compiuta con le proprie forze e a proprie spese, oggi necessita sempre

più spesso della mediazione di specialisti, di consigli e di prodotti tecnologici acquisiti sul

mercato. Senza questo aiuto esterno è difficile per i partner intendersi e per i gruppi già formati

evitare lo sfacelo. Oggi non solo il soddisfacimento dei bisogni personali, ma anche la presenza

e la solidità dei gruppi umani dipendono sempre più dai capricci e dai mutevoli umori del

mercato»88.

La società moderna sta quindi producendo una nuova tipologia caratteriale. Un tipo di persona

tesa a ridurre le ansie che possono derivare dalle differenze, siano queste politiche, razziali,

religiose, etniche o della sessualità. Il fine diventa quello di evitare l'eccitazione, di sentirsi il

meno stimolati possibile dalle differenze più profonde. La chiusura in se stessi costituisce uno

dei metodi per ridurre tali provocazioni. Un altro metodo è rappresentato dall'omologazione

dei gusti. Ma il tentativo di neutralizzare le differenze mette palesemente in mostra tutta la

paura e l’angoscia che queste differenze provocano89. E uno degli effetti principali di questo

tentativo di neutralizzazione è proprio quello di indebolire l'impulso a collaborare con coloro

che rimangono altro da noi.

Anche pensando a come si è evoluto il mondo del lavoro, ci si rende presto conto di come la

collaborazione continui ad essere di difficile attuazione90.

88 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, 2002, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano, p.29 89 Si pensi banalmente agli slogan e ai discorsi di Salvini e di altri leader di destra che si muovono proprio a partire

dalle paure delle persone comuni per le diversità sessuali e razziali. 90 Molte aziende stanno lavorando proprio per garantire una maggiore collaborazione tra i reparti e tra le persone.

Forme di job rotation sono oggi all’ordine del giorno in molte multinazionali. Risulta chiaro però come questi

tentativi siano, se non ancora ad un livello embrionale, praticamente appena nati. Si escludono qui ovviamente

quelle realtà illuminate in cui la collaborazione non ha mai smesso di essere il punto focale dell’attività produttiva.

Realtà che hanno dimostrato di essere particolarmente efficaci, diventando presto dei veri e propri modelli da

seguire ed emulare, ma che solo oggi diventano seguibili anche da aziende di minore grandezza. Come sottolineato

da Arvidsson e Peitersen: «one of the most important features of the debates on industrial restructuring that have

raged since the 1980s has been the focus on the "networking" of the production process beyond the factory walls.

This notion became popular in the 1980s, as a consequence of the success of Japanese “Toyotist” production

systems and of the new forms of "flexible specialization" that economists like MIT's Michael Piore and Charles

Sabel identified in Italian industrial districts. In their view, these districts constituted extended production

networks, in which flexible adaptation to demand was guaranteed by small producers that could easily enter into

72

Flessibilità è la parola d'ordine del giorno, e quando viene applicata al mercato del lavoro essa

annuncia l'avvento del lavoro con contratti a termine o senza contratto, preconizza lavori privi

di sicurezza, di impegni precisi e duraturi, lavori che non conferiscono alcun diritto futuro, che

offrono niente più che occupazioni a termine o rinnovabili, licenziamento in tronco e nessun

diritto alla liquidazione. Nessuno può dunque sentirsi davvero insostituibile: né chi è già stato

licenziato, né chi ha il compito di licenziare altri.

In assenza di una sicurezza di lungo periodo, la gratificazione immediata appare a buon motivo

una strategia quanto mai ragionevole. Qualunque cosa possa offrire la vita, che la offra

all'istante. Chissà cosa può accadere domani.

«L'amara esperienza ha insegnato a tutti noi che dall'oggi al domani i vantaggi possono

trasformarsi in handicap, e che premi ambiti possono trasformarsi in marchi di infamia»91.

L’impossibilità di fare dei piani per il futuro (o perlomeno l’enorme difficoltà che si ha nel

farli) ci porta dunque ad avere sempre meno progetti di lungo termine e sempre più

gratificazioni temporanee. E questo porta necessariamente anche a non saper più pensare

diversamente dal “breve termine”.

Eppure questo perenne “breve termine” a cui siamo soggetti non cancella il fatto che «la

collaborazione rende più agevole il portare a compimento le cose e la condivisione può

sopperire a eventuali carenze individuali. La tendenza alla collaborazione è inscritta nei nostri

geni, ma non deve rimanere confinata ai comportamenti di routine; ha bisogno di essere

sviluppata e approfondita. Lo vediamo soprattutto quando abbiamo a che fare con persone

diverse da noi; allora collaborare diventa uno sforzo molto impegnativo»92.

Le tensioni causate da questa assenza di comunità e da questa spinta all’individualismo stanno

creando, oggi, nuove forme di aggregazione.

Esiste ora un rinnovato desiderio di collaborazione, di comunità, di relazioni condivise. E

questo ha dei risvolti positivi nel mondo del lavoro e, in particolare, nel mondo dell’agricoltura.

Purtroppo questo processo è ancora lungi dall’essere accolto collettivamente dalla massa.

Rimangono sostanzialmente prevalenti quelle forme di capitalismo che puntano sul lavoro a

breve termine e sulla frammentazione delle istituzioni. L'effetto sui lavoratori è quello di

cooperation with one another, vary their output, and shift from one product to another» (A. Arvidsson, N.

Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.28). 91 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.188. 92 R. Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano, 2012, p.10.

73

privarli della possibilità di stabilire relazioni di sostegno reciproco e renderli sempre più

separati l’uno dall’altro.

Come afferma Sennett:

«Nei Paesi occidentali, la distanza tra le élite e le masse va aumentando e la disuguaglianza è

più pronunciata proprio nei Paesi che sposano l'ideologia neoliberista, come la Gran Bretagna

e gli Stati Uniti; sempre meno, in queste società, ci si riconosce in un destino comune e

condiviso. Il neocapitalismo consente il divorzio tra potere e autorità, e le élite vivono in un

empireo globale, svincolate dalla responsabilità nei confronti dei comuni mortali, specialmente

in tempi di crisi economica»93.

Non sorprende quindi che in questa situazione le persone comuni ricerchino una qualche forma

di solidarietà e comunità. Così come non sorprende che da questo incrocio tra potere politico e

potere economico sia nata una precisa tipologia caratteriale, che aspira soprattutto ad alleviare

l'angoscia personale. Continua Sennett concludendo che:

«L'individualismo di cui parla Tocqueville apparirebbe a La Boétie, se vivesse oggi, una nuova

forma di servitù volontaria: l'individuo che, in balia dell'angoscia personale, cerca un senso di

sicurezza in ciò che gli è familiare. Ma a mio avviso la parola "individualismo" segnala, oltre

che una pulsione personale, anche un'assenza sociale, l'assenza di riti condivisi. In tutte le

culture umane, il ruolo del rituale è quello di alleviare e risolvere l'angoscia attraverso un

movimento di estroflessione in atti simbolici condivisi. La società moderna ha indebolito tali

legami ritualizzati; i rituali secolari, in specie i rituali di collaborazione, si sono dimostrati

troppo aleatori per fornire quel tipo di sostegno. […] Ciononostante, io insisto sulla clausola:

non è ancora così. I brutali semplificatori della modernità possono forse inibire e distorcere la

nostra capacità di vivere e lavorare insieme, ma non cancellano, non possono cancellare, tale

capacità. In quanto animali sociali, siamo in grado di collaborare più profondamente di quanto

non immagini l'ordine sociale esistente»94.

In Modernità liquida, c’è un passo in cui Baumann fa notare come Bernard Crick cita dalla

Politica di Aristotele la sua idea di una «buona polis», articolata a confutazione del sogno di

Platone di un'unica verità, un solo standard unificato di giustezza che tutto abbraccia. Secondo

Crick, afferma Baumann, c'è un punto giunto al quale una polis, procedendo nell'unità, cessa

93 Ibidem, p.306. 94 Ibidem, p.306.

74

di essere una polis e si avvicina al punto di perdere la propria essenza, diventando una polis

peggiore. Come se si volesse trasformare l'armonia in unisono, o ridurre un'aria a un singolo

tempo. Ma la verità è che la polis è un'aggregazione di tanti membri. In questo passo «Crick

avanza l'idea di un genere di unità [...] il quale assume che la società civile sia intrinsecamente

pluralistica, che il vivere insieme in tale società significhi negoziazione e conciliazione di

interessi naturalmente diversi. [...] In altre parole, il pluralismo della società civile moderna [è]

una cosa buona e una circostanza fortunata, in quanto i vantaggi che arreca superano di gran

lunga i disagi e gli inconvenienti, amplia gli orizzonti per l’umanità e moltiplica le possibilità

di una vita più piacevole rispetto alle condizioni che potrebbe offrire una qualsiasi delle sue

alternative. Potremmo dire che, in netta opposizione alla fede sia patriottica sia nazionalistica,

il genere più promettente di unità è quello che viene conquistato, e conquistato ripartendo ogni

giorno da zero, attraverso il confronto, il dibattito, il negoziato e il compromesso tra valori,

preferenze, modi di vita e autoidentificazioni di molti e diversi, ma sempre dotati di libero

arbitrio, membri della polis»95.

Ciò che afferma Baumann è che questo è il modello di unità emergente che rappresenta una

conquista comune. Questa unità è un risultato della vita in comune, ed è creata attraverso il

negoziato e la riconciliazione, non attraverso il rifiuto, il soffocamento o l'eliminazione delle

differenze.

95 Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2002, p.208

75

3.3 La fine di un’epoca?

Nel descrivere lo sviluppo delle istituzioni sociali moderne, Giddens parla di “meccanismi di

disaggregazione”. Tra questi, nota come una particolare importanza sia rappresentata dalla

creazione di “emblemi simbolici”, con cui identifica «i mezzi di interscambio che possono

passare di mano senza tener conto delle caratteristiche specifiche degli individui o dei gruppi

che li utilizzano in qualsiasi particolare frangente»96. Concentrandosi sul discorso monetario,

l’autore continua affermando come la natura della moneta sia stata ampiamente discussa dalla

sociologia e di come questa sia stata oggetto di interesse costante anche da parte dell'economia.

«Nei suoi scritti giovanili Marx chiamava la moneta “la prostituta universale”: un mezzo di

scambio che annulla il contenuto dei beni o dei servizi sostituendolo con uno standard

impersonale. La moneta consente di scambiare qualsiasi cosa contro qualsiasi cosa,

indipendentemente dal fatto che i beni scambiati abbiano delle qualità reali in comune. I

commenti critici di Marx a proposito della moneta lasciano intravedere la sua successiva

distinzione tra valore d'uso e valore di scambio. La moneta rende possibile la generalizzazione

del secondo di questi termini grazie al suo ruolo di “pura merce”»97.

Ciò che abbiamo affrontato nella prima parte di questo capitolo è innegabilmente frutto di una

serie di meccanismi messi in moto dal capitalismo e dall’industrializzazione. Ora stiamo

giungendo a un punto di svolta. Siamo al momento in cui da più punti si sollevano voci che

affermano l’avvento di questa o quella nuova forma di società. Come visto precedentemente

stiamo attraversando un periodo di transizione dalla modernità a “qualcosa d’altro”. Questa

transizione è stata evidenziata anche da Arrighi nel suo Il lungo XX secolo, in cui studia e

mostra il percorso del capitalismo dalle origini ad oggi.

Nel corso della storia del capitalismo si sono succeduti diversi cicli sistemici di accumulazione,

processi storici durante i quali una singola forza egemonica agisce da aggregatrice per tutte gli

altri singoli Stati, progredendo in maniera diversa alla crescita del capitalismo secondo basi

territoriali e/o finanziarie.

Analizzando singolarmente i diversi cicli, Arrighi nota che la durata di ognuno di essi

diminuisce progressivamente mentre le dimensioni e la complessità di ogni agente dominante

diventano via via più grandi.

96 A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna, 1994, p.33. 97 Ibidem, p.33.

76

Il ciclo contrassegnato dal dominio della Repubblica Genovese, città-stato di piccole

dimensioni ma dalla vasta capillarità di reti sociali e finanziarie, durò 220 anni. Il successivo

ciclo fu di dominazione olandese, impero di dimensioni ben maggiori della Repubblica

Genovese, e durò 180 anni. Il terzo ciclo durò 130 anni e vide il regime britannico espandere

il proprio dominio in tutto il mondo diventando un vero e proprio impero commerciale e

territoriale. Il quarto ed ultimo (per ora) ciclo ha come fulcro il regime statunitense, potente al

punto da possedere dimensioni continentali e da rendere credibili minacce di strangolamento

economico e/o militare rivolte a governi ostili in qualsiasi parte del mondo. Quest’ultimo ciclo

ha una durata stimata di circa 100 anni.

Ridotta ai minimi termini, l’analisi di Arrighi è lineare: ogni ciclo sistemico conosce una prima

fase di espansione materiale, nella quale il soggetto egemone coordina a proprio vantaggio il

mercato mondiale, e una seconda fase di espansione finanziaria, dove la potenza egemone

declinante abbandona il campo della produzione diretta per dominare il sistema attraverso la

finanza, mentre nuove realtà si scontrano per emergere come leader del ciclo sistemico

successivo.

Tutti questi cicli sono contraddistinti da caratteristiche simili tra loro: il dominio genovese e

quello britannico sono di tipo estensivo, quello olandese e statunitense di tipo inclusivo. La

prima tipologia identifica quelle potenze cosmopolite-imperiali responsabili dell’espansione e

conquista geografica, la seconda invece identifica gli agenti manager-nazionali responsabili del

consolidamento geografico.

Attualmente viviamo nel periodo successivo alla cosiddetta crisi spia (avvenuta negli anni 70

del Novecento per il regime statunitense), definita da Arrighi come «punto di svolta […] in cui

l’agente dominante dei processi sistemici di accumulazione del capitale palesa […] un giudizio

negativo sul reinvestimento dei capitali eccedenti nell’espansione materiale […] e, insieme, un

giudizio positivo sulla possibilità di prolungare la sua leadership/dominio grazie a una

maggiore specializzazione nell’alta finanza»98. Questa crisi spia fa da preludio a ciò che viene

definita crisi terminale, ossia alla fine effettiva del regime di accumulazione ancora dominante

e all’ascesa di uno nuovo.

98 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.

283.

77

Seguendo la ciclicità evidenziata da Arrighi, risulta plausibile che il prossimo ciclo sarà

dominato da una potenza di tipo estensivo. Ma di che tipo di regime si tratta? La potenza cinese,

come evidenziato da diversi autori e dallo stesso Arrighi in Adam Smith a Pechino, potrebbe

essere la prossima forza egemonica. Alcuni punti però mettono in dubbio questa possibilità:

nonostante la Cina sia di fatto il centro manifatturiero del mondo, gli Stati Uniti, potenza

economica declinante, mantengono il controllo mondiale dell’esercizio della forza militare, un

controllo che non conosce, e presumibilmente per molto ancora non conoscerà, rivali credibili.

Per la prima volta nella storia dei cicli sistemici, inoltre, la potenza declinante non è prestatrice

mondiale di liquidità, ma, esattamente all’opposto, è epicentro del flusso di capitali mobili

mondiali.

«Il moderno sistema interstatale ha acquisito le sue attuali dimensioni globali attraverso

successive egemonie di crescente ampiezza, che hanno corrispondentemente ridotto

l’esclusività dei diritti di sovranità realmente goduti dai suoi membri. Se questo processo

dovesse continuare, solo un vero governo mondiale come quello immaginato da Roosvelt –

secondo il quale la sicurezza per il mondo doveva essere basata sul potere americano esercitato

attraverso i sistemi internazionali ma proveniente da un’istituzione meno esoterica di un

sistema monetario internazionale e meno rozza di un complesso di alleanze o basi militari –

potrebbe far sì che la prossima egemonia mondiale sia territorialmente e funzionalmente più

completa di quelle precedenti. La storia del capitalismo, così strettamente associata all’ascesa

e all’espansione del moderno sistema interstatale, è sul punto di concludersi come conseguenza

del livello di potere raggiunto nel mondo dall’Occidente durante la leadership americana?»99.

Oggi più che mai assistiamo quotidianamente al lento cedere di alcuni capisaldi del capitalismo

schiacciati da nuove realtà ancora in nuce e non chiaramente definite o assorbite dalla

stragrande maggioranza della popolazione.

Si pensi al diritto d’autore schiacciato da nuove forme di protezione e diffusione di opere

dell’intelletto come Creative Commons, alle nuove forme di finanziamento “dal basso” con

strumenti di crowdfunding come Kickstarter o ancora al modello della coda lunga (per non

parlare poi di fenomeni ancora più specifici come le banche del tempo, il modello di decrescita

ecc.), fenomeni che mettono in luce alcune criticità di un modello economico e culturale non

più del tutto in linea con le esigenze delle persone.

99 Ibidem, p.108.

78

Queste criticità sono diventate via via più evidenti con l’avvento di Internet e la conseguente

nascita della società dell’informazione, in cui le reti diventano dominanti anche nella

dimensione sociale.

Il web diventa spazio in cui circolano liberamente (o quasi) saperi, competenze, informazioni,

denaro e va configurandosi come rete aperta «in cui le frontiere e i limiti tra Stati,

organizzazioni, comunità e gruppi sono sempre meno importanti, e in cui una parte crescente

della ricchezza viene creata tramite scambi fra persone appartenenti a diversi stati,

organizzazioni o comunità»100.

Arrighi suggerisce che il mondo post-capitalista potrebbe essere dominato da un ritorno ad un

caos sistemico simile a quello da cui si è originato il modello capitalista, ma molto più

probabilmente il sistema capitalistico verrà integrato in un modello partecipativo di scala

globale invece che essere completamente sostituito. «Non vi è alcuna ragione per ritenere che

nell’attuale transizione egemonica, così come in quelle passate, ciò che a un certo momento

appare improbabile o persino impensabile, non divenga in seguito, sotto l’impatto di un

crescente caos sistemico, probabile ed estremamente ragionevole»101.

E non pareva forse improbabile solo alcuni anni fa che le giovani generazioni potessero tornare

a dedicarsi con passione all’agricoltura? Non sembrava forse impensabile che giovani laureati

decidessero di dedicarsi ad attività legate alla terra, invece che aspirare a “fare carriera”?

L’agricoltura in questo senso rappresenta una chiave di volta per diversi aspetti, sociali ed

economici. L’accresciuto interesse delle nuove generazioni per l’ambiente agricolo è dunque

foriero di un cambiamento forse non radicale, ma sicuramente necessario vista la situazione in

cui ci troviamo, aggravata dalla crisi economica iniziata nel 2008, che, da questo punto di vista,

potrebbe essere intesa in futuro come momento di effettiva fine della postmodernità, in quanto

apice del sistema capitalistico così come lo abbiamo conosciuto finora102.

100 A. Arvidsson, A. Delfanti, Introduzione ai media digitali, Il Mulino, Bologna, 2013. 101 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.109. 102 A questo proposito, la crisi viene vista come una “onda d’urto” che ha investito l’economia, ridefinendone

alcuni aspetti, come, per esempio, il modo di lavorare: «The global financial crisis that first hit the United States

(which was already in a recession) in the autumn of 2008, and then the rest of the world shortly thereafter, can be

likened to a 'shock wave'. A massive wave of reduced liquidity in the financial sector unleashed by the dramatic

collapse of Lehman Brothers generated a negative macroeconomic shock which drove down aggregate demand

in countries around the world to a degree unseen since the Great Depression: credit markets froze, bringing lending

to a virtual standstill, halting business investment, and driving consumer spending into a downward spiral. Thus,

the economic 'shock wave' emanating from the financial sector had a profound effect on the 'real' global economy»

(J. C. Messenger, N. Ghosheh, Work sharing during the great recession, Edward Elgar Publishing Limited,

Cheltenham, UK, 2013, p.1). Gli autori continuano il discorso definendo le pratiche volte alla risoluzione della

situazione di crisi messa in atto dagli Stati e dalle aziende: «Crisis work-sharing measures designed to preserve

existing jobs encourage companies to respond to a reduction in demand for their productsor services by spreading

79

Per dirla usando le parole di Arvidsson e Peitersen:

«We are not arguing for a comeback of the value regime of industrial society that would be

impossible, and probably undesirable even if it were possible. However, neither do we accept

the "postmodernist" argument (less popular now, perhaps, than it was two decades go) that the

end of values (and of ethics or even politics) would be somehow liberating and emancipatory.

Instead we argue that the foundations for a different kind of value regime - an ethical economy

- are actually emerging as we speak»103.

Per concludere, la distruzione dei legami sociali, la liquidità della società contemporanea, la

precarietà del lavoro, l’insicurezza e l’ansia permanente e pervasiva che attanaglia l’essere

umano di oggi, hanno portato molti autori a interrogarsi su delle alternative risolutive per la

situazione in cui viviamo. Hanno portato ad avvertire un forte bisogno di comunità, di

aggregazione, di sicurezza e stabilità. Del resto, solo quando perdi una cosa importante ti rendi

veramente conto di quale fosse il suo valore.

Forse siamo entrati nell'era postmoderna, forse no o forse ne stiamo uscendo. Non ha molta

importanza. Quello che ha importanza è che siamo entrati nei tempi delle tribù e degli

atteggiamenti tribali; momento in cui si sviluppano nuovamente il bisogno della comunità e

l'appassionata ricerca delle tradizioni. Almeno in questo senso la lunga strada laterale percorsa

dalla modernità ci ha ricondotti al punto di partenza. O perlomeno tutto sembra indicarlo.

«È, dunque, la fine della modernità? Non necessariamente. In altri sensi viviamo pienamente

sotto il segno della modernità. Siamo moderni nel più moderno dei sensi: nel senso di sperare

che le cose si possano rendere diverse e migliori da come sono, e che lo si debba fare, in quanto

le cose non sono buone come dovrebbero e come potrebbero essere»104.

the reduced volume of work over all workers in the enterprise or all workers in a highly impacted work unit, rather

than laying off a portion of those workers. This type of 'sharing' of the available work is achieved by reducing the

number of hours worked by each affected employee. [...] This reduction in working hours is typically accompanied

by a corresponding (pro rata) reduction in employees' wages or salaries. In this way, the company would be able

to cut its labour costs in line with the reduction in demand for its products or services. [...] For this reason, most

of those countries that have developed crisis work-sharing programmes provide affected workers with some type

of a wage supplement giving partial replacement of the employees' lost earnings» (Ibidem, p.5). Questa work

sharing, come vedremo più avanti nel testo, si inserisce nel solco della definizione di una nuova forma di economia

e come tale rappresenta uno spunto interessante anche per l’agricoltura. 103 A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.6. 104 Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, 2002, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano, p.87.

80

Per una nuova agricoltura

Cercare di definire un nuovo percorso di sviluppo dell’agricoltura non è facile.

Come abbiamo visto nel secondo capitolo il settore è sì in crescita rispetto agli altri settori

economici del Paese, ma comunque soffre di una carenza di persone e mezzi. L’età media dei

conducenti di attività agricole non favorisce il ringiovanimento della struttura, vuoi per il

livello di istruzione, per la capacità di utilizzo di strumenti informatici di vario tipo, vuoi per

la difficoltà ad avere (o sviluppare) una certa elasticità necessaria per rimanere a galla in un

mare difficile da navigare.

La nascita di una nuova agricoltura, di una “New rural economy”, deve partire necessariamente

dalla capacità di arricchirsi delle più diverse competenze, di saper unire ideologie diverse,

nuove e non sempre viste di buon occhio (come la decrescita, che affronteremo più avanti).

L’agricoltura, per essere foriera di quel cambiamento e di quella rinascita con cui politici e

commentatori continuano a definirla in un’ottica futura, deve rinnovarsi e diventare un terreno

di sperimentazione a più livelli, riuscendo a coniugare in sé tutte le diverse tipologie lavorative,

modelli economici, innovazioni tecniche, tecnologiche e soprattutto di pensiero. Solo riuscendo

a fare ciò l’agricoltura potrà veramente rinascere e a diventare quel “volano” che in molti si

auspicano che sia.

81

4.1 Nuove ideologie

È ragionevole pensare che la moltiplicazione delle macchine per il trattamento delle

informazioni investe ed investirà la circolazione delle conoscenze così com’è avvenuto con lo

sviluppo dei mezzi di circolazione delle persone prima e di quelli dei suoni e delle immagini

poi105.

Nell’introduzione a Gli strumenti del comunicare Marshall McLuhan afferma che il mondo

occidentale è entrato in una fase di implosione. Dopo aver effettuato una «estensione del nostro

corpo in senso spaziale, oggi […] abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso in un

abbraccio globale che abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo avvicinando alla fase

finale dell’estensione dell’uomo: quella in cui il processo creativo di conoscenza verrà

collettivamente esteso all’intera società umana. […] L’elettricità ha ridotto il globo a poco più

di un villaggio»106.

Quanto espresso da McLuhan si basava sull’analisi dei media del suo tempo e su quelli che si

prefiguravano come quelli fondamentali per il futuro: i computer.

Lo sviluppo dei media moderni e dei computer era già avviata da tempo e questo non stupisce,

dal momento che «sia le macchine mediali che le macchine da calcolo erano assolutamente

necessarie per il funzionamento delle moderne società di massa. […] Fotografia, film, radio e

televisione hanno reso possibile la diffusione delle stesse ideologie, mentre i computer hanno

reso possibile l’archiviazione di dati fondamentali per la collettività»107.

Già a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento si iniziò a pensare ai computer non solo come

strumenti di calcolo ma come veri e propri strumenti per comunicare. Di lì a poco fece capolino

l’antenato di internet per eccellenza: Arpanet. Questa rete, a partire dal 1969, collegava i

computer presenti in alcune università e in alcuni centri militari degli Stati Uniti a scopi

esclusivamente militari. Ancora remota era la diffusione al grande pubblico, ma già se ne

prefigurarono gli sviluppi quando i ricercatori iniziarono ad influenzare il suo utilizzo per

necessità diverse da quelle militari, come mailing list per comunicazioni di natura culturale

(leggasi fantascienza e musica rock…).

105 J. Lyotard, La condizione postmoderna, rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981. 106 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore S.P.A., Milano, 2008, pp.23-24. 107 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ed. Olivares, Milano, 2002, p.41,.

82

Nel ’91 nasce ufficialmente il web ad opera di Tim Berners-Lee – ricercatore presso il CERN

di Ginevra - e, nel corso degli anni novanta internet entra nelle vite del grande pubblico: «Alla

fine del XX secolo la convergenza a lungo predetta tra media e capacità di calcolo dei computer

in hypermedia sta finalmente avendo luogo»108.

Le origini culturali di questo villaggio si dipanano dalla zona di San Francisco, nella quale si

uniscono la cultura bohemienne del luogo con le industrie hi-tech della Silicon Valley per dare

vita all’ideologia californiana, visione tecnoliberista che guarda a internet come strumento

volto a creare una nuova forma di democrazia libera e partecipativa e, al contempo, a liberare

l’individuo.

Indubbiamente influenzati dalle teorie – per certi aspetti utopistiche – di McLuhan sul villaggio

globale, portano avanti un ideale secondo cui la semplice diffusione di internet permetterebbe

un accesso diffuso a sapere e informazione, cancellerebbe le differenze sociali tra le persone e

le differenze di potere tra gli Stati, riorganizzati secondo una radicale democratizzazione.

Ma la stessa ideologia californiana racchiude in sé un’ambiguità sul futuro digitale. Se da un

lato infatti si postula l’idea, in continuità con McLuhan, di un’agorà elettronica libera che possa

abbattere i vincoli dettati dalle corporation capitalistiche, dall’altro si afferma che la

convergenza tra i media produca un mercato elettronico in cui l’unica regola è la competizione.

Questa ambiguità appare evidente se si prendono in considerazione le culture da cui si è

generata l’ideologia: da una parte l’anarchismo degli hippie (mutuati in hacker

successivamente), dall’altra il liberismo economico tipico dell’imprenditoria americana, il tutto

condito da un rigoroso determinismo tecnologico. Secondo Barbook e Anderson questa fusione

porta necessariamente non a una visione ottimistica ed emancipatoria del futuro digitale in cui

viviamo/vivremo, bensì a una visione pessimistica e repressiva in cui si porta a compimento

l’ideale ottocentesco di Thomas Jefferson di creare una nuova civilizzazione “fondata sulle

eterne verità dell’ideale americano”. Ennesima rappresentazione dell’infinito scontro tra le due

correnti di pensiero identificate da Eco come Apocalittici e Integrati di cui oggi vediamo ancora

i risvolti con le contrapposte visioni di un futuro peggiore in cui vivremo costantemente sotto

l’occhio del Grande Fratello, schiavi della tecnologia e di un futuro migliore in cui grazie alla

tecnologia potremo essere finalmente liberi.

108 R. Barbrook, A. Cameron, The californian ideology, 1995.

83

Aldilà delle esasperazioni teoriche, la californian ideology riesce a cogliere l’importanza di

movimenti sociali legati ad hacker, artisti e filosofi responsabili della ridefinizione di concetti

cruciali come il diritto d’autore, la privacy, la trasparenza, la partecipazione collettiva e via

dicendo. Questi concetti hanno portato all’idea di intelligenza collettiva definita da Levy come

una mobilitazione di intelligenze distribuite, coordinate e valorizzate grazie alle tecnologie

dell’informazione; non troppo differente all’idea di villaggio globale espressa da McLuhan,

eliminandone le implicazioni politiche e religiose.

Solo dopo la recente prolificazione di ambienti social e della nascita del web 2.0 si può

effettivamente parlare di un villaggio globale, e di un’intelligenza collettiva, in cui le persone

sono connesse le une con le altre senza (apparenti) restrizioni e senza confini.

In questo villaggio postmoderno Lyotard si interroga sul ruolo che potrebbero avere gli Stati-

nazione per il controllo e la diffusione delle conoscenze. Nella sua visione lo Stato sarebbe

apparso come opaco di fronte alla ideologia di trasparenza della comunicazione, sviluppattasi

parallelamente alla commercializzazione del sapere. In questo contesto rischierebbero di

acuirsi le difficoltà nei rapporti fra istanze statuali ed economiche, vedendo infine queste ultime

imporre il loro controllo sulle decisioni di investimento dei singoli Stati-nazione e, al

contempo, tagliando fuori i singoli individui e le loro capacità.

Barbrook e Cameron, invece, affermano che «the digital future will be a hybrid of state

intervention, capitalist entrepreneurship and DIY culture. Crucially, if the state can foster the

development of hypermedia, conscious action could also be taken to prevent the emergence of

the social apartheid between the 'information rich' and the 'information poor»109. Per i due

autori le forze statali, diversamente da quanto espresso da Lyotard, giocano un ruolo cruciale

nella diffusione di internet, esattamente come han fatto per la diffusione di radio e tv. Anzi,

visto il potenziale della rete, garantire un accesso ad alta velocità a tutta la popolazione

porterebbe inevitabili vantaggi anche ai singoli organi statali di ogni paese.

Di fatto quest’ultima ipotesi è proprio quanto sta avvenendo nelle società del mondo in cui

l’impegno a colmare il digital divide sta acquisendo una fondamentale importanza.

Ma cosa diavolo c’entra tutto questo con l’agricoltura?

109 R. Barbrook, A. Cameron, The californian ideology, 1995.

84

4.2 ICT e agricoltura

Il mondo dell’informatica e il pensiero filosofico dietro ad esso, nascondono un’importanza

peculiare per il settore agricolo. Il villaggio globale venutosi a creare, e ancora in sviluppo a

dir la verità, offre possibilità di connessione e comunicazione tra gli agricoltori (e tra questi e i

consumatori) fuori del comune, e assolutamente impensabili prima, che possono velocizzare i

processi di scambio di informazioni e arricchire i processi commerciali. Da sempre infatti,

come fa notare Federico, «l’agricoltura si differenzia dagli altri settori anche per il processo di

produzione delle innovazioni»110. In particolare Federico fa notare come la maggior parte delle

innovazioni introdotte, ad eccezione di concimi e macchinari, sono considerate un bene

pubblico e questo «pone un problema. Infatti, l’investimento privato nella ricerca sarà inferiore

a quello ottimale perchè il rendimento privato (il guadagno dello scopritore) è inferiore a quello

sociale. Si tratta di un tipico caso di fallimento del mercato, che rende opportuno l’intervento

pubblico per finanziare la ricerca»111. L’intervento pubblico nella creazione di innovazioni

agricole è stato decisivo nei secoli passati112, ma la grossa difficoltà è stata diffondere tali

innovazioni alla massa di contadini, spesso e volentieri illetterati e analfabeti113.

Il piccolo aumento percentuale relativo al livello di istruzione degli agricoltori (che va di pari

passo all’ingresso dei giovani in agricoltura) fa ben sperare sulle possibilità future di

introduzione di innovazioni e sulla capacità di comunicarle: «gli stati hanno speso molto per

promuovere il progresso tecnico in agricoltura e, in special modo, il tasso della crescita di

produttività risulta positivamente correlato al tasso di alfabetizzazione: un maggior capitale

umano facilita l’accesso a nuove tecniche»114.

Più giovani agricoltori significa spesso più agricoltori istruiti. E più agricoltori istruiti significa

maggiori capacità di innovare, di comunicare e, soprattutto, di saper utilizzare sistemi

110 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.74. 111 Ibidem, p.75. 112 Il finanziamento pubblico alla ricerca agricola è iniziato con l’istituzione dei giardini botanici e delle cattedre

di insegnamento di materie agrarie in alcune università europee alla fine del XVIII secolo. «Ma il vero salto di

qualità fu l’istituzione di centri di ricerca pubblici dedicati alla ricerca applicata (stazioni agrarie) indipendenti

dall’università» (G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.78). 113 «Gli scienziati si lamentavano di dover sprecare tempo in attività di basso profilo, e gli agricoltori di non

ricevere abbastanza attenzione. Parecchi Paesi hanno quindi creato istituzioni ad hoc. Ad esempio in Italia venne

istituita a tal fine una rete di cattedre ambulanti di agricoltura, che si sviluppò in misura notevole nel periodo

giolittiano. Orlando [1969] attribuisce a tali istituzioni gran parte del merito dell’accelerazione del progresso

tecnico tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo in Italia» (Ibidem, p.78). Questa particolare tecnica descritta

è sostanzialmente passaparola, una forma che attualmente risulta particolarmente interessante ed utilizzata anche

nel mondo aziendale col nome di WOMM (word of mouth marketing), e che potrebbe rivestire un’importanza non

da poco anche nel campo agricolo (dove peraltro non ha mai smesso di essere utilizzata… solo con un altro nome

e con meno capacità di sviluppo!). 114 G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.83.

85

informatici di qualunque tipo essi siano: dai social media alla programmazione, ormai sono una

caratteristica imprescindibile dalle attività lavorative.

Attualmente assume un nuovo protagonismo anche la politica comunitaria per il settore

agricolo, passando da politica settoriale a politica territoriale, spingendo sempre più sulla

valorizzazione delle capacità locali nel governo delle risorse finanziarie e nella gestione delle

iniziative di sviluppo. «Oggi lo spazio rurale è un valore indispensabile per garantire percorsi

di crescita equilibrati ed è utile giungere a una profonda comprensione dei relativi fenomeni

che incidono su di esso direttamente o indirettamente»115.

In questo senso quindi, l’Unione Europea intende sviluppare particolarmente una “agricoltura

di precisione”, ossia «l’insieme di pratiche che consentono di decidere come e quando

intervenire in azienda, nella gestione delle colture, in base all’incrocio di dati agronomici e

meteorologici misurati grazie ai sistemi di georeferenziazione»116. Sostanzialmente, dunque,

dati GPS coniugati al monitoraggio puntuale, zona per zona e coltura per coltura, degli

andamenti meteo, della disponibilità di acqua e di altri parametri. Una conduzione molto

tecnologica, di precisione appunto.

Per rendere questa tipologia di agricoltura funzionale, però, è necessario che internet, già asse

portante dello sviluppo di altri settori economici, venga popolata sempre più anche di strumenti,

app, software nonché di individui interessati e capaci di informatizzare le attività rurali. «Ne è

ben consapevole l’Unione Europea che con la sua piattaforma ICT-agri spinge il finanziamento

della ricerca in questo settore e lo sviluppo di una agenda comune sull’uso delle ICT e della

robotica in campo. E per dare una spinta ulteriore, c’è anche un acceleratore, lo SmartAgriFood,

che finanzia imprese web che propongono idee innovative per applicazioni e servizi digitali

per la gestione delle aziende agricole»117.

Tutto questo si potrà fare solo se però tutte le zone rurali saranno interessate dello sviluppo

della banda larga, di modo da poter garantire loro una efficiente copertura di rete che possa

permettere di migliorare il loro rapporto con l’informatica e il web.

Ci si scontra dunque con il digital divide che Barbrook e Cameron individuarono come

problema principale da risolvere quanto prima.

115 Corrado Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p. XVIII. 116 Agricoltura e informatica, http://www.expo.rai.it/agricoltura-e-informatica-un-matrimonio-da-farsi/, ultimo

aggiornamento 10/04/15. 117 Ibidem.

86

Questa capillarità di banda larga, infatti, ancora non risulta pienamente sviluppata in tutta

Europa, con Paesi che risultano meno “connessi” (tra questi, Italia, Grecia, Romania e altri

Paesi dell’est Europa). Il programma dell’ICT-agri è volto proprio al restringimento del divario

tra queste regioni e il resto d’Europa, rimanendo in linea con le tendenze della nuova PAC viste

nel secondo capitolo.

In Italia, in particolare, siamo ancora molto lontani dall’avere una campagna informatizzata. In

parte perché, come abbiamo detto in più riprese, l’età media, che rimane particolarmente alta,

e il grado di istruzione degli agricoltori, che rimane particolarmente basso, non sono in linea

con il profilo dell’utente internet più convinto. Ma in parte anche perché il nostro Paese soffre

ancora molto della scarsa accessibilità ai servizi in banda larga per una parte importante del

territorio, non solo quello rurale. Tuttavia, anche se molto lentamente e in modo molto diverso

da regione a regione, la penetrazione della rete e dei servizi di gestione aziendale sembrano

farsi largo anche nelle zone rurali della penisola, a guardare i dati del Censimento agricoltura

Istat 2010.

Un altro dato particolarmente interessante, sempre dal Censimento 2010, è l’uso della rete in

azienda: «per avere un sito, per acquistare o vendere beni e servizi online o per gestire in modo

automatizzato parte delle attività di produzione.

Anche qui i numeri (soprattutto se li guardiamo in percentuale) sono davvero sconfortanti: ben

al di sotto del 5% delle aziende italiane è attiva in rete. Addirittura il commercio online sembra

sostanzialmente ridotto all’osso. C’è decisamente da sperare che nei prossimi anni questi dati

cambino in modo significativo e che le tecnologie informatiche entrino a pieno titolo nella

gestione delle aziende agricole»118.

118 Ibidem. Per la visualizzazione dei dati riguardanti l’attività online delle aziende italiane si rimanda al sito

http://infogr.am/attivita_online_delle_aziende, in quanto l’infografica online è interattiva e permette di godere

meglio dei dati analizzati.

87

Fig.14, L’ICT nelle aziende agricole italiane119.

119 Elaborazione dati Istat 2010 a cura di Elisabetta Tola, per RaiExpo (ultimo aggiornamento 10/04/2015). Si

rimanda al sito http://infogr.am/elisabetta_tola per altre infografiche interessanti sull’agricoltura.

88

4.3 Nuovi modelli

Il cielo del mediterraneo è troppo chiaro

perchè i problemi vi restino a lungo oscuri.

Paul Morand

Accanto al problema dell’informatizzazione, se ne pone uno maggiore, legato non solo al

contesto italiano, che riguarda la definizione di nuovi modelli di sviluppo per le attività

agricole120.

La fine del capitalismo, o perlomeno la fine di come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, risulta

più che mai necessario nel momento in cui si affacciano sul mercato Stati e nazioni

profondamente diverse dall’Occidente.

L’inadattabilità del modello capitalista su scala planetaria rende evidente la necessità di

trovarne un altro (simile o opposto che sia) applicabile a Paesi lontani dal mondo occidentale,

non solo dal punto di vista geografico, ma anche economico e culturale.

«Se, come molti affermano, il modello culturale e la forma di vita dell’Occidente non sono

generalizzabili, se l’idea di estenderne i livelli di reddito e di consumo a tutto il pianeta è

un’utopia pericolosa ci si deve chiedere: la tutela di modelli culturali non-produttivistici è una

nostalgia irrealistica o non è piuttosto il problema fondamentale dell’umanità nei decenni

futuri?»121.

Per evitare di fare del sud un nord sbagliato non si deve essere capaci di tematizzare un’idea di

ricchezza diversa?

Franco Cassano espone in maniera eccellente questa condizione:

«Il sud ha rinnegato la propria tradizione e la ha assunta come una colpa salvo poi

reincontrarla sformata e prostituita di fronte all’immane raccolta di merci. Esso oggi si

specchia in queste maschere scoprendosi solo come vizio, ma prima o poi dovrà

120 Sicuramente non riguarda solo l’Italia, ma per certi aspetti il contesto del nostro Paese si presterebbe (e in certi

casi già lo fa) a fornire una definizione di questi modelli economici particolarmente efficace. Proprio in virtù

dell’enorme specializzazione che attraversa il settore agricolo, dell’inventiva dei nostri agricoltori e delle nuove

generazioni in particolare, della ricchezza del territorio in termini di diversità e bellezza. Nonché per gli aspetti e

le realtà banalmente legate al cibo e al concetto di gusto e di Made in Italy. Non è questo il luogo adatto per creare

polemiche, ma sicuramente se gli sforzi di Expo fossero stati tesi anche al riconoscimento delle piccole realtà

agricole italiane, il discorso fatto in questa nota avrebbe tutto un altro sapore… 121 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, p.69.

89

ritrovare il profilo alto e austero di sè, dovrà cercare un radicamento nuovo ma non

esterno alla propria storia. E qui tradizione non vuol dire restaurazione, sogno

nostalgico di gerarchie indiscutibili e quindi doppiamente oscene, ma democrazia della

misura, libertà che si tiene per mano con la dignità. E’ per preparare quel momento, per

evitare che esso arrivi solo dopo costi altissimi che è necessario parlare sin da oggi del

pensiero meridiano»122.

La particolarità è legata al fatto che la possibilità di creare un nuovo modello non è prerogativa

esclusiva dei Paesi del sud del mondo o di quelli in via di sviluppo. Come abbiamo visto, infatti,

l’applicazione dell’industrializzazione su vasta scala in Europa ha portato sconvolgimenti

importanti nella vita culturale delle comunità dei nostri Paesi. In particolare in Italia, dove i

contadini sradicati dalle terre hanno sempre cercato di mantenere un rapporto con la terra e con

il lavoro agricolo, nonostante la fatica del lavoro da operai.

Negli ultimi 300 anni, insomma, l'economia ha prevalso sull'umanesimo e sulla cultura. Negli

ultimi 100 anni, il capitalismo è diventato il motore della cultura e della politica su scala

mondiale. Il capitalismo e l'economia globale hanno reinterpretato lo sviluppo come un

processo illimitato, concependo la natura come una risorsa infinita. Oggi ci troviamo perciò di

fronte a una scelta obbligata, ossia «dobbiamo individuare una nuova forma di economia.

Un'economia che sappia gestire i propri limiti, che rispetti la natura, che agisca al servizio

dell'uomo. Tutto ciò in un contesto in cui scelte poltiche e umanistiche governino l'economia,

e non viceversa. Dobbiamo individuare nuove relazioni che si muovano a una velocità più

naturale»123.

Se dunque si potesse ripensare il modo di lavorare, si potesse creare effettivamente un diverso

sistema economico basato su quelle qualità intrinseche delle comunità locali, sul legame con

la terra e con il territorio, non varrebbe forse la pena tentare di svilupparlo anche nel nostro

Paese?

Soprattutto nel nostro Paese?

122 Ibidem, p.101. 123 W. Tasch, Slow money, Slow Food editore, Bra, 2009, p.9.

90

Affianco quindi alla rivoluzione digitale, si pongono in essere anche i “nuovi” metodi di

produzione, basati sul recupero di modelli antichi che sono stati letteralmente buttati nella

spazzatura durante e dopo l’avvento dell’industrializzazione124.

La tensione collettiva è volta alla fusione del vecchio e il nuovo, nell’ottica di ricreare quelle

forme sociali tipiche preindustriali. Una fusione che era già evidente nel secondo dopoguerra

in alcune aziende italiane e giapponesi evidenziate da Arvidsson e Peitersen, i quali affermano,

a proposito di queste forme di collaborazione, che: «in many ways the new networked model

of production resembles a return to earlier forms of craft production, employing small factories

that perform highly particular tasks»125.

Queste forme di collaborazione fanno leva proprio sul concetto di comunità che abbiamo

affrontato nel precedente capitolo e che sostanzialmente si basa su una produzione su piccola

scala. Ognuno fa una piccola parte e insieme si costruisce qualcosa. Questo tipo di

comportamento collaborativo, per quanto messo in atto principalmente dalle grandi aziende

che hanno costruito la loro attività smantellando la verticalizzazione fordista, può essere messo

in pratica anche dalle piccole aziende in generale, e da quelle agricole in particolare.

124 A questo proposito Federico fa notare che «Gli economisti hanno idee molto chiare sul processo di

commercializzazione. Ritengono che quest’ultima abbia effetti molto positivi sulla produzione e sul benessere.

Essa infatti stimola la specializzazione secondo i vantaggi comparati e quindi migliora l’allocazione dei fattori d

produzione sia all’interno del settore agricolo sia nell’intera economia. [...] Non tutti gli storici dell’agricoltura

sono convinti da questa interpretazione della commercializzazione. Molti di essi, [...] sostengono che le regole

dell’economia di mercato sarebbero estranee alla mentalità dei contadini, che preferirebbero a priori

l’autosufficienza o altre forme tradizionali di redistribuzione (moral economy). Non è chiaro, in questa visione,

se e in quale misura la mentalità de contadini possa cambiare, innescando un processo spontaneo di

commercializzazione quale quello ipotizzato dagli economisti. E’ però chiaro che gran parte dei processi storici

di commercializzazione sarebbero forzati o da circostanza sfavorevoli o dall’azione di agenti esterni» (G.

Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, Il Mulino, Bologna, 2009, p.107-109). 125 A. Arvidsson, N. Peitersen, The ethical economy, Columbia University press, New York, 2013, p.29.

91

4.4 Vacci piano!

Ma tu l'hai visto bene come viviamo? /

Se anch'io faccio così poi come ci combiniamo? /

Sai che ti dico: vai piano (vai piano) vai piano (vai piano) /

E cerca sempre di guardare lontano. /126

«La lumaca costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo una dopo l’altra delle

spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni

stavolta decrescenti. Una sola spira più larga darebbe al guscio una dimensione sedici volte più

grande. Invece di contribuire al benessere dell’animale, lo graverebbe di un peso eccessivo. A

quel punto, qualsiasi aumento della suo produttività servirebbe unicamente a rimediare alle

difficoltà creata da una dimensione del guscio superiore ai limiti fissati dalla sua finalità.

Superato il punto limite dell’ingrandimento delle spire, i problemi della crescita eccessiva si

moltiplicano in progressione geometrica, mentre la capacità biologica della lumaca può seguire

soltanto, nel migliore dei casi, una progressione aritmetica»127.

Uno dei nuovi modelli, tra i più criticati, è quello della decrescita. L’interesse con cui affronto

questo particolare modello non è scevro da perplessità. Appare comunque indubbio come la

decrescita, lungi dal poter essere applicata su vasta scala, sia un fenomeno che sta fortemente

influenzando le realtà agricole in tutto il mondo. Partito dall’analisi dei Paesi del sud del mondo

da parte di Latouche, trova grande consenso anche, forse soprattutto, nel mondo occidentale.

In particolare in Europa, dove ha dato una spinta notevole al ritorno a un certo tipo di

agricoltura “buona”.

Ciò che è stato compiuto dal capitalismo, nell’ottica di Latouche, è stato portare agli estremi

limiti la società: sia dal punto di vista lavorativo che personale l’uomo appare svuotato,

spompato e privato delle caratteristiche sociali che hanno contraddistinto la sua vita per secoli,

come abbiamo avuto già occasione di vedere precedentemente.

Arrivati al punto massimo di produttività quindi, secondo questo e molti altri autori, non ha più

senso continuare a provare a spingersi oltre: val la pena invece fermarsi, rallentare. Magari fare

dietro front e tentare di recuperare i pezzi che si sono persi per strada.

126 Esa a.k.a El presidente, Vai piano, contenuta in Tutti gli uomini del presidente, Vibra records, 2003. 127 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.33.

92

Una delle ipotesi oggi prevalenti afferma che «per l’Occidente e per l’Europa in particolare

non sia possibile tornare alla crescita ruggente, finanziarizzata, basata sulla Borsa, le banche, i

derivati e il trading. [...] Non conviene affatto, allora, puntare sull’illusione politica della

crescita ruggente, ma ritrovare un sentiero che significhi ancora modernizzazione nelle

compatibilità sociali»128.

Da questo punto di vista, la decrescita, per quanto criticata, rappresenta «una vera e propria

rivoluzione»129.

Poiché la crescita e lo sviluppo altro non sono rispettivamente che crescita dell’accumulazione

del capitale e sviluppo del capitalismo, la decrescita non può che essere una decrescita

dell’accumulazione, del capitalismo e dello sfruttamento. Si tratta non solo di rallentare

l’accumulazione ma di metterne in discussione il principio per invertire un processo distruttivo.

In generale il Movimento per la decrescita felice si propone di promuovere la piú ampia

sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti

commerciali con l'autoproduzione di beni.

Non è propriamente una scelta facile e comporta anche una diminuzione del prodotto interno

lordo130. Eppure in queste scelte gli autori legati alla decrescita sono concordi nel fatto che

comportino «la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle

condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture»131.

Questa prospettiva comporta dunque che nei Paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino

stili di vita del passato, «irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione

del progresso»132, ma che invece hanno prospettive di futuro più ampie degli stili di vita

moderni che li hanno sostituiti, in quanto applicabili «non solo nei settori tradizionali dei

bisogni primari, ma anche in alcuni settori tecnologicamente avanzati e cruciali per il futuro

dell'umanità, come quello energetico, dove la maggiore efficienza e il minor impatto

ambientale si ottengono con impianti di autoproduzione collegati in rete per scambiare le

eccedenze»133.

128 Edmondo Berselli, L’economia Giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.91. 129 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.82. 130 Uno dei motivi per cui non è vista particolamente di buon occhio… 131 Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2007, p.20. 132 Ibidem, p.20. 133 Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2007, p.20.

93

In particolare, per Pallante, la dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore

incapacità di autoprodurre beni. Questa condizione appare particolarmente generalizzata nei

Paesi industrializzati e costituisce, secondo questo e altri autori, un enorme impoverimento

culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione

dell'uomo dai limiti della natura.

Se la crescita del prodotto interno lordo è considerata sinonimo di benessere e la crescita

quantitativa delle merci un bene in sé, la possibilità di acquistarne la maggiore quantità

possibile e, quindi, la sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente,

viene identificata con un miglioramento della qualità della vita. «Il passaggio da un bene a una

merce nella soddisfazione di un bisogno esistenziale, nelle società industriali è diventato un

indicatore di emancipazione e progresso»134.

Tuttavia, nessuno può illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve per vivere.

L'autoproduzione di beni e servizi può essere però potenziata da scambi non mercantili fondati

sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono

anche a rafforzare i legami sociali.

Il dono e la reciprocità, che hanno sostanziato la vita economica delle società preindustriali e

nei Paesi industrializzati hanno apportato i loro benefici fino agli anni cinquanta del secolo

scorso, consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, professionalità,

conoscenze, disponibilità umana.

In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono realizzate, prima

dell'industrializzazione e dell'estensione della mercificazione a tutte le sfere dell'attività umana,

queste forme di scambio non mediato dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma

generalizzate: l'obbligo di donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire piú di quello che

si è ricevuto.

Come afferma Marco Aime nella prefazione a Saggio sul dono di Mauss:

«Il dono si nasconde nelle pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di

queste non sono affatto mosse da logiche utilitaristiche. Intendiamoci, non

utilitaristiche non significa gratuite. Il dono non è mai gratuito. Come mise già in

evidenza Marcel Mauss, il dono non è una prestazione puramente gratuita, né una

produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di ibrido. Chi dona

134 Ibidem, p.26.

94

si attende un controdono. Qual è allora la differenza tra donare e contraccambiare e un

normale scambio mercantile? Quando si pone il problema a coloro che donano, quando

si chiede loro perché donano, emerge un aspetto sostanziale: la libertà, l'assenza di

costrizione, vale a dire assenza di contratto, di coercizione. [...] Ecco come, con

un'eccellente definizione, Jacques T. Godbout sintetizza il carattere del dono:

“Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di

restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”»135

Il problema è se siamo disposti, e se sono disposte le società occidentali, a subire una

decurtazione, probabilmente sensibile, del proprio reddito. Sono disponibili i Paesi evoluti, e

gli individui lasciati sul mercato, a rinunciare all’idea della crescita senza fine, e quindi

all’arricchimento continuo (o del benessere infinito)?

«Dobbiamo assumere le nuove responsabilità di fronte a un mondo che attende un profondo

rinnovamento culturale, il quale, ancora più che un fenomeno sociale, sembra persino l’avvio

di un processo antropologico. Se la crescita rallenta, e il rallentamento è tanto più vistoso se

paragonato alla velocità di Paesi come Cina, India, Vietnam, Corea, Brasile, è probabile che

nelle società occidentali si preparino profondi mutamenti nella struttura sociale»136.

135 Marco Aime, presente in Marcel Mauss, Saggio sul dono, Giulio Einaudi editore, Torino, 2002, p.XIII. Cito,

come approfondimento al concetto del dono, anche Barberis che, oltre ad aver curato tutte le edizioni del

Censimento agricolo dal 1971 ad oggi, è un acuto osservatore della realtà italiana e dei movimenti dietro

all’agricoltura in particolare: «l’economia del dono è una caratteristica della società rurale. [...] Abbandonando le

metropoli e stabilendosi in campagna le famiglie vanno dunque a vivere in un mondo dove l’economia resta

economia (e per questo parliamo di economia del dono) ma assume aspetti più gentili perchè calati in un contesto

di rapporti sociali che la rendono più gradevole. Spesso, come a Fonte Nuova, i regali consistono non solo in

materia prima (uova, ad esempio) ma in trasformato (paste fatte in casa). Il dono comprende quindi anche il

proprio tempo, la cosa davvero più preziosa per la quale occorrerà escogitare strategie di compensazione. E c’è la

riscoperta di quelli che i francesi chiamano économie de cueillette, economia dei frutti spontanei. Gavignano non

solo i funghi ma anche le lumache offrono consistenti integrazioni alimentari. Tutto ciò una volta sarebbe stato

associato a cupe immagini di miseria. Oggi, nella società del benessere, resto solo il piacere della raccolta. Anche

i prodotti dell’attività di caccia, praticata dal 5% al 10% delle famiglie, finiscono in larga misura nell’economia

del dono. O della festa. Inoltre, le famiglie che “esurbano” vanno a potenziare i micromercati alimentari: quella

meluccia stenta ma saporita a cui si darà ancora un apprezzamento monetario, quel lardo da cui la nuova ruralità

avrà per così dire eliminato il colesterolo attraverso la sua allegra assunzione in amicizia… Siamo in un ambiente

di cui l’autoconsumo rappresenta solo la tradizionale punta emersa dell’iceberg» (Corrado Barberis (a cura di),

Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.221). 136 Edmondo Berselli, L’economia Giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.92.

95

4.5 AFN: Alternative Food Networks

Questo rallentamento, questa inversione proposta dal movimento della decrescita si inserisce

nel solco più ampio degli Alternative Food Networks.

In generale gli AFN sono al centro del dibattito interdisciplinare su sviluppo locale e rurale,

sostenibilità locale e teorie economiche alternative137. Come affermano Barbera, Corsi e altri

autori, ancora

«Manca una chiara e puntuale definizione di cosa essi siano e dei meccanismi che li

caratterizzano, poiché gran parte del dibattito ha assunto una prospettiva molto

descrittiva, e spesso ideologica, centrata sull’analisi di specifici studi di caso locali. Se

si esamina l’evoluzione degli AFN, le primissime esperienze si possono descrivere in

termini di radicale opposizione alla industria alimentare capitalistica convenzionale,

considerata non-sostenibile dal punto di vista ambientale, iniqua socialmente, ed

egemonica dal punto di vista economico. All’opposto, gli AFN erano inizialmente

concepiti come nicchie di innovazione sociale, basate sulla fiducia, su relazioni paritarie

ed eque fra produttori e consumatori, e su modi di produzione più naturali, sani e

locali»138

Per quanto appunto manchi un accordo su cosa essi siano effettivamente139, gli AFN sono da

più parti indicati come il necessario sviluppo futuro dell’agricoltura. In questo senso essi sono

suddivisi in tre principali categorie: il rapporto diretto (face to face, i consumatori acquistano

il prodotto direttamente dal produttore); la prossimità spaziale (spatial proximity, i beni sono

137 Si fa presente l’osservazione di Renting, Mardsen e Banks a proposito: «the reconfiguration of supply chains

is an important mechanism underlying the emergence of new rural development practices. SFSCs hold the

potential for shifting food production out of its “industrial mode” and to break out of the long, complex, and

rationally organised industrial chains, within which a decreasing proportion of total added value is captured by

primary producers. At the same time, new food supply chains are important carriers for creating new linkages

between agriculture and society, producers and consumers. They bring consumers closer to the origins of their

food and in many cases involve a more direct contact between farmers and the end-users of their products» (H.

Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in Environment and

planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 394). 138 Aa.vv, Cosa c’è di alternativo negli Alternative Food Networks? Un’agenda di ricerca per un approccio

interdisciplinare, contenuto in Scienze del Territorio, Ritorno alla Terra n°2/2014, Firenze University press,

Firenze, 2014, p.36. 139 E per quanto ancora non si sappia bene quanto efficienti possano essere: «although there is strong evidence

that all over Europe new food networks are emerging, it is still too early to judge their viability and efficiency in

delivering goals of sustainable agriculture and rural development. This is partly a result of the absence of empirical

data of sufficient reach and quality, but also because of the relatively `young' developmental stage of several

experiences» (H. Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in

Environment and planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 393).

96

prodotti e venduti in una singola regione o luogo di produzione); le estese spazialmente

(spatially extended, in cui il valore e l’identità regionali sono incorporati nel prodotto stesso e

trasmessi a consumatori al di fuori della regione o località)140.

La cosa interessante emersa da diversi studi è che esistono profonde differenze fra gli AFN del

nord e del sud Europa. In Paesi nord-europei come il Regno Unito, l’Olanda e la Germania, la

crescita degli AFN è spesso «basata su definizioni di qualità moderne e più commerciali, che

sottolineano la sostenibilità ambientale ed il benessere animale, e su forme di marketing più

innovative»141. Invece nei Paesi sud-europei, e specialmente in Italia, la cultura del cibo si basa

maggiormente su «una produzione fortemente regionalizzata che coinvolge molte piccole

aziende familiari, e su un’attenzione alla qualità (anche se definita più in termini culturali che

formali) che dura nel tempo, e su vendite dirette sia in azienda sia su mercati urbani o locali»142.

In generale dunque, qualunque sia la forma organizzativa di questi AFN, essi esprimono una

specificità territoriale molto marcata, definita dalle relazioni che si intrattengono con il

territorio, definito come insieme di spazio, risorse e relazioni. Da questo punto di vista, ad

esempio, «gli AFN alla scala locale possono essere facilmente sviluppati legando la produzione

agricola peri-urbana e la città»143.

Gli AFN si pongono dunque come sistemi di riconfigurazione dell’economia agricola, ma

bisogna chiedersi quanto effettivamente questi sistemi siano sostenibili e quanto possano

sopravvivere e durare nel medio-lungo periodo. Per favorire il prolungarsi dell’esistenza di

questi sistemi sono stati individuati nuovi ruoli per l’agricoltura, in alternativa a quello

tradizionale della produzione: una funzione economica, sia per la produzione di beni e servizi

sia per la creazione di nuovi posti di lavoro in spazi rurali; una funzione sociale per la gestione

del territorio, il miglioramento della qualità della vita rurale e la trasmissione di uno specifico

patrimonio culturale; e una funzione ecologica di tutela ambientale e di manutenzione del

paesaggio. Ma nonostante queste proposte (che pian piano stanno venendo messe in atto) la

risposta se ci potrà essere un futuro per questi sistemi agricoli “nuovi” dipende strettamente

dalla loro profittabilità per i produttori e dall’utilità ottenuta dai consumatori. «Mentre in

sociologia e in geografia esiste una consistente letteratura sugli AFN, lo stesso non può dirsi

140 H. Renting, T.K. Mardsen and J. Banks, Understanding alternative food networks, contenuto in Environment

and planning, volume 35, Pion, UK, 2003, p. 393. 141 Aa.vv, Cosa c’è di alternativo negli Alternative Food Networks?, Firenze University press, Firenze, 2014,

p.36. 142 Ibidem, p.36. 143 Ibidem, p.37.

97

per l’approccio economico. In questo campo, esistono pochi studi in materia di scelta tra canali

alternativi di commercializzazione da parte dei produttori agricoli»144.

144 Ibidem, p.39.

98

4.6 Nuovi metodi

Come abbiamo visto esistono diversi tipi di AFN e tutti quanti condividono la caratteristica di

utilizzare catene distributive differenti rispetto a quelle tradizionali. Per i produttori, i benefici

che derivano dalla partecipazione ad un AFN consistono spesso in prezzi più alti e/o in una

maggiore garanzia di riuscire a vendere i loro prodotti. Per i consumatori, il vantaggio può

consistere nell’accesso a un prezzo più conveniente ma anche in una maggiore utilità, che

discenderebbe da cibo presumibilmente più sano e più gustoso, nonché dalla partecipazione

stessa alla rete. Un tale sistema quindi può essere di fatto produttivo e sostenibile anche nel

lungo periodo, come messo in luce anche dalla teoria della coda lunga.

Non serve necessariamente produrre di più, basterebbe produrre il necessario e creare la propria

“nicchia” a cui vendere i prodotti. E questo non è applicabile solo alle grandi aziende che già

utilizzano il modello della coda lunga, come Amazon, ma anzi, potrebbe giocare un ruolo

rilevante proprio nella produzione agricola di piccola e media fattura. Grazie alle possibilità

offerte dalla rete una piccola azienda agricola può creare la propria comunità di consumatori,

la propria “nicchia”, tenerli aggiornati sul lavoro che viene svolto, su ciò che viene prodotto.

«Uscire dallo sviluppo, dall’economia e dalla crescita non vuol dire rinunciare a tutti gli istituti

sociali che l’economia si è appropriata, ma reinquadrarli in un’altra logica»145.

Ed è proprio in quest’ottica che quella nicchia di consumatori che si crea non necessariamente

deve essere vista come tale: si tratta di allargare le proprie vedute e immaginarsi nuove forme

di lavoro. «Oggi per far funzionare un’azienda agricola non basta saper fare pomodori e

melanzane: occorrono le competenze manageriali e gestionali necessarie ad allargare il campo

d’azione sia per quanto riguarda la vendita che la definizione di altri servizi che l’azienda può

offrire»146.

Un’azienda agricola potrebbe per esempio destinare parte dei propri terreni all’auto-produzione

da parte dei propri consumatori. Affittando piccoli appezzamenti per esempio (come già

145 Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.110. A lui fa eco

Tasch che ritengo necessario inserire almeno in nota per smorzare un po’ la drasticità del pensiero di Latouche:

«il punto non è essere ideologicamente contro il mercato né essere ideologicamente incapaci di riconoscere che il

mercato non è la panacea. Ciò che cerchiamo è un sistema di riferimento "coerente" ed "equilibrato" che sia

superiore al potere del mercato ma lo inglobi e rispetti. Analogamente, la meta-economia [realtà in cui è

ascrivibile anche il modello della decrescita, nda] non è contro l'economia; è contro un'economia priva di un

radicamento sociale e ambientale (gli studiosi di Adam Smith sottolineano spesso che oltre alla Ricchezza delle

nazioni Smith scrisse anche la Teoria dei sentimenti morali, che prendeva in esame la rete di solidarietà, virtù e

doveri che costituiscono il contesto etico dell'attività della mano invisibile del mercato). (W. Tasch, Slow money,

Slow Food editore, Bra, 2009, p.65). 146 Aurelio Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo

editoriale L’Espresso, 2013, p.13.

99

avviene del resto grazie al portale http://adottaunazolla.bio/), o semplicemente richiamando

persone giusto per creare attività di svago e ricreative, ma che portano effettivamente un valore

economico all’azienda agricola, e sociale per le persone (come per esempio nel caso di

Seminare il futuro147).

Un altro esempio può derivare dal diverso sfruttamento (per quanto questa parola sia

particolarmente brutta inserita in questo contesto) del turismo, il quale può svolgere un ruolo

guida nello sviluppo di economia locali148.

Di certo le soluzioni sono infinite, basta avere un po’ di immaginazione.

Un’immaginazione che esiste ed è sempre più evidente in campo agricolo nella creazione di

agri-asili, campi estivi, agriturismi, collaborazioni scolastiche e universitarie149.

Parte della forza propulsiva con cui viene identificata l’agricoltura nei confronti di tutto

l’impianto economico attuale è proprio data dal fatto che «farming is recognised as not only

producing agricultural commodities but also as the generator of environmental, social and

cultural services important to the welfare of society (the socalled multi-functionality of the

European model of agriculture). There is a strand of opinion that believes that the present

structure of the industry, dominated by family farms, is better placed than an industry

dominated by other types of farm business to provide benefi cial environmental and social

externalities and public goods associated with agriculture»150.

147 http://www.seminareilfuturo.it/. 148 Si veda a questo proposito il lavoro svolto da Camilla Garruti, The farm holidays: a diversification of the tourist

supply, Università di Salerno, 2006, nel quale l’autrice afferma: «the farm-holidays enter this dimension becoming

a proposal of cultural and social maturity, before and more than an economic strengthening in low-income sectors

and areas, an aspect that cannot be certainly ignored, but instead must be integrated in a correct scale of values. It

becomes an effective alternative to the traditional tourist forms, at “hard” environmental impact, directed to

perpetuate the organization in free-time of relaxation and amusement, the farm-holidays are the means through

which we can refer to the age-old experiences to recover some possibilities of personal and social balance tied to

obsolete schemes; even if we often hear about “sustainable tourism,” a suitable organization is still far away and

in fieri, while an effective system of tourist planning consists in involving the inhabitants of the interested zones

who can manage the hospitality, the farmers, who for almost spontaneous reasons, will have a greater interest in

protecting and preserving the territory». 149 Un’immaginazione descritta anche da Magistà nel presentare le attività lavorative possibili per i giovani

laureati: «le aziende agricole crescono, la percentuale di agricolture nelle aziende agricole diminuisce. In questo

apparente paradosso sta il futuro di un settore che si definisce ancora primario, quasi a sottolinearne l’aspetto

arcaico, ma confina sempre di più con il futuro. I campi tornano a offrire una sponda interessante a chi cerca

lavoro e reddito, ma è una sponda sfaccettata in cui occorre ricavarsi una nicchia trovando capacità e competenze

anche in attività non direttamente legate alla produzione di cibo. Alla campagna non si arriva più solo per

tradizione, seguendo consuetudini antiche. Il trauma prodotto dall’impatto delle coltivazioni estensive,

dall’overdose chimica, dall’abuso incentivi ha spezzato quel legame. Oggi, per stare sul mercato, bisogna

reinventare il mestiere coltivando valore aggiunto che in parte è contenuto in un prodotto di qualità (biologico,

biodinamico, a marchio territoriale) e in parte in attività non agricole ma connesse alla terra» (Aurelio Magistà (a

cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo editoriale L’Espresso,

2013, p.12. 150 G. Howe (a cura di), The new rural economy, The Institute of Economic Affairs, Londra, 2005, p.87.

100

Questa visione del mondo agricolo permette l’aprirsi di nuovi scenari produttivi nei quali la

formazione e l’educazione (non solo dei più piccoli) possono svolgere un ruolo di primo piano,

insieme a quegli aspetti legati alla salvaguardia del territorio di cui l’agricoltura può e deve

farsi carico.

Riguardo a ciò il messaggio della CIA (confederazione italiana agricoltori), presentato a oltre

50 ministri delle Risorse Agricole durante il primo Forum Internazionale dell’Agricoltura,

tenutosi nell’Auditorium di Expo2015, e nel quale è stata presentata la Carta di Milano151, è

sicuramente rappresentativo di quanta importanza riveste oggi l’agricoltura: «mettiamo il

lavoro della terra al centro del nuovo modello di crescita. Va assicurato reddito alle imprese e

protagonismo sociale agli agricoltori per tutelare la biodiversità e sfamare il pianeta, evitando

l'omologazione ed esaltando i valori rurali. Noi siamo i custodi del mondo buono e

rivendichiamo un giusto reddito e il riconoscimento del nostro ruolo sociale»152.

La Carta di Milano rappresenta sicuramente uno spunto interessante di riflessione, proprio in

quanto si fa sempre più conto sullo sviluppo dell’agricoltura per il raggiungimento di una nuova

fase di prosperità e benessere.

Partendo dal documento presentato al Forum (Il Territorio come destino), la CIA costruisce

«un vero e proprio decalogo per disegnare il futuro agricolo, convinta com'è che il diritto al

cibo non sia un generico appello a risolvere l'emergenza alimentare, ma debba essere diritto al

cibo buono, di qualità e identitario contro una visione dell'agricoltura capace di produrre solo

commodity in mano alle multinazionali.

Il decalogo della CIA ha come titolo "l'agricoltura sostenibile" e si riassume nei seguenti punti:

1- L'Agricoltura è il motore dello sviluppo sostenibile

2- L'Agricoltura tutela e mette in valore la biodiversità

3- L'Agricoltura è identitaria e territoriale

4- L'Agricoltore è custode del mondo

5- L'Agricoltore ha diritto a un reddito sostenibile

6- L'Agricoltore ha diritto al riconoscimento del suo ruolo sociale

151 «Atto di Expo che impegna cittadini, imprese e istituzioni ad assumere precise responsabilità per garantire il

diritto al cibo e la promozione di modelli sostenibili con azioni immediate».

(http://www.palazzochigi.it/Notizie/Ministeri/dettaglio.asp?d=78648, ultimo accesso 12/06/15). 152 Expo: l’agricoltura è il motore dello sviluppo sostenibile, ultima modifica 04/06/15, http://www.cia.it/news

101

7- L'Agricoltura ha il dovere di provvedere al genere umano nel rispetto di tutte le specie

vegetali e animali

8- L'Agricoltura promuove e utilizza la ricerca al fine di migliorare le condizioni dell'uomo

e della biosfera

9- L'Agricoltura è protagonista di tutta la filiera alimentare e trae il suo reddito da questo

protagonismo

10- L'Agricoltura è un valore culturale, le pratiche agricole s'ispirano alle identità

territoriali, gli agricoltori sono gli operatori di questo complesso valoriale»153.

Questi punti rappresentano un po’ la summa di quanto fin qui descritto.

L’agricoltura italiana viene quindi da più parti chiamata ad assolvere il ruolo di motore della

crescita, di volano dell’economia; viene ad essere rivestita di ruoli sociali e culturali da politici

e commentatori; viene a configurarsi come nuovo terreno fertile per la produzione di

innovazioni.

Tutto questo però, non riesce ad essere svolto da tutte le aziende presenti sul territorio, anzi, si

può dire che tutto quello che abbiamo descritto fin qui sia solo un’aspettativa di come le cose

possano svilupparsi.

Ci sono però dei casi particolarmente interessanti in cui si riesce a sviluppare tutto questo e

forse anche di più. Ci sono, non sono molti ma esistono, e stanno lavorando quotidianamente

per far sì che il messaggio venga recapitato e divulgato il più possibile, per far sì che una nuova

agricoltura italiana (e in generale Europea) possa veramente venire alla luce ed affermarsi, e,

perché no, possa finalmente ricrearsi quel legame tra uomo e terra andato perduto nel corso

degli ultimi secoli.

153 Ibidem.

102

Rural Hub

Now renegades are the people/

With their own philosophies/

They change the course of history/

Everyday people like you and me/154

Come abbiamo visto, il futuro dell’agricoltura pare inscritto nei geni dell’informatizzazione,

da un lato, e nel ritorno a forme tradizionali di produzione dall’altro. In Italia, in particolare, si

avverte la necessità di ripartire dall’agricoltura per “ritornare a crescere”, economicamente

parlando.

In questa situazione le aziende agricole, grazie ad un rinnovato interesse delle nuove

generazioni, si trasformano in attività plurime, contraddistinte quindi non solo dalla capacità

di produrre beni alimentari e/o agricoli in genere, ma anche e soprattutto da attività collaterali

di vario tipo. Oltre ad essere differenziate per tipologie di produzione/attività economiche, si

caratterizzano per essere più concentrate e organizzate, anche sotto il profilo informatico ed

energetico, andandosi a configurare come vere e proprie Smart Farm, in contrapposizione alle

Smart City155. Come afferma Magistà: «se oggi si parla molto di Smart City, non bisogna

dimenticare che anche l’agricoltura italiana si dà da fare per costruire il suo modello di fattoria

intelligente: un’azienda dinamica ed eco-friendly che si fonda sulla razionalizzazione dei

consumi energetici, sul riciclo degli scarti agricoli e sulle coltivazioni a basso impatto

ambientale»156.

154 Rage Against The Machine, Renegades of Funk,contenuto in Renegades, Epic Records, 2000. 155 Il sempre vivo “scontro” tra città e campagne, che ha caratterizzato i decenni passati, sembra oggi venir meno

(anche se permane sempre una certa visione di inferiorità della campagna nei confronti della città). A questo

proposito Barberis afferma: «Che storicamente la città sia stata animata da un’aspirazione dominatrice nei

confronti della campagna, non vi sono dubbi. Ma, alla luce delle trasformazioni che negli ultimi decenni hanno

investito gran parte delle aree rurali, appare oggi un anacronistico luogo comune l’idea che vede la campagna

condannata a un ineluttabile destino di inferiorità rispetto alla città, riservando a quest’ultima il ruolo di motore

imprescindibile della crescita produttiva e occupazionale.

Già nel 2001 l’analisi della struttura dell’occupazione rurale e urbana segnalava che la composizione sociale del

mondo rurale è oggi molto simile a quella del mondo urbano e che le campagne possono vantare ormai

un’eterogeneità sociale paragonabile a quella cittadina. Non trovava già più alcun riscontro nelle statistiche

occupazionali quella rappresentazione tradizionale della ruralità che associa al mondo rurale una struttura

socioprofessionale più semplice e arretrata - meno moderna - di quella urbana» (Corrado Barberis (a cura di),

Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.83). 156 A. Magistà (a cura di), La Repubblica, Guida a lavoro e professioni, settori che cambiano, Roma, Gruppo

editoriale L’Espresso, 2013, p.14.

103

Le aziende che si vengono così a costituire sono ancora caratterizzate da un’esigua presenza

sul territorio, seppur in costante crescita numerica, e rappresentano appunto l’apporto giovane

al settore157.

In questa parte del settore agricolo giovane, variegata e in costante espansione si colloca una

realtà molto particolare che si mette in luce non solo per le caratteristiche evidenziate nel

precedente capitolo, ma anche per essere foriera di un pensiero di rinascita vero e proprio.

Si caratterizza infatti particolarmente per il lavoro di analisi e ricerca che, da diversi anni a

questa parte, persegue con costanza e attenzione, mettendo in gioco forze legate alle più

disparate attività (ricercatori, studenti e professori universitari, professionisti di marketing,

manager, attivisti, blogger, agricoltori ecc.). Lo sforzo è teso a riuscire a identificare e

realizzare non solo una nuova ruralità, ma aiutare gli altri a metterla in atto, fungendo da

aggregatore per startup e venture capitalist in grado di investire in questa visione, organizzando

laboratori, workshop e attività di discussione e scambio continuo. Creando una comunità

agricola che agisca, finalmente, come un unicum.

Questa realtà si chiama Rural Hub.

Nell’ottica di «innescare un rinnovamento imprenditoriale, tecnologico e sostenibile»158, Rural

Hub nasce come collettivo di ricerca «per favorire il collegamento tra nuove realtà innovative,

investitori e associazioni di categoria»159. Realtà innovativa di per sé, unisce quelle

caratteristiche tipiche dei movimenti hacker con la tradizionale tipicità dell’ambiente rurale

italiano, come testimonia del resto la località in cui si inserisce la sede: la Residenza Rurale

L’incartata a Calvanico, alle porte del Cilento, in provincia di Salerno. Per dirla con le parole

di Gennaro Fontanarosa, tra i fondatori di questo progetto: «Rural Hub è un luogo fisico ma è

anche un luogo virtuale in quanto mette in connessione e consente lo scambio e la condivisione

tra persone, idee e progetti sull’innovazione sociale applicata alla ruralità. Rural Hub è pensato

come un luogo condiviso di vita (co-living) e lavoro (co-working), è centro di studi e ricerca

permanente sull’innovazione sociale applicata alla ruralità»160.

157 Non ci sono ancora dati accurati sulla quantità e specificità di queste aziende, in quanto si configurano ancora

come fenomeno giovane e in divenire. L’esiguità con cui le identifico è data da una personale ricerca empirica. 158 Progetto rural hub, http://www.ruralhub.it/progetto/, ultimo accesso 15/06/15. 159 Ibidem. 160 Ruralhub, http://www.comunikafood.it/rural-hub-agricoltura-ecosostenibile/, ultimo accesso 15/06/15.

104

Le persone dietro al progetto sono molte e provenienti dai più diversi ambiti161. Da questo

punto vista Rural Hub si configura già in nuce come attività volta al recupero delle tradizioni.

Il lavoro che si svolge all’interno della cornice della località l’Incartata è basato proprio sulla

condivisione, sullo scambio continuo e reciproco. In una parola, sulla comunità (reale e

virtuale).

161 Faccio qualche nome per dovere di cronaca e perché lo reputo giusto, vista l’importanza che questa attività

svolge nella definizione di una nuova agricoltura. Il cuore di Rural Hub è composto da Francesco Martusciello,

fondatore della cantine vinicola Grotta del Sole e CEO di Rural Hub. Alex Giordano, fondatore di Ninja Marketing

e presidente e direttore scientifico della startup. Ci sono poi Agostino Ritano, project manager, Gennaro

Fontanarosa, chief communication officer, e Michele Sica, ventisettene tornato nella sua terra dopo un’esperienza

a Roma in una società di web e social media e che ora fa il ricercatore e il contadino 2.0.

Tra i collaboratori assidui figurano invece Adam Arvidsson, sociologo e professore associato di sociologia

all’Università degli Studi di Milano, che riveste il ruolo di direttore scientifico per Rural Hub, John Grant,

scrittore e pubblicitario, Danielle Gould, Ceo e founder di Food+tech connect e Nathan Jurgenson, teorico e

ricercatore. Oltre a questi si aggiungono poi agricoltori, studenti, ricercatori, studiosi, manager, venture capitalists,

curiosi e appassionati, di passaggio e non, che forniscono il loro contributo al progetto. (Fonti:

http://www.ruralhub.it/progetto/il-team/ e http://food24.ilsole24ore.com/2014/03/lagricoltura-del-iii-millennio-

sa-di-antico-e-di-nuovo-lesperienza-di-rural-hub/ ultimo accesso e entrambi i siti 15/06/15).

105

5.1 Rural Social Innovation

Tra le varie attività svolte dal Rural Hub - come, per esempio l’Investor Day tenutosi

all’Internet Festival di Pisa nel 2013 – la Summer School 2014 è quella che più si è distinta per

importanza teorica. Durante questo workshop (riducendo l’esperienza in una sola parola) si

sono messi in campo pensieri, concetti, idee e progetti. Le tante riflessioni maturate durante

quel periodo hanno portato alla formazione del Manifesto della Rural Social Innovation.

L’elaborazione del manifesto parte dalla presa di coscienza che, concentrandosi solo ed

esclusivamente sul digitale per garantire un’innovazione, si rischia di perdere la concretezza di

tale innovazione e il ruolo sociale che essa ha o potrebbe avere. «Il rischio che si corre è elevare

gli strumenti tecnici da mezzo a fine con la conseguenza che il social innovator divenga un

professionista capace di gestire un flusso sempre più ampio di possibilità, e che egli riduca il

sociale solo a schemi e grafici dimenticando, consapevolmente o inconsapevolmente, la vera

essenza dell’innovazione»162. Come soluzione vengono indentificati proprio il ritorno alla

ruralità e il cosiddetto downshifting o “semplicità volontaria”163. Le giovani generazioni sono

quelle in cui è più facile veder sviluppati questi atteggiamenti, che permetterebbero quindi un

nuovo approccio allo sviluppo, proponendone un nuovo modello che, accompagnato dalle

possibilità della rete, ha maggiori probabilità di poter essere diffuso e di poter trovare dunque

un maggior campo di applicazione.

162 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.5. 163 «La semplicità volontaria (neologismo della lingua italiana, in inglese downshifting) all'interno del mondo

del lavoro e del più vasto concetto di lifestyle «stile di vita» o simple living «vivere in semplicità» è la scelta da

parte di diverse figure di lavoratori - particolarmente professionisti - di giungere ad una libera, volontaria e

consapevole autoriduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività

professionali, così da godere di maggiore tempo libero (per dedicarsi alla famiglia, all'ozio, all'hobbystica, ecc.).

Questa innovazione all'interno delle filiere produttive industriali ed economiche ha dato vita ad un vero e proprio

movimento di pensiero ed è considerata dai sociologi una delle più eclatanti e vistose conseguenze di uno fra i

molti mutamenti sociali e di costume intervenuti negli ultimi anni nell'ambito del mondo del lavoro» (fonte:

Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Semplicit%C3%A0_volontaria ultimo accesso 16/06/15). A questo

proposito si veda anche il lavoro di Messenger e Ghosheh, che si domandano quali effetti possa avere una

riduzione dell’orario di lavoro: «The experience of the Great Recession also raises a larger question: given the

substantial overall success of working-time reductions in main-taining employment during an economic

downturn, does the available evidence suggest that work sharing can be something more than a measure which is

solely intended for crisis response? Can work sharing possibly also serve as an effective tool for creating more,

and perhaps even better jobs, in a more positive economic environment? In other words, to what extent can

permanent reductions in work hours (for example, reduced standard workweeks, increased periods of paid leave,

targeted hours reductions in specific industries, voluntary, preference-based reductions in working hours and so

on) help to create employment while improving individual well-þeing, and thus contribute to more sustainable

economies and societies? his chapter will consider those questions as well» (J. C. Messenger, N. Ghosheh, Work

sharing during the great recession, Edward Elgar Publishing Limited, Cheltenham, UK, 2013 p.260).

106

La domanda a cui fa capo tutto il pensiero dietro all’elaborazione del manifesto è quella che,

dopo due secoli, inizia a diffondersi maggiormente anche su scala globale e che abbiamo

affrontato nei precedenti capitoli: «è giusto adottare un approccio anglosassone per il contesto

mediterraneo?»164. Da questa domanda scaturiscono quindi i processi che vengono messi in

atto da Rural Hub, collocandosi in un rapporto dialettico con il modello contemporaneo allo

stesso tempo collaborativo e conflittuale. Collaborativo per quanto riguarda il contesto in cui

inserirsi e le dinamiche a cui prendere parte, conflittuale per quanto riguarda i metodi da

applicare per farlo.

Il pensiero critico da cui sono partiti per lo sviluppo di questo Hub fa capo a Franco Cassano e

al suo libro Il pensiero meridiano, i cui concetti ho brevemente esposto nel precedente

capitolo165. Come affermano gli autori nel manifesto «Le esigenze ecosistemiche a cui

l’innovazione dei giovani neorurali guarda sono antropologicamente differenti da quelle a cui

rispondono altri modelli. Smarcare da stereotipi negativi di arretratezza i valori intrinseci della

cultura mediterranea, come la lentezza, diviene uno dei primi passi necessari da compiere»166.

Si tratta dunque di ridare una dignità alla lentezza e a tutto ciò a cui essa richiama: riflessione,

approfondimento, resilienza. Il tutto condito dallo spirito tipico del Mediterraneo, «mare che

media le terre emerse»: uno spirito che è fatto di continui scambi, di accoglienza, di diversità.

«Il mediterraneo di per se non fa niente. Dà solo l’opportunità di mettersi a sedere, prendere un

tè o un caffè, contrattare, discutere, perdere tempo, incuriosirsi dell’interlocutore, essere

164 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.7. Un contesto

mediterraneo che è evidentemente applicabile su scala globale, dato che le difficoltà dell’estensione del modello

Occidentale, come abbiamo visto, sono particolarmente diffuse anche (e forse soprattutto) nei Paesi emergenti e

in quelli considerati del Terzo Mondo. Ovviamente da questa domanda si dipanano anche le altre conseguenti,

relative alla sostenibilità ambientale, alla disgregazione della comunità, ecc. 165 La brevità con cui ne ho parlato merita di essere approfondita con un pensiero dell’autore che reputo

fondamentale per comprendere al meglio in che ottica si inserisce Rural Hub: «Se si vuole ricominciare a pensare

il Sud sono necessarie alcune operazioni preliminari. In primo luogo occorre smettere di vedere le sue patologie

solo come la conseguenza di un difetto di modernità. Bisogna rovesciare l’ottica e iniziare a pensare che

probabilmente nel Sud d’Italia la modernità non è estranea alle patologie di cui ancora oggi molti credono che

essa sia la cura. Per iniziare a pensare il Sud è in altri termini necessario prendere in considerazione anche l’ipotesi

che normalmente si scarta a priori: la modernizzazione del Sud è una modernizzazione imperfetta o insufficiente

o non è piuttosto l’unica modernizzazione possibile, la modernizzazione reale? Liberare la modernità dalle sue

responsabilità considerandola sempre e soltanto dal lato dei rimedi conduce a commettere due errori

complementari che si rafforzano a vicenda: da un lato si ricorre ad una terapia che spesso aggrava le patologie,

dall’altro si sopprime in radice la possibilità di rovesciare il rapporto: non pensare il Sud alla luce della modernità

ma al contrario pensare la modernità alla luce del Sud» (Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori

Laterza, 1998, p.3). 166 Ibidem, p.12.

107

disposti a rimetterci qualcosa che alla fine vale meno di quello che si sta imparando durante la

conversazione»167.

Da questo punto di vista, un ruolo di primo piano nella stesura del manifesto è stato dunque

giocato proprio dalla capacità di «capovolgere l’immaginario negativo di elementi della cultura

mediterranea e renderli vantaggio competitivo»168, nell’ottica di ridare dignità al passato e al

presente per costruire un futuro più solido, duraturo e responsabile.

In questo contesto gli attori primari sono le persone, ma la necessità di strumenti efficienti è

evidente nel momento in cui questi permettono una migliore realizzazione del progetto. Da qui

deriva l’enorme sforzo cognitivo messo in atto per cercare di identificare quali sono quelli

necessari (non semplicemente utili) a tal fine.

Tra questi, ovviamente, ci sono i Big Data, costituiti, come afferma Arvidsson, da due livelli:

uno legato ai dati della vita digitale (social network, blog, ecc.), l’altro relativo ai dati misurabili

delle persone (attraverso le tecnologie wearable) e, aggiungo io, della produzione (attraverso

quei sistemi che l’Unione Europea inscrive nella categoria dell’Agricoltura di precisione).

Questo per creare valore, non solo attraverso la tecnologia169, ma soprattutto con la generazione

di contesti relazionali in cui è la vita stessa ad essere messa in gioco in un’ottica di comunità:

«il mio talento, la mia identità, la mia autorealizzazione diventano modi per creare valore a

partire dalla creazione di comunità e opportunità per generare relazioni e forme di vita

diverse»170. A questo obiettivo possono essere particolarmente utili strumenti come i social

media, da un lato, ed attività di co-working e co-living dall’altro. Non solo: forme partecipatorie

di produzione permettono anche agli innovatori neorurali di potersi riappropriare «della

funzione di soggetto economico. In quest’ottica considerano la sharing economy

un’opportunità per garantirsi un sostegno non più fornito dai sistemi istituzionali»171.

Come abbiamo visto le istituzioni sono sempre state particolarmente carenti nel confrontarsi

con le realtà agricole ed ora in particolare si vive un profondo clima di sfiducia nei loro

167 Scipione Guarracino, “Mediterraneo, Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel”, Milano, Mondadori, 2007,

p.187. 168 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p. 14. 169 Che ha indubbiamente avuto un impatto importante in questo senso, come affermano Arvidsson e Peitersen:

«one important impact of digital media has been the socialization of value creation, that is, a tendency for value-

creating activities to coincide with and become indistinguishable from ordinary actions. This has occurred both

within corporate forms of knowledge work and, importantly, outside the boundaries of corporate organizations,

in the "participatory culture" that is becoming a central feature of life itself» (A. Arvidsson, N. Peitersen, The

ethical economy,Columbia University press, New York, 2013, p.50). 170 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p. 20. 171 Ibidem, p.27.

108

confronti. I motivi sono talmente vari e vasti che meriterebbero una trattazione a sé stante, basti

qui la considerazione che esse vengono viste come “lontane” e troppo concentrate solo sul

ruolo dei grandi attori del settore. Per emanciparsi da questa lontananza delle istituzioni, le

possibili soluzioni vengono identificate in sistemi di disintermediazione che portano alla ribalta

le comunità locali come luogo di redistribuzione del valore, fundraising in testa172. La

disintermediazione in particolare, «opera in una dinamica di rapporto diretto nella comunità

attraverso una filiera diffusa fatta di distributori locali, innescando meccanismi di

redistribuzione del valore, sia economico che immateriale»173.

Queste proposte, tuttavia, mantengono ancora una certa difficoltà ad espandersi in quanto ciò

che manca nel mondo agricolo è proprio la capacità di sviluppare sia singoli network che reti

di essi che abbiano la capacità di creare «relazioni fatte di più livelli fra soggetti che non hanno

lo stesso carattere di autenticità o di matrice culturale»174. A questo servirebbe un approccio

dualistico costituito, da un lato, dalle specificità dei movimenti hacker e, dall’altro, da quelle

dei più tipici modi di operare dell’agricoltura, teso alla costituzione di una forte base legata ai

principi della permacultura175.

Obiettivo del team di Rural Hub è dunque quello di proporre una nuova economia rurale che

sia basata sulla riappropriazione dei processi di produzione e della loro riorganizzazione ad un

livello comunitario, al fine di restituire valore ai prodotti e all’essere umano.

Alla base c’è la costituzione, da parte dei giovani innovatori neorurali, di un nuovo modello

basato sulla «triple bottom line (people, planet, profit) per far nascere aziende che sappiano

coniugare esigenze ambientali, sostenibilità economica e responsabilità sociali»176. Questo

processo, come evidenziano Arvidsson e Giordano, potrebbe essere visto come un ritorno ad

un’economia rurale preindustriale, e per certi versi lo è. La differenza è però costituita dalle

tecnologie oggi a disposizione e ciò che esse permettono.

172 Personalmente ritengo che la totale emancipazione sia difficilmente applicabile. Credo che una soluzione

migliore sia l’integrazione di diversi sistemi per permettere anche alle istituzioni di riavvicinarsi (o avvicinarsi

per la prima volta) alle realtà agricole più piccole. Di sicuro un movimento emancipatorio da vincoli istituzionali

è altresì necessario per permettere una riappropriazione di valore non solo produttivo, ma anche personale. 173 Ibidem, p.39. 174 Ibidem, p.45. 175 «La permacultura è un metodo per progettare e gestire paesaggi antropizzati in modo che siano in grado di

soddisfare bisogni della popolazione quali cibo, fibre ed energia e al contempo presentino la resilienza, ricchezza

e stabilità di ecosistemi naturali. Il metodo della permacultura è stato sviluppato a partire dagli anni settanta da Bill

Mollison e David Holmgren attingendo da varie aree quali architettura, biologia, selvicoltura,

agricoltura e zootecnia» (Permacultura, https://it.wikipedia.org/wiki/Permacultura#Italia, ultimo accesso

16/06/15). 176 A. Arvidsson, A. Giordano (a cura di), Manifesto della Rural Social Innovation, 2014, p.58.

109

Si tratta dunque di riconfigurare le dimensioni temporali, unendo ciò che di meglio ha da offrire

il passato con ciò che di meglio ha da offrire il presente, per poter costruire un futuro migliore.

Allo stesso modo, si tratta di riconfigurare le dimensioni spaziali, coniugando parallelamente

il locale e l’iperlocale, il mondo della rete, permettendo dunque più livelli informativi,

caratterizzati da informazioni locali, ontologiche e narrative delle persone dietro ai prodotti e

dei prodotti stessi. «Si riducono le distanze spazio-temporali tra una modernità metropolitana

nella quale avvengono i fatti del futuro e una ruralità arretrata, ancorata al passato. Per questo

parliamo di #smartrurality, di ruralità vissuta come elemento critico per rileggere il

contemporaneo, attraverso una dialettica su stili di vita sostenibili e nuove possibilità»177.

Un ruolo di primo piano, in quest’ottica di ridefinizione, viene giocato dall’auto-

organizzazione di marketing e distribuzione. I Gruppi di Acquisto Solidale (G.A.S.) in questo

senso sono particolarmente efficaci e rimettono le persone al centro, permettendo loro

contemporaneamente un rapporto diretto con i prodotti e i produttori e rendendoli attivamente

partecipi del processo di scelta. Parte di queste attività viene svolta online, ma buona parte del

processo è frutto del lavoro di persone membri del sistema che sono disposte a ricevere un

compenso esiguo, o a non riceverlo affatto, in quanto ripagati dall’accresciuto valore non

monetario che la sola partecipazione ad attività di questo tipo dona. La creazione di network di

questo tipo permette dunque di ridare un’istituzionalizzazione alla parte immateriale della

catena del valore, accrescendo allo stesso tempo il valore etico e civico del prodotto e, di

conseguenza, del territorio.

La catena del valore viene quindi a riconfigurarsi in un sistema basato su disintermediazione,

storytelling, marketing e redistribuzione:

«Il Rural Social Innovation System sovverte la catena convenzionale e mette al centro il

prodotto, in un rapporto di osmosi con la comunità, che non è più un target ma parte attiva del

processo. Se il prodotto diviene leva di una nuova dinamica comunitaria in grado di valorizzare

il patrimonio immateriale, l’agricoltura diviene un’opportunità di condivisione e trasmissione

della cultura e della tradizione, non più solo lo strumento per la mera produzione alimentare»178.

177 Ibidem, p.60. 178 Ibidem, p.67.

110

Conclusioni

Alla luce di quanto fin qui esposto risulta evidente come qualcosa stia cambiando e come

questo cambiamento sia particolarmente necessario anche e soprattutto per poter uscire

definitivamente da una crisi economica e sociale che caratterizza questi ultimi anni.

L’agricoltura, come ho mostrato a più riprese nel corso di questo lavoro, rappresenta uno dei

settori che chiave per uscire da questa situazione di stallo: attualmente gode di una forte crescita

a livello occupazionale e, parallelamente, garantisce una risoluzione per molti di quei problemi

che attanagliano l’uomo contemporaneo; problemi che ho evidenziato e di cui ho cercato di

mostrare delle possibili soluzioni.

Il caso Rural Hub rappresenta una summa di tutto ciò che abbiamo visto essere le possibili

soluzioni e, come tale, rende l’idea del corso che può prendere la realtà agricola. Rural Hub è

forse l’esempio più eclatante di quanto sta avvenendo nel mondo dell’agricoltura, per le

specifiche mostrate che lo rendono un attore a 360° nel campo agronomico, ma di sicuro non è

l’unico.

Sempre più persone coinvolte nel settore agricolo decidono di diversificare l’offerta e di non

rendere la propria attività legata esclusivamente alla coltivazione, garantendosi così la

possibilità di estendere il proprio lavoro ad altri settori affini: il turismo, la formazione, la

salvaguardia del territorio.

Quanto evidenziato fin qui mette in luce dunque quanto un cambiamento sia necessario per

potersi riappropriare della propria vita, delle proprie origini e della propria cultura

d’appartenenza.

Ma se ciò che ho voluto mostrare rappresenta le motivazioni che spingono ad un’inversione di

rotta e i possibili strumenti per renderla possibile, c’è da chiedersi quanto questo cambiamento

sia praticabile dalle persone comuni.

Gli esempi riportati dei ragazzi di Rural Hub mostrano per esempio quanto sia stato difficile

inizialmente abbandonare un determinato percorso lavorativo, e uno stile di vita conseguente,

per dedicarsi ad un lavoro più umile, più “basso”, per dirla con un epiteto con cui si descrive

spesso il lavoro agricolo.

Tutti vorremmo smetterla di lavorare dove lavoriamo, dedicarci ad attività più rilassanti e che

non ci facciano tornare a casa la sera stressati, nervosi, soli. Ma quanti sono disposti a cambiare

111

drasticamente le proprie abitudini, i propri ritmi, per dedicarsi ad un lavoro che non dà garanzie

né sicurezze? Pochi, se non pochissimi.

Come se in realtà le garanzie e sicurezze che crediamo di possedere siano effettivamente tali…

Si può dunque creare una nuova forma di economia basata sulle persone e sulla cultura? Si

possono riaffermare sistemi economici legati alla comunità e al dono? Si può effettivamente

guardare all’agricoltura “nuova” come a quel motore che può rendere il nostro futuro un futuro

migliore?

Non lo so e non ho la presunzione di poterlo sapere, né di poterlo dimostrare.

I fenomeni di downshifting stanno prendendo sempre più piede, ma il processo è lento e la

maggior parte delle persone forse non è ancora pronta ad affrontare un cambiamento. Tanti

aspetti della nostra società sono già permeati da situazioni in cui la comunità e il dono la fanno

da padrone, soprattutto online. Si pensi per esempio ai fenomeni legati al crowdfunding, o

banalmente, al peer-to-peer.

Spesso le comunità online sono più affiatate di quelle reali: riacquisire la fiducia negli altri

nella vita reale, dopo secoli di “tutti contro tutti”, di individualismo, è decisamente complicato,

e in questo i fenomeni legati allo scambio in rete, ai forum, a chi passa le notti sveglio per

garantire i sottotitoli in italiano delle serie televisive straniere, possono fornire un valido aiuto

a ripristinare dei comportamenti che sono inscritti nella nostra indole, o nella nostra “coscienza

collettiva”, come alcuni tendono a chiamarla.

Le possibilità che offre l’agricoltura, da questo punto di vista, sono infinite e, cosa che si fatica

a considerare, non solo in contesti rurali. Spesso infatti si pensa che agricoltura sia

necessariamente sinonimo di una realtà bucolica e “fuori dal tempo”, che non ha attinenza con

la realtà. Ma non è assolutamente così ed anzi, la diffusione di pratiche di coltivazione urbana

ne è la prova. Vivere con un po’ di natura in più anche nelle città è stato notato come sia

portatore di benefici evidenti per la comunità cittadina e questo possa portare a dei risvolti

interessanti anche da un punto di vista meramente economico. Come già Barberis faceva notare

alle soglie del nuovo millennio:

«L’agricoltura urbana, se rappresenta una necessità vitale per il nuovo urbanesimo orticolo dei

Paesi emergenti e in via di sviluppo, costituisce anche una chance per il vecchio urbanesimo

112

dell’occidente sviluppato. L’idea di riportare l’attività agricola-forestale dentro la città,

rivitalizzando le aziende che ancora sopravvivono nello spazio urbano, oppure destinando alla

coltivazione una parte degli spazi che si rendono liberi a causa della dismissione di complessi

industriali e commerciali e in occasione dell’attuazione di progetti di rinnovo urbano, ovvero

rilanciando la tradizione degli orti urbani, non è più considerata una proposta folkloristica, ma

un obiettivo concretamente perseguibile delle politiche urbanistiche e sociali»179.

Non solo.

Le comunità stanno risorgendo ma non siamo capaci di rendercene conto, o forse la stragrande

maggioranza di noi ha semplicemente il dubbio che ciò non sia vero, dopo secoli a pensare

ognuno per sé. Forse ha semplicemente paura perché non è abituata all’idea di non essere sola.

Indipendentemente da tutto ciò, però, sono tanti, come ho cercato di mostrare, gli aspetti che

fanno presagire come questo cambiamento sia in corso. Il processo è lento ancora ma ci si sta

muovendo in una direzione che permette lo sviluppo futuro di tante realtà caratterizzate proprio

da quegli aspetti che il processo di industrializzazione, il capitalismo e la globalizzazione,

hanno cercato di eliminare: la comunità, la solidarietà, il dono, il luogo, la lentezza…

Sicuramente tante teorie economiche che sottendono questo cambiamento sono esagerate,

deprecabili e, probabilmente, di difficile, se non impossibile, attuazione. Ciò non toglie che

esse rappresentino una presa di coscienza che qualcosa di alternativo a ciò che abbiamo

imparato a conoscere e, a seconda dei casi, amare o odiare, sia possibile. E per quanto sia nella

natura delle nuove teorie il voler cancellare il passato in favore di qualcosa di nuovo (o, come

in questo caso, di cancellare il passato recente in favore di un passato remoto), personalmente

credo che la soluzione non sia abbattere tutto ciò che fin qui si è costruito.

Come nel mito della biga alata narrato da Platone, infatti, un cavallo bianco tira da un lato la

biga e un cavallo nero la tira nel verso opposto; è compito dell’uomo trovare l’equilibrio

necessario per governare le forze opposte e percorrere la strada che reputa migliore.

La decantata “fine del capitalismo” potrebbe non essere una fine in quanto tale, ma la possibilità

di integrare ciò che il capitalismo ha rappresentato nel corso di questi due secoli con ciò che si

è voluto cancellare dalla società in favore di esso.

179 C. Barberis (a cura di), Ruritalia, la rivincita delle campagne, Roma, Donzelli editore, 2009, p.182.

113

L’integrazione, da sempre, è la chiave che permette alle società di andare avanti: far propria

una novità e renderla parte della cultura che ci contraddistingue.

E in questo si può dire che noi italiani siamo dei campioni.

Come fa notare Guarracino, del resto:

«Più che per quanto gli è originario, il Mediterraneo si definisce come un mondo di nuovi

venuti, che finisce per accogliere e far propria qualsiasi cosa, come se da sempre fosse stata sua.

Autenticamente mediterranei si diranno perciò gli uomini che, avendo compreso questo gioco

e le sue regole, assimilano tutto da tutti, per poi rimanipolarlo a modo loro. Ciò che appare

tipicamente mediterraneo, nelle popolazioni umane come pure nelle piante, si rivela spesso un

intruso relativamente recente e ben acclimatato. Il cosmopolitismo sembra allora un carattere

permanente della mediterraneità»180.

Ed è proprio questa capacità di accogliere la diversità ciò che forse abbiamo scordato e che

oggi, anche alla luce della grande ondata di immigrazione, si fa sempre più attuale e necessario.

Se impariamo a capire che la diversità è ricchezza possiamo tornare a crescere, non solo in

senso economico, ma anche evolutivo, un termine, questo, che rappresenta, come lo definisce

il dizionario Garzanti, uno «sviluppo lento e graduale, cambiamento da una forma a un’altra,

generalmente più completa e perfetta»181.

Una lentezza e una gradualità che l’agricoltura e le attività a lei connesse ci insegnano a

conoscere. Sta a noi imparare a utilizzare queste conoscenze nel migliore dei modi per rendere

il mondo in cui viviamo più perfetto di come l’abbiamo conosciuto finora.

E per quanto questo discorso possa sembrare utopistico, ci sono persone che stanno lavorando

quotidianamente per renderlo possibile e non solo: vogliono raccontarlo e diffonderlo ed ora

possono farlo coinvolgendo anche chi è lontano da queste realtà.

«Il pensiero meridiano è radicato qui, nella resistenza della molteplicità delle voci, delle vie,

delle dignità, nella capacità di rovesciare in risorse quelle che nell’ottica primitiva dello

sviluppano sembrano solo vincoli, limiti e vizi. Esso deve custodire la confidenza con forme di

vita immobili, lente, stratificate [...]. A fronte della monocromia della velocità i mille colori che

si possono percepire solo quando la vita rallenta; a fronte dell’incontinenza del tempo reale, il

valore della distanza fisica e culturale dell’altro, dell’incomprensibilità del suo orgoglio, della

difficoltà di capirlo, del rischio di avvicinarlo. [...] La scommessa intorno alla quale tutto ruota

180 S. Guarracino, Mediterraneo, Immagini, storie e teorie da Omero a Braudel, Milano, Mondadori, 2007, p.95. 181 Evoluzione, http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=evoluzione, ultimo accesso 01/07/2015.

114

è che il sud riesca a pensarsi, a guardare se stesso con la forza di un sapere che in qualche forma

già possiede. La chiave sta nel ri-guardare i luoghi, nel duplice senso di aver riguardo per loro

e tornare a guardarli»182.

Forse semplicemente dobbiamo cercare di guardare oltre il nostro naso per poter notare quei

piccoli cambiamenti che stanno avvenendo su scala globale e che, per quanto piccoli e

insignificanti possano essere in confronto a quanto di negativo viene quotidianamente

perpetrato, rappresentano di fatto una novità importante.

Forse dovremmo semplicemente imparare che niente è infinito e che «se il mondo occidentale

andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle,

con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti»183.

182 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Roma, editori Laterza, 1998, pp.6-9. 183 Edmondo Berselli, L’economia giusta, Torino, Einaudi, 2010, p.99.

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