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La politica di Monti - Mondoperaio completi/01-2012.pdf · Per dotare l’Unione degli strumenti...

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// 3 // mondoperaio 1/2012 //// editoriale >>>> editoriale La politica di Monti >>>> Gianfranco Polillo Q ual è il compito effettivo del governo Monti? Comple- tare il risanamento alla luce delle nuove turbolenze internazionali? Rimettere in moto lo sviluppo, colmando una precedente lacuna, nel segno dell’equità? Tutto questo, naturalmente. Ma non solo. C’è un dato più di fondo che deve essere considerato, perché sarà poi questo – almeno così si spera – che condizionerà più da vicino il nostro futu- ro. Il governo Monti rappresenta la fine di un ciclo politico. Non ci riferiamo tanto a Silvio Berlusconi, che – almeno presumiamo – resterà comunque sulla scena, nelle forme che saranno la risultante dei futuri equilibri di sistema. Ci riferiamo invece al definitivo tramonto di quella “guerra fredda” che in Italia si è trascinata ben oltre la caduta del Muro di Berlino, condizionando ogni aspetto della vita non solo politica nazionale. Basti pensare allo scontro continuo tra maggioranza ed opposizione, all’uso improprio di dos- sier, al modo stesso con cui si sono formati gli schieramen- ti contrapposti: aggregati di forze eterogenee senza alcun minimo comun denominatore, eserciti di ventura costituiti- si più per sconfiggere il “nemico” che per confrontarsi ed anche scontrarsi con il proprio “avversario”. Almeno, durante il periodo “vero” della “guerra fredda”, c’e- ra un elemento di salvaguardia: quella “doppiezza”, criticabi- le quanto si vuole sul piano dell’etica, ma in grado di garan- tire i cardini dell’equilibrio democratico ed offrire all’Italia una prospettiva di serena convivenza (pur tra mille difficoltà e tentativi di depistaggio). Nella fase più recente, a causa del- la pressione delle forze più massimaliste (la Lega da un lato, l’IDV dall’altro) anche questa forma di compromesso era venuta meno, impedendo ogni azione capace di rimettere il paese sulla giusta carreggiata. Preoccupazione di ciascuno era quella di difendere il proprio blocco sociale di riferimento, senza concessione alcuna per coloro che erano considerati alleati naturali di quello avverso. Tipico il caso delle riforme del sistema pensionistico, più vol- te impedite dalla convergenza tra la Lega Nord, preoccupata di difendere solo le proprie ènclaves territoriali (dove si con- centra il massimo delle pensioni di anzianità), ed i settori del PD più legati all’esperienza della CGIL. O l’analogo caso delle professioni: ordini chiusi, a volte fortezze inespugnabi- li, contro le quali era destinato ad infrangersi ogni tentativo non di penalizzazione, ma di modernizzazione. E tutto ciò sotto gli occhi di un’Europa che non capiva più quali erano le regole del gioco, e non si capacitava dell’esistenza di vecchi istituti nati in epoche lontane e non più rispondenti alle esi- genze di un mondo che da allora era talmente cambiato da risultare irriconoscibile. Pensiamo solo allo Statuto dei diritti dei lavoratori. Chi non accetta nemmeno di discutere dell’argomento ha dimenticato la genesi di quell’istituto. Ad esso Giacomo Brodolini dedicò gli ultimi anni di una vita spesa nel difendere i lavoratori. Nel suo vissuto di dirigente sindacale e di autorevole esponente del PSI era vivo un passato di discriminazione contro i sinda- calisti più combattivi: non solo la FIAT di Vittorio Valletta, con la decimazione dei quadri artefici delle grandi lotte, ma i mille episodi che in quegli anni – le grandi vertenze operaie del 1969 – rischiavano di ripetersi. Lo Statuto introdusse la democrazia nelle fabbriche italiane e tutelò il diritto-dovere di rappresentare e difendere gli interessi dei più deboli. La situazione italiana è ancora quella degli anni ’70? Esiste ancora il pericolo, all’interno delle imprese, di una discrimi- nazione di carattere politico? Siamo veramente così diversi dalla Germania o dalla Francia? Ecco un dato che in Europa non può essere compreso. Ed allora l’interrogativo è: perché non riformare un istituto che, nel tempo, come tutte le cose umane, ha subito un processo degenerativo, traducendosi, spesso, in una forma diffusa di deresponsabilizzazione? Cer- to non è solo questo il problema che contribuisce ad abbassa- re il tasso di produttività. Ma non è facile – specie dopo il caso Marchionne – convincere gli altri della bontà di un siste- ma di relazioni industriali segnato da fratture profonde tra le diverse generazioni, o di ammortizzatori sociali troppo statici che non favoriscono il necessario ricambio produttivo grazie ad un processo di formazione continua ed il passaggio dei
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>>>> editoriale

La politica di Monti>>>> Gianfranco Polillo

Qual è il compito effettivo del governo Monti? Comple-tare il risanamento alla luce delle nuove turbolenze

internazionali? Rimettere in moto lo sviluppo, colmandouna precedente lacuna, nel segno dell’equità? Tutto questo,naturalmente. Ma non solo. C’è un dato più di fondo chedeve essere considerato, perché sarà poi questo – almenocosì si spera – che condizionerà più da vicino il nostro futu-ro. Il governo Monti rappresenta la fine di un ciclo politico.Non ci riferiamo tanto a Silvio Berlusconi, che – almenopresumiamo – resterà comunque sulla scena, nelle formeche saranno la risultante dei futuri equilibri di sistema. Ciriferiamo invece al definitivo tramonto di quella “guerrafredda” che in Italia si è trascinata ben oltre la caduta delMuro di Berlino, condizionando ogni aspetto della vita nonsolo politica nazionale. Basti pensare allo scontro continuotra maggioranza ed opposizione, all’uso improprio di dos-sier, al modo stesso con cui si sono formati gli schieramen-ti contrapposti: aggregati di forze eterogenee senza alcunminimo comun denominatore, eserciti di ventura costituiti-si più per sconfiggere il “nemico” che per confrontarsi edanche scontrarsi con il proprio “avversario”.Almeno, durante il periodo “vero” della “guerra fredda”, c’e-ra un elemento di salvaguardia: quella “doppiezza”, criticabi-le quanto si vuole sul piano dell’etica, ma in grado di garan-tire i cardini dell’equilibrio democratico ed offrire all’Italiauna prospettiva di serena convivenza (pur tra mille difficoltàe tentativi di depistaggio). Nella fase più recente, a causa del-la pressione delle forze più massimaliste (la Lega da un lato,l’IDV dall’altro) anche questa forma di compromesso eravenuta meno, impedendo ogni azione capace di rimettere ilpaese sulla giusta carreggiata. Preoccupazione di ciascuno eraquella di difendere il proprio blocco sociale di riferimento,senza concessione alcuna per coloro che erano consideratialleati naturali di quello avverso.Tipico il caso delle riforme del sistema pensionistico, più vol-te impedite dalla convergenza tra la Lega Nord, preoccupatadi difendere solo le proprie ènclaves territoriali (dove si con-

centra il massimo delle pensioni di anzianità), ed i settori delPD più legati all’esperienza della CGIL. O l’analogo casodelle professioni: ordini chiusi, a volte fortezze inespugnabi-li, contro le quali era destinato ad infrangersi ogni tentativonon di penalizzazione, ma di modernizzazione. E tutto ciòsotto gli occhi di un’Europa che non capiva più quali erano leregole del gioco, e non si capacitava dell’esistenza di vecchiistituti nati in epoche lontane e non più rispondenti alle esi-genze di un mondo che da allora era talmente cambiato darisultare irriconoscibile.Pensiamo solo allo Statuto dei diritti dei lavoratori. Chi nonaccetta nemmeno di discutere dell’argomento ha dimenticatola genesi di quell’istituto. Ad esso Giacomo Brodolini dedicògli ultimi anni di una vita spesa nel difendere i lavoratori. Nelsuo vissuto di dirigente sindacale e di autorevole esponentedel PSI era vivo un passato di discriminazione contro i sinda-calisti più combattivi: non solo la FIAT di Vittorio Valletta,con la decimazione dei quadri artefici delle grandi lotte, ma imille episodi che in quegli anni – le grandi vertenze operaiedel 1969 – rischiavano di ripetersi. Lo Statuto introdusse lademocrazia nelle fabbriche italiane e tutelò il diritto-dovere dirappresentare e difendere gli interessi dei più deboli.La situazione italiana è ancora quella degli anni ’70? Esisteancora il pericolo, all’interno delle imprese, di una discrimi-nazione di carattere politico? Siamo veramente così diversidalla Germania o dalla Francia? Ecco un dato che in Europanon può essere compreso. Ed allora l’interrogativo è: perchénon riformare un istituto che, nel tempo, come tutte le coseumane, ha subito un processo degenerativo, traducendosi,spesso, in una forma diffusa di deresponsabilizzazione? Cer-to non è solo questo il problema che contribuisce ad abbassa-re il tasso di produttività. Ma non è facile – specie dopo ilcaso Marchionne – convincere gli altri della bontà di un siste-ma di relazioni industriali segnato da fratture profonde tra lediverse generazioni, o di ammortizzatori sociali troppo staticiche non favoriscono il necessario ricambio produttivo graziead un processo di formazione continua ed il passaggio dei

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lavoratori dai settori maturi e con scarse prospettive di svi-luppo a quelli più dinamici ed in grado di reggere alla con-correnza internazionale.Gli esempi citati – pensioni e mercato del lavoro – dimo-strano da un lato la debolezza di un approccio prevalente-mente ideologico, dall’altro l’esigenza di un passaggio ver-so forme di governo effettivo della società italiana lungouna via di modernizzazione. Questo è il paradosso di ungoverno tecnico che, per essere coerente con la sua natura,deve fare cose che la vecchia politica non poteva fare a cau-sa delle proprie interne contraddizioni: e che quindi, suomalgrado, assume un profilo altamente politico, se politicadeve significare risolvere i problemi del paese nell’interessedi lungo periodo dei cittadini. Di lungo periodo: questa è lascommessa di quel che resta di questa legislatura. Se durerà– e noi ne siamo quasi certi – dopo il tempo del sacrificioverrà quello del raccolto.Il problema è passare ora dal contenimento, indispensabileper far fronte ad un’emergenza che rischiava di determinareil default finanziario del paese, a quello dello sviluppo. Laprima cosa da fare è recuperare un ruolo diverso a livelloeuropeo. L’Italia, non va dimenticato, presenta un deficit dibilancio che è superiore solo a quello tedesco. Ha ancora undebito troppo elevato, ma esso è il frutto dello stock accu-mulato durante il periodo della “guerra fredda”, sia quellainternazionale che quella locale. Esso è cresciuto, tuttavia,ad un ritmo inferiore a quello di tutti gli altri paesi. Al tem-po stesso lo sforzo per il consolidamento finanziario e lamodernizzazione dei suoi istituti di base è stato rilevante.Siamo quindi più europei di quanto non lo eravamo nei mesiprecedenti. E di conseguenza in grado di partecipare a pie-no titolo al confronto sulla nuova governance comunitaria.Per dotare l’Unione degli strumenti indispensabili per farfronte alla grave crisi internazionale dovremo operare per-ché si affermi una linea condivisa che superi la visioneristretta di alcuni nostri partner. Fondo salva Stati, ruolo del-la BCE, convergenza delle politiche fiscali: sono questi igrandi capitoli che dovranno portare alla necessaria revisio-ne di regole ormai obsolete.Sul piano interno, invece, esistono emergenze che devonoessere ancora affrontate. Tre le priorità: allentare la strettasul credito, accelerare i pagamenti della pubblica ammini-strazione, riformare il mercato del lavoro. Sullo sfondo, acausa dei tempi tecnici necessariamente più lunghi, la spen-ding review quale presupposto per una riduzione non occa-sionale della spesa pubblica, specie di parte corrente, insie-

me alla lotta contro l’evasione, al fine di recuperare risorseper abbattere il prelievo fiscale. L’insieme di queste misuremira a favorire la crescita, con il corollario del forte spronedella concorrenza.Ma molto dipenderà dal quadro internazionale e dalla spintache dovrà venire da una “locomotiva” che al momento sem-bra ancora ferma alla stazione. Potremmo, almeno in parte,contare sugli Stati Uniti, approfittando dell’apertura dellacampagna elettorale. Ma le difficoltà di quel paese sono evi-denti. Ed allora non resta che sperare in un ripensamento del-la politica tedesca, la cui economia continua a macinare pri-mati sia in termini di occupazione che di crescita delle espor-tazioni. Angela Merkel si trova oggi tra l’incudine ed il mar-tello. Non vuole aprire il mercato interno alle esportazionidegli altri paesi membri dell’Eurozona, per evidenti preoc-cupazioni di carattere mercantile. Ed al tempo stesso è restìaa finanziare il debito degli Stati sovrani con l’istituzione difondi di carattere comunitario. Un’impasse che rischia direndere sempre più debole la prospettiva dell’euro, e – qua-lora non si trovasse una soluzione – di tradursi in una déba-cle che ancor prima di essere economica e finanziaria sareb-be politica.A coloro che vagheggiano la fine della moneta unica, delresto, bisognerebbe ricordare gli insegnamenti della storia.Oggi la Germania è forte sia perché ha la tranquillità delmercato unico, dove riversa gran parte della sua produzionein eccesso rispetto alla dinamica del mercato interno, sia per-ché ha una forza politica alle spalle – si pensi solo allo scu-do nucleare francese ed americano – che le consente di rie-quilibrare il rapporto di forza con il suo ingombrante vicino.Ma se tutto ciò venisse meno la Russia di Putin emergerebbecome unica vera potenza continentale, forte com’è degliarsenali accumulati in passato, del controllo di enormi riser-ve energetiche, e degli attivi della bilancia dei pagamenticonseguiti.Queste considerazioni di natura geo-politica dovrebberorientrare nelle valutazioni di medio e lungo periodo, sempreche non si vogliano ripetere gli errori del passato. La crisidel 1929 – ha teorizzato un illustre storico americano, Kind-leberger – fu causata anche dalla mancanza di consapevo-lezza. Gli Stati Uniti, dopo la fine della prima guerra mon-diale, erano divenuti la potenza egemone dell’Occidente.Ma non si resero conto che l’egemonia comportava sia one-ri che onori. Pensarono solo al proprio interesse immediato,trascurando tutto il resto. Fino all’inevitabile brusco e tragi-co risveglio.

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Colosseo

Restaurare una rovina>>>> Bruno Zanardi

Che senso ha la sollevazione di granparte della stampa italiana verso

l’ipotesi che lo Stato possa recedere dalcontratto con cui un noto industriales’impegna a dare 25 milioni di euro perrestaurare il Colosseo ponendo comecondizione dell’elargizione il monopoliosul logo del monumento per un certo nu-mero di anni? E’vero che senza quei sol-di il Colosseo presto crollerà? O siamo difronte alla solita polemica, tra dilettanti-stica e moralistica, che conferma una vol-ta di più il ritardo culturale del paese?Andiamo con ordine a vedere comestanno le cose.Diciamo allora che il Colosseo è certa-mente in uno stato di conservazionepessimo. Ma diciamo anche che do-vranno passare millenni prima che il Co-losseo crolli, restaurato o no. Chiariamoinoltre che il Colosseo è in una condi-zione conservativa pessima perché neimillenni si è trasformato in una gloriosarovina lontanissima dalla facies del mo-numento che fu. E aggiungiamo infineche conservare una rovina è un ossimo-ro. Il che consente di concludere comesia la stessa idea di restaurare una rovi-na a non funzionare, a essere cioè dilet-tantesca: ancor più dilettantesca quandosi voglia intervenire su quel monumen-to con un restauro tra critico ed estetico,come sempre sono i restauri d’oggi.Cioè scambiando per opera di conserva-zione una cosmesi superficiale condottacon un gusto più o meno educato, la cuidurata nel tempo è sempre brevissima,ancor più quando si tratti d’un monu-mento all’aperto.Ma allora perché da parte di tutti è av-

vertita in maniera pressante l’esigenza diassicurare la conservazione materialedell’arte di questo monumento? Dipen-de dal fatto che «in un’epoca in cui l’uo-mo comincia ad avvertire la terribile no-vità storica dell’esaurimento del pro-prio ambiente di vita, certi valori che, co-me appunto l’arte del passato, testimo-niano della possibilità che il fare umanosia integrativo, e non distruttivo, dellabellezza del mondo, cominciano ad as-sumere, accanto a quella di oggetti di stu-dio o di godimento estetico, la nuova di-mensione di componenti ambientali an-tropiche, altrettanto necessarie, per ilbenessere della specie, dell’equilibrioecologico tra le componenti ambientalinaturali», come scrisse Giovanni Urba-ni trent’anni fa, inascoltato da tutti, ben-ché la fondazione di una “ecologia cul-turale” appaia sempre più la chiave divolta per la tutela possibile del patrimo-nio artistico: perché porre in questo mo-do il problema significa affrontarlo sulversante della società, sul versante cioèin cui il destino dell’arte del passato sidecide davvero in concreto.

Ma torniamo al Colosseo: se questo è,come è, parte di quel singolare sistemaecologico di natura antropica che è l’in-dissolubile insieme di patrimonio stori-co-artistico e ambiente, quello in cui ilprimo si è andato stratificando in mil-lenni, diviene un errore, prima che unasottomissione indecorosa, che lo Statoaccetti l’elemosina di 25 milioni di europer restaurare un manufatto che, conser-vativamente, ha solo bisogno d’una buo-na manutenzione ordinaria. Una sotto-missione indecorosa perché quei 25 mi-lioni sono con ogni evidenza una cifra deltutto presa a caso (per quale motivo 25 enon 30 o 19?), e sono comunque una mi-seria per entrare in possesso di un logo,appunto quello del Colosseo, notissimoin tutto il mondo, ciò che bene sa chiun-que sia esperto di marketing, ma che nonsi sa nelle stanze ministeriali; e perchèquei 25 milioni servirebbero per esegui-re il restauro estetico d’una rovina, ap-punto lo stato attuale del Colosseo, per lacui comprensione come testimonianzastorica e come opera d’arte, così comeper il suo apprezzamento estetico, si po-

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trebbe azzardare che per l’estetica di que-sta nobile reliquia non avrebbe alcuna ri-levanza se perdesse all’improvviso unoo dieci dei suoi archi, o magari crollas-se per intero, rendendosi così rovina inassoluto; perché, infine, quei 25 milioniservirebbero per un restauro alla con-clusione del quale nessuno può dirsi si-curo che non si trovi chi (più molti cheuno) non si dica offeso nel proprio sen-timento estetico di fronte al Colosseo pu-lito, quindi reso in un’immagine radi-calmente diversa dall’immagine tràdita.Ma il restauro del Colosseo, l’ho appenadetto, sarebbe anche un errore. Lo sa-rebbe per l’assoluta celebrità del monu-mento, quindi per l’impatto planetarioche l’intervento avrebbe, esportando nelmondo il colossale fraintendimento checaratterizza da sempre il restauro italia-no, secondo il quale conservazione e re-stauro estetico coincidono: come non è inalcun caso, visto che, per fare un solo ca-so, le puliture sempre accelerano più o

meno gravemente il degrado del manu-fatto su cui si interviene.Il fatto è che in una logica razionale e co-erente di tutela – quella che mai si è vi-sta finora sorgere all’orizzonte dell’a-zione d’un qualsiasi ministro – quanto vatutelato dovrebbe essere l’insieme del pa-trimonio storico e artistico, non mai ilsingolo monumento. Ciò se non altro per-ché è per insiemi che le scienze ragio-nano, mai su casi individui, come sem-pre è per i restauri estetici, quello del Co-losseo compreso. A meno di non crede-re che la scienza serva a dare più appealestetico alle opere.E lo sponsor? Premesso che quei moltisoldi sarebbero comunque utilissimi(sempre che non vengano sprecati in so-vradimensionate indagini scientifiche,consulenze di esperti resi tali dal ruolo enon dalla competenza, e lavori di re-stauro inutili), lo sponsor in questa vi-cenda è vittima e carnefice. Vittima delritardo culturale dell’Italia, vale a dire

dell’assenza di una razionale e modernapolitica di tutela del patrimonio artistico,frutto dall’altrettanto storica assenzad’un qualsiasi disegno razionale e coe-rente di sviluppo e innovazione: nel ca-so, di una ottocentesca idea estetizzantedel restauro, che nel nero dei depositi deltempo, e nel far divenire chiaro quellostesso nero con una pulitura, vede rea-lizzato «l’opus alchemico» che dalla ni-gredo della morte passa all’albedo dellarinascita. Ma anche carnefice, perché ap-profittando del sempre più insostenibileritardo culturale del paese ha acceleratoi tempi della ormai probabilissima sven-dita, poi dell’abbandono a se stesso, delnostro patrimonio storico e artistico.Svendita, prima dell’abbandono a sestesso, che – all’oggi – sembra essere l’u-nica soluzione che una politica fuoridalla realtà e strutture amministrativeinefficienti sono in grado di dare al pro-blema. A cominciare dal problema delColosseo.

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Ischia

L’isola dei fari sei>>>> Domenico Ambrosino

Sull’isola d’Ischia due ex democristianisi apprestano a realizzare, in pura “zup-pa del golfo”, le “convergenze paralle-le”, l’invenzione morotea che teorizzaval’incontro politico tra soggetti opposti nelgoverno del paese: Giuseppe Ferrandinodetto Giosi, sindaco di Ischia Porto econsigliere provinciale del PD, e Dome-nico De Siano, già sindaco di LaccoAmeno e deputato, attualmente consi-gliere comunale, provinciale e regiona-le del PDL, entrambi provenienti dallaDC, hanno varato un accordo politicocon tre obiettivi principali: composizio-ne di liste comuni nelle prossime elezioniche si tengono a primavera a Ischia Por-to, Casamicciola e LaccoAmeno, tre deisei comuni dell’Isola Verde; fusione am-ministrativa dei predetti tre comuni; isti-tuzione del comune unico dell’isola d’I-schia. Obiettivo, quest’ultimo, già falli-to col referendum promosso il 6 giugno2011 scorso, quando non fu raggiunto ilquorum del 50% dei votanti previsto dal-la legge regionale (andarono alle urne so-lo il 28,5% degli elettori, precisamente14.855 sui 52.948 aventi diritto). Per leprossime elezioni, nei comuni dove si vo-terà, è già stato raggiunto l’accordo: aLacco Ameno il PDL appoggerà la listaunitaria e la candidatura a sindaco del-l’attuale capo dell’opposizione, CarmineMonti, un moderato che alle scorse ele-zioni provinciali ha appoggiato il PD eFerrandino proprio contro De Siano; aCasamicciola il PDL sosterrà come sin-dacoArnaldo Ferrandino, esponente delPD cittadino; a Ischia Porto gli attualiconsiglieri di opposizione del PDL for-meranno liste civiche a sostegno delsindaco uscente. Per quanto riguarda l’o-biettivo finale del comune unico, De Sia-no & Co si sono già attrezzati, propo-nendo e facendo approvare, nel corsodell’ultima “finanziaria regionale”, unemendamento che abolisce il quorum neireferendum.

Il pluriconsigliere Domenico De Sianocosì spiega il grande accordo: “Sonotempi difficili: in Italia in generale, adIschia in particolare. C’è bisogno di ri-sposte concrete alle domande che lagente ci pone per dare forza e fiducia al-le istituzioni. Perciò abbiamo accanto-nato le divergenze politiche per incon-trarci nelle soluzioni amministrative checi uniscono. Che hanno un nome preci-so sancito in un programma che sarà pre-sentato ai cittadini elettori: gestione uni-ca dei servizi sul territorio (riscossionetributi, risorse idriche e termali, raccol-ta rifiuti, tassa di soggiorno, trasporti ma-rittimi e terrestri); e gestione unitaria del-le risorse e potenzialità territoriali (ur-banistica, porti, viabilità, sanità). E’ ungrande progetto che guarda al futuro perassicurare all’isola nuovo sviluppo ericchezza, per confermare e rafforzare ilsuo ruolo di leader del turismo inCampania con la difesa dell’ambiente eservizi di alta qualità”.Approfondisce Giosi Ferrandino: “ Lacrisi finanziaria che mette sempre più arischio i bilanci delle nostre realtà co-munali rappresenta una grave minacciaper l’isola e la sua economia turistica,trainante per l’intera regione.A fronte diquesta minacciosa emergenza i cittadinida tempo sollecitano un ruolo più auto-revole dell’isola d’Ischia, e soprattuttoamministrazioni più unite, di larga mag-gioranza, capaci di attuare provvedi-menti urgenti e necessari, anche se im-popolari. I punti dell’intesa saranno chia-ri e alla luce del sole, con un programmaelettorale sottoscritto in anticipo, dopoaver ascoltato le associazioni di catego-ria, culturali e di volontariato presenti sulterritorio. Le interpretazioni negative suquesta intesa sono fuorvianti e frutto diuna scarsa conoscenza delle problemati-che locali. In questa visione verrà quin-di chiesto ai partiti un passo indietro nel-la prossima campagna elettorale per fa-vorire un’esperienza esclusivamente ci-vica, indispensabile per semplificare ilquadro amministrativo locale”. Infine, laprecisazione politica: “Inutile replicare achi paventa, in modo fantasioso e stru-mentale, cambi di casacca e passaggi ad

altre formazioni politiche: siamo e re-stiamo con profonda convinzione nel PDe nel centro-sinistra”.Ci sarebbe molto da dire, specialmentesulla “difesa dell’ambiente” evocata daDe Siano, visto che, come primo risultatodell’intesa, ad Ischia Porto si è avuta lanomina di un assessore “al condono” –di estrazione PDL – incaricato di secon-dare gli sforzi in atto per non eseguire ledemolizioni di edifici abusivi già san-zionate da sentenze passate in giudicato(se ne è occupata la stampa nazionale).Per Luigi Rispoli, ischitano doc ed ordi-nario di Architettura presso l’Universi-tà Federico II, “i due affermano più o me-no quanto segue: le questioni irrisoltedell’isola sono tante, complesse e diffi-cili; nessuno dei due schieramenti con-trapposti riesce a trovare le risposte giu-ste, al di là delle (presunte) differenze;questo però non è un buon motivo per an-darcene tutti a casa; invece, mettiamocitutti insieme, facciamo un unico cena-colo, istituiamo il Comune Unico e ri-solviamo tutto. Funziona solo nella lo-gica della ‘geometria non euclidea’, o sesi vuole della ‘aritmetica non conven-zionale’, in cui zero più zero non fa ze-ro, ma dà una somma finita. Quando ilmercato prende il posto della politica, co-me accade nell’Italia di questi anni, nonci si può meravigliare più di nulla. Ma iopreferisco meravigliarmi ed indignarmiancora”.Riflette Franco Borgogna, per anni con-sigliere comunale socialista a Ischia Por-to: “Non inganni la dichiarata volontà dicostituire il Comune unico, obiettivoche ci vede d’accordo coi giovani delweb ed i settori più aperti della societàisolana. De Siano e Ferrandino nel pas-sato referendum non si sprecarono più ditanto per portare alle urne i loro elettori. Il fatto è che allora non era ancora pron-to questo patto scellerato che oggi rendeoperativa la saldatura di tutti gli interes-si lobbistico-affaristici dell’isola. La ve-rità è che si vuole un Comune unicospaccato tra comuni ricchi e comuni po-veri; si vuole un’isola divisa tra grandigruppi monopolistici e la massa di piccolie medi esercizi alberghieri e commer-

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ciali. I socialisti, che 30 anni fa ad Ischiarappresentarono una concreta alternativaalla Democrazia Cristiana imperante, eche poi, come nel resto d’Italia, subiro-no l’onta della diaspora, si opporranno inogni modo a questo disegno perverso”.I partiti – come chiede Ferrandino – sifaranno da parte per consentire questasperimentazione politica ischitana che DeSiano vede come “un laboratorio che pre-sto sbarcherà in continente, alla RegioneCampania come a Roma”? Il PDL sem-bra aver dato via libera al progetto.Apar-te qualche “scheggia residuale” (sono an-cora parole di De Siano) il partito non po-ne ostacoli. Più travagliato il “si” del PD,e per le rimostranze avanzate da altrigruppi (SEL è scesa in campo con NikiVendola in persona per opporsi con vee-menza al progetto; lo stesso hanno fattoi Verdi con duri interventi del commis-sario provinciale Francesco Borrelli) eper la presa di posizione contraria di al-tri esponenti politici ischitani del partito.Franco Regine, sindaco di Forio, il co-mune più esteso dell’isola, non esclude

l’uscita dal PD se venisse data via libe-ra al disegno Ferrandino – De Siano: “E’inutile contrabbandare per amministrati-va una scelta che è squisitamente politi-ca, fatta tra due potentati e calata dall’altosulla gente e il territorio. Noi non faremoda ruota di scorta a nessuno. Del resto èemblematico l’emendamento alla leg-ge regionale sul referedum: voglionofar entrare dalla finestra la decisione giàpresa dagli ischitani lo scorso giugnoquando hanno respinto la proposta delComune unico. Gli strumenti per intesegestionali intercomunali già esistono.Bisogna solo avere la volontà politica dimetterli in pratica. Qui si vogliono cam-biare artatamente le regole del gioco perpuri fini di potere”.Il commissario provinciale del PD An-drea Orlando e il segretario regionale En-zoAmendola non sanno proprio che pe-sci prendere. Dopo numerosi incontri aNapoli con Ferrandino, domenica 15sono sbarcati ad Ischia per capire megliola situazione e valutare l’onda del dis-senso. La partita non sembra chiusa.

Anche perché, nel frattempo, le altre for-ze politiche nazionali e locali escluse dal“patto d’acciaio” dei due politici alber-gatori (sia Ferrandino che De Siano ope-rano nel campo dell’ ospitalità alber-ghiera) si stanno organizzando per dar vi-ta a schieramenti alternativi.L’isola d’Ischia, una superficie com-plessiva di 46 kmq, 62.733 abitanti, 350aziende alberghiere, 40 mila posti letto,500 ristoranti, 4 milioni di presenze tu-ristiche registrate lo scorso anno, se-condo il tandem Ferrandino-De Sianoha nella Grosse koalition PDL-PD lagrande occasione per governare il pro-prio futuro: forseAngela Merkel, la can-celliera tedesca che ama l’isola, ha la-sciato qualche traccia politica durante lesue vacanze ischitane. “Non passerà”,riflette un vecchio pescatore, divenutopiccolo albergatore: “Litigiosità, rivali-tà e campanilismo sono propri dell’i-schitano. Altro che comune unico,Ischia resterà l’isola dei fari sei” (o deisei fari che dir si voglia, se si rinunciaalla battuta).

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>>>> craxi

Questa intervista su Craxi mi fu chiesta da Luca De Fusco,un regista teatrale che conosco da molto tempo, napole-

tano, socialista. L’intervista, insieme con quelle di molti altri,gli serviva per un documentario commissionatogli dalla Rai(io non ero più lì). Posi come condizione di fare una intervi-sta senza limiti di tempo e di averne la registrazione integrale.Cosa poi lui usasse per il documentario, per me era indiffe-rente; andava bene anche niente. Volevo cogliere l’occasioneper fissare alcune idee su Craxi che mi giravano per la testa.Così è avvenuto. De Fusco, il 17 giugno 2010, mi ha fattoquesta lunga intervista di cui ha usato alcuni stralci, per laverità ben valorizzati nel contesto. Il documentario è andatoin onda su Rai1 la sera del 23 gennaio 2011.

Comincio sempre con la stessa domanda: dieci anni faCraxi moriva come un signore che aveva commesso alcunireati e che lo Stato italiano non ricercava con particolareaccanimento; ma era, comunque, in contumacia. Non èstato trovato un altro assassino che scagionava questo col-pevole. I fatti sono rimasti gli stessi eppure dopo la suamorte l’atteggiamento dello Stato italiano verso la stessapersona è molto cambiato. Dato che non è cambiato lui,che è morto, evidentemente siamo cambiati noi. In checosa siamo cambiati noi? Perché guardiamo con occhitanto diversi?Non so se sia vero che il modo di guardare oggi a Craxi siaeffettivamente cambiato rispetto a dieci anni fa. Non mi rife-risco al segno – positivo o negativo – del giudizio. Tra l’altroio ritengo che anche allora, dieci anni fa e anche prima, nonci fosse una “demonizzazione” di Craxi così larga, diffusa.C’erano ampie aree di apprezzamento nelle quali Craxi era

guardato come un personaggio importante, da prendere sulserio. Non solo da parte dei suoi supporter e seguaci, maanche da parte di coloro che non ne condividevano le idee ele posizioni politiche. Mi riferisco tanto all’establishment,alla classe dirigente quanto all’opinione pubblica diffusa.Sotto questo aspetto non vedo una grande differenza fra ieri eoggi. Come non ne vedo nel punto di vista con cui si è guar-dato a Craxi: ancora una volta lo si è giudicato secondo icanoni della politica, e di una politica ancora in corso, aperta,e come se lui fosse vivo e vi prendesse parte. Può darsi che cisia stata una caduta delle animosità, che siano scomparse – onon si siano manifestate – quelle più schiumose e virulente equindi anche più visibili. Ma non ci si è neppure affacciati nelcampo di una riflessione storica su Craxi. A mio modestoavviso – è una premessa che non ripeterò, ma che ispira tuttoquello che dirò in seguito – questo è uno dei più seri difettidell’Italia. L’Italia non riesce a fare storia di se stessa: o viveuna passione accesa (in alcuni casi rabbiosa) nell’attualità,oppure dimentica.Oggi parliamo di Craxi. Ma prendiamo i personaggi dellapolitica, i grandi personaggi della politica dell’Italia dell’ul-timo secolo, senza tante distinzioni o classifiche di gradi-mento che ciascuno può avere. Prendiamoli per quello chesono stati. L’Inghilterra ha avuto Churchill ma non solo, laFrancia ha avuto De Gaulle e Mitterrand, ma non solo, la Ger-mania ha avuto Adenauer, Brandt, Schmidt, e la Spagna haavuto Franco e poi Gonzales e poi il re che ha garantito latransizione democratica. Tutti personaggi che hanno avutograndi responsabilità pubbliche, politiche: che hanno segnatofasi della storia dei loro paesi. Sono stati personaggi che nellapercezione dell’opinione pubblica, dei loro contemporanei

La comune sconfitta>>>> Claudio Petruccioli

Craxi è morto da dodici anni, nel corso dei quali non ci siamo mai dimenticati del suo ruolonella storia del paese ed in quella del movimento socialista. Col nostro lavoro, anzi, ne siamostati quotidianamente consapevoli, senza bisogno di celebrazioni anniversarie. E’ con questospirito che pubblichiamo l’intervista che segue, che ha il merito di collocare la vicenda delleader socialista nello scenario di una crisi politica di cui forse solo oggi si vede la conclusione

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come di noi che non lo siamo, hanno raggiunto degli obiettiviper il loro paese, sono stati riconosciuti per averlo fatto. InItalia nessuno si trova in questa condizione. Forse un po’ ilpovero De Gasperi. Anche lui, però, dopo cinque anni (e queicinque anni; dal ‘48 al ‘53) è stato cacciato dalla scena poli-tica: si è trovato nel completo isolamento. E tutti gli altri, siapure in modo diverso: Craxi sicuramente; ma Moro, e ancheBerlinguer. Berlinguer cercava di trovare delle vie d’uscita,un suo progetto, non c’è riuscito.

Però la morte di Berlinguer è stato gloriosaPerché è morto sul campo. Ho avuto la possibilità di frequen-tarlo, di ascoltare sue riflessioni anche molto libere: ti assicuroche l’ansia, l’inquietudine, in alcuni casi perfino l’amarezza diBerlinguer erano molto grandi. Percepiva che di là, in URSS,e di qua, si faceva fatica a tenere in piedi un progetto politico,ideale, come quello che lui cercava di affermare, in cui cre-deva. Moro, sappiamo come ci ha lasciato. Ma ancora prima:pensa, ad esempio, a Giolitti. Ha governato l’Italietta nella suabelle époque, nella prima fioritura della sua modernità, dellafiducia in se stessa, perfino del suo orgoglio nazionale. Il suoperiodo e il suo personaggio finisce nel fascismo, con l’insultodannunziano di “Cagoia” e il marchio salveminiano di “mini-stro della malavita”; non piaceva a nessuno. E il fascismo èfinito con Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto.Questo nostro sembra un paese che si entusiasma per questo oper quello: poi però alla fine lo liquida, lo dimentica. Io pensoperché non vuole mantenere memoria di sé.

È molto interessante: quindi tu dici che la storia dei lea-der politici italiani è una storia di sconfitte.E’ una storia di sconfitte e di insuccessi e di fallimenti e per-fino di demonizzazione. Comunque di disconoscimenti, maidi riconoscimenti. Mi riferisco, ovviamente, non ai seguaciche ciascuno ha, magari fanatici, ma alla media della opi-nione, al giudizio comune diffuso e condiviso.

È quella che io chiamo la sindrome di Masaniello.Masaniello, oppure Cola di Rienzo (qui dietro ci sono la via ela piazza che portano il suo nome). Io non voglio annegaretutto nella generica chiacchiera sulla “psicologia del popolo”;ma qualche riflessione sullo spirito pubblico di questo paeseviene la tentazione di farla.

E perché secondo te abbiamo questa capacità di man-giarci i nostri leader?

Mi scuso per la banalità della risposta: perché siamo moltopartigiani, perché non siamo disposti a sentirci parte di unacomunità nazionale, non crediamo di essere partecipi di undestino comune. Il leader partigiano può anche accenderegrandi entusiasmi; poi però, quando tenta di misurarsi dav-vero con i problemi generali della nazione, dello Stato, delgoverno, tutti cominciano a guardarlo con diffidenza: i suoiperché temono che possa “svirilizzarsi”, gli altri perchésospettano che voglia “comandare”. E’ anche il caso di Ber-linguer: seguì una sua linea , giusta o sbagliata che si vogliaconsiderarla, che si proponeva comunque di fare i conti conl’Italia, di considerarne i problemi, di darle delle risposte. Ilcontraccolpo, dal punto di vista del consenso, dell’entusia-smo, fu molto pesante.Dopo questa premessa, parliamo di Craxi. La premessa misembra necessaria perché penso che anche Craxi abbia cono-sciuto il dramma dei leader politici dell’Italia repubblicana edemocratica. Sto mettendo a posto le mie carte, le cose che hoscritto e che conservo. Mi sono reso conto che ho seguito,scrivendone per l’Unità e per Rinascita, tutti i congressisocialisti nel periodo in cui segretario del PSI è stato Craxi:era quasi una mia specializzazione. Ho vissuto trent’anni aMilano, Craxi l’ho conosciuto anche prima che diventasse ilsegretario del PSI. Sono convinto – e penso che sia ampia-mente documentabile - che aveva un progetto per il suo par-tito, ma anche – e prima ancora – per il paese. Era un progettoanche per se stesso: voleva diventare il leader di questo paese.Questo ai miei occhi è un merito. Un politico che ha un pro-getto per il suo paese e che non pensa anche di esserne luil’interprete non ha la stoffa del leader. Craxi ce l’aveva. Qual-che volta ha dovuto, o voluto, sacrificare il progetto, metterloin seconda fila rispetto al rischio che i vantaggi politici per ilsuo partito potessero essere compromessi o anche solo dimi-nuire.Faccio qualche esempio. Penso che per dare un giudizio fon-dato su Craxi bisogna fare una riflessione, uno studio moltoattento, di quella che possiamo definire la legislatura cra-xiana, dal 1983 al 1987. Fu anche la mia prima legislaturaparlamentare: il Parlamento nel quale ero stato appena elettocome primo suo atto ha dato la fiducia al primo governoCraxi. Ricordo benissimo anche l’emozione del momento.Nella ricostruzione di quel periodo sono rimasto molto col-pito dal secondo semestre del 1985. Si parla tanto di scontri,di guerra tra PSI e PCI, tra Craxi e Berlinguer. Certo, il con-fronto Craxi/Berlinguer va indagato a fondo: è cruciale percomprendere ambedue i protagonisti e segnò un decennio

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almeno della storia italiana. Ma qui voglio portare l’atten-zione su un altro punto. Nell’85 Berlinguer non c’era più, eramorto nell’84. Aveva lasciato un partito comunista non incondizioni brillantissime, fu eletto Natta che era il frutto di ungruppo dirigente incapace di esprimere una leadership, e chesoprattutto non sapeva dove andare, era privo di ogni strate-gia. In quel periodo il PCI era in difficoltà molto serie e gravi.Dopo il compromesso storico non aveva più una linea poli-tica. Per di più Berlinguer aveva lasciato l’eredità del refe-rendum sulla scala mobile, che si svolse nel giugno 1985 conl’esito noto. Dopo quel referendum Craxi era molto forte. Nelsecondo semestre dell’85, in ottobre, ci furono l’AchilleLauro e Sigonella: una vicenda internazionale che vide Craxiprotagonista e che ebbe fortissime ripercussioni anche di poli-tica interna. I repubblicani ruppero con la maggioranza, metàdella DC era con Spadolini, Craxi restò in piedi perché il PCI

si schierò con lui. Per essere precisi, in quella fase Craxi potésuperare senza danni la spaccatura della maggioranza che lososteneva grazie all’appoggio politico che gli veniva dallaopposizione di sinistra in virtù delle scelte che aveva fatto.Influivano anche altri fattori, diciamo meno evidenti, cheriguardavano lo scenario mediorientale: era un momentomolto delicato e impegnativo. Craxi aveva alle spalle il primobiennio della sua presidenza del Consiglio, aveva vinto ilreferendum sulla scala mobile, aveva dato prova di forte lea-dership, di autonomia, anche nell’affrontare momenti diffi-cili: tanto da indurre il PCI a sostenerlo. Il PCI era senza lea-dership, senza linea politica. Viene spontaneo chiedersi: per-ché Craxi non ha lanciato in quel momento l’idea dell’unitàsocialista? Non nel senso di dire facciamo l’unità socialistasubito, ma di indicare quell’obiettivo, di predisporsi a un saltoin quella direzione.

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Fra l’altro quello era il momento in cui la socialdemocrazia inEuropa era in forte ascesa, Mitterrand era decollato; era unmomento importante. Craxi avrebbe voluto essere il Mitter-rand italiano: era una idea che, oltre ad avere ben fissa intesta, leggeva ogni giorno nei commenti giornalistici e nelledichiarazioni più o meno polemiche. Ma Mitterrand, perdiventare il Mitterrand francese, ha sostenuto molte prove,alcune sfide le ha anche perse, però alla fine lo è diventato.Craxi alla fine del 1985 poteva aprire un processo, ce n’eranole condizioni favorevoli. Perché non l’ha fatto? Che cosa puòaverlo trattenuto? Ha probabilmente temuto di fare un passotroppo imprudente. Secondo me questo timore è stato alimen-tato soprattutto da una preoccupazione di partito.Per fare una scelta di quel tipo Craxi avrebbe dovuto metterein conto una fase transitoria, anche breve, nella quale il fortepotere di coalizione che aveva il PSI – capace di condizio-nare, obbligare, la DC – avrebbe anche potuto essere sospeso.Lì, comunque, accadde un fatto importante: fu rifiutata unascelta possibile, e fu persa una occasione. Tutto questo avràcomunque effetti anche sulla leadership di Craxi, sulla possi-bilità di realizzare il suo progetto per il paese e anche per lesue personali prospettive.Anche per quanto riguarda Craxi si capisce quanto sia sche-matica una lettura della storia italiana, di quanto è successonegli ultimi vent’anni, che lega tutto a Tangentopoli, pretendedi spiegare tutto con Tangentopoli, come se quella fosse l’alfae l’omega. Sto parlando di eventi di anni prima. La legislatura!983/1987, la legislatura di Craxi, è la nona. Chi ricorda comesi concluse? Chi attribuisce significato a quella conclusione?A seguito delle vicende che ho raccontato tutti si sono accortiche in Italia poteva cominciare un’altra vicenda politica: se nesono accorti i repubblicani, se ne sono accorti i democristiani,se ne è accorto De Mita. A non accorgersene furono i comu-nisti, perché in quel momento erano davvero privi di leader-ship e di linea politica. La responsabilità del PCI io la trovopiù in quel momento che in altri. Lì, se avessero avuto l’ar-dire, la fantasia o quel minimo di coraggio di dire: ma qui,caro Craxi, si potrebbe aprire una fase nuova; per carità micati chiediamo di venire via da Palazzo Chigi e passare all’op-posizione: ma hai visto su Sigonella come sono andate lecose? Perché se sono successe queste cose su Sigonella nonpossono accadere anche per il fisco o per qualche altra cosa?Tu stai lì con il tuo governo; ma se una parte della tua mag-gioranza su cose che vuoi fare tu ti contrasta e ti combatte,beh se noi le condividiamo, puoi contare sul nostro appoggio.Avrebbe potuto essere un giro di boa, un tornante. Tutti lo

vedevano, però nessuno ha avuto il coraggio. Del PCI hodetto; ma anche Craxi non si è mosso. Sicuramente ci pen-sava, forse era anche tentato, anche perché una apertura delgenere avrebbe trovato in un PCI senza prospettive moltiinterlocutori e molte orecchie attente ben al di là delle areetradizionalmente amiche del PSI. Ma anche lui non ha spintoin quella direzione.

Questo succedeva alla fine dell’85; per tutto l’anno succes-sivo, il 1986, ha avuto corso una guerriglia dentro la maggio-ranza che ha comportato anche, in agosto, il passaggio dalprimo al secondo (e ultimo) governo Craxi. Fino a che sonoriusciti a cacciarlo da Palazzo Chigi. Quando avvenne nes-suno (meno che mai Craxi, credo) pensava che la cacciatasarebbe stata definitiva. Invece così sarà: Craxi a PalazzoChigi non tornerà più. Siamo – lo sottolineo ancora – alla finedel 1986, cinque anni prima dell’avvio di Tangentopoli. I pro-tagonisti di questa operazione volevano chiudere la legisla-tura, andare alle elezioni. Craxi voleva, invece, far proseguirela legislatura che sentiva “sua”, trovare il tempo per contrat-taccare. Ricordiamo come si risolse lo scontro, che cosa suc-cesse? La nona legislatura fu conclusa in anticipo attraversoun escamotage, un sotterfugio. La DC fece un monocolorepresieduto da Fanfani. Craxi, giustamente incazzato, disse“va bene; lo voto”. Per sciogliere le Camere è infatti necessa-rio che il governo non abbia la fiducia. Craxi e il PSI, chepure erano stati cacciati da Palazzo Chigi, votano dunque lafiducia al governo Fanfani per impedire lo scioglimento anti-cipato; la DC si astiene sul suo monocolore, nega la fiducia aldemocristiano Fanfani, suo leader storico, il solo “cavallo dirazza” sopravvissuto, per andare al voto. Come si fa a soste-nere che la prima Repubblica va in rovina nel ‘92? Si fa finta

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che tutto questo (e altro ancora) non sia mai successo. ConTangentopoli è avvenuto il decesso, ma queste cose di bencinque anni prima certificavano, al di là di ogni ragionevoledubbio, che tutto un assetto stava andando a rotoli, che nonc’era più limite al cupio dissolvi, che la malattia era irreversi-bile e inguaribile e avrebbe portato a fine certa.L’altro momento significativo è stato il ‘91, anche se, in quelcaso forse c’entra anche la salute. Ma, salute a parte, c’erastato l’89. Prima ancora del crollo del muro, in occasionedelle elezioni europee del giugno, Craxi concepì e tentò l’o-perazione “sfondamento”, vale a dire una modifica dei rap-porti di forza fra il PSI e gli altri partiti sul terreno elettoraleconsiderato più favorevole, quello delle europee appunto.Voleva essere la risposta, l’inizio della controffensiva per ilterreno che Craxi aveva dovuto cedere con lo scioglimentoanticipato del 1987. La nuova legislatura era iniziata in modoconfuso e deprimente; la DC dimostrava tutte le sue difficoltàe il suo declino. Il PCI, dal canto suo, era in grande difficoltà.Occhetto era appena diventato segretario, c’era un bordello intutto l’Est, in Cina la Tien An Men: pensare che fosse possi-bile uno sfondamento socialista non era certo correr dietroalle farfalle. Noi percepivamo la pressione come rivoltaesclusivamente contro di noi: non era vero, Craxi pensava adun attacco e ad una avanzata a 360 gradi.

Non ho alcun elemento concreto e documentale per soste-nerlo: ma ho in più occasioni pensato che Craxi facessedipendere dal successo di questo tentativo l’avvio di una ini-ziativa nei confronti del PCI. Il muro non era ancora caduto,ma non ci voleva molto a capire che il PCI in quel modo nonpoteva andare avanti: basterebbe fare una rassegna stampa diquanto – negli ultimi anni – i giornali avevano già pubblicato

sul tema del “cambio del nome”. D’altro canto la rapiditàstessa con cui Craxi lanciò l’operazione “Unità socialista” fapensare che non fosse una trovata dell’ultimo minuto. Nonescludo affatto che l’idea gli frullasse per la testa già alla finedel 1985, sulla scorta della vicenda Lauro/Sigonella che horicordato, e scottato dalle conseguenze che ne aveva tratto laDC con la interruzione anticipata della sua legislatura.Il tentativo di Craxi non era campato per aria. Nel 1976,quando aveva preso in mano il PSI rilevandolo da De Mar-tino, il distacco elettorale con il PCI era di 24 punti percen-tuali. Per ogni italiano che votava PSI ce n’erano tre e mezzoche votavano PCI. Un decennio dopo, nel 1987, quel distaccosi era esattamente dimezzato: 12 punti. Gli italiani che vota-vano PSI erano la metà di quelli che votavano PCI, anzi leg-germente di più. Il trend sembrava avviato e poteva apparireirresistibile; un rush se non finale tuttavia molto incisivo nonappariva affatto impossibile. L’operazione “sfondamento”non ebbe successo. Il PCI spuntò un risultato, in quelle con-dizioni, eccezionalmente buono, addirittura sorprendente,crescendo in percentuale sul 1987. Ma non fu questo ilmotivo principale per cui Craxi fu “bloccato”. A bloccarlofurono due persone a lui, per motivi diversi, molto vicine:Cariglia e Pannella. Craxi cercò con molta insistenza di asso-ciarli a sé in una lista unica, che accrescesse la capacità diattrazione. Ma i due non sentirono ragioni. Risultato: il PSIsfiorò il 15%, toccando credo la più alta percentuale in ele-zioni generali; socialdemocratici e radicali, separati, nonebbero nessuno dei due un buon risultato. Ma i loro voti, som-mati, erano un 4 per cento: esattamente quello che mancavaal PSI per avvicinarsi a quota 20%, in modo da rendere visi-bile e credibile lo “sfondamento”. Si consideri, inoltre, che ledue liste verdi superarono il 6%; e anche lì il richiamo socia-lista avrebbe potuto essere più forte, viste le battaglie con-dotte contro il nucleare nel referendum dell’autunno 1987.

Voi però soffriste un po’ quell’idea dell’Unità socialistaQuello viene dopo, qui siamo ancora a giugno dell’89. Craxilì tentò un operazione in campagna elettorale. Anche su que-sto bisogna riflettere per capir l’Italia, per capire Craxi, pernon ridurre tutto solo al teatro dei pupi in cui ci sono Craxi,Berlinguer, socialisti, comunisti. Craxi tentò un operazioneanche per sfondare un po’ sull’elettorato comunista, tentò diunire per le elezioni europee a sé tutto quello che era possi-bile unire, a cominciare dai socialdemocratici, i verdi, Pan-nella, tutti. Dopo questo tentativo io restai molto colpito nel’91. Il ’91 è un altro momento delicatissimo della vicenda

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politica di Craxi. Credo – l’ho già detto – che ci sia entratala malattia: ai primi di gennaio del ’91 entrò in coma diabe-tico. Si spaventò molto, me lo dissero amici comuni.Secondo me questo episodio ebbe un effetto nella sua con-dotta successiva. Dopo due mesi, nel marzo, ci fu la crisi delgoverno Andreotti (il penultimo governo Andreotti). In pri-mavera era programmato il referendum, quello “della prefe-renza unica”, che Craxi assolutamente non voleva, tanto dainvitare poi gli italiani ad “andare al mare” per provocarneil fallimento con la mancanza del quorum. Io mi aspettavo,ero anzi convinto, che Craxi avrebbe detto: sono passatiquattro anni, arrivederci, andiamo a votare. Non si sarebbefatto il referendum e lui poteva tornare al tavolo di giococon più forza e possibilità di iniziativa, anche perché le ele-zioni regionali dell’anno prima gli erano andate bene.

Invece non lo ha fatto: ha pensato evidentemente che fosseun rischio inutile; ma, forse la malattia gli aveva tolto lavoglia e la determinazione per cominciare un’altra partita.L’anno dopo, si darebbe sicuramente votato per la scadenzaordinaria della legislatura. Tutti sapevano e tenevano pre-sente che dopo il voto, oltre a dover insediare i Presidentidella Camera e del Senato, oltre a dover investire un nuovoPresidente del Consiglio, si doveva eleggere anche il nuovoPresidente della Repubblica. Questa scadenza contempora-nea con le quattro più importanti poltrone in ballo vennedefinito l’“ingorgo istituzionale”. Secondo me Craxi si èdetto: “Io qualcosa becco. Non possono tagliarmi fuori”.Pensava alla Presidenza della Repubblica ma anche ilritorno a Palazzo Chigi non sarebbe stata una cosa disecondo piano e quindi lasciò perdere.

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Lì secondo te ha cominciato a perdersi?Diciamo che fu un eccesso di prudenza, ovvero un cedimentoal timore provocato dalla malattia; o ambedue queste coseinsieme. In fondo, perché darsi tanta pena e sottoporsi a tantostress se bastava saper aspettare e qualcosa di pregiato nelcarniere sarebbe sicuramente arrivato? Ma penso che ci siastato anche dell’altro, più serio. Penso che in quella circo-stanza Craxi subì un offuscamento che coinvolgeva peraltrouna intera classe dirigente che non aveva più capacità diazione, di iniziativa: perché non era capace di leggere e nonsi rendeva conto della portata della crisi che scuoteva tutto ilmondo e della profondità dei cambiamenti che si sarebberoverificati. Anche in lui ci fu una fiducia eccessiva e immoti-vata: pensò che i vecchi meccanismi avrebbero retto, che lerendite di posizione non si sarebbero esaurite, che le cedolesarebbero state disponibili ancora per un tempo non breve.Questo, sì, è un errore che può perdere. Perché proprio in quelperiodo tanti erano gli ambienti, gli interessi, i gruppi chehanno cominciato a porsi il problema: “Dove stiamoandando? Dove si va a finire? Questa ignavia non va bene;non ci si può affidare alla certezze delle inerzie. Si rischianobrutte sorprese”. E hanno cominciato, anche, a muoversi, avedere cosa potevano fare, ciascuno con gli strumenti e lerisorse di cui disponeva.Secondo me Tangentopoli non è la “causa prima”: essa stessaha come premessa questi fatti, questa incapacità, questoimmobilismo. Quella classe dirigente fu spazzata via dalciclone giudiziario perché prima aveva rinunciato (o avevadimostrato di non riuscire) ad esercitare la funzione che unaclasse dirigente deve avere. E’ un’affermazione sulla qualeaccetto ogni riserva, che formulo con ogni beneficio di inven-tario. Vedo però con piacere che negli ultimi tempi su alcunipunti convergono persone di cui ho grande stima, come RinoFormica. Craxi fece quella sortita sul referendum; ammise poiche in quella circostanza…

Aveva perso il polso del paeseE questo aggiunto alla malattia. Io mi aspettavo che facesserole elezioni. Anche perché noi eravamo col culo per terra: aiprimi di febbraio del ’91 al congresso di Rimini ci fu la scis-sione, Occhetto non venne rieletto segretario; eravamo pro-prio in mezzo ad una strada.

Si dice che uno dei motivi per cui non fece quello che tuti aspettavi è che voi andaste a chiedergli per favore dinon farlo

Che noi avessimo paura l’ho appena detto. Non so se qual-cuno abbia detto a Craxi “se non vai alle elezioni ci fai unfavore”; ma è del tutto verosimile che sia avvenuto, perchénoi avevamo effettivamente quella paura. Potrebbe darsi cheperfino io chiacchierando con Craxi possa avergli detto qual-cosa del genere. Non ricordo nulla del genere ma non possoescluderlo. Anche io in quel momento vedevo le elezionicome un pericolo rosso per noi. E con Craxi mi capitavaspesso di scambiare qualche parola, qualche informazione,qualche idea in Transatlantico: il nostro rapporto era così. Nelmio libro Rendi conto racconto quando ci incrociammo dopola Bolognina, mentre stavamo preparando il congresso diBologna e infuriava la battaglia fra i favorevoli e i contrarialla “svolta”. Mi chiese: “Beh, come vanno le cose?”. “Sem-bra che i due terzi siano per il Si e un terzo per il No”, risposi.E lui “Eh, se fosse così andrebbe bene…”. “Ormai è una cosacerta” replicai”; “Tu la fai troppo facile, ti accorgerai quantoè difficile”; e ci salutammo.C’era in lui un interesse reale, profondo per la nostra vicenda.Perché Craxi è stato fierissimo avversario dei comunisti; ma èsempre stato, e soprattutto si è sempre considerato un uomodella sinistra. Craxi era uno della sinistra. Dico adesso una cosa,con grande cautela, perché mi rendo conto quanta angustiapossa provocare: parlo dell’esilio. Craxi va via. Passa prima inFrancia da Mitterrand. Non si sa con precisione se a chiederequalcosa, o per capire qualcosa. Va, parla e poi se ne va.

Quello che ci è stato detto è che da Mitterrand ha avutoassicurazioni che finché in Francia c’era lui poteva staretranquillo. Ma – aggiunse Mitterrand – “non posso garan-tirti per i miei successori”.Secondo me lui non è andato a fargli ragionamenti che si pre-stassero a questo tipo di risposta. Posso fare io la sceneggia-tura, ovviamente fantastica, di quel viaggio e di quell’incon-tro? Craxi non è andato a Parigi come ci andavano Piperno oNegri. E’ andato da Mitterrand a dirgli: “Io sono, come te, unodei leader del socialismo europeo. Non vedete che cosa suc-cede in Italia? Cosa potete fare politicamente per me?”. Nonme lo vedo Craxi che chiede ospitalità, “asilo politico”. Credoche se avesse sentito una espressione del genere avrebbe spa-rato. No. Poneva un problema politico; e siccome non ha tro-vato il riscontro che si attendeva, è ripartito. Continuo nellasceneggiatura fantastica, della quale sono però abbastanzaconvinto. La sua decisione di andare via dall’Italia è sicura-mente legata alla vicenda giudiziaria. Ma oso dire (e ce nesono molti indizi, molti segnali) che essa è anche, se non

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soprattutto, conseguenza di un quadro politico nel quale luinon si riconosceva più. Cosa poteva fare Craxi nel ’94, conquello che era successo? Dopo il referendum maggioritario,un evento che taglia la storia italiana, che faceva Craxi? Sce-gliere fra Berlusconi e Occhetto? A parte che Craxi era unpersonaggio che non si metteva in fila, cosa poteva fare? Simetteva al posto di Berlusconi? No, perché lui era un uomo disinistra. Una cosa era fare il Ghino di Tacco anche nei con-fronti dei comunisti, chiedendo loro di non menare il can perl’aia e di fare la scelta del socialismo democratico, un’altracosa era mettersi alla testa dell’altra parte. Avrebbe potuto,allora proporsi lui alla testa dello schieramento alternativo aquello raccolto da Berlusconi? No, non tanto perché c’eraOcchetto, ma perché quella parte lì coincideva in gran partecon un esercito non suo. Le cause giudiziarie c’erano, e pesa-vano. Ma Craxi era un uomo che ragionava sempre politica-mente. Politicamente cosa poteva continuare a fare in Italia?Che diceva? Con chi si metteva, e contro chi? E per andaredove? Io sono certo che se avesse trovato risposte plausibili aqueste domande non lo avrebbero spaventato i rischi giudi-ziari che poteva correre. Avrebbe combattuto. È andato viaperché non le ha trovate; e forse a Parigi è passato per unultimo tentativo. E qui vedo allora la tragedia, il rinnovarsidella tragedia della nostra storia nazionale.

Scusa, fermati un attimo, perché hai saltato un punto. Hairaccontato quella parte della sua presidenza del consiglioin cui si verificò un quasi naturale sconfinamento a sini-stra, che poi si arrestò. Ecco, nella tua sceneggiatura fauna dissolvenza incrociata e ricorda la sera delle mone-tine. Come è possibile che si arrivi a quella scena?Guarda che la sera delle monetine io c’ero. Vuoi la sceneg-giatura di Petruccioli? Quel giorno, tutto quel giorno e ilgiorno prima, si è consumato il suicidio della sinistra: di tuttala sinistra italiana, in tutte le sue versioni, a cominciare nondico dal PCI, che non c’era più, ma dal neonato PDS. Lemonetine sono il momento culminante, quello che più faeffetto. Ma il film completo è questo: gli ex comunisti entranoper la prima volta nel governo, il governo Ciampi; il PDS èspaccato, Occhetto dà il via libera in minoranza. Lui, io epochi altri avevamo contro tutti. Erano quasi le 10 di sera ec’era Scalfaro che premeva perché voleva che Ciampi dessel’annuncio di aver formato il governo. Occhetto prima chiesedi poter rispondere la mattina dopo per poter ascoltare la dire-zione, ma Scalfaro non acconsentì. Alla fine prese il telefonoe disse: “Senti Presidente, io ti do il via ma devo avvertirti che

ho convocato per domattina la direzione. Sappi che possoessere messo in minoranza; in quel caso io mi dimetto maanche tu ti trovi di fronte ad un partito che ha un’altra posi-zione rispetto alla mia di stasera”. La mattina dopo quelgoverno (che secondo me è il governo più nuovo e “di sini-stra” che ci sia stato in tutta la storia dell’Italia repubblicana,compresi quelli successivi dell’Ulivo) presta giuramento. Ilpomeriggio, alla Camera dei deputati, anziché esserci – comenormale, anzi obbligatorio – il dibattito sulla fiducia algoverno e il relativo voto, si discute sull’autorizzazione a pro-cedere per Bettino Craxi. Dove lui fece quel discorso.

Fermati un attimo. Su quel discorso io ho raccolto duefonti, diciamo: un’opinione è che quello sia stato il suoultimo grande atto politico, è stato un atto coraggioso disfida contro l’ipocrisia; c’è chi dice invece che quello èstato il suo suicidio politico, perché ha detto io sono colpe-vole. Quindi si è messo da solo in testa la corona di caproespiatorio.Ti dico tutto quello che penso. Stai parlando con un testimoneoculare di tutte queste cose: posso dire che c’ero, che questecose le ho viste, non è che me le hanno raccontate. Il discorsofu un grande discorso politico1. Il mio giudizio è netto. Non sochi dica che lui ha fatto un errore. No, lui ha fatto un grandediscorso politico su quello che era la politica nella primaRepubblica, su quella che era la realtà. Una critica gli si puòfare, e cioè che uno che fa un discorso di quel genere poi deveaggiungere: adesso che facciamo? E dire qualcosa in propo-sito. Lui, invece, si fermò alla diagnosi, senza prospettarealcuna terapia. Questa, per un politico, è una debolezza seria.La analisi fu talmente clamorosa da non poter essere scam-biata per una richiesta di omertà. Resta, comunque, il fatto chesi fermò alla denuncia. Qualcosa bisognava aggiungere. O sichiedeva alla magistratura di non guardare in faccia a nessuno,di trattare tutti allo stesso modo, prospettando una via “giudi-ziaria” imparziale per la “bonifica”; o si doveva non dico indi-care, ma almeno prospettare, auspicare. una “soluzione poli-tica”, tracciandone se possibile alcune coordinate.In sostanza Craxi concluse così: scusate, ma ci stiamo pren-dendo per i fondelli? Come se non sapessimo tutti come sonoandate le cose, della politica e dei soldi; ma che mi venite araccontare? Lì si fermò; se avesse detto “quindi siamo arrivati

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1 Sia nella memoria di De Fusco che in quella di Petruccioli in questo casosi sovrappongono due diversi episodi: entrambi, infatti, si riferisconoevidentemente al discorso pronunciato da Craxi un anno prima, il luglio1992 (n.d.r.).

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al momento in cui dobbiamo sapere che questa storia è finita,e solo se siamo tutti assieme e ci mettiamo tutti assieme a direche cosa di altro dobbiamo mettere a punto facciamo qual-cosa di utile per l’Italia e per noi stessi”, forse sarebbe parsoancora più grave, ma il discorso sarebbe diventato grandis-simo. Ricordo benissimo la mia reazione. Ero rientrato in Par-lamento nel ’92, ma avevo un’esperienza nella vita parlamen-tare e sapevo cosa è l’assemblea. Tocqueville racconta benis-simo nei suoi diari la vita dell’assemblea della sua epoca, e favedere quando l’assemblea diventa un’entità essa stessa; nonsono più singole persone ma diventa una nuova entità. Hai difronte un soggetto nuovo: uno anche se composto da tanti sin-goli. Un ossimoro solo apparente. Quando l’assembleadiventa da molteplicità unità, l’abilità sta nel capirlo e nelsapersi rivolgere a lei, trattarla come un tutto unico. Oggi nonè più così perché il Parlamento non è più luogo dove possaaccadere qualcosa di imprevisto, di non programmato. Ioavvertii che con il discorso di Craxi era avvenuta la transu-stanziazione, si era formata l’Assemblea. E ricordo che cosafeci. Craxi finì. Occhetto e D’Alema stavano seduti unoaccanto all’altro. Mi avvicinai a loro e dissi: “Ma scusate,nessuno dice niente qui? Nessuno prende la parola?”. Miricordo D’Alema, era capogruppo, disse: “No”. Continuaiinsistendo: “Almeno alzatevi, alziamoci e diciamo che c’è ungoverno che deve venire a chiedere la fiducia, avvertiamo chese non c’è l’autorizzazione a procedere noi ci troviamo in dif-ficoltà a sostenerlo”. Giusto o sbagliato che fosse, sarebbebastata una cosa di questo genere per mettere sull’avviso l’as-semblea, per rompere l’incantesimo e per influire sull’esitodel voto. Invece non accadde nulla. Occhetto agì una volta dipiù d’impulso. E’ nel suo carattere; grazie al quale ha avuto ilmerito di fare la Bolognina; ma lo steso carattere impulsivogli ha fatto fare anche altre cose, non tutte eccellenti. Quellasera esce in Transatlantico e annuncia “usciamo dal governo”.Così fu liquidato il fatto storico della partecipazione algoverno per la prima volta, se vogliamo andare alla sostanzapolitica, un evento di rilievo non inferiore al lancio di mone-tine. Lì è stata una uscita di strada micidiale. La sera dopo sifa a Piazza Navona una manifestazione per spiegare al popoloquel che si era fatto e che non si sarebbe dovuto fare. Sonopronto a dare tutte le testimonianze del caso; non è vero chequella manifestazione andò poi al Raphael. Al Raphael scop-piarono degli incidenti alimentati da gente che stava lì datempo, che con la manifestazione del PDS non c’entravaniente, che aveva posizioni politiche di tutt’altro stampo, disinistra e di destra.

C’è chi dice che tra i lanciatori c’era StoraceNon lo so, ma avrebbe benissimo potuto esserci. Una parte diquelli che stavano a piazza Navona corsero là e si aggiunsero.Una parte piccola, anche perché lo spazio davanti al Raphaelnon è certo grande, ed era già praticamente pieno sia di mani-festanti che di poliziotti. Un fatto, comunque, vergognoso,deprecabile. Rivelatore di quale fosse lo stato di lacerazione,di esasperazione estrema, come avviene nei momenti rivolu-zionari. Quello era un po’ un momento – sia pur negativa-mente – rivoluzionario. In questo paese stava succedendol’ira di Dio. Il bilancio di quelle 48 ore è presto detto: il PDSappena nato, che era entrato per la prima volta nel governo, sene trovò fuori e senza bussola politica. Craxi sputtanato conlancio di monetine cui presero parte anche alcuni di quelli chestavano a piazza Navona: quindi un solco di odio inestingui-bile che ha diviso e continua a dividere la sinistra. Se guar-diamo le cose da un punto di vista storico è andata così: èstata la devastazione di un patrimonio che in varie formepoteva e doveva essere salvato. La sinistra, in sostanza, non èstata capace di governare se stessa: prima in Parlamentoquando Craxi, secondo me, si è fermato sul punto più impor-tante. Se avesse detto quella frase (“adesso vediamo cosa sideve fare politicamente”, come ho già detto) anche la rea-zione all’autorizzazione a procedere cambiava di significato.

Sarebbe stato in qualche modo come quando Moro disse“non ci faremo processare nelle piazze”.Sì, Moro disse così, però stava pensando e si preparava a direanche altre cose. Era il momento in cui Moro si stavaavviando alla politica della “solidarietà nazionale”, si prepa-rava a gestire l’ingresso del PCI nell’area della maggioranza.Una prova politica importante e difficile come nessun altra,come sappiamo bene. Moro diceva quelle cose ma avevaanche una politica. Fra la fine degli anni ’80 e gli inizi deglianni ’90 non solo Craxi ma tutte le forze politiche italiane,questa è la mia tesi, si sono trovate senza politica. E anche inpolitica il vuoto non esiste.

E’ una ricostruzione bellissima, ma riflettiamo un attimo:come mai il popolo della sinistra sceglie come reo pereccellenza Craxi e non Andreotti, Craxi e non Forlani,Craxi e non Pomicino? Come mai si sceglie il più vicinocome simbolo di tutto il male della prima Repubblica?Rispondo, purtroppo, con una constatazione tanto scorag-giante quanto inoppugnabile. Tutta la storia della sinistra,tutta, intendendo per sinistra da Bernstein fino a Trotsky, da

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Brandt a Stalin, ha come marchio non pas d’ennemi bensì pasd’ami a gauche. Cioè: chi è vicino non è amico. Quello che èvicino ha la colpa di non essere come me. Se non è come mequello lontano lo considero ovvio, normale. Questa, pur-troppo, è la storia della politica infarcita di ideologia. Nonsolo a sinistra; in tutti i movimenti in cui è forte la carica ideo-logica, guardando al vicino con cui per il 90% sei d’accordoma per il 10% no, la cosa che ti sembra rilevante non è il 90%ma il 10%. L’altra cosa riguarda i comunisti italiani, la lorostoria. Il problema, la domanda che li ha angustiati per tutto illoro cammino è semplice: come mai noi che siamo così fortinon riusciamo a governare questo paese? Hanno sempre evi-tato questa domanda, non hanno mai avuto il coraggio diprenderla di petto. Il motivo è chiaro: per trovare la rispostasarebbero stati costretti a mettere in causa la collocazioneinternazionale e tante altre cose che li riguardavano. Era assaipiù facile dare corso ad un’altra risposta, anche se era dicomodo, e si sapeva che lo era: bastava addossare la colpa aisocialisti. I comunisti non riescono a governare perché isocialisti vanno con la DC; se stessero con noi il problemasarebbe risolto. Non era vero, ma è la specifica vicenda nazio-nale che ha consentito questa mistificazione. Perché la DCveniva, non vogliamo dire odiata, ma presa di mira meno? Inmodo meno animoso dei socialisti? Che la DC lontana eopposta a te governasse era ovvio; che un’altra forza dellasinistra come il PSI potesse praticare il governo, cosa che a teera interdetta, se non lo spiegavi con dei limiti tuoi lo doveviattribuire interamente alla cattiva volontà dei socialisti. IlPCI, nella sua lunga vita, ha introdotto molti aggiustamenti,ha messo in atto molte cautele per attenuare o mascherare lasua inabilità al governare. Con Togliatti prima ancora che con

Berlinguer. Ma non ne ha mai dato la spiegazione vera, com-pleta. Quando fai delle correzioni virtuose nel tuo comporta-mento, ma non dici perché le fai, perché quel cambiamento tisembra necessario, si tratta sempre di una misura precaria,reversibile, revocabile. Devi dire perché comportarsi in altromodo è sbagliato; devi farlo soprattutto per la massa dei mili-tanti che ti seguono, altrimenti non ottieni l’effetto voluto.Certe cose bisogna dirle. È più importante dirle che farle. Arompere l’incantesimo siamo stati noi, noi che adessoabbiamo 60/70 anni e che vent’anni fa ne avevamo 40/50.Prima di noi nessuno nel PCI le aveva dette come le abbiamodette noi, anche prima della caduta del muro. Ho già raccon-tato questo episodio nel mio Rendi conto: due giorni dopo laBolognina c’è la direzione; anche io intervengo (è pubblicatosu l’Unità, si può controllare) e dico: “Siamo un partito che sichiama comunista ma ormai è tanto tempo che non siamo unpartito comunista”. A quel punto Natta, che mi voleva bene,che mi aveva detto non so quante volte con bonomia “maPetruccioli noi ormai siamo un partito socialdemocratico,”scatta in piedi e mi interrompe adirato: “Ma cosa dici? Parlaper te!”. Restai allibito. Ma sì, parlo per me; mi sembrava didire una cosa ovvia; invece lì ho capito che “in principio erail verbo”: finché non usi la parola ti puoi comportare come unsocialdemocratico per tutta la vita, ma se non usi la parolaresti comunista. Allora c’è un motivo per comportarsi senzadire. Questo è il punto.

In effetti con tutti i nomi che ha cambiato socialista non siè chiamato maiE’ vero. E io sono identificato come uno dei responsabili diquesta scelta. Parlo, allora, per me. Dopo l’89, ma in veritàanche prima, io pensavo che si dovesse arrivare a fare un par-tito insieme, noi, i socialisti, e se possibile anche altri. Per laverità, l’idea di un partito più grande è sempre stata non soloimplicita ma anche esplicitata quando facemmo il PDS. Nonci consideravamo “un tutto”, ci consideravamo un “pezzo” diun “insieme” che doveva nascere. Fu scritto e detto allora,non è il senno di poi. E lo dimostrano anche le varie vicendeche sono seguite: tutte, dalla “cosa due” all’Ulivo, danno ilsenso della ricerca di un “completamento”. Era il contrario diuna affermazione non dico di “imperialismo”, ma di autosuf-ficienza. Io non ho mai pensato che per far questo si dovesseassumere la denominazione di “socialisti”. Bisognava smet-terla di chiamarsi comunisti, e lo abbiamo fatto. Bisognavaentrare nell’Internazionale Socialista, e lo abbiamo fatto.Quanto a come chiamarci nel momento in cui smettevamo di

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chiamarci comunisti, il problema era segnalare con la mas-sima chiarezza l’essenza del cambiamento storico che ritene-vamo di dover fare. Dovevamo farlo in riferimento alla storiache avevamo alle spalle, e tenendo conto di quello che deno-minavamo: che non era neppure il PCI intero, ma solo una suaparte, perché un altro pezzo se ne andava via.Perché io pensavo che non fosse giusto affidarsi alla denomi-nazione socialista o socialdemocratica? Per una ragionemolto semplice: perché in quel modo non si indicava il puntodella nostra storia, della nostra teoria, di quello che eravamostati come comunisti: che dovevamo assolutamente emen-dare, consapevolmente emendare, dichiarare con un nome. Equel punto era la democrazia, la libertà, il rispetto della per-sona, il rifiuto di sottometterla in alcun modo alla storia, a unfine, a un obiettivo della storia. Non era il modo come ave-vamo concepito il socialismo, o progettato il passaggio alsocialismo. C’è una mia polemica di allora con Napolitano,sull’Unità, nella quale spiego tutto questo e uso questatestuale espressione: per chi viene dal comunismo, dall’esserecomunista, la denominazione socialdemocratica è come perun drogato usare il metadone al posto dell’eroina; cercare,cioè un palliativo sotto il quale può continuare il vecchiovizio. Noi – continuavo – dobbiamo mettere in discussione lostatalismo, il nostro vero problema è fare i conti con la demo-crazia, con il liberalismo, con un idea diversa e aperta dellasocietà. Questo era il mio motivo vero: non era un giudizionegativo sulla socialdemocrazia. Era il timore che chi usciva

dal comunismo si aggrappasse alla socialdemocrazia come“male minore” per non cambiare quanto era necessario cam-biare, per non mettersi davvero in discussione. Non dico chetutti avessero la mia stessa motivazione. Ma questa era la mia.Sarà che, come dicevano alcuni, come diceva D’Alema, iofossi affetto da “nuovismo”, può darsi. Io apprezzo moltis-simo, anche adesso, le idee – o molte idee – del socialismo; edel pensiero di Marx vedo i limiti ma lo considero ancoraparte essenziale del mio bagaglio culturale, e da lì traggo stru-menti ancora utilissimi per fare i conti con la realtà di oggi.Ma se dovessi fare un partito nuovo lo chiamerei “socialista”oggi? Non credo. Mi sembra un riferimento di un’altra epoca.Ma c’è un’altra considerazione che voglio fare, da un puntodi vista di solito trascurato. Gli ex comunisti decidono di nonchiamarsi più comunisti, di chiamarsi in un altro modo, manon usano la parola “socialista”. C’è chi pensa che lo fannoperché sono stronzi, per settarismo verso il PSI e Craxi. Vabene, non discuto. Questa scelta ha comunque anche un altrorisvolto, un’altra conseguenza: non assumendo la denomina-zione socialista, il PDS non pretende di insediarsi in quellospazio, di invaderlo. Lo spazio del socialismo, in Italia, restatutto nelle mani e a disposizione del PSI; non c’è un altro sog-getto che dice “ci siamo anche noi”, che sgomita e crea ine-vitabili problemi. Come mai in questo spazio il PSI non pro-spera, non cresce? Bisognerà pur domandarsele queste cose!Non dico, con ciò, che non si debba criticare la scelta fattaallora dal PDS; dico che a sostegno della critica non vale lalettura che riconduce tutto al settarismo, alla chiusura verso ilPSI. Soprattutto, non è possibile far derivare da quella sceltale difficoltà, la crisi, i drammi che di lì a poco incontrerannoil PSI e Craxi.Io considero la storia del PSI un pezzo straordinario dellastoria della sinistra e dell’Italia, e l’influenza e i meriti diCraxi in quella storia sono grandi. Se la sinistra italianavuole avere un futuro deve riprendere quella storia, a comin-ciare dal pezzo di storia del PSI di Craxi. Per quello che èstata effettivamente. A proposito di socialismo e socialde-mocrazia, di riferimenti ideali e culturali, insomma tutte lecose che vengono tirate in ballo quando si parla del “nome”,mi torna in mente che Craxi una delle prime cose che fece dasegretario fu il saggio su Proudhon. Che significato aveva?Era per dire che il PSI usciva dai canoni della tradizionesocialista classica, eccolo il significato. Ricordiamo lo scan-dalo del PCI perché Craxi aveva messo Proudhon al posto diMarx? Il saggio uscì sull’Espresso; poi l’Espresso e soprat-tutto Repubblica hanno fatto di quel saggio l’occasione per

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portare in primo piano la guerra a sinistra, che hanno semprecercato di alimentare. Anche se, per la verità, si sviluppavada sola in modo rigoglioso. Da quel saggio alla Assemblea diRimini su “meriti e bisogni” fu tutto un lavoro per liberarsidel peso e dei vincoli della “tradizione socialista”. Craxiarrivò a proporre che l’Internazionale socialista cambiassenome per chiamarsi “democratica”! Tutto questo avvenivadieci anni prima della nostra svolta. Perché sorprendersi ometterci sul banco degli accusati perché al momento in cuidovevamo indicare la direzione nuova nella quale volevamoandare ripercorressimo le tappe che erano state compiute daaltri prima di noi? Da Craxi, e non solo. Che altro è BadGodesberg e il gran lavoro di rinnovamento teorico dellaSPD negli anni ‘60? Quando le ristrutturazioni si fanno inritardo, fra i tanti aspetti negativi ce n’è uno positivo: si puòmettere a frutto l’esperienza di altri che hanno ristrutturatoprima di te.

Abbiamo parlato di Craxi e non abbiamo ancora nomi-nato la parola giudici. Questa conversazione è insolita eaffascinante; però questo è un capitolo da affrontare.Come spunto, una frase di un filosofo che tanto amo,Girard. Lui dice che i giudici vengono inventati dai popoliper smettere di massacrarsi con le vendette in eterno, mache questa funzione è benefica per la società se il giudiceè completamente invisibile, se non si sa neanche come sichiama, in modo che non si possa personalizzare e desa-cralizzare la funzione. In Italia in quel momento succedeesattamente l’opposto. Io sono convinto che lì nasce unforte fenomeno di destra – se si possono ancora usare que-ste categorie – che molti credono di cavalcare.Non mi sottraggo ad una riflessione su giudici e magistra-tura, anzi. E sulle implicazioni politiche: i giudici e Craxi; icomunisti o ex comunisti (come si diceva e si dice ancora) ei giudici, e così via. Ma io sono convinto (e la citazione diGirard me lo conferma) che il problema della giustizia e deigiudici sia ben più ampio e più lungo nel tempo, come dimo-stra – del resto – il fatto che ancora è aperto. C’è uno sfondo– diciamo pure filosofico, teorico – indicato da Girard che cirimanda agli inizi della storia del pensiero umano. La que-stione non è solo la visibilità, in quanto gli oracoli eranoinvisibili. La questione è il giudizio. Il cristianesimo prevedeaddirittura un “giudizio universale”. Ma noi siamo immersiin una cultura (la tragedia greca, senza dire la Bibbia) in cuiil giudizio è un elemento basilare, un cardine della nostraciviltà umana. Aggiungiamoci poi che la cultura italiana, così

segnata dal cattolicesimo, si distingue dalla cultura anglosas-sone. L’amministrazione della giustizia nel mondo anglosas-sone cerca il colpevole perché il colpevole deve essere indi-cato alla collettività e alla società che si rassicura e si rasse-rena perché il delitto è stato punito. Da noi, invece, si cercala verità. E’ il cittadino comune che vuole “sapere la verità”,sono la stampa e la televisione a chiedersi continuamentequale sia la verità. In questo contesto il giudice è, e soprat-tutto si considera, quello che cerca la verità, che la accerta ela comunica alla comunità: in un certo senso il “depositario”della verità, che è altra cosa rispetto all’idea del giudice che“amministra la giustizia”, una persona cui la società affidal’esercizio di una funzione, delicatissima ma pur sempre fun-zione. Tutto ciò influenza il modo di pensare e di vivere, dientrare in rapporto con “la legge”, anzi, la “Legge” con lamaiuscola: non solo del magistrato, ma del cittadino e del-l’intellettuale. Giuseppe Maranini è un pensatore liberale;non sorprende, dunque, che consideri fondamentale – ingenerale - l’assoluta indipendenza e autonomia della magi-stratura. Che quella “funzione” sia svolta senza condiziona-menti è una garanzia che la società, i cittadini, danno innan-zitutto a se stessi. Trattando specificamente dell’Italia, Mara-nini va però oltre l’autonomia; e non si fa scrupolo di direche, per garantire la libertà, è necessario il primato delmomento giurisdizionale sulla politica. Lui è un liberale doc,non si può sospettarlo di giustizialismo. Il fatto è – e lo dice– che non si fida della politica; anzi, della politica non è pos-

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sibile fidarsi. Almeno in Italia.2Il discredito della politica, in Italia, è generale, radicato, dura-turo; la politica è sempre stata considerata un’attività perimbroglioni, mascalzoni, nullafacenti. Anche Berlusconi èuna conseguenza di questa convinzione, che lui del resto fadi tutto per alimentare Anche questo concorre a determinareun rapporto distorto, malato, fra politica e magistratura: rap-porto che ha una storia che si può ricostruire. Restiamo soloai referendum. Nel 1977, mi pare, c’è il referendum sullalegge Reale, che si misurava con il fenomeno del terrorismo.I poteri dei magistrati in Italia sono, per lo più, calibrati sulleemergenze: terrorismo, mafia, camorra; di fronte alle emer-genze bisogna evidentemente dare più poteri. Questa è la sto-ria del paese. Nel 1987 c’è il referendum sulla responsabilitàcivile dei magistrati. Sono andato a rileggere le polemiche diallora: quanto al rapporto politica-magistratura sono uguali aquelle di oggi. Uguali, identiche: una costatazione scorag-giante. E nel 1987 non c’era Berlusconi, non c’era Di Pietro,non era cominciata Tangentopoli. Mettendo a posto le miecarte ho trovato un mio articolo di allora in cui polemizzo conAsor Rosa. Leggendolo, ho visto che Asor Rosa usava allorapiù o meno gli argomenti che usa oggi Di Pietro. Non hopotuto fare a meno di notare che il dipietrismo in Italia non èvenuto perché c’è stato Di Pietro. E’ vero il contrario: Di Pie-tro è venuto perché il dipietrismo c’era prima di lui, anche senessuno poteva chiamarlo così. Nel 1992 un gruppo di magi-strati, il pool di Milano, ha messo in atto un’azione che avevacome bersaglio tutta la classe politica, in particolare quella digoverno. Non è mica solo Craxi: c’è Forlani, per restare aimassimi livelli. Né si può trascurare che il terzo nome checomponeva l’acronimo CAF, Andreotti, diventò anche luioggetto di cure giudiziarie, sia pure su un fronte diverso daquello milanese di “mani pulite”, quello palermitano dell’an-timafia. Tutto ciò è accaduto con il consenso straordinariodell’opinione pubblica, un consenso largamente maggiorita-rio. Questo era il clima.Vuoi che racconto una mia vicenda? Io nel ’92-’93 ero undirigente politico con qualche responsabilità ed evidenza.Avevo casa a Milano da più di vent’anni, ero stato eletto aMilano nel ’92, dopo essere stato eletto una prima volta nel

1983, ero parlamentare di Milano. Ero stato lì, per anni, anchecondirettore dell’Unità. Un caro compagno, Bruno Enriotti,che era stato capo redattore con me, aveva una simpaticamoglie, compagna anch’essa, posso quasi dire amica, ancheperché, non abitando lontano, capitava spesso di incontrarci.In uno dei giorni che da pendolare trascorrevo a Milano, men-tre camminavo nei pressi di S. Babila, sopraggiunge una dellemanifestazioni di sostegno ai magistrati, in quel periodomolto frequenti. Mi fermo sul marciapiede a guardare; passala moglie di Enriotti che con un volto scuro e aggressivo miapostrofa: “Che ci fai tu qui? Che c’entri tu qui?”. Io non eroin alcun modo inquisito, il mio nome non era mai stato nep-pure sfiorato da qualsivoglia sospetto. Ma ai suoi occhi erouno della “nomenclatura”. Anche oggi si parla di nomencla-tura. La nomenclatura non è che non ci sia.Ma cerchiamo di vedere le cose fondamentali della vicenda.Il pool “mani pulite” disse: “Adesso cambiamo la faccia diquesto paese”. Ci sono anche le loro dichiarazioni. Davigodisse: “Rovesciamo l’Italia come un calzino”. Ma, al di là del

pool, cosa si mosse allora? Questa è la domanda da porsi; e ame sembra che Formica sia quello che si sta avvicinando dipiù ai nodi veri. Come mai, allora? Che successe, allora? Io aMilano conoscevo un grande avvocato, un uomo che conoscecose e ambienti come nessuno, e che ha una grande espe-rienza anche politica, Gianfranco Maris. Aveva lo studio invia Giardino e la casa in via Canova. Eravamo amici. Puoicapire come mi rivolsi a lui in quel periodo per farmi illumi-nare, per raccogliere elementi utili a capire. Più volte ciincontrammo, in studio e a casa. E continuavo a chiedergli:ma che succede? Eravamo proprio agli inizi di quella che saràpoi definita “Tangentopoli”. Parlavamo a quattr’occhi, lanostra confidenza e fiducia reciproca erano assolute. Non

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2 Questo è uno snodo teorico importantissimo del rapporto fra liberalismo edemocrazia. Se liberalismo e democrazia sono incompatibili, se ci si deve“tutelare” dai rischi della democrazia, se quindi non è la democrazia chepuò sanzionare la politica, allora questa funzione deve essere affidata aqualcun altro. A chi se non alla giurisdizione? Ma se è così, il liberale anti-democratico per scongiurare l’assolutismo della politica deve rifugiarsinell’assolutismo della giurisdizione.

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c’era alcun motivo per cui lui mi dicesse qualcosa di non veroo mi tacesse qualcosa che sapeva. Grande fu la mia impres-sione quando mi disse (quel giorno eravamo a casa sua):“Caro Claudio, che succede? Io li conosco tutti: i costruttorihanno deciso di parlare e sono i loro avvocati, tutti democri-stiani, che li spingono e li portano a parlare”. Questo mi disselui; non dico che fosse vero, però lo disse a me, da soli; e nonvedo motivi perché dovesse mentirmi.A parte questo ricordo personale, di domande ce ne sono tantealtre: a parte i costruttori e i loro avvocati, il materiale, i datiper sostenere l’inchiesta, da chi sono stati trasmessi al pool?Chi glieli dava? Sono dati che esistevano da tempo nelle inda-

gini, nelle intercettazioni. I ROS dei carabinieri, o almenoalcuni loro segmenti, disponevano da tempo di un quadroabbastanza preciso e di elementi di fatto a sostegno. Da anniil tema della corruzione in politica era ben presente nelle cro-nache. Si può farne una storia; e si può farne una specificastoria milanese. Ma la questione veniva vissuta e trattatacome una endemia, sgradevole ma ineliminabile, e checomunque non provocava decessi. A un certo punto è avve-nuto qualcosa: e qualcuno ha deciso che avvenisse. Da unaparte la forza della politica non c’era più, la parete era caduta,e quindi sentivano che potevano fare; dall’altra il mondo nonera più quello, e ognuno ragionava in termini consideratiprima impensabili.

Ma è stato deciso da chi?Non lo so. E’ una mia convinzione, che scaturisce da una ana-lisi; non dispongo di dati di fatto. Non ho risposte, ma ladomanda è fondata. Craxi aveva ragione, e lo sappiamo tutti:la corruzione c’era da prima. All’inizio dell’87, ad esempio(lo ricordo perché fui coinvolto anche personalmente in

quella vicenda parlamentare) si parlava dei fondi neri del-l’IRI, passò per un voto la legge che costituiva una commis-sione d’indagine sui fondi neri dell’IRI. Subito dopo quelvoto – che fece scalpore – uscimmo in Transatlantico, e alcunidei parlamentari più esperti affermavano: “Tanto adesso sisciolgono le Camere, si va a votare, e questa commissionenon si farà mai”. E così fu. Il clima politico generale facevaprevedere la fine anticipata della legislatura, ma se ci fossestato bisogno di un incentivo a sciogliere le Camere, quellocadeva a proposito. Di fondi neri dell’IRI si parlava già neglianni ’60, ’70. La storia dell’intreccio fra corruzione e politicava ancora tutta fatta. Eni-Petromin è stato un momento cru-ciale della storia interna del partito socialista. È stato aridosso di quella vicenda che si è creata una maggioranzanuova all’interno del PSI. Prima c’era una maggioranza fraCraxi e Signorile, su Eni-Petromin quella maggioranza saltò,De Michelis sostenne Craxi e si separò da Signorile. Del restoFabrizio Cicchitto l’ha scritto lui, anni fa: “Io mi sono iscrittoalla P2 – spiegò – perché a seguito della vicenda Eni-Petro-min ho cominciato ad avere paura: e allora ho cercato prote-zione”. Scrissi un articolo sull’Unità per sottolineare l’enor-mità di quella dichiarazione. Ero amico di Fabrizio, e glichiesi pubblicamente: “Ti rendi conto di quello che haidetto?”.Torno a “mani pulite”. A parte le cose più profonde, come lacultura e la psicologia diffuse nell’ordine giudiziario, cose cuiho già accennato e che non si cambiano dall’oggi al domani,a me sembra che i problemi da considerare siano due. Il primoè la forza della politica. Io sono convinto che se Craxi fossestato nel 1992 forte come era cinque anni prima quel che gliè successo con “mani pulite” non sarebbe accaduto. Se nonc’è una seria debolezza della politica, quei fatti non succe-dono. Ma non perché i magistrati non si comportano in quelmodo, ma non lo fa nessuno degli attori che rendono possibileun processo di quel tipo: a cominciare dalle strutture di intel-ligence fino ai costruttori che denunciano. Lo fanno se la poli-tica è davvero debole, se appare in condizione di non poterreagire. Potrà sembrare cinica questa mia affermazione. Mi sipotrebbe rimproverare: “Allora tu vuoi una politica forte per-ché assicura l’omertà?”. Non è questo il senso della mia ana-lisi; dico che solo così si può spiegare quel che realmente èsuccesso, chi si è mosso, chi ha voluto e chi ha potuto muo-versi. E soprattutto questa analisi è la sola che possa spiegarele reazioni della pubblica opinione, intesa sia come universodell’informazione, sia come comportamento dei cittadini. E’il secondo problema: vale a dire il diffondersi dell’ansia, del-

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l’incertezza, il timore che nasce quando non si capisce dovesi va. Sono le situazioni più pericolose, conseguenzaanch’esse della debolezza, della perdita di bussola della poli-tica: pericolose perché le persone cercano la soluzione sicura,rapida, semplice, quella che con un atto chiude il problema ericostituisce le basi della sicurezza e della serenità.

Il disorientamento della società.Ed anche della classe dirigente, e dei poteri. Anche chi hapotere, di qualunque tipo esso sia, legittimo o meno, perfinocriminale, agisce in modo diverso in condizioni che appaionocontrollate o in condizioni che sembrano – e sono – al di fuoridi ogni controllo. Per esempio, tutte queste intercettazioni cheescono fuori adesso e che rivelano questo stato di coseputrido, di disfacimento, non crea grandi preoccupazioni? Lecrea per forza: fra i cittadini, ma anche fra i poteri. L’errore èscambiare la causa con l’effetto. Si pensa che siano le inter-cettazioni pubblicate a creare ansia e incertezza; mentre sono

le falle prodotte dalla incertezza a consentire la “fuoriuscita”dei “dati”: oggi le intercettazioni telefoniche, venti anni fa ledichiarazioni e le ammissioni degli interrogati, la circolazionedei dossier dei Ros, in genere abbastanza stagionati.Poi ci sono anche i magistrati con la loro cultura e con la ideadella loro funzione, come ho già accennato. Mi è capitatotante volte di discutere con loro e di capire come pensano,quale missione si attribuiscono. Ricordo ad esempio il capo-danno 95/96. Ero in vacanza a Courmayeur, e Flick mi chiesedi partecipare alla presentazione di un suo libro. C’era ancheun noto magistrato di cui non dico il nome. Presentiamo illibro, poi andiamo a cena. Capitiamo vicini a tavola e par-liamo a lungo. La sua tesi era che l’Italia, gli italiani non sonomaturi per l’alternativa, per il bipolarismo. In Italia – soste-neva - non ci si può affidare in maniera così diretta alla deci-sione dei cittadini, c’è bisogno di una mediazione. Questeculture pesano. Pesa il fatto che un magistrato ritenga diessere non solo quello che deve dare patenti di moralità, o

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cercare la “verità”, o anche solo di costituire l’argine ultimo edecisivo, o addirittura esclusivo, della “legalità”. A parte chequando si dice “applicare la legge” si deve tener conto cheanche le leggi sono fatte secondo una determinata cultura.Quante sono le leggi, in Italia, che non risultano univoche,che non sono precise neppure dal punto di vista delle proce-dure che dettano? Guarda quel che sta succedendo in questigiorni con tutte queste polemiche sulla presentazione delleliste. Non fa pensare il fatto che negli USA c’è l’istituto delpatteggiamento e da noi c’è l’istituto del pentimento? Sonodue culture. Con il patteggiamento, se tu imputato mi dicicose utili a combattere il crimine e a far prevalere la legalità,o anche solo a risparmiare risorse nelle indagini, io ne tengoconto nello stabilire la pena.

Da noi quella cosa si chiama pentimento.Sii chiama pentimento: se ti penti entri in una “legislazionespeciale”, non è una cosa fra me giudice e te imputato. Que-sta cultura e la indeterminatezza delle leggi che ne scaturi-scono crea una situazione confusa, arbitraria. Noi preten-diamo che il magistrato a null’altro sia sottoposto che alla

legge: principio che ha senso solo se la legge è a tal puntochiara che non consente interpretazioni. Nei sistemi anglosas-soni, come sappiamo, al posto della legge c’è la giurispru-denza, cioè l’accumulo storico delle decisioni assunte in sedegiurisdizionale; tanto che si potrebbe capovolgere il postulatoitaliano: non è il magistrato ad essere sottoposto alla legge,ma la legge ad essere “costruita” dal magistrato. Da noi sipretende che il magistrato non sia altro che il “sacerdote”della legge, ma poi abbiamo leggi che lasciano al magistratoun ambito di interpretazione ben più ampio di quello a dispo-sizione di un giudice americano.Ma, dopo tutte queste divagazioni, non voglio sfuggire alladomanda: Craxi meritava il trattamento giudiziario che haavuto? No. E aggiungo: come non lo meritava Craxi non lomeritavano Forlani e altri ancora. Lì sono avvenute cose chedevono allarmare molto, perché fanno capire come possanoverificarsi degenerazioni nella civiltà giuridica di un paese.

Però mi sembra che ci sia una contraddizione tra un par-tito che voleva nascere come lo hai dipinto tu, più ungrande partito liberal che un partito socialista, e che poi

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però si trovò a cavalcare la cosa meno liberal che si potevaimmaginare.Cavalcare. Ma che significa cavalcare? Quello che alcuni –purtroppo tanti socialisti, e il purtroppo vale per loro, perchécosì non capiscono niente – pensano è che il PDS sia stato l’i-spiratore, lo stratega di “mani pulite”, perché Occhetto hascelto la “via giudiziaria”. Sciocchezze, fesserie. Il PDS era incondizioni di assoluta debolezza, cercava disperatamente disopravvivere; e noi tutti ne eravamo assolutamente consape-voli. Di “mani pulite” avevamo terrore, temevamo di essereinvestiti e spazzati via. Altro che cavalcare! A cavalcare eranoaltri; a cominciare da molti che oggi sono i pilastri della mag-gioranza che governa, e che accreditano – perché fa lorocomodo – la storiella della “congiura di Occhetto”. PoveroOcchetto! Se oltre quelli che sono sfilati alla gogna di Di Pie-tro c’è un’altra vittima di quella stagione, quello è lui.Ma voglio cogliere il significato generale della tuadomanda, e lo traduco così: ma tu trovi coerenza fra quelloche con il PDS volevate fare e quello che avete concreta-mente fatto? Ti rispondo per me, quando ormai sono fuoridalla politica, anche se penso sempre alla politica e soprat-tutto alle cose che mi hanno coinvolto e di cui sono statotestimone. Oggi, a vent’anni di distanza, penso di aver com-messo non solo errori di valutazione e di previsione, maanche un peccato che potrei benevolmente definire di otti-mismo, ma che non benevolmente dovrei definire di arro-ganza: arroganza intellettuale. Io ho creduto che fosse pos-sibile, buttando via quello che doveva essere buttato via,prendere il buono, o quello che mi sembrava esserci dibuono in una tradizione, e trasmutarlo rapidamente, farlodiventare materiale per una costruzione nuova. Mi accorgodi essere stato un illuso. Quindi come vedi il mio giudiziosulla mia esperienza è profondamente e consapevolmentecritico. Ti ho detto la mia valutazione sull’uscita dalgoverno Ciampi. Raccontata con lo spirito della cronaca, laattribuisco all’impulsività di Occhetto; ma se mi metto inun’ottica più prossima alla storia mi domando se in quelladecisione non hanno pesato fattori e condizionamenti per ilcui superamento saranno necessari decenni.La contraddizione? Ma figurati se non vedo la contraddi-zione. Se penso alla mia vita - soprattutto politica ma nonsolo - è un susseguirsi di contraddizioni: nel senso che in uncerto momento non capivi certe cose che poi hai capitobene, salvo accorgerti successivamente che invece le avevicapite fino ad un certo punto, e che anche quando credevi diaver capito bene non avevi capito. Forse è questo il motivo

per cui adesso non sono nello stato d’animo che probabil-mente è indispensabile per partecipare alla lotta politica.Perché la lotta politica comporta che, dopo aver pensatoquanto vuoi, a un certo punto ti dici: ecco, io sto qui, mimetto in guardia, con tutta l’attenzione e la forza di cui sonocapace, e comincio a combattere, cerco cioè di prendernemeno e darne di più. E’ la politica; ma quella politica allaquale nessun umano può sottrarsi perché la vita ci mette inqueste situazioni nei momenti e nelle circostanze piùdiverse e quando meno te l’aspetti. E’ politica perché saicosa vuoi fare, cerchi di capire cosa puoi fare, ma non saiassolutamente come andrà a finire.

Disincanto?No, non disincanto. Una riflessione di altro genere. Del resto,è probabile c’entri l’età; fra un anno, compio 70 anni, ripensoa tutte le cose che ho vissuto, di cui sono stato testimone,metto a posto, le ricucio, cerco di interpretarle. Di alcune hoparlato oggi qui.

Senti, chiudiamo con una cosa umana. Quale è il ricordoumano del rapporto con Craxi che chiudi nel tuo cassetto?Comunicavamo facilmente, provavamo reciproca simpatia.Non ho mai avuto scontri con Craxi personalmente. Ne ho, diricordi umani. Te ne posso dire qualcuno. Uno te l’ho giàdetto, quando lui dopo la svolta della Bolognina mi ha detto“tu la fai facile, te ne accorgerai”. Perché mi ha colpito que-sto? Perché lui si metteva dalla mia parte e io ho scritto nelmio libro che aveva ragione lui. Te ne dico altri due, fra gliultimi delle nostre frequentazioni. Quando ci fu l’elezione delPresidente della Repubblica nel ’92, che si concluse con Scal-faro, io mi occupavo dei rapporti con gli altri partiti. Unavolta andai, non da solo (adesso non mi ricordo chi fosse l’al-tro o gli altri) a parlare con lui. Era subito dopo il voto su Vas-salli che non era passato. Andammo da lui per chiedergli: behche si fa? Stava in un ufficio su al gruppo parlamentare. Loricordo con affetto: sembrava un leone in gabbia. Risponde:“Che si fa, che si fa… lo sapete voi…”. Era chiarissimo chesarebbe voluto sbottare e dire: “Ma che cazzo andate a cer-care? Ce l’avete davanti il Presidente della Repubblica”. Perònon lo diceva. Ma faceva una tale violenza a se stesso percontenersi. Noi andavamo lì a dirgli che non avevamo nullain contrario su una candidatura del PSI, che però non era lasua. L’altra, fu forse l’ultima volta che lo incontrai, quandoandammo, sempre nel ‘92, in autunno, all’incontro chedoveva ufficializzare il nulla osta del partito socialista per il

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nostro ingresso nell’Internazionale socialista. Ho anche il mioverbalino di quell’incontro, quello che dice lui e quello chedice Occhetto. La sede dell’incontro fu anche questa voltapresso la sede del gruppo del partito socialista: nella salagrande, perché erano due delegazioni, non un colloquio aquattr’occhi. Ho ritrovato il verbale, ma ricordavo bene le sueparole. Questa volta mi parve non solo in gabbia, ma ancheferito. C’era stata tutta la vicenda della mancata elezione aPresidente, aveva dovuto lasciare il passo per Palazzo Chigi,e poi aveva avuto l’avviso di garanzia. Lui disse: “Va beh –con quell’aria sua un po’ svagata e scettica, anche se perento-ria – mi sembra chiaro, no? Ormai siamo obbligati a stareinsieme, ormai è così: dobbiamo stare insieme, teneteneconto”. Lo diceva – ne sono sicuro – non solo a noi ma anchea sé. Lo vedeva chiarissimamente, capiva che era un obbligo;ma forse non gli andava tanto a genio. Questi miei ricordisono molto precisi.

Comunque quelle 48 ore che hai dipinto così bene sonoquelle 48 ore in cui invece questo ricordo che si era con-dannati a stare insieme è stato dissipato da entrambe leparti.Certo non c’è dubbio. Quel giorno è nella mia vita, e nellavita della sinistra, nigro signanda lapillo: per le monetine,certo, ma non solo per le monetine. Vorrei che fosse chiaroche le monetine sono il momento che ferisce e colpisce l’im-maginazione, ma è tutto il dramma preparatorio che è terri-bile. Craxi se ne va, ma quel giorno Occhetto perde la segre-teria. Quel giorno il progetto del PDS viene devastato.

Da quel giorno un pezzo dell’elettorato socialista va avotare paradossalmente a destra.Vero, ma questa è già un altro capitolo, in cui Craxi c’entrasolo lateralmente. Quando si passa dalla prima Repubblica,con i suoi partiti, alla bipartizione maggioritaria, dopo il refe-rendum, è evidente che gli elettorati si scompongono. Sonotanti gli elettori che si ricollocano nel momento in cui siscompone il vecchio sistema proporzionale e si avvia lacostruzione di quello nuovo, maggioritario. L’elettorato tradi-zionale del PCI, per esempio si divide fra sinistra di governoe sinistra estremistica, ma tutto l’elettorato si redistribuisce esi rimotiva. E’ un passaggio sul quale si riflette ancora poco;ma, se si vuole farlo, si deve considerare un intero pezzo dellastoria dell’Italia, in particolare il decennio ‘80, il decenniodel CAF. Di fronte alla bipartizione anche gli elettori del CAFsi dividono, ma non a metà: in gran parte vanno a destra e – a

parte quelli, non molti, che non votano – una parte minorita-ria si colloca nell’altro polo. Se vai a vedere come si distri-buiscono percentualmente vedi tutti questi elettori: fosserodemocristiani o socialdemocratici, trovi che lo fanno esatta-mente come gli elettori socialisti; il comportamento di quellamassa di elettorato è del tutto omogeneo a prescindere dallascelta del partito che ciascuno faceva nell’ambito del “penta-partito”. Siamo noi che facciamo un errore di ottica nel ricon-durre questo comportamento alla semplice scelta del partito.Nel corso degli anni ‘80 quella massa di elettori si considerae si identifica sempre di più come una “maggioranza digoverno”. Quando sono chiamati ad un voto diverso, in cuinon si sceglie più un partito, ma si sceglie direttamente aquale delle due parti attribuire il mandato a governare, l’80%almeno di quell’elettorato va dalla parte in cui non c’è la sini-stra, dove si colloca neppure il 20% del bacino elettorale pen-tapartito. Gli elettori del PSI sono – lo ripeto – perfettamentenella media; anzi, se mai, leggermente sotto. I fatti di cuiabbiamo parlato, i lanci di monetine, le dure polemiche ver-bali hanno scavato sicuramente divisioni profonde e duraturei cui effetti sono pesanti e durano ancora oggi. Ma io pensoche questo, per quanto importante, riguardi uno strato abba-stanza sottile di opinione, i nuclei militanti più ristretti, i cetipiù colti. Ma non credo siano stati decisivi ai fini del com-portamento elettorale dei grandi numeri; penso che anchesenza quei fatti, al momento della divisione bipolare maggio-ritaria non sarebbe cambiato un gran che.

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>>>> saggi e dibattiti

L’idea che mi sono fatto della seconda parte della prima Re-pubblica – e specialmente degli anni Settanta e Ottanta– è quella di un periodo nel quale le classi dirigenti del nostropaese non furono all’altezza dei problemi economici che do-vevano affrontare. Più a fondo, di un periodo in cui il sistemapolitico italiano – composto da partiti di governo ideologica-mente contrastanti, costretti a stare insieme per tenere all’op-posizione un partito antisistema, il grande PCI di allora – rivelòappieno la sua inettitudine a governare un paese in tumultuo-sa trasformazione, sottoposto a formidabili scosse interne(shocks salariali e terrorismo) ed esterne (crollo del regime diBretton Woods, crisi del petrolio). Insomma: di un periodo dioccasioni mancate e decisioni non prese, le cui conseguenze ve-nivano addossate sulle spalle delle generazioni successive.Che cos’è infatti l’inflazione che esplose ametà degli anni ’70 e sitrascinò per tutti gli anni ’80 a ritmi più che doppi rispetto agli al-tri grandi paesi europei? La sua intensità anomala è la conseguen-za di decisioni procrastinate, dimisure che si aveva l’intenzione,manon la forza politica di prendere. Gli altri paesi attuaronomisure dicontenimento efficaci al più tardi nei primi anni ’80; noi dovem-mo attendere altri dieci anni e arrivare al 1992, alle soglie di unacrisi politica ed economica devastante, prima di arrestare l’infernalemeccanismo della scala mobile con le riforme che Ezio Tarantellicercava di “vendere” ai politici sin dall’inizio del decennio prece-dente. E che cos’è il debito pubblico, la cui dimensione eccezionaleha origine negli anni ’70 e si ingigantì negli anni ’80, se non l’ef-fetto di continui di-savanzi di bilancio?E dunque dell’incapacità dicoprire le spese con entrate fiscali adeguate a finanziarle?Oppure,se si intendeva tener basso il prelievo, dell’incapacità di frenare la

spesa, in larga parte dovuta ad esigenze di consenso politico? Su in-flazione e debito tornerò, anche perché, come vedremo, l’inter-pretazione dei loro effetti non è unanime. Ma se consideriamo lecause, non v’è dubbio che si trattò di una manifestazione di debo-lezza delle classi dirigenti, della loro incapacità di perseguire obiet-tivi che pur dichiaravano di voler raggiungere.Debolezze non per-sonali, anche se queste vi furono. Ma conseguenza di un sistemapolitico unico in Europa, che rendeva più difficile nel nostro pae-se un problema che in democrazia è difficile ovunque: quello diprendere decisioni lungimiranti e potenzialmente impopolari, de-cisioni in cui sono tenuti in conto gli interessi delle generazioni fu-ture e le prospettive di crescita nel lungo periodo.Il sistema politico che emerse dalla guerra e si stabilizzò dopoil 1948 era infatti singolarmente inadatto a prendere quel tipo didecisioni. Di questa inettitudine non ci si rese conto fino alla me-tà degli anni ‘60, per tutta la lunga fase dei governi centristi. Es-sa si manifestò quando la necessaria conventio ad excludendum– fallita la “legge truffa” e poi l’estensione a destra della mag-gioranza – rese inevitabile il centro-sinistra, la partecipazione deisocialisti al governo. E quando la grande crescita e la piena oc-cupazione crearono le precondizioni per uno straordinario raf-forzamento del sindacato: un sindacato diviso ideologicamen-te e che mantenne sempre legami molto forti sia con i partiti digoverno, sia con il grande partito di opposizione. Fu una con-dizione che perdurò sino alla fine degli anni 80: a differenza del-la Francia, il PCI fu sempre superiore al PSI come consenso elet-torale e capacità di rappresentanza dei ceti operai, il soggetto so-ciale chiave durante la fase della crescita fordista. Di conse-guenza la necessità di una sua “esclusione” generava costi de-cisionali che altri sistemi politici non dovevano sostenere.

Il governo deboleIn queste condizioni non è difficile comprendere perché, di fron-te alle tensioni che emersero negli anni ‘70, fu debole la rispostadei governi sia sul fronte dell’inflazione, sia su quello del de-bito. Divisi al loro interno da un antico contrasto ideologico eda più recenti e mediocri conflitti sulla spartizione delle risor-

Il dire e il fare>>>> Michele Salvati

Anni Ottanta

Con questo saggio di Michele Salvati, trattodal volume “Pensare la contemporaneità. Studidi storia per Mariuccia Salvati”, a cura di P.Capuzzo, C. Giorgi, M. Martini, C. Sorba, ed.Viella, apriamo un dibattito sugli anni Ottantae il loro lascito nella società italiana.

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se, tallonati dai sindacati e dal PCI, i governi di centro-sinistranon soltanto furono incapaci di tenere, nei confronti del sin-dacato, la posizione di De Gaulle e Pompidou, e più tardi del-la Thatcher, ma anche di avviare una concertazione costrutti-va, come avveniva in altre democrazie europee. Il sindacato, edietro di esso il PCI, lo impedivano, e bisognerà attendere ilcrollo del comunismo e la crisi finale della prima Repubblicaaffinché una concertazione efficace potesse aver luogo.Prendere decisioni sulla base di un modello condiviso di poli-tica economica alla luce degli interessi delle generazioni futu-re e dei grandi problemi strutturali irrisolti del nostro paese –il Mezzogiorno, la qualità della pubblica amministrazione, unsettore pubblico ipertrofico e sempre più inefficiente- era estre-mamente difficile nelle condizioni politiche appena descritte.Chi insisteva sul rigore, come Ugo La Malfa, era visto comeun’impolitica Cassandra. Oppure, più maliziosamente, come unabile politico che coltivava il suo orticello – frequentato da unsegmento di borghesia che gli garantiva una piccola rendita diconsenso- ma ben consapevole che il rigore non sarebbe statoesportabile al grande orto della politica italiana.Con brevità caricaturale ho dato una prima idea di come vedola seconda parte della prima Repubblica, i decenni ‘70 e ‘80 delsecolo scorso

1. Una visione che si è venuta formando nel cor-

so di quegli anni e che predispose in modo favorevole me e tan-ti altri nei confronti del passaggio traumatico alla seconda. Eli-minato – con il crollo del comunismo sovietico e la “morte etrasfigurazione” del PCI – il principale ostacolo che si frappo-neva ad una alternanza di governo; in presenza di partiti che ora,più o meno, condividevano le stesse concezioni di politica eco-nomica, di ciò che è possibile fare in un’economia di mercatoaperta; con un sistema elettorale che imponeva un vincitore bendefinito e un governo composto senza mediazioni parlamentari:in queste circostanze – pensavamo – le carenze decisionali del-la prima Repubblica sarebbero state eliminate.Nei primi anni ‘90 era difficile immaginare che anche l’espe-rienza della seconda Repubblica sarebbe stata così insoddisfa-cente, e insoddisfacenti non furono infatti i suoi primi anni, trala crisi fiscale e valutaria e l’ingresso nel sistema monetario eu-

ropeo. I motivi di insoddisfazione si manifestarono soprattut-to dopo il 1998, dopo la caduta del primo governo Prodi, e ven-nero aggravandosi nel nuovo secolo, trasformandosi nelle se-rie preoccupazioni di oggi. E tuttavia, per quanto si debba cri-ticare la politica economica della seconda Repubblica, non perquesto è giustificato rimpiangere quella della prima: essa è sta-ta profondamente inadeguata e ha prodotto buona parte dei gua-sti che hanno poi reso difficile attuare una politica economicaefficace nella seconda. E’ vero che i motivi di rimpianto di so-lito non riguardano la politica economica, ma altri aspetti del-la vita politica e civile di quegli anni, se confrontati con la ris-sa e l’inciviltà degli anni a noi più vicini. Nell’insieme si sta pe-rò diffondendo una visione rosea e nostalgica degli anni ‘80, enon soltanto in coloro, socialisti e democristiani, che hanno buo-ni motivi per condividerla. Di qui il mio interesse, condividendouna visione piuttosto diversa, a confrontarmi con le ragioni deinostalgici.

Decisionismo senza decisioni

Marco Gervasoni non è certo tra costoro. Ma quando, doven-do rivisitare gli anni ‘80 per una conferenza, lessi la recensio-ne che Andrea Romano ha dedicato sul “Domenicale” del So-le24ore al suo libro più recente2, pensai che in questo giovanestorico avrei forse trovato chi mi avrebbe fatto modificare il giu-dizio negativo su quegli anni. Procuratomi il libro, mi accorsipresto di essermi sbagliato. Saremo pure stati moderni e alle-gri, contagiati dall’edonismo reaganiano, rimpinguati da con-sumi di massa e arricchiti da lauti guadagni in borsa: ma era-vamo una bella massa di incoscienti. Sto ovviamente parlandodelle classi dirigenti, che non potevano non sapere che il con-to del “Nuovo Rinascimento” e della “Milano da bere” sareb-be stato presto presentato. Che il grande rigoglio di vitalità im-prenditoriale delle piccole imprese -favorito dalla debole pres-sione fiscale reale e dalla continua svalutazione della lira- dif-ficilmente avrebbe potuto compensare il declino della grandeindustria privata e l’imminente tracollo di quella pubblica, in-festata dai partiti. Che trasferimenti di ogni tipo continuavanoa sostenere i consumi del Mezzogiorno, ma che dopo la fine delgrande disegno della Cassa nessun nuovo disegno di sviluppolo sostituiva. Che i progetti di riforma della Pubblica ammini-strazione (Massimo Severo Giannini) o dell’Università (Anto-nio Ruberti), progetti eccellenti, i migliori sino ad allora ten-tati, non riuscivano a incidere sulle logiche partitiche e buro-cratiche che dominavano quei settori. Che lo stesso decisioni-

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1 Sempre molto breve, ma meglio argomentata, è l’analisi della seconda par-te della prima Repubblica presentata al convegno in onore diAugusto Gra-ziani (Università della Calabria, giugno 2010) e in corso di pubblicazio-ne negliAtti del convegno con il titolo: Le origini lontane del ristagno eco-nomico presente. Più disteso è il racconto contenuto in Occasioni Man-cate. Economia e politica in Italia dagli anni 60 ad oggi, Laterza, 2000.

2 Storia d’Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio,2010. La recensione di Romano è del 17 ottobre 2010.

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smo craxiano in tema di scala mobile – il decreto di San Va-lentino e poi la sconfitta del PCI e della CGIL nel referendum– ebbe un effetto assai modesto nel ridurre l’inflazione, men-tre altrove (nel Regno Unito attraverso un duro scontro col sin-dacato, nell’Olanda diWassenar con un accordo efficace) l’in-flazione venne debellata. Perché non si riuscì ad imporre allo-ra la soluzione che Tarantelli andava da tempo predicando? In-somma, i progetti di riforma c’erano: ho appena citato granditecnici socialisti, con in testa Giuliano Amato, ma c’erano an-che i democristiani, primo fra tutti Nino Andreatta. Mancava-no le condizioni politiche per imporli. C’era il decisionismo -San Valentino, Sigonella-, mancavano le decisioni: o meglio,la loro efficacia era al di sotto di quella necessaria. C’era il fu-mo, spesso un buon profumo; era scarso l’arrosto3.Questi sono i motivi per i quali il bel libro di Gervasoni non miha fatto cambiare idea, non ha modificato il mio giudizio su que-

gli anni. La sua Storia d’Italia degli anni ottanta racconta so-lo un pezzo di quella storia: dei progetti di riforma che ho ap-pena menzionato non parla affatto o vi accenna di striscio. E’un efficace affresco di “come eravamo” e dell’atmosfera che al-lora si respirava; del primo raggiungimento di una società deiconsumi di massa, di cui c’era stato solo un assaggio negli an-ni 60, poi offuscato dalle tensioni sociali che caratterizzaronoil decennio successivo; del ruolo che ebbero le televisioni pri-vate nel radicare e diffondere mode, stili di vita, consumi. E ditante altre cose. Chi ha vissuto quegli anni da giovane si ritro-verà appieno nella ricostruzione che ne fa Gervasoni, ricono-scerà i film che vedevamo, i romanzi che leggevamo, le can-zoni che ascoltavamo e cantavamo, e si divertirà molto nella let-tura. E non vorrei suscitare equivoci con questi pochi accenni:l’immagine che vien fuori dal libro, seppur soffusa di simpa-tia, non è rosea. Non foss’altro che per il senno di poi, rosea nonpoteva esserlo, e Gervasoni è pronto a cogliere i segni premo-nitori di una crisi che solo due anni dopo la conclusione del de-cennio sconvolgerà l’economia e il sistema politico italiani. Madi segni si tratta, non di cause.L’insostenibilità della politica economica di quegli anni, le gra-vi carenze dello stesso sistema politico, capace di sprazzi di de-cisionismo ma non di decisioni, i limiti e i conflitti ideologicie culturali che bloccavano l’azione delle élite, sono al di fuoridella portata del libro. Sicuramente l’autore difenderà la suascelta, il taglio che ha adottato: “Non si può parlare di tutto ealtri hanno già scritto di economia, di politica, di classi dirigenti;io parlo soprattutto di società, costumi, atteggiamenti, atmo-sfere”. Siccome ne parla bene, è una difesa che trovo adegua-ta e sulla quale tornerò nella parte finale di queste note, dedi-cata a un commento sui modi diversi di fare storia. Per ora milimito a ripetere che, proprio per il suo taglio, la storia di Ger-vasoni non si incastra con la mia. Forse è complementare; co-

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3 Una valutazione più analitica di questi problemi e delle difficoltà nel-l’affrontarli da parte dei politici del tempo si trova nei miei lavori appe-na citati e in altri citati in seguito. Una eccellente raccolta di saggi sullapolitica economica degli anni ‘80 è il frutto di tre convegni tenutisi a Ro-ma nel 2004: essa è stata curata da GennaroAcquaviva con il titolo La po-litica economica italiana negli anni 80,Marsilio, 2005, con la prefazio-ne di Piero Craveri. Gli studiosi che vi hanno partecipato sono (quasi) tut-ti di area socialista e le valutazioni che forniscono non sono certo pre-giudizialmente critiche. Trattandosi però di studiosi seri, esse sono in lar-ga misura condivisibili e le difficoltà di attuare una politica efficace, nelcontesto del conflitto latente del PSI con la DC, e di quello aperto con ilPCI e la CGIL, emergono con chiarezza. Il mio giudizio, più attento aglieffetti che alle intenzioni, è però più severo. E ci sono in quella raccoltalacune significative, perché riguardano settori in cui l’inquinamento par-titico e l’inefficacia delle politiche è stato più forte: il Mezzogiorno e l’im-presa pubblica, in particolare. E’però un libro che mi sentirei di consigliare,ed in particolare il saggio diAntonio Pedone su La politica di bilancio travincoli monetari ed esigenza di sviluppo produttivo.Qui non ne parlo per-ché quanto avrei da obiettare alla sua ricostruzione, non molto in verità,emerge con chiarezza dalle discussione che in seguito svolgo sul saggiodi Giavazzi e Spaventa.

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munque non interferisce con le conclusioni che ho raggiunto enon modifica le mie convinzioni.

La versione di Giavazzi e SpaventaQuello che invece, a suo tempo, mi creò un problema inter-pretativo serio fu un saggio di Giavazzi e Spaventa, un saggioche suscitò un certo scalpore tra gli economisti: “Gli effetti rea-li dell’inflazione e della disinflazione”, pubblicato proprio al-la fine degli anni ‘80 sulla Rivista di Politica Economica4. Micreò un problema perché sosteneva con buoni argomenti una te-si allora (ma anche oggi) non convenzionale: che, dal punto divista del sostegno al reddito e all’occupazione, fu un bene chele politiche disinflazionistiche e di limitazione dei disavanzi, an-nunciate e tentate nel corso di quel decennio, non funzionaro-no. Se avessero funzionato, questa è la tesi principale dei dueautori, la crescita e l’occupazione ne avrebbero risentito forte-mente. Dunque, nei fatti, venne condotta una politica economicaefficace, che diede buoni risultati e non sembrerebbe meritareil giudizio negativo che ne ho dato nella mia ricostruzione. Adifferenza del saggio di Gervasoni, che si sviluppa su un pia-no parallelo, quello di Giavazzi e Spaventa è ortogonale e sem-brerebbe contraddire le mie conclusioni. In altre parole: men-tre nel caso di Gervasoni possiamo “aver ragione” entrambi,perché parliamo di cose diverse, nel caso di Giavazzi e Spaventa– poi ripresi da Pedone nel saggio che ho ricordato – potrebbesembrare che, se hanno ragione loro, io devo aver torto. E’pro-prio così? Per proseguire nella discussione è necessario, a que-sto punto, descrivere almeno per sommi capi la vicenda dei dis-avanzi e del debito nel corso degli anni ‘70 e ‘80, vicenda cheriassumo in tre passaggi descrittivi e alcuni commenti5.Gli anni che vanno dalla seconda parte del decennio ‘60 e si-no alla fine dell’80 furono quelli che videro ovunque, in Europa,un forte aumento della spesa pubblica, in larga misura destinataa costruire o completare le istituzioni portanti dello Stato di Be-nessere. Solo per dare un’idea, mi limito a confrontare i rapportitra spesa pubblica e Pil nel 1965 e nel 1988 nei quattro mag-giori paesi europei: Italia, dal 27% al 40; Regno Unito, dal 33al 40; Francia, dal 38 al 48; Germania, dal 35 al 44. Come si

può notare, in Italia il processo fu più ritardato ma più intenso(13 punti di differenza), e oltre alle spese sociali vide una for-te crescita della spesa per scopi istituzionali (regioni) e di svi-luppo, da ultimo per ripianare i crescenti disavanzi delle impresepubbliche. Negli altri paesi l’incremento del prelievo accom-pagnò la spesa, vi furono disavanzi moderati e di conseguen-za fu modesta la crescita del debito. In Italia tra il 1970 e il 1973si bloccò in pratica la crescita del prelievo, mentre la crescitadella spesa proseguiva imperterrita.Alla fine del decennio si eraformato un debito significativo, intorno al 60% del Pil, che al-lora non pesava sul reddito a seguito di una inflazione che an-nullava o rendeva negativi gli interessi reali. Indebitarsi, per loStato, era conveniente.Con il mutamento del regime economico-politico internazionalealla fine degli anni ’70, e dunque con il rallentamento dell’in-flazione internazionale e interna, il tasso d’interesse reale tor-nò ad essere positivo, e l’onere del debito divenne una fonte im-portante e crescente di spesa che si aggiunse alle spese pub-bliche ordinarie per trasferimenti, consumi collettivi e investi-menti. Per limitare i disavanzi complessivi (e dunque la crescitadel debito) sarebbe stato necessario comprimere la spesa ordi-naria – “primaria ” come la chiamano gli economisti – in mo-do da far spazio ad una crescente spesa per interessi. Questacompressione invece non ci fu, e nonostante la forte crescita del-le entrate fino alla fine del decennio vi furono disavanzi primaricontinui, cui si aggiungevano le spese per interessi. Si innestò

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4 Nn. 7 e 8, luglio-agosto, 1989.5 Una eccellente ricostruzione descrittiva dell’intera vicenda dei disavan-

zi e del debito, dalla quale ho preso i pochi dati citati in seguito, si puòtrovare in M. BALDASSARRI e M.G. BRIOTTI, Bilancio pubblico edeconomia italiana negli anni 70 e 80: dalle radici del debito alla mano-vra di risanamento, una “ristrutturazione” da fare, in “Rivista di Politi-ca Economica”, vol. 80, nn. 7-8, luglio-agosto 1990

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così un meccanismo infernale di crescita del rapporto debito/Pil,destinato ad accelerare a seguito della riduzione della dinami-ca del reddito: alla fine del decennio esso era arrivato al centoper cento, ad un debito pari al Pil, per superare il 125 per cen-to nella prima metà degli anni ‘90.Due gli interrogativi principali. Perché nella prima parte de-gli anni ‘70 la crescita delle entrate fiscali praticamente si ar-restò, e a differenza degli altri paesi europei si arrivò ai pri-mi anni ‘80, quando fu necessario corrispondere interessi rea-li positivi ed elevati, con un debito già molto alto? E perché,nel corso degli anni ‘80, i disavanzi e la crescita del debito nonvennero frenati attraverso una politica di avanzi primari checompensasse la crescita dell’onere del debito? Le risposte cheho dato a queste domande nei miei lavori sono un cocktail condosi abbondanti di difficoltà politiche e inadeguatezza delleclassi dirigenti, e dosi minori – è il classico schizzo di ango-stura – di incompetenza amministrativa, specie per il bloccodel gettito nei primi anni ‘706. Proprio come nel caso del-l’inflazione anche in quello del debito gioca quell’incapaci-tà del ceto politico di decidere in vista di interessi di lungo pe-riodo, alle cui cause abbiamo fatto cenno più sopra: quando,negli anni ‘80, non fu più possibile o divenne troppo costo-so cedere alle pressioni sociali mediante una crescita dell’in-flazione, vennero usati i disavanzi e il debito come terreno diconcessione, a discapito dell’interesse delle generazioni suc-cessive. In che misura questa visione fortemente critica del-le classi dirigenti e della politica economica che esse perse-guirono può essere sostenuta se si tiene conto delle conclusionidi Giavazzi e Spaventa?

Le colpe del sistema politicoQuando lessi quel saggio mi resi conto subito della minacciache esso poneva alla mia valutazione critica delle politiche de-gli anni ‘80: se con politiche serie di contenimento dei disavanzie di disinflazione avremmo generato maggiore disoccupazio-ne e ridotto il tasso di crescita del reddito; e inoltre se le poli-tiche lasche che di fatto vennero adottate non furono la causaprincipale dell’enorme accumulazione di debito pubblico cheavvenne in quegli anni; se queste conclusioni sono vere, non fe-cero forse bene le classi dirigenti di quel decennio a contrastaresolo debolmente l’inflazione e a non accanirsi nella riduzionedei disavanzi?

La risposta che allora mi diedi e che mi consentì di persiste-re in buona fede nella valutazione negativa che ho prima ri-assunto si basa su due argomenti. Il primo è il seguente: an-che se le conclusioni di Giavazzi e Spaventa fossero inattac-cabili, un giudizio su una classe dirigente lo si dà sugli obiet-tivi che essa si pone, se riesce o non riesce a raggiungerli, e,in questo secondo caso sulle ragioni per cui non ci riesce. Oranon vi è alcun dubbio che le classi dirigenti di quegli anni vo-lessero rallentare la dinamica del debito e ridurre più decisa-mente l’inflazione: questi obiettivi sono consegnati, oltre chead innumerevoli dichiarazioni dei politici, a documenti uffi-ciali di programmazione, a preventivi fissati in termini quan-titativi precisi e perennemente smentiti dai consuntivi. Gli ef-fetti positivi che Giavazzi e Spaventa descrivono sono dovu-ti proprio al fatto che gli obiettivi non furono raggiunti e i pro-grammi non furono rispettati. Il primo argomento a difesa del-le mie tesi critiche è semplicemente questo: che non si dà cre-dito ad una classe dirigente per non essere riuscita a rag-giungere i suoi obiettivi, non la si apprezza per gli effetti pre-terintenzionali del suo fallimento. Anzi, oltre ad un giudiziodi incapacità e di debolezza, di cedimento di fronte a domandesociali che si volevano controllare, si dovrebbe aggiungere ungiudizio di insipienza, quello di essersi posta degli obiettivisbagliati.Passiamo al secondo argomento: erano poi sbagliati quegliobiettivi? L’articolo di Giavazzi e Spaventa dimostra in modoconvincente la loro tesi principale: sotto il profilo del redditoe dell’occupazione la politica perseguita di fatto (anche se nonintenzionalmente) negli anni ‘80 è stata una politica di successo,date le circostanze. Ma sarebbe stato necessario un poderosoesercizio controfattuale per affrontare la domanda che essi sipongono nell’ultima parte del loro saggio: “Se le astute [sic: mal’astuzia non richiede forse intenzionalità?] politiche degli an-ni ‘70 e dei primi anni ‘80 hanno solo differito il conto da pa-gare, che si manifesta oggi nella forma di un andamento inso-stenibile del debito pubblico” (p. 35, corsivo mio). Questa è an-che la domanda che interessa più a me: una risposta positiva –sì, hanno solo differito ed anzi aggravato il conto da pagare –equivale a riconoscere che i ceti dirigenti degli anni ‘80 han-no scaricato sulle spalle delle generazioni future un problemache la loro debolezza politica non gli consentiva di affrontarenel presente.A differenza del punto (a), sul punto (b) la risposta dei nostriautori non è convincente: “E’ nostra opinione che il problemadel debito non trae origine dal particolare mix di politiche eco-nomiche esaminato in questo articolo. Il saldo primario di bi-

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6 Cfr. ad esempio Occasioni mancate. cit., in ispecie il capitolo 5.

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lancio subì un rapido e rimarchevole aumento tra il 1970 e il1973 e da allora non si è più aggiustato. Ma neppure si sonoavuti peggioramenti: la crescita esplosiva del rapporto debito/Pilè la conseguenza del disavanzo primario manifestatosi agli ini-zi degli anni ‘70 e poi di alti tassi reali d’interesse. Non vi è dub-bio che il disavanzo primario debba oggi essere trasformato inun consistente avanzo e che da ciò possano derivare severe con-seguenze macroeconomiche: ma si tratterà del prezzo da pa-gare per il periodo 1970-1973 e non per le politiche esamina-te in questa sede” (le politiche esaminate sono quelle tra il 1976e il 1988, i corsivi sono miei: p. 42). Il ragionamento non fun-ziona. Per rispondere alla domanda che essi stessi si pongono(se le politiche degli anni ‘70 e ‘80 abbiano solo differito il con-to da pagare) non basta mettere in rilievo che l’origine del de-bito è da collocare all’inizio degli anni ‘70 – e sono d’accor-do- e che dopo d’allora non ci sono stati peggioramenti – e, conqualche riserva, sono pure d’accordo. Occorre soprattuttochiedersi se nel corso degli anni ‘80 (se non già alla fine dei ‘70)non sarebbero stati possibili deimiglioramenti tramite maggioriimposte, minori spese e dunque minori disavanzi: miglioramentiche ci avrebbero fatto arrivare alle soglie dei turbolenti anni ‘90in condizioni di equilibrio fiscale meno attaccabili dalla spe-culazione internazionale.La risposta non è immediata: minori spese pubbliche (le impo-ste già crescevano vigorosamente), e la trasformazione dei di-savanzi primari in avanzi, probabilmente avrebbero avuto effettinegativi sul reddito, e di conseguenza il rapporto debito/Pil sa-

rebbe diminuito di meno a seguito di una minor crescita del de-nominatore. Ma è assai probabile che quel rapporto sarebbe di-minuito comunque se una forte riduzione dei disavanzi avessearrestato la crescita del numeratore: il “conto da pagare” neglianni ‘90 poteva essere minore7. Resto dunque dell’idea che unapolitica di maggior rigore fiscale non venne intrapresa non per-ché fosse (e fosse giudicata) controproducente dal punto di vi-sta delle prospettive di lungo periodo dell’economia italiana, maperché le classi dirigenti di allora, pur giudicandola desiderabile,non ebbero la forza politica di imporla.

Due storie diversePiù sopra ho notato che le nostre due storie non si incrociano.Nel metodo non potrebbero essere più diverse e nel merito es-se producono giudizi dissonanti su quel decennio: sostanzial-mente negativo, nel mio caso, cautamente positivo nel caso diGervasoni. Ma è il problema di metodo quello più interessan-te, perché entrambi saremmo d’accordo che non è compito del-lo storico dare giudizi, ma quello di “raccontare” come le co-se sono andate (Gervasoni) o “spiegare” perché le cose sonoandate come effettivamente andarono (Salvati). Nel caso mioil giudizio negativo è, per così dire, il sottoprodotto di un mo-dello implicito che cerca di spiegare perché vennero prese de-cisioni economicamente dannose per il paese e omesse decisionivantaggiose: insomma, perché furono mancate occasioni cheerano (in astratto) alla portata delle classi dirigenti.I danni e gli svantaggi sono misurati col metro relativamentesemplice dell’economia (inflazione e debito sono eventi dannosi,crescita e occupazione vantaggiosi), e il modello spiega le de-cisioni/omissioni sulla base dei condizionamenti che il contestostorico esercitava sugli attori, ed in particolare dei condiziona-menti esercitati dalla natura del sistema politico nonché dalleideologie e dalle convenienze dei partiti8. E’ in questo passag-gio dall’astratto al concreto che si collocano sia la spiegazione,sia il giudizio. Data la struttura del modello il fenomeno da spie-gare è piuttosto circoscritto e il procedimento di spiegazione benspecificato: le variabili politiche inducono decisioni ed omissionie queste hanno sull’explanandum – sulla crescita, sull’occupa-zione, sul debito, sull’inflazione – gli effetti negativi che è pos-sibile desumere dalla teoria economica e verificare nei fatti. Lavalutazione, il giudizio, sono pertanto semplici sottoprodotti diquesto tipo di spiegazione, e più che riferirsi alla qualità perso-nale delle classi dirigenti si indirizzano al sistema di vincoli ideo-logici e istituzionali cui erano sottoposte, come si intuisce an-che dal brevissimo riassunto fornito più sopra9. Se mi si lascia

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7 Il piccolo esercizio controfattuale svolto da Giavazzi e Spaventa alla fi-ne del saggio (pp. 40 e 41, grafico 8) non valuta le conseguenze di un mag-giore rigore fiscale nel corso degli anni ‘80, a parità di politiche disin-flattive, che invece è necessario calcolare per rispondere alla domanda chegli autori si pongono. Gli economisti, facendo uso di modelli molto sem-plificati, in cui le variabili influenti sono ben identificate e le relazioni tradi esse formalizzate in modo preciso, possono simulare facilmente “checosa sarebbe avvenuto se…” una delle variabili avesse assunto un diver-so valore o una delle relazioni causali si fosse modificata. Quanto sianoaffidabili queste simulazioni, quanto siano trasferibili da un modello sem-plice ad una realtà complessa, è questione cui è impossibile rispondere invia generale. Una valutazione sull’uso di controfattuali nell’analisi di vi-cende storiche, della loro utilità ma anche dei rischi che comportano (glistorici sono in genere più cauti degli economisti), è contenuta in M. SAL-VATI, Perché non abbiamo avuto (e non abbiamo) una classe dirigenteadeguata, in “Rivista Italiana degli Economisti, anno 9, supplemento aln. 1/2004. Si vedano in particolare le pp. 150-153.

8 Una discussione estesa delle modalità di spiegazione/valutazione che adot-to nelle mie “storie” sta nel saggio appena menzionato, Perché non ab-biamo avuto ecc., soprattutto nelle pp. 139-146.

9 Ho esplorato il rapporto tra “spiegazione” e “valutazione” –sempre conriferimento alla vicenda italiana e alle classi dirigenti postbelliche- in Co-me si studiano le élite. Le élite politiche e le scienze sociali, in “Stato eMercato”, n. 89, agosto 2010, specie alle pp. 39-40.

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passare un’affermazione ingannevole nella sua brevità, ma me-glio spiegata nel saggio appena citato, “causa” e “responsabili-tà” sono due letture di uno stesso processo.Nel caso di Gervasoni non esiste un implicito e semplice mo-dello di “spiegazione”, avvicinabile alla forma canonica di ex-planans/explanandum. I fenomeni “raccontati” sono troppo nu-merosi e parte di essi sono descrivibili solo in modo impres-sionistico e qualitativo: essi vanno dai cambiamenti nella strut-tura delle classi e dei ceti (cap. 5) ai modelli di successo sociale(cap. 6); dalla trasformazione delle mobilitazioni collettive (cap.7) al rapporto tra fede e secolarizzazione (cap. 8); dallo sviluppodelle televisioni private (cap. 4) all’esplosione dei consumi (cap.3); dal bisogno di leadership e dai decisori che l’incarnaronoin quegli anni (cap. 2) alla riemersione dell’idea di nazione (cap.1); dalla cultura individualistica, disimpegnata e postmoderna(cap. 9) alla spettacolarizzazione della politica (cap. 10).Ognuno di questi fenomeni ha sue origini specifiche, ma Ger-

vasoni non è interessato alle cause, alla “spiegazione”, di aspet-ti della vicenda storica così diversi e numerosi. E’ interessatoa identificare i tasselli a suo giudizio più caratteristici e a com-porre un mosaico evocativo di quel complicato decennio; è in-teressato ad una narrazione efficace, ad un quadro artisticamenteriuscito, più che a un ragionamento che cerchi di avvicinarsi al-le modalità di spiegazione delle scienze sociali.

Cos’è la storiaNon ho né la competenza né la possibilità di aggiungere qual-cosa di significativo alla sconfinata letteratura su What is Hi-story10: tra i cento modi di fare storia, il modo descrittivo e pit-torico di Gervasoni mi piace molto e di certo è più divertente

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10 E.H. CARR, Cambridge U. P., 1961. Ovviamente nel testo mi riferisconon solo al famoso libro di Carr, ma al problema epistemologico che Carraffronta, e moltissimi hanno affrontato prima e dopo di lui..

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e più ricco di informazioni del mio. E neppure ho la competenzae la possibilità di entrare nel merito del suo modo di far storia,del quadro che ha dipinto, e dunque di valutare se qualche pen-nellata è dissonante o manca qualche tocco, qualche riferimento,che non doveva mancare. Dopo tutto, questa non è una recen-sione. Vorrei solo concludere tornando al problema della va-lutazione d’insieme del decennio sul quale entrambi, Gervasonied io, abbiamo riflettuto e scritto. Per le ragioni che qui ho in-dicato in modo sommario, ma sono esposte in esteso nei duesaggi che ho citato, nel mio caso la valutazione è facile: nellacomplessa tessitura di quegli anni tratto solo di un filo – la po-litica economica- e, nel trattarne, dispongo di un modello cau-sale che pretende di “spiegare” quel filo: come dicevo più so-pra in modo impressionistico, causa e responsabilità coincido-no. E’ invece molto difficile per Gervasoni, che tratta di unamatassa molto più ampia, se non dell’intera tessitura, e ne trat-ta in modo descrittivo, senza un implicito e unificante model-lo causale. E senza di questo è difficile attribuire colpe, meri-ti, responsabilità. Da dove derivo, allora, l’impressione che Ger-vasoni dia, del nostro decennio, un giudizio “cautamente po-sitivo”? Com’è possibile dare una valutazione positiva/negativadi una fase storica nel suo insieme? Una fase della quale sonolasciati sullo sfondo i principali nessi causali e viene presentatacome un insieme di eventi (fenomeni, atteggiamenti, mode, cul-ture) che just happened?L’impressione di un giudizio cautamente positivo la derivo so-prattutto dalla introduzione alla sua Storia, le dieci pagine chepiù assomigliano ad una valutazione d’insieme, ad un tentati-vo di sintesi, della intricata matassa che Gervasoni sbroglia nelcorso del libro: “Già tra i contemporanei il giudizio sugli anniottanta diede vita in Italia a opzioni in forte contrasto tra loro.Per molti il paese era entrato in un periodo orribile, di cadutadei valori, di crollo delle grandi tensioni collettive, di chiusu-ra nel privato, in sostanza di egoismo e di cinismo.”11 “Come

negli anni sessanta, si era insomma venuta a creare una con-trapposizione tra ‘apocalittici’ e ‘integrati’ che attraversava leculture e le appartenenze politiche.” L’interpretazione apoca-littica si rafforzò con il crollo della prima Repubblica e la di-scesa in campo di Silvio Berlusconi, “per gli apocalittici un lo-gico portato dei fenomeni degenerativi del corpo sociale già de-nunciati negli anni ottanta. Da Craxi a Berlusconi, insomma, lacontinuità sarebbe assoluta”12.

Apocalittici e integratiDa questa damnatio memoriae operata dagli apocalittici, e an-cora prevalente nella storiografia, muove Gervasoni, che intende“andare alla ricerca dello spirito degli anni ottanta, mostrare co-me si sia formato nel nostro paese, che canali di diffusione ab-bia preso, che trasformazioni abbia prodotto. Questo spirito sipuò tratteggiare sommariamente in alcune parole d’ordine: ri-cerca della libertà individuale, fine delle ideologie politiche, per-seguimento della soddisfazione personale, attraverso la realiz-zazione personale e anche il guadagno. Una sorta di collettivo‘arricchitevi’non solo in senso finanziario, ma anche […] rivoltoad acquisire esperienze, intraprendere nuovi percorsi e orizzonti.Per la prima volta in forme così massicce gli italiani sembraro-no indirizzarsi verso una società degli individui” (p. 11).La rivoluzione individualistica era inevitabile, avveniva ovun-que nel mondo occidentale e l’Italia non poteva estraniarsi daquesto processo: pensare che potesse farlo era la grande debo-lezza degli apocalittici. “Quanto agli integrati essi erano menolaudatores temporis acti di quanto gli apocalittici fossero ca-tastrofisti […] Nonostante la crisi del politico, gli integrati pen-savano che fosse compito della politica riformare il corpo so-ciale. Sopravvalutarono così non solo la prontezza dei partitinel recepire i loro suggerimenti, ma anche la loro capacità dimettere in atto riforme. Gli integrati non avevano allora chia-ra la percezione di quanto fosse diventato fragile, o comunqueristretto, lo spazio dell’azione politica di fronte alla globaliz-zazione dei flussi economici e all’indebolimento dello Stato na-zione” (pp. 16-17).Mi fermo qui con le citazioni, sia perché da quelle riportate giàappare evidente la valutazione cautamente positiva –anche senon “rosea”- che dà Gervasoni di quegli anni, in linea con unarecente storiografia di matrice socialista (il PSI presentato co-me innovatore, il PCI come conservatore, e la DC in mezzo, maanch’essa prevalentemente conservatrice)13. Sia e soprattuttoperché non vedo un contrasto di fondo con la mia visione del-la politica economica degli anni ‘80: come ho già notato, ci

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11 GERVASONI, cit., p.9, dove l’autore si riferisce alla “lunga, cupa e apo-calittica relazione di Berlinguer al XVI congresso nazionale del Pci del1983”, notando che, “a differenza del Regno Unito, dove erano…i labu-risti a lamentare il nuovo e ...i conservatori ad esaltarlo, in Italia il duel-lo sulle valutazione avvenne soprattutto all’interno della sinistra”, con “Cra-xi e il PSI, più che la DC, a farsi interpreti dello spirito del nuovo decen-nio come quello delle opportunità, della fine degli scontri ideologici, del-le riforme, dell’affermazione dei nuovi soggetti economici.”

12 Le ultime due citazioni sono da p. 10. Apocalittici e integrati è il titolo delfamoso saggio di Umberto Eco del 1964, e sulla continuità Craxi-Berlu-sconi il riferimento è al libro di P. FLORES D’ARCAIS, Il ventennio po-pulista, Fazi, 2006.

13 Cfr. Gli anni ottanta come storia, a cura di S. Colarizi et al., Rubbettino,2004, e La politica economica degli anni ottanta, cit.

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muoviamo su due piani diversi. Di più: dovessi collocarmi inuna delle due categorie che Gervasoni recupera dagli anni ‘60,mi collocherei senza esitazione tra gli integrati e dell’atteg-giamento dei comunisti e di Berlinguer darei lo stesso giudizionegativo che dà Gervasoni. Proprio per questo, trovo la sua ri-costruzione degli anni ‘80 tanto affascinante sul piano socio-logico e culturale quanto debole sul piano economico e politi-co. Come mai gli “integrati” – riformisti per antonomasia, se-condo Gervasoni – non prevalsero nei fatti, nonostante il loroleader sia stato la principale autorità di governo nel corso deldecennio? Tutta colpa degli apocalittici che misero loro i ba-stoni tra le ruote? Perché lasciarono alle generazioni successi-ve la situazione disastrosa in cui ci venimmo a trovare negli an-ni ‘90? Solo perché non ebbero chiara la percezione di quanto“si fosse ristretto lo spazio dell’azione politica i fronte alla glo-balizzazione e all’indebolimento dello Stato nazione”? Ma ne-gli anni ‘80 si era ancora ben lontani dagli effetti più minacciosidella globalizzazione, la moneta unica era di là da venire, altripaesi confrontabili si comportarono meglio di noi, i margini dimanovra delle politiche economiche nazionali erano ancora no-tevoli. Gli ostacoli ad una politica economica più efficace e lun-gimirante erano, in Italia, in larga misura domestici.Nella mia ricostruzione si tratta di ostacoli attinenti alla strut-tura del sistema politico; alle necessità di consenso che spin-gevano ai disavanzi e all’occupazione partitica dello Stato e del-le imprese pubbliche, a fronte di un partito comunista e di sin-dacati forti; alla lotta impari che i socialisti conducevano con-tro i giganti politici con i quali erano in concorrenza, la DC algoverno e il PCI all’opposizione. Una lotta che condusse loroe tutti i partiti che disponevano di potere di scambio a quell’usodisinvolto delle risorse pubbliche che fu all’origine di Tan-gentopoli e della seconda Repubblica. “Apocalittici” e “inte-

grati” sono termini che designano in modo impreciso ma evo-cativo l’atteggiamento di singoli (ma anche di partiti, movi-menti, correnti culturali) verso l’innovazione, l’individualismo,la spregiudicatezza; oppure verso la conservazione, i valori col-lettivi, l’austerità. Ma dicono assai poco sull’efficacia riformi-stica di un governo. Un governo può essere composto da inte-grati – e dunque riformisti per principio – può anche pro-grammare riforme, ma poi non riuscire a farle ed anzi aggra-vare la situazione economica, sociale e istituzionale che lasciain eredità ai governi successivi. E può avvenire il contrario, ungoverno di apocalittici che le riforme necessarie riesce a farle.Chi fu più riformista, Craxi negli anni ‘80 o Ciampi, un modellodi austerità, negli anni ‘90?Nel corso del Novecento, sostiene Gervasoni, “pochi momen-ti sono stati pervasi da uno spirito così forte come gli anni ot-tanta, forse l’ultimo decennio definito da una marcata identi-tà” (p. 9). Per evocare i diversi aspetti di questa identità anchecategorie allusive e impressionistiche come apocalittici e inte-grati possono andar bene. E’però mia impressione che esse nonsiano molto utili per capire come mai in quegli anni non si fe-cero le riforme necessarie, che è quanto maggiormente interessaa un economista, ma dovrebbe interessare anche a uno storicoe non solo a uno storico economico. Craxi e i socialisti inter-pretarono meglio di altri lo Zeitgeist degli anni ‘80, uno spiri-to del tempo contro il quale le barriere degli apocalittici eranoinutili, conservatrici, controproducenti. Di più, in una certa mi-sura essi contribuirono a crearlo, quello spirito, e a indirizzar-lo. Lo indirizzarono bene? Come mai, nonostante il fervore ri-formista, nonostante le intuizioni politicamente progressiste(penso al congresso socialista di Rimini del 1982, a “meriti ebisogni”), le riforme non ci furono o non furono all’altezza deiproblemi? Perché non si riuscì a combinare insieme allegria erigore, spregiudicatezza ed efficacia, individualismo e rispet-to di essenziali valori collettivi? Per essere riformisti, dopo tut-to, non è necessario essere eticamente disinvolti.In sintesi. Un giudizio positivo sul decennio non può scaturi-re soltanto da un apprezzamento generico dello spirito del tem-po e dalla critica a chi lo contrastava sulla base di orientamenticulturali e politici “tecnicamente reazionari” (p. 15). Deve di-scendere da un’analisi approfondita di come lo Zeitgeist ven-ne gestito dalle élite politiche di allora, degli ostacoli che que-ste dovettero fronteggiare, dei limiti culturali che impedironoloro di attuare le essenziali combinazioni tra individualismo erispetto di valori collettivi cui ho fatto cenno più sopra. Se que-sta analisi è carente, temo che corto-circuiti grezzi del tipo Cra-xi = Berlusconi continueranno a tenere il campo.

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Gli anni ’80 di Marco Gervasoni, per come vengono analiz-zati, non sono “moderni”, semmai “postmoderni”. Da que-

sto punto di vista il suo libro è prezioso: con una particolare sen-sibilità e cultura ci offre un panorama molto puntuale di questetrasformazioni. Sono in parte epifenomeni della globalizzazione,intesa non solo come fatto economico ma come sistema di in-formazione e di relazioni. Tuttavia non sono solo processi di su-perficie, perché hanno anche avuto profonda incidenza di natu-ra antropologica. Un’accentuazione dell’individualismo? Quel-lo che già si era manifestato negli anni ’60, specialmente nel ’68?Ma l’individualismo di questa specie, che è anche una forma in-cosciente di nichilismo, altro non è che il risultato del processodi disgregazione, senza sua trasformazione, della società: in par-ticolare dei suoi presupposti politici, culturali e religiosi.Ho sempre avuto come riferimento un tema topico della grandestoriografia del secolo XIX, quello della fine del mondo antico,di cui, in più parti della sua opera, si occupò anche CarloMarx.Evento che in parte venne indotto da un fenomeno mistico- re-ligioso quale fu il cristianesimo anche e soprattutto sotto il pun-to di vista antropologico. Noto che siamo oggi in presenza, al con-trario, di un processo di paganizzazione nichilistica della socie-tà, che va perdendo i suoi presupposti non solo cristiani, ma an-che laici, senza quindi quei lari domestici e quella religione ci-vica invocata da Rousseau.Può produrre questo individualismo contemporaneo un nuovomi-sticismo religioso? Per ora i segni sono altri: i “fondamentalismi”,penso qui a quelli dell’Occidente cristiano, non sono altro che di-fesa irrazionale e materialistica dello status socio-economico esi-stente che va impoverendosi. Certo, se la Chiesa cattolica e al-tre confessioni cristiane in ciò vedono solo il segnale positivo del-la così detta “difesa della vita”, non si accorgono che in quei fon-damentalismi vi è lo stesso segno rovesciato che fu del nazismoe di altri movimenti coevi, cioè puro e feroce paganesimo. Ab-biamo così un altro profondo segno della crisi presente del no-stro Occidente.Questi sono alcuni dei pensieri a cui mi induce il libro di Ger-vasoni, letto, a differenza di quanto lui ci propone, in negativo.

Di tutt’altra natura il contributo di Michele Salvati. I due inve-ro non son fatti per capirsi l’un l’altro. Vero è che Gervasoni haanche una documentata attenzione alle trasformazioni sociali chea partire dagli ani ’70 hanno segnato la nostra società, e di cui Bet-tino Craxi fu allora il primo uomo politico, se non l’unico, a te-ner conto. Ma manca il nesso compiuto e necessario con i mu-tamenti d’ordine economico che pure sono alla base del proces-so di globalizzazione, e su cui neppure Craxi, come del resto tut-to il socialismo europeo, ebbero l’attenzione necessaria (negli an-ni ’80 c’è stata una caduta del muro di Berlino, naturalmente d’al-tro tipo, soltanto politico ed ideologico, anche per le socialde-mocrazie e i socialismi europei).

Gli economisti e le previsioniSalvati pone invece, con il senno di poi, questo tema al centrodella sua riflessione. La polemica che egli conduce sul saggiodi Giavazzi e Spaventa ne è infatti il principale filo condutto-re. Ci sono più cose nel contributo di Salvati che non condivi-do e di cui dirò brevemente in fine. Ma questo attacco alle ri-flessioni dei due economisti sugli anni ’80 mi pare oggi cen-trale. Non capisco infatti come, in presenza della crescita vor-ticosa del debito pubblico di allora, essi la giustificassero co-me sostegno necessario della “domanda”, mentre oggi (peresempio sulle liberalizzazioni) non mettono l’accento su aspet-ti che il contenimento della spesa pubblica e l’accentuazione del-le politiche fiscali certo non aiutano; e perché le loro analisi nonpartano oggi dal presupposto che l’Italia è in recessione dal IgovernoAmato, cioè dal nostro ingresso nella seconda fase del-l’euro nel 1992. Mi permetta Salvati, da parte di un non eco-nomista: ma l’incapacità di prevedere, non che di individuare,obiettivi e soluzioni per i problemi presenti da parte degli eco-nomisti è davvero scoraggiante.Abbiamo un sistema industriale che sui mercati extra europeiriesce a tenere un buon livello di crescita. Questo non basta, erimane invece sempre più carente lo sbocco sul mercato interno,che oggi è principalmente quello europeo. Ma si è fatto qual-

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Le voci bianche dell’impotenza>>>> Piero Craveri

Anni Ottanta

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cosa per governare la domanda sul mercato europeo? Mi sem-bra che a partire dai compiti della BCE non sia questo all’or-dine del giorno, e questa voluta assenza è anche il limite gra-ve della posizione tedesca a cui siamo così inesorabilmente le-gati. Non si è fatto altro che accentuare il confronto tra siste-mi economici interni al mercato europeo, il che era necessariosulle politiche di bilancio dei singoli Stati, ma non su quelle del-lo sviluppo. Sono termini noti della discussione, su cui il di-battito europeo è rimasto sospeso, ma che da nessuna parte sisono articolati in una plausibile linea di politica economica. Co-sì l’Europa e l’euro sono diventati una palla di piombo insop-portabile, senza vie di uscita e con l’appiattimento d’ogni pro-spettiva nazionale: e di questa situazione i partiti di destra e si-nistra sono le voci bianche del coro dell’impotenza.Ma, tornando agli anni ’80, non si ebbe certo alcuna preveggenza

di quanto stava in prospettiva accadendo. Ci sono oggi delle buo-ne analisi sulle conseguenze della politica economica di queglianni. Ma sulle cause politiche non si sono fatti plausibili passiavanti. A ragione Salvati cita il libro curato da Acquaviva sul-l’approccio socialista alla politica economica negli anni di Cra-xi, uno dei pochi con riflessioni interessanti. Il divorzio della Ban-ca d’Italia dal Tesoro, che agli inizi del decennioAndreatta vol-le attuare, fu una svolta cruda, non accompagnata da una medi-tata riflessione politica delle sue conseguenze.Andreatta, da par-te sua, la patrocinò sulla base di una argomentata linea di poli-tica economica, che con esplicita riflessione, che fu l’unica in que-gli anni di caratura politica, rompeva consapevolmente con l’e-spansione della spesa pubblica in funzione di sostegno della do-manda e invertiva la linea che fino ad allora era stata propria del-la sinistra democristiana: notando, tra l’altro, che la “spesa in

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eccesso preme sui tassi di interesse, alzandosi ed escludendo l’ac-cumulazione di mezzi di investimento, e preme sul cambio ele-vato, e quindi deindustrializzando il paese”.Ma non si era negli anni ’60, e la DC non aveva la forza di im-porla al sistema politico, come timidamente tentò allora DeMi-ta, contrastato in primo luogo da Craxi. La crescita del debitopubblico fu allora, negli anni ’80, anche il frutto dello spa-smodico sviluppo della conflittualità politica, e ciò ben oltre ilconsociativismo, dal momento che i contendenti erano diven-tati tre: oltre la DC e il PCI anche il PSI. La rottura della poli-tica di unità nazionale, che Moro e La Malfa avevano conce-pito anche in funzione del contenimento della spesa, ebbe que-sto naturale effetto politico. Si intervenne sulla crescita salariale,spezzando il paradossale sistema di indicizzazione messo a pun-to nel 1975, ma non si operarono altri sostanziali passi avanti.Specie negli ultimi anni del decennio la politica della spesa,quanto al sistema pensionistico, alle retribuzioni nel pubblicoimpiego e ai trasferimenti alle imprese pubbliche e private non-ché agli enti locali, venne strutturalmente accentuata. I paladi-ni del contenimento della spesa furono pochi, salvo i repub-blicani, Andreatta, il senatore Filippo Cavazzuti della sinistraindipendente e pochi altri in ordine sparso: che tuttavia, in po-sizioni di estrema minoranza, difesero un principio, più che unastrategia alternativa di politica economica, che d’altra parte noncoincideva con la loro posizione, strettamente inquadrata nel-la logica della maggioranza di governo; mentre invece alla lo-gica della spesa pubblica apparteneva a pieno titolo anche il PCI,che di essa fin dagli anni ’60 aveva fatto il cavallo principaledella sua crescita elettorale.

La difficoltà di CraxiLa crescita della spesa pubblica era d’altra parte coassiale al si-stema cripto corporativo caratteristico della società italiana. Fan-fani e i dorotei ne avevano gettate le basi; il consociativismo,a partire dagli anni ’70, lo aveva eretto a sistema politico-isti-tuzionale. Il radicamento capillare che la DC e il PCI avevanonel paese poggiava specularmente su questo necessario pre-supposto. Craxi cercò di rompere questo involucro. V’era inquesto suo tentativo una pars destruens di natura politica, ch’e-ra appunto quella di spezzare tutti i nessi istituzionali che le-gavano DC e PCI. V’era poi la pars construens: Craxi guardavaai settori più dinamici della società italiana, ne aveva intuito lepotenzialità, sosteneva la necessità di liberarli dagli impacci po-litico-amministrativi che la legavano alla logica consociativa.Ciò richiedeva tuttavia rotture più profonde, in primo luogo pro-

prio sul terreno politico, che, salvo nella politica sindacale, nonvennero. Il disegno di Craxi fu coraggioso e andava nella di-rezione giusta; sotto gli aspetti politico, istituzionale e socialeche a lui stesso si presentavano strettamente intrecciati rimasetuttavia, più che incompiuto, solo abbozzato, oltre i limiti ditempo proficui.Gervasoni ci suggerisce spunti interessanti riguardo alla diffi-coltà di Craxi a convincere la società italiana del suo disegnoriformatore. Fino al punto che questa prese in modo anarchi-co ad esprimere da sè i suoi impulsi di cambiamento, fuori daqualsivoglia disegno riformatore. Si è più volte sottolineato chel’atteggiamento di Craxi sul referendum elettorale fu un erro-re. Ma c’è l’opposizione al fisco, la difesa del sistema pensio-nistico, l’insorgenza delle categorie autonome, ecc.: sono se-gni di malessere di una società che non vuole retrocedere ri-spetto alla presa conseguita sul bilancio pubblico, vuole anzi oc-cuparne tutti gli spazi residui, né intende far propri nuovi one-ri; ma nel contempo sente che il fardello complessivo è ecces-sivo, e che occorre un mutamento di rotta.Nei primi anni ’90 c’è l’avanzata elettorale della Lega, che èuna cristallizzazione localistica di questi sintomi, e che nelle ele-zioni del ’92 incide elettoralmente soprattutto sulla DC e suglieredi del comunismo: ma potrebbe dirsi che il maggiore scon-

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fitto fu allora il minore perdente, cioè il PSI, il cui disegno dicambiamento non aveva fatto breccia e non aveva seguito, fi-no a diventare simbolo assai improprio della mala politica.Da ultimo una postilla sui postcomunisti. Non è vero che Ber-lusconi è stato l’erede di Craxi, salvo che anche lui si è rivol-to ai ceti produttivi, col vantaggio plausibile che il vecchio si-stema politico clientelare era andato in frantumi, essendo egliagli inizi uno sponsor mediatico di questa frattura: libero cosìdall’eredità del passato, si fece paladino della difesa dello sta-tus quo contro pretesi suoi rivolgimenti. Le velleità della sini-stra diventarono il suo bersaglio sotto la rozza etichetta del co-munismo, la cui immagine sopravviveva per inerzia e per vec-chi indelebili vizi di mentalità e cultura, ed era di conseguen-za una grande metafora del non ritorno al passato. Mentre as-sicurava che il presente potesse garantire quanto si era già con-seguito, una promessa che non poteva essere mantenuta, ma chetenne il campo per quasi un ventennio di ulteriore progressivadisgregazione della società italiana. Craxi aveva inteso forni-re una soluzione politica. Rigettato e condizionato dai maggioricompartecipi della prima Repubblica, ha finito per prevalere aspese di tutti l’antipolitica di cui Berlusconi, per un lungo trat-to, è stato il maggiore campione.Vigendo una legge elettorale, forgiata da Calderoli e ben accoltada Veltroni, che ne è un caricatura più che peggiorativa, non in-tendo come Salvati possa usare ancora la denominazione spre-giativa di “legge truffa” per la modificazione in senso maggio-ritario del sistema proporzionale operata nel 1953. Così comeè improprio richiamare la conventio ad excludendum, anomalovincolo del sistema politico della prima Repubblica. Ma da co-sa determinato? La guerra fredda fu un pretesto? L’URSS un’in-venzione, e di chi, del PCI o degli altri? Ci sono stilemi ed as-sonanze nel discorso di Salvati che appartengono alla vecchiacultura di sinistra. Ma soprattutto il discorso di Giavazzi e Spa-

venta non può essere assunto a copertura della mai meditata po-litica della spesa del PCI: né prima ( la legge pensionistica del1967, che il centrosinistra volle far rientrare nel pareggio di bi-lancio, fu uno dei principali veicoli polemici su cui il PCI fecematurare il successo elettorale del ’68), né dopo il periodo del-l’unità nazionale (anche se quest’ultimo ebbe il pregio di vedercompiersi definitivamente il disegno del welfare italiano, ma pursempre in deficit di bilancio); ed ulteriormente, perché il PCI sioppose all’ingresso nel serpente europeo, per non dire, sotto al-tri aspetti, della sua opposizione all’accordo sui missili Nato.

Il “riformismo” del PCIUna delle carenze della cultura politica italiana consiste nel fat-to che a sinistra non è stata compiuta una riflessione seria sul-la propria storia, congiuntamente a quella del paese. Poiché l’im-medesimazione consociativa del PCI non può essere presa co-me “riformismo”, in che cosa è consistito dunque il riformismocomunista? Nel ritenere, alla fine degli anni ’60, che il sistemaaveva assunto la forma di un “neocapitalismo” guidato dallagrande impresa, quando sappiamo bene che la struttura del ca-pitalismo italiano che si andava creando era di tutt’altra natura?L’idea, che già era appartenuta al Lenin del 1918, che si fosseentrati nella fase matura del capitalismo con la centralità dellafabbrica taylorista e fordista, forme di organizzazione del lavoroproduttivo che videro il loro tramonto proprio a partire dalla fi-ne degli anni ’60? La centralità della classe operaia come clas-se generale, quando già la prima analisi di Sylos Labini della me-tà degli anni ’70 lo smentiva chiaramente? Il giudizio del ca-rattere positivo dei movimenti del ’68 per il loro carattere “ever-sivo”, che nel 1977 doveva poi volgersi verso lo stesso PCI? Ladifesa estrema dell’assetto “assembleare” della democrazia ita-liana ed il rifiuto d’ogni necessaria modifica costituzionale?Gli anni ’80, dopo la fine dell’ipotesi politica di unità nazionalee la morte di Aldo Moro, costituiscono il primo decennio ditransizione politica della Repubblica. Non furono “rosei”, con-divido ciò con Salvati, anzi alquanto drammatici: anche perchénon approdarono ad alcuna soluzione politica e trasmutarononella crisi del ’92, dalla quale è nata una seconda Repubblicache altro non è stata che un traumatico proseguimento dellatransizione iniziata negli anni ’80 e niente affatto conclusa do-po vent’anni di disgregazione culturale e politica. Con ciò nonsono questi più gli anni di un “duello a sinistra”, ma piuttostodi un assassinio nichilista della sinistra italiana. Cerchiamo dun-que di storicizzare, come si deve, il passato, se si vuole ripar-tire: possibilmente da zero.

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Gabanelli e il Professore>>>> Guido Martinotti

Economisti

In attesa del governo Monti e del suo programma, in questopaese di commissari tecnici della Nazionale si è scatenata unavera e propria corsa a raccomandazioni e proposte in cui gli eco-nomisti si sono distinti per autorevolezza del tratto e sonoritàdella parola. Se le quantità fossero minori, si potrebbe parlaredi cura omeopatica: le proposte e i suggerimenti vengono in-fatti più numerose proprio dalla scienza economica, che nellevicende della crisi mondiale non si è distinta né per chiarezzadiagnostica né per capacità terapeutica. Dato il volume di fuo-co dell’offerta, penso però che la situazione sia meglio descrittadal detto “chiodo scaccia chiodo”: ed è dalla constatazione del-la contraddizione tra le palesi insufficienze di un sapere scien-tifico e le pretese dei suoi cultori di continuare a dispensare ri-cette a piene mani che nasce la questione che vorrei sollevare,che non è scientifica in senso stretto, ma attiene a un aspetto im-portante dell’attività scientifica nella nostra società, il rappor-to tra i detentori del sapere e il pubblico.La nostra società è caratterizzata, come sappiamobene, da una qua-si paranoide appropriazione riflessiva della conoscenza: nessunasocietà storicamente conosciuta ha avuto a disposizione una mo-le così stupefacente dimezzi per scrutare se stessa come la nostra.E nessuna li ha usati con una comparabile intensità e diffusione:siamo subissati da informazioni di ogni tipo che ognuno di noi avi-damente consuma all’istante.Molte di queste informazioni, anchese rilevanti, non hanno conseguenze immediate sulla nostra vitaquotidiana: la scoperta da parte di un astronomo italiano di una ne-bulosa da cui “originano le stelle” fa un bel titolo giornalistico,manon ha grandi conseguenze sulla vita di tutti i giorni, così come lacura dei brufoli giovanili interesserà certomolti angosciati adole-scenti, ma ha un interesse limitato per la società at large.Invece molte informazioni che riguardano la politica e l’eco-nomia, soprattutto in tempi di crisi acuta, non solo interessanograndi masse di persone, ma entrano direttamente nel proces-so di formazione delle decisioni collettive, in un processo in-terattivo che scompiglia l’ordinata sequenza di savoir pour pre-voir pour pouvoir immaginata dal positivismo ottocentesco. Inquesto campo le informazioni si accavallano con i desideri e gliinteressi, e con l’immagine che i sapienti tendono a dare di sè,

creando un grande tourbillon di parole e di idee ampiamentesfruttato dai Dulcamara e dai venditori di snake oil. Il pubbli-co, con la mediazione dei mezzi di comunicazione di massa, sirivolge ai cognoscenti e agli esperti per avere lumi che vengo-no dispensati a profusione in un sistema di offerta altamentecompetitivo. Individualmente ognuno di noi sviluppa un certogrado di skills nell’orientarsi nella confusione, e può anche ar-rivare alla conclusione scettica che non mette conto di presta-re attenzione a queste esternazioni; ma da un punto di vista ge-nerale questa non è una risposta soddisfacente, perché le con-seguenze di scelte collettive fatte sulla base di informazioni su-perficiali o erronee possono essere rilevanti.

Approfittare dell’ignoranzaNel mondo scientifico esistono sistemi di verifica e controllo(quanto poi effettivamente funzionino è un altro paio di mani-che): ma quando lo studioso, l’esperto o il sapiente comunicaa un pubblico più ampio, si pone qualche problema aggiunti-vo, soprattutto se si tratta di discipline nel campo delle scien-ze sociali che hanno un impatto diretto sulle scelte collettive.Qui la verifica è più ardua perché gli autori, come si suole di-re, si lasciano un po’ andare, fidando nella pigrizia dei lettori,come scrive Federico Pica recensendo in modo molto critico idati di Luca Ricolfi, un autore che “approfitta della nostra igno-ranza” perchè “ci impedisce di andare fino in fondo, attraver-so la selva delle petizioni di principio e delle assunzioni intri-ganti, sia analitiche che statistiche, in quello che Pantaleoni de-finirebbe un monumentale paralogismo”1. Il più delle volte nonvale la pena, per un lettore anche attento, affrontare la fatica espendere il tempo necessari per fare le pulci a un articolo cheprobabilmente durerà lo spazio di un mattino: molti “approfit-tano della nostra ignoranza”. Ma il problema esiste: in questesituazioni chi controlla i sapienti? Che responsabilità si assu-mono i suddetti esperti?A chi rispondono dei propri errori, po-

1 Il «sacco del Nord»: questione o paralogismo?, in “Rivista economicadel Mezzogiorno”, a. XXIV, 2010, n. 1-2.

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sto che la maggior parte dei lettori non ha gli strumenti neces-sari per verificare le loro asserzioni, come avverrebbe invecein campo scientifico, dove esiste parità tra l’autore e i lettori?Per meglio illustrare questi problemi mi sono preso la briga,approfittando anche di una convalescenza semioperosa, di esa-minare come se si trattasse di un paper accademico un arti-colo di Luigi Zingales uscito tempo fa sull’Espresso (17 no-vembre 2011); di confrontare poi le ricette proposte dall’Au-tore con un contemporaneo articolo di una brava giornalistacome la Gabanelli; per tornare infine a riprendere le questio-ni generali accennate più sopra. Non ho modo di dubitare cheil prof. Zingales sia “uno dei maggiori economisti del mon-do”, come lo ha presentato il sindaco Renzi alla riunione del-la Leopolda: non sono un economista e mi devo basare sulmetodo “reputazionale”, che lo colloca molto in alto. Ma sulpiano dei comportamenti comuni non mi sembra assennato an-dare alla Leopolda e poi lamentarsi di non essere stato capi-to (“Avrei dovuto impararlo nei molti anni spesi a fare semi-nari: la parte più debole di un ragionamento finisce per oscu-rare il valore del resto. Così è successo per il mio discorso alconvegno della Leopolda. La mia analisi è stata ignorata e lamia proposta vituperata”): quel genere di jamboree non è ilposto più adatto per fare buoni ragionamenti di economia, equindi la lamentazione di Zingales rischia di guadagnargli un“te la sei voluta”.Peraltro lo schema elaborato dal celebre economista sull’E-spresso porta a una proposta assai complessa, costruita sul fi-lo di un sillogismo che assomiglia molto, anche per il tono concui viene detto, alla famosa storiella di assume we have a canopener: Zingales parte da una premessa maggiore, che nella suarozzezza (mi scuso, ma non trovo altra parola) è anche non ve-ra (“la seconda alternativa, cara a molta sinistra, è il giustizia-lismo: tutti in galera”). Io penso che uno studioso, anche quan-do scrive per i più, dovrebbe attenersi ai fatti, e mi sembra dif-ficile costruire un ragionamento qualsivoglia su una premessatanto ideologica, prona al luogo comune e palesemente falsa.“Giustizialismo” è un pessimo vocabolo ideologico inventatodagli uomini di Arcore per screditare chiunque chieda legitti-mamente di fare luce su casi gravi di corruzione e altre mario-lerie. Il grido “tutti in galera” è un topos populista e qualunquistain cui eccelsero la Lega e gran parte di coloro che poi segui-rono colui che si presentava esterno al “teatrino della politica”.La premessa minore (“ma questo significa non aver capito nul-la. Mani Pulite fallì perché cercò di colpire tutti”) è altrettan-to debole. Veramente a me sembra che “Mani Pulite” un cer-to qual effetto ce l’abbia avuto, ma poi ci risiamo con l’ideo-

logia: che significa attribuire un qualche intento a “Mani Pu-lite”? Nella sua fenomenologia concreta con “Mani pulite” sifa riferimento a un gruppo di magistrati onesti e coraggiosiche cercava di far condannare dei mariuoli. Volevano far ca-dere la prima Repubblica? Questa affermazione non è prova-ta, contrasta con le testimonianze dei protagonisti, e anche conle loro appartenenze politiche reali (non quelle che la mito-poiesi arcoriana gli attribuisce). Nella sua accezione più am-pia questo termine fa invece riferimento a una temperie in cuisi espresse in modi complessi e confusi una generale aspira-zione a togliere il nostro paese dalle posizioni più infime del-le graduatorie internazionali sui paesi corrotti. Questa aspira-zione non fu soddisfatta non perché si vollero “colpire tutti”(non era vero e, del resto, se la corruzione si dimostrò così dif-fusa che dovevano fare i magistrati?), ma per un meccanismo,molto comune nelle vicende umane, di “eterogenesi dei fini”:come, per altri versi, gli antichi parlamenti, convocati inizial-mente dal sovrano a proprio sostegno, si trasformarono in or-gani di controllo, e nel caso degli Stati Generali francesi nel-la culla della rivoluzione, qui avvenne che i grandi corrutto-ri rovesciarono il tavolo, impadronendosi del comando e in-staurando un nuovo sistema di potere.

Il paralogismo di ZingalesQuesto concreto e possente sistema di potere cercò, con parzialesuccesso, di ergere una barriera a protezione di corrotti e cor-ruttori grazie al mito fondativo della persecuzione giudiziaria,che (per analogia, ovviamente: fortunatamente i due eventi nonsono di scala comparabile) svolse lo stesso ruolo dei Protocollidei savi di Sion”: l’azione dei giudici e di chi li sosteneva ven-ne chiamata appunto “giustizialismo”, e fu messa nello stessocalderone con i comunisti (manovrati da oscure forze chiama-te “poteri forti”) da cui il solare Cav. ci avrebbe salvato. L’o-perazione non ebbe del tutto successo, ma è ancora in corso, ela parola conclusiva non è ancora detta. Si potrà contestare lamia interpretazione, ma il carattere fortemente ideologico del-la narrazione di questi fatti, che Zingales assume come veritàincontestata, gli va comunque segnalato, perché fa parte del dis-corso sulla responsabilità intellettuale che ci interessa qui.Ma vediamo intanto cosa propongono quelli che -come Zin-gales- hanno capito tutto: uno schema alquanto complesso chevale la pena di riprendere verbatim e che costituisce l’ergo delsillogismo: “Per questo ho proposto un’amnistia condizionataa cinque fattori: 1) il responsabile confessa il reato; 2) men-ziona tutti i complici; 3) restituisce il maltolto; 4) si ritira dal-

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la vita pubblica; 5) non commette più alcun reato”. Il tutto na-turalmente nella linea del massimo rigore, una linea che parepiacere molto a un certo genere di economisti liberisti (forseperché senza rigore i modelli non funzionano). “Se la confes-sione omette anche il più piccolo dei reati commessi o il più in-significante dei complici (corsivo mio, ndr) la persona resta per-seguibile e sarà perseguita con il più accanito vigore”: frusta ekatorga per tutti quelli che commettono anche il minimo sgar-ro. Sembra l’uovo di Colombo, ma stringi stringi siamo sem-pre al solito condono, anche perché se ci si ferma sia pure bre-vemente a considerare i pezzi della macchina, si vede che la Ba-lilla forse non si riesce neppure a mettere in moto.Intanto “amnistia” è un termine generico. Capisco che gli eco-nomisti non sono tenuti a conoscere il diritto, ma se si proponeuna iniziativa giurisdizionale occorre fare i conti con un mini-mo di tecnicità. Normalmente le amnistie sono provvedimentia carattere generale che estinguono il reato e la pena: ma in que-sto caso il reato non viene cancellato, tanto che se poi si scopreche il mariuolo ha anche mentito egli “resta perseguibile”. E’ve-ro che le amnistie possono essere condizionate: ma condizionicosì incerte, e soprattutto che richiedono improbabili accerta-menti giudiziari ulteriori, sono un vasetto di miele per la pleto-ra di avvocati che assediano le aule dei tribunali, e temo che Zin-gales, nella sua iperuranica superiorità, non si renda conto del-lo scatafascio di ricorsi che una condizione del genere rischia dideterminare. Se non si estingue il reato, ma si sospende condi-zionatamente la pena, siamo più nel campo dell’ indulto che nonin quello dell’ amnistia. Saranno pure sottigliezze giuridiche, eZingales ha l’aria di quelli che pensano sempre che l’intendan-ce suivra: ma se io mi azzardassi a scrivere un qualsiasi artico-lo confondendo un terzino con un centroavanti sarei radiato dal-l’albo dei pubblicisti, e non si vede perché non si debba chie-dere anche a un economista un eguale grado di precisione.

La proposta impraticabileNon si capisce poi se scopo del provvedimento proposto da Zin-gales sia quello di alleggerire i procedimenti in corso, e quindisi applichi solo a reati già perseguiti (esiste peraltro già il pat-teggiamento nel rito abbreviato), oppure se l’Autore punti a fa-re emergere con confessioni spontanee la vasta corruttela som-mersa. Nell’uno e nel’altro caso, ma soprattutto nel secondo, sideve profilare un vantaggio (trade-off) per il delinquente che de-cidesse di adire questa via legale confessando piuttosto che se-guire il procedimento ordinario. Ma il vantaggio dov’è? Se con-fessa, il tapino dovrà denunciare tutti i suoi complici, fino al “più

insignificante” (inclusi, presumo, parenti e amici, uno scherzettoin una cultura affiliativa come quella italiana).Questo punto poi apre un capitolo assai delicato: seguiamo perunmomento il ragionamento di Zingales e assumiamo che il suoreo confesso cominci ad aprire il sacco. Come lo shrapnel di unafrag bomb, i complici anche meno rilevanti a loro volta comin-ceranno a confessare e via ad infinitum. Chiunque abbia anchela più lontana familiarità con il funzionamento di qualsiasi tri-bunale non avrà difficoltà a raffigurarsi i ricorsi e controricorsiche una procedura del generemetterà inmoto (sempre con lamas-sima felicità dei famelici legulei). Senza contare che tutte que-ste procedure dovranno essere individualmente seguite, dalla con-fessione alla verifica che il corruttore in futuro (in aeterno) noncommetta più altri reati: con quale sollievo per il sistema giudi-ziario ognuno può facilmente immaginare. Ma il punto interes-sante che vorrei sottolineare a proposito della delazione comeme-todo per il controllo della corruttela è un passaggio di Tocque-ville ripreso daMichel Crozier ne Le phénomène bureaucratique,in cui il grande studioso della società americana (ma anche del-l’Ancien Régime) spiega il ricco associazionismo americano (afronte di quello asfittico della società francese) con l’abitudinedei sovrani di antico stato di fare spiare i cittadini dai loro vici-ni per prevenire l’evasione fiscale. Lo Stato moderno, è la con-clusione importante di Crozier, deve raggiungere i propri scopiorganizzativi autonomamente, senza ricorrere alla delazione daparte dei cittadini, perché questo meccanismo, comprensibil-mente, ha effetti collaterali (o esternalità) molto negativi.Continuiamo. Dopo aver confessato (operazione non sempre difacile esecuzione dal punto di vista psicologico) e denunciatoamici, parenti e sodali, il reo confesso dovrà restituire il mal-tolto, anche qui, immagino, fino all’ultimo penny: e quei beiweek-end ad Antigua con la segretaria, o i soldini per le Ma-serati, che sembrano essere diventate così trendy, più Rolex ec-cetera, chi li riprende? Perché mi sembra che questo genere dipersone tenda a spendere e spandere (salvo la parte ben nascostaalle Bahamas), e che la signora Poggiolini che nascondeva gliscudi d’oro nel cuscino del divano di casa sia piuttosto l’ec-cezione che la regola. Che si fa dunque con il malloppo dila-pidato o messo ferreamente al sicuro? Riapriamo la dickensianaprigione di Newgate per i debitori? Oltre a restituire il maltoltoil povero corruttore perderà i diritti politici; in più è tenuto a“non commette[re] più alcun reato”: immagino vita natural du-rante (attenzione, sono reati anche le contravvenzioni). A que-sto punto uno si chiede: dove è il trade-off? Chi glielo fa fare?E francamente stupisce che un economista abituato a soppesa-re i pro e i contro della razionalità dell’homo oeconomicus pos-

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sa proporre una procedura così priva di contropartite. Che ti-po di attori sociali presume questa superficialmente brillanteproposta? Anche il più altruista e confession-prone dei rei ca-pisce che non c’è molto da guadagnare; tanto vale quindi cheil corruttore si affidi alla giustizia ordinaria che gli darà sem-pre qualche spazio: quanto meno il vantaggio di non farsi deinemici che lo aspettino fuori; e magari anche di tenersi il gruz-zolo. Ma che senso ha proporre una ricetta così visibilmente“unpratctical”?Conosco benissimo il genere di schemi brillanti che si produ-cono nei graduate seminars delle università americane, aven-done frequentati parecchi, da una parte e dall’altra della catte-dra. Sono spesso molto lontani dalle condizioni politico- isti-tuzionali delle situazioni cui è diretta la ricetta, e non di radodominati da quella naiveté nei confronti della storicità che pernoi europei è croce e delizia dei rapporti con gli studenti ame-ricani (e anche con i docenti): dalle bifore finto gotiche di 1126

East 59th Street a Chicago o da quelle più funzionali dei redbricks di Fayerweather Hall a Columbia, il mondo sembra tal-volta molto semplice da capire e da plasmare. Ma un conto so-no le idee rilanciate tra banco e lavagna grazie a un metodo di-dattico che incoraggia la creatività e l’ardire intellettuale, e unconto sono le proposte che lo studioso si prende la responsa-bilità di sottoporre all’opinione pubblica di quel paese cui even-tualmente la proposta ricetta dovrebbe essere applicata. In que-sto secondo caso mi sembra occorra un eccesso di cautela e diconoscenza di causa, anche per non rischiare di indebolire la giànon fortissima immagine delle scienze sociali (e dell’economiastessa) nella generale considerazione. Una proposta bellissimagravemente carente dal punto di vista della sua realizzabilitàconcreta finisce proprio per essere il famoso apriscatole virtualeche non riuscirà a soddisfare la fame dei poveri naufraghi.

La modesta GabanelliQuanto agli effetti del rigore, del tutto astratto, di una propo-sta così rigorosamente repressiva, suggerirei a Zingales, cheè certamente uomo di ampia cultura, di andare a rileggersi lestraordinarie pagine (che fanno sempre stringere il cuore per laloro disperata lucidità anticipatoria) del primo capitolo de I Pro-messi sposi, là dove Manzoni, con il crudele bisturi dell’intel-ligenza, si dilunga sul fenomeno della grida contro i bravi. Per-ché il problema che mi pare sfugga a Zingales non è soltantoquello che l’Italia “manchi di cultura della legalità” (in realtànon è proprio vero: siamo “la culla del diritto”), ma soprattut-to che il sistema legale italiano è infestato da “gride” che com-minano quelle piogge di sferzate che vengono minacciate in for-ma lapidaria contro chi riversa le immondizie proprio negli an-goli più sordidi della Roma antica, là dove da tempo imme-morabile il viandante immancabilmente troverà il mucchiettoquotidiano. Ogni riformista di buona volontà che si propone dirisolvere un problema mette mano alle leggi e aggiunge un’ul-teriore grida al cumulo, ingorgando il sistema sempre più.Ma, sbotterà qualcuno, tu allora non vuoi nessuna innovazio-ne. Al contrario: io voglio, fermissimamente voglio, che si ri-solva il problema della corruzione, che è un cancro per il no-stro paese. Quello che non voglio è che si pensi di risolverlo ri-proponendo come nuove forme obsolete e ineffettuali di inter-vento. O che si pensi che con la propaganda of the words ci siconvinca che si è risolto il problema. Ci sarebbe una via di-versa? Ce la suggerisce, con l’usuale garbo e modestia (al pun-to di scusarsi di non essere una economista), la Gabanelli sulCorriere della sera del 13 novembre 2011, in un’inchiesta in

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cui suggerisce l’idea di una generalizzazione dell’uso delletransazioni online. Dellamoneyless o cashless society si è par-lato a lungo e da non poco tempo: non si tratta della vecchia uto-pia ottocentesca delle società, senza denaro, ma di sistemi di pa-gamento che eliminano il denaro liquido. Il mio personalebenchmark risale al 1973, a un seminario organizzato a Ber-gen da Stein Rokkan su Data Integration in the Social Scien-ces, presso il “Norwegian Data Service”, quando le prime me-morie solide erano grosse come un cremino FIAT, e però, an-che senza avere la più pallida idea dei futuri progressi, pensa-vamo che si sarebbe arrivati a monitorare la grandissima par-te delle transazioni individuali di una società. Ovviamente si svi-lupperebbero altri modi di frodare e ci sarebbero non indiffe-renti problemi da risolvere, legali, organizzativi e tecnici: mala strada è quella. In ogni caso muoversi in questa direzioneavrebbe il vantaggio di stimolare investimenti in questo set-tore industriale, indecorosamente carente nel nostro paese, conenormi benefici per l’innovazione tecnologica; inciderebbe sul-le pratiche sociali alla radice sgonfiando il sistema di inutili car-te; ma soprattutto non richiederebbe nuove norme penali e gri-de manzoniane.Proprio nello stesso numero del Corriere Formenti rivol-ge un appello accorato al nuovo governo. Il discorso meri-ta un approfondimento che non possiamo fare qui, ma ilpunto centrale mi sembra sufficientemente chiaro: evasio-ne, corruzione criminalità organizzata si combattono sol-tanto con la trasparenza offerta (ma non è automatico) dal-la riorganizzazione digitale delle funzioni pubbliche. Comedisse De Finetti nel 1962 la informatizzazione avrà un ef-fetto positivo se verrà utilizzata per fare cose nuove, non perfare meglio e più rapidamente operazioni tradizionali. Pur-troppo la digitalizzazione ha fatto cose veramente nuove nel-le aree della comunicazione e dell’entertainment, ma nel set-tore dell’amministrazione pubblica ha seguito la via che DeFinetti considerava limitante. Credo che siamo all’internodi un passaggio analogo a quello che avvenne ai tempi diPascal, con lo Stato assoluto che sostituiva il sistema pa-trimoniale-tradizionale di amministrazione del modellofeudale con il sistema fiscale e la struttura burocratica del-lo Stato moderno. Le gride e le nerbate (peraltro solo pro-messe) non servono a nulla se al tempo stesso non sonocombinate con una struttura di pratiche amministrative cheriducano al minimo le possibilità di evasione o di copertu-

ra di illeciti. Sarebbe un po’ come se Henry Ford, oltre a pre-tendere che le sue auto fossero di tutti i colori purché ne-re (battuta che peraltro costò alla Ford una pesante crisi divendite), avesse anche preteso che si tirassero dietro il mu-lo di scorta.

Il dubbio e la certezzaRimane l’ultimo punto, che riguarda il tipo di assertivenesscomune tra molti economisti alla Zingales. Proprio mentrechiudevo il pezzo mi è capitato l’occhio su un altro interventodi questo autore contro le Fondazioni bancarie, accusate di es-sere la “moderna manomorta ecclesiastica che infetta di po-litica il mercato del credito e sperpera i nostri soldi”2. Nel me-rito non posso commentare essendo membro della CCB del-la Cariplo e quindi automaticamente biased. Rinvio però a unarticolo di Riccardo Bonacina per suggerire un confronto trachi afferma apoditticamente e chi, come Bonacina, argomentacon molta documentazione. E qui veniamo esattamente al pun-to che secondo me andrebbe discusso per arrivare a stabili-re non una regolamentazione qualsivoglia, che ritengo co-munque impossibile, ma criteri di buon comportamento cheriprendano il più generale tema caro a Weber della responsa-bilità nel lavoro intellettuale. Intanto credo che tutti dovreb-bero ricordarsi dell’umile monito di Francis Bacon (“if we be-gin with certainties, we will end in doubt, but if we begin withdoubts and bear them patiently, we may end in certainty (cor-sivo mio)”3.Il primo punto quindi riguarda il grado di assertività legittimo inuna comunicazione pubblica della scienza. E’ inevitabile che lostile giornalistico spinga verso una sintesi e una sonorità di lin-guaggio più spinte di quelle che si usano nella comunicazionescientifica, ma dove si pone il limite tra l’adattamento di stile ela distorsione del messaggio? Penso che si dovrebbe almeno sem-pre avvertire il lettore (tanto più un lettore che si ritiene non spe-cialista) del momento in cui si passa da fatti ragionevolmente ac-certati, o da teorie condivise, a opinioni personali, e a volte mol-to personali, di chi scrive. In questo senso la fedeltà al dubbio rac-comandata da Bacone dovrebbe essere fatta trasparire nel testo.Un corollario di questo principio dovrebbe essere l’aggiunta diargomentazioni a sostegno delle affermazioni fatte e delle pro-poste avanzate. Credo che più lo studioso riesce a mantenere unostile argomentativo e non impositivo anche nella comunicazio-ne pubblica, più riesce a staccarsi dal resto degli opinionisti: men-tre se va nella direzione opposta rischia di assomigliare aRummy Rumsfeld.

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2 Il Sole24ore del 17 novembre 2011.3 New York Review of Books, 10 novembre 2011.

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Lasituazione di profonda incertezza che dalla fine del 2007 stainteressando il sistema economico e finanziariomondiale, ca-

ratterizzata prima da crisi bancarie, poi dalla crisi di alcuni debi-ti sovrani, infine da recessione e disoccupazione, sta evidenziandocon chiarezza due approcci nei diversi tentativi di individuare lepossibili soluzioni: da un lato abbiamo i catastrofisti, che pro-pongono ricette tanto radicali quanto distruttive rispetto al pro-blema che pensano di poter risolvere; dall’altro troviamo inve-ce i riformisti, che sia pure da posizioni diverse cercano di in-dividuare quali sono i “guasti al motore”, con l’obiettivo di far-lo ripartire. Le due posizioni non sono certo nuove e neppure lediverse risposte che offrono sono del tutto originali. Nella sto-ria del pensiero economico due sono le figure che più di altreincarnano i differenti approcci, riassumendoli nelle categoriecontrapposte del catastrofismo e del riformismo: ilmaitre à pen-ser del catastrofismo di tutti i tempi fu Karl Marx, il più im-portante teorico del moderno riformismo in campo economicoè stato John Maynard Keynes. Il caso vuole che Keynes sia na-to nello stesso anno in cui Marx morì; sta di fatto che i due pen-satori rappresentano, per così dire, le icone del pensiero eco-nomico, in particolare per quella parte dell’economia politica cheè stata denominata economia delle crisi.Oltre alla storia economica, peraltro, anche la storia politica il-lustra con chiarezza i due diversi approcci. Nelle reazioni aquella che fu la maggiore crisi economica dell’età moderna, laGrande Depressione del 1929, negli Stati Uniti la risposta po-litica fu il più grande programma riformista di tutti i tempi, ilNewDeal di Franklin Delano Roosevelt; dall’altra parte del pia-neta (altra in senso geografico, ma soprattutto politico) la ri-sposta dei tedeschi in Europa fu il consenso dato adAdolf Hi-tler, che fece della catastrofe il suo programma politico fon-damentale, prima col riarmo, poi con la persecuzione degli ebreied infine scatenando l’inferno della seconda guerra mondiale.La distinzione tra catastrofisti e riformisti va oltre le distinzioniideologiche e rimane ancora oggi, in un mondo che sembra pri-vo di ideologie (almeno nel significato negativo che è stato da-to a tale termine): in tutte le fasi del dibattito attuale sull’eco-

nomia delle crisi possiamo trovare autori, posizioni e soluzio-ni catastrofiste da una parte, ed autori, posizioni e soluzioni ri-formiste dall’altra.Con la cosiddetta fine delle ideologie, che con l’acqua sporcadei totalitarismi (nazifascismo, comunismo, teocrazie) rischiadi gettare via anche il bambino, e cioè sistemi di pensiero co-struttivi e progressivi quali il liberalismo, il socialismo demo-cratico ed il solidarismo cristiano, ci troviamo ora a doverci con-frontare con quella che ormai è divenuta una ideologia impe-rante, vale a dire l’ideologia della catastrofe. La famiglia deicatastrofisti è molto ampia, e ne sono d’esempio vari autori ediverse teorie, spesso solo in apparenza diverse fra loro: talvoltaè lo stesso autore che propone soluzioni riformiste a fianco dialtre prescrizioni che sono invece del tutto catastrofiche. Nelcontesto attuale di crisi dell’Eurozona, per esempio, la soluzionecatastrofica per eccellenza che viene proposta è quella dell’u-scita dall’euro. Scrive in proposito Max Otte: “Il primo passoper risanare il nostro sistema finanziario sarebbe una parzialeremissione del debito della Grecia e degli altri paesi meridio-nali da parte delle banche e dei grandi creditori. Perciò mi bat-to da tempo per escludere Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagnadalla zona euro. (…) Negli ultimi decenni più volte le valutesono state separate l’una dall’altra, per esempio quando è ca-duta l’Unione Sovietica e si è divisa la Cecoslovacchia”1. L’op-zione cecoslovacca è un’altra variante significativa del cata-strofismo imperante, di natura più politica che economica, per-ché comporta la separazione politica degli Stati e la loro fran-tumazione (ed infatti trova ampie sponsorizzazioni nel partitodi Bossi).In alternativa alla distruzione della moneta unica, e di conse-guenza alla distruzione del progetto di una futura Unione po-litica dell’Europa, viene proposta anche l’ipotesi dell’euro a duevelocità, che permetterebbe la svalutazione della valuta per ipaesi più in difficoltà. Anche il ritorno alla lira rientra in que-

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Elogio del protezionismo possibile>>>> Gianpiero Magnani

Crisi del debito

1 M. OTTE, Fermate l’eurodisastro!,Milano 2011, p. 44.

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sto contesto, una richiesta formulata a gran voce da molti, chenon si rendono minimamente conto delle conseguenze disa-strose che deriverebbero da una scelta di questo tipo. Un’altrasoluzione che si può annoverare nella famiglia catastrofista èquella indicata da Loretta Napoleoni, che suggerisce di impa-rare daArgentina ed Islanda: “Le esperienze dell’Argentina edell’Islanda ci insegnano che un default pilotato attutiscel’impatto negativo sull’economia nazionale. Se si riesce a ga-rantire il debito interno l’economia non precipita nell’abisso”2(Napoleoni, pag.169); una soluzione simile sembra essere an-che la recente proposta di Zingales, il quale ritiene che l’Italia,a fronte di spread sostenuti, “debba considerare seriamente unallungamento forzoso delle scadenze, diciamo di 4 anni” (Il So-le 24 Ore del 24 dicembre 2011). Entrambi rifiutano invece l’i-potesi di un intervento del FondoMonetario Internazionale: “Laformula argentina è dunque inflazione e crescita, quella del Fon-do monetario è deflazione e austerità, la stessa che oggi vieneprescritta ai Piigs”. Anche qui, nessuno cerca di ricostruire se-riamente cosa successe in Argentina (e in Islanda) dopo la de-cisione di mandare in default il debito pubblico.

Patto sociale sul debitoRientra infine nell’elaborazione per certi versi catastrofica la re-cente analisi di François Morin: partendo dall’idea che “in ter-mini di flussi, la sfera finanziaria è quasi cinquanta volte più am-pia della sfera dell’economia reale” (pag.26), e che i mercatiazionari “non svolgono più una funzione di finanziamento del-l’economia reale” (pag.66), egli individua una crisi che è insieme“di tipo finanziario, economico, ecologico e sociale” (pag.83)a cui occorre rispondere prefigurando “lo scenario di un mon-do senzaWall Street” (pag.130). Morin non è però del tutto ca-tastrofista: oltre a voler abolire “per decreto” il sistema dei mer-cati azionari, Wall Street in testa, senza peraltro chiarire in mo-do preciso e convincente come sostituirlo (con la sola economiasociale e solidale?), egli chiede anche l’elaborazione di “rego-le internazionali sulla formazione dei tassi di interesse e dei tas-si di cambio” (pag.103) ed una moneta unica mondiale, “benecomune dell’umanità” che fu già proposta da Keynes alla finedel secondo conflitto mondiale (pag.101 e 106)3.Vi sono situazioni in cui le competenze tecniche, e soprattuttoil confronto ed il dibattito fra competenze tecniche diverse, è

determinante per il risultato: la rottamazione delle esperienzee l’improvvisazione del tipo “ognuno dica la sua”, stile Renzi,in una fase critica come quella attuale non porta da nessuna par-te. E siccome non abbiamo un nuovo Keynes che ci propongauna nuova Teoria Generale per uscire dall’economia delle cri-si, una risposta riformista credibile a livello globale deve par-tire necessariamente dalla promozione di ricerche che coin-volgano studiosi di grande esperienza e di diversa provenien-za, sia culturale che geografica: quello che servirebbe, in pra-tica, è una sorta di nuovo “Club di Roma” che sappia lavorarecon serietà ed insieme con umiltà nella ricerca di soluzioni, con-sapevole dell’enorme complessità del compito da svolgere e nelcontempo della necessità di svolgerlo in tempi ragionevoli. Leriforme richiedono però anche ponderazione: non si può co-struire un edificio sulle macerie di quello vecchio mentre sta an-cora andando a fuoco; bisogna prima spegnere l’incendio, chenel caso specifico vuol dire fermare la speculazione interna-zionale. Solo dopo questo passaggio fondamentale, per quan-to riguarda l’Italia, si potranno attuare le diverse riforme indi-spensabili per rendere competitivo il nostro sistema, e quindianche attraente agli investitori esteri; e quando parliamo di in-vestitori esteri non ci riferiamo agli speculatori finanziari, maalle imprese che non vengono ad investire in Italia non solo enon tanto per ragioni di mero conto economico (costo dell’e-nergia, costo del lavoro, mancanza di infrastrutture, ecc.), maperché soffriamo anche di altri limiti: abbiamo un sistema pub-blico più inefficiente e più corrotto di altri paesi europei, ed unsistema giudiziario che impiega tempi biblici nella soluzione diogni controversia. Arginare il più possibile la corruzione pub-blica e rendere rapide quanto efficienti le risposte sia della bu-rocrazia pubblica che del sistema giudiziario sono due passaggifondamentali che richiedono riforme dalle ricadute oggettive inmateria economica, riforme che peraltro non sono scindibili daldibattito in corso sulle liberalizzazioni.Il principale elemento di criticità odierno, derivante a sua vol-ta da altri fattori critici (mancanza di crescita, invecchiamen-to demografico, instabilità politica, elevato costo del sistemapubblico, burocratizzazione, corruzione), è quello del collo-camento del debito pubblico, che sconta per l’Italia tassi di in-teresse superiori a quelli di altri paesi e svalutazioni nel valo-re di mercato del debito che creano problemi a tutto il siste-ma finanziario fino a riflettersi negativamente sulla stessa ca-pacità delle banche italiane di dare credito alle imprese ed al-le famiglie. Il Tesoro sta innovando le modalità di collocamentodel debito pubblico, prevedendo la possibilità della vendita online direttamente ai privati (come scrive Isabella Bufacchi sul

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2 L. NAPOLEONI, Il contagio, Milano 2011, p. 169.3 F. MORIN, Un mondo senza Wall Street?,Milano 2011.

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Sole 24 Ore del 24 dicembre), e così evitando l’intermedia-zione del personale bancario, che sembra proporre scelte di-verse, tanto che “quando una persona va allo sportello, in pri-ma battuta gli vengono offerti altri prodotti: o i prodotti dellabanca stessa o altri, sui quali la banca percepisce maggiori com-missioni”, come scrive Vittoria Puledda sulla Repubblica del1° novembre.Le nuove procedure di collocamento in via di sperimentazio-ne vanno forse nella direzione giusta, ma sono ancora insuffi-cienti: quello che manca, nello specifico, è un nuovo patto so-ciale per il debito pubblico, un’intesa su larga scala che inte-ressi tutti i soggetti (lo Stato nella sua interezza, dalle istituzionicentrali agli enti locali, il sistema bancario e quello postale, icittadini italiani nella loro veste di risparmiatori) col fine noncelato di incentivare questi ultimi a sottoscrivere debito pub-blico domestico da far emergere come una sorta di necessario(e conveniente) impegno civico. Un “protezionismo finanzia-rio” di questo tipo, per non essere forzoso, richiede in primisproprio la collaborazione attiva del sistema bancario interno, alquale andrebbero riconosciuti incentivi per il raggiungimento

di precisi obiettivi di collocamento, oltre che garantita la li-quidità indispensabile per poter svolgere e semmai incremen-tare l’attività creditizia ordinaria, che consiste nel finanziare leimprese e le famiglie, possibilmente a tassi ragionevoli. Non puòessere soltanto l’iniziativa del singolo risparmiatore che auto-nomamente sottoscrive dieci o centomila euro di debito pub-blico italiano: occorre invece studiare con rapidità meccanismicondivisi che riformino l’attuale sistema di collocamento in-ternazionale del debito pubblico sovrano (che ora si basa sul si-stema delle aste), con l’obiettivo prioritario di portarlo sul mer-cato interno e toglierlo al magico mondo della speculazione fi-nanziaria internazionale e delle agenzie di rating. Unmondo pie-no di streghe e stregoni che traggono enormi vantaggi a getta-re benzina sul fuoco, perché più grande è l’incendio, maggio-ri sono i guadagni degli speculatori.Le risorse finanziarie domestiche sono ampiamente sufficien-ti per poter rendere progressivamente interno il debito pubbli-co italiano. Nella recente analisi della Banca d’Italia sulla ric-chezza delle famiglie italiane emergono alcuni dati importan-ti: anzitutto l’entità della ricchezza lorda, che è “pari a circa

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9.525 miliardi di euro, corrispondenti a poco meno di 400 mi-la euro in media per famiglia”, importo che scende a circa350.000 euro per famiglia se consideriamo la ricchezza netta,se cioè togliamo da quel valore lordo le passività finanziarie del-le famiglie italiane, che ammontano ad 887 miliardi di euro esono costituite da mutui ipotecari, prestiti personali ed altri de-biti. Dal raffronto della Banca d’Italia risulta anche che le fa-miglie italiane sono complessivamente meno indebitate, in rap-porto al reddito disponibile, rispetto a quelle degli altri paesiconsiderati: a fine 2009 l’incidenza sul reddito disponibile deidebiti delle famiglie italiane era pari all’82 per cento contro il100 per cento di Germania e Francia, il 130 per cento di StatiUniti e Giappone, il 170 per cento del Regno Unito.La ricchezza delle famiglie italiane è superiore a quella di al-tri paesi anche in rapporto al reddito disponibile (8,2 volte, con-tro, per esempio, appena 4,9 volte degli Stati Uniti), ma conti-nua a rimanere mal distribuita, tanto che, sempre nell’analisidella Banca d’Italia, risulta che “alla fine del 2008 la metà piùpovera delle famiglie italiane deteneva il 10 per cento della ric-chezza totale, mentre il 10 per cento più ricco deteneva quasiil 45 per cento della ricchezza complessiva”. Ma un altro aspet-to estremamente interessante di quell’analisi è la composizio-ne di questa ricchezza: 5.925 miliardi di euro sono le attivitàreali, 3.600 miliardi di euro le attività finanziarie. Ricordiamoche il debito pubblico italiano ammonta complessivamente a1.900 miliardi di euro, di cui 1.600 miliardi sono bond gover-nativi collocati in asta sul mercato: abbiamo dunque un ri-sparmio complessivo delle famiglie italiane che è più che dop-

pio rispetto al nostro debito pubblico. Il vero problema è comegli italiani investono i loro 3.600 miliardi di euro di attività fi-nanziarie. Secondo la Banca d’Italia “alla fine del 2010 il 43,2per cento delle attività finanziarie era detenuto in obbligazio-ni private, titoli esteri, prestiti alle cooperative, azioni e altre par-tecipazioni e quote di fondi comuni di investimento. Il contante,i depositi bancari e il risparmio postale rappresentavano il 30per cento del complesso delle attività finanziarie; la quota in-vestita direttamente dalle famiglie in titoli pubblici italiani erapari al 5 per cento”, mentre un ulteriore 18,6 per cento era co-stituito da “somme accantonate dalle assicurazioni e dai fondipensione”. Le famiglie italiane hanno dunque investito nel 2010il 5 per cento delle loro disponibilità finanziarie in titoli di Sta-to; nel 1995 la percentuale era invece del 18,9 per cento: que-sto è il problema.L’Italia ha un debito pubblico che pesa per oltre il 120 per cen-to sul Pil, e con le ultime aste ha pagato interessi elevati, tal-volta vicini al 7 per cento; mentre il Giappone, che ha un de-bito pubblico enorme (superiore al 230 per cento del Pil), pa-ga interessi su quel debito nella misura dello 0,95 per cento (So-le 24 Ore): se una debolezza del Giappone sta nell’avere il se-condo debito pubblico del mondo, che diventa il primo debitosovrano in rapporto al Pil, un suo grande punto di forza sta nel-l’essere riuscito a finanziare quel debito in house, pagando gliinteressi passivi ai giapponesi stessi e nel contempo togliendoloalla speculazione internazionale. Per quanto riguarda il nostropaese la Banca d’Italia evidenzia che “la quota del debito pub-blico detenuta da non residenti è pari al 42 per cento, a fronte

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del 52 in media per l’area dell’euro”; sembra un dato positivo,ma il debito pubblico italiano dopo la Grecia è il maggiore inrapporto al Pil, e ad un Pil che non cresce, per cui è evidenteche quella percentuale di debito in mano a non residenti, fra cuila speculazione internazionale, è troppo alta. Il Giappone, conla mole enorme del proprio debito pubblico, ha tuttavia una quo-ta detenuta da non residenti nella misura di appena il 6,5 percento del suo debito, e riesce pertanto a pagare tassi d’interes-se minimi che certamente non potrebbe ottenere sul libero mer-cato internazionale (quello, per intenderci, condizionato anchedalle valutazioni delle agenzie di rating).

Il debito della politicaE’così difficile per noi fare altrettanto? Perché non possiamo cer-care tutte le vie possibili per cercare di avvicinarci a quel risul-tato? Perché il “neo-protezionismo finanziario” viene conside-rato “lo spettro nuovo che si aggira per l’Europa”, come scriveFabio Pavesi (Il Sole 24 Ore del 22 dicembre)? Nella ricercacompiuta dal quotidiano di Confindustria nello scorso novem-bre emerge che l’indebitamento pubblico a livello mondiale am-monta a 52 mila miliardi di dollari, con un incremento del 50per cento rispetto al 2007 per effetto della crisi finanziaria glo-bale; l’84 per cento di questo debito è dei paesi industrializza-ti, Stati Uniti, Europa e Giappone. L’enorme aumento dei debitipubblici è stato evidenziato in questi termini da Loretta Napo-leoni: dal 2007 al 2011 “il debito pubblico italiano è passato dal104 per cento del Pil al 120, quello spagnolo dal 36 al 69 per cen-to, quello greco dal 105 al 148 per cento, quello portoghese dal68 al 103 e quello irlandese dal 25 al 102”4 . Nel corso del 2012l’Italia sarà la protagonista del debito sovrano europeo, perchéavrà circa 450 miliardi di euro di titoli pubblici che andranno inasta. Ma nel 2012 scadranno anche altri 100 miliardi di euro dibond bancari emessi a suo tempo dagli istituti di credito italia-ni, molti dei quali peraltro a tassi bassi e con un’imposta che oraè stata equiparata a quella applicata sui depositi in conto corrente.In Europa ad inizio 2012 dovranno essere rifinanziati nel com-plesso oltre 500 miliardi di euro di titoli in scadenza, con pres-sioni sui mercati finanziari definite “molto significative, se nonaddirittura senza precedenti” dal presidente della BCE, MarioDraghi. “Nel primo trimestre del 2012 vengono a scadere 230miliardi di obbligazioni bancarie, 250-300 miliardi di titoli pub-blici, e più di 200 miliardi di debito a collaterale”, scrive BedaRomano sul Sole 24 Ore del 20 dicembre). E tutto questo men-tre il nostro paese sconta tassi di rifinanziamento tra i più alti:a novembre scorso la ricerca del Sole 24 Ore rilevava infatti che

“l’Italia oggi paga sui BTp decennali il 6,79%, la Spagna il6,54%, il Belgio il 5%, la Francia il 3,5% (…) in confronto a Ger-mania e Usa che pagano meno del 2%”.Il “neo-protezionismo finanziario” non è la soluzione ottimale,perché la risposta alla speculazione internazionale ed alle agen-zie di rating dovrebbe essere politica ed a livello europeo: lo di-mostra chiaramente la situazione attuale degli Stati Uniti, chehanno un debito pubblico enorme (stimato in 15 mila miliardi,ma che in realtà ammonta a circa 21 mila miliardi, consideratii debiti locali e le garanzie prestate, come ricorda Mario Mar-giocco sul Sole 24 Ore del 22 dicembre): quindi ben oltre quel100% sul Pil che appare nelle statistiche ufficiali. Inoltre gli ame-ricani hanno un debito privato che è ancora più grande: però han-no un unico governo, un solo Presidente, la FED, ed una valu-ta, il dollaro, che anche grazie alla crisi dell’Eurozona continuaad essere la valuta di riferimento internazionale, nonostante sot-to il profilo del debito gli Stati Uniti stiano peggio dell’Eurozonacomplessivamente intesa: il debito pubblico e privato pro capi-te degli americani ammonta ad 82.287 euro contro un Pil pro ca-pite di 36.500 euro ed un risparmio pro capite di 2.043 euro; ildebito pubblico e privato pro capite dell’Eurozona è invece di43.420 euro, contro un Pil pro capite di 26.400 euro ed un ri-sparmio pro capite di 3.944 euro, ricorda ancora Margiocco. Inprospettiva, chi ha maggiori chances di cavarsela?Ma l’Eurozona non è uno Stato sovrano, ed il risultato è allora cheil nostro paese si trova esposto al rischio di dover attuare nuovepesanti manovre dai possibili effetti recessivi su un’economia cheè già in evidente difficoltà e che in più sconta un costo del dena-ro più alto rispetto agli altri paesi: con conseguenze facilmente im-maginabili sulla futura competitività del nostro sistema econo-mico. Il differenziale Btp/Bund, lo “spread”, può essere infatti con-siderato una sorta di indice di affidabilità, ma anche di competi-tività economica, che evidentemente per il nostro paese è nega-tivo. Perché dunque l’idea di portare quanto più debito pubblicopossibile all’interno del mercato domestico, sottraendolo alla spe-culazione internazionale ed alle valutazioni delle agenzie di rating,non dovrebbe essere considerata seriamente una delle priorità na-zionali? Cosa succede invece oggi?Accade che la Banca CentraleEuropea ha via via comprato titoli di Stato dei paesi più deboli del-l’Eurozona per calmierare i tassi d’interesse, ed il 21 dicembrescorso ha prestato denaro all’1 per cento al sistema bancario eu-ropeo: una prima tranche di 489 miliardi di euro a tre anni pre-stati a 523 banche, di cui 116miliardi a banche italiane, che li uti-lizzeranno in parte per rimborsare propri titoli obbligazionari in

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4 NAPOLEONI, cit., p. 153.

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scadenza, ed in parte per comprare titoli di Stato italiani; per nonparlare degli ingenti depositi che le banche europee stanno man-tenendo presso la BCE perché non si fidano l’una dell’altra. Gra-zie a questo prestito scenderà il fabbisogno finanziario delle ban-che, che sono ora in competizione col debito pubblico; inoltre, se-condo Beda Romano, “la speranza di molti è che le banche uti-lizzino il denaro preso in prestito alla BCE – in questo caso pre-statore di ultima istanza – per acquistare debito pubblico, provo-cando quindi un nuovo circolo virtuoso” .

Il vero federalismoLa situazione è paradossale: le banche si indebitano con la BCEa condizioni molto vantaggiose non solo e non tanto per inve-stire la maggiore liquidità nell’economia reale, con prestiti a fa-miglie e ad imprese, ma anche per acquistare debito pubblico;e questo mentre il 95% del risparmio nazionale viene investitoaltrove, quando per risolvere in gran parte il problema del rifi-nanziamento del debito pubblico interno per il 2012, e forse an-che per gli anni successivi, basterebbe che il 10 per cento degliitaliani più ricchi (che abbiamo visto detengono il 45 per cen-to della ricchezza nazionale) tornasse ad investire in titoli di Sta-to italiani soltanto quel 18,9% che già investiva nel 1995. Ba-sterebbe, cioè, che la BCE continuasse a prestare denaro alle ban-che a condizioni vantaggiose, che le banche utilizzassero que-sto denaro per finanziare le famiglie e le imprese, e che i ri-sparmiatori italiani investissero il loro denaro anche (non tutto,ma una parte comunque ben più significativa di quella attuale)in titoli di Stato. Con quali effetti? La possibile riduzione dei tas-si di interesse, il maggior credito disponibile, una spirale virtuosache potrebbe avere conseguenze positive sull’occupazione e sulPil, contribuendo in questo modo anche a ripagare lo stesso de-bito pubblico (la Germania ha in valori assoluti uno dei maggioridebiti pubblici del mondo, ma sta pagando tassi d’interesse in-feriori all’inflazione, e con unminimo di crescita lo sta ripagandoman mano). Potremmo immaginare una sorta di meccanismo adue tempi nel collocamento di questo debito, il cui primo pas-saggio avverrebbe sul mercato domestico, non in asta, nel qua-le i risparmiatori italiani godrebbero di vantaggi nell’adesione:vantaggi di tipo fiscale piuttosto che l’azzeramento delle com-missioni di acquisto dei titoli, perché le banche, al raggiungi-mento di determinati obiettivi prefissati, verrebbero remunera-te per il servizio di collocamento. Con opportune campagne pub-blicitarie ed inviti espliciti quanto sistematici da parte delle au-torità politiche a sottoscrivere il debito pubblico, solo la parteeventualmente inoptata all’interno verrebbe gestita in asta, con

l’obiettivo però di scontare rendimenti inferiori che verrebbe-ro ad innescare un circolo virtuoso, con tassi di interesse via viadecrescenti che si rifletterebbero più in generale sul costo del de-naro, offrendo così un aiuto tangibile per uscire dalla lunga edifficile fase recessiva in atto.Giuliano Amato ha scritto di recente che “il male che corro-de l’Europa è l’assenza di fiducia reciproca, e tutto quello cheporta a ripristinarla è benvenuto e propedeutico a passi ulte-riori” (Il Sole 24 Ore del 27 dicembre): l’idea di una nazio-ne che si accolla il proprio debito, sottoscrivendolo in buo-na parte, non è forse propedeutica a ripristinare un clima difiducia reciproca? E’ così difficile, partendo da questa si-tuazione, arrivare a concepire un unico debito pubblico eu-ropeo, gli eurobond, di cui i principali sottoscrittori possa-no essere proprio gli stessi risparmiatori italiani, e magari an-che quelli tedeschi ? Il “protezionismo finanziario” del de-bito pubblico italiano è necessario nell’attesa che si concre-tizzi il progetto degli eurobond, ma forse è anche necessarioproprio a supporto di tale progetto, perché le relative deci-sioni sarebbero forse più facili da prendere, nel contesto eu-ropeo, se fossero gli stessi cittadini italiani i principali cre-ditori del debito pubblico italiano. E dopo il passaggio deglieurobond, con la via obbligata dell’unione fiscale, perché nonragionare seriamente sull’unione politica? Che vorrebbe di-re un governo unico europeo, una politica estera unica eu-ropea, un esercito unico europeo, e via dicendo. Ciò che man-ca oggi, e che è la principale causa della crisi che stiamo vi-vendo, è la mancanza di una Unione Europea, un’unione po-litica che potrebbe concretizzarsi solo nel segno del federa-lismo. La grande prospettiva di riforma che si rende ogni gior-no più necessaria è infatti proprio quella federale: ma quel-lo che oggi serve davvero è il federalismo di un tempo, quel-lo del Manifesto di Ventotene, che non divideva ma aggre-gava: perché storicamente, scriveva Norberto Bobbio, “se dirivoluzioni in senso federalistico si può parlare, queste sonosempre state nel senso della costruzione di un nuovo Stato(…) non nella dissoluzione di uno Stato unitario”5. Quello checi serve ora non è dunque il federalismo della Padania, masemmai quello di Eurolandia, che è l’unica prospettiva capacedi fare dell’Europa la nuova e più importante superpotenzamondiale. Cosa che evidentemente l’Italia da sola (e men chemeno la Padania) potrebbe mai aspirare a diventare.

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4 NAPOLEONI, cit., p. 153.5 N. BOBBIO, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resi-

stenza, in Il Manifesto di Ventotene, Bologna 1991.

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Cosa c’entrano i mercati finanziari con la politica, con le po-litiche degli Stati nazionali e sovranazionali (es. UE), con

le politiche pubbliche? Iniziamo da una esperienza di praticamicroeconomia. Alcune persone che conosco, e che hanno in-vestito i loro risparmi in borsa per almeno 15-20 anni, mi di-cono che tale meccanismo non ha mai portato loro utili. La me-dia delle valutazione dei titoli è, nel periodo di loro osserva-zione, sempre discesa rispetto ai valori iniziali1. Quali conclu-sioni se ne possono trarre per il risparmiatore-piccolo investi-tore? Che il mercato borsistico funziona per le imprese comeun canale di finanziamento alternativo rispetto a quello dellebanche. Istituzionalmente sono le banche ad essere investite delcompito della raccolta del risparmio per renderlo disponibile alcredito. Ma con il mercato finanziario il risparmio affluisce di-rettamente alle imprese che - in maniera figurata - si parcel-lizzano e si vendono a pezzi (ed a tempo): ed il denaro così ot-tenuto costa anche meno di quello chiesto alle banche. Addi-rittura possono restituire al piccolo investitore assai meno diquello che hanno preso in prestito. Si potrebbe dire che il tas-so di interesse è invertito ed è pagato dal creditore al debitore.Ciliegina sulla torta: tale tasso presenta una crescita pressochécostante (vi è cioè una crescita costante dell’interesse negati-vo per il creditore). Tutto ciò considerato, sono anche le ban-che stesse ad approfittare di questa liberalità dei piccoli inve-stitori, che ne hanno in cambio l’ebbrezza, il sogno del facilee grande guadagno. Questa semplificazione sottace un aspettonon secondario, quello cioè che l’impresa che inizialmente siè messa in vendita a pezzi anch’essa perde del denaro mano ma-no che le sue quotazioni scendono (sempre ipotizzando che le

quotazioni iniziali siano veridiche e non gonfiate). Dove fini-scono tutti questi soldi che i piccoli risparmiatori hanno inve-stito? In mano a pochi (o molti, ma non moltissimi) gruppi eco-nomico-finanziari nazionali ed internazionali.

La truffa del mercatoMa il mio intento non è quello di indagare le modalità del mi-gliore finanziamento delle imprese, né gli errori nelle strategiefinanziarie aziendali, né come investire oculatamente nel mer-cato borsistico, né come eliminare la speculazione finanziaria;parafrasando Rhett Butler, “Frankly, my dear, I don’t give adamn”.Ame interessano le ricadute negative che si hanno quan-do anche le istituzioni pubbliche approfittano della truffa delmercato finanziario. Perché gli Stati e le entità pubbliche do-vrebbero anch’essi prendere questi soldi facili (ma rischiosi)?La risposta è sconcertante nella sua banalità: perché preferisconochiedere in prestito le risorse che potrebbero legittimamente ri-scuotere con le entrate tributarie. Si potrebbe osservare: bene,per lo meno non spendano i soldi che non hanno. Invece no:spendono ciò che non vogliono raccogliere con le imposizio-ni fiscali, e lo fanno chiedendo in prestito il denaro proprio aiceti agiati, da cui dovrebbero averlo d’imperio (beninteso sem-pre secondo progressività, che è equità). La conferma è nelleconsiderazioni che seguono: in prima battuta, chi compra tito-li di stato (e prodotti finanziari in genere) ha evidentemente unadiscreta disponibilità economico-patrimoniale (inclusi i ri-sparmiatori-piccoli investitori di cui sopra). Ora, dai dati del get-tito fiscale risulta che il ceto agiato di questo paese siano i la-voratori dipendenti (pubblici e privati) ed i pensionati. Ma que-sti, stranamente, sono solo una sparuta minoranza fra i rispar-miatori-piccoli investitori. Quindi è ragionevole dedurne che inItalia chi compra titoli di stato e/o investe in borsa lo fa con de-naro nella quasi totalità sottratto alla tassazione, rientrante nel-l’economia sommersa. Vi è poi da dire che, in seconda battu-ta, lo stesso mercato finanziario-borsistico è comunque com-posto dai ceti agiati nazionali ed internazionali. Quindi, quan-

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Elogio dello Stato fiscale>>>> Domenico Argondizzo

Crisi del debito

1 Si spingono addirittura a sostenere che gli iniziali prezzi di vendita delleazioni delle società che fanno ingresso nel mercato borsistico siano am-piamente gonfiati. Senza arrivare ad ipotizzare accordi illeciti con le so-cietà di valutazione e le banche, tale risultato sarebbe prodotto anche so-lo dal semplice funzionamento della forchetta di oscillazione del prezzo,che viene dichiarata nel prospetto dell’offerta di vendita, e che, registrandole richieste di acquisto via via arrivate, fissa definitivamente il prezzo del-l’azione, allo scadere del periodo della stessa offerta, puntualmente sul-l’estremo più alto.

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d’anche fossero risorse non sommerse, sarebbero comunquesempre sottoponibili ad una tassazione più alta, se gli enti pub-blici sovrani così decidessero.Ma non dilunghiamoci su queste disfunzioni cerebrali, che pur-troppo sono anche criminali per i risvolti che hanno sulle co-munità pubbliche, comunque complici esse stesse (perché laclasse politica è sempre espressione della società, in democra-zia). Quando i titoli di stato sono emessi, affluendo con ciò stes-so nel grande calderone dei mercati finanziari, il gioco è fatto.Anche gli Stati, come le imprese, sono soggetti via via alle spe-culazioni intese come valutazioni approfondite e previsioni (sul-le prospettive economiche reali dei soggetti indagati), ed allespeculazioni intese come operazioni finanziarie che scommet-tono sui conseguenti andamenti futuri dei titoli da loro emes-si (con ciò stesso condizionandoli come previsione che si au-to-avvera). Il parossismo si raggiunge quando anche gli entipubblici subordinati agli Stati, per gli stessi imbarazzi ad usa-re la leva fiscale, e per l’impoverimento dei trasferimenti dal-lo Stato centrale, cercano finanziamenti inseguendo il guada-gno facile, cioè comprando titoli di stato con tassi di interessealti. Ed i tassi di interesse sono tanto più alti quanto più gli Sta-ti si sono già indebitati. E la stessa nuova crescita del debito pub-blico è a sua volta causa del maggior costo per finanziare il de-ficit ulteriore e contemporaneamente del maggior costo per ilpagamento degli interessi sul debito pregresso (perché nei di-savanzi c’è anche la voce spese per interessi). Questa la spira-le infernale.

Miopie privateBisogna però sempre tenere fissa l’attenzione sulla constata-zione circa la ragione genetica del debito pubblico: deficitariatassazione. Si deve osservare che gli Stati e le altre entità pub-bliche non dovrebbero affatto chiedere i soldi in prestito, sog-giacendo alle speculazioni finanziarie; e che, subordinatamente,i loro titoli, una volta sottoscritti, non dovrebbero comunque es-sere negoziabili sui mercati valutari (un po’ come succede peri vecchi cari buoni postali). Questo perché gli Stati non sonosoggetti privati: sono pur sempre titolari di potere d’imperio,e possono decidere se e quanto chiedere ai propri membri co-me dovere di compartecipazione ai costi della comunità pub-blica. Vi è poi una seconda ragione fondamentale per cui i ti-toli di stato non dovrebbero essere negoziati. Anche se ho giàdetto che non mi interessa indagare chi sia ad arricchirsi con lespeculazioni finanziarie, ciò che mi preme sottolineare è chequesti gruppi economico-finanziari non devono essere messi

nelle condizioni di lucrare sulla cattiva amministrazione deglienti politici pubblici: perché nessun ente privato deve essere so-vraordinato agli enti pubblici; perché le stesse speculazioni fi-nanziarie condizionano le scelte dell’operatore politico pub-blico; perché tali operatori economici privati non fanno valu-tazioni seguendo criteri di buona amministrazione e/o di me-rito politico, bensì soltanto quelli microeconomici sulla capa-cità degli Stati debitori di essere solvibili, e cioè su quanto po-ter lucrare ulteriormente dalle difficoltà via via crescenti di ta-li debitori.I primi due punti mettono in gioco la categoria della sovrani-tà delle istituzioni pubbliche e della loro libertà nella decisio-ne politica. Il terzo punto mette in gioco la questione centraledell’essenza della politica e del suo rapporto con l’etica. Giu-dici della semplice buona amministrazione, ed a maggior ra-gione delle scelte politiche e delle conseguenti politiche eco-nomiche pubbliche, non devono essere enti privati, esterni alcircuito rappresentativo istituzionale, e per di più mossi soltantodalla legge del loro massimo profitto privato. Se uniamo le va-rie osservazioni sin qui fatte, possiamo trarre queste ulterioriconsiderazioni. I mercati sono guidati da gruppi che possonodefinirsi ristretti, se messi in paragone con la società di ogni Sta-to (figuriamoci con quella mondiale): quindi, semplificando, daipochi ricchissimi. Ora, è immaginabile che questi gruppi ab-biano interesse a che gli Stati esercitino oculatamente la lorocapacità impositiva e di spesa? Ovvero, è immaginabile che glistessi gruppi si preoccupino di come vengono sperperati i pub-blici denari? È immaginabile che abbiano a cuore i servizi del-lo Stato sociale (istruzione, sanità, tutele del lavoro), le infra-strutture, la razionale gestione delle risorse naturali, energeti-che, agricole, ecc.? È immaginabile che abbiano a cuore pro-prio la corretta funzionalità (anche dal mero punto di vista mi-croeconomico) delle organizzazioni pubbliche collettive?Io dico che se fossero intimamente razionali, dovrebbero ave-re a cuore tutte queste cose. Ma l’operatore privato è per suanatura accecato dal massimo profitto nel minor tempo. Figu-riamoci se tale rapace privato avesse davanti a sé una comuni-tà pubblica che, per intraprendere la virtuosa via della riduzionedel debito, scegliesse di imporre una reale tassazione progres-siva sulla sua comunità! Pensate che le borse, i mercati, che so-no i ricchi, festeggerebbero? Ovvero farebbero di tutto per im-pedire che si veda che il re è nudo? Siamo tornati alle ragionidella nascita dell’organizzazione sociale, della politica e del-l’etica. Parliamo ora quindi della Politica. Secondo un’ottica li-beraldemocratica la funzione dello Stato, dell’ordinamento giu-ridico, e quindi della politica, è in fondo in fondo quella di tu-

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telare la libertà delle singole persone, che però è piena solo sevuol dire in primis affrancazione dai bisogni; ciò valendo so-prattutto per le persone prive o povere di risorse proprie. La so-cietà senza ordinamento giuridico sarebbe un ritorno alla savana,alla giungla, dove regnano le leggi della sopravvivenza, del piùforte e della creazione e perpetuazione del privilegio con la vio-lenza. Una politica che ignori questa ancestrale origine della co-munità umana tradisce se stessa.Il sistema economico ha bisogno dell’intervento dello Stato in-nanzitutto per regolare il mercato (con specifica attenzione a sa-lari, prezzi, tariffe dei servizi, onorari delle professioni, remu-nerazioni del lavoro autonomo). Una recente prova sperimen-tale su tutte: basta vedere come i creditori (siano essi gli Stati,le banche centrali, la BCE, le banche private, i gruppi econo-mico-finanziari) debbano intervenire per salvare i debitori (sia-no essi gli stessi Stati, le stesse banche, gli stessi gruppi eco-nomico-finanziari), curando i debiti con altri debiti2, per capi-

re come il sistema economico necessiti, per il mantenimento del-la sua fisiologia, dell’intervento anti-concentrazione di un en-te esterno al sistema stesso, ai meccanismi che condizionanogli operatori presenti entro di esso. Inoltre il sistema ha biso-gno di un intervento per mezzo della leva fiscale e della con-nessa funzione redistributiva attraverso i servizi dello Stato so-ciale, e di specifici investimenti pubblici finalizzati alla crea-zione di infrastrutture. Altrimenti il sistema economico si av-vita su se stesso per l’eccesso di concentrazione delle risorse,che porta ad un calo della domanda di beni di consumo, e con-seguentemente all’inceppamento della loro circolazione: in al-tri termini a crisi economiche di sovrapproduzione e quindi fi-nanziarie. Lo Stato sociale di diritto (istruzione, sanità, tuteledel lavoro) ha un costo; anche il solo Stato di diritto (forma-lizzazione dei diritti nelle leggi, creazione del mercato con-correnziale in quanto regolamentato, garanzia di tutto ciò neitribunali/authorities, sanzione ed espiazione delle violazioni) haun costo. Per risolvere i problemi bisogna affrontare dei costi.Una politica che ignori questo dogma è una cattiva politica.Per convincersene basta un elenco parziale dei problemi italiani:mafie, criminalità diffusa, corruzione e illegalità (di cui l’eva-

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2 Magari anche solo per mantenere in vita un mercato (come quello italia-no) che comunque assorbe una gran fetta di merci e servizi prodotti neipaesi finanziariamente sani (come la Germania).

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sione fiscale e l’economia sommersa sono cospicue compo-nenti) incidono pesantemente, con i loro taglieggiamenti, sul-lo sviluppo economico di più della metà del territorio italiano,senza dimenticare che una qualunque attività economica,quand’anche sia sommersa per il Fisco, è invece presa alla iu-gulare dagli esattori mafiosi; la povertà infrastrutturale (adesempio: condotte idriche, reti fognarie, linee ferroviarie e stra-dali, mezzi di trasporto pubblici su rotaia/strada, impianti perla produzione/sfruttamento delle fonti di energia, ecc.); la ca-renza di risorse pubbliche per garantire i cardini dello Stato so-ciale e dello Stato di diritto (basti citare la esiguità del perso-nale degli uffici giudiziari, dei magistrati, delle forze dell’or-dine in generale, la povertà di mezzi e strutture per il loro la-voro); la presenza di numerose corporazioni, tante quasi quan-to le tipologie delle professioni e delle occupazioni autonome,che con la loro sola presenza privilegiata imbrigliano ingentiquote della ricchezza nazionale e si riverberano sui costi di pro-duzione e distribuzione rendendo il nostro sistema economiconon competitivo; la diffusa povertà, ed in generale condizionieconomiche che impediscono l’affermazione della dignitàumana ed il pieno sviluppo - secondo le proprie capacità - diogni singola persona, della sua gratificazione sociale e cresci-ta culturale; infine la mancanza di un serio e diffuso smaltimentodei rifiuti (che potrebbe esso stesso fornire risorse energetichee fertilizzanti per l’agricoltura) e di una seria politica di ap-provvigionamento energetico da fonti rinnovabili.

Pubbliche virtùI meno che possono molto pensano di non aver bisogno dellapolitica, dello Stato e dei suoi costi. Sbagliano: chi più ha, piùrischia di perdere, quando dovessero saltare tutte le garanzie del-l’ordinamento giuridico, perché in aperta savana potrebbero tro-varsi prima o poi davanti ad uno più potente e/o violento cheli spoglierebbe di tutto. Comunque lo scopo di una buona po-litica non è piegarsi a questi errori, ma prendersi cura dell’in-teresse generale, che è di gran lunga più vicino ai più che pos-sono ben poco. Una politica che si faccia irretire dalle sirene del-le scuole economiche liberiste sposta le lancette del pensieroeconomico e politico ai primordi della rivoluzione industriale,dimenticando l’esperienza del 1929. Va quindi bandita dal pro-gramma politico la tesi che sostiene che l’abbassamento dellatassazione sia l’ottimo paretiano.Questo cambiamento di pensiero ed azione vuole essere la ri-scoperta della matrice fondante della socialdemocrazia: infat-ti essa nasce per elevare i più alle stesse opportunità di piena

affermazione personale dei meno. L’eguaglianza non è intesain senso morale, ma va ancorata al dato economico di pari chan-ces di affermazione, partendo da un minimo necessario alla sod-disfazione dei bisogni primari. Infatti la democrazia, necessi-tando come qualsiasi tipo di organizzazione istituzionalizzatadella società, di una gerarchia e specializzazione dei ruoli ha laparticolarità, opposta alle autocrazie, di postulare che ogni sin-gola generazione possa e debba svilupparsi e cimentarsi nellascalata sociale. Se è vero che in ogni organizzazione ci sono deivertici che decidono, è pur vero che in democrazia questi ver-tici (orientati dalla comunanza ideologica con il loro elettora-to, che è il collante e la garanzia della loro rappresentatività)debbono avere un ricambio (vorticoso se confrontato con le au-tocrazie), basato sul merito e sulle pari opportunità di accessoagli strumenti di crescita culturale: che vuole dire affrancamentodall’indigenza economica, tutela sanitaria, tutela scolastica, tu-tela del lavoro (anche nella realizzazione della massima e di-namica occupazione), normale soddisfazione dei bisogni (an-che sofisticati) delle persone.

Tutto ciò ha un costo. La socialdemocrazia nasce per redistri-buire indirettamente la ricchezza attraverso la fornitura di tut-te queste tutele. E la socialdemocrazia è figlia del liberalismo,per cui la sua funzione coincide con lo sviluppo del sistemaeconomico. È la sua valvola di sicurezza, riconducendo a ra-zionalità la sua intima pulsione a collassare su se stesso comefosse attratto e divorato da un buco nero al suo interno; ga-rantisce la perpetuazione della circolazione dei beni e servizi(vera circolazione sanguigna del sistema) contro l’indomitapulsione di morte che altrimenti creerebbe il buco nero attra-verso i vari gradi delle concentrazioni. La vita del mercato ènella diffusa capacità di consumo di beni e servizi. La social-democrazia dovrebbe riappropriarsi dell’idea di chiedere alla

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collettività di contribuire con progressività ai costi di una so-cietà eticamente giusta perché economicamente razionale: per-ché una società giusta corrisponde alle necessità del mercato.che vive e si sviluppa per via di un alimento che non sta nel-la natura intima dell’operatore privato, ma che viene offertocongenitamente solo dallo Stato democratico e dal suo ordi-namento giuridico.La socialdemocrazia non deve temere di contrastare il dogma del-l’abbassamento della tassazione: questo è un falso culturale chei meno hanno escogitato da diversi decenni (in Italia tale tema eraun refrain che deliziava la Camera dei deputati, grazie ad uno spa-ruto numero di deputati fascisti, nella primavera del 1921) peravere il consenso di grandi fette dei più. Infatti è soprattutto conil democratico suffragio universale che si è acuita l’esigenza daparte della conservazione di offrire falsi miti per creare un col-lante ideologico con i meno: un collante ideologico che ovvia-mente non può fondarsi su una visione realistica degli interessimateriali, economici, culturali, ma deve poggiare su una mani-polazione della realtà. I moderni sistemi di comunicazione di mas-sa offrono a questo proposito uno strumento formidabile.

Crescita e redistribuzioneLa socialdemocrazia non deve nemmeno temere di contrastareil mendace dogma della crescita continua (impossibile sul so-lo pianeta che noi momentaneamente occupiamo). La cresci-ta non deve essere vista come fattore determinante il miglio-ramento diffuso delle condizioni di vita e di piena realizza-zione delle persone. La crescita può essere semplicemente unrisultato, una spia, del funzionamento razionale del sistemaeconomico di produzione e distribuzione di merci e servizi.Ma in natura, e data la limitatezza delle risorse anche delle co-munità umane, non può esservi sempre, né essere costante.Purtroppo viene usata come una escamotage per provare a po-sporre nel tempo il momento della redistribuzione delle ri-sorse, nelle varie forme che abbiamo detto. Una politica chesi richiami ad ideali di popolarismo, socialismo, liberalde-mocrazia, deve porre al centro della sua azione costante il bi-nomio imposto dalla natura del sistema economico delle co-munità umane da quando l’uomo è divenuto un animale stan-ziale. Tale binomio è quello che lega la stabile efficienza delsistema economico alla costante azione redistributiva del-l’ordinamento giuridico e dell’organizzazione pubblica. Quin-di la rigenerazione della domanda di beni e servizi, motore pri-mo del processo economico, si ottiene attraverso la redistri-buzione delle risorse.

Il suddetto programma politico di allargamento ai più dellapossibilità di fruire di condizioni economiche che consenta-no una piena realizzazione della persona, del lavoratore, delconsumatore, del genitore, del figlio3, trova giocoforza l’op-posizione dei gruppi ristretti che detengono la maggiore quan-tità delle risorse economiche. Bisogna infatti ricordare che lerisorse, e soprattutto i processi socioeconomici che le gene-rano, sono delimitati per ragioni naturali4 e per ragioni strut-turali delle società5.Data la limitatezza delle risorse naturali e delle risorse sociali,consegue che il legame tra giustizia redistributiva ed effi-cienza economica ha due corollari diretti. Il primo è che lagiustizia redistributiva è garanzia che il sistema economiconon imploda, soffocato dalla concentrazione delle risorse cheannulla la circolazione, con la connessa incapacità di assor-bimento della produzione attraverso il consumo. Il secondoè che la giustizia redistributiva è garanzia che il sistema eco-nomico non travalichi, oltre che i limiti delle risorse socia-li, anche quelli delle risorse naturali disponibili nel pianeta,distruggendo gli ecosistemi, perturbando gli equilibri cli-matici, spogliando le generazioni future di analoghe possi-bilità di vita sulla Terra.

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3 Uso il maschile, secondo la lingua italiana, come neutro, valido anche peril femminile. Evito la falsa contrapposizione tra le generazioni sulla que-stione delle tutele del lavoro.

4 Si vedano le materie prime.5 Si consideri, per esempio, che non sarebbe economicamente possibile che

la quasi totalità di una comunità esercitasse gli impieghi più qualificati eperciò più remunerativi, per la semplice ragione che essi non manterreb-bero più tale caratteristica, dovendosene ridividere l’utilità marginale pro-dotta per la società, quindi il valore, il costo, entro una assai più ampia cer-chia di esercenti.

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Lo spazio dell’utopia>>>> Massimiliano Perrotta

AParigi per lamostra-installazioneVoyage(s) en utopie. Si trat-ta di una grande operamultimediale di Jean-LucGodard nel-

la quale scene dei suoi film si affiancano a sequenze video rea-lizzate per l’occasione, spazi allestiti dal maestro entrano in rap-porto dialettico con scritte sparse dappertutto. Sono con Sara, lamia compagna di vita. Per fortuna è francese e con francese pun-tiglio prova a decifrare i doppi e tripli sensi che ogni frase con-densa. Esco dal Centre Pompidou frastornato: sono sicuro di nonaver capito tutto e sono sicuro di non aver capito bene. Del re-sto è quanto sempre mi accade davanti alle opere di Godard. Macome sono salutari le sfide che lancia all’intelligenza, come so-no stimolanti i suoi flussi di immagini e parole che forse non vo-gliono essere tanto capiti quanto vissuti come un’esperienza. Eche boccata d’ossigeno la sua guerra al semplicismo, alle storienarrate come se fossimo dei bambini sciocchi.

Vado alle Halles dove Marco Ferreri girò nel 1973 il suo filmNon toccare la donna bianca. Mentre il quartiere venivasventrato dalle ruspe per fare posto a un centro commerciale sot-terraneo, Ferreri utilizzò quel grosso buco nel cuore di Parigiper ambientarvi la storia del generale Custer sconfitto dagli in-diani. Il film ipotizza un tempo e uno spazio sintetici dentro iquali precipitano epoche e luoghi diversi: passato e presenteconvivono nella stessa immagine, siamo nel lontano west maanche in una moderna metropoli occidentale. Il regista visua-lizza simultaneamente la trama e il suo significato metaforico:l’epoca di Custer e quella di Nixon gli sembrano contempora-nee in quanto identiche sono le loro ideologie.Anche nel 1973ci sono indiani inermi e soldati del Settimo Cavalleria pronti acolpirli: cambiano gli attori ma il copione resta lo stesso.

Non toccare la donna bianca è una sorta di manifesto poeticodel cinema anarchico di Ferreri. Ma la sua anarchia non è ungenerico ribellismo contro il potere costituito o una comoda viadi fuga per evitare di fare i conti con le cose come sono. L’a-narchia di Ferreri è un autentico sentimento del reale: il suosguardo velato di diffidenza è quello di chi sospetta sempre di

stare subendo un’imposizione. Anarchica è anche la sua di-mensione estetica: il regista destruttura il linguaggio filmico innome di un cinema sempre da inventare, volta per volta. Nontoccare la donna bianca rappresenta un momento chiave delpercorso ferreriano perché apre a una visione del mondo me-no negativa. Il regista milanese intuisce per tempo che bisognavoltare pagina: dunque, rischiando l’incomprensione, da sa-botatore si fa profeta e nei film successivi prova ad andare ol-tre il novecento.

Se il cinema è in crisiFerreri si è convinto che la catastrofe definitiva, quella da luipaventata e al tempo stesso auspicata in film come La grandeabbuffata, sia già avvenuta: «Non con uno schianto ma con unpiagnisteo» come aveva vaticinato Thomas S. Eliot. Uno sta-dio della civiltà occidentale gli sembra ormai concluso: è giun-to il momento di rimboccarsi le maniche, di provare a edifica-re il nuovo. Egli non ha paura dei «barbari» contemporanei, nonè tra quanti temono la messa in discussione dei vecchi valori.«Ho sentito urla di furore / di generazioni, senza più passato,di neo–primitivi» canta allarmato Franco Battiato con la col-laborazione letteraria del filosofo Manlio Sgalambro. Più chel’incertezza del futuro a Ferreri fanno paura le certezze del pas-sato: «La vecchia cultura era il lavoro di diciotto ore, i bambi-ni che lavoravano a sei anni. Che altro era? La vecchia cultu-ra copriva veramente una situazione di disperazione assoluta».Vado alle Halles per vedere che ne è stato di quel buco e per in-terrogarmi su cosa resta dell’utopia che Ferreri vi proiettò. Tro-vo panchine, vialetti dove passeggiare quietamente, persino unabella scultura modernista. Gli spazi commerciali sotterranei nonsono male, forse un poco claustrofobici. Dell’utopia di Ferre-ri – sulla quale Maurizio Grande scrisse illuminanti pagine ese-getiche – qui nessuna traccia. Marco Ferreri concluse la carrieracon il nostalgico Nitrato d’argento dedicato alle sale di una vol-ta. A chi come me il cinema l’ha scoperto davanti allo scher-mo televisivo il mito della sala risulta piuttosto estraneo: il ci-

Fine del postmoderno

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nema non è un luogo o un nastro di pellicola che scorre ma –secondo le magnifiche parole di Ferreri – l’infinito a portata disguardo.Il novecento ha fatto il cinema, purtroppo non ha fatto glispettatori. Il regista SilvanoAgosti dice che «da quando il ci-nema è morto tutti fanno film». Guido Ceronetti annota:«Dubbi circa la morte di Dio, ne ho molti; sulla morte del Ci-nema, nessuno». Chissà. A proposito dei piagnistei sulla cri-si dell’industria cinematografica, ecco un luminoso consigliodel regista François Truffaut: «Quando nel cinema le cose nonvanno molto bene, è da augurarsi che peggiorino, di modo chele colonne del tempio, lentamente trasformato in bordello,crollino provocando un rinnovamento dalle fondamenta».Amo il cinema non per quello che fu, tanto meno per quel-lo che è: lo amo per quello che potrebbe essere. Così talora

mi capita di fantasticare che la storia del cinema debba an-cora cominciare, che quanto finora s’è visto non è che la prei-storia. Avanti video!Dal novecento l’utopia esce con le ossa rotte: la realtà ha vin-to. Le utopie palingenetiche sono definitivamente tramontatee ancora ci circondano cumuli di macerie, strascichi attossicanti.Non sempre i sognatori sono dei candidi, talora sono degli ster-minatori. Per taluni della mia generazione risulta alquanto dif-ficoltoso trovare una definizione adeguata del proprio credo po-litico. Non comunisti perché antipatizzanti dell’Unione So-vietica quando ancora c’era; non socialisti perché il socialismoitaliano è nell’accezione comune quello cosiddetto riformista.Quando militavo in Rifondazione Comunista mi capitava tal-volta di essere trattato con un certo sprezzo: tronfi della loro fe-de in non si sa bene quale comunismo, alcuni compagni rea-

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givano con fastidio al mio interrogarmi su come le nostre ideepotessero essere rifondate. Tra gli epiteti collezionati – «co-munista all’acqua di rose», «paternalista verghiano», «uomodell’ottocento col cuore in mano» – «socialdemocratico mas-simalista» è quello che mi piace di più. In attesa di progetti nuo-vi, mica male le vecchie ricette socialdemocratiche: scuole mi-gliori, più ospedali.

I rivoluzionari del peggioLasciai il partito quando presi atto che non si voleva rifonda-re il comunismo (o, come io auspicavo, la sinistra cosiddettamassimalista) ma soltanto il partito comunista. Quanto mi man-cano quelle umide stanze illuminate al neon, quell’aria suda-ticcia, quei rotoli di manifesti ingialliti ammonticchiati nel-l’angolo più buio. E quelle parole appassionate, veementi. Que-gli ordini del giorno che provavano a dare un assetto logico al-le nostre confuse speranze.Il disordine mentale della sinistra contemporanea è figlio delnon volersi guardare allo specchio con onestà. Quella della si-nistra è una storia di errori: i massimalisti si sono lasciati ab-bagliare dai miraggi delle dittature comuniste, i riformisti si so-no fatti abbindolare dalle fole dell’iperliberismo totalitario. Ma

quella della sinistra è al tempo stesso una storia nobile: ha da-to un contributo decisivo alla lotta di milioni di donne e di uo-mini per migliorare le proprie condizioni sociali.Niente ha danneggiato la nostra causa quanto i nostri silenzi pernon danneggiare la causa. Stanchi della lunga battaglia, co-minciammo a discorrere dell’immodificabilità del reale. Nel-l’altra stanza i signori del capitale indisturbati si modificava-no la realtà a loro comodo. Il capitalismo a oltranza, l’ultimadelle ideologie, ci ha chiesto di rinunciare ai valori perché d’in-tralcio all’efficienza del meccanismo produttivo. Ora, tramon-tando, ci lascia con le tasche e con le anime vuote. Della mor-te delle ideologie c’è poco da rammaricarsi. Il novecento ha uc-ciso le ideologie ma non le nostre idee che a me sembrano piùnecessarie che mai. Giustamente Leonardo Sciascia corregge-va la celebre battuta di WoodyAllen: «Dio è morto, Marx pu-re e io non mi sento bene. Voglio continuare a vivere, vogliocontinuare a pensare, voglio vedere dentro le cose, voglio giu-dicarle per come sono e voglio essere libero…».Il mancato dialogo tra Craxi e Berlinguer che tanto ha nuociu-to a Craxi e a Berlinguer nonché a tutta la sinistra italiana, rap-presenta un monito per l’avvenire: quello tra sinistra riformi-sta e sinistra massimalista è un dialogo necessario.Affinché lasinistra sia vitale, l’utopia deve avervi uno spazio. Una sinistraarresa alla dittatura dell’esistente a lungo andare smarrisce lapropria ragion d’essere. La sinistra ha bisogno dei massimali-sti per additare la meta lontana e dei riformisti per condurvi lanave con saggezza. Nella sua accezione originaria il riformismotrovava senso contrapponendosi dialetticamente al massimali-smo: scendere a compromessi con la società capitalista per ot-tenere piccoli risultati immediati piuttosto che aspettare il gior-no in cui le condizioni fossero mature per trasformare tutto ra-dicalmente. Oggi sia a sinistra che a destra molti si proclama-no riformisti, di un riformismo generico che non specifica qua-li riforme voglia promuovere. Forse costoro vogliono solo af-fermare il loro non amore verso lo status quo. Ma noi pro-gressisti oramai dovremmo saperlo bene che riformare una co-sa non vuol dire necessariamente migliorarla.Più ancora del sistema talora inquietano certi suoi contestato-ri, certi facinorosi rivoluzionari in peggio. C’è anche una sini-stra radicale che ha poco da farsi perdonare. Una sinistra mas-simalista che prese le distanze dalle tirannie comuniste per tem-po e che, pur avendolo ispirato, sconfessò il sessantotto non ap-pena rivelò il suo volto fanatico. Parlo della sinistra franco-fortese. La diagnosi del «mondo amministrato» fatta da MaxHorkheimer e Theodor W. Adorno si è rivelata profetica. Maper una certa sinistra quella lezione è «superata». Lasciare al-

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le destre la difesa dei valori dell’occidente, cioè di molti dei va-lori fondativi della sinistra, è un errore dalle conseguenze in-calcolate.Questa cosiddetta seconda repubblica che così poco ci piace èla meritata espiazione collettiva per la colpa di aver distrutto conviolenza la prima. Oggi che trionfa una diffusa antipatia per lapolitica, oggi che questa ha finalmente abbandonato la prete-sa di determinare tutto, con rinnovato entusiasmo dovremmoaccostarci a essa. Sì, c’è tanto bisogno di politica: per spiega-re ai giovani con quali risorse verranno pagate le loro pensio-ni, per cercare di capire chi dovrà assistere notte e giorno i mi-lioni di vecchi che l’allungamento della vita va producendo, perdefinire quali debbano essere i limiti di una scienza sempre piùin preda a deliri d’onnipotenza. Votare non è tracciare una cro-ce sopra una scheda elettorale: significa esprimere il proprioconsenso. La democrazia non vive di rituali elettorali, vive delconsenso che le diamo sentendoci rappresentati dagli esponentipolitici che ci garbano.

I burocrati dell’arteDal novecento esconomalconce anche le utopie degli industrialiumanisti. Una tristezza indicibile vela il cielo di Ivrea, la città nel-la qualeAdriano Olivetti provò a concretizzare la sua utopia so-ciale e urbanistica al servizio della comunità. Dopo la sua mor-te il Canavese è stato devastato da imprenditori discutibili, e og-gi è una zona economicamente depressa: restano unmuseo a cie-lo aperto dell’architettura moderna e il rimpianto delle nuove ge-nerazioni che dai loro vecchi ascoltano i racconti dell’età dell’oro.Sappiamo bene che la redenzione sociale non è alla nostra por-tata, che le uniche redenzioni possibili sono quelle estetiche equelle metafisiche. Eppure non ci rassegniamo a deporre il so-gno politico nel cassetto. Restiamo qui, impigliati in questo tem-po nero e sussurriamo al vento il nostro bisogno di liberazione.Il dramma di questo stadio della modernità è uscirne. Gettati nel-l’oscuro presente senza orizzonti, rimanere lucidi per trovare ipassaggi nascosti. Da questamodernità non si esce con un «post».Dopo aver ascoltato il suono della parola pubblico in bocca aiburocrati dell’arte, non si può che aborrire il proposito di crea-re per il «pubblico». L’odierna industria culturale sembra irri-formabile: chi ne fa parte non osa criticarla per paura di veni-re estromesso, gli altri vengono zittiti con la terroristica accu-sa di essere dei risentiti. Per fortuna un sistema che non tolle-ra critiche è incamminato verso la propria rovina. Le capitalidell’industria culturale ogni autunno sono prese d’assalto da le-gioni di giovani aspiranti venuti per sfondare, per diventare

qualcuno. Oppure, qualora dovesse andare male, per essere as-soldati dal sistema come «professionisti». L’idea che l’arte sipossa farla per niente – per il piacere che dà, per una necessi-tà interiore – la considerano puerile. Così le strade di Roma edi Milano pullulano di attempati «professionisti» in esubero chenessuno ha voluto comprare. L’arte di Stato nei paesi poco me-ritocratici è un giocattolo per i figli dei ricchi finanziato dai fi-gli dei poveri.Si cammina per le strade di Napoli ammirati da tanta civiltà mu-sicale. Un popolo che se ne infischia delle mode dell’industriadiscografica e si specchia in un universo canzonettaro auto cto-no di divi minimi che vengono dai bassi. Inutile stigmatizzarela boria con la quale i lacchè delle grosse fabbriche musicali bol-lano tutto questo come «sottocultura»: i napoletani – saggia-mente – se ne fottono.Nell’industria culturale la competizione è spietata. Ecco il pa-radosso dell’artista contemporaneo: per dare voce al fanciulli-no che alberga in lui, per mandare messaggi di fratellanza uni-versale, per esprimere la sua parte migliore, deve essere il piùcinico tra i cinici, il più arrivista tra gli arrivisti, il più stronzotra gli stronzi. L’artista autentico desidera comprendere più cheessere compreso. L’artista autentico – ci ha insegnato ArthurSchopenhauer – adopera l’arte non per affermare il proprio io,bensì per liberarsene oggettivandosi nell’opera.Il novecento è finito, non tutti se ne sono accorti. La critica almomento più necessaria è forse quella culturale: la critica at-tenta non tanto alla forma o al contenuto dell’opera, ma alla suasostanza. Costruite le fondamenta di una nuova cultura e di unanuova arte si potrà – con occhi nuovi – separare il grano dal lo-glio di questi anni. «Un classico in letteratura, un monarchicoin politica, un anglo–cattolico in religione»: l’autodefinizionedi Eliot ha poco di paradossale. I suoi magnificiQuattro quar-tetti additano infatti la rotta di una fase per così dire classica delmodernismo. Oggi Eliot è nostro contemporaneo non tanto peri furori giovanili quanto per i posati esiti della maturità. Oggici parlano soprattutto i modernisti che seppero superare la fa-se spettinata per guadagnare l’età adulta: il secondo Eliot, l’ul-timo Pound, il nuovo Godard.Tra i regali venefici di questi anni c’è una certa immagine di Jor-ge Luis Borges. Il Borges che talora ci viene proposto non è loscrittore amante della misura classica, lo schopenhaueriano bud-dista attanagliato da sconcertanti ansie metafisiche, l’indaga-tore di vertiginose verità possibili come la coesistenza di uni-versi paralleli. Lo scrittore argentino ci viene presentato comeun compiaciuto manierista, come un maniaco di inutili citazioni,come una specie di Calvino maggiore. Povero Borges, ridotto

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alla controfigura di se stesso, contrabbandato per un vecchiogiocherellone. Io amo un altro Borges: il veggente che intravideuno degli sbocchi del modernismo novecentesco e con il suosorriso buono se ne stava lì a indicare il sentiero.Verso la metà del novecento Adorno scriveva: «Il compito at-tuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine». Missione com-piuta. A noi tocca il compito ulteriore, ovvero – parafrasandoun verso di Friedrich Nietzsche – costruire da queste rovine unmondo: selezionare nel magma una serie di frammenti per sin-tetizzarli in un nuovo cosmo, mai dimenticando che per appa-rire vera un’opera contemporanea deve avere qualcosa che nontiene. E’ il momento di dire ciò che siamo, ciò che vogliamo.Domattina potrebbe essere tardi. Nel «fallimento» dei Cantosè la loro riuscita. Si tratta infatti di un’opera programmatica-mente smembrata i cui frammenti tendono verso un centro delquale denunciano simultaneamente la scomparsa. Poi, però, cisono gli ultimi Cantos, i versi testamentari del vecchio Pound:così delicati, così essenziali, così classici. Con i sedicenti spe-rimentatori difendere la giusta misura dei classicisti, con i clas-sicisti tromboni difendere il sogno di libertà degli sperimenta-tori autentici.

Fine del fighettismoSecondo l’anarchico Léo Ferré «la disperazione è una formasuperiore di critica». Il nichilismo programmatico di molti mo-dernisti non voleva essere preso in parola: il presupposto era– per dirla con Adorno – che «la perfetta negatività, non ap-pena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto».Il flusso di coscienza, efficacissimo strumento nelle mani deipadri modernisti, appare oggi un’arma spuntata. Nato per rap-presentare adeguatamente le numerose facce dell’io diviso, po-co si presta alle responsabilità alle quali siamo chiamati. Ai no-stri anni risultano più necessari i giudizi della sera di SebastianoAddamo: «Poeta sarà colui che almeno una volta avrà avutovergogna di diventarlo». Pensieri come questo dicono la serietàabissale di Addamo: «Tra l’acquistare un libro o delle scarpenuove per mia figlia, non ho mai avuto dubbi». In nome di unaletteratura fedele alle ragioni della vita Addamo avrebbe ri-nunciato alla letteratura stessa. Oggi abbiamo bisogno di ge-sti esatti.Caratterista per l’industria cinematografica, cabarettista da pubnel quartiere San Lorenzo di Roma, Remo Remotti è un arti-sta lucidissimo. Cantore brillante delle proprie nevrosi, Remottinel pezzo Noi non riusciamo più a vedere scrive: « Il proble-ma signori è che noi non riusciamo più a vedere / crediamo di

vedere, ma in realtà vediamo delle cose / che già sono state vi-ste, da altri… / Io vedo laggiù una ragazza, una donna con i ca-pelli rossi / ma per me che sono anche un pittore, / una donnacon i capelli rossi è Munch / se fosse bruna, nuda, stesa su undivano, è Modigliani / su un prato di margherite è Klimt / unaputtana signori, una puttana è Otto Dix / una puttana che si ri-scalda con dei copertoni / sull’autostrada è Fellini / un accat-tone è Pasolini / un albero, un albero è Mondrian / un prato ver-de con dei papaveri rossi è Monet / con dei girasoli è VanGogh». Remotti ci sa dire mirabilmente il cul de sac nel qua-le l’ultimo novecento ci ha ficcati.

Le opere autentiche sono il campo della battaglia per la re-denzione tra lo spirito dell’arte e lo spirito del mondo. Con-correndo a determinare le nostre coordinate culturali, il nostromodo di leggere le cose, l’arte trasforma la realtà. Eppure gi-ra voce che non serva a nulla. Nell’atto della creazione l’arti-sta non sa fino in fondo quello che fa: ignora se si tratti di unpuro gioco estetico oppure di una missione metafisica tesa a sco-vare la formula che d’un tratto redima tutto. Ci salvano certioscuri uomini di provincia che disinteressatamente si fanno apo-stoli delle glorie locali; ci salvano quelli che sanno stare con unpiede dentro e un piede fuori; ci salvano i non arresi, quelli chedormono nelle botti, i paciosi che si godono l’ombra. L’artistaautentico in un cantuccio recondito ambisce alla corona di spi-ne, non a quella di alloro.

L’aspetto più problematico del mio lavoro creativo è frugare nelcuore dei personaggi: pudore e pietà suggeriscono cautela. Ep-pure è bello, dal momento che il cuore degli uomini è impe-netrabile, svelare almeno il mistero di persone fittizie. Camminoper le strade di un’antica borgata romana che va diventando unanonimo quartiere periferico della metropoli universale. Micommuove il ricordo di alcuni versi di Franco Califano, versidi spietata poesia: «Non è detto che adesso che si vive nel chias-so / si stia meglio che nel silenzio! / È aumentata la gente / masi è soli ugualmente, / il progresso sei tu, poi niente». L’età delfighettismo, la nostra, è quando in una società sparisce defini-tivamente l’orizzonte della redenzione. Non tutti gli artisti disinistra hanno chiuso gli occhi. Sergio Endrigo cantò i suoi dub-bi in Se il primo maggio a Mosca: «E non più feltri grigi in te-sta / e rigidi attenti da pompieri / e far finta che sia festa / conmedaglie parate e sonagliere / l’importante è sapere se ci resta/ la speranza di altre primavere // Ah se il socialismo fosse so-lo un fiore / da portare nei capelli / o da mettere all’occhiello/ quanti bravi giardinieri / con la falce ed il martello». Endri-

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go non era un pentito, non si era convertito al liberismo sovrano.Al contrario nella sua seconda fase creativa, quella osteggiatadall’industria musicale, scrisse ispirate canzoni intrise di ten-sione utopica: «Balliamo balliamo / sugli ex prati verdi / sui tap-peti persiani / sugli aghi di pino / che portano al mare / ci aspet-ta una nave / da ormai troppo tempo». Dietro la faccia da uo-mo comune, Endrigo celava un coraggio non comune. Così ametà degli anni ottanta volle tornare al Festival di Sanremo perproporre una Canzone italiana in cui riaffermava orgogliosa-mente le ragioni della propria poetica e sfotteva garbatamentei colleghi ubriachi di esterofilia. Lo spirito dell’epoca non do-vette apprezzare quella provocazione giacché, mentre Endrigocantava in diretta televisiva, una specie di sordità psicosoma-tica lo mise in difficoltà rendendo imperfetta la sua interpreta-zione. Un altro punto a favore dei produttori discografici nel-la loro battaglia per emarginarlo.

Il teatro vuotoLo spazio dell’utopia è il teatro vuoto prima che cominci lo spet-tacolo. Il teatro è il luogo della libertà, dell’esame di coscien-za collettivo, del sentimento di una fraternità diversa per co-struire insieme qualcosa di nuovo.A spettacolo finito si riaccendono le luci in sala, ci si guarda in-torno: non c’è più nessuno. Carmelo Bene non aveva torto: tea-tro autentico è l’evento, l’eccezione, quello che ci porta al di làdello spettacolo. Una delle preziose eredità di Horkheimer chela sinistra ha pensato bene di non raccogliere è quella racchiusain La nostalgia del totalmente Altro. Quando il vecchio Hor-kheimer formulò i suoi ragionamenti che prefiguravano una sor-ta di ritorno alla metafisica, fu trattato alla stregua di un poverorimbambito. «La teologia è – devo esprimermi con molta cau-tela – la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che carat-terizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa es-sere l’ultima parola»: figurarsi, un filosofo di sinistra che espri-meva nostalgia per il divino come strumento di redenzione del-l’esistente! È la parola redenzione quella che emoziona di più.Ho trascorso infanzia e adolescenza aMineo, in provincia di Ca-tania, un paese ricco di civiltà e di cultura che molto mi ha da-to nella fase formativa. Di Mineo ha lungamente parlato nellasua opera il mio maestro Giuseppe Bonaviri. Tanti conserva-no la sua immagine degli ultimi anni, quella del nonnino sim-patico e un poco bizzarro. Io non dimentico l’altro Bonaviri: ilnemico dell’industria letteraria che insegnava a non confondereil successo con il valore. Di Mineo sono Giuseppe Bonaviri eLuigi Capuana, ma anche il minore Gino Raya. Critico lette-

rario accademico, filosofo dilettante, Raya ha edificato un ca-stello culturale denominato famismo. Un’opera costituita da unaserie di scritti filosofici che fanno sistema, da decine di volu-mi critici che applicano a livello estetico i principi del famismo,da lavori di discepoli che sotto la guida del maestro sviluppa-no il discorso di Raya. Per il filosofo di Mineo è la fame il mo-tore del mondo: tutto è cieco istinto fagico e la cultura non è cheuna sovrastruttura tesa a nascondere questa evidenza. Non so-no d’accordo, ma Raya mi è simpatico: egli ebbe il coraggio del-la propria opera. Baciato dall’insuccesso, affrontò impertur-babile il cammino che lo condusse a morire a Roma isolato emisconosciuto. Del resto probabilmente aveva ragione Borges:«La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore».Sono seduto nella piazza di Mineo: una piazza ideale, di per-fetta semplicità. La statua di Capuana sorveglia con indulgen-za la tranquilla vita dei miei concittadini. Contemplo anch’ioi loro minuti commerci e per contrasto mi viene di pensare aifuoriusciti, a quanti seppero trovare il varco verso qualche di-mensione altra. Lo spazio dell’utopia è dentro di noi: sono i mo-menti in cui avvertiamo l’attesa come necessaria, in cui ci at-tanaglia come una nostalgia di futuro. Sono quei momenti in cuisappiamo essere qui e altrove, in cui la nostra vita oscura vie-ne rischiarata dal soffio dello spirito liberatore.

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>>>> dossier / diaspora socialista

In tutta Europa i socialisti sono collocati a sinistra. L’unica ec-cezione è l’Italia dove negli ultimi vent’anni si è verificata unospostamento consistente dell’elettorato del PSI e del suo gruppodirigente verso lo schieramento di centrodestra, dando un con-tributo consistente alle vittorie di Berlusconi. L’obiettivo di que-sto intervento è comprendere quali sono le motivazioni profon-de di tale anomalia: quali sono gli eventi e lemotivazioni che han-no condotto ad un esito tanto inaspettato, e spesso incomprensi-bile per gli osservatori stranieri. Per comprendere la dinamica cheha portato a questo sbocco del socialismo italiano è opportuno fa-re un passo indietro. Molti sono i fattori di divisione tra sociali-sti e comunisti, a partire dalla storica scissione di Livorno del ’21fino al duello a sinistra ben descritto da Cafagna eAmato1. Tut-tavia, per quanto riguarda la diaspora socialista nella seconda Re-pubblica, appare determinante la sedimentazione dei conflitti trasocialisti e comunisti che avvenne durante la segreteria Craxi2.Subito dopo la sua elezione, infatti, il neosegretario si impegnòin una immediata inversione di rotta rispetto alla segreteria DeMartino: il Partito socialista non sarebbe più stato subalternoal PCI, né alla DC. L’obiettivo era la conquista dell’autonomia,esprimendo una soggettività politica senza più complessi di in-feriorità, in particolare nei confronti dei comunisti. Su questebasi partì il confronto tra comunisti e socialisti che attraversòtutti gli anni Ottanta e che si intensificò dopo le elezioni del1983, che consentirono a Craxi di ottenere la presidenza del

Consiglio. La piattaforma politica del PSI rimaneva un pro-gramma riformista attento ai “meriti e ai bisogni”, ma veniva-no visti positivamente e sostenuti quei settori della società inveloce trasformazione, dove al declino della grande industriasi contrapponeva l’ascesa della piccola e media impresa, la cre-scita del settore terziario e dei consumi. Berlinguer, al contra-rio, durante il congresso del PCI del 1983 espresse tutto il suosdegno verso un’epoca che giudicava «orribile, di caduta di va-lori, di crollo delle grandi tensioni collettive, di chiusura nel pri-vato, in sostanza di egoismo e di cinismo.Anni superficiali, diplastica, dominati dall’immagine, dalla televisione, dall’arric-chimento facile, dai consumi voluttuari, dalla volgarità»3.

La provocazione di Craxi

Craxi, però, probabilmente sottovalutava la profonda compe-netrazione che il Partito comunista aveva creato con ampi set-tori della società e del mondo produttivo. Il PCI infatti, soprat-tutto dopo la scomparsa di Berlinguer, si pose in posizione di-fensiva, e nonostante l’iniziativa socialista rimase solido nel suoradicamento territoriale ed elettorale: perfino alle elezioni eu-ropee del 1989, nelle quali si confermò il trend positivo del Par-tito socialista, il declino del Partito comunista rimase lento4. Po-chi mesi dopo, però, con la caduta del muro di Berlino, tutto tor-nava a rimescolarsi e si apriva un nuovo capitolo del “duello asinistra”.Achille Occhetto, leader di un gruppo di giovani, i “ra-gazzi di Berlinguer”, provò ad agire con prontezza rompendo colpassato anche attraverso scelte simbolicamente forti, come quel-la di cambiare il nome del partito. Tuttavia non volle andare in-contro ad una riconciliazione con i socialisti.Alla proposta di Craxi della “Unità socialista”, certo provocatorianei termini in cui fu espressa, Occhetto preferì piuttosto la stradadi un neoriformismo di stampo liberaldemocratico e radicale, de-cidendo di superare in un sol balzo sia il socialismo che la social-democrazia5. Cambiò il nome, dunque,ma la continuità con il pas-sato restava, espressa anche nel nuovo simbolo, laQuercia, che af-

In partibus infidelium>>>> Andrea Marino

1 G. AMATO, L. CAFAGNA, Duello a sinistra: socialisti e comunisti neilunghi anni settanta, il Mulino, 1982.

2 S. COLARIZI, M. GERVASONI, La cruna dell’ago. Craxi, il partito so-cialista e la crisi della Repubblica, Laterza, 2006; P. SCOPPOLA, La Re-pubblica dei partiti, Il Mulino, 1991; P. GINSBORG, Storia d’Italia daldopoguerra ad oggi. Società e politica (1943-1988), Einaudi, 1989, Id.,L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Sato (1980-1996), Ei-naudi, 2007; L. CAFAGNA, Una strana disfatta. La parabola dell’auto-nomismo socialista,Marsilio, 1996.

3 Ibidem, p. 9.4 C. PINTO, Una strana parabola. La sinistra italiana dagli anni ottanta

ad oggi, in Uscire dalla Seconda repubblica, a cura di M. Castagna, Ca-rocci, 2010, p. 23-25.

5 I. ARIEMMA, La casa brucia. I Democratici di sinistra dal Pci ai gior-ni nostri, Marsilio, 2000.

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fondava le proprie radici nella falce e martello. Ma il legame conil passato sarebbe stato garantito soprattutto dai “ragazzi di Ber-linguer”, che avrebbero portato quel patrimonio identitario all’in-terno della seconda Repubblica6. Percorrendo questa prospettiva ipostcomunisti si incontrarono inevitabilmente con imovimenti an-ti-partitocratici che si stavano formando in quegli anni, e di cui sta-va diventando leaderMario Segni. L’opzione referendaria offrivaun’uscita d’emergenza per il PDS: infatti, se si fosse cambiata lalegge elettorale velocemente, finché il PDS era ancora in vantag-gio rispetto ai socialisti, la sinistra (anche quella socialista, o azio-nista, o liberale, o cattolico sociale) avrebbe potuto finire per gra-vitare attorno alla rielaborata eredità storica comunista7. Inoltre ilPDS trovò la sponda di ampi settori della società civile, dello Sta-to, dell’economia, dellamagistratura e della stampa, che erano sem-pre più ostili nei confronti della “Repubblica dei partiti”8.Il PSI, intanto, all’inizio degli anni novanta sembrava all’api-ce della sua forza. L’onda lunga avanzava piano, i rapporti diforza non si erano alterati: ma sembrava solo questione di tem-

po. Craxi, insomma, attendeva lo sviluppo degli avvenimenti,anche se in una posizione forse troppo difensiva: «Dopo il 1987- racconta Cicchitto-Bettino Craxi perse il bandolo della matassa,il filo di un’iniziativa politica innovatrice che dal 1976 si era ma-nifestata per undici anni»9. La sconfitta nel referendum del ’91non modificò il suo comportamento, nonostante le prime criti-che ricevute al congresso di Bari. Craxi non accettava la liqui-dazione di un’epoca, non accettava la demonizzazione del pen-tapartito e del suo partito, ed ancora non poteva accettare checritiche al suo riformismo gli arrivassero da chi dalla storia erastato sconfitto. Così facendo, però, divenne il simbolo della di-fesa del potere dei partiti. Il PDS, al contrario, sceglieva l’al-tro campo, quello dei demolitori del sistema. Su questo tema siconsumò la linea di frattura decisiva tra comunisti e socialisti.

Mani PuliteLe elezioni del ’92 non modificarono il quadro politico in ma-niera determinante. Ci fu un arretramento delle forze di gover-no, in particolare nel nord Italia, ma nulla che prefigurasse undiverso tipo di alleanza di governo. In questo contesto, però, pre-se le mosse la crisi giudiziaria italiana. L’inchiesta, partita daMilano qualche mese prima delle elezioni, dopo la chiusura del-le urne esplose in tutta la sua violenza, investendo da subito ilcapoluogo lombardo, roccaforte del craxismo. La ripercussio-ne immediata delle indagini fu la rinuncia di Craxi a PalazzoChigi. Ma ben presto ad aggravare la crisi intercorse un fattonuovo ed imprevisto: per la prima volta gran parte dell’esta-blishment economico del paese si schierò apertamente controi partiti.Dopo i primi giorni, in cui sui principali mezzi di comunicazionele notizie delle inchieste passarono in sordina, improvvisamen-te si assistette ad un impennata dell’attenzione. In un sistema po-litico nel quale la tensione ideologica, se non scomparsa, era di-ventata sicuramente trascurabile, divenne la questione giudiziariail fattore di divisione, e tra socialisti e postcomunisti su questotema si consumò la frattura determinante: il PDS, infatti, purscontando qualche perplessità nei dirigenti storici, decise di ca-valcare l’onda giustizialista ed antipartitocratica, facendo di-ventare la “questione morale” il tema con cui abbattere gli odia-ti cugini. Craxi, il 3 luglio del 1992, pronunciò il suo famoso di-scorso alla Camera in cui provò a richiamare tutti i segretari deimaggiori partiti ad una responsabilità collettiva in difesa del si-stema10. Ma l’aula rimase muta, mentre il PDS rifiutò ogni co-involgimento, ed anzi Occhetto dichiarò di trovare inaccettabi-le il «tentativo di autoassoluzione»11 di Craxi. L’asse giudizia-

6 Sulla “svolta” del Pci, cfr.A. OCCHETTO, Il nuovo Pci in Italia ed in Eu-ropa, Editori Riuniti, 1989; Id., Un indimenticabile ‘89, Feltrinelli,1990; G. NAPOLITANO, Al di là del guado, Lucarini, 1990.

7 G. VACCA, Il riformismo italiano, Fazi, 2006, p. 31-32.8 Sugli aspetti culturali ed organizzativi del passaggio dal PCI al PDS, cfr.

A. POSSIERI, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pcial Pds (1970-1991), il Mulino, 2007; A. STRAMACCIONI, La sinistrae la sfida riformista. Dal Pci al Pds ai Ds (1989-2001), Edimond, 2002;P. CIOFI, Passaggio a sinistra. Il Pds tra Occhetto e D’Alema, Rubbet-tino, 1995; C. BACETTI, Il Pds. Verso un nuovo modello di partito?, ilMulino, 1997.

9 F. CICCHITTO, Il paradosso socialista. Da Turati a Craxi, a Berlusco-ni, Liberal edizioni, 2003, p 73.

10 Sul discorso di Craxi, cfr. GINSBORG, L’Italia del tempo presente, cit.,p. 503; COLARIZI e GERVASONI, cit., p. 271-2; G. CRAINZ, Auto-biografia di una Repubblica, Donzelli, Roma 2009, p. 196-7; C. PINTO,La fine di un partito, Editori Riuniti, 1999, p. 44-45.

11 «Corriere della Sera», 5 luglio 1992.

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rio diveniva la discriminante politica, come avrebbero confer-mato anche gli altri eventi cruciali del biennio “rivoluzionario”:dal suicidio diMoroni al decreto Conso12 il PDS si collocò sem-pre al fianco dei magistrati, rifiutando la prospettiva di trovareuna soluzione politica agli eventi di Tangentopoli.Un’ultima occasione per lemaggiori forze politiche di trovare unosbocco unitario alla crisi italiana, e per il PDS di assumere un pro-filo riformista, si presentò al momento delle dimissioni diAma-to. Ciampi, il presidente designato, propose un nuovo governodove avrebbero convissuto finalmente PDS e PSI13. Ma il 29 apri-le, il giorno in cui si votava la fiducia al nuovo governo, la Ca-mera era chiamata a votare anche una serie di autorizzazioni aprocedere nei confronti di Craxi. Le richieste provenienti dallaProcura diMilano furono bocciate, e questo evento portò alle fret-tolose dimissioni dei tre ministri del PDS e del verde Rutelli. IlPDS perdeva l’occasione storica di entrare al governo e caratte-rizzarsi come forza politica riformista14. Come ha scritto GiuseppeVacca, «il ritiro dei ministri del PDS e di area dal governo fu ilsegno dell’immaturità del partito. Quanto a ‘cultura di governo’,il PDS mostrava più continuità che capacità di innovazione ri-spetto al PCI degli anni ottanta»15. Achille Occhetto, probabil-mente, continuava a contare sullo zoccolo duro del radicamen-to territoriale nel centro Italia, pensando di poter vincere le ele-zioni aggregando altre forze, dalla borghesia urbana ad alcuni

grandi gruppi industriali. Era una strategia miope, perché in real-tà questi erano gruppi sociali già schierati strutturalmente con ilPDS, che invece non entrando al governo si precludeva un al-largamento alle energie riformiste e moderate del paese.

La “vittoria” del PDSCon la fine del ’93, dunque, il duello a sinistra si chiudeva conla vittoria del PDS, che conquistava gran parte dei comuni ita-liani: la questione morale e il rapporto tra politica e giustizia se-pararono per sempre i due partiti, portando alle estreme conse-guenze lo scontro iniziato nei primi anni ottanta. Ma senza que-st’area riformista di consenso politico ed elettorale il PDS sa-rebbe rimasto minoritario nel paese16. Intanto un imprenditore,Silvio Berlusconi, approfittando della voragine apertasi nel cam-po moderato, aveva deciso di lanciare la sua candidatura a Pa-lazzo Chigi. Aveva fondato un partito, Forza Italia, presentan-dolo il 26 gennaio del ’94 attraverso un discorso televisivo. Erail primo partito post-moderno e completamente personalizzatoad apparire nel sistema politico italiano. Berlusconi appariva uninterprete estremo di alcuni elementi emersi con la presidenzaCraxi: decisionismo, leadership carismatica e potere dei media.Ma non c’era solo questo: con la sua proposta Berlusconi lan-ciava un programma moderato e si opponeva fermamente“agli orfani e ai nostalgici del comunismo”17. Su questa base ruo-tava la sua iniziativa: una proposta innovativa nella continuità18.E su questa piattaforma politica, è evidente, offriva una rap-presentanza ad ampi settori del pentapartito, senza scontentarecoloro che erano stanchi della politica tradizionale19.In vista delle elezioni del ’94 la diaspora socialista diventava unaprospettiva concreta. Da una parte Ottaviano Del Turco spingevaper portare il partito all’interno della coalizione dei progressi-sti.Aquesta proposta, però, si opponeva direttamente Craxi: «Ciòche resta del PSI non si può presentare con il cappello in manodi fronte a nessuno. E tanto meno davanti al PDS, che ha con-dotto nei nostri confronti una campagna di aggressione senza pre-cedenti»20. Del Turco riuscì a traghettare il partito nella coalizionedei progressisti, ma dovette presto constatare quanto fosse for-te il pregiudizio anti-socialista. Il PSI, infatti, subì l’umiliazio-ne di non essere invitato alla prime riunioni dell’alleanza per ilveto di Leoluca Orlando, antisocialista storico, e di Carlo Ripadi Meana, vecchio craxiano convertito al giustizialismo. I so-cialisti comunque rimasero in una posizione subalterna, otte-nendo poche candidature in collegi sicuri.Craxi non si schierò apertamente con Berlusconi, non consen-tì la costruzione di un “CCD socialista”, ma allo stesso tempo

12 L. COVATTA,Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubbli-cana, Marsilio, 2005, pp.185-86; Id., La legge di Tocqueville, Diabasis,2007, pp. 79-83.

13 Sul dibattito interno al PDS sulla possibilità di entrare al governo cfr. E.MORANDO, Riformisti e comunisti?, Donzelli, 2010, pag. 61; F. VER-DERAMI, Occhetto, un parto tra dolori, «Corriere della Sera», 29 apri-le 1993; A. CAPORALE, Il Pds va al governo ma in punta di piedi, «laRepubblica», 29 aprile 1993.

14 «Ripensando oggi a quella scelta, c’è da chiedersi se si trattò di una de-cisione saggia, […] La risposta che si può dare in sede storica è che si trat-tò, con ogni probabilità, di un errore dovuto alla drammaticità del momentoe al disorientamento che caratterizzava anche l’opposizione» (N. TRAN-FAGLIA, Vent’anni con Berlusconi, Garzanti, 2009, p. 53-54).

15 VACCA, cit., p. 43.16 Adimostrazione di questa tesi, dal 1994 in poi, la sinistra si attesterà sul 25-

30%, cifre minoritarie rispetto ai risultati aggregati conseguiti durante la pri-ma Repubblica da PCI e PSI (vedi http://elezionistori-co.interno.it/index.php?tpel=C)

17 S. BERLUSCONI, Costruiamo un nuovo miracolo, «il Giornale», 27 gen-naio 1994.

18 Importante in questo senso un passaggio del suo discorso dove si appellaalle tradizioni politiche italiane: «Di questo polo della libertà dovranno farparte tutte le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle demo-crazie occidentali.Apartire da qual mondo cattolico che ha generosamentecontribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria».

19 PINTO, cit., p. 32.20 G. GRADASSI, Alla fine Del Turco butta via il garofano, «Corriere del-

la Sera», 13 dicembre 1993.

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non impedì candidature in Forza Italia. Probabilmente il leadersocialista sottovalutava il valore dell’ingresso di Berlusconi inpolitica, e non comprendeva come l’area del consenso al pen-tapartito ormai fosse in buona parte occupato da Forza Italia. Tut-to divenne più chiaro la notte del 29 marzo, quando vennero re-si pubblici i risultati delle elezioni. Forza Italia vinse approfit-tando del disfacimento della maggioranza governativa, di cui rac-coglieva gran parte dell’eredità elettorale21, mentre il tentativocentrista di Segni e Martinazzoli si rivelava fallimentare: gli exelettori dei partiti di governo, era evidente, si erano orientati ver-so Forza Italia. Rispetto ai comportamenti elettorali dei socia-listi, per esempio, giustamente ha osservato Lagorio: «Una buo-na parte si era ritirato nell’astensione, un 20% circa si era spe-so nel voto alle residue sigle socialiste e in una misura risica-tissima nel voto al blocco delle sinistre egemonizzato dai post-

comunisti. Il grosso degli elettori socialisti si era rifugiato sot-to la bandiera di Forza Italia». Inoltre sempre Lagorio avanza-va una sua interpretazione riguardo lo scarso seguito che ave-vano avuto le liste progressiste tra gli elettori socialisti: «Nonera una scelta a favore del campo conservatore, il fronte mode-rato non era la casa naturale degli elettori socialisti, ma loro, nel-la battaglia drammatica a sinistra durata decenni fra socialde-mocrazia e comunismo, avevano maturato convincimenti au-tonomistici così profondi che ora non accettavano di votare gliepigoni del comunismo. Non accettavano che gli sconfitti del-la storia, profittando degli ultimi tristi avvenimenti, potessero is-sarsi da trionfatori sulla vetta del potere in Italia»22.Forza Italia, dunque, rappresentò una risposta alla crisi dei par-titi della maggioranza: un tentativo di dare rappresentanza adun elettorato rimasto orfano dei suoi riferimenti storici e che nonriusciva a riconoscersi nel progetto progressista23. Il successodi Berlusconi era stato favorito anche dal contributo dei so-cialisti passati nel campo del centrodestra, anche se nel 1994solo una minima parte dei dirigenti fece una scelta diretta di ade-sione a Forza Italia24 (alcuni, come Tremonti, si candidarono nelPatto per l’Italia, e solo da eletti decisero di passare al centro-destra)25. Fu con le regionali del 1995 e le politiche del 1996 cheil trapasso di gruppi dirigenti divenne più deciso: tantissimi tradeputati, consiglieri di assemblee locali, sindaci e dirigenti lo-cali aderirono in maniera massiccia a Forza Italia26. Molti an-che tra intellettuali e tecnici passarono ad appoggiare il movi-mento berlusconiano. Ma cosa portava a questa scelta?Per Cicchitto non c’era da essere sorpresi, «perché il PCI-PDS-

21 TRANFAGLIA, cit., p. 41.42.22 L. LAGORIO, L’esplosione. Storia della disgregazione del PSI, Edizio-

ni Polistampa, 2004, p. 186.23 F. ADORNATO, La nuova strada. Occidente e libertà dopo il novecen-

to, Mondadori, 2003.24 Intervista dell’Autore a G. De Michelis (1/11/2011) ed a F. Colucci

(10/11/2011).25 Dopo aver votato la fiducia, fu indicato da Forza Italia comeMinistro del-

le Finanze.26 Cfr. D. MENNITTI, Forza Italia. Radiografia di un evento, Ideazione,

1997; C. GOLIA, Dentro Forza Italia. Organizzazione e militanza,Mar-silio, 1997;A. GILIOLI, Forza Italia. La storia, gli uomini, i misteri,Ar-noldi, 1994; E. POLI, Forza Italia. Struttura, leadership e radicamentoterritoriale, Il Mulino, 2001.

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DS non ha culturalmente superato il leninismo con l’approdoalla socialdemocrazia, ma ha riconvertito il berlinguerismo ingiustizialismo»27. Il suo gruppo dirigente, poi, che era in per-fetta continuità con quello del PCI, era stato l’artefice della “ma-nipolazione politica” che aveva portato alla dissoluzione delPSI28. Ed ora lo stesso establishment istituzionale ed economi-co-finanziario che si era scontrato con il PSI sosteneva i pro-gressisti. Per molti socialisti diveniva a quel punto naturale tro-vare uno sbocco politico in Forza Italia, perché «a partire dal1994, tutta l’area cattolica moderata, liberale, socialista rifor-mista del paese, orbata a colpi di scimitarra giudiziaria della pro-pria rappresentanza politica, si era guardata intorno alla ricer-ca di una nuova forza politica che la rappresentasse»29. Così permolti socialisti, per quanto possa sembrare singolare, l’inizia-tiva di un imprenditore, che inizialmente era sembrata vellei-taria, divenne un’alternativa plausibile “proprio perché capa-ce di dare una risposta politica profondamente sentita”. I com-pagni passati all’alleanza Progressista venivano invece accusatidi aver cercato un salvacondotto politico e giudiziario30.Del resto anche Valdo Spini, che fu tra quelli che decisero nel-la diaspora di schierarsi con la sinistra, ammetteva i limiti delPDS-DS nel rapporto con i socialisti: osservava infatti come conla costituzione dei DS ci fosse stata la possibilità di attrarre «unelettorato moderato, ma laico e riformista o cattolico-sociale chepoteva essere attratto da un’ipotesi di tipo laburista. Si tratta-va di un’operazione […] verso quella grande parte dell’eletto-rato socialista che, incerto fra centrosinistra e Forza Italia, si sen-tiva respinto dall’orgogliosa ripresentazione della continuità delgruppo dirigente ex PCI, e proprio per questo propendeva ver-so la seconda»31. Ma prevalse la continuità del gruppo dirigente

post-comunista, che tra l’altro in questi anni poco aveva mo-dificato il profilo identitario giustizialista, come avrebbe con-fermato il comportamento del PDS in occasione del DecretoBiondi. Questi due dati evidenti divennero un ostacolo spessoinsormontabile per elettori e gruppi dirigenti del PSI. Molti so-cialisti, infatti, dopo il ’94 faranno una scelta elementare: maicon “i ragazzi di Berlinguer”, «cioè con coloro che per con-quistare il potere politico non hanno esitato a cavalcare l’ope-razione Mani Pulite e l’Antimafia, giocando la carta della di-struzione del PSI e della demonizzazione del suo gruppo diri-gente e quella, analoga e contestuale, della criminalizzazionedell’area di centro-destra della DC. […] La scelta politica, mo-rale e ‘antropologica’, sintetizzabile nel motto ‘mai con i car-nefici’»32.

Il pregiudizio antisocialistaQuesta preclusione verso l’elettorato e la maggioranza dei di-rigenti socialisti fu uno dei fattori dell’ennesimo mancato in-contro tra cugini durante la “Cosa 2” di D’Alema.Al di là del-la bocciatura di Craxi da Hammamet, pesò la continuità di ungruppo dirigente che era considerato il carnefice dai socialisti33.D’Alema provò a fare i conti con il socialismo durante la Co-stituente di Firenze del 1998, ma furono sempre passi limita-ti; il PDS stentava ad aprirsi ad una vera piattaforma socialde-mocratica ed al contributo dei gruppi dirigenti socialisti. Inol-tre pesava un certo timore della reazione della base, allevata al-l’odio antisocialista34.Alla fine tutto si risolse in un piccolo cam-bio del simbolo e nell’indicazione di Spini alla presidenza del-la direzione, ruolo per lo più onorifico, mentre nelle posizionichiave vennero confermati tutti uomini del vecchio gruppo di-rigente. Nel 2001, poi, durante il congresso di Pesaro, no-no-stante anche Fassino tornasse sui temi cari alla tradizione so-cialdemocratica e ci fosse un primo tentativo di esprimere unavalutazione storica equilibrata sulla figura di Craxi35, la sceltasocialdemocratica rimase “culturalmente sospesa”36. Ma so-prattutto sempre Spini ci ha dato testimonianza della difficol-tà di accettare per i DS una area organizzata di espressione so-cialista all’interno del partito: nel congresso di Pesaro del 2001«l’area socialista non venne solo epurata, ma pubblicamenteumiliata: l’ampio ufficio politico del congresso, la ‘faccia’pub-blica di questa assise democratica, non vide per la prima vol-ta dalla costituzione dei DS la partecipazione di nessun com-ponente dell’ex Psi, né Giorgio Ruffolo, né Aldo Aniasi, néGiorgio Benvenuto, e neanche quella del presidente uscente del-la direzione, Valdo Spini. Nel linguaggio proprio delle no-

27 CICCHITTO, cit., p. 173.28 G. DE MICHELIS, L’ombra lunga di Yalta, Marsilio, 2002, p. 152.29 CICCHITTO, cit., p. 171-72.30 Ibidem, p. 170.31 V. SPINI, Vent’anni dopo la Bolognina, Rubbettino, 2010, p.35.32 CICCHITTO, cit., p. 9-10.33 Tra l’altro ancheAmato, due volte presidente del Consiglio, dovette subire

l’arretramento al secondo posto nelle liste alla Camera del 2006, per far po-sto, come capolista, a Vannino Chiti, uomo dal cursus honorum inferiore,ma appartenente alla nomenclatura PCI-PDS-DS (SPINI, cit., p. 37).

34 Basterebbe fare una breve rassegna dei titoli dell’Unità da metà anni ot-tanta fino al 1994. Oppure si potrebbe consultare la classifica della rubricaGiudizio Universale, che era presente nel supplemento satirico dell’Uni-tà, Cuore: questa fonte, per quanto inusuale, può essere utile per avere unospaccato dei valori del popolo del PDS. In questa classifica oltre alla “fi-ne di Andreotti”, sempre ai primi posti, seguiva da vicino “la fine di Cra-xi, di De Michelis ed Intini”.

35 P. FASSINO, Per passione, Rizzoli, 2003, pp. 385-414.36 N. ROSSI, Riformisti per forza. La sinistra italiana tra il 1996 e il 2006,

il Mulino, 2002, pp. 145-151.

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menclature, questo costituisce un messaggio preciso, difficil-mente equivocabile»37.Dal 1994, invece, la presenza della maggioranza dell’eletto-rato, dei gruppi dirigenti e degli ambienti di riferimento del PSI,lentamente ma inesorabilmente, si andò organizzando all’in-terno di Forza Italia, “modificando strutturalmente il panora-ma politico del paese”38. Nel ’94 l’orientamento dei socialistiverso Forza Italia era stato consistente, ma poco organizzato.Dal ’95, invece, divenne un travaso sempre più importante edorganizzato. Vi furono ancora, dal 1996 al 1998 dei tentatividi creare una formazione socialista fuori dagli schieramenti:ma ognuno di questi esperimenti cozzava con la realtà bipo-lare del nuovo sistema politico italiano. Alla fine del 1999 or-mai gran parte dell’elettorato e dei gruppi dirigenti aveva fat-to la sua scelta definitiva aderendo a Forza Italia, dove spes-so i quadri socialisti furono valorizzati rapidamente: Cicchit-

to ricorda di dovere “a Berlusconi una grande apertura politi-ca e anche l’agibilità politico-organizzativa di Forza Italia”39;e per Francesco Colucci «di Berlusconi si potrà dire di tutto eil contrario di tutto, ma da parte sua non ho mai avvertito peri socialisti questa specie di ‘ripugnanza antropologica’ che ta-lora la nuova dirigenza post o catto-comunista manifestava peri socialisti»40.In vista delle elezioni politiche del 2001 anche il “Nuovo PSI”di De Michelis e Bobo Craxi decise di allearsi con la Casa del-le libertà, che vinse le elezioni con un’ampia maggioranza. Pro-prio con queste elezioni si compì la diaspora socialista verso ilcentrodestra, ed a molti fu assicurata una veloce scalata nel par-tito e visibilità politica esterna. Il 2001 è dunque un anno pa-radigmatico: si confermò un orientamento elettorale socialistaper Forza Italia e la Casa delle libertà41, al quale seguì ancheun’adesione dei gruppi dirigenti, accolti senza riserve, mentreal contrario all’interno dei DS avvenne un ridimensionamen-to dei quadri socialisti. Al di là dei buoni propositi assemblea-ri, infatti, il PDS continuava a vivere in un limbo ideologico,tra una volontà di socialismo quasi inconfessabile e un neori-formismo populista e giustizialista. I DS, poi, anche nella nuo-va versione del PD non riusciranno a sciogliere questo nodo:rimarrà un’insofferenza nei confronti dei socialisti dimostrataancora nel 2008, quando verrà rifiutato l’apparentamento ai so-cialisti di Boselli mentre verrà accolta l’Italia dei Valori di DiPietro. Nel centrodestra, invece, anche nel passaggio da ForzaItalia al PDL verrà sempre assicurata la rappresentanza dei so-cialisti, che in particolare nell’ultimo esecutivo hanno avuto am-pi spazi di espressione42.Queste a nostro avviso sono le motivazioni profonde, non rin-tracciabili negli altri paesi europei, che hanno portato ad un esi-to tanto singolare. Le fratture tra socialisti e comunisti sono as-solutamente peculiari della nostra democrazia: la particolareevoluzione del movimento comunista in Italia, sempre in bili-co tra la volontà di un approdo ad un riformismo di tipo so-cialista e l’impossibilità di ammetterlo, e la continuità di ungruppo dirigente ostile a quadri di provenienza socialista, so-no le cause di fondo di questo conflitto ancora non risolto. IlPDS-DS-PD, così facendo, ha limitato la sua area di consen-so, come è dimostrato dall’arretramento generale delle forze disinistra durante la seconda Repubblica.Al contrario, invece, do-ve veniva offerta rappresentanza politica e visibilità persona-le ai socialisti, come in Forza Italia-PDL, il partito allargava ilproprio elettorato ad un bacino elettorale tendenzialmente lai-co e progressista, traendone sicuramente giovamento per le vit-torie di questi anni.

37 SPINI, cit., p. 47.38 PINTO, cit., p. 33.39 CICCHITTO, cit., p.11.40 Intervista a F. Colucci (9/11/2011).41 I. DIAMANTI, M. LAZAR, Le elezioni del 13 maggio 2001. Cronaca di

una vittoria annunciata….sin troppo presto, in Politica in Italia. I fatti del-l’anno e le interpretazioni 2001, a cura di P. Bellucci e M. Bull, p. 71; I.DIAMANTI, Bianco, rosso, verde e…azzurro, cit., p. 128.

42 M. LAZAR, L’Italia sul filo del rasoio, Rizzoli, 2009.

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>>>> dossier / diaspora socialista

Il titolo di questo testo merita un qualche chiarimento. Soprat-tutto per definire il più esattamente possibile i termini della no-stra discussione. Cominciamo dal verbo: “traversare il” al postodella “traversata del”. In quest’ultimo caso siamo di fronte ad unametafora importante, con precisi riferimenti storico-culturali. Ilmodello di riferimento è l’Esodo; ma potrebbero essere anche iquaranta giorni trascorsi da Gesù prima dell’inizio della suamis-sione; o, in una dimensione storica più limitata e piùmoderna, glianni trascorsi nel più totale isolamento politico da Churchill ne-gli anni trenta o da De Gaulle nei periodi immediatamente suc-cessivi. In tutti questi casi siamo di fronte alle conseguenze di unalibera scelta: c’è una Missione da compiere; e c’è un prezzo dapagare o più esattamente una Prova da subire; e questa prova im-plica appunto una situazione di solitudine.Tutto questo, però, non ha niente a che fare con la condizionedei socialisti all’epoca di Tangentopoli. Qui non c’è nessunamissione da compiere, l’obiettivo massimo da raggiungere es-sendo, semmai, quello di salvare il salvabile adattando i pro-getti precedenti ad un contesto radicalmente cambiato e glo-balmente più ostile. E, considerazione aggiuntiva, le scelte a di-sposizione, tutte da definire, escludevano comunque la provadell’isolamento. Insomma, nessun ritiro nel deserto: semmai,al contrario, l’entrata in una sorta di giungla equatoriale popo-lata di potenziali nemici della propria specie, da percorrerequanto più possibile indenni.Deserto oppure giungla: fuor di metafora, contestare dall’esternoil nuovo sistema bipolare collocandosene esplicitamente al difuori, oppure accettarne i principi e le regole cercando di “ope-rare per il meglio”al suo interno. Il problema fu risolto, e unavolta per tutte nell’Assemblea nazionale del dicembre del 1993.Allora Craxi propose al PSI di presentarsi alle elezioni della pri-mavera successiva soltanto per la quota proporzionale, dove cia-scun partito “correva per sé”, rifiutandosi di presentarsi nei col-legi uninominali sotto le bandiere (e quindi con il beneplacitoe sotto il controllo) del blocco di Berlusconi e soprattutto diquello capitanato da Occhetto. Ma questa proposta venne re-spinta dalla maggioranza: e per ragioni diverse, non tutte ispi-

rate al politically correct. Certo, in superficie prevalevano que-ste: leggi l’aspirazione, tipo newborn christians, a liberarsi deipeccati del passato collocando i socialisti all’interno della si-nistra. Ma a contare, allora e successivamente, fu proprio il ter-rore dell’isolamento; insomma, l’idea che collocarsi all’ester-no del nuovo sistema bipolare avrebbe implicato fatalmente larinuncia ad essere presenti nelle istituzioni e più in generale neinuovi assetti di potere a livello centrale e, soprattutto, locale.Una scelta, come si sa, non condivisa dalla grande maggioranzadell’elettorato socialista; e che sottovalutava grandemente(ma questo possiamo dirlo con il senno del poi) le resistenze,per non dire il rifiuto o peggio l’indifferenza ostile, che avreb-be accompagnato le “specie socialista”nel nuovo ambiente incui aveva scelto di collocarsi. Difficoltà aggravatesi nel corsodel tempo, sino a rimetterne costantemente in discussione, in-sieme, l’esistenza organizzata e l’attualità del messaggio.

Il craxismoUna storia triste, quella dei socialisti come forza politica organiz-zata all’interno del centro-sinistra; anche perché punteggiata, piùche da crisi drammatiche, da silenzi, afasie, calcoli di breve respiro,contrasti personali e continui abbandoni. Una storia su cui moltosi è detto e scritto, ma molto ci sarebbe ancora da scrivere.Ma forse o senza forse, trattare delle vicende individuali e col-lettive dei socialisti durante la seconda Repubblica è tanto do-loroso quanto inutile. Abbiamo conosciuto e conosciamo, an-che attraverso il contributo che compare in questo numero diMondoperaio, le ragioni per cui l’opzione a sinistra non po-teva essere accettata dalla maggioranza degli elettori e deglistessi quadri dirigenti del vecchio PSI. Non ci resta, allora, cheallargare e approfondire il discorso con riferimento a quanti fe-cero una scelta di segno opposto, concentrandolo, però, non sul-le sorti personali di individui o di gruppi ma piuttosto ( anco-ra…) sull’esito del progetto di cui erano, o dovevano sentir-si, depositari: la permanenza effettiva di una “cultura sociali-sta”, con gli opportuni aggiornamenti ma anche con una fedeltà

Traversare il deserto>>>> Alberto Benzoni e Luigi Capogrossi

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sostanziale rispetto al passato, nel nuovo contesto nato da Tan-gentopoli.Abbiamo scritto “cultura socialista”. Ma avremmo potuto, e inmodo più pertinente, parlare di “immaginario collettivo”. Perchiarire preventivamente che non intendiamo riferirci a ciò chepoteva emergere da documenti ufficiali, relazioni congressua-li o dibattiti ideologici, ma molto più semplicemente alla visioneche del mondo esterno e della stessa “missione” del PSI era di-ventata “vulgata corrente”all’interno del partito: una visione cheproprio per questo combinava giudizi di tipo intellettuale conreazioni istintive, insomma il cervello ma anche le viscere.Ora, alla fine degli anni Ottanta (ma già negli anni preceden-ti) questo immaginario collettivo coincideva integralmente esenza residui con il craxismo. Erano insomma scomparse dal-l’orizzonte strategie e visioni del mondo pur dominanti sino al-la fine degli settanta: quelle di De Martino e di Lombardi, pertacere delle impostazioni di Basso, e soprattutto della complessa

eredità nenniana. Un fenomeno abbastanza straordinario: tan-to da essere spiegato dai tanti osservatori malevoli come frut-to avvelenato di una sorta di “mutazione genetica”. In realtà lavittoria totale del craxismo nel popolo socialista può essere fa-cilmente spiegata per l’assoluta superiorità, insieme politica epsicologica, di tale modello rispetto a quelli precedenti. E que-sto per tre ragioni fondamentali che sarà bene richiamare, siapure brevemente e in ordine di importanza crescente.In primo luogo il craxismo era, per i socialisti, una vulgata nel-le stesse intenzioni unitaria: una sistemazione che poneva finea decenni di contrasti politico-ideologici che avevano avuto co-me solo effetto di indebolire il partito e di aprirlo a continui con-dizionamenti esterni. Per altro verso lo stesso craxismo pone-va al suo centro- con una sorta di rivoluzione copernicana- ilnazionalismo socialista. Per decenni i socialisti stessi, che per-cepivano se stessi e l’intero paese come vittime del “bipartiti-smo imperfetto”, si erano ingegnati a proporre nuovi schemi po-

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litici: dallo stesso Fronte popolare (voluto da Nenni e accetta-to da Togliatti), al centro-sinistra riformatore, sino alla strate-gia unitaria praticata da DeMartino. Il fatto era, però, che il suc-cesso di queste strategie dipendeva da altri; e questi altri, e piùforti, non solo non erano disposti a svolgere la parte loro asse-gnata ma avevano in vario modo sabotato lo stesso progetto. Ilrisultato agli occhi dei militanti era quello che ci si era “sacri-ficati per altri”, che magari sarebbero stati i soli ad avvantag-giarsi dal successo di ciascuna operazione, mentre il suo in-successo era stato pagato pressoché interamente da noi. Comenon essere allora conquistati sin dall’inizio da una nuova nar-razione politica che prometteva ai socialisti di poter realizza-re il loro destino finalmente liberi da condizionamenti esterni,e che misurava il proprio successo dalla crescita del consensoe del potere dei socialisti stessi?Ma la seconda, decisiva e vittoriosa rivoluzione copernicana in-veste il rapporto con il mondo esterno. Per anni, per decenni,il PSI aveva accettato, e senza il beneficio d’inventario, la vi-sione tradizionale della sinistra italiana: una sorta di catastro-fismo mitigato in cui la realtà italiana, e i suoi successivi svi-luppi, erano per definizione visti come degenerazione o co-munque come situazione irta di pericoli incombenti; mentrespettava alla sinistra il compito di cambiarla in un contesto incui, date le premesse, il fascino di una del tutto imprecisata ri-voluzione rimaneva nettamente maggiore rispetto a quello del-le possibili riforme. E questo potrebbe spiegare, per inciso, iltotale disinteresse della sinistra per la gestione politica delle tan-te riforme varate negli anni Settanta: la grande catarsi rivolu-zionaria è alle porte, e allora perché preoccuparsi degli esiti del-la legge Basaglia o della riforma sanitaria?

Viscere e intellettoCon l’avvento di Craxi il quadro muta totalmente: punto di par-tenza diventano la realtà, la sua evoluzione ed i suoi possibilisviluppi; ai partiti, e in particolare a quelli di sinistra, il com-pito di capire quello che sta succedendo così da accompagna-re e, possibilmente, orientarne le dinamiche future. Capire ilcambiamento per poterlo orientare in modo efficace: un mes-saggio dal fascino straordinario che avrebbe fatto del PSI, o piùesattamente del suo gruppo dirigente, il punto di riferimento dischiere di intellettuali interessati ad essere parte attiva di que-sto processo.Un disegno che aveva pure i suoi vincoli e le sue tappe; così dacontrassegnare il quindicennio craxiano all’insegna del revi-sionismo più che della capacità riformatrice. Accadeva infatti

che, per cambiare la realtà, occorreva in primo luogo impara-re a vederla; e che, per fare questo, era necessario liberarsi da-gli occhiali dell’ideologia. E accadeva, ancora, che qualsiasi pro-posta di revisione incontrasse l’ostilità preconcetta del PCI ber-lingueriano, in un processo che avrebbe trasformato i due “par-titi fratelli” da più o meno aspri concorrenti in nemici esisten-ziali. E in un contesto in cui i comunisti, che avevano impara-to a misurarsi con tutti i socialismi del trentennio postbellico,vedevano nella “rivoluzione culturale” craxiana – “nazionali-smo” socialista più revisionismo- una minaccia mortale nei con-fronti della loro egemonia, e in prospettiva della loro stessa esi-stenza. Ciò finiva col rappresentare una difficoltà insuperabi-le nel disegno craxiano. Perché da una parte la sua strategia po-litica - nel sistema della prima Repubblica che il leader mila-nese accettava pienamente - non poteva che essere quella mit-terrandiana; mentre questa proposta si incontrava con l’ostili-tà totale non solo della DC, com’era ovvio, ma anche del PCI,il che, almeno in linea teorica, era assai meno scontato.

Ricordiamo tutto ciò non per aggiungere una nuova voce ad undibattito già in corso da anni, ma per sottolineare le conseguenzedi questa situazione sulla cultura socialista: e cioè, ripetiamo-lo ancora, sulla visione che il popolo socialista ha della propriamissione e del mondo che lo circonda. Sotto questo profilo as-sistiamo ad un “immaginario collettivo” oggettivamente sem-pre più scisso, in cui intelletto e viscere procedono in direzio-ni diverse e in cui il peso del primo diminuisce progressiva-mente rispetto a quello delle seconde. Così l’intelletto, quelloespresso dal gruppo dirigente del PSI e dal suo leader indi-scusso, si muove sulla linea delle riforme condivise e della ri-composizione della sinistra. Mentre le viscere avvertono due co-se: la prima è che qualsiasi ricomposizione politica è di là davenire, e che quindi la misura del successo socialista sta nel po-tere conquistato o da conquistare e nel consenso elettorale ac-quisito o da acquisire. La seconda è che l’iniziativa socialistasul terreno delle riforme vede la resistenza della DC sostenu-ta e coperta dal fuoco di sbarramento comunista, sino a trarreda questo dato il convincimento che il discrimine politico fon-damentale nel nostro paese non fosse quello tra sinistra e de-stra ma piuttosto quello tra riformisti/innovatori e conservato-ri (tra i quali, in prima fila, gli stessi comunisti). E’ su questabase che i socialisti affrontano il problema della loro colloca-zione all’interno del sistema che si va costruendo negli anni diTangentopoli. Come sappiamo un socialismo politicamente or-ganizzato sceglierà l’alleanza di sinistra; mentre una parte con-sistente della nuova classe dirigente tenderà ad operare, col-

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lettivamente ma in misura preponderante singolarmente, al-l’interno del sistema berlusconiano. Per tacere di altri che ten-deranno ad operare, quasi sempre uti singuli, rifiutando la scel-ta bipolare.

Mediazione e cooptazioneDiciamo subito che, sempre nell’ambito dell’immaginario col-lettivo socialista, la scelta berlusconiana avrà dalla sua non so-lo la spinta delle viscere ma anche quella dell’intelletto; allo-ra, ma anche successivamente. Insomma non c’è solo la spin-ta, condivisa dall’elettorato, a vedere in Berlusconi, insieme, unvendicatore e un protettore; ma ci sarà anche la constatazione,all’inizio e nel corso del tempo, che la scelta a sinistra, pur do-vuta a motivazioni politico-ideologiche assai serie, non era po-liticamente pagante. E non per ragioni legate alle polemiche delpassato, ma per l’irrilevanza della questione socialista nel pre-sente e ancor più nel futuro: insomma perché la presenza dei so-cialisti nel centro-sinistra non rappresentava, per il PDS poi PD,né una minaccia né, soprattutto, una opportunità. Non una mi-naccia, perché le sfide degli anni Settanta e Ottanta erano sta-te definitivamente aggiudicate e non erano più proponibili; masoprattutto perché il nuovo schieramento di riferimento non ave-va bisogno di un partito “craxiano ma senza Craxi” né per svi-luppare un revisionismo senza limiti né per dialogare con il cen-tro. Per tacere del fatto che l’opzione socialista era stata pro-gressivamente cancellata dal gruppo dirigente dello stesso PDS-PD sino ad essere considerata un problema irrilevante.Andare con il Cavaliere apriva invece ampie opportunità. C’e-ra la possibilità materiale di acquisire e gestire potere a livellocentrale e locale: Berlusconi, privo di strutture politiche con-solidate cui appoggiarsi, aveva assoluto bisogno di quadri com-petenti e privi di qualsiasi legame politico al di fuori del soste-gno alla sua leadership. E c’era poi ancora di più sia per la cul-tura delle viscere che per quella dell’intelletto: per la prima lostesso Berlusconi era il Vendicatore, il Fratello grande che avreb-be compensato i socialisti dai torti subiti, relegando ai margi-ni, per poi distruggere politicamente, un nemico storico tra-sformatosi in carnefice; per la seconda il nuovo premier avreb-be realizzato quelle grandi modernizzazioni della politica e del-la società che Craxi aveva potuto solo abbozzare.Ma la storia reale si rivelò notevolmente diversa dalle speran-ze e comportò costi forse non previsti.Anzitutto perché si rivelòimpossibile conservare la propria identità collettiva: la nuovacasa si apriva ai singoli, portatori di esperienze e di competen-ze tecniche, ma era sostanzialmente ostile ad ogni tentativo di

ricomposizione della forma-partito. In ogni caso escludeva i di-rigenti di maggior spicco, lasciando così al margine proprio co-loro che dell’antica identità erano i legittimi portatori. In secondoluogo, andare con il centro-destra significava accettare, e in for-ma molto rigida, quello schema bipolare contro cui tutta la pre-gressa storia socialista s’era mossa per la necessità stessa di so-pravvivenza politica. Nel nuovo contesto, insomma, la sinistranon era più un luogo entro cui esercitare la propria critica re-visionista, ma il nemico da sconfiggere.A ciò s’aggiungeva il fatto che l’inserimento degli ex sociali-sti nel nuovo schieramento non passò attraverso la mediazionepolitica, ma attraverso una serie di cooptazioni individuali e digruppo che hanno avuto come unico riferimento la persona diBerlusconi. Tra le conseguenze del modo in cui questo processos’è realizzato non possono meravigliare due aspetti particolar-mente significativi. Il primo, associato a quella scomparsa diogni identità collettiva di cui s’è detto, è costituito dai percor-si individuali, alcuni destinati a dissolversi nell’appiattimentoalla politica di un capo carismatico, sostanzialmente disinte-ressata ad una strategia riformista, altri circoscritti al ruolo digrandi consiglieri, al margine tuttavia dei veri interessi di Ber-lusconi: per quest’ultima dimensione è emblematica la vicen-da di De Michelis e dei molti suoi tentativi ispirati in genere adun’acuta percezione delle novità che venivano maturando a li-vello mondiale.La storia dei socialisti nel centro-destra fu dunque essenzial-mente una somma di storie individuali, com’è confermato daltentativo forse più sostanzioso di rompere la solitudine di unospazio politico circondato da una no man’s land e cercare, an-che tra i protagonisti di altri e opposti percorsi politici, un con-fronto. Ci riferiamo all’ Ircocervo, il cui progetto di argomen-tazione e di dibattito veniva a scontrarsi direttamente con la lo-gica della radicale contrapposizione tra forze politiche che hasegnato la storia di questi anni.Ma gli esempi di queste storie solo individuali, fondate sul-le qualificazioni tecniche dei singoli, potrebbero moltiplicar-si: si pensi solo al caso di Brunetta, dove la strada da lui per-corsa con un mix di competenze scientifiche e di tecniche pub-blicitarie sembra unire la vecchia stagione socialista ai nuo-vi e (personalmente) più luminosi anni al seguito di Berlusconi.Giuliano Ferrara non gli ha fatto un buon servizio quando, sulFoglio del 26 ottobre, su due vaste pagine, ha pubblicato la suaorgogliosa risposta alle preoccupazioni della finanza interna-zionale e dell’Unione europea: essa apparve come risposta al-la risata ironica tra la Merkel e Sarkozy (che già aveva san-cito la pubblica degradazione di Berlusconi) quando l’Italia

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stava già danzando sul baratro, con tutto il mondo che stavaassistendo affascinato, esterrefatto e spaventato. Non interessala giaculatoria di riforme annunciate e di provvedimenti ri-sanatori – o sedicenti tali - assunti dal governo Berlusconi:in ciò il lungo intervento di Brunetta non si distingue in alcunmodo da un grande e inutile materiale propagandistico che, sepossibile, ha contribuito ad aggravare la generalizzata disi-stima mondiale per le capacità riformatrici del governo ita-liano, e più in generale dell’intera nostra società. Rileva piut-tosto l’ingenuo provincialismo che il suo intervento eviden-zia, l’illusione di far parte di un dibattito europeo che invecela sua stessa forma esclude: due pagine, una scritta in ingle-se, l’altra in francese, perché tutti leggano. E sono invece duepagine che solo un italiano può comprendere, perché la lin-gua in cui sono formulate consiste in un incredibile gergo incui il più puro linguaggio burocratico-formale è tradotto let-teralmente, dando vita a una lingua che non è né l’inglese néil francese. “Ecco cosa ha realizzato l’Italia berlusconiana”:il titolo dell’intervento è questo e niente più della sua formaevidenzia di quanto questa Italia si sia allontanata dall’Euro-pa. E che in questa figura ci sia poco contenuto politico lo mo-stra del resto proprio la sua proclamata volontà di riforme: ri-forme annunciate ‘contro’, tanto da coagulare il massimo diopposizioni possibili. A rendere più difficile in partenza, se nondel tutto improbabile, la loro realizzazione.

I liberi e fortiSotto questo profilo assai più interessante, anche se carica diun’ambiguità ancora più densa, la vicenda di Sacconi. Ma qui,come fa fede la diretta testimonianza che possiamo ricavare dallibro di cui è autore, Ai liberi e forti, è la stessa eredità socia-lista a subire una singolare eterogenesi, giacché sin dal titolosi riallaccia piuttosto ad un’altra grande, ma diversa, tradizio-ne politica. In effetti è alla tradizione cattolica che egli si vol-ge per rintracciare in essa, sin dall’antico dominio di Roma, al-cuni elementi portanti della nostra fisionomia nazionale, ma an-che e soprattutto per definire valori e strutture portanti della no-stra società, quali la famiglia e le altre entità intermedie tra ilcittadino e lo Stato. Nelle poche pagine dov’è tratteggiata la sto-ria della società italiana, sin da prima del suo costituirsi comestato nazionale, il riformismo degli anni ’80 è ricordato sì co-me una strada iniziata ma non completata, ma è soprattutto fun-zionale a introdurre il tema di una rottura artificiale indotta daun complotto “esterno”.Adeterminare la sconfitta di questo pro-getto di modernizzazione è il corpo separato dei magistrati al-

leati ai “comitati d’affari interni e internazionali”, rafforzato dal-l’uso di armi improprie da parte del PCI, insieme infine al ‘tra-dimento’ interno al PSI ed alla DC (l’idea del ‘tradimento’ delfronte interno è costante in queste terribili mitologie del XX se-colo). Il complotto vincente eppure sconfitto ad opera del deusex machina, che ovviamente s’identifica nella provvidenzialee mai troppo esaltata “discesa in campo” di Berlusconi e dal ri-sveglio del “popolo di liberi e forti”.Qui si deve cogliere il nodo del libro e la sua cifra di lettura piùprofonda, ed in questi passaggi si può individuare un veleno mi-stificatorio molto pericoloso. Se le altre letture del berlusconi-

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smo cui si è fatto riferimento appaiono piuttosto grigie, non co-sì è il discorso di Sacconi, pur nella sua intrinseca povertà. Per-ché v’è una carica mistificatoria più profonda che deforma lastoria passata per disegnare una falsa epifania, con un forte po-tenziale diseducativo, e nel saldare Berlusconi a Craxi per mo-tivi sbagliati finisce con l’offendere in profondità la memoriadi questo così difficile, complesso e importante personaggio, unuomo profondamente legato ai valori della Repubblica e al gio-co democratico. Se c’è stata una falsificazione che non si puòdimenticare è la ripetuta caricatura di Bettino in camicia neraproposta nelle pagine di Repubblica: Craxi era un politico du-ro e spregiudicato, ma questa insistita propaganda era un velenoche ancor oggi produce i suoi effetti perversi.Non sappiamo dove la traversata non ancora conclusasi porte-rà gli sparsi frammenti dell’esperienza socialista oggi colloca-ti nel centro-destra. Possiamo invece fare qualche previsione,del resto non particolarmente rosea, per i socialisti che in que-sti anni hanno continuato a sentirsi parte della sinistra. Oggi sista delineando infatti un quadro radicalmente nuovo nella sto-ria del nostro paese, che parrebbe staccarsi rapidamente da quel-le grandi battaglie ideologiche e da quell’ossessivo nominali-smo in cui era scaduta tanta parte della cultura politica italia-na degli ultimi decenni (si pensi al vero e proprio culto del-l’articolo 18, con i suoi rituali e le sue liturgie). E in cui appa-

re ormai definitivamente in crisi lo schema bipolare come strut-tura portante della vita politica nazionale: nel nostro futuro, ve-rosimilmente, non vi sono più le alleanze di ieri, Berlusconi eBossi, Bersani con Vendola e Di Pietro. Il vuoto politico cosìingenerato s’accompagna a un rapidissimo e drammatico mu-tamento dell’immaginario collettivo, per cui il riformismo hacessato di essere discorso minoritario seguito da piccole com-briccole, per divenire il soggetto del nuovo dramma comune.Perché c’è oggi, ben più di quanto i vecchi partiti siano ormaiin grado d’intercettare, una diffusa consapevolezza che tutti deb-bono mutare molte delle loro abitudini e convinzioni per sal-varsi insieme.In questa nuova centralità del riformismo nessuno però si ri-volgerà ai vecchi socialisti come titolari legittimi del marchiodi fabbrica per recuperare un sapere tanto a lungo trascurato;né sono prevedibili rendite di nicchia. C’è un grande spazioda esplorare, e c’è urgenza di nuove idee direttamente tempratesui fatti: ma non vi sarà molta attenzione per vecchie sigle. Perquesto il compito di noi socialisti non sarà quello di cercaredi rimettere insieme i cocci di ciò che da tempo s’è rotto, madi partecipare come portatori della nostra storia a quanto dinuovo verrà maturando: sapendo che, per contribuire a far ma-turare la nostra società, noi stessi passeremo attraverso il cam-biamento.

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Alla fine del 2011, a settant’anni, se ne è andato in silenzioRoberto Cassola. Negli anni ’60 era stato segretario del-

la Federazione giovanile socialista. Dal 1983 al 1991 aveva fat-to parte del Senato della Repubblica, in seno al quale aveva ri-coperto la carica di presidente della Commissione Industria, chein quegli anni varò la prima legislazione anti-trust del nostro pae-se. Poi fu per breve tempo presidente di Finmeccanica. Era, co-me dice la scheda anagrafica della sua attività parlamentare, un“funzionario di partito”: una di quelle persone, cioè, che han-no dedicato la propria vita e la propria intelligenza alla politi-ca. Non a caso, quindi, dopo il 1994 si era ritirato a vita priva-ta. Lo ricordiamo pubblicando una lettera che inviò al Corrie-re della Sera il 16 gennaio 2003, e la risposta di PaoloMieli: unatestimonianza di intelligenza politica non offuscata dallo spae-samento rispetto a una diaspora anche per questo dolorosa.

L’uso della parola rivoluzione, introdotto dall’Economist perindicare i fatti italiani del ’92-’93, mi pare inappropriato. Nel-la prefazione al suo classico sulla rivoluzione francese, Citta-dini, Simon Schama ricorda che il premier cinese Zhou Enlai,a una domanda sul significato della rivoluzione francese, ri-spose: «È troppo presto per dirlo». Questa battuta taoista cogliela vera natura di una rivoluzione, che è quella di generare fat-ti destinati a durare nel tempo. In qualche modo si può soste-nere che le vere rivoluzioni sono sempre permanenti. Un cam-biamento radicale di ceto politico di per sé non connota una ri-voluzione: si possono verificare sommovimenti che hanno ere-di ma non lasciano eredità. Del resto, un rivolgimento non è unarivoluzione: se così fosse dovremmo considerare i coniugi Mac-beth due rivoluzionari. Per questa ragione le rivoluzioni sonomolto rare, mentre molti avvenimenti, pur sembrando una ri-voluzione, sono solo, per così dire, delle gravidanze isteriche.È il caso della «rivoluzione» italiana, che a distanza di pochianni non ha lasciato tracce. Basti ricordare il mantra della «nuo-va politica», recitato e cantato in quegli anni, e confrontarlo conciò che accade oggi nella coalizione di governo e tra i partitid’opposizione, per rilevarne l’inconsistenza. Perfino sul pianodella legalità, «prima della rivoluzione» bastava un avviso di

garanzia per distruggere un uomo politico. «Dopo la rivolu-zione» neppure una condanna per omicidio scalfisce l’imma-gine di un uomo pubblico. Forse, se proprio si vuole usare il ter-mine rivoluzione, sarebbe utile tornare al significato origina-rio della parola. Fino al Rinascimento italiano, secondo lo sto-rico della scienza Bernard Cohen, «rivoluzione» indicava fe-nomeni ciclici e sequenziali, non mutamenti imprevisti. Quel-lo che è successo dieci anni fa in Italia è stata una manifesta-zione ricorrente del ciclo storico italiano, che prevede sempre,dopo ogni grande trauma, la rivincita del popolo degli «eolisti»,gli adoratori del vento, abili a mettere la vela nella direzione delsoffio d’Eolo. Un adattamento, quindi, e non una conversione,che lo stesso Cohen, in La rivoluzione nella scienza, conside-ra il carattere distintivo di un reale evento rivoluzionario.In sostanza quegli anni assomigliano più che a una rivoluzio-ne a una nuova specie di dopoguerra, nel quale i vinti dettanolegge ai vincitori. So bene che non riconoscere la natura rivo-luzionaria di un evento è in genere tipico dei suoi oppositori:così è stato per la «gloriosa rivoluzione» inglese, consideratain modo riduttivo una fase della lotta tra cattolici e protestan-ti, oppure per la Rivoluzione francese, liquidata dai suoi nemicicome complotto massonico. Ma in questo caso, le assicuro, sitratta di una valutazione di fatto e non di un pregiudizio.

CaroCassola, lei fu un dirigente del PSI che non incappò inMa-ni Pulite. Eppure, nonostante alla fine degli anni Ottanta aves-se pubblicamente polemizzato in materia di droghe con Betti-noCraxi, nel decennio successivo non passò all’incasso per que-sta sua «benemerenza» e non si fece «eolista». Anzi, si tirò indisparte e - a quel che vedo - ne approfittò per leggere e riflet-tere. Quanto al merito delle sue considerazioni, concordo conlei. In ogni caso, lo diranno gli anni se quella italiana fu verarivoluzione. Nel febbraio del 1818 Stendhal scrisse a prefazio-ne della suaVie deNapoléon: «Ogni anno che passa viene fat-ta nuova luce... Di qui a cinquant’anni bisognerà rifare questastoria tutti gli anni». Ed io, pur senza volere - per carità - met-tere sullo stesso piano Antonio Di Pietro e il Bonaparte, riten-go che per l’Italia, relativamente al ’92-’93, sarà lo stesso.

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La rivoluzione italianae gli adoratori di Eolo>>>> Roberto Cassola

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La vicenda politica e umana di Giuseppe Di Vagno si con-suma in quei due anni terribili che procurarono contrasti

asperrimi e tanti lutti per la democrazia italiana: lacerazioni in-terne alla sinistra, lo scontro tra fascismo e movimento conta-dino e tra fascismo delle campagne e fascismo delle città. Nelgiro di pochi mesi di quel tragico 1921 il giovane dirigente so-cialista, che adottava come simbolo della sua baldanza una svo-lazzante cravatta alla Lavalier, raggiunse l’apoteosi del suo per-corso umano e politico, fino all’incontro con la funesta deter-minazione di coloro che a Mola di Bari lo colpirono, consen-tendogli così, la mattina di quel 25 settembre, d’intraprendereil cammino nella storia. Solo a febbraio, infatti, Giuseppe Di Va-gno aveva condotto all’altare la sua giovane sposa, Giuseppi-na Fanelli, che concepisce quel figlio che lui non conoscerà mai,ma al quale la sorte, questa volta giusta e riparatrice, ha con-sentito di raccogliere l’eredità di suo padre e di rinnovarla nelParlamento della Repubblica.Giuseppe Di Vittorio – che solo tre mesi prima aveva condivisola lotta e le speranze dell’ascesa del popolo dei contadini e dei brac-cianti della Puglia nella stessa lista del Partito Socialista – accorsofra i primi al suo capezzale, ne descrisse la tragica fine con parolestruggenti. E solo qualche settimana fa, nel cimitero di Conver-sano, lì dove Di Vagno trovò riposo non indisturbato, così lo haricordato Rino Formica: «Quel delitto, aprì la strada a una guer-ra civile che sporcò le nostre terre e interruppe l’ascesa del mo-vimento contadino pugliese che sotto la guida dei socialisti, delsindacato e delle leghe riformiste aveva conosciuto conquiste so-ciali e dignità democratica; il suo sacrificio non riuscì a blocca-re il fascismo, ma ci ha consegnato una prospettiva di futuro».

Cancellate ormai le passioni di parte, il sacrificio di GiuseppeDi Vagno, “organizzato con la connivenza delle autorità”, e lacui notizia giunse “sorda, come un rotolar di tuoni in un cielochiuso”, come scrisse Tommaso Fiore nell’aprile ’44, è patri-monio comune e condiviso delle nostre comunità: ed è ancoraoggi, signor Presidente, oggetto di studio nelle nostre scuole,come testimonierà una giovane allieva del nostro glorioso Li-ceo classico “Domenico Morea”, dove Di Vagno si formò e che– nel celebrare a sua volta i suoi centocinquant’anni di fonda-zione – a lui ha voluto dedicare una ricerca e uno studio.Giuseppe Di Vagno appartenne alla generazione dei socialistiche ispiravano la loro azione al riformismo remissivo: a quel“socialismo che diviene”, per usare l’espressione di Turati, chesi batteva per i diritti e le libertà di masse di contadini; che co-struiva organizzazioni, leghe, sindacati, luoghi di aggregazio-ne; che formava amministratori capaci di guidare Comuni e dirompere notabilati e clientele; che poneva al primo posto la se-colarizzazione dell’istruzione per consentire ai contadini di aspi-rare all’uguaglianza delle condizioni.Il messaggio consegnato al futuro novant’anni fa da quel gio-vane deputato socialista ci appare drammaticamente attuale. L’a-zione di Di Vagno per il riscatto sociale degli esclusi, di cui eglistesso con la sua ascesa sociale era stato artefice, si ripropo-ne per la società di oggi. Agli inizi del novecento per sostene-re la lotta contro le disuguaglianze gli apostoli della libertà edella giustizia sociale erano sorretti da fede e cultura – il So-cialismo o il Cattolicesimo sociale – laddove oggi i valori col-tivati in prevalenza sono ben altri. Una famiglia del ceto me-dio pugliese, come quella cui apparteneva Di Vagno, dimo-

Una prospettiva di futuro>>>> Gianvito Mastroleo

Il 5 novembre, alla presenza del presidente Napolitano, la città di Conversano ha reso omaggioa Giuseppe Di Vagno novant’anni dopo il suo assassinio. Pubblichiamo di seguito il discorsoche Gianvito Mastroleo, presidente della Fondazione intitolata al martire socialista, ha rivoltoal Capo dello Stato, oltre al saluto del presidente della giunta regionale pugliese Nichi Vendolaed alla relazione commemorativa di Leonardo Rapone.

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strando solo con il proprio lavoro forza, dinamismo e proiezioneverso il futuro, un secolo fa era riuscita a laureare a Roma unproprio figlio. Oggi una famiglia di questo stesso ceto mediovede scivolare il proprio destino verso il passato, è costretta adaffidare ai propri figli anni incerti e declinanti, sente sempre me-no il merito come fattore di ascesa e di rinnovamento fra i ce-ti, vede sempre più pararsi davanti solo una nuova e più cru-dele emigrazione.Signor Presidente,di fronte al prevalere di un modello di società che pone al cen-tro dei suoi interessi il consumismo e il profitto costi quel checosti, noi oggi vogliamo presentarLe un nostro patrimonio gran-de: gli alunni delle nostre scuole, i giovani e le ragazze che og-gi sono qui, e sono qui con lei e per lei, che escono dalle no-stre Università, che si confrontano in faticosi stage all’estero,che hanno voglia e capacità di confrontarsi con l’innovazione:impegnati nel volontariato culturale e sociale, pronti a partireovunque, per esperienze di lavoro o di studio forti solo del lo-ro sé, e sempre più spesso costretti ad un settimanale pendola-rismo da un capo all’altro del paese.

Sono i giovani del nostro Sud ingiustamente oltraggiato che con-dannano la violenza comunque si manifesti – sia che uccida, oche devasti o che distrugga – e che da Lei in questi giorni dif-ficili attendono un messaggio di speranza, assieme all’appellorinnovato alla classe di governo a mettere al centro ciascuno del-la sua preoccupazione la loro precarietà, non solo lavorativa.La comunità di popolo che oggi è qui convenuta per ricordareDi Vagno, quando tutto il paese ha celebrato il 150° della suaunità, vuole testimoniare che la storia del Di Vagno dell’iniziodel “secolo breve”, come quella dei tanti intellettuali meridio-nali che in quel difficile decennio lottarono con lui, è figlia del-le stesse delusioni e delle attese di sviluppo e di giustizia del-le masse dei giovani e dei ceti subalterni che alle soglie del XXIsecolo, tuttora, attendono risposta. “Non ignorare di avere nel-la questione meridionale il maggiore dei doveri di politica in-terna”, fu il messaggio lanciato già un secolo fa da Giustino For-tunato, e da Lei rievocato or non è molto simbolicamente a Ri-onero in Vulture, la sua patria; questione oscurata da chi con-tinua ad illudere che lo sviluppo autosufficiente, ma non soli-dale, si dispiegherebbe pienamente solo liberandosi del peso fre-nante del Mezzogiorno.Dalle colonne del più grande quotidiano italiano alla domandadi Claudio Magris (“se in qualche modo è istintiva l’assue-fazione, se è fatale anche che essa induca all’indifferenza”),Lei, Signor Presidente Napolitano, ha dato l’unica rispostapossibile: “Questa è la soglia che non può e non deve esserevarcata”. Noi pensiamo con Lei che per non varcare quella so-glia sia anche necessario ricorrere alle reliquie del passato: al-la nostra memoria storica e culturale, che se “considerata co-me mero passato, sarebbe un’amputazione della nostra culturanel suo insieme, e la priverebbe della sua interezza”, come te-stualmente ha ricordato Papa Ratzinger al Bundestag or è po-co più di un mese.Ed è dunque in ragione della memoria che guarda al passato,ma che aiuta a liberare il futuro, in questi giorni fra i più tor-mentati della storia della Repubblica, che la nostra ambizioneè di poter dare un contributo, per quanto modesto, perché la me-moria, “nutrimento per l’oggi, riesca a portare la politica al li-vello di dignità e nobiltà che le spetta”, come Ella ha ammo-nito qualche di settimana fa, ricordando Luigi Einaudi. E og-gi siamo qui consapevoli che solo così, per oggi e per gli anniavvenire, sorretti dalla speranza racchiusa nell’invocazionestruggente di Giuseppe Di Vittorio sul cadavere ancora caldodi Di Vagno, a noi tutti potrà restare la serenità di «pregare per-ché l’orgoglio per il sacrificio sull’altare della libertà riesca aprevalere sul dolore per l’assenza».

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Una figura luminosa che squarcia il buio di un’epoca cao-tica e violenta: il “gigante buono” entra assai rapidamen-

te nell’immaginario popolare, il suo carisma infiamma il cuo-re di un mondo rurale ancora imprigionato nella gabbia di rap-porti sociali feudali, il suo instancabile apostolato civile e po-litico sollecita simpatia e curiosità anche tra i borghesi. GiuseppeDi Vagno fu l’icona di una Puglia fiera dei suoi talenti e dellesue fatiche, fu l’espressione pubblica di una dirompente rottu-ra con il dominio del latifondo e con la cultura del paternalismoautoritario che incombeva sulle misere vite dei braccianti e deicontadini, fu la forza mite di un socialismo che conquistò quelnostro “popolo di formiche”, fu l’epopea antiretorica di un ri-formismo che seppe intendere con pienezza il dolore del Sude volle trasformarlo in coscienza nazionale e maturazione de-mocratica.Il suo stile umano e la sua cifra politica, quel galantomismo ve-race e la sua infaticabile milizia riformista, gli valsero l’odio po-litico degli squadristi di Conversano e del vertice del fascismopugliese. Fu un vero assedio: l’oratore che infiammava le piaz-ze e segnava le campagne elettorali nei municipi dell’entroterrabarese era un nemico da colpire, una voce da ammutolire. Que-sta vicenda è rilevante anche per falsificare quello stereotipo,troppe volte abusato, di un fascismo meridionale per così direbonario, più guascone che criminale, più folclore che tiranni-de, più lustro delle opere pubbliche che vergogna implicita nel-l’uso della violenza prima tollerata e poi legalizzata. Il man-ganello, l’olio di ricino, la prigione, la tortura, l’assassinio, ilconfino, l’esilio, la censura, la degradazione di quella dignitàumana che reclama la possibilità di esprimersi come libertà, co-me pienezza dei diritti di cittadinanza, come libera organizza-zione del dissenso: non ci furono due regimi, due diverse dit-tature. Il fascismo fu nemico del Mezzogiorno, il fascismo pu-gliese fu feroce e troppo spesso, anche nel dopoguerra, non fuconvocato a rendere conto seriamente dei propri delitti.Di Vagno venne ucciso in un agguato lungamente premedita-to e quel delitto serviva a colpire, insieme, chi denunciava il pe-ricolo del fascismo ma anche chi sapeva leggere nello squa-

drismo una sorta di presidio militare a difesa dei proprietari ter-rieri e del latifondo. La libertà camminava sulle gambe della ri-forma dei rapporti di produzione nelle campagne, si intreccia-va in un nodo inestricabile con le ansie e le domande di eman-cipazione sociale, era il grido di ribellione contro la servitù del-la gleba la cui condizione miserabile era stata testimoniata daquell’altro pugliese straordinario, che di Di Vagno fu compa-gno e fratello, e cioè Giuseppe Di Vittorio.Era testimone e protagonista di anni di tempesta. Allo scocca-re della scintilla del primo conflitto mondiale, intravide l’orroredella carneficina e fu nemico della guerra e della retorica mi-litarista. Agì come un custode di quella missione post-risorgi-mentale che era il compimento del processo unitario nelle for-me della edificazione politica, civile e culturale di una Patriaamata e condivisa, amata perché società del diritto e dei dirit-ti, condivisa perché capace di curare le piaghe dell’arretratez-za meridionale. Questione sociale e questione meridionale so-no all’incrocio del suo impegno di socialista e di giovane par-lamentare. Dell’animo profondo del socialismo italiano, di quel-la speciale mitezza umanitaria e di quell’empito libertario, fuinterprete originale e ancora da scoprire. La sua non è una sto-ria del passato, ma un seme del futuro.

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La voce da ammutolire>>>> Nichi Vendola

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Il 25 settembre 1921, a Mola di Bari, Giuseppe Di Vagno fucolpito a morte, assalito sulla pubblica via da una squadra digiovani fascisti che fece uso di pistole e di una bomba a mano.Cinquanta giorni prima, il 3 agosto, quando già da nove mesil’Italia assisteva al dilagare degli atti di violenza compiuti dallesquadre d’azione fasciste contro gli avversari politici, era statofirmato a Roma, nel palazzo di Montecitorio, dai dirigenti deiFasci di combattimento, del Partito socialista e della Confede-razione generale del lavoro un solenne documento con il qualele tre parti contraenti si impegnavano affinché, come recitava iltesto, «minacce, vie di fatto, rappresaglie, punizioni, vendette,pressioni e violenze personali di qualsiasi specie abbiano subitoa cessare». Questo documento, negoziato sotto il patrocinio del-l’allora Presidente della Camera dei deputati e futuro capo prov-visorio della Repubblica italiana, Enrico De Nicola, fu denomi-nato «patto di pacificazione», un’espressione che alla luce diquanto seguì assume un senso tragicamente beffardo.Mussolini si era spinto a sottoscrivere quell’atto nella confusaricerca di una collocazione per la sua formazione politica; unacollocazione che fosse adeguata al nuovo status di forza parla-mentare acquisito dai Fasci di combattimento in seguito alle ele-zioni per il rinnovo della Camera tenutesi a maggio, quellestesse elezioni che videro l’affermazione della candidatura diGiuseppe Di Vagno in Terra di Bari e dalle quali il fascismo erauscito forte di un gruppo di 36 deputati. Dal canto loro i socia-listi, che nei mesi precedenti, al cospetto della scelta dei fascistidi tramutare la lotta politica in guerra interna e scontro armato,erano stati colti da un senso di sbigottimento e di stordimentoper la piega del tutto imprevista presa dalla situazione del paese,avevano accolto con favore la possibilità di una tregua: tregua,e non pace, come ebbero a precisare, «perché non ci può esserepace fra il perseguitato e il persecutore, fra il dominato e ildominatore; non vi può essere cessazione della lotta di classe»;una tregua, una sosta, in vista di un ritorno della conflittualitàpolitica e di classe nei binari di una contrapposizione ordinariatra forze avversarie.Dopo le elezioni di maggio il fascismo si trovò dinanzi a un

bivio. Con l’uso sistematico della violenza aveva messo allecorde le organizzazioni del movimento operaio e contadino,seminando distruzione e morte in mezzo alle loro file; si era atti-rato le simpatie dei gruppi borghesi ansiosi di recuperare il ter-reno perduto durante il biennio rosso e di ripristinare le tradi-zionali gerarchie sociali; aveva raggiunto in un breve volgere ditempo le dimensioni di un’associazione politica di massa; eradiventato un protagonista di primo piano della scena politicanazionale, al punto che il vecchio Giolitti, in occasione delle ele-zioni, lo aveva incluso nelle liste di concentrazione dei partitid’ordine, sperando di poter cogliere i frutti dello scompiglio edello sconforto provocati tra i socialisti dalle violenze squadri-ste e impartendo allo stesso tempo ai fascisti l’assoluzione dailoro peccati di sangue e di eversione.

Il patto di pacificazioneDopo il successo elettorale, però, Mussolini, fin lì cinico isti-gatore di brutale e sistematica violenza, esitava a proseguire suquella via: non per un soprassalto di senso della legalità, maper ragionamento politico. Temeva, Mussolini, che i benpen-santi, dopo aver seguito con benevolenza l’assalto dei fascistialle posizioni socialiste, potessero revocare il loro appoggio difronte alla trasformazione della violenza in metodo perma-nente di azione anche quando il pericolo rosso si era ormaiaffievolito. Lo inquietava il manifestarsi di qualche segno direazione organizzata, con la comparsa dei primi Arditi delpopolo, da parte di quanti fino allora avevano tutt’al più oppo-sto alle squadre fasciste iniziative disorganiche o contrattacchiindividuali. Non credeva che i fasci potessero scardinare conla violenza l’edificio dello Stato liberale e impadronirsi delpotere con un atto di forza.Mussolini fu turbato in particolare da un episodio che riassu-meva in sé tutti i motivi di preoccupazione che il ricorso a unaviolenza senza sbocchi suscitava in lui. Si tratta dei fatti di Sar-zana del 21 luglio 1921, assai noti quale incunabolo di una pos-sibile storia contro fattuale: quale dimostrazione cioè che la sto-

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La prima vittima>>>> Leonardo Rapone

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ria d’Italia avrebbe potuto prendere un indirizzo diverso se daparte delle forze dello Stato vi fosse stata sul piano nazionaleuna volontà di contrastare l’illegalismo fascista analoga a quellache spinse un energicomanipolo di carabinieri a mettere in fuga,infliggendole anche delle perdite, una squadra fascista presenta-tasi nella cittadina ligure per la consueta spedizione punitiva, eche finì invece decimata dopo che l’azione dei carabinieri fuseguita da una violenta reazione popolare contro gli squadristisbandati e in ritirata. Tredici giorni dopo l’episodio di SarzanaMussolini e altri capi del fascismo misero la loro firma sotto ilpatto di pacificazione.Mussolini era certamente consapevole di lanciare in questomodo una sfida a quei settori del suo movimento che gli sem-bravano privi di intelligenza politica, chiusi nel loro orizzontecomunale e provinciale, tutti presi dall’opera di schiaccia-mento del socialismo, incuranti di quello che a Mussolini piùpremeva, e cioè l’elaborazione di una strategia realistica checonsentisse al fascismo di aprirsi un varco di accesso al poteremanovrando sulla scena politico-parlamentare e gettando ami

a cui fare abboccare altri soggetti politici. Per Mussolini ilpatto di pacificazione era anche uno strumento per mettereordine nel suo movimento, riaffermando la propria autorità alvertice e riportando in riga i capi locali, imbaldanziti dai suc-cessi riportati nello smantellamento delle posizioni socialistesul territorio. Non immaginava, Mussolini, quale forza aves-sero oramai raggiunto i riottosi capi locali dello squadrismo, equale potere di condizionamento essi fossero in grado di eser-citare sulle sue ambizioni politiche: capi e capetti per i qualil’esercizio della violenza era diventata una condizione esisten-ziale, una ragione di vita.Inebriati del senso di onnipotenza che dava l’infliggere umilia-zioni agli esponenti socialisti e il vendicarsi di quanto i sociali-sti avevano tentato o erano riusciti a realizzare per affermare idiritti dei lavoratori, i capi locali del fascismo, i cosiddetti ras,consideravano la violenza e il terrore contro gli avversari comeuna risorsa di potere fondamentale, quella che assicurava loroprestigio e autorevolezza nel contesto sociale e politico del ter-ritorio in cui operavano. Per costoro la prospettiva di una paci-

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La pioggia del 25 settembre

>>>> Cristiano Boccuzzi

25 Settembre. Piove. Piove come l'anno passato. Piovecome due anni fa. Scende una pioggia leggera ma percetti-bile, bagna le strade, umidifica i tessuti. Tocca tutti. Tenta,forse, di cancellare un crimine efferato. Tenta di portar viauna pozza di sangue che ancora c'è. Non ce la fa. Non ce lafarà. È una pioggia che di anno in anno diventa sempre piùfioca. Si sta arrendendo alla grandezza di un ideale. Quellosocialista. Un ideale talmente grande da necessitare digambe forti per camminare. Le gambe di un Gigante. Buono.90 anni fa moriva un uomo. Un uomo del Sud. Moriva lavoce “dei pezzenti e dei diseredati” nel Parlamento. MorivaPeppino. Sparato con tre colpi di pistola alla schiena permano fascista. "Povero il nostro Gigante Buono! Si è volutouccidere in te il forte lottatore, Giuseppe Di Vagno, comeper seppellire un'idea, per infrangere una Fede, e non sisono accorti, i miserabili, che la soppressione del tuo corpoha preparato la tua resurrezione. Tu sei risorto. Eri un uomoed ora sei un Mito. Sei sempre con noi, in noi, e nelle nostrebattaglie e nelle nostre vittorie": commentò così quellamorte, qualche giorno più tardi, Giuseppe Di Vittorio.90 anni fa non esistevo. Il padre di mio padre aveva appena 10anni. Eppure sento vicini quei giorni. Parlare del Gigante

Buono, citarne il nome, mi consente di percepire sensazioni edemozioni che sento quasi familiari. Non capisco come possaaccadere questo. La storia insegna. Il racconto affascina. Lefoto ne sono una prova intangibile. La politica non è la stessa.Per apprendere da queste, tuttavia, avrei avuto necessità di uninterlocutore: il professore, il testimone, il fotografo; ma c'èqualcosa dentro me che mi unisce a lui senza il bisogno di inter-loquire con nessuno. È una cosa che sento mia. Continuo a noncapire come possa accadere questo. Fuori continua a piovere el'aria diventa pulita. Si riesce a respirare un clima di freschezza.Ripenso a quei giorni. A cosa effettivamente possa essere acca-duto. Al come. Ripenso alla loro politica. A come potesseroessere. Ripenso a cosa avrebbe significato per me il poterliguardare negli occhi.Torno in me e mi rendo conto di stare a guardare la pioggiain modo diverso: la pioggia del 25 settembre non vuole can-cellare un crimine efferato, la pioggia del 25 settembre tentadi farci percepire il senso buono di ogni cosa. Il senso buonodella vita. Il senso buono della politica. Il senso buono diquesta Italia. La pioggia del 25 settembre tenta di dirci qual-cosa. Tenta di trasmetterci quella grinta e quella voglia digridare al mondo che ci siamo. Esistiamo e non ci arren-diamo. Non ci inchiniamo a nessuno per nessun motivo almondo. Io credo di aver preso una decisione: non voglioalcun interlocutore ma voglio continuare a bagnarmi dellapioggia del 25 settembre.

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ficazione con i socialisti era inconcepibile e intollerabile:avrebbe significato essiccare la linfa vitale che aveva permessoalle loro esistenze di uscire dall’anonimato e di scrollarsi didosso le frustrazioni e i rancori accumulati nel corso del bienniorosso. Nei giorni culminanti del negoziato tra i vertici del Par-tito socialista e dei Fasci di combattimento in vista della stipu-lazione del patto di pacificazione gli attacchi squadristici rag-giunsero uno dei picchi più alti di intensità, allo scopo sia dicreare intralci alla conclusione delle trattative sia di renderechiaro a Mussolini stesso quale fosse l’indole più autentica delcorpo militante del fascismo.In questa rivolta collettiva dello squadrismo contro la strategiaparlamentare di Mussolini non si manifestavano solo gli istintibelluini del personale umano che componeva le squadre o leambizioni personalistiche dei ras, ma anche la riluttanza del-l’ambiente agrario, in cui lo squadrismo aveva messo le radicipiù profonde, ad accettare una sospensione della lotta senzaquartiere contro le organizzazioni contadine e contro gli espo-nenti socialisti, che agli occhi della grande proprietà terrieraimpersonavano l’inaudita pretesa dei lavoratori delle campa-gne di uscire da una condizione di sfruttamento e di mortifi-cante sottomissione al volere degli agrari.

Il fascismo puglieseNon meraviglia perciò che il patto di pacificazione trovasse glisquadristi del fascismo pugliese assolutamente ostili e contrari aqualsiasi mutamento di rotta. In Puglia, come si sa, in modosimile allaVal Padana, il fascismo aveva incominciato a decollarealla fine del 1920 come diretta espressione della volontà diriscossa degli agrari dopo l’ondata di lotte contadine della prima-vera-estate del 1920. Il capo più in vista del fascismo agrariopugliese, Giuseppe Caradonna, fu tra i partecipanti a un convegnoche si tenne a Todi al principio di agosto del 1921, e che fu ilprimo momento di raccordo tra i fautori della continuazione dellapolitica del terrore contro il socialismo, i quali trovarono allora inDino Grandi il loro principale punto di riferimento. Lo stessoCaradonna fu tra i protagonisti, tra il 10 e il 12 settembre, dellamarcia su Ravenna, che in occasione delle celebrazioni del sei-centesimo anniversario della morte di Dante vide migliaia disquadristi mettere a ferro e fuoco un ampio angolo della Roma-gna, e che fu soprattutto una prova di forza, in seno al fascismo,degli oppositori della pacificazione. Non vi erano allora tra i fasci-sti pugliesi altri personaggi di spicco che avessero sul pianonazionale rilievo pari a quello di Caradonna. Per questo la resi-stenza alla pacificazione, fuori della Capitanata, terra di elezione

di Caradonna, non assunse sul piano delle declamazioni e delledichiarazioni di intenti forme altrettanto vistose; ma fu nella pra-tica che lo squadrismo pugliese, in tutte le sue articolazioni terri-toriali, dimostrò quali fossero i suoi orientamenti e le sue pulsioni.Come se il patto di pacificazione non fosse mai stato firmato, leazioni squadriste proseguirono senza soluzioni di continuità, eun’unica striscia di intimidazioni e di violenze lega, gli uni aglialtri, i primi assalti del gennaio-febbraio 1921; gli attacchi, tra lafine dell’inverno e la primavera di quell’anno, alle municipalitàsocialiste (come a Minervino Murge, a Canosa di Puglia, a Bar-letta, a Noci, a Cerignola, ad Ascoli Satriano, a Sansevero, a SanNicandro Garganico); la devastazione delle Camere del lavoro edelle sedi delle leghe contadine; l’intimidazione nei confronti deiloro aderenti, costretti a inquadrarsi nelle organizzazioni sindacalifasciste; le violenze che segnarono la campagna elettorale per leelezioni politiche del maggio 1921 e la stessa giornata delle vota-zioni, quando in diversi centri agli elettori fu impedito di esprimereliberamente il voto; fino al momento culminante di questa ondatadi attacchi, rappresentato dall’assassinio di Giuseppe Di Vagno: iltutto sempre sotto l’occhio benevolo delle forze dell’ordine e diquegli esponenti del conservatorismo tradizionale pugliese, comeAntonio Salandra, che contavano di presentarsi come mediatoridella spinta eversiva che veniva dal fascismo agrario per impri-mere una sterzata reazionaria al quadro politico nazionale.Al momento dell’assassinio di Di Vagno Mussolini aveva giàfatto le sue scelte e nuovamente cambiato indirizzo strategico.Dopo aver minacciato di abbandonare il fascismo se questo nonsi fosse riconosciuto nella sua volontà di pacificazione, si reseconto che senza il sostegno dello squadrismo la sua stella poli-tica sarebbe precocemente tramontata. E iniziò quindi ad ado-perarsi per un compromesso all’interno del fascismo che neesaltasse la funzione quale unico possibile duce del movimento(anzi del partito, perché proprio allora gettò le basi per la tra-sformazione dei fasci in partito), ma riconoscendo diritto dipiena cittadinanza allo squadrismo e alle sue pratiche terroristi-che nella complessa strategia che avrebbe dovuto condurre ilfascismo al governo combinando illegalismo e tessitura di rap-porti politici e istituzionali con i centri del potere reale del paese.L’imboscata contro il deputato socialista di Conversano caddenel pieno di questo riallineamento tra Mussolini e la sua crea-zione politica. Simboleggiò, tragicamente, la continuità e l’irre-versibilità del ricorso alla violenza terroristica quale strumentodi lotta e strada maestra verso la conquista fascista del potere.Nello stesso tempo segnò un salto di qualità, perché per la primavolta veniva direttamente colpito un eletto alla Camera deideputati. Fu il primo. Non sarebbe stato l’ultimo.

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>>>> memorial di vagno

Martirio senza giustizia>>>> Gaetano Arfè

Allamemoria di Giuseppe Di Vagno, ucciso quattro anni pri-ma che io nascessi, mi lega quel sentimento di devozio-

ne e di gratitudine che provo nei confronti delle donne e degliuomini dei quali ho condiviso e condivido la fede e che di quel-la fede sono stati eroi e martiri. La Chiesa cattolica leva agli ono-ri degli altari coloro ai quali riconosce tale qualifica. Non è bla-sfemo dire che anche noi li leviamo, come disse Turati di Mat-teotti, sull’altare delle nostre coscienze. Nella mia assai lungamilizia socialista ho sempre ritenuto che tra i miei compiti, inragione del mio mestiere, fosse anche quello di tener vivo, at-traverso la rievocazione storica, il ricordo dei compagni che ciavevano preceduto nel nostro cammino e che avevano concorsoa creare quell‘ethos politico, quel mondo di idee, di princìpi, divalori che hanno fatto del socialismo uno dei più fecondi fat-tori di elevazione umana e lo hanno collocato accanto al cri-stianesimo e al liberalismo tra le grandi componenti della ci-viltà europea E’per questo che, pur col più alto rispetto per tut-ti i campi delle discipline storiche, ho portato sempre il mio in-teresse alla storia delle persone, delle loro idee, delle loro pas-sioni, delle loro azioni, di quello che hanno dato all’avanza-mento della civiltà.Ancora oggi io trovo affascinante lo studio di quei momenti del-la storia nei quali le dottrine politiche, economiche, sociali, leutopie anche, dei pensatori, dei predicatori, degli agitatori, sisono saldate con le esperienze reali di grandi masse umane, nehanno illuminato le intelligenze e destate le coscienze, hannodato loro gli strumenti per capire la realtà del loro tempo, perorientarsi in essa e per cercare di cambiarla. Sono quelle sta-gioni che un grande storico, Adolfo Omodeo, definì le prima-vere della storia, nelle quali fiorisce la speranza e la speranzaalimenta la fiducia e crea la condizione necessaria perchè i frut-ti della primavera maturino. Io ho vissuto una di queste pri-mavere, quella che corse tra l’8 settembre del 1943 e il 25 apri-le del 1945, quando le idee formulate, dibattute e circolate nel-

la clandestinità, nelle galere e in terra d’esilio s’incontraronocon le drammatiche esperienze sofferte da un intero popolo ene nacque la Resistenza. Io credo che da queste considerazio-ni si possano trarre dei criteri di metodo, scientificamente teo-rizzabili, idonei a collocare nella storia la nobile e tragica vi-cenda umana di Giuseppe Di Vagno.

Il socialismo in PugliaDi Vagno non è un predestinato al socialismo. Proveniente daagiata famiglia di media borghesia agraria, la sua opposizione al-l’ordine sociale esistente non è determinata dallo sfruttamento pa-dronale, dalla miseria, dalla negazione all’accesso alla scuola -penso all’altro suo grande conterraneo, Giuseppe DiVittorio, cheimpara a leggere a lume di candela dopo le lunghe ore di faticamal pagata - dalla solidarietà di classe. La famiglia vorrebbe de-stinarlo al sacerdozio, ma il giovane seminarista agli studi teo-logici preferisce quelli di storia: si interessa alle vicende della Po-lonia oppressa, alla rivoluzione francese, alla Santa Russia do-ve impera l’autocrazia zarista, e ne predilige i grandi scrittori at-traverso i quali conosce le ingiustizie spietate di quella societàe le nefandezze del suo regime. Quando la rivoluzione scoppieràegli la sentirà come sua e introdurrà tra i socialisti di Conversa-no la parola tovarich - compagno - in onore dei compagni russiche hanno rovesciato il trono e hanno conquistato il potere. Glistudi universitari, compiuti a Roma, non furono solo quelli giu-ridici. Studiò con entusiasmo e rigore il socialismo e i suoi pro-blemi non solo dottrinali ma anche politici per poterli calare nel-la realtà della sua terra, dove Giolitti imperava con metodi cheun altro pugliese illustre, Gaetano Salvemini, denunciò e bollòin un pamphlet rimasto famoso, intitolato Il ministro della ma-lavita. E la malavita era governata dalla questura.Il suo non vuol essere, e non è, il socialismo della retorica elet-toralistica o congressuale, non è il socialismo dottrinario o pseu-

A conclusione del dossier dedicato al ricordo dell’assassinio di Giuseppe Di Vagnopubblichiamo il testo della commemorazione che Gaetano Arfè tenne nella sala consiliaredel comune di Conversano il 25 settembre 2001.

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do-dottrinario che vuol costringere la mutevole realtà dentro ipropri schemi. Essere socialisti nel Mezzogiorno, per la verità,non è facile. Lo aveva riconosciuto lo stesso Salvemini, avvia-to agli studi da uno zio prete di nostalgie borboniche e conver-titosi al socialismo a Firenze, che aveva dedicato il suo primoscritto socialista, apparso nellaCritica Sociale di Turati, alla suaMolfetta, analizzando magistralmente, in tempi in cui la socio-logia non era di moda, una società che egli ben conosceva e in-dicando le potenzialità ed i rischi cui il partito sarebbe andatoincontro. Tra i rischi il più grave era quello che il giovane e can-dido partito dei lavoratori potesse diventar preda di intellettua-li famelici, mal nutriti di greco e di latino - il ritratto che egli trac-cia di “Cocò”, il giovane che dalla natìa Puglia va a Napoli a “fargli studi” è un piccolo capolavoro di sociologia militante- pron-ti ad abbracciare qualsiasi fede pur di poter mettere le mani suun bilancio comunale. Per sfuggire a questo destino occorro-no l’ardore dell’apostolo e la tempra del combattente: sono ledoti che contrassegnano la personalità di Di Vagno.Ma la mancanza nel Mezzogiorno di un proletariato diffuso, conuna tradizione di organizzazione e di lotta alle proprie spalle ecapace di esprimere da sé i propri dirigenti, è soltanto una del-le difficoltà. L’altra sta nelle strutture profonde del paese, edè quella per cui il sistema dominante si regge sull’alleanza, nelsegno del protezionismo, tra industriali del Nord e agrari delSud. che Giolitti ha in certa misura ereditato e sul quale eser-cita la sua azione di governo: avendo tra le mani un corpo ra-chitico, si disse, egli si era proposto non di rafforzarlo, ma dicucirgli addosso un vestito che ne coprisse le deformità, sen-za preoccuparsi che esse potessero accentuarsi. Il progresso eco-nomico nel Nord si traduce anche in avanzamento della socie-tà nel suo insieme, nel Mezzogiorno i profitti della protezionedoganale si concentrano in poche e parassitarie mani, sulle po-polazioni meridionali cade il peso del “caro-ferro” e del “ca-ro-pane”. La politica che ne deriva consente, anzi impone, unapratica di blando riformismo nelle regioni del centro-nord, do-ve più forte è il movimento operaio e contadino, più fitta e piùrobusta la rete delle sue istituzioni di classe, più numerosa e au-tonoma la sua rappresentanza parlamentare; ma non consenteche gli stessi criteri vengano applicati nel Mezzogiorno, anziimpone il contrario: qui gli eccidi contadini, qui le frodi e le vio-lenze elettorali, qui gli “incendi al municipio” raccontati daTommaso Fiore, qui deputati di sicura obbedienza, nel gergo po-litico gli “ascari”, le truppe di colore inquadrate nell’esercitoitaliano escluse da ogni compito di comando.La Puglia, la regione più avanzata del Mezzogiorno, è quellanella quale più a fondo incidono le contraddizioni del sistema

politico che da Giolitti ha preso nome: qui anche una culturapolitica concreta e combattiva, della cui conoscenza molto deb-bo al compianto Vittore Fiore, che non si chiude provincial-mente nei confini della regione e della quale Salvemini fu il ca-pofila. La corruzione elettorale necessaria a controllare una so-cietà in fermento non fu inventata da Giolitti, egli scriveva, mafu lui a praticarla “con freddo metodo, con totale mancanza discrupoli e con profondo disprezzo di chi si prestava al gioco[…]. Dopo di lui quelle altezze furono superate per il Mezzo-giorno e per tutta l’Italia nei soli plebisciti totalitari”. Severis-simo, e per la verità discutibile, il giudizio finale: “Giolitti fuper Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo:gli spianò la strada”.

Mazzieri e squadristiE’questo l’ambiente nel quale Giuseppe Di Vagno fa il suo in-gresso, con il piglio e la baldanza del combattente, sfidando pri-ma i mazzieri di Giolitti e poi gli squadristi di Mussolini, soc-combendovi da eroe. E’ il 1913 quando, giovane avvocato, aventiquattro anni, torna alla natìa Conversano, e parte subito al-l’attacco del blocco che si raccoglie intorno all’onorevole Buon-vino. Il suo primo comizio è accolto da fischi e tumulti. Unanno dopo la situazione è rovesciata. La carica di umanità, latrascinante forza della sua predicazione, la possanza fisica - lochiameranno il gigante buono- fanno di lui il capo che i con-tadini aspettano. Dopo la semina delle idee che dà vitalità e vi-gore alla organizzazione nascente bastano tre comizi a far crol-lare l’amministrazione comunale al potere. E’eletto consigliereprovinciale con una votazione plebiscitaria, un trionfo del qua-le sul Giornale d’Italia darà notizia un prete.Il 1914 è anche l’anno dello scoppio della prima guerra mon-diale. Giolitti è per la neutralità, Salvemini scende impetuosa-mente in campo per l’intervento. Il giovane Di Vagno dà in que-sta occasione la più limpida prova della sua autonomia, fatta diintelligenza politica, di rigore morale, di coerenza ideale. Quan-do si apre nel paese il dibattito, che si trasforma in duro scon-tro nella stampa e nelle piazze, egli è aperto alle suggestioni del-l’interventismo democratico, quello che ha la sua pattuglia dipunta in Salvemini, in Bissolati, in Battisti, nei più giovani Ros-selli, Parri, Lussu, tutti convinti di muoversi sul filo della sto-ria, quel filo che aveva preso a svolgersi nella scia della rivo-luzione francese, che aveva ispirato le rivoluzioni liberali e na-zionali in Europa, che avrebbe trovato il suo sbocco, battuti l’au-toritarismo e il militarismo austrotedeschi, in una mazzinianaEuropa dei popoli fondata sulle libere nazionalità. Turati, che

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li ebbe tutti assai cari e non volle scontrarsi con loro, li defini-va in privato “i raggirati dalla storia”. Egli denunciò che l’in-tervento dell’Italia in guerra era partito con un colpo vibrato al-la sovranità del parlamento, dove una minoranza con punte fa-cinorose che aveva agitato le piazze si era imposto a una mag-gioranza - giolittiani, cattolici e socialisti - cui corrispondevauna maggioranza nel paese; lucidamente previde che la guer-ra sarebbe stata lunga, sanguinosa e logorante; ripose nella ri-voluzione russa di febbraio e in Wilson le sue fievoli e prestodeluse speranze che la pace non sarebbe stata sopraffazione evendetta dei vincitori sui vinti, fomite di nuove guerre.

Né aderire, né sabotareDi Vagno non si lascia raggirare dalla storia. A prezzo di quel-la che egli stesso definì una crisi di coscienza egli seguì Turatie fece della pace la sua bandiera. “Né aderire, né sabotare” fula formula sulla quale si arroccò, e vi tenne fede, il partito so-cialista. Non era una formula di ambiguo compromesso. I so-cialisti non aderivano alla politica della guerra perché ne rite-nevano illusorie le motivazioni e ritenevano che i suoi esiti sa-rebbero stati disastrosi: e in effetti essa fu la matrice del bol-scevismo, del fascismo e del nazismo, e fece dell’entre deuxguerres il ventennio di incubazione della seconda guerra mon-diale. Il “non sabotare” significava e significò solidarietà ope-rante con la patria e col suo popolo: impegno quotidiano a le-nire le sofferenze nuove che si cumulavano a quelle antiche, eche tutte ricadevano sulle classi popolari, dove si contano a cen-tinaia di migliaia le famiglie che hanno un morto da piangere oun mutilato da assistere; impegno anche a battersi perché il pae-se non venisse brutalmente militarizzato sotto la spinta furiosae spesso canagliesca dei “fasci interventisti”, embrioni aggres-sivamente vitali di quello che sarà lo squadrismo fascistico.Su questa trincea si batte Di Vagno, e la sua condotta è sotto ogniaspetto esemplare. Soldato e poi caporale, viene congedato do-po breve periodo per un trauma subìto e si prodiga a favore deipoveri e degli sventurati profughi dalle terre invase dopo la rot-ta di Caporetto. Consigliere provinciale e segretario dell’Entedi consumo, provvede ad aprire uno spaccio dove i profughipossano gratuitamente rifornirsi di generi alimentari. La sedutadedicata all’approvazione di questo provvedimento si chiudecon una manifestazione di sapore nazionalistico alla quale eglirifiuta di associarsi: la solidarietà con la patria in guerra noncomporta l’applauso alla politica della guerra. Diventa così giàin aula bersaglio di insulti e minacce, cui fa seguito un coroignobile di pure e inverosimili calunnie: si disse che egli si era

dichiarato soddisfatto che la propaganda del suo partito aves-se sortito l’effetto di provocare il disastro, che nella realtà fu ilfrutto della incapacità professionale dei capi militari e degli spie-tati metodi di governo delle truppe, mandate inutilmente in-contro ai massacri e tenute a disciplina coi plotoni d’esecuzione.Il nazionalismo, contro il quale egli aveva polemizzato sullastampa locale, ha trovato l’oggetto del suo inestinguibile odiocui gli eventi successivi daranno nuova esca. Quando nel mar-zo del 1919Mussolini costituisce a Milano i suoi “fasci di com-battimento” Di Vagno, si può dire, è già antifascista: lo è per-ché è socialista, lo è perché è meridionalista, lo è perché il suomeridionalismo è socialista e affida ai contadini, alle loro le-ghe, al loro partito la parte di protagonisti del loro riscatto.A guerra finita, in Puglia come in altre ragioni agricole do-ve il socialismo non ha tradizioni antiche e diffuse organiz-zazioni di massa, sorge un movimento combattentistico a ba-se contadina con una forte impronta meridionalistica e un pro-

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gramma di radicali riforme. Vi aderisce Salvemini. La suaipotesi era che i detestati intellettuali - i “Cocò” passati perle Università di Napoli o di Roma- dopo anni passati nelletrincee a fianco dei contadini condividendone le sofferenzee i sacrifici, potessero diventare i quadri di un movimento cherovesciasse il dominio elettorale della malavita, che spezzassela legge del trasformismo, che facesse rinascere a nuova vi-ta il Mezzogiorno. Di Vagno anche questa volta vede più chia-ro e più lontano del maestro. Non è possibile tenere lunga-mente insieme in una comune battaglia uomini di varia o nul-la fede politica, di diversa estrazione sociale, col solo vincolodi una esperienza collettivamente drammaticamente vissuta,ma che perderà di forza al passo con l’affievolirsi dei ricor-di. Di fatto a dare una ideologia al combattentismo sarà il na-zionalismo, a dargli una politica sarà il fascismo. Salvemi-ni sarà uno dei tre eletti in provincia di Bari, ma dei suoi duecompagni uno sarà coinvolto in una truffa nella quale entra-va il cacio pecorino, l’altro diventerà fascista. Mi sarebbe-ro bastati venti uomini, diceva con la tagliente ironia che egli

esercitava anche su se stesso, per cambiare il Mezzogiorno,non ho mai trovato il ventesimo.Il biennio che segue è passato alla storia come il “biennio rosso”.Lamarea della protesta chemonta sale dal fondo della società ita-liana e la percorre tutta: dalleAlpi alla Sicilia penetra, con effet-ti vari, in tutti gli ambienti politici. E’ convinzione comune cheindietro non si possa tornare, che la restaurazione del mondo pre-bellico sia impresa impossibile. Il “ministro della malavita”, cheè anche il ministro della svolta liberale all’alba del secolo, enun-cia un programma che gli vale, dalle destre, il titolo di “bolsce-vico dell’Annunziata”, il collare del quale il re fregiava i suoi be-nemeriti servitori e conferiva loro il titolo di “cugini del re”. Nelneonato partito cattolico fiorisce, intorno a Guido Miglioli, unacorrente che si merita la qualifica di “Bolscevismo bianco”. Mus-solini stesso parla di repubblica, di confisca delle proprietà ec-clesiastiche, di socializzazione. DiVagno anche questa volta nondissocia la fede dalla ragione. Gli amati tovarich non potevanonon ricorrere alle armi per rovesciare lo zarismo, non potevanonon rispondere con le armi all’aggressione militare degli eserci-

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ti vincitori e alla guerra civile fomentata dalle potenze alleate. Mail socialismo non si crea demiurgicamente a colpi di decreti ema-nati da un potere autoritario, è costruzione cosciente e gradualedelle masse proletarie raccolto intorno alle proprie istituzioni cheoperando e lottando si abilitano ad amministrare un ordine nuo-vo. Questa è la linea di discrimine, mai inquinata da settarismo,che lo divide dai comunisti e dai massimalisti. Il suo punto di ri-ferimento è ancora il riformismo turatiano. Qui, però, un bre-vissimo chiarimento è necessario. Da parecchi anni a questa par-te l’abuso e ilmaluso del termine riformismo ha finito col togliergliogni significato. Quando la parola entrò nel gergo politico cor-rente Turati tentò di respingerla: per lui esistevano due socialismisoli, quello di chi sapeva e quello di chi ignorava che cosa il so-cialismo fosse. Di Vagno la sapeva.

La giustizia negataContro il riformismo socialista, agitando lo spauracchio del bol-scevismo, contro i Matteotti e contro i Di Vagno, si costituiscelo squadrismo agrario, quello che un uomo non sospetto di sim-patie democratiche quale Gabriele D’Annunzio definirà loschiavismo agrario. Il primo campo di sperimentazione dei suoimetodi di lotta sociale e politica è il Polesine di Matteotti, è laValle Padana, dove oggi, in tutt’altro e incomparabile contesto,il fenomeno di una eversione reazionaria con tinte non più na-zionaliste ma razziste sembra volersi ripresentare in forme grot-tesche, ma anche preoccupanti. Nel Mezzogiorno il campo èla Puglia, la regione dove più avanzato è lo sviluppo del mo-vimento proletario e dove emergono figure di capi in grado diorganizzare, di dirigere: tra esse di maggiore spicco, per la suaintelligenza, per le sue qualità di trascinatore, per la sua cari-ca di umanità, è quella di Di Vagno. Per i fascisti egli non è unavversario politico, è un nemico da stroncare, il sentimento chediffondono contro di lui è quello dell’odio. Nella sua Conver-sano gli fanno il vuoto intorno: con la minaccia, col ricatto, conla violenza, creano un clima di terrore. Nonostante questo vie-ne eletto deputato. Sfugge a due attentati, il terzo va a buon fi-ne. Si noleggiano due chars à bancs, due diligenze che si usa-vano per i brevi viaggi e per le gite campestri, e vi si caricanoi giovani fascisti di buona famiglia che non perdonano il tran-sfuga di classe, il “borghese” che ha fatto propria la causa deicontadini, degli “umiliati e offesi”. Lo colpiscono non in unoscontro, ma sparandogli quattro colpi nella schiena, mentre abreve distanza esplode una bomba a coprire la fuga dei sicari.A casa lo attendevano la moglie e un figlio ancora non nato.La commozione e il cordoglio percorrono l’intero paese. Prendono

il lutto i proletari pugliesi e a loro dà voce il giovaneGiuseppeDiVittorio, che gli dedica a Locorotondo una lapide, due volte in-franta e due volte tornata al suo posto. Una lapide fumurata aCon-versano. Il testo dettato da Filippo Turati denunciava “il medie-val furore”, ma questa volta sbagliava: non era un ritorno al me-dioevo, era la “modernizzazione” della lotta di classe quale eraconcepita e attuata dai Farinacci e dai Balbo, dai Caradonna e daiDumini. L’assassinio trova eco alla Camera, ma non si coglie lanovità, oltre alla estrema gravità del fatto che per la prima voltanella storia d’Italia un deputato è ucciso per le idee che professa.Non ne coglie il significato neanche il suo partito, esposto al fuo-co della polemica comunista e lacerato all’interno dalle lotte dicorrente. La documentazione sul delitto è impressionante. Mi li-mito a riferirmi a quella contenuta nella memoria degli avvocatidi parte civile, corredata di documenti ufficiali, che porta la fir-ma di un veterano di processi politici e maestro di diritto penale,Enrico Ferri, di Giovanni Porzio, del pugliese Francesco Tam-burini, che ne è il puntuale ed efficacissimo estensore.

La magistratura dell’Italia liberale condanna a pene relativa-mente miti alcuni degli assassini e dei loro complici, ma esclu-de la premeditazione. Gli chars à bancs erano serviti per unascampagnata, per caso conclusa con un morto. AncheMatteottifinì sul pugnale per essersi troppo divincolato nel chiuso diun’automobile. Il tribunale esclude la premeditazione. Degliimputati dodici vengono assolti per non aver commesso il fat-to, i dieci condannati verranno scarcerati un anno dopo per am-nistia, e tutti festeggeranno l’evento concludendo il festeggia-mento con una manifestazione davanti alla casa di Di Vagnoal grido di “viva il 25 settembre”, la data dell’assassinio. Nes-suno di loro, secondo i giudici, aveva premeditato il delitto. Ilprocesso verrà riaperto dopo la caduta del fascismo e procedetra mille cavilli procedurali, viene trasferito per legittima su-spicione da Bari a Potenza. Le condanne, relativamente mitirispetto alla efferatezza del crimine, questa volta ci sono, ma igiudici dell’Italia liberata, senza l’attenuante del ricatto e del-la minaccia, stabiliscono anch’essi che non ci fu premeditazione:non era stato un atto freddamente organizzato e spietatamenteeseguito, ma un episodio di lotta politica paesana, finito pur-troppo tragicamente: un processo “a metà” commenterà l’A-vanti!, concluso con una sentenza “a metà”. A render certa lapremeditazione basta il numero degl’imputati.Questo nostro incontro - lo dobbiamo alla sua memoria- deve, aquesto punto, essere anche un intervento in quella che una voltasi chiamava la battaglia delle idee e che si sta svolgendo, aspra, nelnostro paese, all’insaputa quasi dimolti che ne sono investiti. L’of-

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fensiva ha preso le mosse dalla storia, ma ha investito tutti i cam-pi delle scienze umane: il diritto, l’economia, la sociologia. I risultatisi sono composti in una ideologia soffice e soffocante per gl’im-ponenti mezzi di cui dispone e per la povertà degli strumenti di chiintende opporvisi, per la indigenza culturale e morale di una sini-stra disunita e sbandata. Ora, il giudizio storico è, per sua natura,oggetto di revisione permanente, lo sono tutti i processi storici chehanno lasciato un segno incancellabile nella storia di una nazioneo addirittura, come insegna il presidente Berlusconi, di una civil-tà. Da ogni revisione deriva un allargamento della problematica sto-riografica, una acquisizione di nuove conoscenze, un approfondi-mento del giudizio storico. Quello che è da denunciare e da con-testare è l’uso strumentale che del revisionismo si è fatto e si fa, eche ha ad oggetto non la storia del fascismo e dell’antifascismo,ma si prefigge un obiettivo politico: la demolizione della Costitu-zione, nata, come si dice e come è vero, dalla Resistenza.

I rischi del revisionismoSi è scritto che l’8 settembre è la data della morte della patria,si è passati dalla pacificazione nazionale che il governo anti-fascista promosse con l’amnistia - peraltro tecnicamente im-provvida- firmata da Togliatti, alla parificazione tra fascismoe antifascismo di fronte alla superiore imparzialità della storia;si è detto che la lotta armata fu voluta principalmente dai co-munisti per obliqui fini di parte, per legittimarsi di fronte al pae-se, per costruirsi un apparato militare clandestino, per porre lebasi della loro egemonia; si è accusato di complicità l’azioni-smo, e finanche l’antifascismo cattolico. Qualcuno è risalitoal Risorgimento e alla rivalutazione del sanfedismo. Non cre-do sia solo frutto di illuminazione divina, ma anche di questoclima culturale, la santificazione del papa del Sillabo. Si vuo-le un popolo di “senza storia” manipolabile attraverso l’occhiutocontrollo dei maggiori mezzi di comunicazione.

Da antico praticante del mestiere di storico io vi riscontro in-nanzitutto una carenza di ordine metodologico, l’espunzione dal-la ricostruzione di un processo storico dei fattori di natura eti-co-politica quali elementi storicamente qualificanti delle forzein gioco. Vi riscontro quale cittadino un offuscamento del sen-so morale nella politica. Si può e si deve riconoscere che, nel-la macabra graduatoria del crimine politico nel XX secolo, Mus-solini occupa indubbiamente l’ultimo posto. Non fu un mas-sacratore come il pagano Hitler, l’ateo Stalin, il cristianissimoFranco. Ma tutta la sua azione politica è intessuta di delitti, scien-tificamente qualificabili come tali, contro l’Italia, contro l’u-

manità. Di Franco e di Hitler fu complice, la sua repubblica, na-ta razzista, contribuì a rifornire di vittime i campi di sterminionazisti. Nessuna revisione può cancellare il fatto che il fascismoteorizzò e praticò la violenza quale strumento di lotta politica:DiVagnomorì di pistola, Matteotti e i fratelli Rosselli di pugnale,Giovanni Amendola, e con lui il prete don Minzoni, di manga-nello. Di essi solo Carlo Rosselli aveva impugnato le armi, perdifendere in campo aperto la libertà di Spagna. Nessuna revisionepuò cancellare il fatto che il fascismo soppresse con appropria-te leggi tutte le libertà e instaurò il Tribunale speciale e il con-fino dì polizia; aggredì l’Etiopia e la insanguinò di stragi col suoGraziani che chiuse la sua carriera comandando l’esercito di Sa-lò e rimanendo sempre impunito; si coprì d’infamia con le leg-gi razziali e collaborò, alla fine della sua parabola, coi nazisti nel-la caccia all’ebreo; prestò a Franco le sue baionette e i suoi car-ri armati per mettere in catene la Spagna repubblicana; dette vi-ta, dopo che il governo legittimo aveva siglato l’armistizio, a unarepubblica fantasma che armò i suoi uomini, italiani contro ita-liani. Ignorare o sottovalutare questa ininterrotta catena di fat-ti che danno al fascismo una incancellabile impronta non è re-visionismo, è nichilismo storiografico che deprime lo spirito cri-tico, ottunde il sensomorale, corrode la coscienza nazionale, con-tribuisce a dare una motivazione ideologica alla degradazionedella patria ad azienda, e che dall’azienda mutua l’etica e le leg-gi. Il mercato prende il posto della divina provvidenza.L’umanesimo socialista, perenne quale valore e oggi ancora unavolta insidiato, riacquista una sua drammatica attualità politi-ca. C’è una poesia che Giosuè Carducci dedicò ai martiri delRisorgimento che è intitolata “Nostri santi e nostri morti” e chesi chiude coi versi “risorgeranno il dì della vendetta, della giu-stizia e della libertà”. Non chiese vendetta la moglie di Giu-seppe Di Vagno ai tribunali della nostra repubblica e non lachiese il figlio che non vide il padre: si affidarono a una ma-gistratura che fu per la seconda volta indegna della propria fun-zione rendendo una giustizia dimezzata. Ma essi lo avevanovisto risorgere con la giustizia e la libertà, che egli amò finoa morirne, e che risorsero sulle bandiere della Resistenza e ispi-rarono il patto costituzionale nel quale senza riserve si rico-nobbe la stragrande maggioranza del popolo italiano, che haretto alle prove della guerra fredda e del terrorismo, che ancoracostituisce il fondamento etico-giuridico della nostra repub-blica. E’ per questo che ho considerato un onore e un doverepartecipare a un incontro nel quale il popolo della sua terra havoluto esprimere a Giuseppe Di Vagno il sentimento della suadevozione e della sua gratitudine, passato senza sbiadirsi di ge-nerazione in generazione.

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Le tumultuose vicende che portarono, nei primi mesi del1965, alla elezione a sindaco di Lelio Lagorio escono dai

limiti temporali e tematici del racconto fin qui esposto. Non c’émotivo, pertanto, di descriverle e analizzarle. Quella esperien-za, del resto, durò poco e si concluse, come era inevitabile, conuna nuova gestione commissariale.La storia degli ex azionisti a Firenze è racchiusa nel periodo 1956-1964. Sia l’inizio che la fine hanno un preciso significato. Il 1956é l’anno dell’autonomia socialista e della lista comune PSI-UPal-le elezioni amministrative. Il 1964 è l’anno della sconfitta degliex azionisti e di La Pira, uniti nella comune esperienza di un “la-boratorio politico” che aveva suscitato crescenti opposizioni, nelPSDI, nella DC e nel PSI, e che era destinato alla sconfitta fin dalmomento in cui era sembrato toccare il suo punto più avanzato,e cioè la giunta DC-PSI. Il contributo de «La Nazione» era statodecisivo come punto di riferimento autorevole di tutti gli ambienticonservatori della città: politici, economici e professionali, nonescluso l’arcivescovo Ermenegildo Florit che aveva cambiato l’o-rientamento della Chiesa fiorentina dopo Elia Dalla Costa.Come si è visto, a ogni anno è dedicato un capitolo e ogni capito-lo è suddiviso in tre parti: solo la terza parte riguarda espressamentele vicende politiche fiorentine. Le altre due si occupano, rispetti-vamente, della città e dei principali avvenimenti politici naziona-li e internazionali. Descrivono cioè il contesto in cui la politica fio-rentina si svolgeva. Certo, le tre parti avrebbero potuto essere in-trecciate in un unico racconto, ma forse a scapito della chiarezza.Sia La Pira che gli ex azionisti ebbero percorsi politici diversi, do-po il 1964. La Pira andò in Parlamento, ma non ebbe più alcunainfluenza sulla politica fiorentina. Alcuni ex azionisti ricopriro-

no cariche importantima, in quanto tali, cessarono di esistere. Qua-si tutti si ritrovarono nella sinistra lombardiana,minoranza del PSI.L’espressione ex azionisti, talvolta sostituita da “lombardiani” e“gregoriani”, non va presa alla lettera. Si riferisce a tre gruppi di-versi: uno guidato da Codignola, costruito da persone che prove-nivano dal Partito d’Azione, poi passate a Unità Popolare; un al-tro da persone che dal Partito d’Azione erano confluite direttamentenel PSI (come, sul piano nazionale, Riccardo Lombardi); un ter-zo era formato da giovani che, come me, erano entrati, anche perragioni anagrafiche, direttamente inUnità Popolare, con l’eccezionedi FrancoRava che aveva fatto a tempo a compiere una fugace ap-parizione nel Partito d’Azione. Il leader di tutti era Codignola.Gli ex azionisti avevano condiviso, con entusiasmo, la svoltadell’autonomia socialista nel 1956.Anzi, erano poi diventati so-cialisti in quanto autonomisti e avevano criticato i nenniani chenon avevano saputo liberarsi, al congresso di Venezia, dagli exmorandiani. Ma in seguito, come si é visto, le distinzioni franenniani e lombardiani si erano via via accentuate fino alla de-finitiva rottura, nel 1964, dopo il secondo governo Moro.Nenni riteneva che il centro-sinistra, come formula parlamen-tare, dovesse essere in ogni caso preservato per evitare svoltedi destra col rischio di derive autoritarie. Erano i timori com-prensibili di un vecchio antifascista. Per Lombardi, invece, ilcentro-sinistra o era in grado di realizzare profonde riforme distruttura per superare, in via democratica, il sistema capitalistaoppure diventava uno strumento del “neocapitalismo”.Naturalmente c`erano sfumature in entrambi gli schieramenti.De Martino era più attento ai contenuti programmatici del cen-tro-sinistra, Venerio Cattani era la destra (intelligente) favore-vole all’unificazione socialista. Ma anche tra Lombardi e Co-dignola c’erano differenze sensibili. Lombardi più ideologo, Co-dignola più pragmatico, oggi (non allora) si direbbe riformista,Lombardi non si fidava della DC, Codignola era molto attentoalle sue possibili evoluzioni. Diceva che l’unità politica dei cat-tolici era un equivoco, ma non pensava che si potesse puntarea una spaccatura della DC, né condivideva la retorica del dia-logo con le “masse cattoliche”. Riteneva invece che la DC, inquanto soggetto politico influenzato dai rapporti con la socie-

La Pira e i mozzaorecchi>>>> Giorgio Morales

La casa editrice “Le Lettere” ha recentementepubblicato un libro di Giorgio Morales(I “mozzaorecchie”) che ricostruisce la storiadegli ex azionisti fiorentini, da Codignolaad Enriques Agnoletti, da Calamandrei aGiorgio Spini. Ne proponiamo un brano,riferito alla crisi della giunta La Pira-Agnoletti

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tà, potesse essere coinvolta in una politica di trasformazione de-mocratica a condizione che vi fossero garanzie politiche e pro-grammatiche. L’esempio più clamoroso del riformismo ante lit-teram di Codignola era stato la riforma della scuola media uni-ca, una riforma vera in grado di contribuire alla evoluzione del-la società italiana. Una riforma ottenuta con un compromessoche “riformisticamente” non ne comprometteva la sostanza.Nei confronti dei comunisti va premesso che sia Lombardi cheCodignola erano stati contrari al “fronte popolare” del 1948, vo-luto invece da Pietro Nenni. Tutti gli ex azionisti non poteva-no però dimenticare la comune lotta di liberazione nella qualeerano stati fianco a fianco i comunisti delle brigate Garibaldie gli azionisti di Giustizia e Libertà.

Codignola e la DCNei primi anni Sessanta, le posizioni di Lombardi e di Codi-gnola nei confronti del PCI erano sembrate, se non diverse, unpo’ articolate. Lombardi per rifiutare la scelta fra “filocomu-nismo” e “anticomunismo” aveva coniato il termine “acomu-nismo” che non significava niente, anche se, come si è visto,egli non aveva risparmiato al PCI la sferzante battuta sui «600milioni di albanesi». Ma Codignola cercava di andare più a fon-do. Su «Rinascita», anno XLIII, n. 21, 31 ottobre 1964, la ri-vista del PCI, rispondendo a una inchiesta dal titolo Sull’uni-ficazione delle sinistre, considerava sbagliata la posizione delPSIUP che proponeva un centro-sinistra allargato a sinistra ver-so il PCI. «La nuova maggioranza», sostenuta anche dalla pro-paganda comunista, non aveva senso secondo Codignola, per-ché uno schieramento unitario col PCI avrebbe determinato larottura delle forze democratiche alla destra del PSI e quindi lacrisi del centro-sinistra. Neppure era proponibile una soluzio-ne unitaria a sinistra per un’alternativa sotto la guida comuni-sta. Una riorganizzazione delle sinistre di tipo “1aburista” avreb-be richiesto, secondo Codignola, un profondo cambiamento delPCI, attraverso la circolazione visibile delle idee e la manife-stazione aperta del dissenso interno, insomma l’opposto del“centralismo dernocratico”. Qualcosa del genere si sarebbe chia-mato in seguito “eurocomunismo”, un’illusione spazzata via dalcrollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica.Anche il “gruppo dei giovani” riconosceva, a Firenze, la leader-ship diCodignola, come guidamorale oltre che politica,Ma un cer-to estremismo giovanile ci portava a essere affascinati da Riccar-do Lombardi, cosi tranchant nelle sue posizioni politiche. Si è vi-sto infatti che la rivista «Oggi e domani» era stata più “lombar-diana” di Lombardi e prima di lui. Forse –ma non apparvemai evi-

dente – Codignola non condivideva certe nostre forzature estre-mistiche. A Firenze, comunque, ci trovammo tutti a difendere lagiunta La Pira-Agnoletti dalle critiche che a poco a pocoMariottie i suoi facevano crescere fino alla rottura con gli assessori ex azio-nisti al congresso provinciale del 1963.Mariotti era profondamenteanticomunista, La Pira non gli andava a genio perché lo conside-rava filocomunista.Gli assessori ex azionisti lo avevano deluso per-ché, dopo aver puntato sul loro laicismo, potenzialmente antago-nista del lapirismo, erano invece diventati succubi di La Pira. Si èvisto come era andata.Aveva vintoMariotti e poi Lagorio, entrambisuccessivamente ottimiministri, benché fra i due non ci fossemaistata una piena intesa. Ma queste sono altre storie.

Perché ho scritto questo racconto? Per tre motivi. Il primo è chesu questo pezzo di storia politica di Firenze nessuno ha scrittoin modo specifico e approfondito e c’era il rischio che venis-se dimenticato. Il secondo é che, di quel periodo, mi sono tro-vato a essere testimone e partecipe, come Lagorio e Butini, benpiù importanti di me, e pochi altri. I miei ricordi, qua e là ac-cennati, sono assolutamente veri e possono forse contribuire al-la conoscenza dei fatti. Il terzo motivo me lo hanno suggeritoalcuni “gazzettieri” che di tanto in tanto definiscono gli azio-nisti come “mozzaorecchie” e “tagliagole” per evocare un lo-ro presunto giacobinismo moralistico, ignorando il contesto sto-rico-politico in cui operarono: quello dell’antifascismo, dellaResistenza e della Costituzione. Da qui il titolo del libro che illettore troverà strano. Ma ne è evidente il significato ironico.Io non ho conosciuto il Partito d’Azione, ma ho frequentato gliex azionisti fiorentini: persone di alto rigore morale, di fermaintransigenza sui principi e gli ideali politici, forse poco reali-sti – come si è visto – rispetto alle condizioni della lotta poli-tica. Ma anche dotate di una visione ampia delle esigenze e del-le prospettive della città. Mi hanno insegnato molto, magari an-che a sbagliare, qualche volta, ma sempre cercando di tener fe-de alle idee in cui credevo. Mi è sembrato giusto ricordarli perquello che hanno significato nella storia politica di Firenze.Durante lemie riflessionimi sono ricordato di un giudizio di Fran-coCamarlinghi, uno che nonhamai avuto a che fare col Partito d’A-zione o con gli ex azionisti: «Bisogna riconoscere, però», ha scrit-to tra l’altro, «che l’influenza dell’azionismo, anche se sconfitto, èstata maggiore sul piano concreto di quella di qualsiasi altro grup-po intellettuale fiorentino». E ha aggiunto: «La pur vigorosa pre-senza di studiosi e di uomini colti di orientamenti o cattolici omar-xisti, non ha lasciato tracce rilevanti sul governo della città». E in-fine: «Gli azionisti furono per lungo tempo, a Firenze, i piùmodernicome concezione del fare cultura e politica». Concordo.

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Il reazionariodi sinistra>>> Valentino Baldacci

Il libro di Edoardo Nesi, recente vinci-tore del Premio Strega, può essere let-to come prodotto letterario, ma credo sialegittima anche una sua lettura comepamphlet: un genere che non esclude lacapacità dell’autore di esprimere conuna scrittura efficace il suo pensiero, an-zi che del linguaggio tagliente e provo-catorio fa uno dei suoi punti di forza; mache al tempo stesso si vale di questa for-ma per esprimere in maniera convincen-te alcune idee. Bene, è su queste idee diNesi che vogliamo richiamare l’atten-zione. Quali sono queste idee? Si posso-no raccogliere intorno a un polo, a un’i-dea forza che le riassuma e le compendi?Partiamo da quest’ultimo aspetto. Un po-lo di riferimento del libro di Nesi indub-biamente c’è, ed è la critica della mo-dernità. Più precisamente, di quel parti-colare aspetto della modernità che per lacittà di Prato e la sua economia ha si-gnificato la crisi del suo sistema produt-tivo, basato, secondo Nesi, sulla produ-zione tessile di qualità, e cioè l’invasio-ne dei mercati mondiali da parte di tes-suti prodotti da parte dei cinesi a costi in-finitamente più bassi e quindi assoluta-mente concorrenziali rispetto a quellipratesi. Insomma la globalizzazione, cheè in effetti la vera protagonista del libro,anche se assume la forma dell’antagoni-sta: antagonista di quella che, secondoNesi, era stata fino ad alcuni anni fa laprotagonista dell’economia (ma non so-lo, della cultura, della vita civile, del si-stema di relazioni umane) di Prato, lapiccola impresa familiare, dove la qua-lità, l’impegno personale, l’onestà ecc.erano i tratti caratterizzanti. Se la globa-

lizzazione è la protagonista (negativa,s’intende) del libro, le fanno poi da con-torno altre figure ad essa strettamenteconnesse: l’Europa, l’euro e via elen-cando, tutti i vari aspetti che caratteriz-zano la vita economica del nostro tempo.Si potrebbe obiettare che, mentre parlamolto di globalizzazione, Nesi non no-mina mai esplicitamente la modernità ela sua critica. Ma se è vero che modernitàè un concetto complesso che non può es-sere ridotto a un solo aspetto, tuttavia dadue secoli e mezzo a questa parte, cioèappunto da quando inizia il processo del-la modernità, uno dei modi peculiari at-traverso i quali essa si esprime è l’am-pliamento progressivo dei mercati. In-sieme ai mercati, la modernità porta consé l’ampliamento della sfera di libertàdell’individuo ed altre cose ancora, maintanto fissiamo questo punto: che nonc’è modernità senza rottura degli angu-sti confini entro i quali si svolgeva in pre-cedenza la produzione e lo scambio del-le merci. Visto che siamo in Toscana, ba-sta ricordare che la prima preoccupazio-ne dell’iniziatore della modernizzazionein Toscana, il granduca Pietro Leopoldo,aveva come principale obiettivo propriola formazione di un mercato unico to-scano; e poiché abbiamo appena cele-brato l’Unità d’Italia, ricordiamo chel’iniziatore del processo di modernizza-zione dell’intero paese, Cavour, quandoera ancora primo ministro del re di Sar-degna pose in cima ai suoi programmi laliberalizzazione degli scambi e la parte-cipazione del Piemonte a un mercato ilpiù ampio possibile.Che cos’è allora il libro di Nesi, l’e-spressione nostalgica di un imprendito-re espulso dal processo produttivo, no-stalgico dell’”età dell’oro”, che è il tito-lo di un suo precedente libro? Il ripeter-si dell’eterna figura del reazionario chenon capisce e non si adegua ai tempi nuo-

vi, e che trova in una forma letteraria ilmodo di esprimere non solo la sua criti-ca politica ma anche le sue lacerazionipersonali? Certamente il libro di Nesi èanche tutto questo; e allora, indipenden-temente dal vissuto personale, non si puòfare a meno di ricordargli di che lacrimegrondava e di che sangue il sistema del-la piccola impresa familiare, che si ba-sava sì sullo spirito di iniziativa e di sa-crificio dei proprietari, ma anche suibassi salari, sugli orari prolungati oltreogni limite sindacale, sullo sfruttamentoe sull’autosfruttamento, sull’evasione fi-scale, sulle continue svalutazioni della li-ra e sull’accumularsi del debito pubbli-co, il cui conto siamo adesso chiamati apagare. Naturalmente qui non si parladella fabbrica della famiglia Nesi, che sa-rà stata sicuramente un’azienda in rego-la con i contratti sindacali, con il fiscoecc.; ma che il successo del sistema del-la piccola impresa familiare si basasseanche sugli aspetti sopra richiamati, è dif-ficile da mettere in dubbio.Allora Edoardo Nesi come rappresen-tante di una classe in via di estinzione,cantore di una decadenza senza gloria,nutrita solo dei rimpianti di chi su quel si-stema di produzione ha fondato tutta lasua vita, nutrita fra l’altro delle letturedella letteratura americana direttamentein inglese, come si premura di informar-ci (inutilmente, d’altra parte, perché po-co prima si era anche premurato di ren-derci noto che lui da giovane passava tut-te le estati nelle migliori Università ame-ricane, e quindi l’inglese doveva averloimparato per forza). Certo, Edoardo Ne-si è sicuramente tutto questo, però… Ilperò sta nel fatto che Nesi non è solo unimprenditore espulso dall’attività pro-duttiva e come tale autorizzato a coltivareuna posizione reazionaria e nostalgica delbel tempo andato. No, Nesi attualmenteè anche assessore in una Amministra-

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zione di sinistra, quella della Provincia diPrato. E qui le cose si complicano.Sere fa sono stato maltrattato da un miocaro amico perché dicevo che non si puòdel tutto ignorare questo aspetto e che sideve riflettere sul fatto che posizioni co-me quelle di Nesi, se certamente nonesauriscono la cultura della sinistra, tut-tavia, a quanto sembra, hanno in essa di-ritto di cittadinanza: anzi credo che sipossa avanzare il sospetto che sianomolto più condivise di quanto non si cre-da. Il mio amico replicava che mi sba-gliavo, che in realtà la posizione di Ne-si esprime, caso mai, una sorta di “ideo-logia pratese”, che vede unite la destra ela sinistra, e che era fuorviante ricondurrele sue posizioni a un’espressione della si-nistra. Sarà. Io credo che se queste posi-zioni fossero state firmate da un espo-nente della Lega, nessuno avrebbe avu-to niente da ridire, cioè avrebbe avutoconferma di come la Lega esprima unacultura reazionaria e nostalgica, contra-ria all’Europa, all’euro, alla globalizza-zione, alla modernità ecc. Che queste po-sizioni siano invece espresse da una per-sona che appartiene alla sinistra, e nonproprio una persona qualunque, ma unamministratore di un’importante pro-vincia toscana, non può non essere og-getto di riflessione. Dico di riflessione,non di scandalo.Caso mai un po’ di scandalo ci sarebbeda manifestarlo di fronte a chi, come quelmio amico sopra ricordato, nega sem-plicemente che Nesi possa essere consi-derato una persona di sinistra, in qualchemodo rappresentativo di quella cultura,e sia invece soltanto espressione, comedetto, di una sorta di “ideologia pratese”senza altre connotazioni. Scandalo per-ché sostenere tesi del genere significa, mipare, continuare ad avere un’idea miticadella sinistra, un’idea della sinistra sen-za macchia (non so se anche senza pau-ra), ben distante da quel confuso coa-cervo (lontano da una sana pluralità) diumori e di rancori che sembra essere lacifra della sinistra da vent’anni a questaparte. Dico la sinistra come area cultu-rale, prima ancora che politica, e quindiqualcosa di ben più ampio del PD, un co-

acervo in cui tanti ingredienti si sono me-scolati: la peggiore eredità del PCI (nonquella di Amendola e di Napolitano), lasinistra democristiana, la cultura post-sessantottesca, il movimentismo, il mil-lenarismo cattolico, l’ecologismo, il fem-minismo, il giustizialismo, l’utopismo,l’antimperialismo, il terzomondismo, unpizzico di antisemitismo travestito da an-tisionismo (v. G. Luzzatto Voghera, An-tisemitismo a sinistra, Torino, 2007), evarie altre spezie, confezionando unazuppa che, in assenza di uno chef all’al-tezza della situazione, ha preso un sapo-re tutt’altro che gradevole. Che poi dal-l’altra parte ci sia un personaggio cheemana un foetor anche peggiore, non èuna buona ragione per considerare la no-stra pietanza, anche quando è cucinata“alla Nesi”, come un piatto gustoso e difacile digeribilità.

EDOARDO NESI, Storia della mia gente,Bompiani, Milano, 2011.

Gianni Bosioe le Edizioni Avanti!>>> Jacopo Perazzoli

“La storia delle Edizioni Avanti! siprospetta anzitutto come un viag-

gio nella cultura politica degli anni Cin-quanta, non meno che nella politica cul-turale e nella cultura tout court della si-nistra non comunista. È, per altri versi,pure una storia sociale di intellettuali cheintesero farsi anzitutto osservatori diquel che presto si rivelò un ‘mondonuovo’, riuscendovi con risultati di tut-to rispetto”: queste parole di Simone Ne-ri Serneri nella prefazione del volume diPaolo Mencarelli ben delineano l’obiet-tivo di fondo del suo lavoro, cioè l’indi-viduazione delle caratteristiche di unprogetto politico, editoriale e culturalecon l’obiettivo di rispondere all’industriaculturale di massa attraverso la promo-zione della cultura popolare e delle tra-

dizioni organizzative e di lotta del mo-vimento operaio italiano. Sfogliando lepagine del libro si intuisce la volontà del-l’autore di ripercorrere il progetto diBosio – affiancato nella conduzione del-la casa editrice, tra gli altri, da parte di Er-nesto DeMartino,Alberto Mario Cirese,Roberto Leydi e Giovanni Pirelli – chia-rendone prima le origini, attraverso il ca-pitoloGenesi e storia di un progetto edi-toriale, e illustrandone, in un secondomomento, le fasi più rilevanti, grazie aicapitoli “Una verità nuda e semplice”:la collana Omnibus, Il Gallo, L’altra fac-cia del miracolo: neocapitalismo e mon-do popolare, Il socialismo: storia e ideo-logia.Proprio l’attenzione verso il pensiero so-cialista è centrale nelle Edizioni Avanti!,come è dimostrato dal progetto della col-lana “Storia del movimento operaio”, chefu tra i primi obiettivi della casa editricequando riaprì i battenti nell’ottobre 1953.Alla prima pubblicazione del 1954 (I Fa-sci siciliani di Saverio Francesco Ro-mano) seguìrono nel 1958 Gli interna-zionalisti: la banda del Matese di PierCarlo Masini ed altri volumi di notevo-le importanza come Idee sociali e orga-nizzazione operaia nella prima metàdell’800 di Carlo Francovich, Il ’98. Lacrisi politica di fine secolo di RaffaeleColapietra, La costruzione del Partito so-cialista italiano e Né aderire né sabota-re di LuigiAmbrosoli, Il Diciannovismodi Pietro Nenni e, in ultimo, La Resi-stenza armata di Renato Carli Ballola. Ilminimo comune denominatore di operecosì differenti tra loro era uno soltanto:dar vita ad una storia completa e popo-lare – che parte dunque dal basso – delmovimento operaio in forma espositivaed esaustiva, al fine di integrare le ricer-che parziali e specialistiche che già era-no presenti nella pubblicista dell’epoca.Al di là di tali volumi, bene ha fatto l’au-tore, attraverso il paragrafo Una storiasocialista per una biblioteca socialista,a sottolineare l’importanza della Storiadell’Avanti! di Gaetano Arfè inseritonella collana “Biblioteca socialista”: in-fatti quest’opera, pubblicata nel 1956, siinseriva perfettamente nella rivalutazio-

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ne della tradizione riformista e della fi-gura di Turati ai fini della svolta auto-nomistica del partito socialista. Tuttaviail nuovo clima della destalinizzazione seda un lato induceva la casa editrice di Bo-sio ad approntare gli strumenti teorici ne-cessari per la nuova stagione, dall’altrosi dichiarava favorevole, tramite la ri-stampa del Resoconto stenografico delXVII congresso nazionale del PSI, Li-vorno, 15-20 gennaio 1921, ad un nuo-vo rapporto tra socialisti e comunisti chesuperasse le diffidenze successive allaconclusione delle esperienze del fronteunitario. La volontà di illustrare al gran-de pubblico le basi teoriche della dottri-na socialista è la motivazione che spin-se le Edizioni Avanti!, nella prima metàdegli anni sessanta, a stampare i classi-ci del pensiero marxista, quali In memo-ria del Manifesto dei comunisti di Artu-ro Labriola, L’evoluzione del socialismodall’utopia alla scienza di Friedrich En-gels, ed una raccolta di scritti di Rosa Lu-xemburg. Anche se questo interesse co-

sì marcato nei confronti della produzio-ne teorica marxista può apparire non at-tuale nella stagione del centrosinistra, es-so dimostra, come puntualizza Menca-relli, un chiaro dissenso nei confronti del-la politica di Nenni del gruppo redazio-nale, schierato politicamente sull’ala piùa sinistra del PSI.Ma lo studio dell’intero universo socia-lista non poteva rappresentare l’unica fi-nalità della casa editrice: Bosio decise in-fatti di dedicare una specifica collana al-le problematiche della gente comune, eun’altra per illustrare gli scompensi pro-vocati dal cosiddetto “boom economico”.Al fine di analizzare quest’ultimo aspet-to la casa editrice diede vita a propostefortemente innovative come la collana Lacondizione operaia – incentrata sull’a-nalisi delle trasformazioni sociali pro-vocate dallo sviluppo produttivo sullaquotidianità delle classi lavoratrici – ocome l’Universale ragazzi, che nacqueinvece come risposta in chiave pedago-gica alla società del benessere grazie al-

l’incontro tra esperienze culturali di ba-se e una nuova leva di educatori e inse-gnanti molto sensibili alle sfide della sco-larizzazione di massa. Se lavori comeFiat confino. Storia della OSR di ArisAccornero, I quaderni di Piadena a cu-ra di Mario Lodi e Giuseppe Morandi,oppureMiracolo all’italiana di GiorgioBocca illustrano con la giusta schiettez-za la condizione degli strati più disagia-ti della popolazione, i volumi di MarioLodi Cipì e Il soldatino del Pim-Pum-Pàsembrano gli strumenti necessari perfornire lo svago necessario ai giovani fi-gli del proletariato.Il catalogo della casa editrice – e qui staun altro aspetto originale del lavoro diBosio giustamente sottolineato dall’au-tore – venne ulteriormente arricchitoanche in campo musicale. Grazie aglistudi di Roberto Leydi, che si avvalse inquesto caso della collaborazione di Tul-lio Kezich, la collana Il Gallo poté pub-blicare, nel 1954, il volume Ascolta Mi-ster Bilbo!, ovvero una raccolta di canti

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di protesta statunitensi. L’interesse ver-so il mondo discografico, influenzata dalsempre presente Bosio, non si fermò cer-to qui, poiché nel 1960 le Edizioni Avan-ti! fecero uscire I canti della Resistenzaitaliana curati dal duo Tito Romano –Giorgio Solza. Come osservato da Men-carelli, l’attenzione per il canto sociale fuun’esperienza assolutamente pionieri-stica per la realtà italiana, e il gruppo diBosio fu senz’altro all’avanguardia anchein questo settore. Tuttavia l’esperienzamaggiormente caratterizzante fu sen-z’altro la collana Il Gallo, cui l’autore de-cide di riservare il secondo capitolo. Amio avviso è una scelta corretta, proprioperché Bosio e i suoi collaboratori dedi-carono anima e corpo a questo nuovoprogetto editoriale che avrebbe dovuto,per lo meno nelle intenzioni iniziali, da-re vita ad una particolare forma di neo-realismo, con l’obiettivo di disegnare di-versi spaccati della realtà quotidianadelle classi più popolari proprio come av-viene in Vita da Tobia, come vissuta daun facchino assai povero, assai solo, as-sai resistente e da me di Luciano DellaMea oppure in Giovannino e Pulcerosadi Giovanni Pirelli.Dal momento che l’intero catalogo de IlGallo non è riconducibile esclusiva-

mente a opere di carattere neorealista,l’autore mette l’accento sul fatto che fugrazie a questa collana se vennero im-portati in Italia autori del calibro di Ber-told Brecht per il teatro e non solo, Na-zim Hikmet per quanto riguarda la poe-sia, così come Ernesto Che Guevara checon il suo Guerra per bande apriva unosguardo sulle guerre di liberazione nel-l’America Latina. La traduzione prima ela pubblicazione poi delle fatiche diBrecht e di Hikmet fu senz’altro una fe-lice intuizione per la piccola casa editri-ce, in quanto dimostrava l’attenzionedel gruppo di Bosio nei confronti di unambito troppo spesso sottovalutato dal-l’editoria vicina al movimento operaio,quello della poesia, paragonata da Bosioal “superfluo necessario” perché rappre-sentava la misura di una buona civiltà. Sesi guarda alle diecimila copie vendutedall’antologia di Brecht, curata dal ger-manista Roberto Fertonani (Io, BertoldBrecht. Canzoni, ballate e poesie), op-pure alle ottomila della raccolta di Hik-met, a cura di Franco De Poli (Poesie),si capisce il merito delle Edizioni Avan-ti! nell’aver reso disponibili due raccol-te che avrebbero influenzato significati-vamente la nostra cultura letteraria.In ultimo Il Gallo ebbe anche le caratte-

ristiche di una collana attenta alle que-stioni dell’antifascismo e della resisten-za, fondamentali per la costruzione del-l’identità culturale socialista nel secondodopoguerra. Nel giro di pochi anni, dal1953 al 1955, diede alle stampe Il mag-giore è un rosso di Francesco Fausto Nit-ti, Si fa presto a dire fame di Piero Caleffie Terza Liceo 1939 di Marcella Olschki,che suscitarono un notevole impatto pres-so la critica e il pubblico. Successiva-mente Bosio decise di virare verso la me-morialistica: in questo senso, come èben chiarito da Mencarelli, sono da in-terpretare la pubblicazione, nel 1957, diMarcia su Roma e dintorni di Emilio Lus-su, oppure del lavoro di Quinto Martini Igiorni sono lunghi, stampato nel 1955 inoccasione del decennale della Resistenza.Anche in questo campo Bosio fu precur-sore dei tempi: come giustamente osser-va l’autore, il lavoro A Genova non sipassa, pubblicato nel 1960 con l’autore-vole prefazione di Sandro Pertini, rap-presenta, de facto, un antesignano degliodierni istant-book giornalistici.

PAOLO MENCARELLI, Libro e mondopopolare. Le Edizioni Avanti! di GianniBosio 1953-1964, Biblion edizioni, Milano,2011, pp. 221.

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>>>> Fabio Gasparri

L’emozione dello sguardo

LaNikon F mi accompagnava ancor prima di diventare ar-chitetto, quindi ho costruito le mie città con le immagi-

ni fotografiche come sguardi flaneur, attraversamenti mne-monici, visioni baudelariane. Ametà degli anni ’80, a seguitodell’incontro con Federica Di Castro, che curò le prime mo-stre alla mitica Librogalleria Ferro di Cavallo di Roma, ini-ziai una ricerca che avrebbe coinvolto anche le mie curiosi-tà artistiche e letterarie: quindi i volti del Pollaiolo, del Bron-zino, e le strade di Jack Kerouac in giro tra suburbi giappo-nesi, londinesi o romani. Negli anni ‘90 partecipai a nume-rose esposizioni personali e collettive a Roma ed in giro perl’Italia, incontrando vari artisti con i quali mi legavano cu-riosità urbane ed architettoniche (Serafino Amato, Gea Ca-solaro, Franco Mapelli, MarcoAmorini, Guido Schermi, Oli-vo Barbieri, Vincenzo Castella) o culturali (Mauricio Lupi-ni, Alessandro Rivola, Werther Germondari, Marco Delogu,Luisa Lambri, Turi Rapisarda).In quegli anni i critici d’arte emergenti - come Viviana Gra-vano, Lucilla Meloni, Claudia Colasanti, Ludovico Pratesi, Lui-sa De Marinis, Francesca Capriccioli - si interessarono alle mieopere, per lo più costituite da scatti seriali di fotografie che rac-contavano l’emozione dello sguardo fugace e prospettico di unametropoli infinita e avvolgente. Giuseppe Cannilla scriveva:“I panorami giapponesi, gli incroci delle strade di New York,Barcellona, Chicago mostrano la città nella sua più disarmanteevidenza ma ne cambiano sfacciatamente identità solo attra-verso la fotografia.”Nel 2002, nello spazio romano di Edo City a Piazza del Pa-radiso, organizzai con Cannilla la prima mostra de La nuo-va fotografia figurativa, incentrata sul recupero di una pos-sibilità formativa dello sguardo e di un’identità forte del-l’autore. La rassegna, arrivata alla sua decima edizione, haospitato molti fotografi e artisti: tra i curatori: Emanuela No-bile Mino, Sabrina Vedovotto; tra i fotografi Hiromi Hoso-kawa, Natalie Perissè, Donatella Di Cicco, Ugo Piergiovan-ni, Giampaolo Conti, Stefano D’Amadio; tra gli artisti Pie-ro Mottola, Anna Sacconi.Sinfonia di una città, opera filmica del regista tedesco Wal-

ter Ruttmann, divenne la traccia di un pensiero più che di unosguardo, e da lì iniziarono a risuonare le parole di Benjamin,Rilke, le visioni di Sironi, Pollock, le rime di Eliot, Rimbaud,e presero vita le strutture della metropoli, la presenza del-l’essere umano nello spazio, il rapporto tra le forme e il luo-go. Queste idee erano rappresentate dalle fotografie che pre-sentai nel 2006 nella mostra La Musa Ingannatrice di Lame-zia Terme, rielaborata nel 2007 alla galleria Luigi Di Sarro diRoma, evento che contribuì ad approfondire la storia della fo-tografia in ambito romano, mettendo a confronto due gene-razioni di artisti che, tra gli anni 60-’70 (Innocente, Mambor,Patella, Pucci) e gli anni ’90 (Causati, Germondari, Lupini),avevano riflettuto sul “bisogno di immagini” attraverso l’u-so della fotografia.


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