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Date post: | 05-Dec-2014 |
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Corso di laurea specialistica inSociologia e Ricerca Sociale
Anno Accademico 2007-2008
Sociologia (B) – Teorie sociologiche contemporanee [35306]prof. Enzo Rutigliano, dott. Domenico Tosini
La ribellione delle massedi José Ortega y Gasset
Relazione del testo
Lorenzo Ruzzene [128048]
José Ortega y Gasset (1883-1955) è un intellettuale spagnolo che ha contribuito
fortemente al rinnovamento culturale e politico del proprio paese. Il padre è stato
proprietario e fondatore del quotidiano «El imparcial», e per questo diceva di “essere nato
su una rotativa”. La sua opera «sterminata», come si suol dire in questi casi, deve molto ai
suoi studi in Germania presso la scuola marburghese; su di lui sì è espresso anche
Camus, che l'ha definito “il più grande scrittore europeo dopo Nietzsche”. Conosciuto
anche per essere un saggista eccezionale e per il suo impegno nel laicizzare la Spagna (è
giustamente considerato uno dei fondatori della seconda Repubblica spagnola), è
emigrato da essa nel corso della guerra civile, nella quale non aveva preso posizione per
nessuna delle due parti. Senza aver mai espresso alcuna forma di adesione verso i
detentori del potere, passa gli ultimi suoi anni in madrepatria con il seguito di pochi
discepoli. Dopo il ritorno in Spagna è stato infatti allontanato dalle cattedre universitarie e
dalla vita pubblica. Tuttavia il suo funerale radunò un cospicuo numero di partecipanti,
nonostante la notizia della sua scomparsa è stata fatta mettere in senso piano dal regime
franchista.
La ribellione delle masse è forse l'opera più celebre di Ortega y Gasset. Nata da una serie
di articoli scritti per un giornale spagnolo nella fine degli anni Venti, viene pubblicata in
Spagna nel 1930. Definita dall'Atlantic Monthly "quello che il Contratto sociale di
Rousseau fu per il XVIII secolo e il Capitale di Karl Marx per il XIX, La ribellione delle
masse di Ortega dovrebbe esserlo per il XX secolo", in essa vi è annunciato l'avvento
della società di massa come ribellione e la decadenza della cultura come conseguenza.
All'opera sono rimasti aggregati due scritti posteriori. Si tratta del «Prologo per i francesi»
e dell'«Epilogo per gli inglesi», redatti rispettivamente nel 1937 e nel 1938. Tali scritti
avevano lo scopo di accompagnare le traduzioni del testo alla luce degli eventi avvenuti in
quegli anni, tra cui soprattutto la guerra civile spagnola, che come già detto portò Ortega
a lasciare il suo paese. Esisteva anche un «Prologo para alemanes», che tuttavia non è
stato pubblicato per volontà dell'autore, in segno di protesta alle «notte dei lunghi
coltelli»; in Italia invece l'opera comparirà nell'immediato dopoguerra.
L'opera è divisa in due parti suddivise in brevi capitoli, che mantengono l'impostazione
della pubblicazione originaria. Ortega intitola il primo capitolo «Il fenomeno
dell'agglomeramento», e in esso inizia ad esporre la sua tesi constatando quanto sia
evidente che negli ultimi decenni i luoghi originariamente concepiti per ospitare una
minoranza di individui, siano ora «pieni», in essi è difficile anche il solo trovar posto. La
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massa, la moltitudine, prima collocata nelle campagne è ora confluita nelle città, e si sta
impossessando dei luoghi e dei mezzi creati dalla civiltà. La «massa» però non si deve
intendere come un sinonimo di classe operaia; è piuttosto necessario osservare come la
società sia sempre stata composta da minoranze, gli individui più qualificati, e le masse
composte dai non qualificati, dall'uomo medio che per l'appunto non si differenzia dagli
altri uomini. L'attenzione è sugli individui che si separano dalla moltitudine per motivi
particolari, che esigono qualcosa di speciale, che si orientano in base a un fine superiore.
Ortega dirige invece la sua riprovazione verso chi si sente a suo agio nel riconoscersi
uguale agli altri e che non prova umiltà per il suo essere inferiore, individui che non
esigono nulla di più da sé stessi. Si tratta perciò anche di una differenza di tipo
qualitativo, che non impedisce a un operaio di non far parte della massa, e a un nobile
invece di farne parte. Tale flagello è presente in tutti i campi, anche quello intellettuale. La
massa ha soppiantato le minoranze, e vuole godere dei piaceri che prima erano riservati
ai pochi. L'autore non nega che possano esserci dei risvolti positivi in questo
miglioramento della condizione di vita. Il problema consiste però nel fatto che se in
precedenza le minoranze rispettavano una serie di doveri per poter godere di particolari
benefici, le masse ora non si sentono obbligate verso niente e nessuno, e ritengono di
poter imporre i loro (non qualificati) punti di vista. Senza la necessità di inventare nuovi
termini, la si può definire «volgarità», della quale le masse hanno la presunzione di
affermarne il diritto e imporlo ovunque. Da qui il centro del problema, che mai così
nettamente si è verificato nel corso della storia: le masse non sono in grado di dirigere la
propria esistenza, e l'Europa sta per questo attraversando una terribile crisi.
Nel secondo capitolo, «L'ascesa del livello storico», Ortega inizia ad approfondire le
origini della crisi, non limitandosi all'aspetto esteriore. Ogni società umana è aristocratica
(e cessa di esserlo non appena si «disaristocratizza»), ma per aristocrazia si deve
intendere un gruppo di individui che sente la vocazione di guidare la società, non quelle
nobiltà che si considerano «la società» e non fanno altro che autocompiacersi. In questo
periodo storico però si è verificato un rapido aumento del livello di vita, che mediamente è
molto più elevato del passato. L'uomo medio è più sicuro di sé, è sempre più «signore»,
e per questo reclama tutti i godimenti, si nega ad ogni forma di servitù. Oltre che
un'ascesa è perciò anche un livellamento, dove molti hanno maggiori possibilità e vitalità,
sia all'interno del continente che tra l'America e l'Europa.
Nel terzo capitolo, «L'altezza dei tempi», si vede che ci sono state varie epoche della
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storia che si sono sentite elevate a un'altezza piena, come se fosse definitiva. Anche
l'inizio del XX secolo era caratterizzato da questo, e Ortega mette all'erta da questa
sensazione, in quanto la pienezza autentica non consiste nel traguardo e nella
soddisfazione, in quanto non si è più in grado di rinnovare i propri desideri. Non per
niente quest'epoca si definisce «moderna», considerando le precedenti semplice passato
rispetto al suo carattere ultimo e definitivo. Questa fede è però scomparsa, lasciando
quell'euforia che provano i bambini scappati da scuola, quella sensazione di
imprevedibile che Ortega considera autentica pienezza di vita. Oltre al fatto che in quegli
anni, la vita non preferisce a sé stessa nessuna di quelle trascorse, considerandosi
preferibile ad esse. Si considera «più vita» di quelle antiche, in contrasto con quanti
sostenevano, senza precisarne le cause, l'imminente declino dell'Occidente. È dunque
una situazione ambivalente: un'epoca che crede di essere più delle altre e
contemporaneamente si crede come un inizio. Ortega sintetizza questa condizione con
l'espressione “più degli altri tempi e inferiore a sé stessa”, in quanto forte e orgogliosa,
ma poco sicura del suo destino e intimorita dalle sue stesse forze.
Il quarto capitolo, «L'aumento della vita», tratta dell'accresciuta prossimità con chi sta
lontano fornita dai mezzi di comunicazione. Viene esaminata inoltre l'estensione del
mercato, e le incredibili possibilità di scelta che ha l'uomo moderno rispetto alle epoche
passate. Per questo, il contenuto della vita dell'uomo medio è il mondo intero, ovvero una
numerosa serie di possibilità, di «circostanze» superiore a quello di tutti i tempi. Oltre alle
cause suddette, anche i progressi scientifici portano a questa sensazione di strapotenza.
Eppure, nonostante questa potenzialità, l'epoca in cui scrive Ortega si sente decaduta, sa
di poter realizzare molto, ma non sa dove direzionare questa potenza. Questo non
significa già essere in decadenza, quel che conta è il solo fatto di presumerlo, di
considerarlo possibile. Questa situazione si deve alla diserzione delle masse direttrici, che
non si sono preoccupate del futuro in quanto futuriste, non si attendevano null'altro che il
presente. In questo si sostanzia la mancanza di progetti e ideali che non possono
orientarsi in base al passato e che è l'altra faccia della ribellione delle masse.
Nel quinto capitolo, «Un dato statistico», questa problematica viene ripresa, ricordando
come in ogni società il modo effettivo di ogni esistenza collettiva viene deciso dal tipo
d'uomo dominante in quella società. Negli anni in cui scrive Ortega l'uomo dominante è
l'uomo-massa. Non si tratta di un problema nato dalla democrazia liberale. dove
comunque la decisione riguardava l'adesione o meno ad un programma, ovvero una
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risoluzione posta dalle minoranze. Il potere, quando viene esercitato direttamente dalle
masse è sia onnipotente che effimero. Non avendo un programma, non costruiscono,
anche se dotate di potere e di possibilità straordinarie. Ortega successivamente spiega
da dove provengono le “traboccanti moltitudini” del suo presente, e lo fa con un dato
tanto semplice quanto poco, a suo dire, considerato: dal 1800 al 1914 la popolazione
europea è passata da 180 a 460 milioni di abitanti. Un vertiginoso aumento avvenuto in
tre generazioni, che pone in rilievo le difficoltà affrontate nel cercare di saturarli della
cultura tradizionale. L'uomo-massa possiede un'anima sana e forte, ma più semplice di
quelle del passato, in quanto le scuole non hanno potuto far altro che fornirgli gli
strumenti per vivere intensamente la vita moderna ma non i doveri storici, lo spirito che
precede l'epoca moderna. Questo li porta a rifuggire dalle tracce antiche, a non vedere
problemi tradizionali e complessi. Questo però non significa che Ortega ripudi il suo
tempo. Anzi, riconosce che la democrazia liberale e la tecnica (e quindi anche la scienza)
è il migliore tipo di vita pubblica, solo che è necessario riformulare i connotati di quei due
fattori, che hanno portato alla triplicazione della popolazione europea. Se questo non sarà
possibile, se l'uomo-massa continuerà ad essere padroneggiare in Europa, in pochi
decenni è prevedibile la scomparsa delle regole giuridiche e meccaniche sedimentate nel
passato. In pratica un ritorno alla barbarie, o detto citando Rathenau “l'invasione verticale
dei barbari”.
Nel sesto capitolo, «Comincia la vivisezione dell'uomo-massa», Ortega osserva come la
produzione di questo tipo d'uomo sia da ricondurre ai due secoli precedenti la sua
comparsa, e che essa era stata profetizzata da Hegel, da Comte e Nietzsche. Prosegue
cercando di inquadrare che tipo di vita si prospetta all'uomo-massa. Prima di tutto
un'illimitata facilità materiale, un'esistenza confortevole e priva di pericoli. Senza
impedimenti insomma, a differenza delle epoche passate in cui per l'uomo comune la vita
era solo un cumulo di difficoltà e sofferenze. Si badi inoltre che tale situazione era simile
anche per le classi agiate, che rispetto all'epoca moderna conducevano una vita misera.
Questo non succede solo nella condizione economica, ma anche sul piano civile e
morale, in quanto sin dalla nascita il tipo d'uomo medio apprende che tutti gli uomini
sono uguali davanti alla legge (ovvero i diritti civili). Come già detto, la democrazia liberale
e la tecnica (intesa come scienza sperimentale e industrializzazione) producono questo
«uomo nuovo», per il quale il mondo che lo circonda sin dalla nascita non li limita in nulla,
anzi lo stimola ad avere e soddisfare i suoi appetiti. Lo convince del fatto che in futuro
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sarà ancora più ricco e più perfetto, come se il suo accrescimento possa essere
inesauribile. Inoltre l'uomo-massa non pensa agli sforzi compiuti dagli “individui
eccezionali” del passato che gli permettono questo mondo così tecnologicamente e
socialmente avanzato. Li considera come naturali, e non bada al fatto che anche nel
presente quelle comodità continuano a fondarsi sulle virtù di pochi uomini. Quindi:
desideri infiniti e ingratitudine verso chi si è prodigato per lui. Proprio come un «bimbo
viziato», che non sente nessun dovere nei confronti di chi gli facilita l'esistenza, perché
nessuno (le minoranze) glielo impone. La perfezione con cui nel XIX secolo si è
organizzata la vita sociale porta gli uomini del secolo successivo a darla per scontata, ad
reclamare solamente diritti, e a non essere disposti ad alcun dovere.
Il settimo capitolo, «Vita nobile e vita volgare, o forza e inerzia», approfondisce la
questione del capitolo precedente. L'uomo-massa è abituato a non appellarsi più a
nessuna istanza esterna, è soddisfatto di sé, e darà per buono le opinioni, le ambizioni, le
preferenze e i gusti che già trova nella propria testa. Contrariamente a questo si pensa è
nobile colui che disprezza ciò che trova nella sua mente ed esige un nuovo sforzo per
raggiungere chi è superiore a lui. In realtà è quest'uomo eletto a vivere in essenziale
servitù, in quanto si pone al servizio di qualcosa di trascendente, ed è disposto a
riconquistare i suoi privilegi se li ha perduti. L'uomo-massa invece se li vede riconosciuti
in forma passiva, senza alcuno sforzo. Questo lo si nota soprattutto nel modificato
significato del termine «nobiltà», che ha assunto la forma di solo beneficio acquisito
ereditariamente, invece che di vita coraggiosa, tesa a raggiungere quel che si propone
come dovere. L'uomo-massa non è tale perché appartiene alla moltitudine, quanto
piuttosto perché conduce un'esistenza inerte e chiusa in sé stessa, ed esige privilegi che
non merita. Nel XIX secolo, nel produrre l'uomo nuovo, sono stati posti in esso formidabili
appetiti e potenti mezzi per realizzarli: economici, civili, tecnici e sanitari. Ma dopo l'uomo
è stato abbandonato a sé stesso, ed è diventato indocile. La civiltà moderna richiede
però un impegno superiore per essere governata, e non può essere lasciata in mano a
persone con scarsa sensibilità per il passato, per le origini che l'hanno determinata.
Nell'ottavo capitolo, «Perché le masse intervengono in ogni cosa e perché intervengono
solo violentemente«, Ortega prosegue l'analisi dell'uomo-massa, affermando che anche
se possiede maggiori capacità intellettive di qualunque altro nel passato, esse non gli
servono a nulla, in quanto la percezione di possederle lo fa chiudere in sé stesso e non
usarle. È ottuso, in quanto si ritiene avveduto ma non lo è, al contrario del perspicace che
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sa quando sta per sbagliare e cerca di rifuggire dall'errore. Non dubita mai della sua
pienezza, ritiene che le sue idee gli siano sufficienti e non considera nulla al di fuori di sé,
senza mai trasferirsi nell'ambito del prossimo. Luoghi comuni, pregiudizi e parvenze
d'idee: l'uomo comune cercherà di imporli ovunque. Perciò il problema non è tanto che
egli sia volgare, ma piuttosto che cercherà di imporre ovunque questa volgarità, come se
fosse un diritto. Anche in politica, dove fino a prima mai le masse avevano messo sullo
stesso piano le loro idee e quelle dei politici esperti sulle questioni, permettendosi quindi
di giudicarle. Questo non può essere positivo, perché le masse non hanno vere «idee», in
quanto non accettano le regole con cui esse si raggiungono ed impongono. Non si tratta
di cultura ma di barbarie, questo è il risultato della ribellione delle masse in Europa. Lo si
può notare in due fenomeni che stanno emergendo in quegli anni, il sindacalismo e il
fascismo, formati da uomini che non vogliono dar ragione, né vogliono averla. Solo
imporre con risolutezza le proprie opinioni, senza accettare la discussione, intervenendo
nella vita pubblica con l'«azione diretta». Con la violenza insomma, che di per sé non è
una novità tra gli esseri umani, anzi viene proprio definita ultima ratio. Solo che l'uomo-
massa la pone prima ragione, non come ultima risorsa, sopprimendo ogni forma
intermediata tra proposito e realizzazione. Le masse si sono sempre comportate così,
evitando la buona educazione e la volontà di convivenza. La democrazia liberale, osserva
invece Ortega, è proprio tutto l'opposto: ha rappresentato in politica la più alta volontà di
convivenza, in quanto cerca di non far opprimere la minoranze dalla maggioranza, è il
prototipo dell'azione indiretta. Consente al nemico di sopravvivere e cerca di convivere
con esso, un principio tanto splendido quanto innaturale, e che negli anni in cui scrive
Ortega è pressoché svanito, dato che le masse non consentono la convivenza con ciò
che non si identifica con loro.
Il nono capitolo, «Primitivismo e tecnica», inizia con l'osservazione che la ribellione delle
masse presenta contemporaneamente potenzialità positive e negative. Essa può portare
sia ad una nuova ed impareggiabile organizzazione dell'umanità, oppure essere una
catastrofe di grandi dimensioni. Questo perché Ortega non ritiene che esista solo il
progresso, ma la storia può avere anche percorsi regressivi. L'analisi quindi si sposta sulla
mancanza d'interesse nei confronti dei principi della civiltà: l'uomo-massa si interessa
solo dei prodotti nati da essa, testimoniato dallo scarso interesse che hanno i giovani
nell'intraprendere nel settore scientifico, benché beneficino delle scoperte provenienti da
quel campo. Tutto avviene perché l'uomo dominante è un primitivo, che vive in un mondo
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civilizzato senza però accorgersi con entusiasmo della civiltà, considerandola come lo
stato naturale delle cose. Questo è grave, se i tratti salienti del XIX secolo, erano la
democrazia liberale e la tecnica. Difficilmente la scienza può non solo proseguire, ma
anche solamente mantenere la sua condizione, se i contemporanei non ne sono
interessati, in quanto non si tratta di un mantenimento prettamente economico. La gravità
del fatto è peggiorata del fatto che il benessere dell'uomo comune è derivato proprio dal
lavoro che non ritiene degno d'attenzione, e senza la scienza non potrebbe proseguire in
tal modo la sua esistenza. La sproporzione tra il profitto che l'uomo medio riceve dalla
scienza e il riconoscimento che manifesta verso di essa è un fenomeno meno
appariscente di altri che affliggono il secolo, ma proprio per questo è per l'autore ben più
pericoloso.
Il decimo capitolo, «Primitivismo e storia», prosegue il ragionamento, evidenziando che
decresce di continuo il numero di persone all'altezza dei problemi complessi da affrontare
nel mondo contemporaneo. I mezzi sarebbero anche presenti, ma l'uomo dominante non
intende porsi al loro servizio. Le stesse persone relativamente più colte affrontano
questioni complesse con strumenti inadeguati, perché obsoleti e troppo semplici, in
quanto concepiti duecento anni prima. Siccome maggiore il progresso, maggiore è il
pericolo che reca con sé, è necessario possedere un bagaglio più ampio possibile, ovvero
quanta più esperienza, quanta più «storia» possibile. Il sapere storico difficilmente offre
soluzioni positive, ma è fondamentale per evitare di ripetere errori già commessi. Come si
è detto, questo riguarda anche le persone più colte e coloro i dirigono l'Europa, che per
Ortega conoscono la storia molto meno rispetto ai loro pari dei secoli passati. Questa
mancanza o dimenticanza è ben espressa nel bolscevismo e nel fascismo, esempi di
regressione sostanziale. Non tanto per i contenuti delle dottrine, ma piuttosto perché
antistorici, anacronistici, diretti da uomini-massa senza memoria e quindi coscienza
storica. La Rivoluzione russa ad esempio, è come tutte le precedenti rivoluzioni, non
manca degli stessi difetti ed errori di quelle che l'hanno preceduta. In essa si è ripetuto il
«luogo comune» che vede il nascere in un partito moderato, il passaggio di mano agli
estremisti ed in seguito la restaurazione; in sostanza una «rivoluzione» non dura più di
quindici anni. Bolscevismo e fascismo non affrontano in realtà il passato, operano in un
modo pienamente rintracciabile nella storia umana, e non cercano di assimilarlo. La loro
opposizione è solo un vuoto rifiuto che fa retrocedere la storia a quando il liberalismo a
cui si oppongono non esisteva. In quanto se ci si oppone al passato esso ritorna, e non
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resta altro che fare i conti con esso, superarlo per evitarlo. La salvezza dell'Europa sta in
individui realmente «contemporanei», dotati di senso storico e conoscitori dell'altezza di
vita del tempo, cosicché da respingere queste manifestazioni primitive.
Nell'undicesimo capitolo, «L'epoca del “signorino soddisfatto”», Ortega spiega che la vita
in un mondo opulento non è necessariamente di maggiore qualità rispetto a quella
presente quando essa lotta contro la penuria. A dimostrazione porta l'aristocrazia
ereditaria, dove il discendente del nobile non può far altro che rappresentarlo, non
essendo sé stesso, atrofizzando la sua esistenza non dovendo lottare per conquistare
una posizione. Questo è lo anche lo stato dell'uomo-massa, che ha a sua disposizione
strumenti prodigiosi, medicinali efficaci, uno Stato previdente e diritti passivi. Ma non si
rende conto degli sforzi compiuti per poter ottenere questi privilegi, di quanto possano
essere instabili. Perciò perde il contatto con la sostanza stessa della vita, diventando un
«signorino soddisfatto», che vive solo per compiere ciò che più lo aggrada, e come se
fosse protetto da una famiglia (o una nazione) che prenderà le sue difese, compierà ogni
gesto sicuro dell'impunità. Non è possibile rifuggire dal proprio destino, e per ogni
europeo questo consiste nel proseguire la strada intrapresa dal liberalismo, che volente o
meno possiede dentro sé, ne è già intriso. Non è possibile discutere il destino, o si
accetta o si rifiuta. Nel primo caso si è autentici, nel secondo si è la falsificazione di sé
stessi. Il «signorino soddisfatto» è consapevole di questo, anche se finge il contrario con i
suoi gesti e nei suoi discorsi. Come il fascista che si oppone alla libertà politica sapendo
che non potrà venire meno, perché insita nella cultura europea. Un tipo d'uomo che
compie non agisce in atti irrevocabili, ma ritiene che dalle sue «monellerie» sarà
comunque salvato, e quindi gioca (e quindi senza serietà) alla tragedia. Si tratta di un
fenomeno già avvenuto nella storia, con la comparsa della figura del cinico, colui che non
credeva in nulla e non faceva nulla, parassita in una società che tenta di distruggere
sapendo che essa non verrà mai meno.
Nel dodicesimo capitolo, «La barbarie dello “specialismo”», l'autore si concentra sulla
scienza sperimentale. L'uomo di scienza è in quel momento ai vertici della piramide
sociale, ma questo non gli impedisce di essere il prototipo dell'uomo-massa, perché la
scienza stessa lo trasforma in tal senso. I progressi scientifici richiedono specializzazione,
che equivale a ridurre il suo ambito di ricerca, perdendo il contatto con gli altri campi, e
dunque non considera un'interpretazione complessiva del mondo. Nel suo settore
specifico applica metodi come una macchina, senza la necessità di possedere idee
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articolate sul metodo con cui si studia un fenomeno. La sua ignoranza nei confronti della
cultura e della civiltà europea non gli nega però di esprimersi su tematiche generali,
ritenendosi competente ad esprimere opinioni in quanto «esperto», anche se lo è solo del
suo campo. Dovrebbe essere il contrario dell'uomo comune, ma si comporta proprio
come lui, senza qualità e il bisogno di ascoltare istanze superiori. Senza una nuova
generazione di scienziati che si prenda carico il problema di considerare le basi storiche
delle sue ricerche, la scienza è destinata a scomparire.
Il tredicesimo capitolo, «Il maggior pericolo: lo Stato», conclude la prima parte del testo.
Riprendendo quella che considera una legge di «fisica» sociale, Ortega ricorda che le
masse hanno bisogno di una guida, un'istanza superiore, e solo gli uomini eletti possono
ritrovarla in sé stessi. Se le masse non sottostanno a questo principio, si ribellano al loro
destino, e l'unico modo in cui possono agire autonomamente è il linciaggio. Non per nulla
in questo momento in cui trionfano, regna la violenza con unica ratio. Il pericolo maggiore
per la civiltà europea è nato da essa stessa, ed è lo Stato, minacciato come la scienza
dalla specializzazione che rischia di soffocarlo. Mentre Ortega scrive lo Stato è una
macchina prodigiosa, e qualsiasi difficoltà si verifichi, l'uomo-massa si attenderà che esso
se ne incarichi direttamente, per risolverlo con i suoi potenti mezzi. Ciò porta
all'assorbimento di ogni spontaneità sociale, che per sua natura nutre il destino degli
uomini. La società si riduce così a vivere per lo Stato, creato da essa per poter vivere
meglio, ma che poi prende il sopravvento. Il popolo si trasforma in «carne» che fa da
nutrimento a quella macchina formidabile, e la formula mussoliniana “Tutto per lo Stato;
nulla al di fuori dello Stato; nulla contro lo Stato” è sufficiente ad individuare nel fascismo
un tipico movimento dell'uomo-massa. Lo Stato in cui opera è costruito dal liberalismo,
che egli combatte, ma risultati conseguiti sono squilibrati rispetto ai poteri che può ora
esercitare il suo movimento. Le masse agiscono autonomamente attraverso e per mezzo
dello Stato, ovvero la forma superiore che assumono la violenza e l'azione diventate
norma. L'indipendenza dell'individuo sarebbe fondamentale per risolvere i problemi
europei, ma l'aumento, in tutti i paesi, delle forze di polizia minaccia l'avvenire.
L'incremento sociale richiede un incremento delle forze di polizia, che finiranno per
decidere loro stesse l'ordine da imporre, non le masse, e sarà quello che a loro
maggiormente converrà. In questo si vede la superiorità degli inglese, spesso ribadita da
Ortega nel testo, che preferiscono porre dei limiti allo Stato, piuttosto che pagare le
conseguenze di ciò che porterebbe una forza di polizia perfettamente funzionante.
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La seconda parte prende il via con il quattordicesimo capitolo, «Chi comanda nel
mondo?», completa le prospettive con cui Ortega analizza la ribellione delle masse.
Precisando che «comandare» non significa apporre violenza, e che anzi il potere è più
efficace quando la adopera il meno possibile, l'autore si domanda chi ora comandi nel
mondo, se come dicono in molti l'Europa non è più in grado di farlo, e dunque quale
sistema di opinioni, idee e propositi predomini nei popoli del pianeta. Il problema non è
tanto che l'Europa non domini più, piuttosto il fatto che non sia più sicura di farlo e di
poter continuare in questo modo. Di conseguenza anche gli altri popoli della terra non
sanno se sono comandati da qualcuno, e si comportano come i ragazzini a scuola
quando il maestro si allontana, ovvero sono trainati da un'euforia puerile incapace di
produrre nulla di sostanzioso. Niente di diverso dal folto panorama di nazionalismi che si
presenta in quegli anni, che in aggregato si comportano come l'uomo-massa, che in
quanto si sente volgare, proclama il diritto ad esserlo e dunque non riconosce istanze
superiori. Popoli-massa che pretendono di dare una lezione all'Europa, convinti di essere
alla pari con i grandi popoli creatori, e di poter non considerare le norme che l'Europa
aveva creato nel corso dei secoli. Questo è il prodotto della mancanza, reale o presunta,
di una guida, che a breve sarà invocata alla ricerca di qualcuno che imponga un compito,
un impegno. Né gli Stati Uniti d'America e né l'Unione Sovietica sono ora in grado di
assolvere questo compito. Entrambi sono popoli nuovi e senza idee, che si nascondono
dietro il camuffamento fornito da principi provenienti dall'Europa. La decadenza è
piuttosto evitabile grazie alla nascita degli Stati Uniti d'Europa, che permetterebbero ad
essa di tornare al suo destino, ad essere nuovamente sé stessa. In questi anni ha infatti
abdicato al suo compito, lasciando i popoli del mondo smarriti, i quali hanno inventato
false occupazioni per riempire il vuoto della mancanza di una meta. Nel frattempo gli
europei si sentono di grandi potenzialità, ma esse si scontrano nelle frontiere nazionali,
che sono oramai da limite per qualsiasi attività economica, politica o intellettuale. Le
singole componenti sono in piena salute e ricche di strumenti, ma sono «chiuse in
gabbia» dalle barriere nazionali. L'europeo si sente diminuito in quanto le sue possibilità
sono aumentate. Il processo che potrebbe portare agli Stati Uniti d'Europa sarebbe del
tutto simile a quello che ha costituito la formazione delle nazioni. Questo perché ciò che
chiamiamo Stato non è la spontanea convivenza di uomini uniti dalla consanguineità, ma
da gruppi originariamente separati che si obbligano a convivere, ponendosi un progetto
d'azione, per realizzare un'impresa grazie alla collaborazione. Insomma, per fare qualcosa
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in comune. L'unita appare fondata sul sangue, sulla lingua e sulle frontiere naturali, ma
non appena svanisce il progetto comune, tali fattori perdono d'importanza, portando alla
disgregazione, e dimostrando che sono effetti e non causa dell'unificazione. La
consanguineità e l'idioma comuni sono nati dal superamento dei precedenti, e la
naturalezza dei confini è data dalle risorse e dalla tecnologia a disposizione nell'epoca.
Tutte e tre queste componenti all'inizio hanno costituito un ostacolo, successivamente
sono diventati un mezzo materiale per consolidare l'unità. Ma essa è possibile,
ripetiamolo, se si organizza insieme un'impresa, che in pratica è l'organizzare un
particolare tipo di vita in comune, e i diversi tipi di Stato nascono in base a come il
gruppo di uomini che prende in carico l'iniziativa stabilisce come collaborare con gli altri.
Non è ciò le persone furono in passato, ma la comunione futura nell'effettivo agire che
porta alla riuscita della convivenza politica. Questo dimostra come la democrazia fosse
già connaturata nello Stato nazionale, a prescindere del tipo di regime in cui si è realizzato
il governo. Si tratta in sostanza del «plebiscito quotidiano» della celebre definizione di
Renan. Perché nella difesa dello Stato nazione difendiamo il nostro futuro, non il nostro
passato. Detto in altri termini, il passato della nazione proietta nel sue aspirazioni, che
siano reali o presunte, nel futuro. Il patriottismo non ha realmente creato le nazioni, si
tratta solamente di un mito fondativo; è l'esatto contrario che è avvenuto, il passato
comune è stato possibile solo dalla creazione di una comunità, che per essere creata s'è
dovuta sognare, immaginare. Se c'è il plebiscito, il resto serve solo per consolidarlo, e per
questo i «sudditi» non possono sentire lo Stato come qualcosa di estraneo, costituendo
in questo modo l'aspetto originale e meraviglioso della nazionalità. Lo stesso può valere
anche per l'Europa, se cresce la convinzione tra i suoi popoli che ci siano affinità morali e
interessi, in contrapposizione a gruppi più lontani, trasformandosi in idea nazionale. Non è
così utopistico, per lo meno non più di quanto lo fosse parlare della nascita della Francia
e della Spagna nel XI secolo. Perché gli stati europei posseggono anime diverse, ma sono
strutturate con la stessa architettura psicologica, giungendo ad un contenuto comune. La
religione, la scienza, la giurisprudenza, l'arte e i valori sociali si fanno sempre più comuni.
Un'omogeneità, per Ortega, più grande di quanto sarebbe se fossero identiche. LA
demoralizzazione che sta attraversando l'Europa non è quindi destinata a durare, in
quanto non ha radici, e le nazioni sono delle gabbie che non permettono di dispiegare lo
spirito vitale che hanno loro stesse fatto nascere. La fase in cui scrive Ortega, ovvero
l'esplosione dei nazionalismi è tipica in casi simili, dove alcuni tentano di salvare lo status
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quo, enfatizzando i confini, le divisioni, in quanto sono in procinto di scomparire.
Opposizione di cui sono protagoniste le classi conservatrici, come il movimento fascista è
un fenomeno tipicamente piccolo borghese, intimorite del bolscevismo. L'autore non
esclude che vista la permanenza della mancanza di una meta per l'Europa, l'impresa
dell'Unione Sovietica possa costituire una via di fuga dal vuoto della sua esistenza. In
sintesi, la costruzione dell'Europa come un grande Stato nazionale è per Ortega l'unico
modo per evitare la vittoria dell'ideologia che definisce sarcasticamente «piano
quinquennale», ovvero opporre ad essa una nuova morale occidentale, un nuovo
programma di vita.
Il quindicesimo capitolo, «Si giunge al vero problema», è il capitolo conclusivo della prima
versione dell'opera. Il vero problema a cui giunge Ortega è quindi la mancanza di morale
in cui è giunta l'Europa, e l'uomo-massa non ha intenzione di sottostare a qualsiasi tipo di
morale, sia esso mascherato da reazionario o da rivoluzionario. Esempio grottesco di ciò
è costituito da quanto le persone si dichiarino «giovani», proprio quella categoria di
persone avente più diritti che doveri. La cultura e la civiltà moderna ha portato l'uomo
comune al convincimento dell'amoralità della vita, proiettandolo nella direzione di una
cultura magnifica ma senza radici, vivendo in quello che egli nega e che gli altri hanno
accumulato.
Nel «Prologo per i francesi», datato 1937, è presente un aggiornamento dedicato a quel
popolo, incentrato sugli errori dell'Illuminismo e della Rivoluzione Francese, e altri
intellettuali francesi. Ortega insiste particolarmente sull'insensatezza del proclamare diritti
universali, non tenendo conto delle diversità che sussistono tra i popoli, togliendo i
rivoluzionari un vero diritto universale degli uomini, quello alla continuità. È invece
importante avere memoria degli errori per evitare di commetterli nuovamente, ed in
quanto è la vera caratteristica che distingue l'uomo dagli animali. Questo lo si nota in
Inghilterra, con le sue manifestazioni simboliche della monarchia in cui mostra
riconoscimento e vigenza del suo passato, e per questo la superiorità del metodo della
continuità rispetto a quello rivoluzionario. Ortega infine, rileva come le sue considerazioni
riguardo gli Stati Uniti d'America si siano dimostrate valide, e offre ai francesi il suo testo,
come “un tentativo di serenità in mezzo alla tempesta”.
Nell'«Epilogo per gli inglesi», datato 1938 e a cui è accorpato lo scritto «Quanto al
pacifismo», l'autore denota come i fatti siano rapidamente giunti a confermare il suo
pronostico. Agli inglesi riconosce l'eccezionalità del loro modo di essere società, anche
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se in quegli ultimi mesi in cui scrive i popoli europei si sono trincerati a vicenda, facendo
ognuno emergere i propri peggiori difetti. Quello che più preme, ovviamente, a Ortega è il
modo degli inglesi all'approcciarsi alla guerra civile spagnola, ma anche il disarmo
inglese, che considera una delle cause dello stato attuale. Giunge dunque a discutere del
«pacifismo», del quale sostiene ne esistano diversi tipi, tutti accomunati da un'idea molto
vaga, ovvero che la guerra sia un male e che dunque vada eliminata come strumento per
regolare i rapporti tra gli uomini. Lo stesso hanno pensato, sbagliando, gli inglesi, il cui
disarmo è tra le cause della situazione attuale per l'autore. Non per questo non possono
rimediare all'errore, anzi ritiene che questo cambiamento di prospettiva sia imminente. La
guerra non è da intendere solo come un vizio o un crimine, ma prima di tutto come
un'invenzione per risolvere i conflitti tra gli uomini. Essa ha portato alla disciplina, una
delle maggiori scoperte a base di ogni civiltà. Inoltre va considerata in base a ciò che è
stato in passato, notando come nei secoli si è evoluta. Ma soprattutto non si deve
pensare che l'assenza della guerra corrisponda alla pace, in quanto quest'ultima
dev'essere comunque costruita, e fino a che non si inventerà un altro mezzo, la guerra
continuerà a ricomparire. È importante che il non volere ricorrere ad essa s'instilli
nell'umanità, come un'istanza a cui si può ricorrere per il comportamento. La Società
delle Nazioni è quanto di più lontano da questo, e per questo è un progetto fallito. È un
tentativo di imporre la necessaria istanza «dall'alto», cercando di portare il diritto
universalmente, in un modo che non può che far opporre i popoli delle nazioni che ancora
non ne percepiscono la necessità. Questo in quanto Ortega non considera affatto il diritto
precedente alla formazione di una società, ma esso nasce proprio dalla volontà di seguire
un obiettivo comune, come insieme di regole finalizzate al suo raggiungimento. L'Europa
in quel momento manca di principi di convivenza in atto, e la forte discordia che vi è ora
tra le nazioni è simbolo di quanto ognuna di essa si nutriva in buona parte di valori
collettivi europei. I mezzi di comunicazione, che dovrebbe avere avvicinato e unificato i
popoli, in realtà forniscono solo l'illusione a un popolo di conoscere i problemi di un altro.
Questo mutamento di distanza porta a gravi rischi, qualora l'opinione pubblica di un
paese ritiene di sentirsi libera di avere idee riguardo a un altro paese, perché ora queste
idee si possono imporre a quest'ultimo. Il riferimento qui è alla guerra civile spagnola e
alla posizione degli inglesi in merito. Anche se colmi di notizie, anche veritiere, sullo stato
del paese, in realtà secondo Ortega ignoravano quanto stesse realmente accadendo. Non
erano in realtà nella situazione, non avevano un retroterra storico con cui leggere gli
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eventi, ed inoltre perdevano di vista il reale problema: il fallimento del loro pacifismo.
Riservando, infine, un diverso trattamento ai comunisti del proprio paese, rispetto a quelli
del Fronte popolare spagnolo. Ciò avviene in tutta l'Europa, proprio quando si riteneva
che i popoli del continente fossero vicini a un'unificazione, e proprio perché i movimenti di
opinione di un paese su ciò che succede in un altro paese sono diventati come delle
«incursioni». Col risultato di far chiudere le nazioni dentro loro stesse, a scontrarsi a
vicenda, a barricare i confini. Bisogna dunque ammettere, a differenza di quanto hanno gli
ingenui internazionalisti, che le nazioni esistono, e con loro bisogna fare i conti. Per
questo l'Europa sarà un «ultra-nazione», ma questa nuova forma non potrà prodursi fino a
che la precedente non ha dato prova di sé in modo estremo. Si tratta dell'ultimo
contraccolpo, che non porterà ad appiattire le nazioni ma ad integrarle. Allo stato attuale
l'Europa è in crisi perché sono in crisi i valori che guidano la sua impresa. Com'è comune
la crisi, comune sarà la ripresa. Il totalitarismo permetterà al liberalismo di rinascere,
perché ogni forma di vita ha bisogno di una forma antagonista. Dall'equilibrio che ne
scaturirà, risorgerà la nuova fede europea.
Sicuramente non basta la lettura di un solo testo di Ortega y Gasset per comprenderne
l'impianto teorico. La ribellione delle masse è un ottima analisi del periodo tra le due
guerre, ma non può rendere conto, salvo in forma di abbozzo, di quanto è ampia e attenta
la sua prospettiva. Tacciato di conservatorismo, ma piuttosto e senza dubbio elitista, è
però riuscito in questo testo a dare una lettura della crisi che attraversava il continente
europeo in quegli anni, mostrando come la cultura occidentale sia rappresentata da
qualcosa di più complesso dall'assetto economico capitalistico.
Trattandosi di un'analisi di fenomeni della modernità, non stupisce che Ortega parli del
disorientamento in cui versano gli europei in una forma simile all'anomia di Durkheim. Si
può anche notare una somiglianza nel discorso riferito alla inadeguatezza degli «esperti»,
definiti da Weber «specialisti senza intelligenza», classico che non può che tornare alla
mente mentre Ortega delinea i pericoli della «macchina» statale. Ma queste
considerazioni, se per un verso nobilitano la sua opera più celebre, dall'altra non rendono
merito alle intuizioni in essa espresse, e alla splendida forma con la quale sono scritte.
Difficilmente ascrivibile alle categorie di Berlin, il quale parlava della dialettica tra
Illuminismo e Romanticismo, tra universalizzazione e particolarizzazione, Ortega ha anche
contribuito successivamente ai preliminari della formazione dell'Unione Europea, e le sue
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osservazioni oltre ad essersi dimostrate per larga parte esatte, sono ancora in grado di
dire qualcosa su questa entità e i suoi periodici smarrimenti a causa della mancata
impostazione di un obiettivo comune. Come vorrebbe il suo motto insomma, “Uniti nella
diversità”.
Vale infine la pena di ricordare che, sotto l'ispirazione di Ortega, Monnerot a ha visto negli
studenti contestatori della fine degli anni '60 i nuovi «barbari verticali» della società
opulenta, rifacendosi ad esempio alla psicologia bambino viziato, il loro ermetismo
intellettuale e il rifiuto del dialogo, l'idolatria dell'azione diretta e l'atteggiamento
iconoclastico nei confronti dei valori e delle istituzioni liberali. Caratteristiche che per certi
versi riappaiono (se sono mai scomparse) in quelle odierne forme di protesta nel nostro
paese definite anti-politiche, nei confronti delle quali Ortega si è già espresso, parlando
del «signorino soddisfatto».
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