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La Ricerca Del Divino Fra i Roma

Date post: 24-Dec-2015
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Humanitas 67(5-6/2012) 875-897 LEONARDO PIASERE LA RICERCA DEL DIVINO FRA I ROMA In sintonia con l’espansione del movimento, negli ultimi anni sono apparsi numerosi studi sullo sviluppo dell’evangelismo fra i cosiddetti “zingari” 1 . In Italia lo sviluppo del movimento si è avuto soprattutto tra famiglie di rom kalderaša, di sinti e di rom e rudari romeni di recente immigrati, anche se pochi sono ancora gli studi che li riguardano 2 . Lo sviluppo di studi, anche di alta qualità, sull’evangelismo, però, fa da con- traltare con la pochezza degli studi sulle religioni “tradizionali”. Normal- mente ci si limita a dire che gli “zingari” seguono la religione del paese dove si trovano a vivere, liquidando l’argomento col sottolineare il con- temporaneo basso livello di partecipazione alle pratiche religiose rispetto alle popolazioni non zingare circostanti. In questo modo, noi manchia- mo di studi approfonditi sulla religione tra i rom cristiano-ortodossi, sui rom musulmani, sui gruppi protestanti del Nord-Europa, sui romaničel anglicani, ma anche sul loro a volte ventilato scetticismo religioso. Circa i gruppi cattolici, la mancanza di studi è ancor più significativa, consi- derando l’impegno che la Chiesa ha fra loro profuso specialmente negli ultimi cinquant’anni, così come sono molto scarse le ricerche sugli stessi rapporti tra “zingari” e grandi istituzioni religiose che abbiano come fine la conoscenza più che il proselitismo. La pochezza di dettagliate inda- gini etnografiche su singole comunità circa la loro religiosità rischia di indebolire anche le ricerche sullo sviluppo del movimento evangelista, dal momento che a volte non si capisce da quale humus culturale questo tipico movimento “di risveglio” si sviluppi nelle diverse comunità e a quali altre pratiche e credenze religiose si sostituisca o si sovrapponga. 1 Si vedano fra gli ultimi R. Llera Blanes, Os Aleluias. Ciganos evangélicos e música, Imprensa de Ciências Sociais, Lisboa 2008 e P. Williams, Il miracolo e la necessità. Lo sviluppo del movimento pentecostale fra gli zingari in Francia, CISU, Roma, in corso di stampa 2 C. Simonelli, «Ci sarà annunciato Dio da uno di noi». Lo sviluppo del movimento «vangelista» in una comunità di Sinti, in L. Piasere (ed.), Italia romaní, vol. I, CISU, Roma 1996, pp. 71-92; E. Riz- zin, I Sinti gačkane e eftawagaria. La comunità, la cultura sinta nelle sue molteplici espressioni, Tesi di laurea, Facoltà di Scienze politiche, Università di Trieste 2002. Sui rom italiani, francesi e spa- gnoli di passaggio in Svizzera, si veda N. Bizzini, Il conflitto per (r)esistere? Studio etnografico sui Rom nomadi in transito nel Canton Ticino, Rapporto di studio, Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, Repubblica del Canton Ticino, Bellinzona 2012, pp. 143-149. 16_H12,5-6_AntRel_Piasere.indd 875 17/01/13 14:57
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Humanitas 67(5-6/2012) 875-897

Leonardo Piasere

La ricerca deL divino fra i roma

in sintonia con l’espansione del movimento, negli ultimi anni sono apparsi numerosi studi sullo sviluppo dell’evangelismo fra i cosiddetti “zingari”1. in italia lo sviluppo del movimento si è avuto soprattutto tra famiglie di rom kalderaša, di sinti e di rom e rudari romeni di recente immigrati, anche se pochi sono ancora gli studi che li riguardano2. Lo sviluppo di studi, anche di alta qualità, sull’evangelismo, però, fa da con-traltare con la pochezza degli studi sulle religioni “tradizionali”. normal-mente ci si limita a dire che gli “zingari” seguono la religione del paese dove si trovano a vivere, liquidando l’argomento col sottolineare il con-temporaneo basso livello di partecipazione alle pratiche religiose rispetto alle popolazioni non zingare circostanti. in questo modo, noi manchia-mo di studi approfonditi sulla religione tra i rom cristiano-ortodossi, sui rom musulmani, sui gruppi protestanti del Nord-Europa, sui romaničel anglicani, ma anche sul loro a volte ventilato scetticismo religioso. circa i gruppi cattolici, la mancanza di studi è ancor più significativa, consi-derando l’impegno che la chiesa ha fra loro profuso specialmente negli ultimi cinquant’anni, così come sono molto scarse le ricerche sugli stessi rapporti tra “zingari” e grandi istituzioni religiose che abbiano come fine la conoscenza più che il proselitismo. La pochezza di dettagliate inda-gini etnografiche su singole comunità circa la loro religiosità rischia di indebolire anche le ricerche sullo sviluppo del movimento evangelista, dal momento che a volte non si capisce da quale humus culturale questo tipico movimento “di risveglio” si sviluppi nelle diverse comunità e a quali altre pratiche e credenze religiose si sostituisca o si sovrapponga.

1 Si vedano fra gli ultimi r. Llera Blanes, Os Aleluias. Ciganos evangélicos e música, imprensa de ciências Sociais, Lisboa 2008 e P. Williams, Il miracolo e la necessità. Lo sviluppo del movimento pentecostale fra gli zingari in Francia, cisu, roma, in corso di stampa

2 c. Simonelli, «Ci sarà annunciato Dio da uno di noi». Lo sviluppo del movimento «vangelista» in una comunità di Sinti, in L. Piasere (ed.), Italia romaní, vol. i, cisu, roma 1996, pp. 71-92; e. riz-zin, I Sinti gačkane e eftawagaria. La comunità, la cultura sinta nelle sue molteplici espressioni, Tesi di laurea, facoltà di Scienze politiche, Università di Trieste 2002. Sui rom italiani, francesi e spa- gnoli di passaggio in Svizzera, si veda n. Bizzini, Il conflitto per (r)esistere? Studio etnografico sui Rom nomadi in transito nel Canton Ticino, rapporto di studio, dipartimento dell’educazione, della cultura e dello Sport, repubblica del canton Ticino, Bellinzona 2012, pp. 143-149.

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Questo mio contributo vuole avere allora un taglio molto empirico e offrire un resoconto essenzialmente descrittivo sulle espressioni, creden-ze e pratiche religiose non degli “zingari” in generale, ma di un gruppo particolare, perché, come avremo modo di costatare seppur con brevi ri-mandi, ogni interpretazione che non nasca dal confronto comparativo può in quest’ambito portare a generalizzazioni errate. Parlerò di quelle per-sone che si definiscono roma3, che vivono oggi disperse tra la Slovenia meridionale (dolenjska), il Triveneto, la Lombardia e l’italia centrale. conosciuti in Slovenia come “zingari croati”, essi si sono effettivamen-te diffusi in Slovenia a partire dalla croazia centro-orientale nel corso dell’ottocento.

Una parte dei roma oggi in italia sono i discendenti di quelle famiglie che si sono trovate in territorio italiano quando vengono annesse la ve-nezia Giulia e l’istria dopo la prima guerra mondiale; un’altra è costituita dai discendenti di coloro che sono stati deportati nei campi di concentra-mento della penisola durante l’occupazione della Slovenia da parte delle truppe italiane, nel corso della seconda guerra mondiale. Questi roma par-lano una variante del romanes (che essi indicano con po románe4) mol-to caratteristica e molto influenzata dal croato, dallo sloveno e oggi dai dialetti del nord-italia. Per queste caratteristiche, negli studi del settore sono usualmente indicati come roma sloveno-croati, ed essi stessi si ri-conoscono, a seconda della provenienza delle famiglie, come roma slo-veni, roma croati o roma istriani. oggi, alla terza-quarta generazione di presenza in italia, diversi giovani insistono nel dirsi semplicemente roma italiani. Quando parlano po románe fanno riferimento a se stessi dicen-do semplicemente máre roma, “i nostri roma”, espressione che rimanda ad una rete di persone dai confini variabili a seconda degli interlocutori coinvolti, ma che è pragmaticamente funzionale ad isolare la loro identità sfumata. i máre roma si distinguono, infatti, dagli áver roma, “gli al-tri roma”, cioè tutti (o quasi) quei gruppi normalmente identificati come “zingari” e che in italia si possono auto-denominare di volta in volta con termini diversi come sinti gáčkane, rom kalderaš(a), xoraxané romá, rom abruzzesi ecc. L’insieme di máre roma e di áver roma, poi, è contrap-

3 È il plurale ed è da pronunciare con la “o” aperta. il singolare è “rom”. in questo testo cercherò di riportare in modo preciso la trascrizione dei termini vernacolari, tralasciando solamente di indicare la lunghezza delle vocali, impiegando la grafia in uso negli studi romologici (cfr. Y. matras, Romani. A linguistic introduction, cambridge University Press, cambridge 2002).

4 ad esempio, «io parlo romanes» si dice Me vakéru po románe. Sulla loro lingua parlata in italia si veda J. dick Zatta, I Rom sloveni di Piove di Sacco, in «Lacio drom» 1-2(1985), pp. 1-79 e per la Slovenia P. cech - m.f. Heinschink, A dialect with seven names, in «romani Studies», v serie, 11/2- (2001), pp. 137-184.

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posto a quelli che vengono chiamati gáğe, e che corrispondono grosso modo (ma non completamente) a quelli che per noi sono i “non-zingari”. nella cosmologia dei roma, la distinzione roma/gáğe è fondamentale e, come vedremo, influenza profondamente la sfera del religioso. insisto su questa terminologia, perché trovo che anche in volumi e articoli recenti a taglio divulgativo o giornalistico (e non solo) la confusione è alta. Qui di seguito userò il carattere tondo (roma), quando parlerò dei māre roma, mentre userò il corsivo (roma) quando mi riferirò agli altri o all’insieme degli “zingari” (rom, sinti ecc.) quali sono concepiti dai máre roma.

conosco i roma di cui parlo da più di trent’anni e riporterò qui infor-mazioni raccolte lungo questo arco di tempo. in seguito al mio studio del 19855, in cui, dialogando con Judith okely6 e i suoi Gypsies inglesi, evi-denziavo l’importanza del silenzio che plasma fra i roma la dimensione collegata ai pre múle, i propri morti, sono apparsi diversi studi che affron-tano l’argomento presso altri gruppi “zingari” d’europa e che propongo-no approfondimenti interpretativi7. ma il collegamento tra il mondo dei morti e la dimensione del divino resta da approfondire. ci possono essere dei casi in cui sono i diretti interessati a stabilire una distinzione tra i due ambiti. Jan Yoors, ad esempio, che visse con i rom lovara fra le due Guer-re mondiali e che ci ha lasciato una testimonianza fondamentale, oggi finalmente tradotta in italiano, riporta con queste parole il caso di quando il vecchio Tshukurka, gravemente ammalato, viene portato a Lourdes:

«Lourdes, in sé, fu una delusione. ingannati dalle descrizioni di césar, che si era lasciato prendere la mano dall’entusiasmo, forse perché non c’era mai stato, i rom si aspettavano di arrivare in una “nuova Gerusalemme”. mentre césar portava Tshukurka, mimi e Keja a visitare la chiesa e la cripta, rimasi con gli altri rom ad aspettare nel locale bordello, ai margini della città. ripartimmo il giorno stesso. non ci furono grandi racconti: non c’era stato nessun miracolo e Tshukurka si sentiva peggio di prima. Giaceva a letto completamente prostrato, lamentandosi di continuo. Quando Keja gli porse il suo cucchiaio di champagne tiepido, ne versò lentamente in terra qualche goccia, per scusarsi con i suoi antenati, i mule,

5 L. Piasere, Māre Roma. Catégories humaines et structure sociale, Études et documents bal- kaniques et méditerranéens, Paris 1985.

6 J. okely, The Traveller-Gypsies, cambridge University Press, cambridge 1983.7 P. Williams, Nous, on n’en parle pas. Les vivants et les morts chez les Manouches, maison

des sciences de l’homme, Paris 1993 (tr. it. Noi, non ne parliamo. I vivi e i morti tra i Mānuš, cisu, roma 1997); P. Berta (ed.), Halál és kultúra. Tanulmányok a társadalomtudományok köréből, Janus-osiris, Budapest 2001; m. Gallone, Perché non parlarne? Percorsi di senso di fronte alla morte fra i xoraxané Romá, in c. Saletti Salza - L. Piasere (eds.), Italia romaní, vol. iv, pp. 129-184, cisu, roma 2004; e. Tauber, Du wirst keine Ehemann nehmen! Respekt, Bedeutung der Toten und Fluchtheirat bei den Sinti Estraixaria, Lit, münster 2006; c. Saletti Salza, Evocare: toccare i morti. Una comuni-tà rom nella Bosnia del dopoguerra, cisu, roma 2010.

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di essersi fatto convincere a venire a Lourdes a pregare la Beata vergine dei gagé, invece di fare semplicemente affidamento sui mule dei Lovara»8.

Solo chi ha interiorizzato molto a fondo la cosmologia di un gruppo poteva sottolineare questa distinzione tra, in questo caso, rom e gağé9, e la sua estensione al mondo del soprannaturale. anche fra i roma troviamo questa distinzione, ma essa deve essere ricostruita attraverso un’etnogra-fia puntuale, perché, molto meno mobili dei lovara, hanno passato per lo meno gli ultimi due secoli tra croazia e italia a stretto contatto con popo-lazioni cattoliche che hanno contribuito alla costruzione della loro attuale cosmologia molto più di quanto non fosse successo con i lovara di Yoors. Prima di approfondire proprio questo aspetto, è il caso allora di riassume-re brevemente l’importanza del ruolo dei morti fra i roma, rimandando ad altri lavori la descrizione più ampia10.

È poco probabile che un rom dica apertamente di avere paura (pe dári) dei múle, dei morti. Tutti dicono di “rispettare” i morti: Méni dikéru vášo mre mulóra, «io tengo ai miei cari morti». il rispetto è un carico pesante che implica un insieme di comportamenti e di interdizioni inva-denti, da seguire, almeno in parte, per evitare láğa roméndar, la vergogna verso i roma. il funerale deve essere il più suntuoso possibile: il costume vuole che l’ultimo percorso dalla chiesa al cimitero si svolga in un tap-peto di fiori, costituito dai petali via via strappati dalle corone e gettati lungo il cammino. ma negli ultimi anni, tra le famiglie più benestanti, è invalso l’uso di far gettare da un elicottero sacchi di petali appena la bara esce dalla chiesa, petali di fiori col colore o i colori più amati dal mor-to. Le tombe, poi, sempre elaborate, possono a volte essere spettacolari, decorate da statue scolpite dai maggiori scultori. ma se la tomba può diventare un mausoleo in cui il morto è ripreso in foto o statue o mosaici nella sua lussureggiante quotidianità e dove si può andare per parlare con lui evocandolo persino con il suo nome po románe11, fuori dal cimitero è il silenzio che prevale. il morto tende a portarsi via tutto con sé: il nome da rom (che i familiari non potranno più pronunciare), le cose che amava, come un piatto, una canzone, un oggetto (che i familiari non potranno più

8 J. Yoors, Zingari. Sulla strada con i rom lovara, irradiazioni, roma 2008, pp. 291-293 (ed. orig. The Gypsies, Simon and Schuster, new York 1967).

9 i termini variano a seconda dei dialetti: nel romanes dei rom lovara, “rom” è singolare e plurale, mentre gağé si pronuncia tronco, appunto, e non piano.

10 L. Piasere, Māre Roma, cit., pp. 185-242; J. dick Zatta, Gli Zingari, i Roma. Una cultura ai confini, cidi Triveneto, Padova 1988, pp. 99-110.

11 i roma distinguono tra due nomi personali, quello per i gáğe (nome e cognome anagrafici) e quello per i roma. i due tipi hanno un impiego molto diverso, da vivi e da morti (cfr. L. Piasere, Māre Roma, cit., pp. 209-221).

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gustare, ascoltare, usare), la roulotte (che i familiari dovranno distrugge-re: un tempo col fuoco, oggi portandola da un demolitore), i risparmi in contanti (che dovranno o essere impiegati per la costruzione della tomba o anche bruciati: non esiste eredità fra i roma), il luogo del decesso (che dovrà essere evitato), la sua biografia (che deve essere taciuta e conser-vata a livello intimo, e che è ricordata solo con molta circospezione dai non familiari). i racconti sul passato (la “storia”) fra i roma, per queste pratiche, acquisiscono una flessione del tutto particolare12. ogni volta che un vivo beve vino o caffè, ne versa a terra un goccio per i suoi poveri mor-ti – gesto tanto importante quanto automatico nella quotidianità. Soltanto piccoli oggetti possono essere conservati e con molto riguardo, le muláne ríča, le cose del morto/dei morti, simili alle cose mulle dei manúš france-si, su cui ha insistito Williams13 (1993), interpretandole come gli indizi di un modo particolare di costruire la loro presenza nel mondo.

1. Keri ramáña e keri pe ramáña

c’è un ambito pragmatico fra i roma in cui è sottolineata la maggiore importanza emozionale data ai múle rispetto ai devlóra, gli dèi/santi di cui parlerò sotto. ed è dalla pratica linguistica delle ramáña che voglio iniziare. non esiste una differenza lessicale po románe tra bestemmiare e giurare. il primo verbo è traducibile con kéri ramáña (o remáña, ramánia, mánia), cioè “fare ramáña”, e il secondo con kéri pe ramáña, “farsi ramáña”. Ramáña è la variante al plurale di un lessema molto diffuso nei dialetti del romanes, che può essere trovato realizzato con romáña, romája, armáña, harmáña, armáia, axmáia ecc. e che può essere appros-simativamente tradotto con “maledizioni”. i roma, quindi, reputano di “bestemmiare” quando “fanno maledizioni” e di “giurare” quando “si fanno maledizioni”. Gli agenti evocati nelle ramáña possono essere i devlóra e i múle, ma esse sono sempre indirizzate verso i vivi, se stessi o gli altri. Un rom si fa ramáña quando vuole sostenere una verità davanti agli altri e quando si impegna davanti agli altri a fare una cosa. nei due casi può chiamare come garanti uno o più devlóra, i propri múle (chia-mati semplicemente mre mule, i miei morti, o con il termine di parentela, mai per nome), o tutti insieme. Quelle che ho tradotto con “maledizioni” sono quindi in realtà delle maledizioni condizionali: il rom si sottomette alle maledizioni dei devlóra e/o dei propri múle se ciò che afferma non

12 L. Piasere, La stirpe di Cus, cisu, roma 2011, pp. 17-40.13 P. Williams, Nous, on n’en parle pas (tr. it. Noi, non ne parliamo), cit.

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risulta vero o se ciò che promette non sarà fatto. in genere, possiamo dire che i roma tendono più ad invocare i devlóra quando promettono qualche cosa a se stessi e chiamano questa promessa col termine italiano “voto”, fatto di solito ad un santo. negli altri casi, certo, i devlóra possono essere invocati, ma sono le ramáña proclamate chiamando in causa i múle che sono ben più temute.

Un rom “fa” ramáña quando apostrofa direttamente i devlóra e Dével (dio) o quando richiede o impone ad altri roma di comportarsi in un certo modo con i loro múle. Le ramáña fatte contro Dével sono costituite dalle tipiche bestemmie italiane pronunciate solo po gağikáne, cioè in italiano, in cui dio è apostrofato con i più diversi epiteti. Sono pronunciate molto più dagli uomini che dalle donne e, psicologicamente, se ne temono poco gli effetti. ma quelle che sono considerate le vere bestemmie sono le altre, quelle che tirano in ballo i morti. nessuno dice niente se sente qualcuno kéri ramáña Dévle, bestemmiare dio, ma se keri ramáña múle, bestem-mia i morti di un altro dicendogli, con la formula più usata, «mangia i tuoi morti!»14, può scatenare una lite mortale. allo stesso modo le ramáña più terribili che un rom possa “farsi” sono quelle in cui invita se stesso a “mangiare” i propri morti («che io possa mangiare i miei morti se...»), se non manterrà la promessa che si prefissa.

i morti possono tornare a disturbare i vivi. i gáğe morti non interferi-scono in modo eccezionale sulla vita dei roma. L’eventuale incontro con loro sembra avere soprattutto una funzione comunicativa: informa che i múle esistono davvero e che di solito si trovano nel luogo di cui erano proprietari quando erano in vita o nel luogo in cui sono morti. i múle gáğe si comportano nello stesso modo in cui si comportano i gáğe vivi: cacciano i roma quando arrivano nel loro territorio. ma questi múle non preoccupano più di tanto i roma; certo, fanno paura, ma si sa che ci pos-sono essere e che ci si deve difendere. Tipici sono i racconti in cui un rom incontra un múlo gáğo contro cui si pone come antagonista e che cerca di sfuggire o che cerca di imbrogliare come farebbe con un gáğo vivo15. i múle dei roma, invece, cambiano il loro comportamento: essi sembrano agire come agiscono i gáğe (vivi o morti) e impongono in qualche modo ai vivi di trattarli da gáğe. anche Judith okely16 era arrivata a conclusioni simili circa i Gypsies inglesi, presso i quali i Gypsies morti cambierebbe-

14 anche se sembrerà un modo naïf, così come non ho riportato le bestemmie in italiano più usate dai roma per rispetto alla sensibilità di molti lettori, così evito ti riportare le espressioni po románe delle bestemmie che riguardano i morti per rispetto alla sensibilità di molti roma.

15 cfr. J. dick Zatta, Gli Zingari, i Roma, cit., pp. 183-196.16 J. okely, The Traveller-Gypsies, cit.

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ro la loro natura in gorgios (i loro corrispettivi dei gáğe). ma per i roma la situazione non è proprio questa, perché siamo di fronte solo a un aspetto di un sistema più ampio che rappresenta simbolicamente in modo inverti-to le relazioni quotidiane tra roma e gáğe. fra i roma l’inversione implica in effetti che i vivi trattino il múlo rom come un gáğo, ma questo non por-ta ad una metamorfosi ontologica, non significa che il defunto sia diven- tato un gáğo e che scompaia la differenza, nella morte, tra gáğe e roma. L’inversione avviene solo perché il múlo che ritorna è concepito come un morto-vivente che è stato disturbato dai vivi che non lo hanno rispettato. Solo in una fase di transizione, a volte molto lunga, in cui sono in opera le azioni di rispetto verso morti particolari, il morto disturbato può compor-tarsi come un rom dal comportamento aberrante perché negativamente tipico dei gáğe. ma se rispettati con i gesti che ho ricordato sopra, cioè via via dimenticati, essi restano po míro, in pace, e garantiscono ai vivi la loro presenza nel mondo. Possono aiutare i vivi, allora, ma non troviamo fra i roma quell’atteggiamento così positivamente marcato verso i propri morti, che è stato notato altrove: meno se ne parla, meglio è. come vedre-mo qui di seguito, esiste una corrispondenza inversa dalla parte dei gáğe, i quali producono a loro volta degli esseri che, benché gáğe, assumono delle caratteristiche positive agli occhi dei roma: le divinità.

2. devlesker-

non esiste po románe un termine per denotare il nostro concetto di “sacro”. Quando i roma vogliono esprimere qualcosa di simile, dicono semplicemente che è una “cosa di dio”: devléskero ríči usando il geni-tivo aggettivato del termine Dével, “dio”, o più raramente l’aggettivo corrispondente: devlikáno ríči, “cosa divina”. ma l’uso di devlesker- è più ampio e può indicare qualsiasi cosa o persona che abbia a che fare con Dével. così, un semplice credente può essere chiamato devléskero ğéno, “persona di dio”, così come lo può essere un praticante assiduo o un re-ligioso e, in generale, tutti coloro che “tengono” a Dével. ci sono anche i luoghi di dio, devléskere místi, costituiti essenzialmente dalle chiese e i santuari, e ci sono gli oggetti di dio, come le medagliette, i santini ecc.

i roma dicono di credere “a” dio, páči pe Devléske, o di credere “in” dio, páči pe ándo Dével, e traducono essi stessi senza esitazione il rifles- sivo páči pe (lett. “credersi”) con l’italiano “credere”. di conseguenza, non è il caso nell’economia di questo scritto interrogarsi su che cosa sia il credere per i roma, come fece tempo fa per altri contesti rodney

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needham17. Ho sentito solo due roma ventenni dire di non credere in dio, salvo poi vedere uno dei due accendere una candela in chiesa in occasione di un battesimo. Se in certi contesti è sufficiente sapere che una persona páči pe Devléske, crede “a” dio, per riconoscerla come devléskeri, di dio, il più spesso è riconosciuto come uomo di dio solo chi si comporta bene da un punto di vista morale secondo le aspettative dei roma. L’op-posizione devléskero rom / bengéskero rom (rom del diavolo) è spesso usata per distinguere i roma che si comportano bene da quelli che si com-portano male verso altri roma. anche i gáğe possono essere devléskere o bengéskere, nel senso di comportarsi bene o male, ma i loro compor-tamenti (anche tra gáğe) sono sempre valutati in base all’idea che hanno i roma di cosa sia giusto e ingiusto. il religioso e il morale, e dunque il sociale, sono tutt’uno nella vita dei roma, sono inseparabili. L’impor-tante è credere, perché ciò fa parte dell’uomo, indipendentemente dalle distinzioni che possono fare i gáğe. Quando un raháno18 che si diceva musulmano, spiegò ad un gruppo di roma come si prega nella moschea, essi non lo derisero affatto ma riconobbero che perfino i raháne possono essere “di dio”. Parlando di un gáğo žído, ebreo, di sua conoscenza, un rom mi disse che senz’altro anche lui era un uomo di dio. Gli dispiaceva solo che non fosse battezzato: «in fondo, non gli costerebbe niente, no?». Se quella che chiamiamo la “sfera della religione” è tanto incastrata nella vita dei roma, è inevitabile che essa non possa fare astrazione delle altre categorie cognitive e sociali di cui ho accennato sopra, e che ne costitui-sca anzi un aspetto integrante.

3. dével e devlóra

Prima di ogni altra considerazione, do la lista degli esseri sopranna-turali che entrano nella categoria del devlesker- riportandone i nomi po románe e la corrispondente traduzione po gağikáne che i roma stessi ne fanno:

Dével: dio. Si sa che c’è e che può decidere gli eventi di questo mondo e la vita dei manúša, gli uomini, cioè l’insieme di roma e gáğe. Può ricompensare e pu-nire e può arrivare ovunque, poiché Devléste híle báre vásta, «dio ha le braccia lunghe». alcuni dicono che vive in cielo, dove riconoscono nella via Lattea il

17 r. needham, Belief, Language and Experience, Blackwell, Oxford 1972 (tr. it. Credere. Cre-denza, linguaggio, esperienza, rosenberg & Sellier, Torino 1976).

18 i roma chiamano raháne roma quelli che si autodenominano xoraxané romá, gruppi emigrati dalla ex-Iugoslavia centro-meridionale a partire dagli anni ’60 del secolo scorso.

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Devléskero drom, la strada di dio; altri dicono che è ovunque, altri nu paradízo, in paradiso, luogo non identificato che non è in questo mondo, ma di cui altri ne-gano l’esistenza. La forma di Dével resta imprecisa e i roma non si preoccupano di dargli dei contorni precisi. c’è, ed è tutto. Sembra non dipendere da nessun altro essere, se non da báit (o bái), il destino, la sorte, da cui, secondo alcuni, non può sottrarsi. a volte báit e Dével sembrano corrispondere, ma báit non sembra essere un ente personalizzato come lo è Dével. Dével, come dicevo, è bestem-miato solo po gağikáne.Devlóro (lett. “piccolo dio”), Iézus: Gesù. È il figlio di Dével, ha i suoi poteri, o forse qualcuno in meno. È forse più invocato di Dével, ma come costui appare alquanto inaccessibile. Si sa che era un uomo e che è morto sulla croce ucciso da certi gáğe, e le poesie di un poeta rom insistono particolarmente su questo19.Devlóri (lett. “piccola dea”), Majka boza, Maika bozitsa (< croato: “madre divi-na”), Gağóri, (“piccola gáği ”), Madóna: madonna. È la madre di Devlóro, ha i suoi poteri. i roma hanno una particolare venerazione per lei ed è senza dubbio la più invocata fra gli esseri soprannaturali. non è così lontana da loro come sembra-va esserlo nel caso dei rom lovara di Yoors. È lei che aiuta i roma in modo parti-colare e la sua immagine è presente in molte kampíne, in molte roulotte. Si sa che era una gáği. Qui abbiamo un rovesciamento spettacolare rispetto a quanto cre-dono invece i gitani flamencos dell’andalusia descritti da caterina Pasqualino20, un altro gruppo che conosce da secoli una forte influenza cattolica, presso i quali la vergine e cristo sembrano avere una natura gitana e sono considerati membri della comunità, non sono concepiti come dei payos (altri corrispettivi locali dei gáğe).Devlóra, svéti: santi e sante. anche i santi sono chiamati “piccoli dèi”. il termine italiano (“santo”) e quello d’origine sloveno-croata, svéto (< svet), sono usati d’abitudine per indicare un santo particolare, ad esempio sant’antonio ecc., ma in gruppo i santi sono i devlóra, i “piccoli dèi”. Un santo o una santa, comunque, può essere pure indicato come devlóro o devlóri. a volte si può intuire l’esisten-za di una gerarchia tra i devlóra, altre volte sembrano avere un potere uguale, ma sempre inferiore a quello di Dével, a quello di Devlóro figlio di Dével e a quello di Devlóri madre di Devlóro. Qualche gruppo locale ha il suo proprio santo o santa a cui ci si rivolge nelle invocazioni, di cui si frequenta la chiesa e la cui immagine compare nelle kampíne. i roma dell’italia del nord-est ricono-scono tuttavia una superiorità indiscutibile a Sant’antonio da Padova. Per le cose importanti si va da lui, o nello stesso tempo da lui e dal santo locale. i devlóra assistono Dével per aiutare o punire gli uomini ma, di fatto, sono loro e Devlóri quelli più “caricati di lavoro” da parte dei roma. Dével e i devlóra possono pu-nire, ma sono invocati soprattutto per avere un aiuto e, contrariamente a quanto avviene coi múle, essi non sono temuti. non c’è assolutamente il rischio che essi

19 L. Piasere, Un mondo di mondi, L’ancora, napoli 1999, pp. 123-130.20 c. Pasqualino, Dire le chant. Les Gitans flamencos d’Andalousie, cnrs, Paris 1998 (tr. it. Dire

il canto. I gitani flamencos dell’Andalusia, meltemi, roma 2003).

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vengano fra i vivi e si facciano loro vedere. e anche se ciò capitasse, non sareb-be affatto un avvenimento da tenere nascosto o taciuto; qualche rom è andato a Lourdes sapendo bene che là era apparsa Devlóri, e appunto per chiedervi una grazia. Un rom, al contrario, non andrebbe mai in un posto dove è apparso un múlo per chiedergli un aiuto.

il personaggio di beng (o benk, plur. bénga), il diavolo, appare come criptato nelle narrative quotidiane. Pavla Štrukelj21 riporta due brevi rac-conti in cui benk appare, così come appare in alcuni racconti raccolti da dick Zatta22, tutti riferiti dai narratori a fatti accaduti, ma quando ancora vivevano in Slovenia. Qui il beng appare con la natura chiaramente da gáğo, a volte come uno scimmione-orco, a volte da non temere se non come spauracchio per bambini, altre con la stessa funzione di un múlo gáğo che scaccia i roma dal suo territorio. ma qualche volta si impone an-che nella vita e non solo nei racconti di tempi lontani e sembra aver var-cato la frontiera: dopo che per tanto tempo personalmente non gli ho dato importanza (anche nel mio studio del 198523 esso è stato presto liquidato), ho dovuto ricredermi quando, alcuni anni fa, un beng ha fatto fuggire un rom dal campo dove aveva la roulotte dopo averlo fisicamente aggredito. non tutti i roma concordavano sul fatto che si trattasse veramente di un beng, ma da allora l’interessato non si è mai più riaccampato in quel luo-go. esso appare nei modi di dire: po bengáne (“da diavolo”), bengéskero rom (“rom del diavolo”), bengéskero gáğo (“gáğo del diavolo”) ecc., ma non assume mai quella veste da trickster che ritroviamo invece nel beng dei rom kalderaš24. i vecchi dicono che può apparire con la forma di sap, serpente, ed è vero che i serpenti sono gli animali più schifati (assieme alle rane) e più temuti, di cui si può avere una paura folle. aparna rao e rade Uhlik25 riportano rispettivamente che certi manúš francesi e certi rom della Bosnia associano l’epilessia al diavolo e la chiamano bengali-mata o semplicemente benga (diavoli). i roma, invece, la chiamano con termini di origine slovena: padavítsa (< slov. padavica) o bozats (< slov. bozjast). il secondo termine ha la stessa radice dei termini sloveni Bog e bozji, “dio” e “divino”. insomma, altri roma associano l’epilessia al diavolo, i máre roma a dio.

21 P. Štrukelj, Romi na Slovenskem, Cankarjeva Založba, Ljubljana 1980, pp. 252-255.22 J. dick Zatta, Gli Zingari, i Roma, cit, pp. 191-193.23 L. Piasere, Māre Roma, cit., 1985.24 id., Il trickster e l’infinito. Alcune riflessioni a partire da esempi rom, in «i Quaderni del ramo

d’oro» 2(2009), pp. 399-411 (versione on line: www.qro.unisi.it).25 a. rao, Some Mānuš Conception and Attitudes, in f. rehfish (ed.), Gypsies, Tinkers and

other Travellers, academic Press, London 1975, p. 148 e r. Uhlik, Srpskohrvatsko-romsko-engleski rječnik, Svjetlost Uhlik, Sarajevo 1983, p. 243.

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4. La natura dei devlóra

L’origine cristiana del panteon dei roma è evidente e i roma stessi di-cono di essere cristiani cattolici e di esserlo sempre stati, né conosco casi di conversione al movimento evangelista (anche se in qualche caso si può trovare una convergenza di vedute, come ho spiegato altrove26). non è il caso qui di entrare in dettaglio in considerazioni un po’ trite sulla “reli-gione degli zingari”, se si tratti di sincretismo o di simbiosi, se ci sia un “nocciolo primitivo”27 o se vi siano elementi di un antico sciamanesimo28 ecc. mi interessa piuttosto partire da una generalizzazione che gli specia-listi di antropologia della religione hanno enunciato da tempo:

«L’azione efficace dell’óikos [l’ambiente] nella formazione della cultura si ma-nifesta nettamente anche in rapporto all’attività religiosa e magica. [...] non solo le espressioni concettuali e teoriche sono strettamente legate all’óikos, bensì an-che le manifestazioni rituali. ed è semplicemente logico che ciò si avveri. infatti lo scopo primario ed immediato della religione e della magia è di alleviare il peso esistenziale della condizione umana, il che sarebbe del tutto illusorio e inefficace se l’attività religiosa e magica non si muovesse in relazione alla situazione am-bientale dentro la quale prende consistenza la condizione umana. [...] il rapporto intimo tra gli ecosistemi e l’etnema religioso-magico deve pertanto considerarsi importante e fondamentale»29.

Sulla base di tale rapporto intimo, Bernardi costruiva una tipologia formata da quelli che chiamava teismo silvestre, teismo agreste e teismo pastorale. con questa terminologia voleva mettere «in risalto il tema cen-trale della ricerca di dio, ma non l’idea di dio in quanto tale, e la differen-za che tale ricerca assume dal rapporto con i corrispondenti ecosistemi»30.

Tornando ai roma, cerchiamo allora di vedere come si sviluppa il “rap-porto intimo” tra le credenze dei máre roma ed il loro particolare am-biente, da loro vissuto come costituito soprattutto dai gáğe fra cui vivo- no immersi e dispersi. La ricerca della divinità passa attraverso due vie: 1. assumendo credenze magico-religiose dei gáğe, o per lo meno facendo espresso riferimento ad esse; 2. divinizzando l’ambiente stesso, cioè i gáğe. Se i pigmei mbuti divinizzano la foresta, se gli agricoltori mettono l’accento sulla fecondità della terra e della famiglia, se i popoli pastori

26 L. Piasere, Un mondo di mondi, cit., pp. 126-127.27 ad esempio, f. cozannet, Mythes et coutumes religieuses des Tsiganes, Payot, Paris 1973 (tr.

it. Gli zingari. Miti e usanze religiose, milano, Jaka Book 1975), pp. 67-70.28 ad esempio, v.i. Sanarov, Elements of ancient beliefs in Gypsy religion, in «Soviet anthropol-

ogy and archeology» 8/3(1970), pp. 187-213.29 B. Bernardi, Uomo, cultura, società, angeli, milano 1974, pp. 363-364.30 Ibi, p. 365.

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accentuano il carattere uranico dell’essere supremo31, i roma, dal canto loro, privilegiano l’umanità nella quale sono immersi: i gáğe.

il riferimento alle credenze delle popolazioni non zingare ci sembra una costante di tutti i roma d’italia, eccezion fatta delle famiglie di máğa- ria e di gíftaria32 che di recente hanno abbracciato l’evangelismo, ap-punto. con la terminologia proposta rispettivamente da Bernardo Ber-nardi e da aparna rao33, si potrebbe forse generalizzare la discussione e chiederci se si possa parlare di un teismo proprio dei gruppi “girovaghi” (peripatetics), ma non mi interessa sviluppare qui il punto 1, che rientra nell’approccio più generale delle modalità di acquisizione e reinterpreta-zione dei tratti culturali dai gáğe34. È il punto 2 che deve invece attirare la nostra attenzione, anche perché mi sembra che non sia stato preso in considerazione per altri gruppi di roma.

in italia non ho mai sentito raccontare miti sull’origine dei roma dai roma, né ve ne è traccia nella letteratura disponibile. È Pavla Štrukelj che ci aiuta a colmare le lacune nostre e, forse, dei roma stessi che vivono oggi in italia. non credo di proporre delle estrapolazioni illecite, dal mo-mento che racconti di altro tipo raccolti da me in italia combaciano con alcuni riportati dall’etnografa slovena, per cui possiamo pensare che certe leggende da lei pubblicate, anche se non più raccontate dai roma in italia, facciano parte di un loro fondo tradizionale:

a) Una di queste leggende, raccolta nel 1962 a Šentjernej35, racconta che un giorno in paradiso dio andò a trovare adamo ed eva. Poiché co-storo si vergognavano d’avere molti figli, ne fecero vedere solo una parte a dio e nascosero gli altri. dio chiese loro se quelli che vedeva fossero tutti i loro figli, e adamo ed eva dissero di sì. dio allora si arrabbiò e affermò che egli si sarebbe preso cura solo di quelli che vedeva, mentre quelli che gli erano stati nascosti sarebbero da quel momento diventati zingari. Spettava ad adamo ed eva prendersi cura di loro: sarebbero vis-suti nei boschi e sarebbero rimasti per sempre senza casa. Solo coloro di cui lui si prendeva cura avrebbero avuto casa e terra. Questo mito superbo non è un racconto isolato, visto che l’autrice informa d’averne raccolto una variante a Črnomelj. I tratti essenziali sembrano essere:

31 Ibi, pp. 363-376.32 i roma chiamano máğaria (o máğarsko roma) i rom kalderaš e gíftaria (o gíftarsko roma)

i sinti.33 B. Bernardi, Uomo, cultura, società, cit. e a. rao, Nomadi disconosciuti. Per una tipologia

delle comunità girovaghe, in L. Piasere (ed.), Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, na-poli 1995, pp. 149-168.

34 cfr. Piasere, Un mondo di mondi, cit.35 P. Štrukelj, Romi na Slovenskem, cit., p. 225.

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– roma e gáğe sono fratelli in quanto figli di adamo ed eva;– i gáğe sono figli “adottivi” di Dével;– i roma sono figli unicamente di adamo ed eva– i gáğe hanno la terra;– i roma vivranno nei boschi, ma nemmeno i boschi saranno di loro proprietà: «e gli zingari non avranno niente» – scandisce dio.

Quindi, roma e gáğe sono senza dubbio uomini (manúša), in quanto figli degli stessi genitori, ma dio e il territorio appartengono solo ai gáğe, mentre ai roma spetta quella che potremmo chiamare la pura umanità penitente, in quanto, non adottati da dio, restano figli solamente dei pec-catori adamo ed eva.

L’opposizione tra gáğe = figli di dio e roma = banditi da dio appare in altri racconti:

b) maria non trova alloggio a Betlemme e, gira e rigira, passa la notte in una stalla. Quando nacque suo figlio, gli altri gli gridarono: «Zingari!». Per punizione, quelli stessi che così gridarono divennero zingari36.

c) maria e Giuseppe fuggirono in egitto, dovettero andare di paese in paese. alcuni li presero in giro dicendo che erano degli zingari. a causa di questa presa in giro divennero essi stessi zingari37.

d) Un’altra serie di racconti si riferisce ai famosi chiodi della croce, una leggenda diffusa fra i roma di tutta europa e anche fra i non zingari38: gli zingari forgiarono i chiodi per mettere cristo in croce, e per questo furono puniti e devono oggi girare per il mondo39.

Se Dével appare solo indirettamente come un gáğo (nel senso che ri-conosce solo i gáğe come propri figli adottivi), Giuseppe, maria e suo figlio si configurano indubbiamente come gáğe dopo che abbiano “crea-to” per punizione i roma-zingari. d’altra parte, abbiamo visto che la ma-donna può essere evocata con il vezzeggiativo-diminutivo di Gağóri, la piccola, cara Gáği. anche gli altri devlóra sono dei gáğe, come possiamo costatare dai seguenti episodi.

Un giorno sto parlando con il vecchio Tapi sull’eventualità di fare un salto insieme alle Saintes-maries-de-la-mer, in Provenza, per vedere come si svolge questo famoso pellegrinaggio degli “zingari” che si tiene

36 Ibidem.37 Ibi, pp. 225-226.38 ricordo a proposito uno studio di P. apolito, Canti di maledizione degli Zingari, in «Lacio

drom» 3-4 (1977), pp. 2-16, riguardante il Sud-italia.39 P. Štrukelj, Romi na Slovenskem, cit., p. 226.

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ogni anno il 24 e 25 maggio. comincio a spiegargli un po’ la leggenda delle due marie e di “santa” Sara. mi guarda e ride:

Tapi: «cos’è questa Sara? Una zingara? Una rómni40?».io: «così dice la storia».Tapi: «impossibile! mai sentito che i roma divengano santi».io: «non so se è vero, è la storia che dice così, e comunque in francia i roma ci credono!».Tapi: «impossibile! ascolta: se è una santa, allora non era zingara; se era una zingara, allora non è santa. ma che razza di zingara è una zingara che diventa santa?!».io: «e perché i roma in francia dicono così?».Tapi: «ma non hai ancora capito niente, tu! Vášo lóve, na! Per i soldi, no! Se dici che ci sono tanti gáğe che vanno a vedere...»41.

in un’altra occasione, prima che venisse beatificato da Giovanni Pao- lo ii, mi capita di mostrare a due roma, entrambi sui vent’anni o poco più, un santino con la figura di ceferino Jiménez malla, detto il Pelé, un gita-no degli anni ’30: «come si chiama quello che vogliono fare santo?» – mi chiede uno dei due. «Pelé». «ah, ecco! Solo un rom che si chiama così può diventare santo!»42.

insomma i devlóra hanno una natura da gáğe: sono i gáğe che hanno il potere di canonizzare ed è chiaro che selezionano solo gáğe. La produzio-ne degli esseri sovrumani è egualmente ripartita tra gáğe e roma: i primi sono produttori dei gáğe che contano e di cui si parla molto, i devlóra, i secondi dei múle che contano, quelli di cui non si parla.

5. rašáia e hálige gáğe

non solo i roma credono negli dèi dei gáğe e li concepiscono come gáğe, ma credono anche nelle capacità dei ministri del culto dei gáğe, che

40 È il femminile di rom; il plurale è rómnia.41 Sulla festa delle Saintes-marie-de-la-mer, la sua storia, le modalità della sua “invenzione” e

sul ruolo della chiesa nella sua organizzazione, si vedano ora gli interessanti studi di marc Bordigoni (Le pélerinage des Gitans, entre foi, tradition et tourisme, in «ethnologie française» 32[2002], pp. 489-501 e Sara aux Saintes-Marie-de-la-Mer, in «Études tsiganes» 20[2004], pp. 12-34).

42 Po románe “testicoli, coglioni” si dice péle, ma in altri dialetti del romanes la forma pelé è pure corrente – da qui la freddura del locutore. ceferino Jiménez malla è il primo “zingaro” canonizzato dalla chiesa; si tratta di un gitano di Barbastro (Spagna) ucciso durante la guerra civile spagnola dagli anti-franchisti e beatificato il 4 maggio 1997 da Giovanni Paolo ii. Una presentazione agiografica la troviamo in mario riboldi (Un vero kaló. Zeffirino Jiménez Malla, cdG, Pavia 1997); un’indagine etnografica nella città d’origine, compiuta da caterina Pasqualino (Un saint gitan, in «Études tsiga- nes» 20[2004], pp. 64-73), ci informa che la sua famiglia è oggi convertita alla chiesa evangelica.

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sono essi stessi gáğe. il prete cattolico (rašái) è forse la persone più am-bigua che esista fra gli uomini, lo scetticismo che lo circonda è intenso, e si possono trovare nei suoi riguardi, da un rom all’altro e da un momento all’altro, opinioni e comportamenti totalmente opposti. La sua natura di gáğo non è mai messa minimamente in discussione: era gáğo prima di diventare rašái, è gáğo dopo che lo è diventato e resta gáğo anche dopo la morte. in quanto tale, si sa che si comporta come i gáğe e quindi deve essere trattato da gáğo. il controllo delle relazioni interpersonali con i gáğe impegna quotidianamente i roma e tanti sono diventati dei maestri nel come ricercarle e maneggiarle, ma l’incontro accidentale e non previ-sto con un prete (tanto più se sconosciuto) può essere visto come uno dei tanti segni nefasti forieri di nesréča, sfortuna, per cui lo scongiuro, fatto toccandosi i testicoli o sputando per terra esclamando silenziosamente Dur mandar! «Lontano da me!», è usuale. ma si tratta anche per eccel-lenza del gáğo di mediazione che i roma ricercano e di cui hanno bisogno, mediatore tra i roma e i múle perché è suo il compito di seppellire i morti, mediatore tra i roma, Dével e tutti i devlóra.

in quanto gáğo, con lui si possono avere rapporti economici. È di soli-to considerato il proprietario della chiesa in cui opera e, come tale, molto ricco. Tutti gli scambi economici privilegiati dai roma con lui sono possi-bili. come gáğo, può desiderare le donne dei roma: «allora, mia moglie era per strada e chiedeva la carità, no! e un prete va da lei e le chiede se va con lui. “Ti pago – dice – mica per niente”. mia moglie lo caccia via e su-bito dopo arrivo io. mi racconta quello che è successo, e io: “dov’è? Per dove è andato?” ma era scappato. Sennò, sai, gli avrei mangiato la chiesa e tutto il presbiterio!». come gáğo, è improbabile che anche lui non abbia una moglie43 e, in fondo, è giusto così: «Guarda don ... (e fa il nome): all’inizio era venuto con noi per una penitenza, da solo, tanti anni fa. noi avevamo la kampína (roulotte) e lui la tenda, come un miserabile... ma ora anche lui si è accasato con la maestra. Ha la sua kampína e la sua mo-glie anche lui». Si sa che ai rašáia è prescritta la castità, ma «credo che nemmeno i santi arrivino a resistere... Ho sentito dire che volevano fare santa una che si è lasciata ammazzare piuttosto che andare con un gáğo che la voleva… forse perché proprio non le piaceva!». Si sa che i rašáia dipendono dai vescovi e che il papa è il capo, ma se costui è inaccessibile per gli scambi economici, qualcuno si vanta di essere riuscito a vendere dell’oro perfino a un vescovo: «non so se era proprio vescovo, aveva il berrettino rosso, sai! Più di dieci milioni di lire...».

43 i roma considerano “moglie” qualsiasi donna con cui un uomo si pensa possa avere rapporti sessuali.

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i roma contano molto sui rašáia come mediatori con i gáğe e in ita-lia, fra tutti i roma, sono forse quelli che contano la maggior presenza di missionari che vivono fra gli “zingari”. e la presenza, a volte breve e a volte di lunga durata, di preti, frati, suore o laici è una costante nei loro gruppi locali in italia. ma non sembra trattarsi di un fenomeno solo ita-liano. Pavla Štrukelj44 parla di un prete che era riuscito a raccogliere un dizionario po románe (purtroppo andato perduto), il che implica che quel prete li abbia frequentati a lungo e sia stato ben accettato fra di loro. in una testimonianza, un anziano rom emigrato in italia anni fa ricordava: «mi hanno detto che in croazia c’era un parroco che si interessava dei nomadi a iazenovaz [Jesenovac]. Lo dicono i magiaria [Máğaria] questo e dicono che parlava tutta la loro lingua. Quel parroco è poi morto in tempo di guerra ucci-so. anche nella Slovenia noi avevamo un parroco che si interessava di Zingari. Lui faceva anche i documenti e così i nostri andavano in giro in regola. io ero giovane allora, perché era prima della guerra, e il parroco aveva già circa cin-quant’anni. era parroco di un paese che si chiamava ambruso [ambrus], vicino a Lubiana. Per andare là bisogna prendere la strada che da Lubiana va verso novomesto [novo mesto] attraverso Zagradec. Quando si è a Zagradec si volta a destra verso Zvirce [Žvirče] e si arriva subito a Ambruso. Mi ricordo ancora molto bene tutte quelle strade»45.

nel 1983 la rivista italiana del missionari cattolici, «rom. comunità in cammino», segnalava che anche a novo mesto c’era un sacerdote che seguiva i roma e che sapeva parlare po románe. il prete conosce bene i meandri burocratici dei gáğe ed è quindi automatico chiedergli servizi ed aiuti. ma a volte bisogna agire con astuzia, come con gli altri gáğe: «È arrivato il nostro nuovo parroco: adesso dobbiamo cominciare a chieder-gli un poco alla volta che faccia qualcosa per noi. ma aspettiamo un po’, sennò si stanca in fretta di noi...».

come persona di collegamento tra i vivi e i múle è senza dubbio da temere e da tenere lontano dall’intimità: «non mi sposerei mai con un prete perché va con i múle», mi spiegava una donna. La sua ambiguità deriva soprattutto dal fatto che è visto come un trait d’union con en-trambe le categorie di essere sovrumani, i múle e i devlóra, la cui natura è ben distinta, come abbiamo visto, e anche per lo scarto esistente tra la concezione dei roma e quella del rašái stesso: i roma lo considerano prima di tutto come il gáğo dei morti, mentre lui si presenta come il gáğo di dio. Succede quindi che, a seconda dei rapporti buoni o cattivi che un rom riesce a stabilire con un prete, gli assegnerà una caratteristica in base

44 P. Štrukelj, Romi na Slovenskem, cit., p. 34.45 miha, Jugoslavia, in «rom. comunità in cammino», n. unico 1978, p. 13.

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alla situazione del momento, operando una selezione tra le sue ambigue funzioni. Per uno, il prete sarà da evitare, per l’altro (magari il fratello), sarà da ricercare; uno farà gli scongiuri se lo incontra per strada, l’altro gli farà inaugurare la macchina nuova per prevenire incidenti stradali.

i servizi del rašái sono obbligatoriamente richiesti in occasione di due momenti: per il battesimo e per il funerale, subito dopo la nascita e subito dopo la morte. il bambino deve essere battezzato per poter entrare nel mondo degli uomini, in quello dei roma in particolare, e il battesimo deve essere fatto dal rašái, perché solo un rašái ha il potere e le capacità di rendere valido un battesimo. Gli stessi gesti potrebbero essere fatti da un altro gáğo e le stesse formule potrebbero essere pronunciate da un altro gáğo, ma non avrebbero alcun potere. nel corso della sua vita, quindi, un rom potrebbe non richiedere i servizi di un prete per se stesso, ma è obbli-gato a chiederli per gli altri, per chi deve entrare e per chi deve uscire dal mondo dei roma. come gáğe di dio, i preti sono i più quotati per diven-tare devlóra, anche prima della morte. don mario riboldi, un rašái che frequenta i roma da decenni e al quale si deve la traduzione po románe di molti passi della Bibbia46, credo si sbagliasse quando qualche decennio fa scriveva: «e così un giorno un rom, sentendomi cantare una canzone di natale che avevo appena composto, è tornato a casa a dire: “don mario è vero dio” intendendo dire: “È davvero uomo di dio”. nessuno degli uomini che lo ascoltavano disse di no”»47. Se, come sospetto, si trattava di un rom sloveno-croato, egli voleva dire proprio quello che disse, con una frase che po románe poteva suonare: Don Mario hílo čáčo devlóro, «don mario è un vero devlóro».

Se i devlóra sono gáğe e se i rašáia devono essere gáğe, è allora im-probabile che un rom divenga prete o frate e che una rómni si faccia suora. Quando vivevo con i roma, si conoscevano due casi di rómnia di-ventate suore: una era una kalderašítsa e l’altra dei máre roma. Un giorno un rom mi dice riguardo alla prima: «Questi máğaria non sanno più che cosa inventarsi. ora ci sono anche quelli che cominciano a farsi passare per preti [riferendosi a quei kalderáša che, diventati evangelisti, accettano il sacerdozio dei rom], e anche quella là che è diventata suora. ma vedrai che, se non ne hanno abbastanza, avranno il loro tornaconto...». il secon-do caso non era sicuro, e comunque si sarebbe trattato di una donna che era stata abbandonata da piccola dai genitori e che sarebbe vissuta in un istituto dei gáğe prima di farsi suora.

46 Si veda, ad esempio, m. riboldi, Devleskere alava so pisingia sveto Marko, ciclostilato s.d.47 id., Mentalità religiosa dello Zingaro, in «rom. comunità in cammino», n. unico 1975, pp.

32-33.

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mentre i servizi rituali dei rašáia sono domandati per gli altri, i servizi degli hálige (o háilige) gáğe sono chiesti per se stessi o per dei parenti che sono già entrati, e non ancora usciti, dal mondo dei vivi. L’espressio-ne è un prestito dalla lingua dei gíftaria e significa letteralmente “i santi gáğe”. i roma li chiamano anche con l’italiano “santo”, “santa”, ma anche i termini devlóro e devlóri sono ancora una volta impiegati. Queste per-sone, uomini e donne, sono frequentate essenzialmente a fini terapeutici, per prevenire una malattia o per combatterla. Paola Trevisan scrive in uno studio di approfondimento su come i roma vedono questi devlóra:

«essi agiscono tramite il dono ricevuto da Dével. Grazie a tale dono essi non solo hanno il potere di sconfiggere le malattie, ma sono in grado di prevedere come si risolverà una condizione di sventura; non si tratta di prevedere nel senso di leggere gli avvenimenti futuri, quanto piuttosto di utilizzare il proprio “dono” e quindi la propria forza affinché la situazione possa evolvere in senso positivo»48.

La credenza nelle loro capacità è molto diffusa e i roma sono disposti a spendere grosse quantità di denaro per poter usufruire dei loro servizi. Per anni, una guaritrice molto gettonata era una “santa” che abitava in Puglia, che i roma dell’italia settentrionale raggiungevano in auto o in treno per far-si curare. Quasi tutti i roma hanno amuleti e sacchettini appesi al collo e ri-cevuti dalla háligi gáği, e più di un rom ha bruciato i costosi piumini da letto in seguito alle sue disposizioni. Si tratta senza dubbio di persone “di dio” che, forse più dei rašáia, sono capaci di mantenersi caste. Tutto sommato meno conosciute dei preti, sono anche per questo figure meno ambigue.

6. Kangéri e mésa

Nel 1959 un curato di Kočevje, in Slovenia meridionale, faceva sapere che «presso di noi gli zingari [...] ricevono soltanto il sacramento del Bat-tesimo. essi vengono pure sepolti con il rito religioso cattolico. non ri-cevono altri sacramenti»49. Un missionario che viveva maskor roma, fra i roma, in italia, mi scriveva in una lettera personale nell’agosto 1983 dopo un viaggio in Dolenjska: «Sono andato a trovare il parroco di Kočevje. [...] vede i roma solo quando vanno da lui per un battesimo o un funera-le». ora, se il mondo del divino è un mondo prodotto dai gáğe, la pratica del divino, però, segue modalità po románe, sia in italia che in Slovenia.

48 P. Trevisan, Fra medici e santi. Itinerari terapeutici di una comunità di Roma croati, in L. Piasere (ed.), Italia romaní, vol. i, cisu, roma 1996, p. 215.

49 cit. in m. Karpati, Ròmano Them (Mondo Zingaro), missione cattolica degli Zingari, roma 1962, p. 111.

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i roma chiamano mésa (< it. “messa”) ogni rito religioso, senza distin- zione, celebrato da un prete. anche quando più persone si ritrovano per pregare, leggere la Bibbia ecc., i roma dicono che stanno “facendo la mésa”. riconoscono che la mésa si può celebrare ovunque, ma il suo luogo privilegiato deve essere il luogo sacro dei gáğe, cioè la kangéri (o kingéri), la chiesa. il momento di dio, la mésa, ed il luogo di dio, la kangéri sono tempi e spazi lasciati soprattutto ai gáğe. anche nei grup-pi locali in cui vive il missionario cattolico, la partecipazione alla mésa celebrata al campo è quasi nulla: è giusto che il rašái la faccia, ma resta un suo affare. Quando qualcuno partecipa, lo fa spesso più per “rispetto” verso il prete che celebra la messa o che dirige la preghiera. i roma sono pronti ad accorrere alla mésa di un prete che “conta” e possono sdegnare quella del prete senza potere e autorità fra i gáğe. in qualche caso i mis-sionari hanno trasformato una roulotte in chiesa, ma i roma esigono che i riti per loro fondamentali, come il battesimo ed il funerale, vengano ce-lebrati ándo kangéri, nella chiesa, quella “vera”, non in quella del campo ritenuta fittizia50.

malgrado gli insegnamenti offerti dai preti cattolici, i roma continua-no a seguire i propri ritmi di pratica religiosa. Dével e tutti i devlóra non sono da “adorare” e gli atteggiamenti mistici o le ricerche estatiche sono totalmente sconosciuti fra i roma. È compito del rašái mantenere i con-tatti con dio, hanno altro di cui occuparsi i roma! essi si rivolgono ai devlóra solo per poter essere aiutati quando il controllo di questo “altro” diventa precario. i ritmi della pratica non sono cadenzati in modo preciso, ma seguono le esigenze del momento, o possono esserlo quando un rom decide di sua volontà di darsi un ritmo e degli obblighi.

i roma vanno in chiesa soprattutto per chiedere un aiuto ai devlóra o per ringraziare i devlóra per un aiuto ricevuto. essi fanno essenzialmente dei “patti” con loro per mezzo dei voti: promettono di comportarsi in un certo modo se i devlóra concedono quanto essi chiedono. Un rom, ad esempio, ha giurato che non sarebbe mai più andato a rubare, se il figlio malato non fosse morto. il figlio non è morto, e lui ha mantenuto la promessa. Un altro rom aveva promesso di andare ogni anno in un dato santuario, sempre se suo figlio malato non fosse morto, e per decenni ha

50 La chiesa “vera” deve essere, d’altra parte, uno spazio esclusivo di Dével e dei devlóra: nei primi anni ’90, invitato da Gian Paolo Gri, mi trovai in un paese del friuli per una conferenza su-gli “zingari” organizzata dal parroco locale, i cui modi alternativi di agire si palesavano anche nel fatto di far tenere in chiesa i cicli di conferenze che preparava. Per la conferenza vennero anche dei roma dei dintorni, i quali, appena seppero che l’incontro si sarebbe svolto in chiesa, si rifiutarono categoricamente di entrare protestando vivacemente. alla fine, feci la conferenza in un’attigua sala parrocchiale...

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rispettato il voto. Si va anche in chiesa per giurare solennemente davanti ad altri roma: il devlóro di turno sarà il garante del giuramento.

L’aiuto dei devlóra ha il suo prezzo, non è mai gratuito. Una candela (svíča, swíča) costa poco, ma i devlóra ne consumano molte e preferisco-no talvolta i grossi ceri. Quando un affare con i gáğe è andato particolar-mente bene, c’è stato forse l’aiuto, richiesto o non richiesto, di un devlóro o di una devlóri: è giusto allora che abbia una ricompensa e le offerte possono essere più che generose. in queste occasioni i devlóra sono trat-tati come lo sono i roma, poiché anch’essi arrivano a beneficiare della distribuzione, che di solito avviene nella comunità, di una parte dei beni acquisiti presso i gáğe.

anche se ogni gruppo locale ha il proprio devlóro su cui contare, i roma amano fare i pellegrinaggi in altri santuari. Per usare un’espressio-ne abusata, il pellegrinaggio si configura come un fatto sociale totale, un momento che condensa tutta la vita sociale dei roma. La maggior parte delle volte, esso sancisce davanti agli altri roma il diritto di sfruttamento commerciale della regione in cui si trova il santuario, del territorio allar-gato in seguito all’esigenza di fluidità dei gruppi locali. ancora oggi, ad esempio, famiglie che vivono non lontano dal confine con la Slovenia e che hanno rapporti con gáğe sloveni, frequentano santuari da una parte e dall’altra del confine. al contrario, roma che un tempo frequentavano il santuario di Trsat (Tersatto), a fiume, e che oggi non frequentano più la croazia del nord-ovest, si rivolgono solamente ai santuari italiani.

il pellegrinaggio è un momento di produzione: nelle vicinanze del san-tuario si può chiedere la carità e fare commerci. non è un caso se, ad esem-pio, “po Tredici”, cioè alla festa di sant’antonio da Padova del 13 giugno, i roma frequentassero in passato la grande fiera di cavalli. È un momento di distribuzione e di consumo: si offre al devlóro o alla devlóri, ci si scam- bia cibo tra roma, si mangia tra roma. È un momento di alta politica: si arriva con l’auto o la roulotte nuove per mostrare la propria prosperità e la propria fortuna, si arriva per risolvere questioni rimaste in sospeso con altri roma; si dà la possibilità a due giovani innamorati che usualmente non si incontrano di sposarsi attuando la fuga nuziale – unico modo pre-visto dai roma per unirsi in matrimonio; ci si va per incontrare roma che non si vedevano più da tempo, per avere notizie, per conoscere gli ultimi avvenimenti dei roma; ci si va per festeggiare, per avere momenti di gioia intensa; ci si va per far vedere ai gáğe che anche i roma “tengono” a quel-la festa; ci si va anche per voti e ringraziamenti al devlóro o alla devlóri di casa, ma il tempo della visita all’interno del santuario è un nulla in rapporto a quello passato fuori, nelle sue vicinanze. non ci si va se non si

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vogliono incontrare roma che è meglio non incontrare, o quei roma sgra- diti col cui figlio tua figlia potrebbe scappare per sposarsi...

Un rom può andarci da solo, con la famiglia, con altri roma. Si va sem-pre più ai pellegrinaggi organizzati dai preti, ed è vero che vi è un calo delle visite collettive ai grandi santuari, il che è anche dovuto alla chiusu-ra verificatasi negli ultimi decenni dei gruppi locali e all’indebolimento dell’esigenza di fluidità, più evidente fino agli anni ’70. Le feste familiari, come quella del battesimo e dei compleanni, un tempo inesistenti, hanno preso consistenza, di pari passo con la diminuzione delle distribuzioni extra-familiari di beni.

È il caso qui di specificare che l’importanza dei pellegrinaggi per i roma si inserisce all’interno di un modello culturale ampiamente presente nel mondo “zingaro” in genere. Se tracciassimo una carta dell’europa indicandone i principali santuari mèta di pellegrinaggi o le città in cui si svolgono processioni in occasione di festività locali importanti, noi con- temporaneamente avremmo tracciato con una buona approssimazione la carta della loro partecipazione religiosa. Per restare in italia, feste e san-tuari come quelli della madonna addolorata di Pietralba (Bolzano), di castelmonte (Udine), di Sant’antonio da Padova, della madonna del Bo-sco di imbersago (milano), della madonna di Lourdes di forno di coazze (Torino), della madonna di caravaggio a cremona, di Santa Teresa a ve-rona, della Santa casa della madonna a Loreto, di Santa rita di cascia, di San Gabriele dell’addolorata a isola del Gran Sasso (Teramo), di San rocco di Tolve (Potenza) e di san rocco di Torrepaduli (Lecce), di San Gerardo a materdomini (avellino) ecc., sono tutti luoghi e occasioni mol-to frequentati dai diversi gruppi presenti nelle rispettive regioni. i respon-sabili della pastorale cattolica fra gli “zingari” lo sanno da tempo, tant’è vero che dopo il famoso raduno internazionale di Pomezia del 1965, in cui per la prima volta un papa, allora Paolo vi, incontrò gli “zingari” in un momento riservato esclusivamente a loro, aprendo di fatto il ricono-scimento ufficiale della chiesa di roma alla loro presenza nel mondo, dopo quell’occasione, dicevo, furono diversi i pellegrinaggi internazio-nali “ufficiali” organizzati dalla chiesa: nel 1966 a Lourdes, nel 1967 ad Altemberg, nel 1968 a Saragozza, nel 1969 a Banneux in Belgio, nel 1970 a fatima ecc. Tutto quest’ambito del “cattolicesimo popolare” dei diversi gruppi non è mai stato studiato in modo sistematico, e pochissimi sono pure gli studi particolari51.

51 cito quello di caterina Pasqualino (Dire le chant, cit.) svolto fra i gitani dell’andalusia, che studia con acume la partecipazione dei gitani alle processioni della Settimana Santa, e quello di anto-nio rizzo (Realtà spaziali e identità. Tratti del rapporto tra cultura zingara e mondo esterno, Tesi di

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7. devléha!

fra i roma, il saluto è un augurio di restare «con dio»: Devléha!, o con il piccolo dio: Devloréha! durante la giornata, gli dèi sono spesso invoca-ti (Santa Terézitsa mri!, «o mia cara santa Teresa!»), così come la locali-tà di un santuario (Castelmonte mro! «o mio castelmonte!»). Sono spes-so chiamati a punire (Te tu strafíni devlóri! «che la devlóri ti punisca!»; Te tu kastigíni Castelmonte! «che castelmonte ti castighi!»). in positivo o in negativo si chiede loro aiuto. L’atteggiamento verso i múle e verso i devlóra potrebbe sembrare simile e talvolta giurando li si evoca di se-guito: Po mre múle i po sa devlóra! «Sui miei morti e su tutti i devlóra»; talvolta si chiede l’aiuto sia ai múle che ai devlóra poiché un’azione cu-mulativa è più potente. Talvolta, in casi eccezionali come potrebbe essere una malattia grave, si ricorre a tutte le potenze possibili: si va dal medico, dal prete, dalla santona, si fa il giro di tre santuari e si invocano i propri morti: niente deve restare di intentato. ma è evidente che, se i múle pos-sono aiutare, è meglio non disturbarli e lasciarli po míro, in pace, perché essi sono soprattutto da temere, e che se Dével e i devlóra possono punire, essi sono lì soprattutto per soccorrere.

il mondo dei devlóra non sembra conoscere tutto l’impegno simbo-lico che caratterizza invece il mondo dei múle: in fin dei conti sono gli dèi dei gáğe e gáğe essi stessi. i roma fruiscono del divino attraverso la mediazione dei gáğe, a cui sembra demandato il compito di edificarlo. ma la loro esistenza dà una coerenza al modello culturale di rappresenta-zione del mondo sovrumano e lo ingloba direttamente nel mondo sociale dei roma. il mondo dei roma, ossia il mondo quale è vissuto dai roma, è essenzialmente il mondo dei manúša, degli uomini. Si potrebbe dire che abbiamo qui a che fare con un umanesimo radicale. ora, tutti gli uomini sono produttori di agenti sovraumani: i roma producono i múle e i gáğe producono i devlóra. ma il mondo sovraumano non è una copia del mon-do degli uomini, piazzato chissà dove nello spazio e nel tempo; si tratta semmai di uno specchio sempre presente che riflette all’inverso il “testo” umano: i roma producono i múle, ma i múle hanno tendenza a comportar-si come i gáğe, in modo ostile; i gáğe producono i devlóra, ma i devlóra

dottorato, Università della calabria 2002), che ha analizzato la presenza dei rom calabresi alla famosa festa dei santi cosma e damiano che si celebra a riace il 24 e 25 maggio. La ricerca etnografica di rizzo, svolta nel 2000, è importante poiché testimonia il tentativo da parte di esponenti della chiesa di promuovere il culto del nuovo beato, ceferino Jiménez malla, culto che effettivamente stenta a decollare, inserendo, all’interno della tradizionale processione al santuario dei Santi medici, una processione a parte, “etnica”, riservata ai rom, copiando parzialmente quanto avviene alle Saintes-maries-de-la-mer.

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tendono a comportarsi come i roma e da loro ci si aspetta di essere aiutati. L’intensità dei riflessi dello specchio non è omogenea e un cono d’om-bra oscura i devlóra – indispensabili, ma creazioni d’altri. L’espressione che ho appena usato di «mondo sovraumano» veicola in realtà, con quel «sovra-», una coloritura etnocentrica: per i roma nessuno è “sopra” o da un’altra parte. vivi, morti e santi stanno sempre insieme e solo una pro-cedura da gáğe, quale la scrittura di un articolo, può dare l’impressione di poter smembrare il mondo dei roma. Perché, al di là delle frontiere e in tempi diversi, máre roma hanno avuto bisogno, per restare roma in mezzo ai gáğe, della presenza degli áver roma, dei gáğe stessi, dei múle e di tutti i devlóra.

Abstract: The article describes the way in which a group of Roma has built the sphere of the divine. For centuries, Slovénsko Roma have been living among Catholic populations, first in Croatia and Slovenia and nowadays in Italy after having migrated in the early twentieth century. In their cosmology, categorising human beings into Roma and Gáğe is fundamental: the Gáğe are that part of hu-manity among which the Roma are immersed and dispersed and are essentially thought of as dangerous for the Roma’s daily lives. But it is exactly among the Gáğe that the Roma find their devlóra, “the little gods”, i.e. all those people, dead or alive, who, as helpers of dével, God, have the duty to assist Roma in the world: priests, holy men, saints, the Madonna and Jesus Christ himself can all be classified as Gáğe. They are the opposite of múle, deceased Roma, who, should they intervene, can be extremely dangerous for living Roma.

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