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La Rosa e la Croce

Date post: 02-Apr-2016
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di Franco Garrone, giallo storico. Liguria Occidentale, Anno Domini 1261. La piccola Contea di Ventimiglia è assoggettata al potere della Repubblica di Genova. La popolazione è allo sbando. Il cavaliere templare Oberto Apronio è fuggito alla prigionia dopo aver partecipato alla Settima Crociata. Con la complicità di una parte della nobiltà progetta un’offensiva per liberare Ventimiglia. Il Conte Apronio è detentore di un segreto che potrebbe far vacillare la stabilità della Chiesa. Tra intrighi e azione, agguati e battaglie, in uno scenario che procede tra Liguria, Provenza e Mediterraneo, riusciranno Oberto e i suoi valorosi amici a liberare la città dall'oppressione genovese?
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In uscita il 30/9/2014 (15,70 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2014 (5,99 euro)

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FRANCO GARRONE

LA ROSA E LA CROCE Romanzo storico

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LA ROSA E LA CROCE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-764-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ai miei genitori, Antonietta e Vittorio

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Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi

Giovanni 8, 32

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Albintimilium - Liguria Occidentale - Impero Romano.

Nell’anno 814 ab urbe condita la Via Julia, percorso principale per il transito

nella Gallia Cisalpina, fu deviata per permettere il pellegrinaggio

in prossimità della cripta dove fu seppellita una giovane donna, Ruth.

Ad accompagnare la sepoltura, una croce e tre arbusti di rosa.

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Anno Domini 1261

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Ora terza - Ville di Burdigheta Berto e Vanni conoscevano a menadito ogni spanna del territorio. A-mavano trascorrere le giornate giocando tra la spiaggia e la boscaglia. Vivevano con la famiglia presso le Ville di Burdigheta nella parte più elevata della collina. Berto aveva compiuto da pochi mesi il settimo an-no di vita, Vanni era più grande, superava i dieci anni. Ambedue erano abili cacciatori e, per le loro battute, utilizzavano le fionde. Quel giorno c’era una novità: il padre di Vanni aveva confezionato un arco. L’arma possedeva le dimensioni giuste per essere impugnata da un ragazzo del-la sua età. La corda, realizzata con un budello di capra, aveva la robu-stezza ideale per un giovane arciere. I due amici erano entusiasti di sperimentare il nuovo strumento di cac-cia: era giunto il momento di saggiarlo sulle prede. Vanni, per l’occasione, aveva sagomato molte frecce, intagliando del legno d’ulivo. Di buona mattina erano partiti dalle Ville e si erano avviati in direzione della strada. Si muovevano con cautela per evitare di provo-care rumore. Nella pineta si percepiva la presenza di vita. Sui rami de-gli alberi era facile scorgere volatili d’ogni genere e non di rado era possibile avvistare scoiattoli intenti a fare provviste. A volte, se si era fortunati, si riusciva a osservare anche il cinghiale che, spinto dalla fa-me, si spostava più a valle, in direzione della pineta. Berto era intento a scrutare le fronde degli alberi. I suoi occhi cerulei si muovevano con rapidità, esaminando con cura le chiome alla ricerca di

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una possibile preda. Vanni aveva montato l’arco, si era preoccupato di inserire il budello e ora attendeva un cenno dal compagno. A sinistra era presente un poderoso pino che si ergeva per un’altezza di cinquanta piedi. Nella parte centrale l’albero si biforcava in due robusti rami. Berto aveva indirizzato la sua attenzione su una di queste appen-dici dove era appollaiato un merlo intento nel suo richiamo. Le penne color pece incorniciavano il caratteristico becco arancio che distingue i maschi dalle femmine. Berto fece un cenno con la testa e indicò la po-sizione del volatile. Il compagno annuì. Riconobbe il bersaglio, prese la mira, iniziò a tendere la corda per caricare l’arco e nella massima ten-sione si arrestò, fece una breve pausa, e scaricò l’arma. La freccia guiz-zò in aria, percorse un tragitto non regolare descrivendo una leggera pa-rabola e colpì il ramo dove era appollaiato il merlo. La punta sfiorò il pennuto conficcandosi nell’albero. L’animale, colto di sorpresa, aprì le ali e con rapidità s’involò. «No!» urlò, con stizza, Vanni. «Lo hai mancato» aggiunse Berto. «Era troppo in alto! Non buttarti giù. Cerchiamone un altro.» «Forse ho bisogno di esercitarmi.» «Può darsi... ma proviamo ancora.» Ora nona - Ville di Sanremo «Madama, l’ultimo tratto di strada che vi separa da Ventimiglia è infe-stato da banditi» disse Orengo con voce ferma e proseguì: «Io e il Giu-dice abbiamo pensato che sia più sicuro percorrerlo in un’unica vettura con la scorta militare. Se siete d’accordo, darò disposizioni immediate.» «Date ordine» comandò la Contessa. Il Giudice organizzò la partenza, scese a parlare con gli uomini di scor-ta e fece pulire la carrozza. Orengo, accompagnando la nobildonna, la intrattenne ponendole alcuni quesiti. «Contessa, quali notizie portate da Genova?» «Buone nuove. La Repubblica sta espandendo i suoi confini a oriente. Abbiamo raggiunto la Via della Seta e il Doge pensa di procedere ol-tre» rispose, scrutando l’espressione dell’anziano interlocutore.

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«Mia signora, quali sono i progetti per questo lembo di Liguria?» incal-zò Orengo. «Genova desidera ristabilire le condizioni precedenti e portare pace e prosperità» rispose la Contessa. «Ma della flotta di Sanremo, il piano per annetterla? Cosa ne pensate voi?» «Non preoccupatevi, l’efficiente flotta sanremese rimarrà patrimonio dei suoi cittadini e vanto della Repubblica di Genova.» Orengo fece un segno di assenso e scortò l’ospite nel cortile dove la carrozza l’attendeva per la partenza. Si attardò con il Giudice e, prima di congedarsi, salutò la nobildonna con devozione. Il Giudice e la Con-tessa si accomodarono. Il conducente schioccò la frusta e mise in moto la carovana. Ora nona - Ville di Burdigheta Berto e Vanni si spostarono. Nella parte meno ripida della collina il fu-sto di un pino era adagiato a terra. Intorno all’albero si erano sparse numerose pigne ricolme di semenza. L’attenzione dei due amici si con-centrò sulla piana dove era apparso uno scoiattolo. L’animale esibiva una folta coda. Raccoglieva la semenza e la portava alla bocca. Vanni lo individuò: questa volta non poteva sbagliare, il bersaglio era fermo ed era alla sua stessa altezza. Caricò un’altra volta l’arma, prese la mira e lanciò il dardo. La freccia sibilò nell’aria e colpì l’animale, Berto si alzò e gridò: «Centro!» I ragazzi esultarono e corsero per raggiungere la preda. Un rumore ri-chiamò l’attenzione. Vanni afferrò Berto e lo spinse giù tra le fronde. Berto non capì e iniziò a borbottare, ma l’amico coprì i lamenti serran-dogli la bocca. I due restarono immobili, stesi sul terreno. Il rumore s’intensificò e prese forma: apparvero cinque cavalieri con il volto co-perto da un cappuccio. Erano armati con archi e faretre. Il primo cava-liere segnalò la posizione con un cenno. La squadra si divise, prese la via e si allontanò. Ben presto il rumore degli zoccoli cessò, lasciando posto al silenzio. I ragazzi si scambiarono un’occhiata. Si sollevarono e si accucciarono in prossimità di un albero.

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«Vanni, chi sono quegli uomini?» «Non li conosco, non li ho mai visti!» rispose, con apprensione, il gio-vane e continuò: «Hai notato, sono foresti! I loro cavalli erano sudati, devono aver galoppato per molte miglia, non sono certo giunti dalla contea.» «Vanni, perché avevano il capo coperto?» chiese Berto, con animosità. «Non lo so, ma penso non sia cosa buona.» Ora nona - Via Julia «Romualdo, mi hanno parlato degnamente di voi, a corte si vocifera che conoscete bene il territorio. Avete molte amicizie all’interno della no-biltà ventimigliese?» «Gentile Contessa, sono lieto di servire il vostro ufficio. Alcune fami-glie nobili si rappresentano attraverso il mio operato, altre, come in par-te già sapete, non hanno mai visto di buon grado la sudditanza con la Repubblica di Genova, ma attendono, in ogni caso, un segno concreto.» La Contessa concentrò lo sguardo su Romualdo e continuò: «Conoscete bene il trattato firmato dai Ventimigliesi all’indomani della resa. È chiaro che tutti i punti in questione devono essere messi in pratica. Non mi sembra che, in questi anni, la contea abbia rispettato i patti. Le cose devono cambiare e cambieranno in fretta.» «Avete ragione, madama. I precedenti podestà, pur con impegno, non hanno saputo cogliere i problemi; è ora di far rispettare i vincoli.» La Contessa riprese la parola. «Cosa mi dite dei moti di ribellione?» «Ci sono state manifestazioni cittadine in passato, deboli tentativi di ri-volta, ma sono stati sedati sul nascere. I Conti di Ventimiglia, ormai, sono un ricordo.» «Deboli tentativi di rivolta? Ma scherzate Giudice! E cosa sapete dirmi del conte Emanuele, nostro alleato, ucciso dalla sua stessa famiglia?» Romualdo arrossì e restò ammutolito. Poi con calma prese fiato, sorrise e disse: «Sono sicuro che con voi tutto questo sarà un ricordo.» «Lo potete ben dire, sono qui anche per questo.»

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Vespro – Ville di Burdigheta Vanni e Berto scrutavano la pineta cercando, tra rami e arbusti, la pre-senza di piccoli animali da cacciare. L’ora nona era trascorsa e la luce iniziava a mutare colore e intensità. Udirono un rumore, proveniva dal-la strada. Arrestarono la loro marcia e indugiarono in ascolto. Il fra-stuono s’intensificò e fece sussultare il terreno: era un calpestio di zoc-coli. Berto guardò Vanni, ci fu un cenno di assenso. I due si gettarono a terra e si nascosero tra il fogliame. Il convoglio giunse nella piana sulla sommità della collina e iniziò a percorrerla. La carrozza, trainata da quattro cavalli, proseguì la marcia e s’insinuò nel bosco. Fu un sibilo e poi un altro ancora in sequenza rapida: una pioggia di frecce investì la scorta. Uno dei dardi trapassò la gola del conducente che lanciò un lamento, avvicinò le mani alla testa e stramazzò al suolo. Dalla collina comparvero i cavalieri. La scorta fermò il convoglio e si pose a difesa per fronteggiare l’attacco. Il combattimento s’intensificò e proseguì. Uno degli assalitori si parò davanti alla carrozza. Scese da cavallo, impugnò l’arma, si avvi-cinò alla vettura e aprì con violenza la piccola porta. La Contessa, senza troppo indugiare, allungò la mano, afferrò la spada di Romualdo e con un movimento rapido la conficcò nel ventre dell’armato. Il bandito si piegò su se stesso, cadde sulle ginocchia e crollò a terra. Rosanna con gli occhi andò in cerca del Giudice ma lo trovò ripiegato su se stesso, intento a piagnucolare. «Ma che uomo siete!» urlò con disprezzo. Nel frattempo, i soldati della scorta sferrarono un nuovo attacco e, rin-forzando l’azione, colpirono due dei banditi e li uccisero. I sicari deci-sero di abbandonare lo scontro, si posero più in alto, su un rilievo e ri-presero a lanciare i dardi. La milizia cercò difesa, uno dei soldati fu colpito e rovinò sul terreno, gli altri si sistemarono a protezione della carrozza. Molte frecce raggiunsero la vettura, una penetrò nella carroz-za e si conficcò nella spalla della Contessa. La donna si ripiegò su se stessa e si accasciò. Gli uomini della scorta rinvigorirono l’attacco e si avvicinarono ai banditi. Gli assassini, presi alle strette, abbandonarono il combattimento, incitarono i cavalli e si dispersero nella boscaglia di-rigendosi verso nord.

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La Contessa, riversa sul sedile, respirava con fatica. Il Giudice era in preda al panico, atterrito alla vista del sangue che colava copioso. Non sapendo bene cosa fare, allungò una mano e afferrò il dardo, tentando di cavarlo dalla spalla della Contessa. Rosanna si accorse della manovra e lanciò un urlo: «No! Giudice? Togliete quella mano!» Il Rosso si bloccò, uscì dalla vettura e, barcollando sui piedi ancora tremanti, iniziò a chiamare. «Aiuto, soldati, presto accorrete, la Contessa è stata ferita!» Il segnale giunse a destinazione. I tre della scorta, che si erano allonta-nati nell’intento di inseguire i banditi, raggiunsero la carovana. «Signor Giudice, cosa succede?» chiese uno di loro. «La Contessa è stata colpita, perde molto sangue, fate qualcosa vi pre-go!» proseguì, con voce tremula e concitata. Il soldato più anziano si avvicinò al cavallo, rovistò nella sacca e prese un lembo di stoffa. Aprì la borraccia, versò una parte del contenuto sul cencio, entrò nella carrozza e inizio a premere con forza sulla ferita. Il secondo uomo si avvicinò a Romualdo e disse: «Messer Giudice dobbiamo cercare un medico, una mano esperta per curare la Contessa, non è possibile trasportarla in queste condizioni, siamo ancora lontani dal borgo.» «Hai ragione!» rispose il Rosso, con tono ritrovato. «Chiamiamo subito qualcuno! Siamo in prossimità delle Ville di Burdi-gheta, presto andate in cerca di un aiuto.» Vanni e Berto udirono i richiami del Giudice e uscirono allo scoperto. Uno degli armigeri si accorse della loro presenza. «Voi, chi siete?» urlò, indicandoli con la mano. «Soldato, siamo ragazzi» rispose Vanni, con voce timorosa. «Abbiamo un ferito, conoscete un medico o qualcuno che possa aiutar-ci?» I due si avvicinarono. «Viviamo presso le Ville di Burdigheta, da noi sono tutti contadini, ma nel nostro borgo vive un giovane, un cerusico che cura i malanni della povera gente. Se volete corriamo a chiamarlo…» Il Giudice udendo i due fanciulli fece una smorfia di disappunto, ma, in mancanza d’altre soluzioni, concesse ai due giovani di andare. I soldati ammucchiarono alcune foglie e le ricoprirono utilizzando le coperte

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delle selle. La Contessa fu trasferita dalla carrozza e adagiata sul pa-gliericcio improvvisato. Non erano trascorsi molti minuti che dal costone sovrastante il pianoro, s’intravidero i due ragazzi. Li seguiva con passo svelto un giovane alto e longilineo, portando con sé una sacca. I tre giunsero con rapidità a de-stinazione. Vanni, rivolgendosi al Giudice, disse: «Signore ecco la persona di cui vi ho parlato, si chiama Francesco.» Il giovane, con un timido inchino, salutò i presenti. «Spero di potervi aiutare.» «Non perdiamo tempo» reagì Romualdo. «Venite qua, la Contessa Spi-nola della Ghirlanda è stata colpita da una freccia, la spalla» disse stre-pitando, «la spalla sanguina ancora, fate qualcosa.» La donna era stremata. Francesco si avvicinò e osservò con attenzione la ferita. «Vi prego ho bisogno di avere del fuoco, usate delle pigne secche» chiese, rivolgendosi a un armigero. Il soldato iniziò a cercare l’occorrente. La nobile dama si accorse della presenza di un estraneo e con voce flebile si rivolse a Romualdo: «Chi è costui?» Il giovane, con dolcezza, guardandola negli occhi, anticipò la risposta. «Sono qui per aiutarvi, state tranquilla, mi chiamo Francesco, ho curato altre persone nelle vostre condizioni. Dovete avere pazienza, presto sta-rete meglio.» La dama chiuse gli occhi e fece un cenno d’assenso. Francesco si assicurò che i soldati avessero acceso il falò, poi raccolse un panno dalla borsa. Prese un’ampolla, versò del liquido e, con delicatezza, iniziò a pulire la ferita. «Ora viene la parte più impegnativa, devo estrarre la freccia, vi prego aiutatemi. Dovrete tenerla ferma, è un’operazione delicata.» Gli armigeri si prepararono cingendo il corpo della donna. Francesco tirò fuori dalla sacca una lama sottile con la punta smussata, la mise a contatto con la fiamma e poi si avvicinò. Iniziò ad aprire i lembi della ferita per creare un varco utile a estrarre la freccia, poi spinse la punta dal basso verso l’alto e tirò fuori il dardo. La lesione fu tamponata e l’emorragia si arrestò. Ci fu un sospiro collettivo. Francesco si rivolse alla Contessa e cercò di rassicurarla.

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«Madama, la freccia non ha causato danni! Ora devo ustionare la ferità per evitare che s’infetti. Vi sentite pronta?» «Fate ciò che è meglio» rispose, con un filo di voce. Il cerusico cercò tra i suoi attrezzi una lama piatta e larga. La pose sulla fiamma e la rese incandescente, attese un istante e l’applicò sulla ferita. La Contessa emise un urlo e il silenzio della pineta si spezzò. Una nu-vola di fumo chiaro si levò e un odore acre investì tutti i presenti. Ro-sanna svenne. Il giovane rassicurò tutti con un cenno, medicò la ferita e confezionò un bendaggio per sostenere l’arto. La donna fu sollevata e accompagnata nella carrozza. Quando fu seduta, si riprese, aprì gli oc-chi e, cercando lo sguardo di Francesco, sussurrò: «Siete molto capace, terrò conto di voi.» «Vi ringrazio Contessa! Nei prossimi giorni, se mi autorizzate, vorrei farvi visita per accertarmi delle vostre condizioni.» «Avete il mio consenso.» Il giovane sorrise e salutò, poi si diresse insieme a Vanni e Berto in di-rezione delle Ville di Burdigheta. I superstiti si prepararono per riprendere la marcia. Romualdo si preoc-cupò di ispezionare i banditi uccisi nel corso dell’agguato: rimosse i cappucci ed esaminò i loro corpi, ma non riuscì a raccogliere elementi che potessero individuare la loro provenienza. Decise di abbandonarli nella pineta e ordinò la partenza. La sera era scesa, la strada era buia e mancava ancora molta strada per giungere all’interno delle mura di Ventimiglia. La carrozza arrivò a destinazione dopo due ore di cammino. L’inferma fu accompagnata all’interno nel palazzo dei Conti. Il Giudice scortò la nuova Reggente nelle stanze, si preoccupò che fosse accudita dalla ser-vitù e si avviò nella sua camera. Le incertezze sul futuro della contea lo accompagnarono per tutta la notte e non lo abbandonarono neanche nei sogni.

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La contea di Tenda s’incastonava nella gola aspra e stretta, in quella lunga ferita che fendeva il territorio dal Mar Ligure alle vette che lam-bivano l’estesa pianura a nord. Il sole era sceso dietro ai pendii lascian-do penetrare il gelido vento nelle strade. Il borgo era deserto. Lungo il tragitto che portava al castello si udì uno scalpitare di zoccoli. Il sopraggiungere di due cavalieri fece intimare l’altolà alle guardie. Gli uomini a cavallo arrestarono la corsa e, una volta identificati, furono introdotti all’interno delle mura. Nello spazio aperto del camino, la fiamma donava tepore alla stanza ampia e grigia. Guglielmo Pietro I era seduto sul suo comodo scanno e, assorto nei pensieri, attendeva notizie. Il rumore dei passi s’intensificò e le porte si aprirono. Il siniscalco si presentò, annunciò i cavalieri e li fece entrare. I due sventurati si avvicinarono. Gli occhi fermi e severi del signore di Tenda indagarono ogni particolare. La mano destra di Guglielmo accennò un segno e la voce cupa baritonale si fece udire: «E i vostri compagni dove sono?» «Morti, tutti morti.» «La vostra missione? Cosa mi sapete dire del vostro compito?» Il cavaliere più anziano, chinando lo sguardo, disse: «Un fallimento, parziale, ma…» «Ma cosa?» sentenziò il Conte, alzandosi di scatto e urlando. «La Contessa è stata ferita, forse ora è morta, non sappiamo.» Il corpo del nobile Lascaris ricadde sullo scanno. Un mulinare di pen-sieri s’impadronì della sua mente. Il secondo cavaliere, che ancora non aveva proferito parola, manifestò la sua presenza: «Signore la mia mano ha scoccato il dardo, ma lo scontro con le guar-die non mi ha permesso di avvicinarmi. Non pensavamo di trovare una scorta numerosa.» «E il Giudice, cosa mi dite di lui?» «Non lo abbiamo più visto, sarà morto di paura.» La delusione calò con brutalità sul viso di Guglielmo. Il nobile fece un cenno e congedò i due cavalieri. Le sue membra si arrestarono, lo

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sguardo si perse nel nulla e negli occhi scesero le ombre. Il conte di Tenda conosceva l’arroganza della Repubblica di Genova. Aveva spe-rato che le nobili famiglie intemelie potessero porre un freno all’avanzata del dominio della Superba. I suoi cugini, i conti di Venti-miglia, erano stati piegati dal potere e dai tradimenti. Solo lui rimaneva a baluardo della nobile casata. La solitudine lo impauriva: Tenda era lontana dal Mar Ligure ed era posta lungo la Via del Sale. Presto la Re-pubblica avrebbe rivolto lo sguardo anche sulla piccola contea e a nulla sarebbe valso il consolidamento della sua posizione aristocratica me-diante il matrimonio con la figlia sedicenne dell’Imperatore bizantino Teodoro II di Nicea, Eudossia Ducas Lascaris. Guglielmo Pietro richiamò alla mente i viaggi, le intrepide avventure in terra d’oriente. Spesso seguiva di persona il commercio di spezie, bal-sami e seta che provenivano dagli empori orientali. Le storiche ostilità con Genova lo avevano portato a preferire Venezia e le numerose e-scursioni nella Laguna Veneta l’avevano messo in contatto con i più importanti rappresentanti del commercio veneziano. Nella mente di Guglielmo riecheggiò il primo incontro con Giorgio, il mercante di spe-zie, uomo già maturo e di grande esperienza. I due erano divenuti amici e avevano stretto un sodalizio. Il primo viaggio in terra orientale Gu-glielmo Pietro l’aveva intrapreso con lui nell’anno in cui il Basileus Teodoro II di Nicea regnava sul vasto Impero. Gli scambi commerciali tra Bisanzio e Venezia avevano generato una proficua relazione con il monarca. Giorgio Muzalon vantava una solida amicizia. La notevole esperienza era stata ben apprezzata e, dopo anni di frequentazione, era divenuto consigliere dell’Imperatore. Il Basileus era uomo di cultura, abile conquistatore e sincero amico. Ora che si sentiva solo, Guglielmo ricordava l’amicizia con nostalgia. Per lui aveva due volti: quello di Giorgio e quello di Teodoro. La co-nobbe così e la coltivò con intensità. Gli aristocratici bizantini non a-mavano il proprio Imperatore, lo consideravano troppo aperto nei con-fronti del popolo e complottavano per tradirlo. I due mercanti italiani aiutarono Teodoro e gli permisero di superare le insidie di corte. Fu per questo motivo che il reggente decise di promettere in sposa al giovane Guglielmo Pietro la figlia minore Eudossia, allora dodicenne. Poi tutto cambiò: il trentaseienne Teodoro II Ducas Lascaris si ammalò e, sul letto di morte, affidò nelle mani dell’amico Muzalon le sorti

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dell’erede al trono, il giovane figlio Giovanni, obbligando la corte bi-zantina a promettere fedeltà. Le vicende dell’Impero vacillarono. Gli aristocratici ordirono un nuovo complotto e, dopo un solo anno, usurpa-rono il trono. Con la quarta crociata gli eserciti europei riconquistarono Costantino-poli e la vecchia capitale fu ripristinata. Nicea perse importanza e con essa la famiglia Lascaris. I rischi crebbero e Guglielmo comprese che gli empori bizantini non gli avrebbero più permesso di continuare a commerciare con libertà. Guglielmo intuì che la principessa era in peri-colo e, per evitare che fosse schiacciata dai tumultuosi eventi, onorò la promessa fatta all’amico Teodoro e la sposò in una calda giornata di giugno. Erano trascorsi pochi mesi, ma tutto ormai sembrava lontano, troppo lontano. Il conte Lascaris, preso dallo sconforto, decise di ritornare presso i propri appartamenti. La giornata era stata lunga e faticosa. At-traversò un ampio corridoio e salì nel proprio alloggio. Sulle sue mem-bra pesava tutta la gravità della sconfitta. Entrò nella camera, una fioca luce illuminava l’ambiente. Tra le ombre scorse Eudossia. Distesa mo-strava tutta la beltà. Restò a osservarla. L’amore aveva preso piede e, nel suo grezzo cuore di mercante, qualcosa era mutato: ora capiva di avere al fianco una donna affascinante e intelligente. Gli occhi del Con-te contemplarono la sposa, un velo di tristezza segnò le guance: come avrebbe potuto proteggere quel giovane amore?

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Un nuovo giorno si affacciò sulla contea. La Contessa si svegliò quan-do il sole raggiunse lo zenit. La notte era trascorsa con difficoltà, gli eventi avevano lasciato il segno. Le fantesche si affrettarono con pre-murose attenzioni: prepararono un bagno caldo. Rosanna fu accompa-gnata nella stanza. Mostrava il viso corrugato e stanco. La fantesca più anziana la spogliò e l’aiutò a entrare nella tinozza ricolma di acqua e profumi. «Madama Contessa, perdonatemi, avete un brutta ferita. Chi vi ha me-dicato?» «Un giovane uomo, un cerusico di nome Francesco. Perché mi chiedete ciò?» «Lo supponevo Madama, si vede la cura con cui è stata preparata. Francesco è un bravo giovine e un sapiente cerusico. Nel borgo si dice che sia più esperto del medico di corte!» rispose la fantesca con un sor-riso beffardo. «Chi è questo medico di corte?» La fantesca continuò a frizionarla, abbassò gli occhi per un attimo e ri-spose. «Il dottor Raimondo. Sono solo pettegolezzi, non faccia conto la prego, ma si dice che sia un pasticcione messo lì dal Giudice.» «Bene, bene!» rispose la Contessa, esibendo una smorfia. Il bagno terminò. Le fantesche asciugarono la Contessa e l’aiutarono nella vestizione. Rosanna non indugiò, decise di mettersi subito all’opera e si trasferì nella sala da pranzo dove ad attenderla vi era il Giudice in compagnia del nobile Curlo. «Madama Rosanna, buona giornata, come state, vi trovo in gran forma» disse Romualdo, con voce squillante. «O siete stupido o i vostri occhi sono annebbiati, non vedete che sono un cencio?» rispose Rosanna, con tono irritato. «Mia madama, vi trovo stanca, ma…»

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«Zitto! Ditemi, chi è costui che vi accompagna?» «Permettete che mi presenti, mi chiamo Folco Curlo, sono qui per ser-virvi. Rappresento la mia famiglia e tutta la nobiltà cittadina.» «Sono onorata di fare la vostra conoscenza.» «Ho avuto notizia dell’agguato! Sono costernato» replicò Curlo. «La situazione è molto grave. La Contea di Ventimiglia necessita di un intervento forte e deciso, non è possibile soprassedere a episodi di tale portata. La Repubblica di Genova non si piega a nulla.» «Concordo con voi, mia Madama, ci vuole il pugno di ferro.» «Messer Curlo avete idea di chi può aver desiderato la mia morte?» «Abbiamo dei sospetti, solo sospetti. Molti membri delle famiglie nobi-li della contea non vedono di buon occhio la presenza di Genova nel nostro comune. È possibile che qualcuno abbia organizzato l’imboscata, forse con l’aiuto di forze esterne.» La porta si aprì, un domestico entrò e fu servita la colazione. La discus-sione continuò intorno alla tavola. «Madama Rosanna» disse Curlo, accigliando la fronte, «come vi senti-te? La vostra spalla?» «La mia spalla è dolorante, ma sono sicura che guarirò in fretta, devo ringraziare quel ragazzo… Francesco, il cerusico che mi ha estratto il dardo.» «Quale ragazzo Romualdo?» chiese Curlo, sbarrando gli occhi. «Sì, Folco, un certo Francesco delle Ville di Burdigheta, un guaritore o qualcosa di simile, niente d’importante.» «Quel niente d’importante mi ha salvato la vita, Giudice, mentre voi eravate nascosto.» «Madama Contessa, ho avvisato il medico di corte, presto verrà a farvi visita.» «Non ho bisogno della sua visita!» «Ma la vostra ferita? La vostra spalla?» replicò il Giudice, spalancando gli occhi. «Sono impicci miei, preoccupatevi del vostro da fare!» rispose Rosan-na, con voce imperiosa. Romualdo chinò lo sguardo. «Mia Contessa, cosa intendete fare ora?» disse Folco, con voce calma. «Per prima cosa dobbiamo intensificare il controllo cittadino. Voi Ro-mualdo mi compilerete un elenco dei sospettati. Oggi stesso ho inten-

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zione di inviare una missiva al Podestà di Genova. Deve sapere ciò che è accaduto. Voglio un controllo più accurato del territorio, richiederò una guarnigione di armati. Mettetevi subito al lavoro!» Con le prime luci del giorno le notizie e i pettegolezzi viaggiarono in tutta la contea. La Reggente aveva l’obbligo di mostrarsi in pubblico. Il popolo attendeva di sapere se era viva e in possesso delle facoltà per governare. Folco Curlo s’incaricò di organizzare un incontro con i no-tabili della città. Diede ordine ai banditori di informare tutta la gente, la contessa Spinola presto sarebbe apparsa in pubblico.

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Francesco Basso era un giovane capace e volenteroso. Da poche setti-mane, dopo aver compiuto il suo ventunesimo anno di età, era ritornato ad abitare con i suoi genitori dopo aver vissuto per molti anni nel con-vento di Lerino, dove lo zio, Frate Giuseppe, era Abate. Nel lungo sog-giorno aveva imparato a leggere, scrivere, a far di conto e negli ultimi anni aveva appreso i fondamenti dell’ars medica. Il cerusico giunse presso la porta principale dei bastioni di Ventimiglia e fu fermato dai militari a guardia. Il capo gli si parò davanti: alla vista del giovane, magro e alto, sembrava un molosso. Francesco lo guardò negli occhi e attese un cenno. «Ragazzo dove ti stai recando?» disse, con voce profonda e minacciosa. «Sono Francesco da Burdigheta, la contessa della Ghirlanda mi attende a palazzo» rispose, con aria fiera e sicura. «Chi è in tua attesa?» ribatté la guardia, ridendo con fragore e rivolgen-dosi ai commilitoni. «Forse non mi credete? Vi prego informatevi, sono colui che ha soccor-so la Contessa. Le mie mani hanno curato la sua spalla.» Le particolari indicazioni insospettirono i militi. L’arcigna guardia ag-guantò Francesco e lo avvicinò. «Conosci dunque la Contessa?» «Non solo, anche il giudice Romualdo.» I soldati si cercarono con gli sguardi. Il capo allontanò il giovane e bi-sbigliò qualcosa a uno dei suoi sottoposti. Quest’ultimo volse in dire-zione del palazzo. Francesco restò in attesa di una decisione. Il soldato che si era allontanato ritornò correndo, fece il saluto al preposto e gli sussurrò alcune frasi. Il capo guardia si avvicinò al ragazzo e, scrutan-dolo, disse: «Messer cerusico potete entrare. La Contessa è nel palazzo alla vostra dritta in fondo a questa via.» «Grazie guardia» rispose Francesco sorridendo. Il maniero, sede del Capitano del Popolo nel periodo di libero Comune, era stato edificato nella porzione più elevata della collina ove sorgeva la città. Le sue due torri cinte da mura erano visibili da ogni lato. Dalla

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loro sommità era possibile scorgere a levante il Mar Ligure e la foce del fiume Roja, a nord la valle che si prolungava in direzione del Piedimon-te. Le guardie scortarono il ragazzo alla porta d’ingresso. Lo introdussero nel loggiato e lo accompagnarono nel cortile centrale dove il giudice Romualdo lo attendeva. Quando Francesco gli fu dinanzi, s’inchinò: «Messer Giudice i miei saluti.» «Cerusico, la vostra visita non era prevista, ma la Contessa vuole ve-dervi. Seguitemi.» Romualdo accompagnò l’ospite nella porzione privata del maniero e, con una certa esitazione, lo introdusse nella stanza della Reggente. La Contessa sedeva su una fastosa seggiola di legno ed era intenta nella lettura. Al rumore dei passi sollevò lo sguardo ed esclamò: «Francesco, entrate, non esitate.» Il giovane, con passo lento, si pose al centro della stanza. «Mia Contessa come vi sentite?» «Molto stanca, ma più serena.» «Mia Madama sono qui per controllare il mio operato.» Il Giudice lo interruppe: «La madama Contessa non necessità più dei vostri servigi, qui a palazzo ha tutto.» «Tacete Giudice, cedete la parola al cerusico. Anzi vi prego, lasciateci soli.» «Ma Contessa, io desidero…» «Voi desiderate ciò che io desidero, o mi sbaglio?» «Ai vostri ordini.» Il Giudice fu costretto ad abbandonare la stanza. Salutò con un inchino e si allontanò in fretta. «Bene Francesco avete il permesso di controllarmi la spalla.» Il ragazzo si avvicinò alla Reggente. Rimosse il bendaggio, lavò la feri-ta e iniziò a esaminarne i lembi. «Ora Madama dovrò palpare i tessuti, devo verificare le condizioni del-la lesione.» Con decisione, utilizzando ambedue le mani, fece pressione: ne fuoriu-scì un liquido maleodorante. «Contessa, la ferita contiene alcune schegge, sono penetrate con il dar-do. Si sono formati umori maligni; è necessario un intervento tempesti-vo per evitare che l’infezione si propaghi. Vi chiedo il permesso di po-

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ter utilizzare un medicamento che vi aiuterà nella guarigione: l’unguento di licheni di barma.» «Licheni di barma?» «Sì mia Dama, licheni e muffe che crescono nelle barme. Si preparano con olio d’oliva ed essenza di malva. Hanno un’efficacia prodigiosa.» «Mi auguro che la vostra cura sia utile e rapida!» «Sono qui per servirvi, lasciatemi il tempo di raccogliere l’occorrente. Vi chiedo solo un lasciapassare.» «Sia ordine ciò di cui avete bisogno.» I preparativi per l’incontro ufficiale con i notabili proseguirono per tutta la giornata. La Contessa desiderava conoscere le autorità cittadine per poter presentare le direttive che l’oligarchia genovese aveva impartito. L’attentato alla sua vita aveva sollecitato l’imposizione di un rigido comando. Scese la sera. Le ombre oscurarono vicoli, strade e piazze. La popola-zione si raccolse in attesa. Il salone principale del palazzo dei Conti era pronto per ricevere gli ospiti. Nella stanza era visibile il baldacchino che sormontava la poltrona occupata dalla Reggente. Ai lati erano pre-senti Romualdo e Folco Curlo. La sala si riempì di personalità. Curiosi-tà e ansia si palpavano. La cerimonia ebbe inizio. Il Giudice si alzò in piedi, schiarì la voce e si rivolse alla platea. «Madame e messeri, è con onore che desidero presentarvi la nostra Reggente, la contessa Spinola della Ghirlanda.» Un applauso coprì la voce. «Madama Contessa ha espresso il desiderio di conoscervi. Vi prego, i-niziare a sfilare qui, dinanzi al palco.» Gli invitati si sistemarono. Tra i numerosi partecipanti vi erano anche alcuni esponenti della famiglia De Giudice e diversi rappresentanti dell’antica famiglia degli Apronio. Le due casate erano le uniche ad a-vere conservato una certa diffidenza nei confronti della Repubblica. Con la conquista della contea, le due famiglie avevano tentato di con-trastare la presenza di Genova. Ne erano scaturite lotte intestine che portarono a una pace temporanea. Le condizioni di vita migliorarono e i commerci ripresero vita. Con il tempo sulla città gravarono tasse e dazi che la sottomisero alle attività della Repubblica. Prese piede una nuova insofferenza che fece scoppiare numerose sommosse represse con la forza.

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Ardissone De Giudice si presentò al cospetto della Reggente ma, a dif-ferenza di altri, fece solo un timido cenno di saluto e non s’inginocchiò. Romualdo li presentò. «Il nobile Ardissone De Giudice e la sua consorte Carmen.» «Madama Contessa vi auguro un buon soggiorno, che le giornate siano liete.» «Vi ringrazio, lo saranno in ogni modo, è mia intenzione che ciò av-venga.» Sfilarono gli esponenti delle principali corporazioni delle arti e dei me-stieri: artigiani e funzionari e poi, a seguire, contadini e pescatori. Il corteo terminò e gli invitati si accomodarono. La contessa Spinola si alzò e, rivolgendosi alla platea, iniziò a parlare. «Gentili ospiti, sono felice di rappresentare la forza, l’amicizia e la po-tenza della Repubblica di Genova in questo bellissimo lembo della no-stra amata Liguria. Da tempo, da molto tempo, la contea non vive mo-menti di pace. Una piccola parte della popolazione non vede di buon occhio l’alleanza con Genova e vuole destabilizzare la città e le sue at-tività. Ora la situazione è peggiorata e non può essere tollerata. Il clima deve cambiare e cambierà. La mia mano sarà implacabile. Chi trama, ora dovrà aver timore, perché io e voi lotteremo per avere una contea libera dal terrore.» La Contessa fece una pausa. Nella sala era precipitato il silenzio. «Una staffetta è già in viaggio per Genova, porta la richiesta di rinforzi urgenti. Presto giungerà un contingente di soldati capitanato da un valo-roso comandante fedele alla mia famiglia. Sacrificheremo la libertà dei cittadini per ripulire la città dal marcio.» Le parole scossero la sala. I presenti erano ammutoliti e con gli sguardi si cercarono, nel desiderio di trovare reciproca comprensione. La Reg-gente manifestò un sorriso e aggiunse: «Ora non badiamo ai problemi ma festeggiamo, un nuovo giorno è alle porte.» La musica si diffuse e la festa ebbe inizio. Gli invitati diedero il via alle danze. I pensieri e le incertezze furono messi da parte: domani la contea non sarebbe stata più la stessa.

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La luce entrò in ritardo. La valle alta e stretta riceveva i raggi del sole per poche ore. Il conte Guglielmo non era riuscito a riposare a dovere ed era intento a consultare carte e documenti. Il siniscalco bussò alla porta e, a un cenno vocale, entrò nella stanza. «Messer Conte, la prego di scusarmi, ma è giunto un ospite. Un monaco per la precisione, un certo Fra Giuseppe da Lerino. Vi attende nella sala del ricevimento.» «Frate Giuseppe? Che sorpresa! Sarò subito da lui.» Il Conte terminò il lavoro, si precipitò negli alloggi inferiori, entrò nella stanza, allargò le braccia e con voce squillante esclamò: «Illustrissimo Frate, quale sorpresa, Dio vi benedica.» L’uomo ruotò il tronco e mostrò il volto. Gli occhi cerulei, vibrarono. «Caro figliuolo quanto tempo è trascorso!» rispose, con voce flebile. I due si abbracciarono, mostrando familiarità nel gesto. «Avete affrontato un viaggio lungo! Sono felice di vedervi.» «Le vicende personali e le vostre imprese hanno separato i nostri desti-ni, ma il disegno di Dio è sempre presente. Io, umile servitore, sono qui come frate e amico nel momento più delicato.» Guglielmo sgranò gli occhi, con un cenno fece accomodare il frate e ordinò alla servitù di imbandire la tavola. Fra Giuseppe era l’abate del monastero cluniacense dell’isola di Sant’Onorato in Lerino. Aveva or-mai raggiunto la tarda età, ma era ancora pieno di vigore intellettuale. Era arrivato nella Contea di Tenda attraversando un’impervia via che permetteva, ai più coraggiosi, di giungere dalla costa ai confini della Contea Lascaris senza dover transitare nella valle del Roja. Il frate era uomo schietto e senza panegirici iniziò a parlare. Le voci sul fallito ten-tativo di assassinare la Reggente si erano estese in tutta la costa ligure. Guglielmo non si sorprese. Fra Giuseppe proseguì e raccontò che la Contessa si era subito data da fare richiedendo al Doge un contingente armato. La notizia scosse il giovane Conte.

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«Fra Giuseppe, in sincerità secondo voi gli emissari genovesi sospetta-no di qualcuno in particolare?» «Vi sono solo sospetti, nessuna prova, ma molti pensano che l’ordine provenga da voi.» Il colore roseo del viso del Conte mutò all’improvviso. L’anziano frate cercò di tranquillizzare Guglielmo: la sua presenza non era dettata dal caso. Fra Giuseppe aveva rapporti di parentela con i Conti di Ventimi-glia. «Conte, sono un umile servo di Dio e penso che nostro Signore non condivida ciò che sta avvenendo nella nostra amata terra. È ora che la libertà torni a sventolare.» La Chiesa di Roma criticava con energia l’ordine dei frati cluniacensi. L’Abbazia di Cluny e le sue consorelle avevano assunto un atteggia-mento morbido nei confronti dell’ortodossia cristiana. I frati sentivano la necessità di avvicinarsi ai fedeli. Desideravano, in nome di Cristo, combattere le ingiustizie che la società feudale aveva creato e sostene-vano tutte quelle forme di organizzazione politica che rendevano l’uomo, in maggior misura, libero. «Frate come pensate che sia meglio agire?» «Guglielmo è necessaria una guida, un uomo forte dal carisma univer-sale. Un personaggio che possa concretare le attese di chi non vuol farsi soggiogare dalla tirannia genovese.» «Non conosco nessuno che abbia doti così elevate. Non penso di essere la persona adatta per un compito così importante.» «Guglielmo siete molto giovane, ma forse tra i vostri ricordi è presente il nome di un intrepido uomo: Oberto Apronio, figlio di Guglielmo II.» Il conte Lascaris spalancò gli occhi. «Certo, il templare, ma non è caduto in battaglia?» «Ha partecipato alla settima crociata. Era al fianco del Re Luigi IX di Francia nel corso della battaglia di El Mansura. Era l’otto febbraio mil-leduecentocinquanta. Da quel giorno non abbiamo ricevuto più notizie. Tutti hanno pensato a una tragica fine.» Un velo di tristezza segnò lo sguardo di Giuseppe, il ricordo di Oberto era rilevante. Il cavaliere templare e il monaco avevano condiviso un’amicizia stretta e solida, erano cresciuti insieme tra le vie e i caruggi del borgo.

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«Caro Guglielmo, circa un mese fa, nella nostra abbazia è giunto un confratello proveniente dalla Terra Santa. Mi ha raccontato di aver co-nosciuto un cavaliere italiano chiamato da tutti l’Intemelio.» La voce del frate assunse un tono metallico, i suoi occhi si bagnarono e si arrestò per un attimo. «Frate, vi prego, continuate.» «Il monaco mi ha riferito che il templare italiano è stato per molto tem-po prigioniero in Siria. Da qualche mese è ritornato libero e sta cercan-do di fare ritorno nella sua terra d’origine. Ogni giorno prego il Signo-re, spero che Oberto sia vivo e che possa ritornare tra noi. Lui è l’uomo giusto per riaccendere la speranza.» «Oh mio Dio, la notizia mi rende felice. Pregherò anch’io perché Ober-to possa giungere qui con noi. È la nostra unica possibilità.» «Quando arriverà avrà bisogno di voi, del vostro aiuto. Oberto può cambiare la sorte del nostro popolo.» «Fra Giuseppe abbiate fede, sarò al suo fianco.» I due uomini si abbracciarono, una tenue speranza infiammò i loro cuo-ri. Venne l’ora della partenza, Fra Giuseppe ringraziò il conte Lascaris e si avviò sulla via del ritorno. Guglielmo Pietro lo accompagnò fino alle porte del castello. Il frate salì in groppa all’asinello che gli aveva permesso di giungere a destinazione e, rivolgendo il saluto, s’indirizzò verso la mulattiera che lo avrebbe condotto a valle. La stagione tendeva alla fine, le giornate erano ancora colme di luce; Giuseppe avrebbe rag-giunto la costa in prima serata. Il tragitto era tortuoso e l’animale, procedendo lento e sicuro, arrivò sulla sommità della vetta. I colori del tramonto pennellarono il cielo, una leggera brezza iniziò a spirare. Giuseppe pensò a Oberto, al frater-no amico con il quale condivideva un’incredibile verità, un segreto tal-mente sublime e grande da essere oltremodo scomodo da svelare. La realtà aveva acquistato un peso sempre più grave e ora rischiava di schiacciare la sua anima. Era giunto il momento di rivelarla a chi l’avrebbe saputa utilizzare al meglio, secondo la volontà di Dio.

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Nuvole di rondini volavano sui cieli della contea, pronte alla partenza. Il campanile della nuova cattedrale si ergeva tra il profilo irregolare dei tetti spioventi e contornava la porzione più elevata del borgo. Da quella posizione era possibile scorgere il fiume Roja con la sua foce a estuario. Più in là, la costa delimitava un’esile striscia di terra chiusa tra le colli-ne a nord e il mare a sud. La luce del giorno iniziava a scemare e le ombre della sera acquistavano forma. Nei pressi del ponte, che permet-teva l’attraversamento del Roja, era possibile distinguere una lunga co-lonna di uomini a cavallo. Le sentinelle, poste sulle torri delle mura, li avvistarono e comunicarono le informazioni al corpo di guardia. La ca-rovana giunse sulla passatoia. Gli armigeri a guardia bloccarono la marcia. Ora che erano vicini alle mura, si contavano cinquanta cavalieri seguiti da una carrozza trainata da due cavalli. I soldati in prima fila reggevano i vessilli e i gonfaloni della Repubblica di Genova: la milizia era giunta a destinazione. Le assi, allo scalpitio degli zoccoli, iniziarono a tambureggiare. Il pas-saggio della colonna destò l’attenzione dei curiosi, molti si affrettarono e salirono sui bastioni per scorgere l’arrivo del corpo armato. La luce crepuscolare si specchiava nel metallo degli uomini in arme. La colon-na impegnò la ripida salita che portava all’accesso della porta principa-le detta di Provenza. Molti sorreggevano scudi, lance e armature. Altri esibivano balestre, archi e faretre colme di frecce. Le fila si allungarono e i soldati si affiancarono, due a due, percorrendo la via. L’apice della colonna si arrestò presso la porta. Gli addetti si affrettarono ad aprirla per consentire il passaggio. La notizia dell’arrivo giunse al palazzo dei Conti. Il giudice Romualdo, Folco Curlo e il Capitano della guarnigione raggiunsero con celerità la piazza antistante la cattedrale e si prepararono ad accogliere l’esercito genovese. Alla guida della carovana militare era possibile scorgere un uomo dalla postura sicura e dallo sguardo intenso. Il cavaliere entrò nella piazza, salutò i presenti e si posizionò dinanzi ai notabili cittadini.

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Le autorità risposero chinando il capo. Il Giudice, con voce sicura, e-sclamò: «Benvenuto messer Capitano, la Contea di Ventimiglia vi accoglie con gioia. Lasciate che mi presenti, il mio nome è Romualdo Gualdo, Giu-dice di questa contea. Alla mia destra vi porgono i saluti, messere Folco Ciurlo, importante patrizio della città e il nostro Capitano delle guardie, messer Cecco della Volpe.» «Vi ringrazio messeri, sono Lapo del Poggetto, Capitano della milizia della gloriosa Repubblica di Genova e sono qui per servirvi» rispose il militare, con aria fiera e voce vigorosa. La carrozza arrivò in quel mentre. Il mezzo si arrestò sul sagrato della cattedrale. Le porte della vettura si aprirono e da essa uscirono una gio-vane donna e un fanciullo, moglie e figlio del Capitano genovese. La milizia ventimigliese si pose sugli attenti e salutò gli ospiti. I notabili invitarono gli ospiti a seguirli: la contessa della Ghirlanda li attendeva negli appartamenti a palazzo. Lapo del Poggetto scese da cavallo e ini-ziò a camminare con passo incerto. I presenti si accorsero che il soldato aveva una menomazione: la gamba destra appariva più corta e lo co-stringeva a un’andatura claudicante. Nessuno parlò. Il Capitano geno-vese proseguì il suo percorso per raggiungere il palazzo dei Conti. La contessa della Ghirlanda attese gli ospiti nella sala dei ricevimenti. Alla vista del Capitano la rigida presenza si mutò in un gioviale tributo. «Quanto tempo è trascorso dall’ultimo incontro, nobile Capitano?» dis-se con voce argentina. «Sembra ieri quando la nostra valorosa spedizione rientrò nel porto del-la Superba. Sono trascorsi, ormai, otto mesi» rispose, con un filo di ma-linconia, Lapo. «Il Podestà mi ha informato dell’agguato. Sono lieto di essere qui, pronto a servirvi, a combattere il nemico.» «Sapevo di contare su di voi. Conosco il vostro valore e sono sicura che presto, in questo lembo di costa, regnerà ordine e pace.» La contessa della Ghirlanda mostrava serenità nelle parole: il Coman-dante del Poggetto era stato un fidato collaboratore nei suoi precedenti incarichi politici. Ripensò a quando il Podestà Guglielmo Boccanegra la nominò a capo della spedizione politico-militare presso la penisola di Crimea. La Repubblica di Genova aveva organizzato empori su tutta la costa bizantina. I mercanti liguri chiedevano nuovi commerci, nuove rotte per avvicinare le galee mercantili alla via settentrionale della seta.

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La spedizione era costituita da un piccolo drappello militare guidato dal capitano Lapo del Poggetto. Le galee genovesi giunsero, dopo un lungo viaggio, presso un’insenatura posta nella porzione meridionale della co-sta. La cittadina di Feodosja era costituita da un folto agglomerato d’abitazioni. La flotta genovese approdò presso l’insediamento di pe-scatori chiamato Kafà e la contessa Spinola intraprese contatti con il sultano Temur. In cambio di un’ingente somma di fiorini genovesi, il principe orientale accordò licenza di poter edificare case e magazzini. Nacque il primo emporio genovese sul Mar Nero. Nei ricordi della contessa Rosanna era ancora viva la spettacolare sen-sazione che si provava nel preciso momento in cui le galee doppiavano il promontorio roccioso a sud dell’insenatura in cui era posta la baia di Feodosja. Da quella posizione era possibile scorgere l’emporio. La bianca torre della fortezza era posta nella porzione più elevata di Kafà. Da essa dipartivano, a schiera, numerose case che delimitavano i confi-ni dei magazzini posti in vicinanza del porto, dove le navi provenienti da Genova trovavano un facile approdo. La Contessa richiamò alla mente l’attacco subito dalla colonia. Era stata un’esperienza dolorosa. La milizia genovese tentò di bloccare i pirati sul luogo di sbarco. Le orde di filibustieri contavano una maggior pre-senza umana e l’azione degli arabi sembrò avere la meglio. Lapo spro-nò i suoi soldati. Il coraggio, la determinazione e, soprattutto, il miglior addestramento, cambiarono le sorti della battaglia. I genovesi riusciro-no a mettere in fuga i pirati. Lapo subì l’affronto del nemico. Il suo ca-vallo fu colpito a morte, rovinò sul terreno e lo trascinò con sé, gli pro-curò un grave danno e una menomazione permanente. Il colloquio tra il Capitano e la Contessa proseguì nelle stanze private della Reggente. La moglie del Capitano e il figlio furono accompagnati presso gli alloggi adibiti agli ospiti. La Contessa era impaziente di de-scrivere la situazione politica e militare della contea. Il Capitano s’informò delle sue condizioni di salute. Le meticolose cure di France-sco avevano sortito il loro effetto: l’infezione era quasi debellata e la lesione iniziava a prender la strada della guarigione. Il militare era latore d’importanti disposizioni. Consegnò la pergamena nelle mani di Rosanna: gli ordini erano severi. I cittadini Ventimigliesi erano costretti a seguire le sorti della Superba. La milizia genovese as-sumeva il potere in tutta la contea.

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La Contessa allargò il sorriso, i suoi occhi scintillarono: l’oligarchia genovese aveva accettato le proposte. Il controllo della città ora sarebbe stato capillare. «Lapo, un’altra questione mi è a cuore. Ho raccolto notizie sul probabi-le mandante del mio attentato. Molte voci chiamano in causa il feudata-rio della contea di Tenda, Guglielmo Lascaris. Desidero che siano fatte delle indagini accurate per scoprire il suo coinvolgimento. Se le accuse saranno confermate potremo esercitare maggiori pressioni sui territori a monte della Via del Sale.» «Contessa me ne occuperò di persona.»

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Regnava il silenzio. Solo lo sciabordare delle onde scuoteva la notte. La roccia, imponente, si stagliava per trecento piedi. Con la luce avrebbe rivelato il tipico colorito rossastro che ne indicava il nome: Baussi Roussi. Aveva l’aspetto di un gigante, con molte fenditure e numerosi anfratti: il più profondo e alto era chiamato Barma Grande. Lampi di luce roteavano all’interno della cavità. Il chiarore si spandeva lungo le pareti, un fuoco illuminava la scena riscaldandola. Tre uomini erano seduti intorno, pesanti mantelli di lana avvolgevano i loro corpi. «La milizia genovese è giunta in città. Il Capitano, un certo Lapo del Poggetto, ridurrà tutta la popolazione in servitù. È finita amici.» «Non farti prendere dallo sconforto Ardissone. Fra Giuseppe ci ha con-vocato, ascoltiamo le sue parole» rispose, con tono deciso, il notaio Del Coli. «Antonio ha ragione. Vi ho chiamati a raccolta perché ho importanti notizie. Sono conscio della grave situazione in cui versa la Contea, ma ho la convinzione che Dio ci sia vicino in ogni attimo di quest’interminabile sofferenza. Messeri, nel nostro ultimo incontro, vi avevo messo a conoscenza della possibilità che il Magister fosse ancora vivo. Un uomo, che corrisponde nella descrizione a Oberto, ha incon-trato un mio confratello in Palestina. Ora mi è giunta un’ambasciata. Una galea pisana che faceva rotta a Marsiglia, per mano del suo sopra-comito, mi ha consegnato una missiva del Magister…» «Dio sia lodato, Fra Giuseppe!» esclamò con emozione Ardissone. «Come dicevo, Oberto m’informa che è giunto a Tunisi presso l’emporio commerciale pisano, e mi comunica che presto partirà per Lerino.» «Finalmente una buona nuova, con lui forse potremmo sperare. Cosa dice ancora?» ribatté, con impeto, il Notaio. «Mi segnala che ha importanti novità e non aggiunge altro. Attendere-mo il suo arrivo e insieme decideremo il meglio.»

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Anno Domini 1262

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La luce rischiarò il cielo. Il colore intenso dell’alba invase tutta la scena e dal ponte della galea fu possibile scorgere la costa. L’aria fresca di febbraio inoltrato penetrò tra i capelli canuti del cavaliere. Da molti, troppi anni, aveva atteso questo momento. Per un attimo il suo cuore fece un tonfo e poi riprese meccanicamente a battere: anche Oberto provava emozioni. Rimase assiso, sgranò gli occhi e concentrò la vista, desideroso com’era di poter riconoscere i dettagli. Scrutò ogni minimo particolare e con facilità riconobbe il capo detto d’Ampelio. La galea era obbligata a seguire una navigazione di cabotaggio: la leg-gera brezza non permetteva l’apertura delle vele. La spinta era affidata ai rematori. A ogni bracciata i remi sfioravano la linea dell’acqua e im-primevano il moto. Sul pennone dell’albero maestro sventolava la ban-diera di Pisa. La nave, partita dall’emporio di Tunisi, era diretta ad An-tibo. Il sole iniziò a galleggiare all’orizzonte, la luce intensificò i colori e la foce del Roja mostrò la sua forma. Gli occhi di Oberto si bagnarono di un velo cristallino, ora poteva scorgere il borgo: Ventimiglia era lì. Mil-le idee si rincorsero, poi un moto di rabbia frenò l’emozione: Oberto era ancora qui, dinanzi alla sua amata terra. Dio aveva in serbo qualcosa di grande. I rematori rinvigorirono il ritmo per permettere il controllo della nave. L’azione esercitata dalle acque del fiume, che entrava in mescola con il mare, spinsero il legno in direzione del largo. Il sopracomito impartì gli ordini e il mezzo riprese la sua corsa. Sulla spiaggia, antistante il borgo,

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era ben visibile il caratteristico monolite chiamato Scogliu Autu, uno sperone di roccia alto cinquanta piedi posto in prossimità della spiaggia a guardia del lazzaretto. Oberto aveva solo dieci anni quando l’aveva scalato per la prima volta insieme al fraterno amico Giuseppe. Era stata un’impresa memorabile che mostrava precocemente il carattere coria-ceo del futuro templare. La galea ammiraglia, seguita da altre quattro navi, orientò la direzione allontanandosi dalla costa per poter doppiare i promontori rocciosi. La brezza lasciò il posto al vento: un gelido levante si alzò. Il comito ordi-nò ai marinai di liberare le cime per permettere alle vele di distendersi. Le navi tesero le velature e il vento le gonfiò, mettendo in mostra la ti-pica forma triangolare. La galea ammiraglia prese il largo e si allontanò dalla costa. Oberto si strinse nello spesso mantello di lana e raggiunse la sottocoperta. Il sopracomito, un uomo ancora giovane, che dimostra-va più della sua età, gli fece un cenno e lo invitò alla sua mensa. «Messer cavaliere, desiderate fare colazione? Il viaggio non è ancora terminato, arriveremo in porto solo nel primo pomeriggio» disse, ac-cennando un inchino. «Vi ringrazio comandante, il vento gelido mi ha messo in corpo un cer-to languore.» «Prendete, oggi abbiamo olive e pesce affumicato, servito con dell’ottimo pane impastato con le castagne. In quella bottiglia troverete un po’ di vino, non esitate.» «Grazie, assaggerò volentieri.» Oberto raccolse il cibo e versò il vino, cercò un angolo nella stiva e vi si accucciò assaporando il pasto. La nave spinta dal vento acquistò ve-locità, il mare s’increspò ulteriormente e il legno iniziò a rollare. Oberto Apronio Conte di Ventimiglia si lasciò cullare dal moto ondoso e iniziò a ripercorrere con la mente la propria vita. Riaffiorò alla memoria la figura di Giuseppe, l’amico di sempre. In quella terra, tra quelle case, si era consumata la loro giovinezza. Nel corso della bella stagione scorrazzavano in lungo e in largo per le vie e i caruggi del borgo. Spesso si dirigevano alla marina presso la pria Margunaira e da lì raggiungevano a nuoto la piccola spiaggia delle Ca-landre. Trascorrevano tutta la giornata costruendo castelli di sabbia, raccogliendo mitili e patelle che divoravano nei pochi angoli in ombra che offriva il lido. Sostavano lì, nella loro spiaggia, aspettando che il

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cielo si colorasse di rosso e, quando il sole annegava nell’orizzonte, percorrevano il ripido sentiero a strapiombo sul mare per giungere ai bastioni occidentali. Un’infanzia felice, poi il trascorrere degli anni ar-rivò a dividere i destini: Oberto, al compimento del dodicesimo anno d’età, per volere del padre Rinaldo podestà di Ventimiglia, fu inviato presso la Corte di Provenza in qualità di scudiero. Il lungo apprendista-to lo portò al fianco di nobili cavalieri. Apprese l’arte della guerra, im-parò l’uso delle armi e s’istruì sul controllo del cavallo in battaglia. Giuseppe, non essendo di nobili origini, fu avviato alla vita monastica. Studiò presso il piccolo convento di Sant’Ampelio alle Ville di Burdi-gheta e, dopo alcuni anni, partì per raggiungere l’abbazia di Lerino do-ve, trascorso il periodo di noviziato, prese i voti. Oberto divenne cavaliere e ritornò nella sua amata terra. Insieme al pa-dre intraprese la gestione della contea, ricoprendo incarichi importanti. Proprio in quel periodo conobbe una giovane fanciulla di nome Beatri-ce. Gli occhi dei due ragazzi s’incontrarono e fu amore improvviso. Be-atrice Amandolesio era la primogenita del più importante notaio della Contea, uomo stimato a Genova e presso la Corte del Re di Francia. Oberto e Beatrice si fidanzarono ufficialmente dopo pochi mesi e, tra-scorso un anno, giunsero a nozze. La cerimonia fu officiata dal vescovo e vi parteciparono i principali esponenti nobiliari e commerciali della città. Trascorsero alcuni mesi e Beatrice si accorse di essere in dolce attesa. La gioia di Oberto proruppe ogni limite. La gravidanza trascorse in tranquillità e quando giunse il giorno fatidico, la giovane donna fu affidata alle cure di una levatrice. Durante il parto subentrarono dei problemi. Il medico della famiglia Apronio fu avvisato con tempestività e giunse al cospetto della gravida. Vane furono le manovre per arrestare una terribile emorragia. Il bambino fu fatto nascere, ma la madre morì poco dopo. La notizia sconvolse l’animo di tutti i cittadini. Il giovane marito non resse all’orribile notizia e sprofondò in una grave crisi. La nascita del figlio, un bambino sano e vivace, non risvegliò il giovane cavaliere. Giuseppe cercò in ogni modo di incoraggiare Oberto. Il neonato fu affi-dato a una balia ma Oberto, con il trascorrere degli anni, non si rinfran-cò. Gli eventi politici della contea precipitarono. L’ingerenza genovese prese sempre più piede. I contrasti cittadini tra la fazione dei nobili che

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si opponeva a Genova e i gregari della Superba determinarono nuovi motivi di sconforto. Fu proprio allora che il nobile cavaliere, dopo aver affidato il figlio in mani sicure sotto la tutela dell’amico Giuseppe, decise di abbandonare tutto e fece voto di povertà, obbedienza e castità. Entrò nell’ordine mo-nastico militare dei Cavalieri del Tempio e partì per raggiungere una delle capitanerie. Nell’anno domini 1248 fu indetta la settima crociata. Il cavaliere templare Oberto da Ventimiglia partì alla volta del Cairo, al seguito della flotta guidata dal Re di Francia Luigi IX.

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La nave iniziò a beccheggiare. Il vento, in prossimità della costa pro-venzale, s’intensificò. Il brusco movimento del legno scosse dai ricordi Oberto. A pochi metri dal giaciglio del cavaliere, il giovane scudiero Papito si svegliò. «Papito, razza d’asino pigro, è ora che ti desti. Sei sempre accucciato a dormire, non ti riconosco più!» «Messere Oberto, perdonatemi, avevo molto sonno, non tollero la nave, ho dato di stomaco tutta la notte.» «Taci, non proseguire nella menzogna, la notte è stata calma, il mare era una tavola… e poi non mi sembra di aver visto la tua testa sporgere dal legno per gettare la cena ai pesci.» «Messere, allora sarò malato.» «Basta! Basta! Destati, tra poco la galea entrerà nel porto di Antibo. Preparati, siamo giunti a destinazione.» Papito Imenez del Castillo era il giovane e fidato scudiero del Conte Oberto. Gli era stato affidato alla partenza per la settima crociata. Figlio di un nobile spagnolo, era stato inviato dal padre presso l’imbarco dei crociati. La famiglia Imenez del Castillo aveva fatto voto di partecipare alle crociate se l’Altissimo avesse concesso la nascita di un erede ma-schio. Dio esaudì la richiesta: la moglie Natalia diede alla luce due splendidi gemelli: Bernardo e Papito. Alfonso Imenez del Castillo ono-rò la promessa e sacrificò Papito per la fede. Alla partenza dell’esercito crociato, il giovane spagnolo aveva solo do-dici anni. Oberto lo conobbe all’imbarco nel porto francese di Aigues Mortes e lo accolse. Papito si legò al templare e lo seguì in tutte le sue peripezie. Fu al suo fianco nelle battaglie e non lo abbandonò neanche durante la prigionia. Oberto lo trattava come uno scudiero, ma nutriva affetto e protezione. I due, raccolte le poche cose al loro seguito, si spostarono sul ponte. Oberto riconobbe in lontananza i bastioni d’Antibo. Il mare si era incre-spato e aveva assunto il tipico colore caleidoscopico: in prossimità dell’orizzonte mostrava il blu abisso e avvicinandosi alla costa degra-

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dava in tonalità sempre più chiare. Le pennellate di colore erano in-frammezzate dalla spuma marina e terminavano sul bagnasciuga in un intenso turchese. Il sopracomito iniziò a impartire gli ordini per lo sbar-co. Tutta la ciurma si adoperò nelle manovre. La galea orientò la prua verso la costa, le onde provenienti da levante iniziarono a scuotere lo scafo. Fiotti d’acqua lambirono il ponte, il profumo e il sapore del sale raggiunsero il viso del templare: il legno entrò in porto. La nave attrac-cò al molo, iniziarono le operazioni di sbarco. I due reduci scesero a terra e si avviarono nel piazzale antistante i bastioni. Oberto fece strada e Papito lo seguì senza troppo entusiasmo trasportando i pochi oggetti di proprietà. «Papito dobbiamo entrare nel borgo e cercare il mercato» sentenziò il templare, con voce ferma. «Sì messere, ho molta fame anch’io.» Oberto arrestò la marcia e, con viso truce ad alta voce, ribatté: «Sei sempre il solito. Pensi solo a mangiare. Siamo in cerca di un mercante che si rechi all’isola di Sant’Onorato. Siamo in cerca di un passaggio per Lerino. Hai capito!» «Adesso sì.» Incontrarono un pescatore anziano intento a riparare le reti e gli chiese-ro informazioni per giungere al mercato. L’anziano replicò in dialetto e indicò la via. I due giunsero alla meta e adocchiarono i banchi che sti-pavano il campo. Il Templare, in perfetto occitano, iniziò a chiedere ai commercianti se vi fosse qualche venditore intenzionato a recarsi a Le-rino. La voce si sparse per le vie cittadine. La ricerca fu proficua e alla vista dei due si presentò un uomo basso e tarchiato che rispondeva al nome di René. «Messeri ho saputo che cercate un passaggio per l’isola di Sant’Onorato. Io devo recarmi là domani mattina. Sono il fabbricante di candele e devo portare un ordine ai frati dell’Abbazia. Potete farmi compagnia nel viaggio» disse, in un buon volgare, con un forte accento provenzale. «Vi ringrazio buon uomo, siamo onorati del vostro invito, non vi reche-remo nessun disturbo» rispose Oberto, con voce gioiosa. La mattina successiva, alle prime luci dell’alba, il Cavaliere e il suo scudiero incontrarono René il candeliere sul molo del porto. Il commer-ciante, dopo aver caricato alcune casse su un tipico gozzo, invitò i due

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uomini a prender posto e allungò a ciascuno un remo. La giornata era plumbea, ma la vista sul mare era aperta ed era possibile scorgere, in lontananza, la sagoma delle due isole di Lerino. I tre viaggiatori iniziarono a vogare, la navigazione proseguì per tutta la mattinata. Papito, pur remando, spesso si lamentava della stanchezza e della fame che, peraltro, era regolarmente presente. Poco dopo il me-riggio, il gozzo doppiò la prima isola, detta di Santa Margherita. Renè diresse la prua verso l’altra isola, chiamata Sant’Onorato. I tre naviganti giunsero all’imbarcadero e attraccarono il legno. Oberto e Papito, dopo aver aiutato il candeliere a scaricare la merce, lo salutarono e si avvia-rono lungo il sentiero che conduceva all’abbazia. Percorsero un breve tragitto e si ritrovarono di fronte al portone principale. Papito tirò la corda che azionava la campanella. Dopo pochi secondi si udirono dei passi. Si aprì uno spioncino da dove un frate scrutò i due uomini. «Chi siete e cosa volete?» sentenziò, con voce imperiosa. «Fratello, il Signore sia con voi. Siamo ospiti e amici di sua Eccellenza l’abate Giuseppe» rispose Oberto, con voce serena e proseguì: «Il mio nome è Oberto da Ventimiglia e codesto è il mio scudiero.» «Attendete messeri.» Il frate chiuse lo spioncino e si allontanò per raggiungere l’abate. Fra Giuseppe, appresa la notizia, si precipitò ad accogliere gli ospiti. Quan-do spuntò dall’uscio, Oberto lo riconobbe e lo abbracciò, stringendolo a sé. La commozione salì: erano trascorsi quattordici anni dall’ultimo in-contro. «Avete pranzato?» chiese il frate, con enfasi. «Non molto, solo un po’ di pane con fichi secchi. Ti prego, il mio scu-diero è da molto tempo che non mangia un pasto decente. Io sto bene così, non ho fame.» «Fra Radioso, occupatevi di questo giovane, sfamatelo e fornitegli un giaciglio per il riposo.» Papito fu accompagnato nel refettorio, con sua somma gioia. Oberto e Giuseppe si recarono negli alloggi superiori, nella stanza personale dell’abate. I due amici si salutarono di nuovo. Si accomodarono su due scanni, uno di fronte all’altro. Fra Giuseppe mostrava gli occhi umidi. Con voce flebile raccontò a Oberto l’ansia e la preoccupazione di quei lunghi anni. «Ho sempre invocato l’aiuto di Dio!»

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Oberto prestò attenzione alle parole e poi disse: «Anch’io ho dubitato di fare ritorno.» Il timbro della voce del templare era trepidante: il ricordo della terra na-tia era stato un faro ove dirigere sempre i suoi pensieri nei momenti di sconforto. Gli occhi di Oberto si concentrarono su Giuseppe. Il Templa-re iniziò a raccontare le proprie vicissitudini. La memoria corse indietro al giorno in cui arrivò al porto di partenza della crociata, nella città pro-venzale d’Aigues Mortes. Le navi presero il largo all’alba, in una gelida mattina di fine inverno. La flotta era diretta a Cipro, nella base navale cristiana. Nel corso della traversata, dopo aver lasciato le coste siciliane ed essere entrati nel Mar Ionio, gli equipaggi s’imbatterono in una tem-pesta. Il vento, la pioggia e il mare, con le sue immani onde, causarono molte perdite tra i contingenti e arrecarono gravi danni all’armata. La marina riparò presso le coste maltesi. Dopo una breve permanenza, la flotta ripartì per la sua destinazione. Le navi furono riparate e i contin-genti armati si riorganizzarono. Lo studio di Fra Giuseppe iniziò a riempirsi d’ombre sempre più lun-ghe. La luce del tardo pomeriggio cominciava ad affievolirsi mentre le figure dei due uomini assumevano contorni sempre più sfumati. Allora il frate si alzò, accese un lume e lo avvicinò allo scrittoio. Il Conte pro-seguì il racconto: l’operazione che avrebbe dovuto portare la flotta cro-ciata presso le coste egiziane prevedeva un’azione lampo. Le galee par-tirono nei primi giorni di giugno navigando senza problemi e giunsero all’alba del giorno sei in vista delle fortificazioni di Damietta, il porto mamelucco sul delta del Nilo. Era l’anno Domini 1249. «Ricordo con chiarezza, ancora oggi, gli ordini che comiti e sopracomi-ti impartirono agli equipaggi» aggiunse Oberto, con voce concitata. «La base araba fu attaccata e reagì con ritardo. Le truppe mamelucche furono colte nel sonno. In poche ore espugnammo il porto.» Il Sultano prese contatti con Re Luigi: avrebbe ceduto Gerusalemme in cambio di Damietta. Il Sovrano si consultò con nobili e cavalieri al se-guito. Sicuro della vittoria, non volle accettare lo scambio e rifiutò con sdegno la proposta. «Sai Giuseppe, molti di noi, non condivisero la scelta: fu l’inizio della fine.» Da quel preciso momento cominciò il lungo assedio della città di El Mansura. Trascorsero molti mesi. Le inusuali capacità dell’ufficiale mamelucco Baybars furono premiate dall’arrivo di un nutrito contin-

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gente di armati inviati dall’Emiro della Siria. Le truppe cristiane si or-ganizzarono, i cavalieri francesi decisero di radunare i contingenti pri-ma di attraversare il Nilo. Il Re affidò al Maestro Templare Guglielmo di Sonnac e al fratello Roberto I d’Artois l’avanguardia dell’esercito. Il principe Roberto non attese gli ordini e decise di guadare il fiume, era l’otto febbraio dell’anno Domini 1250. I cavalieri del Tempio lo segui-rono, non volevamo lasciarlo solo, esposto ai pericoli della scellerata impresa.» Giuseppe ascoltava in silenzio tra i bagliori della flebile fiamma. «Le truppe crociate furono circondate e vennero attaccate a più riprese. Il Nilo divenne teatro del martirio. Il sangue dei cavalieri tinse le acque di porpora. Vidi molti compagni morirmi accanto. Mi ferirono, fui col-pito alla testa: la mia battaglia e la mia libertà terminarono in quel mo-mento.» Il viso di Fra Giuseppe assunse un colore terreo. Il racconto concitato dell’amico aveva colpito l’animo del frate. Ruppe il silenzio e disse: «È terribile. Abbiamo saputo che il fratello di Re Luigi fu fatto a pezzi dai memelucchi. Un mio confratello ebbe la possibilità di parlare con un templare sopravvissuto alla battaglia e mi raccontò che i cavalieri del Tempio si scontrarono valorosamente, ma subirono gravi perdite. Furo-no queste notizie che ci indussero a credere che tu fossi perito in batta-glia.» Il templare continuò il racconto. Oberto fu recuperato dalla milizia mamelucca. Restò per molti giorni privo di coscienza e poi, a rilento, riacquistò le facoltà. Si ritrovò ricoverato in un accampamento adibito alla cura dei feriti. Un medico arabo, di nome Ben Salah, si occupò di prestargli soccorso e gli praticò le prime cure. Il dotto uomo visitava ogni giorno l’infermo. I due iniziarono a colloquiare utilizzando un mi-sto di diverse lingue: l’ispanico, il volgare e con frequenza anche il lati-no. Ben Salah aveva soggiornato, per un lungo periodo, presso il sulta-nato di Cordoba e conosceva la lingua ispanica. Era anche un uomo as-sai colto, aveva studiato il latino e il greco antico e amava tradurre in lingua araba i testi classici. I due divennero amici. «Trovai un amico leale in Ben il medico. Mi aiutò.» Ben Salah decise di intercedere presso l’Emiro siriano. Molti soldati cristiani furono deportati nelle fortezze arabe. Oberto fu risparmiato e partì con Ben Salah per Damasco. Il medico era giunto a un compro-

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messo: il templare avrebbe scontato la propria prigionia nei palazzi dell’emirato, alle dirette dipendenze della corte araba, prestando aiuto nella traduzione dei testi classici. Così Oberto fu trasferito a Damasco: era l’inverno dell’anno 1251. La permanenza nella capitale araba gli diede la possibilità di consultare l’immensa biblioteca presente nel pa-lazzo dell’Emiro. Trascorsero dieci anni, l’ostilità tra musulmani e cri-stiani s’intensificò. I prigionieri cristiani divennero scomodi. Ben Salah capì che la sicurezza dell’amico era in pericolo. Prese una decisione e lo accompagnò fuori dai confini dell’Emirato. Oberto fu lasciato libero a poche miglia da un castello cristiano: la sua prigionia terminò così. Il viso del templare assunse un’espressione di dolore: aveva sempre desi-derato la libertà e la ottenne, ma a sacrificio della vita dell’amico. Ben Salah, al ritorno dalla spedizione, fu giustiziato per tradimento. La noti-zia raggiunse Oberto: la tristezza lo avvolse e solo dopo molti mesi riacquistò le forze per affrontare il viaggio di ritorno. «Era un grande amico, un fratello.» «Sei stato fortunato Oberto, non tutti i musulmani sono così caritatevo-li. Ringrazia Dio per tutto ciò.» «È il disegno del divino che si compie. La Provvidenza mi ha accom-pagnato nel mio viaggio. Ben Salah era migliore di tanti cristiani che professano, a voce alta, gli insegnamenti del Vangelo. Caro Giuseppe pensa, su mia richiesta riuscì a salvare il mio giovane scudiero. Il ra-gazzo si era battuto con valore e quando fui ferito non fuggì. Restò vi-cino al mio corpo a mia protezione. Anch’egli, fatto prigioniero, fu in-carcerato. Ben riuscì a salvarlo dalla vendita al mercato degli schiavi. Giovane com’era a quel tempo, avrebbe fatto gola a più di un ricco mercante. Ben lo trattò come un figlio e lo condusse con me a Dama-sco: divenne il mio assistente nella biblioteca.» L’ora del vespro era giunta, i due amici si avviarono nel refettorio per consumare la cena. La giornata era stata lunga e impegnativa. Oberto era felice di ritrovarsi in compagnia del fraterno amico e ora, con il ca-lar delle tenebre, sentiva tutto il peso dei lunghi giorni trascorsi in mare. La notte era in procinto. Un’eterea luna viaggiava nel cielo colmo di nubi, la sua luce rischiarava i contorni di Sant’Onorato.

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Oberto e Papito trascorsero la notte nelle celle a loro assegnate. Giu-seppe svegliò Oberto e lo accompagnò al Mattutino. I monaci si ritrova-rono in chiesa. La cerimonia si svolse normalmente, i frati si alternaro-no nella lettura dei tre salmi e del passo biblico. Terminata la funzione, Oberto si avvicinò a Giuseppe, accostò il capo all’orecchio e con voce fievole, gli sussurrò: «Dobbiamo proseguire il nostro dialogo in un luo-go più riservato.» Fra Giuseppe fece un cenno d’assenso e si allontanò dal Templare. L’identità del Conte era stata celata, troppe erano le orecchie tra quelle mura e non tutti gli ospiti giudicavano positiva la sua presenza. La giornata proseguì con le sue consuetudini, Giuseppe fu occupato da vari impegni per tutta la mattina. Oberto riordinò le poche cose che, con fa-tica, era riuscito a portare con sé nel viaggio di ritorno. Sopraggiunta l’ora nona, le attività dell’abbazia si ridussero. Fra Giu-seppe si diresse da Oberto e lo invitò a seguirlo. I due scesero una lunga scala che conduceva presso i fondachi dell’abbazia. Nella parte più in-terna della stanza, adibita alla raccolta delle vivande, del vino e degli attrezzi, era possibile scorgere una minuscola porta di legno chiusa con un chiavistello. Giuseppe tirò fuori dalla tonaca una chiave e, dopo a-verla inserita nella toppa, la ruotò per due volte consecutive. La porta si aprì e i due amici proseguirono la marcia all’interno di un cunicolo stretto e buio. Dopo alcune centinaia di piedi il corridoio terminò in una stanza rettangolare. Fra Giuseppe piantò la torcia nel sostegno e rischia-rò l’ambiente. «Qui siamo al sicuro da sguardi e orecchie indiscrete» sentenziò l’abate, rivolgendosi all’amico. «Dio mi perdoni, ma è da molto che at-tendo questo momento. Hai notizie, il nostro segreto…» aggiunse il fra-te, con emozione.

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«Caro amico, la mia prigionia è stata opera del Divino, un segno della Provvidenza. L’attività in biblioteca mi ha permesso di consultare anti-chi documenti. Con l’aiuto di Salah sono riuscito a impossessarmi di alcuni rotoli provenienti dalla Terra Santa. La loro traduzione ha occu-pato le mie giornate per numerosi anni. I documenti sono vergati in un dialetto di origine copta, non è stato facile dipanare la matassa. Il mio impegno e il concreto aiuto di Ben Salah mi hanno aperto le porte al cielo. Ho qui con me parte della traduzione in greco antico. Le infor-mazioni che si desumono sono stupefacenti, il mondo potrebbe cambia-re in un solo attimo.» Oberto aprì la giubba e inserì la mano. Con fare deciso portò fuori un astuccio di legno. Lo aprì e tirò fuori un rotolo di pergamena avvolto con cura. Distese i fogli e li consegnò all’amico. Giuseppe li raccolse nelle mani tremanti, l’emozione invadeva tutta la stanza. Iniziò a con-sultarli con delicatezza. I due uomini rimasero in silenzio, poi il frate alzò gli occhi, cercò lo sguardo di Oberto e con voce tremula disse: «Se ciò è vero, amico mio, è sconvolgente. Un segreto di tale portata po-trebbe sentenziare la nostra morte. Hai informazioni in merito ai docu-menti?» «Ho saputo che i rotoli sono traduzioni di antichi scritti originali. L’autore sembra che sia un certo Filippo, un giudeo.» «Oberto, la leggenda della Rosa e della Croce forse ha un fondamen-to!» «Quando ero scudiero presso la corte di Provenza ho sentito raccontare con orgoglio da molti che la stirpe del Re di Francia ha discendenza e origini giudaiche. Ho ascoltato le storie che narravano l’arrivo in terra francese di una giudea proveniente dalla Terra Santa, ma mai avrei pen-sato a tutto ciò!» Giuseppe aggiunse: «Abbiamo bisogno di condividere il nostro segreto con personaggi illustri. Nobili anime che possano sostenere un confron-to valido con chi si opporrà a questa verità.» «Hai perfettamente ragione, dobbiamo utilizzare la notizia.» «Oberto conosci bene lo spirito che alberga nell’ordine cluniacense. Abbiamo bisogno di una figura importante. Un uomo che possa sposare le rivelazioni nella loro completezza. Ho già in mente il personaggio in questione. Mi darò subito da fare per prendere contatti discreti e indiret-ti e, se sarà il caso, partirò di persona per incontrarlo.»

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«Giuseppe, in questi anni ho pensato a lungo alla leggenda della Rosa e della Croce. Ricordo ancora quell’incredibile giornata in cui, ancora ra-gazzi, ci ritrovammo in quel cunicolo che ci portò alla base della cripta della cattedrale.» «Come posso dimenticare.» «Forzammo l’ingresso. Ricordi il sepolcro, la pietra bianca della Tur-bia, la scritta latina… la scoperta del mio antenato Marco Apronio. Mio padre mi ha sempre parlato di lui, della sua sposa Ruth e della discen-denza Regale della donna. Non avrei mai pensato che una mia antenata potesse celare un segreto così stupefacente. Ti rendi conto Giuseppe, io discendo da Lui!» «Oberto, da quel giorno l’accesso alla cripta fu murato per sempre. Io penso che la Chiesa fosse già a conoscenza della veridicità della leg-genda. Da allora la contea divenne oggetto di conquista. Forse dietro alle mire espansionistiche della Superba c’è la mano di Roma.» I due amici fecero una pausa, poi il templare aggiunse: «La sfida è ci-clopica, dobbiamo cercare alleanze sicure in nome del terribile segreto che si cela sotto le mura della Contea. Ho ancora amicizie sincere in Provenza. Prenderò contatto con i conti francesi. I tuoi racconti sulle condizioni politiche e militari di Ventimiglia mi preoccupano molto. Dobbiamo appoggiare il Conte Lascaris, è solo contro lo strapotere di Genova.» Il templare recuperò le importanti pergamene e i due amici terminarono il colloquio. Oberto seguì Giuseppe e s’incamminò lungo lo stretto cu-nicolo che portava all’uscita. «Fermo!» sentenziò il templare. «Cosa c’è?» ribatté l’abate. «Sst, taci un attimo. Hai udito?» «No! Nulla.» «Mi è sembrato che qualcuno, con passo prudente, si allontanasse da noi.» «Chi può essere?» «Spero non un nemico.» Fine anteprima.Continua...


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